Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
L’ACCOGLIENZA
DICIOTTESIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
I Muri.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
Quei razzisti come i cechi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come i serbi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i libici.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come gli ugandesi.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i sudafricani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i singalesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i filippini.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come gli australiani.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
INDICE TERZA PARTE
La Guerra Calda.
LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.
I LADRI DI NAZIONI.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
I SIMBOLI.
LE PROFEZIE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. PRIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SECONDO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TERZO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUARTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SESTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SETTIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. OTTAVO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. NONO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DECIMO MESE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE MOTIVAZIONI.
NAZISTA…A CHI?
IL DONBASS DELI ALTRI.
L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
TUTTE LE COLPE DI…
LE TRATTATIVE.
ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.
LA RUSSIFICAZIONE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.
IL FREDDO ED IL PANTANO.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE VITTIME.
I PATRIOTI.
LE DONNE.
LE FEMMINISTE.
GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.
LE SPIE.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.
LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.
LA GUERRA ENERGETICA.
LA GUERRA DEL LUSSO.
LA GUERRA FINANZIARIA.
LA GUERRA CIBERNETICA.
LE ARMI.
INDICE NONA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA DETERRENZA NUCLEARE.
DICHIARAZIONI DI STATO.
LE REAZIONI.
MINACCE ALL’ITALIA.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
IL COSTO.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
PSICOSI E SPECULAZIONI.
I CORRIDOI UMANITARI.
I PROFUGHI.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I PACIFISTI.
I GUERRAFONDAI.
RESA O CARNEFICINA?
LO SPORT.
LA MODA.
L’ARTE.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
PATRIA BIELORUSSIA.
PATRIA GEORGIA.
PATRIA UCRAINA.
VOLODYMYR ZELENSKY.
INDICE TREDICESIMA PARTE
La Guerra Calda.
L’ODIO.
I FIGLI DI PUTIN.
INDICE QUATTORDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’INFORMAZIONE.
TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA.
INDICE QUINDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA PROPAGANDA.
LA CENSURA.
LE FAKE NEWS.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
LA RUSSOFOBIA.
LA PATRIA RUSSIA.
IL NAZIONALISMO.
GLI OLIGARCHI.
LE GUERRE RUSSE.
INDICE DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CHI E’ PUTIN.
INDICE DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…le Foibe.
Lo sterminio comunista degli Ucraini.
L’Olocausto.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Il Caso dei Marò.
Che succede in Africa?
Che succede in Libia?
Che succede in Tunisia?
Cosa succede in Siria?
L’ACCOGLIENZA
DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Foibe a scuola: come (non) insegnarle. ERIC GOBETTI su Il Domani il 13 dicembre 2022
Le linee guida per le scuole sulla vicenda del confine orientale sono state l’ultimo atto del ministro Bianchi prima dell’insediamento del governo Meloni. Promettevano un «percorso di riconciliazione», ma lasciano ampi spazi per le interpretazioni degli estremisti
Poche settimane dopo l’inizio dell’anno scolastico, esattamente il giorno prima dell’insediamento del nuovo governo, il ministero dell’Istruzione ha pubblicato un documento per le scuole di ogni ordine e grado denominato «Linee guida per la didattica della frontiera adriatica». Si tratta di un testo molto lungo, composto da circa 90 pagine, firmato dal ministro dimissionario Patrizio Bianchi e dal suo capo dipartimento Stefano Versari, realizzato da un’equipe di quattro storici e sottoscritto dalla maggior parte delle associazioni degli esuli.
Il fatto ha suscitato immediate polemiche, soprattutto perché sul medesimo tema, nel febbraio del 2022, gli stessi Bianchi e Versari avevano inviato una circolare che proponeva un’ambigua equiparazione tra foibe e Shoah. Si leggeva, in quel testo, che «il Giorno del Ricordo e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la “categoria” umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana.
Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla “categoria” degli ebrei». Era dunque comprensibile una certa preoccupazione in merito a questo nuovo documento, e il timore di un ennesimo tentativo di ingerenza della politica sul mondo della scuola. Sollecitato da più parti, sono andato dunque a studiare questo testo, cercando di valutarne la serietà scientifica, gli scopi politici e gli utilizzi concreti che potrebbe avere nella didattica.
QUESTIONI DI OPPORTUNITÀ
Prima di tutto ci si può chiedere se fosse davvero necessario investire tante risorse e produrre un testo così lungo e articolato su un argomento marginale da un punto di vista storico e anche, conseguentemente, curriculare. Non si tratta infatti di un caso unico, ma l’imponenza e la complessità del documento evidenziano un impegno fuori dal comune e una chiara volontà di controllo della politica su un tema tanto delicato. Ciononostante va detto che le pagine introduttive redatte dal ministro Bianchi e dal capodipartimento Versari fanno ben sperare. Entrambi sottolineano la necessità di una didattica ancorata ai fatti storici, inclusiva dei diversi punti di vista e delle memorie conflittuali, che operi nella prospettiva di un’integrazione europea: «L’obiettivo è che la storia della frontiera orientale generi incontro, collaborazione, speranza», scrive ispirato il ministro Patrizio Bianchi.
L’introduzione storica sembra in linea con tali principi: si sottolinea la complessità etno-nazionale del territorio, la lunga compresenza di identità linguistiche differenti, la sovrapposizione di tre mondi culturali: slavo, latino e germanico. Inoltre si afferma che «non conduce a nulla paragonare fra loro i genocidi, le stragi e le migrazioni forzate», il che sembra proprio un riferimento alla circolare-gaffe del 10 febbraio 2022. Poco dopo si sconsiglia la visione dei film «più recenti» realizzati sul tema, che non sarebbero «adatti alla visione dei giovani, facilmente e acriticamente colpiti dagli aspetti più emozionali delle pellicole». Anche in questo caso sembra di poter leggere un riferimento velato ai film prodotti dalla Rai negli ultimi vent’anni (“Il cuore nel pozzo” e “Rosso Istria”), molto discutibili da un punto di vista storico e interpretativo, ma elogiati dalla destra e dalle associazioni che firmano il documento, i cui gruppi dirigenti provengono in gran parte da quella stessa area politica.
Fino a qui riesce difficile comprendere come tali associazioni abbiano potuto sottoscrivere questo testo. Si tratta di enti che da tempo collaborano con il governo, che ricevono ingenti finanziamenti pubblici, quantificabili in circa due milioni di euro all’anno, e che si ritengono le uniche e legittime custodi della memoria di quegli eventi. Essi promuovono un approccio comprensibilmente “di parte”, rigettano una visione storica complessa e accusano di “negazionismo” chiunque si azzardi a contestualizzare la vicenda. Eppure la contestualizzazione storica e geografica è proprio al centro della ricostruzione proposta nelle Linee Guida del Ministero. Essa peraltro sembra ispirata a un testo precedente, il vademecum realizzato nel 2019 dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia.
Vale la pena notare che uno degli autori del nuovo documento, il professor Raoul Pupo, considerato il principale esperto in materia, figura anche fra autori del vademecum realizzato dall’Istituto di Trieste. Tale lavoro aveva suscitato aspre critiche da parte degli amministratori regionali di Lega e FdI, col supporto di alcune associazioni che pure oggi controfirmano le linee guida di Bianchi. Si era distinta in quell’occasione l’Unione degli istriani (che era arrivata ad accusare lo stesso Pupo di “negazionismo”), il cui presidente è noto per aver contestato la visita congiunta dei presidenti italiano e sloveno, Mattarella e Pahor, a Basovizza nel luglio 2020, esaltata invece nelle Linee Guida come necessario «rispetto per le altrui memorie di sofferenza» e «condivisione del lutto».
Cosa cambia dunque in queste pagine rispetto a quelle del vademecum del 2019? Non molto, in effetti. Questo lavoro si distingue più che altro per un abilissimo esercizio di equilibrismo fra una versione dei fatti storicamente accettabile e la visione puramente vittimista voluta dalle associazioni degli esuli. Pur con un linguaggio molto neutro, espressioni pacate, giudizi mai sopra le righe e senza clamorose dimenticanze, il percorso storico proposto adotta infatti una prospettiva totalmente italiana e non prova nemmeno a «superare le angustie delle storiografie nazionaliste», come auspicato dal ministro nell’introduzione. Per essere più chiari, ecco alcuni esempi estratti dal testo della circolare.
I CONTENUTI
Dopo la lunga introduzione sulle diverse identità presenti nell’area, il paragrafo dedicato all’età moderna porta il titolo “L’epoca veneziana”, dimenticando però che, in quella stessa epoca, gran parte del territorio (incluse le tre città più importanti: Trieste, Gorizia e Fiume) era sotto il dominio degli Asburgo, non di Venezia. Poco dopo viene ribadita la tesi (tanto cara al nazionalismo più miope) secondo cui, dopo il 1866, l’Impero asburgico avrebbe favorito gli slavi invece degli italiani. La riprova starebbe nella nomina di sindaci croati e nell’apertura di scuole in lingua croata in Dalmazia, dimenticando il fatto che a quell’epoca i croati rappresentavano nella regione la maggioranza della popolazione. Una decisione politica di semplice buon senso da parte dell’amministrazione austriaca, volta all’alfabetizzazione e al riconoscimento di una rappresentanza politica alla maggioranza della popolazione viene dunque stigmatizzata come anti-italiana.
Ma ce n’è anche per gli sloveni, la cui immigrazione a Trieste in quegli stessi anni avrebbe insidiato la pacifica convivenza in città. L’irredentismo italiano viene così rappresentato come una pura scelta difensiva, di fronte alla «azione del movimento nazionale sloveno che inceppava i tradizionali processi d’integrazione». Infine si dimenticano completamente le centinaia di migliaia di cittadini di quell’area che hanno subito la prima guerra mondiale o che hanno combattuto a favore dell’Austria, per soffermarsi sui singoli casi di irredentisti caduti per l’Italia. Che fine ha fatto dunque il «tentativo di costruzione di percorsi di riconciliazione nella prospettiva della comune cittadinanza europea» invocato dal ministro nell’introduzione, se in poche pagine sloveni, croati e austriaci vengono descritti, come sempre, quali nemici da combattere?
Avvicinandosi al periodo della violenza più estrema le cose si complicano ulteriormente. Si accenna agli esuli austriaci e slavi (decine di migliaia) costretti a lasciare i territori annessi dall’Italia più che altro per ricordare le attività anti-italiane da loro organizzate, mentre non si fa alcun riferimento ad un’analoga opera di destabilizzazione dello stato jugoslavo condotta dai dalmati italiani. Le violenze fasciste e i crimini di guerra italiani in Jugoslavia non vengono negati, ma queste ultime sono rappresentate come una pura reazione alla brutalità della guerra partigiana. Si tratta di una visione spesso proposta anche nei confronti della Resistenza italiana, che finisce per criminalizzare l’attività partigiana e giustificare le stragi nazifasciste, come viene brillantemente evidenziato in un recente volume di Chiara Colombini.
LE FOIBE
Dopo l’8 settembre 1943 e le prime foibe istriane, il testo si concentra giustamente sull’ulteriore inasprimento della violenza sotto l’occupazione nazista. In questa fase non vengono nemmeno nominate le formazioni partigiane italiane che operano in zona agli ordini dell’esercito di liberazione jugoslavo, offrendo dunque l’impressione di una contrapposizione puramente nazionale (jugoslavi contro italiani) e non invece ideologica (partigiani italiani e jugoslavi contro nazisti e collaborazionisti jugoslavi e italiani).
Particolarmente eloquente in questo senso è la pagina dedicata al destino di Zara in quei mesi. Sempre senza nominare le migliaia di ex soldati italiani che in Dalmazia si danno alla macchia per collaborare coi partigiani di Tito, il testo esalta l’opera dei collaborazionisti, e in particolare quella «del prefetto Vincenzo Serrentino, che riuscì a rintuzzare le ingerenze dei nazisti e dei croati». Sembra proprio una excusatio non petita, perché Serrentino, poi processato e fucilato come criminale di guerra, rappresenta il caso più vergognoso di onorificenza concessa dallo stato italiano a un presunto “martire delle foibe”. Il prefetto, peraltro condannato per crimini precedenti, sarebbe dunque da celebrare per aver “rintuzzato” i tedeschi, ovvero, si comprende, per aver mantenuto formalmente la città sotto amministrazione italiana pur se agli ordini dei nazisti. Come mi capita di dire sempre più spesso: se queste sono le benemerenze di Serrentino, anche Benito Mussolini avrebbe potuto essere celebrato come un martire, se solo fosse stato fucilato più a est...
Nel caso delle cifre, le contraddizioni e i giochi di equilibrismo paiono ancora più evidenti. Di fatto i numeri delle vittime delle violenze di quegli anni sono presentati in maniera così vaga e ambigua da consentire qualunque tipo di interpretazione. Significativo è il caso della quantificazione degli esuli. All’inizio del testo si fa giustamente notare come «le stime prodotte dai portatori della memoria delle vittime», cioè dalle associazioni, «differiscono da quelle degli studiosi indipendenti», senza però esplicitare quali siano quelle corrette. In seguito si parla giustamente di 300mila espatriati nell’arco di quasi vent’anni, mettendo così formalmente in dubbio la cifra-totem di 350mila sempre ribadita dalle enti memoriali.
Ma solo grazie a un grafico presente a molte pagine di distanza è possibile comprendere che gli italiani autoctoni (dunque non slavi e non immigrati in epoca fascista) sono solo una percentuale del totale e assommano a circa 188mila. Si tratta comunque di una cifra molto significativa, che andrebbe però messa a paragone con i circa 10 milioni di profughi tedeschi (tra cui quasi un milione di morti), anch’essi vittime delle sconfitta in guerra, che invece non vengono nominati. Il che sembra coerente con la scelta, già ricordata, di non proporre «paragoni incrociati tra fenomeni in contesti o di natura diversa». Verrebbe da chiedersi allora perché poco prima, nel descrivere le angherie subite dagli slavi in Alto Adriatico durante il fascismo si erano spese molte righe a compararle con quelle inflitte ai tedeschi in Cecoslovacchia o in Polonia negli stessi anni.
PUNTI DI VISTA?
Al di là della presunta volontà di «riconoscimento delle memorie altrui, anche diverse dalle proprie, relative al medesimo territorio ed al medesimo periodo storico», nella ricostruzione proposta si privilegia dunque esclusivamente il punto di vista italiano. Al centro del quadro c’è l’italianità adriatica, la continuità bimillenaria della cultura latina, mentre quasi inesistenti sono i riferimenti alla storia sloveno-croata o alle motivazioni delle rivendicazioni jugoslave, altrettanto valide, in linea di principio, di quelle italiane.
Un approccio simile predomina anche nelle parti della circolare dedicate alle proposte didattiche e metodologiche. I ripetuti inviti ad affrontare il tema come caso studio e in forma interdisciplinare, gli apparati bibliografici, cartografici e sitografici possono essere senz’altro utili, così come l’invito a confrontarsi con «una pluralità di memorie», che «può essere il primo passo per il superamento dei pregiudizi e delle ottusità identitarie».
Tuttavia è significativo che l’elenco delle località di cui si consiglia la visita in eventuali viaggi di istruzione (Caporetto, Redipuglia, Sinagoga di Trieste, Risiera di San Sabba, Centro profughi di Padriciano, Foiba di Basovizza) non includa alcun riferimento al retaggio delle componenti identitarie non italiane (tranne gli ebrei), alle sofferenze subite delle popolazioni slave o alle violenze perpetrate dal fascismo, che rappresentano l’elemento storico predominante in termini di tempo, spazio e numero di vittime.
In linea con questo approccio ecco la frase che forse più di tutte riassume il senso dell’iniziativa ministeriale: «Se nell’ambito di un’unità didattica sulle Foibe la maggior parte del tempo è dedicata ai precedenti di violenza del fascismo di confine e delle truppe italiane in Jugoslavia, questa non va considerata come corretta contestualizzazione, bensì quale mera elusione». E più tardi si citano i pericoli del “negazionismo”, ovvero di chi «applica un metodo ipercritico» per smentire l’esistenza del fenomeno.
Fermo restando che, nella mia lunga esperienza, non ho mai conosciuto nessuno che neghi il dramma delle foibe (e che la stessa espressione “negazionismo delle foibe” è stata coniata per criminalizzare una visione storica degli eventi), sono convinto che dedicare il tempo necessario alla contestualizzazione degli eventi sia l’unico modo per «comprendere i motivi per i quali determinati equilibri nei rapporti tra le popolazioni entrano in crisi e si interrompono, perché ci sono ingiustizie, discriminazioni, negazione dei diritti di identità e di cittadinanza, repressioni, persecuzioni, violenze, esodi, espulsioni».
Si tratta certamente di un testo scritto da mani diverse, con prospettive interpretative e politiche che finiscono per suonare in contraddizione fra loro. Da una parte si invoca la contestualizzazione e la «purificazione della memoria, intesa come sofferta consapevolezza che la propria memoria dolente non può far da schermo alle colpe della propria storia»; dall’altra si invitano i docenti a rivolgersi agli esuli e ai loro rappresentanti per approfondire e celebrare, come già peraltro avviene da anni: «Sarà cura delle associazioni proponenti, in accordo con il Ministero dell’Istruzione, individuare le tematiche e stabilire gli appuntamenti per la formazione dei docenti con attività laboratoriali e di seminario».
EQUILIBRISMO
Come giudicare questa operazione, quale sembra essere lo scopo e quale potrebbe essere l’effetto concreto, in un contesto politico nel frattempo mutato?
Da un punto di vista didattico non mi pare che queste linee guida possano sortire un qualche effetto significativo. Un testo così voluminoso, dettagliato e contraddittorio toglie il terreno sotto i piedi ai più ottusi propagandisti, ma lascia ampio spazio di manovra a chi intende contestualizzare e provare ad analizzare anche i punti di vista “altri”, come a chi predilige una visione unilaterale e nazionalista.
Un esempio di come un documento tanto ambiguo si possa prestare a una facile strumentalizzazione ci viene dal primo articolo di commento uscito su Il Giornale. Elogiando le linee guida, l’autore ripete più volte l’espressione “pulizia etnica”, un concetto molto problematico, rifiutato dagli storici e infatti mai nominato nel testo ministeriale. Ma proprio perché non viene nominato né smentito, esso può venire liberamente utilizzato, in ambito mediatico e anche naturalmente didattico, contribuendo a diffondere un’immagine errata del fenomeno.
L’effetto più significativo (e probabilmente anche l’obiettivo originario) di queste linee guida è sicuramente quello politico. Come si è detto si tratta di un’operazione di notevole sottigliezza, che ha lo scopo di mettere un limite alla strumentalizzazione. L’obiettivo non è smettere di usare politicamente questa vicenda, ma indicare il modo in cui essa deve essere utilizzata. E il messaggio è chiaro: evitare estremismi risibili e controproducenti (in merito alle cifre, ad esempio, o alla negazione del contesto storico), ma anche indicare chiaramente i colpevoli, ovvero la Resistenza e l’ideologia comunista. Questo messaggio di fondo risulta condivisibile da tutti i firmatari, siano essi moderati, conservatori o estremisti di destra.
Senza dubbio si tratta di un successo, forse temporaneo, della linea nazionalista moderata, il colpo di coda del governo “delle grandi intese”, prima del passaggio di consegne a chi ha molto più apertamente strumentalizzato questa vicenda storica. Il ministro dimissionario ha voluto così togliere al nuovo governo la possibilità di influire pesantemente sull’insegnamento di questa pagina di storia. Intendiamoci, nulla è perduto, ci saranno ancora pressioni sul mondo della scuola, e il 10 febbraio possiamo aspettarci una circolare ancora più insensata e antistorica di quella del 2022; ma per qualche anno la strada potrebbe essere segnata da queste linee guida. Si tratta di una fragile barriera, che consente un certo margine di autonomia ai docenti, ma anche di un’ulteriore occasione mancata.
Il testo infatti ribadisce una versione ufficiale totalmente italiana, con uno sguardo unilaterale e vittimista, pur nell’alveo di una ricostruzione storica che rammenta tutti i passaggi della vicenda, anche quelli meno gloriosi per l’Italia. Nella logica appunto delle “grandi intese” si è voluto accontentare l’associazionismo più estremista, confinando i riferimenti «al dialogo e al rispetto dello sguardo dell’altro» (prefazione del capo dipartimento Stefano Versari) alle roboanti dichiarazioni di principio. Possiamo solo sperare che qualcuno faccia buon uso di tali dichiarazioni, che esse non vengano del tutto disattese nell’applicazione pratica di queste linee guida.
ERIC GOBETTI Storico
Un nome ai Marò. Fausto Biloslavo su Panorama il 29 Novembre 2022.
I resti di 27 militari trucidati da Tito, hanno fatto ritorno in Italia. Ora il via alle procedure di riconoscimento con i test del dna
L’ufficiale tira fuori con delicatezza dal bagagliaio della macchina blu con la targa dell’Esercito, le piccole cassette grigie avvolte nel Tricolore. Poi il tenente colonnello Massimiliano Fioretti, che la ha custodite la notte prima al sacrario di Redipuglia, scatta sull’attenti nel saluto militare. Un momento toccante della consegna di 350 prelievi ossei dai resti di 27 militari italiani, in gran parte marò ventenni della X Mas, trucidati dai partigiani di Tito alla fine della seconda guerra mondiale. A sinistra Paolo Fattorini, direttore della Scuola di specializzazione in Medicina Legale a Trieste.
“Siamo pronti a iniziare le indagini genetiche comparando il Dna dei familiari dei caduti a quello dei reperti ossei contenuti in queste cassette” spiega Paolo Fattorini, che accoglie i resti. Esperto di cold case è direttore della scuola di specializzazione dell’Istituto di medicina legale di Trieste, sotto il cappello dell’Università. Le casette sono arrivate scortate dai militari da Bari, dove una squadra di anatomo patologi di un altro luminare universitario, Franco Introna, ha ricostruito gli scheletri scoprendo torture ed esecuzioni prima della sommaria sepoltura. Ventuno marò della X Mas e 6 militi del battaglione Tramontana di Cherso si arresero ai titini a guerra oramai finita. E furono torturati, poi trucidati, senza alcun rispetto per la Convenzione di Ginevra e infine scaraventati in una fossa comune a Ossero, oggi in Croazia, il 22 aprile 1945.
Solo nel 2019 il Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, in collaborazione con le autorità croate, aveva finalmente riesumato i resti dei soldati italiani. Le 27 cassette con su scritto “caduto ignoto” sono state trasferite con tutti gli onori al Sacrario militare di Bari dei 70mila periti oltremare nella prima e seconda guerra mondiale. Due anni fa gli esuli di Lussinpiccolo hanno lanciato l’iniziativa per dare un nome e un cognome ai resti. Grazie al sito di Panorama sono stati raccolti 26mila euro con centinaia di donazioni, che hanno permesso di coprire le spese delle università di Bari e Trieste. Gli atenei hanno firmato una convenzione con la Difesa del ministro Lorenzo Guerini per far tornare alla luce questo cold case di 77 anni fa. Non si tratta di riscrivere la storia, assolvere o dimenticare colpe della X Mas, ma di un gesto di umanità per le vittime di un crimine di guerra ed i loro familiari, che non hanno mai avuto una tomba dove deporre un fiore. Per i 21 marò sono stati rintracciati 14 congiunti, che hanno accettato il prelievo del Dna e attendono con emozione una risposta. “Ci vorranno almeno 9 mesi per arrivare a qualche conclusione” spiega Fattorini. Licia Giandrossi, Pres. Comunità Lussipiccolo La presidente della Comunità di Lussinpiccolo, che ha dato il via all’iniziativa, Licia Giadrossi, è pure lei emozionata: “Finalmente sono arrivati a Trieste. La speranza è dare un nome a questi ragazzi uccisi dai titini, che sembravano scomparsi per sempre, così giovani, nel turbinio di una guerra finita”.
L'ennesimo orrore di Tito: scoperta maxi-foiba con 3mila cadaveri. Andrea Muratore su Il Giornale il 2 novembre 2022.
La scoperta di una foiba nel Sud della Slovenia porta alla luce una nuova prova materiale, tra le più macabre, dei crimini del regime jugoslavo di Tito. A Kocevskij Rog, altipiano carsico vicino alla città di Kocevje, oltre 3mila cadaveri di vittime della repressione titina sono stati trovati nel corso di una massiccia campagna di scavi commissionata dal governo di Lubiana nella regione. La foiba di Macesnova Gorica è stato il teatro di questo efferato crimine risalente a settant'anni fa.
Kocevskij Rog è uno dei molti luoghi carsici dove si trovano le foibe, tristemente note per esser divenuto teatro di occultamento, e spesso di perpetramento, dei crimini di pulizia etnica commessi dagli uomini di Tito dopo la vittoria nella Seconda guerra mondiale. E lungi dal riguardare solo ed esclusivamente i cittadini italiani, accusati di simpatia col fascismo e colpiti dalla purga che li condusse all'esodo verso il nostro Paese, subito dopo la Seconda guerra mondiale la campagna di repressione coinvolse anche oppositori politici del nuovo regime comunista e figure ritenute passabili di collaborazionismo con le potenze dell'Asse.
Kocevskij Rog è noto da tempo per essere stato teatro proprio di una persecuzione contro questa seconda categoria: lo storico Boris Karapandzic nel saggio Kocevje - Tito's bloodiest crime già nel 1958 stimava in ben 14mila le vittime che si inserirono in un quadro di resa dei conti generale. Dopo l'armistizio che pose fine alla Seconda guerra mondiale, gli inglesi che occupavano l'Austria meridionale ai confini con la Slovenia rimpatriarono più di 10.000 membri degli apparati polizieschi e militari sloveni che avevano tentato di ritirarsi con i tedeschi; Josip Broz Tito fece massacrare la maggior parte di loro nelle famigerate fosse di Kocevskij Rog, la maggior parte dei quali nel 1945.
Le uccisioni continuarono molto dopo la fine della guerra, quando le forze vittoriose di Tito si vendicarono dei loro presunti nemici. Le forze britanniche in Austria respinsero, nel biennio post-armistizio, decine di migliaia di jugoslavi in fuga. Le stime vanno da 30.000 a 55.000 uccisi solo nel periodo compreso tra la primavera e l'autunno del 1945. Tra il 25 e il 50% di questi trucidati nel piccolo altopiano compreso tra i fiumi Cherca e Kolpa. La maggior parte di questi prigionieri di guerra che furono rimpatriati dalle autorità militari britanniche dall'Austria, dove erano fuggiti, morirono in queste esecuzioni sommarie di cui, nel dopoguerra, si è persa la memoria.
I corpi trovati nella foiba di Kocevski Rog appartengono proprio a questa campagna di annientamento. Le agenzie slovene parlano di resti umani e scheletri in larga parte segnati da colpi di arma da fuoco alla testa o al petto. Il presidente della Conferenza episcopale slovena, Andrej Saje, ha chiesto la degna sepoltura delle vittime delle esecuzioni di massa commesse dai partigiani comunisti di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale. Lunedì 31 ottobre, sul precipizio della grotta carsica Macesnova Gorica, Saje ha pronunciato parole importanti anche sul fatto della necessità di una riconciliazione nazionale e di una corretta memoria del passato titino: "Tra la popolazione sono stati seminati dubbi ingiustificati: il fatto che le vittime siano state uccise non lascia intendere che avessero necessariamente fatto qualcosa di brutto. Questa forma di propaganda e di voci maligne non è stata sradicata fino ad oggi", ha aggiunto, elogiando il lavoro del presidente sloveno Borut Pahor per la riconciliazione, passata anche per la commemorazione delle vittime italiane di Tito.
Saje ha ricordato che "non ci sarà pace nella nostra nazione e nessun superamento delle divisioni distruttive a meno che non andiamo oltre le interpretazioni ideologiche del passato, raggiungiamo un consenso sui fatti storici e seppelliamo tutte le vittime appartenenti al nostro popolo con rispetto", a prescindere dai colori politici. Parole chiare e rivolte in particolar modo ai nostalgici di Tito: le Kocevski Rog della Jugoslavia postbellica sono state numerose e molte restano ancora da scoprire dopo che già 600 foibe e grotte contenenti cataste di cadaveri sono venute alla luce. Rudolph Joseph Rummell, politologo statunitense (1932-2014) che ha insegnato all’Università delle Hawaii ha fatto un ampio studio del “democidio” jugoslavo imputabile a Tito sottolineando che le vittime della repressione slovena sarebbero state almeno 12mila nell'immediato dopoguerra e che il numero totale delle vittime del regime comunista jugoslavo tra la fase del suo consolidamento e i decenni successivi è da cinquanta a cento volte superiori ai morti italiani accertati nelle foibe, attestandosi attorno ai 585mila. Un numero che giustifica le parole di Saje e, guardando all'Italia, è la risposta più importante a ogni forma di nostalgia che vede il dittatore jugoslavo presentato, in certe frange della sinistra italiana, come un eroe popolare o un "santino" rivoluzionario.
Sfregio sloveno ai martiri delle foibe, sulla collina appare la scritta "Tito". Elena Barlozzari su Il Giornale il 21 luglio 2022.
Campeggia a caratteri cubitali, proprio sopra il castello di Rihemberk, in Slovenia, una scritta che rievoca spettri del passato. Soprattutto per le genti del nostro Carso. È una parola di quattro lettere, ogni lettera è composta da grossi massi e non deve essere stato facile portarli lassù. Macigni bianchi che compongono un nome: Tito che sta per Josip Broz Tito. Il maresciallo, capo del partito comunista jugoslavo e della federazione jugoslava. Persecutore d’italiani e responsabile dell’esodo e delle foibe.
A notarla è stato proprio un gruppo di triestini, arrivato ai piedi della collina Gollic per visitare l’antico maniero dove soggiornò anche Carlo Goldoni. Gli ex proprietari, i conti Lantieri di Gorizia, furono costretti ad abbandonarlo alla fine della Seconda guerra mondiale, e per un pelo riuscirono a portare a casa la pelle. Non accadde altrettanto alla colonna italo–tedesca che all’ombra di quella fortezza venne attaccata e neutralizzata dopo ore di combattimenti feroci. Rimasero un pugno di superstiti che vennero derubati ed arsi vivi dai partigiani slavi. Solo un milite italiano riuscì miracolosamente a scampare alla mattanza. Questa però è una vecchia storia, datata 1944, e in pochi la conoscono.
Tra quei pochi c’è Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli istriani, che ha raccolto la segnalazione del gruppo di vacanzieri. "In quel luogo dovrebbero erigere un monumento alla pace. È una vergogna che a pochi chilometri dalle città martiri di Trieste e Gorizia esista un obbrobrio simile", ci dice. "Ricordo sommessamente che appena due anni fa il presidente sloveno Borut Pahor teneva per mano Mattarella davanti alla foiba di Basovizza. Se quel gesto rispecchiasse davvero il sentiment e le intenzioni delle autorità di Lubiana, uno scempio del genere non verrebbe tollerato". Cosa rimane della comunione d’intenti suggellata dai due presidenti? Lacota è tranchant: "Una bella foto ricordo".
Stando a quello che abbiamo potuto ricostruire, l’installazione è apparsa per la prima volta nel 1953, per celebrare l’arrivo del maresciallo a Nova Gorica. Si è conservata intatta fino ai giorni nostri grazie all’operosità di gruppi di nostalgici del titoismo – semplici "privati" a sentire il sindaco Klemen Miklavic – che hanno persino provveduto ad ancorare i massi al suolo. Tutto ciò con il benestare dell’amministrazione locale che non ha mai mosso un dito per ostacolare questo macabro rituale. "Lungo il confine sloveno esistono già due scritte analoghe a questa, una sul monte Sabotino e una sul monte Cocusso. Sono decenni che ne chiediamo la rimozione. Ovviamente nessuno ha mai provveduto. È indicativo – conclude Lacota – del vero clima che c’è di là".
Quando i comunisti italiani insultavano gli esuli giuliano dalmati e volevano cedere mezzo Friuli a Tito: i documenti. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 22 febbraio 2022.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
In un periodo di “cancel culture”, è normale che in un paese civile vi siano strade, monumenti e associazioni dedicati a gente che voleva cedere migliaia di km quadrati di territorio nazionale a un feroce nemico straniero autore del massacro di 15.000 compatrioti?
Qualche giorno fa, abbiamo pubblicato QUI il reportage di una rivista belga che dimostra come tutto il mondo sapesse delle foibe fin dal 1946. Così, mentre il prof. Tomaso Montanari - proprio nel Giorno del Ricordo - organizzava un seminario intitolato: «Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del ricordo» emergeva - secondo uno di quei sublimi contrappassi che regala la ricerca storica - l’”uso politico dell’amnesia” operato dal Partito Comunista Italiano.
Il reportage in questione, di Jean Morena, proveniva dal Museo di Fiume, diretto da Marino Michic, il quale ci sottopone oggi altri straordinari scampoli di una tragedia “dimenticata”. In vista del prossimo 25 aprile, forse ci sarebbe il tempo per invitare il prof. Montanari a discutere di questi due documenti inediti che provengono dall’Archivio dell’Istituto Fondazione Gramsci, attualmente custoditi dal Museo di Fiume.
Uno documenta in modo incontrovertibile l’atroce ostilità e l’odio dei nostri comunisti verso i circa 270.000 esuli italiani di Istria e Dalmazia; l’altro attesta quello che, per usare un eufemismo, si configura come alto tradimento della Nazione, sempre da parte dei comunisti, che volevano cedere alle armate del Maresciallo Tito mezzo Friuli, fino al Tagliamento.
Cominciamo con il testo del manifesto affisso nel gennaio 1947 a Monfalcone da attivisti comunisti, ripreso dal giornale La Voce Libera di Trieste;
Ecco il testo: "Monfalconesi, antifascisti tutti! Chi sono gli esuli istriani? Essi sono coloro i quali temono il Potere e la Giustizia del popolo! Individui compromessi con il fascismo, borsaneristi ed affamatori del popolo! L'Istria non è più il terreno per i loro sporchi interessi, essi levano le tende e pensano di installarsi in gran parte a Trieste ed a Monfalcone per poter liberamente continuare le loro gesta criminose a danno del popolo lavoratore. Monfalconesi! Monfalcone antifascista non deve dare ospitalità a simile gentaglia, perché prendendo domicilio in queste terre essi non potrebbero che continuare la loro attività antipopolare incrementando la borsa nera, affamando il nostro popolo, cercando con mille sotterfugi di arrestare la democrazia in cammino. [...] La parola d’ordine deve essere: “Via da questa terra gli esuli istriani!” Essi hanno le mani macchiate del sangue del popolo! Lottiamo affinché la nostra terra non venga calpestata da questi criminali! Borsaneristi, affamatori del popolo!".
Era un mese prima del famoso episodio del “Treno della vergogna”: mentre gli esuli giuliano-dalmati tornavano in Italia stipati su treni merci, dormendo sulla paglia, a Bologna i sindacalisti del PCI minacciavano di paralizzare la rete ferroviaria nazionale se il treno si fosse fermato per ricevere i generi di conforto preparati dalla Pontificia Opera Assistenza e dalla Croce Rossa Italiana. Per sottolineare la loro determinazione, versarono sulle banchine il latte destinato ai bambini italiani. E questo due anni dopo la fine della guerra.
Il secondo è un manifestino affisso il 6 aprile 1946 a Udine dalla Federazione Comunista che voleva cedere il Friuli a Tito fino al Tagliamento, vale a dire circa la metà della regione nordorientale: "Friulani! L’Armata rossa di Stalin si appresta attraverso la Slovenia, a liberare anche questo Friuli, che è legato alla Slovenia indissolubilmente da secoli. Friulani! Dovete comprendere che il diritto dei nostri fratelli sloveni a raggiungere il sacro confine del Tagliamento è pienamente giustificato da ragioni storiche, geografiche ed etniche. [...] Solo il comunismo di Stalin che tra poco sarà tra voi con le vittorioe armate rosse potrà darvi giustizia e libertà, stroncando lo sfruttamento dei capitalisti che vi opprimono".
Questi dunque i concetti di “accoglienza” e “diritti” nella tradizione dei comunisti italiani.
Quando si parla di Foibe, dunque, non si deve commettere l’errore di trattare solo delle milizie yugoslave, ma occorre indagare e divulgare tutte le responsabilità dirette dei partigiani rossi italiani che, o lasciarono fare, o collaborarono attivamente con i titini, tanto da fare persino propaganda perché invadessero circa 4.000 km² di territorio italiano.
E fin dai tempi dell’antichità, a chi ha spalancato le porte al nemico, viene chiamato con una sola parola: “traditore”.
Foibe, in Puglia anche Emiliano vota per chiudere gli spazi ai negazionisti. E l’Anpi s’infuria. Natalia Delfino sabato 19 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Non è chiaro se ci abbiano messo tutto questo tempo per riprendersi dallo choc, se ne siano accorti in ritardo e se, cercando un argomento per polemizzare, non avessero nulla più di recente. Fatto sta che il quotidiano il Domani ieri ha dato ampio spazio alla reazione furiosa dell’Anpi a una mozione sulle foibe votata dalla Regione Puglia dieci giorni fa.
Emiliano vota la mozione sul Giorno del Ricordo
I fatti e le tempistiche sono questi: l’8 febbraio, a ridosso del Giorno del Ricordo, il consiglio regionale della Puglia, pressoché all’unanimità (solo due astenuti), vota una mozione sulle Foibe, promossa dal centrodestra, che da un lato impegna l’ente a promuovere degne celebrazioni della ricorrenza e dall’altro impegna la Regione a non dare alcun tipo di supporto a chi nega o minimizza la tragedia delle foibe e dell’esodo. Il governatore Michele Emiliano vota a favore, spiegando in Aula che «non può sfuggire a nessuno l’importanza che la Repubblica ha dato a questa tragedia. Io ho avuto modo di comprenderla attraverso un’insegnante. La mia – ha detto il governatore – è una fortuna rara». La stampa locale ne dà conto in diretta, o al massimo il giorno dopo.
Le accuse dei “partigiani” alla sinistra pugliese
È arrivata, invece, ieri sulle pagine del Domani la risposta dell’Anpi, che, in sintesi, non ha accettato che la mozione non adottasse il punto di vista caro ai giustificazionisti, secondo i quali i massacri di italiani compiuti dai partigiani titini furono una reazione al fascismo, e che esprimesse una netta condanna, con conseguente ritiro di qualsiasi sostegno, rispetto alle posizioni minimizzatrici e negazioniste. L’Anpi, inoltre, si è detta «turbata» per il fatto che la mozione abbia ricevuto il sostengo anche dei «consiglieri di partiti dichiaratamente antifascisti in una regione amministrata dal centrosinistra», invocando una «doverosa presa di distanza».
Per l’Anpi dovremmo pensare alla Slovenia e alla Croazia
«Altro che memoria condivisa!», ha affermato Il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, secondo il quale la mozione sarebbe «l’ennesimo tentativo di costruire una rendita memoriale a vantaggio di una parte politica a colpi di forzature, omissioni e veri e propri falsi». «Sfido a trovare la parola “fascismo” nella mozione», ha aggiunto, lamentando tra l’altro che «invece di comporre le antiche ferite con Slovenia e Croazia, manifesta un provocatorio rigurgito nazionalista».
La vecchia tesi giustificazionista
Poi il passaggio sul fatto che «in compenso si condannano le associazioni “che negano, giustificano o deridono il dramma delle foibe e dell’esodo”. Quali sono?», si è chiesto Pagliarulo. «Si tratta – ha sostenuto – una grottesca caricatura delle posizioni di tutti coloro che non hanno mai negato né minimizzato e tantomeno giustificato tali tragedie, ma si sono permessi di collocarle nel contesto storico e di interpretarne le origini, fra cui l’invasione italiana della Jugoslavia del 1941 decisa da Mussolini, i massacri che ne seguirono, l’impunità dei responsabili, prima ancora il fascismo di confine quando gli squadristi insanguinarono la frontiera, il razzismo contro gli slavi predicato dal capo del fascismo fin dal 1920».
La cattiva coscienza dell’Anpi sulle foibe
E viene in mente Gigi Marzullo: Pagliarulo, in pratica, si è fatto una domanda e si è dato una risposta. Tanto da far apparire perfino pedissequo ricordare la gran premura che si è data l’Anpi per promuovere, per esempio, il libro di Eric Gobetti E allora le foibe?, che già nel titolo offre la sintesi suprema di quella derisione e di quel giustificazionismo a cui la mozione pugliese non ha voluto lasciare più spazi. Impegnando la Regione a «non concedere patrocini, finanziamenti, spazi e agibilità e ad escludere dai bandi della Regione dall’assegnazione o riassegnazione di unità immobiliari pubbliche tutte le sigle e associazioni locali o nazionali che negano, giustificano, riducono o deridono il dramma delle foibe e dell’esodo». Un passaggio che deve essere apparso particolarmente preoccupante per l’Anpi.
Dagospia l'11 febbraio 2022. IL POST DI MENTANA SU FACEBOOK
“Ma quanto sono trogloditi quelli che anche oggi, Giorno del Ricordo, non perdono l’occasione di rivelarsi nella loro piccineria insultando la storia e il dolore di chi visse la comune tragedia degli italiani giuliani e dalmati?”
La risposta di Raimo: Molti meno di quelli che cercano di strumentalizzare la Giornata del Ricordo per riabilitare i massacri fascisti
LA CONTROREPLICA DI MENTANA: Ma che risposta è? Ti metti anche tu a fare le classifiche?
Da Il Giornale l'11 febbraio 2022.
“Ma quanto sono trogloditi quelli che anche oggi, Giorno del Ricordo, non perdono l’occasione di rivelarsi nella loro piccineria insultando la storia e il dolore di chi visse la comune tragedia degli italiani giuliani e dalmati?”, ha scritto il giornalista sulla sua pagina Facebook. Il suo post ha raccolto quasi 16.500 like e oltre 250 condivisioni.
Gli episodi contro il Giorno del Ricordo non sono stati pochi. Il post dell’account Twitter del Tg2, dedicato allo Speciale sugli eccidi da parte dei partigiani jugoslavi e dell’Ozna ai danni di militari e civili italiani, è stato oltraggiato con insulti, minacce e anche un video in cui si vede qualcuno urinare in direzione di una cavità che potrebbe essere una foiba, ovvero un inghiottitoio carsico dove venivano gettati molti dei corpi delle vittime.
La Giornata del Ricordo. Cosa bisogna ricordare il 10 febbraio di ogni anno. Alberto De Bernardi su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.
Di che parliamo?
Facciamo una dichiarazione d’intenti iniziale, sgombrando il capo della contesa tra le memorie intrise di nazionalismo della destra neofascista e quelle dell’antifascismo comunista che presidia l’Anpi: le foibe non furono né un genocidio, né pulizia etnica, ma non furono neanche il mero esito delle violenze perpetrate dai fascisti sul confine orientale fin dagli anni venti e proseguite soprattutto dopo il ‘41 durante l’occupazione italiana in Slovenia e nei territori sotto il suo controllo dopo la spartizione della Jugoslavia tra le potenze dell’Asse.
Queste due versioni che si contendono lo spazio pubblico sono entrambe false: la prima perché nelle foibe non si riscontra nessuno dei caratteri che la giurisprudenza internazionale sui diritti umani ha utilizzato per decidere cosa sia un genocidio o un atto di pulizia etnica; la seconda omette consapevolmente una parte dei processo storico che stette alla base delle foibe perché rimuove il nesso tra queste e l’affermazione del potere comunista in Iugoslavia.
Il “ricordo” che bisogna alimentare il 10 febbraio non è dunque quello che questi due approcci manichei e riduzionisti ci propongono dal 2005, ma quello che proviene dall’apporto che la ricerca storica sul “confine orientale” ha in questi ultimi vent’anni enormemente incrementato e che riguarda le tragedie connesse da un lato alla lunga guerra civile europea cominciata nel 1914 e dall’altro allo scontro tra totalitarismo e democrazia che attraversa tutto il XX secolo. E’ una battaglia culturale difficilissima, che diventa impossibile, se anche il Miur attraverso una circolare redatta da un suo alto dirigente, entra a gamba tesa contro la realtà storica sostenendo la tesi della destra neofascista, come “verità di stato”.
Le foibe del ‘43
Lo schema interpretativo delle foibe come reazione antifascista alla barbarie fascista regge per la prima ondata di infoibamenti: quella del ’43, dopo l’ 8 settembre e la battaglia di Gorizia, che si configura come un capitolo della guerra civile europea tra fascismo e antifascismo: separare le violenze antifasciste dalla sanguinosa catena di violenze fasciste come vorrebbe la ricostruzione storica della destra per trasformare uno degli episodi più drammatici della lotta di liberazione in una sorta di “olocausto italiano” rappresenta una oggettiva falsificazione della memoria a fini politici.
Non si può infatti negare la violenza genocidaria dell’occupazione italiana della Slovenia guidata da un vero e proprio carnefice come il generale Roatta, a lungo occultata all’opinione pubblica italiana da una storiografia compiacente, ma soprattutto nelle foibe del ’43 non si rintracciano componenti etniche significative, ascrivibili ad una persecuzione nei confronti degli italiani perpetrata dai partigiani jugoslavi. Emergono invece tutte le dinamiche dello scontro tra fascismo e antifascismo che in quel martoriato confine non riguardano solo la guerra civile italiana, ma anche la lotta di librazione delle popolazioni slave dall’oppressione italiana.
Antifascismo e comunismo
Ma la questione nazionale su quel confine gioca un ruolo del tutto particolare. Infatti fin dal 1941 il Partito comunista sloveno rivendicò l’annessione di tutte i territori ad est dell’Isonzo, mettendo in discussione la legittimità del confine con l’Italia. Inoltre il Fronte di Liberazione Sloveno pretese di avere il comando di tutte le operazioni militari sottoponendo al controllo dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia le altre formazioni partigiane secondo i dettami della III Internazionale in accordo con quella del Partito comunista. Il “nemico”, dunque, non era soltanto l’occupante nazifascista ma anche tutti coloro i quali si opponevano alle rivendicazioni territoriali jugoslave dettate dal progetto di fondare la nuova Jugoslavia comunista. Solo le brigate comuniste accettarono questa imposizione in nome della identità ideologica, determinando però l’esito nefasto di spezzare l’unità antifascista del CLN, con una serie di nefaste conseguenze.
Le seconde foibe
Il controverso rapporto tra nazione italiana e rivoluzione comunista esplose nell’aprile-maggio ‘45 durante l’occupazione jugoslava di Trieste, quando la città e tutta l’area giuliana vengono sottoposte a un governo dittatoriale che opera con l’intento di costituire le condizioni di un’annessione di quei territori alla nuova Jugoslavia comunista, servendosi di un uso indiscriminato della violenza. Come ha sottolineato la commissione italoslovena incaricata di fare luce su quella tragedia la violenza che si scatena sulle vittime non è più legata all’azione di bande di combattenti che operano in un contesto di guerra civile all’interno di una guerra tra stati ancora in pieno svolgimento: è violenza di una potere statale in costruzione che combatte i suoi “nemici”, che non sono più solo i fascisti ma sono quegli italiani, anche antifascisti, che si oppongono non solo a cedere la sovranità nazionale, ma rifiutano l’esito comunista della guerra contro il fascismo: rifuggono cioè dall’idea di passare da un totalitarismo all’altro.
La questione comunista
Dietro le foibe del ’45 emerge dunque un’altra dicotomia: non più quella tra fascismo e antifascismo, ma quella tra antifascismo e comunismo, che aveva attraversato il campo antifascista per tutti gli anni trenta. La responsabilità di quelle morti e di quegli eccidi non rimanda al fascismo oppressore, ma alla volontà di potenza del comunismo jugoslavo, che usa l’antifascismo come paravento ideologico di stato per consolidare la sua egemonia nell’area. Ma su questo mutamento di orizzonte vacilla la narrazione della sinistra militante, perché vittima di una resistenza ideologica a prendere atto che antifascismo e comunismo sono due campi di forza ideologici e politici che solo in determinate circostanze coincisero. Il faticoso cammino dell’antifascismo impegnato nella rifondazione democratica dell’Italia e la strategia comunista basata sulla rivoluzione proletaria seguirono percorsi diversi, in qualche caso antagonisti.
E sul fronte orientale queste divergenze assunsero la forma più drammatica, non solo per i fatti di sangue che determinarono, ma anche perché il Pci si trovò nella difficile condizione di combattere per obbiettivi e fini diversi da quelli che perseguiva nel resto del paese: qui la rinascita della nazione, là l’egemonia comunista a dispetto proprio dell’integrità della nazione. Nella giornata del ricordo quindi non si può omettere questa parte della storia, né ritenere retorica di destra l’evocazione del dramma degli italiani, colpiti in quanto nemici potenziali o reali del nuovo regime. In Istria, Dalmazia e Venezia Giulia si verificò una effettiva rappresaglia politica, non etnica, del nuovo governo comunista che aveva per oggetto la comunità italiana in quanto tale.
Esodo
Il dramma del confine orientale però non si ferma con il maggio ’45, né con il Trattato di Parigi del ’47 che riconobbe alla Jugoslavia la provincia del Carnaro, la provincia di Zara (gran parte della provincia dell’Istria, del Carso triestino e goriziano, e l’alta valle dell’Isonzo, ma si dispiega fino alla fine degli anni Cinquanta quando cessò l’esodo degli italiani da quelle zone, che avevano abitato per moltissimo tempo, e che ora erano parte integrante della democrazia popolare costruita dal Maresciallo Tito. La perdita della cittadinanza italiana, l’adesione coatta al regime comunista, la manifesta volontà epuratrice del regime titino, mescolate a una crescente clima sociale antitaliano legato alla volontà di “slavizzare” molto rapidamente quei nuovi territori entrati a fare parte dello stato comunista – con procedure molto simili a quelle utilizzate negli stessi luoghi dal fascismo italiano negli anni Venti – spinse molti italiani ad abbandonate le loro case, le loro proprietà, che vennero immediatamente confiscate, e riparare in Italia: se ne andarono circa 250/300 mila persone e oggi gli italiani rimasi soprattutto in Istria sono poco più di 20.000.
Il dramma nel dramma è che ne andarono con il marchio di fascisti, e con lo stesso marchio vennero accolti da più parti anche in Italia, soprattutto dal Pci, che li condannò per non aver aderito al sogno del socialismo reale e di essere portatori di una ideologia nazionalista e reazionaria. Su questi italiani “a metà” soggetti a numerose tribolazioni, venne poi steso un velo di oblio, che solo di recente è stato parzialmente squarciato. Le foibe e l’esodo chiamano dunque in causa un giudizio sul comunismo e sui meccanismi di potere che lo hanno caratterizzato, che non può essere celato dietro il paravento dell’antifascismo e dei crimini del regime in quel martoriato confine; nè tanto meno la lotta contro la destra, allora come oggi, non può essere condotta in nome di quei frusti ideale tragicamente smentiti dalla storia. Ricordare quei morti è possibile se si tiene insieme in una sintesi culturalmente avanzata antifascismo e anticomunismo.
Alberto De Bernardi. Professore dell’Università di Bologna, dove ha insegnato Storia contemporanea e Storia Globale. È stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell'Istituto nazionale per la storia del Movimento di liberazione in Italia. Ha fondato e diretto le riviste “Società e Storia”, “I Viaggi di Erodoto”, “I democratici”, “Storicamente”. E’ presidente di REFAT, la Rete internazionale per lo studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia. Tra le ultime pubblicazioni: Un paese in bilico. L’Italia negli ultimi trent’anni (Laterza, 2014), Fascismo e antifascismo. Storia, memoria, culture politiche (Donzelli, 2018), Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta (Donzelli, 2019).
Un coro di voci autorevoli per capire esodo e foibe. Matteo Sacchi il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Pronto il podcast in 36 interventi dove studiosi e giornalisti ricostruiscono la tragedia storica.
Quest'anno per il giorno del ricordo, pensato per rendere condivisa la memoria dei massacri delle foibe e l'esodo giuliano dalmata, arriva uno strumento davvero importante per far in modo che la storia di quei terribili avvenimenti diventi accessibile e comprensibile a tutti. Si tratta di un progetto chiamato La lunga storia del Confine Orientale. Le relazioni politico-culturali tra l'Italia e gli Stati rivieraschi dell'Adriatico nell'Ottocento e nel Novecento. Consiste in un podcast con una serie di interventi, realizzati da alcuni dei più importanti studiosi ed intellettuali che si sono occupati del tema, e rende disponibile in pillole audio la Storia lunghissima che, purtroppo, a portato ad una delle più violente pulizie etniche mai subite dagli italiani. Consente, anche, di inserire l'atroce vicenda in quel percorso, complesso e carsico, che poi è nuovamente esploso nella guerra civile jugoslava degli anni Novanta. Ma non solo, evitando di ridurre la storia degli italiani di Dalmazia e d'Istria al momento dell'esodo, regala all'ascoltatore un quadro completo di quel mondo complesso che è stato l'Adriatico, un mare che ha unito e diviso i popoli e le culture.
A curare l'iniziativa è stata la Federazione delle Associazioni degli Esuli Fiumani, Giuliani e Dalmati, che ha operato in collaborazione con la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Per creare una memoria condivisa, onesta e chiara, sono stati realizzati trentasei audio che, da oggi, saranno disponibili gratuitamente sulle principali piattaforme di ascolto a partire da Spotify, che consentono di approfondire un singolo argomento -spaziando da La cultura veneta in Adriatico a Il silenzio sulle foibe e sull'esodo passando per La questione del confine italo-jugoslavo alla Conferenza della Pace di Parigi- oppure seguire tutto il percorso. Il che equivale, quasi, a fare un piccolo corso universitario dove tra gli altri professori e storici si possono ascoltare: Massimo de Leonardis, Giuseppe de Vergottini, Gianni Oliva, Giuseppe Parlato, Raoul Pupo, Davide Rossi, Andrea Ungari, Luciano Violante. Ci sono anche contributi giornalistici come il brano di Giampaolo Pansa (1935-2020) o quello di Nicola Porro che si è assunto il compito di spiegare proprio il perché sia così importante fare «ricordo» attraverso un podcast: «Il 2021 è stato segnato dal tornare di vecchie posizioni sulle foibe e soprattutto sull'esodo che sono tutte volte a ridurre e a giustificare... e talvolta addirittura a negare la tragedia. Si basano su una visione ideologica e prescindono completamente dalle ricerche serie fatte da storici di varia sensibilità». Come spiega ancora Porro, consentono a provocatori di varia natura di «campare di rendita pubblicitaria». Il podcast è proprio uno strumento per affrontare questa deriva «unendo la competenza di studiosi affermati con la semplicità di linguaggio».
Il risultato sono 36 interventi (di alcuni argomenti esiste una doppia versione, lunga o corta) che hanno il grandissimo pregio di creare un quadro che non si ferma al «secolo breve». Ad esempio Egidio Ivetic, professore di Storia Moderna all'università degli Studi di Padova, ricostruisce in dettaglio come a lungo l'Adriatico sia stato considerato semplicemente «il golfo» il prolungamento naturale di Venezia verso il mondo. Largo spazio è dato anche all'Ottocento dove lo sfaldamento del prestigio dell'Impero asburgico, e di questo si parla davvero poco in altri contesti, ha contribuito alla polarizzazione etnica di Istria e Dalmazia e a creare presupporti pericolosi per il secolo a seguire. Le città costiere come spiega Ester Capuzzo, della Sapienza di Roma, restano prevalentemente italiane e con un'aspirazione moderna e borghese che guarda verso Trieste; l'entroterra invece prende sempre più caratteristiche nazionaliste croate e slovene. Si iniziano a creare fratture che nessuno saprà sanare, discussioni sulla lingua si trasformano in tensioni che da Vienna non erano in grado di gestire. Già nel 1907 alle elezioni la contrapposizione nazionale prevaleva su altre divisioni politiche. Non si nascondono nemmeno le colpe dell'Italia fascista come spiega Massimo Bucarelli in l'Italia Fascista e la Jugoslavia. L'Italia fu ondivaga nel passare da rivendicazioni nazionaliste alla collaborazione con la Jugoslavia. Mussolini nel 1922 puntò, nonostante la propaganda, alla pacificazione spartendo Fiume, ma vide l'Italia farsi garante della Jugoslavia. O meglio un forte appoggio alla componente serba della Jugoslavia contribuendo ad aumentare la tensione tra italiani, croati e sloveni. Quindi nessuna rimozione di responsabilità comprese quelle degli italiani durante la Seconda guerra mondiale.
Responsabilità che però non possono in nessun modo sminuire la violenza subita dagli italiani. Come spiega bene Gianni Oliva che punta il dito soprattutto sul lungo omertoso disinteresse che è stato una seconda e tremenda violenza sulle vittime, sia sui morti che sui costretti alla fuga, perdendo tutto, a partire dall'identità: «Perché ancora oggi il tema stenta ad entrare nella coscienza collettiva e nazionale? Questo dipende da tre silenzi». Quali quello internazionale che non vuole irritare Tito che si è allontanato da Mosca. Poi c'è «un silenzio di partito» che riguarda soprattutto il Comunismo italiano che sapeva benissimo di aver appoggiato, lo ordinò chiaramente Togliatti, l'occupazione jugoslava, e sapeva che c'era stato un atteggiamento di fiancheggiamento attivo da parte di comunisti italiani alle violenze e agli eccidi. E poi c'è stato un silenzio diplomatico di Stato: mirava a minimizzare la sconfitta e a rappresentare l'Italia in maniera «partigiana» e «resistente» per non dover fare i conti col passato. Anche passando sulla pelle degli esuli, evitando tensioni e recriminazioni sulla vecchia Italia mussoliniana.
Gli anni però sono passati ed è tempo di riflettere compiutamente su tutta la vicenda per giungere ad una memoria reale e condivisa. Che non può nascere dalla cancellazione dei fatti o dal continuare ad applicare pezze ideologiche per nascondere la violenza titina. Questo podcast aiuta ad andare oltre, per creare una coscienza nuova (molto bello l'intervento di Davide Rossi che delinea la situazione contemporanea). Se lo si fosse fatto prima si sarebbe forse potuto gestire diversamente anche il disastro della dissoluzione violenta della Jugoslavia.
Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini, in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco.
Foibe: le vittime della realpolitik. Il silenzio degli ignavi italiani sotto il giogo occidentale. Il comunista dittatore sanguinario Tito per battere il comunista dittatore sanguinario Stalin.
Che cosa furono i massacri delle foibe. Luciano Garibaldi il 10 febbraio 2022 su Focus.it
I massacri delle foibe e l'esodo dalmata-giuliano sono una pagina di Storia che per molti anni l'Italia ha voluto dimenticare: ospitiamo l'intervento di Luciano Garibaldi, classe 1936, storico e giornalista, che racconta i sanguinosi eventi che seguirono la fine della seconda guerra mondiale.
Nel 2005 gli italiani furono chiamati per la prima volta a celebrare il Giorno del Ricordo, in memoria dei quasi ventimila italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale.
La memoria delle vittime delle foibe e degli italiani costretti all'esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia è un tema che ancora divide. Eppure quelle persone meritano, esigono di essere ricordate.
Per questo motivo proviamo a ricostruire quegli eventi drammatici, e a capire come mai questa tragedia è stata confinata nel regno dell'oblio per quasi sessant'anni.
LA FINE DELLA GUERRA. Nel 1943, dopo tre anni di guerra, le cose si erano messe male per l'Italia. Il regime fascista di Mussolini aveva decretato il proprio fallimento con la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Ne erano seguiti lo scioglimento del Partito fascista, la resa dell'8 settembre, lo sfaldamento delle nostre Forze Armate.
Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l'Italia, il crollo dell'esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia).
LA VENDETTA DI TITO. Qui avevano avuto il sopravvento le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia "Tito", che avevano finalmente sconfitto i famigerati "ustascia" (i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic che si erano macchiati di crimini), e i non meno odiati "domobranzi", che non erano fascisti, ma semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell'Italia divenendone una provincia autonoma.
La prima ondata di violenza esplose proprio dopo la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che, nell'intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un'italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali.
Con il crollo del regime - siamo ancora alla fine del 1943 - i fascisti e tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe. Morirono, si stima, circa un migliaio di persone. Le prime vittime di una lunga scia di sangue.
Durante il fascismo l'italianizzazione della Dalmazia e della Venezia Giulia venne perseguita seguendo, nelle intenzioni, il modello francese (attraverso una serie di provvedimenti aventi forza di legge, come l'italianizzazione della toponomastica e dei nomi propri, e la chiusura delle scuole bilingui); nei fatti, il modello fascista.
Tito e i suoi uomini, fedelissimi di Mosca, iniziarono la loro battaglia di (ri)conquista di Slovenia e Croazia - di fatto annesse al Terzo Reich - senza fare mistero di volersi impadronire non solo della Dalmazia e della penisola d'Istria (dove c'erano borghi e città con comunità italiane sin dai tempi della Repubblica di Venezia), ma di tutto il Veneto, fino all'Isonzo.
IL FRENO DEI NAZISTI. Fino alla fine di aprile del 1945 i partigiani jugoslavi erano stati tenuti a freno dai tedeschi, che avevano dominato Serbia, Croazia e Slovenia con il pugno di ferro dei loro ben noti sistemi (stragi, rappresaglie dieci a uno, paesi incendiati e distrutti). Ma con il crollo del Terzo Reich nulla ormai poteva più fermare gli uomini di Tito, irreggimentati nel IX Korpus, e la loro polizia segreta, l'OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). L'obiettivo era l'occupazione dei territori italiani.
Nella primavera del 1945 l'esercito jugoslavo occupò l'Istria (fino ad allora territorio italiano, e dal '43 della Repubblica Sociale Italiana) e puntò verso Trieste, per riconquistare i territori che, alla fine della Prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia.
LA LIBERAZIONE DEGLI ALLEATI. Non aveva fatto i conti, però, con le truppe alleate che avanzavano dal sud della nostra penisola, dopo avere superato la Linea Gotica. La prima formazione alleata a liberare Venezia e poi Trieste fu la Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l'eroe della battaglia di Cassino, appartenente all'Ottava Armata britannica. Fu una vera e propria gara di velocità.
Gli jugoslavi si impadronirono di Fiume e di tutta l'Istria interna, dando subito inizio a feroci esecuzioni contro gli italiani. Ma non riuscirono ad assicurarsi la preda più ambita: la città, il porto e le fabbriche di Trieste.
La Divisione Neozelandese del generale Freyberg entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio 1945, mentre la città era ancora formalmente in mano ai tedeschi, che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero il 2, impedendo in tal modo a Tito di sostenere di aver "preso" Trieste. La rabbia degli uomini di Tito si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari della Russia del periodo 1917-1919.
I NUMERI DELLE VITTIME. Tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. Secondo alcune fonti le vittime di quei pochi mesi furono tra le quattromila e le seimila, per altre diecimila.
Fin dal dicembre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» e indicò «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».
In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani - nel periodo tra il 1943 e il 1947 - furono almeno 20mila; gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case almeno 250mila.
COME SI MORIVA NELLE FOIBE. I primi a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori).
Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l'un l'altro con un lungo filo di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell'abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso.
IL DRAMMA DI FIUME E IL DESTINO DELL'ISTRIA. A Fiume, l'orrore fu tale che la città si spopolò. Interi nuclei familiari raggiunsero l'Italia ben prima che si concludessero le vicende della Conferenza della pace di Parigi (1947), alla quale - come dichiarò Churchill - erano legate le sorti dell'Istria e della Venezia Giulia. Fu una fuga di massa. Entro la fine del 1946, 20.000 persone avevano lasciato la città, abbandonando case, averi, terreni.
LA CONFERENZA DI PACE DI PARIGI. Alla fine del 1946 la questione italo-jugoslava era divenuta per molti un peso che intralciava la soluzione di altre e ancora più importanti questioni: gli Alleati volevano trovare una soluzione per Vienna e Berlino; l'Unione Sovietica doveva sistemare la divisione della Germania. L'Italia era alle prese con la gestione della transizione tra monarchia e repubblica.
In sostanza bisognava determinare dove sarebbe passato il confine tra Italia e Jugoslavia. Gli Stati Uniti, favorevoli all'Italia, proposero una linea che lasciava al nostro Paese gran parte dell'Istria. I sovietici, favorevoli ai comunisti di Tito, proposero un confine che lasciava Trieste e parte di Gorizia alla Jugoslavia. La Francia propose una via di mezzo, molto vicina all'attuale confine, che sembrava anche l'opzione più realistica, non perché rispettava le divisioni linguistiche, ma perché seguiva il confine effettivamente occupato dagli eserciti nei mesi precedenti.
Il dramma delle terre italiane dell'Est si concluse con la firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947. Alla fine, alla conferenza di Parigi venne deciso che per il confine si sarebbe seguita la linea francese: l'Italia consegnò alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all'Istria e a parte della provincia di Gorizia.
L'ESODO. Il trattato di pace di Parigi di fatto regalò alla Jugoslavia il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, con l'accordo che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma.
Questo causò due ingiustizie. Prima di tutto l'esodo forzato delle popolazioni italiane istriane e giuliane che fuggivano a decine di migliaia, abbandonando le loro case e ammassando sui carri trainati dai cavalli le poche masserizie che potevano portare con sé. E, in seguito, il mancato risarcimento.
La stragrande maggioranza degli esuli emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada e negli Stati Uniti.
INTERESSE POLITICO IN ATTI D'UFFICIO. Tanti riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia, nonostante gli ostacoli dei ministri del partito comunista che - favorevoli alla Jugoslavia - minimizzarono la portata della diaspora.
Emilio Sereni, che ricopriva la determinante carica di ministro per l'Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall'Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all'opinione pubblica la drammaticità della situazione minimizzò la portata del problema.
Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c'era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di «fratellanza italo-slovena e italo-croata», sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, affermò che le notizie sulle foibe erano "propaganda reazionaria".
IL GIORNO DEL RICORDO. Come è stato possibile che una simile tragedia sia stata confinata nel regno dell'oblio per quasi sessant'anni? Tanti, infatti, ne erano passati tra quel quadriennio 1943-47, che vide realizzarsi l'orrore delle foibe, e l'auspicato 2004, quando il Parlamento approvò la "legge Menia" (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l'aveva proposta) sulla istituzione del "Giorno del Ricordo".
La risposta va ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall'altra. Fu soltanto dopo il 1989 (con il crollo del muro di Berlino e l'autoestinzione del comunismo sovietico) che nell'impenetrabile diga del silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa.
Il 3 novembre 1991 l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato cinquant'anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction Il cuore nel pozzo, interpretata fra gli altri da Beppe Fiorello. Un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l'11 febbraio 1993.
Così, a poco a poco, la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subìre gli italiani della Venezia Giulia, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Luciano Garibaldi
Alla tragedia delle foibe, l'autore, Luciano Garibaldi, giornalista e storico, ha dedicato, assieme a Rossana Mondoni, quattro libri editi dalle edizioni Solfanelli: Venti di bufera sul confine orientale, Nel nome di Norma, dedicato al ricordo di Norma Cossetto, studentessa triestina tra le prime vittime della violenza rossa, Il testamento di Licia, approfondito dialogo con la sorella di Norma Cossetto, e Foibe, un conto aperto.
Giornata del Ricordo. Foibe, stragi, esodo: quale ruolo ebbero i comunisti nostrani? Giovanni Marizza su loccidentale.it il 10 febbraio 2009
Nel 2005 moriva Aldo Bricco, l’ultimo superstite della strage di Porzus. E pensare che doveva morire sessant’anni prima, nel 1945. Così almeno avevano deciso i suoi assassini. Bricco mi aveva confidato questa storia all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando lo incontrai a Pinerolo, dove abitava.
Per inquadrare storicamente la vicenda bisogna immaginare cosa era il Friuli-Venezia Giulia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. I tedeschi, reagendo alla defezione italiana, avevano costituito due regioni “speciali” al confine fra il Reich e la Repubblica sociale. Una, il “Territorio prealpino”, comprendeva le attuali province di Bolzano, Trento e Belluno, mentre l’altra era denominata “Litorale adriatico” e comprendeva le attuali province di Udine, Pordenone, Gorizia, Trieste, Lubiana, Fiume e Pola, compreso il golfo del Quarnaro con le isole di Cherso, Veglia e Lussino. Il “Litorale adriatico” era una zona di incontro fra varie etnie (italiani, friulani, tedeschi, sloveni, croati e addirittura 22.000 cosacchi antibolscevichi alleati dei tedeschi e trapiantati in Carnia), ma era anche una zona di scontro fra tendenze politiche diverse, addirittura opposte. Mentre la Repubblica sociale italiana tendeva a mantenere il possesso di quelle terre, i tedeschi operavano per l’annessione al Reich e il terzo protagonista, il movimento partigiano comunista, mirava all’annessione di quelle terre alla Iugoslavia con metodi semplici nella loro crudeltà: occupazione del territorio (le città di Trieste e Gorizia ne sanno qualcosa) ed eliminazione fisica dell’avversario mediante pulizia etnico-ideologica. Tristemente note sono diventate le “foibe”, cavità del terreno carsico in cui furono gettati, per lo più ancora vivi, 22.000 italiani. Tanto per fare un esempio, la sola foiba di Basovizza contiene 2.500 vittime, pari a 500 metri cubi di cadaveri, un ammasso di 34 metri di salme, una sopra l’altra.
Innumerevoli le stragi, come quella di Cave del Predil, dove il 23 marzo 1944 ventidue carabinieri furono catturati dai partigiani comunisti, avvelenati, torturati e tagliati a pezzi. La strage delle malghe di Porzus è forse la più nota, tant’è vero che ha ispirato anche un film. Ma non tutti i partigiani combattevano per l’annessione di quelle terre alla Iugoslavia; al contrario, alcune formazioni, quelle in cui militava Bricco, erano di ispirazione filomonarchica e si battevano per l’italianità di quelle zone. Erano le brigate “Osoppo”, caratterizzate dai fazzoletti verdi al collo, un colore che rammentava la provenienza alpina di tanti di quei combattenti. Di idee opposte erano quelli col fazzoletto rosso, di fede comunista: erano le brigate “Garibaldi” che, pur costituite da italiani, erano inquadrate nel IX corpus dell’armata iugoslava e avevano per obiettivo l’annessione alla Iugoslavia di tutte le terre friulane “fino al sacro confine del Tagliamento”, come sostenevano con una bizzarra interpretazione della storia e della geografia. Due razze opposte di partigiani, dunque: gli “osovani” e i “garibaldini”. Fazzoletti verdi e fazzoletti rossi. Gli uni erano più alpini che partigiani, gli altri erano più comunisti che italiani e fra loro non poteva esserci intesa, a parte il comune nemico nazifascista. Fu così che i garibaldini decisero di ricorrere al loro metodo preferito, quello dell’eliminazione fisica dell’avversario, e decisero di sterminare la leadership osovana.
Racconta Bricco: “Ci dissero che dovevamo trovare un compromesso fra le nostre idee diverse e ci proposero un incontro per discutere del futuro assetto del Friuli-Venezia Giulia. All’incontro, da tenere alle malghe di Porzus, dovevano partecipare tutti i comandanti partigiani dell’una e dell’altra parte, ma senza armi, precisarono. Noi accettammo, in buona fede, senza sospettare nulla. Era il mese di febbraio del 1945; noi eravamo in 23, arrivammo per primi e prendemmo posto all’interno delle malghe. Dopo un paio d’ore arrivarono anche i comunisti, ma la discussione non ci fu; il loro capo puntò l’indice contro il nostro comandante e gridò “Tu sei un traditore!”, poi estrasse il mitra da sotto il cappotto e gridò “A morte i traditori!”. Quello era il segnale. Tutti i rossi misero mano alle armi e fecero fuoco. Era un inferno, una strage, e noi non potevamo neanche reagire…” .
Continua Bricco: “Io e un altro, i più vicini ad una finestra, ci gettammo fuori. L’altro fu subito raggiunto da una raffica e rimase esanime. Anch’io fui colpito da una pallottola, caddi, ma mi rialzai e feci l’unica cosa che potevo fare: correre. I rossi continuavano a spararmi e a colpirmi; sentii una pallottola che mi perforava un braccio, poi un’altra che mi attraversava una spalla, poi ancora una che mi entrava in una gamba, ma io continuavo a correre, cercavo di essere più veloce delle pallottole, sentivo che altre pallottole mi trapassavano gambe, braccia e schiena, mi attraversavano come fa una lama nel burro, ma io continuavo a correre, mi buttai giù per un canalone, mi salvai solo io”.
“Che fine hanno fatto gli assassini? Sono stati assicurati alla giustizia?” chiesi. “Macchè - rispose -, l’hanno fatta franca tutti quanti. Chi ha usufruito dell’amnistia di Togliatti subito dopo la guerra, chi si è rifugiato in Iugoslavia protetto dal governo di Belgrado, chi è stato condannato all’ergastolo o a 30 anni di galera ma è stato aiutato dal partito comunista italiano a fuggire in Cecoslovacchia o in Unione sovietica e poi è stato graziato dall’amnistia di Pertini nel 1978. Alcuni hanno ricevuto medaglie al valor militare e altri continuano a percepire pensioni dallo stato italiano…”.
E poi ci fu la tragedia dell’esodo. I 300.000 profughi italiani fuggiti dall’Istria e dalla Dalmazia per non finire nelle foibe furono distribuiti su tutto il territorio nazionale, dove non sempre furono bene accolti. In Emilia, ad esempio, al passaggio dei treni carichi di profughi i ferrovieri comunisti chiusero le fontanelle delle stazioni per impedire loro di dissetarsi. A Bologna la Pontificia Opera di Assistenza aveva predisposto un pasto caldo per i profughi destinati alla Liguria, ma non riuscì a distribuirlo, perché il sindacato comunista dei ferrovieri minacciò dagli altoparlanti che se i profughi avessero consumato il pasto uno sciopero generale avrebbe paralizzato la stazione, e il treno fu costretto a passare senza fermarsi. Ad Ancona il 16 febbraio 1947 il piroscafo “Toscana”, che approdava da Pola carico di famiglie italiane, fu accolto sul molo da una selva di bandiere rosse, fischi, insulti e gestacci col pugno chiuso.
Ma - fatto ignoto ai più - oltre all’esodo ci fu anche il controesodo: lo organizzarono i comunisti italiani verso la Jugoslavia per consentire a molte famiglie di riempire il vuoto lasciato dai cittadini giuliano-dalmati e perché potessero usufruire dei piaceri del paradiso comunista; un altro motivo fu quello di mettere in salvo tanti compagni che si erano macchiati di delitti durante e dopo la resistenza e che in Italia avevano problemi con la giustizia.
Ma venne il 1948, con la rottura fra Tito e Stalin. Il dramma della lacerazione ideologica dei comunisti italiani, soprattutto triestini, combattuti fra la fedeltà a Mosca e quella a Belgrado era nulla in confronto al calvario fisico e psichico che dovettero patire decine di migliaia di dissidenti rimasti fedeli al Cominform e al Cremlino e che caddero fra le grinfie dei titini. Questi comunisti fedeli a Mosca furono circa 32.000 e vennero rinchiusi nell’isola-lager di Goli Otok, l’Isola Calva nell’arcipelago della Dalmazia settentrionale. Circa 4.000 detenuti morirono di stenti, di malattia, di torture, di lavori forzati e di percosse su quell’isola, dove finirono anche parecchi comunisti italiani, soprattutto da Monfalcone, i cosiddetti “cantierini” (circa 350) che si recarono fiduciosi oltre confine per “costruire il socialismo”. I più fortunati vi giungevano già cadaveri ma chi aveva la sventura di arrivarvi vivo, a bordo di stipatissime imbarcazioni maleodoranti, riceveva il primo benvenuto da parte di altri detenuti, già ospiti della brulla isola-lager, che armati di randelli si precipitavano urlanti nelle stive e massacravano di legnate i prigionieri prima ancora che scendessero. Poi i nuovi arrivati (o perlomeno i sopravvissuti) venivano fatti scendere in fila indiana, scalzi sulle rocce taglienti come coltelli e sotto il sole, e avviati verso il lager fra due ali di altri detenuti che continuavano a urlare e a randellarli a sangue.
I pochi detenuti che alla fine riuscirono a sopravvivere e a ripararsi in Unione Sovietica o in Italia, scoprirono che a Mosca era impossibile pubblicare un articolo sugli orrori di Goli Otok. Sì, sarebbe stato un ottimo strumento propagandistico contro Tito, ma la cosa, di riflesso, avrebbe messo sotto accusa anche i gulag sovietici, fenomeno di ben più grande portata rispetto alla modesta Isola Calva, che al loro confronto era una località di villeggiatura.
Anche in Italia i sopravvissuti dei lager di Tito scoprirono di essere solo dei cadaveri ambulanti condannati all’oblio: per ragioni politiche non se ne poteva parlare. Non esisteva ancora una “Giornata del ricordo”, neanche per loro.
Tito e le vittime della realpolitik. Da Andrea Zannini, docente di Storia Moderna all’Università del Friuli, su ilfriuli.it il 22 novembre 2020.
Trattato di Osimo. Fu firmato 45 anni fa, il 10 novembre 1975, e pose una lapide sulla ‘questione Trieste’. Il confine orientale era stato già disegnato dall’opportunismo degli Alleati per la Jugoslavia in rotta con l’Urss stalinista.
Quarantacinque anni fa il Trattato di Osimo, vicino ad Ancona, segnò la fine della ‘questione di Trieste’, che nell’immediato dopoguerra aveva rappresentato il simbolo della Guerra Fredda e che per qualche giorno nel maggio 1945 aveva addirittura dato l’impressione di poter condurre a una Terza guerra mondiale.
L’arrivo a Trieste il 1° maggio 1945 degli Alleati, cioè, per prime, delle truppe dell’Esercito di Liberazione jugoslavo, si era trasformato in un’occupazione che mirava all’annessione di larga parte della Venezia Giulia. Grazie alla pressione degli Alleati occidentali, gli jugoslavi si ritirarono tuttavia dalla città dopo quaranta giorni e nel 1947, in attuazione del Trattato di pace, fu creato il Territorio Libero di Trieste, diviso in una zona A sotto il controllo alleato che andava da Duino a Muggia e una zona B sotto il controllo jugoslavo che si estendeva a sud di questa fino a Cittanova.
Il consolidamento del regime jugoslavo ebbe luogo anche attraverso una gigantesca epurazione che, oltre a regolare i conti di una guerra spietata, aveva la finalità di evitare il crearsi di nuclei di resistenza: tra Istria e Venezia Giulia furono inviati nei campi di concentramento, fucilati e fatti sparire nelle foibe circa 10mila sloveni Domombranzi e 60mila tra i croati Ustascia, quindi collaborazionisti dei nazisti, e alcune migliaia di italiani. Decine di migliaia di famiglie italiane, originarie delle aree italofone dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia, abbandonarono i loro averi e le loro case, dando vita a quell’esodo che si sarebbe concluso solo alla fine degli Anni ’50.
Il silenzio che avrebbe circondato l’esodo giuliano-dalmata era tuttavia dovuto al fatto che, da pericoloso invasore delle terre irredente, Tito si era nel frattempo trasformato in un prezioso alleato della Nato e dell’Occidente democratico. Nel 1948, infatti, Stalin aveva espulso la Jugoslavia dal Cominform, l’organizzazione internazionale che riuniva i partiti comunisti, perché colpevole di errori e deviazioni ideologiche: in realtà, per via di una politica estera autonoma nei Balcani. Gli americani, che avevano grandemente contribuito alla vittoria elettorale della Democrazia Cristiana italiana nel 1948, allargarono gli aiuti al regime titino e misero la sordina alla questione confinaria italiana.
Dagli Anni ’50 l’interesse del maresciallo Tito si spostò, con considerevole intuito politico, verso i Paesi in via di decolonizzazione, per evitare che cadessero nella logica della contrapposizione Usa-Urss. Si fece così promotore dell’organizzazione dei ‘Paesi non allineati’, legittimandosi come alternativo a entrambi i blocchi. Il suo interesse per la questione di Trieste era ormai scemato, né premeva ai governi Dc italiani insistere sulle questioni di confine, vista anche la situazione sempre più delicata dell’Alto Adige, che sarebbe di lì a pochissimo sfociata nella ‘stagione degli attentati’. Il Memorandum di Londra del 1954 assegnò la Zona A e la Zona B a Italia e Jugoslavia che le controllavano già e il Trattato di Osimo del 1975 fu solo il sigillo diplomatico di una situazione che si era stabilizzata da tempo. Il Trattato fu firmato per l’Italia da Mariano Rumor, Ministro degli Affari esteri del governo Moro IV.
Andrea Zannini, docente di Storia Moderna all’Università del Friuli
Josip Broz Tito, il comunista più crudele di Stalin. Le vicende dell'uomo che diresse la storia jugoslava dalla Seconda Guerra Mondiale al 1980, anno della morte e dell'inizio del disfacimento della sua opera. Luciano Atticciati (novembre 2013) su storico.org.
Gli Slavi Meridionali, che per un certo periodo vissero nello Stato unitario jugoslavo, costituivano una realtà complessa. Da un punto di vista strettamente linguistico, Croati, Serbi, Bosniaci e Montenegrini costituiscono qualcosa di omogeneo, diversi sono i Macedoni affini ai Bulgari e gli Sloveni affini agli Slovacchi. Più rilevanti sono le differenze religiose, essendo presenti Cattolici, ortodossi e musulmani, e nell’uso della scrittura, essendo presente sia l’alfabeto latino che quello cirillico. Sloveni e Croati, erano vissuti per un lungo periodo sotto l’Impero Asburgico, e in quanto prevalentemente Cattolici erano più orientati verso il mondo occidentale. Serbi e Macedoni erano invece vissuti sotto il più autoritario Stato Ottomano in un maggiore isolamento. Nell’Ottocento l’intera regione balcanica si affrancò dall’Impero Turco, ma a causa degli incerti confini etnico-linguistici, le dispute territoriali furono continue, e con esse un certo timore verso la supremazia della Serbia. Con i trattati successivi alla Prima Guerra Mondiale si formò lo Stato unitario jugoslavo sotto la dinastia serba di Karadordevic, ma la vita politica del Paese fu pesantemente tormentata dai contrasti fra Serbi e Croati, sebbene in alcuni momenti proprio la Corona cercasse di attenuare lo scontro. Dopo l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia nel 1941, i massacri fra gruppi etnici divennero continui, in particolare da parte degli Ustascia, un movimento ultra nazionalista, filo fascista e successivamente filo nazista, che si ritiene abbia provocato la morte di 500.000 Serbi (incluso un certo numero di Ebrei e rom), l’espulsione di 250.000 non Croati e la conversione forzata al Cattolicesimo di un numero simile di Jugoslavi. Meno documentati sono i massacri compiuti dai Serbi, che ammonterebbero comunque a circa 100.000 persone. Interessante notare che meno di un quarto dei morti jugoslavi nel corso della Seconda Guerra Mondiale (1.400.000) sono da attribuire alla guerra di invasione italo-tedesca, la restante parte fu dovuta ai conflitti etnici e ai conflitti fra anticomunisti e titoini.
La Bosnia nel 1943 venne occupata dai comunisti titoini che progressivamente divennero la principale forza del Paese, per un certo periodo si contrapposero quindi tre grandi gruppi politici, gli Ustascia destinati rapidamente a scomparire, i cetnici (Serbi filo monarchici) e i comunisti di Tito. Le violenze subite dai cetnici spinsero questi verso un atteggiamento non belligerante verso i Tedeschi, gli Angloamericani si orientarono quindi verso il sostegno ai comunisti. Tale politica poteva apparire sotto il profilo politico poco congruente, del resto anche in Vietnam gli Americani avevano appoggiato i comunisti di Ho Chi Minh contro i Giapponesi. A Yalta comunque, gli Angloamericani tentarono di stabilire una convivenza fra comunisti e monarchici, ovviamente difficilissima da realizzare essendo i rapporti di forza ormai compromessi. Si è dibattuto se la liberazione della Jugoslavia sia avvenuta attraverso l’intervento dell’Armata Rossa o se sia stata un fenomeno dovuto unicamente alle forze jugoslave, gli storici propendono per una compartecipazione di entrambi.
Il Partito Comunista Jugoslavo, diversamente da altri movimenti simili negli altri Paesi dell’Est, aveva una sua base di consenso (12% circa nelle elezioni del 1920), ma si presentava orientato su posizioni decisamente estremiste. Nel 1921 organizzò un attentato (non riuscito) contro il Re e successivamente l’assassinio del Ministro degli Interni, il democratico Milorad Draskovic. Negli anni successivi il partito, fortemente gerarchicizzato come tutti i partiti comunisti dell’epoca, vide degli scontri interni fra sostenitori del primato contadino e primato operaio, sulla questione etnica, nonché fra puristi rivoluzionari e sostenitori di un’alleanza con i socialisti. In maniera piuttosto improvvisa si affermò nel 1928 il Croato Josip Broz, all’epoca sindacalista filo stalinista che aveva per diversi periodi soggiornato a Mosca. Il nuovo leader continuò la politica terrorista e la pratica della soppressione dei dissidenti interni, in particolare è da ricordare l’uccisione nel 1937 del segretario generale del KPJ Milan Gorkic su ordine di Mosca; nonostante le ingenti sovvenzioni economiche sovietiche il partito vide comunque in quegli anni ridurre sensibilmente la sua area di consenso. Su tali questioni, molto interessante appare il lavoro di William Klinger sulla storia dell’Ozna, che attraverso una ricca documentazione mette in luce anche i legami fra il Partito Comunista Italiano e quello jugoslavo.
Nel corso dell’occupazione italo-tedesca, i gruppi partigiani titoini occuparono diversi territori dove si stabilirono delle istituzioni nominalmente espressione della volontà della popolazione locale, ma nelle quali i cittadini erano soggetti a una disciplina rigidissima con la eliminazione fisica di chiunque non l’accettasse, mentre i contadini ritenuti ricchi vennero considerati alla stregua dei kulaki russi. I terribili scontri etnici di cui abbiamo detto, spinsero comunque i bosniaci ad accettare la protezione dei comunisti, come in Russia nel periodo peggiore dell’attacco tedesco, in alcuni periodi venne messa da parte la questione ideologica e la punizione dei nemici del popolo, per mettere in risalto la lotta dei popoli jugoslavi uniti contro gli invasori.
La questione etnica risultò sicuramente rilevante. Già nel 1943 i comunisti jugoslavi tentarono di sottomettere i gruppi comunisti locali, italiani, greci, bulgari e albanesi anticipando in qualche modo le successive mire annessionistiche su territori di questi Paesi. Venne creato un sistema di potere «concentrico», il Fronte Popolare che raccoglieva i partiti anti fascisti con scarsa autonomia, il Partito Comunista Jugoslavo e l’Ozna, un selezionato apparato che comprendeva una polizia politica che controllava rigidamente il tutto.
Nell’estate del ’44 la Serbia venne definitivamente liberata (o occupata, secondo i punti di vista) dalle milizie titoine, iniziarono immediatamente le schedature di massa, le persecuzioni politiche e quelle contro gli appartenenti alla classe borghese nonché delle minoranze tedesche, ungheresi e albanesi sebbene queste ultime non avessero compiuto alcun atto ostile contro il Paese Jugoslavo. Nella sola Serbia il numero delle vittime è calcolato fra 30.000 e 150.000. Risulta fosse metodico il ricorso alla tortura degli arrestati, mentre i Sovietici si impegnavano anch’essi in un’opera di repressione parallela contro chiunque potesse essere considerato ostile. Nei mesi successivi alla fine del Conflitto (maggio-agosto ’45) a Zagabria vennero uccisi 15.000 oppositori, la maggior parte anti fascisti ritenuti filo occidentali fra i quali gli esponenti del partito contadino croato orientato a sinistra. Sempre secondo gli studi di Klinger, anche in Kosovo e Macedonia i massacri dei comunisti provocarono migliaia di vittime. Qualcosa del genere avvenne anche negli altri Paesi dell’Est occupati dai Sovietici, in particolare in Polonia dove i capi della Resistenza vennero arrestati e giustiziati prima della fine del Conflitto.
Ampiamente documentati sono i massacri di Croati, Sloveni e cetnici (collaborazionisti o sospettati tali) arresisi in Austria a Bleiburg agli Inglesi e immediatamente riconsegnati agli inseguitori comunisti. I prigionieri furono costretti a marce forzate a rientrare in patria. Fosse comuni furono ritrovate in Austria e Slovenia, dove si ritiene vennero uccisi 50.000 militari e 30.000 civili, molti dei quali torturati. Altri importanti massacri si ebbero a Backa nella Vojvodina (Banato), regione a Nord della Serbia abitata in maggioranza da Ungheresi con importanti minoranze tedesche e serbe. Negli ultimi mesi del Conflitto circa la metà di questi fuggirono dalla regione, per gli altri si aprì un periodo terribile. Le popolazioni di interi villaggi vennero massacrate, mentre la quasi totalità della restante popolazione tedesca finì nei campi di lavoro forzato. Le stime delle vittime fra i tre gruppi etnici vanno da 60.000 a 170.000. Ai massacri e agli stupri di massa seguì nel periodo successivo la pulizia etnica della regione con espulsioni di massa. Tali eventi hanno trovato successivamente conferma nella documentazione raccolta dalla Commissione di Stato di Belgrado sulle fosse comuni nel 2009.
Le stesse fonti jugoslave non celavano la loro azione. Dal 1945 al 1951, 3.777.776 cittadini jugoslavi (più di un quarto dell’intera popolazione jugoslava) transitarono nelle carceri del Paese, e 568.000 furono quelli eliminati fisicamente. Lo studioso americano Rudholph Rummel ritiene che oltre 1.072.000 Jugoslavi siano stati uccisi tra il 1944 ed il 1987, fra i quali molti esponenti del clero e numerosi internati nei campi di concentramento a causa di sevizie. Particolarmente colpita fu la comunità italiana, a guerra finita venne occupata Trieste per oltre un mese, si ritiene che circa 10.000 furono gli Italiani uccisi nelle foibe o morti nei campi di concentramento. Molti dei giustiziati non erano fascisti ma persone estranee alla politica, in genere appartenenti alla classe media o anche anti fascisti che non intendevano tradire il loro Paese. Secondo alcuni gli Italiani uccisi furono vittime della «rabbia popolare», ma in realtà vennero eliminati in maniera organizzata su disposizioni prese dall’alto. A tali persecuzioni parteciparono anche gruppi di comunisti italiani inquadrati nelle milizie titoine con l’avvallo sostanziale di Togliatti. Interessante notare è che le persecuzioni sia pure in forma ridotta continuarono negli anni e nei decenni successivi, e secondo gli studiosi Tomislav Sunic e Nikola Stedul numerosi intellettuali furono uccisi all’estero dove erano emigrati.
Come in tutti i Paesi Comunisti dell’epoca le prime misure del Governo furono la nazionalizzazione di tutte le attività economiche, anche di quelle a livello artigianale e la cosiddetta riforma agraria, con la istituzione delle cooperative obbligatorie con poteri riservati alle autorità e pesanti prelievi obbligatori da parte dello Stato; per un certo periodo si arrivò alla collettivizzazione forzata con i contadini privati di ogni diritto e di ogni bene. L’economia riprese il modello di sviluppo staliniano con i piani quinquennali finalizzati a progetti grandiosi e la concentrazione degli investimenti nell’industria pesante. La durezza dei provvedimenti economici portò il Paese sull’orlo della carestia, situazione che perdurò fino al 1950. L’11 novembre 1945 si tennero le elezioni che conferirono il 96% dei voti al Fronte Popolare. Tito divenne oggetto di un culto della personalità, diversamente da altri leader comunisti ebbe una vita sentimentale molto attiva, frequentava il jet set internazionale e non nascondeva il suo amore per il lusso, gli yacht e le ville di prestigio. Come nei Paesi Comunisti Asiatici si parlava della creazione dell’«uomo nuovo», un cittadino con uno stile di vita conformista e ovviamente disciplinato.
La politica estera jugoslava fu particolarmente attiva, Tito non ritenendosi sottoposto a Stalin come gli altri leader comunisti avanzò molte pretese territoriali: Venezia Giulia italiana, Carinzia austriaca, territori bulgari, greci e albanesi. Perseguitò gli Albanesi del Kosovo, tentò di sottomettere l’Albania con l’invio di truppe in quel Paese (per difesa da un ipotetico attacco greco) e di istituire una federazione balcanica in cui la Jugoslavia avrebbe avuto una posizione di preminenza. Tale politica ritenuta troppo attiva lo portò in duro contrasto con Stalin che riteneva il Paese fragile e sul quale pendevano accordi economici vessatori favorevoli ai Sovietici. Per alcuni anni l’accusa di titoismo divenne l’equivalente di quella di trotzkismo degli anni precedenti e portò all’eliminazione di importanti dirigenti comunisti (particolarmente quelli che avevano combattuto nella Resistenza) in tutti i Paesi dell’Europa Orientale. Numerosi furono anche gli scontri di frontiera, ma il leader comunista resistette anche grazie all’aiuto dei Paesi Occidentali. Il contrasto all’interno del mondo comunista portò nello Stato Jugoslavo all’uccisione e all’internamento di migliaia di comunisti ritenuti per qualche motivo vicini a Stalin. Il trattamento degli internati nei campi di concentramento risultò più crudele di quello riservato ai deportati nei lager di Russia e Germania con lavoro coatto, violenze di vario tipo e il ricorso a tecniche di distruzione della personalità.
Una volta espulsa la Jugoslavia dalla organizzazione dei Paesi Comunisti, Tito diede vita al movimento dei Paesi non allineati che raggruppava un vasto numero di Paesi Afroasiatici, anche se al loro interno non mancavano forti tensioni e sul piano pratico l’organizzazione non producesse risultati. Negli anni successivi si ebbero ancora persecuzioni e provvedimenti restrittivi nei confronti di compagni di partito non allineati, comunque prevalse una certa moderazione, vennero allentate le misure durissime nel settore economico e si introdusse la cosiddetta autogestione operaia anche se costituì più un proclama che una istituzione reale. Nel 1953 venne reintrodotta la piccola proprietà terriera, nel 1954 l’accordo con l’Italia sui confini, nel 1965 venne ampliata la produzione dei beni di consumo e nel 1975 venne concessa una maggiore autonomia alle Repubbliche. Il processo di «destalinizzazione» non fu lineare e non mancarono ritorni al vecchio dogmatismo, morto Tito nel 1980 il Paese iniziò il processo di tragica disgregazione.
Foibe, Pietro Senaldi: la solita sinistra che oltraggia infoibati ed esuli. Chi ha la coscienza sporca. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 febbraio 2022
Scusate se siamo italiani, scusate se siamo stati crocifissi, annegati, massacrati e infoibati da dei criminali comunisti, scusate se dopo quasi ottant' anni ancora soffriamo per la pulizia etnica di cui siamo stati vittime, scusate se vi disturbiamo e chiediamo che non continuiate tenerci fuori dalla memoria collettiva del Paese, scusate se siamo stanchi di essere cancellati in nome del compromesso storico e del consociativismo che ha retto la prima Repubblica e che, nella seconda, sopravvive solo ai nostri danni. Ieri si commemoravano il genocidio e l'esodo giuliano-dalmata, 350mila esuli e quasi ventimila vittime della furia titina.
La Giornata del Ricordo è stata istituita nel 2005, con sessant' anni di ritardo, grazie alla strenua battaglia dell'allora parlamentare di Alleanza Nazionale Roberto Menia, figlio di una profuga istriana. Ma non è stata una giornata di degno ricordo, perché i perseguitati sono stati oltraggiati ancora una volta, anziché onorati. E la ragione è che, ancora una volta, la pietà umana è stata sacrificata al politicamente scorretto, al tentativo di coprire la verità, ovverosia che gli infoibati sono vittime della furia comunista, che li ha massacrati e ne ha confiscato le proprietà, e dell'ideologia della sinistra nostrana, che dopo ha cercato a lungo di tenere nascosto o minimizzare l'eccidio perpetrato dai compagni titini e oggi, che non può più negarlo, nasconde le sue mani sporche di sangue.
Che delusione, il discorso del presidente Mattarella dedicato alla ricorrenza. Se l'è presa con i nazisti, i fascisti che scatenarono la guerra e i nazionalismi in genere, ma non ha ricordato che comunisti erano gli assassini jugoslavi e comunisti erano gli italiani che li hanno protetti e giustificati. Neppure ha ricordato, tantomeno chiesto scusa, per quell'Italia cattocomunista, di don Camillo e Peppone, che sapeva avere anche un volto cinico e spietato. Il nostro Paese trattò i profughi come appestati anziché come connazionali, dimenticando che chi scelse l'esilio e abbandonò casa propria, lo fece per restare libero anziché assoggettarsi al regime di Tito, fidandosi della democrazia e della solidarietà della madrepatria, che invece gliele negò.
Ma il capo dello Stato è in cattiva compagnia. Anche il sindaco Sala si è scordato di citare gli assassini, quasi gli istriani si siano infoibati da soli. Con lui, Letta, che si è limitato a evocare «una partecipazione corale al giorno del ricordo»; Fico, che se l'è cavata parlando di «terribile dramma e pagina tragica»; Calenda, che ha alluso a vaghi «orrori della storia». Sempre meglio comunque della solita Boldrini, la quale ci ha catechizzato spiegando che «il giorno del ricordo non deve avere un'appartenenza ideologica», quando invece fu un eccidio politico, che i suoi progenitori rossi perdonarono perché Tito era un comunista, e intelligente al punto dal prendere le distanze da Mosca, guadagnandosi perciò anche il plauso e l'assoluzione della Dc. Menia si consoli. Battersi per il Giorno del Ricordo è comunque servito: in dieci anni sono raddoppiati gli italiani che almeno sanno che ci sono state le foibe, capitolo ignorato dal 60% della popolazione solo nel 2012.
Oggi invece tre cittadini su quattro conoscono l'eccidio e ritengono giusto celebrarlo, e uno su due vorrebbe che la giornata fosse maggiormente enfatizzata. Questo significa che il sacrificio dei patrioti istriani, che lasciarono tutto per l'Italia e la libertà, sta entrando nelle teste e nei cuori di tutf ti, e le cose potranno solo migliorare. Ma è triste vedere che l'Europa, dove siedono anche Slovenia e Croazia, le nazioni che ci hanno depredato, è molto più avanti di noi. Mercoledì la presidente dell'Europarlamento, la maltese Roberta Metsola, ha definito l'eccidio istriano «un dramma europeo» e, su iniziativa dell'europarlamentare Carlo Fidanza, di Fdi, si sono organizzati incontri per ricordare quanto avvenne, mettendo in giusta evidenza le responsabilità dei partigiani comunisti. In Italia invece, il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, è stato costretto a scusarsi per una circolaredel suo ufficio che ha paragonato l'Olocausto istriano a quello degli ebrei, suscitando le ire delle associazioni partigiane nostrane.
Figuraccia. Anche quello giuliano-dalmata fu un Olocausto e continuare a sminuirlo, per nascondere le colpe di chilo commise è negazionismo. Come è negazionismo non dire chiaramente che gli istriani non furono uccisi dalla furia umana o dalla furia totalitarista, ma da bande criminali di comunisti partigiani che perseguivano un progetto politico di pulizia etnica e ideologica e che avevano complici in Italia, i quali che hanno steso un velo sui massacri e poi hanno infierito sui superstiti che avevano cercato riparo da noi, illudendosi di trovarsi tra connazionali.
Foibe, vendetta dell'Anpi sul dirigente "scomodo". Gian Micalessin il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.
La vera colpa di Versari? Aver organizzato nella rossa Toscana seminari sull'eccidio degli italiani. Quella dell'Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) non è stata una polemica, ma un cinico regolamento di colpi. Una vendetta studiata a tavolino per colpire e affondare Stefano Versari, un capo dipartimento del ministero dell'Istruzione colpevole di aver realizzato il dettato della legge istitutiva del Giorno del Ricordo. Un dettato che invita, come ha fatto Versari, a sensibilizzare insegnanti e alunni alla commemorazione delle foibe e dell'esodo attraverso incontri con storici qualificati e associazioni degli esuli. Ma l'impegno su quel tema in un paese, e in una scuola, dove il negazionismo di sinistra è ancora assai diffuso può rivelarsi un esercizio pericoloso. Ed infatti la circolare con cui Versari invitava gli istituti scolastici a non sottovalutare l'importanza del Giorno del Ricordo, sottolineando come l'eccidio degli italiani fosse stato preceduto dal genocidio degli ebrei, ha scatenato la più bieca e immotivata delle rappresaglie.
L'innocente circolare è stata immediatamente messa all'indice da un comunicato dell'Anpi che la definiva «storicamente aberrante e inaccettabile» in quanto colpevole di equiparare il genocidio degli ebrei e i massacri degli italiani. Ora è evidente che in quella circolare non c'era nulla di moralmente riprovevole o storicamente inaccettabile. La contestazione «partigiana» puntava soltanto a trasformare Versari in un bersaglio esponendolo ad una di quelle gogne tanto care alla sinistra. Ma qual'è l'origine di tanta acredine? Per capirlo bisogna andare in quella Siena dove l'8 e il 9 febbraio scorsi si svolgono due convegni di orientamento decisamente opposto. Da una parte quello semi-deserto e d'impostazione chiaramente negazionista organizzato dal rettore per l'Università degli stranieri Tomaso Montanari in cui si avvalora l'ipotesi che l'istituzione del Giorno del Ricordo risponda ad un «uso politico della memoria» e sia frutto del «revanscismo fascista». Dall'altra quello, assai più equilibrato e qualificato, organizzato da Versari per conto del ministero e d'intesa con le «Associazioni degli esuli istriani fiumani e dalmati». Un convegno in cui settanta docenti e studenti di tutta la Toscana hanno ascoltato il parere di studiosi, storici e professori come Raoul Pupo, Gianni Oliva e Davide Rossi considerati vere autorità in tema di foibe ed esodo. Quel convegno, come gli altri organizzati in precedenza da Versari, rappresenta un'autentica stilettata al cuore per i negazionisti che ancora si annidano nelle sedi dell'Anpi e nella scuola italiana.
«Per i negazionisti, pronti a sfruttare l'ancora diffusa ignoranza sull'argomento, convegni come quello di Siena, a cui Versari ha presenziato personalmente, rappresentano un formidabile minaccia perché trasformano gli insegnanti in una catena di trasmissione della conoscenza capace, in seguito, di formare centinaia di studenti. Per questo Versari è finito nel mirino» - spiega a Il Giornale un docente presente all'incontro di Siena. Ma il lato più paradossale della vicenda è la scaltra ritirata del ministro dell'istruzione Patrizio Bianchi prontissimo a scaricare il proprio capo Dipartimento firmando una rettifica in cui sottolinea che «ogni dramma ha la sua specificità e non va confrontato con altri». Come dire che non tutti i morti sono uguali. E quelli delle foibe meno uguali di tutti gli altri.
Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria
Le Foibe come la Shoah: la circolare del ministero scatena la proteste. E Bianchi corregge. Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.
Il messaggio era stato inviato alle scuole e porta la firma di un capo dipartimento. Immediata reazione dell’Anpi e intervento del ministro: «Ogni dramma ha la sua unicità».
«La categoria umana che si voleva “piegare e culturalmente nullificare” era quella degli italiani. Poco tempo prima era accaduto alla “categoria” degli ebrei». Così scrive il capo gabinetto del ministero dell’Istruzione Stefano Versari in una circolare dedicata alle Foibe nel giorno del ricordo. E in poche ore quello che voleva essere un documento contro tutte le discriminazioni si trasforma in uno strumento di potenziale scontro. Con il ministro dell’Istruzione stesso, Patrizio Bianchi, costretto a rettificare: «Ogni dramma ha la sua specificità, e non va confrontato con altri, con il rischio di generare altro dolore», scrive Bianchi in un comunicato ufficiale dopo aver telefonato alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, e al presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi), Gianfranco Pagliarulo, ricordando che il ministro e il ministero sono da sempre fortemente impegnati, e continueranno a esserlo, nella memoria della Shoah.
Ma intanto il caso intorno al «giorno del ricordo», dedicato alla tragedia degli italiani uccisi nelle foibe e degli abitanti di Istria e Dalmazia costretti a lasciare le loro terre, era montato. Con l’Associazione nazionale partigiani che chiedeva «lumi» al ministero («Italiani come ebrei? Storicamente aberrante e inaccettabile») e le critiche dei partiti di centro sinistra. Per Federico Fornaro, capogruppo di Leu alla Camera, la circolare «è un obbrobrio storiografico e didattico. Alimentare una sorta di parificazione tra la Shoah e le Foibe è sbagliato sotto ogni profilo e sottovaluta in maniera inaccettabile le differenze profonde tra il genocidio degli ebrei e la tragica vicenda degli infoibati».
Anche il M5S boccia la circolare del Ministero dell’istruzione perché «induce in errore ed è frutto di evidente mancanza di conoscenza storica. Inoltre strizza l’occhio alla destra estrema e radicale che spesso si è avventurata nell’ardito tentativo di creare - per ragioni di propaganda - un parallelismo tra il genocidio degli ebrei e i massacri avvenuti sul confine orientale durante e alla fine della Seconda guerra mondiale».
Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra italiana, sottolinea invece che «di fronte al massacro delle Foibe e all’esodo di migliaia di vicini, frutto di un nazionalismo malato e della tragedia della guerra, serve rispetto, memoria, rigore storico. Ogni anno si ripete il solito copione della destra di questo Paese di equiparare questo massacro all’unicità della tragedia della Shoah, come se cosi si potessero edulcorare i crimini del fascismo e del nazismo in un indistinto calderone. Un’operazione cinica e strumentale che non c’entra nulla con il rispetto del dolore e con la verità storica».
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sottolinea: «Da persona che ha studiato tanto la guerra dei Balcani degli anni Novanta, dico poi che non si possono mettere nella stessa frase 6 milioni di ebrei e 8 mila musulmani». E sulla polemica politica che si apre annualmente in occasione del Giorno del Ricordo, osserva che «il risultato finale è quello di introdurre sempre paragoni o stabilire criteri di gravità maggiore o minore. Ma quando si fanno comparazioni del genere si compie un errore in origine».
Il portale dell’Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane), Moked.it, parla di circolare «sconcertante» rimarcando come, fermo restando il dovere di opporsi a ogni barbarie...cadere in grossolane mistificazioni» rischia «di vanificare il lungo e paziente lavoro sulla Memoria condotto anche grazie all’impegno dello stesso Ministero».
Mattarella: “Le foibe crimine orribile”. Polemiche per il paragone con la Shoah. Matteo Pucciarelli su La Repubblica l'11 febbraio 2022.
Protestano Anpi e Ucei per la circolare del ministero alle scuole. Lite anche sul seminario di Montanari
"Il Giorno del ricordo richiama la Repubblica al raccoglimento e alla solidarietà con i familiari e i discendenti di quanti vennero uccisi con crudeltà e gettati nelle foibe, degli italiani strappati alle loro case e costretti all'esodo, di tutti coloro che al confine orientale dovettero pagare i costi umani più alti agli orrori della Seconda guerra mondiale", è cominciato così il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la ricorrenza in memoria delle foibe, una tragedia seguita alla "sciagurata guerra voluta dal fascismo e l'occupazione nazista" e che per migliaia di italiani significò subire "ostilità, repressione, terrore, esecuzioni sommarie, aggravando l'orribile succedersi di crimini contro l'umanità di cui è testimone il Novecento".
10 FEBBRAIO, IL GIORNO DEL RICORDO. Sostituzione nazionale ma non genocidio: ecco che cosa sono state davvero le foibe. GIANNI CUPERLO su Il Domani il 07 febbraio 2022
La legge che ha istituito il Giorno del ricordo è stata votata a fine marzo del 2004 per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Nell’eterno uso strumentale della tragedia, la tesi estrema è che le foibe sono state la prima tappa di un disegno di eliminazione violenta della presenza italiana nella penisola, destinata a divenire parte della Jugoslavia comunista.
Sappiamo oggi che non era così e che il punto stava di nuovo nella volontà di una “sostituzione nazionale”, concetto distinto e diverso dal genocidio.
GIANNI CUPERLO. Deputato del Partito Democratico dal 2006 al 2018, attualmente è membro della Direzione Nazionale del partito. È stato l'ultimo segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana e il primo della Sinistra giovanile.
L’INCOMPARABILE PARAGONE TRA LA SHOAH E LE FOIBE. La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato. RAOUL PUPO Il Domani il 21 Gennaio 2022.
La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le Foibe. In alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.
Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.
RAOUL PUPO. Storico. Professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste. Tra le sue ultime pubblicazioni: Fiume città di passione (Laterza, 2018), Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (Laterza, 2021), Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio (ediz. aggiornata, Rizzoli, 2022).
Il dopoguerra del confine orientale: fra tensioni internazionali e scontri locali. FEDERICO TENCA MONTINI su Il Domani l'8 Febbraio 2022.
La fine della Seconda guerra mondiale, con il corollario di persecuzioni politiche che assurge a rilevanza nazionale ogni 10 febbraio, non rappresentò soltanto il momento più avanzato della riscossa nazionale jugoslava, ma anche l’inizio della “questione di Trieste”.
Il generale Tito cedette e acconsentì alla spartizione del territorio conteso, la Venezia Giulia, in corrispondenza della linea tracciata dal generale William Duthie Morgan su una mappa, e che da lui prese il nome.
La situazione rimase in stallo per anni, finché il nuovo presidente americano Dwight D. Eisenhower annunciò la cessazione del Territorio libero di Trieste e avvenne la spartizione tra Italia e Jugoslavia.
Mirella Serri per “la Repubblica” il 10 febbraio 2022.
Divise dei deportati nei campi di concentramento stese a terra. L'esposizione della stella di David con sopra applicata la scritta «No Green Pass»: esibizioni simili a quelle di Perugia si sono verificate a Sesto Fiorentino e a Belluno, sempre per equiparare il Green Pass alle leggi razziali. Questo è accaduto nel Giorno della memoria.
Ma solo poco tempo fa a stabilire un'analogia tra i provvedimenti anti-Covid e le leggi naziste è stato un assessore leghista con un post su Facebook (poi ritirato). I primi a lanciare uno sconvolgente richiamo all'equivalenza tra la normativa riguardante l'emergenza sanitaria e le leggi liberticide di Hitler e Mussolini erano stati, invece, gli ultrà di Novara che hanno sfilato con casacche a strisce e filo spinato e proclamando «Noi come gli ebrei ad Auschwitz».
Da allora si sono moltiplicati i messaggi che suggeriscono un parallelismo tra la nostra democrazia, il nazismo e il fascismo. Il popolo dei No Vax e dei No Green Pass cerca di accreditarsi sia come l'erede delle vittime dei lager sia dei partigiani. La similitudine con il passato ha suscitato proteste ma a volte viene sottovalutata, stimata un vaneggiamento o un eccesso di folklore.
E a questo punto è lecito chiedersi: queste analogie con i prigionieri dei lager o con partigiani- eroi stabilite dal popolo dei No Vax in rivolta, oltre a essere una mancanza di rispetto verso la memoria delle vittime e dei martiri, non finiscono per incentivare sia le ragioni di coloro che sono restii a vaccinarsi ma anche forme di antisemitismo che banalizza e minimizza la Shoah, restituendocela come una dei tanti tipi di persecuzioni del secolo passato?
Non dimentichiamo che una sia pur minoritaria parte dell'intellighenzia, degli scienziati e dei politici sta svolgendo un ruolo importante nelle varie forme di "resistenza" alle leggi anti-Covid, offrendo, a volte magari con le migliori intenzioni, supporti ideologici e culturali determinanti all'autolegittimazione del popolo No Vax.
Questo popolo ha una sua cultura e la somiglianza con gli anni Trenta del Novecento non è poi così bislacca. Solo che ha una valenza del tutto opposta a quella suggerita dalle piazze e dai "pensatori" antivaccini. Spesso si dimentica che a giustificare e ad accompagnare l'edificazione dei lager nei territori del Reich, e l'emanazione delle leggi razziali in Italia, non furono solo i politici ma anche un esteso ceto intellettuale, pronto a dare credibilità e a far diventare patrimonio collettivo le leggi varate «per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio» (parole di Himmler nel 1933, all'apertura del campo di concentramento di Dachau).
Un discreto numero di medici, filosofi, docenti, antropologi e psichiatri aderirono al totalitarismo in Germania, in opposizione al sapere e al potere delle élite e dei governi della socialdemocrazia tedesca e in nome di una scienza nuova e alternativa. Il loro nuovo referente era "la comunità del popolo" e la scienza si doveva rinnovare in polemica contro le accademie, i seminari, gli istituti e i centri di ricerca scientifici ufficiali del Reich. Il primo tema a essere studiato fu la prevenzione delle malattie ereditarie.
Venne declinato avallando esperimenti come quello della clinica di Hadamar, dove venne praticato il programma di eutanasia dei disabili fisici e mentali che anticipò e sperimentò le tecniche dello sterminio di massa praticate durante la Shoah. Un discorso analogo vale per l'Italia dove, dopo le leggi razziali, si misero al servizio del regime non tanto i migliori docenti - molti dei quali in quanto ebrei furono anzi costretti a emigrare - ma scienziati, filosofi e pensatori che cercarono di sistematizzare nuovi discutibilissimi studi per prevenire le infezioni che minacciavano il "corpo della nazione", come il virus ebraico.
La storia delle teste d'uovo che si muovono in sintonia con le pulsioni "popolari" affonda quindi le sue radici nel pensiero totalitario del Novecento. Oggi di certo non ci sono i "campi" né un fiorire di tesi sulle razze superiori e inferiori. Rimane però il fatto che un manipolo di intellettuali cerca di dare basi ideologiche e culturali alla diffidenza istintiva del "popolo" delle fake news contro le élite della politica e delle scienze, e dunque contro i vaccini.
Questa riappropriazione ideologica e culturale della parola contestatrice spiega l'aggressività e la violenza che i ribelli alle norme Covid manifestano nelle piazze e nei salotti tv. Si sentono messaggeri di un nuovo verbo scientifico, ancorché privo di evidenze. E delegittimano al contempo tutto il lavoro di anni per raccontare la terribile verità della Shoah e della persecuzione antisemita. Questi «induttori di morte», come ha ben detto Umberto Galimberti, falsificano la storia del razzismo e dell'antisemitismo.
Il Ministero dell'Istruzione sulle Foibe: "Italiani come gli ebrei". Scoppia la bufera su Bianchi. Il Tempo il 10 febbraio 2022.
Un paragone azzardato e la polemica inevitabile che scatta. Fa discutere la frase scritta in un documento proveniente dal Ministero dell'Istruzione in cui si associa la persecuzione degli ebrei a quella degli italiani in Istria e Dalmazia. «Narrare la storia consente che accadimenti che hanno sconvolto intere popolazioni divengano fondamento delle comunità umane successive. Ma quale storia? Non si tratta - suggerisce Bauman - di sacralizzare, da un lato, o banalizzare, dall’altro, le deportazioni, gli orrori, i genocidi. Non se ne riduce in tal modo il portato di violenza, perché si rischia di non comprenderne le radici. Il ’Giorno del Ricordò e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la "categoria" umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana». È quanto si legge in un passaggio della circolare inviata da Stefano Versari, Capo Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’Istruzione ai Dirigenti e ai Coordinatori didattici delle Istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione.
Nel documento, inviato con oggetto «10 febbraio 2022 "Giorno del Ricordo - Opportunità di apprendimento», il Ministero intendeva promuovere ai dirigenti scolastici le iniziative predisposte in collaborazione con le Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati «per la conoscenza storica e la riflessione critica delle complesse vicende del confine». Si legge: «...Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla »categoria« degli ebrei. Con una atroce volontà di annientamento, mai sperimentata prima nella storia dell’umanità. Pochi decenni prima ancora era toccato alla »categoria« degli Armeni. Eppoi? Sempre vicino a noi, negli anni novanta, vittima è stata la "categoria" dei mussulmani di Srebrenica… Non serve proseguire. Allo sconvolgimento e all’empatia per le vittime deve dunque associarsi il tentativo di riflettere sugli effetti della riduzione etica delle persone umane a "categorie", perciò stesse disumanizzate.... ».
Il caso ha scatenato varie reazioni politiche e costretto il ministro Bianchi a chiarire. «La circolare sulla giornata del Ricordo del Ministero della Pubblica Istruzione, firmata dal capo dipartimento Stefano Versari è un obbrobrio storiografico e didattico. Alimentare una sorta di parificazione tra la Shoah e le Foibe è sbagliato sotto ogni profilo e sottovaluta in maniera inaccettabile le differenze profonde tra il genocidio degli ebrei e la tragica vicenda degli infoibati. Ci attendiamo che il Ministro Bianchi assuma i provvedimenti necessari affinchè dal Ministero non escano più simili circolari» afferma ad esempio il capogruppo di Liberi e Uguali alla Camera, Federico Fornaro,
Poche ore dopo la circolare discussa, Bianchi ha pubblicato un comunicato ufficiale in cui ha rettificato quanto accaduto: «Ogni dramma ha la sua unicità, va ricordato nella sua specificità e non va confrontato con altri, con il rischio di generare altro dolore». Così il Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, in merito alla nota amministrativa emanata dal Dipartimento per l’Istruzione in occasione del “Giorno del Ricordo”. Il Ministro ha telefonato alla Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, e al Presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, Gianfranco Pagliarulo, ricordando che il Ministro e il Ministero sono da sempre fortemente impegnati, e continueranno a esserlo, nella memoria della Shoah. Oggi pomeriggio il Ministro sarà in aula, al Senato, per celebrare con le scuole il “Giorno del Ricordo”».
(AGI il 10 febbraio 2022) "In risposta al post sull'account Twitter del Tg2 che annuncia lo Speciale sulle Foibe, accanto ad altri commenti offensivi è stato addirittura postato uno sgradevole video nel quale si intravede una persona che urina verso una cavità carsica che sembra essere una Foiba".
Lo dichiara il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano che annuncia una querela al riguardo: "Si tratta di un gesto volgare che offende non solo il nostro lavoro ma soprattutto la memoria di questa immane tragedia nazionale". "La memoria delle Foibe - ha aggiunto Sangiuliano - dopo un lungo oblio, è diventata memoria condivisa. Questo è un valore dell'identità comune. Noi non ci lasceremo intimidire e continueremo a raccontare con scrupolo e dedizione alla verità il dramma delle Foibe e degli esuli".
Foibe, oltraggiato il post del Tg2. Sangiuliano annuncia querele. Il Tempo il 10 febbraio 2022.
In risposta al post sull’account Twitter del Tg2 che annuncia lo Speciale sulle Foibe, accanto ad altri commenti offensivi è stato addirittura postato uno sgradevole video nel quale si intravede una persona che urina verso una cavità carsica che sembra essere una Foiba. Lo dichiara il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano che annuncia una querela al riguardo. «Si tratta di un gesto volgare che offende non solo il nostro lavoro ma soprattutto la memoria di questa immane tragedia nazionale». Sangiuliano ha aggiunto: «La memoria delle Foibe, dopo un lungo oblio, è diventata memoria condivisa. Questo è un valore dell’identità comune. Noi non ci lasceremo intimidire e continueremo a raccontare con scrupolo e dedizione alla verità il dramma delle Foibe e degli esuli».
Foibe, lo striscione della vergogna e quella medaglia a Tito. Giorgia Meloni all'attacco. Il Tempo il 10 febbraio 2022.
Denunciare per non dimenticare. Giorgia Meloni si attiva su Twitter nel Giorno del Ricordo. «Assurdo che tutt’oggi un massacratore di italiani sia insignito di una tale onorificenza. Fdi ha presentato da tempo una proposta per mettere fine a questa vergogna. Le vittime delle Foibe meritano Rispetto e Giustizia: revocare subito la medaglia della Repubblica Italiana a Tito» scrive la leader di Fratelli d'Italia.
Poco prima la Meloni aveva denunciato lo striscione comparso a Senigallia sulle Foibe. «Senigallia, presidente Consiglio comunale trova il suo ufficio sbarrato da questo striscione. È triste che esistano ancora frange estreme della sinistra italiana che rimpiangono o negano gli orrori del comunismo. Ma non riusciranno più a cancellare pagine di storia» si legge nell'altro tweet della leader di Fratelli d’Italia, che posta la foto dello striscione con questa scritta: «Le foibe sono piene di bugie fasciste»
Tuscia: negazionisti delle foibe in cerca d’autore. Silvano Olmi l'8 Aprile 2022 su Culturaidentita.it.
Eric Gobetti a Viterbo? Ma anche no, ci sarebbe da rispondere. Il noto scrittore, che si autodefinisce “storico”, è l’autore di un libriccino nel quale racconta in maniera alquanto “originale” la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo di 350mila italiani dal confine orientale d’Italia.
Inoltre, lo “storico”, è noto al pubblico dei social per essersi fatto ritrarre vicino a bandiere comuniste slave e immagini di Tito, posare a favore di telecamera con il pugno chiuso e via discorrendo. Un attaccamento al mito del partigiano slavo e del cosiddetto esercito di liberazione jugoslavo, che lo hanno evidentemente spinto a pubblicare il suo libricino. Una sorta di “bignami”, pubblicato da una casa editrice della quale ricordiamo ben altri titoli e autori.
Ad organizzare la sua venuta nel capoluogo della Tuscia è l’Anpi. L’associazione dei partigiani viterbesi ha allestito una mostra documentaria, che sarà curioso andare a visitare, e organizzato un convegno con il Gobetti.
Inoltre, il programma prevede un’assemblea nell’istituto scolastico magistrale “Santa Rosa” di Viterbo e per non farsi mancare niente, una puntatina nella vicina Soriano nel Cimino.
Insomma, una presenza di peso. Capiamo l’Anpi e i vari personaggi della sinistra. Ormai orfani dei punti di riferimento storico, sballottati tra distinguo e precisazioni sulla guerra Ucraino-Russa (l’altro giorno il presidente dell’Anpi di Tarquinia si è dimesso in polemica con le posizioni prese dall’associazione partigianesca a livello nazionale mentre il Comitato 10 Febbraio, insieme al Modavi, portava 15 tonnellate di aiuti umanitari ai profughi ucraini), non trovano di meglio da fare che attaccarsi alla sempre utilizzabile “memoria storica” resistenziale.
Inoltre, l’operazione si svolge a poche settimane dal 25 aprile. Ma a Viterbo in pochi si sono sbracciati contro questa iniziativa dell’Anpi. Infatti, la città e i politici locali sono impegnati nel comporre le liste dei candidati in vista delle elezioni comunali di giugno prossimo. Se non fosse stato per CasaPound, che ha sollevato un polverone sulla vicenda, con un comunicato stampa al fulmicotone e striscioni appesi ovunque in città, ben pochi si sarebbero accorti dell’evento.
L’Anpi, per bocca del suo esponente di punta, l’avvocato Mezzetti, ha annunciato la presentazione di denunce contro CasaPound contenenti una serie di ipotesi di reato.
L’iniziativa dell’Anpi arriva in una città, Viterbo, che da sempre è sensibile al ricordo dei martiri delle foibe. Inoltre, la Tuscia ha ospitato molti esuli che in questa terra hanno studiato, lavorato e messo su famiglia. Scapparono dalle loro case per sfuggire al terrore comunista e alla morte nelle foibe e non perché colpiti da una “sorta di psicosi collettiva” sempre per citare Eric Gobetti.
A Viterbo il Comitato 10 Febbraio, presieduto da Maurizio Federici, in occasione del Giorno del Ricordo da anni organizza un corteo patriottico con 500 partecipanti che attraversa la città e termina in piazza Martiri delle Foibe istriane. Lì sorge una stele che ricorda Carlo Celestini, uno dei 15 martiri nati a Viterbo e nei comuni della Tuscia che morirono nelle foibe, trucidati a guerra finita o morti di stenti e malattie nei campi di sterminio jugoslavi.
Inoltre, la cosa non è di poco conto, a Viterbo nel 2018 è nata la manifestazione “Una Rosa per Norma Cossetto”, che si è estesa rapidamente in tutta Italia e il 4 e 5 ottobre 2021 ha coinvolto ben 184 città in tutta Italia e anche all’estero.
Nel frattempo, il neo eletto presidente della provincia di Viterbo, Alessandro Romoli (Forza Italia), informato della questione ha voluto vederci chiaro e sta approfondendo il tema della mostra e le posizioni di cui è portatore lo “storico” Gobetti.
Potrebbero esserci delle clamorose novità nei prossimi giorni, come il ritiro del patrocinio e della sala provinciale. Anche perché Romoli è molto sensibile a quanto disposto dalla legge 92 del 2004 con la quale è stato istituito il Giorno del Ricordo. Quest’anno, a pochi giorni dalla sua elezione a presidente, era in prima fila in occasione delle celebrazioni del 10 febbraio.
Inoltre, Romoli è anche Sindaco di Bassano in Teverina dove, nel 2019, fece costruire una stele in ricordo di un suo concittadino, Giovanni Ricci, un finanziere catturato dai comunisti slavi e costretto a lavorare in condizioni di schiavitù nella miniera di Bor, in Serbia, dove trovò la morte per il crollo della volta della caverna a guerra finita, nel luglio 1946. La fidanzata attese inutilmente il ritorno di Giovanni. Affranta dal dolore non volle rimanere in paese e scelse di emigrare negli Stati Uniti.
Finalmente sulle foibe anche dalla sinistra arrivano parole riconciliazione nazionale. Francesco Storace su Il Tempo l'11 febbraio 2022.
Era cominciata peggio. La Giornata dedicata ai martiri delle foibe ha invece offerto - aldilà di singoli episodi - un panorama politico pacificato. Almeno nella sua rappresentanza ufficiale. Non tutti sono faziosi come il rettore dell'università per stranieri di Siena, Montanari. La ricorrenza di un massacro nazionale ha trovato parole di ricordo sincero in molti esponenti politici. Certo, quella memoria resta sempre viva in chi, assieme a Roberto Menia, porta con sé la bandiera di quella legge che nel 2004 rese onori formali alla tragedia. Silvio Berlusconi come Giorgia Meloni e Matteo Salvini si sono ritrovati nella commemorazione degli italiani assassinati per ordine del maresciallo slavo Tito. Ma la notizia viene anche da chi stavolta, da sinistra, non è voluto mancare ad un atto di memoria condivisa. A partire da Enrico Letta, segretario del Pd, che ha vergato una frase su twitter che ha spiazzato molti estremisti: «Oggi il Paese tutto si unisca in una partecipazione corale alla giornata del ricordo». Questa semplice espressione è stata sufficiente, però, per beccarsi una valanga di insulti da chi non gradisce la riconciliazione attorno ad una storia comune. Al punto da ricevere la solidarietà della Meloni per gli attacchi che gli sono stati mossi.
Anche altri importanti esponenti della sinistra non hanno voluto far mancare la loro partecipazione. Nicola Zingaretti, presidente del Lazio, anche se non si può certo dire che per lui sia la prima volta. Ogni anno il governatore non manca di essere presente con civiltà alla Giornata del Ricordo: «Oggi, 10 febbraio, è il Giorno del Ricordo. Non dobbiamo dimenticare le Foibe, la tragedia degli istriani, dei fiumani, dei dalmati e di tutti coloro che vennero perseguitati e uccisi». Sempre a Roma, il sindaco Roberto Gualtieri ha deposto una corona all'Altare della Patria. Gualtieri, accompagnato da Donatella Schurzel, vicepresidente nazionale dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, durante la cerimonia ha reso omaggio ai familiari e ai rappresentanti delle associazioni delle vittime, tra i quali Marino Micich della Società di studi fiumani. Presenti anche rappresentanti istituzionali, tra i quali il consigliere di Fratelli d'Italia in Campidoglio, Andrea De Priamo.
In generale c'è stata anche una forte solidarietà al Tg2 per il grave episodio denunciato dal direttore Gennaro Sangiuliano. In risposta al post sull'account Twitter del Tg2 che annunciava lo Speciale sulle Foibe, accanto ad altri commenti offensivi è stato addirittura postato uno sgradevole video nel quale si intravede una persona che urina verso una cavità carsica che sembra essere una Foiba. Per Sangiuliano - e per i tantissimi che hanno manifestato solidarietà a lui e alla sua testata - «si tratta di un gesto volgare che offende non solo il nostro lavoro ma soprattutto la memoria di questa immane tragedia nazionale».
Su Rai2 "Tg2 Dossier". Foibe, a un passo dalla verità. Da rai.it/ufficiostampa il 6 febbraio 2021.
Per decenni la strage di italiani ad opera delle milizie comuniste di Tito è rimasta una verità nascosta e ignorata. Migliaia di goriziani, triestini e istriani deportati e mai tornati a casa. “Tg2 Dossier”, sabato 6 febbraio alle 23.30 e in replica domenica 7 alle 10.05 sempre su Rai2, racconterà, attraverso documenti inediti e testimonianze esclusive, come questa verità attesa disperatamente dalle famiglie dei deportati giaceva ben custodita negli archivi dove uno storico indipendente ha ritrovato il 'Rapporto Santini' contente la mappa delle foibe e delle fosse comuni in cui sarebbero stati trucidati i goriziani e i triestini rapiti dalle bande di Tito. Il 'Rapporto Santini' sarà presentato per la prima volta in esclusiva nel Dossier curato da Andrea Romoli. Assieme a questi documenti inediti le testimonianze dei familiari delle vittime ma anche degli storici italiani e sloveni che negli ultimi anni stanno lavorando per rendere verità e giustizia a quella che è stata una grande tragedia europea.
Foibe, "urina sui cadaveri". Gennaro Sangiuliano denuncia l'orrore: video dell'orrore contro il Tg2. Libero Quotidiano il 10 febbraio 2022.
In Italia c'è "ridimensiona" il dramma delle Foibe, vedi Tomaso Montanari, e chi si prende il lusso di umiliare vittime e discendenti della brutale repressione titani in Istria e Dalmazia direttamente "urinando" nelle cavità carsiche teatro di una delle grandi atrocità della Seconda Guerra mondiale a lungo rimosse dalla storiografia ufficiale.
Il gesto osceno è ripreso da un video pubblicato a commento di un post su Twiter del Tg2, per annunciare il proprio speciale proprio sulla sanguinaria repressione dei comunisti jugoslavi nel 1945, contro gli italiani del confine nord-orientale ritenuti genericamente "fascisti" ed eliminati con spietatezza scientifica. Urinare sulle Foibe, di fatto, equivale urinare sui cadaveri di chi lì è stato gettato, spesso ancora vivo, al tempo stesso per "cancellarlo" dalla faccia della terra e disprezzarne la carne e le origini italiane.
Anche per questo la provocazione social (se così si può si chiamare questo sfregio) fa ancora più male. E il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, da sempre in prima fila nel ricordare lo scempio titino e condannare le "dimenticanze" di molti storici di sinistra, è durissimo annuncia una querela. "Si tratta di un gesto volgare che offende non solo il nostro lavoro ma soprattutto la memoria di questa immane tragedia nazionale". "La memoria delle Foibe - prosegue il direttore -, dopo un lungo oblio, è diventata memoria condivisa. Questo è un valore dell’identità comune. Noi non ci lasceremo intimidire e continueremo a raccontare con scrupolo e dedizione alla verità il dramma delle Foibe e degli esuli".
Tutto questo proprio nelle ore in cui si è scatenato un nuovo caso Montanari, rettore dell'Università per stranieri di Siena già finito qualche mese fa sul banco degli imputati per una sua minimizzazione del fenomeno storico. Stavolta sotto accusa un convegno dal titolo Us"L'università fa il suo mestiere, fa convegni scientifici. Solo nei paesi totalitari la politica giudica la scienza". E' la replica raccolta dall'AdnKronos di Tomaso MONTANARI, rettore dell'Università per Stranieri di Siena, alle critiche che gli sono piovute addosso per aver organizzato il convegno intitolato Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi dei Giorno del Ricordo. "L'università fa il suo mestiere, fa convegni scientifici - si difende lo storico dell'arte -. Solo nei paesi totalitari la politica giudica la scienza".
I fomentatori d'odio non si arrendono: insulti e oscenità contro il Ricordo. Gian Micalessin l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Colpito anche l'account twitter del Tg2. Berlusconi: "L'unica colpa? Essere italiani".
«È un impegno di civiltà conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli istriani, dei fiumani, dei dalmati e degli altri italiani che avevano radici in quelle terre, così ricche di cultura e storia e così macchiate di sangue innocente». Le parole del presidente Sergio Mattarella, pronunciate ieri in occasione del Giorno del Ricordo sembrano fatte apposta per seppellire i richiami al negazionismo. E per liquidare, implicitamente, l'«inciviltà» di personaggi come Tomaso Montanari, il rettore dell'Università per Stranieri di Siena organizzatore di un convegno rivolto a dimostrare come l'istituzione del Giorno del Ricordo risponda ad un «uso politico della memoria» frutto del «revanscismo fascista».
Tesi contraddette anche dal presidente della Camera Roberto Fico che, nonostante le simpatia di sinistra, liquida come inaccettabili «le tesi negazioniste». «In nessun caso - dichiara Fico - possono infatti ritenersi ammissibili motivazioni o compromessi ideologici volti a legittimare la violazione della dignità dell'uomo o a ridimensionare le gravi responsabilità storiche che hanno portato ad eventi così drammatici». Il presidente della Camera sottolinea, inoltre, l'importanza del Giorno del Ricordo per restituire «verità e dignità alle vittime delle foibe ed a tutti gli esuli». Il presidente del Consiglio Mario Draghi, intervenuto al Senato, rimarca la necessità del «cammino di riconciliazione» rendendo omaggio «a tutte le vittime di quegli anni, italiane e slave».
Un tema richiamato anche dal presidente della Lega nazionale di Trieste Paolo Sardos Albertini rammentando che la tragedia delle foibe «se ricordata bene diventa motivo di unità per il futuro non di divisione». Silvio Berlusconi commemora con un tweet «le vittime delle Foibe, condannate a una morte atroce per la sola colpa di essere italiani» e sottolinea come l'istituzione del Giorno del Ricordo rappresenti «anche un monito sulle tragiche conseguenze dell'ideologia comunista e del nazionalismo esasperato».
Ma sullo sfondo delle dichiarazioni di autorità e politici si registrano, anche quest'anno, i consueti oltraggi alla memoria. A Senigallia uno striscione con la scritta «le foibe sono piene di bugie fasciste» è stato steso all'entrata Consiglio comunale dove si dovevano tenere le celebrazioni per le vittime degli eccidi commessi sul confine orientale. Un episodio denunciato da Giorgia Meloni con un tweet in cui definisce «triste» la sopravvivenza di «frange estreme della sinistra italiana che rimpiangono o negano gli orrori del comunismo. Ma - aggiunge - non riusciranno più a cancellare pagine di storia». La leader di Fdi non manca però di esprimere solidarietà a Enrico Letta «per i vili attacchi ricevuti dopo aver commemorato il Giorno del Ricordo» ricordando che Fratelli d'Italia sostiene «la risoluzione europea contro tutti i totalitarismi del 900».
Imbrattata e deturpata con scritte e spruzzi di vernice anche la targa dedicata ai martiri delle foibe presso il 14mo municipio di Roma. Il direttore del Tg 2 Gennaro Sangiuliano denuncia invece il video di «una persona che urina verso una cavità carsica che sembra una foiba» postato sull'account Twitter in cui si annunciava appunto lo Speciale sulle Foibe di ieri sera. «Un gesto volgare - dichiara Sangiuliano - che offende non solo il nostro lavoro, ma soprattutto la memoria di questa immane tragedia nazionale».
Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.
Gli storici non cadono nella trappola rossa: "Tragedia figlia della violenza comunista". Matteo Sacchi l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Per Giuseppe Parlato l'errore è "non citare la componente ideologica". Gianni Oliva: "Dopo decenni di silenzio insensato cavillare su tutto".
Niente da fare, c'è chi sul Giorno del Ricordo proprio non riesce ad evitare la polemica. Questa volta a scatenarla è stata una circolare del Ministero dell'Istruzione per le iniziative per tramandare la memoria dell'Esodo istriano e dalmata e i massacri delle foibe. La frase ministeriale, a firma del capo dipartimento Stefano Versari, che ha fatto adirare a sinistra è stata: «Il Giorno del Ricordo e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la categoria umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana. Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla categoria degli ebrei. Con una atroce volontà di annientamento, mai sperimentata prima nella storia dell'umanità. Pochi decenni prima ancora era toccato alla categoria degli Armeni». Per l'Anpi il paragone con la Shoah (che per altro il testo ministeriale non fa, visto che sottolinea l'unicità nella storia dell'Olocausto) è aberrante. Giudizi duri anche da Leu e Sinistra italiana.
Abbiamo provato a sentire alcuni storici sul tema, come il professor Giuseppe Parlato. Che, in effetti, sulla circolare ha qualcosa da dire ma non esattamente nello stesso senso dell'Anpi. «C'è stata una componente etnica, nelle foibe, e nel conseguente esodo. C'era una componente etnica di epurazione verso gli italiani in quelle zone dove erano classe dirigente. Però quello che bisogna dire è che c'era una fortissima componente ideologica comunista. Si voleva eliminare, o far scappare, tutti coloro che potevano ostacolare l'instaurazione di uno Stato nuovo, totalitario. Infatti sono stati uccisi anche molti sloveni e croati. Quindi, sarebbe bene spiegare che le componenti sono state tre, etnica, ideologica, e di guerra nazionale. Il rischio di paragonare questi fatti con altri genocidi è quello di fare una marmellata, anche se con buone intenzioni. Evitare paragoni non deve essere un modo di sminuire la gravità dei fatti. La gravità si evidenzia spiegando bene la componente ideologica». Certo se il ministero avesse però battuto sul quel tasto chissà quale sarebbe stato il tenore di certe reazioni. Ma su questo, ovviamente, Parlato non si pronuncia: «Io guardo la cosa solo dal punto di vista della storia: su quello che è successo al Confine orientale ciò che conta è raccontare esattamente i fatti, da poco sono state scoperte nuove foibe piene di sloveni, croati e anche italiani. Non so su questo cosa potranno inventarsi i negazionisti, ma di certo bisogna prendere atto che la componente ideologica domina, moriva chi non era comunista».
Gianni Oliva: «Ho appena incontrato Versari a un convegno sulle foibe a Siena. Gli ho sentito dire cose condivisibili. Certo non c'è solo una componente etnica nelle violenze, ce ne è una anche ideologica. Ma non mi pare che abbia mai inteso fare una comparazione con la Shoah non è quello il senso. Forse sarebbe servita qualche precisazione in più e sarebbe meglio non riassumere temi complessi nelle circolari...». Però per lo storico torinese autore (tra altri saggi) di Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria (Mondadori, 2002): «Si dovrebbe partire dal prendere atto che la cosa importante è che del tema si parli. Quando io nel 1975 ho iniziato a insegnare di foibe non parlavo. Perché mi ero laureato senza praticamente saperne nulla. Ho scoperto il tema quando sono andato a studiare degli archivi Usa. I dati delle violenze erano registrati dagli ufficiali statunitensi e inglesi che erano una parte terza... Lì ho capito e ho iniziato ad occuparmene. Ora le statistiche dicono che l'85% degli italiani ha sentito almeno nominare la questione. È questo che conta, fare memoria, non si può continuare, da una parte e dall'altra, solo e soltanto a cercare di piantarci bandiere politiche, cercare la polemica».
Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini, in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco.
Ora revochiamo l'onorificenza al macellaio Tito. Fausto Biloslavo l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il 10 febbraio ricordiamo la tragedia delle foibe e il dramma dell'esodo, ma non abbiamo mai cancellato la più alta onorificenza italiana concessa a Josip Broz Tito.
Il 10 febbraio ricordiamo la tragedia delle foibe e il dramma dell'esodo, ma non abbiamo mai cancellato la più alta onorificenza italiana concessa a Josip Broz Tito, il capo degli aguzzini che massacrarono migliaia di connazionali costringendo alla fuga 350mila persone dall'Istria, Fiume e Dalmazia.
Il Giorno del Ricordo deve essere simbolo di pacificazione senza nascondere le colpe precedenti del regime fascista, ma è giunto il momento di cancellare la vergognosa medaglia. L'onorificenza campeggia sempre sul sito del Quirinale ricordando che il 2 ottobre 1969 il presidente jugoslavo, che aveva le mani sporche del sangue degli infoibati, veniva decorato come «Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana» con l'aggiunta del Gran Cordone, il più alto riconoscimento del nostro Paese. Il capo dello Stato di allora, Giuseppe Saragat, aveva consegnato a Belgrado, fra sorrisi, brindisi e abbracci, l'onorificenza in una custodia verde a un compiaciuto Tito. E mai nella prima visita in Jugoslavia dopo la guerra osò accennare anche lontanamente alle foibe e all'esodo preferendo alzare i calici «alle fortune dei popoli jugoslavi e all'amicizia fra i nostri Paesi». Tremenda realpolitik, ricambiata dalla visita di Tito a Roma un anno dopo, accolto come una star del socialismo reale distanziato da Mosca.
Dopo la storica immagine di Francesco Cossiga inginocchiato davanti alla foiba di Basovizza, gli omaggi dei capi di stato che sono seguiti al monumento nazionale sul Carso triestino e la mano nella mano di Sergio Mattarella con lo sloveno Borut Pahor dello scorso luglio è anacronistico, paradossale e oltraggioso non cancellare l'onorificenza a Tito. Ancor più a diciott'anni dall'istituzione del Giorno del Ricordo con il voto quasi unanime del Parlamento. Un insulto alle vittime delle foibe e discendenti, che in molti casi non hanno neanche una tomba dove deporre un fiore e agli esuli e loro figli. Un obiettivo che, almeno in teoria, dovrebbe essere condiviso in maniera bipartisan dalla politica, ma che viene sempre rispedito al mittente grazie a un cavillo legislativo. Si può togliere un'onorificenza per «indegnità» solo se il personaggio insignito è ancora in vita. Nel 2012 l'Italia lo ha fatto, giusto o sbagliato che sia, con il presidente Bashar al Assad, accusato di massacrare il suo popolo nella guerra civile in Siria. Per Tito, che sarà pur stato un grande leader della Jugoslavia, ma ha lanciato la pulizia etnica e politica contro gli italiani e una parte del suo popolo «non è ipotizzabile alcun procedimento essendo il medesimo deceduto» scriveva nel 2013 il prefetto di Belluno, a nome del governo. In Parlamento langue da tempo una proposta di legge di un paio di righe per cambiare la (folle) norma, che esalta Tito.
Se vogliamo onorare veramente i martiri delle foibe girando una volta per tutte questa triste pagina volutamente strappata della storia e guardare avanti, senza strumentalizzazioni, togliamo la medaglia della vergogna al boia degli italiani.
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
Convegno choc sulle Foibe: "Minata l'egemonia culturale antifascista". Giuseppe De Lorenzo il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.
A Siena il rettore Tomaso Montanari organizza il convegno dal titolo: "Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo".
Guai a dire che il convegno di ieri sulle Foibe fosse “negazionista”. Altrimenti Tomaso Montanari, rettore dell’Università di Siena e ospite apprezzato nel salotto di Lilli Gruber, è pronto a querelare. Dunque no: non diremo che il seminario intitolato “Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo” negasse il massacro titino: affermeremo però che è stato un fallimento sia in presenza (aula semivuota, si contavano una ventina di astanti) sia online (un migliaio di visualizzazioni). E diremo anche - se ci è permesso - che è stata un’inutile offesa ai familiari delle vittime dei partigiani di Tito. Una “esibizione provocatoria”, come scrive Aldo Grasso, fuori tempo e fuori luogo per quanto legittima. Il cui scopo non ci pare fosse né la verità storica sull’esodo istriano né il permettere un confronto sul tema. Ma solo un modo per rivendicare “l’egemonia culturale antifascista” incrinata dall'istituzione della Giornata del Ricordo.
Ha detto proprio così, Montanari: "Egemonia culturale antifascista", che peraltro fa il paio con quell'egemonia culturale della sinistra che il ministro Speranza intendeva "ricostruire" sfruttando "l'opportunità unica" della pandemia.
Ieri pomeriggio, dopo il politicamente corretto “buonasera a tutte e tutti” (almeno non ha usato lo schwa), il rettore ha sposato la linea del vittimismo ringraziando le forze dell’ordine schierate a difesa dell’evento. Per Montanari la presenza delle divise era "sufficiente” a giustificare il titolo del seminario sull'uso politico della memoria. Come a dire: i fascisti fanno leva sul Ricordo e rialzano la testa. Teoria che il rettore vede confermata in un aneddoto accaduto ad uno dei relatori: qualche tempo fa, nella fascistissima Verona, Eric Gobbetti avrebbe dovuto “tenere una lezione” e gli venne addirittura “proposto il contraddittorio con un giornalista”. Chiunque avrebbe applaudito all’idea, riconoscendo nella ricchezza del dibattito il sale della democrazia. Invece per Montanari sarebbe il sintomo di un sistema che vive “su Marte”, che non riconosce più la superiorità politica e culturale della sinistra antifa.
In fondo viviamo in un Paese in cui un manipolo di studenti e docenti di “quella parte”, sinceri democratici, impedì a papa Ratzinger di parlare alla Sapienza e al prof. Panebianco di tenere una lezione a Bologna. Dunque nessuna sorpresa. Ma forse è arrivato il momento di riconoscere che “l’autonomia della scuola e dell’Università” non è messa in pericolo da chi, sbagliando, continua a chiedere le dimissioni di Montanari. Ma da quei professori che usano il Giorno del Ricordo per erigersi ossessivamente a intellettuali di una sinistra "dura e pura".
Per carità, nel presentare il convegno il rettore ha ribadito il carattere accademico dell’evento. "L’Università non si schiera politicamente”, era il mantra, ma “l’antifascismo è premessa costituzionale e istituzionale non negoziabile”. E qui occorre mettersi d’accordo: di quale antifascismo parliamo? Perché se essere antifa significa fantasticare sul fatto che "il revanscismo fascista” starebbe “strumentalizzando le drammatiche vicende del confine orientale”, stiamo freschi. Se parliamo dell’antifascismo di chi vede ombre nere ovunque e muove tale accusa come una clava per delegittimare le posizioni del centrodestra, allora abbiamo un problema. Se si tratta dell’antifascismo di chi ritiene opportuno concentrarsi sui “moventi profondi e le implicazioni dell’istituzione del giorno del ricordo”, anziché sui crimini titini, allora ci sia consentito dissentire.
Oggi la “guerra della memoria” esiste infatti solo nella mente di Montanari e compagni. Qui non si tratta di equiparare shoah e foibe come se fosse una gara dell'orrore, tuttavia andrebbe riconosciuto che entrambe rappresentano il desiderio di morte, la volontà di cancellazione di una etnia, e per questo le loro vittime andrebbero celebrate allo stesso modo. Considerare a tutti i costi la Giornata del Ricordo una ricorrenza “di destra” è altrettanto deprecabile quanto farla esclusivamente propria. E soprattutto significa guardare il dito e non la luna: se il ricordo della foibe è stato per decenni appannaggio dei partiti di destra non lo si deve ad un sentimento identitario (visto che gli esuli istriani fascisti non erano), ma al colpevole silenzio dei movimenti di sinistra. O meglio al loro negazionismo: se è stata vissuta come ricorrenza “di parte”, l'errore è di chi non ha mai riconosciuto la brutale accoglienza riservata ai profughi dalmati colpevoli di abbandonare il “paradiso comunista”. E se oggi Nicola Zingaretti, Enrico Letta, il presidente della Repubblica, il premier e quasi tutti i leader democratici s’inchinano alla foiba di Basovizza, non è “colpa” del revanscismo fascista: ma merito della testardaggine di chi ha costretto la sinistra, dall’alto della sua “egemonia culturale antifascista”, ad aprire gli occhi su un orrore che per anni si era limitata a nascondere sotto il tappeto.
Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.
Chi è Tomaso Montanari, il fenomeno della sinistra radicale previsto da Pajetta. Michele Prospero su Il Riformista il 16 Febbraio 2022.
Intervistando il rettore di Siena, che si pronuncia su ogni cosa e passa dalla storia all’arte, dalla botanica alla giurisprudenza, dalle foibe alle banane, Luca Telese lo presenta come «uno degli ultimi intellettuali critici della sinistra italiana». Dopo aver ripercorso la giovanile formazione democratico-cristiana e le rivalità scolastiche con Renzi, che militava in un’altra corrente dello scudocrociato fiorentino, Montanari si pavoneggia oggi come l’interprete della sinistra più radicale che esibisce la bella verità contro un universo di politicanti erranti.
Quello che più ama fare il rettore è di immergersi nella vasta materia politico-costituzionale che per lui non possiede i paradigmi di un sapere speciale e anzi si presta ad essere un malleabile oggetto dell’opinare da scandagliare secondo illimitate licenze artistiche. Indispettito per la conferma di Mattarella (gli è stata per lo meno risparmiata l’investitura di Draghi, che per lui «avrebbe massacrato la Costituzione») il rettore si cimenta da par suo, e cioè in maniera liberamente artistica, nelle sottigliezze ermeneutiche del diritto costituzionale. «La Costituzione dice, a mio parere in modo chiaro: l’assemblea dei grandi elettori vota il nuovo presidente». La formula “il nuovo” capo dello Stato per Montanari implica che solo un “nuovo” corpo fisico al posto del vecchio non più proponibile potrebbe essere formalmente eletto dai “grandi elettori”.
Rapito dalle parole magiche del giureconsulto, che per giunta è anche intellettuale critico, Telese non ha l’ardire di chiedere se la sua novella dottrina comporti la necessità di interpretare anche l’articolo 61 («le elezioni delle nuove camere») come un formale impedimento al cumulo dei mandati parlamentari. Per sorreggere la sua sofisticata dottrina in merito alla dizione “nuovo” presente nella Costituzione osservata come opera d’arte Montanari non esita dinanzi all’impresa aggiuntiva di indicarne anche i sostrati storici che la legittimano in maniera inconfutabile. Rammenta, da originale scopritore della genealogia del diritto pubblico, al silente Telese: «Durante la Costituente Terracini spiegò chiaramente: con l’articolo 85 rieleggere il vecchio presidente sarà impossibile. Questa era la volontà, chiara». Più che da Terracini la visione più influente dei comunisti sulla rielezione fu illustrata sinteticamente da Togliatti.
Nella seduta del 21 gennaio 1947 Terracini ricordò i punti di dissenso tra i partiti in seno al comitato speciale della seconda commissione, che su certe materie si era conclusa con una perfetta parità nelle votazioni. Le controversie riguardavano l’integrazione dei parlamentari con i delegati regionali, ritenuta dalle sinistre come una scelta incompatibile con l’elezione dei senatori che già era calibrata su base regionale, la durata di 4 anni della presidenza, auspicata da Nitti, l’investitura diretta del capo dello Stato, che fu esclusa definitivamente da Perassi, la formulazione dell’articolo 81, nel quale il comitato di redazione suggeriva una carica quirinalizia dalla durata di 7 anni con un presidente non rieleggibile. Il senso del confronto che avvenne tra i padri della Repubblica è precisamente opposto a quello evocato dal rettore che abbraccia i lavori della costituente per strattonare la politica di oggi che avrebbe tradito i principi originari della Carta con la rielezione di Mattarella.
Lungi dall’essere sedotta dal divieto ultimativo di un nuovo settennato, la sinistra con Togliatti prese la parola per affermare: «la norma, come è stata formulata adesso, è troppo restrittiva. Per essere chiamati alla carica di Presidente della Repubblica occorrono qualità particolari e non si può escludere per sempre una persona già eletta». Il leader comunista non escludeva affatto la rielezione come principio costituzionale e apriva alla eventualità di prescrivere un intervallo temporale («Si potrebbe, se mai, prevedere la non rieleggibilità immediata per una volta»). Aldo Moro risolse in radice la questione escludendo il limite della non rieleggibilità immediata perché di fatto il rimedio appariva, alla luce della durata del mandato, come equivalente per così dire naturale al divieto della rieleggibilità, che invece non era in sé un principio da rigettare. Venne approvata pertanto la proposta di Tosato che parlava solo del settennato senza riferimento alcuno al divieto della rielezione.
L’orientamento della sinistra e della Dc non era affatto quello indicato dal rettore che assume la rielezione di Mattarella come pretesto per delegittimare la classe parlamentare, sorda rispetto al verbo costituente, e le politiche istituzionali degli ultimi dieci anni. Nel 1947 Egidio Tosato formulò anche dei principi costituzionali che mostrano tutta la loro fertilità nel valutare le dinamiche istituzionali odierne. Contro l’istanza di Nitti (presidenza di 4 anni) e le esortazioni al presidenzialismo americano (il costituente lo temeva non per il cesarismo, ma per la mancanza di un sistema bipartitico) Tosato sostenne che la durata lunga, “monarchica” alla francese, serviva a «soddisfare l’esigenza di una certa permanenza, di una certa continuità nell’esercizio delle pubbliche funzioni». Il capo dello Stato non ha né troppi né pochi poteri, dispone di quelli che servono per esercitare la delicata funzione «di essere il grande regolatore del gioco costituzionale, di avere questa funzione neutra, di assicurare che tutti gli organi costituzionali dello Stato, e, in particolare, il Governo e le Camere, funzionino secondo il piano costituzionale».
Napolitano e Mattarella hanno giocato al meglio questa funzione che Tosato chiamava di «grandi regolatori del gioco costituzionale», conservando la tenuta del sistema in condizioni di vuoto per la liquidità estrema del sistema politico. Tutto questo preoccuparsi per la stabilità di sistema non persuade però il costituzionalismo con la venatura artistica di Montanari che, indossando dopo quelli di storico delle costituzioni anche gli abiti dell’analista delle politiche pubbliche e di bilancio, bastona il governo che «dà soldi ai cannoni e li toglie agli ospedali». La colpa è tutta di Draghi, che avrebbe portato Salvini al governo (ma non era il vice di Conte?) e sarebbe più a destra di Berlusconi, e che per il 2024 taglierà le spese sanitarie (passando dal 7,3 al 6,3% del Pil) di ben 6 miliardi (rispetto ai 129 miliardi del 2021 che prevedono fondi straordinari per l’emergenza). Il rettore trascura che la cifra del Dpef è al netto di investimenti (i 20,2 miliardi previsti dal Recovery Fund), e che, letti i numeri in rapporto all’inflazione, alla crescita del Pil, la spesa reale, secondo alcuni analisti, crescerà del 2,8%.
Ma i dati reali sono evanescenti per il rettore che gioca anche brutti scherzi al vecchio principio di non contraddizione. Imputa a Draghi «la rinuncia a governare la pandemia» e rammenta che con il suo lassismo fortemente colpevole l’esecutivo «ha prodotto una impennata di morti. È stato un disastro». Ma subito dopo il rilievo circa un criminogeno cedimento del potere, che ha abdicato alla decisione in nome di sua maestà il mercato, rimprovera al governo una «ennesima proroga dello stato di eccezione» ovvero un recupero smisurato di sovranità e un eccesso di potere. Certo, dinanzi a uno degli ultimi intellettuali critici, Telese non trova le parole per riscontrare le enormità politiche di taluni affondi e soprattutto per evidenziare le insanabili contraddizioni logiche delle argomentazioni.
Con qualche punta di settarismo Pajetta diceva che a sinistra del Pci c’era solo il vuoto. Ora a sinistra del Pd, di Leu, c’è Montanari cantore nostalgico delle “pallide cose socialdemocratiche” del governo Conte (quello del miliardario superbonus edilizio?). Il metapartito democristiano veramente ha occupato ogni spazio immaginabile della politica e ovunque sventola bandiera bianca, dal Quirinale alle barricate senesi erette dall’ultimo intellettuale critico contro la repubblica delle banane. Michele Prospero
"Gli italiani nelle foibe sono come gli ebrei". E la sinistra insorge contro il ministero: un favore alla destra. Gian Micalessin l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.
In una circolare dell’Istruzione diretta alle scuole si equipara il dramma del confine orientale alla Shoah. L’Anpi: inaccettabile. Fiano (Pd): paragone sbagliato. Ma le stragi e la cacciata dei nostri erano state pianificate.
A sinistra le scuse e i pretesti per ridimensionare il Giorno del Ricordo, la tragedia delle foibe e il dramma dei trecentomila esuli italiani costretti ad abbandonare Istria, Fiume e Dalmazia non mancano mai. Ieri l'operazione di travisamento e mistificazione è partita dall'innocente circolare con cui il Capo dipartimento del ministero dell'Istruzione invitava le scuole italiane a non sottovalutare l'importanza di quella celebrazione. «Il Giorno del ricordo, e la conoscenza di quanto accaduto - recita il documento - possono aiutare a capire che la categoria umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella degli italiani. Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla categoria degli ebrei». Una frase scritta nel peggior linguaggio burocratico ed infarcita di termini come «nullificare» e «categoria umana» capaci di far inorridire insegnanti ed allievi. Ma non certo una frase degna della riprovazione morale sotto cui ha tentato di seppellirla un'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia) prontissima a denunciare una «storicamente aberrante e inaccettabile» equiparazione tra il genocidio degli ebrei e i massacri degli italiani. In verità l'unico difetto dell'«inaccettabile» equiparazione è quella di esser sproporzionata in termini numerici.
Ma visto che il confronto tra i 12mila infoibati a guerra finita sul confine orientale e i milioni di morti del genocidio non è esercizio propriamente elegante forse è meglio soffermarsi sulle analogie. La soluzione finale venne studiata a tavolino dai gerarchi nazisti per eliminare la presenza ebraica in un'Europa dominata dal Terzo Reich. L'eliminazione degli italiani in Istria, Fiume, Dalmazia, seguita dalla loro cacciata rispondeva ad un piano di pulizia etnica basata sul terrore e sull'eccidio di massa. Un piano ben spiegato da Milovan Gilas in un'intervista del 1991 a Panorama. «Era nostro compito - disse nell'intervista l'ex braccio destro di Tito - indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto».
Quindi dove sta l'inaccettabile e aberrante equiparazione? L'unica evidente travisamento sembra quello messo in piedi da un'Anpi, trasformata, dopo la scomparsa per motivi anagrafici dei veri partigiani, in un pensionato e uno «stipendificio» degli ultimi senescenti disoccupati di sinistra. L'organizzazione, già distintasi in passato per non aver impedito la cacciata delle rappresentanze ebraiche in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, non punta tanto a riaffermare l'unicità storica del genocidio, ma bensì ad azzerare la valenza celebrativa del Giorno del Ricordo. Una finalità emersa con evidenza negli anni scorsi quando diverse sedi dell'Anpi non si vergognarono di dedicare al tema delle foibe convegni palesemente «negazionisti» o riduzionisti. Tesi che dopo le tirate d'orecchie subite in sede istituzionale hanno lasciato il posto, come ieri, a prese di posizioni più ambigue e subdole. Tesi pronte ad esser cavalcate dal leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni secondo il quale «ogni anno si ripete il solito copione della destra di questo Paese di equiparare questo massacro all'unicità della tragedia della Shoah, come se cosi si potessero edulcorare i crimini del fascismo e del nazismo in un indistinto calderone». Anche secondo il M5S «la circolare induce in errore ed è frutto di evidente mancanza di conoscenza storica» e «strizza l'occhio alla destra estrema e radicale».
Affermazioni discutibili visto che la giornata del Ricordo non è patrimonio dei partiti di centrodestra - a cui va l'esclusivo merito di averla istituita - ma delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati protagoniste di quella tragedia. Una tragedia che quelle associazioni - condannate nel ghetto dell'oblio fino al 2005, quando venne finalmente istituito il Giorno del Ricordo - non hanno obiettivamente alcun interesse a confondere con la tragedia della Shoah. Anche perché facendolo finirebbero con il confondere le responsabilità evidenti del nazismo con quelle altrettanto chiare dei partigiani di Tito. Anche per questo risulta incomprensibile l'intervento dell'esponente del Pd Emanuele Fiano che pur sottolineando il «cordoglio che tutta l'Italia deve per l'orribile tragedia delle Foibe» denuncia come totalmente sbagliato il paragone del ministero dell'Istruzione. Forse dimenticando, nel giusto orgoglio per l'appartenenza a una famiglia di deportati ebrei, che seppur nella differenza dei fini, degli scopi e delle ideologie il vero abominio sottolineato e condannato dalla circolare è il terrore di massa e lo sterminio di popolazioni inermi.
Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.
IL QUARTIERE GIULIANO DALMATA E LA FAMIGLIA BALLARIN. Quel pezzetto di Roma dove il giorno del Ricordo è ancora una storia viva. MARIA BALLARIN su Il Domani il 09 febbraio 2022.
La famiglia Ballarin, come molte altre provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia durante l’esodo che seguì la fine della Seconda guerra mondiale, ha dovuto optare se rimanere italiana oppure acquisire la cittadinanza jugoslava. Renato Ballarin lasciò l’isola di Lussino. Sin dal 1947 alcuni profughi, tra cui Ballarin, giunsero in quello che oggi è il quartiere Giuliano Dalmata.
In questo mese sono spesso invitata a conferenze e dibattiti sul Giorno del ricordo, che ricorre il 10 febbraio per ricordare la tragedia delle foibe e dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia nel secondo dopoguerra, e sempre più spesso, più che una ricostruzione storica, mi si chiede una testimonianza di carattere personale, legata alle vicende della mia famiglia. Devo così metter mano ai ricordi, cosa che mi riempie di emozioni intense. Faccio ancora fatica a radunare e sistemare le fotografie e i documenti di un passato difficile da raccontare.
Decido di riprendere il grande baule della ditta Acomin, incaricata dell’imballaggio e trasporto delle poche cose che gli esuli riuscirono a portare nel loro esodo forzato e che si trova nella cantina della mia casa natia, al villaggio Giuliano Dalmata di Roma, il quartiere a sud della capitale dove approdarono quegli italiani che provenienti dai territori italiani ceduti all’ex Jugoslavia arrivarono in città.
Forse c’è ancora qualche ricordo della famiglia di mio padre Renato Ballarin e dei suoi fratelli, Antonio e Maria. Venivano da Lussingrande, nell’isola di Lussino, mirabilmente descritta dallo scrittore Giani Stuparich nel romanzo breve L’Isola, situata in quello che era l’estremo confine orientale d’Italia, oggi in Croazia.
UN VIAGGIO PER MARE
Un freddo giorno del novembre 1949 lasciarono la loro casa, bella e decorosa, per giungere nella madrepatria, dopo aver optato per rimanere italiani e di conseguenza lasciare la terra natia come prevedeva il trattato di pace. Un viaggio per mare e per terra lungo, silenzioso, angosciante, insieme a tanti paesani.
Per una persona come lo zio paterno, Antonio, un internato militare italiano, sopravvissuto alla prigionia in Germania presso lo Stalag B, al confine tra Germania e Polonia, e chissà come tornato a casa ridotto a uno scheletro, la decisione di lasciar tutto deve essere stata straziante.
Depositate le impronte digitali e sottoposti a disinfezione, vennero inviati al Silos di Trieste, poi al campo profughi di Udine. Dopo varie peregrinazioni i fratelli Ballarin arrivarono a Roma; Antonio e Maria morirono poco dopo. Mio padre Renato sposò Lidia, esule dallo stesso paese, che solo nel novembre del 1954 riuscì a lasciare la Jugoslavia. Come in pochi sanno, agli italiani della Venezia Giulia, di Fiume e di Zara, venne negato il richiesto referendum, ovvero di potersi esprimere sul proprio destino.
L’OPZIONE
Fu loro concesso solo di “optare” se rimanere in Jugoslavia o andare in Italia. Le opzioni furono aperte nel 1948 e nel 1951, e in entrambi i casi, benché avessero inoltrato ricorso, a mia madre e al mio nonno materno venne negata la possibilità di lasciare la Jugoslavia. Lidia fu spiata, interrogata e vessata dall’Ozna, la polizia segreta jugoslava, che le negò per lunghi anni il documento d’identità.
Visse così nel terrore di poter sparire senza che nessuno potesse più rintracciarla, situazione, questa, frequentissima in quegli anni in tutta la Jugoslavia. In modo rocambolesco riuscì a lasciare l’amato paese, e, una volta in Italia si presentò alla polizia come richiedente asilo politico.
Il matrimonio a Roma costituì un ancoraggio per i due i giovani, naufraghi tra le onde della storia. Il piccolo appartamento del quartiere Giuliano e Dalmata dove sono nata era considerato una dimora di lusso per gli altri esuli, che abitavano, invece, negli alloggi dell’ex villaggio operaio, costruito per le maestranze che lavoravano nel grande cantiere dell’Esposizione universale romana, l’Eur, e di cui non c’è più traccia, se non nei filmati dell’Istituto Luce.
IL VILLAGGIO DI GIULIANO DALMATA
Sin dal 1947 alcuni profughi, chissà come, giunsero in quello che oggi è il quartiere di Giuliano e Dalmata, luogo fatiscente e abbandonato in aperta campagna, a otto chilometri dalla basilica di San Paolo, senza alcun servizio essenziale. Era gente stremata da lunghi mesi di abbandono e indigenza totale vissuta nei sotterranei della stazione Termini.
Lentamente il sito si popolò di persone provenienti da tutta l’Istria, le isole del Quarnaro e Zara, creando così un insediamento unico nel suo genere nella capitale, con le sue scuole, negozi e officine. Ci si conosceva tutti e si parlava in dialetto veneto a casa, per strada, nei negozi, in chiesa.
Noi piccoli non percepivamo le storie dolorose che gravavano sulle spalle degli adulti e le strade del quartiere, titolate a personaggi importanti istriani e dalmati, erano il teatro dei nostri giochi estivi, la piazza Giuliani e Dalmati, con il viale Oscar Sinigaglia e il giardino della chiesa, il nostro quartier generale. Mentre vago con il pensiero, spuntano dal baule le fotografie di antenati sconosciuti e quella di una lontana vacanza a Lussino.
LE VACANZE
Mia madre Lidia, infatti, noncurante dei suoi difficili trascorsi nella terra natale, di cui aveva un’acutissima nostalgia, sin dal 1960 tornò nell’isola, portando me e mio fratello piccolissimi. Così, mentre i bambini romani andavano al mare a Ostia e Torvaianica, noi ogni anno, trascorrevamo le vacanze estive oltre la cortina di ferro.
Lì trovavo gli zii, i cuginetti, che non avevo a Roma. Ma la gioia per quegli incontri durò poco: due fratelli di mia madre emigrarono negli Stati Uniti, Carmela e Giovanni stabilendosi a New York, dove i loro figli ancora vivono. Quello maggiore Giuseppe rimase nell’isola e noi a Roma.
Nonostante i rapporti epistolari e qualche momento insieme a Lussingrande in estate, la famiglia si è frammentata e inesorabilmente dispersa. Probabilmente nessuno se ne sarebbe andato se le condizioni di vita imposte dai vincitori non fossero state così devastanti.
IL QUARTIERE OGGI
Chiudo nel pesante baule i ricordi di una storia drammatica e assi difficile da raccontare, da far comprendere, e torno a casa passando per la piazza del quartiere, nucleo storico, ufficialmente riconosciuto, dell’odierno popoloso IX municipio. Circondato da bei monumenti, quali il Leone marciano che sormonta l’ingresso della chiesa parrocchiale e un mosaico di Amedeo Colella, esule da Pola, affiancato dai versi della Divina commedia, sul selciato appare il disegno della penisola istriana, delle isole e di Zara, composto da pietre recanti i nomi di molti degli esuli giunti a Roma e dei loro paesi di provenienza.
È stata la felice idea di Oliviero Zoia, uno dei ragazzi del villaggio ora anziano come me, che desidera non si perda il ricordo di terre e di persone molto amate. Gli studenti e le associazioni culturali, che sempre più numerose vengono a visitare il quartiere, leggeranno i nomi anche dei miei genitori, mentre i ragazzini continueranno a giocare spensierati nella piazza.
Maria Ballarin, insegnante e storica, è nata a Roma da genitori esuli dall’isola di Lussino ed è cresciuta nel villaggio Giuliano Dalmata della capitale, si è laureata in filosofia e in teologia. Ha pubblicato il saggio Il trattato di pace 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia, edito da Leone editore.
MARIA BALLARIN. Insegnante e storica, è nata a Roma da genitori esuli dall'isola di Lussino. Cresciuta nel villaggio Giuliano Dalmata della capitale, si è laureata in filosofia e in teologia. Ha scritto il saggio Il trattato di pace 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia, pubblicato da Leone editore
Una vita per Pola. Storia di una famiglia istriana. Marco Valle su Inside Over il 10 febbraio 2022.
Filosofo, scrittore, polemista, Stefano Zecchi è una delle voci più alte del panorama culturale italiano ma, soprattutto, è una mente anticonformista. Libera. Lo confermano, una volta di più, i suoi grandi romanzi — “Quando ci batteva forte il cuore” (Mondadori, 2010) e “Rose bianche a Fiume” (Mondadori, 2014) — dedicati alla tragedia dell’esodo istriano. Due successi editoriali che hanno riportato l’attenzione del grande pubblico sulla catastrofe del confine orientale, una pagina a lungo rimossa della nostra memoria nazionale.
Con mano sapiente, ottima documentazione e scrittura elegante, il professore veneziano è infatti riuscito a ricostruire il drammatico vissuto delle genti italiane di Pola e Fiume, incalzate dal 1943 in poi dall’avanzare e poi dal consolidarsi sulle loro terre del regime jugo-comunista di Tito. Una somma di tante esistenze normali, normalissime, improvvisamente centrifugate dalle guerre e dagli odi, stritolate dalle ideologie e dalla violenza più assurda. Tante piccole storie d’amore, vicende familiari e microcomunitarie distese in fronte all’Adriatico “amarissimo” e inghiottite voracemente dalla grande e terribile storia del Novecento.
Ma Zecchi non smette mai di sorprendere e (in attesa di una versione cinematografica, mai dire mai…), esce in occasione del Giorno del Ricordo 2022 l’adattamento a fumetti di “Quando ci batteva forte il cuore”, una sorprendente graphic novel intitolata “Una vita per Pola, storia di una famiglia istriana” (Ferrogallico, euro 15,00) disegnata da un’artista d’eccezione come Giuseppe Botte.
Professor Zecchi, dopo tanti libri di filosofia, saggi di estetica e romanzi storici oggi lei si cimenta con il fumetto, le “nuvole parlanti”. Una vera novità.
La proposta dell’editore Ferrogallico di rivisitare il mio romanzo attraverso le matite di Botte mi è piaciuta subito. Trasformare in immagini le parole, con una grafica moderna dalla forte dinamicità e dalla cifra stilistica forte, mi ha appassionato: è una suggestione potente e, anche, una nuova sfida. In più il lavoro non solo rispetta la scrittura ma riesce a valorizzare — dato per me inaspettato — anche alcune pieghe del racconto. Le meno evidenti, le più intime. Le più sofferte. Il tutto offrendo al lettore un linguaggio e una chiave interpretativa innovative su una tragedia così complessa come fu quella dell’esodo istriano-dalmata.
“Una vita per Pola” ripercorre il suo fortunato romanzo del 2010, oggi nuovamente in libreria negli Oscar best seller di Mondadori.
Sì. La trama è quella. La vicenda di una semplice famiglia istriana, persone normalissime che si ritrovano travolte, loro malgrado, in un disastro epocale che stravolgerà per sempre le loro esistenze. Il contesto è l’immediato dopoguerra a Pola, una città da sempre profondamente veneta e italiana che, all’indomani della sconfitta, vive i suoi ultimi giorni d’italianità. È il 1947 e gli alleati anglo-americani hanno deciso di cederle la città e l’intera regione alla Jugoslavia di Tito. Un passaggio che travolge e annienta una storia millenaria e impone con violenza non solo nuove frontiere ma anche un’altra lingua e un nuovo ordine. Un mondo slavo-comunista in cui per gli italiani — fascisti, antifascisti e (la gran maggioranza) apolitici, poco importa — non vi è più posto. Un disastro. Il tutto è visto attraverso gli occhi un bimbo, Sergio, che man mano comprende i tormenti dei genitori e le loro opposte sensibilità. In casa c’è la madre Nives, maestra che non si rassegna all’inevitabile e che cerca di opporsi in ogni modo, e poi il padre Flavio, reduce dalla prigionia uomo riservato e disincantato. Mentre Nives s’inerpica generosamente ma velleitariamente in tentativi cospirativi, Flavio comprende che i destini sono ormai segnati e sceglie l’esilio. Lacerati e ancora distanti, babbo e figlio imboccheranno la via della fuga che si trasformerà in una vera anabasi attraversando una terra sconvolta dall’odio. Ma strada facendo, passo dopo passo, ritroveranno tra loro una dimensione affettiva forte, l’amore paterno e l’amore filiale. Una piccola storia sullo sfondo del dramma di un intero popolo che ora è diventata anche una graphic story.
E di questa storia, come di tante altre piccole grandi storie, lei sarà testimone e relatore in questi giorni proprio in occasione della Giornata del ricordo.
Certo. Testimoniare e raccontare è un dovere civile e morale. Come ho già scritto “la vera e grande infedeltà è dimenticare”. Dobbiamo ricordare a quest’Italia smemorata e distratta cos’è successo tra il 1943 e il 1954 sul confine orientale. Con assoluta onestà intellettuale e serietà storica. Per questo sarò l’otto e il nove a Verona, il 10 a Trieste e l’11 a Venezia. Per ricordare una pagina che molti, troppi volevano cancellare, rimuovere, strappare in modo che i giovani sappiano, capiscano. Ecco perché “Una vita per Pola”, questo fumetto è importante, molto importante.
Parole indigeribili per alcuni revisionisti e molti negazionisti…
Sono segmenti con cui è impossibile oltre che inutile confrontarsi. Al netto di una base di veri ignoranti, povera gente che beve qualsiasi assurdità — dalla no shoah ai no vax etc. —, vi è uno zoccolo duro di professionisti che trasformarono ogni dibattito serio in una battaglia propagandistica e ideologica. Con loro dibattere, ragionare è tempo perso. Sono un problema psichiatrico. Nulla di più, nulla di meno.
Foibe, la sinistra perde la memoria. Alberto Giannoni il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Celebrazione comunale "muta" al monumento. Ma rimediano associazioni e Fdi.
Poca voglia di ricordare le foibe. Nella comunità degli esuli di Istria Fiume e Dalmazia, c'è la convinzione che il Comune si mostri ancora una volta poco convinto nel celebrare il Giorno del ricordo.
Per domani Palazzo Marino ha organizzato in piazza Della Repubblica una celebrazione «muta» e in forma «ridotta». Per molti, le «restrizioni» sono incomprensibili. Come in altre occasioni, il Comune sembra in ritardo o poco attento. Il cerimoniale parla di esigenze organizzative legate al Covid e a Palazzo Marino escludono che ci siano altre ragioni ostative. «Siamo sempre andati senza problemi» ribattono, mentre spiegano che il sindaco Beppe Sala non parteciperà per una trasferta concomitante e interverrà sicuramente la vice, Anna Scavuzzo.
«In Consiglio comunale ci sarà un momento di ricordo - nota Matteo Forte - perché, come ogni anno lo abbiamo chiesto noi di Milano popolare, o Fdi. Questo accade perché non c'è quell'attenzione che, giustamente, viene dedicata alla Giornata della memoria. Evidente dal diverso atteggiamento si deduce che ci sono episodi di serie A e di serie B. Si tratta di un giudizio influenzato dall'ideologia di sinistra, secondo cui le foibe non devono avere la dignità di essere ricordate come si deve». «Anche le vicende che ho studiato - spiega Forte, che da storico si è occupato dell'eccidio di Porzûs - dicono che quella gente è stata vittima di due totalitarismi. Nelle foibe sono finiti anche antifascisti italiani. Non voler ricordare è un retaggio novecentesco della sinistra».
Altri Comuni hanno previsto eventi. A Cinisello Balsamo, per esempio, un momento commemorativo è previsti al Giardino martiri delle foibe «Norma Cossetto», col sindaco Giacomo Ghilardi e l'assessore Riccardo Visentin. E mercoledì 16 sarà presentato il libro «Verità infoibate» di Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto. A Pessano con Bornago ci saranno letture in memoria. Ma anche a Segrate, amministrata dal Pd, sono previste celebrazioni importanti: domani alle 11.30 al Giardino di via Grandi e sabato alle 17 al Centro Verdi la presentazione del libro di Tarticchio, «Sono scesi i lupi dai monti».
Milano continua ad avere un altro approccio. E dai municipi non risulta niente. Così gli eventi celebrativi saranno per lo più affidati alle associazioni o ai partiti. «Il nostro movimento - spiega Romano Cramer, segretario del Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia - collocherà delle coccarde tricolori su piazze e vie della nostra storia: Fiume, Pola, Istria, largo Martiri foibe, per far sì che la gente passando si chieda perché e ricordi».
Fratelli d'Italia domani deporrà dei fiori in piazza della Repubblica e alle 18.30 terrà una fiaccolata. Il giorno dopo, grazie a un'idea di Enrico Turato (Zona 8) e all'iniziativa condivisa col capogruppo Riccardo Truppo, ha organizzato un evento in sala Alessi coi suoi eletti: «Davanti a una storia come questa che nessuno ha voluto raccontare per decenni nella speranza di farla scomparire dalla memoria collettiva - spiega Truppo - senti imperante l'esigenza di raccontarla. Se ancora oggi qualcuno preferisce non parlarne per dare una ricostruzione dei fatti edulcorata l'impegno deve essere doppio. Quest'anno toccherà a noi portare a Palazzo Marino questo tema, nel luogo istituzionale di Milano per eccellenza, sperando che eventi come questo non siano più considerati un'eccezione ma consuetudini della città». Alberto Giannoni
Le foibe e gli altri massacri: tutti i crimini di Tito. Andrea Muratore su Inside Over il 10 febbraio 2022.
Josip Broz, detto Tito, è stato uno dei leader più controversi tra quelli che hanno segnato la storia del Novecento. Nato nel 1892 da madre slovena e padre croato, Tito si distinse come voce più autorevole della resistenza jugoslava all’occupazione italo-tedesca della Jugsolavia tra il 1941 e il 1945, fu indubbiamente un leader politico sagace e seppe tenere unito il mosaico etnico-politico del Paese fino alla morte avvenuta nel 1980, dopo cui iniziò la disgregazione del Paese. Fu leader ben accolto nei salotti internazionali dopo la rottura con Stalin nel 1948, ricevette molte decorazioni tra cui la Legione d’Onore francese e divenne un uomo simbolo dei Paesi non allineati tra i due blocchi della Guerra Fredda.
Ciò che spesso non si ricorda, però, è il fatto che al pari di altre leader di potenze comuniste come Lenin e Stalin in Unione Sovietica e Mao Zedong in Cina Tito costruì la sua ascesa su una serie di operazioni di repressione degli oppositori, su politiche di pulizia etnica e su massacri sistemici. Grazie a un crescente impegno civico, politico e storico in Italia è emersa con forza la memoria della tragedia delle foibe contro gli esuli del territorio giuliano-dalmata reclamato da Belgrado. Ma purtroppo – smentendo una fuorviante retorica riduzionista sulla tragedia istriano-dalmata – gli eccidi delle foibe non rappresentano che una piccola parte dei massacri legati al consolidamento del potere titino. Degno compare per la forza delle sue repressioni dei più duri regimi del comunismo reale.
La repressione degli oppositori
Tra il 1944 e il 1945 la graduale riconquista delle forze di resistenza jugoslave riportò il territorio del Paese sotto il controllo degli uomini di Tito scacciandone i tedeschi.
Il clima politico nel Paese era avvelenato dagli odii interetnici e sociali scatenati dalla frammentazione del Paese: in Croazia, il regime degli Ustascia aveva assassinato circa 650mila serbi tra il 1941 e il 1945 e nella resistenza si era aperta la guerra civile tra i titini e i partigiani cetnici filo-monarchici.
In maniera analoga a quanto fatto da Lenin in Russia venticinque anni prima, Tito usò il terrore per consolidare il potere nelle zone liberate. Rudolph Joseph Rummell, politologo statunitense (1932-2014) che ha insegnato all’Università delle Hawaii ha fatto un ampio studio del “democidio” jugoslavo imputabile a Tito sottolineando che il numero totale delle vittime del regime comunista jugoslavo tra la fase del suo consolidamento e i decenni successivi è da cinquanta a cento volte superiori ai morti accertati nelle foibe, attestandosi attorno ai 585mila.
Nella sola Slovenia, nelle terre contigue a quelle sede della tragedia delle foibe, i titini eliminarono 12mila oppositori politici solo nel 1945; dopo la presa di Belgrado, i primi mesi dello stesso anno furono teatro di oltre 50mila uccisioni. Il mese di maggio del 1945, in questo contesto, avrebbe segnato un vero e proprio bagno di sangue.
La vendetta contro i croati
Il bersaglio furono i prigionieri di guerra del defunto Stato Indipendente di Croazia e tutte quelle forze che potevano in qualunque modo essere associate all’Asse. Lo Stato governato da Ante Pavelic si era sì reso responsabile di orribili crimini e repressioni, ma buona parte del suo esercito era costituito da imbelli coscritti male armati ed era ormai sbandato. Inoltre, nel 1943 Zagabria aveva aderito alla Convenzione di Ginevra e dunque, quando nel maggio 1945 i suoi uomini si arresero o alle forze britanniche in Carinzia o a quelle titine avrebbero dovuto ricevere ogni trattamento conforme alle leggi internazionali.
In una vera e propria forma di vendetta Tito, che aveva preso posizione a favore della maggioranza relativa serba, colpì con durezza i croati etnici, con cui pure condivideva in parte le origini. Quando i britannici decisero di rimpatriare in Jugoslavia i croati che si erano arresi oltre confine nella città di Bleiburg, in Carinzia, le truppe titine scatenarono il massacro: marce della morte, esecuzioni sommarie, vere e proprie cacce all’uomo causarono 70-80mila morti. A Tezno, vicino Maribor (Slovenia) furono uccisi 15mila prigionieri in un’unica operazione degna delle repressioni naziste in Polonia e Ucraina, in un episodio che causò più morti del massacro di Katyn; Kočevski Rog e Huda Jama furono teatro di ulteriori stragi. Nel 2009 ad Huda Jama — la “grotta cattiva” — i ricercatori Jose Dezman e Marko Strovs incaricati dal governo sloveno di capire la portata dei massacri dell’epoca scoprirono in una miniera abbandonata più di cinquemila corpi.
Campi di lavoro e pulizia etnica
Rummel ha stimato che tra 50 e 150mila furono i morti, infine, tra i deportati nei campi di lavoro forzato in Jugoslavia tra il 1945 e gli Anni Sessanta. Sebbene sia più difficile, visti i lunghi periodi di detenzione, identificare i morti nei campi per le cause collaterali alla detenzione nella massa più ampia dei decessi, sicuramente anche Tito operò la costruzione di una galassia concentrazionaria rimasta attiva anche dopo il declino dell’Arcipelago Gulag sovietico.
Tra 5mila tedeschi e prigionieri di guerra della Wehrmacht, 2mila albanesi etnici e 2mila kosovari uccisi, inoltre, la repressione toccò anche diverse declinazioni etniche.
Sommando a queste cifre le problematiche legate ai massacri portati avanti per vendette etniche, politiche e personali dai cittadini jugoslavi, le repressioni non organizzate e le azioni non conteggiate nei documenti storici Rummel ha, come detto, stimato in almeno 585mila le vittime del democidio jugoslavo. Una quota sostanziale degli 1,5 milioni di cittadini uccisi dalle varie parti in causa tra l’inizio della guerra e il consolidamento del regime. A testimonianza della matrice sanguinaria della dittatura che ha promosso il massacro delle foibe.
Porzus, quando i comunisti ammazzavano gli antifascisti. Marco Valle su Inside Over il 10 febbraio 2022.
Sette febbraio 1945. Friuli Orientale. Un centinaio di militi comunisti irrompe di sorpresa nel comando della brigata partigiana Osoppo. L’azione è rapida, brutale. Terroristica. In pochi minuti gli attaccanti sono padroni del campo. Il bilancio dell’operazione è netto. Vittoria. I difensori, frastornati, alzano le braccia. Urlano, imprecano. Nessuno li ascolta. I vincitori hanno una stella rossa sul berretto e tanta fretta. Gli ordini del partito sono chiari e non si discutono: il quartier generale degli “osovani” deve essere annientato. Il plotone d’esecuzione è pronto. Qualcuno intona “bandiera rossa”. Pietà l’è morta…
I sicari assassinano il comandante Francesco De Gregori – lo zio dell’artista romano -, i suoi luogotenenti – tra cui Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo – e i loro commilitoni. Un massacro. Venti partigiani italiani, venti antifascisti cadono falciati da raffiche di mitra. Raffiche corte, raffiche lunghe. Raffiche assassine. Tutte sputate dai mitra impugnati da altri partigiani. Anche loro italiani. Anche loro antifascisti. Perché?
Una domanda che rimbalza da decenni tra i monti del Friuli, un interrogativo silenziato per più di mezzo secolo nei tribunali dello Stato o sepolto negli archivi del defunto Pci e dell’ex Jugoslavia comunista. È “l’affare Porzus”, uno sporco affare.
A tutt’oggi – persino in questo primo scorcio del terzo millennio – quei venti morti rimangono un ricordo intollerabile per gli sfiatati cantori del manierismo resistenziale, un problema terribilmente fastidioso per segmenti della società politica italiana e una questione aperta che dopo più di settant’anni imbarazza giornalisti e gran parte degli storici. Di quella strage lontana meglio era (è) non parlarne. Meglio dimenticare, scordare. E – se proprio necessario – basta(va) un accenno confuso e deviante. Ancora una volta, perché?
Le risposte – complesse, atroci, definitive – le ritroviamo in Porzus. Violenza e Resistenza sul confine orientale. Un libro importante. Coraggioso. Il lavoro, curato da Tommaso Piffer e pubblicato – con il contributo dell’Associazione Partigiani Osoppo Friuli – nel 2012 da Il Mulino, raccoglie i contributi di Elena Aga-Rossi, Patrick Karlsen, Orietta Moscara, Paolo Pezzino, Tommaso Piffer e Raoul Pupo ed illumina con fredda obiettività il contesto nazionale e internazionale del tempo, i passaggi che portarono all’eccidio, le ragioni che hanno reso controversa la memoria del massacro, le tappe del dibattito storiografico e – dato centrale – i motivi dell’assordante silenzio di una “repubblica nata dalla resistenza”.
Rompendo schemi desueti quanto ipocriti, gli autori del saggio – senza sconti per alcuno e forti di un’imponente documentazione proveniente dagli archivi italiani, ex jugoslavi, tedeschi e britannici – hanno in primo luogo indagato la tragedia delle terre di frontiera. Non a caso. Analizzare i fatti del 7 febbraio ‘45 e gli eventi collegati significa non solo illuminare un angolo buio della nostra storia ma (ri)aprire il dibattito sulla complessità e le divisioni del movimento di resistenza antifascista in Europa, in Jugoslavia e in Italia. Infrangendo più di un tabù.
Come Piffer sottolinea nella sua introduzione, “la vicenda di Porzus e il contesto in cui essa è collegata mostrano come la storia del periodo 1943-1945 sia comprensibile nella sua interezza solo se ricondotta al suo vero contesto: un contesto nel quale il conflitto ‘bilaterale’ tra democrazia e nazifascismo si intreccia con il conflitto ‘trilaterale’ tra fascismo, democrazia e comunismo. Un duplice scontro all’interno del quale il conflitto tra forze comuniste e forze antifasciste non comuniste ebbe in alcune zone un’intensità non dissimile da quella tra le stesse forze antifasciste e il nazismo”.
Andiamo per ordine. Nell’ultimo conflitto mondiale nei paesi occupati dall’Asse il rifiuto all’hitlerismo fu un richiamo potente e – come, peraltro, il collaborazionismo – assolutamente trasversale. L’opposizione armata all’Ordine Nuovo berlinese assunse – soprattutto dopo El Alamein, Stalingrado e l’armistizio italiano -, dimensioni di massa, trasformandosi in un fattore politico e militare importante in cui s’intrecciarono motivazioni diverse, talvolta contradditorie e spesso contrastanti.
I comunisti, sebbene avessero imbracciato le armi — a differenza delle formazioni nazionaliste, come i gollisti in Francia o l’esercito clandestino polacco — solo nell’estate ’41 dopo la rottura del patto tra l’URSS e il Reich, presto trasformarono l’antifascismo in un vettore ideologico ambiguo, in un coltello a doppia lama. Su ordine di Mosca, celandosi dietro a parole d’ordine rassicuranti (moderate, unitarie e persino scioviniste), i quadri dei PC — un nucleo di solidi “rivoluzionari di professione”, forgiati da decenni di sconfitte e ripetute “purghe” interne — trasformarono la guerra contro la Germania in una fase prodromica alla rivoluzione e all’espansione sovietica. In questa logica le forze resistenziali (comprese quelle d’ispirazione anarchica o trotzkista) che non accettavano l’egemonia delle “avanguardie” dovevano essere neutralizzate o/e annientate. Con ogni mezzo, in tutta Europa.
Come annota ancora Piffer, è proprio in nome dell’antifascismo «che furono eliminati i partigiani “osovani” a Porzus, sulle cui credenziali democratiche non vi può essere dubbio alcuno… è in nome dell’antifascismo che le forze di Tito eliminarono le forze partigiane nazionaliste per poi imporre al paese un regime comunista, o che nel 1946 giustiziarono il loro leader Draza Mihailovic, che all’inizio del conflitto avevano celebrato come il leader della resistenza antifascista europea. Ed è sempre in nome dell’antifascismo che Stalin fece massacrare la resistenza polacca non comunista durante l’insurrezione di Varsavia del 1944, così da poter instaurare senza ostacoli il sistema socialista nel paese alla fine della guerra”. La tragedia carnica non fu quindi un’anomalia, un “triste errore” ma era parte di un preciso progetto politico-strategico fissato da Stalin e applicato con cinismo e determinazione dai suoi terminali nazionali.
Al tempo stesso Porzus e l’intera vicenda del confine orientale presentano varianti e conseguenze originali e impreviste. Tra il 1943 e il 1954 (e oltre), in quell’angolo d’Italia si consumò non solo il “conflitto trilaterale” ricordato da Piffer, ma anche un segreto duello per la primazia sul movimento comunista nell’Europa meridionale tra due partiti comunisti ferocemente stalinisti e tra Tito e Togliatti, due leader rigidamente “moscoviti”. Un gioco ambiguo e, tutt’oggi, poco esplorato.
Come spiegano nei loro contributi Raoul Pupo e Orietta Passerini, nell’ultima fase del conflitto Josif Broz Tito, a differenza del callido Palmiro — rimasto prudentemente in URSS sino al collasso del fascismo —, divenne uno dei protagonisti del panorama internazionale. Capo di un esercito irregolare e (grazie al contributo britannico) vittorioso, il rivoluzionario croato aveva — sfidando gli ordini di Stalin, attento agli equilibri internazionali e fautore di un gradualismo rivoluzionario — imposto il comunismo più duro e severo a un’intera nazione.
Forte del suo successo, Tito si convinse d’essere il principale referente europeo di Mosca e impose al PCJ una deriva estremistica, un intreccio di politiche radicali e d’esasperato nazionalismo “gran yugoslavo”. Approfittando della battaglia contro gli invasori stranieri, i “titini” scatenarono in una guerra civile feroce e una “pulizia di classe” accurata quanto criminale. Con l’accusa di “fascismo”, i partigiani rossi annientarono non solo gli avversari e i “nazionalisti borghesi” ma ogni segmento sociale, politico e culturale considerato potenzialmente nemico della “nuova Jugoslavia”: intellettuali, religiosi, imprenditori, piccoli e grandi proprietari terrieri e poi monarchici, liberali e poi socialdemocratici, anarchici, autonomisti croati, sloveni, macedoni, albanesi.
Come ricordava l’ex braccio destro di Tito e poi dissidente Milovan Gilas nel suo libro “Conversazioni con Stalin” (Feltrinelli, 1962), il padrone del Cremlino non apprezzò questo “inutile zelo” che rischiava d’irrigidire gli americani, ma con realismo preferì posticipare l’inevitabile rottura e legittimò parte delle ambizioni territoriali — cassando però le incredibili promesse (l’occupazione del Veneto e della Lombardia) fatte agli jugoslavi da Churchill — dell’ingombrante discepolo balcanico.
In nome della fedeltà all’Unione Sovietica, ai comunisti italiani non rimase che adeguarsi e obbedire. Il punto di svolta decisivo fu l’incontro a Roma, nell’ottobre del 1944, tra i dirigenti titini e il leader del PCI, nel quale Togliatti accettò le loro pretese sull’Istria, Fiume, Trieste, Gorizia e gran parte del Friuli; pochi giorni dopo “il migliore” emanò la direttiva di favorire in ogni modo “l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito”, ordinando ai suoi referenti locali di “prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono a favore dell’imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli”.
Da quel momento le formazioni comuniste italiane passarono sotto gli ordini diretti del comando del IX Corpus jugoslavo; chi non tra i “garibaldini” mugugnò o protestò — e vi furono più casi — fu prontamente eliminato. In questo quadro la stessa esistenza dell’Osoppo divenne per il PCJ e i suoi ausiliari italiani, semplicemente intollerabile. I comunisti di Togliatti, per ordine della federazione del PCI di Udine o/e dai “titini” — la questione è ancora aperta —, s’incaricarono di “risolvere” il problema e il sette febbraio ‘45 salirono a Porzus…
Da subito, come nel caso delle foibe, il PCI cercò di stendere una fitta coltre sull’episodio. Per decenni, con tenacia, dogmatismo e arroganza Botteghe Oscure e un triste sodalizio come l’ANPI imposero una visione manichea e storicamente inattendibile; ancora nel 1992 Occhetto e il PDS resero impossibile a Cossiga una commemorazione ufficiale a Porzus. E quando una persona onesta e intelligente come l’ex comunista triestino Stelvio Spataro osò qualche accenno sulla vicenda, fu subito brutalmente zittito. Per il partito nulla d’importante era successo. Di nulla si doveva parlare. Un silenzio assordante. Non mancarono gli ipocriti e gli ignavi: uno per tutti il non compianto Giorgio Bocca che accusò il povero De Gregori di viltà, attendismo e, persino, di grafomania anti comunista….
Resta il fatto che per Togliatti ieri — e per i suoi tristi epigoni, oggi — è(ra) difficile, forse impossibile ammettere, come sottolinea Patrick Karlsen che «per il partito comunista la motivazione nazionale della guerra di liberazione era un fatto negoziabile sull’altare dello scontro di classe». Non a caso per lo studioso (autore di un importante lavoro come “Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale del contesto internazionale”, Editrice Goriziana, 2010) Porzus e le foibe sono eventi assimilabili «nella misura in cui a essere colpiti dalla pulizia di classe comunista sono stati altri antifascisti. Nel fenomeno delle foibe vediamo almeno due logiche in azione. C’è un’epurazione preventiva nei confronti di coloro che, per ragioni ideologiche o nazionali, vengono considerati nemici della Jugoslavia comunista che si sta formando ed espandendo; e c’è un’epurazione punitiva, diretta a eliminare i fascisti o presunti tali. Nell’eccidio di Porzus all’opera c’è solo la prima spinta: a essere trucidati dai partigiani comunisti furono gli altri resistenti, alleati nella lotta di liberazione ma contrari all’annessione alla Jugoslavia comunista».
Accanto a De Gregori, Pasolini e gli altri martiri “osovani” lungo è l’elenco di antifascisti e partigiani assassinati, traditi, infoibati. Il primo è Luigi Frausin, dirigente triestino del PCI, ostile alla sottomissione ai “titini”: arrestato dai nazisti su “delazione slava” — come recita la motivazione della Medaglia d’oro alla memoria —, morì assieme ai suoi compagni tra le mura della Risiera. Altri furono eliminati direttamente dai comunisti: tre membri del Cln di Trieste; due di quello di Fiume; Vinicio Lago, ufficiale di collegamento della Brigata Osoppo; Enrico Giannini, del Corpo Italiano di Liberazione.
Il 30 maggio 2012 Giorgio Napolitano si è recato (primo Presidente della Repubblica) a Porzus per rendere omaggio alle vittime dell’eccidio. Un gesto importante. Nel suo discorso in municipio l’allora inquilino del Quirinale ribadì che “la Resistenza ha avuto anche ombre, macchie e la più grande è l’eccidio di Porzus” le cui radici vanno rintracciate “nelle pretese di dominio di una potenza straniera a danno dell’Italia in una zona martoriata come quella del confine orientale”. Un monito forte ai “giustificazionisti”, ai “negazionisti”, a tutti i nostalgici del filo spinato, un segnale a quella stramba e petulante coorte che ancora rifiuta d’accettare la tragedia del confine orientale.
Non vi è pace senza giustizia, non vi è superamento senza verità. Anche a Porzus. Anche in quell’ultimo lembo d’Italia.
Ecco le torture titine nei campi della morte per i militari italiani. Fausto Biloslavo il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il dossier destinato alla conferenza di Parigi del 1947 è un triste campionario di atrocità.
«Segreto - 5 ottobre 1945 - Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica e all'ospedale militare di Skofja Loka ambedue denominati della morte». Fin dal titolo della prima pagina dattiloscritta, il rapporto dei nostri servizi che emerge dal passato, fa accapponare la pelle. «Fucilazioni per nulla», «torture al palo», «lavori forzati», «scheletri viventi» sono le terribili parole che si ripetono nelle testimonianze dei soldati italiani catturati a guerra finita e sopravvissuti ai lager di Tito. Un rapporto dell'orrore secretato per 50 anni, che viene pubblicato integralmente la prima volta dalla Rivista dalmatica in occasione del 10 febbraio, giorno del Ricordo delle foibe e dell'esodo. «Lo curò mio nonno, Manlio Cace, ufficiale medico della Marina militare, per i servizi segreti, con l'obiettivo di presentarlo alla conferenza di pace che portò al trattato di Parigi del 1947, come prova delle indicibili violenze del regime jugoslavo ai danni degli italiani. Non sappiamo se fosse mai arrivato in quel consesso» spiega Carla Cace, presidente dell'Associazione nazionale dalmata, che scopre il rapporto segreto negli archivi romani del sodalizio. Oggi la drammatica relazione dei servizi, in anteprima per il Giornale, viene presentata al Parlamento europeo.
Le testimonianze sono rese ancora più drammatiche dalle foto dei sopravvissuti: fantasmi pelle e ossa con i segni delle torture, che a malapena si reggono in piedi. «Il loro stato è peggiore di quello dei reduci dei campi della morte tedeschi» si legge nella seconda parte con le fotografie. Non tutti nemici, ma pure militari che hanno aderito alla causa partigiana o sono stati catturati dai nazisti.
Nicandro Filippo, classe 1906, «fu fatto prigioniero nei primi di maggio, dopo quattro giorni di combattimento assieme alle formazioni partigiane per cacciare i tedeschi da Trieste». Il calvario inizia nel lager di Borovnica, in Slovenia, ad 88 chilometri dal capoluogo giuliano. «Alle sei si usciva per il lavoro, pesantissimo data la nostra debolezza causata dall'insufficienza del vitto; eppure si doveva lavorare ugualmente, altrimenti erano botte, calci e bastonature» racconta appena rilasciato da un letto dell'ospedale di Udine. «Ogni giorno infallibilmente moriva qualcuno nelle baracche; 2, 3, 4 morivano all'infermeria, soprattutto di diarrea» rivela Nicandro. Il soldato di sanità Guarnaschelli Alberto, di Pavia, fugge dalla prigionia tedesca, ma il 12 maggio viene catturato dai partigiani di Tito a Postumia. «Una mattina ci caricano in carri bestiame. Nel mio vagone eravamo in 118» come gli ebrei. Al campo di concentramento di Borovnica le punizioni sono terribili: «Mi pare di sentire ancora le grida di quei poveri disgraziati che dovevano stare anche due ore legati al palo con un sottile filo di ferro. Tutti svenivano durante quel supplizio e dopo la liberazione molti restavano con le braccia o con le mani anchilosate e bisognava che altri li aiutassero anche a mangiare e a spogliarsi». Il bersagliere Santamaria Gino, nato a Roma, descrive così la detenzione: «La vera vita d'inferno: bastonate, frustate, digiuni, malattie e sevizie fecero sì che quasi tutti fummo ridotti a scheletri viventi». Il rancio è una brodaglia e molti internati non hanno mai visto un pezzo di pane. «La fame era tanto forte che si divorava qualsiasi cosa capitava fra le mani - racconta il bersagliere - Così, lungo la strada che andava al lavoro (forzato nda), si raccoglievano l'erba e le foglie secche degli alberi o qualche frutto caduto e si divorava tutto immediatamente». A Borovnica «oltre 60 compagni sono morti di fame, malattie e di maltrattamenti. Altri 150 invece sono stati portati via e mai più nulla si è saputo della loro sorte».
Le fucilazioni scattano per futili motivi. «A Vipacco un prigioniero, sfinito dalla fame, terminata la sua scarsa razione chiese al cuciniere un supplemento. Un partigiano se ne accorse e gli sparò addosso a bruciapelo, freddandolo». La testimonianza è del sottobrigadiere della Finanza, Rapisarda Salvatore, prelevato dai titini a Trieste. «Un partigiano armato di moschetto mi chiede la fede matrimoniale che portavo al dito - racconta - Feci presente che si trattava di una cosa sacra e che non potevo dargliela. Il partigiano sogghignando dice: O me la dai o ti taglio il dito».
Un altro finanziere, Giribaldo Roberto, è testimone oculare della fucilazione di due compagni di prigionia. «Uno perché nel tentativo di evasione veniva fermato in mezzo al bosco - si legge nel rapporto - l'altro perché sorpreso in una casa ove era entrato per chiedere un pezzo di pane».
Le «marce della morte» sono altre occasioni di esecuzioni sommarie. Garbin Antonio, catturato a Velika Gorica dai tedeschi crede «nella liberazione da parte di soldati di Tito, ma ci accorgemmo subito di essere nuovamente prigionieri». Assieme ad altri 250 italiani viene incolonnato verso Belgrado. «In 20 giorni avevamo coperto una distanza di circa 500 km, sempre a piedi - testimonia - Durante la marcia vidi personalmente uccidere tre prigionieri italiani, svenuti e incapaci di rialzarsi. I morti però sono stati molti di più».
Cristina Di Giorgi, curatrice del numero speciale della Rivista Dalmatica scrive che «gli internati nelle circa cinquanta strutture organizzate e gestite dai miliziani comunisti di Tito sparse su tutto il territorio della Jugoslavia furono oltre sessantamila (tra loro ex soldati, ex prigionieri dei tedeschi, civili deportati da Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, partigiani e persino comunisti)».
Prima di morire di stenti a Borovnica i prigionieri vengono trasferiti in un improvvisato ospedale ricavato nel castello diroccato a Skofja Loka, tristemente soprannominato «il cimitero». Guarnaschelli racconta che «la stanza aveva sempre porte e finestre chiuse. Ogni notte morivano 2, 3 o 4 di noi. Ricordo che in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno se ne accorgeva: solo alla mattina si vedevano irrigiditi». I malati non potevano uscire neppure per i bisogni corporali: «In un angolo vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Ed eravamo affetti da diarrea!». Nel campo della morte di Borovnica rimangono, dopo i rimpatri dei sopravvissuti, 400 italiani in mano agli aguzzini. Mignola Giuseppe, di Potenza, racconta che «il più spietato era un borghese che portava sempre uno scudiscio di gomma. Quanti ne ha fatti piangere quel disgraziato. Poi c'erano dei bambini di 12, 13 anni. Quei farabutti». E alla fine dichiara: «I partigiani di Tito più che uomini erano belve». Ungaro Giacomo ha un lasciapassare rilasciato dalle autorità jugoslave per tornare a casa a Bari, ma viene fermato lo stesso dai titini il 10 maggio 1945, vicino a Trieste, a guerra finita. Sopravvissuto a Borovnica ammette: «Ho invocato tante volte la morte» piuttosto che «sopportare lo strazio al quale eravamo sottoposti noi poveri italiani».
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
I negazionisti delle Foibe assaltano la sede di FdI di Fermo. Meloni: “Di questo odio nessuno parla”. Lucio Meo martedì 8 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Non è una coincidenza, ma una certezza: nella sede di FdI di Fermo in questi giorni era prevista la cerimonia in ricordo delle Foibe, cerimonia su cui è calata la furia dei negazionisti di sinistra. “Sono entrati sfondando la porta con un piede di porco e hanno completamente devastato la sede di Fratelli d’Italia a Fermo. Ma di questa violenza, di questo odio, non ne sentirete parlare dal mainstream. Spero che tutte le forze politiche condannino l’ennesimo attacco nei confronti di una sede di FdI”. La denuncia su Facebook arriva direttamente dal presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, all’indomani del gravissimo atto vandalico compiuto da ignoti all’interno della sede di Fermo di Fratelli d’Italia.
Foibe, l’assalto alla sede di FdI di Fermo
“Mi auguro che i responsabili siano presi e puniti. Non ci facciamo intimidire dall’odio politico”, commenta Emanuele Prisco, commissario regionale Fdi nelle Marche. L’ingresso della sede, dove storicamente si è sempre riunita la destra fermana, è stato forzato e sono stati strappati i manifesti al suo interno e messa a soqquadro l’intera sala. In questi giorni, infatti, si sarebbe dovuta tenere lì la manifestazione in ricordo dei Martiri delle Foibe organizzata da Gioventù Nazionale, l’organizzazione giovanile di FDI. “Si tratta di un atto gravissimo, soprattutto perché il livello del dibattito democratico continua a scadere sempre più velocemente in quella lotta senza quartiere di epoche buie della storia repubblicana. Abbiamo piena fiducia nel lavoro di Forze dell’Ordine e della magistratura che sono già al lavoro per individuare i colpevoli”, aggiunge Emanuele Prisco, commissario regionale Fdi nelle Marche.
La violenza non ci fermerà, dice Lucia Albano
“Questa notte a Fermo la sede di Fratelli d’Italia è stata presa d’assalto e vandalizzata. Sono stati danneggiati gli arredi e strappati i manifesti che promuovevano il “Giorno del Ricordo”, un evento organizzato per ricordare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata con la presenza di alcuni esuli fiumani, tra cui mio padre, il Magg. Albano”, dice Lucia Albano, deputata marchigiana di Fratelli d’Italia. “La scelta di colpire la sede di Fratelli d’Italia in occasione di questa ricorrenza storica è una ferita ai valori della democrazia e un’offesa alle vittime di quegli anni. Esprimo tutto il mio sgomento e tutta la mia preoccupazione: chi oggi ci attacca vuole impedire il ricordo di fatti realmente accaduti che appartengono alla storia della nostra Nazione. In questo momento sono in corso i controlli della Polizia Scientifica, per verificare l’entità dei danni e individuare le modalità di effrazione. La violenza di pochi non fermerà la volontà di portare avanti il ricordo”.
Foibe, l'orrore senza fine. Recuperate 814 vittime dei partigiani comunisti: anche suore e bambini. Sveva Ferri martedì 28 Luglio 2020 su Il Secolo d'Italia.
È un orrore senza fine quello che emerge dalle foibe. Gli speleologi hanno infatti recuperato i resti di altre 814 vittime dalla foiba di Jazovka, nella regione di Zagabria, non lontana dal confine sloveno. Gli esperti incaricati del triste compito di recuperare le vittime dei partigiani di Tito hanno riconosciuto fra i resti anche numerose donne, fra le quali diverse suore, e diversi bambini.
“La sinistra cerca di minimizzare queste efferatezze”
Le operazioni di recupero si sono concluse lunedì 20 luglio, ma in Italia la notizia ha stentato a circolare. A rilanciarla sono state le associazioni di esuli e le realtà che preservano e divulgano la memoria di quella pulizia etnica che colpì gli italiani. “Queste iniziative di recupero sono utili per smontare il mito di un comunismo sociale e rispettoso della libertà del popolo”, ha sottolineato il direttore del Museo storico di Fiume, Marino Micich, accostando le foibe a ciò che avvenne nel “triangolo rosso”. “Bisogna insistere a far conoscere queste verità per il rispetto della storia e per la libertà. Per lunghi anni – ha concluso Micich – a sinistra si è cercato e si continua per molto versi a minimizzare tali efferatezze”. Non ultimo in questo senso il caso delle deliranti polemiche sollevate da Rifondazione comunista per l’intitolazione di un luogo pubblico di La Spezia a Norma Cossetto.
Una ricerca durata decenni
A ricostruire la storia delle indagini e dei ritrovamenti nella foiba di Jazovka, profonda circa 40 metri, è stata poi l’Unione degli Istriani, con un lungo post sulla sua pagina Facebook. Da lì si apprende che questa indagine era partita nel settembre del 2019 e le prime esumazioni risalgono al 13 luglio di quest’anno. Dunque, i lavori per riportare in superficie tutte le 814 vittime dei partigiani titini hanno richiesto una settimana. “Le ricerche e la riesumazione delle salme sono state possibili grazie alle richieste delle Associazioni dei veterani di guerra croate”, si legge ancora nel post dell’Unione degli Istriani. La prima ricerca delle vittime di questo massacro risale al 1989, a fronte delle prime denunce sulla sua esistenza avvenute un quindicennio prima.
Nelle foibe il massacro degli innocenti
Nel 1999, poi, di fu “una sorta di vera e propria catalogazione”, ma i resti non vennero rimossi da dove si trovavano. “La ricerca condotta nelle viscere della cavità rivelò che le vittime erano state legate con un filo di ferro prima di essere gettate nella fossa, dopo essere state colpite alla nuca. La maggior parte dei teschi rinvenuti presentavano fratture causate da un oggetto contundente”, spiega ancora l’Unione degli Istriani. Allora però il numero delle vittime era stato identificato in 476. Si trattò di un passaggio comunque fondamentale. Già all’epoca, infatti, i responsabili delle ricerche furono in grado di rivelare che le vittime erano state prelevate dai partigiani dall’ospedale Sv. Duh di Zagabria.
Le vittime prelevate in ospedale: feriti, medici, infermieri, suore
“Tra le vittime, insieme ai membri delle formazioni ustascia e dei domobranci catturati, c’erano i feriti, le infermiere e le suore prelevate dai partigiani dall’ospedale Santo Spirito (Sv. Duh) di Zagabria dopo la battaglia di Krašić, nel 1943, e poi nel maggio 1945″, spiega ancora l’Unione degli istriani. Fra le prime testimonianze che hanno consentito l’individuazione della foiba c’era quella del partigiano che guidava “la corriera della morte” e che, quando vide cosa succedeva alla fine del viaggio, si rifiutò di svolgere ancora quel compito.
Le foibe, un orrore senza fine: si cerca Jazovka 2
Ma l’orrore non sembra destinato a finire qui, sul fondo della foiba di Jazovka. Nei pressi di quella che ha appena restituito 814 vittime, infatti, ve ne sarebbe un’altra, chiamata Jazovka 2. “Dovrebbe contenere – spiega ancora l’Unione degli Istriani – altre centinaia di vittime”. “Il piano ora – chiarisce l’associazione di esuli – è quello di condurre una nuova ricerca in questa cavità”.
Sia la Segre a pretendere dall’Anpi rispetto per la memoria degli italiani assassinati nelle Foibe. Il Secolo d'Italia mercoledì 5 Febbraio 2020.
Al Senato della Repubblica si riscrive la storia delle foibe, e una legge dello Stato è gettata nel cestino.
Non ci sono scusanti, è una vergogna che si sia permesso, in una sede di quella rilevanza istituzionale, di offendere la memoria dei morti e il dolore dei vivi, con quel convegno della solita associazione partigiani a pochi giorni dal 10 febbraio. In quella data si celebrerà per volontà del Parlamento la Giornata del Ricordo. Ma a breve distanza, si è consentito in un pezzo dello stesso Parlamento di negare il fondamento di quella legge.
Che cosa avrebbero detto se alla vigilia del 25 aprile…
Ci chiediamo che cosa succederebbe se a poche ore dal 25 aprile si presentasse dal presidente Fico l’on. Giovanardi per farsi concedere una sala in cui discutere del triangolo rosso. Lo squarcio di luce nei delitti dei partigiani rossi contro quelli bianchi e contro i preti. Le pagine di Giampaolo Pansa. Quanto avrebbero strillato questi signori che non conoscono rispetto, pietà, memoria quando riguarda quello che non aggrada loro?
Esprimiamo indignazione totale per l’evento con il quale, nella Biblioteca del Senato, si è puntato – di nuovo e con l’ombrello istituzionale – su un revisionismo che disgusta. Perché riguarda il sangue dei nostri connazionali, il sacrificio di decine di migliaia di infoibati, assieme all’esodo di tantissime famiglie italiane. Ci piacerebbe conoscere nome e cognome di chi ha consentito una sceneggiata antistorica.
L’associazione partigiani continua a seminare di falsità il suo percorso. Con balle nemmeno tanto nuove su quella che fu una tragedia nazionale. Insistono sul ritornello della reazione al fascismo: lo fanno per negare quella voglia di pulizia etnica che mosse gli uomini del maresciallo Tito. Al quale la Repubblica, ignominiosamente, ancora non ha tolto una onorificenza immeritata, immotivata, provocatoria.
Quel paragone insulso tra Bibbiano e le Foibe
Odio smisurato, ecco che cosa cova a sinistra. Ed è ripugnante da leggere quello che è uscito dalla bocca di Anna Cocchi, presidente dell’Anpi di Bologna. “Non si possono usare strumentalmente e politicamente le foibe – ha detto la svergognata – come è stato fatto con Bibbiano”, parlando di “numeri gonfiati”. Questa signora si faccia vedere da qualcuno bravo, perché ne ha bisogno. E per fortuna che i bambini di Bibbiano sono rimasti vivi, altrimenti a sentire certa roba, sarebbero diventati anch’essi morti negati. Che pena!
Ci troviamo di fronte esclusivamente al tentativo di minimizzare la tragedia. Di più, ha denunciato Giorgia Meloni: “Vogliono provare a giustificare la violenza contro gli italiani. E’ un vero e proprio oltraggio agli esuli istriani e dalmati, alle vittime dell’odio comunista, e ancor più grave che il tutto sia avvenuto all’interno di un’Istituzione”.
Questa Italia non riesce proprio a riconciliarsi con se stessa. Da destra non si è certo esitato a riconoscere l’orrore dell’Olocausto. A sinistra invece si convive ancora con il negazionismo sulla Foibe. Dividono i morti. Cancellano le responsabilità. Occultano la memoria.
Sarebbe bello se qualche parola la tirasse fuori Liliana Segre, e lo diciamo senza alcuna volontà polemica. Proprio chi è destinata alla guida di una commissione che dovrebbe contrastare l’odio ha il dovere morale di dire smettetela a chi continua a insultare quegli italiani assassinati proprio perché erano italiani.
Fratelli d’Italia: «Finalmente la circolare del ministro Bianchi per il Giorno del Ricordo nelle scuole». Redazione il 09 febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Il pianeta scuola non potrà più ignorare le celebrazioni del Giorno del ricordo delle vittime delle foibe. E dell’esodo giuliano-dalmata. Dopo decenni di silenzio e maldestri tentativi negazionisti il ministero di viale Trastevere ha accolto le sollecitazioni di Fratelli d’Italia. Per una programmazione adeguata che celebri le vittime di una delle pagine più drammatiche della storia nazionale.
Scuole, Fratelli d’Italia: finalmente la circolare per il Giorno del Ricordo
“Finalmente è stata emanata la circolare per il Giorno del Ricordo da parte del Ministero dell’Istruzione. In merito alle iniziative che saranno promosse nelle scuole. Viene dato seguito alla risoluzione, a prima firma Frassinetti, approvata dalla VII commissione in maniera unitaria”. Così in un comunicato congiunto i parlamentari di Fratelli d’Italia Federico Mollicone e Paola Frassinetti. Che ringraziano il ministro Bianchi e il sottosegretario Sasso per aver dato seguito al loro appello.
Ora iniziative con gli esuli e interpreti come Cristicchi
“Ora, per tutto il mese in corso, siano garantite iniziative e incontri con gli esuli. Per sentire dalla viva voce degli esuli la tragedia delle foibe. O con interpreti come Cristicchi, con ‘Magazzino 18’. Ora – aggiungono i deputati del partito di Giorgia Meloni – si garantisca la trasmissione al Parlamento di dati specifici sulle iniziative promosse, verificando anche, come indicato dalla risoluzione stessa, che siano gli esponenti delle associazioni degli esuli a portare avanti le memoria di ciò che è avvenuto. “I presidi – proseguono Mollicone e Frassinetti – diano attuazione, escludendo qualsiasi forma di negazionismo e revisionismo come avvenuto a Verona. Dove in una conferenza in un istituto superiore allo ‘storico’ Eric Gobetti, che minimizza, giustifica e riduce i massacri delle foibe, sono state affiancate le voci autorevoli di Biloslavo e Briani”.
Foibe, la Lega allerta il ministro Messa: «Il rettore Montanari si fa beffa del Giorno del Ricordo». Redazione martedì 8 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
«Tomasi Montanari fomenta divisioni e politicizza lui stesso una vicenda che dovrebbe essere consegnata allo studio della storia e al rispetto di quanti su quel confine persero la vita». A sostenerlo, almeno questa volta, non è il Secolo d’Italia, ma un’autorità di governo nella persona del sottosegretario Tiziana Nisini. L’esponente leghista davvero non le manda a dire al rettore dell’Università per Stranieri di Siena, segnalatosi già nell’estate scorsa per il suo negazionismo sulle foibe. E che ieri è tornato sull’argomento annunciando un convegno che si presenta ambiguo sin dal titolo. Eccolo: “Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo“.
Nel mirino il convegno organizzato da Montanari
Persino un bambino s’accorgerebbe che il vero obiettivo di Montanari è parlare d’altro. Di tutto, forse, tranne che della tragedia che si abbattè sugli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia alla fine del secondo conflitto mondiale «Vorrei ricordare a Montanari – ha aggiunto la Nisini – che la legge che istituisce il Giorno del Ricordo non ha come scopo solo quello di onorare la memoria delle vittime innocenti e degli esuli. Ma ha anche quello di creare una memoria condivisa sulle vicende che interessarono il nostro confine orientale». La sottosegretaria non è l’unica del suo partito ad strigliare Montanari.
I senatori del Carroccio: «Si vergogni»
Di «squallida iniziativa» hanno infatti parlato i sottoscrittori di un’interrogazione parlamentare – primo firmatario William De Vecchis – rivolta al ministro dell’Università Messa. Nessuna volontà censoria, ci mancherebbe. I senatori del Carroccio hanno infatti chiesto di sapere se Montanari, nella sua qualità di rettore, «possa farsi promotore di iniziative di critica esplicita verso una legge dello Stato e, congiuntamente, di un’offesa così marcata alle vittime delle foibe». Duro anche il commento politico dei firmatari. «A sinistra – si legge nell’interrogazione – ci ricascano sempre, cercando puntualmente di svilire e sottovalutare responsabilità e diluire atrocità che furono perpetrate da bande di criminali comunisti ai danni di italiane ed italiani di ogni età. Montanari si vergogni».
Foibe, Montanari critica il Giorno del Ricordo: scoppia la polemica. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.
«Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo». È il titolo del seminario di studi che si è svolto ieri all’università per stranieri di Siena. A organizzarlo è stato il professor Tomaso Montanari, rettore dell’ateneo. Un’iniziativa che alla vigilia della giornata (oggi) che ricorda le vittime delle foibe, ha suscitato nuove polemiche e accuse di negazionismo al rettore che già in passato aveva contestato «l’uso strumentale che la destra neofascista fa delle foibe» ma ha sempre respinto l’accusa di essere un negazionista. Contro il seminario di ieri alcuni esponenti di Fratelli d’Italia e della Lega avevano chiesto l’intervento del ministro dell’Università e della ricerca Maria Cristina Messa accusando il rettore di diffondere «pericolose teorie negazioniste sulle foibe».
All’iniziativa hanno partecipato docenti di alcuni atenei e storici. Tra questi Francesco Pallante, dell’università di Torino, Marta Verginella, dell’università di Lubiana, Filippo Focardi, dell’ateneo di Padova ed Eric Gobetti, membro del comitato scientifico dell’Istituto storico della Resistenza di Alessandria.
«Un’iniziativa scientifica e non politica — ha spiegato Montanari —. Sono convinto che i morti delle foibe, una pagina tragica della nostra storia, sia stata strumentalizzata da qualcuno, e questo qualcuno sono i fascisti».
Il professore ha inoltre spiegato ai giornalisti che oggi diverse associazioni neofasciste si sono date appuntamento a Firenze per celebrare il Giorno del ricordo. «E allora mi domando: è normale che una festa dello Stato venga celebrata da associazioni neofasciste e neonaziste?», ha detto.
Pesanti le critiche contro l’iniziativa dell’ateneo senese. Il sottosegretario al Lavoro, Tiziana Nisini (Lega), ha accusato Montanari di «non perdere occasione per mancare di rispetto ai martiri delle foibe». L’eurodeputata leghista Susanna Ceccardi ha chiesto «di farla finita con queste baggianate giustificazioniste, revisioniste o negazioniste: alle vittime italiane del massacro perpetrato dai comunisti di Tito deve essere dato lo spazio e il rispetto che meritano». Mentre il consigliere regionale della Toscana, Marco Landi — anche lui della Lega — ha accusato il rettore di «attenzione morbosa che lo accompagna durante l’intero anno e raggiunge l’apice alla vigilia del Giorno del ricordo».
Secca la replica di Montanari: «Chi contesta la doverosa attività di ricerca dell’università è fuori dal progetto della Costituzione e dimostra di avere una coscienza totalitaria e non democratica. L’università deve continuare a non farsi intimidire e a svolgere il suo ruolo, se dovesse smettere perché minacciata dalla politica saremmo già in un regime totalitario».
Montanari e le foibe, quando all’analisi storica si preferisce un’esibizione provocatoria. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.
Più che una riflessione è un’ossessione, più che un’analisi è un’esibizione, più che storiografia è mitomania. Per Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, le foibe rappresentano sempre una buona occasione per mettersi in mostra davanti a una sinistra «dura e pura». Di cui, evidentemente, si sente l’ultimo erede. Alla vigilia del Giorno del ricordo, «istituito — come recita la legge n. 92 del 30 marzo 2004 — al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra», Montanari ha pensato bene di organizzare a Siena un seminario dal titolo: «Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del ricordo».
Nel presentare il convegno (in una sala semideserta), Montanari ha ribadito il carattere accademico dell’incontro («l’università non si schiera politicamente»), che in discussione non è la tragedia delle vicende ma il revanscismo fascista che ha portato all’istituzione della legge del 2004, e tuttavia (nonostante la qualità degli interventi) a nessuno sfugge il carattere di provocazione per ribadire, ancora una volta, come questa ricorrenza sia «una falsificazione storica» voluta dalle destre. Il Giorno del ricordo non è nato in evidente opposizione alla Giornata della memoria (della Shoah). Se alcuni faziosi lo fanno (e lo fanno), se ne assumano la responsabilità. Ma non esiste nessuna equiparazione fra i due eventi: la Shoah indica l’unicità di una tragedia senza paragoni. Le foibe sono un abisso, la voragine dell’inebetimento umano. Non paragonabili al calcolato progetto di genocidio dei nazisti ma pur sempre parte di quell’ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo.
Le foibe e il destino di Trieste: il valore del Giorno del Ricordo. Il libro in edicola con il «Corriere» Foibe, facciamola finita con l’oblio. Bisogna riconquistare la memoria Esodo e foibe, italiani in fuga da Tito. Un libro per il Giorno del Ricordo Le Foibe e Montanari, rettore di lotta e di governo La repubblica dei datteri in cui vive Tomaso Montanari Tomaso Montanari, il prof delle polemiche (che si va a cercare)
La disinvoltura sul numero dei morti «costituisce — ha scritto Raoul Pupo — un ottimo trampolino di balzo per il negazionismo, che ha buon gioco nel denunciare esagerazioni e incongruenze e che nel facile risultato trova la spinta a mettere in discussione non solo la retorica rappresentazione, ma la sostanza dei fatti». La memoria va a corrente alternata? Memoria significa anche ricordare l’accoglienza riservata da molti italiani ai profughi. Come suggerisce Toni Concina, presidente dei Dalmati italiani nel mondo: «Vorremmo che la Nazione ricordasse con serietà e orgoglio i suoi 350.000 figli estirpati dalle loro terre e dimenticati per decenni. E che si smetta di considerarla legata soltanto all’occupazione fascista! Basta leggere i censimenti austriaci dell’inizio ’900 e paragonarli con quelli croati di fine secolo per toccare con mano la sostituzione etnica effettuata sulla pelle di cittadini laboriosi e onesti, principali vittime delle conseguenze della sciagurata Seconda guerra mondiale».
Paolo Del Debbio per “La Verità” il 9 febbraio 2022.
Non c'è pace per i morti ammazzati e gettati brutalmente nelle foibe, legati con un filo di ferro gli uni agli altri in modo che, spinto il primo, questo si sarebbe trascinato dietro tutti. Non è inutile ricordare che questo nome, foiba,deriva dal latino fovea che vuol dire antro, spelonca, e infatti le foibe furono chiamate così proprio perché sono delle specie di inghiottitoi naturali tipici delle zone carsiche che sembrano fatti apposta per nascondere l'orrore di quegli eccidi.
Domani si celebra il Giorno del ricordo in memoria proprio della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, nonché dell'esodo degli istriani, fiumani e dalmati, costretti a lasciare le loro terre nel secondo dopoguerra.
Questa data è stata istituita dalla legge del 30 marzo 2004, n. 92. Dunque una legge nazionale nella quale, all'articolo 2, si invitano le istituzioni e le scuole a organizzare «iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi». Per lo stesso giorno - 10 febbraio - l'ineffabile professor Tomaso Montanari, Rettore Magnifico dell'Università per stranieri di Siena, ha indetto un convegno dal titolo «Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del ricordo».
Non vogliamo fare quello che George W. Bush fece nel caso dell'Iraq, cioè un attacco preventivo. Del contenuto del convegno, ovviamente, parleremo a tempo debito. Ma viste le affermazioni recenti del Magnifico, che ha timbrato come «legge neofascista che va cancellata» la legge istitutiva di questo Giorno del ricordo, e visto che ritiene questa celebrazione «frutto di battaglie revisioniste» e «il più clamoroso successo di falsificazione storica da parte della destra più o meno fascista», capirete bene che qualche dubbio ci viene, anche perché il professore ama citare spesso una frase di Eric Gobetti tratta dal volume.
E allora le foibe?, nella quale lo storico sostiene che «la Giornata del ricordo come è stata concepita è il momento in cui la versione del neo fascismo italiano diventa la versione ufficiale dello Stato».
Sia pure a dir poco ributtanti, a questi rappresentanti dell'intellighenzia più alla moda va dato atto almeno di dire le cose con chiarezza. Con tutta onestà e con tutto il rispetto nei confronti di chi lo ha votato, ci sia permesso di chiamare il professor Montanari semplicemente rettore, perché di magnifico nelle sue parole rinveniamo ben poco. E si noti bene, non riteniamo aberranti queste parole per una questione storica che, come tutte le questioni storiche, può e deve essere discussa sempre e legittimamente.
Si chiama ricerca scientifica. Il motivo è un altro: se il professor Montanari - che non avrà certo difficoltà a rastrellare a proprio sostegno un gruppo di costituzionalisti, storici e magari anche qualche ottone (non ci riferiamo alla dinastia ottoniana dal Ducato di Sassonia fino al Regno d'Italia, ma più semplicemente alla famiglia degli strumenti a fiato cui appartengono anche i tromboni) - ritiene che questa legge sia neofascista, appellandosi alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana che vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista, nonché alla legge Scelba del 1952 che introdusse il reato di apologia del fascismo, nonché alla legge Mancino del 1993 che sanziona e condanna frasi, gesti, azioni, slogan e violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, si rivolga - corroborato dal gruppetto sopra descritto - alla Corte costituzionale e sollevi il caso di illegittimità costituzionale della legge che ha stabilito nel 2004 il Giorno del ricordo.
Perché delle due l'una: o il convegno indetto dal professor Montanari rappresenta solo un'occasione di scandalo storiografico (che non c'entra nulla con la scientificità), oppure è una cosa seria, ma le cose serie esigono normalmente che chi le propugna vada fino in fondo, se no si tratta del famoso sasso lanciato e seguito dal nascondimento della mano che lo ha lanciato.
Non c'è un presidente della Repubblica - a partire da Giorgio Napolitano che pure, lo ricordiamo en passant, nel 1956 si pronunciò a favore dell'invasione sovietica dell'Ungheria, riconoscendo in seguito lo sbaglio e dichiarando che «sui fatti d'Ungheria, sulla rivoluzione e sulla repressione aveva ragione Nenni» - che non abbia difeso il Giorno del ricordo con forza.
Perché chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale non può che riconoscere quello che Napolitano stesso disse nel 2008: «Non dimentichiamo e cancelliamo nulla: nemmeno le sofferenze inflitte alla minoranza slovena negli anni del fascismo e della guerra. Ma non possiamo certo dimenticare le sofferenze, fino a una orribile morte, inflitte a italiani assolutamente immuni da ogni colpa». A parte la colpa, aggiungiamo noi, di non sottostare al regime comunista di Tito e per molti la colpa di rappresentare la società borghese, rea di avere delle proprietà private in quelle zone e di non aderire al regime titino.
Noi celebreremo il Giorno del ricordo come un atto doveroso, costituzionalmente ineccepibile, storicamente e umanamente imprescindibile. In altri termini, un atto dovuto.
Foibe silenziate, altre vergogne a Roma e a Milano. Carla Cace: “Riduzionismo strisciante”. Augusta Cesari venerdì 4 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Ancora un vergognoso riduzionismo sulle foibe a pochi giorni dal 10 febbraio. “I consiglieri di maggioranza del Municipio XIII, con un imbarazzante teatrino, hanno prima presentato e poi ritirato un atto sulla Memoria. Ma cosa ancora più grave, hanno bocciato una nostra mozione che prevedeva un dibattito sulle Foibe. Organizzato, a titolo gratuito, dall’associazione di promozione sociale “Comitato 10 Febbraio”. Accade a Roma, la denuncia è del capogruppo di Fratelli d’Italia in Municipio XIII, Isabel Giorgi e i consiglieri municipali di FdI, Marco Giovagnorio e Simone Mattana. Un atto gravissimo. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire amaramente. Ma ogni anno va sempre peggio e il ricordo della tragedia italiana trova sempre un muro di ostracismo. Vietato ricordare.
Roma, il XIII Municipio vieta un dibattito sulle foibe
“Una decisione assurda, mai successa prima in Consiglio, che infanga la memoria di migliaia di persone morte in questo tragico eccidio; e soprattutto non rispetta la legge 92 del 2004 attraverso la quale il Parlamento ha designato il 10 febbraio come “Giorno del Ricordo”. I rappresentati di FdI sono attoniti, sconcertati. “Mentre nelle scuole di ogni genere e grado saranno previste iniziative; nonché la realizzazione di studi, convegni e incontri per favorire e diffondere la memoria di queste vicende; nel Municipio XIII sarà vietato “ricordare”. Tutto ciò è semplicemente vergognoso”. Si è già scatenata la vergogna, a più riprese.
Foibe, Milano: il 10 febbraio sarà una cerimonia “carbonara”
L’iniziativa di Gorizia con il convegno negazionista, presente Eric Gobetti (“E allora le foibe“?) non è il solo punto di caduta. A Torino c’è stata la vergognosa protesta di tutto il sinistrume, Anpi in testa, per una locandina che mostra i comunisti partigiani di Tito “troppo brutti” e mostruosi. Ne sa qualcosa l’assessore regionale Maurizio Marrone di FdI, promotore di un ciclo di iniziative per il 10 febbraio. Preso di mira per un manifesto “troppo realistico”. Già, meglio silenziare e rendere “meno orribili” i fatti raccapriccianti. E in effetti è quel che succederà a Milano. Qui la cerimonia per i familiari degli esuli giuliano dalmati sarà una cerimonia “carbonara” come hanno denunciato le associazioni. Ci sarà infatti una cerimonia in tono minore. In programma fra una settimana in piazza Della Repubblica, dopo tanti ritardi, è stata infine collocata una bella stele realizzata da Piero Tarticchio, punto di riferimento per la comunità degli esuli istriano-dalmati. Ebbene, il comune di Milano ha fatto già sapere che la cerimonia sarà “silenziata”: non sono previsti discorsi e neanche la figura di un sacerdote.
Foibe, Milano umilia i familiari delle vittime
Anche quest’anno il Comune di Milano ha deciso di celebrare così, «a metà», il Giorno del ricordo. «Una cerimonia carbonara» la chiama Tarticchio, mentre spiega la sua intenzione di non essere presente quella mattina. «Per noi è un giorno sacro, una cerimonia carbonara è inutile», dice al Giornale. “Palazzo Marino parla di restrizioni ineludibili legate alla pandemia, per un evento in programma il 10, giorno precedente allo smantellamento di molte misure”. Tutto molto pretestuoso: «Siamo molto amareggiati, dispiaciuti – dice Romano Cramer segretario del Movimento Istria Fiume Dalmazia al Giornale -. Noi siamo ligi alle regole, ma non comprendiamo queste restrizioni. Esprimiamo il nostro disappunto, ci dispiace che non si possa dire una parola, che non possa neanche intervenire il sacerdote con due parole di conforto ai familiari delle vittime».
Carla Cace: dal negazionismo al giustificazionismo
C’è una morale triste da trarre da tutto ciò: ”A tanti anni di distanza dall’istituzione della legge del giorno del Ricordo non si può più parlare di negazionismo: perché in realtà nessuno nega il fenomeno delle foibe e dell’esodo. Ma i rischi sono quelli del riduzionismo e del giustificazionismo che avanzano in maniera serpeggiante ma preoccupante”. E’ la morale che trae la presidente dell’Associazione nazionale dalmata, Carla Cace. ”Già lo scorso anno abbiamo fatto una contro-lista con tutti i punti del libro di Gobetti che erano assolutamente indecorosi”, ricorda con l’Adnkronos. “Quindi abbiamo fatto un contro fact checking che abbiamo fatto circolare per il 10 febbraio”. “Il problema è che tra le giovani generazioni solo uno studente su cinque sa rispondere correttamente alla domanda che cosa sono le foibe. E queste iniziative continuano a far circolare la disinformazione”.
Un docufilm dell’Associazione nazionale dalmata
A questo proposito la presidente dell’associazione nazionale dalmata annuncia: ”il 10 febbraio lanceremo il trailer di un cortometraggio: un docufilm di 15 minuti che daremo gratuitamente a tutte le scuole d’Italia. Affinché tutti gli insegnanti possano avere uno strumento da cui partire e su cui costruire un dibattito. Spesso ci è capitato che insegnanti o associazioni o gente che voleva approfondire questo argomento ci dicesse ‘non abbiamo del materiale che ci supporti”’. ”Abbiamo realizzato questo docufilm, tra l’altro sottotitolato in inglese, che diffonderemo anche a livello internazionale: tanto più che il 10 febbraio sarà lanciato anche al consolato italiano di New York – spiega – Ricordiamoci che dopo questi drammi migliaia e migliaia di esuli decisero di partire alla volta dell’America e dell’Australia, emigrarono scioccati. Ed è importante riunire anche questa comunità di cui poco si parla. Anche perché a ormai 80 anni di distanza la tragedia delle foibe va inserita correttamente tra i genocidi e tra i crimini contro l’umanità dei totalitarismi del ‘900”.
· Lo sterminio comunista degli Ucraini.
Putin "cancella" l'Ucraina a Mosca: "Ora sarà l'hotel Novorossiya". Federico Garau il 24 Aprile 2022 su Il Giornale.
In Russia si cancellano le tracce dell'Ucraina: il caso dell'albergo affacciato sul Moscova.
In Russia si sarebbe messa in moto una vera e propria campagna anti-Ucraina. Questo almeno quanto riferisce oggi La Stampa, che racconta come a Mosca sia stato eliminato il cartello che indicava la svolta verso l'albergo Ucraina dal ponte Novoarbatsky.
Nella capitale russa, infatti, si trova un hotel di oltre 206 metri che ha proprio il nome della nazione oggi in aperto conflitto con la Federazione russa, ma da qualche giorno al posto del cartello che segnalava la sua presenza si troverebbe ora un pannello che fornisce indicazioni sul parcheggio. Secondo il quotidiano torinese, il nome Ucraina sarebbe stato tolto per non arrecare disturbo a certe personalità altolocate, compreso il presidente Vladimir Putin.
L'albergo Ucraina, ultimato nel '57 e battezzato da Nikita Krusciov, successore di Stalin, aveva fra l'altro già cambiato nome. Oggi, infatti, si chiama Radisson Collection Hotel Moscow, ma secondo La Stampa qualcuno del municipio di Mosca sarebbe voluto correre ai ripari, eliminando ogni residua traccia dell'antico nome. Non solo. Lo stesso quotidiano afferma che in Russia ormai la parola "Ucraina" è divenuta impronuncinabile e che sui social network si starebbe addirittura facendo ironia sull'hotel, dicendo che Putin, frustrato dalla guerra ancora in corso, potrebbe arrivare a prendersela con l'edificio al posto del Paese nemico.
Secondo La Stampa, che parla di "cancel culture" russa, anche il monumento al poeta nazionale ucraino Taras Shevshenko sarebbe a rischio, ed in alcuni ambienti si starebbe già riadottando il nome di Novorossiya per alcuni territori dell'Ucraina, per la precisione quella fascia dell’Ucraina meridionale un tempo appartenuta alla Russia imperiale.
Ma gli esempi riportati dal quotidiano del gruppo Gedi per corroborare le accuse di "cancel culture" russa non finisco qui. Si parla anche di interferenze nei futuri manuali scolastici. Per la precisione, secondo il media indipendente russo MediaZona, alla casa editrice Prosveschenie sarebbe stato chiesto di menzionare l'Ucraina il meno possibile. Ed anche le parti sulla Rus' di Kiev sarebbero state ridotte.
E ancora, fra le notizie che circolano, si dice che la città di Murmansk sia arrivata a cambiare i colori del proprio stemma, blu e giallo, mentre a Yakutsk avrebbero addirittura smontato gli spalti dello stadio, sempre per via dei colori.
La Stampa riferisce poi che a Mosca un passante sarebbe stato arrestato perché sorpreso ad andare in giro con un paio di scarpe blu e gialle, mentre una donna di nome Natasha Tyshkevich sarebbe finta dietro le sbarre per 15 giorni per aver postato lo stemma ucraino sul proprio blog. Viene infine citato l'arresto del 61enne Mikhail Kavun, che secondo la Tass sarebbe però finito in manette con l'accusa di aver finanziato l'organizzazione estremista ucraina Right Sector.
Di Andrea Lombardi su Culturaidentita.it il 25 Febbraio 2022
Inedite per la maggior parte in Italia e qui presentate per la prima volta nel loro insieme grazie all’Ucrainica Research Institute di Toronto (Canada) che ci ha permesso di riprodurle, pubblichiamo queste rarissime fotografie della carestia pianificata e della collettivizzazione forzata sovietica dell’Ucraina del 1932-1933, e delle sue vittime, e a corredo del testo riprendiamo un approfondimento storiografico a cura di Riccardo Michelucci (“Avvenire”) su questo importante avvenimento “dimenticato” del ‘900, tornato ora tragicamente alla ribalta.
Poco più di trent’anni fa, il grande storico inglese Robert Conquest inaugurò gli studi sul cosiddetto “Holodomor”, il più imponente sterminio della storia europea del XX secolo dopo l’Olocausto. Nel suo monumentale lavoro pionieristico Harvest of Sorrow (tr. it Raccolto di dolore), uscito nel 1986 – prima del crollo dell’Unione Sovietica -, riuscì a documentare il disegno criminale di Stalin che causò la morte per fame di milioni di ucraini, nei primi anni ’30. Da allora il dibattito ha visto gli storici dividersi non tanto sulle cause della carestia, quanto per stabilire se sia corretto o meno definirla «un atto di genocidio», con le implicazioni politiche che ne deriverebbero.
Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima dello stesso Conquest, era stato Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniò il termine genocidio e si batté per inserirlo nel diritto internazionale. Un riconoscimento ufficiale del dramma ucraino è stato però finora sempre ostacolato dall’opposizione prima dell’Unione Sovietica, poi della Russia. Un contributo importante in questo dibattito arriva adesso dal saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2004 per un libro sui gulag dell’era sovietica. Editorialista del Washington Post e grande esperta di storia russa, Applebaum si è avvalsa di una gigantesca mole di fonti documentarie inedite provenienti da archivi locali e nazionali russi e ucraini (alcuni dei quali aperti per la prima volta negli anni ’90), nonché testimonianze orali dei sopravvissuti pubblicate dall’Istituto ucraino della memoria nazionale.
Com’è stato sottolineato da altri storici, la brutale collettivizzazione delle terre voluta da Stalin scatenò e poi intensificò quella carestia, che non colpì soltanto l’Ucraina ma interessò anche altre parti dell’Unione Sovietica. Nelle lettere private degli archivi di stato russi, i leader sovietici parlano di «spezzare la schiena alla classe contadina», e la stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan.
Non v’è dubbio, però, che i maggiori danni e il più alto numero di vittime sia stato registrato proprio in Ucraina, dove le radici storiche di quei fatti, come racconta Applebaum, affondano nei secoli precedenti. I territori che gli zar avevano confiscato agli ottomani e ai cosacchi nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere considerati parte essenziale dell’impero russo fin dall’ascesa della dinastia Romanov. Durante la guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica, la classe contadina ucraina, essenzialmente conservatrice e anti comunista, non volle mai sottomettersi al nuovo potere e resistette strenuamente alle armate di Lenin. Sul finire degli anni ’20 i contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre per aderire alle fattorie collettive dello stato. Gran parte di essi si opposero duramente alla collettivizzazione, rifiutandosi di cedere il grano, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il politburo sovietico lo considerò un atto di ribellione e, pur di fronte alla sempre più grave carenza di cibo nelle campagne, mandò gli agenti e gli attivisti locali del partito a requisire tutto quello che trovavano, compresi gli animali. Al tempo stesso fu creato un cordone attorno al territorio ucraino per impedire la fuga.
Il risultato fu un’immane catastrofe: almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Urss non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, circa quattro milioni erano ucraini. Stalin rifiutò qualsiasi forma di aiuto dall’esterno, accusò i contadini che stavano morendo di fame di essere loro stessi colpevoli di quanto stava accadendo e promulgò leggi draconiane che esacerbarono la crisi. Chiunque veniva trovato in possesso anche solo di una buccia di patata era passato per le armi.
Applebaum spiega che la carestia non fu causata dalla collettivizzazione, ma fu il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, delle feroci liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi. Il capitolo sulle conseguenze della carestia è a dir poco agghiacciante: dopo aver citato un rapporto riservato nel quale il capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale di quegli anni di terrore che vide anche brutali persecuzioni antireligiose, con la sconsacrazione e la distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava un’antica tradizione popolare.
Lo sguardo della studiosa statunitense si sofferma su tutti gli aspetti della vicenda, analizzando anche il modo in cui l’identità nazionale dell’Ucraina post-sovietica sia stata costruita attorno a essa, e approfondisce il tema delle coperture nazionali e internazionali che hanno consentito di celarla agli occhi del mondo. Non solo l’Unione Sovietica non la riconobbe mai, ma soffocò qualsiasi forma di dissenso e manipolò le statistiche demografiche, secondo le quali nel 1937 circa otto milioni di persone risultavano svanite dal Paese. Quanto ai corrispondenti a Mosca dei giornali stranieri, con la sola eccezione dell’eroico giornalista gallese Gareth Jones, non si sognarono di raccontare quei fatti. William Henry Chamberlin del “Christian Science Monitor” scrisse che i cronisti «lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa».
Ma l’Holodomor fu davvero un atto di genocidio? Applebaum non ha dubbi e ritiene che quanto accadde tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di Lemkin, ma resta purtroppo escluso dalla formulazione redatta nel 1948 con la “Convenzione sul genocidio”. Non a caso l’Unione Sovietica vi contribuì in modo decisivo proprio al fine di escludere l’olocausto ucraino. Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato in tal senso, l’Holodomor continuerà dunque a rimanere formalmente escluso dalla lista dei genocidi.
Quei silenzi sull'attentato alla Sinagoga di Roma, il libro denuncia nel racconto di un superstite. Maurizio Molinari su La Repubblica il 12 settembre 2022
Gadiel Gaj Taché torna a casa dall’ospedale dopo l’attentato alla sinagoga di Roma
A quasi quarant'anni dal sanguinoso atto antiebraico di un commando di terroristi del 9 ottobre 1982 la testimonianza di Gadiel Gaj Taché, fratello del piccolo Stefano, unica vittima a soli due anni
A pochi giorni dal quarantesimo anniversario dell'attentato alla Sinagoga di Roma Gadiel Gaj Taché, fratello di Stefano che fu l'unica vittima, ci consegna un libro-verità con un racconto mozzafiato su un fatto di terrorismo che ferì il nostro Paese ma resta ancora avvolto in troppi interrogativi senza risposta. Nel volume Il silenzio che urla, edito da Giuntina, 121 pagine di emozioni laceranti, fatti drammatici e domande spietate accompagnano i lettori, consentendo di rivivere da dentro, senza perifrasi, il più sanguinoso atto antiebraico avvenuto in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Penetrare l’umano. La memoria della Shoah oggi e l’inesauribile conflitto delle immagini. Gilda Policastro su L'Inkiesta il 7 Settembre 2022.
Arturo Mazzarella indaga le ragioni dietro alla grande produzione culturale che ha tentato di testimoniare il genocidio di milioni di ebrei. La sua è anche una riflessione sulla temporalità e sulla distanza che frapponiamo ai traumi
Il nuovo saggio di Arturo Mazzarella, La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini, uscito nella collana “agone” curata da Antonio Scurati per Bompiani, prende le mosse da un’interrogazione sulla gran quantità di libri, film, serie tv che continuano a dedicarsi al tema annunciato dal titolo, quasi non si fosse esaurita e non si potesse mai del tutto esaurire, nemmeno con la progressiva evanescenza biografica dei testimoni oculari (aggettivo ben programmatico, come vedremo), la funzione-reperto o testimonianza sull’episodio più violento, osceno, incomprensibile della storia del Novecento.
La prima impressione potrebbe essere, dietro suggerimento dello stesso autore, quella di una ridondanza: l’ennesimo libro su un tema abusato. Ma l’indagine di Mazzarella si svolge in una prospettiva particolarmente originale, decostruendo passo dopo passo, sulla scorta di plurimi testi-guida (dall’Antelme della Specie umana all’Améry di Intellettuale ad Auschwitz fino a Celan e Sebald, passando inevitabilmente per Levi), l’idea comune e inevitabile di un evento choc e perciò inimmaginabile.
È invece proprio sull’immagine come risorsa, antidoto, spina (sulla scorta di Elias Canetti) che Mazzarella incentra il discorso sulla Shoah, scandendolo nel primo capitolo in tre momenti dinamici (che torneranno, cioè, in altri punti del discorso) e consequenziali.
Il primo è come l’immagine del deportato si costituisca nella reciprocità ma anche nell’omissione dello sguardo, conservando una propria autonomia dalla visione coatta, che preluderebbe (vorrebbe preludere, scopriremo) all’omologazione delle “figure” (così venivano chiamati i prigionieri) e all’annientamento individuale. Proprio da quest’autonomia (relativa, ma pur sempre autonomia) deriva una possibilità di aggiramento del negativo storico e del suo (tentato) azzeramento della vita, attraverso la preservazione di ciò che dalla storia (e dalle azioni umane) non dipende (la natura, ad esempio) e continua a esistere anche in mezzo all’orrore (le betulle fuori da Auschwitz).
L’immagine come “pungolo” è il successivo scatto: pungolo o, per dirla di nuovo col Canetti più volte richiamato dall’autore, «stimolo contrario all’imposizione» e dunque fattore di trasformazione, di mutazione o metamorfosi all’interno del Lager.
In ultimo, l’aspetto forse più interessante perché prevede un rovescio prospettico (ed etico): il ribaltamento dell’ottica del dominio e l’inferenza dello scacco nazista (lo sterminio, cioè, come progetto fallimentare perché i morti, col Fédida citato dall’autore, «non sono mai scomparsi abbastanza«»).
Si procede, da qui in poi, con una serie di campioni (opportunamente Mimmo Cangiano nella sua recensione uscita su “Le parole e le cose” ha parlato di «metonimie») del discorso indiretto, non testimoniale sulla Shoah: su tutte, il passato “carbonizzato” di Celan e le sue “tracce di cenere” (dai Microliti), che Mazzarella paragona all’autocombustione delle tele di Kiefer. Riferimento più che mai pertinente dopo la recente mostra site-specific al Palazzo Ducale di Venezia, con traduzione visiva ovvero smaterializzazione iconografica dell’incendio che distrusse la città nel 1577.
L’assunto comune è l’immagine come fattore di dispersione e allo stesso tempo come coagulo, riproposta di frammenti, deposito di tracce e collettore di resti. È propriamente il Celan «che non ha visto nulla ma sa troppo» a incentrare la riflessione in questo punto cruciale del libro, il Celan che sconta la colpa della sopravvivenza al posto di qualcun altro (i suoi genitori, ma tutti i morti della Shoah) e «continua a incunearsi in un passato sempre vivo, tanto da essere intrecciato con il presente, per strapparvi […] qualche mucchio di pietre o una distesa di ombre che vorrebbe riportare, senza abbandonarli più, nei propri versi».
Da questo breve estratto, tra l’altro, si può notare quello che gli altri recensori non hanno a parer mio finora sottolineato fino in fondo: il tono letterariamente sostenuto, qualche volta finanche lirico, che l’autore di volta in volta adatta mimeticamente non solo, come atteso, al singolo motivo ma anche e soprattutto al genere e allo scrittore che tratta.
Si passa così dal rigore analitico del primo capitolo, dedicato alla “visione” come strumento di opposizione al potere attivo e fattuale, al secondo che invece approccia il tema plastico della riconversione in immagine dell’indicibile (o dell’ignoto) dalla specola di un esistenzialismo poetico, creaturale, che resta però meditativo e interpretativo e non rinuncia alla filologia: le fonti, la ricezione, la costellazione attesa (Anne Carson su Celan) e quella meno ovvia (Kiefer, appunto, che pure ha dedicato esplicitamente a Celan più di una mostra). Fino all’ultimo capitolo, che giungendo all’iconologica più tipicamente mnestica della ricostruzione attraverso il “museo” (sebaldiano), si fa più asciutto e refertuale (“la faccenda del sopravvivere”).
L’interesse del libro, in ogni sua parte, resta primariamente creativo: l’immagine finta, cioè rappresentata, elaborata, ricreata è per il critico il vero motivo di interesse, al di là del tema estremo tra gli estremi, quasi come se quest’ultimo volesse ridimensionarsi a uno dei temi possibili in merito alla riflessione estetica, e dunque potesse finalmente essere rivisitato senza l’attitudine ricattatoria (e “ripulita”, hollywoodiana) dei romanzi, dei film, delle testimonianze vittimarie.
Un’operazione rischiosa, audace e perfettamente riuscita, nell’aderenza storica che non rinuncia alla visione personale (né potrebbe, data la curvatura dell’indagine), attraverso però uno sguardo trasversale, quello più lucido, che non fissa troppo da vicino l’oggetto e ne rimonta gli effetti, le rielaborazioni, le omissioni e le prospezioni, facendo seguito al metodo di Perec (il falso ricordo) e a quello dello stesso Sebald (il prospettivismo).
Se non il solo atteggiamento possibile, quello più produttivo sul piano estetico-conoscitivo, rispetto a un evento che, alla stregua di Celan, non abbiamo vissuto ma su cui pesa l’eccesso di memoria e di testimonianza proprio mentre si affievolisce, come si notava all’inizio, la viva “presenza” dei testimoni.
L’immagine è «ripresentazione», con David Freedberg, o, col Didi-Hubermann direttamente convocato da Mazzarella, è quello che è “qui”, nell’adesso, «l’oggetto dello sguardo». Ma di quelle immagini, ossimoricamente “inimmaginabili”, è inutile e improduttivo cercare l’autenticità: vanno manipolate, alterate, proprio «per non tradire la pluralità di significati che portano inscritti al di là della loro evidenza sensibile».
Quella di Mazzarella è anche una riflessione sulla temporalità, e sulla distanza che frapponiamo a un qualsivoglia trauma: cosa succede, quando non siamo più dentro le cose, le vediamo meglio o peggio? Qui ci soccorre non solo la memoria, con le sue tecniche (su cui i neuroscienziati hanno parecchio insistito proprio attraverso la spazializzazione della mente, negli ultimi anni), ma anche l’après-coup lacaniano, l’idea che il fatto vada preso per la coda, per essere fino in fondo compreso e metabolizzato.
La questione della prospettiva si dà, nel saggio di Mazzarella, comunque come una questione di montaggio (oltre che di soggettiva): con il Farocki di Respite «il senso di un evento dipende dalle condizioni di visibilità», al contrario di Claude Lanzmann, per il quale la distanza nulla può aggiungere al “sigillo” della compiutezza.
Come si sarà compreso, il viaggio attraverso le immagini in questo libro riassetta lo scarto tra posizioni apparentemente inconciliabili: il conflitto è nella stessa ispirazione iniziale, l’attrazione-repulsione di fronte al macabro sovrabbondare di documentazione più o meno narrativamente o cinematograficamente adattata. Procedendo con la lettura, si scopre che la vulgata dell’interdetto adorniano sulla poesia (e più in generale sulla letteratura finzionale) dopo Auschwitz si può rovesciare nel suo contrario: non si parla d’altro che di Auschwitz, quando si vuole penetrare, occhi negli occhi, l’umano.
Il nuovo antisemitismo e l'elefante islamista nella stanza. Stefano Magni l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.
C’è grande confusione sotto il cielo dell’antisemitismo. Invocato quando non c’è, usato come clava propagandistica contro i nemici, da decenni sta attraversando una trasformazione che pochi analizzano, ma tutti vedono. La matrice principale della giudeo-fobia è islamica e non più di estrema destra.
C’è grande confusione sotto il cielo dell’antisemitismo. Invocato quando non c’è, usato come clava propagandistica contro i nemici (i russi, ad esempio, accusano gli ucraini di antisemitismo e neonazismo, anche se hanno eletto a gran maggioranza un presidente ebreo), l’antisemitismo aumenta in modo esponenziale nelle società occidentali, soprattutto dopo i due anni di pandemia. Si è soliti dare la colpa a chi era il più virulento antisemita nel XX Secolo: il nazista, il fascista, il nazionalista autoritario nelle sue varie declinazioni. Si va ancora a ricercare la radice dell’antisemitismo nel XIX Secolo, nei pogrom condotti dai cristiani, soprattutto ortodossi. E nei secoli dell’Età Moderna, per puntare ancora il dito contro la Chiesa Cattolica e l’Inquisizione spagnola. Ma, anche se i servizi nei Tg, ogni volta che si parla di antisemitismo, per riflesso condizionato, ci mostrano ancora le immagini di svastiche e teste rasate, siamo sicuri che sia ancora quella la matrice principale dell’odio contro gli ebrei?
Almeno dagli anni della guerra al terrorismo, la cui fase più acuta è stata fra il 2001 e il 2008, gli intellettuali più liberi da pregiudizi in Francia, come Alain Finkielkraut, additavano un nuovo nemico: l’anti-giudaismo di matrice islamista (intesa come Islam politico) e le sue numerose connessioni con la sinistra massimalista. Nel nome dell’“antirazzismo”, soprattutto, si associa anche la retorica dell’antisionismo islamico, che si traduce automaticamente in antisemitismo: il bersaglio non è solo Israele, ma l’ebreo in quanto tale, ovunque si trovi. Gli attentati in Francia di matrice antisemita, come la strage nella scuola ebraica di Tolosa del 2012 e quella del Hyper Cacher di Parigi del 2015 (contemporanea al massacro dei redattori del giornale satirico Charlie Hebdo), sono di matrice islamica. Anche i delitti individuali, come il rapimento, la tortura e l’uccisione di Ilan Halimi nel 2006, più recentemente l’assassinio di Sarah Halimi nel 2017 (il cui assassino resta impunito perché ritenuto “non perseguibile”) e di Mireille Knoll nel 2018, sono stati tutti commessi da delinquenti comuni. Che però erano anche musulmani, si erano radicalizzati e hanno ucciso le loro vittime, esplicitamente perché ebree. Mireille Knoll, pugnalata e poi bruciata, in casa sua, da un vicino che conosceva, è una vittima che ha subito il passaggio di consegne da un antisemitismo all’altro: l’anziana donna, classe 1932, era sfuggita per miracolo alla retata dei nazisti del 1942. Ha trovato la morte nel secolo successivo, per mano di un giovane che ha aderito a un altro totalitarismo.
A svelare l’esistenza di questo elefante nella stanza, che si stenta a vedere e condannare, da ultimo è Pierre André Teguieff, sociologo e storico francese. Da studioso della nuova destra, non nega affatto le matrici neonaziste e nazionaliste di parte dell’attuale galassia antisemita, ma nel suo nuovo saggio Sortir de l'antisémitisme? segnala, nella sua intervista rilasciata a Le Figaro, quella che è ormai la nuova tendenza universale dell’antisemitismo: "La grande trasformazione risiede nell’islamizzazione crescente della giudeofobia, attraverso lo spazio occupato dalla fine degli anni Sessanta da parte della 'causa palestinese', innalzata a 'causa universale' nel nuovo immaginario antiebraico condiviso ormai da musulmani e non musulmani. Dall'inizio degli anni Duemila, gli assassinii di francesi di confessione ebraica in quanto ebrei non sono commessi da estremisti di sinistra o di destra ma da giovani musulmani, spesso delinquenti o ex delinquenti, siano essi o no jihadisti in missione - come Mohammed Merah (lo stragista di Tolosa, ndr) o Amedy Coulibaly (autore del sequestro di ostaggi all’Hyper Cacher, ndr)".
Se l’islamismo è la matrice principale, questo poi trova sponde occidentali, sia nell’estrema destra, sia nell’estrema sinistra. E in entrambi i casi, sfrutta il comune odio per Israele e il sionismo, quello che viene identificato nella loro mitologia complottista (comune ad entrambe le estreme) come la belva che domina il mondo, attraverso la finanza, i media, l’arte popolare (il cinema soprattutto) e l’infiltrazione nella politica. Una visione allucinata della realtà che si sposa benissimo con la demonizzazione religiosa dell’ebreo, da parte dei radicali islamici. Teguieff constata infatti che: "Mentre dalla fine degli anni Settanta del Diciannovesimo secolo alla metà del Ventesimo secolo la giudeofobia militante aveva abbracciato i presupposti della secolarizzazione e il razzismo scientifico, rompendo con l'antigiudaismo religioso di origine cristiana - da cui ha ereditato, tuttavia, la visione satanizzante del nemico -, in seguito è entrata nel vasto contro-movimento della de-secolarizzazione, ritrovando una base religiosa in un islam bellicoso che possiamo caratterizzare come un islam politico, che si nutre del risentimento e di una volontà di vendetta - contro gli ebrei e i 'crociati' - così come di un desiderio di conquista del mondo".
L’Anti Defamation League, che ogni anno “fotografa” la diffusione del pregiudizio antisemita in tutto il mondo, nel 2021, come sempre negli ultimi decenni, ha pubblicato dei dati che confermano l’islamizzazione dell’antisemitismo. Il 49% degli antisemiti, in tutto il mondo, è di religione musulmana, contro il 24% di religione cristiana e il 21% fra gli atei (dato significativo per comprendere la tendenza nella sinistra massimalista). Dunque quasi la metà dell’antisemitismo in tutto il pianeta è di matrice islamica. Parlando di aree geografiche, la zona del mondo con la più alta concentrazione di antisemiti è il Medio Oriente allargato (incluso il Nord Africa) con il 74% di rispondenti al sondaggio che mostra di condividere i peggiori pregiudizi e paure contro gli ebrei. È un dato unico al mondo, se confrontato con il 34% in Europa orientale, il 24% in Europa occidentale e il 19% in America. Le nazioni da cui arriva la maggior parte degli immigrati musulmani in Francia sono, per altro fra le più antisemite del mondo, in assoluto. L’Adl rileva infatti la diffusione dell’ostilità contro gli ebrei all’87% in Algeria, 86% in Tunisia, 80% in Marocco, “solo” il 53% in Senegal.
Caterina Soffici per “la Stampa” il 5 Febbraio 2022.
Sono le piccole cose a rendere epiche certe storie. E questa inizia con una frase: «Buona fortuna e felicità». È quanto scrisse un soldato ebreo americano su una banconota che regalò nel maggio 1945 a una ragazza appena liberata dal campo di Auschwitz. Quella ragazza si chiama Lily Ebert e ha compiuto 98 anni lo scorso 29 dicembre e quel piccolo gesto di umanità e di speranza ha segnato l'inizio della sua seconda vita, da sopravvissuta all'Olocausto.
E grazie a quella banconota è cominciata anche la sua terza vita da star di TikTok, dove racconta la Shoah ai giovani, con 1,6 milioni di follower e con 25 milioni di like. La storia è questa. Lily Ebert è la maggiore di una numerosa famiglia di ebrei ungheresi, quando a vent' anni viene deportata. Nei campi di sterminio di Aushwitz e Buchenwald vengono uccisi un fratello, una sorella e la madre. Lei e altre due sorelle si salvano, fingendosi più giovani della reale età riescono a raggiungere la Svizzera e poi Israele dove col tempo si ricostruisce una vita, si sposa, nascono i suoi tre figli. Poi si trasferisce a Londra.
L'impossibilità di ricordare per non rivivere il passato, la volontà di guardare avanti per non rimanere intrappolati nel dolore della memoria, il senso di colpa verso i sommersi: come è successo a molti salvati per anni Lily non ha potuto parlare di Olocausto. Non poteva raccontare il terrore, l'odore ripugnante delle ciminiere dove stavano cremando la tua famiglia, le umiliazioni, i capelli e i peli del pube rasati, la vergogna, la paura, la fame (per tutta la vita ha dovuto tenere sempre con sé un pezzo di pane), i cadaveri delle compagne, la selezione, i medici che lavorano con Josef Mengele, l'angelo della morte.
Si vergognava anche di mostrare quel tatuaggio sul braccio, con il numero A-10572, che nasconde anche ai figli. Come biasimare chi vuole solo dimenticare? Solo quarant' anni dopo quel maggio del 1945, rimasta vedova e con i figli grandi, Lily trova la forza di tornare ad Aushwitz e di onorare la promessa che si era fatta nel campo: se sopravvivo racconterò cosa è successo, perché il mondo non ci crederà, come non ci credevamo noi; e perché una cosa del genere non accada più. Inizia così ad andare nelle scuole, a impegnarsi con associazioni e progetti che tengono viva la memoria, soprattutto le interessa parlare con i giovani.
Talvolta si siede su un divano nel mezzo alla stazione della metropolitana di Liverpool Street, una delle più caotiche, convulse e congestionate della rete londinese, e invita i passanti a farle compagnia e a parlare di Olocausto. È la sua promessa, lo deve a sua madre e ai suoi fratelli e a tutti gli altri uccisi nei campi. Dice: «Posso raccontare cosa è successo ma non riesco a ricordare le emozioni. Si poteva sopravvivere solo non provando nulla».
Finché non scoppia la pandemia. Anche la battagliera nonnina è costretta a chiudersi in casa. Ma non vuole interrompere la sua opera di divulgazione contro l'odio antisemita. E qui interviene il pronipote Dov (ha 10 nipoti e 34 pronipoti), che le propone di fare una lezione su Zoom. Poi posta il link sul suo account Twitter: 65 like, non male pensa. Ma non sa cosa sta per accadere. Perché mentre la bisnonna sfoglia gli album del passato, salta fuori questa banconota, con la scritta del soldato. Chi era? Non si sa. Lily pensava fosse una cosa preziosa solo per lei.
Dov le dice che grazie alla Rete lo ritroverà. Posta la foto del biglietto e nel giro di poche ore il tweet ha ottomila notifiche e un milione di visualizzazioni. Inizia una caccia internazionale al soldato gentile. Scopriranno che è morto, ma riescono a mettersi in contatto con la famiglia. L'onda sui social media è partita. E proseguirà su TikTok, dove i dialoghi tra bisnonna e pronipote sulla Shoah diventano virali, totalizzano milioni di visualizzazioni.
Alla fine scrivono anche un libro, che nel Regno Unito è stato un bestseller. In Italia è pubblicato da Newton Compton, con il titolo: Mi chiamo Lily Ebert e sono sopravvissuta all'Olocausto. Se io fossi un insegnante, lo adotterei per i miei studenti e ne farei una lettura obbligatoria. E li obbligherei anche a vedere i video su TikTok.
Whoopi Goldberg: «L’Olocausto non riguarda la razza». Sospesa dalla Abc per 15 giorni. Redazione online su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2022.
La presidente dell’emittente Abc, Kim Godwin: «Se da un lato Whoopi Goldberg ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendere tempo per riflettere». E la popolare attrice si scusa per le sue dichiarazioni: «Ho sbagliato».
Abc News ha sospeso la popolare attrice afroamericana Whoopi Goldberg, conduttrice di «The View», per due settimane dopo le critiche suscitate dalla sua affermazione che l’Olocausto «non riguarda la razza». Lo ha annunciato la presidente del network Kim Godwin, definendo le sue dichiarazioni «sbagliate e offensive». «Se da un lato Whoopi ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendere tempo per riflettere e imparare in merito all’impatto dei suoi commenti», ha aggiunto Godwin sottolineando che «l’intera organizzazione di Abc News è in solidarietà con i nostri colleghi, amici, famigliari e comunità ebraici».
Goldberg aveva detto che l’Olocausto «non aveva nulla a che vedere con la razza», ma è stato “solo” un episodio di «disumanità degli uomini contro altri uomini”. Il suprematismo non c’entrava niente, e la prova starebbe nel fatto che i protagonisti erano «due gruppi di persone bianche». In sostanza «gente bianca contro gente bianca, e quindi voi che combattevate tra voi». Dichiarazioni sconcertanti. Poi in serata ha provato a scusarsi ma non è bastato.
Le sue ultime dichiarazioni in merito sono un’ammissione di responsabilità: «Ho capito. La gente è arrabbiata. Lo accetto, e sono io che mi sono cacciata in questo guaio. Ho detto qualcosa che sento la responsabilità di non lasciare senza esame, perché le mie parole hanno sconvolto così tante persone, cosa che non era mai stata mia intenzione. Ma ora capisco perché, e perciò sono profondamente, profondamente grata, perché le informazioni che ho ricevuto sono state davvero utili e mi hanno aiutato a capire alcune cose diverse. Si trattava davvero di razzismo, perché Hitler e i nazisti consideravano gli ebrei una razza inferiore. Ora, le parole contano e le mie non fanno eccezione. Mi rammarico dei miei commenti, e mi correggo».
Il caso Whoopi Goldberg e le battaglie culturali incrociate dell’America. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 02 febbraio 2022.
Durante una puntata del talk show The View, l’attrice ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza». È stata sospesa. Gli attori di Hollywood sono bravissimi a pronunciare frasi scritte da altri, e approvate da produttori e registi. Quando parlano a ruota libera, può succedere un po’ di tutto. L’ultima vittima del fenomeno che i nostri antenati avrebbero visto come molto bizzarro — l’attore considerato maître à penser dalle masse: fino a qualche secolo fa erano tenuti ai margini della società — è Whoopi Goldberg, che durante una puntata del fortunatissimo talk show The View, che conduce con altre colleghe, ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza» ma più genericamente «l’inumanità dell’uomo verso l’uomo». Frase ovviamente senza senso, che però prima dei social media e della mitologica «cancel culture» forse sarebbe anche passata sotto silenzio. Adesso invece l’ha fatta sospendere per due settimane dal programma e riprendere dalla presidente del network Kim Godwin (afroamericana come Goldberg), che ha definito le sue dichiarazioni «sbagliate e offensive».
«Se da un lato Whoopi ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendersi del tempo per riflettere e imparare, i suoi commenti hanno avuto un impatto. L’intera organizzazione di Abc News è in solidarietà con i nostri colleghi, amici, famigliari di religione ebraica, e l’intera comunità», ha spiegato Godwin. Goldberg si era anche scusata con un comunicato via Twitter, ma le scuse non sempre bastano. Non è stata «cancellata» — le sue credenziali progressiste la proteggono dal licenziamento — ma semplicemente messa in castigo: è comunque faticoso da comprendere per gli osservatori non americani come si sia arrivati a questo punto. Da una parte gli attori che si avventurano su terreni scivolosi per chi non ha letto — studiato — abbastanza: terreni come le radici del nazismo, l’ascesa di Hitler, il milieu antisemita tedesco nel quale Mein Kampf trovò terreno fertile. Dall’altra la cosidetta «wokeness», l’attivismo militante progressista americano che fa dell’identità un feticcio e per sua stessa natura ha continuamente bisogno di colpevoli da mettere alla berlina.
La sinistra americana gioca male questa partita mediatica, ormai da decenni: affida i suoi messaggi a celebrità a volte — spesso? — poco attrezzate, andando a scovare esempi di razzismo un po’ ovunque (esempi che, tristemente non mancano perché il problema esiste ed è enorme) e buttando tutto in caciara sui social. La destra lavora invece sotto traccia, nei poco mondani ma importantissimi «school board» locali ormai largamente in mano a repubblicani che dettano le regole nelle scuole, creando scandali che non esistono per togliere dal curriculum e a volte anche dalle biblioteche scolastici i libri non graditi, giudicati cioè poco patriottici. Aspettano i nemici di sinistra sulla proverbiale riva del fiume: tanto le «celebrities» democratiche prima o poi qualche passo falso lo fanno, grande o piccolo.
Enorme come quello della «comedian» che si fece fotografare agitando una finta testa mozzata di Trump, alla maniera dell’Isis. O, appunto, come quello molto sgradevole di Goldberg, mandata in punizione — in ginocchio sui ceci come Fantozzi? — in attesa dell’inevitabile perdono. Cose di altri mondi per noi. Ma che forse aiutano a capire — anche — come mai i democratici fanno così fatica a comunicare decentemente il loro messaggio, con messaggeri di questo tipo. E come mai Joe Biden ha in quest’anno e un mese di governo messo a segno un boom occupazionale storico ma ha un indice di approvazione del 33%, peggiore di quello di Trump tra un impeachment e l’altro.
Whoopi, bufera sull'Olocausto. Pier Luigi del Viscovo il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.
"Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi ". «Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi - ha detto Kim Goodwin, presidente della ABC, importante network americano -. Le ho chiesto di prendersi il tempo di riflettere e imparare dall'impatto dei suoi commenti». Invece il Primo Emendamento della Costituzione Americana recita che «il Congresso non emanerà alcuna legge (...) per limitare la libertà di espressione o di stampa». Il potere politico no, ma il potere del marketing sì. Sta tutta qua la vicenda. La sospensione è motivata da commenti non illegali ma solo inopportuni per la sensibilità di alcune persone. Eccoli. «L'Olocausto non fu una questione razziale, ma di disumanità dell'uomo verso l'uomo. È questo il problema. Non importa se sei nero, bianco o ebreo». Poi si è scusata: «Ho detto che l'Olocausto non riguarda la razza ma la disumanità. Avrei dovuto dire che riguarda entrambe». Nel merito, la Goldberg ha ragione e torto. Ha ragione, perché tecnicamente l'ebraismo non è una razza ma una religione e infatti lei spiega che erano tutti bianchi, vittime e carnefici. Ha anche torto, perché nella sostanza non la vedevano così i tedeschi - e nemmeno gli italiani, non ce lo dimentichiamo mai. La persecuzione era fondata sulla differenza, tutta razziale, tra ariani ed ebrei. Però la Goldberg offre una lettura più profonda, antropologica prima che culturale. La capacità di compiere gesti tanto efferati, pur nel nome della razza o della religione, non è la realizzazione cruenta di un'idea, ma una patologica degenerazione dell'uomo. E non dipende dal colore della pelle o dalla fede, come la storia ha dimostrato. Tuttavia, resta un'opinione. Ciò che invece pare devastante è il bavaglio imposto in spregio al Primo Emendamento. Quasi che la differenza tra una grande testata giornalistica del Mondo libero e i terroristi che hanno colpito Charlie Hebdo stia solo nell'uso della lettera invece del mitra. L'obiettivo è lo stesso: mettere a tacere una voce che urta delle sensibilità. L'informazione esiste non per compiacere ma per conoscere i fatti e confrontare le opinioni. Fuori dal perimetro dell'istigazione al crimine, le opinioni vanno criticate, non censurate. Purtroppo, ciò che viene difeso dall'ingerenza del potere politico viene poi assoggettato alle leggi della convenienza commerciale, che suggerisce di non inimicarsi gruppi influenti. Se non è Medioevo questo? Pier Luigi del Viscovo
Le storie e le testimonianze. Giornata della memoria, perché il dovere del ricordo è spento da troppa retorica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Gennaio 2022.
La memoria muore con la morte di coloro che hanno vissuto gli eventi e ormai sono morti quasi tutti, restando solo coloro che erano bambini che hanno ascoltato e vissuto attraverso il racconto di genitori e nonni. Abbiamo celebrato da poco il Giorno della Memoria, nella data scelta dalle Nazioni unite e che è quella della liberazione dei sopravvissuti di Auschwitz fra montagne di cadaveri, ceneri, cataste di occhiali, scarpe, denti d’oro, capelli, abiti perché il mattatoio per esseri umani ebrei, zingari, omosessuali e nemici del Reich era straordinariamente organizzato, specialmente da quando tutti i campi avevano ricevuto l’ordine di liquidare alla svelta il carico umano accumulato, perché la guerra di Hitler era finita e presto sarebbe arrivata l’ora della giustizia. E si è deciso che quello dovesse essere il giorno del ricordo e abbiamo udito molte volte troppe parole meccaniche, inutili, prove di qualsiasi potere evocativo e anche poco inclini a dare corpo emotivo all’accaduto reale che ormai è sempre più lontano nella conta degli anni, benché sia sempre tragicamente attuale.
Questo è un difetto di tutte le celebrazioni ma in particolare quelle che hanno la pretesa di ingiungere il ricordo senza rinnovare la ferita facendola sanguinare almeno dal centro della pena e dell’indignazione che da qualche parte dovremmo possedere tutti. Come si fa a mantenere la buona intenzione di ricordare? Abbiamo visto più volte nel web ragazzi, per lo più nati nel nuovo millennio, che dicevano, essendo ormai adulti: noi non abbiamo vissuto la guerra mondiale né la guerra fredda e neanche il muro di Berlino. Neanche i nostri genitori hanno vissuto nulla di tutto questo. Eppure. noi esistiamo insieme a voi che un giorno non esisterete più. E poi saremo la totalità di viventi e non avremo più nulla da ricordare. Che cosa significherà allora per noi il Giorno della Memoria? Oggi restano soltanto gli ultimi testimoni, coloro che erano bambini come la senatrice Segre. Io stesso, nel mio minimo, posso considerarmi un testimone perché giocavo nei giardinetti di largo Cairoli appena fuori dal Ghetto con coetanei finiti nel fumo di Auschwitz.
Non c’è altro modo che raccontare storie. Le storie. Giovedì la tv pubblica ha mandato in onda un bellissimo servizio su Rai ragazzi: un programma di undici minuti folgoranti e gentili intitolato “Come foglie al vento” su quel che accadde a Venezia, la città dove fu creato il primo ghetto che dette il suo nome a tutti i ghetti. E lo ha fatto raccontando una storia d’amore limpida e persino sorridente, realizzata da Caterina De Mata e Anna Giurickovic. Dato che ha sfidato la retorica perentoria mostrando un testimone che è figlio di sopravvissuti che racconta qualcosa di non retorico, triste e memorabile come deve essere ciò che resta nella memoria. Un uomo, una troupe della Rai, una barca nei canali porta a visitare luoghi ora muti ma che contengono le urla della caccia all’uomo, ma anche una storia d’amore fra giovani ebrei che vincono, sfuggono alla cattura, attraversano la pancia del mostro generano un figlio che è l’io narrante Riccardo Calimani, scrittore e storico dell’ebraismo e dei al centri della memoria.
Un documentario arricchito da cartoni animati che mostrano i due innamorati come giovani belli, vitali, attraenti, sposati in sinagoga in fretta e furia per fuggire insieme e sopravvivere. Ecco una novità, capace di accendere la memoria: mostrare ebrei avventurosi e belli, innamorati e giovani, espressione dell’unica giusta certezza: dopo l’immane carneficina, il sacrificio umano di massa più diabolico e criminale della storia (che contiene in sé il sacrificio meno ricordato dei gitani, dei prigionieri di guerra, disabili, omosessuali, dei deboli, degli ultimi) tornò a vincere la vita, il mondo riconobbe il diritto non solo di esistenza, ma di impedire che mai più potesse accadere un simile delitto.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
La rimozione del male. L’Italia non ha fatto quasi nulla per restituire i beni rubati agli ebrei con il fascismo. Ilaria Pavan su L'Inkiesta l'1 Febbraio 2022.
Come spiega il libro di Ilaria Pavan (Il Mulino), il primo gruppo di lavoro sul tema è stato creato nel 2020, a quasi 80 anni di distanza. In generale, la questione venne evitata fin dal Dopoguerra perché in tanti avevano approfittato, sia in misura economica che sociale, delle conseguenze delle leggi razziali.
A oltre ottant’anni dalla campagna antisemita del fascismo diversi aspetti relativi alle proprietà perdute e ai diritti mai pienamente reintegrati rimangono aperti. Molto resta da esplorare, ad esempio, circa la sorte del patrimonio culturale ebraico andato disperso. Non solo occorrerebbe ancora indagare sul destino di opere d’arte di grande valore, su cui si è solitamente concentra l’attenzione mediatica, ma anche sugli oggetti rituali o sul rilevante patrimonio bibliografico scomparso; o, ancora, sul destino di quelle migliaia di oggetti forse di minore pregio artistico, ma parte della vita di tutti i giorni degli ebrei perseguitati.
Oggetti espressione di quella living room art – come è stata efficacemente definita – che avevano un significato tanto simbolico-affettivo quanto identitario, e che alimentarono assai spesso un fiorente mercato cittadino, se non di quartiere:
Di tutti i nostri beni ritrovammo un tavolo, una scrivania del Seicento, e una credenza della cucina. Non ritrovammo mai più né l’argenteria, né un preziosissimo servizio di piatti di porcellana del Settecento decorato in oro zecchino, né le suppellettili, né i bellissimi mobili antichi autentici, né una natura morta […] di Giorgio Morandi, né una «Maddalena» della Scuola di Guido Reni e tutto il resto che ci può essere in una grande casa. Avendo la mamma, subito dopo la fine della guerra, ritrovato un nostro vaso presso un antiquario di Ferrara, abbiamo sempre pensato che la nostra roba sia stata comprata dagli stessi ferraresi e che sia ancora nelle loro case.
Resa nei mesi successivi alla fine del conflitto dai membri di una famiglia di ebrei di Ferrara che aveva subito la razzia dei propri beni, questa testimonianza illustra con efficacia un fenomeno che, seppure mai quantificato né approfondito, a guerra conclusa dovette risultare piuttosto diffuso.
Sul problema dei beni artistici, nell’estate del 2020 il ministero della Cultura ha istituito il Gruppo di lavoro per lo studio e la ricerca sui beni culturali sottratti in Italia agli ebrei tra il 1938 e il 1945 a seguito della promulgazione delle leggi razziali, in seno al quale, tuttavia, non siede neppure uno storico.
La nascita, solo nel 2020, del Gruppo di lavoro è significativa del grande ritardo che l’Italia ha registrato anche su questo specifico fronte delle restituzioni, che in altri paesi ormai da tempo costituisce un tema su cui a livello politico-istituzionale diversi governi europei hanno invece investito molto, e molto realizzato.
In anni recenti, proprio le questioni legate al destino dei beni culturali ebraici hanno infatti rappresentato in Europa uno dei terreni privilegiati per misurare i percorsi nazionali di Vergangenheitsbewältigung – lemma che, proveniente dal contesto tedesco, è generalmente utilizzato dalla storiografia per definire i complessi processi di «confronto con il passato», e i modi in cui questi si realizzano.
Se in Italia il recupero, dopo la seconda guerra mondiale, del patrimonio artistico proprietà di musei, enti e istituzioni statali, o religiose, è stato oggetto di attenzione da parte delle istituzioni, e gli studi hanno sottolineato l’alta salienza diplomatica e simbolico-identitaria di quelle politiche, la scomparsa del patrimonio culturale ebraico non ha sollecitato la stessa attenzione.
Non a caso, nel novembre del 2018, in occasione della conferenza che a Berlino ricordava il ventennale dai Washington Principles on Nazi-Confiscated Art, l’Italia era tra i cinque paesi segnalati per l’inerzia con cui stavano affrontando la questione, affiancata da Polonia, Ungheria, Grecia e Spagna:
Le città e le regioni italiane, dove è conservata gran parte delle collezioni artistiche del paese, hanno ignorato i Principi di Washington. Non c’è stata alcuna ricerca sulla provenienza delle opere [conservate nei musei] o censimento di possibili opere d’arte rubate […] da parte del
governo italiano.
Anche il ritardo su questo particolare capitolo delle restituzioni dei beni ebraici si collega al modo in cui in Italia è stata vissuta, e velocemente metabolizzata, la fiammata di interesse suscitata alla fine degli anni Novanta, a livello internazionale, dalle cosiddette Holocaust Litigations. Come ricordato nelle pagine precedenti, neppure le indagini promosse dalla Commissione Anselmi, e le molte evidenze contenute nel suo denso Rapporto conclusivo, sono infatti riuscite a riportare l’attenzione mediatica e politica su questi aspetti della stagione razzista.
Dal lavoro della Commissione era emerso chiaramente come la burocratizzazione dello sterminio, ravvisabile anche nella fase della persecuzione economica degli ebrei – fase che ovunque in Europa aveva preceduto e poi accompagnato quella della deportazione – fosse una categoria da applicare pienamente anche all’Italia. Anche nel caso italiano si era dunque in presenza di quel fenomeno di «transpropriazione» di cui ha scritto Jan Gross:
La discriminazione, la progressiva espropriazione e l’espulsione degli ebrei dalle cariche ricoperte, apre la strada alla mobilità sociale e all’arricchimento del resto della società. In questo modo l’antisemitismo di stato si privatizza per l’appunto sotto forma di molteplici opportunità di miglioramento delle condizioni di vita di tutti coloro che ebrei non sono. Questo processo assume forme diverse a secondo che abbia luogo nel Terzo Reich oppure nei paesi occupati o subalterni alla Germania. Le sue modalità in Polonia sono differenti da quelle in Francia, in Ungheria o in Grecia, ma il fenomeno presenta ovunque un tratto comune accolto con soddisfazione dalle società locali: è un meccanismo di «transpropriazione» e di redistribuzione dei beni ebraici a favore degli ariani.
Ma sul coinvolgimento attivo e diretto della popolazione italiana nell’attacco ai beni ebraici e sulle «molteplici opportunità» che la persecuzione aveva aperto nel paese «a favore degli ariani», grava a tutt’oggi un’ipocrita rimozione, che non è ancora stata messa criticamente in discussione. Una rimozione di lunga durata, la cui origine si colloca subito a ridosso della conclusione del conflitto.
da “Le conseguenze economiche delle leggi razziali”, di Ilaria Pavan, Il Mulino, 2022, pagine 320, euro 25
Mattia Feltri per "la Stampa" il 27 gennaio 2022.
Una ragazzina di nemmeno sedici anni mi racconta che nella sua scuola, soprattutto fra i giovani maschi, l'insulto più diffuso è ebreo di m. Lo si chiama antisemitismo a bassa intensità perché non ha conseguenze, ed è peggio, lo rende senso comune e quotidiano.
Dobbiamo pensarci e non solo oggi, nel Giorno della memoria, ricorrenza che corre il rischio, fra i tanti, di marmorizzarsi esclusivamente in quell'enormità dello sprofondo umano che è stata Auschwitz. Come se l'antisemitismo fosse nato e morto nei lager nazisti, mentre ha attraversato le terre e i millenni dalla Bibbia allo smartphone, e congiunge noi agli antichi con un unico filo dell'infamia.
In Italia si assommano notizie che sembravano perdute, appunto, negli esercizi della memoria: a Livorno un ragazzino è stato preso a calci e sputi da coetanei perché è ebreo; lo scorso mese una studentessa è stata immobilizzata e ricoperta di prosciutto dalle compagne perché è ebrea.
Ogni indagine segnala in crescita gli episodi di antisemitismo da molti anni, e specialmente in questi di pandemia, in cui l'inafferrabilità della minaccia virale ingrassa le superstizioni. I social, luogo delle viscere per loro natura, diventano il ricettacolo di quelle eterne menzogne che sono le cariatidi dell'antisemitismo: gli ebrei sono avidi, gli ebrei sono truffatori, gli ebrei sono doppi, gli ebrei sono dei succhiatori di sangue, gli ebrei complottano contro di noi. Nel Giorno della memoria dobbiamo anzitutto ricordarci che l'antisemitismo ancora erutta da sotto i nostri rancori perché, come disse l'immenso Vasilij Grossman, dimmi di quali colpe accusi gli ebrei, ti dirò quali colpe hai.
Giornata della Memoria, Mafalda di Savoia e la testimone di Geova nel lager. LUCIANA DE LUCA su Il Quotidiano del Sud il 27 Gennaio 2022.
MARIA e Mafalda, la serva e la padrona. Eppure tra loro nacque una relazione speciale che durò fino alla morte della principessa di casa Savoia, avvenuta il 28 agosto del 1944, nel campo di concentramento di Buchenwald in Germania, dove fu internata con il falso nome di Frau von Weber.
Alla figlia del re Vittorio Emanuele III, arrestata a Roma il 23 settembre del 1943, le SS assegnarono un’aiutante, Maria Ruhnau, che era una delle tante testimoni di Geova perseguitate e imprigionate per sua fede. Sapendo che la donna era guidata da elevati princìpi morali e che per questo diceva sempre la verità, i nazisti speravano di raccogliere informazioni confidenziali sulla famiglia reale, ma Maria non tradì mai Mafalda e anzi, diventò la sua confidente, la sarta che le adattò i vestiti recuperati nel campo e che le cedette persino le sue scarpe. La principessa le si affezionò al punto tale che prima di morire lasciò in dono all’amica l’unica cosa che le rimaneva: l’orologio che aveva al polso.
I nazisti in preda al loro delirio di onnipotenza, presero di mira milioni di persone a causa della loro razza, nazionalità o ideologia politica. Tra questi ci furono migliaia di testimoni di Geova, che furono perseguitati per la loro fede cristiana. I Testimoni di Geova, allora conosciuti come “Studenti Biblici”, furono gli unici sotto il Terzo Reich a essere perseguitati unicamente sulla base delle loro convinzioni religiose. Il regime nazista li bollò come nemici dello Stato per il loro aperto rifiuto di accettare anche gli aspetti più marginali del nazismo contrari alla loro fede e al loro credo: si rifiutavano di fare il saluto “Heil Hitler”, di prendere parte ad azioni razziste e violente o di arruolarsi nell’esercito tedesco. Inoltre, nelle loro pubblicazioni identificavano pubblicamente i mali del regime, incluso ciò che stava accadendo agli ebrei.
I Testimoni furono tra i primi ad essere mandati nei campi di concentramento, dove portavano un simbolo sull’uniforme: il triangolo viola. Dei circa 35.000 Testimoni presenti nell’Europa occupata dai nazisti, più di un terzo subì una persecuzione diretta. La maggior parte fu arrestata e imprigionata. Centinaia dei loro figli furono affidati a famiglie naziste o mandati nei riformatori. Circa 4.200 Testimoni finirono nei campi di concentramento nazisti con l’intenzione dichiarata di eliminarli dalla storia tedesca. Si stima che morirono 1.600 Testimoni, di cui 370 per esecuzione.
I nazisti cercarono di infrangere anche le loro convinzioni religiose offrendogli la libertà in cambio di una promessa di obbedienza. A nessun altro fu data questa possibilità. La dichiarazione di abiura (emessa a partire dal 1938) richiedeva al firmatario di rinunciare alla propria fede, denunciare altri Testimoni alla polizia, sottomettersi completamente al governo nazista e difendere la Patria con le armi in mano. I funzionari delle prigioni e dei campi spesso usavano la tortura e le privazioni per indurre i Testimoni a firmare, ma un numero estremamente basso abiurò la propria fede. Maria, una “bibelforscher”, una studentessa biblica, rimase fedele ai suoi principi e diventò il punto di riferimento della principessa Mafalda, colpevole di essere italiana e di appartenere alla famiglia reale. Le due donne alloggiavano nella Baracca 15, riservata agli “internati speciali”, ed era composta da dieci camerette e divisa in due parti da una piccola separazione. In entrambe le parti si trovavano una cucina e un bagno. Intorno alla baracca c’era un giardinetto circondato da un muro alto circa tre metri e mezzo, sormontato da un filo spinato inclinato verso l’esterno.
Da un rapporto inviato a Sua Maestà Vittorio Emanuele si ricavarono alcune importanti informazioni sulle condizioni di vita nel campo di Mafalda e Maria che poterono godere di una condizione privilegiata rispetto agli altri internati: il letto era fatto con semplici tavolette sulle quali era posto un saccone riempito di “paglia di legno” come materasso. Il vitto poteva considerarsi sufficiente come quantità (pane nero, margarina, surrogato di caffè non zuccherato, zuppa d’orzo e carne insaccata). Ma Mafalda era dimagrita in maniera impressionante e per lungo tempo non ricevette alcun cambio di vestiario.
Il 24 agosto del 1944, a mezzogiorno in punto, gli aerei alleati bombardarono il campo colpendo anche la baracca 15 e Mafalda fu ferita gravemente. La principessa poco dopo morì e di Maria non si seppe più nulla.
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Teresa Motta, la bibliotecaria che accolse internati ebrei e antifascisti. Anna Martino su La Repubblica il 27 Gennaio 2022.
Nel volume della ricercatrice Antonella Trombone il ritratto di una giovane maestra e funzionaria che svolse fino in fondo il suo servizio alla comunità, mettendo a repentaglio se stessa per consentire l'accesso alla biblioteca provinciale di Potenza vietato alle "persone di razza non ariana".
È il 1942 quando il governo italiano dispone il divieto di entrata alle biblioteche pubbliche governative alle "persone di razza non ariana". Agli ebrei - e non solo - è negato l'accesso alle sale di lettura, ai cataloghi, al prestito, alle informazioni bibliografiche. A Potenza una giovane bibliotecaria apre loro le porte.
Ebrei stranieri, politici e intellettuali antifascisti internati nei campi del potentino frequentano abitualmente i luoghi della biblioteca provinciale di Potenza.
La caccia agli ebrei di Stalin, l’ultima purga dell’Urss. Andrea Muratore su Inside Over il 29 gennaio 2022.
L’Unione Sovietica di Stalin è stata, nella seconda guerra mondiale, la nazione grazie alla cui avanzata si sono potuti scoprire i peggiori orrori associabili al regime nazista, primi fra tutti i campi di sterminio liberati dall’Armata Rossa tra il 1944 e il 1945 nella sua avanzata verso Occidente. Avendo, inoltre, subito più perdite di ogni altro Paese per la guerra e per le politiche di pulizia etnica e di sterminio condotte dai tedeschi, prima fra tutti la “Soluzione Finale” della questione ebraica, l’Urss staliniana volle porre nell’immediato dopoguerra la questione del superamento dell’oppressione di popoli come gli ebrei in cima all’agenda politica. Stalin contribuì in maniera decisiva alla nascita di Israele nel 1948, i suoi alleati (Cecoslovacchia in testa) armarono Tel Aviv fino ai denti, il blocco comunista lo sostenne in sede Onu.
Ma negli ultimi anni del regime il graduale avvicinamento di Tel Aviv all’Occidente, unitamente all’apertura di frange sotterranee e di settori del potere sovietico a una distensione della Guerra Fredda in vista della successione a Stalin portò gli ebrei nel mirino della dittatura bolscevica come potenziale “popolo ostile”. La morte di Stalin interruppe, in tal senso, quella che fu l’ultima purga del trentennio del suo dominio sullo Stato comunista: la repressione del presunto complotto dei medici ebrei. Una delle pagine meno conosciute della storia dell’Urss.
L'ultima campagna di terrore e le sue origini
Il 13 gennaio 1953 Stalin parlò alla popolazion sovietica e le annunciò l’esistenza del “complotto dei medici” : secondo le accuse del dittatore sovietico, nove medici che curavano personalmente gli inquilini Cremlino e il loro entourage, di cui sei ebrei, avevano assassinato tra il 1945 e il 1948 alcuni stretti collaboratori di Stalin e si preparavano a uccidere i maggiori dirigenti politici e militari dell’Urss, secondo gli ordini ricevuti “dagli imperialisti occidentali e dai sionisti”.
Così facendo l’anziano dittatore voleva rendere esplicito un clima di tensione e terrore per alzare l’escalation di una repressione già avviata da alcuni anni con attacchi mirati a esponenti dell’apparato, molti dei quali ebrei.
Va sottolineato un fatto importante: gli ebrei nella Rivoluzione bolscevica e nell’edificazione dell’Urss erano stati a lungo protagonisti. Fortemente repressi dall’impero zarista, ben inseriti nelle città nei club culturali e politici, i membri dell’élite ebraica di aree come Mosca e San Pietroburgo avevano contribuito sia al progetto di Lenin che all’edificazione del regime di Stalin. Ebreo era Lazar Kaganovic ed ebree erano le consorti di due suoi colleghi nel Politburo del Partito Comunista, Vjaceslav Molotov e Kliment Vorosilov, così come l’ex rivale di Stalin Lev Trotskij, comandante dell’Armata Rossa durante la guerra civile. Tutti gli ebrei dell’Europa orientale avevano poi visto i sovietici come liberatori proprio perché la scelta dei nazisti era stata il loro sterminio. Gli ebrei avevano combattuto nell’Armata Rossa contro i tedeschi ricevendo in proporzione alla popolazione un numero di onorificenze maggiore di ogni altro gruppo etnico.
Tuttavia, già pochi mesi dopo la nascita di Israele, nel maggio 1948, il regime staliniano iniziò a vedere gli ebrei come “quinte colonne” ostili. “Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949” – scrive Timothy Snyder in Terre di sangue – “la vita pubblica in Unione Sovietica virò verso l’antisemitismo” anche remando contro la genuina simpatia della popolazione di molte aree del Paese per uomini e donne che avevano sofferto privazioni ancora più gravi delle loro durante l’invasione e l’occupazione nazista di parte del Paese. “Stalin aveva deciso che gli ebrei stavano influenzando lo Stato sovietico più di quanto i sovietici stessero facendo con quello ebraico” e nel quadro generale reso teso dal blocco di Berlino Ovest da parte dell’Urss, dal consolidamento dei due blocchi su scala globale, dalla minaccia di una nuova guerra mondiale, dalla corsa sovietica verso la parità atomica il regime pensò a una nuova purga per compattare il fronte interno come fatto con il Grande Terrore del 1937-1938.
L'architetto dell'antisemitismo di Stalin
In quest’ottica, gli ebrei sovietici divennero un bersaglio naturale. Questo per un triplice ordine di motivi. In primo luogo, la Grande Guerra Patriottica contro la Germania aveva risvegliato nell’Urss il nazionalismo panrusso come collante dello sforzo bellico e l’idea della primazia dell’etnia russa nel quadro politico dell’Unione, facendo rifiorire le pulsioni più ataviche tra cui la diffidenza verso gli ebrei. In secondo luogo, si ricominciò a perseguitare ogni tipo di nazionalismo potesse essere ritenuto in qualche modo ostile, e in quest’ottica, nota Osservatorio Russia, ” le accuse rivolte agli intellettuali ebrei di scarsa adesione agli interessi della «patria socialista», dedicandosi alla difesa del particolarismo identitario e l’accusa di apoliticismo e di essere estranei alla causa dell’«internazionalismo proletario», furono tra i vettori che rimodellarono l’atteggiamento del Cremlino verso gli ebrei”. In terzo luogo, nonostante proprio gli ideali egalitari e emancipatori della Rivoluzione fossero stati tra i moventi dell’avvicinamento di molti ebrei alla causa bolscevica, nel secondo dopoguerra la natura cosmopolita e fluida della cultura ebraica, capace di adattarsi a contesti diversi, fu tra i motivi che giustificò il sospetto del regime di Stalin proprio a causa del suo presunto percorso di convergenza con l’individualismo borghese di stampa occidentale.
Gli ebrei, dunque, erano visti di traverso in quanto presunti nazionalisti sostenitori di una potenza straniera che l’Urss aveva per prima riconosciuto e da cui poi si era allontanata, Israele, ma anche perché ritenuti apolidi e internazionalisti. Due tesi che sarebbe stato spericolato portare alla convergenza, ma che nel paranoico clima dell’Urss postbellica trovarono un cantore in Andrej Zdanov (1896-1948).
Zdanov fu fedelissimo braccio destro di Stalin, responsabile della politica culturale e della propaganda, un Goebbels rosso dalla profondissima capacità di comunicazione. Nel 1946 coniò la sua celebre dottrina in cui il mondo veniva diviso in due campi: quello “imperialista”, guidato dagli Stati Uniti, e quello “democratico”, guidato dall’Urss, i cui avversari venivano dichiarati esplicitamente rivali della causa nazionale, dunque traditori. Prese il via la cosiddetta Zdanovscina, il regno del terrore culturale contro l’intellighenzia. Per due anni, dal 1946 al 1948 (e cioè fino alla sua morte) Zdanov divenne l’occhio di Stalin su medicina, letteratura, filosofia, linguistica (della quale il dittatore era fanaticamente appassionato), economia. La cultura ebraica ne fu pesantemente penalizzata, e si preparò l’identificazione tra l’ebreo, il borghese e l’Occidente, dunque il mondo imperialista. Ironia della sorte, una chiave di lettura non dissimile, nella semplicità della relazione causa-effetto, da quella nazionalsocialista.
Fino al 1952, nota Luis Rapport nel saggio La guerra di Stalin contro gli ebrei, ” gli ebrei vennero estromessi ed eliminati dalle file del Partito e dai gangli vitali della società sovietica” nel silenzio e inesorabilmente: “nella nuova edizione della grande enciclopedia sovietica, pubblicata nel 1952, la voce “Ebrei” passò dalle 54 pagine dell’edizione precedente – suddivise per storia cultura e religione – a due misere pagine. In quella due pagine, la frase: “Gli ebrei non costituiscono una nazione”. I vertici dell’Esercito vennero ripuliti di 63 generali e 260 colonnelli ebrei, estromessi o eliminati tra il 1948 e il 1953”, mentre uomini celebri dell’intellighenzia ebraica come il direttore del Teatro yiddish di Mosca Solomon Mikhoels, furono fatti assassinare per essersi opposti al nuovo clima.
La morte improvvisa di Zdanov, nel 1948, segnò una nuova fase della repressione. E sarebbe stato il viatico per il lancio dell’ultima, grande purga immaginata dal dittatore sovietico. Una purga che solo la sua morte e l’eliminazione successiva del suo “boia”, Lavrentij Berija, avrebbe impedito di portare a compimento.
Il complotto dei medici
Già dal 1949 iniziarono gli arresti di importanti personalità ebraiche, mentre il 27 novembre del 1951 finirono in carcere per opera dei proxy sovietici di Praga i politici ebrei Rudolf Slànsky, segretario generale del partito comunista cecoslovacco, e il suo vice Bedrich Geminder, che sarebbero stati processati e giustiziati un anno dopo, ironia della sorte proprio leader del Paese che su ordine dell’Urss aveva rifornito di armi Israele nel 1948.
Nel maggio 1952 in Unione Sovietica furono invece processate quindici persone collegate al disciolto Comitato Ebraico Antifascista che proprio in Mikhoels aveva avuto il suo presidente. Essi erano ritenuti colpevoli di aver chiesto otto anni prima a Stalin, di istituire in Crimea una Repubblica ebrea in vece del remoto territorio assegnato agli Ebrei in Estremo Oriente. Il processo si sarebbe concluso concluso a luglio con la condanna a morte di 13 imputati. Nel novembre dello stesso anno la stampa ucraina annunciava come a Kiev molti ebrei fossero stati fucilati per “ostruzionismo controrivoluzionario”. Il romanziere Il’ja Erenburg, il violinista David Ojstrach, lo scrittore Vasilij Grossman furono emarginati dalla vita pubblica del Paese in quanto ebrei.
Tutto era maturo perché la campagna informale assumesse strutturazione: la caccia agli ebrei, nell’intenzione di Stalin, avrebbe dovuto sostanziarsi nell’azzeramento della loro intellighenzia, in deportazioni nei gulag e in esecuzioni di membri di spicco per mostrare al Paese la volontà di reprimere ogni frangia ritenuta ostile al potere sovietico.
“Verso la fine di agosto del 1948”, nota Rapport, “dopo l’improvvisa morte di Zdanov, una sconosciuta addetta al reparto radiologico dell’ospedale del Cremlino – Ljdija Timasuk – esaminò, chissà come e per conto suo, gli elettrocardiogrammi di Zdanov, e informò gli organi di sicurezza sulla possibilità che l’illustre membro d’apparato non fosse deceduto di morte naturale. La Timasuk era solo una paramedica, da sempre divorata dall’odio per la propria superiore (ebrea) direttrice del reparto elettrocardiografico, Sofija Karpaj (in odore di arresto, che puntualmente avvenne nell’estate del 1951)”; quattro anni dopo, una sua lettera avrebbe svolto da catalizzatore per la campagna annunciata da Stalin all’inizio del 1953.
Nell’ottobre del 1952 Semyon Ignatyev, capo dell’MGB, informò il capo di Stato che erano state trovate prove in merito all’esistenza di un complotto per eliminare i dirigenti del partito. Colpito dalla rivelazione, il dittatore ordinò l’arresto dei cospiratori, nove medici di cui sei ebrei, e ordinò alla Pravda di preparare il terreno mediatico alla campagna anti-ebraica: epurazioni e avvisaglie di pogrom cominciarono a svilupparsi per tutto il Paese, e si parla di circa 2mila vittime tra la fine del 1952 e l’inizio del 1953.
La morte di Stalin interruppe questo pericoloso trend. L’Urss, nella destalinizzazione, non proseguì in questa paranoica persecuzione. Ma tuttora è impossibile sapere cosa sarebbe stato degli ebrei sovietici, più volte perseguitati nelle terre rese sanguinanti dai due totalitarismi del Novecento, nei mesi e negli anni successivi. Misteri di una superpotenza comunista dalle enormi contraddizioni. Andata vicina a risvegliare i demoni che aveva sconfitto con la forza delle armi pochi anni prima.
Il più grande sterminio del '900. Perché il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria, la commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Gennaio 2022.
Il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo la Giornata della Memoria. Le commemorazioni per ricordare l’Olocausto, lo sterminio degli ebrei, di avversari politici e di altre minoranze etniche a opera del regime nazista e dei suoi alleati che tra il 1933 e il 1945 (dati dell’Holocaust Memorial Museum di Washington) fece tra 15 e 17 milioni di vittime. Di questi tra cinque e sei milioni di ebrei. A designare la data la risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del primo novembre 2005 durante la 42esima riunione plenaria.
Il 27 gennaio è diventata la data simbolica della Shoah (in ebraico “disastro”, “catastrofe”) perché il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche della 60esima Armata del “1° Fronte ucraino” scoprirono e liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Il complesso, nei pressi della città polacca di Oświęcim, era il più grande complesso di sterminio realizzato dai nazisti. È diventato il simbolo del più grande genocidio del 900. Oggi accoglie milioni di visitatori all’anno.
La scoperta del campo di Auschwitz rivelò al mondo lo sterminio dell’Olocausto. Dieci mesi prima di Auschwitz l’armata sovietica aveva liberato il campo di concentramento di Majdanek. Dal 1979 il campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz Birkenau è Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Ogni anno, in tutto il mondo, si commemora la Shoah in tutto il mondo con cerimonie ufficiali e occasioni di incontro per ricordare la pagina più orrenda del 20esimo secolo.
Le iniziative, in Italia, si svolgeranno quest’anno nelle scuole, in Parlamento, nei Comuni, nelle televisioni. Alle 11:00 le celebrazioni ufficiali al Palazzo del Quirinale con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il premier dimissionario Giuseppe Conte, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, la Presidente dell’Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), Noemi Di Segni e Sami Modiano, sopravvissuto all’Olocausto.
“Ricordare è una espressione di umanità, ricordare è segno di civiltà, ricordare è condizione per un futuro migliore di pace e di fraternità, ricordare è anche stare attenti perché queste cose possono succedere un’altra volta, incominciando dalle proposte ideologiche che vogliono salvare un popolo e finendo a distruggere un popolo e l’umanità. State attenti a come è incominciata questa strada di morte, di sterminio, di brutalità”, ha dichiarato Papa Francesco all’udienza generale in occasione del Giorno della Memoria. Antonio Lamorte
27 GENNAIO - GIORNO DELLA MEMORIA. “Ho visto mamme costrette ad uccidere il proprio figlio”. I terribili ricordi di Elisa Springer. Con gli occhi lucidi, nell’intervista la testimone di tante sofferenza racconta forse il più atroce dei ricordi.
Marzia Baldari su La Voce di Manduria giovedì 27 gennaio 2022.
In quaranta minuti, all’incirca, di video registrazione Elisa Springer scuce i ricordi prima della sua infanzia e adolescenza viennesi, poi della morte dei suoi familiari sino alla sua deportazione nei diversi campi di concentramento. La sua storia, però, s’incrocia anche con quelle di altre donne fantasma incontrate in questo suo viaggio di memoria e salvezza. Donne costrette a uccidere i propri figli, cicli mestruali interrotti dalle sperimentazioni dei nazisti attraverso farmaci sciolti nei miseri pasti e cadaveri costretta scavalcare. Racconta la Springer, «La vita per noi donne nei campi era difficile. È stata una umiliazione tremenda, anche tra di noi. Poi ci si abitua, perché vuoi o non vuoi ti devi abituare. C’erano donne incinte».
Con gli occhi lucidi, nell’intervista la testimone di tante sofferenza racconta forse il più atroce dei ricordi. «Una donna che aveva appena partorito è stata costretta ad uccidere il proprio figlio, non le hanno permesso di allattarlo dopo aver partorito là dentro. Le hanno fasciato il seno per non farla allattare». E ancora ricordi di giovani mamme e adolescenti ebree private dai nazisti della propria umanità e del proprio ciclo per scoprire quale reazione potessero avere.
Senza paura di morire o della morte, la vera tragedia per la signora Springer è quanto la sete di potere e denaro abbia portato la vita umana a non contare più nulla. «Se non sappiamo perdonare, tendere la mano anche al nemico, se non avviene questo non ci sarà mai pace – racconta la sopravvissuta. L’uomo di oggi ha perduto la propria dignità e l’amore per se stesso. Se non ha stima e amore di se stesso come può amare il prossimo?». Terribili ricordi della sua storia da deportata che s’intrecciano con queste donne senza nome e dal volto sbiadito incontrate nei diversi campi di concentramento. A vent’anni dalla sua scomparsa, l’obbligo morale di ricordare persiste in diverse forme proprio nella città messapica, Manduria, dove la Springer ha trascorso numerosi anni della sua vita dopo la sua liberazione e dove è stata sepolta. Una città che non può dimenticare le sue confessioni strazianti e tutte le vittime dell’Olocausto, onorandola annualmente come meglio può. Marzia Baldari
Raffaele Mattioli, il banchiere che voleva salvare i dipendenti ebrei. PIERLUIGI PANZA su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.
Intesa Sanpaolo e Chora presentano un podcast in sei episodi di mezz’ora ciascuno. Ogni puntata è dedicata a un addetto Comit che il presidente cercò di sottrarre alla persecuzione
«Ebrei onorari» erano chiamati, per scherno, i difensori degli ebrei negli anni della propaganda antisemita. Raffaele Mattioli, banchiere antifascista allora presidente della Banca Commerciale Italiana (poi confluita in Intesa Sanpaolo), pur non essendo ebreo aveva scelto per sé stesso tale definizione per affermare la sua vicinanza al mondo ebraico e il suo impegno per il salvataggio di tanti cittadini. Oggi, in occasione del Giorno della Memoria, Intesa Sanpaolo e Chora — podcast company italiana — presentano L’Ebreo Onorario, una serie podcast realizzati con la collaborazione dell’Archivio storico Intesa Sanpaolo. Questo aspetto della vicenda di Mattioli viene raccontato in sei episodi progressivamente disponibili su Intesa Sanpaolo On Air, piattaforma di contenuti audio della Banca che raccoglie voci, storie e idee con oltre 700 episodi e 5 milioni di stream dal lancio, avvenuto nel giugno 2020 (disponibili anche su choramedia.com e sulle principali piattaforme audio). La voce è quella di Camilla Ronzullo, autrice milanese conosciuta come Zelda was a writer.
Sono sei storie di mezz’ora ciascuna relative a un dipendente Comit che Mattioli e altri uomini della banca hanno provato a salvare dalla deportazione. Si parte dalla corrispondenza tra il ragioniere Guido Schwarz e il collega Tiburzio Pinter. Il 1° marzo del 1939, Schwarz fu forzatamente mandato in pensione a causa delle leggi razziali. Grazie ai colleghi riuscì a ottenere un visto di lavoro per il Brasile, ma le cose non furono semplici. Quanto a Tiburzio Pinter, fu assunto dalla Comit nel 1926 alla filiale di Fiume, dove prestò servizio fino al forzato pensionamento del 28 febbraio 1939. Dal 1° dicembre ’43 Pinter fu nascosto in vari alloggi di fortuna.
Antonello Gerbi è stato non solo un dipendente Comit, ma anche uno storico e un critico cinematografico. Anche la sua vita fu stravolta dalle leggi razziali, ma Mattioli giocò d’anticipo. Nel 1938 lo mandò a Lima per farlo lavorare a un saggio sull’economia peruviana. Gerbi restò in Perù fino al 1948: nel podcast ascolteremo le testimonianze del figlio, il saggista Sandro Gerbi.
Werner Prager era un libraio antiquario berlinese che, per sfuggire dal nazismo, si trasferì in Italia nel 1937. Non aveva rapporto con la Comit, solo con Mattioli, che era un bibliofilo. Fu arrestato ma, grazie all’intercessione di Massimiliano Majnoni della Comit di Roma fu assunto in Vaticano come bibliotecario e salvato insieme alla famiglia.
Nel 1941 dopo l’occupazione tedesca della Jugoslavia e la creazione dello Stato ustascia, Hermann Schossberger fu preso di mira dai croati. Giuseppe Zuccoli, direttore centrale Comit, intercedette per lui presso Ante Pavelic, il capo degli ustascia, ma ottenne solo di fargli avere l’esonero di portare la stella di David. Fu licenziato il 30 settembre 1942 e si deduce che fu deportato ad Auschwitz.
Infine, si racconta la storia di Carlo Morpurgo, che dopo il pensionamento forzato tornò a Trieste, dove divenne segretario della Comunità ebraica. In questo ruolo nell’estate del ’43 si prodigò per aiutare famiglie ebree a mettersi in salvo. Il 20 gennaio 1944 fu catturato dai tedeschi e poi deportato.
In ogni storia ampi flashback consentono di ripercorrere la scelta antifascista di Mattioli iniziata nel 1919, quando partecipa da osservatore all’Impresa di Fiume di d’Annunzio
Ricominciare dopo Auschwitz. Vita, memoria e speranza per Edith Bruck. IDA BOZZI su Il Corriere della Sera il 19 gennaio 2022.
Su «7» l’intervista alla scrittrice ebrea che venne deportata dall’Ungheria. Eventi in tutt’Italia per il 27 gennaio, Giorno della Memoria, tra testimonianze, dibattiti, spettacoli, incontri.
Ad Auschwitz, la fila di deportati dov’era sua madre andò diretta alla camera a gas. Lei si salvò soltanto perché si ritrovò, spinta via, nella fila a fianco: in vista del Giorno della Memoria, venerdì 21 su «7» la scrittrice e poetessa Edith Bruck — che nel 2021 è stata nominata Cavaliere di Gran Croce da Sergio Mattarella e ha ricevuto la visita di Papa Francesco — si racconta dalla sua casa romana nell’ampio servizio di copertina del settimanale, in un’intervista di Alessia Rastelli.
Lo sguardo di Bruck, che ha vissuto la tragedia dei campi di sterminio, testimonia con lucidità estrema l’indicibile. Lo ha fatto per tutta la vita nelle scuole, e nei suoi libri. E lo fa anche in Lettera alla madre (la nuova edizione esce giovedì 19 da La nave di Teseo) nella forma di un’epistola postuma a quella mamma persa nel lager, che era così diversa da lei adolescente ma alla quale era visceralmente unita. Già l’anno scorso, inoltre, l’autrice ha vinto lo Strega Giovani ed è stata finalista al Premio Strega con Il pane perduto (pubblicato sempre da La nave di Teseo), in cui ripercorreva la sua esistenza.
La copertina del numero «7» che esce il 21 gennaio
Nell’intervista a «7» Bruck ricorda sia chi le chiese, a Bergen Belsen, «se sopravvivi, racconta anche per noi», sia il difficile ritorno alla vita dopo il lager. Tra le prove che l’avrebbero ancora attesa ci sarebbe stata la perdita di una figura come Primo Levi, che era sua amico e le telefonò quattro giorni prima della scomparsa. Ma Bruck rievoca anche ciò che le ha dato forza, come l’incontro con il poeta e regista Nelo Risi, poi suo marito, il valore della scrittura, per lei «gonfia di parole», come testimonianza e impegno. La scrittrice osserva anche il tempo attuale, i nazionalismi che montano (incluso quello di Orbán, nell’Ungheria che le ha dato i natali), l’odio diffuso anche online. Uno sguardo di poetessa, che si allarga alla pandemia, con il suo pianto per le bare sui camion, il silenzio dei giorni del lockdown, di cui ha scritto nei suoi versi.
La testimonianza
Testimonianze come quella di Edith Bruck, ma anche dibattiti, incontri, concerti, ritornano (quest’anno anche in presenza, con le adeguate norme di sicurezza) a celebrare il Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Tra gli eventi organizzati a Roma dalla Fondazione Museo della Shoah, ci sarà Passaggi di Memoria, il 27 gennaio al Teatro Palladium di Roma (ore 20): dopo i saluti del presidente della Fondazione Mario Venezia, in scena un monologo di Stefano Massini, cui seguirà un incontro con Edith Bruck; tra i partecipanti, Furio Colombo, Micol Pavoncello, il testimone Sami Modiano in video.
Rigurgito pericoloso è il negazionismo: ne parla, a Roma, Donatella Di Cesare, lunedì 24, in presenza, al Cinema Farnese (ore 20). Al tema, la filosofa ha dedicato Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (Bollati Boringhieri), che presenterà con Mario Venezia, Marco Damilano, direttore de «L’Espresso», il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, e il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi.
Il Giardino dei Giusti
Numerosi gli eventi anche a Milano. Gariwo, la foresta dei Giusti propone martedì 25 lo spettacolo Il Memorioso. Breve guida alla memoria del bene, ispirato ai libri di Gabriele Nissim (Centro Asteria, ore 10). Giovedì 27 l’associazione offrirà anche agli studenti visite guidate al Giardino dei Giusti. E intanto propone il volume collettaneo Domande sulla memoria (pubblicato con l’editrice Cafoscarina), con contributi di noti studiosi, tra i quali Francesco M. Cataluccio, Marcello Flores, Anna Foa. Il libro parte dalla memoria imprescindibile della Shoah, per riflettere anche su cosa accade oggi ad altri popoli. E fare in modo che «Mai più» sia un impegno per presente e futuro.
Le visite, gli incontri
Organizza un programma in presenza e in digitale il Memoriale della Shoah di Milano, che conserva la memoria di un luogo terribile da cui partirono i treni per i lager. In presenza, martedì 25, ospita la proiezione del documentario 1938: lo sport italiano contro gli ebrei, ideato da Matteo Marani e prodotto da Sky, e un dibattito con Roberto Jarach, presidente della Fondazione del Memoriale, Federico Ferri, direttore responsabile di Sky, e altri (ore 18.30). Il 27, inoltre,il Memoriale sarà aperto alle visite gratuite: l’accoglienza sarà gestita in collaborazione con i detenuti della 2ª Casa di Reclusione di Milano Bollate. Denso anche il programma sulla pagina Facebook del Memoriale: tra gli incontri, lunedì 24 (ore 18) si parla di Diritto ed ebraismo, con Giorgio Sacerdoti, Piergaetano Marchetti, Daniela Dawan, Marco Vigevani; il 30 (ore 15) l’incontro con Marilisa D’Amico e Milena Santerini.
Il ricordo a teatro
Al Teatro alla Scala di Milano, nel ridotto dei palchi, il 24 (ore 16.30) si tiene il Concerto per il Giorno della Memoria, organizzato da Comune, Anpi e Associazione Figli della Shoah. Al Conservatorio Verdi di Milano, il 27 (ore 20.30) il concerto La musica proibita come strumento di resistenza. Blues, Swing e Jazz organizzato con Figli della Shoah, Fondazioni Cdec e Memoriale della Shoah. Anche a Venezia, al Teatro La Fenice, il 23 (ore 11), il reading. Tra il mare e la sabbia.
Ragazzi
Tra le numerose iniziative per i più giovani, il 27 gennaio l’evento dedicato alle scuole Troppo piccolo il cielo. Musiche, letture e testimonianze dal ghetto di Terezín al Conservatorio di Milano, organizzato dall’associazione Figli della Shoah (che lo trasmette dal suo canale YouTube) e a cura di Matteo Corradini. L’incontro ricorda i bambini di Terezín, dei quali sono arrivate fino a noi alcune migliaia di disegni e qualche decina di poesie.
Sardegna: Odissea di un internato
Chi pesava meno di 35 chili veniva ucciso: il prigioniero Vittorio Palmas, soldato, ne pesava 37 e si salvò. Sopravvissuto al lager di Bergen Belsen, ricordò: «Sono vivo per 2 chili». Si ispira alla sua storia, raccontata nel libro di Giacomo Mameli La ghianda è una ciliegia (Il Maestrale) lo spettacolo Storia di un uomo magro, del regista attore Paolo Floris: per iniziativa dell’Associazione Pane e Cioccolata, e con il sostegno della Fondazione di Sardegna, lo spettacolo celebrerà il Giorno della Memoria con quindici rappresentazioni in tredici centri della Sardegna, fino al 2 febbraio, coinvolgendo 1.600 studenti delle scuole medie e superiori. Lo spettacolo di Floris rievoca la vita del soldato sardo, la prigionia nel lager e il destino di chi non fece ritorno: morì nello stesso lager anche Anne Frank. Prima del recital, il canto del coro «Murales» di Orgosolo. Tra le repliche dello spettacolo, appuntamento giovedì 20 gennaio a Lanusei (Nuoro), venerdì 21 a Oschiri (Sassari), e giovedì 27 a Oristano e a Orgosolo.
La data del 27 gennaio
Il Giorno della Memoria è stato istituito per legge nel 2000 in Italia e a livello internazionale nel 2005 dall’Onu per ricordare le vittime dello sterminio nazista degli ebrei compiuto durante la Seconda guerra mondiale. Come data è stato scelto il 27 gennaio, giorno nel quale, nel 1945 le truppe sovietiche liberarono il lager di Auschwitz-Birkenau, principale campo di sterminio utilizzato dalle SS per eliminare gli ebrei deportati dai Paesi occupati di tutta Europa
Giorno della Memoria, storia (mai raccontata prima) del ragazzo che beffò i nazisti vestendo la camicia nera. Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 27 gennaio 2022.
Genitori ebrei, nel 1938 il padre aveva voluto convertire la famiglia al cattolicesimo contro il parere della madre. Lui, a 16 anni, scelse di fuggire dal nascondiglio dove si erano rifugiati. Catturato dai fascisti prima e dai nazisti poi, fu «salvato» da un pastore tedesco e dal proprio istinto di sopravvivenza.
Questa è una storia, una delle tante, che non è mai stata raccontata. Perché, può sembrare incredibile - visto che sulla Shoah sono stati scritti migliaia di libri, diffuse altrettante vicende personali e collettive, girate montagne di pellicole - eppure, sono milioni (sì, milioni) i percorsi familiari, ciascuno con una sua specificità, un suo privatissimo universo, di cui non sappiamo e mai sapremo nulla perché inghiottiti nel gorgo nazista. Insomma, nonostante gli sforzi per ricostruire tante esistenze, 80 anni più tardi ci ritroviamo in realtà con un pugno di mosche in mano. Quel mondo è scomparso, e dobbiamo accontentarci di ricordare una minima parte dei volti e delle architetture umane che lo componevano.
Dunque è venuto il momento di ricostruire la vita di una famiglia come tante, padre, madre, tre figli nati a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, l’ultimo alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940. Sono tutti ebrei, naturalmente. Ma, e qui incontriamo la prima conseguenza dell’odio antisemita che sta avviluppando l’Europa, il capofamiglia - il signor Levi - nel 1938 ha deciso di convertire tutti i suoi cari al cattolicesimo: «Perché sono stanco di vivere in un mondo che ci vuole tanto male».
Il signor Levi, un uomo ombroso, triste anche, e piuttosto pasticcione nella vita, pensa in questo modo di aver messo al sicuro tutti dalle leggi razziali, di aver oltrepassato quel confine invisibile che divide gli esseri umani in categorie e aver smesso definitivamente la pelle più odiata della storia d’Occidente: quella da ebreo. Una decisione tanto radicale naturalmente ha avuto un costo: la moglie, discendente di una schiatta di pii rabbini, è sgomenta. Ma nulla può perché in quell’epoca, il volere dell’uomo di casa si trasforma in decisioni irrevocabili per tutti in famiglia. I figli, ancora piccoli, non capiscono granché, ma cercano di adattarsi alla nuova realtà e “fare gruppo” con i nuovi amici di cui capiscono la lingua ma non la devozione religiosa, così diversa dalla propria.
La famiglia di «nuovi cristiani» prova a andare avanti come nulla fosse, mandando a memoria preghiere fino a quel momento sconosciute, cercando di introiettare l’idea di essere finalmente «liberi». Ma le difficoltà non mancano. Intanto, data la conversione tardiva, i ragazzi non possono frequentare le scuole pubbliche, riservate agli italiani «ariani»: per loro si aprono invece le porte di una scuola gestita dalla Chiesa. Ma anche questo dura poco. Il settembre 1943 arriva in fretta. Così come l’occupazione nazista dell’Italia. E il giorno in cui un questore convoca l’intera famiglia Levi nei suoi uffici. Per arrestarli.
Il signor Levi è sconvolto, non capisce: «Ma signor questore, noi non abbiamo fatto nulla, siamo bravi cittadini, siamo cattolici ora!». «Mio caro signor Levi - risponde sconfortato il questore, uno dei non pochi italiani incapaci di vestire i panni degli aguzzini - non ha capito che tempi viviamo? Perché non è scappato? Perché non si è ancora nascosto con tutta la sua famiglia?». Silenzio gelido nella stanza: i Levi, tutti, impalliditi dal terrore. «Senta, facciamo così: io non vi ho trovato, oggi. Voi non siete mai stati qui. Però la avviso: tra una settimana verremo a casa sua per arrestarvi tutti. Mi ha capito?».
Finalmente, Orlando Levi sembra aver capito. Ma non sa cosa fare. Perciò si rivolge al parroco che li ha battezzati tutti. Non c’è tempo da perdere: preparate le valigie con il minimo indispensabile, i Levi salgono su un’auto e partono per la montagna, lontano dalle vie più trafficate. Rimarranno nascosti fino alla fine della guerra: la conversione ha garantito loro la protezione attiva della Chiesa cattolica. Le loro vite sono salve. Ma non le loro esistenze. Nei mesi che mancano alla Liberazione, la famiglia Levi implode. Marito e moglie non fanno altro che litigare: lei non gli perdona di averla spossessata di un’identità che racchiude ricordi e affetti, mai così distanti. Mentre il primogenito, Fiorello Levi, incapace - è solo un adolescente - di comprendere la natura di tanta tensione, decide di scappare. Fiorello sa di essere ebreo. Ma al tempo stesso comprende che qualcosa è cambiato irreparabilmente. Non solo nel mondo esterno: nella sua famiglia. A 16 anni l’orizzonte può essere molto vicino. Fiorello pensa di raggiungere la Svizzera, dove sa che si sono rifugiati alcuni suoi parenti. Chiedendo passaggi, attraversando a piedi campi e paesi, riesce in qualche modo ad arrivare a Chiasso. Ma è lì che la sua giovane età lo blocca: non sa come superare la frontiera. In più è stravolto dalla fame e i vestiti che indossa sono ormai pieni di buchi e strappi. È allora che una pattuglia di camicie nere lo ferma. Gli chiede i documenti. Gli chiede chi è e cosa fa lì. «Mi chiamo Fiorello Levati - risponde ben sapendo che non deve rivelare in nessun modo di essere ebreo -. Sono rimasto solo, i miei sono tutti morti sotto il bombardamento di Treviso (7 aprile 1944, ndr), non ho più nulla, nessun documento» .
I militari fascisti sono sospettosi. Ma si inteneriscono di fronte a questo ragazzino smunto, il viso pieno di efelidi, che sembra davvero uscito da un bombardamento. Eppure ripetono la domanda: «Va bene, ma cosa fai qui, vicino al confine?». È allora che il panico avvolge il ragazzo. In un istante sceglie la risposta più pericolosa e gravida di conseguenze: «Sono un fascista, mi vergogno dei Savoia. Voglio arruolarmi». Fiorello Levi un fascista? In effetti non sembra una bugia: quanti italiani non lo erano fino al 1943? Comunque la Repubblica Sociale ha bisogno di braccia. Perciò le camicie nere gli battono le mani sulle spalle e lo portano al loro quartier generale di Milano.
Fanno parte delle Brigate Nere, squadristi feroci che danno la caccia ai partigiani, agli ebrei e sono i «migliori alleati» dei tedeschi. Fiorello sa quello che sta facendo? Probabilmente no: ma quello era, per lui, l’unico modo di sopravvivere. Così riceve una uniforme e un compito: dal momento che sa guidare (le automobili sono sempre state la sua passione), il maresciallo che lo ha arruolato lo prende come attendente e gli affida una Topolino e il suo cane, un pastore tedesco. Poche settimane più tardi, il destino offre l’ennesimo inciampo. Fiorello ha portato l’auto dal meccanico. E nell’attesa gioca con il cane lupo. Improvvisamente arriva un tedesco. Il soldato ha bisogno di soldi e prova a vendere la sua Luger al meccanico, un borsanerista. Spara due colpi in aria per dimostrare che la pistola funziona. Il meccanico si convince. Ma il cane, terrorizzato, scappa a gambe levate. Fiorello prova a riprenderlo. Ma non c’è nulla da fare: in un istante l’animale scompare nei vicoli del centro di Milano. Che fare? Il ragazzo telefona in caserma e racconta cosa è successo. Il maresciallo, gelido come l’inverno che avvolgeva l’Italia stremata dalla guerra, gli risponde: «Trovalo, se torni senza cane ti ammazzo».
Fiorello non sa cosa fare. Ma quando il meccanico gli riconsegna la Topolino, mani e piedi agiscono di comune accordo e l’auto si dirige verso le Alpi, nella località dove la famiglia Levi viveva nascosta. Poche ore e l’auto è venduta al mercato nero. Dei soldi ricavati, Fiorello ne consegna una parte al padre, sempre più curvo e spaventato. Poi pensa: se non sono riuscito a passare in Svizzera, forse potrò superare il fronte a Sud e passare con gli alleati. Perché farlo? Non lo sa nemmeno lui. Ma una cosa è certa: in famiglia non è più possibile stare. Fiorello prende un treno, poi una corriera, poi fa l’autostop fino ad arrivare in Romagna. È ancora in divisa fascista. E, in una locanda dove si è fermato per mangiare qualcosa, viene avvicinato da un nazista che lo guarda da capo a piedi e gli dice, sibilando: «Tu chi sei? Che ci fai qui? Dov’è la tua unità?». Fiorello risponde. Il tedesco, allora, con un ghigno: «So riconoscere un ebreo: tu sei ebreo!».
Il ragazzino si vede nella stessa situazione di Chiasso, quando era stato fermato dai fascisti. Solo che ora si trova ad affrontare un nazista. Di nuovo, lo spirito di sopravvivenza guida le sue parole. «Non sono ebreo, sono un fascista italiano. Sono venuto al fronte per combattere. Sono stufo di stare nelle retrovie insieme ai vigliacchi». Detto fatto: il tedesco lo porta al comando e lo fa assegnare al reparto logistico: visto che sa guidare, lo mettono al volante di un camion. La storia di Fiorello e della sua avventura nel centro dell’orrore è quasi al termine. Nell’aprile 1945 tutto cambia. Le difese nazifasciste crollano. I reparti si dissolvono e Fiorello si trova a camminare verso nord insieme a migliaia di sconfitti. Nessuno si preoccupa più di lui, ognuno pensa a se stesso, a come salvarsi la vita, alle vendette che verranno. Cosa ne sarà dunque di Fiorello, ebreo in camicia nera?
Lui non sa (ancora) cosa è accaduto a milioni di ebrei europei passati nei camini dei Lager nazisti. Pochi in verità percepiscono la realtà della Shoah in quei giorni. Così, quando, dopo giorni di cammino, Fiorello è di nuovo nella sua città e suona al campanello di un suo vecchio compagno di classe, quasi si sorprende che lui gli strappi di dosso la divisa da fascista: «Fiorello, sei impazzito? Vuoi farti fucilare dai partigiani?».
Il ragazzo è riuscito a superare la guerra e la tragedia della Shoah. Anche la sua famiglia è potuta tornare a casa. Ma per quanto la sorte dei Levi sia stata certamente migliore rispetto a chi è morto nei Lager o chi magari (pochi) è riuscito a tornare alla vita di prima, comunque la persecuzione ha lasciato un segno indelebile e un istinto insopprimibile passato alle generazioni successive. Un sentimento che guiderà i suoi passi e le sue decisioni da lì in avanti: è accaduto, perciò accadrà ancora.
Postilla: questa è una vicenda reale in cui i nomi sono stati alterati quanto basta per mascherare i protagonisti: alcuni sono ancora tra noi.
Livorno, aggressione antisemita a un 12enne. Le scuse mancate: «Perché nessuno ha detto basta?» di Giusi Fasano inviata a Campiglia Marittima (Livorno) su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.
Spunta un video dell’aggressione da parte di due ragazzine nei confronti di un 12enne, mentre altri assistevano senza fare nulla. L’inchiesta della Procura per lesioni aggravate dalla finalità di razzismo. Il sindaco ha organizzato una fiaccolata.
Da qualunque parte la si guardi questa storia fa tristezza. Ed è quanto mai cupa oggi, nel Giorno della Memoria che ricorda la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico. C’è un bambino di 12 anni che torna a casa mesto e in lacrime, corre in cucina, si toglie il giaccone e con la spugna per i piatti strofina macchie di sputi. C’è un padre che non crede a quel che sente mentre il piccolo gli racconta che «quelle mi hanno preso a calci e pugni, ma io non le conosco nemmeno. Mi sputavano addosso. Una mi ha detto: ebreo di merda, devi morire nel forno». Poi ci sono «quelle», le due ragazzine di questa storia triste. Una di loro non ha nemmeno 13 anni, quindi anche per lei la parola bambina è più adeguata; l’altra ne ha compiuti 14 da poco. Infine ci sono i quattro testimoni, pure loro ragazzetti. «Non dico intervenire fisicamente, ma possibile che a nessuno sia venuto in mente almeno di dire: cosa state facendo? Fermatevi! Niente. Hanno guardato e basta», è l’amarezza del padre del bimbo ebreo.
La denuncia del papà del bimbo
Tutto questo avveniva domenica pomeriggio a Venturina Terme, una frazione di Campiglia Marittima (Livorno). E da domenica a oggi non risulta che i genitori delle due ragazzine abbiano fatto nessuna contromossa, chiamiamola così: né chiedere scusa, né smentire il racconto del bambino e nemmeno firmare una controdenuncia (come vorrebbero i racconti da bar a Venturina) dopo quella presentata dal papà del bambino. Lui, il padre, si dice commosso dall’affetto che sta ricevendo: «Scalda il cuore», commenta. «Quello che rimarrà di questa storia non è il ricordo dei lividi, che passeranno. È qualcosa di più profondo: è la ferita dell’anima che mi preoccupa. Lui quelle due ragazze le aveva già viste in passato ma sapeva appena i loro nomi. È cominciato tutto con uno “stai zitto tu, che mi da noia la tua voce”. Quando siamo tornati dal pronto soccorso mi ha chiesto: babbo, ma se poi vado al giardino e le rivedo? Ecco, questo è il risultato: la paura. Ho deciso di denunciare perché non è più tollerabile, nel 2022, una cosa del genere. Né verso un ebreo né verso un musulmano o un gay. Basta».
L’inchiesta per lesioni aggravate dalla finalità di razzismo
La procura dei minori di Firenze ha aperto un’inchiesta per lesioni aggravate dalla finalità di razzismo: una delle due ragazzine non è però imputabile essendo minore di 14 anni, anche se il caso sarà quasi certamente segnalato ai servizi sociali per una indagine sulle condizioni socio-familiari. I carabinieri di Piombino hanno raccolto le testimonianze dei ragazzini che hanno assistito alla scena e il loro racconto «è compatibile», per dirla con le parole di un inquirente con quello del bambino insultato e picchiato. Dell’aggressione, tra l’altro, esiste anche un video (senza audio), estratto dalle telecamere di sorveglianza. Si vede la zuffa (durata pochi secondi) e poi il gruppo che si divide e si allontana mentre il bambino scappa.
Il giorno della memoria e la fiaccolata
Il 27 gennaio — oggi — è la data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz. Chissà se lo sanno le due piccole protagoniste di questa storia triste. Chissà se hanno mai sentito parlare di persecuzione, di leggi razziali, di deportazione. E soprattutto: chissà se i loro genitori gliene hanno parlato adesso, in questi giorni di accuse e di finto anonimato, in questi luoghi in cui tutti sanno tutto, indirizzo compreso. «È gente perbene, non crocifiggetela», si raccomanda una signora che indica la casa della quattordicenne. Nella palazzina dove vive non apre nessuno fino a sera. Per la più piccola, invece, parla davanti al cancello una donna che non dice chi è: «Aspettiamo che si chiarisca tutto. La famiglia parlerà al momento opportuno». Nessuno osa sperare che sia stasera, alla fiaccolata organizzata a Venturina dalla sindaca Alberta Ticciati e dalla Regione.
Le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah nelle registrazioni raccolte nel 1955 sono documenti fondamentali, che non contemplano ancora la portata di una tragedia che la Storia avrebbe analizzato successivamente. La Repubblica il 26 gennaio 2022.
Nel 1982 partecipai a Parigi ad un convegno internazionale dal titolo "L'Allemagne nazie et le génocide juif" organizzato dall'Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales. Erano presenti i più grandi specialisti della materia, che sovrastavano abbondantemente in conoscenza me, che ero una storica alle prime armi: c'erano Raul Hilberg, Yehuda Bauer, Christopher Browning, Leon Poliakov e altri.
La giornata della memoria. Abraham B. Yehoshua: vacciniamoci contro l'odio. Abraham B. Yehoshua La Repubblica il 26 gennaio 2022.
Un grande scrittore israeliano spiega perché l’antisemitismo, come il Covid, non si combatte solo con una “prima dose”: servono i richiami.
Sono passati settantasei anni da quando l’esercito russo liberò il campo di concentramento più terribile mai messo in atto nella storia umana, il campo di sterminio di Auschwitz, un campo tedesco in Polonia dove, durante la seconda guerra mondiale, si perfezionò il modo di dare la morte a milioni di prigionieri, in gran parte milioni di cittadini ebrei deportati da tutti gli angoli d’Europa.
Thomas Geve: "I miei disegni raccontano che cos'era Auschwitz". Wlodek Goldkorn La Repubblica il 26 gennaio 2022.
Da bambino sopravvissuto ha raccontato il lager in disegni che sono ora esposti allo Yad Vashem di Gerusalemme e riuniti in un libro edito da Einaudi. E a 92 anni dice: “Nei campi c’erano anche vita e solidarietà”.
Thomas Geve ha novantadue anni, vive vicino Tel Aviv. La cosa che più colpisce, parlandogli, è l'ostinato rifiuto di considerarsi vittima, unito all'idea che i valori più importanti sono solidarietà e giustizia.
Geve è nato a Stettino, ai tempi una città tedesca. Famiglia borghese, padre e nonno medici, quando aveva poco più di tredici anni venne deportato da Berlino ad Auschwitz.
L'intervista. Edith Bruck:"Io non posso tacere. Auschwitz è stata la mia università. Scrivere è respirare". Rodolfo di Giammarco La Repubblica il 26 gennaio 2022.
La scrittrice ma soprattutto lucida testimone dello sterminio ebraico sarà al Palladium con Furio Colombo per la Giornata della Memoria.
Edith Bruck è protagonista il 27 gennaio al Teatro Palladium della serata "Passaggi di Memoria" (ore 20). Attesi anche i saluti di Mario Venezia, presidente della Fondazione Museo della Shoah, Sami Modiano (in video) e gli interventi di Furio Colombo e Stefano Massini. Serata trasmessa in diretta sulla pagina Facebook della Fondazione. Ingresso libero fino ad esaurimento posti con Green Pass.
Quei cinquecento ebrei in mare in cerca della salvezza. Eleonora Lombardo La Repubblica il 26 gennaio 2022.
La storia del Pentcho, il battello sul quale trovarono posto uomini, donne e bambini in fuga dal nazismo, diventa un libro di Antonio Salvati. Pubblicato da Castelvecchi.
In un nitido pomeriggio del maggio 1940, dal porto di Bratislava, tra l’incredulità degli astanti, salpava il Pentcho, un battello fluviale costruito in Scozia e registrato in Italia che, da semplice rimorchiatore, diventa l’unica possibilità di salvezza per 520 ebrei che da tutta la Mitteleuropa scappano con destinazione la Terra Promessa. E’ una storia rocambolesca, di ardore, di slancio, di avventura e di umanità, ma è anche una storia vera quella che Antonio Salvati racconta in Pentcho, sorprendente esordio narrativo edito da Castelvecchi.
I libri della memoria dell'Olocausto rimarranno sempre con noi. Meir Ouziel su La Repubblica il 27 gennaio 2022.
Nella mia libreria ci sono alcuni volumi che iniziano con le parole "L'estate del 1939 fu bella". Un incipit agghiacciante. Nel giro di poche righe, si passa dalla descrizione dei campi estivi organizzati dai movimenti giovanili ebraici, all'inferno provocato dai nazisti con l'invasione della Polonia. Si tratta di alcuni delle migliaia di libri di memorialistica pubblicati in Israele in cui i protagonisti raccontano la propria trasformazione da persone semplici, comuni a subumani perseguitati su cui pende un solo verdetto: la morte.
Disegni e ricordi di una bambina in fuga: «Io, scampata alla Shoah». JESSICA CHIA su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.
Le pagine scritte a 9 anni dalla milanese Bruna Cases, che raggiunse la Svizzera per sfuggire alla persecuzione, rivivono in un libro (Piemme) scritto con Federica Seneghini
La pagina del diario di bambina di Bruna Cases con il disegno del momento del passaggio in Svizzera
Poche pagine, la scrittura è precisa e composta, appena appresa alle elementari, ma quello che custodisce è il racconto della tragedia. Sui fogli c’è il conto dei giorni, e alcuni disegni — come un filo spinato che separa il confine italiano da quello svizzero — che rappresentano la fuga dall’Italia di una bambina di 9 anni per salvarsi dalla Shoah.
Bruna Cases, Federica Seneghini, «Sulle ali della speranza» (Piemme - Il Battello a Vapore, pp. 186, euro 14)
È così che Bruna Cases (Milano, 1934) quasi ottant’anni fa ha affidato a un diario i ricordi del momento in cui, a causa della persecuzione degli ebrei, è stata costretta a lasciare il suo Paese. Oggi quel diario, nato da appunti sparsi presi durante la traversata, è diventato un libro per bambini (e non solo), Sulle ali della speranza. Il mio diario di bambina in fuga dalla Shoah (Piemme - Il Battello a Vapore), scritto da Bruna Cases con la giornalista del «Corriere» Federica Seneghini, che ha scoperto questa storia e l’ha raccolta attraverso la testimonianza della stessa Cases. Mentre una copia di quelle pagine — che tristemente ricordano quelle scritte da Anne Frank (1929-1945) negli stessi anni — è conservata nell’Archivio della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano.
Bruna ha 4 anni quando tutto ha inizio, indifferenza dopo indifferenza. I suoi fratelli maggiori (tra cui il futuro critico letterario e germanista Cesare Cases) vengono espulsi dalla scuola e inizia una serie di misure che progressivamente cancellano i diritti degli ebrei: è il 1938, l’anno terribile delle leggi razziali. Bruna non capisce, per lei «essere ebrea voleva dire essere uguale agli altri bambini, solo di una religione diversa». Nel 1940, inoltre, su Milano arrivano i bombardamenti: Mussolini ha appena dichiarato l’entrata in guerra. Per i Cases è sempre più pericoloso restare in città, così due anni dopo sfollano a Parma, da alcuni familiari.
Dopo l’armistizio, l’8 settembre 1943, l’Italia è divisa in due. Nei territori occupati dai tedeschi e in quelli della Repubblica sociale (Rsi), inizia la deportazione degli ebrei nei lager. La famiglia di Bruna tenta la fuga in Svizzera; un viaggio rischioso, sia per la presenza al confine dei soldati della Zollgrenzschutz, la polizia di frontiera tedesca, e dei militi fascisti, sia perché non era scontato essere accolti: «In altre occasioni, di fronte a profughi ebrei come noi, non si erano fatti problemi a respingere le persone (…). E allora, cosa sarebbe successo?». I primi a partire sono il papà e la nonna; poi la mamma e le sue sorelle, guidate al confine dai contrabbandieri. La bambina annota tutto di quel viaggio, le emozioni che prova, il sollievo quando toccano il suolo svizzero: «Essere in terra libera, senza guerra, senza che nessuno si ammazzi l’uno con l’altro!». E qui diventa improvvisamente adulta: «Per la prima volta mi resi conto di essere diventata una profuga, una bambina di nove anni in fuga dal suo Paese». Quando la guerra finirà, avrà ormai 11 anni: è da quando ne ha 4 che vive la persecuzione.
Sulle ali della speranza racconta la drammatica storia del nostro passato, ma è pure un monito per il presente: anche se nessun paragone è possibile, Bruna stessa dice di poter capire quello che provano i profughi di oggi che scappano dai loro Paesi. E il suo diario ci ricorda quanto sia pericolosa l’indifferenza: «Ecco, “memoria” significa capire che essere neutrali, di fronte all’intolleranza, è e deve essere impossibile — scrive Seneghini nell’introduzione —. Perché in quegli anni fatti e avvenimenti minimi crebbero a valanga, fino a diventare fatti atroci».
Il libro
Bruna Cases, Federica Seneghini, Sulle ali della speranza. Il mio diario di bambina in fuga dalla Shoah (Piemme - Il Battello a Vapore, pp. 186, euro 14; dai 10 anni) Alla fine di ottobre del 1943. Bruna Cases (Milano, 1934) raggiunse la Svizzera per sfuggire alla persecuzione degli ebrei e lo raccontò in un diario. Federica Seneghini (Genova, 1981) è giornalista del «Corriere». Ha pubblicato Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce (Solferino, 2020)
Il diario ritrovato della piccola Bruna Cases, scappata in Svizzera per salvarsi dalla Shoah. Federica Seneghini su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.
La voce di una bambina ebrea di Milano, fuggita con la famiglia per salvarsi la vita nel 1943, nelle pagine del suo diario. Che oggi rivive in un libro (Piemme)
«Prendevo appunti dove capitava. Foglietti, biglietti, i bordi di un foglio di giornale. Scappavamo e io non volevo dimenticarmi niente. Mi segnavo i particolari, le cose che mi succedevano intorno, i nomi delle persone. Adoravo scrivere. A scuola l’italiano era la mia materia preferita. Finché i fascisti non chiusero la scuola ebraica di Milano e io, come tanti altri bambini, fui costretta a smettere di studiare. Sfollammo a Parma, poi riuscimmo a fuggire in Svizzera. Papà ci precedette con la nonna. Mio fratello Cesare viveva là già da qualche anno, era scappato subito, nel 1939. Studiava chimica all’Università di Losanna e poi filologia e letteratura a Zurigo (divenne un grande critico letterario e germanista, ndt.) . Io, mamma e le mie sorelle li raggiungemmo dopo. Se chiudo gli occhi mi sembra ancora di vedere quel filo spinato che separava l’Italia dalla salvezza». Ha la voce ferma Bruna Cases. Classe 1934, aveva nove anni quando con la famiglia riuscì a lasciare l’Italia grazie ad alcuni «contrabbandieri», come li chiamava allora e come li definisce tuttora. Gli uomini che per un po’ di denaro traghettarono lei e tanti altri oltreconfine. Una volta in salvo, la piccola trasformò quei bigliettini in un diario di fuga. Poche pagine che oggi sono custodite nell’Archivio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. Raggiunta al telefono nella sua casa di Milano, Bruna Cases è stata felice di condividere quelle pagine così preziose, con noi. E noi siamo felici di ripubblicarle integralmente qui di seguito in occasione del Giorno della Memoria.Alla fine di ottobre del 1943 Bruna Cases raggiunse la Svizzera per sfuggire alla persecuzione degli ebrei e lo raccontò in un diario. Oggi la sua storia è diventata un libro per bambini: «Sulle ali della speranza» (Piemme - Il Battello a Vapore, pp 186, euro 14)
La prima pagina del diario di Bruna Cases (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)
Diario, 31 ottobre 1943
L’Italia era occupata a nord dai tedeschi e a sud dagli inglesi, ma gli ultimi procedevano adagio adagio. Intanto i tedeschi maltrattavano gli ebrei; appunto noi eravamo di questi. Incominciammo quindi ad andare via da casa e pensammo di andare in Svizzera come facevano molti. Allora, fai le valigie di qua, disfa i sacchi di là, una cosa da impazzire. Finalmente fummo pronti, ci avviammo verso la stazione. Poco dopo eravamo a Varese, dai Rossi, nostri amici e siamo stati là un giorno o due. A Varese combinammo coi contrabbandieri che noi saremmo andati alla stazione e che loro ci avrebbero condotto in automobile fino a una cascina.
Alla notte si sarebbe passati; poi ci avrebbero condotti in un’altra casa (col telefono) di là avrebbero telefono a un deposito di macchine di venirci a prendere in automobili di condurci fino a Lugano. Invece nulla di tutto questo; siete curiosi? State a sentire come finì. Alla stazione aspettavamo impazienti che arrivasse l’automobile. Finalmente giunse un uomo che ci condusse in una rimessa e ci fece salire in un camioncino. Che delusione fu per me! Speravo di andare in una bella automobile, mentre invece mi trovai in una specie di stanzetta tutta chiusa con un solo forellino piccolissimo da cui potevo appena intravedere il paesaggio. Ad un tratto il camioncino si fermò con nostro gran spavento ma invece vidi che di fuori c’erano cinque o sei uomini che salirono anch’essi. Dovevano venire anche loro in Svizzera, con i loro bagagli. Poco dopo giungevamo alla cascina. Ci fecero entrare in un’ampia cucina ben riscaldata. C’era una numerosa famiglia. Due ragazze stavano facendo la polenta. Siamo stati là tre giorni e quattro notti. Le notti le passavamo ansiosi, aspettando i contrabbandieri che dovevano condurci al di là della frontiera. Finalmente vennero. Erano in due; ognuno di loro aveva una rivoltella; il capo, Guido, aveva un berretto di pelliccia bianca con in mezzo una croce nera. Queste due cose mi fecero molto effetto. Dopo un po’ partimmo; camminavamo al buio, in silenzio, inciampavamo nei solchi della montagna, entravamo in un bosco, finalmente la strada era piana; potevamo camminare un po’ più in fretta; ogni tanto la guida ci faceva fermare di colpo.
Nel piccolo diario di Bruna Cases c’erano anche alcuni disegni. Nella pagina qui sopra la bambina disegnò il filo spinato che separava l’Italia dalla Svizzera (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)
C’era pericolo. Perché degli uomini di tanto in tanto si avvicinavano; bisognava, quasi, trattenere il respiro. Sbucammo in una vasta prateria: bisognava allora fare il meno rumore possibile: eravamo vicino alla tanto desiderata frontiera. Ah, me ne dimenticavo! Prima di uscire dal bosco ci fecero fermare per un quarto d’ora; intanto andavamo ad esplorare i dintorni e a tagliare la rete. Poco dopo ci rimettevamo in marcia. Vedemmo una garitta che era proprio davanti al buco della rete, fortunatamente la sentinella non c’era. A uno a uno, silenziosamente, passammo attraverso il buco della rete. Che emozione! Finalmente eravamo in terra libera, in Svizzera.
Nella pagina qui sopra il momento in cui la famiglia Cases si nascose tra i cespugli per sfuggire alle forze dell’ordine che perlustravano il confine con una lampadina tascabile (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)
Le prime ore del nostro soggiorno in Svizzera i contrabbandieri ci dissero: «Andate in là, circa cento metri, vi raggiungeremo». Noi fiduciosi nei contrabbandieri non sospettando nulla, aspettammo un po’ più in là: quand’ecco che sentiamo parlare sommessamente, tendiamo le orecchie. «In che lingua parlano?», bisbigliarono tutti. «In tedesco», rispose qualcuno, ancora di più, frugavano i cespugli con una lampadina tascabile: non ne potevamo più. Eravamo là accovacciati, fu un miracolo, pensate, eravamo in undici, e non ci hanno visto! Poco dopo le voci si erano allontanate, respirammo, non c’era più pericolo. È vero che si trattava di svizzeri tedeschi, ma avrebbero potuto rispedirci in Italia. Per fortuna c’era con noi un certo dottor Segré. Egli disse: «Ci hanno traditi, andiamo avanti, ce la caveremo da soli». Poco dopo arrivammo a Stabio, evviva! Avevamo trovato la via buona.
Appena giunti a Stabio, abbiamo interrogato i contadini: volevamo sapere dov’era il Comando. Eravamo stanchissimi. Arrivati al Comando, ci chiesero in tedesco: «Siete ebrei? Siete italiani?». «Ja» abbiamo risposto noi. «Va bene - dissero loro - seguiteci». Sapete dove ci condussero? Alla mensa militare. Là ci diedero una bella tazzona di cioccolata e pane a volontà. Mi regalarono anche mezzo pacchetto di cioccolatini marca Lindt. Poi siamo andati in un piccolo giardino, là abbiamo aspettato un bel po’, poi rientrammo e ci fecero ancora sedere a tavola: c’era il pranzo. Ci tenevano molto gli svizzeri a nutrirci! Il pasto era composto di potage carne e patate. Era tutto fatto molto bene.A gennaio 2022, Bruna Cases è tornata in Svizzera. Sul sito naufraghi.ch è possibile vedere il documentario girato dalla giornalista Ida Sala sul ritorno della signora nel Paese che nel 1943 la accolse come profuga
Poco dopo ci condussero alla dogana. Là ci chiesero nome, cognome e gli altri dati. Ci lasciarono molto incerti e ci dissero di andare fuori e di aspettare la risposta. Fuori eravamo custoditi da sentinelle le quali mi regalarono, di nascosto ai superiori, dolci e frutta. Tutte queste buone cose non potevano farmi dimenticare che in quei momenti si stava decidendo del nostro avvenire, vedevo la mamma in pensero che passeggiava su e giù nervosamente. Finalmente ci richiamarono e ci diedero il consenso. Figuratevi la nostra gioia! Non essere più perseguitati da quegli odiati tedeschi! Essere in terra libera, senza guerra, senza che nessuno si ammazzi l’uno con l’altro!
La nostra gioia, però, fu un po’ turbata al sapere che solo uno dei nostri compagni di ventura poteva rimanere, gli altri quattro dovevano ritornare in Italia. Poveretti! Ora incomincia la nostra peregrinazione in Svizzera. Un po’ a piedi, un po’ issati su un carretto accanto ai nostri bagagli, siamo andati da Stabio a Mendrisio, da Mendrisio a Ligornetto. Ora avevamo l’animo più tranquillo e potevamo ammirare il magnifico paesaggio. «Attendete in questo piccolo caffè», ci disse a Ligornetto un gentilissimo ufficiale svizzero che ci accompagnava. «Io provvederò intanto a farvi cercare un alloggio per stanotte». Mi pare che sia stato impossibile trovare un alloggio vero e proprio, e abbiamo dovuto passare la nottata sulla paglia. La mattina prestissimo eravamo di nuovo pronte, partenza per Bellinzona: avremmo rivisto papà e la nonna che erano in Svizzera già da due settimane, mio fratello Cesare che non vedevamo da tanto tempo. Ben presto fummo disilluse. Ci accompagnarono all’asilo di Bellinzona, dove abbiamo passato i primi due mesi della nostra residenza in Svizzera. Ogni pochi giorni arrivava all’asilo un gruppo di persone stanche e depresse per le fatiche del passaggio dalla frontiera; ogni pochi giorni un gruppo di persone ripartiva per andare in altre residenze. Siamo state molto bene all’asilo, soprattutto per la gentilezza delle samaritane, ma fummo felicissime quando ci annunciarono che era stata accolta la nostra domanda di essere ricongiunte con papà in un campo misto.
Partenza quindi per Rovio dove avremmo dovuto, dopo un paio di giorni raggiungere papà a Lugano. Ma a Rovio abbiamo avuto il primo grande dispiacere; una telefonata da Lugano avvertiva che papà era stato trasportato all’ospedale con la polmonite. Il viaggio per Lugano che avrebbe dovuto essere pieno di gioia, fu naturalmente molto triste. E molto triste è stato tutto il primo periodo passato in questo magnifico albergo dove siamo tutt’ora. Da qualche giorno papà sta meglio e possiamo dunque godere un pochino: siamo un bell’albergo, al Majestic, dove abbiamo una magnifica camera riscaldata tutta per la nostra famiglia e un bagno attiguo a completa nostra disposizione, due balconcini da cui si vede una collina coltivata, alcune casette, il lago di Lugano, belle montagne che qualche volta sono coperte di neve, la ferrovia. Da quando sono qui è cambiata spesso la compagnia dei ragazzi con cui gioco….
27 marzo lunedì 1944
Alle 9 e 30 incomincia la scuola; dura fino alle 11 e 30, si fanno cose varie, un tema, un problema, lezione di storia o lettura di Pinocchio. Poi vado su e gioco un po’ con la palla. Quand’ecco: dan dan, suona il gong per il pranzo; mangio in fretta e furia, perché vorrei trovare il ping pong libero; se è libero, gioco un po’ ma dopo pochi minuti, ecco la mamma che vuole che io vada due ore in giardino perché, dice, che l’aria aperta fa tanto bene. Fino all’ora del caffè e e latte sto in giardino; dopo la merenda faccio i compiti.
Nella pagina qui sopra alcuni dei passatempi preferiti dalla piccola Bruna. Si riconoscono bene la racchetta da ping pong con la sua pallina, la corda per saltare, un pallone, un piccolo gong e i libri. La bambina amava molto leggere (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)
Se non sono molto lunghi faccio ancora a tempo a giocare alla palla. La palla e la corda sono la mia passione, ma la corda purtroppo non ce l’ho, ora cercherò di fabbricarmene una. Poi ancora suona il gong: è la cena. Mangio; questa volta non tanto in fretta perché alla sera non ho più voglia di giocare a ping pong, preferisco giocare con le mie amiche a carte o a palla. «Ancora a palla», direte voi. Ma ve l’ho già detto: a me piace tanto. Raramente passo la mia giornata in maniera diversa: esco per qualche ora e una volta siamo andati alla Casa d’Italia dove c’era uno spettacolo bello. Qualche sera c’è lo spettacolo anche qui.
29 marzo 1944, giovedì
Nella mia cameretta ci sono una finestra e un balcone che offrono una magnifica vista. Spesso sto sul balcone a prendere il sole: intanto osservo il bellissimo panorama: vedo il grande giardino con belle piante che ora incominciano a fiorire, alcune casette sopra una collina coltivata e più in là belle montagne che qualche volta sono coperte di neve. C’è una linea ferroviaria e il treno che passa per andare in Italia mi fa a volte pensare alla mia patria. Vedo anche la strada e mi piace osservare la gente che passa. Che bella vista che c’è qui in confronto a Milano! Qua c’è aria aperta mentre a Milano tutte le case sono soffocate da altre. Davanti alla mia c’era la scuola e i bambini che andavano avanti e indietro mettevano allegria.
Federica Seneghini
Si ringrazia la signora Bruna Cases e l’Archivio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano per la gentilezza e la disponibilità
Nel 2022 il diario della piccola Bruna Cases è stato raccontato nel libro per bambini “Sulle ali della speranza” (Piemme - Il Battello a Vapore).
Libro per ragazze. Perché hanno ignorato a lungo i meriti letterari del diario di Anna Frank. David Barnouw su L'Inkiesta il 27 Gennaio 2022.
Il volume veniva celebrato come straziante documento storico, senza valutarne le qualità più profonde e intrinseche della scrittura. Nel suo libro (pubblicato da Hoepli) David Barnouw, il massimo esperto sul tema, ne indaga le ragioni
AP Photo/Peter Dejong, File
Ai curatori dell’edizione critica De Dagboeken van Anne Frank talvolta è stato rimproverato di non aver dedicato nemmeno una nota al nome di Kitty, la persona a cui Anne indirizzava le lettere del suo diario: «Per esempio, gli studiosi hanno a lungo trascurato il fatto che Anne Frank, indirizzando le sue lettere a Kitty, avesse scelto un personaggio della serie Joop ter Heul. Non conoscevano il lavoro di Cissy van Marxveldt» (Monica Soeting in «Letterhoeke», 2008, 2).
In parte era vero, perché i redattori di De Dagboeken van Anne Frank erano uomini, che perlopiù hanno poca conoscenza dei libri per ragazze. Tuttavia non toccherebbe ai redattori occuparsi di analisi letteraria o di interpretazione testuale, cosa che è lasciata ai lettori. Nell’edizione critica le note a piè di pagina sono state inserite solo in riferimento a eventi esterni all’alloggio segreto menzionati da Anne Frank, come per esempio i bombardamenti.
È comunque curioso che i critici letterari abbiano cominciato a prestare attenzione ai testi di Anne soltanto più di quarant’anni dopo la pubblicazione di Het Achterhuis. Peraltro, la chiave dell’enigma riguardante il nome Kitty era lì da quarant’anni. Il 21 settembre 1942 Anne scriveva: «Sono entusiasta della serie di Joop ter Heul», e tre settimane dopo, il 14 ottobre: «Per inciso, penso che Cissy van Marxveldt scriva benissimo.» Lo storico olandese Berteke Waaldijk aveva già evidenziato il collegamento con van Marxveldt nel 1993. Il critico Soeting ha poi addirittura raccontato che van Marxveldt fosse la prima persona cui Otto Frank aveva fatto leggere il diario di sua figlia, cosa che riempì d’orgoglio la scrittrice. Purtroppo non vi sono prove convincenti a riguardo.
Da quando è stato pubblicato per la prima volta, il diario di Anne Frank è stato considerato in primo luogo, e per decenni, come un documento umano, un objet trouvé, una testimonianza di guerra o una fonte storica, ma non come un’opera letteraria.
Come abbiamo visto, una prima eccezione è rappresentata da Kurt Baschwitz che scrisse alla figlia Isa all’inizio del 1946: «È il documento più sconvolgente che io conosca su quel periodo, e oltretutto un capolavoro letterario sbalorditivo.» Il diario era probabilmente considerato letteratura per ragazze, non particolarmente soggetta, almeno in passato, ad analisi letteraria. Soprattutto negli Stati Uniti il diario era stato destinato a uso educativo: non se ne esploravano gli aspetti letterari, ma serviva a mostrare quanto cattivi o buoni possano essere gli umani. Anche l’enfasi messa sull’opera teatrale e le differenze fra il testo del diario e il testo scenico hanno impedito una valutazione delle sue qualità letterarie.
È perciò curioso che, nonostante ciò, nel 1957 fosse stato istituito un premio letterario Anne Frank, destinato a giovani autori al di sotto dei 30 anni. Gli autori americani dell’opera The Diary of Anne Frank avevano stanziato 5.000 dollari per questo premio. I vincitori furono Harry Mulisch per il suo romanzo Archibald Strohalm, pubblicato cinque anni prima, e Cees Nooteboom per il suo primo libro Philip e gli altri. Il premio fu assegnato annualmente fino al 1966, e a metà degli anni ottanta si tentò di rinverdire l’anima dell’evento. Nel 1985 il sindaco di Amsterdam consegnò il premio alla scrittrice ebrea polacca Ida Fink (1921-2011).
Intitolare un premio letterario ad Anne e non riconoscerla come autrice letteraria può sembrare una contraddizione. Il mancato riconoscimento del diario come letteratura ha indubbiamente fatto sì che esso sia stato raramente, se non mai, fonte d’ispirazione letteraria. Eppure ha dato vita a decine di composizioni musicali, così come ad altrettante sculture e dipinti. Una singolare eccezione letteraria la dobbiamo all’autore ebreo americano Philip Roth e al suo libro del 1979, Lo scrittore fantasma.
«Se la documentazione relativa ad Anne Frank è cospicua, non si può dire altrettanto per le menzioni del diario nelle opere letterarie di riferimento», ha sottolineato il critico letterario Arjan Peters durante un convegno tenutosi ad Amsterdam nel 2007, in occasione del sessantesimo anniversario della pubblicazione di Het Achterhuis. Trent’anni prima, negli Stati Uniti, il poeta John Berryman (1914-1972) aveva già evidenziato l’aspetto letterario di The Diary of a Young Girl: «L’opera ha un deciso merito letterario; è vivida, spiritosa, candida, astuta, drammatica, patetica, terribile – ci si innamora della ragazza, la si trova formidabile, fino a che non ci spezza il cuore».
Probabilmente Berryman era stato troppo lungimirante, perché rimase a lungo una voce solitaria. Nel 1980 in Het geminachte kind [La bimba disdegnata], lo scrittore olandese Guus Kuijer definiva Anne una grande scrittrice che aveva raggiunto un «successo letterario» e scritto «un capolavoro». Ed era particolarmente arrabbiato per il fatto che Het Achterhuis non fosse considerato letteratura, per il solo fatto di esser stato scritto da una ragazzina.
La pubblicazione di De Dagboeken van Anne Frank nel 1986 innescò una rinnovata attenzione nei confronti di quanto Anne aveva effettivamente scritto. In questa edizione era possibile rintracciare i suoi sviluppi come scrittrice. La pubblicazione dell’edizione definitiva di Het Achterhuis nel 1991 provocò ugualmente un dibattito sulla natura letteraria della scrittura di Anne.
da “Il fenomeno Anne Frank”, di David Barnouw (postfazione di Massimo Bucciantini), Hoepli, 2022, pagine 179, euro 17,90
Da "il Giornale" l'1 febbraio 2022.
La casa editrice olandese che ha pubblicato un saggio in cui il delatore che portò la polizia ad arrestare Anna Frank e la sua famiglia viene identificato in un ricco notaio ebreo di Amsterdam si è scusata pubblicamente. Ambo Anthos ha detto che non stamperà più copie del volume, firmato da Margaret Sullivan e intitolato «Il tradimento di Anna Frank» fino a quando gli autori non offriranno prove più concrete di quelle finora pubblicate.
«Avremmo dovuto avere un approccio più critico», ha detto la casa editrice. Negli Usa il libro è stampato da HarperCollins che non ha fatto ancora commenti. Dopo la pubblicazione del volume, storici olandesi avevano gettato dubbi sulle conclusioni dell'inchiesta coordinata dall'ex agente dell'FBI Vincent Pankoke che aveva puntato i riflettori sul notaio Arnold van den Bergh.
«Offrono informazioni che meritano approfondimento, ma nessuna base per l'accusa centrale», aveva detto Ronald Leopold, il direttore della di Anna casa -museo Frank che ha deciso di presentare le scoperte del gruppo di Pankoke come «una delle tante teorie» considerate nel corso degli anni.
Anna Frank: esperti gettano dubbi sul notaio delatore. ANSA il 19 gennaio 2022.
E' stato davvero un ebreo di Amsterdam a tradire Anna Frank? Storici olandesi gettano dubbi sulle conclusioni dell'inchiesta coordinata da un ex agente dell'Fbi secondo cui il ricco notaio Arnold van den Bergh avrebbe indirizzato la polizia nella soffitta di Prinsengracht dove la famiglia Frank si nascose per due anni per sfuggire ai campi di sterminio.
L'indagine dell'ex agente dell'Fbi Vincent Pankoke e di un 'dream team' di investigatori e ricercatori d'archivio, pubblicata ieri nel libro "The Betrayal of Anne Frank" di Rosemary Sullivan in vista della Giornata della Memoria il 27 gennaio, ha ricevuto nelle ultime ore una vasta copertura in tutto il mondo. Oggi però in Olanda numerosi esperti hanno espresso dubbi sulle conclusioni: "Offrono informazioni che meritano approfondimento, ma nessuna base per l'accusa centrale", ha detto Ronald Leopold, il direttore della casa-museo di Anna Frank che presenterà le scoperte del gruppo di Pankoke come "una delle tante teorie" considerate nel corso degli anni.
Molti hanno poi contestato il peso dato nel corso dell'inchiesta al Jewish Council di Amsterdam, un comitato di collaborazionisti di cui van den Bergh era stato tra i fondatori e che, secondo gli investigatori, avrebbe tenuto liste dei nascondigli degli ebrei come quello dove si erano chiusi i Frank. "Accusano senza dare vere prove", ha detto Laurien Vastenhout, una ricercatrice del NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies: "Ancora una volta abbiamo una narrativa in cui sono gli ebrei ad essere i colpevoli". (ANSA).
Olocausto. La teoria della delazione di Anna Frank da parte di un notaio ebreo suscita notevoli dubbi. Thierry Clermont su La Repubblica il 20 gennaio 2022.
Secondo gli specialisti, scottati da ricorrenti tesi revisioniste, le “prove” addotte da un nuovo libro firmato da Rosemary Sullivan esigono una contro-indagine. Anna Frank, morta a Bergen-Belsen nella primavera del 1945, fu denunciata e tradita davvero da un notaio, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam (Oodse Raad) nell’estate del 1944, quando la quindicenne viveva in clandestinità con la sua famiglia? Questa è l’ipotesi avanzata da un libro in uscita mercoledì per HarperCollins dopo una campagna pubblicitaria ben mirata.
Da ANSA il 17 gennaio 2022.
Un'investigazione storica svolta negli Usa ha individuato a oltre 75 anni di distanza il presunto delatore che tradì Anna Frank, giovanissima vittima della Shoah resa celebre dal diario intimo scritto durante l'occupazione tedesca dell'Olanda nella Seconda Guerra mondiale, vendendola di fatto ai nazisti insieme alla sua famiglia per cercare di salvare la propria.
L'uomo sarebbe Arnold van den Bergh, membro della comunità ebraica di Amsterdam, e il suo nome è venuto alla luce come quello del "probabile" responsabile della cattura di Anna (morta poi quindicenne in un campo di sterminio nel 1945) al termine di 6 anni di ricerche condotte da una team di storici, esperti e anche da un ex detective dell'Fbi.
L'indagine si è avvalsa di moderni metodi utilizzati al giorno d'oggi per la riapertura di un cosiddetto 'cold case', un caso criminale irrisolto da anni: inclusi algoritmi computerizzati in grado di scavare nelle connessioni storiche fra numerose persone, come riportano i media internazionali. Van den Bergh fu componente del Jewish Council, organismo collaborazionista resosi disponibile a facilitare l'attuazione della politica d'occupazione nazista, salvo essere comunque smantellato nel 1943 con l'invio finale anche dei suoi membri nei lager.
Avrebbe tradito la famiglia Frank, "dopo aver perduto una serie di protezioni ed essersi ritrovato nella necessità di offrire qualche informazione di valore ai nazisti, per cercare di mantenere in salvo se stesso e sua moglie", ha detto Vince Pankoke, ex agente dell'Fbi e membro del team investigativo, in un'intervista a 60 Minutes dell'americana Cbs ripresa fra gli altri dalla Bbc.
Estratto dell’articolo di Frediano Sessi per il "Corriere della Sera" il 17 gennaio 2022.
(...) Tra tutti gli indagati rimaneva solo il notaio ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, Arnold van den Bergh. Sposato con tre figlie, era stato membro della commissione del Consiglio ebraico che, su ordine dei nazisti, doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione. Ricco e rispettato, nato nel 1886, era riuscito a farsi inserire nella lista del tedesco Hans Georg Calmeyer che, ufficialmente, dichiarò la sua non appartenenza alla razza ebraica.
Per questo, nonostante il decreto nazista che obbligava i notai ebrei olandesi a cedere la loro attività, Arnold van den Bergh poté svolgere il suo lavoro fino al gennaio del 1943, fino a quando un collega ariano, destinato a occupare il suo studio, J. W. A. Schepers, lo denunciò alle SS e gli fece perdere i suoi privilegi. Nel gennaio del 1944, Arnold van den Bergh venne informato dall'ufficio di Calmeyer che da quel momento lui e la sua famiglia erano passibili di arresto.
Dopo essere riuscito a mettere in salvo le figlie grazie ai suoi conoscenti che militavano nella Resistenza, come moneta di scambio per salvare se stesso e la moglie, offrì alla polizia tedesca un certo numero di indirizzi di ebrei nascosti, senza sapere che la numero 263 di Prinsengracht c'erano i Frank. Ebrei venduti ai nazisti da un ebreo, una scoperta sconcertante, ma ormai da anni studiata e approfondita dagli storici dell'Olocausto e dai sopravvissuti, tra i quali Primo Levi.
Nell'elaborare il concetto di «zona grigia», a partire da un libro di uno storico olandese, Jacob Presser, che ha raccontato la lotta per la vita degli ebrei prigionieri dei nazisti, Levi scrive: «È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario esso le degrada, le sporca, le assimila a sé».
Nel libro di Rosemary Sullivan, scritto come un romanzo, oltre alla conclusione scioccante, si coglie la pietas che la scrittrice rivolge al colpevole, contagiato dal male, e si comprende bene come ciò renda ancor più colpevoli i tedeschi. L'autrice, nel proporre al mondo la scoperta della verità, non si sofferma a esprimere un giudizio morale, perché sa che la condizione di offeso non esclude la colpa e se anche questa è obiettivamente grave, come ci ricorda Levi, non c'è tribunale umano «a cui delegarne la misura». Il libro, curato in modo eccellente, con un buon apparato di note e bibliografico, fornisce elementi importanti a comprendere anche il contesto storico in cui ebbe luogo questo dramma.
Un'indagine americana individua il traditore di Anne Frank. La Repubblica il 17 Gennaio 2022.
Secondo le ricerche di un team di storici e investigatori il delatore fu Arnold van den Bergh, membro della comunità ebraica di Amsterdam. La rivelazione in un libro che sbarca anche in Italia.
Anne Frank potrebbe essere stata tradita da un notaio ebreo. È questa la rivelazione sconcertante a cui giunge un’indagine americana: sarebbe stato individuato il probabile delatore che tradì la giovane vittima della Shoah resa celebre dal diario in cui raccontava la sua prigionia durante l’occupazione tedesca nell’Olanda nella seconda guerra mondiale. Se la notizia è vera, Arnold van den Bergh, membro della comunità ebraica di Amsterdam, rivelò il nascondiglio della famiglia di Anne per salvarsi la pelle. Il suo nome è venuto alla luce come quello del "probabile" responsabile della cattura di Anne (morta poi quindicenne in un campo di sterminio nel 1945) al termine di 6 anni di ricerche condotte da un team di storici, esperti e anche da un ex detective dell'Fbi.
L'indagine si è avvalsa di moderni metodi utilizzati al giorno d'oggi per la riapertura di un cosiddetto "cold case", un caso criminale irrisolto da anni: inclusi algoritmi computerizzati in grado di scavare nelle connessioni storiche fra numerose persone.
Van den Bergh, componente del Jewish Council, organismo collaborazionista resosi disponibile a facilitare l'attuazione della politica d'occupazione nazista, avrebbe tradito la famiglia Frank, "dopo aver perduto una serie di protezioni ed essersi ritrovato nella necessità di offrire qualche informazione di valore ai nazisti, per cercare di mantenere in salvo se stesso e sua moglie", ha detto Vince Pankoke, ex agente dell'Fbi e membro del team investigativo, in un'intervista Il notaio doveva selezionare, su ordine dei nazisti, i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione. Quando cadde in disgrazia, denunciato da un collega alle Ss, ricorse alla delazione come moneta di scambio fornendo alla polizia tedesca alcuni indirizzi di ebrei nascosti.
La vicenda è al centro del saggio di Rosemary Sullivan (HarperCollins, in libreria dal 20 gennaio) intitolato Chi ha tradito Anne Frank. Indagine su un caso mai risolto. Il libro ricostruisce proprio la vicenda della squadra di specialisti che ha indagato intorno alla delazione che portò all'arresto di Anne e dei suoi familiari. Un'equipe coordinata da Vince Pankoke e composta da decine di ricercatori e analisti, e da Thijs Bayens, cineasta olandese; Pieter van Twisk, storico e giornalista; Vince Pankoke, ex agente Fbi.
Anna Frank, trovato l’uomo che la tradì: fu un notaio ebreo. A 75 anni di distanza, un team coordinato dall’Fbi statunitense sembra finalmente aver svelato il mistero e individuato il delatore più celebre della Seconda guerra mondiale. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 17 gennaio 2022.
È stato uno dei “cold case” più misteriosi della storia recente che per decenni ha impegnato i ricercatori senza che ne venissero a capo: chi nel 1944 consegnò Anna Frank alla Gestapo di Amsterdam destinandola alla morte nel campo di sterminio di Bergen Belsen?
In principio venne accusato un magazziniere con precedenti per furto che viveva nello stesso quartiere del nascondiglio, Willem van Maaren, ma nessun ex membro della Gestapo ha mai confermato la sua identità e l’uomo fu scagionato. Poi venne il turno di Lena Hartog-van-Bladeren, che lavorava come donna delle pulizie nel magazzino “Opekta e Gies & Co” di proprietà di van Maaren ma gli storici hanno scagionato anche lei. Allo stesso modo della n nota collaborazionista. Ans van Dijk che rivelò ai nazisti l’identità e i nascondigli di almeno duecento ebrei olandesi.
Ora, a 75 anni di distanza dalla scomparsa della giovane martire del nazismo, un team coordinato dall’Fbi statunitense sembra finalmente aver svelato il mistero e individuato il delatore più celebre della Seconda guerra mondiale: si tratterebbe di Arnold van der Bergh un notaio ebreo vicino di casa della donna che nascondeva Anna e altri quattro membri della sua famiglia; van der Bergh era un noto esponente della comunità ebraica della città olandese, esponente di spicco del Jewish Council di Amsterdam. L’organismo venne coptato dai nazisti che in cambio delle delazioni promettevano immunità. Il notaio denunciò Anna e i suoi cari per mero interesse, ovvero per evitare la deportazione di campi di sterminio tanto che continuò a vivere tranquillamente nel centro Amsterdam fino al 1950 anno in cui morì per cause naturali.
Le conclusioni dell’inchiesta durata cinque anni sono state raccolte nel volume Het verraad van Anne Frank, (Chi ha tradito Anna Frank) pubblicato da HarperCollins France e dovrebbero mettere la parola fine sull’identità del “traditore”. O quasi, perché come spiegano gli autori: «Poiché naturalmente non ci sono immagini né è stato possibile lavorare sul Dna bisogna fare affidamento su prove circostanziali: la sicurezza al 100% non potremo mai averla, ma credo che ci avviciniamo all’85%».La prova maestra delle indagini guidate dall’agente del Fbi Vince Pankoke assieme al videomaker olandese Thijs Bayens, e allo storico e giornalista Pieter van Twisk, durante le quali sono state esaminate centinaia di migliaia di documenti in otto paesi e ascoltate una settantina persone, è rappresentata dalla copia di una lettera anonima ricevuta dal padre di Anna Frank, Otto, nel 1946 e nella quale viene menzionato il nome del notaio, deceduto nel 1950.
La lettera è stata ritrovata tra gli archivi di un ufficiale di polizia e spiegava che il nascondiglio segreto della famiglia Frank era stato rivelato da un uomo chiamato Arnold van den Bergh; un uomo che aveva dato ai nazisti anche un’altra serie d’indirizzi e preziose liste di nomi. Il fatto che non si tratti di un documento originale lascia spazio ancora ad alcuni dubbi. Anna Frank visse nascosta assieme ad altre quattro persone in una casa di Amsterdam al numero 263 di Prinsengrachttrat tra il 1942 e il 1944. Nell’agosto di quell’anno, il nascondiglio venne rivelato ai nazisti. La famiglia fu deportata prima a Birkenau- Aushwitz e successivamente a Bergen Belsen. Solo il padre Otto sopravvisse all’internamento e fu proprio lui che decise di rendere pubblico il toccante diario in cui la figlia raccontava la vita nell’alloggio segreto.
Le storie dimenticate degli italiani non ebrei deportati ad Auschwitz. LAURA FONTANA Il Domani il 22 Gennaio 2022.
Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione).
Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione.
L’intuizione di approfondire queste vicende mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo. Sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici).
LAURA FONTANA. Storica della Shoah ed esperta di didattica. È responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah di Parigi, ha pubblicato numerosi saggi scientifici in diverse lingue. È autrice di Gli Italiani ad Auschwitz. 1943-1945. Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime, Oswiecim, Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2021.
L’INCOMPARABILE PARAGONE TRA LA SHOAH E LE FOIBE. La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato. RAOUL PUPO Il Domani il 21 Gennaio 2022.
La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le Foibe. In alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.
Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.
RAOUL PUPO. Storico. Professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste. Tra le sue ultime pubblicazioni: Fiume città di passione (Laterza, 2018), Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (Laterza, 2021), Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio (ediz. aggiornata, Rizzoli, 2022).
Foibe silenziate, altre vergogne a Roma e a Milano. Carla Cace: “Riduzionismo strisciante”. Augusta Cesari venerdì 4 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Ancora un vergognoso riduzionismo sulle foibe a pochi giorni dal 10 febbraio. “I consiglieri di maggioranza del Municipio XIII, con un imbarazzante teatrino, hanno prima presentato e poi ritirato un atto sulla Memoria. Ma cosa ancora più grave, hanno bocciato una nostra mozione che prevedeva un dibattito sulle Foibe. Organizzato, a titolo gratuito, dall’associazione di promozione sociale “Comitato 10 Febbraio”. Accade a Roma, la denuncia è del capogruppo di Fratelli d’Italia in Municipio XIII, Isabel Giorgi e i consiglieri municipali di FdI, Marco Giovagnorio e Simone Mattana. Un atto gravissimo. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire amaramente. Ma ogni anno va sempre peggio e il ricordo della tragedia italiana trova sempre un muro di ostracismo. Vietato ricordare.
Roma, il XIII Municipio vieta un dibattito sulle foibe
“Una decisione assurda, mai successa prima in Consiglio, che infanga la memoria di migliaia di persone morte in questo tragico eccidio; e soprattutto non rispetta la legge 92 del 2004 attraverso la quale il Parlamento ha designato il 10 febbraio come “Giorno del Ricordo”. I rappresentati di FdI sono attoniti, sconcertati. “Mentre nelle scuole di ogni genere e grado saranno previste iniziative; nonché la realizzazione di studi, convegni e incontri per favorire e diffondere la memoria di queste vicende; nel Municipio XIII sarà vietato “ricordare”. Tutto ciò è semplicemente vergognoso”. Si è già scatenata la vergogna, a più riprese.
Foibe, Milano: il 10 febbraio sarà una cerimonia “carbonara”
L’iniziativa di Gorizia con il convegno negazionista, presente Eric Gobetti (“E allora le foibe“?) non è il solo punto di caduta. A Torino c’è stata la vergognosa protesta di tutto il sinistrume, Anpi in testa, per una locandina che mostra i comunisti partigiani di Tito “troppo brutti” e mostruosi. Ne sa qualcosa l’assessore regionale Maurizio Marrone di FdI, promotore di un ciclo di iniziative per il 10 febbraio. Preso di mira per un manifesto “troppo realistico”. Già, meglio silenziare e rendere “meno orribili” i fatti raccapriccianti. E in effetti è quel che succederà a Milano. Qui la cerimonia per i familiari degli esuli giuliano dalmati sarà una cerimonia “carbonara” come hanno denunciato le associazioni. Ci sarà infatti una cerimonia in tono minore. In programma fra una settimana in piazza Della Repubblica, dopo tanti ritardi, è stata infine collocata una bella stele realizzata da Piero Tarticchio, punto di riferimento per la comunità degli esuli istriano-dalmati. Ebbene, il comune di Milano ha fatto già sapere che la cerimonia sarà “silenziata”: non sono previsti discorsi e neanche la figura di un sacerdote.
Foibe, Milano umilia i familiari delle vittime
Anche quest’anno il Comune di Milano ha deciso di celebrare così, «a metà», il Giorno del ricordo. «Una cerimonia carbonara» la chiama Tarticchio, mentre spiega la sua intenzione di non essere presente quella mattina. «Per noi è un giorno sacro, una cerimonia carbonara è inutile», dice al Giornale. “Palazzo Marino parla di restrizioni ineludibili legate alla pandemia, per un evento in programma il 10, giorno precedente allo smantellamento di molte misure”. Tutto molto pretestuoso: «Siamo molto amareggiati, dispiaciuti – dice Romano Cramer segretario del Movimento Istria Fiume Dalmazia al Giornale -. Noi siamo ligi alle regole, ma non comprendiamo queste restrizioni. Esprimiamo il nostro disappunto, ci dispiace che non si possa dire una parola, che non possa neanche intervenire il sacerdote con due parole di conforto ai familiari delle vittime».
Carla Cace: dal negazionismo al giustificazionismo
C’è una morale triste da trarre da tutto ciò: ”A tanti anni di distanza dall’istituzione della legge del giorno del Ricordo non si può più parlare di negazionismo: perché in realtà nessuno nega il fenomeno delle foibe e dell’esodo. Ma i rischi sono quelli del riduzionismo e del giustificazionismo che avanzano in maniera serpeggiante ma preoccupante”. E’ la morale che trae la presidente dell’Associazione nazionale dalmata, Carla Cace. ”Già lo scorso anno abbiamo fatto una contro-lista con tutti i punti del libro di Gobetti che erano assolutamente indecorosi”, ricorda con l’Adnkronos. “Quindi abbiamo fatto un contro fact checking che abbiamo fatto circolare per il 10 febbraio”. “Il problema è che tra le giovani generazioni solo uno studente su cinque sa rispondere correttamente alla domanda che cosa sono le foibe. E queste iniziative continuano a far circolare la disinformazione”.
Un docufilm dell’Associazione nazionale dalmata
A questo proposito la presidente dell’associazione nazionale dalmata annuncia: ”il 10 febbraio lanceremo il trailer di un cortometraggio: un docufilm di 15 minuti che daremo gratuitamente a tutte le scuole d’Italia. Affinché tutti gli insegnanti possano avere uno strumento da cui partire e su cui costruire un dibattito. Spesso ci è capitato che insegnanti o associazioni o gente che voleva approfondire questo argomento ci dicesse ‘non abbiamo del materiale che ci supporti”’. ”Abbiamo realizzato questo docufilm, tra l’altro sottotitolato in inglese, che diffonderemo anche a livello internazionale: tanto più che il 10 febbraio sarà lanciato anche al consolato italiano di New York – spiega – Ricordiamoci che dopo questi drammi migliaia e migliaia di esuli decisero di partire alla volta dell’America e dell’Australia, emigrarono scioccati. Ed è importante riunire anche questa comunità di cui poco si parla. Anche perché a ormai 80 anni di distanza la tragedia delle foibe va inserita correttamente tra i genocidi e tra i crimini contro l’umanità dei totalitarismi del ‘900”.
COME NELLA CASA DEGLI SPECCHI. La memoria vive di rifrazioni e continue distorsioni prospettiche. GURI SCHWARZ su Il Domani il 25 gennaio 2022.
Dall’inizio della pandemia abbiamo assistito, in Italia e all’estero, al moltiplicarsi di analogie banalizzanti tra la Shoah e il nostro presente. Merita però interrogarsi sul significato di quelle tentazioni analogiche.
Quando è cosa viva, la memoria si nutre di analogie, di metafore e di allegorie, di accostamenti spesso azzardati, di connessioni multidirezionali e di ibridazioni della più diversa specie.
Evocare la persecuzione degli ebrei è oggi forse il modo più semplice ed efficace per alludere a una condizione di oppressione. Quando si stimola l’inconscio collettivo con temi sovraccarichi di potenza emotiva, gli esiti sono imprevedibili.
GURI SCHWARZ. Professore associato di Storia contemporanea all'Università di Genova. Nel 2010 ha cofondato la rivista online open access Quest. È co-editor della serie di libri Routledge Studies in the Modern History of Italy.
IL MANTENIMENTO DELL’UMANITÀ. Non solo Resistenza armata: l’opposizione ebraica durante la Shoah. DANIELE SUSINI, storico, su Il Domani il 24 gennaio 2022.
La resistenza degli ebrei durante la Shoah, per certi aspetti è un tema eretico, perché va contro il paradigma vittimale a cui ancora oggi sottoponiamo gli ebrei.
È stato soprattutto il grande storico israeliano Yehuda Bauer a rileggere il paradigma di cosa è stata la resistenza ebraica e chi sono stati i resistenti ebrei. Per Bauer il concetto di Resistenza, in una condizione come quella della Shoah, non poteva essere relegato negli angusti confini della Resistenza armata.
Bauer fa rientrare nelle forme di Resistenza anche i gesti di solidarietà tra ebrei, come pure le attività socio-assistenziali finalizzate a contrastare inedia e abbandono, finanche l’autoaiuto per sfuggire alla morte.
DANIELE SUSINI, storico. Direttore del Museo Linea Gotica Orientale di Montescudo Monte Colombo. È autore di La resistenza ebraica in Europa - Storie e percorsi, Donzelli Editore.
Sulla colpa collettiva siamo ancora alla preistoria. Giornata della Memoria, siamo ancora tutti coinvolti nell’orrore della shoah. Massimo Donini su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Lo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, costituisce per il visitatore un’esperienza che segna la vita, come pochi altri eventi solo raccontati, o filmati, sanno fare. Un altro luogo è il Museo della Pace di Hiroshima. Siamo sempre là, attorno a événements impensati che accaddero durante la seconda guerra mondiale. Esperienze originarie, che ci riportano alla nostra origine, “dentro”. Quei fatti furono in qualche misura pensati da qualcuno prima di essere attuati. Ma non è vero che ciò che si fa corrisponda a quanto si è immaginato prima che accadesse. La realizzazione ha spazi di autonomia nuovi, staccati dalle menti e dalle volontà primigenie.
La sua visione a posteriori è spesso sconcertante per gli stessi protagonisti, perché si capisce davvero solo dopo (“che cosa ho fatto?!”), e può non bastare la vita che resta per giungere alla sua piena comprensione o accettazione: perché capire significa soffrire e rivivere la verità dei fatti, la sola che costringe a vedere davvero, e a camminare nudi per la strada, come un corpo senza riparo. Ma significa anche suddividere le colpe. L’illusione dei giuristi, dei giudici, dei legislatori, della opinione pubblica è di formalizzare in schemi di valutazione i fatti della vita come se una colpa che si colloca nel pensiero e nella volontà di un singolo potesse davvero sopportare il peso di quanto è poi accaduto: questo scarto si fa ancora più evidente se sono in gioco condotte collettive, che dovrebbero chiamare in causa il tema della responsabilità di un gruppo, di un esercito, di una nazione e forse anche di una intera specie biologica.
Perché è di questo che dobbiamo parlare oggi. Di una responsabilità che va oltre quelle individuali, politiche, giuridiche o nazionali.
Qual è la nostra colpa verso gli ebrei? Questa la domanda diretta. L’esperienza del sentirsi colpevoli è un fatto culturale. Se ne può fare volentieri a meno, anche dopo una sentenza definitiva. Decisivo, per la nostra riflessione sulla colpa collettiva per l’Olocausto, è che cosa resta del valore della legge senza i diritti. «Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro pensare e agire in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile. Questo imperativo è tanto resistente alla sua fondazione quanto una volta la datità di quello kantiano. Trattarlo discorsivamente sarebbe un delitto […]. Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura […]. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini». In queste parole di Theodor W. Adorno (Negative Dialektik, tr. it. 1970, 330 s.) c’è la presa di coscienza di dover rispondere, e la risposta è atto di responsabilità.
Non è ancora l’ascrizione di una colpa collettiva, ma questo passaggio, che sarà compiuto per la colpa tedesca da Karl Jaspers, The Question of German Guilt (1946) e più in generale da Hannah Arendt, Collective Responsibility (1987), ci induce a una riflessione etica. Sono tutte voci ebraiche quelle ricordate, ma molte altre se ne potrebbero aggiungere. Nessun popolo ha subìto persecuzioni millenarie come il popolo ebraico. Chi volesse scorrere i volumi della Histoire de l’antisémitisme di Léon Poliakov ne avrebbe l’esperienza, più che la prova. L’Olocausto è coerente con una colpa internazionale di discriminazione dell’ebreo. Pur non costituendone una conseguenza “logica”, né prevedibile, è peraltro culturalmente preparato dalla storia, e da quella delle religioni in particolare. Che l’umanità dovesse essere salvata da se stessa, dopo Hiroshima e Nagasaki, appariva ancora qualcosa di meno grave, perché l’impiego di un’arma così letale rappresentava, in fondo, il prevedibile sviluppo della tecnologia militare; viceversa, che l’umanità dell’Europa più colta ed educata fosse così imbelle nel tutelare i diritti fondamentali, ma anzi capace di genocidi scientifici, apparve inusitato di fronte alla visione filmata dell’orrore pianificato: la macellazione di milioni di esseri umani deprivati di nome e identità.
Anche se l’Antico Testamento conosce il genocidio di annientamento, dal diluvio universale a quello degli Amaleciti, esso non concepisce mai le vittime come non persone da eliminare, ma come persone collettivamente punite. Non erano ancora crimini contro l’umanità in quanto tale, annientata per ragioni di diversità religiosa, etnica, razziale. Anzi l’ebreo nell’Europa della diaspora poteva sempre convertirsi e ritornare incluso. Invece, smarrita l’anima delle vittime, l’eredità tollerante dell’illuminismo e della sua laica legislazione non aveva impedito, ma anzi reso possibili questi eventi. La biopolitica del regime nazista ha così prodotto l’inumano che, realmente scoperto dopo Norimberga, sarà compreso nel suo disvalore solo nei decenni successivi. È stato come un big bang, un universo dei diritti in espansione, cominciato nel 1946, e ancora in fieri. Possiamo dunque riconoscere che l’Olocausto non fu un genocidio “ordinario”, un “genocidio-mezzo” per prevalere su un nemico, ma un “genocidio-fine”: il suo scopo era la soluzione finale per l’annullamento di una “razza”; non più conversione coatta o segregazione, ovvero ghetto o espulsione. Ora l’alternativa erano l’annientamento o, per casi eccettuati, la sterilizzazione.
Nasceva peraltro universale nell’idea. E, dopo la Shoah e la storia millenaria di pogrom e ghetti, non possiamo più credere nelle leggi o nei capi senza i diritti: i diritti come limite e fondamento dei pubblici poteri, oltre che linfa della società civile. L’inaugurazione, voluta nel 2005 dalle Nazioni Unite, della Giornata della Memoria per le vittime dell’Olocausto ha rappresentato un impulso importante alla presa di coscienza pubblica di un evento unico, non per il numero in sé dello sterminio, ma per l’ideologia dell’annientamento globale, anche se per necessità circoscritto all’Europa. L’Olocausto e la soluzione finale costringono a rileggere la Bibbia, generano il diritto penale internazionale, la bioetica, e più che fare “rinascere” il diritto naturale, sono la scaturigine di un interminabile processo di costruzione di diritti umani sovralegali attraverso gli Stati costituzionali. Un big bang, dunque, da cui si diparte il grande fiume dell’attenzione alle persone offese, i sommersi e i salvati, fino ai nostri giorni.
Il pensiero moderno ha peraltro avversato a lungo l’idea di una colpa collettiva, di “peccati sociali”, riconducendoli al conflitto tra ideologie e politiche, o a interessi economici, a lotte tra partiti e gruppi di potere, puntando a lungo sulla responsabilizzazione giuridica soprattutto degli individui, anche per i crimini di guerra e contro l’umanità. Eppure, ci sono colpe che in questo modo non trovano né riconoscimento, né visibilità. Vengono nascoste da altre categorie di pensiero. Sono responsabilità etico-politiche più che individuali. Sono dunque i “nazisti”, oppure i “fascisti”, che devono “rispondere”. Il che è vero, ma non basta. Perché le colpe collettive, non solo di carattere omissivo, superano il “politico”. La chiave di lettura delle responsabilità individuali e di quelle politiche degli anni ’30 e ’40 del Novecento non deve diventare un alibi per tutti: non c’è tutta la colpa in atti che non esauriscono la causazione di un evento. Perché se la causa non è colpa, quando la riflessione si arresta a una accusa individuale, ciò significa che la pretesa imputazione del singolo finisce per bloccare la ricerca eziologica degli altri fattori.
La giornata della Memoria invece ci interroga intorno alle origini di una persecuzione “senza umanità”, perché la sua matrice non è pura biopolitica, ma si trova nella storia di un bíos senza psyché, nella scomparsa della persona, che non comincia nel giudaismo, né si ritrova nell’Europa cristiana medievale e moderna, ma in quella del Novecento. Smarrita la colpa religiosa delle origini (il deicidio e il ripudio della vera fede), non resta che un pregiudizio razziale, che oltrepassa la berretta gialla dell’ebreo, la sua segregazione infinita. È una violenza non sacra, e travalica le esperienze collettive dei capri espiatori di René Girard; è stato detto da Hans Jonas (Der Gottesbegriff nach Auschwitz, 1987) che l’assenza di ogni intervento soprannaturale regnava nei campi; certo è che quell’assenza nella mente dei nazisti rese possibile il loro disegno. Il fatto che le stesse vittime siano poi a loro volta rimaste coinvolte nella persecuzione palestinese fa parte del più vasto destino-paradosso di una colpa della specie.
Questa colpa non esige processi penali, che ovviamente possono riguardare solo fatti e soggetti determinati, ma ci sottrae alla tentazione di celebrarli con distacco tecnico e vera terzietà, perché anche il giudice dell’Olocausto dell’orrore porta il peso di una compartecipazione. Quando Hannah Arendt, nel libro su Eichmann a Gerusalemme (1964), gettò luci e ombre sul collaborazionismo della dirigenza ebraica europea nella gestione dei lager, conobbe l’ostracismo in patria e il suo scritto divenne tabù in Israele. Ma la giornata della Memoria, senza livellare le diverse colpe, non salva nessuno dalla corresponsabilità. Massimo Donini
L’antisemitismo è un’emergenza sociale del nostro presente. GADI LUZZATTO VOGHERA Il Domani il 20 Gennaio 2022.
Negli ultimi anni l’antisemitismo ha assunto un ruolo sempre più rilevante nel dibattito pubblico, ma non è facilmente identificabile nei suoi tratti salienti.
In special modo in concomitanza con il giorno della memoria, è urgente chiarire quale sia stato il rapporto fra l’ideologia antisemita e le dinamiche politiche, economiche e militari che hanno permesso il funzionamento della macchina dello sterminio organizzata dal nazismo e attuata con la collaborazione di molti altri soggetti.
E, d’altra parte, è necessario interrogarsi su quali siano i meccanismi presenti nella società contemporanea che alimentano e sostengono l’antisemitismo nel nostro presente.
GADI LUZZATTO VOGHERA. Storico dell'ebraismo e dell'età contemporanea. Dal 2016 direttore della Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano.
Cosa resterà della memoria dell’orrore senza i testimoni? VALERIO DE CESARIS, Rettore Università per Stranieri di Perugia, su Il Domani il 27 Gennaio 2021.
Oggi l’imperativo della tradizione ebraica “Zakhòr” (“ricorda!”), ha acquistato un valore universale, in riferimento alla Shoah. Tanto che nel 2005 l’Onu ha istituito il Giorno della memoria, da celebrarsi ogni 27 gennaio.
Gli interrogativi che il Giorno della memoria pone sono molti. Come ricordare, quando la generazione dei testimoni si sta esaurendo?
Auschwitz è una pietra d’inciampo nella coscienza della civile Europa. È un nome incancellabile. Dimenticarlo, significherebbe tradire il ricordo delle vittime del genocidio, ma anche abbassare la guardia di fronte al razzismo e all’antisemitismo.
Settantasei anni sono trascorsi da quando, nella gelida mattina del 27 gennaio 1945, i soldati dell’Armata Rossa varcarono i cancelli di Auschwitz e si trovarono di fronte l’orrore del lager nazista. I sovietici liberarono circa 7000 prigionieri ancora in vita. Videro le macerie dei forni crematori, fatti saltare in aria dai tedeschi nel tentativo disperato di occultare le prove del genocidio. Si addentrarono tra i sentieri e gli edifici di quel luogo di morte, in cui in breve tempo erano state uccise oltre un milione di persone, dopo la “soluzione finale” decisa da Hitler contro gli ebrei.
Oggi l’imperativo della tradizione ebraica “Zakhòr” (“ricorda!”), ha acquistato un valore universale, in riferimento alla Shoah. Tanto che nel 2005 l’Onu ha istituito il Giorno della memoria, da celebrarsi ogni 27 gennaio. Da allora, si sono moltiplicate le iniziative culturali e pedagogiche, come il treno della memoria, i viaggi delle scuole ad Auschwitz. Visitare quel lugubre angolo d’Europa, in una sorta di pellegrinaggio civile, è necessario.
Assistiamo però al paradosso di una memoria istituzionalizzata e celebrata con solennità che non riesce ad arginare l’antisemitismo, che anzi aumenta, dilaga nel web ed esplode non di rado in atti di violenza contro gli ebrei, in molti paesi.
SE QUESTO È UN UOMO
Per questo gli interrogativi che il Giorno della memoria pone sono molti. Come ricordare, quando la generazione dei testimoni si sta esaurendo? Chi raccoglierà l’eredità di quegli ex deportati, che attraverso il doloroso racconto delle persecuzioni subite hanno mostrato l’abisso in cui l’umanità sprofonda quando si scatenano gli odi più oscuri? Come trasmettere la coscienza storica a un mondo affetto da presentismo, schiacciato sull’oggi, privo di visioni per il futuro e incapace di trarre lezioni dal passato?
C’è anche, come una pagina nascosta della Storia, la vicenda dei rom, ai quali la coscienza europea non ha mai riconosciuto di essere stati vittime della persecuzione, sebbene nei lager nazisti ne siano stati uccisi centinaia di migliaia, forse mezzo milione. Il loro è un genocidio dimenticato. Sempre colpevoli, i rom, agli occhi degli italiani e degli europei. Sono un popolo considerato ancora oggi “abusivo”, intruso. L’Europa del secondo Novecento si è interrogata sulla violenza scaturita dall’antisemitismo, mentre ha continuato a ignorare l’antigitanismo.
Auschwitz è una pietra d’inciampo nella coscienza della civile Europa. È un nome incancellabile. Dimenticarlo, significherebbe tradire il ricordo delle vittime del genocidio, ma anche abbassare la guardia di fronte al razzismo e all’antisemitismo, spettri che incombono minacciosi anche sul nostro tempo. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Gerusalemme”, recita un salmo della Bibbia. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Auschwitz”, dovremmo anche dire.
Ogni memoria, anche quella forte della Shoah, va alimentata dalla cultura e dalla conoscenza storica, altrimenti sbiadisce e diventa mera retorica. Per ricordare davvero, occorre avere senso storico e comprendere i rischi che la dimenticanza del passato pone nel nostro tempo. Non si tratta di fare analogie improbabili tra il passato e il presente, ma di trarre dal passato qualche lezione.
Alcuni giorni fa è circolata sui social la fotografia di un uomo nudo, inginocchiato sulla neve, con lo sguardo a terra, visibilmente disperato. Un migrante intrappolato in un campo in Bosnia, lungo quella rotta balcanica che è diventata un attraversamento dell’inferno per chi spera di raggiungere l’Europa. All’immagine molti hanno associato la celebre poesia di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo…”.
Auschwitz è il simbolo della privazione dell’umanità. Continuare a farne memoria ha soprattutto il senso di condannare e di combattere ogni privazione di umanità nel tempo in cui viviamo.
VALERIO DE CESARIS, Rettore Università per Stranieri di Perugia. È professore associato di Storia contemporanea (M-STO/04) all’Università per Stranieri di Perugia. Nella sua attività di ricerca, si è occupato inizialmente di storia del giornalismo cattolico.
Nonostante la sofferenza patita, la speranza domina l’abominio. ALBERTO CAVAGLION su Il Domani il 18 Gennaio 2022.
La scrittura del testimone del caos parte da una premessa distruttiva, l’elemento negativo sembrerebbe prevalere, ma assai prima di Auschwitz abbiamo appreso che l’apocalisse non è mai irredimibile.
Un’antologia scolastica di questi testi, scritti al ritrarsi della lava, sarebbe auspicabile. Sarebbe più utile di un frettoloso, rituale viaggio di istruzione ad Auschwitz.
La desolazione prodotta dalla pandemia rende prossimi a noi i filosofi del ciononostante, gli antichi e i moderni. Ascoltare le loro voci aiuterebbe a reagire contro le cerimonie stanche e ripetitive che spesso accompagnano il giorno della memoria.
ALBERTO CAVAGLION. Storico e docente italiano. Laureatosi in lettere e filosofia all'Università di Torino nel 1982, fu dal 1982 al 1984 borsista dell'Istituto italiano per gli studi storici e della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Studioso dell'ebraismo, insegna all'Università di Firenze. È membro del comitato di redazione de "L'indice dei libri del mese" e dal 2012 del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Ha curato edizioni commentate delle lettere di Felice Momigliano a Giuseppe Prezzolini (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1984) e a Benedetto Croce ("Nuova Antologia", n. 2156, ottobre-dicembre 1985, pp. 209–226) e di Se questo è un uomo di Primo Levi (Torino: Einaudi, 2000; n. ed. 2012); l'edizione italiana del Dizionario dell'olocausto (Torino, Einaudi, 2004), gli Scritti novecenteschi di Piero Treves (con Sandro Gerbi, Bologna, Il mulino, 2006), e gli Scritti civili di Massimo Mila (Milano, Il saggiatore, 2011).
Nella legge sul giorno della memoria manca la responsabilità dei fascisti. MICHELE SARFATTI su Il Domani il 15 Gennaio 2022.
Dal luglio 2000 la legge sul Giorno della memoria invita gli italiani a ricordare, ogni 27 gennaio, la Shoah e le «leggi razziali», i deportati politici, i militari internati, coloro che si opposero allo sterminio a rischio della vita.
La legge del 27 gennaio ha una singolare lacuna: il suo titolo e il suo testo menzionano i «campi nazisti», ma non contengono i vocaboli fascismo, fascisti.
Concerne l’insieme della Shoah, la persecuzione antiebraica avvenuta in Italia, tutti i perseguitati italiani, i soccorritori. Né essa, né altre leggi della nostra Repubblica hanno per oggetto la violenza omicida italiana fascista nelle terre colonizzate o occupate e le sue vittime.
MICHELE SARFATTI. Storico. Studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel Ventesimo secolo. Dal 2002 al 2016 direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC, Milano. Componente del Comitato scientifico e d’onore della Fondazione Museo della Shoah, Roma. Tra le sue ultime pubblicazioni: Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, 2018; Il cielo sereno e l’ombra della Shoah. Otto stereotipi sulla persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, Viella, 2020.
Il dovere di studiare e conoscere le vite dei deportati politici. MASSIMO CASTOLDI su Il Domani il 17 Gennaio 2022.
Gianfranco Maris intuiva già allora i rischi impliciti in una politica della memoria limitata alla pur necessaria narrazione delle vittime, a partire da quando divengono tali, cioè da quando, dopo l’arresto, sono inermi nelle mani dell’oppressore.
L’interesse prioritario per la condizione di vittima assoluta, propria della Shoah, ha fatto sì che nella percezione collettiva tutti i deportati fossero assimilati tra loro.
Anche e soprattutto per questo è importante parlare oggi con maggiore impegno di deportazione politica, ovvero della deportazione di chi si è opposto, di chi ha detto no. Parlare di deportazione politica vuol dire ricostruire la storia di una cultura di opposizione.
MASSIMO CASTOLDI. Filologo e critico letterario, docente di Filologia italiana all'Università di Pavia. Si è occupato di memorialistica della Resistenza e delle deportazioni, collaborando con la Fondazione Memoria della Deportazione, che ha diretto fino al 2017. Tra le numerose pubblicazioni in ambito letterario e linguistico, ha recentemente pubblicato per Donzelli editore Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti (2018), con il quale ha vinto il Premio The Bridge, e Piazzale Loreto. Milano, l'eccidio e il «contrappasso» (2020).
Tre proposte politiche per rendere più efficace la memoria della Shoah. JOSHUA EVANGELISTA su Il Domani il 27 gennaio 2021.
Ricordare l’Olocausto ci ha insegnato che di fronte al male estremo si può scegliere. Oggi, vent’anni dopo la legge che ha istituito il Giorno della Memoria, dobbiamo constatare che questo percorso sta mostrando alcune criticità.
La critica, portata avanti dalla Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti attraverso una Carta della memoria, è che quel “mai più” sia nel tempo diventato una formula rituale e retorica e, soprattutto, senza alcun progetto per il futuro.
Oggi la Fondazione verrà ascoltata dalla Commissione esteri della Camera e condividerà tre proposte concrete che possono avvicinare maggiormente il nostro Paese alla prevenzione di nuovi genocidi.
In occasione del 27 gennaio, quando in tutto il paese si ricorda lo sterminio degli ebrei, è importante riflettere sull’efficacia di questa ricorrenza alla luce delle sfide del nostro tempo. Scriveva lo storico Yehuda Bauer che la Shoah è stato un genocidio senza precedenti, che si proponeva di eliminare gli ebrei non solo in un territorio, ma in ogni luogo della terra in quanto elementi corrosivi di tutta l’umanità. La sua memoria ha permesso ad altri popoli, come ad esempio agli armeni e i ruandesi, di rivendicare sulla scena pubblica il diritto al riconoscimento delle proprie sofferenze e, soprattutto, il diritto alla giustizia.
Allo stesso tempo, a livello educativo la riflessione sull’Olocausto è stata fondamentale per far capire che i genocidi non sono stati una catastrofe extra-storica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani, in un campo di battaglia dove c’erano carnefici, complici, giusti, spettatori indifferenti e resistenti. In poche parole, questa memoria ci ha insegnato che di fronte al male estremo si può scegliere, perché nulla è scontato e determinato a priori.
Oggi, venti anni dopo la legge n. 211 del 20 luglio 2000 che ha istituito il "Giorno della Memoria”, dobbiamo constatare che questo percorso sta mostrando alcune criticità che, se non affrontate alla radice, rischiano di limitarne la funzione pedagogica e di mostrare una profonda inadeguatezza rispetto alla possibilità di prevenire nuovi genocidi e, quindi, di rendere effettivo il “mai più”.
La critica, fatta da molti studiosi e portata avanti dalla Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti attraverso una Carta della memoria che è stata sottoscritta da storici, filosofi, politici ed esperti di prevenzione dei genocidi, è che quel “mai più” sia nel tempo diventato una formula rituale e retorica e, soprattutto, senza alcun progetto per il futuro. In altre parole, è come si ignorasse il fine ultimo della memoria.
In quest’ottica, come ha scritto la semiologa Valentina Pisanty ne I guardiani della memoria (Bompiani, 2020), sembra che «l’assolvimento del dovere della memoria sia di per sé garanzia di un futuro libero da ogni ingiustizia paragonabile a quella patita dagli ebrei durante gli anni del nazifascismo». La domanda da porsi è: basta ricordare per tutelarsi contro la possibilità che ciò che è accaduto capiti di nuovo?
La parola genocidio è stata coniata dal giurista ebreo Raphael Lemkin nel 1942 per indicare la volontà di distruzione di una collettività etnica, religiosa o sociale. Lemkin la considerava una minaccia che riguardava l’umanità intera, poiché la distruzione di qualsiasi minoranza annientava non solo chi veniva colpito, ma impoveriva la ricchezza della pluralità umana. Nel dopoguerra Lemkin lavorò strenuamente per la promulgazione di leggi internazionali che proibissero il genocidio, raggiungendo questo obiettivo nel 1951, con l’entrata in vigore della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. C’è un aspetto importante della Convenzione: vi si afferma che devono essere puniti non solo gli atti di genocidio, ma anche l’incitamento diretto e pubblico a commetterli.
Dal ’48 ad oggi, secondo le stime di Genocide Watch, si sono susseguiti più di 55 genocidi con oltre 70 milioni di vittime. Allo stesso tempo sono nati i Tribunali penali internazionali, si è affermato il principio di intervento umanitario e si ragiona intorno all’Early warning system, un sistema di allerta qualora si creano i presupposti per un genocidio.
La memoria della Shoah, oggi, ha senso se politici e cittadini che il 27 gennaio pronunciano “mai più” si impegnano concretamente per contrastare l’odio contemporaneo. Ricordare la Shoah dovrebbe significare scavare a fondo sui meccanismi dell’antisemitismo e interrogarsi sulle complicità che lo hanno permesso, ma nello stesso ragionare sugli strumenti politici e culturali che possono impedire oggi un nuovo genocidio.
Oggi, 27 gennaio 2021, la Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti verrà ascoltata dalla Commissione esteri della Camera dei deputati a proposito di memoria e prevenzione di nuovi genocidi. In quell’occasione condividerà con i deputati tre proposte concrete che possono avvicinare maggiormente il nostro Paese alla prevenzione di nuovi genocidi.
In primis chiederà la nomina di un advisor italiano, all’interno del Parlamento, che lavori con il Consulente speciale dell’ONU e con l’Unione europea. Proporrà inoltre alla Commissione esteri di assumersi l’impegno di redigere ogni anno un rapporto in cui si presentano all’opinione pubblica lo stato internazionale dei diritti umani nell’ottica di prevenzione di nuovi genocidi (del resto la Shoah ci ha insegnato che la mancanza di informazione è un presupposto basilare per la perpetrazione di crimini contro l’umanità). Infine suggerirà la creazione, anche in Italia, di una agenzia autonoma e indipendente sui diritti umani, che in collaborazione con la Corte penale internazionale possa indagare in modo permanente sullo stato dei diritti nel mondo e sui crimini contro l’umanità.
Sono azioni concrete che porterebbero l’Italia ad aderire a modelli già presenti in altri paesi del mondo e che l’Unione europea ci chiede da tempo. Del resto, fare memoria oggi non può prescindere dal guardare cosa succede ai rohingya in Bangladesh, nei campi di concentramento per uiguri nello Xinjiang, nello Yemen colpito da una guerra fratricida, alla minoranza yazida in Iraq, durante gli scontri nel Sahel. Così fare memoria oggi non può prescindere dal porre la massima attenzione verso i fondamentalismi, i nuovi megafoni dell’odio e quei conflitti che potrebbero scaturire nel futuro prossimo a causa dei cambiamenti climatici.
DAGONEWS il 22 gennaio 2022.
Le biografie di oltre 200 donne delle SS che prestano servizio nel campo di sterminio di Auschwitz e delle loro "feste dopo il lavoro" sono state pubblicate online nel tentativo di mostrare al mondo che non erano coinvolti solo gli uomini.
Intitolato "Donne che lavorano per le SS", il progetto del Museo statale di Auschwitz-Birkenau documenta la vita delle donne al servizio di Adolf Hitler.
Una di loro era Maria Mandl, un'alta guardia delle SS ad Auschwitz dall'ottobre 1942 all'ottobre 1944, e soprannominata "La Bestia" dai prigionieri.
Nata nel 1912, figlia di un calzolaio, iniziò a lavorare nel campo di concentramento nazista a Lichtenburg in Germania nel 1938 prima di essere trasferita al campo femminile di Ravensbruk, sempre in Germania. Nel 1942 fu mandata ad Auschwitz dove divenne famosa per il suo sadismo e per aver mandato "circa mezzo milione di donne e bambini a morire nelle camere a gas".
Dopo il 1945, Mandl fuggì sulle montagne della Baviera meridionale, ma fu catturata e detenuta a
Dachau. Fu poi consegnata alla Polonia nel novembre 1946 e successivamente condannata a morte per impiccagione a 36 anni.
Ma, oltre all’orrore, le immagini mostrano anche come queste donne si divertissero con le guarie delle SS. Sylwia Wysinska del dipartimento dell'istruzione del Museo di Auschwitz racconta: «Alcune guardie delle SS che lavoravano nel campo trascorrevano il loro tempo libero incontrando gli uomini delle SS dopo il lavoro. Le visite notturne degli ufficiali delle SS devono essere state piuttosto rumorose visto che nel marzo 1943 il comandante proibì loro di entrare negli alloggi femminili. Ma questo non ha impedito alle donne di intrattenere stretti rapporti con gli uomini delle SS. Di conseguenza, dozzine di coppie si sono formate ad Auschwitz e alcune di loro si sono sposate».
Una di loro era Luise Viktoria Rust. Nata il 14 gennaio 1915 a Varel in Bassa Sassonia, nel novembre 1940 iniziò a lavorare come guardia delle SS nel campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Nella sua autobiografia si legge: «Lavorò ad Auschwitz dall'aprile 1942 al gennaio 1945. In questo periodo, ha incontrato SS Rottenführer Heinz Schulz, che ha sposato nel luglio 1943. Durante i preparativi per il suo matrimonio, ha ordinato che il suo abito da sposa fosse confezionato nel laboratorio di sartoria del campo».
Mentana-Segre: la memoria rende liberi. Graziella Enna su gazzettadelsud.it il 20 Febbraio 2015.
ENRICO MENTANA-LILIANA SEGRE "LA MEMORIA RENDE LIBERI. LA VITA INTERROTTA DI UNA BAMBINA NELLA SHOAH" (RIZZOLI; PAG. 227: Euro 17,50)
"E' questione di pochi anni e poi non ci saranno più testimoni della vita della shoah. E peraltro già oggi il loro racconto, la storia della loro esperienza nel girone infernale più raccapricciante della storia contemporanea, suscita una crescente indifferenza, come se fosse l'ennesima riproposizione di una vicenda già archiviata. E' quasi inevitabile che sia così, perchè la memoria (compreso il giorno dell'anno in cui essa viene ritualmente sollecitata) ormai si focalizza solo all'interno del perimetro di Auschwitz, il punto terminale della soluzione finale. E In questo modo la più spaventosa politica sistematica di persecuzione che il mondo abbia conosciuto perde il suo contesto, e diviene, una sorta di questione privata". Enrico Mentana, giornalista direttore e conduttore del TgLa7 raccoglie le memorie di una testimone d'eccezione Liliana Segre in un libro crudo e commovente, ripercorrendo l'infanzia di una donna coraggiosa: "Un conto è guardare e un conto è vedere, e io per troppi anni ho guardato senza voler vedere". "La mia era una famiglia di ebrei laici, come lo era la maggior parte delle famiglie di ebrei italiani: non ci attenevamo alla kasherrut, in casa nostra si mangiava di tutto, e non frequentavamo mai la sinagoga.
Liliana ha otto anni quando, nel 1938, le leggi razziali fasciste si abbattono con violenza su di lei e sulla sua famiglia, è cresciuta con suo padre Alberto, sua madre era morta quando lei aveva pochi mesi per un tumore. Discriminata come "alunna di razza ebraica", viene espulsa da scuola e a poco a poco il suo mondo si sgretola: diventa "invisibile" agli occhi delle sue amiche, è costretta a nascondersi e a fuggire fino al drammatico arresto sul confine svizzero che aprirà a lei e al suo papà i cancelli di Auschwitz. "Arrivati a Birkenau, fummo separati, uomini e donne, e io nei miei tredici anni spauriti, non conoscendo nessuna lingua straniera, senza capire dove mi trovavo lascia per sempre la mano di mio papà". Dal lager ritornerà sola, ragazzina orfana tra le macerie di una Milano appena uscita dalla guerra, in un Paese che non ha nessuna voglia di ricordare il recente passato né di ascoltarla. Dopo trent'anni di silenzio, una drammatica depressione la costringe a fare i conti con la sua storia e la sua identità ebraica a lungo rimossa. "Scegliere di raccontare è stato come accogliere nella mia vita la delusione che avevo cercato di dimenticare di quella bambina di otto anni espulsa dal suo mondo. E con lei il mio essere ebrea". Enrico Mentana raccoglie le memorie di Liliana, una testimone d'eccezione in un libro crudo e commovente, ripercorrendo la sua infanzia, il rapporto con l'adorato papà Alberto, le persecuzioni razziali, il lager, la vita libera e la gioia ritrovata grazie all'amore del marito Alfredo e ai tre figli. ''Tornata da Auschwitz ho vissuto mezzo secolo senza raccontare quasi nulla della mia storia. Ho affrontato anni da disadattata, disperata di essere viva, sentendo che la banalità dell'esistenza non poteva accogliere l'enormità di quanto avevo subito''. Oggi sa che non è possibile ''non si può dimenticare di essere ebrei".
Perchè, scrive Mentana "il ritorno di Liliana dall'inferno, come il ritorno di tutti gli altri scampati. E' una seconda condanna del mito degli Italiani 'bravi gente'. Semplicemente non si voleva sapere, e men che meno si voleva ricordare, come e da chi, era stato reso possibile tutto questo". La stessa capacità di enucleare con apparente distacco gli elementi indispensabili per capire la sequenza di fatti, ferocia, connivenze e casualità, sul piano inclinato di quella cacciata da scuola fino a Auschwitz e ritorno, che ha reso ancor più indispensabili le opere di Primo Levi. "Mai nessuno si è scusato con Liliana Segre. Parlare per lei è ancora duro, ascoltarla per voi è vitale".
Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.
Da lottavo.it il 19 Settembre 2018.
La memoria rende liberi, il libro che Liliana Segre ha scritto insieme ad Enrico Mentana, è di quelli che richiedono una doppia lettura. Cosa necessaria per riflettere, proprio a partire dal titolo. Forse perché esso rappresenta, non solo la summa di una vita ma perché, in certa misura, si può arrivare a dire che la prigionia di Liliana Segre non è finita realmente. E se lo è ha cominciato ad esserlo nel momento in cui Liliana Segre ha aperto il suo cuore, dolorosamente rivivendo e condividendo, senza omissioni, la sua storia.
“Il 5 settembre 1938 ho smesso di essere una bambina come le altre”. Questo è l’incipit agghiacciante della narrazione, vedere la propria condizione di spensieratezza infantile mutata in quella di un essere fragile ed inconsapevole proiettato in un mondo disumano, incomprensibile, inspiegabile. Compagne della sua esistenza, fino a quel momento serena, divennero emarginazione, declassamento, divieti, restrizioni, perquisizioni, trasferimenti. Infine, l’estremo tentativo di salvezza fu riposto, dal padre di Liliana, nella fuga per varcare i confini italiani e raggiungere la Svizzera. Padre e figlia furono respinti, dopo aver varcato la frontiera, con pretesti infondati, subirono l’arresto al confine con tanto di verbale, schedatura, requisizione di valori e contanti, finché per loro si aprirono le porte del carcere. “Una donna mi strattonò violentemente […] sapeva che non ero una ladra nè un’assassina ma solo una bambina col fiocchetto nei capelli”. Tre detenzioni: Varese e Como prima, infine Milano per quaranta giorni, in un gelido dicembre e fino al 30 gennaio del 1944, giorno in cui una lunga colonna ammutolita e silente fu condotta al tristemente noto binario ventuno dove avvenne la trasformazione da esseri umani in “stucke”. “Il colpo più duro fu quando capimmo che i più zelanti fra i nostri aguzzini non erano i nazisti. Erano gli italiani”. Dopo sette giorni nei famigerati vagoni piombati, la discesa all’inferno. Stupore, disperazione, solitudine, violenza, annullamento, sono parole che scaturiscono da ogni riga e scatenano nella nostra coscienza turbini di emozioni impossibili da celare e reprimere. Paradossalmente, in questo processo di disumanizzazione, in cui l’unico istinto immediato che teneva attaccati alla vita era quello della ricerca di nutrimento, talvolta negli sguardi e in poche parole pronunciate di nascosto tra prigionieri, nascevano attimi di condivisione, fratellanza, quasi amore: ciò nell’anima pura della giovanissima Liliana, offrì un barlume, seppur tenue, di consolazione. E dopo il lager arrivò un’altra terribile prova per un corpo emaciato, sfinito e allo stremo delle forze: la marcia della morte dopo l’abbandono del lager. Sarebbe troppo lungo descrivere con minuzia le sofferenze ineffabili provate per il distacco dal padre, le atrocità della prigionia, il freddo, gli stenti, il lavoro estenuante in fabbrica, la marcia della morte, ognuno di noi sa cosa sia stato, chiunque si sia doviziosamente documentato sa già tutto, però c’è qualcosa che fa inorridire più di tutta questa parte, cioè il rientro a casa di Liliana.
Nel lager, le violenze perpetrate con le modalità più aberranti, le malvagità, l’orrore, tutte quante apparivano normali, connaturate all’essenza mostruosa e disumana del luogo, per dirla con la famosa espressione di Hannah Arendt vigeva la banalità del male. Cosa trovò Liliana al suo rientro in Italia? Soltanto indifferenza, convenzioni borghesi cui uniformarsi, che sembravano vanificare quel suo eroico istinto di sopravvivenza che l’aveva spinta a superare tante terrificanti prove fisiche e inaudite violenze psicologiche. Fu pervasa da un senso di inutilità, la quotidianità da libera cittadina si stava dimostrando vuota e priva di valori a cui ancorarsi: l’animo devastato, l’assenza di una spiritualità religiosa, la mancanza delle conoscenze che si acquisiscono con lo studio, la carenza di amore e di una casa che sostituisse la mera ospitalità cortese e formale degli zii. La premura più urgente dei suoi parenti non fu di conoscere le atroci sofferenze vissute, ma di sapere se fosse stata stuprata, preoccupazione volta a presentare la ragazza in società come rispettabile signorina, oppure di coprire quello strano tatuaggio, marchio disdicevole, con un braccialetto o rimproverarla di essere ingrassata, di amare la solitudine, di non imparare a diventare una donna di casa. Paradossalmente si sentiva sola ed emarginata proprio quando avrebbe dovuto/potuto sentirsi finalmente libera, addirittura costretta a compatire, pur di mostrarsi socievole, le afflizioni patite da altre persone, che, a causa della guerra, avevano subito ristrettezze, carenze alimentari o perdite materiali. Divenne sempre più difficile parlare della prigionia, nessuno voleva più ascoltare storie di guerra, tanto che alla fine Liliana s’impose il silenzio. La maggior parte delle persone desiderava solo dimenticare, divertirsi, ballare, organizzare feste, Liliana no, lei voleva riscattarsi dalle sue sofferenze, riempire quell’incolmabile abisso che si era creato in lei con lo studio, per riappropriarsi della propria esistenza per diventare giornalista. Studiò in maniera indefessa, grazie ai consigli delle suore Marcelline, presso cui già aveva studiato dopo l’emanazione delle leggi razziali, animata da un insopprimibile ardore che le consentì di recuperare le scuole medie, affrontare gli esami di quinta ginnasio da privatista per poter frequentare il liceo classico nel medesimo istituto della sua infanzia. L’inizio della sua liberazione vera avvenne solo quando lasciò la casa degli zii, andò a vivere con i nonni materni e, durante una vacanza al mare, conobbe il futuro marito, anch’egli reduce da una prigionia ma non in un lager. Riconobbe subito il tatuaggio col numero e capì che lei non era una ragazza come le altre perché sapeva cosa significasse quel segno indelebile. Finalmente Liliana riuscì ad aprirsi: “Cominciammo a parlare e non ci fermammo più, smettemmo solo qualche giorno prima che morisse”, sunto di un’unione improntata ad un dialogo profondo. Nonostante una vita serena, sentimentalmente felice, agiata, il lager era ancora lì a perseguitarla, sia nei segni lasciati nella salute fisica minata, nelle fobie nate da molti traumi vissuti, ma soprattutto in una grave depressione che si manifestò più tardi da cui gradualmente guarì. Forse, da quanto emerge da alcuni carteggi di cui parla, avvenuti tra lei e Primo Levi, fu la stessa avvilente tensione psichica che lo portò al suicidio, generata dall’incomprensione del mondo di fronte all’evidenza e dal senso di colpa per essere stato un salvato e non un sommerso. E fu proprio in questo frangente che in lei emerse una diversa consapevolezza: non aver fatto il proprio dovere di ricordare e di far conoscere a tutti la sua vita, che fece maturare in lei la volontà di iniziare una nuova missione. Dapprima collaborò con il Centro di documentazione ebraica di Milano, poi iniziò gli incontri nelle scuole per esporre la propria testimonianza: “Non ho mai esposto la mia storia per creare divisioni. Ho sempre parlato in modo semplice, con un linguaggio piano e pacato, senza mai predicare l’odio, mai. Non intendo trasmettere un messaggio negativo ai ragazzi: di odio, di vendetta, di disperazione assoluta, perché sono il contrario della vita. Quel che conta per me è far passare un messaggio d’amore e di speranza. E’ questa la mia missione e mi dispiace di non averla intrapresa prima”
Termino con un’altra sua frase scritta nel memoriale della Shoah di Milano presso il binario ventuno:
“Indifferenza: gli orrori di ieri, di oggi e di domani fioriscono all’ombra di quella parola”.
Schindler's List, così venne terrorizzata una sopravvissuta all'Olocausto. Erika Pomella il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Schindler's List è uno dei film più rappresentativi della Shoah: il film di Spielberg fu così preciso nella ricostruzione di quel periodo da spaventare persino una delle sopravvissute all'Olocausto.
Schindler's List - La lista di Schindler è il film di Steven Spielberg che andrà in onda questa sera alle 20.33 su Iris per celebrare la Giornata della Memoria. La pellicola racconta la vera storia di Oskar Schindler, un uomo che riuscì a salvare centinaia di ebrei dai campi di concentramento.
Schindler's List, la trama
È il 1939 e la Germania ha appena invaso la Polonia, all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Gli ebrei, come avviene anche in altre parti d'Europa, vengono relegati nei ghetti e gli viene reso impossibile l'accesso alle attività commerciali. Intanto Oskar Schindler (Liam Neeson) decide di avviare una fabbrica per rifornire l'esercito tedesco. La sua abilità negli affari e le sue capacità relazionali gli fanno ottenere la protezione delle SS e la possibilità di vedere la sua azienda crescere, anche con l'aiuto del contabile ebreo Itzhak Stern (Ben Kingsley) che gli indicherà almeno mille ebrei da impieregare nella Deutsche Emaillewarenfabrik (DEF), salvandosi così dalla morte orribile che li attende nei campi di concentramento.
La situazione però degenera quando in città arriva l'ufficiale delle SS Amon Goeth (Ralph Fiennes), famoso per la sua crudeltà gratuita. L'ufficiale ha l'ordine di sgombrare il ghetto di Cracovia e di inviare gli abitanti nel campo di concentramento di Kraków-Płaszów. Goeth procede con una violenza e una cattiveria che lasciano Oskar interdetto e lo spingono ancora di più a cercare un modo per salvare i suoi operai, per impedire loro di morire nello stesso modo in cui ha visto altri perdere la vita.
Il terrore dei superstiti ebrei
Il film di Steven Spielberg - che l'anno prossimo celebrerà il trentennale - è una delle pellicole simbolo delle testimonianze della Shoah ed è una pellicola che celebra un vero e proprio eroe della Seconda Guerra Mondiale, un uomo che ha usato la sua influenza ma anche i suoi soldi per salvare da morte certa centinaia e centinaia di persone. Girato quasi interamente in bianco e nero, Schindler's List è un film che, sebbene facendo largo uso di toni drammatici ed emotivi, mira a raccontare una pagina nerissima della storia del Novecento e, per farlo, si concentra soprattutto sulla verosimiglianza dei suoi protagonisti. Non solo l'Oskar Schindler di Liam Neeson ma anche - e forse soprattutto - l'Amon Goeth portato sul grande schermo da Ralph Fiennes, diventato poi famoso al grande pubblico per aver interpretato Lord Voldemort nella saga di Harry Potter.
L'interpretazione dell'attore fu così precisa e verosimile che finì con lo spaventare una sopravvissuta dell'Olocausto. Come racconta il sito dell'Internet Movie Data Base Mila Pfefferberg, che sopravvisse agli orrori dei campi di concentramento, fece una visita sul set del film di Spielberg e venne presentata a Ralph Fiennes, vestito già come Amon Goeth. La somiglianza con il vero ufficiale delle SS era tale che la donna cominciò a tremare in modo incontrollato, come se la vecchia paura fosse tornata in superficie. Ripresasi dallo choc dell'incontro, la Pfefferberg raccontò anche un aneddoto macabro del suo incontro con il vero Goeth. Come viene ricostruito da Movieplayer.it la donna si trovava in fabbrica, dove stava costruendo una maniglia per una porta quando l'ufficiale delle SS le si avvicinò e le disse: "Se non lo fai bene, ti sparo in testa". La donna continuò il suo lavoro e riuscì a portarlo a termine senza commettere errori, sotto lo sguardo glaciale di Goeth. Questi, alla fine, uscì e solo allora la donna di rese conto di quanto avesse rischiato.
Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per
La testimonianza. Il ricordo di Tullio Foà: “Mai dimenticherò il mio compagno di banco morto ad Auschwitz”. Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Gennaio 2022.
«I miei occhi hanno visto ciò che nessuno dovrebbe mai vedere». Tullio Foà, ultimo ebreo napoletano testimone della presenza dei nazisti a Napoli, ripete spesso questa frase contenuta nella lettera che un preside polacco scampato a un campo di sterminio scrisse agli insegnanti di tutto il mondo. Tullio Foà ha voluto raccontare cosa hanno visto i suoi occhi in quegli anni tremendi, quando qualcuno si arrogò il diritto di decidere chi potesse vivere e chi no. Se eri ebreo, non c’era bisogno di chiederselo, non potevi. Oggi Foà ha 88 anni, ma i suoi ricordi sono limpidi, quei giorni nitidi e quelle sensazioni ancora vagano dentro di lui. Forse in cerca di una risposta.
Foà non varcò mai l’ingresso di un campo di concentramento, Napoli fu liberata prima che i nazisti lo deportassero, ma in quell’inferno perse il suo migliore amico, il suo compagno di banco “preferito” Dino Hasson. Foà ha vissuto il terrore, i soprusi e il dolore che un bimbo di cinque anni forse non può capire, ma sentire sì.
Ricorda il dolore e sente il dovere di doverlo raccontare, per non dimenticare. Signor Foà, cosa ricorda del momento nel quale l’ideologia folle dei nazisti divenne legge anche qui a Napoli?
«All’epoca dell’approvazione delle leggi razziali, nel 1938, ai bambini ebrei fu vietato di andare a scuola. Il governo fascista, però, dopo pochi giorni ebbe un leggero ripensamento riguardo alle scuole elementari: se in una città si fosse riusciti a formare una classe di dieci bimbi e bimbe di razza ebraica, questi sarebbero stati autorizzati a frequentare una scuola pubblica. Il problema è che io non avevo ancora compiuto sei anni, la prima elementare era composta da 9 alunni e così il direttore della scuola falsificò il mio certificato di nascita e sui documenti risultò che io avessi già sei anni. Iniziai così a frequentare la prima elementare. Andavo a scuola all’Istituto Luigi Vanvitelli del Vomero con i miei fratelli più grandi, io avevo cinque anni. Qualcosa non mi tornava. Tutti i bimbi entravano dal cancello principale, solo noi da quello secondario, un quarto d’ora prima degli altri e uscivamo un quarto d’ora dopo gli altri. A quel punto era chiaro che gli “anormali” eravamo noi. Potevamo andare al bagno solo dopo che tutti i bambini e le bambine “normali” erano tornati in classe; in palestra, però, non eravamo ammessi, per cui facevamo ginnastica fra i banchi: eravamo la classe speciale degli ebrei».
Quale sensazione le è rimasta addosso di quei momenti?
«Senz’altro la consapevolezza di essere diverso dagli altri. Ero solo un bambino e quindi i primi giorni non capivo bene cosa stesse succedendo intorno a me, ma dopo poco mi fu chiaro. Io ero diverso, non potevo parlare o giocare con gli altri bambini, frequentavo una classe speciale con regole speciali. Capivo che gli altri mi consideravano “strano”. Questa sensazione, a distanza di 83 anni, ancora vive dentro di me».
Cosa successe, invece, nella sua famiglia?
«Quando furono emanate le leggi razziali, mio padre – vice-direttore di banca – fu tra quelli che persero immediatamente il lavoro. Nel 1939 emigrò, quindi, ad Asmara, in Africa orientale, nell’unico paese dove le leggi razziali non erano in vigore. Io ero il minore di cinque fratelli. Il più grande, avendo completato il liceo, avrebbe voluto iscriversi all’università, ma non era consentito; emigrò negli Stati Uniti, dove mia madre aveva una sorella e due fratelli. Rividi entrambi solo nel 1947 e quando guardai negli occhi mio padre, mi resi conto di conoscerlo a stento. Il vuoto che ho sentito in quegli anni lo porto ancora dentro me».
Quegli anni le hanno portato via una persona cara?
«Sì. Fu il primo dolore della mia vita. Il mio compagno di banco, il mio “preferito” come dicevo io, un bambino greco Dino Hasson, fu rimandato in Grecia perché i nazisti gli tolsero la cittadinanza italiana. Arrivato nel suo Paese, fu subito deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Lo scoprimmo solo dopo. E solo dopo scoprimmo che in quel campo ci rimase dieci giorni, poi divenne una nuvola: fu ucciso nei forni crematori insieme con tutta la sua famiglia».
Ricorda le Quattro giornate di Napoli?
«Certo. Innanzitutto, fu un errore che nella storia di Napoli si è fatto spesso: quello di sottovalutare la rabbia e l’orgoglio dei napoletani. Così, l’operazione a sorpresa del sabato divenne una sorpresa per i nazisti, disorientati dalla furia popolare e dall’eroismo dei napoletani, con le “Quattro giornate”. In quattro giorni i napoletani cacciarono i tedeschi dalla città. Ricordo che eravamo chiusi in casa perché sentivamo gli spari incessanti e percepimmo l’agitazione dei tedeschi».
Parlare di un ricordo bello suona forse fuori luogo, ma lei ne ha uno?
«Sì. Il momento più commuovente e di gioia fu quando vidi arrivare gli americani che, ricordiamolo, entrarono senza combattere perché i partigiani avevano già liberato la città. Li vidi arrivare e gli lanciavo dei fiori, loro in cambio tiravano a noi bimbi caramelle e gomme da masticare che non avevamo mai mangiato. E poi ricordo con emozione quando finalmente entrai a scuola dal cancello principale, a testa alta e con dignità».
Lei incontra moltissimi studenti ogni anno, qual è la domanda che le viene rivolta più spesso?
«Mi chiedono sempre se ho voglia di vendicarmi».
Glielo chiedo anche io, c’è dentro lei il desiderio di vendicarsi?
«No. La vendetta non mi appartiene, la mia vendetta è poter raccontare quello che è successo».
Meditate che questo è stato.
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Avvocati perseguitati e messi al bando: è dovere di noi giuristi ricordarli. Non è sufficiente onorare la memoria per pacificare un Paese e garantire a una comunità una visione condivisa di futuro, perché bisogna scavare e individuare le corresponsabilità che portarono all'orrore delle leggi razziali. Il Dubbio il 27 gennaio 2022.
Oggi, in tutto il mondo, si celebra la “giornata internazionale della commemorazione in memoria delle vittime della ferocia nazista”; lo ha voluto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con una risoluzione del 1 novembre 2005, scegliendo la data del 27 gennaio in ricordo di quel giorno del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz svelando al mondo intero l’orrore del genocidio nazifascista.
Al nostro Paese, il merito di avere, alcuni anni prima della risoluzione delle Nazioni Unite, istituito con legge dello Stato, nella stessa data, il “giorno della memoria”. La risoluzione dell’ONU del 2005 impegna tutti gli stati membri delle Nazioni Unite ad inculcare nelle generazioni future le “lezioni dell’olocausto”; un significato simbolico, una commemorazione pubblica delle vittime della Shoah e delle leggi razziali approvate sotto il fascismo, il ricordo collettivo degli uomini e delle donne, ebrei e non, che sono stati uccisi, deportati ed imprigionati, e di tutti coloro che si sono opposti alla ‘soluzione finale’ voluta dai nazisti, rischiando la vita e spesso perdendola.
Non è sufficiente onorare la memoria per pacificare un Paese e garantire a una comunità una visione condivisa di futuro, perché bisogna scavare, individuare le corresponsabilità – legali, morali e storiche – che portarono all’emanazione, all’esecuzione e all’applicazione delle leggi razziali; perché per un ministro della Giustizia che firmò quei provvedimenti, ci furono magistrati che perseguirono, Tribunali che condannarono e Consigli dell’Ordine che cancellarono dagli albi gli avvocati di razza ebraica; e quasi tutta la cultura giuridica italiana che sostenne, con il silenzio, quell’ignominia.
Riprendendo una riflessione pubblica di Andrea Mascherin, “possiamo davvero dirci sicuri che la cultura che generò quell’inferno non sia in essere anche nella nostra società sotto le mentite spoglie della mancanza di solidarietà, della primazia della logica del profitto su quella del diritto, del linguaggio dell’odio sui giornali e sui social, dell’indifferenza nei confronti degli emarginati, del rifiuto preconcetto al confronto con chi è diverso da noi ?”. È una domanda che dobbiamo porci, individualmente come cittadini e come avvocati, collettivamente come comunità di giuristi, coltivando, con la memoria, il dovere di non dimenticare.
Sergio Paparo, presidente Associazione InsieMe, past presidente Ordine degli avvocati di Firenze
Libia, il crimine fascista rimosso: gli orribili campi in cui morivano i civili. ANTONIO SCURATI su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2022.
La prefazione di Antonio Scurati al poema «Il mio solo tormento» (Fandango) in uscita il 24 gennaio, opera dell’arabo Rajab Abuhweish vittima della repressione italiana
«La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentramento». Con questa frase, nel 1930, Emilio De Bono, ministro delle Colonie dell’Italia fascista, comunica a Pietro Badoglio, governatore delle colonie libiche, che per piegare la resistenza dei guerriglieri senussiti guidati da Omar al-Mukhtàr, eroe della Resistenza della Cirenaica all’invasore italiano, si sarebbe dovuto procedere a una delle più grandi deportazioni di massa della storia del colonialismo europeo. I due sono ben consapevoli della gravità della misura e mettono in conto, esplicitandolo, che il provvedimento avrebbe portato alla decimazione dell’intera popolazione della regione. Il 20 di giugno del 1930, Pietro Badoglio, l’uomo al quale l’Italia si affiderà per la propria rinascita tredici anni dopo, scrive, infatti a Graziani: «Qual è la linea da seguire? Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra le formazioni ribelli e le popolazioni sottomesse. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguire sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». L’uccisione di un intero popolo veniva quindi considerata ciò che oggi chiameremmo «danno collaterale». Benito Mussolini, capo del governo e Duce del fascismo era pienamente informato del tragico progetto e lo approvava pienamente.
Quando si parla di campi di concentramento, il nostro immaginario ci riporta subito al filo spinato di Auschwitz-Birkenau e alla tragedia della persecuzione degli ebrei e dell’Olocausto. In pochi sanno o fingono di non sapere che ben prima dell’orrore nazista a costruire dei luoghi di concentrazione e sterminio furono proprio gli italiani fascisti nelle colonie di quello che era chiamato pomposamente l’impero italiano.
Il sistema dei campi in Cirenaica costituì un salto di qualità nelle politiche di repressione attuate dal regime fascista. Nei primi anni Trenta, nelle 15 istituzioni concentrazionarie della colonia libica, vennero deportate più di 100.000 persone. Alcune di queste morirono prima di raggiungere i campi, sfinite dalle estenuanti marce che potevano superare le centinaia di chilometri, ma la maggior parte, circa 50.000 morì proprio a opera del sistema detentivo, uccisa dall’inedia, dal tifo petecchiale, dalla dissenteria, dalla malaria, dallo scorbuto e varie setticemie, per non parlare delle sevizie quotidiane e le esecuzioni esemplari, smentendo vistosamente i piani sanitari e le precise norme dell’amministrazione coloniale.
L’internamento coloniale è stato un grande laboratorio d’oltremare per l’applicazione di pratiche repressive e violenza razzista che avrebbe poi trovato anche uno sbocco legislativo nella penisola. Per dirla con le parole della storica Silvana Patriarca: «Il colonialismo prima e il razzismo fascista poi servirono ad affermare la bianchezza degli italiani mostrandola incarnata nel potere e nel privilegio che gli italiani detenevano, o aspiravano a detenere, nelle colonie rispetto ai non europei».
Quello che si configura, a distanza di quasi un secolo, come un vero e proprio genocidio non ha mai costituito oggetto di dibattito su chi siamo stati nel nostro passato. Dovremmo avere l’onestà di addossarci quella responsabilità e non dimenticare che gli italiani sono stati anche fascisti, razzisti e colonialisti.
Mi sembra indispensabile scardinare il nostro modo di vederci come vittime della Storia o continuare a perpetuare il mito autoassolutorio degli «italiani brava gente». È indispensabile non soltanto perché ci consentirebbe di chiudere i conti con il passato ma anche, e soprattutto, perché illuminerebbe il nostro presente. C’è, infatti, un rapporto direttamente proporzionale tra la pervicace rimozione del nostro ruolo di carnefici nella storia coloniale e la nostra attuale predisposizione a continuare a pensarci come vittime dei nuovi fenomeni migratori. Non vogliamo sapere e accettare di esser stati carnefici perché rimaniamo avvinghiati alla posizione simbolica della vittima anche riguardo al dramma delle attuali migrazioni di popoli dall’Africa e dal Medio Oriente verso le spiagge delle nostre vacanze. Riconoscerci come attori della violenza nel recente passato coloniale scardinerebbe anche l’attuale, comoda, autoassolutoria e fasulla identificazione simbolica con la posizione della vittima ogniqualvolta un telegiornale riferisce di naufraghi alla deriva nei pressi delle nostre coste. Anche allora, tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi come vittime, come la parte offesa, dolente. Tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi nella stessa posizione dei nostri nonni, costretti dalla miseria (e da politiche sciagurate) ad abbandonare la propria terra con una valigia di cartone e la morte del cuore. In questo modo, possiamo continuare a ignorare che i dannati dell’emigrazione non siamo noi ma «loro», gli «altri», i disperati che vorremmo «ributtare» a mare.
Che l’Italia e in misura ancora maggiore gli italiani, abbiano una questione irrisolta con il proprio colonialismo è cosa risaputa, ma che si continui a eludere la necessità di riaprire quella pagina di storia è diventato insostenibile sul piano delle nostre responsabilità storiche riguardo al presente. E anche su quello della nostra identità. Sapere si esser stati colonialisti, fascisti, invasori e razzisti in un recente passato, ci aiuterà a capire chi siamo oggi, chi e cosa vogliamo e possiamo essere domani.
Ben venga quindi la traduzione in italiano del Canto di El-Agheila, testimonianza umana e politica di una storia universale di resistenza, che ci costringe a una riflessione non più procrastinabile sul passato violento e coloniale del nostro Paese.
Nel testo che pubblichiamo in questa pagina Antonio Scurati cita il libro di Silvana Patriarca Il colore della Repubblica (Einaudi): un testo che racconta la vicenda dei «figli della guerra», nati dalle relazioni tra donne italiane e militari alleati non bianchi, che dopo il conflitto furono spesso oggetto di comportamenti razzisti da parte dell’ambiente circostante. A partire da questa vicenda poco indagata e considerando anche l’eredità del colonialismo italiano, l’autrice – docente di Storia europea presso la Fordham University di New York – riflette sul modo in cui il nostro Paese si è autorappresentato . «Finché gli italiani bianchi – scrive Silvana Patriarca – non abbandoneranno la concezione etnorazziale dell’identità nazionale, coloro che non sono conformi alla “norma somatica” continueranno a subire qualche forma di emarginazione, discriminazione, esclusione».
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Gli Affari dei Buonisti.
Antonio Giangrande: Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Mare nostrum. Dalle prime civiltà alle migrazioni, da millenni tutto confluisce nel Mediterraneo. Egidio Ivetic su L’Inkiesta il 12 Dicembre 2022
I primi commerci, i suoi capolavori artistici, le religioni, i racconti epici. Egidio Ivetic ricostruisce la storia di un epicentro globale partendo proprio dallo spazio acqueo che delimita le sue terre
La spider azzurra sfreccia lungo la Grande Corniche, tra curve a gomito e pendii coperti da oliveti, taglia i tornanti, evita di misura i torpedoni, stacca la Citroën nera dei poliziotti in borghese. Giacca grigio perla e foulard nero a pois, Cary Grant a ogni accelerata viene colto dal terrore, ma Grace Kelly è sicura al volante e si sta divertendo. Si fermano sopra Montecarlo. Il mare, il Mediterraneo, è lì, immenso e solare. Invidiamo Cary Grant, alias John Robie, la sua villa in pietra, con il patio, posta in altura e affacciata sull’incantevole striscia costiera del sud della Francia…
Rivedere Caccia al ladro, film del 1955 di Alfred Hitchcock, è un po’ come sperimentare ogni volta l’emozione di una splendida vacanza, sullo sfondo di un Mediterraneo di classe che non c’è più. Anche i più umili, anche l’arzilla fioraia nel mercato, appaiono eleganti. Un Mediterraneo dispensatore di atmosfere di sogno e di raffinatezze, che converge in un luogo sofisticato come l’Hôtel Carlton Intercontinental, scintillante ritrovo di una mondanità cosmopolita, crocevia di personaggi affascinanti e avventurosi. Ma sappiamo che non è così.
Un Mediterraneo del tutto opposto, che è poi quasi tutto il Mediterraneo, ci parla di alture, paesini, isole, dialetti, distanze interminabili per raggiungere il sud, di facce arcaiche, di donne velate, di povertà, di case bianche e muretti. È su scorci ruvidi come questi che si fissa lo sguardo di Gian Maria Volonté, il Carlo Levi cinematografico, rassegnato in un pensiero struggente: perché non è più tornato, nonostante la promessa, tra quella gente, ad Aliano? Anche questo è Mediterraneo, un luogo da cui allontanarsi.
Per quanto chiuso, è un mare difficile da scrutare: al di là del paesaggio e delle atmosfere, siamo immancabilmente ricondotti alla storia. Le triremi, gli elmi greci, i templi, gli eroi, gli dei, i racconti di antiche civiltà o di quelle ancora vive concorrono a disegnare un’immagine che si trasmette già con le prime letture scolastiche. Tutto ciò fa del Mediterraneo una realtà eccezionalmente ricca e articolata, un luogo e un’idea assai poco scontati, caratterizzati da una densa stratificazione di significati, più di quanto ci si possa aspettare da un oceano, sia esso l’antico Oceano Indiano o i più recenti Atlantico e Pacifico. Se è vero infatti che ognuno di questi oceani unisce tre continenti, il Mediterraneo non è da meno: unico tra i mari, anch’esso unisce tre continenti.
In questo spazio confluiscono e si intrecciano percorsi ed eventi che originano nei cuori dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa. Il Mediterraneo è il punto mediano di un unico continente afro-euro-asiatico, l’epicentro della grande storia che qui transita e da qui scaturisce. Per alcuni millenni nel suo perimetro si è concentrato il mondo immaginabile, almeno fino alla scoperta dell’America. Un Mediterraneo remoto, quasi eterno, che troviamo stilizzato nello schema T-O derivato dagli scritti di Isidoro di Siviglia.
Il simbolo, risalente al VII secolo e frutto di saperi precedenti, successivamente è stato ripreso in età medievale, nei testi sia arabi sia latini, per essere infine raffigurato a stampa nella prima edizione delle Etymologiae del 1472. In questa Mappa mundi la T rappresenta il Mare magnum sive mediterraneum, chiuso tra l’Asia (Sem), sopra la linea della T, l’Europa (Iafeth) a sinistra e l’Africa (Cam) a destra.
Attorno c’è il cerchio del Mare oceanum, l’imperscrutabile spazio acqueo che delimitava le terre note. La fisicità del Mediterraneo ci è familiare, l’abbiamo introiettata a forza di guardare il mappamondo in classe. È un corpo che si disloca in più bacini, altrettanti mari. Un corpo contorto, come un immenso Lago dei Quattro Cantoni. 2,5 milioni di chilometri quadrati, per uno sviluppo latitudinale di circa 3.000 chilometri; occorrono quattro ore di volo in aereo di linea per coprire la distanza da un capo all’altro. A calcolare le regioni costiere mediterranee, e sono sessanta, la fascia litoranea raggiunge un altro milione di chilometri quadrati; così, il Mediterraneo si estende complessivamente su circa 3,5 milioni di chilometri quadrati. Per fare un paragone, l’Unione Europea ne copre 4,5 milioni.
Le regioni geografiche e storiche che fanno il Mediterraneo sono l’Italia, il suo centro; la Penisola Iberica, il suo occidente; i Balcani e l’Anatolia, il suo oriente; il Maghreb e il Mashrek, il suo meridione. Gli stati che si affacciano sul Mediterraneo, o vi rientrano, sono 23, da giganti demografici come l’Egitto, con i suoi 101 milioni di abitanti, a stati minimi come il Principato di Monaco o lo Stato del Vaticano. La popolazione rivierasca si aggira attorno ai 60 milioni, ma il totale demografico degli stati supera i 600 milioni di abitanti.
Le coste mediterranee sono molto irregolari, soprattutto il versante europeo, e si sviluppano per oltre 46mila chilometri. Come confronto, si consideri l’Oceano Indiano, che si estende per 66mila chilometri. Pochi dati che bastano a mostrarci come il Mediterraneo abbia le fattezze di un piccolo continente, incentrato sul mare. Come avvicinarsi a questo luogo straordinario del globo terreste? Come afferrarne l’unicità e la diversità? Nell’area mediterranea sono le testimonianze del passato a definire molta parte del panorama.
Non parliamo solo dei resti architettonici, delle città sepolte come Pompei, o di tutti quegli strati e substrati archeologici ancora visibili nelle viuzze di Napoli o di Roma: anche il classico paesaggio naturalistico mediterraneo, fatto di olivi, vigneti, grano, cipressi, fichi, in molti luoghi deriva da quello che gli studiosi dell’antichità chiamano «romanizzazione», un processo politico e culturale che ha comportato un profondo e diffuso intervento di trasformazione ambientale.
Per Hegel, il Mediterraneo rappresenta l’asse della storia mondiale, nel suo passaggio da oriente verso occidente. In una sorta di «compresenza» marittima e antropologica, nel corso dei secoli i diversi filoni della sua storia non fanno che intersecarsi e reagire gli uni sugli altri: la Grecia antica, la potenza imperiale romana, il cristianesimo latino, il Rinascimento italiano, la tradizione cristiana ortodossa, Costantinopoli e l’impero bizantino, la civiltà islamica che ha trovato il suo primo compimento nell’espansione lungo le sponde mediterranee, e le comunità ebraiche che si sono sviluppate praticamente in ogni città mediterranea.
Secondo la magistrale analisi di Fernand Braudel si danno non uno ma due o tre Mediterranei. Di certo, per capire veramente il Mediterraneo dobbiamo innanzi tutto ricordare che ci sono quattro calendari nella sua storia e che essi convivono in diversi tratti delle sue sponde: gregoriano, giuliano, ebraico e musulmano.
La lunga durata, che si riverbera in ogni tratto delle regioni mediterranee, ci autorizza a parlare di un tempo storico mediterraneo, in cui confluiscono diversi tempi storici. Il tempo mediterraneo affianca il tempo europeo, pur differenziandosene: vi si susseguono una protostoria, poi una classicità con la civiltà cretese e micenea, tre tempi romani – la repubblica, l’impero, Bisanzio –, il tempo dell’espansione musulmana, un Medioevo fatto di scontri e confronti, un Otto-Novecento coloniale. Come sistema integrato, il Mediterraneo è stato tale fino all’avvento della modernità. Nonostante le guerre e le migrazioni era un agglomerato di sistemi regionali economici e, a sua volta, faceva sistema, metteva in relazione, anche quando esprimeva una faglia tra civiltà: era insomma un mezzo condiviso che serviva per trasportare merci, raggiungere e connettere sponde lontane, tessere scambi commerciali o spostare intere comunità, creare colonie, avviare diaspore.
Un mondo di Nettuno anche temibile. La ruralità insita nell’uomo sin dal Neolitico ha infatti sempre guardato con diffidenza o apprensione alla «pianura fluida», come l’ha definita Braudel. Padroneggiarla ha richiesto peculiari capacità tecniche e un forte spirito temerario, come quello incarnato da Ulisse. Da mezzo, il mare si è poi trasformato in oggetto. Oggetto di conoscenze scientifiche, di studi idrologici, biologici marini; oggetto di sovranità nazionale, in cui si è proiettata l’ambizione marinara dei paesi, definito da carte nautiche, fari, militarizzazione delle coste, precise regole doganali ed eccezioni (comunque regolate) come i porti franchi, marine militari; oggetto di una nuova sensibilità romantica. Luogo di struggenti tramonti, il mare fornisce con la sua vastità orizzonti sterminati alla proiezione o meglio all’espansione dell’io.
Grazie alla ritrovata mitologia classica, ogni centimetro di terra mediterranea è benedetto, consacrato dall’archeologia, diventa un’eredità sacra, come ci ha insegnato Winckelmann. Dal 1945-1950 in poi, il Mediterraneo si è trasformato in risorsa da sfruttare, dagli impianti per estrarre idrocarburi e gas agli stabilimenti balneari, dalla speculazione o «programmazione» edilizia alle crociere su navi mastodontiche, dalla commercializzazione delle cosiddette «città d’arte» alla perimetrazione di zone economiche esclusive.
Negli ultimi decenni, infine, è diventato il teatro di migrazioni che partono dal Sahel e dal Medio Oriente, flussi di individui in fuga da realtà disperate quando non atroci, percorrono in condizioni spesso proibitive tre rotte principali, occidentale, verso la Spagna; centrale, verso l’Italia; orientale, verso la Grecia. Sono sospinti dalla motivazione di sempre: la ricerca di una vita diversa. Il luminoso e magico Mediterraneo di Caccia al ladro è allora scomparso per sempre? Forse sì, ma nella nostra epoca dove si decostruisce concettualmente tutto, dove «Occidente» non è più un’idea forte, dove l’Europa è ormai una periferia del mondo, e il suo passato egemonico e coloniale discusso e condannato, il Mediterraneo, il Mare Nostrum permane, indiscutibile, poliedrico, eterno, con la sua ricchezza e complessità di contesti, storie e significati.
Il grande racconto del mediterraneo, Egidio Ivetic, Il Mulino, pagg. 392 con 200 illustrazioni , euro 48,00
Migranti, ora spunta il "viaggio di lusso": le confessioni del trafficante. Giuseppe De Lorenzo il 22 Novembre 2022 su Il Giornale.
A Quarta Repubblica un documento esclusivo: parla uno scafista tunisino. I viaggi "vip" fino a 3mila euro.
Business is business. E questo rende, eccome se rende. Il prezzo medio per salire su una barca che dalla Tunisia raggiunge l'Italia non scende sotto i mille euro, cifra minima con cui condividerai il viaggio "con altre trenta persone". Ma normalmente, i migranti che da Tunisi usano dei barchini veloci per raggiungere Lampedusa pagano molto di più. Anche 3mila euro a persona: "Ci sono stati politici che abbiamo portato fuori dal Paese, ma anche figli di calciatori".
A parlare a Quarta Repubblica, in un documento esclusivo, è uno scafista. Un trafficante di uomini. È molto giovane, meno di 30 anni, e lo si capisce dalle movenze anche se non si mostra mai in volto. Comanda da tre anni una potente famiglia criminale dedita al traffico di esseri umani. "Prima di fare questo studiavo - racconta - ho fatto tre anni di università. Ma questo non è un lavoro, è una passione. Ho imparato a portare la barca da piccolo con i miei zii. Poi tutto è iniziato un giorno quando, non trovando un capitano, mi hanno detto: 'Tocca a te'. Così ho iniziato e mi è piaciuto".
I viaggi dalla Tunisia sono ben diversi da quelli che siamo abituati a vedere dalla Libia. Sono diverse le disponibilità economiche di chi parte. Gli africani subsahariani, con poco da investire, si dirigono Tripoli; qui invece i poveri non li accettano nemmeno. I migranti selezionati possono scegliere: il servizio base, che prevede di essere accompagnati dallo scafista solo fino alle acque internazionali dove poi la guida viene lasciata "ad uno dei migranti istruito due o tre giorni prima"; oppure chiedere il servizio completo, che prevede lo sbarco a Lampedusa anche dello scafista. Una migrazione da vip.
Lui, il trafficante intervistato dalla trasmissione di Nicola Porro, sostiene di essere stato almeno due volte in Italia dove la polizia gli avrebbe preso le impronte digitali. "Noi rappresentiamo la sicurezza - dice - i libici invece fanno contrabbando di africani. Li mettono l'uno sull'altro". Chi paga molto, non vuole rischi. Per questo i trafficanti li accompagnano fino all'Italia, corrompono la guardia costiera tunisina e "anche in Italia versiamo tangenti". Non c'è bisogno neppure bisogno dell'intervento delle Ong, che la maggior parte delle volte operano nel tratto di mare di fronte alle coste libiche. "Abbiamo contatti in Italia e anche loro vengono pagati. Viene fatta una telefonata prima di partire, ma non per tutti, solo per quelli vip. Viene fatta una telefonata e quelle persone raggiungeranno l'Italia senza neppure toccare l'acqua".
E la nuova politica del governo Meloni? Preoccupa gli scafisti tunisini? A rispondere è il "reclutatore", colui il quale si occupa di trovare persone disposte a partire. L'intermediario tra scafisti e migranti. "Per i prossimi mesi la migrazione diminuirà per via del tempo ma anche perché dobbiamo capire la situazione in Italia".
“Se va storto buttateli a mare”. Quel traffico fra Tunisia e Sicilia. Maurizio Zoppi su L’Identità il 18 Novembre 2022
Un traffico umano, uno dei tanti, è stato sventato attraverso l’operazione “Mare aperto” condotta dalle forze dell’ordine di Caltanissetta. Una rete dedita all’immigrazione clandestina che faceva base a Niscemi, è stata smantellata dalla polizia di stato. Dei 18 destinatari delle misure cautelari disposte dal Gip, 12 sono stati catturati, mentre 6 sono tuttora irreperibili, poiché probabilmente all’estero. Il gruppo criminale avrebbe organizzato i viaggi sull’asse Tunisia-Sicilia. In particolare, le imbarcazioni degli scafisti sarebbero partite dal porto di Gela o dalle coste dell’Agrigentino per raggiungere la Tunisia e far immediato rientro con il ‘carico’ di migranti. I nord africani, usati come vera e propria merce di profitto: “Se qualcosa va storto buttateli a mare”. Questa la regola di ingaggio, ascoltata dagli investigatori attraverso le intercettazioni dai cellulari dei criminali.
Il cuore pulsante dell’organizzazione? Una coppia di tunisini agli arresti domiciliari per reati di altro tipo. Poi tra Gela e tutta la costa sud della Sicilia, erano presenti altri componenti dell’associazione criminale. Ogni migrante per andare a bordo di un “barchino della speranza” pagava dai 3mila ai 5mila euro.
La genesi dell’indagine risale esattamente al 21 febbraio del 2018, quando all’imbocco del porto di Gela si “incagliava una barca in vetroresina di 10 metri con due motori da 200 cavalli”, segnalata da un pescatore del luogo. Immediate le indagini condotte della Squadra Mobile. La scoperta: era stata rubato a Catania pochi giorni prima e che da quella imbarcazione, erano sbarcate decine di persone probabilmente di origini africane. Dalla procura la circostanza aggravante è quella di aver “esposto a serio pericolo di vita i migranti trasportati, di aver sottoposto a trattamento inumano e degradante i migranti e di aver commesso i reati per trarne un profitto”.
“Il gruppo utilizzava piccole imbarcazioni dotate di potenti motori fuoribordo – spiegano gli investigatori – i viaggi avvenivano fra le città tunisine di Al Haouaria, Dar Allouche, Korba e le province di Caltanissetta, Trapani e Agrigento. Uno di questi viaggi, non portato a termine, ha consentito l’avvio dell’indagine”.
“Abbiamo individuato anche il livello finanziario dell’organizzazione – spiega il direttore centrale dell’anticrimine, Francesco Messina – in Tunisia, il contante, veniva poi inviato in Italia, attraverso alcune agenzie internazionali specializzate in servizi di trasferimento di denaro, per essere poi successivamente versato su carte prepagate in uso ai promotori dell’associazione, i quali lo reinvestivano, per aumentare i profitti”.
Nel frattempo, davanti all’ennesima inchiesta giudiziaria sui “trafficanti dei migranti” in Sicilia, Alpha non si scompone. La parola: “Baciamo le mani” è una delle poche frasi che il ragazzo della Guinea-Bissau, sa dire in italiano. Così, “Baciamo le mani” sono chiamati i loro compaesani residenti in Sicilia, che in Libano oppure in Marocco o in Tunisia, organizzano le “tratte della morte”.
Alpha Silva è uno dei tanti africani arrivati in Europa a bordo delle carrette del mare. Dopo essere sbarcato come molti a Lampedusa, ora vive a Londra, dove lavora da qualche anno, e possiede un regolare passaporto portoghese ottenuto dopo aver sposato una donna di Lisbona.
Alpha non si scandalizza nemmeno davanti all’ultima strage del mare nella quale hanno perso la vita decine di persone giorni fa a Lampedusa. A L’identità spiega: “Morire fa parte del gioco. È un rischio che conosciamo. Ma è l’unico modo per raggiungere l’Europa. Anzi, ne esiste un altro. Diventare un terrorista”.
Rispetto ai trafficanti di vite umane dice: “Queste organizzazioni sono ramificate in quasi tutta l’Africa. Funzionano come agenzie turistiche locali che fanno capo alla sede centrale situata in alcuni porti del nord Africa da dove partono le barche. Io sono stato fortunato e sono ancora vivo. Ci ho impiegato 4 anni per arrivare in Italia. La metà degli anni, per raggiungere la Libia. Ma per molti che scappano, l’unica salvezza, purtroppo, è la morte”.
Migranti, arrestate 18 persone accusate di fare da scafisti tra Italia e Tunisia. Il Domani il 17 novembre 2022
Alla presunta organizzazione viene contestato l’aggravante di aver esposto a serio pericolo di vita dei migranti; di averli sottoposti a trattamento inumano e degradante e di aver commesso i reati per trarne un profitto. Per ogni viaggio si pagava una cifra tra i 3mila e i 5mila euro
Dodici persone sono finite in carcere e sei agli arresti domiciliari dopo le disposizioni del gip di Caltanissetta con le accuse di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Secondo gli inquirenti, le imbarcazioni con a bordo gli scafisti sarebbero partite dal porto di Gela o dalle coste dell’agrigentino per raggiungere la Tunisia e far immediato rientro con i migranti.
Alla presunta organizzazione viene contestato l’aggravante di aver esposto a serio pericolo di vita dei migranti; di averli sottoposti a trattamento inumano e degradante e di aver commesso i reati per trarne un profitto. Il sodalizio sarebbe stato promosso da un uomo e una donna tunisini, entrambi già sottoposti agli arresti domiciliari per analoghi reati. Secondo gli inquirenti gestivano l’organizzazione da una casa a Niscemi. Il gruppo era composto da 11 cittadini di nazionalità tunisina e 7 di nazionalità italiana. Ognuno aveva dei compiti ben precisi: quattro svolgevano l’attività di scafista, due gestivano le casse dell’organizzazione, altri curavano l’aspetto logistico e quattro facevano da “connection man” raccogliendo i soldi dei migranti che volevano giungere in Europa direttamente in patria.
IL VIAGGIO
A bordo di piccole imbarcazioni con motori fuoribordo venivano trasportate dalle 10 alle 30 persone per ogni viaggio. La tratta durava in totale circa 4 ore, con partenza dalle città costiere tunisine di Al Haouaria, Dar Allouche e Korba e arrivava nelle province di Caltanissetta, Trapani e Agrigento.
I migranti pagavano una cifra che oscillava tra i 3mila e i 5mila euro per il viaggio. Il presunto profitto dell’organizzazione criminale, quindi, si attesterebbe tra i 30.000 e i 70.000 euro per ogni imbarcazione. I soldi venivano trasferiti in Italia attraverso alcune agenzie internazionali e poi versate su carte prepagate, parte del denaro veniva investito nuovamente per l’acquisto di nuove imbarcazioni.
18 arresti, la base a Niscemi. Traffico di migranti tra Sicilia e Tunisia, viaggi fino a 5mila euro: “Buttateli in mare in caso di avaria”. Redazione su Il Riformista il 17 Novembre 2022.
Se ci fossero stati problemi, come un’avaria dei motori, gli scafisti avrebbero dovuto sbarazzarsi dei Migranti in alto mare qualora necessario. È quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche disposte dall’Autorità Giudiziaria in merito all’inchiesta ‘Mare aperto‘ della Procura di Caltanissetta, che ha portato la polizia ad eseguire nelle scorse ore 18 misure cautelari (12 in carcere e 6 agli arresti domiciliari) per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Stando a quanto ricostruito nelle indagini, le imbarcazioni degli scafisti sarebbero partite dal porto di Gela o dalle coste dell’agrigentino per raggiungere la Tunisia e far immediato rientro con il ‘carico’ di Migranti. Coinvolti 11 tunisini e sette italiani.
Viaggi clandestini dal costo che oscillava tra i 3mila e i 5mila euro. Questo il prezzo pro-capite, pagato in contanti in Tunisia prima della partenza. Il presunto profitto dell’organizzazione criminale, quindi, si attesterebbe tra i 30mila e i 70mila euro per ogni viaggio. Stando alle ricostruzioni, il denaro raccolto in Tunisia sarebbe stato inviato in Italia, a Scicli in provincia di Ragusa, attraverso note agenzie internazionali, specializzate in servizi per il trasferimento di denaro, per essere successivamente versato su carte prepagate in uso ai promotori dell’associazione, i quali lo avrebbero reinvestito per aumentare i profitti dell’associazione, comprando, ad esempio, nuove imbarcazioni da utilizzare per le traversate.
Le imbarcazioni sarebbero partite dal porto di Gela o dalle coste dell’agrigentino per raggiungere la Tunisia e far immediato rientro con il ‘carico‘ di Migranti. L’associazione per delinquere, con vari punti strategici dislocati in più centri siciliani – Scicli, Catania e Mazara del Vallo –, avrebbe impiegato piccole imbarcazioni, munite di potenti motori fuoribordo, condotte da esperti scafisti che avrebbero operato nel braccio di mare tra le città tunisine di Al Haouaria, Dar Allouche e Korba e le province di Caltanissetta, Trapani e Agrigento, così da raggiungere le coste italiane in meno di 4 ore, trasportando dalle 10 alle 30 persone per volta, esponendole a grave pericolo per la vita.
Le indagini hanno avuto inizio il 21 febbraio 2019 quando all’imbocco del porto di Gela si è incagliata una barca in vetroresina di 10 metri con due motori da 200 cavalli, segnalata da un pescatore del luogo. Gli accertamenti condotti dagli investigatori della squadra mobile hanno permesso di appurare che l’imbarcazione era stata rubata a Catania pochi giorni prima e che erano sbarcate decine di persone presumibilmente di origini nord africane. Le prime attività investigative, frutto della capillare conoscenza del territorio degli uomini della polizia di Stato, hanno permesso di risalire ad una coppia di origini tunisine che favoriva l’ingresso irregolare sul territorio italiano, principalmente di cittadini nord africani.
LE ACCUSE – A carico degli indagati, 11 di nazionalità tunisina e 7 italiana, secondo la ricostruzione fatta dalla Procura della Repubblica nissena e vagliata dal Gip, sussistono gravi indizi di partecipazione a un’organizzazione criminale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina; reato aggravato dal fatto che l’associazione era composta da più di dieci persone; era finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di più di 5 persone; aveva carattere transnazionale in quanto operativa in più stati. È stata altresì contestata la circostanza aggravante di aver esposto a serio pericolo di vita i Migranti da loro trasportati; di aver sottoposto a trattamento inumano e degradante i Migranti e di aver commesso i reati per trarne un profitto.
Tutte le aggravanti sono state ritenute sussistenti dal Gip. La presunta organizzazione criminale sarebbe stata promossa da un uomo e una donna tunisini, entrambi, già all’epoca dei fatti, sottoposti agli arresti domiciliari per analoghi reati – per i quali hanno riportato condanna ritenuta definitiva nel corso delle indagini –, che gestivano l’attività di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da una casa sita in territorio di Niscemi.
Le indagini hanno permesso inoltre di individuare un altro soggetto di Niscemi che avrebbe avuto il ruolo di capo, due tunisini con base operativa a Scicli che avrebbero avuto il compito di gestire le casse dell’associazione per delinquere, 5 italiani che avrebbero curato gli aspetti logistici, come l’ospitalità subito dopo lo sbarco sulle coste siciliane ed il trasferimento degli scafisti dalla stazione dei pullman alla base operativa, 4 scafisti (un italiano e 3 tunisini) e 4 tunisini che avrebbero avuto il ruolo di ‘connection man‘ con il compito, in madre patria, di raccogliere il denaro dei Migranti che volevano raggiungere l’Europa.
La base operativa della presunta associazione per delinquere è stata individuata alla periferia della città di Niscemi, all’interno di una vecchia masseria, dove insiste anche un campo volo privato, il cui proprietario, un imprenditore agricolo niscemese, è oggi indagato e destinatario della misura cautelare in carcere perché ritenuto tra i capi del sodalizio criminale. Qui, dimora della coppia tunisina, sarebbero stati altresì ospitati gli scafisti di spola provenienti dalla Tunisia e sarebbero stati trasportati – a mezzo di speciali autocarri – le imbarcazioni da impiegare per le traversate dalle coste nord africane a quelle siciliane.
Il proprietario della masseria si sarebbe messo a disposizione della presunta organizzazione criminale anche attraverso l’assunzione fittizia di alcuni sodali stranieri, al fine di legittimarne la permanenza o l’ingresso nel territorio italiano. Anche uno dei due promotori tunisini sarebbe stato impiegato come bracciante agricolo con lo scopo di eludere la misura degli arresti domiciliari ed ottenere la concessione di appositi permessi che potessero consentirgli ampi margini di manovra per organizzare liberamente i viaggi dei connazionali. In più occasioni sarebbe stato proprio lo stesso imprenditore niscemese a recarsi in Tunisia come portavoce del promotore tunisino, prendendo accordi con gli accoliti del luogo al fine di pianificare le fasi della traversata e le modalità di spartizione dei proventi, nonché per mettersi a disposizione offrendo fittizi contratti di lavoro ai Migranti giunti in Italia.
Nel corso dell’indagine è stato possibile ricostruire la presunta organizzazione di più viaggi organizzati dalla Tunisia alle coste italiane. Il 26 luglio 2020, in uno dei viaggi pianificati dagli indagati, un’imbarcazione sarebbe partita dal Porto di Licata in direzione delle coste tunisine proprio al fine di prelevare il carico di esseri umani per condurli in Italia. Solo l’avaria di entrambi i motori non ha permesso la conclusione del viaggio; pertanto il natante rimasto alla deriva “mare aperto”, da qui il nome dell’odierna operazione. Grazie alla stretta collaborazione della Capitaneria di Porto di Porto Empedocle e del Reparto Operativo Aeronavale della Guardia di Finanza di Mazara del Vallo, è stato possibile individuare l’imbarcazione durante le fasi di rientro dalle coste tunisine, identificando così gli scafisti facenti parte dell’organizzazione criminale. In particolar modo il natante è stato rintracciato di fronte le coste del comune di Mazara del Vallo.
Le fasi dell’organizzazione del traffico di Migranti, come detto, sono state oggetto di attività di intercettazioni telefoniche disposte dall’Autorità giudiziaria. L’attività ha permesso di far emergere la determinazione, da parte degli scafisti, di sbarazzarsi dei Migranti in alto mare qualora necessario, ovvero in caso di avaria dei motori.
I finanziamenti fantasma alle coop: non c'è solo il ghetto dei migranti. Gli scandali che riguardano le grandi cooperative di accoglienza sono all'ordine del giorno, nel silenzio delle istituzioni. Bianca Leonardi il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.
“Non ne sappiamo niente, sulla piattaforma istituzionale non riusciamo ad avere la documentazione. Non abbiamo notizie su Borgo Mezzanone, non abbiamo conoscenza di chi lo sta gestendo al momento”. Così fa sapere a IlGiornale.it Fratelli d'Italia dal Consiglio Regionale pugliese in merito all’erogazione fantasma, che non presenta l’aggiudicatario, di circa 700mila euro da parte del presidente Emiliano per la gestione dell’accoglienza nel ghetto foggiano. Un alone di mistero sulla gestione migranti che, come abbiamo già documentato, riguarda principalmente i grandi colossi dell’accoglienza. Al centro di questi pochi chiari collegamenti tra enti istituzionali e gestori, quello della Regione Puglia non è sicuramente l’unico esempio, anzi.
Altro caso eclatante è quello che riguarda l’ex coop Ecofficine Edeco di Padova, coinvolta in uno scandalo giudiziario nel 2019 che ha visto come indagati - oltre al presidente e parte del cda - anche gli allora vice prefetto, vice prefetto vicario e un funzionario sempre della prefettura. Le accuse principali erano quelle di frode nelle pubbliche forniture, tentata truffa e malagestione del hub migranti. Si scopre, però, che dalle ceneri di Edeco opera oggi una nuova società - Ekene - che presenta il solito gruppo dirigente ma opera con nuove ragioni sociali. All’interno del cda di Ekene, nata formalmente nel 2020, troviamo infatti Simone Barile, ex presidente Edeco e indagato, la moglie - anch’essa indagato ed ex vice presidente Edeco - Sara Felpati e Annalisa Carrara, già presente nel cda della vecchia coop. Nonostante ciò, la nuova creatura è al centro delle vincite di numerosi bandi: ultimo quello di quest’anno che ha portato nelle tasche di Ekene ben 847mila euro per un solo anno, erogati dalla prefettura di Nuoro per la gestione dell’unico centro permanente di rimpatrio in Sardegna.
E sempre di prefetture si parla consultando i documenti di un’altra delle più grandi realtà italiane: la siciliana Badia Grande o anche - come la definiscono i giornali locali - “asso pigliatutto dell’accoglienza. La storia di questa coop nasce con la condanna del fondatore, Don Sergio Librizzi - ex numero uno della Caritas di Trapani - per induzione alla corruzione e, si scopre, abbia gestito, accanto a Medihospes, anche il Cara di Mineo, il centro accoglienza invischiato nell’inchiesta di Mafia Capitale.
Oggi il presidente, Antonio Manca ha all’attivo un processo su richiesta della procura di Bari con l’accusa di aver frodato lo Stato, un’inchiesta ad Agrigento e un processo a Trapani per truffa allo Stato. Ed è proprio a Trapani che qualcosa non torna: nel 2021 infatti la prefettura aveva affidato un bando da 18 milioni di euro alla coop nonostante le indagini del patron Manca fossero giù terminate e dichiarato colpevole. Dal canto suo la Prefettura, quando venne fuori la cosa, disse di non sapere e che “se avesse saputo, questo fatto avrebbe potuto influire sulla scelta”. In realtà sembrerebbe che la Procura di Trapani avesse comunicato l’iter alla prefettura e proprio questa non si sarebbe costituita parte civile.
Ma c’è di più: la stessa prefettura di Trapani tra il 2021 e il 2022 ha erogato alla coop più di 778 mila euro per l’hotspot siciliano di Pozzallo. A ciò si aggiunge l’hotspot di Lampedusa che la Badia Grande ha vinto con un appalto da 2,9 milioni di euro.
Il Bestiario, il Lavorathoro. Il Lavorathoro è un essere leggendario che adora i lavoratori soprattutto la domenica. Giovanni Zola l’1 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il Lavorathoro è un essere leggendario che adora i lavoratori soprattutto la domenica.
Il Lavorathoro nasce nel 1980 a Bétroulilié, in Costa d’Avorio. La leggenda narra che la prima parola pronunciata non fu “mamma”, non fu “papà” e non fu neanche “betoniera”, bensì proprio “lavoratore”. Da piccolo, invece delle macchinine o dei soldatini, si faceva regalare strumenti da lavoro come pale, picconi e cazzuole. Già alle elementari fonda un suo piccolo sindacato “Più merende per tutti” (PMT), per condividere le merendine con i compagni di classe più poveri.
Nel 1999, a 19 anni, il Lavorathoro si trasferisce in Italia e si laurea in Sociologia nel 2010 a soli 30 anni. Per non smentire la sua passione per i lavoratori scrive una tesi dal titolo: "Analisi sociale del mercato del lavoro. La condizione dei lavoratori migranti nel mercato del lavoro italiano: persistenze e cambiamenti". Purtroppo il suo relatore muore di vecchiaia mentre legge il titolo a causa della lunghezza. Malgrado l’incidente il Lavorathoro non si perde d’animo nella difesa della sua causa.
Nel 2012 organizza una marcia dei “senza carta d’identità” che attraversano 6 paesi europei senza documenti per chiedere la libertà di circolazione, in realtà appena esce di casa non viene arrestato per miracolo. Ma il Lavorathoro continua la sua battaglia senza arrendersi.
Diventa sindacalista del Coordinamento Agricolo occupandosi soprattutto della tutela dei diritti dei braccianti. In questo frangente il Lavorathoro chiede al governo Conte un tavolo operativo di contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura. Il tavolo però ha una gamba più corta per cui la riunione si riduce alla ricerca da parte dei Ministri di un pezzo di cartone per non far traballare il tavolo.
Il 16 giugno 2020 il Lavorathoro si incatena facendo un simbolico sciopero della fame e della sete con lo scopo di essere ascoltato dal Governo. Purtroppo perde le chiavi del lucchetto e rimane incatenato per davvero per tre settimane perdendo quindici chili. Ma la sua passione per i lavoratori non si affievolisce.
Alle elezioni politiche del 2022 il Lavorathoro viene eletto nella lista Alleanza Verdi e sinistra. Grande vittoria per lui che può finalmente occuparsi dei lavoratori dall’interno del Parlamento e farsi dare del lei.
Il 24 novembre 2022 il Lavorathoro si autosospende dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra, per non aver pagato lo stipendio ai lavoratori delle sue cooperative. Del Lavorathoro non si hanno più notizie.
Aboubakar Soumahoro, le coop gestite da moglie e suocera al centro di accertamenti. Lui: «Nessuna indagine su di me». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022
La procura di Latina ha avviato accertamenti sulle cooperative gestite da moglie e suocera di Aboubakar Soumahoro, dopo le denunce di un sindacato. Al momento non ci sono ipotesi di reato, e il deputato ha smentito ci siano indagini su di lui
La procura di Latina, tramite i carabinieri del comando provinciale, ha avviato accertamenti sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Aboubakar Soumahoro in seguito alle denunce di un sindacato su presunte irregolarità nei pagamenti dei dipendenti.
L’indagine è al momento puramente «esplorativa» perché non ci sarebbero profili penalmente rilevanti e il fascicolo non ipotizza reati.
Lo stesso deputato ha precisato, in un post su Facebook, di non essere «né indagato né coinvolto in nessuna indagine», e di aver «dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione».
Gli accertamenti
Gli accertamenti in corso sono l’appendice di una vicenda fondata su presunte irregolarità amministrative e già finita davanti all’Ispettorato del lavoro che alcune settimane fa aveva portato a un accordo sul riconoscimento di pagamenti arretrati ai lavoratori della Karibù e del Consorzio Aid che ne avevano sollecitato il saldo.
Le nuove denunce del sindacato Uiltucs, che ricalcano in parte quelle di esponenti locali di CasaPound, adombrano altre irregolarità gestionali, legate alle condizioni di lavoro all’interno dei centri di accoglienza per immigrati.
Le denunce sulle condizioni igienico sanitarie delle strutture
Negli anni scorsi le due sigle erano arrivate a contare in totale 150 dipendenti, impiegati in progetti Sprar a Sezze, Terracina, Roccagorga, Monte San Biagio e Priverno oltre che in numerose strutture, tra Centri di accoglienza straordinari e centri per i minori in tutta la provincia.
Il sindacato ha raccolto alcune testimonianze sulle condizioni igienico-sanitarie non ottimali di queste strutture.
I ritardi nei pagamenti delle mensilità dovute, hanno argomentato le coop al momento di essere ascoltate dall’ispettore del lavoro, sarebbero un effetto a catena legato ai ritardi nei trasferimenti dei pagamenti riconosciuti dal ministero dell’Interno per la gestione di questi servizi in appalto tramite la prefettura.
L’assistente sociale di origini ruandesi Marie Thérèse Mukamitsindo, fondatrice della Cooperativa sociale Karibù, è stata insignita nel 2018 del primo Moneygram come imprenditrice immigrata che più si è distinta nella sua attività.
Soumahoro, i migranti e gli affari di famiglia: «Alla fine si chiarirà tutto». Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.
Stipendi mal pagati, irregolarità: il deputato parla delle accuse a moglie e suocera: «Io è 22 anni che sto in strada se non sei pulito in strada non cammini. Il fango mediatico non ci fermerà»
Dice che «nei campi dell’Agro Pontino» andava a fare «l’alfabetizzazione dei braccianti», altro che imbrogli di famiglia. E ogni tanto gli scappa di parlare di sé in terza persona, come Giulio Cesare o Berlusconi: «Aboubakar non è lì per Aboubakar, ma per volontà popolare».
Chissà se, nella laboriosa edificazione del suo ego, in certe notti di stanchezza gli ricompare davanti Soumaila Sacko, come il fantasma di Banco. In fondo proprio la morte di Soumaila, ammazzato a fucilate nelle campagne il 2 giugno 2018 da un malacarne calabrese per due tavole di legno, proietta lui, Aboubakar Soumahoro, a nuova vita. E che vita: da voce della vittima, prima, a voce di tutte le vittime dell’ingiustizia planetaria, poi; dai talk show ai salotti tv, adulato sulle copertine (lui di qua, Salvini di là, titolo «Uomini e no») fino a un seggio parlamentare celebrato presentandosi a Montecitorio con gli stivali sporchi dei campi e il pugno chiuso, «piedi nel fango della realtà e spirito nel cielo della speranza», alla faccia della retorica. Per una sinistra dal cuore di simboli affamato, uno così è quasi meglio di Mimmo Lucano.
Adesso che il mondo ingrato gli si rivolta contro e la Procura di Latina indaga su cooperative dove appaiono la moglie Liliane e la suocera Marie Terese tra storiacce di pagamenti mancati ai cooperanti e condizioni indecenti nei centri d’accoglienza dei profughi, c’è chi, come i ragazzi del Collettivo Jacob Foggia, vecchi compagni d’un tempo, lo accusa di avere «surfato» sulle disgrazie altrui, «lo sterminato esercito bracciantile di migliaia di migranti», proprio cominciando da quella campagna insanguinata dove cronisti e telecamere lo adottarono, colto e facondo, nero come Soumaila e pronto a parlarne come fosse suo fratello.
«Io ero in Calabria da prima del 2018, è ventidue anni che sto in strada, ho dormito in strada a Napoli, se non sei pulito per strada non cammini. Chi parla oggi dov’era?», replica lui, garbato ma stizzito. La grana politica è esplosa, i giornali scrivono di «cooperative di famiglia». «Sa, sono molto preoccupato. Non sottovaluto questi attacchi mediatici. Ma, a chi vuole seppellirmi politicamente, dico: mettetevi l’anima in pace, il fango mediatico non ci fermerà». Spiega di essere per «un sovranismo internazionale solidale» ma non provate a chiedergli lumi, perché Soumahoro forse non surferà sugli esseri umani ma, come tutti i veri politici, surfa sulle domande e continua nel suo copione come fosse sordo: «Non appartengo alla politica liquida», dice, «ho un’identità: sono la voce di 600 mila italiani che non riescono a curarsi. Non tentate di zittirmi!». In realtà non è da escludere che qualcuno tenti piuttosto di farlo parlare.
È lunga e ripida l’arrampicata di Aboubakar: dalla natia Costa d’Avorio alla Napoli dove riesce a laurearsi alla grande (110 in sociologia), dall’Unione Sindacale di Base al mito di Di Vittorio, sino a un sindacato a sua misura, la Lega Braccianti, e a un divorzio non proprio amichevole con l’Usb. Prima grana, una raccolta fondi al tempo del lockdown di cui non è chiarissima, secondo alcuni, la destinazione: «Macché», replica lui, «a Foggia c’è il bilancio della Lega Braccianti, è tutto online, il resto è fango. Io ho portato cibo e mascherine in giro per l’Italia, con mia moglie a sostenermi, ho lasciato un neonato a casa per accudire i bisognosi».
Dall’immedesimazione con Di Vittorio in poi, il nostro ha sviluppato una declinazione della lotta di classe modernamente trasversale: «Sono antifascista e patriota. Se “loro” hanno perso la connessione sentimentale col popolo se la prendano con sé stessi. Io ho idee diverse da Meloni e Salvini, ma darò una casa politica a partite Iva, Pmi, artigiani e operai. Sono il mio mondo, quello che incrocio alle sei di mattina quando vado in autobus in Parlamento», tuona, lasciandoci a interrogarci su chi diavolo trovi in Parlamento a quell’ora.
Infine, il suo magmatico universo s’incrocia a Latina con uno gnommero locale di cui tutti conoscono il groviglio. Dopo anni di omertà, arrivano le denunce del sindacato Uiltucs e un’ispezione parlamentare del 2019 riemersa dagli archivi, e viene al pettine la storia della cooperativa Karibu e del consorzio Aid: di fatto in mano a mamma Maria Terese Mukamitsindo, profuga ruandese arrivata trent’anni fa, e alla figlia Liliane Murekatete, che segue la madre coi fratelli poco dopo. In piena emergenza migratoria, a metà degli anni Dieci, la Karibu si allarga fino a una trentina di centri d’accoglienza nel basso Lazio, tra Sezze e l’Agro Pontino. Non si sta a guardar tanto per il sottile. «A quei tempi la Prefettura ci diceva: qualunque posto troviate, infilateci i migranti», racconta Carlo Miccio, che ha lavorato nel centro sull’Appia e ne ha tratto persino un romanzo (Copula Mundi): «Ho retto quattro mesi, poi mi hanno allontanato, ma ho visto di tutto: la pioggia nelle camerate affollatissime, i rifiuti non rimossi, il caos. Sono entrato con 48 migranti, erano arrivati a 100, ragazze della tratta e ragazzi dei barconi mischiati. Mesi di stipendio arretrati». I migranti rendono, come si diceva ai tempi del Mondo di Mezzo. «Se vuoi mettere su un impero, continui a prendere ragazzi, anche se la struttura non li regge».
Uno di quei ragazzi ha animato nel 2017 la protesta di Borgo Sabotino. È un trentenne grande e grosso, venuto dal Mali, si chiama Mahmadou Ba: «Faceva un freddo bestia, il cibo era da buttare, tanti di noi uscivano per lavorare in nero». Mahmadou sostiene di essere stato molto legato a Liliane e di avere provato grande ammirazione per Soumahoro, conosciuto in piazza a Latina l’estate del 2018: «Condividevamo gli ideali». Poi qualcosa si rompe, si finisce a diffide dai carabinieri. In questa storia è difficile scindere il pubblico dal privato: e l’incrocio privato tra le vite di Liliane e Aboubakar Soumahoro è proprio di quell’estate. Miccio ammette: «È vero, lui arriva dopo. Ma madre e figlia gli hanno nascosto tutto? Poteva non sapere? E, se sai ‘sta cosa, poi ti metti gli stivaloni in Parlamento?». La lista di guai può essere lunga. Gianfranco Cartisano della Uiltucs parla di «arretrati coi lavoratori per 400 mila euro e fino a 22 mensilità non pagate». Possibile che in casa l’argomento fosse tabù?
Soumahoro è prudente: «Non voglio eludere le domande, ma non avendo vissuto nulla di questa vicenda finirei per fare un’informazione approssimativa con un’indagine della Procura in corso». È protettivo verso il suo amore: «Mia moglie è attualmente disoccupata. Non ha nessuna cooperativa. E quando l’ho conosciuta già lavorava nel mondo dell’accoglienza. Quando vorranno sentirla, fornirà tutti i chiarimenti».
Ma la questione più grave non è penale. I referenti della memorabile ascesa sono sconcertati. Uno di loro, un parlamentare che chiede anonimato, sbotta: «Cado dalle nuvole e sono incavolato come una bestia!». Non poteva non sapere è un teorema giudiziario controverso. «E infatti non piace neanche a me», dice il sociologo Marco Omizzolo, animatore di mille battaglie per i diritti dei braccianti nel Pontino: «Però la faccenda è politica. Non si può credere a uno stato diffuso di ingenuità. E a Latina tutti sapevano».
«Ho fatto una leggerezza». I tormenti di Bonelli che candidò Soumahoro. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022
La richiesta con Fratoianni dopo l’indagine: devi chiarire. Dopo aver visto uno dei centri la ex senatrice di Sinistra italiana Fattori disse: in quel posto manco i cani
Da qualche notte, sospira e non ci dorme. Del resto, sua moglie Chiara, una militante trentina tosta che ci crede fino in fondo, lo rimprovera a ogni sorso del caffè mattutino: «Ma che cavolo hai combinato, Angelo?». Già, ci si può intossicare una felice vita politica e familiare per uno sbaglio? Lui, Angelo Bonelli, uno che ci crede perfino più di lei (sul profilo di Wikipedia ha scritto «attivista»), proprio non si dà pace: «Ho commesso questa leggerezza», mormora agli amici, sfogandosi solo con chi gli sta vicino perché, no, in pubblico non vorrebbe proprio comparire, comprendetelo.
La «leggerezza» ha le espressioni cangianti e l’eloquio fluviale dell’ultimo eroe della sinistra radicale: Aboubakar Soumahoro, il talentuoso ivoriano che s’è imposto all’attenzione dell’Italia come portavoce dei braccianti e dei migranti diseredati e, con questa etichetta, è riuscito prima a farsi venerare dai talk show televisivi e poi a farsi eleggere deputato nella lista Alleanza Verdi e Sinistra, entrando a Montecitorio con gli stivali sporchi del lavoro nei campi («piedi nel fango della realtà e spirito nel cielo della speranza», ha spiegato su Facebook, con tanto di foto a pugno chiuso).
Insomma, vagli a dar torto, ad Angelo. Imbarcare un simile fuoriclasse (in tandem con Ilaria Cucchi) sul fragile battello condotto assieme a Nicola Fratoianni verso le elezioni del 25 settembre gli pareva un’apoteosi benedetta dal sol dell’avvenire o dal sole che ride, vedete voi. Il 10 agosto, quando ne annunciò la candidatura, si commosse persino: «Sono molto emozionato nel dirvi che Aboubakar Soumahoro ha accettato di presentarsi con noi: è una figura importante, un attivista che difende da vent’anni gli Invisibili».
Tutto giusto, tutto vero. Non fosse che per quei fastidiosi dettagli saltati fuori dalle campagne del Basso Lazio, tra Latina e Sezze, noti già da molti anni ma diventati di stringente attualità ora che Soumahoro è un politico eletto e dunque ha rilievo pubblico ciò che prima era solo privato: la sua compagna Liliane e la suocera Marie Terese appaiono dominanti dentro una cooperativa, la Karibu (con la cognata Aline nel collegato consorzio Aid). Su questo magma societario e contabile indaga la Procura pontina, tra croniche storiacce di pagamenti mancati ai cooperanti e cicliche rivolte dei profughi per le indecenti condizioni dell’accoglienza, dalla qualità del cibo alle camerate gelide e sovraffollate. Posti dove «non avrei messo manco i cani», secondo l’ex senatrice Elena Fattori di Sinistra italiana dopo un sopralluogo. Soumahoro non c’entra nulla con Karibu ed è entrato nella vita di Liliane solo nel 2018: dunque non è indagato e evidentemente non lo sarà. Però è un po’ come se un guardacaccia mangiasse, politicamente parlando, selvaggina di frodo. Attenzione: sul piano giudiziario la massima cautela è d’obbligo verso Marie Terese, Liliane e Aline, siamo alle indagini preliminari.
Ma le tante voci di protesta dei ragazzi venuti fuori imprecando dai centri Karibu non sono un bel viatico per una vita da neodeputato degli oppressi. E non aiutano le foto da vamp di Liliane, tra borse e occhiali di lusso in hotel pluristellati, che fanno capolino perfino dai profili social della Karibu. Non aiutano i suoi rimandi continui a marchi di alta moda, che le hanno guadagnato a Latina il nomignolo di Lady Gucci. È questo il punto cruciale. Sicché il grande freddo cala nella gauche, s’insinua nell’anima dei due leader che hanno messo in lista chi si presentava come una specie di nuovo Di Vittorio. Fratoianni, formazione comunista, verga un’austera nota dei rossoverdi in cui ribadisce rispetto e vicinanza a Soumahoro e alla «sua storia» ma riconosce «il rilievo politico dei fatti contestati» per chi come lui «riveste un ruolo pubblico», chiedendogli un incontro di chiarimento. Fuori dal gergo da comitato centrale, lo sconcerto è palese.
Bonelli, cultura movimentista, è più incline all’emozione, che filtra come l’acqua piovana nelle camerate della cooperativa Karibu. Il primo «momento di tensione» con Aboubakar «nasce a metà settembre», quando Fanpage racconta un’altra storia che, stavolta sì, lo coinvolge direttamente ma è tutta da dimostrare e riguarda l’utilizzo degli euro delle raccolte fondi promosse dalla Lega Braccianti (la creatura sindacale da lui creata) per il sostegno ai bisognosi. Gli dicono: «Devi chiarire, gira tutto sui social». Lui replica: «Ho messo tutto in mano agli avvocati» e non spiega più nulla ai suoi compagni. Quando la grana Karibu esplode, smette anche di rispondere alle loro telefonate. Ma il momento più amaro arriva quando nelle ultime interviste l’irrequieto Aboubakar vagheggia «una nuova casa politica», dicendo «basta con questa sinistra senza identità» e strizzando l’occhio al bacino di Salvini, partite Iva e imprese piccole e medie. «Ma come? Non solo ci deve delle risposte, non solo gli abbiamo dato un seggio blindato, adesso pensa al millesimo partito personale?». E dunque, avanti così, con un’altra bandiera bruciata nel falò mitologico della sinistra radicale. E con un altro corpo a corpo con l’insonnia per Angelo, rimuginando su quando parlava di sé, Fratoianni, Soumahoro e la Cucchi come di una «bellissima famiglia allargata». Col buio certi ricordi bruciano. Perché è molto facile fare i superiori su ogni cosa di giorno, ma di notte, diceva Hemingway, è tutta un’altra faccenda.
Le accuse alla suocera di Soumahoro (e l’incontro di Alleanza Verdi e Sinistra, stamattina). Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022.
Convocato da Bonelli e Fratoianni. Nuova interrogazione di Gasparri
La giornata è stata un susseguirsi di colpi di scena. Meglio: di colpi d’inchiesta. Ed è nel tardo pomeriggio che Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni hanno chiamato Aboubakar Soumahoro nella stanza del loro gruppo di Alleanza Verdi e Sinistra per un faccia a faccia serrato. È finito alle nove di sera. Ma è stato soltanto un primo round. Ci sarà un altro incontro stamattina.
Bonelli e Fratoianni lo hanno guardato a lungo negli occhi, Aboubarak. Per tutta la giornata lo avevano ignorato. Per capire: il pomeriggio con Fratoianni neanche uno sguardo nel Transatlantico di Montecitorio.
La vicenda scotta. La gestione delle società di famiglia è finita sotto inchiesta e la suocera del sindacalista ivoriano, Marie Therese Mukamitsindo, risulta ora indagata. Le accuse sono pesanti: non pagavano i lavoratori e non versavano nemmeno i contributi. Proprio «in casa» di Soumahoro, che sulla lotta per i braccianti ha fondato la sua carriera politica.
Un caso sempre più delicato e una giornata convulsa, quella di ieri, dopo la notizia dell’iscrizione della suocera nel registro degli indagati. Uscito dall’aula di Montecitorio poco prima dell’incontro con i suoi due leader, il sindacalista ivoriano è rimasto sempre attaccato al suo telefonino. Gli occhi a guardare il velluto del pavimento.
Da Palazzo Madama è arrivata la notizia che il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, Forza Italia, ha depositato un’interrogazione parlamentare sul caso. Un’altra. Dice Gasparri: «L’interrogazione è sulle vicende che riguardano i possibili casi di sfruttamento di lavoratori stranieri impegnati nel settore agricolo a Latina e altrove».
Altrove: per Soumahoro spuntano problemi anche in provincia di Foggia. A sollevare dei dubbi, contro il parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra, questa volta è la Caritas di San Severo, nel Foggiano, e cioè nella zona dove il neo-deputato ha condotto in passato alcune delle sue più vistose battaglie per i diritti dei braccianti. Problemi con i finanziamenti per comprare i giocattoli, in questo caso: troppi soldi per pochi bambini.
La voce più forte si leva dalla Uil. È il sindacato che ha sollevato il caso delle cooperative Karibe e Consorzio Aid, quelle che fanno capo alla moglie e alla suocera di Soumahoro. «Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale?». Gianfranco Cartisano è il segretario della Ulitucs di Latina. Dice: «Oggi per noi rimane un unico obiettivo, quello di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: vogliamo stipendi subito».
Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione, si leva in una difesa di ufficio: «Aboubakar Soumahoro potrà avere tutte le colpe del mondo, ma il processo mediatico è pazzesco».
Soumahoro, un testimone: «Io pagato due volte per due anni di lavoro, Aboubakar sapeva». Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2022.
L’unica indagata, per malversazione ai danni di dipendenti non pagati, attualmente è Marie Therese Mukamitsindo, legale rappresentante della cooperativa Karibu dedita all’accoglienza di rifugiati, molti dei quali minori. Ma da documenti, testimonianze, visure catastali, emerge il mondo di Abubakar Soumahoro: oltre alla suocera Maria Therese nella gestione della Karibu era coinvolta la compagna Liliane Murekatete, consigliera fino a settembre scorso, e nel Consorzio Aid, sempre riconducibile a Marie Therese agivano i figli di lei Michel e Aline. Ma forse non era un mondo solidale e trasparente.
Soumahoro, deputato di Verdi-Si, in lacrime, sui social ha promesso di scioperare accanto ai dipendenti di quelle cooperative se risulterà che sono stati sfruttati. Ma c’è chi accusa: «Soumahoro lo sa. Era lì, portava la spesa. Era la sua famiglia. Lui era a conoscenza di quello che accadeva lì dentro».
Youssef Kadmiri, 42 anni, è un ingegnere nato a Marrakesh e non parla per sentito dire. È un testimone e una vittima di quello sfruttamento. E racconta al Corriere qualcosa di molto più grave di ciò che è emerso. Dice di essere stato pagato «due volte in due anni». Meno di quanto pattuito: «Un totale di 6mila euro». Senza contratto, come altri suoi colleghi, alcuni dei quali ricevevano «bonifici dal Ruanda». «Ero operatore sociale, traducevo ai ragazzi che venivano dalla Libia, dall’Albania, dal Bangladesh, dal Marocco. Ma poi facevo anche manutenzione. La guardia la notte. L’orario non era giusto. Tante volte ho chiesto il contratto, sempre scuse. E lo stipendio di 1000-1200 euro non arrivava. Dicevano “mi dispiace”. Ma io dovevo pagare l’affitto. Dopo 6 mesi ho avuto 3.000 euro. Poi niente per un anno e mezzo. Poi solo altri 3.000». Ma soprattutto Yuseff accusa: i minori che erano nella struttura venivano tenuti in una «situazione grave: gli davano poco da mangiare e non gli davano il “poket money”», la diaria per le spese personali. «Avevano sempre fame. Ora sono in altre strutture, hanno luce e acqua, se stanno male li portano in ospedale, non è come era lì. E tutti sapevano». Conferma al Corriere Shick Mohammed, egiziano, 18 anni appena compiuti: «C’era poco da mangiare, non ci compravano vestiti: lavoravo nei campi per potermi comprare calzini e scarpe. Giuro. Stavo male».
Sarà l’indagine, condotta dal nucleo provinciale di Latina della Guardia di Finanza, a chiarire ogni aspetto di questa vicenda sulla quale l’ispettorato nazionale del lavoro conferma che sono «in via di conclusione ispezioni aperte in base alle denunce di alcuni lavoratori».
Ma gli indizi che ci si approfittasse dei dipendenti sembrano esserci. In un verbale della prefettura di Latina si riconosce a 4 lavoratori della società Consorzio Aid, sempre riconducibile a Marie Therese, il pagamento della retribuzione che avrebbe dovuto versare la cooperativa: «Si procederà ad attivare l’intervento sostitutivo ai sensi dell’articolo 30 comma 6 del Dl 50/2016». Un formale riconoscimento dell’inadempienza. Infatti Marie Therese era stata convocata. Aveva ammesso ma chiesto una rateizzazione. Poi, dalla prima rata, aveva continuato a non pagare. E in quel caso l’ha fatto la prefettura, ente appaltante. Ma ce ne sono altri. «C’era chi non riceveva lo stipendio da 6 mesi, chi addirittura da 22. Sono arrivati da noi in 26 ma stimiamo che in 150 non hanno avuto una regolare retribuzione», spiega il sindacalista Uiltucs Gianfranco Cartisano. E respinge sospetti di manovre: «Non abbiamo colore, chiediamo solo che il prefetto convochi un tavolo affinché tutti vengano pagati».
Coop sotto inchiesta, parlano moglie e suocera di Soumahoro: "Chi denuncia è manipolato dai sindacati. Vogliono affossare Aboubakar". Fabio Tonacci su La Repubblica il 21 Novembre 2022.
Il video in lacrime Il deputato Aboubakar Soumahoro, eletto con Sinistra italiana, in cui si difendeva dalle accuse: "Perché mi fate questo? Mi volete morto"
Liliane Murekatete e Maria Therese Mukamitsindo rilasciano la prima intervista a Repubblica dopo la notizia dell'indagine su mancati pagamenti, malsane condizioni dei centri denunciate dai minorenni e violazioni dei contratti: "Tutto è stato speso per i rifugiati. Lo Stato non ci ha rimborsato per questo ci sono stipendi non pagati"
Qualche errore è stato fatto, ma Maria Therese Mukamitsindo giura che non un euro di denaro pubblico sia finito nelle sue tasche o in quelle dei suoi familiari. "Tutto è stato speso per i rifugiati, ai quali ho dedicato 21 dei miei 68 anni. Tutto è rendicontato e posso provarlo".
La signora, originaria del Ruanda, è presidente della coop Karibu, nata nel 2001 nell'Agro pontino, che dopo la Primavera araba gestiva 154 dipendenti per 600 posti letto, divisi in progetti Sprar e Cas.
Latina, inchiesta sulle coop della famiglia Soumahoro. Clemente Pistilli su La Repubblica il 18 Novembre 2022
Sotto accusa moglie e suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra
Prima le vertenze per circa 400mila euro di stipendi non pagati ai dipendenti, poi le ipotesi di fatture false chieste ai lavoratori e infine le accuse di migranti minorenni che lamentano condizioni terribili nelle strutture dove sono ospitati, prive anche di energia elettrica e acqua corrente. Nel giro di un mese il quadro sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, si è fatto sempre più fosco. Abbastanza per portare la Procura di Latina ad aprire un'inchiesta e i carabinieri a indagare.
L'onorevole, paladino dei braccianti, ha fatto ingresso alla Camera indossando degli stivali di gomma eha sostenuto che "non devono essere più intrisi dal fango dell'indifferenza e dello sfruttamento". Ora però lui stesso si è trovato a far fronte a una serie di denunce presentate dal sindacato Uiltucs e diventate oggetto di accertamenti da parte della magistratura. "L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti", ha raccontato al sindacato Nader, un minorenne ospite di una delle strutture per migranti gestite a Latina dalle coop Consorzio Aid e Karibu. "Ci hanno anche maltrattati", ha sostenuto il 17enne Abdul. E così altri. Nel corso degli anni, tra l'altro, ci sono state diverse proteste da parte di migranti ospiti delle coop di MarieTerese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, suocera e moglie dell'onorevole. Ventisei lavoratori delle cooperative, non ricevendo in alcuni casi lo stipendio da due anni, si sono rivolti all'Ispettorato del lavoro.
Ad alcuni lavoratori, secondo le denunce, sarebbero poi state chieste fatture false per ottenere i pagamenti. Una modalità confermata da alcune chat consegnate alla Procura di Latina. "Portami la settimana prossima fattura di metà importo", veniva scritto a quanti chiedevano lo stipendio. "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?", chiede il segretario della Uiltucs, Gianfranco Cartisano. Soumahoro, che Repubblica ha cercato di contattare sia lunedì che martedì per un commento, non ha riposto ai messaggi. Ieri invece, pur senza pronunciarsi sulle accuse mosse alle coop di moglie e suocera, ha affidato la sua replica a un post sui social: "Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine. Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale. Ho dato mandato ai miei legali di perseguire chiunque getterà ombre sulla mia reputazione".
"Il sistema dell'accoglienza ha basi solide a Latina e in provincia ma ora rischia di venire giù", dichiara intanto Angelo Tripodi, capogruppo della Lega nel consiglio regionale del Lazio.
Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 17 novembre 2022.
Sopravvissuti a viaggi infernali attraverso l'Africa e alle onde del Mediterraneo, soli e fragili, diversi migranti ragazzini arrivati nel Lazio avrebbero trovato un altro inferno. Denunciano di essere stati maltrattati e privati anche dei servizi essenziali, come luce e acqua, nelle strutture di due cooperative pontine, gestite dalla suocera e dalla moglie del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Aboubakar Soumahoro, a cui sono stati affidati progetti finanziati dalla Prefettura pontina e da altri enti.
Le denunce al sindacato Uiltucs al vaglio della Procura di Latina
Quei racconti fatti al sindacato Uiltucs sono ora al vaglio della Procura di Latina, che ha aperto un'inchiesta. E i carabinieri stanno già indagando, partendo da quanto riferito da una trentina di lavoratori delle coop Karibu e Consorzio Aid, i quali sostengono in alcuni casi di non ricevere lo stipendio da quasi due anni, che sono stati costretti a lavorare in nero, che gli accordi raggiunti davanti all'Ispettorato del Lavoro sono stati disattesi e che alcuni di loro si sono visti anche chiedere fatture false per poter ottenere la paga.
Una vicenda torbida, su cui gli investigatori stanno cercando di far luce. Già sono stati acquisiti diversi documenti, partendo dalle denunce fatte dai minori al sindacato e dagli screenshot delle chat tra i vertici delle coop e alcuni lavoratori, oltre a documentazione sempre delle cooperative trovata in dei cassonetti a Sezze, dove ha sede la Karibu.
La denuncia dei minorenni: "Lasciati al buio, senza cibo e acqua"
"L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti. Stavamo lavorando e poi ci hanno spostato in un posto a Napoli peggiore del primo e tutti quelli che lavorano qui sono razzisti". A lanciare un grido di dolore è Nader, un minorenne ospite di una delle strutture per migranti a Latina gestite dalle coop della suocera e della moglie dell'onorevole Soumahoro.
Una storia simile a quella di Ziyad, 16 anni: "Il cibo non era buono e non c'era acqua né elettricità. Dopo tutto questo hanno chiuso a chiave questa casa perché non c'erano soldi". Oltre a Nader e a Ziyad, a rivolgersi a Uiltucs sono stati poi Ahmed, che ha lamentato di non aver ricevuto dalle cooperative denaro e vestiti e che il vitto "non era buono", e Abdul, 17 anni: "L'ultimo mese non c'era acqua né elettricità... ci hanno mandato tutti in posti cattivi e anche maltrattati".
Il sindacato Uiltucs chiede chiarezza
Sinora la coop Karibu, fatta eccezione per qualche problema, è uscita indenne dalle accuse che sono state mosse a cooperative che gestiscono centri per migranti e che anche nell'agro pontino sono finite al centro di indagini con tanto di arresti, ipotizzando che gli stranieri venissero abbandonati a loro stessi e il denaro destinato all'accoglienza finisse nelle mani dei gestori delle strutture.
Ora invece arrivano accuse pesanti e a farle sono dei minorenni, i più fragili, chiedendo aiuto a un sindacato che da tempo si sta battendo per chiedere chiarezza. Tanto sulla Karibu, guidata da Marie Terese Mukamitsindo, presidente del Consiglio di amministrazione, e che ha come consigliera Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, che nel 2021 ha anche ricevuto contributi a fondo perduto Covid per 227 mila euro ma che ha accumulato debiti milionari.
Tanto sul consorzio Aid, che dovrebbe essere un'Agenzia per l'inclusione e i diritti, e che nel 2020 ha ottenuto l'affidamento di vari servizi per stranieri dalla Prefettura di Latina, dal Comune di Latina e da quello di Termoli, dove siede nel cda sempre Mukamitsindo.
L'ombra delle fatture sospette
Secondo Uiltucs di Latina, che sta lottando affinché vengano pagati lavoratori che hanno operato nelle due coop e che in alcuni casi non avrebbero ricevuto lo stipendio per quasi due anni, potrebbero essere state chieste anche fatture false da utilizzare per alcuni pagamenti. Il particolare è stato riferito al sindacato da dipendenti delle cooperative che stavano cercando di recuperare somme arretrate ed è emerso da una serie di messaggi e chat che ora stanno esaminando anche i magistrati.
Ecco infatti alcune risposte date dalle coop a chi chiedeva di essere pagato: "Non ho dimenticato il tuo debito o quello di Mohamed. Dovevamo essere pagati poi hanno richiesto certificati antiriciclaggio". Ma soprattutto: "Portami la settimana prossima fattura di metà importo". Oppure: "Ti ringrazio e ti ringrazierò a vita per tutto e ti chiedo di incontrarci in ufficio per accordare il dilazionamento delle spettanze dovute e le fatture". Messaggi inviati anche, a quanto pare, dalla suocera di Soumahoro: "Lo so, hai lavorato con Aid e stanno sempre aspettando le fatture come hai detto tu".
Si tratta di ipotesi, che gli investigatori stanno vagliando e su cui stanno cercando eventuali riscontri. Già piuttosto definito appare invece il quadro per quanto riguarda i lavoratori lasciati al verde e quelli in nero, con tanto di riconoscimento di debiti e di situazioni irregolari da parte delle coop, come emerge dai verbali delle vertenze presso l'Ispettorato del lavoro di Latina, che Repubblica ha potuto esaminare.
Ai lavoratori mancano stipendi per 400 mila euro
Le coop avevano trovato un'intesa, davanti proprio all'Ispettorato, per il pagamento dilazionato dei debiti accumulati nei confronti di alcuni lavoratori, ma quelle somme promesse non sarebbero arrivate. Mancano stipendi per circa 400 mila euro. "Tali somme - ha dichiarato già un mese fa Gianfranco Cartisano, segretario del sindacato - corrispondenti a competenze non pagate, sono state confermate dalle coop Karibù e Consorzio Aid, che dopo richieste di intervento inviate da Uiltucs all'Ispettorato avevano raggiunto accordi sul pagamento dilazionato delle spettanze, purtroppo oggi non rispettato".
Il sindacato sta quindi insistendo affinché il prefetto di Latina, Maurizio Falco, blocchi i pagamenti alle due coop per i servizi affidati dalla Prefettura e con quel denaro paghi chi attende ancora la retribuzione per l'attività svolta.
"Non accettiamo, come dichiarato spesso dalle affidatarie, che il ritardo dei pagamenti delle retribuzioni è causa dei ritardi degli enti che forniscono ed aggiudicano i servizi. Gli enti - ha sottolineato Cartisano - compreso l'Ufficio territoriale del Governo, non hanno ritardi sul pagamento dei servizi". "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?", continua a chiedere il segretario di Uiltucs.
Aboubakar Soumahoro: "No comment"
Soumaharo, ex sindacalista, paladino dei braccianti e autore di Umanità in rivolta, da sempre sostiene di battersi contro lo sfruttamento e a difesa della dignità dei lavoratori stranieri. Ha fatto ingresso alla Camera indossando degli stivali di gomma, specificando che "non devono essere più intrisi dal fango dell’indifferenza e dello sfruttamento". Si sta battendo contro la nuova guerra alle Ong e agli sbarchi portata avanti dal governo di Giorgia Meloni, per cui si è recato anche al porto di Catania mentre i naufraghi erano bloccati sulla Humanity 1.
Su quanto sta emergendo con le coop della suocera - vincitrice del Moneygram Award 2018 come imprenditore dell'anno di origini straniere in Italia - e della moglie, più volte impegnata sul tema dei migranti sia con le autorità nazionali che europee, però sinora non è arrivata una parola da parte sua.
Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 novembre 2022.
Quella sulle coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro è più di un'indagine esplorativa. I carabinieri stanno indagando ma sulla Karibu e sul Consorzio Aid, incaricate da numerosi enti di assicurare servizi di accoglienza per richiedenti asilo, già da mesi stanno lavorando anche i finanzieri del Nucleo di polizia economico- finanziaria e gli accertamenti sono in una fase avanzata.
Il procuratore capo di Latina, Giuseppe De Falco, in una nota ha specificato che le Fiamme gialle sono state incaricate di far luce su «eventuali profili di rilievo penale connessi ai diversi temi di rilevanza della complessa vicenda» . E ha aggiunto « che le indagini sono sviluppate con il dovuto riserbo».
Fonti qualificate assicurano intanto che a breve verrà chiuso il cerchio e che già sono stati messi in luce diversi aspetti su un caso esploso con 26 lavoratori che reclamano 400mila euro di stipendi non pagati, sollevato dalla Uiltucs all'Ispettorato del lavoro, e che si è poi allargato a ipotesi di richieste di fatture false per effettuare i pagamenti e a migranti minorenni che hanno riferito di condizioni pessime delle strutture in cui erano ospitati, senza acqua né luce.
I finanzieri stanno inoltre indagando a fondo sulla gestione delle due coop, sui debiti milionari accumulati, partendo da quelli con l'erario, sull'ipotesi di denaro transitato in istituti di credito del Ruanda, la terra d'origine di Marie Terese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, suocera e moglie dell'onorevole di Alleanza Verdi e Sinistra, e sui contatti degli esponenti delle cooperative.
Soumahoro intanto, dopo aver reagito alla notizia sulle indagini parlando di «falsità» contro di lui, per la prima volta interviene su Karibu e Consorzio Aid, ma soltanto per sostenere che non sa nulla di quello che fanno moglie e suocera e per ribadire che lui comunque è estraneo alla vicenda.
L'onorevole, tramite l'avvocato Maddalena Del Re, sostiene che i presunti maltrattamenti nei confronti dei minori se si rivelassero veri rappresenterebbero una vicenda «molto grave», che ha fiducia nella magistratura, ma che lui ha appreso la stessa solo dalla stampa, «nonostante il rapporto affettivo» con moglie e suocera e dunque non può rilasciare dichiarazioni in merito. Il deputato poi conclude ribadendo che è «estraneo alle vicende narrate».
«Sono state poste in essere le azioni necessarie per procedere alla riscossione dei crediti che la cooperativa vanta nei confronti della pubblica committenza, nel tentativo di soddisfare le posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori» , assicura invece Marie Therese Mukamitsindo. «Il nostro interesse rimane quello di tutelare la forza lavoro e il riconoscimento delle retribuzioni non corrisposte», sottolinea Gianfranco Cartisano, segretario Uiltucs.
Il caso è però oggetto di dibattito all'interno della stessa Alleanza Verdi e Sinistra. Tanto che la senatrice Ilaria Cucchi specifica che, se confermata, la vicenda è gravissima: «Riguarderebbe la violazione dei diritti fondamentali dell'essere umano, tema sul quale, io, non faccio sconti a nessuno, anche perché l'ho vissuto, drammaticamente, sulla mia pelle».
Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 novembre 2022.
«C'era sempre poco cibo e i ragazzi avevano fame». Luisa, chiameremo così una 36enne che lavorava come cuoca e come interprete in una struttura gestita dal Consorzio Aid nel capoluogo pontino, conferma le denunce- shock fatte dai migranti minorenni sulle condizioni in cui erano costretti a vivere nei centri portati avanti dalle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro, operanti nelle province di Roma e Latina.
«Parlo arabo e ho lavorato lì fino al 31 maggio scorso » , racconta la donna. In quella casa erano ospitati dieci minorenni, 5 egiziani e altrettanti tunisini, di età compresa tra i 14 e i 17 anni. «Le condizioni - assicura - erano pessime. Non compravano vestiti ai ragazzi. Quando gli ospiti sono arrivati hanno ricevuto una tuta, un pigiama, un paio di scarpa, uno di mutande e una giacca. Poi basta. «Dovevano uscire e lavorare per potersi vestire » , aggiunge.
Ragazzini che sarebbero stati costretti a soffrire il freddo. «Chiedevano coperte - ricorda Luisa - i termosifoni non funzionavano bene e la caldaia spesso andava in tilt, col risultato che non c'era sempre acqua calda».
Ai minori non sarebbe stato garantito neppure il pocket money di 10 euro a settimana. Proprio come era stato denunciato in passato da migranti adulti ospiti di altre strutture gestite dalla Karibu, che nel corso degli anni si sono resi protagonisti di proteste eclatanti. «A quei ragazzini - assicura la cuoca - non davano quasi mai la cosiddetta paghetta e quando sono stati trasferiti erano 4 mesi che non la vedevano » .
I minori avrebbero però dovuto fare i conti anche con la fame. «C'erano sempre difficoltà col cibo - sostiene la cuoca - e a volte la responsabile spendeva di tasca sua per far mangiare qui minori. Io mi dovevo arrabbiare per far portare degli alimenti. Ma la spesa non bastava » .
Luisa afferma che di quel problema ha parlato spesso con la stesa suocera di Soumahoro: «Doveva provvedere lei alle forniture, ma il cibo appunto era poco e non dava spiegazioni. Quando la chiamavo diceva di far mangiare ai ragazzi il riso in bianco». Senza contare che, come appunto denunciato da diversi minorenni, la struttura sarebbe rimasta anche senza luce.
« Non pagavano le bollette, dicevano che non avevano soldi - dichiara la 36enne - e per dieci giorni siamo rimasti senza corrente elettrica». Infine la piaga dei mancati pagamenti ai dipendenti. « A noi - conclude Luisa - i pagamenti non arrivavano mai. Io ero anche incinta. Ho quattro bambini e senza soldi è difficile sopravvivere » . La risposta data dalla coop? « Lo Stato non ci paga e noi non possiamo pagare».
Stesso quadro tracciato da Monica, 37 anni, di origine eritrea e residente a Roma. «Lavoravo come operatrice in una struttura per minori a Latina - sostiene - ho tre bambini e sono in attesa di dieci mesi di stipendio. Marie Terese mi ha sempre detto che non ha soldi » .
Le condizioni del centro pontino? « Mancava tutto, dal cibo alla corrente, fino all'acqua. Sul cibo dicevano che dovevamo farci bastare quel poco che portavano. Poi, senza avvisarci, hanno mandato i ragazzi in altre strutture a Napoli, Frosinone e pure in Calabria ».
Fabio Tonacci per repubblica.it il 21 novembre 2022.
Qualche errore è stato fatto, ma Maria Therese Mukamitsindo giura che non un euro di denaro pubblico sia finito nelle sue tasche o in quelle dei suoi familiari. "Tutto è stato speso per i rifugiati, ai quali ho dedicato 21 dei miei 68 anni. Tutto è rendicontato e posso provarlo".
La signora, originaria del Ruanda, è presidente della coop Karibu, nata nel 2001 nell'Agro pontino, che dopo la Primavera araba gestiva 154 dipendenti per 600 posti letto, divisi in progetti Sprar e Cas. E per i quali riceveva dallo Stato fino a 10 milioni all'anno.
Accanto a lei, in quest'intervista a Repubblica che è la prima concessa dopo la notizia dell'indagine della procura di Latina su mancati pagamenti, malsane condizioni dei centri e violazioni dei contratti, siede la figlia, Liliane Murekatete, 45 anni, compagna del sindacalista Aboubakar Soumahoro, deputato indipendente della lista Verdi-Sinistra Italiana.
"Lui non si è mai interessato alla coop, né al Consorzio Aid di cui fa parte Karibu", premette Liliane. "In famiglia non ne parliamo mai".
All'Ispettorato del lavoro risultano 400 mila euro di stipendi arretrati e i dipendenti di Karibu si sono rivolti al sindacato Uiltucs. Hanno ragione?
Maria Therese: "Non abbiamo soldi da dargli perché lo Stato non ci paga in tempo! Nel 2019, quando Salvini ha ridotto da 35 a 18 euro il rimborso per migrante tagliando assistenza sociale, corsi di italiano e psicologi, ho lasciato l'accoglienza per dedicarmi a progetti di integrazione. Ho diminuito i dipendenti, ma 54 li ho tenuti.
Karibu ha vinto i bandi 'Perseò dell Viminale, 'Perla' della Regione Lazio e un altro con l'8 per mille. Tuttavia, tra burocrazia e Covid i fondi arrivavano anche dopo un anno e mezzo". Marie Therese Mukamitsindo Non così in ritardo da giustificare il mancato stipendio, sostiene il sindacato.
M.T.: "Ho i bonifici con le date e una lettera di sollecito della prefettura al comune di Roccagorga che ci deve 90 mila euro. Quello di Latina 100 mila. Per il progetto 'Perla' contro il caporalato ci hanno dato la metà degli 80 mila dovuti, da quello sull'8 per mille del 2019 abbiamo ricevuto 80 mila su 157 mila solo nel 2022. Siamo andati in cassa integrazione, non ci dormivo la notte".
Liliane: "Sono quattro anni che mia madre non ha stipendio, è un operaio dello Stato e nessuno la difende. Quando si parla del business dell'accoglienza si casca nella narrazione di Salvini e ci sta cascando anche la sinistra".
M.T.: "Attingendo ai miei risparmi ho versato alla coop 45 mila euro. Il contesto in cui operiamo è complicato, CasaPound da anni ci attacca e ci minaccia".
Come pensavate di andare avanti senza pagare gli operatori?
M.T.: "Il mio errore è stato non licenziarli prima. Quando ci siamo accorti che gli anticipi dello Stato arrivavano con lentezza avrei dovuto avere il coraggio di farlo, ma li conosco da vent'anni e ho preferito aspettare".
Pare che ci siano tracce di pagamenti effettuati da conti esteri. A chi fate gestire la contabilità?
M.T.: "Barbara, una commercialista indicataci dalla Lega delle cooperative. Conserva le fatture della spesa, le ricevute dei pocket money, i registri... Siamo sottoposti a controllo della Prefettura, che autorizza il saldo delle fatture solo dopo verifica. Pagamenti dall'estero? Impossibile, abbiamo un unico conto con Banca Intesa".
"Manca l'elettricità e l'acqua", "il cibo è scadente", "non ci danno i vestiti", "ci trattano male", "sono razzisti": sono alcune delle testimonianze dei minorenni del vostro centro di Latina finite in procura e di cui ha dato conto Repubblica. Cosa rispondete?
M.T.: "I ragazzi, che hanno un tutore legale, non si sono mai lamentati con noi. A luglio si è rotto l'impianto idraulico e abbiamo chiuso quello elettrico per precauzione, quindi abbiamo chiesto al comune di trasferirli in altra struttura".
L.: "E quella frase sul razzismo è riferita a uno dei posti dove sono stati portati dopo".
Però di cibo non sufficiente parlano anche due dipendenti, tra cui la ex cuoca. Come lo spiegate?
M.T.: "La cuoca è arrabbiata perché deve essere ancora pagata, il contratto le è scaduto. Dei ragazzi non me lo spiego, forse sono manipolati".
Da chi?
M.T.: Dal sindacato. È il sindacato che è andato da loro, e mi chiedo se sia corretto raccogliere testimonianze senza il permesso del tutore legale".
Agli atti c'è una chat in cui un lavoratore del Consorzio Aid è invitato a spedirvi una fattura "per metà dell'importo". I pm credono sia un contratto irregolare.
M.T. : "Del Consorzio sono consigliera, ma questa storia l'ho saputa per caso. Cercavamo un mediatore che parlasse arabo e si è presentato un egiziano, diceva di avere i documenti in regola. Ha lavorato per noi per un mese come manutentore nel centro per i dieci minorenni che abbiamo a Latina, faceva anche da mediatore. Abbiamo scoperto solo dopo che non aveva documenti e, supponiamo, neanche il permesso di soggiorno".
Il Consorzio della famiglia del sindacalista Soumahoro che fa lavorare qualcuno al nero e senza permesso di soggiorno. È un pasticcio, si rende conto?
M.T. : "Quel caso è stato gestito con leggerezza, se l'avessi saputo non l'avrei permesso".
L.: "Il mio compagno non è al corrente di niente. Oltretutto la Karibu non è mia, contrariamente a quanto leggo sugli articoli dei giornali. Ci sono entrata solo alla fine del 2017 per dare una mano a mia madre con la riorganizzazione. Prima lavoravo per il rappresentante della Presidenza del consiglio per l'Africa, sia durante il governo Berlusconi sia con Prodi. Per un anno sono stata alla Karibu gratis, poi ho conosciuto Aboubakar, sono rimasta incinta e sono andata in maternità. A luglio di quest'anno il rapporto di lavoro si è concluso".
La Lega dei Braccianti di Soumahoro ha sede allo stesso indirizzo di Latina della Karibu. Possibile che lui non sapesse proprio niente di questi problemi?
M.T. : "È una sede come tante altre, lui non veniva mai. Ci ha messo un ragazzo per fare campagne di sensibilizzazione sui braccianti sfruttati".
L.: "L'obiettivo è chiaramente Aboubakar, vogliono affossarlo. Guarda caso un mese dopo il suo ingresso in Parlamento, e subito dopo essere andato a Catania per difendere lo sbarco dei migranti, scoppia questo scandalo".
Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 21 novembre 2022.
Ieri è stata la giornata di Aboubakar Soumahoro. Il deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana si è difeso sia sui social network, sia sui giornali.
Al centro dell'attenzione per l'inchiesta della procura di Latina sulle due Cooperative riconducibili alla sua famiglia- Karibu e Consorzio AidSoumahoro, che risulta estraneo ai fatti, adesso sta cercando soprattutto di allontanare le nubi da sua moglie, Liliane Murekatete, tirata in ballo per il suo ruolo all'interno di una delle due società finite nel mirino dei pm e del ministero delle Imprese (la Karibu, appunto) per presunte irregolarità gestionali.
Il Corriere della Sera definisce l'atteggiamento del deputato nei confronti della consorte classe 1977, ruandese, «protettivo». «Mia moglie è attualmente disoccupata. Non ha nessuna cooperativa. Quando vorranno sentirla, fornirà tutti i chiarimenti».
Analoga affermazione Soumahoro ha fornito a Repubblica, negando ancora una volta qualsiasi ruolo di Liliane nelle società: «Liliane non possiede nessuna cooperativa, non fa parte di nessun Cda e non è mai stata all'interno del Consorzio Aid. È vero che è stata una dipendente della Karibu, ma allo stato attuale è disoccupata».
Le visure storiche scaricate dalla Camera di commercio di Frosinone e Latina, però, raccontano un'altra storia. Almeno fino al 17 ottobre scorso, quando è stato estratto il documento.
La Karibu è presieduta da Marie Terese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro (che, peraltro, secondo quanto riferito dal quotidiano La Verità sarebbe indagata dalla procura di Latina con l'ipotesi di malversazione di erogazioni pubbliche). Ma Liliane Murekatete, moglie del deputato, al 17 ottobre scorso risultava in possesso della carica di «consigliera» di amministrazione.
Spulciando la visura camerale, balza agli occhi che Liliane, lungi dall'essere una semplice «dipendente», è stata nominata nel Cda il 9 marzo 2022, ma la sua prima iscrizione nel registro della società risale addirittura all'8 maggio 2018, come conseguenza della «nomina alla carica di consigliere con atto del 3 aprile 2018».
Non solo: Liliane risultava anche socia amministratrice della Venere The Wedding planer s.n.c, società operante nell'«organizzazione di convegni e fiere». Incarico ricoperto dal 21 giugno 2002.
Insomma, se di disoccupazione si tratta, questa è intervenuta dopo il 17 ottobre scorso, meno di un mese fa. E Liliane non risultava inquadrata come «dipendente», bensì in un caso come «consigliera», e nell'altro come «socia amministratrice».
Le stranezze non finiscono qui. Basta dare un'occhiata al profilo Twitter della Karibu per imbattersi, tra gli account seguiti dalla società specializzata nei «servizi domestici a sostegno del bisogno familiare» e nelle attività di «accoglienza e integrazione» degli immigrati, in marchi di alta moda come Missoni, Fendi, Valentino, Gucci, Ferragamo, Armani, Versace, Vogue Italia, Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Prada.
Nomi che c'entrano poco, per non dire nulla, con l'attività istituzionale della Karibu, che nella presentazione del proprio profilo inserisce solo tre parole: «Accogliere, formare, integrare». E qui arriva in soccorso un altro social, ovvero Instagram, che forse spiega da dove arriva l'interesse di Liliane Murekatete per i marchi di lusso e abbigliamento.
L'account della moglie di Soumahoro - seguito ovviamente anche dal marito, come mostriamo nella foto pubblicata a sinistra - mostra una serie di immagini che testimoniano la passione di Liliane perla griffe.
Si possono ammirare pose di Liliane con borse, valigie di lusso e occhiali. Lady Murekatete non fa nulla per nascondere la sua inclinazione al buon gusto, con istantanee che la ritraggono in quelli che sembrano ascensori e hall di hotel.
Lo stesso accade su LinkedIn, dove nella foto profilo si nota la custodia di un telefono targata Luis Vuitton. Vera o tarocca che sia, conferma la predisposizione per i marchi del lusso. Una ricerca dell'eleganza, con il perfetto abbinamento vestito-valigia-scarpe, che però cozza non solo con la missione della sua Cooperativa, ma anche con l'immagine diffusa dal marito deputato, celebre per essersi presentato in Parlamento, nella seduta che inaugurato la nuova legislatura, con gli stivali usati dai lavoratori nei campi. «Portiamo questi stivali in Parlamento, gli stessi che hanno calpestato il fango della miseria», spiegò proprio su Instagram, lo stesso social dove la moglie Liliane sfoggia i suoi capi, il deputato di sinistra.
“Minori pagati a nero e sfruttati” nelle coop legate a Soumahoro. Via all'indagine. Tommaso Carta su Il Tempo il 18 novembre 2022
Un'inchiesta rischia di offuscare l'immagine di Aboubakar Soumahoro, dallo scorso ottobre deputato dell'Alleanza Sinistra Verdi ma da molto prima volto simbolo della difesa dei diritti dei lavoratori immigrati in Italia. Sono in corso accertamenti da parte dei carabinieri di Latina dopo la denuncia del sindacato Uiltucs che ha presentato un esposto su presunte irregolarità nei pagamenti e nei contratti stipulati con alcuni migranti impiegati in due cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera del sindacalista e deputato. Progetti, tra gli altri, finanziati anche dalla Prefettura di Latina. Al vaglio dei militari dell'Arma e della procura di Latina ci sarebbero alcuni documenti trovati all'esterno della sede di una delle cooperative mentre era in corso un trasloco. Verifiche, anche in collaborazione con l'Ispettorato del Lavoro, sugli incartamenti. L'accusa della procura di Latina riguarda le coop Karibu e Consorzio Aid. Alcuni minorenni hanno denunciato al sindacato Uiltucs di essere stati maltrattati, privati di acqua e luce, altri di non ricevere lo stipendio da due anni e di lavorare a nero.
Soumahoro ha dedicato alla vicenda un lungo post su Facebook: «Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine dell'arma dei carabinieri, di cui ho sempre avuto e avrò fiducia». «Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale - ha continuato il parlamentare - per questo, dico a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico, di mettersi l'anima in pace. A chi ha deciso, per interessi a me ignoti, di attaccarmi, dico: ci vediamo in tribunale! Ho dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione». Nonostante la precisazione di Soumahoro, Fratelli d'Italia ha annunciato un'interrogazione alla Camera dei deputati sulla vicenda al ministro del Lavoro Marina Elvira Calderone «per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative. I fatti riportati dagli organi di stampa, se confermati, sono gravi e meritano un'immediata azione di trasparenza».
Dura la nota della deputata leghista Simonetta Matone: «Vorremmo sapere dall'onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all'onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare "chi vive nel fango della miseria e del caporalato", la "miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l'affitto"». Attacca anche il capogruppo leghista nel Consiglio regionale del Lazio Angelo Tripodi, ricordando come la coop su cui indaga la procura di Latina sia stata «sbandierata da anni dagli amministratori del Pd e dall'ex sindaco di Latina Damiano Coletta come modello dell'accoglienza in Italia», in linea «con il segretario del Pd, Enrico Letta, e il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che ha elargito fondi regionali al sistema dell'accoglienza». Uno scenario preoccupante, in cui si interseca il legame tra la coop e alcuni Comuni governati dal Pd e dalla sinistra ormai da anni: gli affidamenti diretti per centinaia di migliaia di euro e il sistematico ricorso alle proroghe, qualche amministratore locale dipendente della coop e, addirittura, alcuni funzionari pronti ad affittare i propri immobili» conclude Tripodi.
Cooperative gestite dalla famiglia di Soumahoro, scatta l'interrogazione parlamentare. Il Tempo il 17 novembre 2022
Il gruppo Fratelli d’Italia della Camera dei Deputati depositerà nelle prossime ore un’interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone, «per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid», che sarebbero oggetto «di inchiesta da parte della Procura di Latina, legate alla suocera e alla moglie del parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. »«I fatti riportati dagli organi di stampa, se confermati, sono gravi e meritano un’immediata azione di trasparenza». Lo comunica in una nota il gruppo FdI della Camera dei deputati.
Insorge anche la Lega. «Vorremmo sapere dall’onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all’onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare "chi vive nel fango della miseria e del caporalato", la "miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l’affitto". Perché apprendere, ove le notizie fossero confermate dall’inchiesta dei magistrati di Latina, di minorenni lasciati in condizioni di sofferenza senza cibo, acqua o luce rischia di ridimensionare, e di molto il suo ruolo di paladino degli ultimi». Lo dichiara in una nota la deputata della Lega Simonetta Matone.
Soumahoro, il Pd lo scarica: "Avevamo sollevato dubbi ma siamo stati ignorati". Dario Martini su Il Tempo il 24 novembre 2022
Solo adesso il Partito democratico batte un colpo su Aboubakar Soumahoro, il "deputato con gli stivali" eletto con l'Alleanza Verdi-Sinistra finito al centro delle polemiche per le cooperative attive nell'accoglienza dei migranti gestite dai suoi familiari. In particolare la moglie Liliane Murekatete, consigliera d'amministrazione della coop Karibu, e la suocera Marie Therese Mukamitsindo, presidente della stessa Karibu e consigliera del consorzio Aid. Quest' ultima è indagata dalla Procura di Latina per malversazione.
Gli inquirenti vogliono capire se i fondi pubblici erogati dallo Stato e dagli enti locali per assistere gli immigrati siano serviti ad altri scopi. «Alcuni elementi di criticità e di opacità rispetto alle cose emerse circolavano anche in precedenza», svela Roberto Solomita, segretario dem a Modena, dove Soumahoro era candidato nel collegio uninominale come nome di punta di Verdi e Sinistra italiana in coalizione con il Pd. Il responsabile locale del partito di Enrico Letta aggiunge un particolare significativo: «Io ne ho parlato con il Pd e gli elementi sono stati portati all'attenzione. Nei pochi giorni che avevamo a disposizione prima delle elezioni abbiamo immaginato che le condizioni della candidatura fossero state verificate. Noi non abbiamo fatto un'indagine approfondita, ma abbiamo fatto presente ai responsabili del Pd che già circolavano cose sul conto di Soumahoro. Abbiamo semplicemente detto: "Gira questa roba qui, siamo proprio sicuri?". Ce lo avevano evidenziato in particolare anche alcuni rappresentanti dei sindacati confederali che con lui hanno rapporti più stretti. Questa vicenda è semplicemente lo specchio della gestione delle candidature nell'ultima tornata elettorale, che ha prodotto gli esiti cui abbiamo tutti assistito». Come sottolinea la Repubblica, Solomita vuole specificare che la scelta fu operata «dagli alleati di Sinistra Italiana e Verdi» e che non c'era alcuna riserva sulla figura di Soumahoro. I leader di Verdi e Sinistra italiana hanno sollecitato più volte Soumahoro ad incontrarli per fornire i dovuti chiarimenti. Il paladino dei braccianti ha sempre rimandato. Ieri, però, non ha potuto sottrarsi ulteriormente al confronto. Soumahoro, Bonelli e Fratoianni, infatti, si sono visti a Montecitorio, dove si trovavano per partecipare alla seduta pomeridiana della Camera. Il clima non era dei migliori. Dopo i lavori dell'Aula, i tre si sono riuniti negli uffici parlamentari per due ore, fino alle 21. Ma non è stato sufficiente.
I tre si rincontreranno oggi. Bonelli e Fratoianni sono rimasti molto irritati per il video pubblicato su Facebook alcuni giorni fa con cui Soumahoro, piangendo a dirotto, si scagliava contro chi lo «vuole morto». Un'iniziativa non concordata che non ha contribuito a fare chiarezza su quanto sta accadendo. Ha affermato che la consorte non lavora più alla Karibu da giugno scorso, quando invece almeno fino ad ottobre era ancora consigliera d'amministrazione. Ha detto anche di non avere mai avuto nulla a che fare con le due cooperative, quando invece alcuni operatori sociali hanno raccontato la sua presenza negli uffici della suocera. Negli stessi locali dove si trova la sua Lega dei braccianti, il sindacato con cui porta avanti le battaglie in difesa dei profughi sfruttati. Un movimento da sempre molto attivo nel Foggiano. Ed è proprio da San Severo in Puglia che arrivano le accuse della Caritas locale, secondo cui l'attività di Soumahoro «è solo virtuale». È bene ricordare che il deputato non è indagato. E che la sua versione merita di essere credute fino a prova contraria. Proprio per questo motivo Bonelli e Fratoianni non capiscono per quale motivo fino a ieri si sia sempre sottratto ad un incontro. «Siamo un'alleanza che fa del garantismo un principio importante - spiega il leader dei Verdi - Certo è che abbiamo detto che c'è una questione politica su cui Aboubakar deve delle spiegazioni non solo a noi ma anche a chi ci ha votato». Comunque, fa sapere Bonelli, non è prevista né la sospensione né l'espulsione dal partito.
Soumahoro in lacrime su fb,"sono persona pulita, mi volete morto". (ANSA il 20 Novembre 2022) - "Mi dite cosa vi ho fatto? Da una vita sto lottando per i diritti delle persone. Vent'anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto. Ho sempre lottato". Lo dice in lacrime Aboubakar Soumahoro, deputato eletto con l'alleanza Verdi-Si in un video postato su Facebook. Con la voce rotta dal pianto, Soumahoro - dopo l'indagine su eventuali irregolarità in due cooperative nelle quali hanno avuto dei ruoli la moglie e la suocera - aggiunge: "Ma figuratevi se questa regola non sarà rispettata da parte mia anche nei confronti della mamma della mia attuale compagna".
"Voi avete paura delle mie idee, di chi lotta", aggiunge. "Pensate di seppellirmi ma non mi seppellirete. Sono giorni che non dormo. Io non lotto solo per Aboubakar, non ho mai lottato per Aboubakar. Ho lottato per le persone che voi avete abbandonato. Mia moglie è attualmente disoccupata, è iscritta all'Inps, non possiede allo stato attuale nessuna cooperativa. Perché non parlate con lei? Quando l'ho conosciuta lavorava già nell'ambito dell'accoglienza. Parlate con mia suocera, chiedete a lei che è proprietaria della sua cooperativa, e io sarò il primo ad andare lì, a lottare, a scioperare con i dipendenti e difendere i loro diritti", prosegue.
"La montagna di fango non seppellirà le mie idee, probabilmente riuscirete a seppellirmi fisicamente, ma non riuscirete mai a seppellire le nostre idee, le idee degli invisibili", di "quel mondo che voi avete abbandonato". "Io sono una persona integra, pulita", rivendica il parlamentare.
DAGOREPORT il 23 novembre 2022.
Il caso Soumahoro e lo scandalo che ha investito (l'ex) paladino dei braccianti sta facendo impazzire i “sinistrati” Fratoianni e Bonelli. Cioè i leader di Sinistra Italiana e Verdi che hanno voluto candidare l'ivoriano alla Camera dei Deputati, e che ora vengono sbeffeggiati sui social (e dai militanti) che li attaccano per la scelta improvvida.
Dalle stelle dello scranno in parlamento alle stalle delle inchieste dei pm di Latina, che indagano sulle cooperative della suocera, il passo è stato brevissimo. E la situazione peggiora perché i giornali, di giorno in giorno, pubblicano nuovi imbarazzanti dettagli sulla vicenda, tra borse Vuitton della moglie Liliane e testimoni che parlano di sfruttamento avvenuti nelle coop, fino alla Caritas che sostiene che Soumahoro andava nei centri di accoglienza vestito da Babbo Natale portando doni a bambini che non esistevano. E poi ci sono i controlli del ministero e i tanti dubbi sui bonifici della cooperativa verso il Ruanda, dove i familiari di Aboubakar avevano un resort con piscina.
Bonelli però si giustifica con gli amici: non è lui il vero colpevole della scelta dell’ivoriano. Il suo nome è stato “spinto”, lo hanno raccomandato in tanti. Chi? I soliti tromboni della sinistra romana e milanese. Ha ragione il povero Bonelli, preso in giro ieri da un perfido articolo del “Corriere della Sera” firmato da Goffredo Buccini. Soumahoro è diventato un'icona della sinistra per colpa di altri. E’ stato inventato da L'Espresso, allora guidato da Marco Damilano. L’ivoriano fu spiattellato in copertina in contrapposizione a Salvini (il titolo era tutto un programma ideologico: “Uomini e no”).
Soumahoro ha scritto un libro per Feltrinelli, la casa editrice della gente che piace e si piace, ed è diventato famoso grazie alle ospitate a “Propaganda Live” il circoletto romanello di Zoro, Makkox e Damilano (ora a Raitre). In poco tempo, Soumahoro è diventato “icona”. Volto spendibile alla bisogna per ogni intemerata “anti”: anti-Salvini, anti-razzista, anti-destra e via politicando. Dal palchetto votivo, Aboubakar è cascato in lacrime spiegando, in un video diffuso sui social, che eventuali sfruttamenti di minori sono avvenuti a sua insaputa. Non il massimo per il paladino dei diseredati.
Il programma di Zoro, che piace tanto a Enrico Letta (uno che la politica dovrebbe studiarla e non farla), di solito fa la morale ai “cattivoni” con le lezioncine di onestà-tà-tà. Avrà sbertucciato Soumahoro, dopo le tribolazioni giudiziarie? Macché! Dopo aver eretto l’ivoriano a nuovo Berlinguer, “Propaganda Live” non ha dedicato nemmeno un minuto allo scandalo del sindacalista.
Poverini, bisogna capirli quei maestrini di etica (e cotica) di Zoro & friends. Devono essere rimasti scottati dai “precedenti”. Tempo fa un altro volto della trasmissione, il chitarrista Roberto Angelini, è finito nella polvere. Il musicista, proprietario di un ristorante, aveva frignato sui social raccontando di avere ricevuto una multa per il tradimento di una dipendente cattiva. Tutti a dargli solidarietà, fino a quando si è scoperto che la ragazza lavorava in nero, e che l'amico di Zoro si era comportato come uno dei tanti paraculi che “Propaganda Live” ama mettere alla berlina. Consiglio spassionato: la prossima volta, caro Zoro, prima di mazzolare qualcuno butta prima un occhio alla polvere sotto il tappeto dei tuoi ospiti…
Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 20 Novembre 2022.
Non è solo la procura di Latina ad aver acceso un faro sulle cooperative gestite dalla famiglia di Aboubakar Soumahoro. A volerci vedere chiaro, dopo le presunte irregolarità denunciate da alcuni lavoratori, è anche il ministero delle Imprese e del Made in Italy, l'ex ministero dello Sviluppo economico, che ha deciso di fare un'ispezione sulle due società amministrate rispettivamente dalla suocera, Marie Terese Mukamitsindo (presidente della Karibu), e dalla cognata, Aline Mutesi (numero uno del consorzio Agenzia per l'inclusione e i diritti, Aid), dell'attuale deputato dell'Alleanza Verdi Sinistra, che risulta estraneo ai fatti.
Proprio dall'Aid prende le mosse la vicenda che sta imbarazzando la sinistra. Sono alcuni lavoratori del Consorzio impegnato nei «servizi di assistenza e integrazione» sul territorio della provincia di Latina di «richiedenti asilo, rifugiati e immigrati» a rivolgersi, nel giugno scorso, alla sede provinciale del sindacato Uiltucs, guidata da Gianfranco Cartisano, per lamentare il mancato pagamento degli stipendi. Alcuni dipendenti lamentano addirittura un ritardo di 15 mesi. Il totale delle retribuzioni non pagate, ha rivelato venerdì scorso Cartisano, arriva a «ben 400mila euro».
L'ultimo bilancio disponibile del consorzio Aid, però, chiuso al 31 dicembre 2020, certifica che la società, si legge nella Nota integrativa abbreviata, «ha ricevuto incarichi retribuiti nel corso del 2020 da diversi Enti appartenenti alla pubblica amministrazione» per un totale di 749.301,68 euro.
Nell'elenco spiccano i 111.464,50 euro incassati il 10 dicembre 2020 dalla prefettura di Latina. Ente che il precedente 27 ottobre ha versato altri 107.717 euro, preceduti dai 105.395,17 euro del 21 settembre e dai 103.672,40 euro del 24 giugno. Data in cui Aid ha incassato altri 99.282,67 euro.
Ma non è stata solo la prefettura di Latina ad affidare incarichi al consorzio guidato da Aline Mutesi: nella lista ci sono anche gli importi versati dal Comune di Termoli e da quello di Latina. La causale spazia, a vario titolo, dal «servizio di gestione dei centri di accoglienza» per la prefettura di Latina, all'«acconto progetto Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr)» per il Comune di Termoli. Il Comune di Latina, invece, ha versato 10mila euro il 7 agosto 2020 per il «bando multimisura per la concessione di contributi in ambito sociale».
Nel bilancio c'è anche l'indicazione degli emolumenti percepiti dal presidente del consiglio di amministrazione, Mutesi: «È previsto un compenso pari ad euro 4.000 mensili al lordo delle trattenute previdenziali e fiscali». In totale per salari e stipendi nel 2020 il Consorzio ha versato, emerge dal conto economico della società, 164.815 euro.
Quanto a Karibu, presieduta dalla suocera di Soumahoro e amministrata anche dalla moglie, Liliane Murekatete, che risulta residente a Sezze, in provincia di Latina, nello stesso indirizzo indicato da Mutesi, rappresentante di Aid, i numeri sono meno lusinghieri. La società, impegnata nei «servizi domestici a sostegno del bisogno familiare, servizi di accoglienza e integrazione sul territorio di richiedenti asilo, rifugiati politici e immigrati», ha accusato per l'anno 2021 «un cambiamento nell'ambito lavorativo specifico della Cooperativa».
I progetti per l'assistenza degli immigrati, infatti, «sono stati quasi tutti messi da parte all'infuori della categoria minori». Il periodo successivo all'emergenza Covid, mettono nero su bianco gli amministratori, è stato negativo, al punto che Karibu «ha dovuto licenziare parecchi dipendenti, visto il cambiamento organizzativo del lavoro».
Un «risultato negativo», come riconosciuto dalla stessa società, che contrasta con quanto percepito, a titolo di emolumento, dalla presidente del Cda, Marie Terese Mukamitsindo, che a quanto riferisce il quotidiano La Verità avrebbe incassato oltre 100mila euro.
Non solo: dalla Nota integrativa al bilancio di esercizio al 31 dicembre 2021, emerge che la spesa per il personale è stata di 865.930 euro (in calo rispetto ai 1.486.308 euro del 2020). E il costo delle prestazioni lavorative dei soci - la Karibu è una cooperativa sociale e quindi a mutualità prevalente di diritto - ha pesato per 392.801 euro. Numeri che rinfocolano le polemiche politiche.
«Aumentano gli indizi di colpevolezza nei confronti dei familiari del deputato Soumahoro, eletto con una formazione politica che a parole predica accoglienza e solidarietà. Bene la procura della Repubblica di Latina sugli accertamenti in merito all'operato delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid», attacca Marta Schifone di Fratelli d'Italia.
Il collega di partito Massimo Ruspandini applaude invece alla decisione del ministro Adolfo Urso (Imprese) di «di disporre un'ispezione sui presunti casi di sfruttamento ed irregolarità. Fratelli d'Italia intende alzare l'attenzione su ogni forma di sfruttamento e violazione dei diritti sui luoghi di lavoro. Andremo avanti per accertare la verità».
In Onda, Paolo Mieli: "Soumahoro? Sono orripilato", cosa non torna. Libero Quotidiano il 20 novembre 2022
“Sono orripilato da questa vicenda”. Paolo Mieli non usa mezzi termini per descrivere quanto sta accadendo ad Aboubakar Soumahoro, massacrato per una vicenda giudiziaria in cui non è coinvolto: al massimo c’entra la famiglia della moglie, ma sarà tutto da accertare. L’onorevole eletto tra le file di Sinistra Italiana non si dà pace: “Perché questo fango? Perché vogliono colpire me? Hanno così paura delle mie idee?”.
Lo sfogo a In Onda, su La7, ha dato il via a una discussione tra gli ospiti presenti in studio. Tra cui proprio Mieli, che si è detto “orripilato” dagli attacchi subiti da Soumahoro: “È vero, come diceva Concita De Gregorio, ci sono dei precedenti sui familiari dei politici, però c’è una velocità sorprendente se consideriamo il rapporto tra quando gli italiani hanno conosciuto Soumahoro e l’inizio di questa iniziativa giudiziaria. Tra l’altro vorrei ricordare che di recente il suo nome è entrato in ballo come possibile segretario del Pd: si è detto che sarebbe una svolta”.
Secondo Mieli l’onorevole sta pagando troppo velocemente il prezzo della notorietà: “Renzi e Boschi sono stati casi scandalosi perché è stato un picchiare per mesi e anni, ma questo caso è troppo veloce anche per chi come me è nel giro da tempo. Appena compare un protagonista nuovo nella politica si mette in moto un giochetto di questo tipo, ma stavolta è tutto troppo veloce”.
Soumahoro si vanta: “Saviano e Lucano sono con me”. Ma chiede aiuto alla Meloni per l’Africa. Lucio Meo su Il Secolo d’Italia il 20 Novembre 2022.
I giornali di oggi grondano di interviste ad Aboubakar Soumahoro, il deputato eletto con i Verdi e Sinistra italiana (nelle liste del Pd) considerato il paladino dei braccianti schiavizzati, ma al centro di una bufera giudiziaria per un’inchiesta della Procura di Latina sull’attività di due coop gestite della moglie e dalla suocera. Maltrattamenti e sfruttamento, perfino di minorenni, queste le pesantissime accuse dalle quali oggi Aboubakar Soumahoro prova a difendersi sui giornali. Chiamando in causa, ovviamente, un presunto disegno politico, su cui Soumauhoro annuncia di aver ricevuto il sostegno di Saviano e del condannato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace…
Gli affari della moglie e della suocera: non ne sapevo nulla…
Su Repubblica a Sohumahoro viene chiesto cosa sapesse degli affari della moglie. “Liliane non possiede nessuna cooperativa, non fa parte di nessun Cda e non è mai stata all’interno del consorzio Aid. È vero che è stata una dipendente della Karibu, ma allo stato attuale è disoccupata- Cosa c’entro io con quella cooperativa? Perché non sono andati a chiedere notizie a mia suocera o a mia moglie? È la dimostrazione che è solo fango per delegittimare me e la mia lotta…“, dice il deputato di sinistra. Che si rifiuta di entrare nel merito delle accuse: “La mia resistenza a rispondere a queste domande non è dovuta a una volontà di eluderle. Però, non avendo io vissuto nulla in merito a questa vicenda, non posso fare affermazioni approssimative o per sentito dire con delle indagini della procura in corso”.
Soumahoro però fa sapere che Saviano e Mimmo Lucano sono con lui…
Guarda caso, in questa vicenda spunta anche Roberto Saviano, protagonista dell’incontro tra Soumahoro e la moglie, conosciuta nel corso di un evento pubblico proprio a Latina, “dove ero andato insieme al mio amico Roberto Saviano”. “Lei + la donna che amo e per amarla non mi serve il suo casellario giudiziario. Liliane è la persona che, quando l’Italia era in lockdown, stava da sola a casa con un neonato, mentre io giravo il Sud per distribuire mascherine ai braccianti e alle persone bisognose. Adesso, quando esco di casa, mio figlio mi dice: papà, vai a fare la libertà”. Inutile dire che il deputato ha incassato la solidarietà del suo amico, e non solo. “Ringrazio Saviano, ringrazio il mio fratello e compagno Mimmo Lucano, ringrazio le attiviste e gli attivisti della comunità Invisibili in Movimento, ringrazio tutta la comunità virtuale che si è schierata dalla mia parte. Persino Maurizio Gasparri ha scritto che non ho alcuna responsabilità. Aspetto le prese di posizione degli altri”, dice, poi fa la vittima politica. “Io sono un nemico e un bersaglio ideale per la destra, ma anche per una certa sinistra sono scomodo. Una sinistra che non riesce a schierarsi dalla parte del lavoro, che si ricorda delle donne solo l’otto marzo, che non ha un orientamento chiaro sulla pace, che non dà seguito alle promesse sullo ius soli, che non sa la fatica di un operaio, la precarietà…”.
L’appello alla Meloni per una battaglia comune sull’Africa
Con Giorgia Meloni, fu protagonista di una polemica nel giorno della fiducia al governo, quando si “offese” perché il presidente del Consiglio gli si era rivolto con tu, salvo poi scusarsi. La Meloni ha proposto un piano per l’Africa, la convince? No, ma apre a una collaborazione con il governo. “Per un africano, fatevelo dire da un italiano diversamente abbronzato, quel piano ricorda troppo i tempi della colonizzazione. Nessun governo africano farà accordi con chi esprime ostilità verso i figli e le figlie del continente. Non bisogna costruire un piano per l’Africa, ma un piano insieme agli africani. Se Meloni è d’accordo, sono pronto a farlo con lei in Parlamento...”.
La precisazione di Gasparri
“Leggo una intervista dell’onorevole Soumahoro nella quale afferma che il sottoscritto avrebbe escluso ogni sua responsabilità nelle vicende relative a un presunto sfruttamento di lavoratori stranieri nella zona di Latina. – afferma il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. – Io da garantista mi sono limitato a prendere atto che allo stato non risulta nessun coinvolgimento del neo parlamentare in queste vicende di cui abbiamo appreso. Però dico con analoga franchezza che risulta difficile immaginare che l’onorevole Soumahoro non si fosse accorto del disordine che avrebbe accompagnato vicende di lavoro che potrebbero aver coinvolto sue familiari. Inoltre la vicenda fa emergere l’ipotesi di gravi forme di sfruttamento di lavoratori stranieri da parte di organizzazioni gestite da loro connazionali. Quindi non posso lanciare accuse verso il neo deputato, tuttavia gli consiglio con pacatezza di indossare nuovamente gli stivali di gomma che ha usato all’esordio parlamentare, per visitare nuovamente le zone dove hanno agito le sue familiari, così conoscerà i fatti che dice di ignorare. Io fino a prova del contrario resto convinto della sua estraneità a condotte non corrette. A tutte le sue altre narrazioni credo un po’ meno. E lo invito a riflettere sulla opportunità di politiche più severe in materia di immigrazione, utili a impedire vergognose forme di sfruttamento del lavoro”.
Soumahoro massacrato perché è negro, le lacrime e la caccia a testate unificate. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Novembre 2022
Anche se fossero soltanto la parte più artefatta di una patetica messinscena, come pure in tanti gli hanno rinfacciato, le lacrime di Aboubakar Soumahoro rispondevano a un fatto invece verissimo: e cioè che molti gli vogliono male, e pretendono di giudicarlo volendogli male, e gliene vogliono perché è un negro (non si scriva “nero”, per favore, almeno in questo caso). È un negro che ambisce al seggio parlamentare e lo ottiene, e da lì osa denunciare l’ingiustizia che affligge i diversi di pelle e di etnia, i quali solo a causa di questa diversità, non per altro, sono violentati ed emarginati.
È un negro che si permette di mettere in faccia al Paese la verità e l’attualità di un’ingiustizia concentrata su condizioni essenziali, vale a dire anche più intime e originarie rispetto al rango, all’impostazione religiosa, alla formazione culturale; e cioè la verità e l’attualità di un’ingiustizia riassunta in una dicitura tanto facile da pronunciare finché non è questione di sentirsene responsabili, e questa dicitura è “razzismo”: perché di questo e non di altro si tratta. E, su tutto, Aboubakar Soumahoro è il negro preso finalmente in castagna: a cianciare di diritti dei migranti mentre la suocera affarista e la moglie in ghingheri affamavano i minorenni e non pagavano i lavoratori nelle strutture di accoglienza.
Se è vero che quel parlamentare ha reagito in modo poco temperante e forse inopportuno alle prime notizie su questa faccenda (l’annuncio indiscriminato di querele non è mai un granché), è altrettanto vero che a investirne la reputazione e l’immagine, di lì in poi, è stato tutto tranne che la presunta ricerca della verità: e davvero tutto, ma proprio tutto, tranne che l’indignazione per il maltrattamento di cui sarebbero stati destinatari quei migranti e quei lavoratori. Gli uni e gli altri, è il caso di dirlo, solitamente non degni delle cure di attenzione in cui ci si esercita, vedi tu la combinazione, quando neppure il negro, ma anche solo il suo circolo familiare, è lambito da qualche ipotesi di irregolarità.
A quest’evidentissima realtà, ed è un capitolo della stessa ignominia, si risponde osservando che no, che c’entra il colore della pelle?, qui ci sono dei fatti da accertare e non è che si può far censura giusto perché l’implicato è un africano. Col triplice dettaglio che i fatti da accertare son dati per certi, che non risulta che l’africano sia implicato e, soprattutto, che se non fosse stato africano non sarebbe partita la caccia che invece è partita.
Che non era la caccia – che non si è mai vista – al marito e al genero di due tipe ipoteticamente disinvolte, e magari anche qualcosa di peggio, nella gestione di qualche cooperativa, ma puramente e semplicemente la caccia al negro travestita da una specie di Mani Pulite dell’immigrazione: per fare giustizia di certi manigoldi che ancora trattano male gli immigrati in un Paese abituato ad accoglierli felicemente, a farli sentire a casa loro, a non discriminarli mai mai mai, a riconoscere loro ogni diritto, a non dire mai, nemmeno per scherzo, “prima gli italiani”. Aboubakar Soumahoro merita solidarietà non per come è lui: ma per come siamo noi. Iuri Maria Prado
Soumahoro e ipocrisie: dello schiavismo non interessa a nessuno. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 28 novembre 2022
Le piantagioni schiaviste, con gli immigrati incurvi sotto il sole a raccattare ortaggi per un emolumento miserabile, e poi i dormitori di lamiera con le fogne a cielo aperto, e le baraccopoli e i casermoni di periferia che a fine giornata si affollano di quella gente lacera, coinquilina dei ratti in festa in un trionfo di immondizia e deiezioni, non sono episodiche vicende scandalose sfuggite al controlli civile di chi blatera di diritti: sono la realtà risalente e sistematica che offre buona materia elettorale e da comizio a chi non saprebbe che fare senza la riserva di quel degrado. Il regime schiavista cui sono sottoposti quei disgraziati non è l'effetto del neoliberismo selvaggio e dell'oscena logica del profitto che li tiene incatenati al proprio destino derelitto: è l'effetto di un dirittismo declamatorio, analogo alla retorica operaista che ha garantito agli operai italiani i salari più bassi d'Europa, e che trae alimento proprio dall'irreversibilità di quella condizione miserabile. Perché piuttosto che inserirli in un circuito virtuoso della produzione, competitivo, concorrenziale, anziché limitarsi a caricarli sul conto di un welfare simultaneamente insostenibile e straccione, il poverismo della Repubblica fondata sul lavoro preferisce farne una massa in attesa dell'assegnazione del diritto acquisito al sussidio, e per i più meritevoli un posto in lista. Questi giorni di polemica hanno reso solo più spettacolare una realtà manifesta da sempre, e cioè che di quella gente non frega niente innanzitutto a quelli che fanno le mostre di tutelarne i diritti.
Il caso e la gogna. Chi è Aboubakar Soumahoro e perché è stato aggredito da tutti. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Novembre 2022
L’aggressione razzista ai danni dell’onorevole Aboubakar Soumahoro sta proseguendo con il contributo o nell’acquiescenza di pressoché tutto l’arco politico-giornalistico, e ogni giorno che passa si carica di prove a propria denuncia: cioè a denuncia del fatto che appunto di quello si tratta, di una campagna aggressiva che ha molto poco a che fare con l’accertamento della verità, con le propugnate esigenze informative, con il rendiconto cui è chiamato il paladino dei deboli che invece faceva soldi e carriera sulle loro spalle, e ha piuttosto molto a che fare con un pregiudizio ben misurato sul colore della pelle del “talentuoso ivoriano”, come lo chiama qualcuno adoperando il protocollo giudiziario che rinfacciava “furbizia orientale” alla testimone magrebina.
La riprova più tonda e scandalosa di quel tratto razzista, posto a contrassegnare in modo evidente quanto denegato tutto il circo di questi giorni, sta nell’uso, cui ci si è abbandonati a destra e a manca, del più classico argomento difensivo puntualmente impugnato dal razzismo inconsapevole o no: vale a dire che quella matrice sarebbe esclusa considerando che a strillare contro quel signore sarebbero innanzitutto gli stessi che egli pretendeva di tutelare. “Ma quale razzismo?! Sono i migranti, sono gli stessi braccianti neri ad accusarlo!”. Che è quel che dice l’antisemita preso in castagna: “Io ho tanti amici ebrei! E anche loro dicono che sono avari! Anche loro dicono che Hollywood e Big Pharma è tutto un magna magna della lobby ebraica!”.
È comprensibile che questi razzistelli sentano sulla propria coda lo scomodo tallone di chi fa osservare che possiamo girarla come vogliamo, ma siamo il Paese in cui un signore impugna il rosario e lo agita in faccia ai migranti da ributtare in mare in nome di Gesù Cristo, il Paese in cui il medesimo signore annuncia l’invio delle ruspe contro la “zingaraccia”, il Paese in cui la stampa coi fiocchi mette in prima pagina il controllore del treno che fa la ramanzina “Agli africani senza biglietto” (notoriamente gli italiani lo pagano tutti, il biglietto, e quando capita che non lo paghino finiscono in prima pagina col titolo “Acciuffati due di Treviso che viaggiavano gratis”), il Paese in cui il deputato in fregola si fa cronista della razza bianca violentata strillando su Twitter che lo stupratore “È un immigrato”, e sarà evidentemente una pura combinazione se non fa altrettanto quando il bruto è di Abbiategrasso o di Macerata.
E nel Paese in cui queste cose (per non dire di quelle ben peggiori) succedono regolarmente, e senza che esse siano avvertite come l’indice molto preoccupante di un rapporto gravemente disturbato con il diverso, lo straniero, l’appartenente a culture e a ranghi sociali in zone di sospetto, ebbene in un Paese così è comprensibile che non si riconosca, per inconsapevolezza o più spesso per malafede, che a fare le pulci al rogito e alle mutande griffate della moglie di Soumahoro non è la brama di verità ma la tigna razzista che si occupa dei diritti dei migranti, vedi tu la combinazione, quando è il nero a maltrattarli.
La tigna che gli rimproverava di non aver ripudiato pubblicamente la cerchia familiare, di non aver reclamato un po’ di giustizia democratica sulle spalle della moglie oltraggiosamente rivestite di capi alla moda, e che ora gli rinfaccia di non aver ancora rinunciato allo stipendio parlamentare di decretata scandalosità dai palchi dell’informazione che razzola nella trincea dell’onestà, quella che cura il diritto di sapere dei cittadini perbene che tirano la carretta mentre quello là sale a Montecitorio con il fango fasullo sugli stivali. Torni al posto suo, questo impostore, e trionfino finalmente i diritti dei migranti che lui e la suocera hanno messo nel nulla. Evviva il giornalismo tutto d’un pezzo che invece li difende, questi derelitti nelle piantagioni schiaviste e nelle periferie sbrindellate, li difende dalla mafia nera del clan Soumahoro. Iuri Maria Prado
Giustizialismo due punto z. L’aggressione razzista a Soumahoro arriva dagli stessi che si bevono la propaganda putiniana. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 3 Dicembre 2022.
Chi non distingue invasore e invaso in Ucraina, guarda caso, attacca senza pietà il parlamentare nero, in un modo che non c’entra nulla con la ricerca della verità ma molto con il colore della pelle
Vorrei parlare del caso di Aboubakar Soumahoro parlando di qualcosa che apparentemente non c’entra nulla e invece è proprio in argomento. Avete presente la guerra all’Ucraina? Non la guerra "in" Ucraina, come molto spesso si dice, ma la guerra all’Ucraina: perché uno l’ha fatta e continua a farla e l’altro l’ha subita e continua a subirla.
Bene, abbiamo letto in questi mesi che sì, d’accordo, c’è un aggredito e c’è un aggressore, ma dopotutto anche questo Volodymyr Zelensky non è che sia proprio uno stinco di santo, zittisce gli oppositori, introduce la legge marziale, limita la libertà di stampa, insomma è un mezzo dittatore.
In questi mesi di guerra "in" Ucraina, mentre c’era la guerra "all’Ucraina", abbiamo letto e sentito tante volte che sì, va bene i russi, però attenzione perché tra gli altri ci sono tanti nazisti, il battaglione Azov, i soldati che si fanno fotografare con la svastica, quella non è mica una vera democrazia, eccetera.
Ecco, tutte queste cose – se anche esistono – cessano di essere rilevanti quando c’è di mezzo il bombardamento degli ospedali, degli asili, dei mercati, quando di mezzo ci sono gli stupri, la deportazione di centinaia di migliaia di bambini, la sistematica distruzione delle centrali elettriche, dei depositi di cibo, delle infrastrutture che garantiscono gli approvvigionamenti e appunto tutto ciò non per caso, ma sistematicamente, per fare l’Holodomor n. 2 mentre qui qualche cialtrone parla del bambino nella grotta che chiede la pace.
Ma si vuole un altro esempio caldo? Eccolo: è ben possibile che tra i ragazzi e le ragazze con la testa maciullata dalla polizia morale in Iran ci sia anche qualche mascalzone, ma questo che cosa significa? Che cosa c’entra? E avviciniamoci al caso di cui stiamo discutendo, a Soumahoro. È molto probabile che tra i neri incatenati nelle piantagioni schiaviste ci fossero anche dei brutti ceffi, anche dei bei delinquentoni: ma questo che cosa c’entra? Questo forse giustificava la schiavitù?
E quindi Soumahoro: che lui o la sua famiglia abbiano fatto qualcosa di sbagliato o perfino illecito a me non interessa più nulla se vedo che si ingrossa quest’aggressione. Un’aggressione che non c’entra nulla con la ricerca della verità ma soprattutto – non voglio dire soltanto, ma soprattutto – c’entra con il colore della pelle di chi la subisce.
L’obiezione del cretino è pronta: ma tu paragoni il caso di questo magliaro che fa carriera sulla pelle dei migranti mentre la moglie e la suocera li affamano? Paragoni il caso di questo impostore alle sofferenze del popolo ucraino o alla repressione dei giovani iraniani? Non si possono sentire certi paragoni!
Meditare: a rispondere in questo modo è innanzitutto chi durante ormai quasi un anno di guerra all’Ucraina ha parlato di guerra "in" Ucraina; è in primo luogo chi raccomanda di guardare anche alla parte che rifiuta e vanifica la pace perché si difende; è grosso modo chi reclama il dovere di fare accertamenti, se a Bucha non c’erano i bossoli; è pressoché sempre chi riafferma la missione informativa due punto zeta che obbliga a tener conto della versione russa, perché la propaganda notoriamente c’è dappertutto.
E sono gli stessi che rivendicano il diritto di tracciare i soldi usati per comprare le mutande della trisnonna di Soumahoro perché i diritti dei migranti sono importanti, i diritti dei migranti ben protetti in Italia finché «questo negro di merda» non si è messo a farne carne di porco.
Perché è stato candidato Soumahoro, ieri eroe oggi mostro. Davide Faraone su Il Riformista il 29 Novembre 2022
Ci sono storie che hanno il potere di mettere a nudo ipocrisia e retorica anche al di là delle vicende personali dei loro singoli protagonisti. La storia di Aboubakar Soumahoro è una di queste. Soumahoro ieri era un eroe, oggi è il “mostro”. Il tritacarne mediatico, inesorabile e spietato, come sempre stritola uomini, esistenze e storie senza curarsi di approfondire, scavare o banalmente di aspettare il giudizio della magistratura. È la clava barbara del giustizialismo che non risparmia nessuno, nemmeno coloro i quali questa clava la conosco benissimo perché, in genere, la brandiscono con ferocia contro i propri avversari.
Ovviamente non sto parlando di Soumahoro, al quale rivolgo la mia solidarietà umana per la gogna preventiva che sta ricevendo e l’auspicio che tutto possa risolversi nel migliore dei modi. Mi riferisco invece a quella sinistra radicale, farisaica e cinica, che prima consacra simboli eterei e poi, alla prima difficoltà, li brucia alla velocità della luce. Un atteggiamento meschino che rivela la cifra umana, prima ancora che politica, di chi lo adotta. Un cortocircuito morale e culturale che procura ferite profonde alla credibilità delle persone ma soprattutto alle battaglie che questi “eroi usa e getta” portavano avanti.
Qualunque sarà l’epilogo di questa vicenda, infatti, la certezza è che da domani i braccianti invisibili saranno ancora più invisibili. La loro causa è infangata, la fiducia compromessa. Eccoli i risultati ottenuti dalla sinistra radicale: un caposaldo costituzionale come il garantismo nuovamente profanato e un danno epocale inferto a quelle donne e a quegli uomini che a parole dicevano di voler difendere. Davide Faraone
Basta massacrare Soumahoro, l’ong Mediterranea si schiera col deputato: “Contro i processi sommari”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2022
Abbiamo seguito come tutti la vicenda che ha coinvolto Aboubakar Soumahoro, e con grande dispiacere, innanzitutto per ciò che implica umanamente per un amico, una persona che abbiamo conosciuto in situazioni di lotta e che ci ha sempre sostenuto. Le implicazioni politiche, culturali e sociali di questa storia rischiano di ricadere, come sempre, sulla pelle di chi soffre ingiustizie, soprusi, nei ghetti come nei “centri di accoglienza” troppo spesso dimenticati, come se non ci dovessero essere lì dentro vite di persone in carne ed ossa, esseri umani e non numeri.
Perché in molti vogliono che niente cambi per le vere vittime. Primi tra essi i grandi giustizieri: sono pronti ora a chiudere i ghetti dei braccianti dando casa e contratti dignitosi a chi anche ora vive nel fango? I grandi moralizzatori sono pronti ora a fare ispezioni a tappeto in tutti i centri di detenzione o in quelli di accoglienza, per vedere dove è possibile vivere dignitosamente e dove no? Abou è stato travolto da una gogna mediatica, e abbiamo riconosciuto le fragilità di ogni persona normale che viene massacrata sotto i colpi della lapidazione e anche sotto il peso dei propri errori. Ma noi non ci stiamo ad abbandonare nessuno. Questa storia ci fa riflettere sulla necessità, culturale e politica, di emanciparci dai paradigmi del “superuomo” (e dello show che si nutre di lui) ma anche da quelli dei “tribunali del popolo”.
Crediamo nell’imparare insieme dai propri errori, perché qui siamo tutti coinvolti anche se ci crediamo assolti. Combatteremo sempre i processi sommari che costruiscono e sbattono i mostri in prima pagina. Combatteremo sempre chi pensa che una opinione diversa giustifichi la messa in moto di campagne denigratorie, diffamatorie, di umiliazione pubblica contro il “nemico” e le sue fragilità. Non vedere che alimentare o giustificare il massacro politico e umano di Abou, con silenzi o peggio con accuse infamanti che vanno ben oltre la realtà dei fatti, equivale a seppellire anni di lotte collettive, idee, sogni di costruire un mondo diverso, è pura follia. I processi li fanno i tribunali, i percorsi politici li decide la storia collettiva di una società.
Ora per noi è il tempo di combattere contro gli sciacalli e gli avvoltoi, di ogni risma, che non aspettavano altro che vedere un cadavere da poter sbranare. Abou continuerà il suo cammino, e sarà diverso da prima. Speriamo che, per primo lui, farà di tutto per far luce su ciò che per chi lotta per la dignità e la giustizia, non può rimanere in ombra. Basta con le pubbliche umiliazioni del capro espiatorio, le trame, i complotti e il giustizialismo. Con la logica della lotta politica come guerra per bande. Con la schadenfreude per la lapidazione.
Noi non lasciamo affogare nessuno di quelli sbalzati in acqua dalla furia delle onde o dalla propria imperizia nell’affrontare il mare.
La lotta continua, e se diventiamo più umani e consapevoli, sarà tutto di guadagnato non per noi, ma per quelli che stanno peggio. È a loro che dobbiamo rispondere di ciò che facciamo, e alla nostra coscienza. È per i diritti di tutt* che siamo in mare ed in navigazione e questa è la nostra unica bussola.
Il Consiglio Direttivo di MEDITERRANEA Saving Humans
Soumahoro, il colpevole perfetto: lapidato a destra, scaricato a sinistra. Il deputato di Verdi-Sinistra italiana non è indagato ma su di lui si è scatenata una tempesta di fango. Costa: «Il processo è già stato fatto». Simona Musco su Il Dubbio il 23 novembre 2022
«Quando si dice voler eliminare l’avversario per via giudiziaria… questo mi sembra uno dei casi di scuola». Il deputato di Azione Enrico Costa non è un garantista a intermittenza. Per questo, pur essendo «lontanissimo» dall’idea politica di Aboubakar Soumahoro, non può digerire la gogna mediatica che ha colpito il deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra.
Il colpevole perfetto, l’uomo arrivato dal nulla, con l’idea di cambiare il mondo, capace di fare ingresso in Parlamento con gli stivali sporchi di fango. Un gesto simbolico che ha illuminato gli occhi di tanti e fatto storcere altrettanti musi. Un eroe o un farabutto, non c’è via di mezzo per Soumahoro, la cui pelle nera è diventata strumento per più fini: da un lato la carta da giocare a sinistra per dimostrare di credere in certi ideali e di essersi schierati tra i buoni, a destra per dimostrare che “quelli lì” buoni lo sono solo a imbrogliare.
L’inchiesta della procura di Latina
La vicenda è ormai nota: la procura di Latina ha aperto un fascicolo sulle cooperative Karibu e Consorzio Aid, nella cui gestione sono coinvolte Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e Liliane Murekatete, sua moglie, con lo scopo di approfondire aspetti contabili e verificare presunti maltrattamenti rivelati da alcuni ospiti delle due cooperative. Il deputato, però, non ricopre alcun ruolo in quelle coop e l’inchiesta non lo sfiora nemmeno. Ma sui giornali si è scatenata la caccia al “mostro”, un’occasione d’oro, per alcune testate, per declassare Soumahoro dal ruolo di difensore dei braccianti a quello di sfruttatore senza scrupoli.
La reazione di Soumahoro: «Mi vogliono distruggere»
La reazione del sindacalista diventato parlamentare non si è fatta attendere: in un video pubblicato sui suoi canali social, in lacrime, ha accusato chiunque stia speculando sulla vicenda di volerlo «distruggere», minacciando di querelare chi «sta usando i miei affetti per colpirmi». Perché attorno alla vicenda giudiziaria ancora tutta da scrivere i giornali si sono riempiti di racconti sul “falso mito” di Soumahoro, uno che, stando alla stampa di destra, sulle sfortune dei braccianti avrebbe costruito la propria carriera politica, altro che paladino della giustizia.
Non bastassero questi racconti, a fare notizia è stata anche l’attività social della moglie. Colpevole di indossare vestiti e accessori costosi, di fare foto in posa in alberghi di lusso, di essere stata ribattezzata “Lady Gucci”. «Foto da vamp» che «non aiutano», ha scritto sul CorSera Goffredo Buccini, come se per essere credibili l’unico abito adatto sia quello da suora. Altrove si chiedeva conto a Liliane di come avesse acquistato quella roba. Domande che forse nemmeno la procura di Latina si è fatta, ma nel circo mediatico ogni lembo di pelle esposto è buono da cannibalizzare.
L’inchiesta risale al 2019 e negli ambienti giornalistici non era certo una novità. Ma la bomba è esplosa soltanto poche settimane dopo le elezioni, quando Soumahoro ha iniziato ad occupare un banco che autorizzerebbe chiunque, a quanto pare, a chiedergli conto di cose che probabilmente non conosce. Che forse nemmeno esistono, se esiste ancora la presunzione di innocenza. Ma invece lui dovrebbe sapere tutto. E così il suo silenzio risulta sospetto e non basta che dica di non saperne nulla, cosa magari del tutto vera. Il motto “non poteva non sapere”, che si cuce addosso a chiunque svolga un ruolo pubblico, torna di moda, con l’autorità di un articolo del codice penale. Dimenticando che la responsabilità penale, se c’è, è personale.
«Rappresento l’onorevole Soumahoro esclusivamente per delle azioni legali che stiamo valutando di porre in essere per le avvenute diffamazioni nei suoi confronti – ha spiegato al Dubbio l’avvocato Maddalena Del Re -. Ribadisco che non è destinatario di alcun tipo di indagine, ma si è trovato costretto ad avere una difesa legale per gli attacchi ricevuti dai media. Quello che gli si chiede è di entrare nei dettagli di una indagine di cui non si conoscono i contorni: la procura di Latina ha rilasciato una dichiarazione stringatissima nella quale si dice espressamente che sta valutando eventuali profili penali di determinate condotte nel massimo di riserbo. Si è creato un cortocircuito mediatico per il quale a un personaggio politico e pubblico che è del tutto estraneo a una vicenda giudiziaria si chiede conto di qualcosa che non conosce, come se fosse una colpa non avere dettagli precisi di date o circostanze. Qualunque condotta assuma, per una malintesa interpretazione della comunicazione, in qualche modo rischia di risultare responsabile».
L’occasione era infatti troppo ghiotta per non lanciarsi sul deputato e dedicargli titoloni da far accapponare la pelle. Ne citiamo uno solo: «Gli schiavisti in casa sua», copyright di Libero. Perché se il poveretto finito nel mirino – anzi, nemmeno: nei paraggi – di un’inchiesta giudiziaria non è del proprio partito di riferimento, il garantismo – “che è nel nostro dna”, si sente dire di solito – può pure andare a farsi benedire.
Soumahoro, lapidato a destra e scaricato a sinistra. Bonelli: «Ho commesso una leggerezza»
Così a destra sono subito partite le macchine delle interrogazioni e l’indignazione senza via di scampo, ma anche nel partito di Soumahoro non si è perso tempo: «Ho commesso una leggerezza», avrebbe confidato ad amici il leader dei Verdi Angelo Bonelli, dando ragione a chi ha malignato che la scelta di candidare Soumahoro non fosse legata alla sua storia, ma al fatto che fosse una figurina buona da giocarsi alle elezioni. Costa, dal canto suo, non lesina critiche a politica, stampa e inquirenti. «C’è stato un attacco molto feroce a Soumahoro dal punto di vista “giudiziario”, anche se non interessato direttamente, e dalle notizie frammentarie pubblicate si capisce chiaramente che qualcosa è trapelato dagli uffici giudiziari o dagli organi inquirenti. Ed è una cosa non particolarmente edificante. Siamo in fase di indagini – ha commentato al Dubbio -, ma queste persone sono già praticamente passate come responsabili, anche e soprattutto sulla stampa. Il fatto che si tratti di un avversario politico non fa venir meno certi principi, anzi valgono il doppio. E ho letto molti commenti definitivi da parte di persone normalmente “garantiste”, solo perché ad essere coinvolto è uno che siede dall’altra parte. Il processo è già stato fatto e la sentenza è già stata emessa».
Parlare a nuora, perché suocera intenda. Il caso Soumahoro è un miscuglio tossico di razzismo, classismo e giustizialismo. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 23 Novembre 2022.
Sul deputato di Sinistra italiana si sono scagliati due tipi di giustizialismo: quello accattone della destra, che fruga nei cassonetti di qualunque inchiesta per infangare un sedicente “buono” e quello mistico della sinistra, che transustanzia la persona dell’accusato
Se non ci fosse niente da ridere e molto da piangere, verrebbe da dire ad Aboubakar Soumahoro: «Benvenuto in Italia». Non c’è infatti nulla di più tipicamente nazionale – di più «italo-italiano», avrebbe detto Marco Pannella – del vizioso virtuismo da apericena della sinistra e del garantismo a geometrie razzialmente variabili della destra che, appena partita l’indagine su presunte malversazioni nella cooperativa sociale Karibu e nel consorzio Aid, hanno appiccato l’incendio in cui il parlamentare nero si è già bello che bruciato, al di là degli esiti di una vicenda giudiziaria, che peraltro non coinvolge neppure lui, ma la compagna e la di lei madre.
È da giorni in corso una sfilata di “io sono garantista, ma…” che ha unito praticamente tutti, da Angelo Bonelli a Maurizio Gasparri, nell’unità nazionale della cattiva coscienza, a dare lezioni di accoglienza, di correttezza sindacale, di giuslavorismo cooperativistico al genero nero dell’indagata nera, cinica sfruttatrice di diseredati.
A rendere tutto ancora più grottesco è che le lezioni riguardano un tema su cui nessuno degli onorevoli inquisitori dell’onorevole indagato per interposta suocera ha le carte in regola, avendo tutti loro imposto o accettato che la gestione dell’accoglienza, dai rimpatriabili nei Cie, ai richiedenti asilo nei Cara, avesse caratteristiche sostanzialmente detentive (e dunque inevitabilmente criminogene) e bilanci risicati (e quindi condizioni di vitto e alloggio miserabili), per non irritare la brava gente scandalizzata che lo Stato per i disperati ripescati in mare spendesse ben 35 euro al giorno cadauno.
Nella vicenda di Soumahoro, cioè non nell’indagine sui suoi congiunti, per cui neppure sappiamo se ci sarà mai un processo, ma nel processo già celebrato e concluso contro di lui, si sono sommate nell’azione e moltiplicate negli effetti il giustizialismo accattone della destra, che fruga nei cassonetti di qualunque inchiesta per pescare le carte buone a infangare un sedicente “buono” e il giustizialismo mistico della sinistra, che transustanzia la persona dell’accusato, anche se “compagno”, nel fantasma della sua colpa presunta, ipotizzata o, come in questo caso, addirittura trasferita per via familiare, perché ovviamente Soumahoro non poteva non sapere.
Poi a fare il vuoto attorno a Soumahoro ancora più perfetto e più rotondo e il discredito più condiviso e unanime, c’è il particolare che quello, che uno dei tanti articoli-esecuzione di questi giorni definisce il «talentuoso ivoriano», è un nero, anzi diciamola tutta, un “negro”. Poi non è neppure un nero che fa il povero nero e a cui si possa dare paternalisticamente del tu – come è scappato anche a Meloni – ma è uno consapevole e orgoglioso di sé, che venendo da una storia abbastanza emblematica, ampiamente sfruttata dai suoi ex amici e sempre screditata dai suoi nemici, si è messo a fare il sindacalista dei braccianti schiavi dei caporali: mestiere più complicato del negoziato sui buoni pasto in un ufficio parastatale.
Ora, dicono i suoi ex amici e i suoi nemici, si è montato la testa, ha altre ambizioni e quindi questa inchiesta è arrivata proprio a fagiuolo. Il suo gruppo parlamentare ha vergato un comunicato oscenamente curiale invitandolo a un incontro per «avere da lui elementi di valutazione su questa vicenda che contribuiscano a fare chiarezza»: cioè, non deve essere la procura a dimostrare che le sue congiunte sono colpevoli di qualcosa, bisogna che lui in un processo preventivo e parallelo dimostri ai sopracciò politico-parlamentari (che fino a due mesi fa si aggrappavano ai suoi stivali infangati e alla sua storia per scavallare il 3% alle elezioni) la personale estraneità a una vicenda che potrebbe pure essere fatta di nulla.
Rimango in attesa che Bonelli, Nicola Fratoianni e compagnia rivolgano analogo sollecito all’amato Giuseppe Conte, a proposito dei vecchi impicci del suocero, beneficiato da un provvido emendamento del genero. E sapendo che questa attesa sarà vana, rimango persuaso che il caso Soumahoro sia solo una storiaccia di classismo, razzismo e giustizialismo assortiti e combinati in modo tossico.
L'ennesimo "santino" della sinistra. Il caso Soumahoro è un monito per la destra e una lezione per la sinistra. Il monito per la prima è di non imitare la sinistra nel giustizialismo. Marco Gervasoni su Il Giornale il 24 Novembre 2022
Il caso Soumahoro è un monito per la destra e una lezione per la sinistra. Il monito per la prima è di non imitare la sinistra nel giustizialismo. Al momento, il parlamentare non pare indagato, diversamente dalla suocera. E anche quand'anche lo fosse, ciò non vorrebbe dire nulla. Lascia poi perplessi vedere gruppi di maggioranza agitare l'interrogazione parlamentare, a seguito di una inchiesta della magistratura, contro un deputato dell'opposizione. Non è infine il massimo che la stampa si sia scatenata solo dopo l'intervento della magistratura: a rimorchio, benché talune voci su irregolarità nelle cooperative ora indagate già girassero da tempo. Insomma, essere ultragarantisti con i propri e forcaioli con gli altri, non è il non plus ultra del garantismo. E ancora più grave è essere manettari sempre, come sono usi a sinistra. I Verdi di Bonelli e Sinistra Italiana di Fratoianni, già infatti stanno approntando una specie di processo politico, e anche qui, non prima, ma solo dopo l'intervento della magistratura, nonostante un ex parlamentare di quell'area, Elena Fattori, si fosse dimostrata perplessa sulla candidatura del sindacalista. Possibile che ci si svegli solo quando si muovono i magistrati? Ma la lezione che il caso impartisce alla sinistra è un'altra. Smettetela di cercare i santini. Di andare a scovare figure che, per la loro immagine, rappresentano, su un piano mediatico, la correttezza politica, che incarnano il partito dei «buoni», e che appartengono alla cosiddetta «società civile», considerata chissà perché sempre pura e incontaminata. Finitela poi di farne dei fenomeni: non era grottesco che, fino al giorno prima della inchiesta, Souamahoro fosse presentato, dalla stampa di sinistra, come un possibile nuovo segretario del Pd, partito a cui peraltro neppure appartiene? Gli stessi giornali che, non appena si sono mosse le procure, lo stanno abbandonando. La teoria di «papi stranieri» buoni che si sono rivelati dei flop sarebbe lunga: basti ricordare Mimmo Lucano (che però è stato condannato), le sardine e Santori, la Boldrini, per non parlare della stagione dei Pm, inaugurata da Di Pietro e finita con Ingroia. Innamorarsi sempre delle persone sbagliate è un grave segno di fragilità: ancora più se, dopo un giorno che le si conoscono, si offrono loro le chiavi di casa. Alla sinistra serve un buon psicanalista collettivo, altrimenti a breve chissà quanti altri Soumahoro nasceranno.
Il razzismo di chi si finge non razzista. Soumahoro vittima del razzismo della sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo: persino Salvini difese Morisi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Novembre 2022
Seguirò l’azzardoso esempio di Iuri Maria Prado e parlando dell’on. Soumahoro e anziché dire “nero” dirò anch’io negro, perché il razzismo, come la mafiosità, conta su due sistemi comunicativi. Il “black” importato dall’America come “nero” che in Italia sostituisce “negro”, ma in America l’appellativo schiavistico “nigger” o “negro” (pronunciato nigro) certifica un fatto storico: l’abolizione della schiavitù e quella sempre parziale dell’apartheid, e cioè di far credere che il razzismo sia stato vinto, assecondando l’ipocrisia politica. E dunque smettiamo di dire nero e assumiamo il negro, come del resto hanno imposto i black americans, che hanno riservato a sé stessi il diritto esclusivo di usare l’aggettivo “negro” per parlare da negro a negro, senza l’intromissione del bianco.
Un nero americano si rivolge a un nero americano dicendogli “Hi, my nigger,” e my nigger è il nome di una fratellanza nella razza. Chi ricorda l’autobiografia di Malcolm X ricorda le temerarie parole con cui il leader mise a nudo l’infezione razzista all’interno delle comunità nere dove immancabilmente i neri più chiari perseguitano quelli più scuri. Sì, ciò che sta accadendo in questi giorni all’onorevole Soumahoro è razzismo. Una prova? Io stesso. Chiamato in televisione a commentare la vicenda di quest’uomo sul cui conto indagano i carabinieri anche se in mancanza di una sola ipotesi di reato – intanto mettiamo tutto sotto inchiesta, setacciamo ogni frammento della sua vita, famiglia, affari, pensieri, azioni e poi vediamo – io stesso ho emesso parole che biasimavano o almeno sconsigliavano il deputato Soumahoro dal piagnucolare, querelare, farsi venire attacchi di nervi esagerati perché con paternalistica superiorità. intendevo dirgli: eddài, non fare il negro piagnone, con moglie e suocera che non pagano i dipendenti e non danno abbastanza cibo ai ragazzi. Fai invece il negro buono, che rallegra gli antirazzisti da salotto di casa nostra, della nostra ipocrita sinistra, sempre pronta a sporcarsi poco le mani e ancor meno la coscienza, avendo sempre la mascherina sul naso e l’amuchina giusto in caso il cosiddetto nero non fosse proprio un campione d’igiene, di questi tempi non si sa mai, mica per razzismo, per carità.
E invece, fratelli bianchi, guardiamoci e guardatevi in faccia – e mi ci metto anch’io – siamo affetti da doppio razzismo, che è la versione del razzismo di sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo, perché abbiamo paura sia dell’essere umano verniciato di melanina che vuoi o non vuoi è sempre un soggetto particolare anche se in nome della nostra ipocrisia lo esaltiamo mentre invece quello, o quella, chiede di essere trattato normalmente, sia dal nostro razzismo di dentro, quello che madre natura mette dentro a tutti come diffidenza del diverso, sia per motivi animali che non risparmiano nemmeno noi, figli delle belve della savana e non degli angeli. Nel Lessico Famigliare Natalia Ginzburg, ebrea piemontese, ricordava l’innocenza ingannevole di suo padre che quando voleva dire qualcosa di sbagliato, ridicolo e incettabile, diceva è una “negrigura”, parola peraltro italianissima che sta anche sul dizionario Treccani. Far finta di essere esenti dal peccato originale del razzismo (quello subdolo, sudicio, travestito, come quello degli antisemiti che prima o poi ti dicono che il loro miglior amico è ebreo) è far finta di essere razzialmente superiori. Dunque, è una confessione di razzismo. E allora, tanto per essere chiari e sfrenati, ricordiamo un coraggioso che in genere non ci viene in mente ed è Matteo Salvini, il quale di fronte ai guai del “bestia”, il suo fedele collaboratore Morisi accusato di traffico o di droga, si buttò a corpo morto per difendere un suo uomo portato sotto la gogna mediatica e linciato. Salvini ebbe fegato, anche se poi si esibiva nel numero dei citofoni chiamati dalla strada: “Pronto? È lei lo spacciatore? Mi dicono che lei spaccia”.
Lasciatemi spendere qualche parola da vecchio reazionario politicamente scorretto: ci hanno rotto per decenni le palle sulla retorica del diverso. Io sono stato diverso a causa dei miei capelli rossi quando mi terrorizzavano chiamandomi roscio malpelo. Figlio di un padre, rosso anche lui che, come ogni padre Dc, mi avvertiva e raccomandava di stare con la testa bassa, non reagire, portare un cappello che nascondesse l’anomalia. Oggi può far ridere ma negli anni Quaranta e Cinquanta i razzisti non avevano nessuno di meglio da linciare, che i rossi e coloro che avessero qualsiasi difetto fisico. È il principio odioso del capro espiatorio per cui sono sempre i diversi, non importa quanto, a finire giù dalla Rupe Tarpea o sulle fascine accese, legati a un palo, accusati di essere streghe, stregoni, figli rossi (di nuovo) del diavolo, ebrei marrani, eretici e devianti sessuali. Chiunque non sia del proprio gregge, del proprio sugo e delle proprie spezie, chiunque abbia un odore di ascelle che non è come il nostro. Bisogna viverci davvero in una società multirazziale, multiculturale, con più di venti varianti di possibili identità di genere, colore, accento, etnia…
E allora diciamolo chiaramente, che tutta la storia del deputato della Repubblica Soumahoro è la schiuma del razzismo incorporato e paternalistico, della rabbia per il fatto che questo sindacalista africano che difende quelli della sua stessa storia ci avrebbe delusi perché in definitiva anziché comportarsi come un candido cavaliere senza macchia e senza paura, si comporta come un uomo che ha paura, si indigna, avverte il peso della propria pelle nera, si ritrova gli investigatori in casa e finisce sulle prime pagine e sui telegiornali per una e una sola ragione: perché è negro. Diceva la vecchia canzone napoletana sui figli nati dalle relazioni sessuali fra ‘e signurine napulitane e i soldati americani: “Chillo, o fatto, è niro, niro. Niro, niro comm’a che!”. Tutti quei figli neri napoletani io li ricordo benissimo perché vivendo a Napoli erano affidati alle buone suore che li picchiavano senza pietà e poi sparivano. Chissà che fine hanno fatto. Noi non siamo mica razzisti. Ricordate la storiella del cumenda milanese che dice: “Razzista mi? L’è lù che l’è negher”. Con la differenza che oggi non abbiamo di fronte il cumenda milanese, ma l’intera sinistra italiana che bela, che biascica, che mormora, che distingue, che vorrebbe prendere almeno un pesce e non sa che pesce prendere.
E non può, perché non sa guardarsi allo specchio e dire: fosse che in fondo i razzisti siamo noi con tutta questa carità pelosa, questa carità ignobile di chi vorrebbe dare ai negretti tutte le mutande senza elastici, le calze spaiate, le camicie lise, e per loro vuoterebbero le cantine, si libererebbero della bici senza una ruota e di tutte le scatole di cibo scadute solo da un mese? Li ho visti in Calabria i negri che neanche in Alabama: ammassati nelle case sfondate i cui padroni viaggiavano in Ferrari e che nutrivano i negri con farina per maiali arricchita di vitamine e davano loro cessi di cartongesso. Erano tutte inchieste se non ricordo male del procuratore Gratteri. E ora c’è questo rompiscatole che si trova pure nei guai per una madre e una suocera e che piagnucola, minaccia querele, fa una debolissima voce grossa e nessuno della sinistra finta ha il fegato di dire: Soumahoro è un uomo ed è nostro, mentre noi invece siamo una massa di opportunisti razzisti. Non uno. Sono tutte anime candide, cioè bianche.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Il caso Soumahoro e l’ipocrisia della sinistra che lo ha abbandonato. Messa di fronte alla scelta tra l’opportunismo e i principi dello Stato di diritto, ha scelto l’opportunismo del ‘"non sapevamo". Giuliano Cazzola su Il Dubbio il 2 Dicembre 2022
Aboubakar Soumahoro si è autosospeso dal gruppo di Sinistra&Verdi che lo aveva candidato nella coalizione dei democratici e progressisti e fatto eleggere (nel proporzionale) alla Camera dei deputati, dove si era presentato il giorno dell’insediamento calzando, sotto un abito di buon taglio, gli stivali di gomma, da lavoro, sporchi di fango. Probabilmente li aveva acquistati apposta per esibirli in quell’occasione, in evidente polemica con il ‘’potere’’ che non si cura dei ‘’dannati della terra’’ dei quali il neo deputato si considerava legittimo rappresentante e interprete dei loro bisogni.
Io non conoscevo neppure l’esistenza di questo ex sindacalista, ma da quel gesto all’ingresso di Montecitorio mi sentivo offeso, come in tante altre occasioni in cui sono stati esibiti cappi con tanto di nodo scorsoio, fette di mortadella, pesci e quant’altro è entrato a far parte della cronaca minore della politica. Poi, seguendo le polemiche sollevate dalle campagne di stampa e televisive riguardanti l’attività della sua famiglia, della suocera e della moglie, in assenza di qualsiasi indagine giudiziaria su Soumahoro, ho avvertito l’esigenza di prendere posizione pubblica contro l’ennesimo linciaggio mediatico a cui mi toccava di assistere. Così i principi hanno prevalso sull’antipatia.
Le colpe delle suocere – mi sono detto – non possono ricadere sui generi. La magistratura – speriamo – farà chiarezza, anche se si stanno concretizzando fatti e circostanze testimoni di un ambiente di lavoro e di vita in cui, per commissione od omissione, Aboubakar si trovava a proprio agio. Io ho un’inguaribile tendenza a sostenere le cause perse (anche perché, arrivato alla mia età, ho scoperto che sono le uniche per le quali vale la pena di combattere). Anche per questa propensione voglio dare al neo deputato autosospeso un consiglio non richiesto: quello di rimanere al posto dove l’hanno mandato i suoi concittadini.
Chi legge il suo curriculum si accorge che Soumahoro dispone dei mezzi culturali e politici, oltreché dell’esperienza, per fare bene il lavoro da deputato. Penso che per lui sia stato uno shock precipitare, da un momento all’altro, dal piedistallo degli eroi, del difensore dei giusti per trovarsi sbattuto in prima pagina alla stregua del ‘’feroce Saladino’’, con gli amici di prima che fingevano di non conoscerlo. Non gli fanno onore né la reazione piagnucolosa né i tentativi di depistaggio di coloro che si erano precipitati a saccheggiare la sua vita. Ma il suo caso può essere utile al Paese, perché è rivelatore dei guasti che la canea mediatico-giudiziaria ha determinato (nel suo come in tanti altri casi) nella convivenza civile del Paese.
Soprattutto Soumahoro è la denuncia vivente di una politica ormai priva di principi, che va alla ricerca dei ‘’simboli’’ per riconoscere in essi se stessa o i propri avversari. Soumahoro rappresentava il simbolo della lotta contro il caporalato, contro lo sfruttamento dei braccianti e in questo ruolo (l’immagine è sostanza nel Paese del ‘’percepito’’) dava un’efficace copertura alla sinistra che non vedeva l’ora di ‘’spendere’’ quel profilo nella lotta politica. In seguito – quando sono iniziate le notizie che rendevano sfuocato e dubbio l’alone eroico del personaggio – Soumahoro è diventato, questa volta per la destra, il simbolo dello ‘’nero periglio che vien da lo mare’’, la prova provata che gli immigrati (ancorché cittadini italiani) sono dei profittatori che arrivano da noi a cercare la pacchia e che, per sopravvivere (nel caso in esame piuttosto bene) non esitano a delinquere.
Purtroppo per il neo deputato della lista del Cocomero (ora in stand by) la sinistra si considera come la moglie di Cesare che deve essere al di sopra di ogni sospetto. La ‘’ditta’’ si guarda bene dal difendere quanti dei suoi incappano nella gogna mediatico-giudiziaria. C’è una lunga fila di militanti, finiti nel mirino di una giustizia assatanata, che sono stati lasciati per anni a difendersi da soli, messi da parte come appestati, anche quando le accuse sembravano assurde. Con Soumahoro la destra, con i suoi giornali, si è impegnata in una campagna di inchieste degna di quella della procura di Milano su Berlusconi e le sue cene galanti. La sinistra messa di fronte alla scelta tra l’opportunismo e i principi dello Stato di diritto, ha scelto l’opportunismo del ‘’non sapevamo’’. Come sempre. Bettino Craxi è stato l’unico che ‘’non poteva non sapere’’.
Il prodotto doc di questa sinistra. Non confondiamo la vicenda di Aboubakar Soumahoro, il neo parlamentare di sinistra autoproclamatosi difensore dei braccianti, con una questione giudiziaria. Nicola Porro il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.
Non confondiamo la vicenda di Aboubakar Soumahoro, il neo parlamentare di sinistra autoproclamatosi difensore dei braccianti, con una questione giudiziaria. È chiaro che la magistratura indagherà sui fondi raccolti dalla sua organizzazione, sulla gestione delle cooperative a lui riconducibili, e forse anche sui mutui e i prodotti di lusso acquistati. Ma non facciamoci distrarre. Non cadiamo neanche nella tentazione di pensare che cosa sarebbe successo se i medesimi sospetti avessero riguardato un simbolo delle battaglie del centrodestra. Resistiamo a questa tentazione primordiale. Ben comprensibile, per carità.
Soumahoro è il prodotto della politica di sinistra. È l'alibi che gli eletti nelle zone a traffico limitato si sono costruiti al fine di sembrare popolari. Soumahoro è la copertina dell'Espresso che lo raffigurava accanto a Matteo Salvini, con il seguente titolo: «Uomini e no». Come a dire: il primo appartiene alla nostra specie animale, il secondo, e cioè Salvini e la destra, non ne fanno parte. State certi che nessun Ordine dei giornalisti censurerà questo insulto, nessun intellettuale si scandalizzerà.
Soumahoro è la vittima di una sinistra incapace di essere se stessa. Ha detto in un video parafrasando Malcolm X: «Non sarò il negro del cortile». Dai suoi compagni di strada politica è stato utilizzato in modo molto più spudorato: il negro del Parlamento. Quello che con i suoi stivali infangati doveva ricordare ogni giorno alla destra, anzi alle destre come va di moda dire oggi, la loro disumanità. Una parte della sinistra aveva addirittura pensato a lui come possibile leader.
Lo scandalo non sono i suoi affari da traffichino, non è il suo entourage minaccioso e la sua famiglia allegra. Lo scandalo è che un pezzo di sinistra ritenga che si possa governare questo Paese dando della «bastarda» alla Meloni, rinfacciandole l'articolo sempre e perennemente al femminile; una sinistra che ritiene la Murgia la propria intellettuale di cortile; la stessa sinistra che per un ventennio non ha neanche potuto concepire che gli italiani votassero Berlusconi.
Soumahoro è la nostra sinistra, e la nostra sinistra è Soumahoro. Sono alla ricerca di un simbolo che riempia quel vuoto di idee che li ha condannati per decenni a governare senza avere mai vinto le elezioni. Nel favoloso paradosso per cui tutto vale: il bracciante con gli stivali infangati, l'intellettuale con schwa, il banchiere della Bce e le Carola Rackete che riempiono i campi dove i Soumahoro prosperano fino ad arrivare in Parlamento.
Il tribunale della sinistra ha condannato Soumahoro. Il deputato si autosospende su ordine di Bonelli e Fratoianni. Il leader verde ammette: "Turbato". Francesco Boezi il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.
Come molte delle vicende che interessano la sinistra italiana, il caso Soumahoro si trasforma in un appuntamento semi- processuale. Lui, l'imputato dall'alleanza che lo ha eletto in Parlamento, non è neppure indagato per il caso delle coop. Lo stesso che coinvolge la moglie (che però non è più nel cda) e la suocera (indagata) e che rimane pesante sotto il profilo politico. Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, ed Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde, non possono permettersi passi falsi. L'ambientalista viene descritto come «di pessimo umore» e «inavvicinabile» per via quanto emerso, mentre il post-comunista in questi anni si è speso, e parecchio, sul tema immigrazione. E ora può sorgere un problema di coerenza. Circola un po' di rabbia. Ambienti vicini ad entrambi raccontano: «Si sta cercando un punto di equilibrio tra la colpevolizzazione e l'assoluzione a prescindere». La riunione, che è durata due giorni e che a qualcuno è apparsa come una riproposizione del Tribunale del popolo, dà un esito attorno al primo pomeriggio di ieri: Aboubakar Soumahoro si autosospende dal gruppo parlamentare. All'esterno si dice che la scelta sia dipesa dall'interessato. Dall'interno ci rivelano come la mossa sia stata imposta: «Ne va della tenuta dell'alleanza tra Europa Verde e Sinistra italiana», assicurano. Si racconta pure che anche la Cgil abbia caldeggiato il passo di lato dell'ex sindacalista di base. La versione pubblica non può che percorrere il canone di circostanze come questa: «L'autosospensione, lo dice la parola, è una scelta autonoma, è una scelta di tutela: della sua libertà, di organizzare la risposta alle questioni che gli sono state contestate in questi giorni», dice a stretto giro Fratoianni. Sarà. Bonelli è meno morbido: «Questa vicenda mi ha profondamente turbato, vedere che c'è un'inchiesta, di cui ringrazio l'autorità giudiziaria, da cui emergono maltrattamenti ferisce e indebolisce chi ogni giorno si impegna per garantire quei diritti» , dichiara a Otto e Mezzo, su La7, rimarcando come Soumahoro non sia indagato. Arrivano le parole della capogruppo Laura Zanella: «Rispettiamo la scelta di Aboubakar e gli siamo vicini, il gruppo è solidale con lui nella convinzione e nella speranza che tutto si risolva nel migliore dei modi». Esiste una consapevolezza: qualora dall'inchiesta dovesse emergere qualcosa di serio, specie con un coinvolgimento diretto del parlamentare, la semplice autosospensione potrebbe essere attaccata. Del resto a sinistra è pieno di mondi che hanno fatto del giustizialismo l'unico metro.
Anche dalle parti della maggioranza analizzano gli avvenimenti. Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia che ha presentato un'altra interrogazione sul caso delle coop, invita Soumahoro a piangere meno e a dire delle verità: «Da garantisti non vogliamo essere drastici nei confronti di una persona su cui tra l'altro non ci sono nemmeno accuse giudiziarie. Ma il contesto in cui lui ha agito - aggiunge Gasparri - ha fatto emergere molte contraddizioni tra i principi esposti e i fatti che vanno emergendo». Poi l'azzurro si rivolge pure ai vertici dell'alleanza Verdi-Sinistra: «Vedremo come evolverà questa vicenda. Però si dimostra ancora una volta come la sinistra su certi temi alimenti falsi miti e sia più incline all'arroganza che alle verifiche. Bonelli e Fratoianni faranno bene ad essere più accorti».
Dopo la due-giorni di faccia a faccia, viene fuori che Soumahoro è «determinato» e «sereno». E che ha intenzione di «rispondere punto su punto». L'autosospensione è la soluzione individuata per il momento. Continuano a descriverci Bonelli e Fratoianni come «non tranquilli» rispetto all'ipotesi che la vicenda possa allargarsi. Il politburo intanto ha deciso il da farsi col deputato Soumahoro.
Verdi e Fratoianni prendono tempo. E Soumahoro si fa "processare" da La7. Il sindacalista non vuole dimettersi e sceglie un talk show di sinistra per difendersi. L'imbarazzo dei suoi sponsor politici. Bonelli: "Valuteremo cosa fare". Ma un suo deputato attacca: "Va cacciato". Pasquale Napolitano su Il Giornale il 24 Novembre 2022
Il «paladino» degli ultimi, Aboubakar Soumahoro, dopo gli scandali che stanno travolgendo le cooperative di famiglia, ha deciso: si farà processare. Ma ha voluto scegliersi il giudice: Corrado Formigli. E anche il Tribunale: la trasmissione «Piazza Pulita» che andrà in onda questa sera.
Dopo il video strappalacrime e la fuga dai riflettori, il parlamentare dell'alleanza Verdi-Sinistra Italia vuole riapparire in pubblico per sottoporsi all'interrogatorio di Formigli.
Il giornalista incalzerà il sindacalista emblema della nuova sinistra, tutta chiacchiere e distintivo. Dimissioni dal Parlamento? Per ora non se ne parla manco lontanamente.
Si resta ben saldi sulla poltrona. I suoi leader di riferimento, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che per presentare la candidatura di Soumahoro, il pezzo pregiato della campagna elettorale di fine agosto, bloccarono addirittura la sala stampa della Camera dei Deputati, fanno melina. Soumahoro fu presentato come il classico colpo di calciomercato. Che poi dopo le prime partite si è rivelato un brocco. In questo caso una gatta da pelare che provoca imbarazzo (tanto) nella sinistra. Claudio Velardi, che di talenti politici se n'è intende, lo voleva addirittura alla guida del Pd. Lacrime e resistenza sono le due parole d'ordine. Ma il caso politico c'è. Eccome. I due padri di Soumahoro dribblano. Cercano di prendere tempo. Cacciarlo dal partito? Il leader dei Verdi Angelo Bonelli non è convinto: «Siamo grati all'autorità giudiziaria per il lavoro l'importante che sta facendo evidenziare forme di sfruttamento nei confronti dei migranti è un fatto estremamente importante e ci rasserena che lo Stato è in grado di intervenire. Noi però facciamo politica, quindi abbiamo chiesto un incontro con Soumahoro che avverrà presto in cui chiederemo il suo punto di vista, e insieme a lui valuteremo le decisioni politiche da prendere». Bisogna trovare una via d'uscita. «Va cacciato», riferisce al Giornale un deputato dei Verdi.
Anche perché emergono sempre nuovi elementi. La Caritas denuncia un altro episodio: la raccolta di 16 mila euro da parte di persone vicine al parlamentare per giocattoli destinati a un ghetto di migranti con pochi bambini. Migliaia di euro raccolti, precisamente 16 mila, per donare giocattoli in un ghetto di migranti in cui però i minori sono pochissimi. Altre accuse. Altri chiarimenti da fornire. È un vortice. Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italia, è più duro: «Come abbiamo detto lo incontreremo in queste ore, in questi giorni per un confronto. Io penso che si debba sempre tenere distinta, in molto netto, la vicenda giudiziaria, che peraltro da quel che leggiamo pare che neanche lo coinvolga direttamente e comunque sul terreno giudiziario lavora la magistratura, lavora chi fa le indagini, non interviene per quel che mi riguarda, almeno direttamente, il dibattito politico. C'è poi la dimensione della politica che riguarda le questioni del diritto del lavoro e su questo io credo sia giusto avere un confronto diretto. Quando lo avremo avuto nelle prossime ore ognuno farà delle valutazioni». Si continua a prendere tempo. Ma dalla maggioranza il centrodestra attacca.
Soumahoro in lacrime: «Mi volete morto ma non ucciderete mie idee». La parola alla Caritas pugliese: «Troppe tensioni». Dubbi su una raccolta fondi pro-minori dello scorso Natale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Novembre 2022.
Impazza sui social il video che ritrae in lacrime, Aboubakar Soumahoro che si difende dalle accuse piovute sulla sua famiglia, dopo l'inchiesta aperta dalla procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nelle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera.
"Mi dite cosa vi ho fatto? E' da una vita che sto lottando per i diritti delle persone, da una vita... Vent'anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto", dice l'onorevole. "Voi mi volete distruggere ma avete paura delle mie idee", attacca il sindacalista e deputato dell'Alleanza Verdi Sinistra in un video postato sulla sua pagina Facebook.
Una raccolta fondi da 16 mila euro per donare a Natale giocattoli in un 'ghetto' di migranti del Foggiano dove vivono pochissimi minori, ma anche tensioni nei confronti di chi voleva portare aiuti da parte di persone che facevano riferimento al mondo di Aboubakar Soumahoro, il parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra le cui parenti sono ora sotto la lente della Procura di Latina per la loro gestione di due cooperative pro-migranti. E’ quanto emergerebbe dall’intervista, pubblicata su Repubblica, a don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo.
L’iniziativa natalizia è dello scorso anno. Soumahoro, che proprio in quella zona ha condotto alcune delle sue battaglie in favore dei braccianti, si fece riprendere mentre portava regali ai bambini vestito da Babbo Natale. Dice don Pupilla: «Nel ghetto di Torretta non ci sono bambini, mentre a Borgo Mezzanone, l’insediamento oggetto del video, i bambini sono molto pochi. C'erano dunque ben pochi giocattoli da distribuire, non essendoci bambini a cui poterli donare». Secondo il sacerdote, inoltre, ci sarebbero stati «problemi, e li abbiamo avuti anche noi, con alcune persone che facevano riferimento prima a Usb e poi a Lega Braccianti. Ci hanno impedito di fare corsi di italiano, scuola. Noi ci rechiamo a Torretta Antonacci ogni settimana per ascoltare e aiutare persone. In alcuni periodi sale la tensione, perché ci sono sempre personaggi che vengono da fuori a fomentare gli animi. E magari ci costruiscono una carriera politica sopra. Davanti a fenomeni complessi non c'è bisogno di navigatori solitari ma di risposte corali. Non serve un sindacalista che viene da fuori, urla, fa i selfie e magari costruisce una carriera politica, soprattutto quando c'è anche un pò di incoerenza. Non puoi dire a tutti che il business della solidarietà non va bene - conclude il religioso - e poi ce l’hai a casa tua».
Gli stivali sporchi e la doppia morale di Soumahoro. Ed ecco il corto circuito: lui si dichiara paladino dei deboli, ma ora che il (presunto) sfruttamento è stato ricondotto alla responsabilità (presunta) di sua suocera, Soumahoro riduce tutta la vicenda a livello di complotto e la butta in bagarre. Massimiliano Scagliarini La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Novembre 2022.
Una beffarda coincidenza fa sì che proprio mentre il Consiglio regionale della Puglia discute delle emergenze del Foggiano, uno dei protagonisti delle lotte per i braccianti della Capitanata sia finito nel mirino delle polemiche per via di ciò che sarebbe accaduto nelle cooperative gestite dalla madre della compagna. È diventato virale sui social il video in cui Aboukabar Soumahoro prima piagnucola («Che cosa vi ho fatto?») e poi attacca citando nientemeno che Martin Luther King. Ora, con il massimo rispetto per Soumahoro, parlamentare della Repubblica candidato in Puglia ed eletto a Modena, il micidiale cortocircuito politico-mediatico in cui è finito dovrebbe insegnare qualcosa pure a lui.
È infatti lecito porsi almeno una domanda. Da settimane i mezzi di informazione riferiscono delle (presunte) irregolarità che si sarebbero verificate in una cooperativa di migranti a Latina, tra stipendi non pagati, maltrattamenti, fatture false e gente tenuta in nero. Sembrerebbero irregolarità gravi, confermate da più fonti coincidenti e contenute in un esposto della Uil che ha indotto la locale Procura ad aprire un’inchiesta, al momento senza indagati. Viene da chiedersi cosa avrebbe detto il sindacalista Soumahoro contro un «padrone» che dimentica di pagare gli stipendi, tiene i lavoratori al freddo e utilizza modi che appaiono, francamente, ingiustificabili. Nel video che ha invaso i social, l’esponente di Sinistra Italiana ricorda che la sua vita «è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento». Ed ecco il corto circuito: lui si dichiara paladino dei deboli, ma ora che il (presunto) sfruttamento è stato ricondotto alla responsabilità (presunta) di sua suocera, Soumahoro riduce tutta la vicenda a livello di complotto e la butta in bagarre.
Non funziona e non può funzionare così. Lo stesso Soumahoro, nel suo recente passato da militante Usb (Unione sindacale di base), ha lottato senza quartiere contro i caporali, ha urlato contro la vergogna dei ghetti che «accolgono» (per modo di dire) migranti di ogni colore, ha insomma più volte segnalato casi come quello che potrebbe riguardare la cooperativa Karibu gestita dalla suocera e in cui lavorava, al tempo, anche la compagna che della coop era consigliere.
Nonostante abbia mantenuto gli stivali sporchi di terra, il nostro ha varcato le porte del Parlamento con i suoi privilegi (dovuti). Ma tra gli inevitabili oneri che il suo nuovo ruolo comporta, c’è anche lo scrutinio dell’opinione pubblica che a volte può arrivare fin dentro il tinello di casa.
Il Paese ha discusso per mesi della cuccia del cane della Cirinnà, del curriculum dell’avvocato Giuseppe Conte, del titolo di studio della ministra Valeria Fedeli e più di recente dell’addetto stampa in nero della sottosegretaria Bellanova. Polemiche feroci innescate senza che questi fatti fossero reato ma, al più, costituissero peccato, a volte quello più grave per chi si affaccia alla vita pubblica. Ovvero l’incoerenza che spesso sconfina nella doppia morale.
Il confine tra pubblico e privato è tanto più labile quanto più si vive sotto i riflettori, e la critica è meccanismo democratico soprattutto quando fa emergere quelle che appaiono come insanabili contraddizioni. Nessuno pensa di seppellire lui o le sue idee, come pure Soumahoro ha detto in preda a un vittimismo cosmico. Un’esibizione che non serve, è controproducente ed è a tratti grottesca. Né tanto meno è necessario scomodare Giuseppe Di Vittorio per ricordare che esistono esempi di sindacalisti rimasti sempre, orgogliosamente, dalla stessa parte. Ma qui viene in soccorso un altro socialista, Pietro Nenni: «Chi gareggia a fare il puro, troverà sempre uno più puro che lo epura». Vale anche per l’onorevole Soumahoro, nonostante i suoi stivali sporchi di terra.
Il Grande Indifferenziato. Il pianto di Soumahoro è la versione più avanzata di quello di Bella Hadid. Guia Soncini su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.
Il deputato di Sinistra italiana si difende dalle accuse piangendo in favore di follower perché sa che in questo secolo ci si fa notare accendendo la telecamera del telefono e spingendo sull’emotività
Benvenuti al corso introduttivo al Grande Indifferenziato. Per un equivoco percettivo, i corsi per principianti erano stati fin qui sospesi. Vengono ripristinati in tutta fretta dopo aver assistito alle reazioni del pubblico ieri, domenica 20 novembre, allorché il deputato Aboubakar Soumahoro ha pianto in favore d’obiettivo sul proprio canale Instagram.
La parte di pubblico per la quale questo fatto è stato stupefacente è stata valutata, dalla Commissione internazionale per lo studio del presente, inattrezzata a capire il tempo in cui vive, e quindi bisognosa di corsi d’aggiornamento pagati dallo Stato.
La Commissione è ovviamente interessata a capire gli errori da parte della scuola dell’obbligo nella formazione dei cittadini: è plausibile che in un prossimo futuro venga istituita una seconda commissione, che indaghi sulle gravi mancanze per cui parte della cittadinanza è stata lasciata indietro e punisca i responsabili di questo sfacelo educativo.
Per ora, ci limiteremo a cercare di capire quali tasselli manchino, ai cittadini incapaci di capire il mondo in cui vivono, e come sia possibile ch’essi non abbiano compreso le basi del Grande Indifferenziato.
Siete pregati di mettere una crocetta a una delle ipotesi seguenti: credevo che tra l’essere personaggio pubblico di Bella Hadid – che instagramma gli autoscatti che si fa in lacrime quand’è triste – e quello di Aboubakar Soumahoro ci fosse una qualche differenza; sì, avevo visto Adele in lacrime annunciare che il suo tour era stato rimandato, ma credevo che da un ex bracciante divenuto deputato e da un’ex grassa divenuta cantante multimilionaria ci si potessero aspettare modalità comunicative diverse; sì, avevo visto Cristina Fogazzi con gli occhi lucidi annunciare che la sua azienda di cosmetici sponsorizzerà l’albero di Natale in Duomo, ma pensavo fosse perché non è temprata dalla vita quanto un ivoriano che ha avuto sufficiente forza d’animo da riscattarsi da un destino di sciuscià.
Qualunque sia la ragione per cui vi ha sorpreso vedere un deputato, uno le cui congiunte sono accusate di aver maltrattato i loro dipendenti, difendersi sull’Instagram in lacrime, invece che nei luoghi che il Novecento vi aveva convinto essere acconci, fermatevi e riflettete: quali erano quei luoghi?
Il parlamento? I giornali? La cara vecchia comunicazione intermediata? E allora, miei cari allievi dell’ultimo banco, ditemi: come mai nessuno di voi ha notato le compite interviste a Soumahoro uscite ieri sul Corriere e su Repubblica, ma tutti avete raccolto la mandibola dal parquet (i più sfortunati: dal grès porcellanato) ascoltando Soumahoro singhiozzare «mi dite cosa vi ho fatto» e «voi mi volete morto» e «sono giorni che non dormo» sull’Instagram?
Siete qui per imparare, e quindi questo corso vi svelerà il perché. L’avete notato dove dovevate, e dove lui si è giustamente posizionato, perché Soumahoro è meno impreparato a questo secolo di voi, e sa dove ci si fa notare, e come farlo: accendendo la telecamera del telefono, e spingendo sull’emotività e sul doppiaggese (che cos’è «volevate il negro di cortile», se non la frase di chi ha studiato la lotta di classe su Via col vento, mica sui Soliti ignoti).
È tra l’altro molto interessante che, mentre Soumahoro frignava paragonandosi a Peppino Impastato (se questo fosse un corso sull’integrazione, vi direi che nessuno meglio di Soumahoro ha introiettato il carattere italiano, quel nodo di vittimismo e mitomania che nessun Alessandro Magno potrebbe sciogliere), sullo sfondo piangesse un qualche neonato. La competizione allevata da lui stesso, la concorrenza da dentro casa, ma anche quell’atmosfera da domenica in famiglia che fa vicino-alla-gente-qualunque.
È altresì interessante che, nei quattro minuti di lacrimoni e vibranti accuse, paragoni fuori scala e accuse ai poteri forti (o al pensiero debole), ci sia un lapsus di quelli che vien da pensare che Freud fosse un grande sceneggiatore. Dice Soumahoro che lui ha sempre lottato per i deboli, e insomma «lotterò contro i dipendenti dei miei genitori, qualora i loro diritti non fossero rispettati».
È interessante che nessuno – un assistente parlamentare, una moglie, un fantasma di Peppino Impastato – gli abbia detto «Abou, tocca rifarla, hai detto che lotti contro quelli i cui diritti non vengono rispettati, se a non rispettarli sono i tuoi parenti». O forse, nel formulare questa ipotesi, questa commissione si dimostra inattrezzata quanto voialtri ripetenti a decodificare il presente.
Se somigliassimo più a questo secolo, sapremmo quel che sa Soumahoro: che le parole sono volatili, quel che resta è l’emotività. Che a nessuno interessa l’avverbio sbagliato, di fronte al singhiozzo giusto. «Abou, ti viene così bene il pianto una seconda volta? No? E allora ’sti cazzi del lapsus».
Dice Bella Hadid che gli autoscatti di pianto che instagramma sono quelli che s’è fatta, lungo tre anni, per spiegare alla mamma o allo psicanalista come si sentiva. È chiaro che Aboubakar Soumahoro, che il pianto lo produce direttamente per il pubblico di Instagram, nel Grande Indifferenziato risulta essere una Bella Hadid di produzione assai più avanzata.
L'inchiesta avanza. Soumahoro ci risparmi per un po' lezioni di vita. Andrea Soglio su Panorama il 18 Novembre 2022.
Guardia di finanza, carabinieri e la Procura alla ricerca di nuovi riscontri sulle accuse di stipendi mancati e lavoro nero nelle due cooperative della moglie e della suocera del parlamentare nuovo paladino dei diritti di migranti
Un bel guaio, una bella macchia su una legislatura in cui era partito in maniera scoppiettante. Sono ormai due giorni che le luci puntate su Aboubakar Soumahoro non sono quelle degli studi tv dove era abituato a pontificare su lavoro, migranti, dignità e diritti dei lavoratori e dei più deboli, ma quelle degli investigatori, che stanno indagando sulle cooperative della sua famiglia. I fatti. La Procura di Latina ha aperto un’inchiesta a proposito di eventuali irregolarità per due cooperative; Karibu e Consorzio Aid che si occupa di lotta al caporalato, difesa dei diritti dei migranti e servizi di accoglienza per i richiedenti asilo nel territorio pontino.
Non si tratta di due cooperative qualunque perché a gestirle le strutture si sono la moglie e la suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. Si capisce bene che la cosa ha scatenato reazioni di vario tipo dato che Somauhoro ha fatto proprio della legalità il suo cavallo di battaglia e della difesa dei diritti dei più deboli il suo credo. In una nota, la procura laziale, visto anche l’inevitabile assalto di cronisti, ha chiesto il massimo riserbo ma ha raccontato come le verifiche della Guardia di finanza sono cominciate mesi fa e starebbero verificando eventuali reati di truffa, ad esempio il mancato pagamento degli stipendi, come avrebbero denunciato una trentina di lavoratori. Altro materiale sarebbe stato invece raccolto dai carabinieri all’esterno di una delle cooperative durante un trasloco. Dalle parole raccolte da alcuni sindacati emerge che le prime denunce sono arrivate da una decina di lavoratori (tra cui alcune donne); a quel punto altri hanno trovato coraggio di raccontare e così si è arrivati a 26 casi (tra cui due lavoratori senza contratto, in nero). Gli stipendi sarebbero stati in ritardo non di poco, almeno di 12 mesi, ma per alcuni anche di un anno e mezzo e più. Somauhoro ha parlato di fango e minacciato querele, spiegando come lui non abbia nulla a che fare con le due cooperative. Aboubakar Soumahoro @aboubakar_soum · Segui Grazie per la solidarietà che mi state manifestando, in privato e in pubblico. Stanno provando a infangare e screditare la mia persona su una vicenda in cui non c'entro nulla. A chi sta usando i miei affetti per colpirmi dico solo: ci vedremo in tribunale. Non ci fermeranno.
La suocera oggi invece in una nota ha spiegato che i mancati pagamenti sarebbero legati ai crediti non riscossi con lo Stato: «Sono state poste in essere le azioni necessarie per procedere alla riscossione dei crediti che la Cooperativa vanta nei confronti della pubblica committenza, anche per attività già rendicontata, ciò nel tentativo di soddisfare le posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori». Tra i cronisti che stanno seguendo la vicenda (indubbiamente succosa e curiosa) c’è la convinzione che ci saranno novità, forse interrogatori, nuovi controlli e perquisizioni. Tutto questo per dire che siamo solo all’inizio di questa inchiesta e che la parola fine arriverà tra molto tempo. Ma la macchia resta perché, come ammesso dalla stessa suocera del parlamentare, ci sono state decine di persone non pagate per il loro lavoro. Soumahoro si è presentato alla prima seduta indossando gli stivali degli agricoltori; un segnale a uso e consumo dei fotografi (e per certi versi poco rispettoso verso il Parlamento) che oggi gli si ritorce contro. In questo primo mese di legislatura la stampa di sinistra lo ha subito elevato a uomo immagine, a simbolo di onestà, legalità, uguaglianza. Di sicuro oggi, e per un po’ , gli sarà difficile poter dare lezioni alla maggioranza di governo dato che non è riuscito a far capire le stesse cose in casa propria.
Caso Aboubakar Soumahoro, cosa sappiamo delle cooperative di famiglia. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 18 novembre 2022
I lavoratori non pagati, due impiegati in nero, l’ombra delle false fatture e le condizioni dei centri di accoglienza.
Sono questi i quattro fronti aperti che riguardano le cooperative Karibu e consorzio Aid, operanti nel sud del Lazio e gestite da Liliane Murekatete e Marie Terese Mukamitsindo, moglie e suocera del deputato Aboubakar Soumahoro dell’Alleanza Verdi e Sinistra.
Tutto questo sembra trovare conferma in un dossier realizzato dopo una ispezione di una parlamentare della Repubblica, avvenuta in uno dei centri nel 2019. Chi sono gli accusatori? A che punto è l’indagine della procura di Latina?
Nello Trocchia per editorialedomani.it il 22 novembre 2022.
«In quel centro non avrei messo manco i cani». La testimonianza su uno dei centri gestiti dalla cooperativa Karibu è di Elena Fattori, ex senatrice di Sinistra Italiana, esponente politico che da sempre si batte per i diritti e per l’ambiente. È entrata in parlamento nel 2013 con il M5s, è stata poi nuovamente eletta anche nel 2018 e ha abbandonato il movimento l’anno successivo per transitare nel gruppo misto, prima di chiudere la legislatura nel partito di Nicola Fratoianni.
Proprio l’alleanza Verdi-Sinistra ha candidato Aboubakar Soumahoro, marito di Liliane Murekatete e genero di Marie Terese Mukamitsindo che gestiscono le cooperative Karibu e consorzio Aid, realtà sociali al centro di un’indagine della procura di Latina che approfondisce la situazione contabile e le denunce degli ospiti dei centri.
Proprio Domani, qualche giorno fa, aveva pubblicato l’esito di un dossier realizzato nel 2019 e che oggi Fattori rivendica come una delle sue attività parlamentari. «Sono andata a visitare questo centro ad Aprilia dopo che mi erano arrivate diverse segnalazioni, c’erano problemi economici con i dipendenti, ma quello che ho visto era una struttura indecente dove non ospiterei manco i cani. Ricordo ancora i paramenti sconnessi, la muffa, condizioni invivibili», dice Fattori.
L’ex senatrice, che non è stata ricandidata e oggi fa politica sul territorio, ricorda anche l’incontro con Marie Terese Mukamitsindo, suocera del deputato. «La responsabile si lamentava dei tagli prodotti dai decreti sicurezza (che erano stati approvati dal primo governo Conte), eravamo nel 2019, ma un posto del genere in mezzo alla campagna di Aprilia e in quelle condizioni non era sostenibile, lì non potevano vivere persone indipendentemente dai decreti approvati. Ho visitato molti centri, anche di altre cooperative, e devo dire che tranne pochissimi casi erano tutti in condizioni disagevoli».
L’allora senatrice ha scoperto in quella visita la parentela della responsabile con il sindacalista Soumahoro. «A un certo punto mentre visitavamo il centro, io e i miei collaboratori, la responsabile mi dice “Abu ti stima molto, io sono la suocera”, così scopro in quel momento la parentela e sono rimasta sconcertata perché io aveva fatto alcune iniziative proprio con Soumahoro».
Una in particolare la ricorda benissimo e riguardava proprio i finanziamenti indirizzati ai centri per migranti, ma all’epoca Fattori non sapeva della parentela e degli interessi dei familiari nel settore.
«Avevo portato Soumahoro e altri attivisti dal presidente della Camera, Roberto Fico, per porre la questione dei decreti sicurezza e dell’importanza di aumentare i fondi e gli stanziamenti quando poi ho scoperto, successivamente, quella parentela non ho voluto più affrontare la questione con Soumahoro».
Il dossier ricostruiva la visita al centro durata circa 45 minuti che era stata preceduta da una segnalazione proveniente da alcuni dipendenti. «La struttura gestisce la presenza di 60 immigrati richiedenti asilo. Mediamente rimangono due anni circa in questa struttura formata da alcuni casolari con stanze che contengono 4 ospiti ciascuna, anche se la sensazione è che ve ne siano di più.
Sembrava evidente come in attesa della visita ci sia stato un maldestro tentativo di ripristinare una situazione strutturale di dignità ma mal riuscito. La struttura risulta sporca con parti al limite del fatiscente. Dai pavimenti con radici che divelgono il pavimento, soffitti con macchie evidenti di muffa, malfunzionamento della caldaia a pellet, sporco generale e gli esterni (ci sono tettoie con presenza di eternit) tenute quasi a discarica (...) Se la gestione strutturale e sanitaria sembrano essere lasciate al caso, anche quella economica lascia perplessi», si legge nel dossier. Un documento nel quale si riferisce di un corso sicurezza per dipendenti fantasma, di ospiti con scarpe sporche di fango, di segnalazioni all’Asl, di un silenzio diffuso dei dipendenti.
Soumahoro non aveva alcuna responsabilità e neanche ruolo nella cooperativa.
Ma lei questo dossier non l’ha consegnato a nessuno? «Certo, mi preoccupai di consegnarlo ad alcuni esponenti dell’allora sottogoverno, ma non ci sono stati sviluppi», dice Fattori.
Ha raccontato tutto questo ai vertici di Sinistra Italiana? «Ma questa vicenda è nota, è vecchia, certo che l’ho segnalata, ma non è stato tenuto conto della mia segnalazione anche se la candidatura è stata spinta dai Verdi di Angelo Bonelli con il quale non ho parlato».
«Non ho tessere di partito e questa vicenda è molto triste, ma ci dice una cosa importante. Io penso che l’accoglienza debba essere gestita dallo stato e non affidata ai privati, i privati possono sbagliare anche senza cattiva fede, ma noi non possiamo permetterci di tenere persone in quelle condizioni», conclude Fattori.
Al freddo e senza stipendi alla coop dei Soumahoro. I particolari dell'inchiesta sulle società di moglie e suocera del deputato. "Niente soldi da un anno". Massimo Malpica il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.
Aboubakar Soumahoro, il deputato indipendente eletto con l'alleanza Sinistra-Verdi si è affrettato a prendere le distanze dall'inchiesta della procura di Latina sulle società di sua suocera, Marie Therese Mukamitsindo, la coop Karibu e il consorzio Aid, accusati di non aver pagato i dipendenti da un anno e più. Soumahoro ha minacciato querele, ribadendo di non essere «né indagato né coinvolto in nessuna indagine». Non ha però commentato i fatti, né negato che l'indagine esista. Lo ha confermato la stessa procura di Latina, spiegando, «in ordine all'attività irregolare di cooperative incaricate di assicurare servizi di accoglienza, e servizi connessi, per i richiedenti asilo», di aver delegato gli accertamenti di «eventuali profili di rilievo penale», alla Gdf. Già al lavoro su due diversi filoni per truffa e distruzione e occultamento di materiale contabile, dopo che gli investigatori hanno trovato carte e documenti buttati in un cassonetto dalle parti di una delle sedi delle società.
Soumahoro, oltre a chiamarsi fuori, non ha parlato dell'inchiesta, non ha parlato di sua suocera e nemmeno di sua moglie, Liliane Murekatete, che della coop dovrebbe essere ancora socia e che, sul proprio profilo Linkedin, risulterebbe addirittura presidente della Cooperativa Sociale Karibu. L'affaire pontino riguarda mancati pagamenti (alcuni risalirebbero a ben oltre l'anno: da 12 a 22 mesi) degli emolumenti che le società avrebbero dovuto versare a 26 dipendenti, ai quali le coop avrebbero chiesto fatture false. I dipendenti si sono licenziati per giusta causa la scorsa estate. Ora, tramite il sindacato, stanno cercando di ottenere il dovuto. Karibu e Aid, al 7 novembre scorso, sarebbero debitori di circa 400mila euro nei confronti dei lavoratori. E complessivamente a circa 400mila euro. L'altra brutta storia, riguarda la gestione dell'accoglienza dei minori, che sarebbero stati ospitati in case senza acqua né luce. Anche qui, pare, perché la coop era in ritardo con le bollette.
L'indagine sarebbe partita però già un anno fa. Di certo le cose, per la coop, non vanno bene già da un po': la sua pagina Facebook non è aggiornata da oltre due anni e mezzo. Eppure nel 2018 Therese Mukamitsindo era stata premiata da Laura Boldrini come imprenditrice straniera dell'anno, e la coop Karibu andava alla grande, passando in due anni da 50 a 150 dipendenti. Si fa vedere in quel periodo anche la moglie di Soumahoro, Liliane, che tra l'altro promosse nel 2017 il lancio di «K mare», una linea di costumi e pareo realizzati dai rifugiati ospiti delle loro strutture. L'iniziativa venne presa di mira come «business di finta solidarietà» da Casapound, che attribuiva alla coop, al dicembre 2017, 11 milioni di euro di ricavi. La donna, che alterna abiti tradizionali a selfie con vestiti e accessori griffati, replicò rivendicando anche la sua passione per le firme del lusso: «Non prendo soldi da questa coop, ma ho avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono potuta permettere abiti firmati. Siccome sono una donna di colore, non li posso indossare? Mi si accusa di averli comprati con i soldi della cooperativa? Non è così, vengano a vedere gli scontrini».
Ma l'ascesa è finita. Già a maggio 2019 il giornalista pontino Emanuele Coletti raccontava, su Latina Tu, come dopo il boom «inizia la parabola discendente e il Ddl sicurezza sembra accelerare questo corso». Gli stipendi cominciano a tardare, i dipendenti calano, un decreto ingiuntivo pignora 139mila euro di crediti vantati dalla coop nei confronti di Viminale e Regione. La crisi, nera, non ha però fermato le attività della società. Forse perché, stando alle denunce, avrebbe smesso di pagare molti dei suoi lavoratori.
Dagli osanna ai silenzi: il caso Soumahoro imbarazza la sinistra. Dagli osanna intonati a gran voce ai silenzi imbarazzati. Dopo le notizie dalla procura di Latina, da sinistra è calato uno strano mutismo attorno al deputato Soumahoro. Gli unici a difenderlo, Ilaria Cucchi e Mimmo Lucano. Marco Leardi il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.
Dagli osanna intonati a gran voce ai silenzi imbarazzati. Dalle lodi sperticate ai sussurri. Di colpo attorno a Aboubakar Soumahoro è calato uno strano silenzio. E il colmo è che a tacere sono stati proprio i progressisti nostrani che fino all'altro ieri lo elogiavano senza mezze misure. Il parlamentare di origini ivoriane era diventato una vera e propria icona, sin dal suo arrivo a Montecitorio con degli stivaloni da lavoro. La sua recente visita sulla nave Ong Humanity 1, poi, lo aveva reso un paladino degli anti-Meloni: un emblema dell'opposizione al nuovo governo di centrodestra. Ora, tuttavia, a fronte delle notizie arrivate dalla Procura di Latina, quelle voci entusiastiche di sono di stranamente spente.
Il silenzio della sinistra sul caso Soumahoro
Il fascicolo esplorativo, al momento senza ipotesi di reato, aperto sulla gestione delle due cooperative della moglie e della suocera di Soumahoro ha forse innescato qualche disagio tra i progressisti, di colpo indecisi sul da farsi. Commentare la vicenda o tacere in attesa di eventuali sviluppi? Così il deputato ivoriano si è ritrovato a difendere la propria famiglia in totale solitudine. "Stanno provando a infangare la mia persona su una vicenda in cui non c'entro nulla. A chi in queste ore sta usando i miei affetti per colpirmi dico solo: ci vedremo in tribunale. Non ci fermeranno", ha affermato il parlamentare su Facebook, precisando di non essere indagato né coinvolto nella vicenda. Ma dai colleghi che fino all'altro ieri lo incensavano, sino al punto da considerarlo il "Papa straniero" tanto atteso dal Pd, nessuna espressione pubblica di sostegno. Enrico Letta? Non pervenuto. Orfini e Orlando? Spariti anche loro. Boldrini? Assente. Il tutto, a fronte di discussioni e polemiche che non accennano ad affievolirsi (Fdi ha annunciato un'interrogazione parlamentare sull'inchiesta esplorativa della procura di Latina).
La difesa di Ilaria Cucchi
L'unica personalità di sinistra a far sentire la propria voce è stata Ilaria Cucchi. "La vicenda che pare coinvolgere la famiglia di Abubakar Soumahoro se vera, sarebbe gravissima. Riguarderebbe la violazione dei diritti fondamentali dell'essere umano, tema sul quale, io, non faccio sconti a nessuno, anche perché l'ho vissuto, drammaticamente, sulla mia pelle", ha affermato la parlamentare, dicendosi "certa che Abubakar Soumahoro saprà fare chiarezza". E ancora: "Anche io, come lui, sono fiduciosa nel lavoro della magistratura. I miei valori sono la mia storia e, posso permettermi di dirlo, la 'nostra' storia. La storia di chi, insieme a me, ha lottato passo dopo passo per portare alla luce le istanze di chi non ha voce. E su questi principi andremo avanti, insieme. Sempre".
Il graffio del centrodestra a Boldrini e Soumahoro
Il silenzio dei progressisti sulle notizie trapelate è stato però notato nel centrodestra. La deputata della Lega Simonetta Matone, al riguardo, ha incalzato: "Vorremmo sapere dall'onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all'onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare 'chi vive nel fango della miseria e del caporalato', la 'miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l'affitto'. Perché apprendere, ove le notizie fossero confermate dall'inchiesta dei magistrati di Latina, di minorenni lasciati in condizioni di sofferenza senza cibo, acqua o luce rischia di ridimensionare, e di molto il suo ruolo di paladino degli ultimi".
Il sostegno di Mimmo Lucano
A difendere apertamente Soumahoro e la sua famiglia, in compenso, ci ha pensato Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace. "È una delegittimazione mediatica che si ripete sempre uguale quando qualcuno si batte per la tutela dei diritti delle persone più deboli. È un conto da pagare, quasi un effetto collaterale obbligato", ha contestato l'ex primo cittadino condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere per le sue politiche sull'accoglienza dei migranti.
Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento. Nel mirino dei pm irregolarità e minori maltrattati nella società della moglie del paladino dei migranti. Stefano Zurlo il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.
L'ombra dello sfruttamento dei minori sulle cooperative della famiglia Soumahoro. Lui, Aboubakar Soumahoro, deputato dell'Alleanza Sinistra e Verdi, solo pochi giorni fa tuonava dal molo di Catania: «Si stanno effettuando sbarchi selettivi, in violazione della Costituzione». E se la prendeva con la linea scelta dal Governo Meloni che tradirebbe le più elementari norme di civiltà.
Adesso però è lui a trovarsi in difficoltà: la procura di Latina ha aperto un fascicolo esplorativo, al momento senza ipotesi di reato, sulla gestione delle due cooperative della moglie e della suocera del politico di origine ivoriana.
Si parla di denunce di alcuni minorenni, raccolte da un sindacato della destra e finite in procura: i ragazzi, provati da migrazioni estenuanti e drammatiche, avrebbero subito vessazioni e umiliazioni nei luoghi e nelle strutture in cui avrebbero dovuto trovare finalmente un nuovo equilibrio.
E invece per due anni non avrebbero preso lo stipendio e sarebbero stati confinati in topaie senza luce nè acqua. Insomma, nei centri della coop Karibu e del consorzio Aid si sarebbero violate le regole del lavoro e pure quelle penali.
Ma naturalmente l'inchiesta è solo agli inizi e non ci sono indagati, insomma bisogna vedere come evolverà. Lui si difende con le unghie: «Non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine. Ho dato mandato ai miei legali di perseguire legalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama e getta ombre sulla mia reputazione».
È presto per trarre conclusioni, anche perché gli accertamenti dei carabinieri sono appena cominciati. E però gli elementi che affiorano sono piuttosto crudi: maltrattamenti, mancanza di luce e acqua e poi lavoro nero. Fatture false e due anni senza stipendio.
Condizioni durissime, ancora più pesanti in alcuni capannoni fra il Lazio e la Campania: qui i giovani sarebbero rimasti senza cibo né vestiti. Sono una trentina i minorenni che hanno raccontato le loro storie di disperazione ai sindacalisti dell'Uiltucs e a questo punto solo la procura potrà chiarire le eventuali responsabilità.
Soumahoro intanto è diventato un personaggio mediatico, sempre nel segno della polemica con il nuovo esecutivo di centrodestra, e moltissime persone hanno visto il video della Meloni che gli dà del tu e poi gli chiede scusa.
«Tutti ci sentiamo scolari della storia, sai?», aveva attaccato lei. E lui le aveva risposto per le rime: «Durante la colonizzazione i neri non avevano diritto al lei». Poi aveva affondato il colpo. «Forse quando un underdog - aveva aggiunto giocando sulla definizione che il premier aveva dato di sè - incontra un under-underdog viene naturale dare del tu».
Insomma, l'opposizione in prima linea, con la battaglia fra Roma e le ong, ha trasformato il parlamentare in una star nel giro di poche settimane. il Foglio gli ha dedicato un articolo e un riconoscimento: «Ci è capitato di notare che Soumahoro ha la stoffa del politico di primo piano». E in queste settimane si è perso il conto delle sue esternazioni. «Avete proceduto con sbarchi selettivi - le sue parole dal porto di Catania, dopo essere salito a bordo della Humanity 1 - in piena violazione della legalità e degli obblighi internazionali, avete selezionato i migranti come fossero oggetti galleggianti in mare». E ancora: «Antonio Gramsci scrisse che se l'uomo politico sbaglia nella sua ipotesi è la vita degli uomini ad essere in pericolo. Voi avete messo in pericolo la vita dei naufraghi».
I migranti che lavoravano per la moglie e la suocera del deputato non avrebbero rischiato la vita, ma certo avrebbero vissuto in condizioni indecorose e intollerabili.
«Non c'entro niente con tutto questo», si inalbera lui minacciando fuoco e fiamme. Ma l'ombra dello sfruttamento dei minorenni aleggia oggi sulle coop della famiglia Soumahoro.
"400mila euro di arretrati". L'indagine sulle coop della famiglia Soumahoro. Sulle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro pesano le accuse di false fatture e debiti per 400mila euro per stipendi non pagati. Francesca Galici il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.
Per raccontare la vicenda della coop Karibue e del consorzio Aid occorre partire dal presupposto che, per il momento, la procura di Latina ha aperto un fascicolo esplorativo e non ci sono ipotesi di reato. Detto questo, sempre per il momento, non ci sono ovviamente nemmeno indagati. Ma l'accensione di un faro sulle due realtà cooperative è inevitabile, dal momento che sono gestite da Marie Terese Mukamitsindo e dalla figlia Liliane Murekatete, rispettivamente la suocera e la moglie di Aboubakar Soumahoro, deputato per i migranti e contro lo sfruttamento del caporalato.
Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento
Le indagini sono iniziate lo scorso giugno, come ha spiegato il segretario Uiltucs Latina, Gianfranco Cartisano, da cui è partita la segnalazione che ha portato all'indagine. Cartisano, raggiunto dai giornalisti, ha dichiarato di essere venuto a conoscenza della situazione quando si sono presentati negli uffici del sindacato "un gruppo di lavoratori rivendicando di essere stati lasciati da 11, 12 fino a 18 e 22 mesi senza stipendio". Inizialmente si trattava di 10 persone, che sono gradualmente aumentate fino a diventare circa 30. Nelle denunce dei lavoratori, però, non ci sono le denunce per il mancato pagamento. Secondo quanto è emerso, infatti, ad alcuni sarebbero state chieste fatture false per ottenere i pagamenti, una denuncia che troverebbe riscontro anche in alcune chat che sono state consegnate alla procura. "Portami la settimana prossima fattura di metà importo", pare venisse scritto a chi chiedeva il pagamento, come spiega la Repubblica.
Il primo passo di questa vicenda è stato presentare istanza all'ispettorato del Lavoro per raggiungere un accordo in tempi rapidi: "Sia Aid che Karibu hanno condiviso l’esposizione di circa 400mila euro di stipendi non pagati. Sono stati fatti accordi individuali con rateizzazione ma già al primo step il patto è stato disatteso". I 400mila euro di debito con i lavoratori sono stati ammessi dalle due coop, che però hanno addossato tutta la colpa allo Stato, a loro dire colpevole di non aver versato nei tempi dovuti le spettanze per le associazioni che si occupano dei migranti. Circostanza smentita dallo stesso sindacato Uiltucs: "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?".
Ora, un mucchio di 8 sacchi neri abbandonati all'esterno di una struttura di Sezze, in provincia di Latina, sono diventati un vero e proprio tesoro per i carabinieri che hanno ricevuto l'incarico di condurre l'indagine. Qui dentro ci sono documenti, fatture, bilanci e ricevute sui quali portare avanti la ricerca. I sacchi sono stati abbandonati quando le coop hanno lasciato una delle loro sedi per traslocare altrove. La realtà sotto indagine da parte della procura è una delle più importanti della provincia di Latina e Marie Terese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro e presidente del Cda, nel 2018 ha vinto il Moneygram Award, premio come imprenditore dell'anno di origini straniere in Italia.
"Ci hanno anche maltrattati". Le accuse alle coop legate a Soumahoro. Il sindacato Uiltucse ha portato in procura i racconti degli stranieri che sono passati per le strutture gestite dalla moglie e dalla suocera di Aboubakar Soumahoro. Francesca Galici il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.
Fanno ancora discutere le denunce contro le coop Consorzio Aid e Karibu gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, che ha costruito la sua immagine pubblica sulla propaganda pro-migranti e contro il caporalato. Lui, il deputato di dell'Alleanza Sinistra e Verdi, è estraneo alle due coop e non è indagato. Per il momento la procura di Latina ha aperto un fascicolo conoscitivo partendo dalla denuncia del sindacato Uiltucse, che ha ricevuto le testimonianze di circa 30 migranti.
Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento
E c'è di tutto in quelle denunce. Si va dagli stipendi non pagati per un totale di circa 400mila euro alla richiesta di fatture false, passando per presunte violenze e vessazioni da parte degli stranieri, alcuni di questi minorenni ospiti delle strutture. "L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti", ha denunciato Nader, un giovane migrante ospite delle strutture delle coop Consorzio Aid e Karibu. Ma non è il solo, perché Abdul, un altro minore, ha aggiunto un carico da novanta: "Ci hanno anche maltrattati". Ovviamente, tutte le testimonianze dovranno essere verificate e per questo motivo sono in corso le indagini da parte della procura e dei carabinieri.
"400mila euro di arretrati". Bufera sulla famiglia Soumahoro
Intanto, Aboubakar Soumahoro ha condiviso un post di forte indignazione: "Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale. Per questo, dico a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico, di mettersi l'anima in pace. A chi ha deciso, per interessi a me ignoti, di attaccarmi, dico: ci vediamo in tribunale! Ho dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione". Ma la polemica si è accesa e Fratelli d'Italia alla Camera depositerà nelle prossime ore un'interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Calderone per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid.
Senza acqua né cibo: ecco la coop-ghetto gestita dai Soumahoro. A San Severo i migranti lo conoscono: "L'onorevole? Solo business e non paga..." Bianca Leonardi su Il Giornale il 22 Novembre 2022.
Puglia, San Severo. Una lunga strada immersa tra i campi delle campagne foggiane ci porta fino al ghetto dei braccianti.
Tetti in lamiera, minimarket, bar, ristoranti e alimentari: è tutto improvvisato nella baraccopoli di Torretta Antonacci, che ci accoglie tra saluti curiosi e sguardi più titubanti.
Il ghetto che accoglie circa 2500 persone - anche se è impossibile avere un dato esatto in quanto la maggior parte dei migranti non vuole essere registrata - si divide in due parti: la grande tendopoli autogestita e la parte di competenza della Regione.
Fuochi, musica e uomini che ci guardano con sospetto: il regno di nessuno è praticamente inavvicinabile. I camper lungo la strada e le «guardie» - coloro che hanno il compito di controllare chi entra e chi esce - si allertano subito per il passaggio di qualche «straniero».
Pochi metri più avanti è tutto diverso: nella foresteria - scenario di tutti i video dell'onorevole Soumahoro - è presente l'Associazione Anolf, vincitrice del bando della Regione Puglia lo scorso agosto.
«Qui sto bene, ho un letto», ci racconta un giovane bracciante. La zona è infatti allestita con moduli abitativi dati dalla protezione civile: ogni modulo ospita 4 persone per un totale di 250. «Questi posti sono pochi, tutti gli altri restano di là al freddo e a dormire per terra», continua Sangari che da anni vive nel ghetto.
È quasi ora di cena e, mentre nello spazio autogestito riecheggiano grida e urla, Dudè ci invita ad entrare «in casa». È piccola, due letti a castello e un tavolino in mezzo. Ci sono 30 gradi e il riso è sul fuoco, sui fornelli elettrici sotto il tavolo. «Oggi non lavoro perché piove. Tutte le mattine mi alzo prestissimo per andare nei campi, ci sono i taxi che ci portano e ci riportano dai campi». In realtà la questione trasporto è molto più complessa ed ha a che fare con la criminalità e il caporalato. «Tutte le mattine ci chiedono 3-4-5-6 euro»- prosegue un altro che preferisce non dirci il suo nome.
«Sono della Lega braccianti, gli uomini di Soumahoro che controllano tutto», aggiunge. Una dichiarazione importante che giustifica infatti tutte le volte che gli abitanti del ghetto ci hanno allontanato quando abbiamo chiesto proprio della Lega braccianti.
Già, l'onorevole Aboubakar Soumahoro, nei guai per l'apertura da parte della procura di Latina dell'inchiesta che vedrebbe coinvolte moglie e suocera nello sfruttamento dei migranti all'interno delle cooperative di famiglia. Significativo il servizio andato in onda ieri sera su «Quarta Repubblica», il programma di Nicola Porro, a firma di Giancarlo Palombi. La testimonianza è quella infatti di un mediatore culturale che lavorava per la cooperativa Karibu e si occupava di minori non accompagnati. L'uomo racconta di essere stato pagato dai parenti di Soumahoro soltanto due volte, di aver sempre lavorato in nero e di essere stato «accolto» e fatto vivere in condizioni di vita al limite, senza acqua né cibo. A ciò si aggiunge, quindi, la controversa visione dei braccianti pugliesi che hanno da sempre lavorato con lui. «Soumahoro non ha fatto niente, solo chiacchiere e business», dicono.
Guardandoci intorno, in effetti, la condizione del ghetto non è cambiata rispetto agli anni passati nonostante i 250mila euro raccolti con la campagna crowfunding «Cibo e Diritti». La «Casa dei Diritti e della Dignità», inaugurata nel 2020 dall'ex sindacalista, non la vediamo. Non c'è niente se non una palestra improvvisata. «Abbiamo recuperato qualcosa per tenerci in forma», raccontano. In realtà si tratta di uno spazio sotto un tendone pieno di buchi dove però, dopo il lavoro, i braccianti trovano sfogo.
Lasciamo infine il ghetto tra ululati di cani di randagi, fuochi accesi in mezzo al niente e sguardi sospetti che ci invitano ad andarcene velocemente. A prescindere dagli slogan propagandistici, dalle urla di facile consenso, dalle eventuali indagini - se la magistratura farà il suo corso - ciò che resta sono gli occhi di questa umanità dimenticata che, tra arroganza e dolcezza cerca di sopravvivere tra le macerie di un ghetto e di un passato scomodo.
"Poi vedono la realtà...". Cosa diceva nel 2018 la suocera Soumahoro sui "migranti economici". Protagonista del caso delle cooperative del Pontino, Maria Therese Mukamitsindo quattro anni fa definiva l’emergenza migranti “una bomba a orologeria”. Massimo Balsamo su Il Giornale il 22 Novembre 2022.
C’è grande disagio a sinistra per il caso Aboubakar Soumahoro. La vicenda delle cooperative del Pontino coinvolge la moglie e la suocera del deputato di Verdi-Sinistra Italiana. Qualche errore è stato fatto, ha ammesso Maria Therese Mukamitsindo, ma non ci sono stati raggiri: “Tutto è stato speso per i rifugiati”. Le indagini delle forze dell’ordine su Karibu e Consorzio Aid vanno avanti da mesi dopo - riflettori accesi su eventuali irregolarità nei contratti e sulle cattive condizioni di assistenza dei minori ospitati in quelle strutture - ma c’era un tempo in cui la titolare delle coop parlava dei migranti come di “vittime dell’inganno”.
Cosa disse la suocera
In un’intervista rilasciata a Lazio Tv nel 2018, ripresa oggi su Libero, la suocera di Soumahoro utilizzò termini più vicini al vocabolario di centrodestra che a quello di sinistra per parlare di immigrazione. In riferimento all’emergenza sbarchi, Maria Therese Mukamitsindo parlò senza mezzi termini di migranti economici:“Arrivano con la speranza di migliorare le condizioni di vita. Poi vedono la realtà, ma non possono tornare indietro perché la loro famiglia ha investito su di loro, ha pagato su di loro e loro devono rimborsare questi soldi”.
Senza acqua né cibo: ecco la coop-ghetto gestita dai Soumahoro
La presidente del cda della cooperativa Karibu rimarcò inoltre che il viaggio della speranza era finalizzato a “migliorare le condizioni di vita delle loro famiglie e loro si ritrovano che non possono più fare, non possono più andare in Germania, dove si trova lavoro, o in Francia o altrove per cercare lavoro”. E ancora, sempre dritta al punto, ammise che l’emergenza migranti era “una bomba a orologeria”.
La cooperativa nei guai
Oggi suocera e moglie di Soumahoro devono fare i conti con le accuse di dipendenti ed ex ospiti delle cooperative. Dai mancati pagamenti alle condizioni choc delle strutture, addebiti piuttosto pesanti. Interpellata da Repubblica, la Mukamitsindo ha puntato il dito contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, reo di aver dimezzato il costo per il rimborso per migrante, passato da 35 a 18 euro, senza dimenticare i tagli di assistenza sociale, corsi di italiano e psicologi.
"Alzarsi, Resistere e Andare avanti come mi state dicendo in tanti in queste ore. L'impegno deve andare avanti perché è il mandato popolare ricevuto e la nostra missione di vita. Da membro Commissione Agricoltura sono venuto qui nelle campagne pugliesi dai contadini e braccianti", la posizione di Soumahoro. Ma il paladino della sinistra deve fare i conti con qualche malumore nel suo schieramento. Verdi e Sinistra Italiana hanno chiesto un incontro per avere elementi di valutazione che contribuiscano a fare chiarezza, ma c'è anche chi inizia a manifestare imbarazzo.
"Una leggerezza...". Sinistra disperata dopo il caso Soumahoro. Tra i Verdi di Angelo Bonelli circola imbarazzo per quanto avvenuto. E il partito va in pressing: chiesto un incontro per fare chiarezza sulla vicenda. Luca Sablone su Il Giornale il 22 Novembre 2022.
Il caso Aboubakar Soumahoro sta continuando ad agitare la sinistra. Il deputato di Verdi-Sinistra non è coinvolto direttamente nella vicenda, ma quanto venuto a galla in questi giorni ha messo in forte imbarazzo la galassia rossa e tutti coloro che erano convinti di impartire lezioni morali su accoglienza e immigrazione dall'alto della propria presunzione. Ed ecco che il combattente portavoce degli "invisibili" si è lasciato andare a un durissimo sfogo con tanto di piagnisteo. Nel frattempo nel partito circola amarezza.
Il disagio nel partito
È bene ribadire che Soumahoro non risulta essere coinvolto in prima persona, così come va rimarcato che ovviamente la giustizia farà il proprio corso. Ma non ci si può esimere dal far notare che la spavalderia sempre ostentata dalla sinistra rischia di rivelarsi l'ennesima nube inconsistente di semplici parole al vento. Che volano via. Un senso di soggezione inizia a serpeggiare tra Verdi e Sinistra italiana, che guardano con apprensione agli sviluppi di un caso che ha già causato qualche mugugno interno.
Ad esempio il giornalista Goffredo Buccini dà conto che Angelo Bonelli si sarebbe sfogato solo con le persone a lui più vicine, evitando dunque di trattare pubblicamente la questione. "Ho commesso questa leggerezza", è la dichiarazione che il Corriere della Sera attribuisce al co-portavoce di Europa Verde. E pensare che lui stesso, annunciando la candidatura di Soumahoro, con la voce rotta dall'emozione lo aveva giudicato "una figura importante, un attivista che difende da vent'anni le persone invisibili".
"Errori ma...". Suocera e moglie gridano alla "manipolazione" contro Soumahoro
È comprensibile l'impaccio verso chi è stato dipinto come l'assoluto difensore delle persone senza voce e dimenticate, come le lavoratrici e i lavoratori della filiera agroalimentare. Sia chiaro: non è tanto una questione giudiziaria (su cui occorre sempre la massima cautela), ma una scena di imbarazzo politico che ha rappresentato un colpo basso per chi riteneva di possedere - in via del tutto esclusiva - lo scettro di puro sostenitore delle buone cause contro i "pericolosi cattivoni" del centrodestra.
L'imbarazzo della sinistra
Una brutta scossa per la sinistra, che aveva individuato nell'italo-ivoriano il suo potenziale leader e che addirittura aveva sognato di avere davanti "il Meloni" della galassia rossa. Soumahoro riveste un ruolo pubblico che non può passare inosservato: i fatti contestati nella vicenda hanno un rilievo politico e dunque aumenta il pressing per arrivare a un chiarimento. Va in questo senso la nota diramata a firma - tra gli altri - di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.
Nel comunicato è stata espressa personale vicinanza al deputato, ma allo stesso tempo viene fatto sapere che è stato chiesto un incontro per poter avere "elementi di valutazione su questa vicenda che contribuiscano a fare chiarezza". L'auspicio è che sul caso "venga fatta piena luce nel minor tempo possibile". Ogni parola è stata soppesata: da una parte il sostegno personale; dall'altra la richiesta di un chiarimento ritenuto indispensabile.
Non c'è solo questo. Tra i rossoverdi più di qualcuno ha notato una certa propensione al protagonismo da parte di Soumahoro che, non a caso, ha espresso la volontà di dare "una nuova casa politica a tutti quelli che non si sentono più rappresentati da questa sinistra fluida, senza identità e senza idee". Parole che, come riporta La Repubblica, hanno scatenato la reazione di un parlamentare di Verdi-Sinistra italiana: "Siamo appena arrivati e già pensa a fare altro, ma stiamo scherzando?!". Con il passare delle ore non si placano le perplessità rossoverdi.
Soumahoro, Alessandro Giuli: il contrappasso, ora è lo "Zio Tom". Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 19 novembre 2022.
Ovvio che non poteva prenderla bene, Aboubakar Soumahoro, e infatti ha proclamato che porterà in tribunale chiunque osi ricamare sull'inchiesta della procura di Latina circa l'incresciosa vicenda di sfruttamento minorile che riguarda le cooperative gestite da moglie e suocera del neo onorevole rossoverde. Una storia d'inclusione finita male, diciamo, per due società finanziate l'anno scorso con oltre duecentomila euro a fondo perduto e accusate di averne fatti mancare il doppio ai propri lavoratori (una trentina), affamandoli senza stipendio e trattandoli - sostengono loro - grosso modo come schiavi, talvolta nemmeno in regola.
INACCETTABILE
Al netto d'ogni possibile e doverosa indulgenza garantista verso gli indagati (lui non lo è), l'iniziativa dei magistrati proietta un'ombra feroce sulla vita dell'ex sindacalista di origini ivoriane che ha modellato la propria immagine sulla necessità del riscatto per gli ultimi della Terra, i deboli e gli sfruttati dal dominio colonialista occidentale. «Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine dell'arma dei carabinieri, di cui ho sempre avuto e avrò fiducia», ha scritto Soumahoro in un lungo post corredato da una foto che lo ritrae nella posa gagliarda delle gloriose Black Panthers, braccio destro svettante con pugno chiuso, sebbene in giacca e cravatta in omaggio al dress code parlamentare da lui impreziosito indossando stivali di gomma nel primo giorno a Montecitorio («non devono essere più intrisi dal fango dell'indifferenza e dello sfruttamento»). Nelle intenzioni quello voleva essere il gesto simbolico che restituiva l'onore negletto del bracciantato mondiale, un colpo di teatro umanitario perfettamente in linea con il suo stile di combattente mediatico prestato al Palazzo dei potenti.
«Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale», solennizza Soumahoro, quasi ad arieggiare l'incipit d'un romanzo di Paul Nizan o del più noto pied noir Albert Camus, genotipo letterario dell'Umanità in rivolta (è anche il titolo di un suo libro per Feltrinelli) contro l'ingiustizia sociale e il razzismo, costretto adesso a ricorrere agli avvocati per «perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione».
Guai, dunque, «a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico». Poiché, ecco il gran finale in crescendo, «nessuno mi fermerà e nessuno ci fermerà. Il nostro cammino di speranza e di una politica al servizio del NOI non si fermerà né si farà intimidire. Siamo un'umanità che ha deciso di dare una rappresentanza politica a chi ha sete di diritti e dignità. Io sarò al servizio di questa nobile e alta missione».
Soumahoro deve aver letto i motteggi derisori dei suoi avversari, quelli che ora gli danno del sedicente puro in via d'epurazione per l'invalicabile e paradossale legge del contrappasso formalizzata a suo tempo dal leader socialista Pietro Nenni e di lì in poi abusata per contrassegnare i rovesci d'ogni suprematismo morale. Quel virtuismo che il nostro deputato ha saputo mirabilmente cangiare in virtuosismo dialettico e indignata rivendicazione militante: «Non ho mai barattato e non baratterò mai la mia ricchezza spirituale con le ricchezze materiali, perché per me la ricchezza spirituale ha la supremazia su quella materiale. Siamo qui di passaggio...». Soltanto poche settimane fa, Soumahoro otteneva le scuse della premier Giorgia Meloni che gli aveva dato del "tu" in Aula nel corso delle controrepliche al discorso d'insediamento per il voto di fiducia: i media fiancheggiatori ebbero buon gioco nell'enfatizzare una punta di retropensiero demonizzante: come potrebbe, in effetti, una postfascista non declassare il suo interlocutore di pelle nera? Da ultimo, il paladino degli stranieri è stato avvistato al porto di Catania intento a monitorare le condizioni dei naufraghi bloccati sulla nave Humanity 1. I suoi social ospitano una piccola galleria di pose pugnaci e accigliate, financo in compagnia di papa Bergoglio (in questo caso, però, con un sorriso aperto di soddisfazione).
UNA VITA DI DENUNCIA
Ma tutta la sua biografia è un manifesto programmatico di dolente denuncia radicata nella precarietà dell'esistenza grama. Sicché non deve stupire che il suo contrattacco sia intonato all'idea di poter guardare con fierezza negli occhi, «quando giungerà la mia ora di lasciare la terra», tutti coloro che hanno creduto nella sua «buona battaglia». È il grido di dolore del sans-papier avvezzo agli scioperi della fame contro il caporalato, del macroscopico "invisibile" che s' incatenò ai cancelli di Villa Pamphilj durante gli Stati generali della vanità pandemica organizzati da Giuseppe Conte... Il Giuseppe Di Vittorio africano che, proprio no, non ci sta a passare per un ipocrita Zio Tom circondato da schiaviste.
Verso la manovra: le indiscrezioni vi convincono?
Il Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini entra ai gruppi della Camera per la riunione sull'immigrazione a cui hanno partecipato tra gli altri la Premier Meloni e il Vicepremier e Ministro degli Esteri Tajani e il Ministro della Difesa Crosetto.
Il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi va via dai gruppi della Camera dopo la riunione sull'immigrazione a cui hanno partecipato tra gli altri la Premier Meloni, Matteo Salvini Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Vicepremier e Ministro degli Esteri Tajani e il Ministro della Difesa Crosetto.
Soumahoro, "neanche i cani": cos'hanno trovato nelle coop. Libero Quotidiano il 22 novembre 2022
La posizione di Aboubakar Soumahoro vacilla. Il deputato di Alleanza Verdi Sinistra italiana è al centro della cronaca, politica e giudiziario. Le cooperative di moglie e suocera sono sotto la lente di ingrandimento della Procura di Latina. Le accuse sono delle più pesanti se si considera che il sindacalista si è presentato come il difensore dei diritti dei più deboli. Karibu e il consorzio Aid sono state denunciate per presunte irregolarità nei pagamenti degli stipendi e per aver fatto lavorare alcuni lavoratori in condizioni pessime.
Quanto basta a sollevare il polverone fuori e dentro il suo partito. "Ho commesso questa leggerezza", sarebbe stato lo sfogo riportato dal Corriere della Sera del co-portavoce Europa Verde, Angelo Bonelli. È stato lui infatti a spingere per una sua candidatura. Ma non è tutto, perché a dire la sua ci pensa anche l'ex senatrice di Sinistra Italiana, Elena Fattori, che nel 2019 fece un sopralluogo nelle due cooperative al centro dell'indagine della procura di Latina. Si tratta di posti "indecenti, al limite del fatiscente dove non ospiterei neanche i cani" afferma Fattori.
A peggiorare la già grave situazione di Soumahoro e famiglia alcune foto. Mentre il deputo piangeva a favor di social network spiegando che la moglie era attualmente disoccupata, Liliane Murekatete pubblicava scatti con tanto di borse e occhiali di lusso in hotel pluristellati. Quanto basta a farle guadagnare a Latina il nomignolo di Lady Gucci. Intanto si respira un clima tesissimo tra Verdi-Sinistra e il deputato, tanto che stando a diverse indiscrezioni domani Soumahoro dovrebbe essere convocato per un chiarimento.
Soumahoro e gli stivali: "Non sono suoi, deve ridarmeli", bomba-Striscia. Libero Quotidiano il 22 novembre 2022
Striscia la Notizia vuole far luce sul caso che sta travolgendo Aboubakar Soumahoro. Il neodeputato di Alleanza Verdi e Sinistra è al centro della cronaca per le cooperative di moglie e suocera. Queste ultime sono state accusate da alcuni lavoratori di non aver pagato diversi stipendi e di aver fatto lavorare loro in condizioni pessime. E così il tg satirico in onda su Canale 5 nella puntata di martedì 22 ottobre ha raggiunto Soumaila Sambare, ex socio dell'attuale parlamentare.
È lui a parlare di Soumahoro con Pinuccio: "Durante la pandemia con la Lega Braccianti abbiamo raccolto circa 250mila euro di fondi per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti", riferisce. I due, infatti, avevano dato vita all'ente a tutela dello sfruttamento delle maestranze che lavoravano nei campi. "Circa 60-70mila sono stati effettivamente spesi, ma quando abbiamo chiesto ad Aboubakar i resoconti delle rimanenze siamo stati fatti fuori". Che fine hanno fatto dunque gli altri soldi?
Ma non finisce qui, perché Sambare si scaglia contro l'ex socio con il quale ci sarebbe un'altra contesa. "I famosi stivali che Aboubakar ha indossato in Parlamento - conclude al vetriolo - glieli ho comprati io. Lui adesso è un signore: me li può restituire? A me sì che servono per andare a lavorare".
Da liberoquotidiano.it il 23 novembre 2022.
Striscia la Notizia vuole far luce sul caso che sta travolgendo Aboubakar Soumahoro. Il neodeputato di Alleanza Verdi e Sinistra è al centro della cronaca per le cooperative di moglie e suocera. Queste ultime sono state accusate da alcuni lavoratori di non aver pagato diversi stipendi e di aver fatto lavorare loro in condizioni pessime. E così il tg satirico in onda su Canale 5 nella puntata di martedì 22 ottobre ha raggiunto Soumaila Sambare, ex socio dell'attuale parlamentare.
È lui a parlare di Soumahoro con Pinuccio: "Durante la pandemia con la Lega Braccianti abbiamo raccolto circa 250mila euro di fondi per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti", riferisce. I due, infatti, avevano dato vita all'ente a tutela dello sfruttamento delle maestranze che lavoravano nei campi. "Circa 60-70mila sono stati effettivamente spesi, ma quando abbiamo chiesto ad Aboubakar i resoconti delle rimanenze siamo stati fatti fuori". Che fine hanno fatto dunque gli altri soldi?
Ma non finisce qui, perché Sambare si scaglia contro l'ex socio con il quale ci sarebbe un'altra contesa. "I famosi stivali che Aboubakar ha indossato in Parlamento - conclude al vetriolo - glieli ho comprati io. Lui adesso è un signore: me li può restituire? A me sì che servono per andare a lavorare".
Soumahoro, alle coop di moglie, suocera e cognata oltre mezzo milione per i rifugiati ucraini. Dario Martini su Il Tempo il 23 novembre 2022
Non pagavano più gli stipendi ai lavoratori delle coop attive nell'accoglienza dei migranti, ma nello stesso tempo partecipavano e vincevano i bandi della Regione Lazio per assistere i rifugiati ucraini. Più di mezzo milione di euro, per la precisione 557mila euro, aggiudicati a giugno scorso e volti a finanziare i progetti delle società che fanno capo a suocera, cognata e moglie di Aboubakar Soumahoro, parlamentare dell'Alleanza Verdi Sinistra. Tutto ciò mentre le buste paga arretrate ammontavano a circa 400mila euro, come denunciato dagli stessi dipendenti al sindacato Uiltucs.
La prima approvazione regionale risale al 6 aprile scorso, quarantuno giorni dopo l'invasione russa dell'Ucraina. Nell'elenco dei progetti ammessi al finanziamento - come si legge nei documenti pubblicati dalla Regione - compare anche quello presentato dalla coop Karibu, di cui è amministratrice la suocera di Soumahoro, Marie Therese Mukamitsindo, e in cui compare come consigliera d'amministrazione la moglie Liliane Murekatete.
Il progetto si chiama I.C.A.R.U.S., «Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa». Importo: 259mila euro. L'altro progetto ammesso è quello del Consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti), di cui è presidente la cognata del deputato, Aline Mutesi, e consigliera Mukamitsindo. Si chiama B.U.S.S.O.L.A., «Bisogni degli ucraini per il sostegno socio-lavorativo», per un finanziamento di 298,300,48 euro. I due progetti in questione sono stati approvati definitivamente con determinazione regionale del 3 giugno. Il giorno seguente ne ha dato annuncio il Comune di Latina, dove hanno sede le due cooperative. Anche altre due società, Ninfea e Il Quadrifoglio, che nulla hanno a che vedere con la famiglia Soumahoro, sono riuscite ad aggiudicarsi i finanziamenti regionali. Come ricordava l'amministrazione del capoluogo pontino, l'iniziativa era volta «alla realizzazione di interventi e di reti per la presa in carico e l'inclusione socio-lavorativa della popolazione ucraina sul territorio della Regione Lazio». «Auspichiamo che tali interventi - dichiarava la vicesindaca e assessora al Welfare Francesca Pierleoni - permettano ai rifugiati accolti sul nostro territorio di essere rapidamente autonomi, perché la dignità e la speranza che si riacquista con il lavoro è impagabile. Oggi queste persone hanno bisogno di essere sostenute per credere in un futuro possibile di pace e di sviluppo». I progetti di integrazione dei rifugiati ucraini si svolgono in viale Corbusier, al centro direzionale di Latina, dove si trovano, appunto, sia la coop Karibu che il consorzio Aid. E dove ha una sede anche la Lega dei braccianti, il sindacato che fa capo a Soumahoro. Stesso indirizzo, stesso numero civico, stessi uffici al piano terra. Come ha detto recentemente la suocera, «è una sede come tante altre, Aboubakar non ci veniva mai, ci ha messo un ragazzo per fare campagne di sensibilizzazione sui braccianti sfruttati».
Il parlamentare, è bene ricordarlo, non è indagato e non ha ruoli né in Karibu né in Aid. Lo ha ribadito lui stesso in un video pubblicato su Facebook tre giorni fa, con cui si è scagliato contro i suoi accusatori: «Mi volete morto - ha detto piangendo - mi volete distruggere, pensate di seppellirmi ma non ci riuscirete. Mi dite cosa vi ho fatto? È da una vita che lotto per i diritti delle persone». Il suo stesso partito, però, si interroga se sapesse delle presunte malsane condizioni dei centri denunciate dai migranti e degli stipendi non pagati su cui indaga la Procura di Latina.
Dimartedì, Sallusti spiana Soumahoro: come un personaggio di Checco Zalone. Il Tempo il 22 novembre 2022
La vicenda di Aboubakar Soumahoro è sui generis, con il sindacalista eletto alla Camera dei deputati con Sinistra Italiana che passa dal pianto alle accuse alla stampa, senza spiegare davvero cosa è successo nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie, e finite nell'inchiesta della procura di Latina (dove il suo nome non compare). Ma la storia è anche tipica di certi "innamoramenti" della sinistra che spesso finiscono, sempre per stare sul fil di metafora, con cuori spezzati e tradimenti. Alessandro Sallusti è ospite di Giovanni Floris a Dimartedì e spiega come la figura di Soumahoro stia diventando giorno dopo giorno sempre più simile a un "personaggio di un film di Checco Zalone". "Anche nella fisionomia", dice il direttore di Libero mentre scorrono le immagini del pianto sui social del sindacalista "con gli stivali sporchi di fango".
"Sta rendendo ridicolo un problema serissimo", tanto che "avrebbe bisogno di un consulente mediatico. Anche perché non spiega" nulla nelle sue dichiarazioni, ricorda Sallusti. "La moglie va in giro vestita Prada e Luis Vuitton ma non paga i dipendenti, fatti una domanda e datti una risposta" è la stoccata nella puntata di martedì 22 novembre.
Ma la vicenda mette in luce anche un altro aspetto, ossia "che la sinistra cade in facili infatuazioni, si innamora di personaggi senza verificare" se le aspettative corrispondano alla realtà. "È successo col sindaco di Locri e con certi comandanti di navi di Ong" afferma il giornalista. In studio c'è Gianrico Carofiglio, scrittore, che ricorda come in certi casi bisognerebbe limitarsi a dire di essere fiduciosi nei confronti della magistratura e di voler chiarire tutto. "Non ho apprezzato la comunicazione di Soumahoro in cui c'è un vittimismo che si collega a un concetto inglese, entitlement, come se si venisse privati di una cosa che spetta di diritto a sé e non agli altri".
Soumahoro, Sallusti: "Perché lo scandalo della moglie non mi stupisce". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 18 novembre 2022.
Maltrattamenti, privazioni, persone sottopagate o addirittura non pagate, soldi pubblici ricevuti ma gestit iin modo opaco. Aboubakar Soumahoro, il neo deputato del centro sinistra paladino dei diritti degli immigrati, prima di salvare il mondo mi sa che dovrà provare a salvare la sua famiglia e se stesso. Moglie e suocera sono infatti finite al centro di una inchiesta giudiziaria sulla gestione delle loro cooperative di Latina che si occupano di dare lavoro agli immigrati, una brutta storia di presunti abusi, vessazioni e fatture false ancora tutta da chiarire. Come andrà a finire lo vedremo ma già oggi, date le testimonianze raccolte dai pm, si può dire che nella migliore delle ipotesi in quella famiglia – personale e politica – si predica bene ma certamente si razzola male.
Detto che il deputato anti Piantedosi non è coinvolto, c’è da chiedersi come c’è da credergli quando dice di voler controllare le politiche migratorie del nuovo governo se non è neppure in grado di controllare moglie e suocera. La cosa non mi stupisce, sia vedendo il soggetto in questione sia perché uno dei tanti non detti riguarda proprio il grande business della gestione degli immigrati che è quanto di più opaco e infiltrato da gente senza scrupoli ci sia oggi sul mercato. Lo è dalla sua origine – le milizie libiche che gestiscono il traffico e riciclano i proventi in armi e droga – e per tutta la filiera della gestione dell’emergenza prima e dell’accoglienza poi. Clamorosa, nel 2021, fu la condanna in primo grado a 13 anni di carcere per truffa, peculato, falso e abuso di ufficio di Mimmo Lucano, sindaco di Locri che con il suo modello di accoglienza spregiudicato era diventato anche lui un idolo della sinistra.
Ecco, invece che pontificare ogni giorno contro chi vorrebbe mettere un po’ di ordine in tutta la faccenda, invece che insultare – vedi il “bastardi” di Saviano – e accusare di razzismo e cinismo Giorgia Meloni e Matteo Salvini la sinistra bene farebbe a guardare in faccia la realtà e a fare pulizia in casa sua. Continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto del buonismo non giova né agli immigrati né all’Italia.
Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2022.
"K Mare 2018". Laddove 2018 è l'anno di lancio della collezione di costumi, parvi e kaftani proprio alla vigilia della stagione estiva. Stilista d'eccezione: Liliane Murekatete, la moglie di Aboubakar Soumahoro, fresca di nomina come consigliere della cooperativa sociale Karibu, impegnata nei sevizi di accoglienza dei migranti nella provincia di Latina.
Quella stessa Karibu che oggi, insieme al Consorzio Aid, dove risultano amministratori la cognata e la suocera del deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana (estraneo ai fatti), è sotto «accertamenti» da parte della procura di Latina per presunte irregolarità gestionali.
Ebbene Liliane, quando viene chiamata nel Cda della società, lancia l'idea di una linea di moda realizzata dai richiedenti asilo della sua Coop. Una sorta di «made in Italy africano», riferirono all'epoca le cronache, che se da una parte ebbe il merito di favorire l'integrazione dei richiedenti asilo e degli altri ospiti della struttura, dall'altra suscitò polemiche per le modalità scelte da Liliane per la presentazione dell'iniziativa.
Con tanto di sfilata per il casting per la selezione dei modelli chiamati a indossare i capi di abbigliamento. In una foto si vede lady Soumahoro al tavolo della giuria che dà i voti alle modelle. CasaPound affisse uno striscione - «Per una moda che ti veste ce n'è una che ti spoglia», - e attaccò Karibu, «questa cooperativa che riesce in un colpo solo a coniugare il più spregevole consumismo con un business di finta solidarietà».
Il movimento politico denunciò le iniziative fashion della Coop, «sponsorizzate su Facebook da foto piene di marche costose utilizzate dalla presidente».
Liliane contrattaccò con queste parole: «Non prendo soldi da questa Coop, ma ho avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono potuta permettere abiti firmati. Siccome sono una donna di colore non li posso indossare?». Fatto sta che è in quel momento che in rete iniziano a circolare le foto di lady Soumahoro circondata dalle griffe.
Nel passato di Liliane, che su Repubblica rivendica il ruolo di «rappresentante della presidenza del Consiglio per l’Africa, con Prodi e Berlusconi» (dal 2004 al 2011), c’è anche la partecipazione in una società che con la gestione dei migranti non c’entra nulla: la Venere the Weeding planer s.n.c., avete per missione «l’organizzazione in proprio o con l’ausilio di terzi di cerimonie, convegni, matrimoni e manifestazioni».
Nella società, costituita il 21 giugno 2002, è presente un secondo amministratore, Fabiana Rossi. Tuttavia al momento, come emerge dalla visura storica effettuata presso la camera di commercio di Frosinone e Latina, risulta «inattiva». Qualcuno, però, dietro assicurazione di anonimato, la ricorda: «La utilizzavano per le cerimonie in ambito istituzionale, per gli eventi nei Comuni».
Altra circostanza: la Lega dei braccianti, fondata da Soumahoro il 12 agosto 2020 in concomitanza con l’anniversario della nascita di Giuseppe Di Vittorio, ha una propria sede anche a Latina. Nello stesso stabile che ospita la cooperativa Karibu.
La Uiltucs, il sindacato che ha raccolto le denunce dei lavoratori delle Coop per il mancato pagamento degli stipendi - nonché le segnalazioni dei minori per le cattive condizioni dei centri di accoglienza -, alla luce di quanto sta avvenendo è pronto a chiedere un «incontro ufficiale, con tutte le parti, al prefetto di Latina. Vogliamo un tavolo permanente», spiega il segretario provinciale, Gianfranco Cartisano, «perché vogliamo regolarizzare la posizione di tutti gli altri lavoratori che si sono rivolti a noi».
In tutto sono 26 i dipendenti delle due Coop che hanno denunciato il mancato pagamento delle spettanze. Di quattro di questi, grazie a una «sostituzione alla procedura di pagamento» operata proprio dalla prefettura, la situazione è stata sanata. «Ne mancano altri 22», fa di conto Cartisano, lavoratori «in capo a ministero dell’Interno, Regione Lazio, Comuni aderenti al progetto Sprar e alle case per i minori».
Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per “La Verità” il 22 novembre 2022.
L'inchiesta della Procura di Latina sulla cooperativa Karibu e sul consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti) prosegue e si sta concentrando sul consiglio di amministrazione della coop in gravi difficoltà economiche, nonostante solo nel 2021 abbia incassato 2,5 milioni di euro di commesse dalle pubbliche amministrazioni.
Domenica il parlamentare dell'Alleanza verdi e sinistra Aboubakar Soumahoro ha dichiarato sui social: «Mia moglie attualmente è disoccupata, è iscritta all'Inps, non possiede allo stato attuale nessuna cooperativa». E ha aggiunto: «Parlate con mia suocera chiedete a lei che è proprietaria della sua coop».
E quando David Parenzo gli ha fatto notare che la compagna risulterebbe ancora dentro al Cda di Karibu, il parlamentare ha svicolato. In effetti alla Camera di commercio Liliane Murekatete è indicata come consigliere di amministrazione in carica, al pari del trentasettenne ruandese Michel Rukundo, consigliere in entrambe le società sotto inchiesta.
Anche quest' ultimo farebbe parte della famiglia: «Sin dal primo giorno Rukundo si è presentato a noi dichiarandosi rappresentante dell'azienda e figlio della presidente Marie Therese. Un'altra sorella, Aline Mutesi, è, invece, presidente del consorzio Aid» ci ha spiegato Gianfranco Cartisano, il sindacalista della Uil Tucs che ha fatto esplodere il caso della Karibu portando avanti le vertenze di 26 lavoratori che reclamavano retribuzioni non corrisposte da mesi per 400.000 euro.
In realtà già dal 2019 la Procura di Latina, guidata da Giuseppe de Falco, aveva avviato un'inchiesta sulle attività della coop e del consorzio. Inizialmente il fascicolo era in mano alla polizia di Stato che era stata coinvolta per un'ipotesi di sfruttamento dopo un accesso degli ispettori del Lavoro di Latina, ufficio oggi guidato da Anna Maria Miraglia.
Dopo alcuni mesi l'indagine è stata trasferita alla Guardia di finanza che ha iniziato ad approfondire la pista dell'utilizzo dei fondi pubblici che la cooperativa incassa per la gestione dei migranti.
E così agli indagati (sono più di uno) è stata contestata la malversazione di pubbliche erogazioni. Gli accertamenti si sono concentrati sugli amministratori di fatto e di diritto della Karibu e quindi sull'intero Cda che comprende la presidente Mukamitsindo e, come detto, i suoi due figli.
Alla Verità risulta che inizialmente al centro delle indagini ci fossero solo la madre e il figlio, particolarmente coinvolto nella gestione delle attività (per esempio guida un pullmino per il trasporto dei minori). Ma più recentemente l'attenzione è stata spostata anche su Liliane.
E la decisione non deve sorprendere. Infatti nell'ultima assemblea della Karibu, indetta lo scorso 30 agosto per l'approvazione del bilancio, c'erano solo due nomi scritti nero su bianco: quella della Mukamitsindo e della figlia, «chiamata a fungere da segretario».
Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e che dopo «una breve, ma approfondita discussione» l'assemblea dei soci ha deliberato «all'unanimità di approvare il bilancio».
In quell'incontro, in cui erano presenti «il consiglio di amministrazione al completo» e un numero indefinito di soci non identificati, è stato stabilito di «coprire la perdita mediante l'utilizzo della riserva legale e per la restante parte mediante la rinuncia dei soci ai versamenti infruttiferi». Nel verbale si legge anche che «l'esercizio evidenzia un utile di 175.631 euro al netto di imposte di competenza per euro 26.325 euro». Ma nonostante questo la situazione è tutt' altro che rosea.
«La cooperativa Karibu negli ultimi anni ha contratto di molto il proprio fatturato predisponendo un corrispondente piano programmatico che prevedesse contestualmente la riduzione dei costi fissi, riduzione dell'organico; progressiva riduzione dei debiti prevalentemente erariali e nei confronti dei collaboratori» hanno messo per iscritto Marie Therese e Liliane.
Nella nota integrativa del bilancio è puntualizzato: «L'anno 2021 ha visto un cambiamento nell'ambito lavorativo specifico della cooperativa. I progetti in essere per l'assistenza agli immigrati sono stati quasi tutti messi da parte all'infuori della categoria minori e si è cercato di avviare nuovi progetti sia con la Regione Lazio che con l'ente LazioCrea».
E anche se nel 2021 si parla di 2,5 milioni di euro di incassi da clienti e di 227.000 euro ricevuti a fondo perduto per l'emergenza Covid, nei conti della Karibu non mancano le note dolenti. Per capirlo basta scorrere il bilancio.
Le voci passive più significative sono sostanzialmente quattro: debiti verso le banche (437.000 euro), verso i fornitori (207.000), debiti tributari (1.050.000 euro) e previdenziali (107.000).
I «buffi» ammontano in tutto a 2.060.000 euro e lo stato patrimoniale è pressoché azzerato. Un quadro che gli organi di vigilanza del ministero delle Imprese e del made in Italy considerano molto preoccupante.
Ma nonostante questo sono stati segnati a bilancio 865.930 euro come spesa per il personale e 392.801 come costo delle prestazioni lavorative dei soci. Oltre 100.000 sono toccati alla presidente, mentre il figlio Rukundo nel 2021 ha incassato circa 50.000 euro dalla coop e 15.000 dal consorzio; nel 2020 80.000 in tutto e circa 100.000 l'anno prima.
Emolumenti fuori target per una cooperativa sociale in difficoltà, ma che, secondo un ex consulente della coop, venivano decisi dal cda e non dall'assemblea dei soci.
In conclusione per Soumahoro la compagna «attualmente è una disoccupata», ma, almeno sino a pochi giorni fa, faceva parte di un consiglio di amministrazione che, ancora nel 2021, distribuiva emolumenti che oscillavano tra i 50.000 e i 100.000 euro l'anno. Ieri abbiamo provato a chiedere a Liliane a quanto ammontasse il suo gettone, ma non siamo riusciti a metterci in contatto con la donna.
Adesso la Procura dovrà verificare se fosse tutto in regola. Anche il ministero delle Imprese e del made in Italy sta facendo i suoi controlli. Oggi gli ispettori inviati da Adolfo Urso dovrebbero entrare ufficialmente nella sede delle ditte sotto i riflettori, al centro commerciale Latinafiori. Uffici condivisi con la Lega braccianti di Soumahoro, che, però, sostiene di non sapere nulla delle attività delle sue affini.
Un giro d'affari milionario nella coop di famiglia. La suocera sotto indagine. Bianca Leonardi su Il Giornale il 24 Novembre 2022
Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, è indagata dalla procura di Latina. E adesso per l'onorevole si mette male.
Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, è indagata dalla procura di Latina. E adesso per l'onorevole si mette male. Anche se lui si dichiara estraneo, ormai è coinvolta tutta la famiglia che, come ironizza Bechis è «povera ma con villa a Casal Palocco». Il deputato, infatti, nello scorso luglio - quando ancora non era in Parlamento - avrebbe aperto un mutuo di 250mila euro intestato per metà a lui e per metà alla moglie. Quella moglie nullatenente di cui parla lui stesso nel video in lacrime. Un mutuo trentennale per una villa da 450mila euro.
La domanda resta sempre la stessa: da dove arriva tutto quel denaro? Sicuramente guardando i bilanci delle due coop, Karibu e Aid - che Il Giornale ha consultato nonostante non siano pubblici anche se la legge lo impone, trattandosi di enti del terzo settore - è chiaro che il giro di soldi fosse molto alto, soprattutto grazie ai finanziamenti delle pubbliche amministrazioni. Al 31 dicembre 2020 il Consorzio Aid, presieduto dalla cognata di Soumahoro, ha rendicontato ben 1 milione e 165 mila euro solo dalla Prefettura di Latina che bonificava all'azienda somme mensili dai 70 ai 107 mila euro per la gestione dei servizi di accoglienza migranti e richiedenti asilo.
Il Comune di Latina, invece, ha erogato una sola somma nello stesso anno pari a 10mila euro, accompagnati però da bonus fiscali dal Mise, un contributo a fondo perduto di circa 35mila euro e - ciliegina sulla torta - 480 euro di bonus affitto. Per quanto riguarda la Karibu invece si parla - al 2020 - di ben più di 2 milioni di euro di debiti, tra cui 590mila euro da saldare alle banche e 774mila circa di tasse.
Il 2021 invece si chiude negativamente per 175 mila euro circa ma, si legge ancora nel bilancio, sul costo totale del personale, circa 866mila euro, più del 45% e cioè circa 393mila euro, sono destinati ai soci. Motivo per cui, probabilmente, i dipendenti aspettano ancora lo stipendio. Bugie anche da parte della suocera Mukamitsindo. Se a Repubblica ha dichiarato di «non dormire la notte» perché ha dovuto licenziare alcuni dipendenti e metterne altri in cassa integrazione, sulla nota integrativa del bilancio in nostro possesso - a sua firma - si legge: «Non si è potuto licenziare il personale non necessario, né tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione». Da qui la decisione di «intraprendere nuovi progetti». Quei nuovi progetti che, probabilmente, si traducono nel bando della Regione Lazio - lo scorso aprile - per il soccorso ai profughi ucraini. Intascati da Karibu 259 mila euro e 289 mila da Aid.
Su ciò la Gdf, come riporta Domani, ha scoperto che soldi della Karibu finivano su un conto africano riferibile a Richard Mutangana, cognato di Soumahoro. L'uomo avrebbe lavorato alla coop per circa 1000 euro al mese, fa sapere la madre Mukamitsindo, sufficienti però a mettere in piedi un resort in Ruanda, dove ora vive. E se è vero che Soumahoro si dichiara estraneo ai fatti è vero anche che la sede legale Aid in Lazio è la stessa della sua Lega Braccianti, protagonista di una seconda raccolta fondi fuffa in Puglia. I 16mila euro per i regali di Natale dei bambini del ghetto vengono subito smentiti da Francesco Mirarchi, coordinatore di Anolf, associazione che gestisce la foresteria di Torretta Antonacci. «Qui non ci sono bambini, nei ghetti ci sono uomini braccianti e pochissime donne», ci racconta. E sempre Torretta Antonacci è lo sfondo di un'aggressione nei confronti di Mohammed Elmajidi, presidente Anolf che dichiara: «Sono stato aggredito il primo giorno che sono arrivato al ghetto, ho riconosciuto alcuni ed erano Usb e Lega Braccianti».
Sulla denuncia che ha presentato, di cui siamo in possesso, compaiono infatti proprio i nomi dei responsabili del ghetto nominati dall'ex sindacalista: Sambarè Soumaila, Balde Mamadoue e Berre Alpha. «Non so più niente di quella denuncia, nessuno mi ha fatto sapere gli sviluppi», conclude Elmajidi. Molte le denunce, infatti, che sono rimaste nel cassetto ma su ciò il Procuratore Capo di Foggia, Ludovico Vaccaro dichiara: «Portiamo avanti decine e decine di inchieste, alcune le abbiamo concluse mentre su altre sono in corso le indagini».
Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia per “Domani” il 23 novembre 2022.
La vicenda giudiziaria che ha travolto la famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro, eletto alla Camera dall’Alleanza Verdi e Sinistra, è solo all’inizio. Le indagini della Guardia di Finanza sulle due cooperative Karibu e Consorzio Aid, gestite dalla suocera del parlamentare Marie Therese Mukamitsindo e dalla moglie Liliane Murekatete, hanno finora mappato solo i finanziamenti pubblici per milioni ottenuti dal 2018 al 2020, per capire se sono stati spesi o meno secondo le regole.
Ora i militari dovranno setacciare pure bonifici, entrate e uscite degli ultimi due anni durante i quali il conto economico delle attività di famiglia è precipitato, provocando la crisi che ha portato 26 lavoratori a cui non venivano pagati gli stipendi per 400mila euro («è colpa degli enti che a loro volta sono indietro con le erogazioni», risponde Mukamitsindo) a rivolgersi al sindacato UilTucs, che ha fatto scoppiare il caso sui giornali.
Come ha anticipato La Verità, indagata da tempo con l’ipotesi di malversazione è per ora la suocera del deputato, presidente del cda della Karibu. Ma gli inquirenti stanno vagliando altre posizioni, per capire eventuali illeciti di altri consiglieri (anche la moglie di Soumahoro sedeva nel cda) e soggetti che hanno gestito negli anni le realtà no profit. Come Richard Mutangana, altro figlio della fondatrice e cognato di Soumahoro. Mutangana si presentava come direttore dei progetti della Karibu, coop specializzata in progetti per l’accoglienza dei richiedenti asilo sul territorio pontino.
Quello del fratello della moglie del deputato è un nome che ricorre spesso nelle carte della Gdf di Latina, che ha analizzato i conti della Karibu ed enti satelliti. Scoprendo che denari pubblici finivano anche su un conto in Ruanda, riferibile a Mutangana (che ad oggi non risulta indagato), e che oltre a lavorare nella cooperativa aveva messo in piedi in Africa altre attività.
Nel suo profilo LinkedIn l’uomo risulta manager dell’associazione Jambo Africa, che si occupa di promozione sociale, ma gli ex dipendenti di Karibu - sentiti da Domani - ricordano anche altre iniziative. «Nel 2018 eravamo già in forte difficoltà. La coop ritardava i pagamenti, e alcuni colleghi non riuscivano a pagare più nemmeno le rate dell’auto. A luglio Liliane Murekatete conosce Soumahoro durante un’iniziativa pubblica. Cercammo di approfittarne per parlargli della nostra situazione, ma non ne abbiamo avuto la possibilità. Proprio in quell’anno, però, scopriamo che Mutangana aveva aperto un ristorante a Kigali, in Ruanda», dice un’ex dipendente.
Su Tripadvisor esiste un ristorante a Kigali che si chiama “Gusto italiano”: è proprio il fratello di Liliane a caricare le foto delle prelibatezze preparate dagli chef, come il filetto di pesce agli spinaci e il pollo arrostito, e a mostrare le immagini della piscina. «Ottimo ristorante, adatto anche ad eleganti aperitivi all’aperto, personale gentile ed accogliente e la miglior pizza di Kigali», si legge in una recensione. Tra chi ha messo like sul profilo del resort ci sono anche alcuni ex dipendenti della Karibu.
Al numero di telefono del ristorante non risponde nessuno, e inutili sono stati anche i tentativi di contattare il titolare via social. Domani voleva chiedere della decisione di occuparsi di un locale in Ruanda mentre era dipendente della Karibu, e il perché dei denari accreditati dalla cooperativa su un conto africano a lui riferibile.
Sappiamo, però, che Mutangana è pure il manager di Kiwundo Entertainment, una realtà che organizza serate live, karaoke, concerti e visione di partite di calcio nell’ampio giardino del ristorante ruandese. Il primo post caricato sui social risale al luglio 2018. In un video dell’agosto 2019 viene presentata una serata con lo slogan «Don’t miss», non perdertela. Nel video gli ospiti ballano in piscina, una coppia si diletta a bordo vasca e i camerieri portano delizie ai tavoli.
Al tempo la notizia dell’apertura del ristorante del figlio della presidentessa non piacque a chi non riusciva a ottenere il pagamento degli stipendi dalla Karibu. «Noi non vedevamo un soldo, mentre veniva aperto un locale dall’altra parte del mondo», conclude l’ex dipendente.
Abbiamo provato a chiedere alla moglie di Soumahoro se il fratello incassasse bonifici in Africa come pagamento dello stipendio per il suo lavoro in cooperativa, o se i bonifici fossero di altra natura. «Non faccio più parte della Karibu. Sarebbe opportuno rivolgersi direttamente alla legale rappresentante, la dottoressa Marie Terese Mukamitsindo (la madre, ndr) per tutti i chiarimenti», ci scrive Murekatete, che dalle visure camerali risulta però ancora consigliera di Karibu.
La suocera di Soumahoro, contattata, invece spiega: «Mutangana è mio figlio ma non ha ruoli direttivi nella Karibu. Richard ha lavorato come un dipendente normale nella nostra cooperativa, si occupava di informatica per il nostro server: il suo impegno è durato tre anni», dice Mukamitsindo. Però in varie interviste Mutangana si presentava come direttore dei progetti.
In merito al ristorante aperto in Ruanda, invece, la donna chiarisce: «Mio figlio ha aperto quel ristorante con la moglie chiedendo un prestito in banca. È tutto tracciabile, penso lo abbia aperto forse anche prima del 2018». Poi segnala anche un progetto, finanziato con i soldi della cooperazione, che il figlio ha seguito in Ruanda per Karibu. Ma quanti soldi in tutto la cooperativa di Latina ha bonificato a suo figlio? «Non ricordo, non ho le carte davanti. Lui prendeva uno stipendio sui mille euro e qualcosa al mese. E poi c’è quel progetto di cui le ho parlato». Altri dettagli non vengono dati ai cronisti, ma può darsi che il direttore-ristoratore Mutangana abbia avuto soldi dalla Karibu del tutto lecitamente. Si vedrà dalle indagini della finanza.
La polemica politica su Soumahoro, invece, non accenna a placarsi. Finora il deputato, diventato negli ultimi anni simbolo della lotta dei braccianti, ha spiegato che lui non solo non c’entra nulla con l’inchiesta penale (fatto vero), ma che non ha nulla a che fare nemmeno con le coop di famiglia.
Le questioni più rilevanti per il deputato esulano però dalle strette vicende giudiziarie. Se Soumahoro rischia di vedere la sua immagine appannata per via di un oggettivo conflitto d’interessi (le sue battaglie sui migranti e sull’accoglienza insistono proprio su quello che è anche un business della sua famiglia), è un fatto che a Latina la sede della Lega Braccianti da lui fondata coincide con quella del Consorzio Aid («poteva davvero non sapere?», si chiedono in molti). Mentre le foto con borse e capi firmati postate dalla moglie rischiano di oscurare l’iconica fotografia dell’ex sindacalista che entra in parlamento con gli stivali da lavoro e il pugno chiuso alzato.
Senza parlare del fuoco amico del suo partito («deve chiarire»), di quello dell’ex senatrice di Sinistra italiana Elena Fattori («in quelle coop non avrei ospitato nemmeno i cani», ha detto a Domani dopo averle visitate). Secondo alcuni preti della Caritas, poi, il deputato è soltanto uno «che viene da fuori, urla, fa i selfie e magari costruisce una carriera politica». Al netto degli esiti dell’inchiesta penale sulla suocera e la Karibu, politicamente il danno è insomma già fatto, e – nonostante sia Soumahoro un combattente - non sarà facile rimediare.
Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per la Verità il 23 novembre 2022.
La verifica degli ispettori del ministero dell'Imprese e del Made in Italy è iniziata e finita in pochi minuti. Davanti alla porta sbarrata della sede legale della cooperativa Karibu, la coop dei familiari del deputato dell'Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. Nelle prossime ore gli 007 di via Veneto si recheranno anche presso il quartier generale del consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti), ma considerato come è andata la prima visita le premesse non sono delle migliori.
La sede chiusa si trova a Sezze (Latina), città che la leggenda vuole fondata da Ercole. Il piccolo centro storico è attraversato da corso Umberto e al civico 106 c'è una saracinesca abbassata. Sulla cassetta della posta nera c'è un'etichetta strappata su cui restano poche lettere («soc. c»). Ieri sulla cittadina pioveva a dirotto e chi scrive è stato costretto a cercare riparo mentre la strada si trasformava in un torrente. Gli ispettori son passati negli stessi minuti e hanno dovuto prendere atto di trovarsi davanti a una sede inattiva. Motivo sufficiente alla divisione ministeriale incaricata della vigilanza sulle cooperative per chiederne lo scioglimento.
Vedremo se andrà così. Nel frattempo il destino sembra segnato per l'altra creatura degli affini di Soumahoro, il consorzio Aid. Una notizia che abbiamo raccolto all'interno di Confcooperative, l'associazione delle cosiddette cooperative bianche.
Il 17 marzo 2022 la funzionaria Loretta Mobilia ha firmato una relazione di mancata revisione del consorzio Aid.
Una prassi normale, visto che tutte le organizzazioni di questo tipo, periodicamente, effettuano ispezioni ordinarie per verificare che le coop associate siano in regola.
Ma la Mobilia avrebbe tentato inutilmente di prendere contatti, «per le vie brevi», con il legale rappresentante dell'Aid. Stiamo parlando della presidente, Aline Mutesi, sorella di Liliane, la compagna di Soumahoro. La donna, nata nel 1989 in Ruanda, per il suo incarico, nel 2021, avrebbe percepito un reddito di poco più di 40.000 euro. Gli altri due consiglieri sono la madre, Marie Therese, e il fratello Michel.
Ma torniamo alla procedura di Confcooperative. In assenza di riscontri, la Mobilia avrebbe inviato una Pec, regolarmente consegnata, per informare il consorzio della revisione in corso. Successivamente sono state esaminate la visura storica e l'ultimo bilancio da cui emerge che «la cooperativa risulta attiva, le cariche sono regolari, ma il bilancio 2020 non risulta depositato». A questo punto la funzionaria è riuscita a parlare con la Mutesi per informarla della documentazione che era necessario predisporre. Ma l'imprenditrice africana non si sarebbe più fatta sentire. Per questo, otto mesi fa, Confcooperative ha avviato l'istanza di «scioglimento per atto dell'autorità con nomina di un liquidatore».
Ma da allora che cosa è successo? Questa la versione di Confcoperative: «Il 17 marzo abbiamo registrato l'indisponibilità del consorzio a farsi revisionare. Nei tempi previsti gli abbiamo ulteriormente intimato, come previsto dalla normativa, di mettersi in regola e dopo un'iniziale collaborazione sono spariti di nuovo.
Così, pur avendo tempo sino al 31 dicembre, nei giorni scorsi, abbiamo deciso di richiedere al ministero di avviare la procedura di cancellazione dell'Aid dall'albo». Istanza che dovrebbe diventare immediatamente esecutiva e che è pervenuta in via Veneto a inizio settimana. Ovvero dopo che la vicenda del consorzio era diventata di pubblico dominio e aveva raggiunto una risonanza nazionale.
Intanto, ieri mattina, nella sede operativa di Latina della Karibu c'erano sia la presidente, Marie Therese Mukamitsindo, della Karibu (la suocera di Soumahoro), che il figlio consigliere Michel. Poi i due, prima delle dieci, si sono allontanati e gli uffici sono rimasti chiusi a chiave. Un po' più tardi abbiamo ritrovato la donna presso l'ispettorato del lavoro, dove aveva appuntamento con due ex operatrici che da mesi chiedono il pagamento di retribuzioni arretrate. S.S. reclama 8.000 euro, S.D.
(l'ultima a lasciare il posto di lavoro il 31 ottobre scorso) 22 mensilità, tredicesime e Tfr, per un totale di circa 30.000 euro. La presidente si è seduta al tavolo anche con la funzionaria dell'ufficio, Giulia Caprì, e con Gianfranco Cartisano, il sindacalista della Uiltucs che sta portando avanti le vertenze per 26 lavoratori.
La Mukamitsindo durante l'incontro si sarebbe consultata a lungo con il figlio e poi avrebbe provato a smarcarsi, pronunciando una frase che Cartisano riassume così: «Verrà il commissario, gli ispettori, quindi è inutile che facciamo questi accordi». Come se desse per scontato che la sua cooperativa sia destinata a chiudere o a passare di mano.
Ma l'esponente della Uil avrebbe ribattuto che al momento il datore di lavoro resta la Mukamitsindo. La donna non ha portato con sé le buste paga delle dipendenti, così come le era stato richiesto, e per questo le parti si sono riaggiornate al 29 novembre.
«La sensazione è che queste persone attendano che le istituzioni facciano pressioni per far loro ottenere il pagamento di quei crediti che sostengono di avere nei confronti degli enti pubblici», spiega Cartisano.
Che continua: «Stiamo cercando di avere un nuovo confronto in prefettura vista l'accelerazione degli eventi. Un tavolo prefettizio a cui far sedere le parti coinvolte, a partire da tutti gli enti che avevano in appalto i servizi della cooperativa Karibu e del consorzio Aid».
In queste ore stanno emergendo ulteriori novità. Per esempio abbiamo scoperto che in diversi Comuni della Provincia di Latina starebbero affiorando presunte irregolarità nell'affidamento e nella gestione dei servizi di cui erano incaricati la Karibu e il consorzio Aid.
Per esempio i consiglieri comunali di Priverno, Umberto Macci e Marcello Vellucci, hanno depositato presso la locale stazione dei carabinieri un esposto destinato alla Procura penale, a quella della Corte dei conti del Lazio e per conoscenza al prefetto di Latina, Pierluigi Faloni.
Nell'atto i consiglieri ricordano in che modo, secondo l'Autorità nazionale anticorruzione, debba essere gestito l'affidamento dei servizi d'accoglienza da parte dei Comuni destinatari di fondi del ministero dell'Interno. A partire dalla necessità di organizzare gare di evidenza pubblica e, sopra certe soglie, con pubblicazione a livello comunitario.
Cosa che a Priverno non sarebbe accaduto. Infatti, subito dopo aver richiesto un finanziamento al fondo nazionale per le politiche e i servizi di asilo, il Comune avrebbe ritenuto «opportuno individuare nella cooperativa Karibu di Sezze quale soggetto del terzo settore avente le caratteristiche necessarie per la progettazione e la gestione del servizio di accoglienza integrata a favore del richiedenti asilo e del rifugiati, in linea con il progetto Spar, in quanto soggetto che gestisce analoghi servizi nel distretto del Monti Lepini».
Così in tre anni alla coop sono stati assegnati circa 550.000 euro. Alla fine, Macci e Vellucci evidenziano che tutto questo è avvenuto «senza nessuna gara a evidenza pubblica» e chiedono alla Procura e alla Corte dei conti di «verificare la correttezza o meno dei comportamenti assunti».
Fabio Amendolara per la Verità il 23 novembre 2022.
Più si scava nella storia delle coop pontine della Grande signora di Umuganda, Marie Therese Mukamitsindo, suocera del già sindacalista e ora deputato con gli stivali di gomma Aboubakar Soumahoro, più il profilo della cooperatrice sembra trasformarsi in quello di un capitano d'industria. E non solo dell'accoglienza.
Quando Karibu e Consorzio Aid nel 2021 sono andati a picco con i bilanci, cominciando ad accumulare debiti con il fisco, con i fornitori e con i dipendenti (aspetto sul quale si sono concentrate le indagini della Procura della Repubblica di Latina), Marie Therese, da imprenditrice con esperienza ventennale, ha subito registrato una nuova impresa. Il 4 marzo 2021 a Nola (Napoli) nasce la Edelweiss. Non una semplice società, ma un «contratto di rete dotato di soggettività giuridica». Il presidente del Cda è Marie Therese (che è anche rappresentante d'impresa).
La sede è in via Monsignor Paolino Menna, nel Parco Stella Maris, zona quasi centrale della città, famosa per il suo polo commerciale. Gli obiettivi strategici: «Acquisizione e offerta di servizi che per complessità e difficoltà sarebbero altrimenti al di fuori della portata di ogni singola società». E, così, Marie Terese, da cooperatore si è trasformata in una specie di Mr Wolf, l'iconico personaggio di Pulp fiction, celebre per questa frase: «Sono il signor Wolf, risolvo problemi». Ma oltre a risolvere i problemi complessi per le società aderenti alla rete, Edelweiss si propone anche di gestire e realizzare case di riposo, residenze per anziani, residenze sanitarie assistenziali e di riabilitazione, centri vacanze per persone anziane e per disabili. Asciugato il business dell'accoglienza, insomma, la novella Mr Wolf ha diversificato i suoi interessi.
Proponendosi perfino di lavorare nel settore dell'assistenza domiciliare, del telesoccorso e anche di facchinaggio e vigilanza antincendio. Infine, ispirandosi a Federica Sciarelli, la conduttrice della trasmissione Rai Chi l'ha visto?, vorrebbe cercare «persone scomparse». Nello statuto di Edelweiss c'è entrato di tutto: dall'impiantistica agli interventi di restauro, fino al giardinaggio e alla falegnameria.
Edelweiss per ora risulta inattiva. Ma quello di offrire servizi a una rete di imprese deve essere un po' un pallino di Marie Terese. Sempre nel 2021, ma a maggio, nasce anche Impresa comune Geie Arl, con un sottotitolo: «Imprese e professionisti per il bene comune». Questa volta l'impresa è attiva. Registrata a Roma, con sede in via Antonio Bertoloni e forma giuridica da «gruppo europeo di interesse economico». La costituzione, proprio per la forma giuridica scelta, è finita in Gazzetta Ufficiale il 25 maggio 2021, con la pubblicazione di uno stralcio dell'atto registrato dal notaio Pasquale Farinaro l'1 aprile 2021. Il presidente del Cda è il lobbista palermitano Nicola Colicchi, classe 1956, già componente del comitato nazionale della Compagnia delle Opere e consulente della Camera di Commercio di Roma.
Nel 2001 fu indagato dalla Procura di Milano in una grossa inchiesta sulla realizzazione di un depuratore, e fu assolto. Poi a Potenza, intercettato con Gianluca Gemelli, l'ex compagno dell'allora ministro Federica Guidi (che si dimise), nell'inchiesta in cui Guidi si lamentò per i continui favori che gli avrebbe chiesto il fidanzato: «Con me ti comporti come un sultano... oh mi sono rotta... mi tratti come una sguattera del Guatemala». La conversazione finì su tutti i giornali. Come quelle di Colicchi, che sembrava brigare per fare un grosso favore a un ammiraglio della Marina militare italiana. Finì in cavalleria. Il suo nome è saltato fuori ancora una volta in un'inchiesta giudiziaria solo qualche anno dopo.
Nell'indagine sul Sistema messo su dall'ex professionista dell'Antimafia Antonello Montante finirono anche alcune telefonate di Colicchi con Paolo Quinto, all'epoca braccio destro della senatrice del Pd Anna Finocchiaro. I documenti furono acquisiti, ma servirono agli investigatori solo per ricostruire una rete di relazioni. Che Colicchi deve essere un fuoriclasse a tessere. Nella sua nuova avventura imprenditoriale, non si sa come, ha ingaggiato anche Marie Terese. Che nella Arl presieduta da Colicchi è consigliere d'amministrazione. Nella società Marie Terese ci è entrata con la Karibu, versando 1.000 euro (come tutti gli altri associati, 20 in tutto) e acquisendo il 5 per cento delle quote. Rimarrà in carica fino al 2023.
Questa volta la sfida è ambiziosissima: Impresa comune Geie si propone di «realizzare un nuovo protagonismo delle imprese, dei professionisti, degli enti giuridici anche pubblici o non profit, nei processi di sviluppo delle loro attività, orientate anche alla sostenibilità». Marie Terese, insomma, sta sul pezzo. Nello statuto della società compaiono più volte termini quali «digitalizzazione», «efficienza ecologica», tecnologia» e, addirittura, «intelligenza artificiale». Gli obiettivi? «Cogliere opportunità sul mercato attraverso l'elaborazione, la realizzazione e la gestione di progetti complessi». Operazioni, queste ultime, nelle quali la Grande signora di Umuganda ha dimostrato di sapersi muovere con una certa disinvoltura, grazie all'esperienza maturata con il grande affare dell'accoglienza pontina.
Indagata la suocera di Aboubakar Il caso partì nel 2017. Edoardo Sirignano su L’Identità il 24 Novembre 2022
L’avviso di garanzia, alla fine, è arrivato. Indagata dalla procura di Latina Marie la suocera di Aboubakar Soumahoro, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. Marie Terese Mukamitsindo è coinvolta nell’inchiesta sulla gestione delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Il fascicolo viene aperto per ipotesi di malversazione. A parte l’inchiesta giudiziaria, da mesi, sarebbero in corso accertamenti dell’Ispettorato del lavoro sulle società gestite dai familiari del deputato. Queste ultime, finite sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza per presunti mancati pagamenti ai dipendenti e contratti non regolari, sul territorio erano conosciute da anni. L’assessore Francesca Pierleoni del Comune di Latina, intervenuta su queste colonne, non è l’unica ad aver messo in evidenza una serie di anomalie, come quella sul progetto Ucraina, dove i soliti noti prima si sarebbero fatti avanti e poi scomparsi. A queste latitudini, i fatti di cui parla oggi nei principali talkshow non sorprendono affatto. L’europarlamentare della Lega Mario Borghezio addirittura nel 2017, su spinta di un movimento locale, aveva presentato un’interrogazione in cui sollevava perplessità rispetto alla gestione dei migranti di tale Coop. Per tale ragione, aveva inviato addrittura una lettera al Prefetto, in cui chiedeva un urgente e repentino intervento: "In una recente occasione di incontro con cittadini ed associazioni del territorio di Aprilia – aveva scritto nella missiva indirizzata all’Ufficio Territoriale di Governo – lo stesso ha ricevuto numerose segnalazioni critiche nei riguardi delle attività di alcune società dedite all’accoglienza di immigrati extra-Ue e in particolare della Coop Karibù. Sembra opportuno disporre approfonditi controlli, in relazione all’attività delle stesse, circa il numero degli immigrati ospitati, il rispetto dei protocolli di sicurezza sanitaria e l’adozione delle necessarie profilassi, in particolare nei riguardi delle malattie infettive". In quel documento si parlava anche di due occupazioni abusive, più volte segnalate alle autorità competenti. Sulla questione ci furono diversi articoli di giornale, nonché una conferenza stampa dove appunto si parlava delle condizioni precarie in cui versavano tante persone ospitate in quelle residenze. Emanuele Campilongo di Apl e Mariantonietta Belvisi, addirittura nel 2015, erano stati protagonisti di confronto pubblico in cui, come riportano diverse testate locali, si chiedeva di sapere in che condizioni versavano i migranti gestiti da Karibù e soprattutto perché venissero assegnati ulteriori fondi a chi, pur ricevendo già tante risorse, avrebbe lasciato i propri ospiti in condizioni di povertà. "Come mai – era l’interrogativo posto da Campilongo a chi di dovere – a questi ragazzi, per cui vengono assegnati 38 euro al giorno alle Coop che li gestiscono, si vogliono dare ulteriori 150 euro per la pulizia dei parchi, da affidare agli stessi soggetti, mentre poi li vediamo girare per i cassonetti".
Soumahoro e i fondi per l’Ucraina. Rita Cavallaro su L’Identità il 22 Novembre 2022
Non ci sono solo i migranti, ma anche gli ucraini che fuggono dalla guerra nei progetti di Karibu e Consorzio Aid, le cooperative dei familiari del deputato dell’alleanza Verdi-Si Aboubakar Soumahoro, finite nella bufera a seguito di alcuni accertamenti della Finanza e dei carabinieri per presunte malversazioni di erogazioni pubbliche nell’accoglienza.
Il 3 giugno 2022, infatti, la Regione Lazio, con determinazione numero G07165, ha erogato un finanziamento del valore complessivo di 1 milione 151mila euro in favore di quattro cooperative sociali. C’è la Karibu di Sezze, presieduta dalla suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo, e amministrata fino al 17 ottobre scorso anche dalla moglie del parlamentare, Liliane Murekatete. Poi il Consorzio Agenzia per l’Inclusione e i Diritti (Aid) del capoluogo pontino, di cui è presidente la cognata di Soumahoro, Aline Mutesi, e la suocera è consigliera d’amministrazione. C’è il Quadrifoglio, la coop di Latina presieduta da Fabrizio Gasparetto. E infine Ninfea di Sabaudia, al cui capo c’è Achille Allen Trenta. Quattro organizzazioni che lavorano nel terzo settore del territorio pontino che, con le loro proposte, la scorsa estate hanno partecipato al bando per la “realizzazione di interventi e di reti per la presa in carico e l’inclusione socio-lavorativa della popolazione ucraina sul territorio della Regione Lazio”. E l’hanno vinto. Tant’è che il Comune di Latina, appreso dell’erogazione, ha subito avviato un coordinamento per offrire opportunità e sostegno ai tanti rifugiati in fuga dalla guerra in Ucraina e contribuire all’inclusione socio-lavorativa. Con grande soddisfazione del vice sindaco e assessore al Welfare, Francesca Pierleoni, che ha dichiarato: “Auspichiamo che tali interventi permettano ai rifugiati accolti sul nostro territorio di essere rapidamente autonomi, perché la dignità e la speranza che si riacquista con il lavoro è impagabile. Oggi queste persone hanno bisogno di essere sostenute per credere in un futuro possibile di pace e di sviluppo”. Un comunicato ufficiale ospitato anche sulla pagina Facebook della coop Karibu, che non è nuova a ricevere fondi per gli ucraini.
Già il 15 aprile 2021, quando la gestione era nelle mani pure della moglie di Soumahoro, la cooperativa, stavolta unica beneficiaria, aveva incassato oltre un milione di euro, per la precisione 1.059.463,46, dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, come anticipo di pagamento del finanziamento per due milioni e 135.705 euro che la Karibu si è aggiudicata nell’ambito del programma Amif 2021-2027, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea e volto a migliorare l’approccio ai fenomeni migratori nel rispetto dei diritti dei cittadini europei ed extra-europei. Proprio l’anno finito nel mirino della denuncia di una trentina di migranti, che sostengono di non essere stati pagati e di aver vissuto in una condizione degradante, senza acqua calda, con il cibo che scarseggiava. E perfino di essere stati maltrattati. Per questo si sono rivolti al sindacato Uiltucs che, attraverso il segretario Gianfranco Cartisano, ha acceso i riflettori sulle due coop fondate da Maria Therese e già interessate dalle verifiche. Ora addirittura sotto la lente del ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, che ha deciso di mandare gli ispettori. “Mi dite cosa vi ho fatto? Voi mi volete morto”, ha detto tra le lacrime Soumahoro, in un video condiviso sui social. “Ma non ucciderete le mie idee”, ha aggiunto, ribadendo che lui non c’entra nulla con le coop di sua suocera. Mukamitsindo, che nel 2021 avrebbe incassato come emolumenti oltre 100mila euro, ha sempre suscitato stima per il suo impegno, tanto che fu vincitrice del premio MoneyGram Award come imprenditrice straniera. E Liliane, in un’intervista, ha detto: “Prima lavoravo per il rappresentante della Presidenza del Consiglio per l’Africa, sia durante il governo Berlusconi sia con Prodi”. Per portare avanti progetti e rapporti, nel 2009,la moglie del deputato ha avuto una consulenza tecnica da Palazzo Chigi per 17mila euro.
Tutti gli appalti di casa Soumahoro. Rita Cavallaro su L’Identità il 23 Novembre 2022.
Migranti, vittime della tratta sessuale, ucraini in fuga dalla guerra. È su questa umanità che si sono concentrati gli affari della famiglia del deputato di sinistra Aboubakar Soumahoro. Attività che, finora, hanno porta nelle casse della coop Karibu, fondata dalla suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo, quasi 65 milioni di euro.
LA CERTIFICAZIONE
È la stessa presidente della cooperativa sociale di Sezze, gestita fino al 17 ottobre scorso anche dalla moglie del parlamentare Liliane Murekatete, a dettagliare il fiume di contributi pubblici incassati nel corso degli anni, in un documento presentato al ministero dell’Interno per il programma Amif 2014-2020, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea e volto a migliorare l’approccio ai fenomeni migratori nel rispetto dei diritti dei cittadini europei ed extra-europei. Una domanda di ammissione al finanziamento in cui sono rendicontati ben 63 milioni 645mila euro di incassi della Karibu per le sue attività di accoglienza dei rifugiati e l’integrazione sociale dei migranti. La somma più cospicua che compare nel documento è il pagamento di 25 milioni di euro, in sei anni, versati dal ministero dell’Interno per il bando “CAS- Centri di Accoglienza Straordinaria Bando Prefettura” di un totale di 500 milioni, vinto da Karibu come soggetto singolo, quindi senza alcun partenariato, per “l’emergenza migranti richiedenti protezione internazionale – progetto di accoglienza, servizi per l’alloggio, tutela socio-legale, aiuto psicologico, assistenza e orientamento legale”, scrive Mukamitsindo nel prospetto delle azioni per le quali era stata finanziata tra il 2013 e il 2019. Dal 2004 al 2019, invece, la coop della suocera di Soumahoro ha intascato ben 30 milioni da due progetti Sprar per accogliere i rifugiati a Sezze e a Roccagorga. In questo caso la società si è presentata come partner del progetto. Dal 2014 al 2019, quindi un lasso di tempo di 5 anni, Maria Therese ha ottenuto 5 milioni, un milione l’anno dunque, per i richiedenti protezione internazionale e rifugiati nello Sprar di Monte San Biagio. Un altro milione e 386mila euro sono confluiti in due anni, tra il 2019 e il 2021, sotto la voce “Prima il lavoro -On 2- Integrazione/Migrazione legale – Autorità Delegata – PRIMA: Progetto per l’Integrazione lavorativa dei Migranti”. Si tratta del fondo FAMI del ministero dell’Interno e di quello del Lavoro, al quale la coop della suocera di Soumahoro ha partecipato in collaborazione con l’Anci, con un prospetto per un totale di 2 milioni 349mila euro.
IL CAPORALATO
Non solo migranti, ma anche lotta al caporalato, il tema tanto caro ad Aboubakar. Così Mukamitsindo, nel 2019, partecipa a “Caporalato no grazie” e prende un milione di euro per orientamento, assistenza e mediazione per cittadini “di paesi terzi regolarmente soggiornanti sul territorio italiano, vittime o potenziali vittime di sfruttamento lavorativo”. Maria Therese, con un passato di donna in fuga dal Ruanda arrivata in Italia con i suoi figli, non poteva non pensare anche alla vittime di tratta a scopo sessuale. Il contributo, tra il 2016 e il 2019, è finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, che versa nelle casse della Karibu 104.593 euro. Ci sono poi una sfilza di importi per tutta una serie di attività che coinvolgono la cooperativa di Sezze in formazione di dipendenti Italpol, in aggiornamento degli imprenditori del turismo, in percorsi di istruzione formativa per artigiani. Voci in bilancio che spaziano da 125mila euro a 50mila e che man mano concorrono a raggiungere quegli oltre 63 milioni riportati nel prospetto per l’ammissione ai contributi Amif 2014-2020. Per Amif 2021-2027 la Karibu, il 15 aprile 2021, otterrà oltre un milione di euro. A questi vanno aggiunti gli ultimi progetti presentati da Mukamitsindo, stavolta sia per Karibu che per Consorzio Aid di cui è presidente la cognata di Soumahoro Aline Mutesi, alla Regione Lazio, che il 3 giugno 2022, con determinazione numero G07165, eroga un finanziamento del valore complessivo di 1 milione 151mila euro in favore delle due coop e di altre due del territorio, Ninfea e il Quadrifoglio, per l’inclusione nel mondo del lavoro degli ucraini in fuga dalla guerra. Infine, negli atti inviati all’Interno, c’è un dettaglio: tra i documenti allegati alla richiesta c’è la scheda antimafia di Murekatete. La moglie del deputato, all’epoca, compariva ancora nell’organico della coop, ora sotto la lente della Finanza per malversazioni di erogazioni pubbliche sull’accoglienza dei migranti.
Cosa sapeva Soumahoro, appalti e milioni. Rita Cavallaro su L’Identità il 24 Novembre 2022
Tutti sapevano dell’enorme fiume di soldi che arrivava nelle casse di casa Soumahoro. Dal ministro dell’Interno Matteo Salvini al suo successore Luciana Lamorgese, che misero nero su bianco i milioni dei contributi pubblici per l’accoglienza erogati a Karibu e Consorzio Aid, le coop del pontino fondate da Maria Therese Mukamitsindo, suocera del deputato di sinistra, e nella cui gestione, fino allo scorso 17 ottobre, era coinvolta anche la moglie del parlamentare, Liliane Murekatete. Lo sapevano quelli della Lega Braccianti, che durante la pandemia chiesero dei resoconti su una raccolta fondi ad Aboubakar Soumahoro senza ricevere alcunché. E non poteva non saperlo neppure lo stesso esponente di Alleanza-Si, che aveva impiantato la sede del suo sindacato per la lotta contro il caporalato, fondato nell’estate del 2020, proprio nello stesso ufficio di Latina dove si trovano Karibu e Aid.
IL SINDACATO
Un palazzo bianco con delle porte a vetri nere, in quello che è diventato il centro direzionale di Latina, in un piazzale desolato in viale Corbusier. Stesso indirizzo, stesso numero civico, stessi uffici al piano terra sia per Karibu e Aid sia per la Lega dei Braccianti. L’etichetta della sede legale, con la scritta sezione di Latina, è apposta accanto a quella della coop, finita nel mirino della UilTucs per le accuse di una trentina di dipendenti e migranti che lamentano il mancato pagamento degli stipendi, con arretrati fino a 18 mensilità. Pagamenti che sarebbero saltati con il pretesto che quelle coop non avevano più soldi perché, sostengono Maria Therese e Liliane, vantavano crediti per l’accoglienza che non sarebbero arrivati nelle loro casse. Eppure, come vi abbiamo certificato ieri su L’identità, il business delle cooperative create da Mukamitsindo era enorme se si calcola che solo Karibu, negli ultimi anni, ha incassato quasi 65 milioni di euro di contributi pubblici per le gare vinte al Ministero dell’Interno, alla Regione Lazio, alle Pari Opportunità. E quei documenti, con le cifre milionarie e i progetti da avviare, erano in bella vista sulle stesse scrivanie dove, si ipotizza, anche Aboubakar deve essersi seduto, visto che quella era pure la sede del suo movimento sindacale. Fermo restando che, negli accertamenti che gli investigatori stanno svolgendo sui conti delle società della suocera, il deputato non è assolutamente coinvolto.
LA RELAZIONE
È proprio sul fiume di soldi passati sui bilanci di Karibu e Consorzio Aid che si concentrano le indagini della Guardia di Finanza di Latina, volte a verificare se ci sia stata o meno una malversazione di erogazioni pubbliche sull’accoglienza. Un business che, viste le cifre, rende ancor più granitiche quelle intercettazioni di Mafia Capitale, quando il Mondo di mezzo diceva che gli immigrati rendono più della droga. A dettagliare le cifre incassate dalla coop di Sezze, d’altronde, è stata proprio Maria Therese, in un documento presentato al Ministero dell’Interno per il programma Amif 2014-202o, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea. Ben 63 milioni 645mila euro sono gli incassi della Karibu per le sue attività di accoglienza dei rifugiati e l’integrazione sociale dei migranti.
La somma più cospicua è il pagamento di 25 milioni di euro, in sei anni, versati dal Viminale per il bando "CAS- Centri di Accoglienza Straordinaria Bando Prefettura". Un progetto per un totale di 500 milioni, vinto da Karibu come soggetto singolo, quindi senza alcun partenariato, per "l’emergenza migranti richiedenti protezione internazionale – progetto di accoglienza, servizi per l’alloggio, tutela socio-legale, aiuto psicologico, assistenza e orientamento legale", scrive Mukamitsindo nel prospetto delle azioni per le quali era stata finanziata tra il 2013 e il 2019. E perfino il progetto, per un totale di due milioni per l’inclusione nel mondo del lavoro degli ucraini in fuga dalla guerra, in un bando vinto a giugno scorso. A suggellare la veridicità dei pagamenti, oltre all’autocertificazione della suocera di Soumahoro, c’è la "Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza predisposto al fine di fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale", presentata al Senato dal ministro Lamorgese il 29 ottobre 2019, relativa all’anno 2018. Centocinquantasette pagine in cui il ministro del governo giallorosso traccia la situazione esplosiva sui migranti, che era venuta alla luce in tutta la sua drammaticità durante il Conte 1, con il pugno duro di Salvini sui porti chiusi. Lamorgese, che nel rapporto annuncia un nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei servizi di accoglienza e disciplina modalità di controllo e monitoraggio degli standard qualitativi dei Cas, riporta il "dettaglio dati finanziari relativi ai pagamenti effettuati dalle prefetture in favore di ciascun ente gestore dei centri di accoglienza". E solo nel 2018, a Karibu sono stati pagati 5.080.261,63, mentre il Consorzio Aid ha incassato 794.243,18. Numeri che confermano il trend di quei 25 milioni, su un totale di mezzo miliardo, spalmati in sei anni nelle casse della coop di Sezze e che contribuiscono a raggiungere la quota importante dei 65 milioni.
Bocce cucite e imbarazzo la vicenda si fa grottesca. Maurizio Zoppi su L’Identità il 24 Novembre 2022
Suda freddo in queste ore la sinistra in Italia ed in particolare il leader di SI, Nicola Fratoianni e il responsabile nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli. L’imbarazzo è concreto rispetto al caso che sta coinvolgendo il neo deputato Aboubakar Soumahoro. Bocche cucite nella serata di ieri, rispetto ad una storia che scotta politicamente e che già sta facendo molto male ai "compagni" ed "ambientalisti". In queste ore dovrebbe essere ascoltato il sindacalista della Lega dei braccianti, da parte degli esponenti del suo gruppo parlamentare, i quali hanno chiesto una ricostruzione dettagliata dei fatti che hanno portato la procura di Latina a indagare sulla gestione di due cooperative pro-migranti, la Consorzio Aid e la Karibu amministrate a vario titolo dalla suocera e dalla moglie di Soumahoro. Nel mirino, eventuali irregolarità nei contratti e presunte cattive condizioni di assistenza dei minori ospitati in quelle strutture. Queste le ombre sul sindacalista di origini ivoriane che ora rischia una sospensione da parte del movimento con il quale è arrivato alla Camera il 25 settembre. "Mi volete morto" affermava piangendo l’attivista, in un video pubblicato sui social, il quale da subito si è dichiarato estraneo ai fatti. Ma numerose sono le ricostruzioni da parte di alcuni ex ospiti nelle strutture gestite dalle coop in interviste alla stampa che parlano di "condizioni di vita inaccettabili". "Incontreremo in queste ore Soumahoro per un confronto. Penso che si debba sempre tenere distinta, in molto netto, la vicenda giudiziaria, che peraltro pare che neanche lo coinvolga direttamente, e la dimensione della politica che riguarda le questioni del diritto del lavoro. E su questo io credo sia giusto avere un confronto diretto. Quando lo avremo avuto nelle prossime ore ognuno farà delle valutazioni". Queste le ultime parole di Nicola Fratoianni, prima di entrare in un silenzio che sa di disagio. La vicenda di Aboubakar Soumahoro si fa sempre più grottesca.
La relazione Lamorgese sulla coop e i 5 milioni del Viminale di Salvini. Redazione L'Identità il 24 Novembre 2022
È in questa relazione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, da poco succeduta al posto di Matteo Salvini al Viminale, che vengono certificate le cifre erogate alle coop Karibu e Consorzio Aid, fondate da Maria Therese Mukamitsindo, per l’accoglienza dei rifugiati nei due Cas per adulti di Latina gestite dalla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro.
Nella relazione, presentata al Senato il 29 ottobre 2019 per illustrare l’emergenza migranti, viene messo nero su bianco che la Karibu, nel solo 2018 quando era ministro Salvini, ricevette dal Viminale oltre 5 milioni di euro per la gestione dei centri di accoglienza. Il Consorzio Aid, invece, incassò, in quello stesso anno, 794.243,18 euro. Insomma, le due cooperative sociali che si occupavano di rifugiati erano accreditate tra le strutture verso le quali venivano inviati i migranti che sbarcano sulle nostre coste e che vengono smistati nei Cas di tutta «Italia. Il rapporto di 157 pagine, in cui vengono affrontati diversi nodi relativi agli sbarchi, in quel momento, tracciava la situazione alquanto esplosiva degli arrivi, scaturita durante il Conte 1 dal pugno duro di Salvini sui porti chiusi. Il ministro Lamorgese, nel documento, annunciava un nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei servizi di accoglienza e disciplinava modalità di controllo più serrati e di monitoraggio degli standard qualitativi dei Cas. Controlli che da Karibu e Aid, probabilmente, non sono mai stati fatti.
DAGONEWS il 24 novembre 2022.
Angelo Bonelli dà ragione a Dagospia: durante l’intervista rilasciata a "Metropolis" (al minuto 3.30), il video-podcast condotto da Gerardo Greco sul sito di Repubblica, ammette di aver scelto di candidare Aboubakar Soumahoro perché trasformato in eroe da Propaganda Live di Zoro, l’Espresso di Damilano e Fabio Fazio! La politica a sinistra è come un talent show, ma la selezione la fanno i giudici dei telecircoletti che non capiscono una mazza!
Da repubblica.it il 24 novembre 2022.
Non nasconde la delusione Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde, quando si parla di Aboubakar Soumahoro, deputato eletto nelle sue file e finito nel ciclone mediatico dopo l'inchiesta aperta su moglie e suocera nella gestione della coop Karibu. "Abbiamo parlato con lui - dice Bonelli a Metropolis - ci ha confermato l'estraneità ai fatti. Ma io sono una persona trasparente, ci sono rimasto male".
Da liberoquotidiano.it il 25 novembre 2022.
Aboubakar Soumahoro chiede scusa. Lo fa da Corrado Formigli, a PiazzaPulita. "Sono stato poco attento, mentre giravo per il Paese, a quello che c’era a casa mia", le parole del deputato che si è auto-sospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra. "Non sapevo nulla - ha aggiunto - se fossi stato a conoscenza di una indagine sulle cooperative gestite da mia suocera non mi sarei candidato".
Nel corso della trasmissione Soumahoro ha avuto modo di rispondere agli attacchi degli ex colleghi della Lega Braccianti riguardo a 56.500 euro che non sarebbero stati rendicontati su un bilancio di 220mila euro. "Sono nelle condizioni di poter produrre tutte le prove - ha affermato Soumahoro - i soldi sono stati spesi per l'acquisto di generi alimentari, gel disinfettante, trasporti, e i rimanenti 56.800 sono andati nell'esercizio 2021. Il bilancio è disponibile sul sito della Lega Braccianti".
Il parlamentare è poi passato al contrattacco: "Chi mi accusa oggi è tornato a far parte della Usb, organizzazione con cui ho un contenzioso, dopo essere passato con me nella Lega Braccianti. Sono tornati indietro perché mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio i soldi delle donazioni. Ho rifiutato". Infine Soumahoro ha negato di aver mai usato i soldi delle donazioni per finanziare l’ascesa politica: "Assolutamente no, mai. Anzi, ci ho rimesso".
Alessandra Arachi per corriere.it il 25 novembre 2022.
«Sono qui perché credo fermamente nei valori dell’integrità, della dignità umana e per il rispetto e tutela della storia che mi porta qui, che è la storia di migliaia di persone. Sono pronto alla trasparenza e dirò tutta la verità, risponderò punto per punto». Aboubakar Soumahoro ha esordito così, ospite da Corrado Formigli negli studi di Piazza Pulita, la faccia visibilmente tesa.
Nel pomeriggio il neo deputato ivoriano si era autosospeso dal gruppo di Alleanza Verdi Sinistra italiana, quello che lo ha portato alla Camera. Era successo dopo due giorni di un faccia a faccia serrato con i due leader dell’Allenaza rosso-verde Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli.
La vicenda che ha travolto Soumahoro è legata alle cooperative di braccianti gestite dalla sua famiglia. Lui non è indagato, ma lo è sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, l’accusa: malversazione. Un colpo davvero duro per Soumahoro che sulle battaglie con i braccianti ha fondato la sua carriera sindacale prima e politica poi.
Corrado Formigli gli ha sciorinato tutti i capi d’accusa, lo ha incalzato, gli ha chiesto: «Ma lei non sapeva quello che succedeva nelle cooperative?». Soumahoro ha balbettato: «Innanzitutto diciamo dove ero... prima ancora di conoscere la mia attuale compagna ero sempre nei luoghi dove si combattono queste situazioni.... Poi l’ho conosciuta e sono venuto a sapere che ci sono degli stipendi non pagati e la risposta che ho ricevuto e che c’erano ritardi di pagamento da parte della pubblica amministrazione». Formigli non sembra convinto.
Lui aggiunge: «Ho commesso una leggerezza: avrei dovuto fare meno viaggi e stare accanto ai lavoratori verificando cosa succedeva». Formigli ha insistito: «Non poteva non sapere...». E lui: «Io ho sempre vissuto a Roma con la mia compagna e la cooperativa era a Latina». E le foto di sua moglie con vestiti eleganti, con oggetti molto costosi? «Nessuna forma di imbarazzo: c’è il diritto all’eleganza e alla moda. E le immagini sono datate». E’ un continuo di botta e risposta, il deputato ivoriano continua ad arrampicarsi sugli specchi, soprattutto quando Formigli gli chiede se alcuni dei fondi erano serviti per la sua ascesa in politica.
Bonelli e Fratoianni erano stati pacati nell’annunciare l’autosospensione di Soumahoro: «La decisione di autosospendersi è stata presa in totale libertà», hanno commentato Bonelli e Fratoianni. «Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni e del valore dell’impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi».
Il fascicolo dei magistrati di Latina riguarda le presunte irregolarità nella gestione di due cooperative pro-migranti della provincia pontina: la Karibu e il Consorzio Aid che almeno fino a due mesi fa erano gestite anche dalla moglie Liliane Murekatete. Ci sarebbero presunti mancati pagamenti ai dipendenti e contratti non regolari, indiscrezioni, cifre a sei zeri che le cooperative hanno ricevuto dagli enti statali con bandi o erogazioni già nel 2020».
Grazia Longo per "la Stampa" il 24 novembre 2022.
Non solo non pagavano i braccianti impegnati nelle campagne dell'agro pontino, ma non versavano neppure i loro contributi né pagavano le tasse per l'impresa. Accumulando così 1 milione e mezzo di debiti a cui se ne aggiunge un altro milione nei confronti di banche e fornitori.
Nuovi guai per la cooperativa Karibu dei familiari del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. La coop gestita da sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, sua moglie Liliane Murekatete e suo cognato Michel Rukundo, ha maturato, al 31 dicembre 2021, un passivo di 2 milioni e 425 mila euro. «È veramente grave che una società che riceve appalti da enti pubblici abbia un'esposizione così elevata», tuona Gianfranco Cartisano, sindacalista della Uiltucs che per primo ha denunciato il caso dei lavoratori non retribuiti dai parenti di Soumahoro.
La procura di Latina ha avviato due inchieste, una prima in collaborazione con la Guardia di finanza che vede indagata per malversazione la suocera del parlamentare, e una seconda che si avvale delle indagini dei carabinieri di Latina appena avviata per distruzione e occultamento di documenti contabili.
Ma a questi due filoni d'inchiesta potrebbe a breve aggiungersene un terzo per maltrattamento di minori, a seguito delle segnalazioni che alcuni ragazzini hanno presentato al sindacato Uiltucs di Latina: «Non ci davano da mangiare e abitavamo in case senza acqua e senza luce».
L'altro ieri, infatti, queste denunce sono state raccolte anche dagli ispettori del Ministero per lo sviluppo economico che hanno effettuato un sopralluogo a Latina. È quindi verosimile che anche la Procura accenda i fari su questo aspetto e indagare su quanto accaduto nelle case per i minori.
Il fatto, insomma, è che come la si giri e la si rigiri, questa storia fa acqua da tutte le parti. A partire dalla moglie del deputato paladino dei braccianti che sfoggia sui social media abiti e accessori super griffati e costosi e poi non paga i dipendenti. Fino a un altro cognato di Soumahoro, Richard Mutangana, altro fratello della moglie, che si presentava come direttore dei progetti della Karibu e che riceveva in Ruanda (dove ha altre attività) bonifici al vaglio della Guardia di finanza di Latina. E poi c'è, appunto, la questione delle tasse non pagate.
Scorrendo le varie voci del bilancio si scopre, peraltro, che la Karibu per il 2021 aveva ricevuto contributi a fondo perduto Covid per 227 mila euro. Come ha usato questi soldi? Perché non li ha spesi per pagare i dipendenti? Tra trattenute sulle buste paga dei dipendenti, contributi Inps e tasse per l'impresa non è stato versato 1 milione e mezzo di euro. «È scandaloso che oltre a non saldare il conto con i braccianti non abbiano pagato neppure il fisco» incalza Gianfranco Cartisano. Il quale aggiunge: «Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov' erano prima gli enti, e la politica in generale? Oggi rimane per noi l'unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell'immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: stipendi subito».
Per questo, ribadisce il segretario della Uiltucs di Latina, «stiamo predisponendo una lettera per chiedere un incontro urgente al prefetto di Latina, perché convochi d'urgenza tutte le parti e i soggetti interessati, come per esempio la Regione Lazio e i Comuni che assegnavano i progetti, perché si raggiunga un accordo. Questa vertenza, e il disagio di questi lavoratori per noi non hanno colore politico».
Non si fermano, intanto, anche gli accertamenti dell'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) sulle cooperative Karibu e consorzio Aid. Gli atti sono in via di conclusione, e sono stati avviati in base alle denunce di alcuni lavoratori. «Proprio martedì - precisa Cartisano - abbiamo ottenuto la rateizzazione per una lavoratrice Karibu che era creditrice di 8 mila euro di stipendi. Per altri tre lavoratori ci siamo riaggiornati al 29 novembre. Ciò che vogliamo è che sia applicata per i lavoratori non pagati la procedura di intervento sostitutivo di pagamento delle retribuzioni già applicato per quattro dipendenti della Aid».
La coop Karibu dei familiari dell’on. Soumahoro eletto dai Verdi e Sinistra Italiana, non ha pagato tasse per più di oltre un milione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Novembre 2022
Una tipica vicenda italiana quella di Aboubakar Soumahoro, il campione dei centri sociali, l’eroe degli stivali da lavoro portati in parlamento la cui moglie, la disoccupata Liliane Murekatete – una sorta di Ferragni – sfoggia sui social borse e accessori griffati costosissimi malgrado l’indagine sulle malsane condizioni dei rifugiati e i mancati pagamenti ai dipendenti della coop di migranti di cui è responsabile mammà, la suocera dell’onorevole, signora Maria Therese Mukamitsindo
Nuovi guai per la cooperativa Karibu dei familiari del deputato Aboubakar Soumahoro (eletto nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra). La coop Karibu gestita da sua moglie Liliane Murekatete, sua suocera Marie Therese Mukamitsindo , e suo cognato Michel Rukundo, ha maturato, al 31 dicembre 2021, un passivo di 2 milioni e 425 mila euro. Scorrendo le varie voci del bilancio 2021 della Karibu, che secondo la relazione degli amministratori, "negli ultimi anni ha contratto di molto il suo bilancio", evidenzia un utile di 175.631 euro al netto di imposte. Le entrate comprendono 2milioni e mezzo di ricavi da clienti e 227.000 euro ricevuti "a fondo perduto" per emergenza covid. E come hanno usato questi ricavi e contributi, come mai non li hanno spesi per pagare i dipendenti ?
Non solo non pagavano i braccianti impegnati nelle campagne dell’agro pontino, ma non versavano neppure i loro contributi né pagavano le tasse per l’impresa. Così hanno accumulato oltre 1 milione e mezzo di debiti a cui si va sommata un’esposizione debitoria di un altro milione nei confronti di banche e fornitori. "È veramente grave che una società che riceve appalti da enti pubblici abbia un’esposizione così elevata", dice Gianfranco Cartisano, sindacalista della Uiltucs che per primo ha denunciato il caso dei lavoratori non retribuiti dai parenti di Soumahoro.
Tra trattenute sulle buste paga dei dipendenti, contributi Inps e tasse per l’impresa dalla cooperativa dei familiari di Soumahoro non è stato versato 1 milione e mezzo di euro. "È scandaloso che oltre a non saldare il conto con i braccianti non abbiano pagato neppure il fisco" aggiunge Gianfranco Cartisano "Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale? Oggi rimane per noi l’unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: stipendi subito". Per questo, il segretario della Uiltucs di Latina, annuncia che "stiamo predisponendo una lettera per chiedere un incontro urgente al prefetto di Latina, perché convochi d’urgenza tutte le parti e i soggetti interessati, come per esempio la Regione Lazio e i Comuni che assegnavano i progetti, perché si raggiunga un accordo. Questa vertenza, e il disagio di questi lavoratori per noi non hanno colore politico".
La cooperativa Karibu è oggi presieduta da Marie Terese Mukamitsindo, madre di Liliane Terese, nel 2018, vinse il premio imprenditrice dell’anno e fu premiata da Laura Boldrini. Il magistrato Simonetta Matone, attuale senatore della Lega, ex magistrato ed ex vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, si chiede: "se l’onorevole Boldrini oggi premierebbe di nuovo la Moukamitsindo che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli".
Marie Therese Mukamitsindo premiata dalla Boldrini
La procura della repubblica di Latina ha avviato due procedimenti, avvalendosi degli accertamenti delegati alla Guardia di finanza a seguito dei quali è stata vede indagata per malversazione la suocera del parlamentare, ed un secondo procedimento con delega di indagine ai Carabinieri di Latina, che è stata appena avviata per distruzione e occultamento di documenti contabili. Volevano forse nascondere gli stipendi da 100mila euro l’anno che si davano i familiari dell’ on. Soumahoro, il quale sostiene che sua moglie è "disoccupata" ?
Marie Therese Mukamitsindo suocera dell’on. Soumahoro
Questa vicenda fa acqua da tutte le parti, a cominciare dalla moglie del deputato il quale si spacciava per difensore dei diritti dei braccianti, la quale che sfoggia sui socialmedia vestiti ed accessori di lusso mentre poi i dipendenti non vengono pagati . Persino un altro cognato di Soumahoro, Richard Mutangana, un altro fratello della moglie, si presentava come "direttore" dei progetti della Karibu e che riceveva in Ruanda (dove ha altre attività ) contributi pubblici e bonifici al vaglio della Guardia di finanza di Latina. E per concludere…. le tasse non pagate. Non si fermano anche gli accertamenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro sulle cooperative Karibu e sul consorzio Aid. Gli atti sono in fase di conclusione, avviati a seguito delle denunce di alcuni lavoratori. "Soltanto martedì – precisa Cartisano – abbiamo ottenuto la rateizzazione per una lavoratrice della cooperativa Karibu che era creditrice di 8 mila euro di stipendi. Per altri tre lavoratori ci siamo riaggiornati al 29 novembre. Ciò che vogliamo è che sia applicata per i lavoratori non pagati la procedura di intervento sostitutivo di pagamento delle retribuzioni già applicato per quattro dipendenti del consorzio Aid".
Aquesti due filoni d’inchiesta se ne potrebbe aggiungere a breve un terzo, questa volta per maltrattamento di minori, a seguito delle segnalazioni che alcuni ragazzini hanno presentato al sindacato Uiltucs di Latina: "Non ci davano da mangiare e abitavamo in case senza acqua e senza luce". L’altro ieri, infatti, queste denunce sono state raccolte anche dagli ispettori dell’ex- Ministero per lo sviluppo economico che hanno effettuato un sopralluogo a Latina per far luce sulla gestione delle cooperative della famiglia Soumahoro. È quindi probabile che a questo punto la Procura accerti anche su questi aspetti ed indaghi su quanto è realmente accaduto nelle case per i minori.
Ma chi è in realtà Liliane Murekatete la moglie di Aboubakar Soumahoro ? Quella che appare tutta "griffata" nei selfie dove ostentava il lusso o quella delle battaglie per i migranti? Se lo stanno chiedendo in tanti, anche gli investigatori della guardia di Finanza. La donna che era sempre in prima fila calata nella sua nuova vita accanto a Soumahoro nel villino che i due hanno acquistato nel giugno scorso a Casal Palocco composto da sei vani in zona residenziale dopo aver lasciato la sua casa nel centro di Latina dove abitava quando gestiva le sue cooperative, adesso invece sembra sparita.
Raccontano che conosceva il nome di tutti i migranti che arrivavano nei centri di accoglienza, li aspettava quando arrivavano con i pulmini dal casello autostradale di Frosinone dove suo fratello Michel li andava a prelevare. L’appuntamento era in una stazione di servizio appena usciti dall’autostrada, era il 2017 e Michel Rukundo aveva 32 anni e tante vite già alle spalle, dal suo arrivo dal Ruanda, quando era poco più che bambino, insieme alla madre Marie Thérèse e alle sue sorelle, fino alla fondazione della cooperativa Karibu che dagli inizi degli anni Duemila si occupa di accoglienza?
La moglie Liliane Murekatete, non disdegna il lusso sfrenato e l’amore per le grandi firme viaggiando tutta griffata Louis Vuitton… Lui fa lo show in parlamento presentandosi con gli stivali di gomma sporchi di fango. Lei viaggia con valigie e vestiti griffati. E postando sul suo profilo social una vita tra viaggi, alberghi e ristoranti di lusso. Ipocrisia a tonnellate. E poteva mancare una fotografia abbracciata a Roberto Saviano ? Ma certo che no !
In quegli anni le cose sembravano andare per il verso giusto bene: accoglienza, integrazione, impegno. Ad un certo punto il meccanismo si è inceppato, e si è fatta molti amici e molti nemici. Dai suoi detrattori Viene quasi subito soprannominata "Lady Gucci" , anche perchè la moglie del deputato Soumahoro ha sempre messo in evidenza la sua passione per la moda e il lusso. Liliane è bella ed appariscente grazie ai vestiti, borse e accessori, portati su un fisico che si fa notare. Grandi occhiali da sole, molte foto e selfie più da "influencer" sui socialnetwork che da imprenditrice nel sociale. Insomma non passa inosservata, e gli "amici" su Facebook la chiamano la regina d’Africa.
Una passione la sua per la moda che trasferisce anche sul lavoro, organizzando nel 2018 una sfilata al centro commerciale LatinaFiori, dove lei stesso indossava un abito in stile africano con il turbante. Oltre ad un casting per selezionare ragazze e ragazzi che saliranno in passerella in occasione del lancio del marchio K, un made in Italy africano ideato dai richiedenti asilo della cooperativa Karibu. CasaPound l’attacca, la mattina del 16 maggio compare uno striscione davanti alla sede cooperativa: "Per una moda che ti veste ce n’è una che ti spoglia" riferendosi chiaramente alle foto sui social in cui Liliane compare con marche costose di abbigliamento, sostenendo che questo consumismo sia figlio dell’enorme introito che deriva dall’affare dell’accoglienza dei richiedenti asilo è quasi una certezza.
La moglie di Soumahoro così replicava: "Provo profondo rammarico come donna per le frasi che mi sono state rivolte. Il mio istinto mi spingerebbe a rivolgermi alle autorità ma la razionalità mi induce a sperare in un confronto costruttivo". Ma lei non si ferma: partecipa al matrimonio di due ragazzi ospiti della cooperativa Karibu che si sposano a poche settimane dall’uscita dal progetto Sprar di Monte San Biagio, nei giorni successivi partecipa alla pulizia delle spiagge in jeans e t-shirt con i ragazzi delle cooperative e gli amministratori comunali. E su Facebook alterna selfie in abiti eleganti, borse di lusso, vistosi cappelli, a tute da lavoro e ramazza tra le mani. Una vita che oscilla "mediaticamente" tra luccichio e impegno sociale. L’ultimo post di Liliane Murekatete è dedicato al marito Soumahoro incatenato davanti a Montecitorio la scorsa estate, la sua protesta per il salario minimo, scrive: "Fiera di come sei". Niente altro.
Provate ad immaginare se questa vicenda avesse riguardato la sorella ed il marito della Meloni, o i figli di Berlusconi cosa sarebbe accaduto in Parlamento, in televisione e sui giornali "sinistrorsi"! Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco quando definisce sul Quotidiano del Sud questa "Una tipica vicenda italiana quella di Aboubakar Soumahoro, il campione dei centri sociali, l’eroe degli stivali da lavoro portati in parlamento la cui moglie, la disoccupata Liliane Murekatete – una sorta di Ferragni – sfoggia sui social borse e accessori griffati costosissimi malgrado l’indagine sulle malsane condizioni dei rifugiati e i mancati pagamenti ai dipendenti della coop di migranti di cui è responsabile mammà, la suocera dell’onorevole, signora Maria Therese Mukamitsindo. Una storia molto italiana – ma proprio molto – su cui un Rodolfo Sonego di oggi potrebbe cavarne una sceneggiatura, il Pd farne un’altra punta avanzata del pensiero progressista, Fabio Fazio una serie di ospitate oppure la Ue, in giusto completamento con Luigi Di Maio, un altro inviato speciale nel Golfo Persico. L’arte d’arrangiarsi, infatti, è la stessa. Giggino integra l’altro. E viceversa".
Ecco come parlava di Aboubakar Soumahoro la stampa di sinistra, prima dello scandalo giudiziario che ha travolto la sua famiglia la quale stranamente oggi tace. Qualcuno si meraviglia ? Noi no !
Esiste in questa vicenda un problema di credibilità politica compromessa, quella di Soumahoro, e un tema di fiducia tradita, quella di Fratoianni e Bonelli, che pare non fossero a conoscenza dei guai "familiari" del sindacalista. Anche se, almeno nel caso di Fratoianni, un campanello d’allarme poteva accendersi. "Lo avevo avvisato", dichiara don Andrea Pupilla, responsabile della Caritas di San Severo, da anni impegnato a "Torretta Antonacci", uno dei ghetti di migranti nella provincia di Foggia, dove Soumahoro ha concentrato la sua attività sindacale. Un’attività "solo virtuale e tesa ad accendere fuochi, ma non l’abbiamo denunciata ora – spiega il sacerdote -. Quando è stato candidato, ho scritto personalmente a Fratoianni in privato, dicendogli che stavano facendo un autogol, ma non mi ha risposto".
Soumahoro, deputato di Verdi-Si, ha promesso in lacrime sui social di scioperare accanto ai dipendenti di quelle cooperative se risulterà che sono stati sfruttati. Ma c’è chi accusa: "Soumahoro lo sa. Era lì, portava la spesa. Era la sua famiglia. Lui era a conoscenza di quello che accadeva lì dentro". Youssef Kadmiri, 42 anni, è un ingegnere nato a Marrakesh e non parla per sentito dire. È un testimone e una vittima di quello sfruttamento. E racconta oggi al Corriere della Sera qualcosa di molto più grave di ciò che è emerso. Dice di essere stato pagato "due volte in due anni". Meno di quanto pattuito: "Un totale di 6mila euro".
Come altri suoi colleghi, alcuni dei quali ricevevano "bonifici dal Ruanda" senza contratto, "Ero operatore sociale, traducevo ai ragazzi che venivano dalla Libia, dall’Albania, dal Bangladesh, dal Marocco. Ma poi facevo anche manutenzione. La guardia la notte. L’orario non era giusto. Tante volte ho chiesto il contratto, sempre scuse. E lo stipendio di 1000-1200 euro non arrivava. Dicevano "mi dispiace". Ma io dovevo pagare l’affitto. Dopo 6 mesi ho avuto 3.000 euro. Poi niente per un anno e mezzo. Poi solo altri 3.000". Ma soprattutto Yuseff accusa: i minori che erano nella struttura venivano tenuti in una "situazione grave: gli davano poco da mangiare e non gli davano il "poket money"" la diaria per le spese personali. Redazione CdG 1947
Soumahoro e le denunce di aggressione (rimaste nel cassetto). L'associazione Anolf smentisce la raccolta fondi di Soumahoro: "Nel ghetto non ci sono bambini". E denuncia le aggressioni subite dai suoi uomini. Bianca Leonardi il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.
Altre donazioni altra presunta campagna fasulla - avviata nel 2021 e ancora attiva - per la Lega Braccianti di Aboubakar Soumahoro. Su GoFundMe sono stati infatti raccolti 16mila per comprare regali ai bambini dei ghetti pugliesi di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone.
"A Natale possiamo regalare speranza. Con il vostro aiuto organizzeremo un festa per le bambine e i bambini nati e cresciuti negli insediamenti": si legge nella richiesta di aiuto di Soumahoro. A smentire la questione è Francesco Mirarchi, coordinatore Anolf, l’associazione che ha vinto il bando regionale lo scorso agosto per la gestione della foresteria di Torretta Antonacci, che racconta a IlGiornale.it: "Nei ghetti non ci sono bambini. Qui a Torretta Antonacci nemmeno uno e la stessa cosa a Borgo Mezzanone. Anche le donne sono poche, in questi posti vivono solo uomini braccianti".
In effetti, nel video social postato dalla Lega Braccianti a pochi giorni dall’inizio della campagna si vede un Soumahoro vestito da Babbo Natale, qualche aiutante che sistema l’albero di Natale e dei pacchetti presumibilmente mai consegnati. Nessun bambino e nessuna donna appare nel video che riprende molti abitanti del ghetto.
Pochi giorni dopo, un nuovo aggiornamento sulla pagina relativa alla campagna dei regali di Natale in cui la Lega Braccianti - ringraziando i donatori - alza l’asticella delle pretese, chiedendo un aiuto in più. "La vera lotta contro il caporalato nella filiera del cibo è permettere alle lavoratrici e ai lavoratori braccianti di vivere dignitosamente. Per fare ciò occorre permettere ai braccianti di avere un giusto salario che consenta un’abitazione dignitosa che permetterebbe di ottenere una residenza in modo da poter accedere ai vari servizi tra cui quelli sanitari. Inoltre, occorre aver un permesso di soggiorno", si legge sulla pagina della campagna.
Tutte le richieste avanzate dai fedeli di Aboubakar Soumahoro risultano però solo fuffa in quanto gli stessi sono ormai famosi per opporsi ad ogni gestione esterna del territorio. Chi invece agisce concretamente sul territorio è prorprio Anolf: sul posto è presente - come IlGiornale.it ha potuto verificare - un presidio aperto tutti i giorni che accoglie i migranti aiutandoli nelle procedure di ottenimento del permesso di soggiorno e residenza. Molti di quelli che vivono nei container della protezione civile, con cui abbiamo parlato a Torretta Antonacci, ci hanno mostrato i propri documenti che l’associazione gli ha permesso di avere. Tanto più, sempre Anolf ha stipulato un accordo con l’ufficio dell’impiego in modo da facilitare le pratiche di inserimento professionale, nella speranza così di contrastare il caporalato.
Tutte queste azioni non sono state viste bene dall'"esercito di Soumahoro" tanto che, come ci raccontano sia Mirarchi sia un agente della polizia presente sul posto, le aggressioni nei confronti dei nuovi arrivati non sono mancate. Una su tutte quella a Mohammed Elmajdi, presidente dell’Associazione Anolf e Segretario territoriale della Cisl Foggia. L’accoglienza che ha ricevuto, a pochi giorni dalla vincita del bando quando si è recato nella foresteria di Torretta Antonacci, non è stata delle migliori e adesso non gli è più permesso mettere piede lì. "Sono stato aggredito il primo giorno che mi sono recato a Torretta Antonacci, c’erano molte persone ma alcuni li conoscevo e li ho riconosciuti e denunciati. Sono del sindacato Usb e della Lega Braccianti - ci racconta Elmajidi - mi hanno intimato di andare via battendo sulla mia macchina".
Sulla denuncia, di cui ilGiornale.it è entrato in possesso, si leggono infatti i nomi di Balde Mamadoue, Berre Alpha e Soumaila Sambarè: proprio quei tre uomini che, come ci hanno raccontato al ghetto, sono i responsabili indicati da Soumahoro per gestire il ghetto e tutte le attività connesse. "In particolare - continua il Preidente Anolf - il signore Berre Alpha mi diceva che io, come associazione, non potevo essere presente lì e che a loro non interessava la nostra convenzione sottoscritta con la regione Puglia".
"Non so più niente di quella denuncia - conclude - mi avevano detto che mi avrebbero fatto sapere ma sono passati mesi ormai".
Altro male di questa realtà sono proprio tutte le denunce - come quella della Cgil - che restano chiuse nei cassetti. Nonostante questo, sembra esserci comunque la speranza che le cose vengano approfondite. "Portiamo avanti decine e decine di inchieste, alcune le abbiamo concluse mentre su altre sono in corso le indagini", ci racconta il Procuratore Capo di Foggia Ludovico Vaccaro. "Il caporalato e le dinamiche annesse a questo fenomeno sono una priorità, tanto che siamo tra i pochi che agiamo con lo strumento del controllo aziendale. Questo per far capire ai braccianti che non siamo noi i nemici e che il problema va risolto dalla radice".
Soumahoro fa finta di nulla: "Viaggiavo molto..." Il mea culpa mediatico del deputato con gli stivali a Piazza Pulita. "Sono stato poco attento, ma mia moglie mi disse solo che gli enti avevano dei ritardi nei pagamenti". Bianca Leonardi il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.
"Approfondirò tutti i vari
contorni della vicenda e lo farò come parlamentare della repubblica": questa la
conclusione di Aboubakar Soumahoro che ha deciso di confessarsi a Piazza Pulita
davanti a Formigli.
Molte le domande che il giornalista ha posto all’onorevole, quelle che tutti gli
italiani si chiedono. Poche le risposte di Soumahoro che, attraverso giri
pindarici e idealismi del sindacalismo vecchia scuola, non è riuscito a dare
nessuna giustificazione se non un "sono stato poco attento".
Sulla questione delle coop di famiglia, Karibu e Aid, il deputato di Verdi e Sinistra Italiana sostiene che nel 2020 la moglie disse lui che c’erano dei problemi di stipendio con i dipendenti delle cooperative, ma che erano legate ai ritardi delle pubbliche amministrazioni nei pagamenti.
"Conosco quelle dinamiche di
chi da gli appalti e non ci feci caso. Sono stato una volta nella coop ma
assicuro che le condizioni non erano quelle che ora vengono descritte", risponde
Soumahoro.
Condizioni denunciate dalla senatrice Fattori che era stata personalmente in uno
dei centri trovando una situazione estremamente precaria, avvertendo anche i
vertici di sinistra italiana che però glissarono - come la stessa racconta - .
"Avrei dovuto fare meno viaggi e restare vicino a quel lavoratori, dovevo fare visite improvvisate", prosegue Sumahoro facendo mea culpa sul fatto di non essere stato presente sul posto e tende a sottolineare che è l’unica scusa che si sente di fare alle persone. Fa strano - certo - visto che la sede di Latina della sua Lega Braccianti è la stessa di quella della Karibu e di Aid.
Nota di buonismo, poi, in cui l’onorevole - almeno a parole - prende le difese dei lavoratori sfruttati: "Hanno fatto bene i lavoratori a parlare e chi ha sbagliato dovrà pagare".
La domanda è sempre la stessa, ed è anche quella che chiede Formigli al deputato: "Ma poteva davvero non sapere niente vivendo con sua moglie?". Soumahoro non cede: "Sapevo solo di alcuni ritardi", "vivevamo a Roma", "C’era il bambino" e "C’era il lockdown". Insomma, niente chiacchiere a tavola per l’ex sindacalista e lady Suomahoro, a quanto pare.
Ma alla fine, come ha chiesto
il padrone di casa di Piazza Pulita, di cosa viveva Aboubakar prima di entrare
in parlamento? "Ho scritto un libro", ha risposto. Un solo libro che ha permesso
all’ancora deputato di accendere un mutuo di 250 mila euro per la durata di 30
anni solo pochi mesi prima di entrare nei palazzi del potere.
E se durante il video in lacrime che ha fatto il giro del web affermava di avere
una moglie nullatenente - con borse di fendi e scarpe di Gucci - stasera, in
diretta, confessa che "la situazione economica familiare di mia moglie ci ha
aiutato (riguardo alla casa ndr)" e che "mia moglie oltre alla cooperativa ha
sempre avuto la sua carriera professionale". Quale non si sa, ma certo è che la
Gdf, che già sta controllando i conti, farà chiarezza su questi aiuti da parte
di suocera e familiari.
E sulla Lega Braccianti, un
po’ come in tutta la confessione, una serie di risposte a caso a domande
precise.
"E’ in grado di documentare i movimenti?" chiede Formigli riguardo ai
finanziamenti raccolti con la campagna "cibo e diritti" - quei famosi 250mila
euro che sembrerebbero, a quanto dicono i braccianti, mai arrivati nei ghetti -
.
"Ci ho rimesso, nessuno ci ha imposto di fare queste lotte", risponde Soumahoro
completamente estemporaneo, aprendo però la vicenda della denuncia degli ex
soci: Sambarè, Alfa e Mamadoue.
Soumahoro non fa i nomi ma essendo stati sul posto è facile capire il
riferimento: "Chi mi accusa oggi, aveva lasciato l’Usb e poi ci è tornato perchè
mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio parte dei fondi, ma
io mi sono rifiutato".
In realtà, una persona molto
vicina all’onorevole e che ha passato gran parte della vita con lui ha
raccontato a IlGiornale.it - come abbiamo già documentato nel reportage su
Torretta Antonacci - la storia in modo dettagliato, smentendo Soumahoro. "Alpha
Barre, Sambarè Soumalia e Mamadoue Balde sono stati pagati da Soumahoro per non
dire dei fondi trattenuti. Soumahoro ha aperto tre conti alle poste a Foggia e
ha messo 10mila euro per ognuno. Dopo hanno mangiato tutti da quella torta".
Versioni contrastanti che in questa vicenda sono all’ordine del giorno.
Ma, a prescindere da ciò, la cosa che veramente fa pensare è che Aboubakar Soumahoro abbia deciso di dire la sua, di rispondere alle domande di un’Italia indignata dall’incoerenza del paladino dei diritti, senza dare una vera a propria spiegazione su nessun fatto.
Sulle coop Karibu e Aid "è stato leggero" - un po’ come Bonelli quando ha deciso di candidarlo, anche se ora sembrerebbe ritrattare -, sulla Lega Braccianti nemmeno ha accennato alle pesanti accuse che hanno mosso, non quei tre con cui ormai - con tutta probabilità - si è creata una guerra tra clan (dove anche Usb è coinvolta, tutti lo tirano in ballo e dal sindacato solo il silenzio), ma tutti i braccianti di Torretta Antonacci, che noi abbiamo intervistato, impauriti e terrorizzati dall’egemonia dei suoi uomini che controllerebbero tutto.
Questo era il chiarimento che l’Italia si aspettava: probabilmente non sarebbe bastato, ma sicuramente sarebbe stato apprezzato.
Invece no. Se c’è però una cosa di cui Soumahoro è sicuro è che non rifarebbe mai quel video in lacrime: "Chiedo scusa, è stato un momento di debolezza". Peccato che le scuse le fa ai suoi "fan" e non ai lavoratori sfruttati delle coop o ai braccianti ai quali ogni mattina i suoi uomini ritirano i soldi per farli lavorare.
Spuntano i bilanci: ecco tutti i conti (e i debiti) delle coop dei Soumahoro. Bilanci non pubblicati, maxi finanziamenti dalle pubbliche amministrazioni e addirittura il bonus affitto. Tutti i conti di Aid e Karibu. Bianca Leonardi il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.
Con l’apertura dell’inchiesta della Procura di Latina le coop della famiglia di Soumahoro sono ormai al centro del ciclone. Ancora di più adesso che la suocera del deputato, Maria Therese Mukamitsindo, è ufficialmente indagata. Da precisare, però, che le indagini vanno avanti addirittura dal 2019 e, con quanto emerso nelle ultime settimane, il denaro che negli ultimi anni gira intorno alla Karibu e al Consorzio Aid appare ora quantomeno sospetto.
I bilanci delle due cooperative non sono pubblici. Il sito della Karibu risulta infatti inattivo e su quello dell’Aid non sono presenti. Già questo non è conforme alla legge dal momento che i movimenti degli enti del terzo settore hanno l’obbligo di rendere pubblica la consultazione. Noi de IlGiornale.it, però, siamo comunque riusciti ad entrarne in possesso e abbiamo potuto vedere le cifre esorbitanti che le cooperative hanno ricevuto dagli enti statali, mediante bandi o erogazioni.
Ma entriamo nel dettaglio. Leggendo il bilancio del 31 dicembre 2020 di Aid si scoprono i bonifici che proprio la Prefettura di Latina ha erogato ogni due mesi come incarichi retribuiti per la gestione dei centri di accoglienza e dei richiedenti asilo. Il 27 marzo di quell’anno la coop ha ricevuto, infatti, due tranche da 78mila euro e 35 mila euro che - come scritto nella causale - avrebbero dovuto coprire i mesi di ottobre e novembre 2019. Stessa cosa nel mese di giugno, il 24 sono arrivano nelle tasche dell’azienda 99mila euro più altri 103mila euro. I finanziamenti sono andati avanti fino al 10 dicembre, ultimo giorno in cui il consorzio ha incassato più di 111 mila euro, dopo i bonifici precedenti di settembre e ottobre, rispettivamente di 105mila euro e 107 mila euro. Riassumendo: la Prefettura di Latina, nel solo anno 2020 - quindi a indagini già iniziate -, ha dato al Consorzio Aid circa 1 milione e 165mila euro. Nello stesso anno anche il Comune di Latina ha bonificato 10mila euro attraverso il bando multimisura per la concessione di contributi in ambito sociale. Ma c’è di più: l’azienda ha ricevuto bonus fiscali dal MISE, un contributo a fondo perduto di circa 35mila euro e altri 480 euro come bonus affitto.
Per quanto riguarda la Karibu invece si parla - al 2020 - di ben più di 2 milioni di euro di debiti, tra cui 590mila euro da saldare alle banche e 774mila circa di tasse. A tal riguardo le dichiarazioni della presidente Maria Therese Mukamitsindo - da ieri ufficialmente indagata-, suocera di Soumahoro, che ha rilasciato a Repubblica: "I ritardi dei pagamenti dipendono dagli appalti. Non abbiamo soldi da dargli (ai dipendenti ndr) perché lo Stato non ci paga in tempo". E ancora: "Siamo andati in cassa integrazione, non ci dormivo la notte" e "abbiamo dovuto licenziare dei dipendenti". Ciò che però afferma la protagonista sulla relazione di bilancio è esattamente il contrario: "Non si è potuto licenziare il personale non necessario, ne tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione". Smentita da sola la mamma della "first lady" Soumahoro che a Repubblica dice di "non dormire la notte" - dalla preoccupazione, s'intende - ma al consiglio d’amministrazione avverte che "gli sbarchi sul territorio nazionale sono diminuiti drasticamente (dopo il Covid, ndr)" e quindi si è presa la decisione "di intraprendere nuovi progetti che faranno vedere i loro risultati nei prossimi esercizi". Il tutto per risollevare l’azienda.
Questi nuovi progetti si sono concretizzati questo'anno evidentemente, quando entrambe le coop hanno partecipato al bando per l’aiuto dei profughi ucraini nell’aprile 2022. A vincere - dopo nemmeno due mesi dall’inizio della guerra - sono state entrambe, ottenendo così 259mila euro per la Karibu e 298mila euro per Aid.
Soumahoro, ascesa e caduta dei personaggi mediatici. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022.
Caro Aldo, rappresentanti della Caritas, gruppo Emmaus e Cgil hanno accusato le esose congiunte dell’onorevole Soumahoro (14 mila euro netti al mese come deputato di Sinistra italiana) di aver sottratto fondi alla cooperativa pro-migranti e di gravi ambiguità. Il colosso d’argilla del… politicamente corrotto...? Dopo gli articoli, tra cui quello di Buccini, sul Corriere, sui presunti «arraffoni» vicini al «deputato con gli stivali», Bonelli e Fratoianni avrebbero dovuto chiedergli di scrivere una letterina di dimissioni da deputato per lasciare il seggio a una persona con congiunti più trasparenti. Alla fine lui si è auto sospeso, dopo un confronto con loro... Pietro Mancini
Caro Pietro, Sul conto di Aboubakar Soumahoro ormai ne esce una al giorno. La moglie soprannominata Lady Gucci, il proprietario degli stivaloni con cui si presentò a Montecitorio che li rivuole indietro, la sceneggiata vestito da Babbo Natale in un centro dove bambini non ce n’erano, le denunce di don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo, Foggia. Come è stata repentina la costruzione del personaggio, altrettanto si rivela la distruzione. Forse si è esagerato prima, forse si sta esagerando adesso. La politica e la magistratura faranno le loro verifiche, e ne sapremo di più. C’è però una riflessione che possiamo già tentare. E riguarda il sistema mediatico. Siamo alla continua ricerca di scorciatoie. Andare nelle campagne di San Severo è una faticaccia? Ma non ce n’è alcun bisogno: il personaggio è già pronto, grazie alle reti sociali e a leader politici promotori di se stessi, che con il territorio non hanno più alcun rapporto ma con i social media manager sì. Nascono così personaggi mediatici del tutto privi di consistenza, a volte con zone d’ombra, ma perfetti per la Rete e i talk. Dire una parola contro di loro diventa complicato, perché diventi razzista o comunque politicamente scorretto. Facciamo un esempio concreto. Soumahoro è stato candidato nel collegio uninominale di Modena, che nel 2018 la sinistra aveva tenuto per pochi voti. Stavolta l’ha perso, a favore di un’esponente locale di Fratelli d’Italia. Perdere il collegio di Modena è una sconfitta politico-culturale disastrosa per la sinistra. Non credo sia accaduto per il colore della pelle di Soumahoro, ma perché la sua era una candidatura paracadutata, in seguito all’accordo politico tra il Pd e Bonelli-Fratoianni; forse un militante radicato sul territorio, magari anche un vecchio arnese delle coop, quella sconfitta l’avrebbe evitata. Eppure nessuno ha fiatato, per non sembrare razzista o comunque retrogrado. Ma il segretario della Cisl di Foggia, che ha denunciato di essere stato preso a pugni e a testate dagli uomini di Soumahoro, si chiama Mohammed Elmajdi. Sarà xenofobo pure lui?
Dritto e Rovescio, Renzi contro la sinistra: "Radical chic, ipocriti, faisei". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
La nuova bandiera della sinistra ammainata a tempo record. Si parla della parabola di Aboubakar Soumahoro, eletto deputato con gran fracasso tra le fila dell'Alleanza Verdi Sinistra e abbandonato senza nemmeno tentare una difesa dopo che è esploso il caso-coop che riguarda la moglie e la cognata. Un caso che lo ha travolto e lo ha porttato all'autosospensione.
Già, il punto è che nessuno, dei suoi, lo ha difeso. Ma proprio nessuno. E proprio su questo aspetto insiste Matteo Renzi, ospite in studio di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, il programma del giovedì sera in onda su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 24 novembre.
"C'è un punto che non riguarda lui ma chi lo ha candidato - premette l'ex premier -. E questo punto è un punto su cui si deve parlare liberamente. C'è una certa filosofia di sinistra, la chiamerei radical-chic, che prima ha costruito il personaggio e poi lo ha mollato alla velocità della luce con un'ipocrisia e un atteggiamento farisaico che io reputo squallido", conclude Matteo Renzi picchiando durissimo.
Un punto di vista molto simile a quello espresso da Paolo Mieli a PiazzaPulita, la trasmissione di Corrado Formigli in onda su La7 e che aveva come ospite in studio proprio Soumahoro. Mieli, infatti, ha espresso tutto il suo stupore per il fatto che pubblicamente la sinistra non abbia nemmeno provato a difendere Soumahoro. E ancora, Mieli ha ricordato al deputato come il vero attacco, in un certo senso, non sia quello ricevuto dalla stampa di centrodestra, ma proprio quello di una sinistra che ha scelto di tacere.
La difesa in tv dell'ex sindacalista e l'attacco di Renzi: "Creano e distruggono totem". Processo a Soumahoro (non indagato), sedotto e abbandonato dalla sinistra "radical chic e con la puzza sotto il naso". Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Novembre 2022
Da una parte c’è la sinistra che prima crea il personaggio, lo candida, sfruttando la sua popolarità, e poi alla prima occasione dubbia lo scarica, prende le distanze e lo lascia in pasto alla gogna mediatica e social. Dall’altra c’è lui, Aboubakar Soumahoro, neo deputato della Repubblica italiana, che prova a difendersi, a chiarire vicende che riguardano la moglie e la famiglia di quest’ultima in una indagine (sulle cooperative che danno lavoro ai braccianti in provincia di Latina) che non lo vede coinvolto ma i cui rumors sono bastati a Sinistra Italiana ed Europa Verde per allontanare l’ex sindacalista Usb, mostrandosi già pentiti e imbarazzati.
Siamo in Italia dove clamore mediatico e dito puntato contro alla prima occasione buona sono il pane quotidiano. Soumahoro lo sa bene e dopo essersi (speriamo senza pressioni) autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra italiana dopo 48 ore (quarantotto!) di confronto con i leader Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, a Piazzapulita sente di scusarsi ancora una volta, perché ormai per tutti è già colpevole. "Mi scuso perché sono stato poco attento, mentre giravo per il Paese, a quello che c’era a casa mia. Io non sono in quella coop, ma approfondirò tutto come deputato della Repubblica" ribadisce il deputato di origini ivoriane, oggi 42enne. "Non sapevo nulla, se fossi stato a conoscenza di una indagine sulle cooperative gestite da mia suocera non mi sarei candidato" aggiunge.
Rispetto ai ritardi nei pagamenti degli stipendi Soumahoro ha ammesso che "doveva scattare da parte mia un ulteriore approfondimento. Essermi limitato a questa situazione non me lo perdono. E’ vero, la mia famiglia gestisce centri di accoglienza, ma quella gestione ha una ventina di anni e la mia attuale compagna l’ho conosciuta nel 2018 quando la coop già esisteva".
A Soumahoro è stato chiesto conto delle immagini con accessori costosi e firmati che la sua compagna, che gestiva una coop assieme alla suocera oggi indagata per malversazione, sfoggiava sui social a fronte di 400mila euro di stipendi non pagati e di circa 200mila distribuiti alla dirigenza della coop e un resort che la sua famiglia avrebbe aperto in Ruanda. "Quelle immagini non mi hanno creato imbarazzo – ha risposto -. Il diritto all’eleganza e alla moda è libertà, la moda non è né bianca né nera. Poi quelle immagini vanno datate. Mia moglie ha la sua vita. Non lavora più nelle coop".
Soumahoro ha poi spiegato, precisando che "tutti gli atti sono trasparenti", che grazie al lavoro della moglie hanno comprato casa accendendo un mutuo trentennale. Agli ex colleghi della Lega Braccianti, poi tornati in Usb, che chiedevano conto di 56.800 euro non rendicontati su un bilancio di 220mila euro, il parlamentare rilancia: "Sono nelle condizioni di poter produrre tutte le prove. I soldi sono stati spesi per l’acquisto di generi alimentari, gel disinfettante, trasporti, e i rimanenti 56.800 sono andati nell’esercizio 2021. Il bilancio è disponibile sul sito della Lega Braccianti. Chi mi accusa oggi è tornato a far della Usb, organizzazione con cui ho un contenzioso, dopo essere passato con me nella Lega Braccianti. Sono tornati indietro perché mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio i soldi delle donazioni. Ho rifiutato".
"Ho lottato contro il caporalato, lo possono testimoniare funzionari dello Stato, questori e prefetti. Quando i braccianti furono presi a fucilate sono stato fino alle due di notte col questore" ricorda Soumahoro che precisa poi di non aver mai usato i soldi delle donazioni per finanziare la sua ascesa politica: "Assolutamente no, mai. Anzi, ci ho anche rimesso. A chiedermi di candidarmi sono stati Sinistra Italiana ed Europa Verde. Ma il mio curriculum è la storia di centinaia di braccianti. Non sono un iscritto di Sinistra Italiana, quello che è avvenuto all’interno dei partiti prima del voto io non lo so. Ma non sono certo andato io ad autocandidarmi perché la mia storia non è uno show di Hollywood ma quella che ha dato vita al primo tavolo contro il caporalato". Infine ricorda: "Sono nato per strada. Sono sempre stato nell’angolo. Ma l’essermi mosso dall’angolo non è stato un percorso individuale, è stato collettivo".
La difesa di Renzi: "Sinistra radical chic, costruisce totem e poi li distrugge"
In difesa di Soumahoro il senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex segretario del Pd. Durissime le sue parole nel corso della trasmissione "Dritto e Rovescio" su Rete 4. "C’è una certa filosofia della sinistra che io chiamo radical chic che prima ha costruito il personaggio e poi l’ha mollato alla velocità della luce con una ipocrisia e un atteggiamento farisaico squallido. È tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso" commenta Renzi a proposito della vicenda di Aboubakar Soumahoro.
"Io sono stato garantista con Berlusconi, Virginia Raggi e con quelli del Pd che non sono stati garantisti con me. Io sono garantista davvero e poi lui non è nemmeno indagato, quindi si aspetta la giustizia non si anticipa la giustizia e non si fa una strumentalizzazione politica" spiega Renzi prima di ribadire che "l’atteggiamento della sinistra sulle vicende di altri familiari, e io ne so qualcosa, è stato vergognoso".
Con Soumahoro "oggi hanno preso e distrutto quello stesso totem che hanno costruito, è tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso. Io oggi gli do la mia solidarietà ma mi fa ribrezzo chi oggi specula su questa vicenda dopo aver fatto la morale agli altri".
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Da moralizzatori a moralizzati la parabola di Propaganda Live. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 25 novembre 2022
Prima le accuse di Rula Jebreal. Poi il «caso Angelini». Infine, in rapida successione, la «palpatina» di Memo Remigi e, come se non bastasse, la bufera che ha travolto Aboubakar Soumahoro. Tempi grami, quelli che si vivono nell'entourage di Propaganda Live, il talk di La7 che rilegge con sguardo ironico la settimana politica e che, soprattutto, rappresenta ai massimi livelli il tempio della sinistra radical chic. Quella che dà patenti di presentabilità e lezioni di moralismo a tutti ma che, ultimamente, è costretta a fare i conti con una miriade di piccoli e grandi casi che travolgono protagonisti fissi e ricorrenti della trasmissione guidata da Diego «Zoro» Bianchi. Che c'azzecca Soumahoro con Propaganda Live? C'azzecca, perché è stato proprio il talk in onda ogni venerdì sera su La7 a portare sotto la luce dei riflettori il sindacalista in lotta contro lo sfruttamento del lavoro dei migranti. Era il giugno del 2018 e il tema salì alla ribalta a causa dei colpi di fucile esplosi a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, contro alcuni migranti. Uno di loro - Soumaila Sacko, attivista sindacale dell'Usb - perse la vita. E a raccontare l'inferno del lavoro in nero e sottopagato degli immigrati Diego Bianchi chiamò proprio Aboubakar Soumahoro.
Che tornò in seguito in trasmissione e divenne un volto sempre più conosciuto, al punto da guadagnarsi anche una copertina de l'Espresso in cui era contrapposto a Matteo Salvini con il titolo eloquente «Uomini o no». Il primo colpo ai campioni del moralismo era arrivato però qualche tempo prima. Esattamente nel maggio 2021, quando la giornalista Rula Jebreal annullò all'ultimo momento la sua partecipazione alla trasmissione dopo essersi accorta di essere l'unica ospite donna in scaletta. Ne seguì polverone mediatico e una lunga arringa difensiva in trasmissione da parte del gruppo Bianchi-Makkox-Damilano. Peccato che, nel frattempo, di bomba ne era esplosa un'altra, quella del chitarrista della band del programma, Roberto Angelini, multato per aver fatto lavorare in nero una dipendente del suo ristorante di sushi. Come Soumahoro, anche Angelini pubblicò sui social un video mentre era in lacrime. La classica toppa peggiore del buco, perché arrivò a dare della «pazza incattivita» alla dipendente di cui sopra. Seguì sospensione (temporanea) dalla trasmissione. Poi, dopo un po' di tempo, il ritorno in prima fila. Perché ciò che si rimprovera ai «nemici» viene facilmente perdonato agli «amici».
Infine il caso Remigi. Col quale, va specificato, Propaganda c'entra poco, visto che la palpata incriminata alla cantante Jessica Morlacchi è andata in onda nella trasmissione Rai Oggi è un altro giorno. Remigi, però, ha dovuto il secondo tempo della sua notorietà al rilancio ottenuto grazie a Diego Bianchi, per il quale era l'inviato a Testaccio per raccogliere la vox populi dello storico quartiere romano sui principali fatti della settimana. In seguito al clamore e all'esclusione dal programma Rai, anche Propaganda si è ben guardare di richiamare sullo schermo l'ottuagenario cantautore. «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura» diceva Pietro Nenni. Nel frattempo, i «superstiti» del cast faranno bene a fare gli scongiuri. La «maledizione dei moralizzatori» ha dimostrato di non guardare in faccia a nessuno.
Caso Soumahoro, il direttore della Caritas di San Severo: "Nel ghetto di Torretta Antonacci non ci sono bambini". Storia di Redazione Tgcom24 il 26 novembre 2022.
Continuano a emergere nuovi dettagli sull'inchiesta legata ad Aboubakar Soumahoro. Il sindacalista nelle ultime ore si è autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra dopo la notizia del coinvolgimento della suocera, Marie Therese Mukamitsindo, nell'inchiesta sulla gestione di due cooperative che si occupano di migranti in provincia di Latina. Il fascicolo della procura è stato aperto per l'ipotesi di malversazione. L'inchiesta è partita dopo le denunce da parte di alcuni lavoratori.
"Striscia la notizia" sta seguendo da vicino il caso e ha avuto modo di verificare l'operato di Soumahoro anche in altre realtà. L'inviato del tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio, si è occupato del ghetto di Torretta Antonacci a San Severo, in provincia di Foggia. Qui, Soumahoro avrebbe organizzato una raccolta fondi che avrebbe raggiunto la cifra di 16mila euro. Tuttavia, a Torretta Antonacci di bambini non ce ne sono, come confermato dal Direttore della Caritas don Andrea Pupilla che a "Striscia" ha dichiarato: "Frequento il ghetto da 15 anni - dice il sacerdote - per fortuna, lì, non ci sono bambini. Qualche volta è capitata qualche situazione sporadica di cui ci siamo occupati insieme ai servizi sociali".
In alcuni video postati sui social, Soumahoro lamentava di come le associazioni sfruttassero i migranti per fare business: "Non puoi accusare delle associazioni quando in casa tua sta succedendo tutto questo - prosegue don Andrea Pupilla - si tratta di un problema a livello morale".
Soumahoro, l'ex socio a Striscia: "Soumahoro pagava per fare selfie e finte proteste". Il Tempo il 25 novembre 2022
A "Striscia La Notizia" su Canale 5 l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a Piazza Pulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sottoforma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. Che aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro.
Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci.
Striscia la notizia, l'ex socio accusa Soumahoro: "Li pagava per selfie e proteste". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
Stasera 25 novembre a Striscia la notizia (su Canale 5, ore 20.35) l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a PiazzaPulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sotto forma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare.
Il quale poi aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro.
Aboubakar Soumahoro è finito nella bufera per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia
Soumahoro, il ragazzo rivela: "Mi disse vieni domani". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
Mohammed el Motarajji, appena 22 anni, è tra i migranti che hanno frequentato la struttura gestita dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, Marie Thérèse Mukamitsindo. Il racconto che fa al Corriere di quanto ha vissuto nella galassia della accoglienza gestita dai familiari di Soumahoro è agghiacciante. Non usa giri di parole: "Mi avevano promesso tante cose. Un contratto, un lavoro, uno stipendio. Ho lavorato sei mesi. Niente contratto e niente stipendio. Ma la cosa che mi fa male è avere visto quei ragazzi trattati così: poco da mangiare, tante volte senza acqua, luce e riscaldamento. Il poket money , invece che ogni giorno, solo ogni tanto".
Parole fortissime che aggiungono ombre sul parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi che si è autosospeso. E il racconto del giovane Mohammed si fa sempre più duro nei confronti di chi gestiva la struttura. "All'inizio dovevo fare il traduttore, poi l'informatico. Ma quando chiedevo il contratto mi rispondevano sempre: "Domani"".
Ma a quanto pare l'appuntamento non è mai arrivato. "Alla fine abbiamo fatto un accordo con Marie Thérèse per avere di meno, 5 mila euro, ma subito. Abbiamo firmato. Ho aspettato. Ma non ho avuto niente". Insomma a quanto pare le promesse non venivano mantenute e di fatto la posizione di Soumahoro si fa sempre più in bilico. I racconti su i mancati pagamenti si susseguono e l'inchiesta ha scoperchiato un vaso di Pandora che potrebbe riservare nuove sorprese.
Soumahoro, scontro in Sinistra italiana. Si allarga l’indagine sulle cooperative. Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.
La crepa si allarga. E Aboubakar Soumahoro ora è al centro di sospetti e oggetto di un scontro politico in Sinistra italiana: tra chi lo ha voluto candidare, Nicola Fratoianni, e chi sostiene di aver avvertito delle situazioni poco chiare che circondavano il deputato ora autosospeso. Situazioni delle quale Soumahoro ha sostenuto su La7 di aver «commesso la leggerezza» di non accorgersi.
Prima di tutto le cooperative gestite dalla suocera indagata per malversazione, Marie Therese Mukamitsindo e, fino a due mesi fa, dalla moglie Liliane (che dal 2008 al 2011 ha lavorato come consulente della presidenza del Consiglio nella «gestione dei dossier inerenti le relazioni bilaterali con l’Africa» per 53 mila euro).
Le segnalazioni su Karibu e Consorzio Aid, ora si moltiplicano. E così gli accertamenti. «Lasciateci lavorare», ha scritto il procuratore di Latina Giuseppe De Falco in una nota dove spiega che sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza c’è «l’impiego dei fondi erogati, i rapporti con l’erario, i rapporti con i dipendenti, i soggetti coinvolti. Gli accertamenti provengono da notizie e comunicazioni pervenute da una pluralità di fonti, di natura pubblica e privata, e si articolano attraverso il dovuto rigoroso vaglio ed approfondimento di ogni notizia e comunicazione».
Tradotto: si passano al setaccio i conti, gli affidamenti milionari ricevuti negli ultimi 4 anni per l’accoglienza dei profughi e forse distratti altrove. Si parla di ingenti finanziamenti fuori gara. Ma non si ignorano gli allarmi inascoltati sulle condizioni igieniche in cui venivano tenuti i migranti. E in particolare i minori che, privati spesso della diaria, venivano lasciati lavorare senza contratto all’esterno della struttura, nell’orario in cui sarebbero dovuti andare a scuola. Come conferma al Corriere un diciannovenne che ha paura di rivelare il suo nome: «Volevo andare a scuola ma avevo bisogno di soldi. Per mangiare, per i vestiti, per le scarpe. Andavo a lavare le macchine. Un mio amico vendeva la frutta in un negozio di egiziani come lui. Ci dicevano anche loro di andare a scuola. Ma dopo capivano che avevamo bisogno e ci aiutavano, anche se ci pagavano poco».
Soumahoro difende sua moglie supergriffata («Ha diritto all’eleganza») e non è indagato. Ma c’è un’altra situazione che ogni giorno si fa più tesa. Altre segnalazioni stanno giungendo a Foggia alle forze di polizia. Riguardano la sua raccolta fondi molto chiacchierata, sulla quale la Procura potrebbe a breve accendere un faro. Anche sulla base delle dichiarazioni dei suoi ex soci che sostengono manchino all’appello molti dei fondi raccolti. Di attacchi all’ex bracciante ne arrivano diversi. «Con i soldi delle donazioni alla nostra vecchia associazione pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone», ha detto un ex compagno della Lega Braccianti a Striscia la notizia.
E ora? « Chi ha scelto di candidarlo deve assumersi per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto» scrivono i dirigenti di Sinistra italiana Edoardo Biancardi, Stefano Ciccone, Elena Fattori, Sandro Fucito, Claudio Grassi, Alessia Petraglia, Serena Pillozzi, Antonio Placido e Silvia Prodi. Ce l’hanno con Nicola Fratoianni. Ma lui tira dritto: «Aboubakar era un simbolo. Che una parte della minoranza interna usi questo tema non merita commenti».
Caso Soumahoro, un testimone: «Poco cibo e niente luce, così trattavano i ragazzi. Io? Mai visto lo stipendio». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
Mohammed 22 anni, studente di Ingegneria del Marocco, lavorava nella cooperativa gestita dalla suocera e, fino a due mesi fa, dalla moglie di Abubakar Soumahoro e racconta la situazione di disagio dalla quale due minori sono fuggiti in Francia
«Mi avevano promesso tante cose. Un contratto, un lavoro, uno stipendio. Ho lavorato sei mesi. Niente contratto e niente stipendio. Ma la cosa che mi fa male è avere visto quei ragazzi trattati così: poco da mangiare, tante volte senza acqua, luce e riscaldamento. Il poket money, invece che ogni giorno, solo ogni tanto». Mohammed el Motarajji aggrotta la fronte, turbato. È poco più grande di quei minori venuti da Libia, Albania, Bangladesh accolti nella struttura gestita dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, Marie Therese Mukamitsindo: una casa famiglia dove lui, studente di ingegneria del genio civile, venuto dal Marocco per lavorare e poter continuare a pagarsi l’università, pensava di aver realizzato il suo sogno.
A prospettarglielo Aline, la figlia di Marie Therese: «All’inizio dovevo fare il traduttore, poi l’informatico. Ma quando chiedevo il contratto mi rispondevano sempre: “Domani”». Quel «domani» non è mai arrivato. «Alla fine abbiamo fatto un accordo con Marie Therese per avere di meno, 5 mila euro, ma subito. Abbiamo firmato. Ho aspettato. Ma non ho avuto niente», racconta al Corriere Mohammed . Mostra quel documento, fa spallucce e sorride lo stesso. È ripartito da zero. Con il coraggio dei 22 anni. Lo stesso che ha spinto due dei minori della struttura a scappare in Francia.
Altri, ospiti o dipendenti della struttura, non vogliono più parlare. Hanno «paura». Finora si sono rivolti solo, e non tutti, al sindacato Uil-tuc. Così le indagini della Procura di Latina si concentrano sul filone principale, quello delegato alla Guardia di Finanza, che vede indagata per malversazione Marie Therese Matsukindo, con l’ipotesi che i fondi ministeriali destinati all’accoglienza dei migranti siano stati distratti e destinati ad altro. Nessuna denuncia è stata presentata in Procura, alla Finanza e nemmeno ai carabinieri, invece, di episodi come quelli descritti da Mohammed che, se verificati, potrebbero far ravvisare i contorni di una sorta di sfruttamento di quei minori.
Resta per ora un mistero anche la frettolosa eliminazione di documenti: otto sacchi di plastica nera zeppi di fascicoli e carte relative agli immigrati accolti. Un passante, incuriosito dal via vai sotto la sede legale delle cooperative riconducibili a Marie Therese, li ha notati e segnalati ai carabinieri del comando provinciale di Latina che li hanno subito sequestrati. Anche per la coincidenza temporale tra lo scoppiare del caso e il repulisti di documenti.
Sul fatto che diversi dipendenti siano stati pagati poco e male invece le evidenze sembrano farsi più chiare. Ci sono testimonianze, carte e documenti ufficiali che attestano accordi violati, prestazioni non contrattualizzate, interventi del sindacato per ottenere il pagamento «sostitutivo» della retribuzione da parte della prefettura avvenuto in quattro casi di dipendenti non pagati dopo aver lavorato alla cooperativa gestita dalla suocera e, fino a due mesi fa, dalla moglie di Soumahoro.
Oltre alla Guardia di Finanza su questo sono all’opera, in questi giorni, gli ispettori del ministero del Lavoro. Stanno concludendo un’attività iniziata, dicono, da mesi sulla base di denunce di alcuni lavoratori.
Mentre al ministero delle Imprese e del Made in Italy si vagliano i risultati di quella revisione che è stata fatta da Confcooperative e caricata sul portale del Mise solo qualche giorno fa: doveva essere conclusa entro marzo. Al termine di questi accertamenti si valuterà se la situazione è sostenibile o se Karibu e Consorzio Aid sono passibili di commissariamento.
Grazia Longo per “la Stampa” il 25 novembre 2022.
Angela C. ha 44 anni, gli ultimi 8 dei quali impiegati a lavorare come operatrice sociale nella cooperativa Karibu dei familiari del deputato eletto nelle fila di Alleanza Verdi-Sinistra italiana, Aboubakar Soumahoro. La coop è gestita da sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, sua moglie Liliane Murekatete e suo cognato Michel Rukundo.
Da quanto tempo non percepisce più lo stipendio?
«Da 22 mesi, inoltre mi spetta anche il pagamento di tre tredicesime, quella del 2020 più le altre del 2021 e del 2022».
La Karibu si occupa dell'accoglienza migranti nella zona dell'agro pontino, in provincia di Latina. Sono tanti i dipendenti italiani come lei?
«Almeno l'85 per cento. Sono tutte professioni del terzo settore per aiutare, nel processo di integrazione, i migranti che spesso lavorano come braccianti».
E siete tutti senza stipendio da 22 mesi?
«Praticamente sì, chi qualche mese in più, chi meno. In 26 ci siamo rivolti al segretario del sindacato Uiltucs Gianfranco Cartisano per ottenere giustizia. Ora mi sono licenziata per giusta causa».
Quando ha iniziato a lavorare per la Karibu?
«Alla fine del 2014».
E le era già capitato di non ricevere regolarmente la retribuzione mensile?
«Sì, più di una volta mi era successo di non percepire lo stipendio anche per 4 o 5 mesi di fila, ma poi arrivava il bonifico con tutti gli arretrati».
E qual era la giustificazione per questi ritardi?
«Me la forniva direttamente Marie Therese Mukamitsindo. "Non sono arrivati i soldi dal ministero" mi diceva, o "dalla prefettura", in base a chi era affidato l'appalto. Poi quando arrivavano i pagamenti la suocera di Soumahoro mi saldava tutto. Proprio per questo all'inizio del 2021 non mi sono preoccupata più di tanto».
Pensava si trattasse del solito ritardo?
«Proprio così. Ma poi più trascorrevano i mesi e più mi allarmavo. Anche perché le scuse accampate non si reggevano in piedi».
Che cosa le diceva Marie Therese Mukamitsindo?
«Giustificazioni banali: "Non arrivano i soldi da Roma, appena arrivano ti pago", oppure "Ho problemi con il bonifico, dammi dieci giorni e sistemo tutto" o ancora "È cambiato il direttore della filiale della banca e ho qualche difficoltà". Insomma la tirava per le lunghe e alla fine ho capito che quei soldi non sarebbero mai arrivati, così ho chiesto aiuto al sindacato».
Quanti soldi le spettano?
«Intorno ai 20 mila euro».
Qual era l'atteggiamento di Marie Therese Mukamitsindo?
«Sempre molto gentile. È una donna di grande cortesia, capace di offrire sostegno e solidarietà. Per questo io all'inizio mi fidavo. C'era un'atmosfera bella, quasi familiare e mai avrei pensato di ritrovarmi a questo punto».
Ha mai incrociato Aboubakar Soumahoro alla coop?
«No mai. Anche con sua moglie ho avuto sporadici contatti. Io mi rapportavo sempre con Marie Therese o con l'altro figlio Michel Rukundo».
Oltre a non pagarle lo stipendio non le hanno neppure versato i contributi.
«Un ulteriore danno a cui peraltro si aggiunge anche la beffa».
Perché?
«Perché per il 2021 sono stata anche obbligata a pagare il Cud. Nonostante non avessi ricevuto un euro dalla Karibu, sono stata costretta a pagare le tasse nella dichiarazione dei redditi. Una follia. E non è l'unica amarezza che provo».
A che cosa allude?
«Non mi capacito del fatto che gli enti che appaltavano i lavori non hanno mai fatto un controllo per verificare se fosse tutto in regola. Abbiamo dovuto aspettare il sindacato per far venire a galla la verità».
La denuncia dei dirigenti di SI: "Fratoianni sapeva tutto su Soumahoro ma lo ha candidato". Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 25 Novembre 2022.
Nobile e Barbieri scrivono al segretario di Sinistra Italiana: "Era al corrente delle ombre attorno al sindacalista, ma lui mostrò indifferenza". Chiesta la convocazione urgente di un'assemblea che rischia di trasformarsi in un processo al leader
Un atto di accusa molto duro e l'obiettivo non è tanto o più Aboubakar Soumahoro ma i vertici di Sinistra Italiana che avallarono la sua candidatura. Perché - è la denuncia - sapevano tutto, la scorsa estate durante le riunioni di partito erano stati messi al corrente delle ombre attorno al sindacalista; ombre che avrebbero suggerito di non coinvolgerlo nell'avventura elettorale.
Fratoianni: "Ombre su Soumahoro, ma non mi sono pentito di averlo candidato". Giovanna Vitale su La Repubblica il 25 Novembre 2022.
Il segretario di Sinistra italiana: "Nessuno mi ha mai parlato di questioni di natura penale"
Non è pentito di averlo candidato in Parlamento: Aboubakar Soumahoro era l'icona perfetta per il messaggio che l'alleanza Verdi-Si intendeva trasmettere, quello di una sinistra ecologista attenta ai migranti, agli sfruttati, agli ultimi. Ma certo Nicola Fratoianni fatica a nascondere l'imbarazzo e il malumore provocati dall'inchiesta che ha coinvolto suocera e moglie del leader dei braccianti.
Le coop di Liliana Murekatete: dalla regione Lazio 500 mila euro alla moglie di Aboubakar Soumahoro. Clemente Pistilli su La Repubblica il 26 Novembre 2022.
Andato in crisi il business legato ai richiedenti asilo e agli altri migranti giunti in Italia dall'Africa con le carrette del mare, moglie e suocera del deputato si sono lanciate in quello legato agli ucraini in fuga dalla guerra
Un affare tira l'altro. Andato in crisi il business legato ai richiedenti asilo e agli altri migranti giunti in Italia dall'Africa con le carrette del mare, le cooperative della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro si sono lanciate in quello legato agli ucraini in fuga dalla guerra.
Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 25 novembre 2022.
Cinque milioni e mezzo di euro in 18 anni e quasi tutti senza gara, andando avanti di proroga in proroga. Una somma imponente quella che ha incassato la cooperativa Karibu dal Comune di Sezze, in provincia di Latina, dove ha sede la coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo. E non è diverso il quadro nella vicina Roccagorga, un centro di appena quattromila abitanti, dove in passato a lavorare con la cooperativa sono stati anche pubblici amministratori e dove ad affittare immobili in cui ospitare i migranti sono stati pure funzionari comunali.
Del resto la cooperativa è arrivata a gestire il 40% dei centri per migranti in terra pontina. Nel 2018 erano ben 51 su 129, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo. Coop su cui sta indagando la Procura della Repubblica di Latina, cercando di far luce su stipendi non pagati ai dipendenti, migranti costretti a tirare avanti con poco cibo, senza acqua e senza luce, ipotesi di fatture false, raggiri e flussi di denaro diretti all'estero e in parte rientrati in Italia. Accertamenti a cui si sono uniti quelli dell'Ispettorato del lavoro e del Ministero delle imprese e del made in Italy, che una volta esploso lo scandalo hanno portato l'onorevole Soumahoro ad autosospendersi dal gruppo Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera.
La Karibu a Sezze, dove i carabinieri di recente hanno anche sequestrato numerosi documenti della cooperativa inspiegabilmente buttati nei cassonetti prima della dismissione della sede, ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Da allora è poi andata avanti senza vincere altre gare, tra una proroga e l'altra. E attorno al 2015 ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Un sistema andato avanti fino al 2019 […]
E gli affidamenti senza gara? Tutti con semplici determine comunali. Con un sistema che non è stato bloccato neppure dalle numerose proteste compiute da migranti ospiti delle strutture Karibu, che come nel caso delle denunce oggetto attualmente di indagini lamentavano cibo scarso e di cattiva qualità, pochi vestiti, strutture precarie e la mancata erogazione dei pocket money, le somme destinate agli ospiti come previsto dalle apposite convenzioni. […]
Problemi analoghi a Roccagorga. Nel piccolo centro il progetto Sprar è stato avviato nel 2004 e affidato all'associazione setina "La Campanella". L'anno dopo è subentrata la Karibu ed è andata avanti, sempre con il sistema delle proroghe, fino a due anni fa. Per quindici anni. La convenzione veniva rinnovata automaticamente alla scadenza di ogni triennio, fino ad arrivare all’ultimo rinnovo per il triennio 2016-2019. Solo nel 2014 Roccagorga ha ottenuto oltre 300mila euro di fondi per i rifugiati e, solo tra il 2017 e il 2019, ben 535mila euro l'anno.
"Abbiamo detto noi basta a quel sistema. Avevamo raccolto numerose segnalazioni sui troppi problemi con le case in cui erano ospitati i migranti", specifica l'ex assessore al turismo e al decoro urbano Andrea Orsini, della Lega.
"La coop Karibù ha avuto un legame forte con il Pd e i Comuni amministrati: dagli affidamenti con fondi pubblici, spesso senza una gara, alle proroghe puntuali a ridosso delle scadenze, dagli immobili affittati dai dipendenti pubblici alla coop, fino all'assunzione di un amministratore democratico nella società della suocera di Soumahoro. Accadeva a Roccagorga, ma il modus operandi, difeso con le unghie e con i denti dalla sinistra, si è diffuso a macchia di leopardo a suon di affidamenti e proroghe anche a Sezze e Priverno", afferma Angelo Tripodi, capogruppo della Lega in consiglio regionale. […]
Estratto dell'articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 25 novembre 2022.
Chi è Aboubakar Soumahoro? La domanda comincia ad avere un fascino letterario: un idealista ingenuo e un po' naïf? Un volgare imbroglione? La sua è la storia di un accidentale e inconsapevole inciampo o è la truffa politica del decennio?
Il fascino sta ovviamente anche nella possibilità che una pista non escluda del tutto le altre, come sa chi ha amato L'impostore di Javier Cercas, libro che racconta la vicenda umana e politica di Enric Marco, militante antifranchista, capo del sindacato anarchico negli anni Settanta e presidente dell'Associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di sterminio, dove in realtà - a dispetto dei suoi racconti inventati - Marco non aveva trascorso un solo giorno della sua vita.
Abou, come lo chiamano gli amici, diventa un personaggio pubblico nel 2009, quando interviene da oratore a una manifestazione antirazzista e colpisce molti per la nettezza della denuncia dello sfruttamento e per il suo italiano forbito, lui arrivato a 19 anni dalla Costa d'avorio e laureato in sociologia alla Federico II di Napoli.
Si arruola nell'Usb, piccola ma agguerrita sigla del sindacalismo di base, occupandosi di braccianti e caporalato. I media si accorgono presto di lui. Propaganda Live , tempio della sinistra catodica, lo elegge punto di riferimento per la ricostruzione del campo di valori e programmi del disastrato progressismo nazionale. Una copertina dell'Espresso lo mette a fianco di Matteo Salvini, allora ministro dell'Interno, sopra il titolo Uomini e no. Intellettuali, artisti, influencer lo aiutano e finanziano.
Quindi Abou lascia l'Usb, già accompagnato dalle accuse dei suoi compagni su scarsa trasparenza e affarismo, e fonda la Lega dei Braccianti, mezzo sindacato e mezzo associazione per i diritti, che aveva sede proprio alla Karibu, la coop di suocera e moglie con sede a Latina, dove sotto i suoi occhi - inconsapevoli secondo la versione familiare, omertosi o complici secondo la logica - accadeva molto di ciò che Abou dichiara di combattere da sempre: stipendi non pagati o in nero, uso opaco di fondi pubblici, maltrattamenti e condizioni indegne di un'accoglienza umana e solidale agli immigrati.
«Sapevo solo degli stipendi non pagati, avrei dovuto viaggiare meno e visitare più spesso la struttura», è stata la versione difensiva data ieri a Piazzapulita . Il conduttore Corrado Formigli gli ha anche chiesto: «Ma lei come si manteneva?». La risposta: «Ho scritto un libro». La replica: «E con i soldi di un libro ha comprato una casa?». La risposta: «Insieme a mia moglie».
Come una slavina che aspettava solo un varco per precipitare a valle, sono spuntate altre denunce su episodi poco chiari della biografia politica di Abou. Improvvisamente pare tutti sapessero che qualcosa non tornava. Cominciano ad affastellarsi episodi oscuri, alcuni già pubblici e altri no: bonifici della coop di famiglia verso il Ruanda, dove il cognato di Abou ha aperto un resort, una sottoscrizione per portare cibo nei ghetti in pandemia - oltre 250 mila euro raccolti che non si capisce bene se e come sia stata spesa. Caritas e Cgil locale raccontano di come nel 2020 squadracce agli ordini di Abou abbiano impedito con la violenza l'avvio di un programma di lezioni di italiano agli immigrati di Borgo Mezzanone.
Un prete della Caritas, don Pupilla, spiega di aver avvisato Nicola Fratoianni che Abou non era quello che sembrava e che sarebbe stato un "autogol" candidarlo. Fratoianni, che alla fine Abou l'ha portato in Parlamento insieme al leader del Verdi Angelo Bonelli, spiega di essersi perso il messaggio di don Pupilla su Instagram e di aver chiarito al telefono con lui l'equivoco solo due giorni fa.
Dalla Flai, ramo braccianti della Cgil arriva un'accusa addirittura più grave: gli uomini della Lega braccianti a Borgo Mezzanone sono quelli che hanno in mano la gestione del caporalato locale. Accuse da provare, e che potrebbero anche rientrare nella furia dello scontro sindacale. Intanto i giornali della destra banchettano. La nemesi di Soumahoro è che ora la sua parabola si rovescia nella legittimazione del peggiore repertorio sovranista: il buonismo come copertura di attività lucrose, il progressismo come falsa coscienza. Bel danno per chi a queste tesi continua a dare il nome che meritano.
Fratoianni e Bonelli hanno incalzato Abou nel corso di un colloquio l'altroieri alla Camera. Gli hanno chiesto: sapevi o no dei guai combinati dalla coop di tua suocera e tua moglie? I due leader di partito sono usciti dal confronto frastornati dal dubbio di essere rimasti vittima di un abbaglio collettivo, del quale però sanno di portare una quota di responsabilità. Comunque hanno insistito: devi spiegare nel merito, c'è un problema politico che non riguarda gli eventuali aspetti penali della vicenda.
Questo è uno dei punti più spinosi, perché molti dei sostenitori a oltranza di Abou si fanno scudo della mancanza di avvisi di garanzia, parlano di "macchina del fango" e invocano il garantismo, senza rendersi conto di praticare una forma ancora più subdola e letale di giustizialismo, quella per la quale si può istruire una valutazione politica dei fatti solo se e quando ci sia una carta giudiziaria a consentirlo. In pratica, il dibattito pubblico trasformato in un enorme virtuale ufficio del gip.
Il famigerato video di autodifesa in cui Abou sovverte anche la logica delle emozioni, parte piangendo e chiude sbraitando e lanciando accuse a imprecisati centri di complotto contro di lui, cerca di portare la sua vicenda sul piano che conosce meglio, la guerra mediatica, che ora però rischia di sfuggirgli di mano, perché anche qui, come sulle minacce di querela, la distonia culturale ha spiazzato tanti: lo show a favore di telecamera faceva più D'Urso che Zoro. «Non lo rifarei mai più il video, è stato un momento di debolezza, me ne scuso», ha detto sempre a Piazzapulita .
Nel frattempo Abou è tornato in Puglia, si è fatto fotografare di spalle, ritto come un fuso davanti a un bracciante che raccoglie olive, con gli stessi stivali di gomma che indossava il giorno del debutto in Parlamento e che un suo ex socio della Lega, espulso, sostiene essere i suoi («Me li restituisca, a lui non servono, io ci devo lavorare»). Infine, ieri, si è autosospeso dal gruppo parlamentare Si-Verdi.
Con una mossa in cui è difficile distinguere tra sprezzo del pericolo e sprezzo del ridicolo, Abou ha detto di voler fondare un nuovo partito della sinistra, mettendosi in proprio come ha fin qui fatto ogni volta che gli è riuscito di salire uno scalino politico. (...)
Caso Soumahoro, il direttore della Caritas di San Severo: "Nel ghetto di Torretta Antonacci non ci sono bambini". Storia di Redazione Tgcom24 il 26 novembre 2022.
Continuano a emergere nuovi dettagli sull'inchiesta legata ad Aboubakar Soumahoro. Il sindacalista nelle ultime ore si è autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra dopo la notizia del coinvolgimento della suocera, Marie Therese Mukamitsindo, nell'inchiesta sulla gestione di due cooperative che si occupano di migranti in provincia di Latina. Il fascicolo della procura è stato aperto per l'ipotesi di malversazione. L'inchiesta è partita dopo le denunce da parte di alcuni lavoratori.
"Striscia la notizia" sta seguendo da vicino il caso e ha avuto modo di verificare l'operato di Soumahoro anche in altre realtà. L'inviato del tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio, si è occupato del ghetto di Torretta Antonacci a San Severo, in provincia di Foggia. Qui, Soumahoro avrebbe organizzato una raccolta fondi che avrebbe raggiunto la cifra di 16mila euro. Tuttavia, a Torretta Antonacci di bambini non ce ne sono, come confermato dal Direttore della Caritas don Andrea Pupilla che a "Striscia" ha dichiarato: "Frequento il ghetto da 15 anni - dice il sacerdote - per fortuna, lì, non ci sono bambini. Qualche volta è capitata qualche situazione sporadica di cui ci siamo occupati insieme ai servizi sociali".
In alcuni video postati sui social, Soumahoro lamentava di come le associazioni sfruttassero i migranti per fare business: "Non puoi accusare delle associazioni quando in casa tua sta succedendo tutto questo - prosegue don Andrea Pupilla - si tratta di un problema a livello morale".
Soumahoro: Usb, lavoratori in Lega Braccianti rimasti scottati. I lavoratori che inizialmente fuoriuscirono dall’Usb nel 2020 per aderire alla Lega Braccianti di Soumahoro «tornarono» nell’Unione sindacale di base perché «scottati da una gestione economica come quella che sta emergendo dalle indagini e dalle denunce degli stessi».
Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.
Ilavoratori che inizialmente fuoriuscirono dall’Usb nel 2020 per aderire alla Lega Braccianti di Soumahoro «tornarono» nell’Unione sindacale di base perché «scottati da una gestione economica come quella che sta emergendo dalle indagini e dalle denunce degli stessi». E' quanto evidenzia l’Usb in una nota in cui ripercorre i rapporti del sindacato con il deputato Aboubakar Soumahoro, al centro delle polemiche per le inchieste in cui sono coinvolte la moglie e la suocera in relazione alla gestione di alcune cooperative di migranti.
Secondo quanto precisa il sindacato, Soumahoro ha lavorato con l’Usb dal 2007 al 2020 ma nel 2018, dopo «le prime apparizioni sui media, ha mostrato una evidente insofferenza ad una relazione d’organizzazione, piegando le iniziative sindacali alla propria necessità di emergere piuttosto che alla concreta risoluzione dei problemi». «La costruzione della Lega Braccianti - prosegue l’Usb - non un sindacato ma un’associazione, avviene a marzo 2020 a nostra insaputa» e «produce una spaccatura tra i braccianti del Foggiano, tra quelli che scelsero di rimanere in Usb e quanti decisero inizialmente di seguire Abou».
Con l’iniziale esposizione mediatica di Soumahoro - prosegue l'Usb - «è iniziata la sua vita pubblica con presenze televisive, inviti a convegni, produzione di un libro, in cui l'Usb usciva definitivamente dal suo orizzonte, divenuto a quel punto del tutto individuale: la rottura definitiva è arrivata dopo un ennesimo tentativo dell’Esecutivo di costringerlo ad un confronto, risultato però del tutto infruttuoso».
«Abou - ricorda l’Usb - ha lavorato con noi dal 2007 e formalmente fino al 2020» e si occupava di diritti dei lavoratori, con azioni che inizialmente «erano frutto di scelte collettive e condivise».
Aggressioni verbali, spintoni e calci. Così venivano trattati i sindacalisti che osavano entrare nel Gran Ghetto di San Severo (Foggia) per assistere i migranti nel percorso di 'prima accoglienzà. Autori delle violenze alcuni braccianti ritenuti vicini all’Usb, sigla sindacale dalla quale è nata nel maggio 2020 la Lega Braccianti fondata dal neo deputato Aboubakar Soumahoro.
«In quel ghetto si entrava a fatica», racconta il segretario provinciale della Cgil Foggia, Daniele Iacovelli, parlando delle recenti vicende sullo sfruttamento dei braccianti in varie parti d’Italia e, soprattutto, dell’aggressione subita nell’estate del 2020 all’interno del «Gran Ghetto» (Torretta Antonacci) che si trova nelle campagne del Foggiano. «Riscontrammo - aggiunge - che non erano gradite intromissioni». «Ottenemmo dalla Regione Puglia - spiega - la gestione di uno dei container presenti nell’insediamento spontaneo. Lì avremmo dovuto offrire ai braccianti una sorta di 'prima accoglienzà indirizzandoli per l'ottenimento del permesso di soggiorno o di qualsiasi altro documento». Con la Cgil di Foggia era presente anche l'associazione BaoBab che avrebbe avviato percorsi di alfabetizzazione e di lingua italiana. «Ci aggredirono in maniera violenta. Ci minacciarono, ci dissero che dovevamo andare via e ci tolsero addirittura le chiavi del container». Per questa aggressione Iacovelli presentò una denuncia in Procura a carico di tre braccianti dell’Usb. «Nel luglio 2020, quando avviammo le lezioni di italiano, per un lungo periodo venimmo scortati dalla polizia - aggiunge Domenico La Marca, presidente di Baobab -. Erano una decina i migranti facinorosi che ci impedivano di svolgere le lezioni».
«E' almeno dal 2020 che il gruppo di Aboubakar Soumahoro ha 'monopolizzato' come sindacato» il Gran Ghetto di San Severo e "ancora oggi che quelle stesse persone hanno prese lo distanze dalle iniziative di Aboubakar per dissidi legati a un crowfounding di circa 250mila euro, nel ghetto resta una situazione di monopolio e gli altri sindacalisti continuano a non essere i benvenuti», sottolinea ancora Iacovelli.
L’altro episodio di violenza è avvenuto ai danni di Mohammed Elmajdi, presidente dell’associazione Anolf della Cisl Foggia. "Con la nostra associazione - afferma - abbiamo vinto un bando della Regione Puglia per la gestione di un container per accoglienza, vigilanza e assistenza pratiche per permesso di soggiorno a Torretta Antonacci». «Il 5 agosto scorso - ripercorre - sono stato aggredito verbalmente da una decina di migranti riconducibili all’Usb; sono ritornato l’11 agosto e, in questo caso, gli stessi braccianti mi hanno circondato ed aggredito fisicamente. Ho riportato ferite giudicate guaribili in sette giorni». Anche Elmajdi ha sporto denuncia.
Sulle aggressioni interviene anche Antonio Di Gemma, segretario provinciale Usb Foggia, che esclude che vi siano «lotte interne tra l’Usb e la Lega Braccianti». «Gli episodi di violenza - conclude - sono legati unicamente alla gestione del Gran Ghetto. I braccianti dell’Usb hanno istituito una loro associazione e chiedono alla Regione Puglia di indire un bando per la gestione dell’insediamento al quale vogliono partecipare».
Il deputato fa un passo indietro dopo le polemiche sugli appalti per i migranti. Maurizio Zoppi su L’Identità il 25 Novembre 2022
E’ entrato dalla porta ed è uscito dalla finestra. Aboubakar Soumahoro si è autosospeso dal partito Alleanza Verdi e Sinistra. Il deputato, arrivato in Parlamento come paladino dei diritti degli ultimi, dei migranti sfruttati dal caporalato, è stato costretto a fare un passo indietro.
Dopo il secondo incontro con il leader dei Verdi Angelo Bonelli e il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, l’attivista ha deciso di “congelare” il suo incarico politico, sino a quando “non si chiarirà tutto”. Il primo incontro tra Soumahoro e i suoi compagni di partito si è svolto a Montecitorio, nelle stanze del capogruppo rossoverde. É durato oltre due ore, ma è stato interrotto per proseguire ieri pomeriggio. Bocche cucite all’uscita. Ma il rinvio ha fatto capire che, nonostante il clima che viene definito tranquillo, non tutti i nodi erano stati sciolti. E che in oltre due ore, le spiegazioni del parlamentare, non erano bastate ai due leader. Tantissimi i temi sul tavolo: a partire dall’iscrizione della suocera nel registro degli indagati della procura di Latina. Ma anche le attività economiche del cognato Richard – anche lui dipendente delle coop – in Ruanda.
Stando a questa ricostruzione, sembrerebbe proprio che la verità politica, probabilmente, è un’altra. Al suo gruppo parlamentare non è mai piaciuta la tendenza che ha avuto in questi giorni il deputato con gli stivali di non rispondere alle domande rispetto alle accuse che gli venivano rivolte. Ma anche e soprattutto le testimonianze che da giorni fioccano sulla sua attività con i migranti. Parliamo dei compagni della Lega Braccianti o il capo della Caritas locale, che addirittura invitò Fratoianni a non candidare Soumahoro. Proprio Fratoianni, in questi giorni è stato lapidario, dichiarando che la faccenda stava investendo il suo partito. Evidente imbarazzo da parte di Bonelli, che proprio ieri mattina aveva affermato ai giornali: “Non è che sono in imbarazzo. Sono turbato dalle notizie, e ringrazio l’autorità giudiziaria che evidenzia fatti che però vanno verificati. Dobbiamo assumere la migliore posizione possibile, prima di tutto per lui stesso”. Il sindacalista del Coordinamento agricolo, da subito si è dichiarato del tutto estraneo al caso che coinvolge la sua famiglia. Il suo nome non compare nelle indagini. Domenica 19 novembre ha diffuso in video nel quale, in lacrime, chiedeva: “Mi dite cosa vi ho fatto? Da una vita sto lottando per i diritti delle persone. Vent’anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto. Ho sempre lottato”.
Ma alla fine della storia, è arrivata una nota stampa dal sapore di sconfitta: “Abbiamo incontrato Aboubakar Soumahoro per discutere ed approfondire le vicende che da giorni sono al centro della cronaca. Lo abbiamo trovato sereno e determinato – si legge nella nota di Alleanza Verdi e Sinistra -. Ci ha esposto il suo punto di vista e ha annunciato l’intenzione di rispondere punto su punto e nel merito alle contestazioni giornalistiche ribadendo la sua assoluta estraneità alle vicende. Naturalmente sarà lui a farlo, nelle forme e nei tempi che riterrà più opportuni. Perché questo avvenga con la massima libertà, Aboubakar Soumahoro ci ha comunicato la decisione di autosospendersi dal gruppo parlamentare”. E ancora: “Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni e del valore dell’impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi che abbiamo sempre condiviso con Aboubakar. Siamo fiduciosi, considerato quanto riferitoci, che la vicenda possa essere chiarita in tempi rapidi e senza alcuna ombra”.
Lady Accoglienza e quel battesimo fra gli applausi al Meeting di Rimini. Rita Cavallaro su L’Identità il 25 Novembre 2022
Un pozzo senza fondo. Di accuse, di contributi pubblici, di ipocrisia. Si è scoperchiato il vaso di Pandora sugli affari di casa Soumahoro, finita nel mirino degli inquirenti che hanno indagato Maria Therese Mukamitsindo, suocera del deputato, per malversazioni di erogazioni pubbliche sull’accoglienza dei centri per migranti gestiti dalle coop fondate dall’imprenditrice, il Consorzio Aid e la Karibu, e nella cui amministrazione, fino allo scorso 17 ottobre, era coinvolta anche la moglie di Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete. Da mesi, sulle due cooperative, erano in corso accertamenti dell’Ispettorato del Lavoro, che sta facendo luce sulle denunce di una trentina tra dipendenti e migranti, che attraverso il sindacato hanno lamentato di non essere stati pagati, per almeno 18 mensilità, di non essere stati assistiti, lasciati addirittura senza cibo e acqua, e di essere stati maltrattati. Eppure, come rivelato in esclusiva su L’identità, il business delle coop di Mukamitsindo era enorme, se si calcola che solo Karibu, negli ultimi anni, ha incassato quasi 65 milioni di euro per gare vinte al Ministero dell’Interno, alla Regione Lazio, alle Pari Opportunità. Un fiume di soldi passato nelle casse di quella che, inizialmente, era una piccola realtà: Karibu aveva visto la luce all’inizio del nuovo millennio e nel 2001 aveva partecipato a un bando del Viminale per donne sole e bambini richiedenti asilo. La svolta, che trasformerà Maria Therese nella grande signora dell’accoglienza da milioni di euro l’anno, arriva nel 2010, quando la fondatrice di Karibu partecipa al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dedicato all’integrazione al femminile. “L’approccio di Karibu non è nient’altro che il perfezionamento della mia esperienza di donna in fuga. Quando sono arrivata in Italia, non c’era nessuno ad accogliermi. Ho vissuto la difficoltà di una mamma che non ha niente da dare ai suoi bambini, obbligata ad andare alla Caritas a chiedere il cibo, a chiedere un vestito, a chiedere”, disse nel suo intervento dal palco. Parole emotivamente forti, che oggi fanno male a quelle donne che, come certificato dai video girati nei centri di accoglienza della famiglia di Soumahoro, chiedevano disperatamente da mangiare per i loro figli e dicevano di dover andare appunto alla Caritas perché lì non si vedevano né soldi né alimenti. E che indignerebbero perfino una famiglia ucraina, fuggita dalla guerra e ospitata a Roccasecca dalla Karibu, nell’ambito del bando sull’inclusione nel mondo del lavoro che tra il 2021 e il giugno scorso è valso alle coop un contributo di quasi due milioni. “Queste persone mi hanno contattata e hanno lamentato che non ricevevano dalla coop neppure i pocket money”, ha detto a L’Identità il sindaco Barbara Petroni, riferendosi alla diaria per i migranti. “Sono dovuta intervenire io e, con molto ritardo, gli sono stati consegnati. Alla fine questa famiglia ha deciso di andarsene”, ha precisato. E tornano le parole di Maria Therese al Meeting di Rimini: “La prima condizione per l’accoglienza, per l’integrazione, è: rispetto, fiducia e libertà. Se mancano queste tre cose, manca tutto, è inutile che offriamo su un piatto d’argento le cose che servono”. Due mesi dopo, su un piatto d’argento arrivò la fortuna di Karibu. Con la determina 308 del settore Servizi sociali del Comune di Sezze, il sindaco di centrosinistra Andrea Campoli affidò la gestione del Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati alla coop. Mukamitsindo prese prestigio, fu elogiata dall’allora ministro Mara Carfagna e iniziò la sua ascesa, bipartisan, dall’agro pontino. Finché le prime ombre si addensarono con la protesta dei migranti del Cas di Borgo Sabotino, il luogo in cui la Ericher 29 di Salvatore Buzzi mandava i rifugiati a fare gli schiavi nei campi dei caporali. Molto rumore, ma nessun intervento. Almeno fino a pochi giorni fa, quando i buoi sono scappati dalla stalla.
“Così ci cacciarono dal campo rifugiati quei braccianti usarono la violenza”. Rita Cavallaro su L’Identità il 25 Novembre 2022
È un fuoco incrociato quello contro i Soumahoro. Alle accuse sulle coop della suocera Maria Therese Mukamitsindo, e alle denunce degli ex soci del sindacato fondato da Aboubakar, si aggiunge il racconto del clima di terrore seminato da alcuni esponenti della Lega dei Braccianti nel ghetto per gli immigrati che si spezzano la schiena nei campi di pomodori del Foggiano. “Abbiamo sempre cercato di avere un dialogo con Lega Bracciant per l’attività sindacale su Torretta Antonaci”, ha detto a L’Identità Daniele Iacovelli, della Flai Cgil Foggia. “La Regione Puglia, dopo l’ultimo grande incendio, ha istituito un’area controllata attraverso dei container per 400 persone e uno di questi fu assegnato a tutte le associazioni. Ma dopo la consegna delle chiavi”, racconta, “fummo estromessi dall’uso di quella postazione, in malo molo, subendo a maggio 2021 quasi un’aggressione fisica, volarono tavoli. Abbiamo sporto denuncia alla Questura”, ha aggiunto, “ci aggredirono esponenti che facevano parte di Lega dei Braccianti, che ci dissero chiaro che lì doveva stare solo Lega dei Braccianti”. E precisa: “Soumahoro non era presente. Abbiamo provato ad avere un’interlocuzione istituzionale, ma non l’abbiamo mai incontrato né abbiamo mai ricevuto una telefonata da lui”. Sembra che ci andasse poco nel ghetto Aboubakar, giusto per farsi qualche selfie e video con i disperati per i cui diritti dice di battersi. Gli ormai ex soci del parlamentare di sinistra, Soumahoro Sambare Soumaila e Alfa Berry, assestano inoltre un pesante j’accuse con una lettera inviata alla polizia e pubblicata da Repubblica, in cui denunciano la sparizione di circa 200mila euro da una racconta fondi. Denaro da usare per aiutare gli stranieri, negli interventi tra Borgo Mezzanone, Torretta Antonacci, Riace, Mondragone, Venosa e Rosarno. Gli ex soci, con fatture alla mano, parlano di spese, tra mascherine e cibo, di 55mila euro, più i costi del trasporto e ipotizzano che il deputato abbia impiegato i restanti 200mila per viaggi e spese di missione.
Le colpe politiche di Soumahoro, di chi lo ha candidato e fatto diventare il paladino dei diritti. Federico Novella su Panorama il 25 Novembre 2022
Al netto dell'inchiesta la vicenda del deputato dei Verdi, presentatosi come paladino dei diritti, riporta ancora alla luce uno dei mali della nostra politica: la scelta delle persone Al di là della vicenda giudiziaria sulla cooperativa della moglie e della suocera, il caso Soumahoro è tutto politico. E riguarda, ancora una volta, la qualità della classe dirigente di questo paese, e dei partiti che la selezionano. E mi riferisco alla tendenza rovinosa di candidare figurine mediatiche pratiche di social, molto abili nel mettersi in posa davanti ai fotografi ma niente più, e a farsi ritrarre col pugno alzato e gli stivali sporchi di fango davanti all’ingresso di Montecitorio. Personaggi buoni per i commentatori da salotto, che amano cadere in ginocchio di fronte all’ennesima icona che piace alla gente che piace, dalle Schlein alle Ocasio Cortez. Spesso, come nel caso in questione, sotto la confezione c’è poco e niente: sono profili fragili, che di solito naufragano al primo colpo di vento. Sotto l’etichetta del difensore dei deboli, Soumahoro si è rivelato non già disonesto (non lo sappiamo, e non ci sbilanciamo), ma incredibilmente impreparato, di fronte a questioni di cui fino a ieri si professava esperto. E l’impreparazione estrema, fino alla goffaggine, è un difetto a prescindere dalle carte giudiziarie.
La sua difesa televisiva nello studio di Corrado Formigli è stata imbarazzante, per un personaggio che doveva rappresentare il futuro di una certa sinistra descamisada. Non si è accorto degli stipendi non pagati? “Avrei dovuto viaggiare di meno” , è la risposta. “Ma lei come si manteneva?” chiede il conduttore, visto che la famiglia ha comprato un villino con un mutuo da 270 mila euro. “Ho scritto un libro” , è la difesa dell’interessato. Fino al culmine del paradosso: il difensore dei braccianti sfruttati che professa il “diritto all’eleganza” , in riferimento alla moglie che posta foto con borse Louis Vuitton. Il diritto all’eleganza non è una gaffe: in bocca alla sinistra rivoluzionaria, diventa una nemesi tragicomica. Neanche Chiara Ferragni sarebbe arrivata a tanto. Vedremo gli sviluppi. Certo è che il colpevole politico non è solo Soumahoro: ma chi si è intestardito a candidarlo. Con buona pace del Pd modenesi, che pure aveva sollevato perplessità su alcune condotte del personaggio poco chiare. Solo oggi, dopo diversi colloqui riservati, Fratoianni e Bonelli (Sinistra Italiana e Verdi), si sono resi conto che forse non hanno davanti un personaggio all’altezza. E infine, forse a suscitare più rabbia è il destino delle vittime di questa storia: i braccianti sfruttati. Immigrati e non. Questa storia ferisce soprattutto i loro diritti, getta fango su battaglie che vanno comunque combattute. Loro hanno già troppi problemi, per meritarsi Fratoianni e Soumahoro come rappresentanti.
Tutte le accuse contro le cooperative dei parenti di Aboubakar Soumahoro. Linda Di Benedetto su Panorama il 25 Novembre 2022.
Stipendi non pagati, operai che lavorano senza contratto, condizioni sanitarie estreme nelle cooperative. Tutti i guai emersi dall'inchiesta contro la moglie e la suocera del parlamentare simbolo della legalità e del rispetto dei diritti Aboubakar Soumahoro ha provato a difendersi in maniera poco convincente in televisione dalle accuse che oramai in maniera sempre più pesante hanno coinvolto le cooperative legate a sua moglie e sua suocera finite al centro di un'inchiesta da cui sono emerse accuse pesantissime. «Dove sono finiti i soldi delle retribuzioni pagate dagli enti e mai arrivati alle tante famiglie truffate da Karibu e Aid?». Una domanda quella del Sindacato Uiltucs che da oltre un anno non ha trovato risposta ma che getta delle ombre sul sistema di accoglienza dei migranti gestito dalle Coop della moglie e della suocera del deputato.
Le indagini Nei confronti Liliane Murekatete e Marie Terese Mukamitsindo moglie e suocera di Soumahoro la Guardia di Finanza del nucleo economico di Latina procede per il reato di truffa per fatturazioni false e stipendi non corrisposti ai dipendenti. In più i Carabinieri hanno aperto un altro fascicolo per il reato ipotizzato di distruzione e occultamento di materiale contabile trovato in otto sacchi della spazzatura. A queste accuse si è aggiunta la segnalazione di alcuni cittadini extracomunitari minorenni al sindacato che hanno denunciato condizioni di vita precarie, maltrattamenti e collocazioni in case per minori senza acqua e luce. Inoltre la procura di Latina ha indagato la Presidente del Cda di Karibu, anche per la gestione del Consorzio Aid, di cui presidente un’altra figlia per malversazione. Si indaga infatti sui trasferimenti di denaro effettuati in Ruanda a favore di un altro figlio della Presidente Mukamitsindo, Richard Mutangana che ha aperto un ristorante con piscina a Kigali e sui compensi dei quattro soci di Karibu che avrebbero incassato solo nel 2021 la somma di 392.891 euro. Contemporaneamente prosegue anche il lavoro dell’Ispettorato del Lavoro e del Ministero dello Sviluppo economico da cui vengono erogati i fondi verso la cooperativa. I progetti delle Coop Karibu che rischia di essere commissariata risulta affidataria anche di progetti di integrazione dei rifugiati ucraini avviati nella sede di viale Corbusier a Latina, dove si trovano la sede di Karibu ed del consorzio Aid ma anche del sindacato Lega dei braccianti a cui fa capo Soumahoro. I progetti sono due I.C.A.R.U.S “Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa” per il quale sono stati stanziati 259mila euro. Mentre l’altro progetto ammesso del Consorzio Aid di cui è presidente Aline Mutesi cognata di Soumahoro si chiama B.U.S.S.O.L.A “Bisogni degli ucraini per il sostegno sociolavorativo” con un finanziamento previsto di circa 300mila euro. A Karibu è stato affidato anche il progetto P.E.R.L.A della Regione Lazio per la somma di 80mila euro, Per.Se.O del Viminale per la cifra di 204910,75 di euro e l’8 per mille. Le accuse Si parte dalle denunce sui mancati pagamenti degli stipendi. Sarebbero 22 i dipendenti che hanno raccontato di non ricevere soldi da 18 mesi, alcuni hanno anche raccontato di non vedere la paga da due anni. Almeno 4 persone hanno poi raccontato di aver lavorato in nero, cioè senza il necessario contratto di lavoro. Uno di questi ha anche raccontato delle visite di Soumahoro nella cooperativa: «Sapevano tutti...» ha raccontato Youssef Kadmiri. Altri hanno raccontato che per ricevere la paga prevista avrebbero dovuto presentare delle non precisate “fatture" da soggetti esterni alla Cooperativa. Le condizioni di vita ed igienico sanitarie nelle strutture erano a dir poco pessime. Nelle strutture sarebbero mancate acqua, elettricità, vestiti e cibo. Alcuni minori sarebbero stati maltrattati. Ci sono poi le stranezze sul bilancio con spese anomale, soldi incassati ma non utilizzati per centinaia di migliaia di euro. I progetti delle Coop Karibu che rischia di essere commissariata risulta affidataria anche di progetti di integrazione dei rifugiati ucraini avviati nella sede di viale Corbusier a Latina, dove si trovano la sede di Karibu ed del consorzio Aid ma anche del sindacato Lega dei braccianti a cui fa capo Soumahoro. I progetti sono due I.C.A.R.U.S “Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa” per il quale sono stati stanziati 259mila euro. Mentre l’altro progetto ammesso del Consorzio Aid di cui è presidente Aline Mutesi cognata di Soumahoro si chiama B.U.S.S.O.L.A “Bisogni degli ucraini per il sostegno sociolavorativo” con un finanziamento previsto di circa 300mila euro. A Karibu è stato affidato anche il progetto P.E.R.L.A della Regione Lazio per la somma di 80mila euro, Per.Se.O del Viminale per la cifra di 204910,75 di euro e l’8 per mille.Le Coop avevano la disponibilità economica per pagare i dipendenti? «Le risorse economiche dei progetti degli enti sono arrivate alle cooperative, ai rappresentanti e ai soci delle coop. Loro hanno percepito i loro compensi, mentre i lavoratori sono senza salario nonostante siano arrivati milioni di euro. Una vera offesa a queste maestranze sfruttate ed in forte disagio perché in questa vicenda, la verità è che non c’è uno stato di crisi economica delle Coop dove nel caso Karibu i soldi sono stati correttamente corrisposti dagli enti ma purtroppo non sono mai arrivati ai lavoratori per questo siamo veramente indignati come Uiltucs Latina». Cosa avete fatto per aiutare i lavoratori? «Abbiamo fatto richiesta di un tavolo Prefettizio. È necessario che siano convocate tutte le parti interessate per rispondere al disagio e alle difficoltà in cui si trovano le tante famiglie truffate dai rappresentati della Karibu e Aid. I lavoratori vogliono subito chiarezza, confidiamo nel percorso giudiziario, perché a queste persone si deve restituire rispetto e dignità con il pagamento immediato dei salari, è questo quello che chiederemo al Prefetto Maurizio Falco. Ripeto urge di convocare tutte le parti, tutti gli enti erogatori dei progetti per il pagamento diretto ai lavoratori senza passare per le Cooperative che hanno già causato ingenti danni ai lavoratori dove accoglienza e integrazione per noi in questo caso sono stati e rimangono solo un business per le Coop Karibu e Aid» I centri di accoglienza per i richiedenti asilo sono stati aperti dalla suocera del deputato Soumahoro Marie Terese Mukamitsindo, sui Monti Lepini, tra Sezze, Roccagorga e Maenza per poi allargarsi a Latina. Una storia quella delle Coop della famiglia di Soumahoro caratterizzata nel corso degli anni come riportano le cronache locali da numerose proteste dei migranti dove il grado di accoglienza non sembrerebbe essere stato dei migliori. Un fatto confermato gia nel 2019 dall’ex senatrice Elena Fattori di Sinistra Italiana che scrisse dopo una ispezione in un centro gestito da Karibu in provincia di Latina una relazione molto dura «Ho visitato molti centri di accoglienza e solo pochi erano decenti. Questo era fatiscente e mal tenuto. L’accoglienza deve essere pubblica, non può essere affidata ai privati senza adeguati controlli. Le mie osservazioni sull’ispezione, poi le consegnai al sottosegretario agli interni nel 2019. Provai tanta amarezza per come vengono trattate le persone e su come si speculi politicamente sull’”accoglienza “con la costruzione di “eroi” senza invece invocare soluzioni strutturali»- commenta la Fattori
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 25 novembre 2022.
Nella vicenda del deputato ivoriano Aboubakar Soumahoro bisogna aggiungere una brutta storia di presunte firme false apposte alle domande di disoccupazione inviate all'Inps dai braccianti agricoli della provincia di Foggia. Una faccenda messa nero su bianco in numerosi moduli di «revoca delega e disconoscimento di firma» spedite all'istituto previdenziale dai lavoratori.
Siamo in Puglia, e precisamente nelle campagne tra Foggia e San Severo. Una vasta area occupata circa 20 anni fa dai primi «braccianti-coloni» conosciuta come il «Grande Ghetto» di Rignano garganico. Un luogo infame senza strade e servizi igienici che è arrivato a ospitare fino a 4.000 persone Chi vi abita, la grande maggioranza, di mestiere fa il bracciante. Immigrati divenuti famosi per lo sfruttamento, il caporalato. Pestaggi, risse e anche morti.
Il sindacato Usb diventa la voce di questi emarginati e cerca di tutelarli. Nel 2019 arriva lui, Soumahoro. Ha studiato ed è sveglio. Quando intuisce di avere un seguito importante lascia l'Usb e fonda la Lega Braccianti, un sindacato tutto suo. Fa incetta di iscritti, sottraendoli all'Usb, alla Cgil, alla Cisl.
Durante il periodo della pandemia la fa da padrone con i suoi presidi a Torretta Antonacci e a Borgo Mezzanone. Nelle tre baraccopoli sarebbero state raccolte centinaia (si parla di circa 600-700) di richieste per le misure di sostegno alle quali potevano accedere in quel momento gli immigrati impiegati in agricoltura: in primis la disoccupazione.
Il cortocircuito, con al centro Soumahoro e il suo ex braccio destro Sambare Soumaila, si è innescato quando all'Inps, che avrebbe dovuto erogare i sussidi, sono arrivate due domande fotocopia per ciascun bracciante.
A quel punto l'ente pensionistico ha convocato i richiedenti ed è scoppiato il bubbone: i lavoratori hanno dovuto compilare un modulo per disconoscere la loro firma su una delle due richieste. Il 17 gennaio scorso Soumahoro si era filmato davanti a un casolare e aveva annunciato: «Con gli operatori del patronato siamo a Torretta Antonacci per pratiche di disoccupazione agricola, controllo busta paga, permessi di soggiorno, eccetera. La Lega braccianti, espressione della volontà popolare senza delega, lotta e continua nel percorso di migliorare le condizioni di vita dei braccianti».
Dietro di lui si vedevano tre persone. Probabilmente il parlamentare era lì con i funzionari del patronato. Che, si scopre adesso, è l'Inpal di Bari. Da qui, infatti, partono le pratiche inviate all'Inps. Solo due mesi dopo, però, a marzo, l'istituto di via Ciro il grande scopre le domande fotocopia. E a quel punto i braccianti inviano una comunicazione con richiesta di revoca della precedente domanda e disconoscimento della firma apposta in calce.
Un documento in cui si legge: «Con la presente si dichiara di non aver mai conferito delega o rinnovato delega ad alcun patronato per l'inoltro della domanda di disoccupazione agricola».
Francesca Di Credico, rappresentante della Cisl di Foggia, ragiona: «Probabilmente hanno inoltrato le richieste senza il mandato di queste stesse persone. È capitato a noi ma anche alla Cgil e all'Usb. Ci trovavamo le domande duplicate dall'Inpal di Bari».
E se per i sindacati, al momento della liquidazione del primo bonus, il bracciante autorizza una trattenuta come quota di iscrizione (e a quel punto può accedere a tutti i servizi offerti per la tutela), per i patronati funziona in modo diverso: il lavoratore deve pagare per la preparazione della pratica.
L'aspetto da chiarire è se i braccianti abbiano anticipato soldi per le istanze e se le domande siano state inviate senza mandati. «Io», continua la Di Credico, «ho trovato appesa alla porta del container assegnato alla Lega Braccianti nel ghetto di Rignano una lista di nominativi con i codici fiscali a fianco. Una quarantina erano nel database del nostro sindacato. La stessa cosa è accaduta alla Cgil e anche all'Usb».
La questione, oltre che all'Inps, sarebbe stata segnalata per conoscenza anche alla Procura di Foggia e, per almeno un episodio, anche a quella di Catania. Il legale dell'Inpal, l'avvocato Vito Marino Verzillo, contattato dal nostro giornale, spiega: «Ci fu un accordo tra la Lega braccianti e l'Inpal nazionale, perché dicevano che nessun patronato voleva andare lì a Borgo Mezzanone e a Torretta Antonacci.
Noi ci siamo andati diverse volte, in un paio di occasioni anche io personalmente insieme con il direttore e con un collaboratore. I braccianti firmavano il mandato per essere assistiti e le richieste venivano inviate». Per l'Inpal, insomma, sarebbe tutto in regola. A volte, spiega il legale, trovavano ad accoglierli Soumahoro, «che veniva da Roma». Spesso «c'era anche Sambare, un campano, che arrivava da Napoli». Le pratiche, insomma, erano sollecitate dalla Lega Braccianti.
«Quando dal nazionale ci hanno chiesto di andare lì», conferma Verzillo, «trovavamo loro». E le pratiche doppie? «È una prassi tra sindacati e patronati, ma anche tra patronati e patronati» assicura il professionista. E conclude: «Il lavoratore fa la domanda, poi si rivolge a un'altra sigla perché gli viene più comodo - tenga conto, per esempio, che noi siamo a Bari e i braccianti lavorano a Foggia- e revoca la delega». E le firme disconosciute?
«Noi», afferma l'avvocato dell'Inpal, «abbiamo la documentazione con le firme prese in nostra presenza. Siamo andati lì fisicamente. E per alcune pratiche che sono tornate indietro abbiamo minacciato di rivolgerci all'autorità giudiziaria, perché se l'assistito ha firmato davanti ai funzionari dell'Inpal, mi devono spiegare quando è stata firmata la richiesta davanti all'altro sindacato».
Per capirne di più abbiamo chiesto delucidazioni a Soumaila, il vecchio compagno di lotta di Soumahoro: «Quando stavo con Aboubakar ero io a ricevere le domande di disoccupazione. E quelle erano firme vere. Ci sono anche i video della gente che fa la coda. Io raccoglievo le pratiche di tutti i braccianti e l'Inpal veniva a prenderle per inoltrare le domande a Bari». Facciamo presente che i sindacati sostengono che molte firme sono state disconosciute. La replica è immediata: «Quando c'ero io ognuno ha firmato la sua disoccupazione e non c'è mai stato problema con nessuno, ma». Ma? «Loro avendo dati e documenti dei braccianti che avevano chiesto la disoccupazione con loro, l'anno dopo hanno rifatto la domanda automaticamente senza chiedere il consenso.
Ma in quel momento io non stavo già più con la Lega Braccianti ».
Dunque le firme false sarebbero quelle con la richiesta di rinnovo della disoccupazione. Soumaila ci spiega anche che il suo sindacato ha provato a trovare una soluzione al problema: «All'Inps hanno bloccate le domande doppie, ma grazie al nostro servizio con Usb le hanno poi sbloccate. Abbiamo chiesto all'ente previdenziale da chi fosse stato presentato il doppione e ci hanno detto che erano tutte dell'Inpal. Noi non c'entriamo nulla.
Noi abbiamo fatto 700 domande e quelli che hanno avuto la duplicazione sono molti di più di coloro che non l'hanno avuta. Si tratta di centinaia di braccianti». Soumaila sembra sicuro di quello che dice: «Io qui sono conosciutissimo e quando mi siedo tutti vengono a fare le domande da me. Io sono stato con Lega braccianti nel 2019-2020 e nel 2021 io e altri siamo andati via. La Lega Braccianti l'abbiamo creata come un'associazione per gestire Torretta Antonacci. Aboubakar l'ha trasformata in un sindacato senza informare nessuno. Lui ci ha tradito e noi lo abbiamo abbandonato».
E il clima si è esacerbato. Come viene raccontato in un paio di comunicati firmati dagli abitanti e delegati Usb di Torretta Antonacci. In uno si chiede a Soumahoro di evitare le «intimidazioni» e in un secondo, datato 22 dicembre 2021, si legge che «un gruppo di aderenti alla Lega Braccianti Ets (Ente del Terzo Settore) ha divelto l'insegna della strada, dedicata a due braccianti arsi vivi nell'incendio della baraccopoli nel marzo 2017, per poi minacciare alcuni abitanti del luogo, rei di mantenere esposto sulla loro baracca una bandiera Usb». Una grave accusa per chi si fa vanto di difendere gli ultimi e gli invisibili. (ha collaborato Irene Cosul Cuffaro)
"Qui vivono i Soumahoro". Ecco la villa da 450mila euro. Il deputato Aboubakar Soumahoro, autosospesosi dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana, è finito nel mirino dei media anche la villetta comprata insieme a sua moglie, nota come "Lady Gucci". Francesco Curridori su Il Giornale il 26 Novembre 2022.
Casal Palocco, periferia Sud di Roma, è improvvisamente diventato il centro di un terremoto politico. Nelle vie principali di questo quartiere residenziale della Capitale in pochi sanno chi sia il deputato Aboubakar Soumahoro. O fanno finta di non saperlo per sfuggire alle domande dei cronisti che in questi giorni hanno assediato casa sua.
“Ho scoperto oggi, sfogliando i giornali, che questo deputato abita in zona”, dice un edicolante della via principale del quartiere che si trova non molto distante dal più noto litorale di Ostia. Trovare la “villetta della discordia” sembra una missione impossibile, ma l’incontro fortuito con un agente immobiliare del posto è risolutivo. “Ho conosciuto un anno fa la moglie del deputato, una bellissima donna, garbata e molto elegante. Ricordo che, da buona cattolica, non mancava mai di esprimere la sua devozione a Dio”, confida uno degli agenti immobiliare a cui la donna si era rivolta per l’acquisto della casa. Liliane Murekatete è proprietaria insieme al marito di una villetta da 450mila euro di cui 250mila saranno versati grazie a un mutuo trentennale.
“Una casa, di due o tre piani, in quella zona di Casal Palocco si aggira intorno a quel prezzo”, conferma l’esperto del settore. Certo, 450mila euro non è una cifra di poco conto per un umile sindacalista che ha speso la sua vita in favore degli ultimi e per una disoccupata che è stata ribattezzata “Lady Gucci” per la sua passione per gli abiti e gli accessori firmati. L’abitazione è una villetta a schiera che si sviluppa su due piani in una strada tranquilla dove i vicini sembrano essere stufi di vedere giornalisti aggirarsi nel quartiere. “Vedo una persona di colore, ma non so chi sia”, dice frettolosamente un anziano. “Scusate, ma noi abitiamo qui da poco e non conosciamo nessuno”, risponde una coppia che rientra in una palazzina che si trova proprio di fronte alla casa del deputato.
A un certo punto, i ruoli si invertono e una donna a bordo di un’auto bianca chiede il motivo della presenza della stampa sotto casa del neodeputato e, poi, se ne va indignata negando di conoscere sia lui sia sua moglie. “Soumahoro abita qui, ma io preferisco non rilasciare dichiarazioni perché non amo questo tiro al bersaglio anche se riguarda un parlamentare”, commenta uno dei pochi vicini di casa che parla, rigorosamente a telecamera spenta e a taccuini chiusi. Il dirimpettaio si limita a dire: “Sì, sì la casa di Soumahoro è questa. Oggi, però, non abbiamo visto nessuno. Le tapparelle sono abbassate e, secondo me, non ci sono. Avranno voluto evitare l’assalto dei giornalisti”. Nel dubbio, chiamiamo il parlamentare che nei giorni scorsi si è autosospeso dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana, però non otteniamo alcuna risposta.
Soumahoro, va ricordato, al momento non risulta indagato, ma l’imbarazzo per una moglie e una suocera finite nei guai per la gestione poco chiara di due cooperative di migranti deve essere notevole. Il deputato, che aveva redarguito il premier Giorgia Meloni per aver osato dargli del tu, aveva cercato di fare il suo esordio in Parlamento entrando con le scarpe sporche di fango con l’intenzione di rendere ancora più evidente la sua vicinanza ai più deboli. Ora, invece, si trova nella condizione di doversi difendere dall’accusa di vivere nel lusso.
"Io, il primo a denunciare le coop. E tutti in silenzio". Il sindacalista della Uiltucs: "Parlai già nel 2018. Dov’erano gli enti e la politica?". Tonj Ortoleva su Il Giornale il 26 Novembre 2022.
«Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale?». Non c’è dubbio che se oggi c’è possibilità di fare chiarezza rispetto alla cooperativa Karibu della famiglia dell’onorevole Soumahoro, molto del merito va alla perseveranza del segretario provinciale della Uiltucs di Latina Gianfranco Cartisano. Anni di battaglie, di denunce, di difesa dei diritti dei lavoratori della cooperativa e dei braccianti impiegati dal consorzio Aid, anch’esso legato alla famiglia del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana.
Parte da lontano la storia della gestione dei centri di accoglienza per migranti nella provincia di Latina. Una storia con molte ombre sulla quale però in pochi chiedevano chiarezza mentre i più facevano spallucce, bollando come polemica a sfondo politico ogni intervento critico verso queste cooperative. E Karibu, la coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro era quella che gestiva i numeri maggiori. La coop di Sezze ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe e ha preso più o meno 5 milioni di finanziamenti. Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? No le denunce pubbliche ci sono state. Come quella del capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi: «La mia denuncia parte nel 2018 e finì sotto silenzio, nell’indifferenza di molti. Sono felice che ora magistratura e forze dell’ordine abbiano acceso i riflettori su questa storia».
La procura della Repubblica di Latina, guidata da Giuseppe De Falco, ha diramato ieri una nota che mostra in parte l’imbarazzo che si respira in via Ezio per essere arrivati solo ora ad aprire un fascicolo: «Gli accertamenti nascono da notizie e comunicazioni pervenute da una pluralità di fonti, di natura pubblica e privata, e si articolano attraverso il dovuto, rigoroso vaglio ed approfondimento di ogni notizia e comunicazione». Cosa però che nel 2018 non era avvenuta.
Ma anche la scorsa estate nulla si mosse quando Gianfranco Cartisano della Uiltucs denunciò la vicenda dei lavoratori non pagati delle coop, la medesima sui cui risvolti oggi si sta indagando. A luglio Cartisano dichiarava ai giornali: «Una storia che purtroppo abbiamo già visto altrove, con le anomalie finanziarie scaricate sugli enti pubblici finanziatori e sui lavoratori».
Dopo mesi Cartisano vede finalmente riconosciute le battaglie del suo sindacato. «Oggi rimane per noi l’unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza».
Invece di salvare i migranti importiamo il caos africano. Le storture dell'accoglienza senza limiti: la vera lezione del caso Soumahoro. Gian Micalessin su Il Giornale il 26 Novembre 2022.
Lui, nel suo piccolo, si è trasformato da difensore dei reietti in capobastone prima e deputato poi. Ma non c'è da stupirsi. Nella grande madre Africa, da cui anche Aboubakar Soumahoro proviene, il percorso da paladino degli ultimi a incallito cleptocrate è la norma. Pensate a Robert Mugabe in Zimbawe, a Meles Zenawi in Etiopia, a Paul Kagame in Rwanda o a Isaias Afwerki in Eritrea. Le loro storie sono segnate da percorsi comuni. Iniziano con una spassionata lotta in difesa del popolo e si trasformano in un'altrettanto appassionata difesa delle ricchezze sottratte a quello stesso popolo. La parabola dell'onorevole Souhamoro dunque non sorprende. Stupisce semmai che si sia potuta riprodurre nel nostro paese. Ma di questo dobbiamo ringraziare le «elite» buoniste e di sinistra decise a imporci l'utopia di un'accoglienza senza limiti e controlli.
Per capirlo partiamo dal paradigma africano. Dietro la parabola di tanti dittatori vi sono due ragioni. La prima è rappresentata dalle immense e attraenti ricchezze naturali di tante nazioni. La seconda da sistemi istituzionali approssimativi dove i leader non sono soggetti, come nelle democrazie occidentali, a complessi sistemi di controllo determinati dalla precisa divisione dei poteri. I problemi delle giovani nazioni africane rivivono purtroppo nel nebuloso sistema dell'accoglienza messo in piedi in Italia da Pd e cooperative di sinistra. Un sistema dove abbondanti risorse pubbliche sfuggono al controllo di governo e istituzioni. La moglie dell'onorevole Sumahoro si è ritrovata a gestire, nell'arco di 18 anni, un capitale di circa cinque milioni e mezzo di euro assegnategli grazie a procedure senza gare e senza controlli. Origini e motivi di queste carenze vanno ricercate nell'atto iniziale del fenomeno migratorio ovvero negli sbarchi gestiti non dalle nostre istituzioni, ma dai trafficanti di uomini o dalle navi delle Ong. In entrambi i casi l'obbiettivo è far sbarcare il maggior numero di persone possibile. Questo garantisce maggiori incassi non solo ai trafficanti, ma anche alle Ong pronte a esibire i numeri dei migranti «salvati» per far leva sul buon cuore dei donatori. Quel che non interessa a nessuno è invece il futuro di questi disgraziati. Abbandonati in un universo privo di norme e di controlli i migranti, primi fra tutti quelli irregolari, si trasformano in risorse alla mercé di cooperative o di sfruttatori. Le prime sono interessate ad accoglierne quanti più possibile per moltiplicare i contributi incassati a fine mese. I secondi puntano a utilizzarli in grande quantità per offrire manodopera a bassissimo costo sul fronte del lavoro nero. In tutto questo, lo dimostrano le vicende del clan Sumahoro, i controlli di governo, istituzioni e forze dell'ordine sono talmente rarefatti da risultare assenti. La mancanza di regole che caratterizza la gestione della galassia migratoria italiana finisce con il ricordare, insomma, la fragilità istituzionale di quei paesi africani dove spregiudicati cleptocrati hanno facile gioco nel trasformare in beni personali le risorse nazionali. Soumahoro, insomma, si è semplicemente comportato come avrebbe fatto nella sua Africa. E ha potuto farlo grazie alla compiacenza di un Pd e di una sinistra che partendo dalla pretesa di salvare i migranti dalle tragedie africane finisce, invece, con il riprodurre gli schemi di quelle tragedie all'interno della nostra società.
Dagospia il 25 novembre 2022. Da Un Giorno da Pecora
L’intervista ad Aboubakar Soumahoro? “Lui ha giocato le sue carte, su alcune questioni è stato netto su altre sono rimaste delle zone d’ombra. Gli ho fatto tutte le domande senza mancargli di rispetto, alcune cose non tornano ma è anche brutto vedere una persona che viene ‘menato’ da destra, sinistra e centro. Penso di avergli fatto tutte le domande ma il tono che si sceglie nel fare quelle domande è importante”.
A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è il giornalista Corrado Formigli, che ieri a ‘Piazzapulita’, ha intervistato il deputato al centro di una bufera mediatica. "Si è fatto trasportare da un’ambizione molto forte, ha avuto delle ingenuità e qualche eccesso di furbizia, ma non credo sia un ladro, forse la missione politica che si è posto gli ha fatto perdere il contatto con la realtà”. La carriera politica di Soumahoro potrebbe esser finita qui? “Vediamo. In Italia c’è scarsissima memoria per fatti più gravi di questo. Siamo di fronte ad un parlamentare che ha omesso di dire che ci sono delle cooperative che non rispettano i diritti, cosa in contraddizione con le sue battaglie. Ma qui siamo in un Paese in cui il leader di un partito è stato condannato per frode fiscale, eppure nessuno si sogna di linciarlo tutti i giorni e dire che è finito, è ancora lì".
Dagonews il 25 novembre 2022.
Chi cerca il Cav, trova un tesoro, anzi una Soumahoro. Lo sapevate che la moglie del deputato (autosospeso) di Sinistra Italiana e Verdi ha lavorato a Palazzo Chigi per il governo Berlusconi? Era l’assistente di Alberto Michelini, nominato all’indomani del G8 di Genova, rappresentante personale del presidente del Consiglio per l’Africa. Lei poi, lanciatissima, era andata a lavorare direttamente per Bruno Archi, consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi. Gli addetti ai livori mormorano di quando la moglie di Soumahoro chiese, e ottenne, un incontro privato di lavoro con Berlusconi.
Soumahoro, per chi lavorava la moglie in Parlamento: la scoperta. Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
Continua a tenere banco il caso di Aboubakar Soumahoro, che si è auto-sospeso dal gruppo parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi ed è andato a chiedere scusa a PiazzaPulita, su La7, per non aver vigilato su quanto accadeva in casa sua. La coop che era gestita dalla compagna e dalla suocera risulta indagata e Soumahoro sta pagando lo scotto a livello di immagine, pur non essendo direttamente coinvolto.
Dagospia ha aggiunto qualche dettaglio inedito su Liliane Murekatete: “Lo sapevate che la moglie del deputato ha lavorato a Palazzo Chigi per il governo Berlusconi? Era l’assistente di Alberto Michelini, nominato all’indomani del G8 di Genova rappresentante personale del presidente del Consiglio per l’Africa. Lei poi, lanciatissima, era andata a lavorare direttamente per Bruno Archi, consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi".
Nel frattempo Angelo Bonelli ha rilasciato un’intervista a Radio Popolare in cui si è detto “turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda”.Secondo il deputato di Verdi-Si, le risposte date finora da Soumahoro “non sono sufficienti, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione”.
Michelini, ex deputato di FI: «La moglie di Soumahoro con me a Palazzo Chigi. Era capace». Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.
Alberto Michelini, come mai Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, lavorò con lei a Palazzo Chigi durante il governo Berlusconi?
«Ero rappresentante del presidente del Consiglio al G8 dell'Africa. A un incontro organizzato da Laura Boldrini, allora all'Unhcr, lei tenne un discorso molto bello. E la mia assistente disse: "Perché non la prendiamo?"».
E lei?
«La convocai. Mi raccontò che era fuggita dal Ruanda al tempo della guerra con i Tutsi, lei era Hutu. Disse che sua madre era un'insegnante e suo padre medico, studiava dai salesiani, parlava perfettamente italiano ed era intelligente, ci colpì e la prendemmo».
A fare cosa?
«Veniva con noi agli incontri con le delegazioni africane. Era una buona presentazione avere nel nostro staff una persona africana. E lei era molto brava nelle relazioni. Ed era di buona famiglia».
Buona famiglia?
«Un giorno incontrammo il primo ministro del Ruanda e lei me lo presentò come suo zio».
Era la nipote del premier?
«Così mi disse. E vidi che si salutavano in modo affettuoso».
Da allora?
«Ha lavorato con noi 3 anni e poi non l'ho più vista».
Era già super griffata?
«No. Vestiva con tailleur sobri. Era capace. Poi dipende come usi la tua intelligenza. Ed evidentemente c'è stata un'evoluzione. Sono sconcertato».
Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 26 novembre 2022.
«Attualmente disoccupata» e fuori dal circuito dell'accoglienza. Ma nel curriculum di Liliane Murekatete, moglie del deputato dell'Alleanza Verdi-Sinistra Aboubakar Soumahoro finito nella bufera politica per il caso coop, ci sono diverse esperienze di peso. E una pesa più di tutte: Palazzo Chigi.
[…] L'ex dipendente della cooperativa Karibu ora nel mirino delle indagini della procura di Latina, ricorda Dagospia, ha lavorato come consigliera alla presidenza del Consiglio per più di due anni, dal 2003 al 2006, nel governo Berlusconi. Ruolo ricoperto anche con il secondo governo Prodi. E poi di nuovo quando il Cavaliere è tornato in sella nel 2008: richiamata dal governo di centrodestra come «facente funzioni» del rappresentante per l'Africa. Missione, quest' ultima, mai decollata davvero.
Nel 2003 l'esordio come assistente dell'allora inviato speciale italiano del G8 per l'Africa, Alberto Michelini, ex deputato e già giornalista del Tg1. […] Il primo incontro con Michelini è a Roma, con una sponsor d'eccezione: Laura Boldrini, ex presidente della Camera, all'epoca portavoce dell'Unhcr per il Sud Europa.
È il 20 giugno e l'agenzia dell'Onu celebra con un convegno la giornata mondiale del rifugiato, presenti Michelini e Alfredo Mantovano (attuale sottosegretario a Chigi) nella veste di sottosegretario all'Interno. Boldrini cede la parola a Liliane, ventiseienne miracolosamente scampata con la sua famiglia all'eccidio che nel 1994 ha sconvolto il Ruanda.
Paola Ganozzi, consigliera di Michelini e tutt' ora in squadra a Palazzo Chigi, rimane colpita e lancia l'idea: la ragazza deve entrare a palazzo. «Parlava un perfetto italiano, oltre a inglese e francese madrelingua», racconta Michelini, «ha lavorato con noi più di due anni, ci seguiva nelle missioni in Africa, e i nostri interlocutori apprezzavano che nella delegazione italiana ci fosse una giovane africana preparata».
[…] Prima di dedicarsi a tempo pieno alle coop, Murekatete ha dunque vissuto una parentesi nelle istituzioni. Un ruolo (e un lavoro) di prestigio. Defilato, certo, ma non indifferente. […]
Silenzi e contraddizioni, Soumahoro senza difesa: cosa non torna. Dario Martini su il Tempo il 26 novembre 2022
Aboubakar Soumahoro non ha convinto neppure colui che l'ha portato in Parlamento. Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, fa capire senza mezzi termini di essere rimasto molto deluso dalle spiegazioni fornite in tv dal suo parlamentare: «Ha dato risposte insufficienti». Lo scandalo scoppiato sull'accoglienza dei migranti è tutt' altro che chiuso. La versione fornita dal paladino dei braccianti, ospite l'altro ieri sera nello studio di Piazza Pulita, su La7, lascia aperti molti interrogativi. Eppure, qualche ora prima di presentarsi davanti alle telecamere, Soumahoro aveva avuto un lungo confronto proprio con Bonelli, a cui aveva partecipato anche Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. Incontro a cui era seguita la decisione del deputato e di autosospendersi dal gruppo di Montecitorio.
Una domanda sorge spontanea: come mai è andato in televisione senza avere una linea difensiva seria? Sembra quasi che sia stato mandato allo sbaraglio. «Quella di Aboubakar è una cosa che ferisce e che indebolisce chi ogni giorno lotta per i diritti - commenta Bonelli rincarando la dose Abbiamo parlato a lungo con lui e ci ha confermato la sua estraneità ai fatti e che risponderà alle ricostruzioni giornalistiche. Questa vicenda mi ha profondamente turbato, basta guardare la mia faccia». Occorre ricordare che Soumahoro non è indagato. Lo scandalo riguarda le coop di famiglia, ovvero la società Karibu, di cui è amministratrice la suocera Marie Therese Mukamitsindo (indagata per malversazioni) e di cui è stata presidente la moglie Liliane Murekatete, e il Consorzio Aid, guidato dalla cognata Aline Mutesi e di cui è consigliera la stessa Mukamitsindo. Il caso è scoppiato quando sono affiorate le segnalazioni dei 26 dipendenti che non percepivano gli stipendi. Poi si sono aggiunte le lamentele dei migranti, che hanno denunciato le condizioni al limite in cui erano costretti a vivere: senza cibo, luce e acqua.
Negli ultimi giorni l'attenzione si è spostata sulla Lega dei braccianti, il sindacato fondato da Soumahoro. Alcuni suoi ex soci lo accusano di aver trattenuto per sé i soldi destinati ai profughi. La versione ufficiale di Soumahoro fa acqua da più parti. Per prima cosa, è evidente la giravolta compiuta in pochi giorni. In un video del 20 novembre, il deputato rossoverde rivendicava con forza di non sapere nulla. Giovedì scorso, invece, ha ammesso che la moglie lo aveva messo al corrente degli stipendi non pagati. Perché non lo ha detto subito? Incalzato da Corrado Formigli, è apparso evasivo anche su altri aspetti dell'intera vicenda. A partire dal resort aperto in Ruanda dal cognato Michel Rukundo, a cui si aggiungono i soldi della Karibu dirottati su un conto corrente africano finito nel mirino della Finanza.
Mila euro Il mutuo con cui i coniugi Soumahoro pochi mesi fa hanno comprato un villetta a Casal Palocco a Roma Formigli glielo chiede esplicitamente: «Come è stato possibile aprire quel resort quando i lavoratori delle cooperative non venivano nemmeno pagati?». Soumahoro divaga: dice che non sapeva delle indagini sulla coop, che il suo errore è stato non approfondire. Sul resort nessuna risposta.
È debole anche la spiegazione fornita in merito alla villetta acquistata qualche mese fa a Roma. Come ha fatto a comprare una casa con un mutuo da 270mila euro, e con quali garanzie, se non era ancora entrato in Parlamento e non prendeva un euro dalla sua Lega dei braccianti? La risposta lascia di stucco: «Ho scritto un libro».
L'opera in questione è "Umanità in rivolta", edito nel 2019. E non risulta che abbia scalato le classifiche di vendita. Secondo quanto appurato da Striscia la Notizia, in tre anni ha venduto appena 9.000 copie, di cui 7.900 il primo anno secondo quanto risulta a Il Tempo. Infine, Soumahoro resta evasivo pure sul confronto avuto con la moglie. Quando gli viene chiesto cosa abbia detto la moglie in merito alle contestazioni sulle condizioni di vita nelle strutture d'accoglienza, il deputato è lapidario: «Mia moglie non lavora più lì. Comunque di fronte a queste cose non c'è legame familiare che tenga». Una presa di posizione forte, che però non entra nel merito del problema.
Soumahoro, l'ex socio a Striscia: "Soumahoro pagava per fare selfie e finte proteste". Il Tempo il 25 novembre 2022
A "Striscia La Notizia" su Canale 5 l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a Piazza Pulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sottoforma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. Che aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro.
Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci.
Soumahoro mollato anche da Bonelli: "La moglie? Non posso credere che..." Il Tempo il 25 novembre 2022
Aboubakar Soumahoro mollato anche da chi aveva puntato tutto sul nome nuovo della sinistra. Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra italiana, in un’intervista a Radio Popolare si dice "turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda". Insomma, l'imbarazzo iniziale per l'inchiesta della procura di Latina che ha coinvolto la suocera e la moglie del "sindacalista con gli stivali sporchi di fango" (il cui nome non è nell'inchiesta) si è trasformata in una presa di distanza netta.
"Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione" afferma il verde nell'intervista. Ora "va fatta una riflessione seria - continua Bonelli - abbiamo una situazione in cui i diritti dei migranti sono sempre più calpestati e chi ha sempre condotto una battaglia, mi riferisco alla destra, per metterli all’angolo con motivazioni inaccettabili, ora usa in maniera speculare questa vicenda, su cui dobbiamo aprire una riflessione. Per questo, Soumahoro dovrebbe essere il primo a dare risposte che finora non ha dato".
Sulla scelta di candidare Soumahoro, Bonelli spiega che "non c’è stata una sincera comunicazione da parte di chi si candida a dire ’io ho un problema di questo genere, valutate voi'. Questo non è accaduto. È una questione che non attiene la via giudiziaria, è una questione che attiene alla politica e a una comunità che ti sta facendo una proposta di candidatura. Se io avessi una moglie che ha una società che opera nelle energie rinnovabili e venisse indagata perché ha corrotto il ministero dell’Ambiente e io sono il leader dei Verdi, ho il dovere di dire al partito che mi vuole candidare che ho questo problema, per rispetto ad una comunità che ha proposto il tuo nome".
"Quello per cui mi sento profondamente ferito è proprio questo, ferito più che dal punto di vista politico, umano perché si omette di dire tutto. Io non posso credere che la moglie non parli con il marito di questo". Insomma, Bonelli lamenta che Soumahoro ha omesso informazioni che gli avrebbero precluso la candidatura, e mette in dubbio anche quanto affermato in sua difesa dal neo-deputato che, è il ragionamento del verde, non poteva non sapere.
Anni di silenzi e denunce: il caso Soumahoro imbarazza toghe e sinistra. La vicenda esplosa negli ultimi giorni ha radici lontane: già nel 2018 il capogruppo regionale della Lega sollevò dubbi sulla gestione dei soldi pubblici da parte della coop Karibu. Tonj Ortoleva su Il Giornale il 25 Novembre 2022.
Una storia che viene da lontano quella della cooperativa Karibu e del fiume di denaro ottenuto dallo Stato per la gestione dei migranti. Ma ai dubbi e alle denunce presentate, fino a oggi, non era mai seguito nulla di concreto. Solo ora si sono accesi i riflettori sulla cooperativa gestita dalla suocera e (in precedenza) dalla moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire.
Gli affidamenti e le prime polemiche
La Karibu ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 la cooperativa ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe. Solo dopo 18 anni, infatti, il servizio è stato nuovamente messo a gara e ad aggiudicarselo è stata un’altra cooperativa. Inoltre la Karibu, nel 2015, ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Nel 2018 erano ben 51 su 129 i centri per l’accoglienza dei migranti gestiti da Karibu in provincia di Latina, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo.
Sulla coop sta indagando la procura della Repubblica di Latina, cercando di far luce su stipendi non pagati ai dipendenti, migranti costretti a tirare avanti con poco cibo, senza acqua e senza luce, ipotesi di fatture false, raggiri e flussi di denaro diretti all'estero e in parte rientrati in Italia. Ma i primi dubbi sul fiume di denaro elargito da governo e comuni alla cooperativa con sede a Sezze (Latina) arrivano già nel 2018. A maggio di quell’anno è il capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi a presentare una interrogazione per capire cosa stesse accadendo alcune realtà della provincia di Latina, come il comune di Roccagorga che in un anno gestiva 300 mila euro di risorse destinate allo Sprar (il sistema di protezione per richiedenti asilo) mentre il capoluogo Latina ne aveva 500 mila per tre anni. Dubbi sui quali Tripodi ha insistito molto, andando anche a incontrare l’allora prefetto Maria Rosa Trio. “La mia denuncia parte nel 2018 e finì sotto silenzio, nell’indifferenza di molti. Sono felice che ora magistratura e forze dell’ordine abbiano acceso i riflettori su questa storia e sono certo che andranno fino in fondo. E faccio anche un appello ai tanti che conoscono quel che è accaduto in questi anni: chi sa, parli”, afferma Angelo Tripodi, capogruppo della Lega in Regione Lazio.
Già nel 2018 Tripodi aveva descritto quello che considerava un sistema su cui grandi responsabilità avrebbe il Partito democratico: “La coop Karibù ha avuto un legame forte con il Pd e i Comuni amministrati dal centrosinistra: dagli affidamenti con fondi pubblici, spesso senza una gara, alle proroghe puntuali a ridosso delle scadenze, dagli immobili affittati dai dipendenti pubblici alla coop, fino all'assunzione di un amministratore democratico nella società della suocera di Soumahoro”.
Le denunce del sindacato Uiltucs
Parallelamente ai dubbi sollevati dalla politica, sulla gestione del sistema Sprar sono arrivati anche i riflettori del sindacato Uiltucs guidato dal segretario provinciale Gianfranco Cartisano, che invece si sono concentrati su aspetti lavorativi. Proprio lui ha denunciato i mancati pagamenti dei lavoratori e in altre occasioni ha raccolto i malumori dei richiedenti asilo e dei braccianti impiegati dalla Aid, consorzio nell’orbita della famiglia Soumahoro.
Quei milioni alla coop vicina a Mafia Capitale. Bianca Leonardi il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il colosso italiano dell'accoglienza Medihospes fino all'anno scorso deteneva il 63% dei centri accoglienza solo su Roma
Se il caso Soumahoro è stata una doccia fredda per i tanti affezionati, la politica ha preferito rimanere pressoché silenziosa riguardo anche gli intrecci - documentati e presunti - tra i due mondi: immigrazione e potere.
Il caso più eclatante è quello del colosso italiano dell'accoglienza Medihospes che fino all'anno scorso deteneva il 63% dei centri accoglienza solo su Roma: una condizione di quasi monopolio che si conferma anche quest'anno. La coop è strettamente collegata al Gruppo La Cascina, al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il presidente di Medihospes è infatti Camillo Aceto, ex amministratore delegato de La Cascina, indagata per infiltrazione mafiosa. Le due tutt'oggi risultano essere partner. Nonostante questo, i reclami, le denunce e le indagini da nord a sud che portano alla luce le stesse accuse tra cui sovraffollamento, condizioni disumane, gestione oscura dei finanziamenti, la Medihospes gode di una fiducia smisurata dei comuni italiani, soprattutto quello romano.
«Significa che l'amministrazione rischia di essere catturata dal proprio fornitore e di subirne la capacità di condizionamento», si legge nel dossier di ActionAid. Tra il 2021 e il 2022 la giunte 5 stelle e dem hanno infatti indetto bandi, e soprattutto affidamenti diretti, a favore della coop che ha ottenuto, così, contributi milionari. Se nel 2020 erano arrivati 20mila euro alla Medihospes per la ricerca di personale addetto covid per un solo mese, le cifre nei due anni successivi sono di tutt'altro tenore. Il 30 marzo 2021 nelle tasche di Camillo Aceto arriva 1,5 milioni per soli sei mesi di accoglienza, anche questo con affidamento diretto e fuori dal progetto Sprar e cioè dal circuito prefetture-enti. Nello stesso periodo altri 435mila euro per la gestione degli eventi climatici.
Ma c'è di più: il bando del 6 ottobre 2021, per la realizzazione di progetti in favore dei centri di accoglienza, mette sul tavolo più di 23 milioni di euro. Con 13 aggiudicatari e 36 progetti, addirittura 15 vengono affidati alla coop. Stesso discorso per l'affidamento dei C.A.R.I, questa volta nel progetto Sprar, per il triennio 2021-2024 la Medihospes si è presa la fetta più grande della torta, incassando quasi 2,6 milioni contro il poco più di un milione spettato agli altri vincitori. Ad aggiungersi a questo fiume di denaro, pochi mesi fa, un altro affidamento diretto con cui Roma ha stanziato 110mila euro per la gestione di soli 10 posti.
Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per repubblica.it l’8 dicembre 2022.
Quattro anni fa era già nota la "grave" situazione in cui versavano alcuni centri per migranti gestiti dalle coop della suocera e della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Lo aveva accertato il Ministero dell'Interno e l'Ufficio III della Direzione centrale dei servizi civili per l'immigrazione e l'asilo lo aveva specificato in un documento inviato al Comune di Roccagorga, piccolo centro dei Lepini in cui la cooperativa Karibu ha mosso i primi passi.
Tanto Karibu quanto il Consorzio Aid, a cui ora il ministro dello sviluppo economico Adolfo Urso ha deciso di staccare la spina e su cui è in corso una complessa inchiesta della Procura della Repubblica di Latina, hanno però continuato a incassare milioni di euro fino a quando lavoratori che da due anni non prendevano lo stipendio si sono rivolti alla Uiltucs e sono spuntate storie di minorenni stranieri costretti a vivere senza cibo, acqua e luce, facendo esplodere lo scandalo.
Era il 31 dicembre 2019 quando venne inviata dal Viminale una pesante nota al Comune di Roggagorga, all'epoca amministrato dalla sindaca dem Carla Amici, sorella dell'ex sottosegretaria Sesa. Riferendosi al progetto Sprar 2014-2016, ammesso al finanziamento, il Ministero specificò che la seconda visita di monitoraggio effettuata il 26 e 28 novembre 2018 era sfociata in una serie di prescrizioni per via delle "criticità rilevate", imponendo all'ente locale di allinearsi entro 20 giorni.
Nella nota, che Repubblica ha potuto esaminare, il Viminale aggiungeva che dal Comune non era arrivato alcun riscontro a quelle prescrizioni e che, "tenuto conto della gravità della situazione emersa", lo stesso doveva ottemperare. In caso contrario, veniva evidenziato, l'ente locale avrebbe subito una decurtazione di 18 punti, "penalità che potrà comportare la revoca del finanziamento".
Il linguaggio è burocratico, ma il quadro che aveva il Ministero dell'interno delle strutture dove erano ospitati i migranti sembra chiaro. Al dicastero, all'epoca retto dal leghista Matteo Salvini, risultava il "mancato rispetto della percentuali di posti destinati al sistema di protezione indicate nella domanda di contributo" e la "mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati", oltre soprattutto alla "mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitativi".
Qualcosa che sembra estremamente simile a quanto riferito da diversi migranti dopo che è esploso lo scandalo e su cui sta indagando la magistratura.
Il Viminale aveva anche sostenuto che quei problemi avrebbero potuto comportare "il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata", lamentando pure la mancata trasmissione della rendicontazione 2017, mancando il certificato del revisore "che accompagna obbligatoriamente le spese sostenute".
Una nota durissima, che non ha però appunto ostacolato le cooperative di Maria Therese Mukamitsindo e della figlia Liliane Murekatete. [...]
Quando Salvini smontò Soumahoro sullo sciopero dei clandestini. Nel 2020 Soumahoro minacciava: "Fate la regolarizzazione o scioperiamo". Ma il segretario della Lega lo zittiva: "Mi preoccupo dei lavoratori italiani in difficoltà". Luca Sablone su Il Giornale il 25 Novembre 2022.
Le ultime vicende giudiziarie e politiche hanno messo in forte imbarazzo la sinistra nostrana, che da sempre ha dipinto gli esponenti di centrodestra come dei mostri e ha coccolato con leggerezza chiunque avesse le sembianze di un nuovo leader progressista. Ma la convinzione di essere paladini morali ha presto lasciato spazio al senso di soggezione per il caso Aboubakar Soumahoro. Alla mente torna il botta e risposta, risalente a due anni fa, tra il sindacalista e Matteo Salvini in televisione.
Il dibattito in questione risale al 10 maggio 2020. La morsa della prima ondata del Coronavirus era durissima: il nostro Paese faceva i conti con i divieti anti-contagio e gli effetti economici erano devastanti. In quel periodo, però, all'interno del governo giallorosso, guidato da Giuseppe Conte, si parlava della regolarizzazione dei migranti. Un tema che aveva spaccato la maggioranza e che aveva mandato su tutte le furie l'opposizione di centrodestra.
Bellanova piange per i clandestini ma non ha lacrime per tutti gli italiani rovinati dalla crisi
Ad esempio Matteo Salvini si era da subito schierato contro una sanatoria indiscriminata. Il segretario della Lega aveva ribadito la propria posizione nel corso di un'intervista rilasciata a Mezz'ora in più su Rai 3. Era stata l'occasione per un confronto con Aboubakar Soumahoro, che non aveva usato toni concilianti e si era spinto a lanciare un avvertimento: "Il governo faccia la regolarizzazione altrimenti è sciopero".
L'uscita del sindacalista aveva innescato la reazione di Salvini che, lasciandosi andare a una risata di sconcerto, aveva espresso il proprio disappunto: "Scioperano i clandestini adesso? Ma in che Paese viviamo? Io mi preoccupo dei tanti lavoratori, italiani e stranieri, perbene che sono a casa senza pagnotta da due mesi".
Poco prima la discussione si era fatta ancora più animata. Soumahoro aveva lanciato una provocazione all'indirizzo del leghista: "Metta gli stivali, venga nei campi insieme a noi". Una frase a cui era seguita una stoccata da parte di Salvini: "Guardi, ne ho girate forse più di lei di aziende agricole e nessuno mi chiede schiavi. Il problema è che se noi continuiamo a regolarizzare immigrati irregolari abbiamo schiavi".
Ironia della sorte. Soumahoro invitava il leader della Lega a mettere gli stivali. Magari gli stivali che il deputato di Verdi e Sinistra italiana ha indossato all'esordio nel palazzo della politica. Quegli stessi stivali "simbolo delle sofferenze e speranza del Paese" (con i piedi "nel fango della realtà e lo spirito nel cielo della speranza") che stonano con la denuncia dei braccianti sul suo conto. Salvini è sempre stato etichettato come un mostro che rema contro i migranti; Soumahoro è stato invece designato come potenziale nuovo leader della sinistra. Ora, alla luce degli ultimi sviluppi, siamo sicuri che gli epiteti sull'uno e le lodi sull'altro siano corretti?
"Risposte non sufficienti". Prima lo candidano, ora i Verdi scaricano Soumahoro. Il co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli, critica il sindacalista ivoriano e lo scarica: "Dovrebbe dare risposte più compiute, la questione è politica". Marco Leardi su Il Giornale il 25 Novembre 2022.
"Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti". La sinistra casca dal pero e sul caso che ha travolto il proprio deputato reagisce solo ora. L'autosospensione del sindacalista ivoriano, seguita agli accertamenti sulle coop riconducibili ai suoi famigliari, è stata un punto di non ritorno. Adesso, infatti, la questione ha assunto una consistenza politica non più trascurabile, nemmeno da parte di quanti si erano trincerati dietro un iniziale e imbarazzato silenzio. Così, a utilizzare toni severi nei confronti di Aboubakar sono stati gli stessi esponenti dell'alleanza Verdi-Sinistra italiana, a cominciare da Angelo Bonelli.
Caso Soumahoro, Bonelli: "Turbato e ferito"
In un'intervista a Radio Popolare, il co-portavoce di Europa Verde ha di fatto voltato le spalle al paladino dei braccianti sfruttati, accusandolo di non aver fornito spiegazioni esaurienti sulle controverse vicissitudini della sua famiglia. "Dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto. Quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione", ha affermato Bonelli, dicendosi "turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda". L'esponente dei verdi ha quindi chiesto una "riflessione seria", usando una perifrasi quasi d'obbligo. Col passare dei giorni, infatti, in molti hanno iniziato a sollevare rilievi di opportunità politica destinati a interrogare anche i vertici della sinistra nostrana.
"Soumahoro dovrebbe dare risposte"
"Soumahoro dovrebbe essere il primo a dare risposte che finora non ha dato", ha lamentato Bonelli, accusando poi il centrodestra di "usare" la vicenda contro i proprio avversari. L'impressione, in realtà, è che i progressisti abbiano combinato il pasticcio da soli, prima portando il deputato ivoriano in palmo di mano come un'icona e poi accorgendosi di aver forse commesso qualche imprudenza. Al riguardo il co-portavoce di Europa Verde ha scaricato le responsabilità su Soumahoro (che non è comunque indagato), rimproverandogli di non essere stato abbastanza esaustivo con il partito che lo stava candidando.
Quelle voci prima della candidatura
"Non c'è stata una sincera comunicazione da parte di chi si candida a dire 'io ho un problema di questo genere, valutate voi'. Questo non è accaduto. È una questione che non attiene la via giudiziaria, è una questione che attiene alla politica e a una comunità che ti sta facendo una proposta di candidatura. Se io avessi una moglie che ha una società che opera nelle energie rinnovabili e venisse indagata perché ha corrotto il ministero dell'Ambiente e io sono il leader dei Verdi, ho il dovere di dire al partito che mi vuole candidare che ho questo problema, per rispetto ad una comunità che ha proposto il tuo nome", ha affermato Bonelli. Tuttavia, secondo alcune indiscrezioni - rilanciate peraltro stamani da Luigi De Magistris su La7 - "c'erano già voci su Aboubkar, anche durante la campagna elettorale, e non venivano da avversari politici". Secondo l'ex sindaco di Napoli, il sindacalista sarebbe stato quindi candidato "nella perfetta consapevolezza che c'erano vicende opache che lo attraversavano".
Ma Bonelli cade dalle nuvole. "Quello per cui mi sento profondamente ferito è proprio questo, ferito più che dal punto di vista politico, umano, perché si omette di dire tutto. Io non posso credere che la moglie non parli con il marito di questo", ha dichiarato il leader di Europa Verde.
"Mollato senza rimorso". Mentana smaschera la sinistra sul caso Soumahoro. Il giornalista allude sui social all'attualità e descrive il "meccanismo" adottato con le presunte icone progressiste. "Si innalzano finché non esplodono per umane contraddizioni". Marco Leardi su Il Giornale il 25 Novembre 2022.
Icone della sinistra portate in palmo di mano. Blandite e celebrate come esempi di presunta superiorità morale. Esaltate oltremodo fino a quando scoppia la bolla. A quel punto, infatti, scatta il fuggi fuggi dei compagni e degli adulatori d'un tempo. "Il meccanismo è sempre uguale". Enrico Mentana sferra una staffilata ai progressisti di casa nostra, prendendo spunto probabilmente dalle recenti vicissitudini del caso Soumahoro. Senza citare in modo esplicito il deputato di origini ivoriane, il giornalista ha affidato ai social una riflessione adattabile alle circostanze che hanno portato l'esponente politico ad autosospendersi dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra.
Il "meccanismo" svelato da Mentana
Dopo quella decisione, dovuta all'onda d'urto dell'indagine sulla suocera del deputato, Mentana ha toccato su Facebook un nervo scoperto della sinistra. "Il meccanismo è sempre uguale, nasce da uno stesso riflesso condizionato: si innalza una figura a simbolo della lotta su temi e battaglie che non ci piace né vedere né affrontare, quasi sempre nel sud non illuminato dalle fiction, la si gonfia esaltandola e lusingandola, finché invariabilmente non esplode per varie umane contraddizioni", ha scritto il direttore del TgLa7, ricostruendo l'ideale parabola percorsa da alcune personalità trasformate in icone del progressismo. Poi il giornalista ha descritto l'improvvisa traiettoria discendente a cui quelle stesse figure sarebbero condannate.
"Mollato senza rimorso"
"A quel punto la si molla all'istante, e con lei - senza alcun rimorso - le sue battaglie e le piaghe che combatteva. Come fu per l'archetipo: morto Masaniello la sua gente mazziata torna nell'ombra, senza più voce. Li chiamiamo invisibili perché in fondo siamo i primi a non volerli guardare", ha osservato Mentana. Allusiva, ma piuttosto comprensibile, la critica a quei leader politici di sinistra che ricorrono a questo "meccanismo" contraddittorio ed emblematico, rispetto al quale diversi commentatori social hanno subito colto dei riferimenti all'attualità.
Le contraddizioni politiche del caso Soumahoro
Difficile, del resto, non pensare alle traversie del caso Soumahoro. Dopo gli iniziali e imbarazzati silenzi della sinistra sulla famiglia del deputato (che - lo ricordiamo - non è indagato), qualcuno si è reso conto dei contraccolpi politici del caso. Così, il parlamentare si è dovuto autospendere dal gruppo di Verdi e Sinistra, scaricato di fatto pure da Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. "Avrebbe dovuto cercare un confronto con noi e informarci della situazione. Sono molto preoccupato", aveva fatto sapere l'esponente di sinistra.
La sinistra in caduta libera: aspettava il ko del governo ma esplode su Soumahoro. Prima creano il totem "acchiappavoti" poi lo scaricano in malo modo. De Magistris: "Da tempo c’erano voci su di lui..." Laura Cesaretti su Il Giornale il 26 Novembre 2022.
Ora si scopre che tutti sapevano, o almeno sospettavano: dalla Cgil alla Caritas, dai soci della cooperativa a esponenti del Pd, passando per le procure e financo per Luigi De Magistris. Tutti, tranne i due leader che hanno chiesto a Aboukabar Soumahoro di candidarsi e ne hanno fatto una delle icone della propria campagna elettorale, forti della sua popolarità a sinistra.
C'è un dolente Angelo Bonelli (il Verde) che si descrive «turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda». E che ora si mostra implacabile con l'ex candidato-simbolo: «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto. Noi quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione». C'è un irritato Nicola Fratoianni (il Rosso) che tace ma fa trapelare che si era perso il messaggio Instagram del prete che oggi - ex post - racconta di averlo «avvisato che rischiava l'autogol» a candidarlo. Che disdetta. C'è pure Gad Lerner, che sul Fatto ricorda di aver apprezzato Aboukabar e sostenuto le sue lotte, ma gli rinfaccia gli «stivali infangati» che un leader sindacale come Di Vittorio - dice - mai avrebbe usato per farsi propaganda.
Il fall-out del caso Soumahoro - peraltro non indagato - rappresenta la vera crisi post-elettorale della sinistra radical-moralista, quella che attendeva l'esplosione della (pur scombiccherata) maggioranza di destra e si trova invece a fare i conti con il crollo dei personaggi eletti a simbolo e con l'eterno male del giustizialismo verso gli altri, che ora gli si ritorce contro.
Ora c'è la gara a tirar pietre postume sull'ex icona. Spunta persino l'ormai appannato De Magistris, che non riesce mai a togliersi la toga del magistrato dell'accusa (per lo più infondata, a giudicare dagli esiti delle sue inchieste in tribunale), e che ora fa quello che la sapeva lunga: «C'erano voci ben prima della campagna elettorale, e non venivano da avversari politici di Soumahoro», racconta. Per poi prendersela con il partito rossoverde che (a differenza della sua sfortunata Unione Popolare) un po' di parlamentari, incluso il contestato sindacalista, li ha eletti: «Non voglio dire che lo abbiano usato, ma certo è stato candidato nella perfetta consapevolezza che c'erano vicende opache». Peccato, però, che appena un anno fa, il medesimo De Magistris non avesse trovato nulla di «opaco» nel sostegno offerto da Soumahoro alla sua campagna elettorale (sfortunata anch'essa) per la guida della regione Calabria. Il sindacalista aveva anche partecipato a comizi e manifestazioni a favore di Dema. Che oggi, anche lui, si ricorda improvvisamente che «c'erano voci». Mentre dalle colonne di Repubblica, Stefano Cappellini ricorda che la selezione delle candidature non va lasciata a «intellettuali, artisti, influencer» alla Saviano o a salotti della sinistra tv come Propaganda Live. E così, mentre a sinistra tutti mollano di gran carriera il proprio eroe di ieri, a non unirsi all'accanimento sul Soumahoro caduto in disgrazia sono personaggi lontani dalla retorica leftist: da Paolo Mieli, che si chiede ironico: «Come mai non gli abbiamo mai chiesto nulla prima, visto che tutti ora dicono che sapevano», a Matteo Renzi: «La sinistra radical-chic con la puzza sotto al naso prima crea i totem e poi li distrugge in un secondo. Mi fa ribrezzo questo atteggiamento».
La signora Liliane, il marito predicatore e l'assurdo diritto all'eleganza. Alla lunga lista dei diritti che la sinistra si vanta di difendere, ora ne dobbiamo aggiungere un altro, al quale, in vero, non avevamo mai pensato: quello all'eleganza. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 26 Novembre 2022.
Alla lunga lista dei diritti che la sinistra si vanta di difendere, ora ne dobbiamo aggiungere un altro, al quale, in vero, non avevamo mai pensato: quello all'eleganza. Non sappiamo se entri per direttissima nei diritti dell'uomo, di sicuro in quelli della donna. Nello specifico della signora Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, finita sotto la lente dei magistrati per presunte malversazioni e discusse cooperative e, soprattutto, finita su quotidiani, siti e rotocalchi per i suoi abiti griffati e sfarzosi. Così, il di lei marito, durante un disastroso tentativo di difendersi dalla bufera politica che si è abbattuta sulla sua famiglia, di fronte alla corte suprema di Corrado Formigli a Piazza Pulita, si è appellato al sacro e inviolabile diritto delle donne, bianche o nere, alla moda e all'eleganza. E, per carità, in tempi di sciatteria ubiqua siamo d'accordo con il novello lord Brummell sull'importanza del vestire bene. Anche se, più che un diritto, ci sembra un'opportunità. Ma sono questioni di lana caprina, non quadrupli fili di cachemire.
Epperò, con ogni evidenza, il problema è un altro. Cioè predicare povertà al limite del francescanesimo e poi razzolare male ma vestiti bene, cioè con scarpe e borse griffate. Fingersi nulla tenenti e poi avere un villino da mezzo milione di euro e un armadio da Chiara Ferragni. Non è solo una questione giudiziaria, ci penserà la magistratura a chiarire il giallo degli stipendi non corrisposti e a capire se ci sono state delle violenze. È una questione di opportunità e, ancor più, di coerenza. E il caso Soumahoro & famiglia è la rappresentazione cristallina e stupefacente di quella insopportabile doppia morale che pervade una certa sinistra che oltre a essere radical e ovviamente chic, pretende anche di avere una supremazia morale. Peggio di loro, e di gran lunga, c'è solo quel sistema mediatico e politico che li ha elevati a paradigma. E ora si nascondono pure dietro al diritto all'eleganza. Anche se più che un diritto, questo è un rovescio. Un manrovescio. Al buongusto.
Soumahoro, con il diritto all'eleganza nasce la sinistra "falce & borsetta". Pietro De Leo su il Tempo il 26 novembre 2022
Fermi tutti, il profeta fa l'update, l'aggiornamento delle proprie priorità. In questa vicenda da tragicommedia politica che riguarda la gestione presuntamente allegra della cooperativa d'accoglienza della suocera del deputato Soumahoro, quest' ultimo, alle prese con i marosi mediatici della vicenda, incappa in un apparente lapsus, che però è molto di più. È riscrittura di orizzonti, teorizzazione di nuove battaglie. Durante la rovinosa uscita televisiva a Piazza Pulita, il conduttore Corrado Formigli chiede conto al deputato dei selfie postati sui social che ritraggono la sua consorte abbigliata con griffe e borse di un certo valore. Soumahoro, candidamente, risponde: «Il diritto all'eleganza, il diritto alla moda è una libertà. La moda è semplicemente umana, non è né bianca né nera».
Già immaginiamo i volti contriti di Bonelli e Fratoianni, leader dell'alleanza che ha eletto il Nostro in Parlamento. l'uno seguace della sobrietà ambientalista, l'altro di quella del portafoglio in chiave redistributiva, tanto da esser un grande sostenitore della patrimoniale. Piantati lì, da anni. Soumahoro, invece, appena messo piede nel Palazzo, ha già fatto l'aggiornamento della propria tutela dei diritti. Non più quelli dei braccianti ad un salario dignitoso, la cui battaglia l'ha proiettato nella fama (con molti margini di dubbio sulla sua conduzione, visti gli elementi che, anche lì, stanno emergendo).
Ma il diritto della sua signora ad indossare il lusso e mostrarlo. Largo alla nuova (estrema) sinistra glamour, falce e borsetta. E siccome ogni buon rivoluzionario proietta sulla collettività il gesto politico che compie in prima persona, ci aspettiamo una serie di istanze: l'iPhone Max di cittadinanza, la fuoriserie garantita dallo Stato, il bonus-cena da Briatore. D'altronde, la strada la indicano già i social, dove Soumahoro in poche settimane è diventato da uomo-nuovo per la sinistra auomo-meme per tutti, tanto che qualche buontempone, lavorando di fotomontaggi, ha appiccicato il logo di una nota griffe sugli stivaloni di gomma con cui il Nostro ha esordito in Parlamento. D'altronde, e ora scriviamo sul serio, questi sono i contraccolpi della politica di oggi, sempre a caccia di icone, di gadget umani che abbiano un buon involucro, e chi se ne frega del contenuto. E finisce, a volte, che una risata seppellisce la farsa di imitazioni ridicole di modelli veri. «I have a dream: più yacht per tutti». È il diritto alla moda, fratello.
Stasera Italiana, Vittorio Feltri in difesa di Soumahoro: linciaggio incivile. Il Tempo il 25 novembre 2022
Il caso di Aboubakar Soumahoro ha terremotato la sinistra italiana anche se il nome del sindacalista, eletto alla Camera dei deputati con l’Alleanza Europa verde-Sinistra italiana, non è contenuto nell'inchiesta della procura di Latina che indaga sulle cooperative che fanno capo a membri della sua famiglia. Una voce che abbastanza a sorpresa si leva in favore del sindacalista paladino delle lotte dei braccianti agricoli e finito al centro delle polemiche è quella di Vittorio Feltri, intervenuto venerdì 25 novembre a Stasera Italia, il programma condotto da Barbara Palombelli su Rete 4.
"Quello che fa mia suocera o che fa mia moglie io non lo so", afferma il direttore editoriale di Libero che attacca: "Questo signore stato linciato prima ancora di essere indagato, questo mi sembra incivile in un Paese in cui si continua a discutere della magistratura".
Nel corso della trasmissione la conduttrice aveva sottolineato come, tra gli effetti collaterali del caso, ci sia il danno di reputazione per le persone e le associazioni che "onestamente aiutano gli immigrati". Il giornalista del Foglio Simone Canettieri pone l'accento, invece, sul fatto che questa storia è "un grande carburante per la propaganda della destra" anche grazie alla "difesa pasticciata, con delle uscite abbastanza grottesche", dello stesso Soumahoro. "Colpisce il totale silenzio di un mondo", quello delle "icone che l'avevano lanciato e protetto e che si erano anche forse coperti dietro di lui" argomenta il giornalista.
Soumahoro, Propaganda Live: "Siamo inc*** con lui". Libero Quotidiano il 26 novembre 2022
Anche Propaganda Live scarica Aboubakar Soumahoro. Il salottino radical chic di La7, che ha contribuito a lanciare politicamente la figura del sindacalista dei braccianti immigrati nel 2018, regala uno spazio inevitabile al commento del caso della settimana, con l'inchiesta sulle coop gestite da moglie e suocera del neo-deputato di Sinistra-verdi costretto, proprio per questo, ad auto-sospendersi. E Diego Bianchi in arte Zoro non nasconde l'amarezza per il comportamento dello stesso Soumahoro, ormai ex idolo della sinistra.
Il leader dei verdi Bonelli aveva tirato in ballo proprio Propaganda e L'Espresso, che aveva dedicato al sindacalista una celebre copertina per contrapporlo a Matteo Salvini, Uomini e no, per motivare la scelta di candidare Soumahoro alla Camera. Come dire: con un pedigree mediatico cosi, che bisogno c'è di indagare sulle sue attività?
Bianchi, in qualche modo, mette le mani avanti e si scagiona: "Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…". Ricordando, per altro, che il Soumahoro che loro hanno conosciuto e "lanciato" era quello che parlava con eloquio forbito ma passionale ai migranti e dei migranti, in piazza, citando diritti e denunciando angherie e soprusi.
Poi cos'è cambiato? "Non lo stiamo scaricando - precisa Bianchi -. Ieri mi continuavano ad arrivare messaggi... Lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incaz***ti più di tutti su questa storia! Siamo inca***ti, delusi, amareggiati, non imbarazzati!". Quindi la strigliata finale: "E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong. Ma siamo inca***ti con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate".
Soumahoro, Mentana contro la sinistra: "Mollato senza alcun rimorso". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
Senza mai citarlo, l'ultimo post di Enrico Mentana sembra un chiaro riferimento ad Aboubakar Soumahoro. Il deputato di Verdi-Sinistra italiana si è autosospeso dopo la pressione dei partiti, travolti indirettamente anche loro dall'indagine sulle coop di moglie e suocera di Soumahoro. "Il meccanismo - tuona il direttore del TgLa7 - è sempre uguale, nasce da uno stesso riflesso condizionato: si innalza una figura a simbolo della lotta su temi e battaglie che non ci piace né vedere né affrontare, quasi sempre nel sud non illuminato dalle fiction, la si gonfia esaltandola e lusingandola, finché invariabilmente non esplode per varie umane contraddizioni".
Poi la stoccata con ogni probabilità ad Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, leader dei rispettivi partiti, così come a tutta la sinistra: "A quel punto la si molla all'istante, e con lei - senza alcun rimorso - le sue battaglie e le piaghe che combatteva. Come fu per l'archetipo: morto Masaniello la sua gente mazziata torna nell'ombra, senza più voce. Li chiamiamo invisibili perché in fondo siamo i primi a non volerli guardare".
L'autosospensione del sindacalista eletto in Parlamento sembra proprio una decisione quasi dovuta, arrivata dopo una spinta dei vertici dell'Alleanza di cui faceva parte. Non a caso già negli scorsi giorni si vociferava di un ripensamento da parte del numero uno dei Verdi: "Ho fatto una leggerezza". Ma non è tutto, perché Bonelli non ha mancato di puntare il dito contro il deputato: "Nel momento in cui era stato candidato, non avevamo gli elementi per capire questa situazione. Ma il tema non è giudiziario, perché lui non è indagato, è politico: avrebbe dovuto cercare un confronto con noi e informarci della situazione. Sono molto preoccupato". Da qui la decisione di lasciare a casa Soumahoro.
Marco Damilano, te la ricordi? Soumahoro, la foto che spazza via il direttore. Alessandro Gonzato Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
Ops. Che figura compagni! Ci scappa da ridere, molto, ma è una risata triste, ed è un peccato. Certo, non triste come la copertina dell'Espresso del 17 giugno 2018, molto più tragica come comica, almeno per chi l'ha pensata. Titolo: "Uomini e no", come il romanzo di Elio Vittorini sulla Resistenza. L'uomo, sulla sinistra, è il sindacalista Aboubakar Soumahoro, ancora cittadino semplice, non un deputato della Repubblica. Il "no", sulla destra, è Matteo Salvini, allora neo-ministro dell'Interno. "Il cinismo", si legge sotto i due volti, "l'indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l'empatia, l'appello all'unità dei più deboli". Poi il domandone, retorico: "Voi da che parte state?".
Aboubakar paladino degli "ultimi", per Repubblica. Aboubakar strenuo difensore, forse l'ultimo, dei diritti dei neri e delle minoranze, per La7, che assieme al settimanale progressista ha costruito, elevato e idolatrato l'immagine del futuro parlamentare ivoriano con gli stivali, oggi crollata sotto i colpi di un'inchiesta giudiziaria che se al momento non lo vede indagato, fa a brandelli la narrazione portata avanti per anni da lui e dalla sinistra.
Salvini quella copertina l'aveva criticata: «Alla faccia del giornalismo, ormai alla sinistra rimangono bugie e insulti. Mi fanno tenerezza», e aveva allegato l'emoticon di un bacio. Era il tempo dei "bacioni" inviati ad avversari politici e insultatori vari, tutti a sinistra. La replica di Marco Damilano, allora direttore dell'Espresso, era stata durissima: «Di bugie e insulti la Lega di Salvini è esperta da anni: i dati amplificati sull'immigrazione per creare la percezione di un'invasione che non c'è, il dileggio dell'avversario politico. A noi interessa reagire e rappresentare la voce di quella parte di società italiana che non si rassegna a un governo e a un politico impegnato in una campagna elettorale permanente sulla pelle dei migranti e di chi dissente. Un politico che», aveva aggiunto Damilano, «da anni discrimina tra cittadini di serie A e di serie B. Chiediamo ai lettori di giudicare chi sia l'uomo tra un ministro sicuro del suo potere politico e mediati co e un sindacalista di strada che difende i suoi fratelli e compagni». E come li ha difesi!
Ma il "ciclone Soumahoro", dicevamo, s' è fatto sempre più potente anche grazie ad altri buonisti militanti in servizio permamente. Fabio Fazio, Roberto Saviano, Giobbe Covatta, Michela Murgia. Poi c'è il leader maximo dell'esercito, Diego Bianchi, "Zoro", il mattatore di Propaganda Live che a colpi di «Daje!» caricava il Soumahoro che guidava gli scioperi nei campi del Foggiano. Pugno chiuso e calosce. Tra le perle più pure la puntata del 22 maggio 2020, appena terminata la fase più dura della pandemia. Decine di braccianti in aperta campagna capeggiati da Aboubakar. Finisce il servizio in cui l'eroe dei due stivali viene messo a confronto col bruto Salvini il quale sollevava delle perplessità per il fatto che a scioperare fossero «dei clandestini», e Bianchi esclama: «Grazie, Aboubakar! Si batte la mano sul petto, sul cuore». Aboubakar, alla fine, lancia il grido di battaglia: «È solo l'inizio, è solo l'inizio!». Applausi dallo studio. Mah. A occhio, compagno Aboubakar, siamo più o meno alla fine. Certo, non dello stipendio da parlamentare...
La gogna e il linciaggio dei media. Soumahoro e lo scontro tra pidocchi e destrieri poco coraggiosi: la sinistra è sempre più Don Abbondio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Novembre 2022.
Mi scrive un mio amico e io trascrivo: ”Marx mise incinta la cameriera e rinnegò il bambino. Per tutta la vita ha campato coi soldi di Engels che sfruttava gli operai. Di questi tempi lo avrebbero radiato da questo sodalizio di moralisti manettari che prende il nome di sinistra. E nessuno avrebbe scritto il Capitale”. Il mio amico, naturalmente, si riferisce al processo a Aboubakar Soumahoro che si è svolto negli ultimi due giorni davanti a una giuria impersonata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, e conclusosi con le dimissioni di Soumahoro dal gruppo parlamentare (difficile pensare che siano del tutto spontanee…). Forse esagera il mio amico, anche perché è giovane.
Io che sono un po’ più vecchio ricordo processi simili a questo svolti nelle stanze di Botteghe Oscure, cioè del vecchio Pci. O di via Taurini, cioè dell’Unità, dove lavoravo. All’Unità ci fu un epico processo al più prestigioso dei suoi giornalisti. Alberto Jacoviello, accusato di maoismo (ma Mao era già morto) e che però clamorosamente si concluse con l’assoluzione, ai voti. A Botteghe Oscure invece di processi ne fecero tanti. Forse uno dei più famosi è quello ai Magnacucchi. Li chiamava spregiativamente così Gian Carlo Pajetta. Erano due deputati del Pci, Valdo Magnani e Aldo Cucchi che nel 1951 si schierarono con Tito contro Stalin. Magnani intervenne al congresso del Pci bolognese denunciando lo stalinismo, l’autoritarismo e l’idea che l’Urss fosse lo stato guida. Fu travolto dagli improperi. Si dimise da deputato e dal partito, ma il Pci lo espulse lo stesso e Togliatti tuonò: “Due pidocchi possono trovarsi anche nella criniera del più nobile destriero”. Il destriero nobile era il Pci, i pidocchi i due dissidenti.
Per fortuna i tempi sono un po’ cambiati. Non molto. I processi si fanno lo stesso però si concludono con più ipocrisia e meno violenza di una volta. Anzi con dei sorrisi e con delle soluzioni diplomatiche. La sostanza, nel nostro caso, è che la sinistra che aveva candidato Soumahoro si è rifiutata di difenderlo, pur sapendo che Soumahoro è vittima di una feroce e infame campagna di stampa e che non ha commesso nessun reato. Qual è la differenza? Allora il Pci era feroce, ma non vigliacco. La nuova sinistra è meno feroce, ma il coraggio non sa cosa sia. Assomiglia a don Abbondio, non a Cristoforo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
L'ipocrisia e il forcaiolismo. Il caso Soumahoro, la ricerca del colpevole e il giornalismo razzista e perbene che piace al popolo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 25 Novembre 2022
Il giornalismo pressoché unanime che non demorde e anzi insiste, anzi rivendica la doverosità della propria missione informativa, anzi mena vanto della propria oggettività investigativa, e indispettito tratta da fessi i pochi, pochissimi che hanno preso le difese di Aboubakar Soumahoro, quel giornalismo alla ricerca postuma delle prove che giustificherebbero il previo linciaggio, può rigirarla come vuole questa frittata: ma resta preparata con l’ingrediente razzista che qui abbiamo denunciato, ed era questo a renderla tanto appetibile per il pubblico in frenesia alimentare cui era offerta.
Le indagini, le vociferazioni, i testimoni d’accusa, le requisitorie a petto in fuori contro il migrante arricchito che fa carne di porco dei principi che agitava per chiedere soldi e voti, i capi d’imputazione moraleggiante venuti su come fungaie intorno all’impalcatura dell’accusa che – per carità – non ha nulla a che fare con il colore della pelle, e semmai in modo ineccepibilmente equanime chiede conto di vicende che avrebbe identicamente rinfacciato a qualsiasi persona bianca e dabbene, non destituiscono ma confermano la matrice discriminatoria e razzista (sì, lo ripetiamo: razzista) di quell’accanimento. Questo parlamentare con la colpa di un eloquio migliore rispetto a quello di chi lo giudica, questo “ivoriano talentuoso”, come l’ha chiamato un noto giornalista di certificata appartenenza di sinistra, ciò che a dire di certuni garantirebbe l’impeccabilità civile dell’investigazione, questo finto paladino dei derelitti che in realtà fa maltrattare dalla moglie, una riccastra griffata che egli non ripudia pubblicamente, diventa nel giro di ventiquattro ore il simbolo della crudeltà contro i migranti e i lavoratori, due categorie notoriamente care al cuore e alle attenzioni di quelli che gli rinfacciano le lacrime finte su Instagram, il social dove lui frigna e la consorte posta fotografie da triangolo della moda.
E questo del pianto, e della motivazione teatrale che l’avrebbe inscenato, è un profilo tutt’altro che trascurabile della vicenda. Perché quell’uomo appartiene a un rango che fino a pochissimo tempo fa era schiavo, e che ancora oggi, e anche qui da noi (o vogliamo negarlo?), è oggetto di sopraffazione, di violenza, di razzismo, appunto. E tutti dovrebbero intenerirsi, non incattivirsi, vedendo un nero che piange e dice “Che cosa vi ho fatto?”. E nessuno dovrebbe ricorrere all’argomento falso e fuorviante secondo cui bisogna guardare solo ai comportamenti, ciò per cui va trattato “come chiunque altro, bianco giallo o nero” (questa è la solita giustificazione del razzista). Perché un nero, ancora oggi e anche qui da noi, non è affatto “come chiunque altro”: un nero, ancora oggi e anche qui da noi, è per molti un “negro”. E non mi si dica che ci sono anche quelli che lo hanno massacrato, sì, ma per ragioni che non c’entrano nulla col razzismo. Perché questo importa molto poco. Quel che importa è che altri (tanti) lo hanno invece massacrato proprio per quel motivo. E senza che i primi, gli equanimi, abbiano mostrato di farsene un problema.
Ma se sei in un collegio giudicante che vuole sbattere in galera l’imputato perché è uno sporco negro, tu non è che ti assolvi argomentando che però in effetti quello ha commesso l’illecito e che tu solo per questo, per l’illecito, non per il colore della pelle, vuoi condannarlo. Se dalla piazza monta la voglia di forca per il negro, tu hai il dovere di occuparti di quella, non della moglie che però a ben guardare qualche mastruzzo l’ha fatto. Ma per chiudere, tornando al merito: io non ho mai sentito parlar tanto di migranti maltrattati e lavoratori sfruttati, mai ho letto tanto di ingiustizia e soperchierie ai danni degli emarginati, mai ho visto un giornalismo così solerte nel raccogliere le prove di tanto degrado, di tanta umiliazione, di tanta disumanità in pregiudizio dei diseredati, come da quando l’Italia cristiana e democratica ha trovato nella vita e nella famiglia di un uomo nero la causa di tutto quell’abominio. Iuri Maria Prado
La caccia al deputato. Quello che è successo ad Aboubakar Soumahoro è forca, non buon giornalismo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 6 Dicembre 2022
Io capisco che questa osservazione possa provocare dispetto, ma se un esercito di giornalisti si mette a difesa dei diritti dei migranti a far tempo dal 25 Settembre del 2022, e ci si mette esercitandosi nell’investigazione della marca delle mutande della trisnonna di Aboubakar Soumahoro e nello scrutinio morale del guardaroba della moglie, allora osservo che c’è qualcosa che non fila per il verso giusto. O, per meglio dire, osservo che tutto fila per il solito verso sbagliato che fa emettere al ministro delle Ruspe, Matteo Salvini, la sua requisitoria contro la “zingaraccia”.
Il solito verso sbagliato che fa dire a un noto oligarca democratico, non casualmente ammiratissimo a destra, che “tra Covid e immigrazione c’è una correlazione evidente”, che è il modo progressista per dire che i negri portano le malattie, con il rincalzo del punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti, l’avvocato Conte, secondo il quale “non possiamo tollerare che arrivano dei migranti addirittura positivi e vadino in giro liberamente”. Dove lo sfregio non sta nella macellazione dell’italiano, ma nella riproposizione del modulo discriminatorio che porta a rastrellare gli infetti su base etnica.
Che il caso Soumahoro esploda in questo Paese, cioè il Paese che fu alleato di quelli che assassinavano a centinaia di migliaia gli “zingaracci” su cui fa comizio un ministro della Repubblica, e dove i neri stanno in cosiddetti centri di accoglienza concepiti come strutture detentive forse non per colpa esclusiva della suocera di Soumahoro, oppure a raccogliere ortaggi nelle piantagioni schiaviste forse non per responsabilità concentrata nella cerchia familiare dell’ex bracciante che si è permesso di diventare deputato, e ora è convenuto a “chiedere scusa” a reti unificate, a me pare non proprio tranquillizzante e non proprio il segno dell’equanimità simulata dal giornalismo che, figurarsi, indaga perché ci sono le notizie, non certo perché c’è un nero da bastonare.
Così come è equanime e solo rivolto alla giustizia, solo rivolto a soddisfare la giusta esigenza di informazione dei cittadini, darsi alla militanza social o al titolone sullo stupro sottolineando che il criminale è magrebino, è immigrato, è clandestino, cosa che notoriamente si ripete per ogni stupro con analoga titolazione se lo stupratore è biellese o di Comacchio. Ed è normale, in questo Paese, normalissimo, che su un illustre quotidiano si racconti degli “africani senza biglietto”, com’è normale che se lo fai notare, come ho fatto l’altro giorno durante una trasmissione televisiva, una deputata pensi bene di spiegare che certo, perché quelli, i neri, non pagano il biglietto, mentre i bianchi sì. Ed ero io ad aver detto l’enormità, e cioè che in un Paese civile non ci si lascia andare a certi spropositi: io, mica quella parlamentare che ha ripetuto con un’esattezza stupefacente la fine teoria secondo cui non è che noi siamo razzisti, sono loro che sono negri.
Non so se sia il caso di compiacersi o dolersi del fatto che alcuni abbiano ritenuto di condividere e manifestare l’impressione che le cose stiano in questo modo, e cioè che quel che è successo a Soumahoro ha molto poco a che fare con la ricerca della verità e con le purezze della missione informativa, e piuttosto denuncia la solita voglia di forca ma arricchita di un evidentissimo pregiudizio razziale e classista. A parte questo giornale, il cui spazio mi capita di usurpare nel capitale difetto del titolo di giornalista, c’è stato Paolo Mieli, che ha avuto la cortesia di riconoscere alla nostra denuncia qualche indizio di fondatezza, e poi Vittorio Feltri, forse non casualmente sprovveduto del tesserino dell’Ordine fascista dei giornalisti.
È tanto, e vale il compiacimento, perché significa che non proprio tutti i plenipotenziari dell’informazione sono rimasti inerti davanti al linciaggio. Ma è poco, e vale la doglianza, perché quelle voci contrarie non sarebbero necessarie in un Paese che va per il verso giusto, quello che lo mantiene a un livello decente di civiltà. Iuri Maria Prado
Quantomeno si prepari meglio le risposte. Soumahoro e il “diritto alla moda” della moglie: va bene il garantismo ma le sue risposte fanno sorridere. Hoara Borselli su Il Riformista il 25 Novembre 2022
Non si placa il dibattito intorno a Soumahoro, il sindacalista che, ricorderete tutti, si era presentato alla camera con gli stivali infangati per empatizzare con i lavoratori, deputato di Sinistra italiana e Europa Verde, viene ospitato nei talk show come uomo di punta. Per quale motivo? Perché la Procura ha aperto un’indagine nei confronti della moglie e della suocera ree (ovviamente il garantismo è d’obbligo, sono solo indagini) di gestire le loro due cooperative – che si occupavano di migranti – sicuramente non in modo limpido.
Questo è l’appunto che viene fatto, stanno uscendo giornalmente testimonianze da parte di questi lavoratori, un egiziano diciottenne ha rilasciato un’intervista al Corriere dove ha detto: “Stavamo veramente male, non avevamo nemmeno gli abiti per lavorare“. Sicuramente una situazione a cui Soumhaoro è chiamato a rispondere. Ieri sera si è presentato davanti alle telecamere a Piazza Pulita e Formigli ha cercato di incalzarlo, di fargli più domande possibili. C’è un fatto che ha colto un po’ l’attenzione di tutti, riguardo al fatto del lusso ostentato dalla moglie, che si presentata sul suo profilo Instagram in abiti molto lussuosi, tanto che i giornali hanno ironizzato dicendo che la Ferragni sembrava una dilettante al confronto.
Borse da 4-5mila euro, borse di Gucci, Fendi, Prada, insomma, è stato chiesto a Soumahoro: “Non pensa che questo lusso ostentato da sua moglie possa stridere con la sua immagine di lotta alla povertà?“. La risposta è stata questa: “Quello che fa mia moglie è il diritto alla moda”. Ora, noi sappiamo che c’erano diritti, quali alla salute, allo studio, al lavoro. Ora abbiamo scoperto che esiste anche il diritto alla moda. Ora, si cerca di ironizzare, non voglio mettere alla gogna una persona (c’è un’indagine in corso), vero è, però, che se Soumahoro oggi ha la possibilità di presentarsi davanti alle telecamere, parlare con la stampa per rispondere della situazione, quantomeno si prepari meglio le risposte, perché “diritto alla moda” fa piuttosto sorridere.
Hoara Borselli. Inizio la mia carriera artistica come una delle protagoniste della fortunata "soap opera" CENTOVETRINE per essere poi chiamata dal Cinema a rivestire il ruolo di protagonista nel film PANAREA. Il grande successo è arrivato con la trasmissione BALLANDO CON LE STELLE, vincendo la prima edizione. Ho proseguito partecipando alle tre edizioni successive. Da lì il ruolo da protagonista nella tournèe teatrale la febbre del sabato sera, dove ho calcato, a ritmo di "sold out", tutti i più grandi teatri italiani. A seguire sono stata chiamata come co-conduttrice e prima ballerina nel programma CASA SALEMME SHOW, quattro prime serate su Rai1. In seguito ho affiancato Fabrizio Frizzi nella conduzione della NOTTE DEGLI OSCAR, poi Massimo Giletti nella conduzione di GUARDA CHE LUNA sempre su Rai1. Poi ho condotto il Reportage di MISS ITALIA. Sono stata protagonista della fiction televisiva PROVACI ANCORA PROF, otto puntate in prima serata su Rai1 e TESTIMONIAL di importanti aziende di vari settori.
Soumahoro, "otto sacchi neri nell'immondizia": cosa c'è lì dentro? Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
C'è qualcosa che non torna nella storia di Soumahoro. Il parlamentare della sinistra è stato travolto dall'inchiesta che riguarda i suoi familiari e adesso avrebbe annunciato la sospensione da Sinistra Italiana e Verdi. Ma secondo quanto riportato dal Corriere, proprio in questi giorni sarebbe accaduto qualcosa di strano. Di fatto protagonista di questa storia nella storia è un passante che avrebbe notato qualcosa di strano davanti alla struttura gestita dai familiari di Soumahoro. A quanto pare proprio subito dopo l'esplosione dell'inchiesta sarebbero scomparsi alcuni documenti. O meglio, sarebbero stati gettati tra i rifiuti.
E proprio un passante, sempre come racconta il Corriere, avrebbe notato otto sacchi neri pieni di fascicoli e di carte che riguardano gli immigrati accolti. Subito dopo è scattata la segnalazione ai carabinieri che hanno subito sequestrato tutto. Il passante è stato insospettito da quel via vai proprio sotto le cooperative riconducibili a Maria Therese. Il comando provinciale dei carabinieri di Latina si è mosso rapidamente recuperando quei sacchi neri.
Cosa hanno da nascondere i familiari di Soumahoro e perché quella pulizia improvvisa e tempestiva? Tutte domande a cui l'inchiesta potrebbe dare delle risposte. Intanto Soumahoro si autosospeso e ha definito una "leggerezza" tutta questa storia intervenendo a PiazzaPulita da Formigli. Di certo bisognerà attendere ancora qualche settimane per avere un quadro chiaro delle indagini. Ma di certo in questo momento la suocera risulta indagata per "malversazione". Tegole su tegole che stanno distruggendo la credibilità politica di Soumahoro.
Clemente Pistilli per “la Repubblica – ed. Roma” il 26 novembre 2022.
[…] Mentre i dipendenti della Karibu e del Consorzio Aid continuavano a reclamare invano stipendi arretrati anche di due anni e nelle strutture per i minorenni provenienti dal Maghreb sarebbero mancati sia cibo che acqua, quest' anno le due coop di Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo hanno ottenuto 557mila euro dalla Regione Lazio. Altre vicende al vaglio della Procura della Repubblica di Latina.
[…] La Karibu ha ottenuto 259mila euro « per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa » e Consorzio Aid 298mila euro per i «bisogni degli ucraini per il sostegno socio-lavorativo». Una vicenda sempre più complessa. Tanto che ieri il procuratore capo Giuseppe De Falco ha ribadito che le indagini sono in corso «con riferimento a temi investigativi diversi e complessi, che concernono l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'erario, con i dipendenti e con i soggetti coinvolti »
Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 26 novembre 2022.
Nella sede della Karibu e del Consorzio Aid, guidati da Marie Therese Mukamitsindo, ormai non si vede più nessuno da giorni. Gli amministratori sono spariti. Giovedì verso le 12 compare, però, una signora bionda. È ucraina. Fa la mediatrice culturale. «Mi hanno dato appuntamento a mezzogiorno e mezzo, ma non c'è nessuno». La signora lavora qui da due mesi. «Vengo qui ogni tanto». Chi la paga? «Le cooperative. Ma a me hanno dato solo un piccolo acconto». Alla Karibu sono arrivate cifre ben più consistenti di un anticipo. Per esempio, nel 2022, le cooperative della suocera di Aboubakar Soumahoro hanno percepito 557.300,48 euro (provenienti da fondi Ue destinati a «inclusione sociale e lotta alla povertà») dalla Regione Lazio per l'accoglienza dei profughi provenienti dall'Ucraina per sfuggir dalla guerra. La determinazione dirigenziale numero G04199 del 6 aprile scorso infatti ha approvato il progetto Icarus, acronimo di «Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa», presentato dalla Karibu e finanziato per 259.000 euro. Anche il progetto Bussola (I bisogni degli ucraini e delle ucraine per il sostegno socio lavorativo) della Aid è rientrato tra quelli scelti dall'ente guidato da Nicola Zingaretti, portando a casa 298.300,48 euro. Ma questa è solo una piccola fetta di quanto incassato.
È lungo l'elenco delle «esperienze» su cui può contare la coop Karibu: ben 23 progetti finanziati tra il 2004 e il 2021 per un valore complessivo di 62.251.803 euro.
Quelli più corposi sono stati approvati dal ministero dell'Interno, (ma ne compaiono alcuni della presidenza del Consiglio dei ministri e della Regione Lazio). Come uno per l'accoglienza, i servizi per l'alloggio, la tutela socio-legale, l'aiuto psicologico, l'assistenza e l'orientamento legale. Per rendere autonomi i richiedenti protezione internazionale ospitati nei Cas, i Centri d'accoglienza straordinaria, il ministero dell'Interno ha sborsato, tramite la prefettura, 25 milioni spalmati su sei anni: dal 2013 al 2019.
Ma ce ne sono anche un paio da 15 milioni di euro (30 complessivi). Uno per l'accoglienza, l'integrazione sociale, lavorativa e culturale per lo Sprar di Sezze (Latina), della durata di 15 anni (dal 2004 al 2019). E l'altro, sempre da 15 milioni di euro, per lo Sprar di Roccagorga (Latina), anche questo della durata di 15 anni (2004-2019). Le altre operazioni che Karibu ha portato all'incasso vanno dall'insegnamento delle prassi normative per fare impresa e creare startup all'aiuto psicologico, fino all'assistenza e alla mediazione per il contrasto al fenomeno del caporalato. Ovvero il cavallo di battaglia di Aboubakar.
I dati sono contenuti in un documento del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del ministero dell'Interno, col quale la Karibu si è candidata a un ennesimo bando, finanziato dal Fondo asilo, migrazione e integrazione, elencando proprio le corpose esperienze pregresse (ma anche i partner: Anci Lazio, associazione Address, università Luiss e Osservatorio economico per lo sviluppo della cultura manageriale d'impresa).
La misura che faceva gola a Karibu era denominata Perseo (l'eroe della mitologia greca che uccise Medusa) e aveva come finalità il «potenziamento del sistema d'accoglienza». Il ministero chiedeva di sviluppare «percorsi individuali per l'autonomia socio-economica» dei richiedenti asilo. E Karibu ha presentato il suo progetto: «Orientamento all'inclusione socio lavorativa dei titolari di protezione internazionale».
Il costo? 2.135.705 euro per soli 21 mesi. Ma non basta. In una relazione depositata alla Camera dei deputati e relativa al triennio 2018-2020, vengono citati 5.080.261,63 euro andati alla Karibu per «Cas adulti». Non sappiamo se la cifra sia compresa nei 62,5 milioni di progetti indicati dalla coop nel documento inviato al Viminale. A questo tesoretto vanno aggiunti anche i 157.680 euro l'anno per tre anni provenienti dall'otto per mille Irpef, erogati tra il 2019 e il 2021 dalla presidenza del Consiglio dei ministri per il progetto «Koala», relativo all'assistenza lavorativa e abitativa ai rifugiati nella provincia di Latina. In totale alla Karibu sono andati 473.040 euro.
Intanto a fari spenti la Procura di Latina porta avanti le indagini. Ieri il procuratore Giuseppe De Falco ha diffuso un comunicato per descrivere lo stato dell'arte: «Le indagini sono in corso con riferimento a temi investigativi diversi e complessi, che concernono, in generale, l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'Erario, i rapporti con i dipendenti, i soggetti coinvolti». Altro non è dato sapere per ovvi motivi di segretezza delle indagini.
Ma anche da queste poche parole è possibile capire qualcosa in più. Innanzitutto c'è il riferimento al fascicolo aperto nel 2019 (il procedimento penale 2129/19) che riguarda «l'impiego dei fondi erogati». Se ne parlava già in una segnalazione all'Antiriciclaggio del 12 febbraio 2021. In quel momento aveva preso vigore l'indagine aperta dopo un intervento della polizia e che era partita con ipotesi di sfruttamento. Invece l'anno scorso l'indagine aveva iniziato a puntare sull'uso distorto di fondi pubblici. Per questo alcune fonti hanno riferito alla Verità e all'Ansa che l'accusa è di malversazione di erogazioni pubbliche.
Ma, ieri, fonti giudiziarie ci hanno spiegato che le investigazioni sono in corso e che la qualificazione giuridica del reato potrebbe essere cambiata rispetto alle prime ipotesi. Che cosa significa?
Che agli indagati potrebbe essere contestata anche una fattispecie diversa, ma che colpisce comportamenti simili, come la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Ma si tratta di distinzioni più adatte ai cultori del diritto. Il cuore della questione non cambia.
La novità è che è stato aperto un nuovo fascicolo per i «buffi» nei confronti del fisco (la Karibu ha segnato nel bilancio 2021 debiti tributari per 933.240 euro e altri 120.951 euro sono stati segnati come «quota scadente oltre esercizio»). A questi denari bisogna aggiungere i debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale (106.905 euro).
Gli inquirenti stanno indagando anche sui reati collegati ai rapporti con i dipendenti (si tratta probabilmente di un ulteriore procedimento), fattispecie che non concernono i mancati pagamenti, materia da risolvere con l'ispettorato del lavoro e il tribunale civile.
I «soggetti coinvolti» sono, invece, gli indagati. In un primo momento si parlava solo della Mukamitsindo (la suocera del deputato), ma a quanto risulta alla Verità gli accertamenti sono stati estesi anche agli altri due membri del cda della Karibu, ovvero a Michel Rukundo e Liliane Murekatete, entrambi figli della Mukamitsindo. Ulteriori approfondimenti riguarderebbero anche altri due loro fratelli, Aline Mutesi e Richard Mutangana.
La prima risulta presidente del consorzio Aid, mentre il secondo, ex direttore dei progetti di Karibu, ha gestito, come rivelato dalla Verità, un cospicuo flusso di denaro (segnalato all'Antiriciclaggio) con il Ruanda. Mutangana ha aperto a Kigali, in un resort, un ristorante di cucina italiana e dai conti correnti, che gestiva in Italia ,partivano fondi per la Karibu Rwa, società che si occuperebbe di organizzare safari e di noleggiare fuoristrada.
Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti Serena Riformato per “La Stampa” il 26 novembre 2022.
Diluvia sul bagnato. La vicenda di Aboubakar Soumahoro si fa ogni giorno più pesante. Sul fronte giudiziario, con la procura di Latina che sta indagando su «temi diversi e complessi» riguardo alle due cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie. Su quello politico, scaricato di fatto dai Verdi («Le sue risposte non sono sufficienti») e casus belli di una guerra interna a Sinistra Italiana, dove un gruppo di dirigenti chiede al segretario Nicola Fratoianni di «assumersi interamente la responsabilità della candidatura».
[...] Angelo Bonelli, leader dei Verdi, lo scarica: «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute». Sinistra italiana si divide. Una decina di dirigenti ha scritto una lettera chiedendo a «chi ha scelto di candidarlo, di assumere su di sé per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto».
Destinatario è il segretario Nicola Fratoianni, accusato di essere «perfettamente a conoscenza», e «da molto tempo prima della prima della candidatura», dei fatti che riguardano Soumahoro. Fratoianni, ospite di Metropolis, parla di «un'accusa infamante, che contesto. Se qualcuno mi avesse messo a parte di indicazioni di reato sarei andato in procura. Che sulla figura si Aboubakar ci fossero punti di vista diversi, dentro una storia di conflitti, questo sì, ma di questo parliamo»
La villetta di "Lady Gucci" tra le bocche cucite. Viaggio a Casal Palocco, dove Liliane ha acquistato l'immobile da 450mila euro. Francesco Curridori il 27 novembre 2022 su Il Giornale.
Abiti firmati, borse griffate e una villetta da 450mila euro. Liliane Murekatete, conosciuta anche come «Lady Gucci», è finita nei guai insieme a sua madre per la gestione poco chiara di due cooperative di migranti. E nei guai ha messo anche suo marito, Aboubakar Soumahoro, che continua a difenderla rivendicando per lei «il diritto alla moda e all'eleganza». Un diritto che la donna ostentava anche a Casal Palocco, nella periferia Sud di Roma dove ha acquistato una villetta a schiera su due piani, ben prima che il marito venisse eletto in Parlamento.
Nelle vie principali di questo quartiere residenziale in pochi sanno chi sia Soumahoro. O fingono di non saperlo per evitare le domande dei giornalisti che in questi giorni hanno preso d'assalto Casal Palocco. «Ho scoperto oggi, sfogliando i giornali, che questo deputato abita in zona», dice un edicolante della via principale del quartiere. Chi, invece, ha conosciuto bene «Lady Gucci» è uno dei vari agenti immobiliare a cui la donna si era rivolta per l'acquisto della villetta. «È una bellissima donna, garbata e molto elegante. Da buona cattolica, non mancava mai di esprimere la sua devozione a Dio», confida l'esperto che conferma l'elevato valore di quell'immobile. «Una casa, di due o tre piani, in quella zona di Casal Palocco si aggira intorno a quel prezzo», dice. L'abitazione, infatti, è una villetta a schiera situata in una strada tranquilla dove i vicini di casa non ne possono più del via vai continuo dei cronisti. «Vedo una persona di colore, ma non so chi sia», taglia corto un anziano signore. «Scusate, ma noi abitiamo qui da poco e non conosciamo nessuno», risponde una coppia che abita in un palazzo che si trova di fronte alla villetta dei Soumahoro. «Sì, abitano qui, ma non rilascio dichiarazioni perché non amo questo tiro al bersaglio anche se riguarda un parlamentare», commenta uno dei pochi vicini di casa che si ferma a parlare, rigorosamente a taccuini chiusi. Il dirimpettaio conferma, ma rivela: «Sì, sì la casa di Soumahoro è questa.
Oggi, però, non abbiamo visto nessuno. Le tapparelle sono abbassate e, secondo me, non ci sono. Avranno voluto evitare l'assalto dei giornalisti». Soumahoro, che nei giorni scorsi si è autosospeso dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana pur non essendo indagato, non risponde al telefono. Impossibile, dunque, avere una sua dichiarazione, ma d'altra parte ha già esposto la sua versione dei fatti da Corrado Formigli, lasciando perplessi anche coloro che lo hanno candidato. «Credo che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire ed è quello che noi gli abbiamo chiesto di fare. Nel merito, punto per punto, nell'interesse suo, di chi lo ha votato e della dimensione collettiva di cui fa parte», ha detto Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione», ha detto il leader dei Verdi, Angelo Bonelli. Soumahoro, l'ex sindacalista famoso per le sue lotte in difesa dei migranti e per aver esordito in Parlamento con le scarpe sporche di fango in segno di vicinanza ai più deboli, ora è costretto a difendere la sua posizione di privilegiato.
Bianca Leonardi per "il Giornale" il 26 novembre 2022.
Indagini blindate quelle sulle coop della cricca Soumahoro, al centro dell'inchiesta di Latina che vede, per adesso, come unica indagata la suocera dell'onorevole, Marie Therese Mukamitsindo. Ora spuntano però i debiti erariali - e quindi una presunta evasione fiscale - emersa dal bilancio 2020 della Karibu. Bilancio di cui ilGiornale è entrato in possesso.
Il totale ammonta a poco più di 2 milioni di euro. Tra le voci più sostanziose spiccano i debiti verso le banche, pari a circa 590mila euro, e quelli tributari che si conquistano il primo posto. Sono quasi 774mila euro, infatti, le imposte mai pagate nei confronti della tesoreria di Stato. Oltre ad altri 232mila euro di debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale.
In sintesi, quindi, la cooperativa della famiglia Soumahoro non solo non retribuiva i dipendenti, faceva vivere i migranti in ambienti che «manco i cani» - come ha affermato l'ex senatrice di Sinistra Italiana Elena Fattori - ma nemmeno pagava le tasse, né versava i contributi a quei lavoratori che da 22 mesi non vedono un euro.
Sulla questione, il procuratore Giuseppe De Falco non si sbilancia e in una nota condivisa afferma solo che «le indagini sono in corso con riferimento a temi investigativi diversi e complessi che concernono, in generale, l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'erario, i rapporti con i dipendenti e i soggetti coinvolti».
Da sottolineare, però, è che le indagini della procura di Latina nei confronti dell'associazione erano iniziate nel 2019, cioè già un anno prima del bilancio che rivela i debiti e svela una perdita consistente da parte della cooperativa. «Il risultato netto accertato dall'organo amministrativo relativo all'esercizio chiuso al 31 dicembre 2020, come anche evidente dalla lettura del bilancio, risulta essere negativo per euro 171.292 euro», scrive il revisore unico incaricato, Marco Liistro nella relazione data 21 giugno 2021.
Ed è proprio il presidente della coop, la suocera di Aboubakar Soumahoro, a giustificare - o quantomeno spiegare - il motivo di tale andamento. Marie Therese Mukamitsindo, sempre nel bilancio, non fa riferimento né agli stipendi non erogati, né ai milioni di debiti, ma punta il dito contro il Covid. «Essendo un'attività assistenziale per gli immigrati è continuata anche durante il lockdown, ma al tempo stesso gli sbarchi sul territorio nazionale sono diminuiti drasticamente», sostiene.
Meno immigrati, meno lavoro insomma. E ancora: «La perdita dell'esercizio è stata anche aggravata dal fatto che non si è potuto licenziare il personale non necessario, né tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione».
In realtà, il bilancio sottolinea che la cooperativa ha ricevuto più di 112mila euro a fondo perduto per la gestione della pandemia. Eppure lei stessa ha affermato solo pochi giorni fa in un'intervista a Repubblica di essere stata malissimo a causa dei licenziamenti che ha dovuto effettuare.
Intanto Soumahoro sostiene di aver saputo solo di alcuni «ritardi dei finanziamenti da parte degli enti», come aveva detto la moglie. Sembrerebbe proprio, però, che nel pieno della sua attività sindacale non solo sia stato «leggero» - come lui stesso ha affermato - ma non si sia reso conto di quella nave che stava affondando proprio dentro la sua casa e lo stava facendo sulla pelle di tutti coloro per cui si è battuto una vita: gli ultimi.
Soumahoro, spunta un nuovo filone dell’inchiesta: il caso dei fondi anti-caporalato. Virginia Piccolillo e Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.
Il progetto regionale, la coop della suocera e le accuse sui compensi. Fratoianni (Sinistra italiana): «Non sapevo di illeciti»
Si chiamava PerLa. Era un progetto contro il caporalato. La Karibu, gestita da lady Soumahoro e sua madre Maria Therese Mukamitsindo, era fra le cooperative che dovevano, con fondi regionali, sottrarre i migranti agli sfruttatori. Ma alla fine la suocera del deputato di Verdi e Sinistra italiana, ora autosospeso, non pagò chi aveva lavorato a quel progetto. Dovette intervenire il sindacato per un accordo. È la più paradossale delle storie che emergono dalle carte dall’inchiesta di Latina sulle malversazioni della presidente delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Una vicenda in cui benefattori e caporali si scambiano di ruolo. È scritta in un verbale di accordo firmato da Maria Therese che attesta come l’imprenditrice abbia ammesso di non aver pagato a un lavoratore le mensilità dovute per il progetto PerLa, né quelle per lavori precedenti né il Tfr.
La vittima di quella mancata retribuzione la racconta al Corriere chiedendo l’anonimato per paura di ritorsioni. «Ho lavorato al progetto PerLa come mediatore linguistico. Era bello. Aiutava chi, come me, era arrivato in Italia cercando lavoro e trovando gente che si approfittava. Io ero già alla Karibu dal 2017. Il progetto è durato altri 4 mesi. Poi è finito. Ma i soldi non me li davano. Mi dicevano che c’erano ritardi. Che mi avrebbero pagato al più presto. Ma non è mai avvenuto: mi sono rivolto al sindacato Uiltucs e dopo mesi, nel luglio scorso, siamo arrivati a un accordo. Spero sia rispettato».
Tra le vittime di mancate retribuzioni anche Aline. Che ricorda con rabbia: «Del resort in Ruanda venimmo a sapere nel 2018, quando si registrò un grave ritardo nei pagamenti. Avevo lavorato in varie strutture tra il 2015 e il 2021. Ma dall’inizio gli stipendi sono stati erogati irregolarmente. E quando saltavano non veniva dato neanche il pocket money ai migranti, creando spesso momenti di tensione». Lei ricorda il ruolo attivo, anche in questo, della moglie di Soumahoro, Liliane. «Alla fine noi dipendenti ci rivolgemmo ai sindacati, Anche la Karibu contattò l’Usb per tentare una mediazione. La nostra protesta venne messa subito a tacere. Ma il fatto che non pagassero i lavoratori era noto a tutti. Anche all’Usb». Sindacato del quale faceva parte Soumahoro, prima di passare alla Lega Braccianti e inaugurare una sede a Latina. Dove? Presso il Consorzio Aid.
Sarà la Procura di Latina a chiarire responsabilità penali dietro quel giro vorticoso giro di bandi, progetti, Cas, affitti, da oltre 60 milioni di euro. Sulle responsabilità politiche invece è bufera. Nicola Fratoianni, che mise in lista Soumahoro, respinge la richiesta dei dirigenti pugliesi del suo partito di «assumersi per intero la responsabilità politica» di quella candidatura da loro contestata. E dice: «Ci sono ancora zone d’ombra da chiarire, ma non mi pento». E la segreteria di Si aggiunge: «Chi sapeva perché non ha informato i pm?».
FdI, con il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, attacca: «Desta sconcerto e ripugnanza ciò che emerge dalle indagini sul clan Soumahoro. Un sistema di gestione dell’accoglienza che si configura, a volte, con scenari da associazione a delinquere». E per il ministro della Difesa Guido Crosetto «il tema non è Soumahoro ma le migliaia di persone sfruttate nell’ indifferenza, utilizzando sistemi “legali”, come alcune cooperative».
“Soumahoro? Fratoianni sapeva tutto”. Da Sinistra Italiana inguaiano il leader. Il Tempo il 26 novembre 2022
Elena Fattori, militante di Sinistra Italiana ed ex parlamentare, ha firmato insieme altri dieci dirigenti del partito (tra cui Silvia Prodi, nipote dell'ex premier Romano) un documento indirizzato alla leadership per la scelta delle candidature del partito dopo il caso di Aboubakar Soumahoro. Fattori ha poi rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui mette nel mirino proprio Nicola Fratoianni, numero uno di SI: “Si è scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche. Di quelle storie sulle cooperative si sapeva tutto. La dirigenza di Sinistra Italiana sapeva, li avevo avvisati io. Ho visitato la cooperativa Karibu durante un giro di centri per richiedenti asilo che ho fatto quando ero con il Movimento 5 Stelle. Non sapevo nemmeno che fosse tenuta dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita. Era sporca, fatiscente, c’era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male. Ne ho viste tante di strutture ma quella è la peggiore, in mezzo al nulla com’era”.
“Ne parlai - ammette Fattori - anche con Fratoianni. Non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D’altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico. Era appena comparso su una copertina di un settimanale come futuro leader della sinistra. Nessuno è andato a vedere quali sono le sue proposte sul caporalato, sull’accoglienza pubblica, sulle cooperative. Lo hanno cercato per la candidatura sapendo chi era”.
Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 26 novembre 2022.
Non è pentito di averlo candidato in Parlamento: Aboubakar Soumahoro era l'icona perfetta per il messaggio che l'alleanza Verdi-Si intendeva trasmettere, quello di una sinistra ecologista attenta ai migranti, agli sfruttati, agli ultimi.
Ma certo Nicola Fratoianni fatica a nascondere l'imbarazzo e il malumore provocati dall'inchiesta che ha coinvolto suocera e moglie del leader dei braccianti. Come non bastasse, due dirigenti del suo partito l'accusano pure di aver ignorato le denunce sul neodeputato arrivate dai campi del Foggiano. «Ma nessuno mi aveva mai parlato di ipotesi di reato», si difende il segretario di Si.
Onorevole, le spiegazioni di Aboubakar vi hanno convinto?
«Sino a un certo punto. Credo che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire ed è quello che noi gli abbiamo chiesto di fare. Nel merito, punto per punto, nell'interesse suo, di chi lo ha votato e della dimensione collettiva di cui fa parte».
[…] «A ridosso della campagna elettorale mi fu raccontato dalla senatrice Fattori di una sua ispezione, fatta credo nel 2019, in una cooperativa di Latina in cui erano state riscontrate situazioni non positive. Mi disse che circolavano strane voci e io le chiesi se ci fossero elementi di certezza rispetto a queste voci. Elementi che non arrivarono. Perciò decidemmo di procedere con la candidatura, avanzata da Europa verde, che poi valutammo insieme di sostenere».
[…] Due dirigenti di Sinistra italiana sostengono però di averla avvertita che anche lui poteva essere invischiato in qualcosa di torbido ed era meglio fermarsi.
«Assolutamente no, nessuno mi ha mai parlato di sfruttamento o lavoro nero, se fosse accaduto avrei posto il problema. Attorno a Soumahoro, come capita a tanti personaggi pubblici, c'erano giudizi positivi ma anche polemiche riguardo a un suo eccessivo protagonismo personale nelle lotte sui migranti. Ma, ripeto, mai nessuno mi ha posto questioni di natura penale come quelle che stanno emergendo a Latina, a carico della sua famiglia».
[…] Lo avete candidato perché era diventato un personaggio vezzeggiato dai media?
«La sua era una candidatura che aveva la forza di consolidare alcune tematiche - la lotta al caporalato, lo sfruttamento dei migranti - che per noi sono centrali. Non stiamo parlando di un partito che non se ne è mai occupato e ricorre al talent show per coprirsi su un punto sensibile per l'opinione pubblica. Io da assessore in Puglia sono stato il primo a portare l'acqua potabile in quei campi».
Si è pentito?
«No perché la scelta è stata fatta pensando che quei temi, quelle battaglie, sono essenziali per una forza come la nostra. E lo penso anche oggi. Sebbene non mi sfugga che il problema adesso è come sostenere e proteggere le lotte e le ragioni di chi quotidianamente le porta avanti dalle ripercussioni di questa vicenda. Ragioni e lotte che restano al centro della nostra iniziativa politica».
Basta l'autosospensione dal gruppo o deve dimettersi dal Parlamento?
«Autosospendersi è stato giusto, il resto dipende da lui».
Soumahoro, dirigenti di Sinistra Italiana: dubbi espressi ma Fratoianni non lo scarichi.
È quanto si legge in una nota sottoscritta da 10 componenti della direzione nazionale di Sinistra italiana sul caso del deputato Soumahoro. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022.
«Alcuni componenti pugliesi della Direzione e dell’assemblea nazionale di Sinistra italiana hanno inviato al segretario nazionale Nicola Fratoianni una nota con la quale ricordano, con dovizia di particolari, le ragioni per le quali, a tempo debito, avevano sostenuto l’inopportunità della candidatura di Aboubakar Soumahoro. Non le ripercorriamo nel dettaglio perché non intendiamo prendere parte al linciaggio mediatico in corso, che ha ormai largamente superato il merito degli addebiti politici che gli sono rivolti. Chi ha scelto di candidarlo non può oggi scaricarlo con lo stesso disinvolto cinismo che lo ha indotto ieri a sfruttarne in termini elettorali la popolarità».
E’ quanto si legge in una nota sottoscritta da 10 componenti della direzione nazionale di Sinistra italiana sul caso del deputato Soumahoro e riferendosi (senza citarlo) al segretario Fratoianni. Sono Edoardo Biancardi, Stefano Ciccone, Elena Fattori, Sandro Fucito, Claudio Grassi, Alessia Petraglia, Serena Pillozzi, Antonio Placido, Silvia Prodi, Roberto Sconciaforni.
«Chi ha scelto di candidarlo ha prodotto un immenso danno di immagine a Sinistra italiana - proseguono - a quanti si battono tutti i giorni contro la piaga del caporalato, a chi è impegnato con correttezza e generosità nel settore dell’accoglienza. È bene quindi che assuma su di sé per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto, convocando una apposita riunione della Assemblea nazionale di Sinistra italiana».
«La segreteria nazionale di Sinistra italiana non era a conoscenza di notizie che configurassero condotte illecite o di indubbia gravità a carico delle cooperative riconducibili ai familiari di Aboubakar Soumahoro prima della sua candidatura. Chi lo afferma mente e cerca di strumentalizzare a fini politici un caso che sta amareggiando ogni cittadino di sinistra, noi per primi. Per questo respingiamo categoricamente ogni strumentale illazione: lo sciacallaggio a posteriori è sempre un brutto spettacolo, e noi non abbiamo intenzione di partecipare. Chi sostiene di aver sempre saputo, dovrebbe chiedere a se stesso come mai non ha informato i cittadini o la magistratura prima delle elezioni». E' quanto si legge in una nota della segreteria nazionale di Sinistra italiana sul caso Soumahoro.
"Fratoianni credeva che lui portasse voti..." Il filosofo: "I partiti sono ormai comitati elettorali con obiettivi di brevissimo periodo". Francesco Boezi il 27 novembre 2022 su Il Giornale.
Il caso Soumahoro impone alla sinistra l'ennesima domanda sulla selezione della classe dirigente. Per il professor Massimo Cacciari, il problema è strutturale e non riguarda soltanto una parte.
L'ennesimo paladino di sinistra che viene messo in discussione. Siamo alla figurina che si sgonfia?
«Guardi, io non so se Soumahoro sia una figurina. Non ho idea di chi sia questo signore e di cosa abbia fatto. Può accadere un caso poco chiaro anche nel miglior partito del mondo, in una situazione politica perfetta. Un ragionamento politico - in nessun caso - può essere declinato su una persona o su un gruppo composto da qualche persona. C'è un ragionamento di sistema da fare, semmai».
Ossia?
«Non c'è più nessuna struttura politica organizzata, nel senso che si intendeva una volta e nel senso proprio del termine. E cioè non c'è nessuna forza politica con un processo di selezione interno che abbia una sua logica e una sua forma. I partiti ormai sono gruppi di persone che hanno un solo obiettivo: sfangarsela alle elezioni prossime venture. Stanno diventando comitati elettorali, e questo vale per tutti».
Però la destra italiana ha una storia militante divenuta vincente da poco. La sinistra non più.
«Secondo me sono soltanto impressioni. Fdi due anni fa aveva il 4%. Condizioni straordinarie hanno condotto quel partito a dov'è ora. Questi voti di adesso sono scritti sulla sabbia, perché nessuna forza politica ha una strategia di lungo periodo in grado di costruire gruppi solidi e stabili».
Che consiglio darebbe però a sinistra.
«A sinistra, a destra... Cosa vuol dire? Sono concetti evaporati. Tutte le forze inseguono i voti. E di volta in volta i partiti assumono i tratti che ritengono utili per raggiungere obiettivi di brevissimo periodo. La sinistra a cui mancano i voti del centro diventa di centro, la destra a cui mancavano i voti delle periferie diventa popolare e così via. In base a che cosa? L'utilità di brevissimo periodo, quella ottenuta mediante la modifica dell'immagine, nient'altro che l'immagine».
E questo stato di salute può interessare anche la scelta delle candidature, come con Soumahoro? Bonelli e Fratoianni sembrano pentiti...
«Ma cosa vuole che pensi Fratoianni! Fratoianni è l'ultimo esponente di uno di questi comitati elettorali, un po' Pd un po' di sinistra, che, quando ci sono le elezioni va a caccia di voti, e avrà pensato che questo personaggio gli portasse dei voti. Punto».
Considerato il quadro che descrive, cosa dobbiamo aspettarci in prospettiva?
«Dobbiamo attendere qualche mutamento radicale. Ormai è evidente che viviamo in una crisi di sistema che riguarda tutti gli assetti del nostro Stato. Anche quelli che sembravano più lontani dalla crisi come ad esempio la magistratura. Dobbiamo attenderci dei mutamenti di Stato che possono avvenire in modo governato, se i partiti capiscono in che condizione si trovano e si rapportano alla società civile in modo serio e responsabile, e riformando i propri ceti dirigenti. Oppure ci sarà qualche rottura traumatica. E questo vale per l'Italia ma anche per l'Europa».
Il caso Soumahoro. “Soumahoro candidato per superare soglia 3% e poi scaricato: la sinistra indecisa e spaccata su tutto”, parla Costa di Azione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Novembre 2022
Enrico Costa è vicepresidente di Azione, per la quale si occupa di giustizia, ed è presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera. Nei governi Renzi e Gentiloni era ministro per gli Affari regionali e si era occupato di quell’abuso del diritto che è diventato l’abuso d’ufficio.
Questo governo sembra intenzionato a cambiarlo davvero.
E sarebbe ora. Perché con la paura della firma, la pioggia di abusi d’ufficio per gli amministratori locali e la Severino che colpisce e affonda chi viene indagato, di fatto la Pubblica amministrazione ha le mani legate. E quando qualche anno fa proposi di depenalizzare questa fattispecie, venne da me un giurista che mi disse: l’abuso d’ufficio non si può aggiustare, va cancellato e basta”.
Si abbatte, non si cambia. Chi era quel giurista?
Carlo Nordio. Mi ricordo quella conversazione del 2016: ‘Il reato di abuso d’ufficio non è riformabile, va eliminato perché è un mostro giuridico’. Aveva ragione, e glielo voglio ricordare adesso che è nella condizione di farlo.
Il ministro della giustizia è un ponte tra centrodestra e Terzo polo. E sulla manovra, porterete le vostre idee a Giorgia Meloni. È un soccorso?
Nordio è un galantuomo, ha idee che sposo da sempre al 100%. Al governo, che deve tirare l’Italia fuori dalle secche, vogliamo dire che secondo noi sono praticabili alcune strade. Abbiamo preparato una manovra-ombra, una controproposta di legge di bilancio. Non per aiutare Meloni. Per aiutare l’Italia, semmai. Vogliamo provare a fare opposizione costruttiva.
Azione e Italia Viva, insieme. Vi unirete?
Azione ha approvato sabato scorso il mandato per attuare la federazione con Italia Viva e altri soggetti che ne condividono i valori. È il primo passo per arrivare ad un partito unitario che metta insieme riformisti e liberali in una struttura diversa dalle coalizioni forzate. Partiamo con l’8% ma presto vedrete che diventeremo il primo partito.
Quando il centrodestra di governo avrà deluso. Da lì verranno nuovi consensi?
Non stiamo a indovinare da dove verranno. Verranno. Perché sempre più cittadini stanchi della vecchia politica si avvicinano a noi. Qualcuno da destra, altri da sinistra. E tutti quelli che non votavano più. Le indecisioni del Pd sono parte della nostra forza, perché noi abbiamo le idee chiarissime su tutto. Loro sono indecisi e spaccati su tutto.
Lei si è battuto molto sulla presunzione di innocenza. Forse andrebbe usata anche in politica, per Aboubakar Soumahoro.
Un caso imbarazzante e rivelatorio. Il suo partito l’ha usato come testimonial per superare la soglia del 3%, ora, appena aleggia qualche ombra giudiziaria l’hanno scaricato. I processi vanno fatti nelle aule di giustizia, non sui giornali. Io penso che Soumahoro possa avere tutte le responsabilità di questo mondo ma non possano essere sentenze dei giornali, e oggi ancor più quelle dei social network, a decidere.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
DAGONOTA il 26 novembre 2022.
Ora, dopo Zoro di Propaganda che si è arrampicato sugli specchi sul caso Soumahoro citando pure papa Francesco (nome usato a sproposito e destra e a sinistra, soprattutto nelle arrampicate sugli specchi) aspettiamo fidenti Damilano: è il primo che ha lanciato Soumahoro. Dandogli pure una rubrica fissa sull’Espresso.
Su Raitre dove ogni sera fa lezioni morali ammorbando i telespettatori che aspettano "Un Posto al sole", finora non ha detto una parola sul suo eroe di carta. Né sulla copertina dell’Espresso più male invecchiata della storia. Farà ancora lo gnorri o chiederà venia?
Da liberoquotidiano.it il 26 novembre 2022.
Anche Propaganda Live scarica Aboubakar Soumahoro. Il salottino radical chic di La7, che ha contribuito a lanciare politicamente la figura del sindacalista dei braccianti immigrati nel 2018, regala uno spazio inevitabile al commento del caso della settimana, con l'inchiesta sulle coop gestite da moglie e suocera del neo-deputato di Sinistra-verdi costretto, proprio per questo, ad auto-sospendersi. E Diego Bianchi in arte Zoro non nasconde l'amarezza per il comportamento dello stesso Soumahoro, ormai ex idolo della sinistra.
Il leader dei verdi Bonelli aveva tirato in ballo proprio Propaganda e L'Espresso, che aveva dedicato al sindacalista una celebre copertina per contrapporlo a Matteo Salvini, Uomini e no, per motivare la scelta di candidare Soumahoro alla Camera. Come dire: con un pedigree mediatico cosi, che bisogno c'è di indagare sulle sue attività?
Bianchi, in qualche modo, mette le mani avanti e si scagiona: "Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…". Ricordando, per altro, che il Soumahoro che loro hanno conosciuto e "lanciato" era quello che parlava con eloquio forbito ma passionale ai migranti e dei migranti, in piazza, citando diritti e denunciando angherie e soprusi.
Poi cos'è cambiato? "Non lo stiamo scaricando - precisa Bianchi -. Ieri mi continuavano ad arrivare messaggi... Lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incaz***ti più di tutti su questa storia! Siamo inca***ti, delusi, amareggiati, non imbarazzati!". Quindi la strigliata finale: "E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong.
Ma siamo inca***ti con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate".
"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro. Il conduttore di Propaganda Live mette le mani avanti: "Non siamo imbarazzati, stiamo parlando di una persona che ha incontrato il Papa". Luca Sablone il 26 novembre 2022 su Il Giornale.
Il caso Aboubakar Soumahoro continua a mandare in tilt la sinistra. A confermare la soggezione è l'atteggiamento del fronte rosso, che nel giro di poche settimane è passato dal considerare il deputato eletto con i Verdi e Sinistra italiana il potenziale leader progressista al silenzio assordante sugli ultimi sviluppi. La vicenda è stata affrontata anche nell'ultima puntata di Propaganda Live, programma in onda su La7. Il conduttore Diego Bianchi ha usato delle attenuanti per non affossare del tutto l'amico Soumahoro.
L'imbarazzo sul caso Soumahoro
Nel corso della trasmissione Zoro ha voluto trattare il caso dell'italo-ivoriano riconoscendo che nel primo mese di attività parlamentare ha portato a casa un risultato: "È stato uno dei pochissimi che, formalmente e nei contenuti, l'opposizione l'ha fatta con la Meloni ma soprattutto sulle Ong". E ha ricordato che l'attivista era presente al porto di Catania per protestare contro la decisione del governo italiano di consentire lo sbarco solo ai migranti che si trovavano in condizioni di salute precaria.
"Deve chiarire. Noi siamo incazzati più di tutti su questa cosa. Non siamo imbarazzati, l'imbarazzo è l'ultimo dei sentimenti. Siamo incazzati, delusi, amareggiati", ha ammesso Bianchi. Che però, arrampicandosi sugli specchi, ha indicato una sorta di attenuante per non scaraventarsi completamente contro il deputato che porta il timbro di Verdi e Sinistra italiana: "Ha incontrato tutti i leader di sinistra. Vi faccio vedere quello con il leader più di sinistra di tutti". E, mostrando una foto con Papa Francesco, ha aggiunto: "Stiamo parlando di questo fenomeno, stiamo parlando di questo calibro qua".
Il "ruolo" di Propaganda Live
In molti ritengono che la bufera mediatica per certi versi abbia toccato anche Propaganda Live, visto che spesso ha raccontato le azioni del sindacalista e si è rivelata essere una vetrina da cui Soumahoro ha ottenuto visibilità politica. Zoro ha voluto chiarire che l'intento non è quello di lasciare solo l'italo-ivoriano e ha respinto al mittente le accuse di aver creato il personaggio: "Noi non lo stiamo scaricando. Non vorrei sbagliarmi: lui su questo palco è salito due o tre volte: due sicuro, sulla terza ho già qualche dubbio. Da quello che leggo sembra che tutte le settimane stesse qua".
In sostanza il conduttore del programma ritiene che non abbia nulla di cui scusarsi e che non sia la causa per cui Verdi e Sinistra italiana hanno deciso di candidare Soumahoro. Tuttavia, come ha fatto notare Maurizio Gasparri di Forza Italia, la cassa di risonanza è stata evidente: "E ora chiederai scusa per aver creato il personaggio Soumahoro a Propaganda Live? Racconterai il lusso della moglie e le mille opacità che anche la Cgil rileva? O farai finta di nulla? Un po' di vergogna no?".
Estratto dell’articolo di Giorgia Iovane per tvblog.it il 26 novembre 2022.
Propaganda Live ha ‘affrontato’ il caso Aboubakar Soumahoro nella settimana che ha visto il neo-deputato di Sinistra Italiana al centro di una bufera mediatica e politica legata ad indagini sulla condotta di una cooperativa della suocera, accusata – tra l’altro – di non pagare i propri dipendenti.
Un caso che non vede il sindacalista indagato, ma che è stato condito da foto social della moglie con beni di lusso che hanno alimentato sospetti e accuse. Una settimana di minacciate denunce e di lacrime su Instagram da parte del deputato di SI, che sono sfociate nell’intervista live a PiazzaPulita, che non ha convinto nessuno.
Neanche Diego Bianchi e la squadra di Propaganda Live che ha raccontato le azioni del sindacalista Soumahoro, che gli ha dato certo visibilità, che per qualcuno ha creato il personaggio. Ed è proprio partendo da un tweet di Gasparri in cui chiama in ‘correità’ lui e il programma che Diego Bianchi apre la pagina a lui dedicata.
Una pagina tesa, un fiume in piena. Si avverte tutto il nervosismo di Bianchi contro tutti, in fondo: contro la Destra – di cui sottolinea però la capacità di stare compatti anche di fronte a Ruby nipote di Mubarak – che però si è lasciata scappare l’occasione di scoprire gli scheletri del neodeputato; contro la Sinistra, che lo ha scaricato in un nanosecondo; in fondo sembra ce l’abbia anche un po’ con se stesso per aver sottovalutato alcuni rumors che arrivavano dalla Puglia, da Latina, dai report che sono arrivati da membri del PD, oggi impegnati a specificare che certe decisioni sono state prese da altri, all’insaputa di tutti.
Al di là della vicenda politica, si sente tutta l’amarezza e la delusione, anche il nervosismo di Bianchi nel rispondere, di fatto, al ‘convitato di pietra cui il tweet di Gasparri dà voce. La sintesi del blocco è che non ha nulla di cui scusarsi: il succo è che in tanti hanno sottovalutato le voci che arrivavano, che Soumahoro ha fatto il proprio percorso a prescindere dal programma, che lo ha ospitato in studio 2 o al massimo 3 volte e che non è colpa sua se un partito decide di candidare qualcuno perché andato a Propaganda, perché arrivata in copertina sull’Espresso di Damilano, perché ospite a Che Tempo Che Fa. Come se questi fossero i principi di garanzia sufficienti per una candidatura, come bollino di garanzia che però non è bastato.
“Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco… stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…” dice Bianchi, sottolineando che Propaganda ha una prevalente funzione di racconto, più che di investigazione. E proprio per questo ci tiene a riproporre il filmato della prima volta in cui incrociò Aboubakar, nella Piana di Gioia Tauro, all’inizio del giugno 2018, quando il Governo Conte 1 aveva appena giurato, quando il neoministro dell’Interno Salvini aveva detto che per i migranti era “finita la pacchia”, quando i braccianti protestavano per la morte di Soumayla Sacko, “ucciso da un italiano” – ricorda Zoro – perché sorpreso a rubare delle lamiere con cui costruire una capanna che non rischiasse di andare a fuoco come successo non molto tempo prima ad altri braccianti. Quel primo intervento pubblico, immortalato da Zoro sul posto, svelò un uomo dalla proprietà di linguaggio impressionante per la media nazionale -intesa come autoctona – e una presenza politica notevole. Da lì l’ospitata a Propaganda e l’attenzione dei media.
“Non lo stiamo scaricando” dice Diego Bianchi, ma quantomeno per adesso se ne prende le distanze in attesa di capire, in attesa che Abou chiarisca la propria posizione.
“Sì, ieri mi continuavano ad arrivare messaggi… lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incazzati più di tutti su questa storia! Siamo incazzati, delusi, amareggiati, non imbarazzati!” dice tutto di un fiato Bianchi in questo lungo segmento che sembra fatto con un’unica presa di fiato tante sono le cose da dire, tanto è difficile la posizione di dover dividere tra ‘personaggio’ e ‘battaglia’.
Perché se c’è un motivo per cui Bianchi è incazz@to è che questa storia, come spiega, ha offerto il fianco per colpire il vero bersaglio, ovvero quel che Soumahoro ha rappresentato e rappresenta. Perché, ricorda il conduttore, il sindacalista ha condotto battaglie sul campo, era stato proprio due settimane fa a Catania per seguire la vicenda del blocco della Geo Barents e dello sbarco selettivo che ne è seguito – al centro degli ultimi due reportage di Zoro.
“E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong […] ma siamo incazzati con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate”.
Questa storia, insomma, rischia di minare anche la credibilità del programma e immaginiamo che questa sia un’altra delle ragioni della rabbia di Bianchi e dell’intera squadra. Ecco perché si è tornati all’origine, a come tutto era iniziato, a Soumayla Sacko, il cui volto campeggia sulla maglia di Zoro. Si è partiti da quello, si è partiti dal racconto di condizioni disumane. E il racconto di Propaganda Live vuole ripartire da lì.
Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 26 novembre 2022.
Nel giugno 2018 L’Espresso, organo ufficiale dei picchiatori mediatici, fece una copertina - che riproduciamo su questa prima pagina affiancando la foto di Soumahoro, allora astro nascente della sinistra, a quella di Salvini, allora ministro degli Interni. Il titolo era: "Uomini e no", ovviamente con la parola "uomini" sotto l'immigrato vip e il "no" appiccicato al leader della Lega.
Sono passati quattro anni e siccome il tempo è galantuomo oggi possiamo sostenere con ragionevole certezza che quella copertina aveva sì un senso ma a parti inverse: a sfruttare e umiliare gli immigrati, cioè nei codici dell'Espresso il "non uomo", era Soumahoro, la sua famiglia e il suo mondo mentre "l'uomo" era Salvini che con la sua politica di controllo dei flussi ha salvato - lo dicono i numeri - centinaia di immigrati da morte certa scoraggiandone la partenza verso l'Italia e altrettanti ancora oggi ne soccorre e salva in mare.
Sapendo che L'Espresso non lo farà mai pubblichiamo noi oggi la copertina riparatrice, ma non per gioco. La questione infatti è molto seria e riguarda l'ostinazione della sinistra e dei suoi cantori a non voler riscrivere la storia, e neanche la cronaca, neppure di fronte all'evidenza dei fatti.
Per certi versi li capisco: farlo significherebbe ammettere che il comunismo è stato ed è una tragedia da qualsiasi parte uno giri la questione e che ancora oggi le sue ricette politiche e sociali - vedi quella sull'immigrazione - sono totalmente fallimentari. Soumahoro non è un corpo estraneo alla sinistra, un incidente di percorso come si dice in gergo.
No, Soumahoro con le sue ambiguità, furbizie e con la sua ipocrisia è la sinistra, magari un utile idiota della sinistra salottiera alla quale, diciamocelo con franchezza, gli immigrati fanno schifo, ma pur sempre pedina di quella scacchiera su cui poi i Saviano fanno milioni e di decine di giornalisti - tra i quali l'allora direttore de L'Espresso Marco Damilano, oggi star di Rai3 - campano alla grande. Fate pure, noi ci teniamo stretto con orgoglio "l'uomo" Matteo Salvini, che lui, a differenza di chi lo odia e prova a farlo passare per razzista, agli immigrati non ha mai torto un capello
Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.
Elena Fattori, a cosa mirate con quel documento che lei ha firmato con una decina di dirigenti di Sinistra italiana?
«Chiediamo che ci si interroghi sul futuro. Di come vengono scelte le candidature dopo il caso di Aboubakar Soumahoro».
Cosa si è sbagliato secondo lei con l'ex sindacalista ivoriano?
«Si è scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche».
Si riferisce al caso che ne è venuto fuori? Le inchieste sulle cooperative della sua famiglia?
«Appunto, bisogna riflettere su come vengono scelte le candidature: di quelle storie si sapeva tutto».
Si sapeva tutto? Che cosa? Chi sapeva?
«La dirigenza di Sinistra italiana sapeva, li avevo avvisati io».
Come faceva lei a sapere?
«Ho visitato la cooperativa Karibu durante un giro di centri per richiedenti asilo che ho fatto quando ero con i Cinque Stelle. Non sapevo nemmeno che fosse gestita dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita».
In che stato ha trovato la cooperativa?
«Era sporca, fatiscente, c'era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male. Ne ho viste tante di strutture ma quella è stata la peggiore, in mezzo al nulla com' era. Per questo segnalai la struttura anche all'allora sottosegretario all'Interno Gaetti».
Ne parlò anche con Nicola Fratoianni?
«Sì certo».
E lui?
«Non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D'altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico. Era appena comparso su una copertina di un settimanale come futuro leader della sinistra. Purtroppo nessuno è voluto entrare nel merito delle sue proposte».
Cosa intende?
«Nessuno è andato a vedere quali sono le sue proposte sul caporalato, sull'accoglienza pubblica, sulle cooperative. Lui per esempio è contrario alla legge 199 sul caporalato, io personalmente sono invece a favore. Non è un dettaglio per chi della lotta al caporalato ha fondato le sue battaglie».
Aboubakar Soumahoro si è autosospeso, voi che avete firmato il documento vorreste anche che fosse espulso?
«E a cosa serve ora? È già in Parlamento. E poi sarebbe ipocrita: lo hanno cercato per la candidatura sapendo chi era».
Pensa che si dovrebbe dimettere da deputato?
«Lui non è indagato. Sono storie che riguardano la sua famiglia. Se andassimo a vedere tutti gli scheletri nell'armadio dei parlamentari si dovrebbe dimettere mezzo Parlamento».
Lei conosce Soumahoro?
«L'ho conosciuto durante alcune battaglie che abbiamo fatto insieme contro i decreti sicurezza».
In questi giorni lo ha sentito?
«No. È da quando ho fatto la visita alla cooperativa di sua suocera che non l'ho più visto. Mi sembrava imbarazzante la situazione che si era creata. Non ho più voluto fare battaglie insieme a lui».
E con Fratoianni in questi giorni ha parlato?
«No».
Grazia Longo per “La Stampa” il 27 novembre 2022.
Un'altra tegola si abbatte sulle cooperative dell'agro pontino gestite dai familiari del deputato Aboubakar Soumahoro. Non solo non retribuivano i lavoratori né versavano i loro contributi, non solo non pagavano le tasse, ma addirittura non saldavano l'affitto delle varie case dove ospitavano i migranti adulti e quelli minorenni.
Sono decine gli appartamenti utilizzati dalle due coop Karibu e Consorzio Aid, gestiti da Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo, rispettivamente suocera, moglie e cognato di Soumahoro. E adesso emerge che molti titolari degli immobili non ricevevano il regolare pagamento dell'affitto.
Sia nel Comune di Sezze sia in quello di Latina. Proprio in quest' ultimo c'è il proprietario di una casa che aspetta ancora di ricevere 30 mila euro. Anche in questo caso, come per i 26 dipendenti in attesa dello stipendio per un totale di 400 mila euro, le persone in credito con le due coop per gli affitti si sono rivolte al sindacato Uiltucs che per primo ha denunciato le anomalie di Karibu e Aid. Le due coop hanno ricevuto in 20 anni 65 milioni di euro per il business dell'assistenza a profughi e richiedenti asilo.
Ma negli ultimi due anni hanno smesso di pagare dipendenti e fornitori. Il fenomeno si estende a macchia d'olio e ogni giorno che passa s' impone un problema nuovo.
«Alcune persone si sono già rivolte a noi per chiedere aiuto sul fronte affitti - conferma il segretario Uiltucs di Latina Gianfranco Cartisano -. Più passano le settimane e più ci rendiamo conto che oltre ai lavoratori defraudati c'è tutto un mondo del tessuto locale con problemi nei confronti delle due cooperative. Ultima, in ordine di tempo, è proprio la questione degli affitti non pagati».
Oltre ai dipendenti che reclamano fino a 22 mensilità, hanno sollecitato l'intervento della Uiltucs anche diversi minori extracomunitari che hanno segnalato difficili condizioni di vita nelle case: sono stati costretti a vivere senza acqua e senza luce e spesso non ricevevano neppure pasti regolari e vestiti. Al momento questo aspetto del maltrattamento dei minori non è oggetto di indagine della Procura di Latina che non ha ricevuto denunce in merito, ma non è escluso che gli inquirenti vogliano monitorare questo filone. Vanno invece avanti le due tranche di inchiesta in collaborazione con la guardia di finanza (la suocera del deputato eletto nelle fila di Alleanza Verdi-Sinistra è indagata per malversazione) e con i carabinieri che procedono per distruzione e occultamento di documenti contabili (al momento non ci sono indagati).
Parallelamente alla vicenda giudiziaria c'è poi la bufera politica che ha già indotto Aboubakar Soumahoro, ex sindacalista fondatore della Lega dei braccianti, ad autosospendersi dal gruppo di Alleanza Verdi-Sinistra. Ma c'è chi ne chiede le dimissioni dal Parlamento.
Come il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli di Fratelli d'Italia che incalza: «Se il sindacalista è diventato deputato in virtù delle battaglie a difesa dei braccianti neri, le dimissioni da parlamentare sarebbero il minimo. La sua autosospensione dal partito è ben poca cosa». E il ministro della Difesa Guido Crosetto su Twitter chiosa: «Il tema non è Soumahoro. Il tema sono le migliaia di persone che ogni giorno vengono sfruttate nell'assoluta indifferenza, spesso utilizzando sistemi formalmente "legali", come alcune cooperative. Una concorrenza tra poveri e derelitti, per comprimere i salari verso il basso».-
Michele Marangon per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.
Si chiamava PerLa . Era un progetto contro il caporalato. La Karibu, gestita da lady Soumahoro e sua madre Maria Therese Mukamitsindo, era fra le cooperative che dovevano, con fondi regionali, sottrarre i migranti agli sfruttatori.
Ma alla fine la suocera del deputato di Verdi e Sinistra italiana, ora autosospeso, non pagò chi aveva lavorato a quel progetto. Dovette intervenire il sindacato per un accordo.
È la più paradossale delle storie che emergono dalle carte dall'inchiesta di Latina sulle presunte malversazioni della presidente delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Una vicenda in cui benefattori e caporali si scambiano di ruolo. È scritta in un verbale di accordo firmato da Maria Therese che attesta come l'imprenditrice abbia ammesso di non aver pagato a un lavoratore le mensilità dovute per il progetto PerLa , né quelle per lavori precedenti, né il Tfr.
La vittima di quella mancata retribuzione la racconta al Corriere chiedendo l'anonimato per paura di ritorsioni. «Ho lavorato al progetto PerLa come mediatore linguistico. Era bello. Aiutava chi, come me, era arrivato in Italia cercando lavoro e trovando gente che si approfittava. Io ero già alla Karibu dal 2017. Il progetto è durato altri 4 mesi.
Poi è finito. Ma i soldi non me li davano. Mi dicevano che c'erano ritardi. Che mi avrebbero pagato al più presto. Ma non è mai avvenuto: mi sono rivolto al sindacato Uiltucs e dopo mesi, nel luglio scorso, siamo arrivati a un accordo.
Spero sia rispettato».
Tra le vittime di mancate retribuzioni anche Aline. Che ricorda con rabbia: «Del resort in Ruanda venimmo a sapere nel 2018, quando si registrò un grave ritardo nei pagamenti. Avevo lavorato in varie strutture tra il 2015 e il 2021.
Ma dall'inizio gli stipendi sono stati erogati irregolarmente. E quando saltavano non veniva dato neanche il pocket money ai migranti, creando spesso momenti di tensione».
Lei ricorda il ruolo attivo, anche in questo, della moglie di Soumahoro, Liliane. «Alla fine noi dipendenti ci rivolgemmo ai sindacati, Anche la Karibu contattò l'Usb per tentare una mediazione. La nostra protesta venne messa subito a tacere. Ma il fatto che non pagassero i lavoratori era noto a tutti. Anche all'Usb». Sindacato del quale faceva parte Soumahoro, prima di passare alla Lega Braccianti e inaugurare una sede a Latina. Dove? Presso il Consorzio Aid.
Sarà la Procura di Latina a chiarire responsabilità penali dietro quel giro vorticoso di bandi, progetti, Cas, affitti, da oltre 60 milioni di euro. Sulle responsabilità politiche invece è bufera. Nicola Fratoianni, che mise in lista Soumahoro, respinge la richiesta dei dirigenti pugliesi del suo partito di «assumersi per intero la responsabilità politica» di quella candidatura da loro contestata. E dice: «Ci sono ancora zone d'ombra da chiarire, ma non mi pento». E la segreteria di Si aggiunge: «Chi sapeva perché non ha informato i pm?». FdI, con il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, attacca: «Desta sconcerto e ripugnanza ciò che emerge dalle indagini sul clan Soumahoro. Un sistema di gestione dell'accoglienza che si configura, a volte, con scenari da associazione a delinquere». E per il ministro della Difesa Guido Crosetto «il tema non è Soumahoro ma le migliaia di persone sfruttate nell'indifferenza, utilizzando sistemi "legali", come alcune cooperative».
Da open.online il 27 novembre 2022.
«Un cortocircuito problematico». Così il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, definisce il caso Soumahoro che vede il deputato Aboubakar al centro del dibattito pubblico a seguito dell’apertura dell’inchiesta di Latina su presunte violazioni dei diritti dei lavoratori da parte di Marie Thérèse Mukamitsindo e Liliana Murekatete, rispettivamente sua suocera e sua moglie.
Così come l’esponente dei Verdi Angelo Bonelli, anche Fratoianni torna a ribadire di non pentirsi della candidatura di Soumahoro. A Mezz’ora In Più conferma che all’epoca venne avvisato, ma che di fronte alla richiesta di ulteriori spiegazioni non era stato tratteggiato alcun profilo illecito.
«Se qualcuno trova profili illeciti ha il dovere di dirlo alla procura, non c’è stato seguito e siamo andati avanti sulla candidatura», dice il segretario di SI, secondo il quale il tutto avrebbe avuto origine in questioni più politiche che giudiziarie. «C’è uno scontro politico che da anni si sviluppa in particolare nel foggiano su quel fronte ma non mi furono segnalati elementi di un profilo problematico. Quelle questioni riguardano le dinamiche politiche e non erano sufficienti per decidere di non mettere in campo una candidatura».
Bonelli: «C’è una destra che specula»
Anche Bonelli ritiene che, al momento, il caso Soumahoro sia prettamente politico. «Il 10 agosto 2022 abbiamo presentato la candidatura di Aboubakar e le liste sono state presentate il 21 agosto successivo. Se qualcuno doveva segnalare un profilo illecito poteva farlo», premette per poi specificare che nessuno aveva posto il problema.
«Era una personalità molto sostenuta dal mondo della cultura che ha fatto delle battaglie anche molto importanti, ora fare un processo ex post non è corretto: dire “potevate sapere” non è corretto perché chi sapeva doveva dirlo e non intervenire successivamente per dire “ah ma è un personaggio particolare”», spiega Bonelli. A suo dire, è fondamentale sottolineare che in tutto questo «c’è una destra che specula». E conclude dicendo: «Vivo con grande turbamento questa fase in cui c’è una questione di opportunità politica e siamo chiamati a essere estremamente rigorosi».
Da liberoquotidiano.it il 27 novembre 2022.
Don Andrea Pupilla aveva scritto a Nicola Fratoianni per sconsigliare la candidatura di Aboubakar Soumahoro. Il prete ci aveva visto lungo, dato il caso che è poi scoppiato sulla cooperativa gestita dalla moglie e dalla suocera che è finita sotto inchiesta. Il deputato non è direttamente coinvolto, ma in ogni caso la sua immagine è ormai rovinata. “È un personaggio mediatico - ha dichiarato don Andrea a Il Giorno - un grande comunicatore”.
“Però vista da qui, da San Severo - ha aggiunto - la situazione è diversa da come la descrive lui. Soumahoro non è mai andato con gli stivali nel fango, se non per farci dei video da postare sul web”. Dalla provincia di Foggia, il responsabile della Caritas locale ha svelato di aver scritto in privato a Fratoianni di stare attento: “Quando è stato candidato, ho inviato una mail all’onorevole, dicendogli che stava facendo un autogol. Ma naturalmente non mi ha risposto: evidentemente ha prevalso il racconto virtuale del leader di una nuova sinistra”.
Fratoianni ha comune difeso la sua scelta: “Non mi rimprovero di averlo candidato, non è stato un esercizio da talent show per coprire un buco su un tema di cui non ci siamo mai occupati, quello della difesa degli sfruttati. Di questi temi ci siamo occupati sempre”. Don Andrea ha però rincarato la dose: “L'attività di Soumahoro nei campi del foggiano è stata solo virtuale e tesa unicamente ad accendere fuochi polemici. La Caritas è stata attaccata, ma venire a sapere dell'inchiesta sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera mi ha amareggiato”.
Daniele Dell'orco per “Libero quotidiano” il 27 novembre 2022.
Nella psicoanalisi, quello della rimozione è il più noto e immediato meccanismo di difesa dagli effetti di un trauma. Come quello che per la sinistra da qualche giorno di nome fa Aboubakar e di cognome Soumahoro. L'onorevole Soumahoro. Dopo essere stato idolatrato per anni da un fronte compatto e straordinariamente influente fatto di autori tv, direttori di testate e segretari di partito, con l'esplosione del caso-coop gestite dalla famiglia dell'ex sindacalista dei braccianti su cui indaga la procura di Latina i suoi sponsor sono spariti più o meno tutti. Hanno rimosso.
Fratoianni e Bonelli, che gli hanno permesso di approdare in Parlamento con gli stivali di gomma, hanno accettato la sua autosospensione dal gruppo Verdi-Si (e secondo alcuni membri del partito avrebbero ignorato le varie segnalazioni arrivate negli ultimi 3 anni). Altri, come Diego Bianchi, in arte Zoro, si sono in qualche modo autoassolti.
A Propaganda Live, il programma di La7 che ha sancito l'ascesa pubblica di Soumahoro grazie al duo Bianchi-Makkox, per scagionarsi hanno chiamato in causa persino il Papa: «Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata...».
Poi, ribaltando la situazione, hanno sostenuto di essere loro le vittime, i primi traditi, quelli a cui Soumahoro deve delle spiegazioni: «Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incazzati più di tutti su questa storia! Siamo incazzati, delusi, amareggiati, non imbarazzati!».
Magari le spiegazioni bastava chiedergliele prima di eleggerlo a Papa Nero. Ma del resto, come si fa a provare imbarazzo con quella faccia tosta? Ancora più barbina la figura di Marco Damilano, il mentore di Soumahoro. Il suo silenzio è, sì, allo stesso tempo imbarazzante e imbarazzato.
A Soumahoro riservò una rubrica fissa sull'Espresso e gli dedicò la celebre prima pagina del settimanale ai tempi in cui Matteo Salvini era Ministro dell'Interno. Quell'Uomini e no che a distanza di tre anni andrebbe rovesciato di netto. Su Raitre, dove ogni sera pontifica nel suo programma Il cavallo e la torre, Damilano non ha ancora detto una parola sul caso Soumahoro, che aveva ospitato-intervistato l'ultima volta il 12 ottobre (quando disse ai giovani di «non smettere mai di sognare nonostante le cadute») e che aveva moderato il 4 novembre in un incontro all'Università La Sapienza, grazie all'invito del Collettivo Sinistra Universitaria. Per inciso, quell'incontro si tenne a pochi giorni dal sabotaggio del convegno organizzato da Azione Universitaria con ospiti Daniele Capezzone e Fabio Roscani, deputato di Fratelli d'Italia.
Perché il concetto di democrazia secondo la sinistra è sempre stato questo: può parlare solo chi dice cose che piacciono alla sinistra. Finché le dice. Poi, quando diventa imbarazzante, si rimuove e si passa alla costruzione dell'eroe successivo.
Damilano negli ultimi giorni si è dedicato alle proteste in corso in Iran, alla prima manovra finanziaria realizzata dal governo Meloni, alla guerra in Ucraina e ad interviste al governatore del Veneto Luca Zaia e alla scrittrice anch' essa frotwoman del mondo progressista Michela Murgia. Tutti temi di indiscusso valore, per quanto magari un minutino qua e là l'avrebbe potuto meritare anche la caduta del figlioccio Soumahoro.
Ma comunque, Damilano è in buona compagnia. Silenzio di tomba anche da parte di altri sponsor, da Fabio Fazio che gli spalancò le porte della prima serata a poche ore dalla gaffe in Parlamento di Giorgia Meloni che nel discorso di insediamento gli diede del "tu" a Giobbe Covatta, che con Soumahoro ha condiviso le liste elettorali. Fino all'altro immancabile, maestro di rimozione, Roberto Saviano. Troppo indaffarato a gestire il processo per diffamazione intentato dalla Meloni, ha tenuto ben nascosto qualsiasi commento sull'ex amico Soumahoro. Se non ne parli non è mai accaduto.
"Sapeva tutto", i compagni scaricano Fratoianni. E la Rai manda subito in onda la sua autodifesa. Il leader SI "indifferente alle segnalazioni". Lui e Bonelli ospiti dall'Annunziata. Massimo Malpica il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.
Delle ipotesi di reato si occupa la procura di Latina, che indagherebbe anche sui politici locali messi a busta paga dalla coop Karibu. Delle brutte figure, invece, si preoccupano un po' tutti. Il primo è stato lui, Aboubakar Soumahoro, tra videomessaggi, scuse, contrattacchi e autosospensione da Si come risultato dell'indagine alla quale lui è estraneo, ma che vede indagata sua suocera e coinvolta la coop di cui sua moglie è socia. Poi l'attenzione si è spostata sul leader di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, accusato dal suo stesso partito di essere stato «perfettamente a conoscenza, da molto tempo prima della candidatura» dei dubbi su Soumahoro, ma di aver mostrato «completa indifferenza alle notizie riferitegli». Ieri, l'ex pentastellata Elena Fattori, da febbraio 2021 in Si, torna all'attacco in un'intervista al Corriere. Accusando la leadership del suo partito per aver «scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche». E chiarendo: «Di quelle storie si sapeva tutto. La dirigenza di Si sapeva, li avevo avvisati io». Fattori aveva visitato la Karibu anni fa: «Non sapevo nemmeno che fosse gestita dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita». La struttura era «sporca, fatiscente, c'era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male», aggiunge Fattori, che per questo la segnalò all'ex sottosegretario all'Interno, Gaetti. Quest'estate, Fattori si ricordò di quella visita mentre si lavorava alle candidature. Disse tutto a Fratoianni, ma il segretario, spiega l'ex deputata, «non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D'altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico».
Fratoianni, però, nega. Proprio ieri, ospite insieme ad Angelo Bonelli di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più, ha dribblato la questione. Per Bonelli, «se qualcuno sapeva che c'erano circostanze che sconsigliavano quella candidatura avrebbe potuto dirlo», ma il suo alleato, tirato direttamente in ballo, derubrica quelle voci su Soumahoro a questione politica, non giudiziaria. «Se qualcuno trova profili illeciti ha il dovere di dirlo alla procura, non c'è stato seguito e siamo andati avanti sulla candidatura», taglia corto. Quei rumors, aggiunge, per lui erano frutto più che altro, di «uno scontro politico che da anni si sviluppa in particolare nel foggiano su quel fronte», mentre «non mi furono segnalati elementi di un profilo problematico o illecito». Insomma, nessun pentimento o mea culpa di sorta. Quanto basta a far indignare Maurizio Gasparri, che giudica «imbarazzante» che la Rai si metta a disposizione di Fratoianni e Bonelli, definiti «il gatto e la volpe» dal senatore azzurro che rimarca come nell'ospitata a Mezz'ora in più abbiano «eluso le questioni fondamentali» rispetto alla vicenda. E mentre l'Europarlamentare Massimiliano Smeriglio suggerisce creativamente di «respingere la torsione giustizialista che stritola l'anima della sinistra» come exit strategy dal pasticcio, nel mirino delle polemiche finisce anche il Pd, con un manipolo di deputati pentastellati guidati da Stefania Ascari che si domandano «come sia possibile che tutto il Pd emiliano abbia sostenuto e voluto la candidatura di Aboubakar Soumahoro quando già trapelavano eccome dubbi su tutto ciò che ruotava attorno al candidato». «C'erano già una lunga serie di accuse mosse nei suoi confronti dai braccianti», attacca Ascari, che conclude: «La responsabilità, quindi, è di chi ha proposto ai propri elettori la sua figura, senza se e senza ma».
Da Jekyll a Mr. Hyde nel ghetto dei poveri. Per uno che doveva mantenere i piedi ben saldi a terra, ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Rossella Palmieri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022
«Dal bilancio messo insieme da me e me ne venne un dubbio curioso: io ero buono o cattivo?» Nel romanzo di Svevo La coscienza di Zeno il protagonista si pone questa domanda quando assiste senza grande dolore al fallimento dell’amico-rivale Guido fino a sbagliare allegramente funerale per un eccesso di dormita proprio in quel giorno. Non sappiamo se invocare solo la letteratura, sempre in grado di dare risposte ai comportamenti umani, soprattutto a quelli più imprevedibili e assurdi, o anche la morale, la filosofia, la tragedia. Perché in tutta questa vicenda che ha ghermito Soumahoro viene da chiedersi come sia possibile credere per vero un castello di carte in cui realtà e apparenza diventano la stessa cosa come un alambicco degno del dottor Jekyll e di Mister Hyde; come sia possibile vestirsi da Babbo Natale e farsi fotografare a dare regali nel cuore di un ghetto in cui, pare, bambini non ce ne fossero affatto (almeno una buona notizia, quest’ultima). Come sia possibile sfruttare, non pagare ed essere disumani proprio con quelle persone che diceva di voler difendere dismettendo panni e stivali del buon bracciante e indulgendo a un lusso spropositato ed esibito.
Niente di male nel lusso, per carità; ognuno dei propri soldi fa ciò che vuole (se guadagnati onestamente, s’intende). Ma senza indulgere nella retorica e senza debordare in vaghe forme di classismo, sarebbe utile ricordare Chanel quando diceva che il lusso non giace nella ricchezza e nel fasto, ma nell'assenza di volgarità. Ecco, ci aspettavamo esattamente questo in una storia fatta di coop e braccianti arsi dal sole e, specularmente, di social, griffe, resort; ci aspettavamo che l’eroe in grado di non sfigurare in un romanzo post risorgimentale sapesse usare, come diceva Seneca, vasi di terracotta con la stessa dimestichezza dei vasi d’argento e facendo entrare qualcuno a casa, sono ancora le parole del filosofo latino rivolto a Lucilio, consentirgli di ammirare lui piuttosto che le suppellettili. Come in uno specchio che produce ombra e una luna oscura a metà ci appare Soumahoro nei giorni in cui l’autodifesa ha prodotto lacrime, come neanche in una tragedia di Sofocle. Ma per uno che doveva mantenere i piedi ben saldi a terra (i suoi stivali in gomma ne rappresentano una pregnante metafora) ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Del resto – è ancora il tragediografo greco a dirlo – non si può conoscere veramente la natura e il carattere di un uomo fino a che non lo si vede amministrare il potere.
Alla coop dei Soumahoro da 4 anni fondi non dovuti. Nel 2018 un decreto ingiuntivo avrebbe dovuto bloccare tutto. Ma i finanziamenti continuarono. Bianca Leonardi il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.
Oggi è nel vortice dell'inchiesta sul presunto sfruttamento di migranti. Ma la coop Karibu è stata per anni la regina del progetto Sprar. Un'iniziativa gestita dal Ministero dell'Interno che prevedeva anche l'emissione di fondi da parte degli enti locali per la lotta al caporalato. L'associazione presieduta da Marie Thérèse Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, vinse il bando nel lontano 2011 con un incarico valido fino al 2013. Subito dopo venne rinnovato per un ulteriore triennio, con la determina 22 del 27 febbraio 2014. Da quel momento la Karibu ha proseguito nell'impegno senza più presentare documentazione né partecipare a ulteriori bandi, ma solo grazie al rinnovo delle proroghe di volta in volta. Nel 2018 la protagonista, Mukamitsindo, viene addirittura premiata come «Imprenditrice immigrata dell'anno», con tanto di consegna solenne da parte dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Una nomina importante che permise alla Karibu di assumere un certo prestigio.
In realtà, però, dietro a tutto ciò si nascondevano problemi economici che andavano avanti da anni, nel totale silenzio. Proprio il 27 novembre del 2018, con il decreto ingiuntivo n.2308/18, emesso dal Tribunale di Latina, si chiedeva il pagamento di 139mila euro entro 10 giorni. Un pagamento mai avvenuto e che ha portato al pignoramento, da parte dell'ufficiale giudiziario, di tutti i crediti che l'associazione vantava con Ministero dell'Interno, Regione Lazio, Comune di Latina, Comune di Sezze e tre banche italiane. In pratica, da quel momento la Karibu non avrebbe più potuto ricevere fondi pubblici. Proprio per questo, dopo 10 anni di finanziamenti ministeriali ottenuti senza bando, nel 2019 viene scelta per i fondi anti-caporalato un'altra associazione, nonostante la Karibu, non si sa come, all'apertura delle buste avesse presentato l'offerta economica più vantaggiosa. A nulla è servito il ricorso al Tar, bocciato a causa di incongruenze.
Nonostante ciò però, si scopre dai bilanci che dal 2020 l'associazione riesce ad andare avanti grazie alla vincita di bandi comunali e ministeriali. L'ultimo, proprio lo scorso aprile ha visto entrare nelle tasche della famiglia Soumahoro - con Karibu ed Aid entrambe vincitrici - la somma di circa un milione di euro per l'assistenza ai rifugiati ucraini.
Non solo. Nonostante questo curriculum non troppo limpido, le indagini della procura di Latina iniziate nel 2019 e l'inchiesta aperta qualche settimana fa, scopriamo che ancora oggi Roccagorga, piccolo paese in provincia di Latina, continua ad ospitare centri d'accoglienza - tra cui uno dedicato ai minori - gestiti da Karibu. Il Comune è commissariato e l'amministrazione prefettizia sta controllando i conti prima di erogare i finanziamenti gestiti dal ministero. Finanziamenti che, a quanto pare, non sembrerebbero essersi mai fermati nel silenzio della sinistra e delle istituzioni. Si scopre infatti che molti esponenti del Pd hanno ricoperto cariche all'interno delle coop, come l'assessore ai servizi sociali per il Comune di Roccagorga Tommaso Ciarmatore, appunto, che dal 2009 risultava anche dipendente della Mukamitsindo. L'assessore ha poi dato l'addio proprio nel 2019. E con lui decine di operatori con contratto a tempo determinato e indeterminato già ai tempi non pagati.
Così Soumahoro voleva indagare sugli sfruttamenti. Paolo Bracalini il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.
Come primo atto da parlamentare Aboubakar Soumahoro si è subito preoccupato dei lavoratori, suo core business da sindacalista specializzato in mano d'opera immigrata, il profilo che è così piaciuto ai salotti radical televisivi (i suoi mentori Zoro, Saviano e Damilano) e alla coppia Bonelli-Fratoianni tanto da candidarlo in posizione blindata alla Camera come uomo immagine della sinistra anti-Salvini. Appena arrivato a Montecitorio il deputato con gli stivali (ma meno furbo del gatto) ha messo in opera il copione per cui era stato scritturato. E come co-firmatario (insieme a Chiara Gribaudo, deputata e membro della segreteria nazionale del Pd) ha depositato una proposta di «Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati». Un tema che Soumahoro conosce molto bene viste le condizioni di lavoro dei dipendenti delle due cooperative di famiglia, la «Karibu» e la «Consorzio Aid», gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato, sotto indagine dalla Procura di Latina e dalla guardia di Finanza per la gestione dei fondi pubblici e per verificare il reato di truffa per il mancato pagamento dei salari, così come denunciato da una trentina di lavoratori. Da tempo l'ispettorato del lavoro indagava, ma il sindacalista era distratto, convinto che la coop di famiglia fosse «virtuosa». Gli era bastato vedere un giorno sui giornali «una pagina con 70 personalità espressione della buona impresa, tra cui la Merkel, e tra quelle persone anche «la foto di mia suocera», per convincersi che fosse tutto a posto. Anche quando ha saputo che non erano stati pagati gli stipendi ai dipendenti, ha chiesto informazioni alla moglie (impegnata nel frattempo a far valere il suo «diritto alla moda e all'eleganza», come dice Soumahoro, comprando abiti e borse di lusso), che gli aveva risposto che era semplicemente dovuto al ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione che dava l'appalto: «Per me era una risposta sufficiente». Tutto ciò mentre in Parlamento chiedeva, con un atto ufficiale, di creare una commissione apposita per indagare su «condizioni di lavoro e sfruttamento» di lavoratori in Italia, cioè situazioni simili a quelle che denunciano i lavoratori delle coop della moglie e della suocera di Soumahouro. Un altro paladino dei diritti e degli ultimi finito sotto accusa per l'opposto, lo sfruttamento dei più deboli e degli immigrati. Un caso che ricorda da vicino un altro santino della sinistra accogliente, Mimmo Lucano, sindaco di Riace, assurto a modello di integrazione degli immigrati e uomo-immagine del fronte progressista (con sempre gli stessi sponsor, Saviano, giornali e programmi tv schierati a sinistra), prima di finire condannato per una lunga serie di reati a danno appunto degli ultimi («Lucano da dominus indiscusso del sodalizio - scrive il giudice nella sentenza -, ha strumentalizzato il sistema dell'accoglienza a beneficio della sua immagine politica»). I santini si rimpiazzano in fretta, caduto un Lucano è arrivato Aboubakar, che ora è in bilico e già in procinto di essere mollato dai compagni. Per ora il deputato pensa di essersela cavata con «l'autosospensione», che suona bene ma è uno stratagemma politichese per prendere tempo e per mantenere lo status quo. La «punizione» sarebbe quella di non far parte del gruppo parlamentare dei Verdi, ma di passare nel Misto. Non un grande sacrificio. Tutti i privilegi e i benefit dello status di parlamentare, a partire dallo stipendio da deputato, non vengono affatto autosospesi, ma gli restano in tasca. In attesa di far luce su quello che accadeva nelle coop di famiglia, anche senza una commissione parlamentare di inchiesta.
Da lastampa.it il 28 novembre 2022.
A Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro, sono contestati, tra gli altri, anche i reati di truffa aggravata e false fatturazioni nell'ambito della indagine dei pm di Latina sulla gestione di due cooperative. In base a quanto si apprende al momento, la donna è l'unica iscritta nel registro degli indagati.
I magistrati hanno delegato le indagini alla Guardia di Finanza che sta analizzando, dopo alcune denunce presentate dai lavoratori delle coop che lamentano il mancato pagamento degli stipendi, in che modo siano stati impiegati i fondi ricevuti negli anni dalle due strutture.
Il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Italiana nei giorni scorsi si è autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera. Un atto politico, che non ha effetti sulla sua attività da deputato. «Con la massima libertà, Aboubakar Soumahoro ci ha comunicato la decisione di autosospendersi dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra», avevano reso noto Angelo Bonelli co-portavoce Europa Verde e deputato Avs, Nicola Fratoianni segretario Sinistra Italiana e deputato Avs e Luana Zanella, presidente del gruppo parlamentare Avs. «Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni – hanno aggiunto – e del valore dell'impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi che abbiamo sempre condiviso con Aboubakar».
(LaPresse il 28 novembre 2022) Fari puntati sul caso Aboubakar Soumahoro, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra che si è autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera Marie Therese Mukamitsindo. «Il suo compagno, l'onorevole non sapeva veramente di tutte le attività che facevate, della situazione debitoria delle società, degli stipendi non pagati? Era all'oscuro di tutto?» chiede il giornalista di 'Non è l'Arena' alla moglie di Soumahoro, intercettata fuori dalla sua abitazione di Roma senza, però, ottenere risposta. Massimo Giletti in studio, nel frattempo, punta i riflettori sulla provenienza dei soldi utilizzati per l'acquisto della casa da parte della coppia, costata 360mila euro e pagata in parte in contanti e in parte attraverso un mutuo.
Alla suocera di Soumahoro soldi pure dall'Anci del Lazio. Antonella Aldrighetti il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.
Ora è indagata anche per truffa aggravata. L'incarico dai Comuni da 10 milioni di euro per l'integrazione
Dopo essere indagata per malversazione, ovvero per aver distratto sovvenzioni e finanziamenti pubblici, all'indirizzo di Marie Therese Mukamitsindo - suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, è stata notificata anche l'indagine per truffa aggravata e fatturazioni false, operata dalla cooperativa Karibu e dal consorzio Aid di cui è a capo. Chissà se, comprovate queste ulteriori malefatte, verrà chiarita anche la provenienza di circa 60 milioni di euro di fondi pubblici ricevuti per l'accoglienza degli immigrati. Fatto sta che a oggi la cooperativa Karibu è ancora titolare di un progetto attivo e in corso d'opera, su incarico dell'Anci Lazio per l'integrazione lavorativa sul territorio. Trattasi del progetto «Per.se.o.», finanziato con dal Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione) per oltre 10 milioni di euro e di cui la cooperativa della Mukamitsindo risulta essere capofila per l'intero territorio laziale. Certo nulla di più facile per attirare malcapitati migranti, speranzosi di integrarsi nel mondo del lavoro, seguire corsi di formazione, imparare l'italiano e ricevere un alloggio. Già, proprio coloro che la suocera di Soumahoro avrebbe dovuto aiutare ma che, stando alle denunce presentate e alle quali Procura di Latina e Fiamme gialle hanno dato seguito, venivano bistrattati, malpagati o letteralmente sfruttati gratis, alloggiati in residenze fatiscenti prive di luce e acqua. Eppure la fiducia in lady Mukamitsindo, malgrado più di una voce circolasse da tempo sul fatto che i migranti fossero indignati del trattamento loro riservato, continuava a produrre ovazioni dalle autorità locali e non solo.
Sarà stata anche per l'eco mediatica che ritornava spesso in merito al premio Moneygram Award ricevuto come imprenditrice immigrata dell'anno 2018 e consegnatole dall'ex presidente della Camera Laura Boldrini, sarà stato anche per il numero consistente di collaboratori italiani nelle cooperative di famiglia e dal ruolo di sindacalista di base ricoperto allora dal genero Aboubakar, fatto sta che quelle stesse imprese hanno ricoperto fino a due settimane fa un ruolo di primo piano nell'accoglienza e nei servizi ai richiedenti asilo del Lazio. Negli ultimi giorni Confcooperative ne avrebbe chiesto la cancellazione dagli elenchi regionali. Il risultato di questa istanza potrebbe indurre allo scioglimento del consorzio Aid e quindi della cooperativa Karibu. Tuttavia, collegandosi al sito web, le peculiarità per gli aiuti ai migranti rimangono in bella mostra: «promozione, su tutto il territorio regionale di azioni per l'inserimento socio-lavorativo di persone titolari di protezione internazionale attraverso il rafforzamento del capitale sociale dell'individuo e del contesto in cui vive, coordinamento tra le politiche del lavoro, dell'accoglienza e dell'integrazione». Ma si offrono pure altre attività di particolare rilevanza: una sorta di sportello per mettere in relazione domanda e offerta di lavoro con tirocini e work experience, corsi di italiano L2 per la patente di guida, alfabetizzazione finanziaria, start up di impresa e addirittura un apposito servizio di supporto per l'autonomia abitativa e co-housing sociale di cui si rivendica una collaborazione con Rete casa-amica. Indubitabile; peccato che, oltre ai sostenitori della famiglia Soumahoro, a sinistra ci siano anche voci contrastanti: l'ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris afferma con evidente sicurezza che sia Fratoianni che Bonelli sapessero delle vicende poco chiare attorno alle coop.
Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 novembre 2022.
Quanto è successo a Roccagorga, in provincia di Latina, è emblematico di un intero sistema. Qui il Comune, un piccolo Comune di 5.000 anime, riceveva centinaia di migliaia di euro per accogliere migranti. E quel tesoretto veniva trasferito alla cooperativa Karibu di Marie Therese Mukamitsindo, la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, oggi indagata per frode e reati fiscali.
Con il sindaco Carla Amici, esponente del Pd, sorella dell'ex potente sottosegretario (in tre governi, Letta-Renzi-Gentiloni) Sesa Amici, tra la signora ruandese e il municipio filava tutto liscio. Poi il ministero dell'Interno, guidato all'epoca da Matteo Salvini, mandò un alert. Un assessore, Nancy Piccaro, presidente dell'Ordine degli infermieri di Latina, non essendo in linea, scese in campo contro il candidato dell'ex primo cittadino e vinse.
Era il 28 maggio 2019. «La Amici cercava di fare entrare tutti questi migranti rinnovando affidamenti su affidamenti. Il Comune di Roccagorga ha ospitato il progetto Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per molti anni, a partire dal 2014, rinnovando l'affidamento diretto alla coop Karibu senza mai fare una gara a evidenza pubblica anche quando ormai erano in vigore le regole del Codice degli appalti, ma durante il periodo dell'amministrazione da me guidata il servizio alla coop è stato revocato il 31 dicembre 2020.
Ho preso le distanze non appena mi sono resa conto delle troppe commistioni e che tante cose non mi quadravano. Ma non è stato facile opporsi. Erano persone premiate e osannate. Marie Therese venne nominata imprenditrice dell'anno. Così ho fatto una lista civica contro quel sistema».
Come detto, dopo pochi mesi la Piccaro ha rinunciato ai soldi dello Sprar, ma la sua giunta è stata sciolta dopo la mancata approvazione del rendiconto. Un inciampo che per l'ex amministratrice potrebbe non essere casuale: «La mia giunta è caduta forse proprio perché non si sottoponeva a certi accordi, tanto che noi il rapporto con la Karibu e questo modello di accoglienza vizioso e viziato lo abbiamo interrotto.
La mancata approvazione del rendiconto è stata una manovra politica probabilmente legata anche al fatto che facevamo ostracismo contro queste e tante altre modalità di gestione della cosa pubblica. Evidentemente davamo fastidio, tant' è che il commissario ha approvato gli stessi bilanci e rendiconto che avevamo preparato noi».
Ma è vero che l'ex sindaco Amici era anche la commercialista della Karibu? «Questa voce l'ho sentita anche io, ma adesso spetterà agli inquirenti accertarlo», replica la Piccaro. A cui chiediamo se le sembrasse normale che l'assessore ai Servizi sociali, Tommaso Ciarmatore, fosse anche un dipendente della coop Karibu.
«Probabilmente non è reato, ma è quanto meno inopportuno». La Piccaro descrive la sua aspra battaglia contro il «modello Roccagorga»: «La scelta di interrompere il progetto Sprar non fu facile perché se da un lato pensavamo che accogliere soggetti fragili, in fuga da guerre o da situazioni drammatiche, fosse nostro dovere morale (anche se poi i soggetti accolti erano tutti giovani uomini), in realtà poi ci rendevamo conto che una tale gestione dell'immigrazione perpetrava in pratica uno sfruttamento di esseri umani che venivano ammucchiati in case-alloggio, con scarsi controlli e in condizioni precarie, che facevano emergere una situazione di sfruttamento della loro condizione, tanto che ricordo di aver trovato agli atti una lettera proveniente dal ministero dell'Interno, pervenuta nel gennaio 2019, che evidenziava diverse criticità emerse nelle visite di monitoraggio effettuate nel 2018».
A quanto risulta alla Verità, la missiva era datata 31 gennaio 2019 ed era stata inviata dal dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale.
L'oggetto della segnalazione era il «Progetto Sprar 2014-2016 in prosecuzione ammesso al finanziamento del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo per complessivi 40 posti categoria ordinaria».
Nel documento si minacciavano 18 punti di penalità che avrebbero potuto portare alla «revoca del finanziamento» per questi due motivi: «Mancato rispetto della percentuale di posti destinati al Sistema di protezione indicata nella domanda di contributo»; «mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati e/o mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitivi».
Una carenza, questa, che rischiava di comportare «il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata». Piccaro rimarca come una parte del paese, che è molto piccolo, «fosse diventato praticamente un ghetto»: «C'erano continue risse. Carabinieri e 118 intervenivano in modo incessante. Le condizioni in cui erano tenute quelle persone erano veramente immorali e per questo noi abbiamo interrotto il progetto».
L'ex sindaco prosegue: «Devo dire che nel 2020, quando rescindemmo la collaborazione con la Karibu e il Sistema di protezione a Roccagorga ci fu una levata di scudi contro la nostra amministrazione da parte del Pd locale, che ci accusava di insensibilità, di mancata solidarietà e finanche di razzismo, ma stranamente ora non si registrano ufficialmente posizioni di condanna da parte dei dem sulla situazione di illegalità diffusa che sta emergendo, come anche nessuna difesa dei lavoratori sia italiani che stranieri. Un atteggiamento che è indice di una doppia moralità».
Da "Striscia la Notizia" il 28 novembre 2022.
Tra i “papà” del fenomeno Aboubakar Soumahoro è ormai una corsa a scaricare l’ex sindacalista travolto dallo scandalo delle cooperative e della Lega Braccianti. Venerdì sera a Propaganda Live, il conduttore Diego Bianchi in arte Zoro ha provato a smarcarsi, facendo scaricabarile addirittura con il Papa: «Stiamo parlando di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco…».
Volutamente, però, omette che Soumahoro al Papa lo aveva presentato Marco Damilano, storico (dal 2013 al 2022) collaboratore della trasmissione di Zoro. Ricordiamo che Soumahoro è stato pure una firma del settimanale l’Espresso, diretto fino a marzo di quest’anno proprio da Damilano. Ma torniamo all’incontro: era il 1° maggio 2019, e l’allora direttore dell’Espresso aveva accompagnato Soumahoro - all’epoca dirigente sindacale della USB - dal Pontefice, per portargli in dono il libro di Aboubakar (Umanità in rivolta, Feltrinelli, 2019) e alcune copie del suo settimanale, che, guarda caso, in quel numero (a pagina 57) aveva una foto di Zoro insieme a Soumahoro. Era stata la stessa Repubblica a enfatizzare l’incontro, spiegando che l’artefice era stato proprio Damilano.
Tra l’altro, dall’immagine che avevano diffuso era stata pure tagliata fuori la sbarra d’ordinanza che separa il Papa dai coniugi Soumahoro (e dai due promoter al seguito) per far intendere che ci fosse una certa intimità. Sbarra “fantasma” che ricompare invece nelle foto che saranno mostrate questa sera in un servizio di Striscia la notizia che ricostruisce, tra le altre cose, il famoso incontro.
Insomma, dopo aver astutamente organizzato il meeting con il Papa per accrescere la popolarità “del loro” Soumahoro, ora si dà la colpa al Pontefice di aver posato con lui in una foto. Forse, in tutta questa vicenda, Aboubakar è il più innocente. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35).
Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 28 novembre 2022.
Le tre scimmiette sono due: Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, la premiata ditta che non vede, non sente, ma parla e straparla, tanto che nella loro "Mezz' ora in più", ieri su Rai3, i leader di Sinistra Italiana ed Europa Verde, pugili suonati messi alle corde da Lucia Annunziata, sono riusciti perfino a dare la colpa al Papa pur di provare a schivare i ganci del caso Soumahoro, tentativo chiaramente finito con un ko tecnico, chissà se con una scomunica.
È stato Bonelli, invero, l'autore del capolavoro, e non sarebbe giusto togliergli tale altissimo merito. Fratoianni gli ha comunque fatto da spalla, dicendo urbi et orbi - tra le altre cose - che se nel ghetto foggiano di San Severo teatro dei selfie di Aboubakar c'è l'acqua potabile il merito è suo, di quando era assessore in Puglia, e vabbè, San Nicola Fratoianni. Veniamo al Pontefice.
L'Annunziata ha fatto presente a Bonelli che il vero problema, se come sostengono i due non sapevano nulla di questa storiaccia, è proprio questo, che dovevano sapere delle ombre sul curriculum della famiglia Soumahoro. Vai Bonelli, vai, è il tuo momento.
Ed eccolo, Bonelli: «Non solo non eravamo a conoscenza noi, ma nemmeno tanti prefetti, tanti sindaci, presidenti del Consiglio (stoccata a Giuseppe Conte che era in studio poco prima, ndr), e non voglio scomodare persone che hanno un ruolo spirituale molto importante nel mondo». Bonelli scomoda il Vaticano.
Apriti cielo. Bonelli, ovviamente, non ha nominato Francesco, e però il collegamento è stato fin troppo evidente dato che è noto che due anni fa Bergoglio in occasione dell'udienza generale del primo maggio ha ricevuto Soumahoro e l'episodio è stato ricordato appena una paio di sere fa su La7 a Propaganda Live da uno degli sponsor principali del deputato con gli stivali, ossia Diego Bianchi alias Zoro, e non è stato l'unico tra i paladini della sinistra.
La giacchetta tirata al Papa, o meglio la veste del Santo Padre, è stata il punto più alto (più basso in realtà) di un climax partito al grido di «ci sono anche altri in parlamento che hanno parenti che hanno avuto problemi con la giustizia», e «noi non sapevamo nulla», e «comunque su Aboubakar non c'è alcun procedimento giudiziario», «ma la questione politica è molto forte, perché noi siamo chiamati a essere più rigorosi degli altri», ha tenuto a sottolineare Bonelli.
E dunque, domanda rivolta al "compagno" Fratoianni, come la mettiamo con tutti quelli che sostengono che su Soumahoro l'avevano avvertita (gli ultimi sono stati dieci dirigenti di Sinistra Italiana e prima ancora il segretario modenese del Pd dove l'ivoriano è stato candidato)? «Ma chi lo sapeva del business Soumahoro"!».
Se ho una segnalazione che non riguarda illeciti, questo mette in discussione una figura che aveva fatto lotte in quell'ambiente ma che dal mio punto di vista rafforzava un lavoro che stavamo facendo su un certo terreno?». Scusi, onorevole: quindi? «C'è un cortocircuito molto problematico tra ciò che interpreta una battaglia e comportamenti, scelte che possono mettere in difficoltà quella battaglia».
Prematurata la supercazzola, o scherziamo? Fratoianni riprende fiato e riattacca: «Quando il 10 agosto abbiamo presentato la candidatura di Aboubakar, se qualcuno sapeva che c'erano circostanze che sconsigliavano quella candidatura avrebbe potuto dirlo. Non mi pento della scelta, e spero che l'evoluzione della vicenda porti a una soluzione e mi preoccupo di tutelare chi in questo mondo continua a lavorare».
È una risposta indiretta a Elena Fattori, esponente di Sinistra Italiana e firmataria della lettera in cui - dicevamo- dieci dirigenti del partito hanno puntato il dito contro Fratoianni. Fattori, a mezzo stampa, ha tuonato che «è stato scelto un personaggio (Soumahoro, ndr) senza andare a vedere cosa proponesse realmente al di là delle sue comparsate mediatiche».
«Chiediamo che ci si interroghi sul futuro», ha continuato la Fattori, «su come vengono scelti i candidati: di quelle storie si sapeva tutto». Bonelli ha replicato che Soumahoro «era una personalità molto sostenuta dal mondo della cultura, che ha fatto delle battaglie anche molto importanti», e che «ora fare un processo ex post non è corretto: dire "dovevate sapere" non è corretto, perché chi sapeva, allora, doveva dirlo, e non intervenire successivamente per dire: "Ah ma è un personaggio particolare..."». Giusto: ma nel dubbio meglio dire che Aboubakar l'aveva incontrato anche il Papa, si capisce.
Marco Zonetti per vigilanzatv.it/che-tempo-che-fa-il-silenzio-di-fazio-sul-caso-soumahoro il 28 novembre 2022.
Durante tutta la scorsa settimana, giornali, notiziari e talk show hanno dedicato ampio spazio alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto indirettamente il Deputato Aboubakar Soumahoro. Il 24 novembre, Soumahoro si è infatti autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra in seguito a presunte irregolarità amministrative che sarebbero avvenute nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla compagna dell'attivista e sindacalista ivoriano, e all'avvio in merito di indagini giudiziarie da parte della Procura di Latina.
Occorre ribadire che Soumahoro, dichiaratosi del tutto estraneo alla suddetta vicenda, al momento attuale non risulta indagato.
A margine del dibattito sulle presunte illiceità di cui sopra, un certo scalpore nell'opinione pubblica è stato suscitato dalle fotografie pubblicate su Instagram dalla compagna di Soumahoro, Liliane Murekatete. Scatti che la ritraggono paludata in abiti firmati e onusta di accessori di lusso. Contrasto piuttosto stridente con l'immagine del marito presentatosi per la prima volta in Parlamento con gli stivali "che hanno calpestato il fango della miseria... gli stivali della lotta ... per rappresentare sofferenze, desideri, speranze”.
E contrasto altrettanto stridente rispetto alle accuse delle quali Liliane Murekatete è chiamata a rispondere, ovvero le presunte malversazioni di erogazioni pubbliche e le - sempre presunte - condizioni "malsane" in cui sarebbero stati costretti a vivere i migranti di cui si occupavano le coop gestite dalla donna e dalla madre. Migranti lasciati, secondo alcune testimonianze, senza acqua né cibo per giorni. Tutto da dimostrare, ovviamente, ma tant'è.
Le foto griffatissime di Murekatete, sulle quali si sono gettati con avidità giornali e talk show, hanno indotto il marito a difenderla pubblicamente a Piazza Pulita, rivendicandone il "diritto all'eleganza" e "il diritto alla moda", a suo dire espressioni di libertà. Inutile dire che tali giustificazioni non hanno convinto nessuno e che, anzi, hanno attirato ulteriori strali su Soumahoro e sulla Sinistra in generale.
Sinistra che aveva fatto dell'attivista e sindacalista ivoriano uno dei suoi beniamini nonché simbolo di futura rinascita, tanto da considerarlo perfino un papabile candidato alla segreteria del Partito Democratico, prima che si presentasse alle elezioni nelle file di Alleanza Verdi e Sinistra - i cui dirigenti in questi giorni lo hanno prontamente scaricato. Questo per sottolineare quanto la bufera che ha investito Aboubakar Soumahoro si ripercuota negativamente anche su tutta la Sinistra italiana, già in crisi profonda dopo la sconfitta alle urne.
E dire che, neppure un mese fa, egli veniva celebrato come baluardo di coraggio contro l'arroganza del "signor Presidente del Consiglio Giorgia Meloni" che in Parlamento aveva osato apostrofarlo con il "tu" sbagliandone pure il nome di battesimo. Soumahoro l'aveva immediatamente rimbrottata ricordandole che era tenuta a dargli del lei, assurgendo così a idolo incontrastato dell'Opposizione e della possibile rivalsa contro lo strapotere della Destra.
Su tali basi il neo Deputato era stato invitato pochissimi giorni dopo, il 30 ottobre 2022, su Rai3 a Che tempo che fa nel salotto domenicale di Fabio Fazio. Tra gli applausi scroscianti del pubblico, Soumahoro aveva ribadito che la Meloni poteva chiamarlo "dottore" visto che è laureato, e si era visto salutare dal conduttore ligure come una sorta di faro di speranza per il futuro della politica italiana. Incredibile come la situazione sia radicalmente cambiata neanche un mese più tardi.
E ieri sera nel salottino perbene di Rai3, dopo una settimana di aspre polemiche che riguardavano l'ospite celebrato solo qualche puntata fa, era del tutto lecito aspettarsi che Fazio - nello spazio in cui ospita giornalisti e commentatori politici a discettare degli argomenti chiave dell'attualità - spendesse qualche parola sulla vicenda giudiziaria che ha investito moglie e suocera di Soumahoro, come hanno fatto praticamente tutti i suoi colleghi conduttori di talk show. E invece nulla.
Forse Luciana Littizzetto, sempre pronta a infierire sulle derive "social "di politici e personaggi pubblici, ha ironizzato sulle discusse foto ultragriffate di Liliane Murekatete Soumahoro, ribattezzata malignamente in rete "la regina d'Africa"? Nulla anche in questo caso. Fosse successo a un personaggio legato alla Destra lo avrebbe fatto? Non possiamo esserne sicuri ma potremmo quasi scommettere di sì.
In compenso Che tempo che fa ha tributato il solito obolo settimanale alla concorrenza con l'immancabile citazione di Maria De Filippi, e ha regalato al pubblico che paga il canone Rai la promozione del film Improvvisamente Natale con Diego Abatantuono, Nino Frassica e il Mago Forest, disponibile in esclusiva su Amazon Prime Video dal prossimo 1 dicembre. Su questo, Fazio non delude mai.
Virginia Piccolillo e Michele Marangon per corriere.it il 29 novembre 2022.
«Si è vero. Non gli abbiamo fatto il contratto e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà». Marie Therese Mukamatsindo ha ammesso tutte le accuse che le aveva rivolto Youssef Kadmiri, ingegnere 42enne marocchino che al Corriere ha raccontato: «In due anni sono stato pagato solo due volte».
Di fronte alla commissione dell’ispettorato del lavoro di Latina, la suocera di Aboubakar Soumahoro è giunta a un accordo. «Adesso spero che mi paghi» dice Kadmiri all’uscita. «È andata avanti sempre con scuse, sempre dicendo che aveva i soldi bloccati e non poteva pagare, anche oggi lo ha fatto. Però alla fine ha firmato l’accordo. Quindi spero che adesso tutto finisca».
Molto amareggiato per le rivelazioni riportare dai media sui milioni di euro di fondi presi dalle cooperative Consorzio Aid e Karibu gestite all’epoca da Maria Therese e sua figlia Liliane Murekatete, dice: «Lo sapevamo. Lo sapevano tutti. Solo il sindacalista della Uiltucs ci ha ascoltato. Anche Soumahoro lo sapeva. Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo, vestiti usati ed erano costretti a lavorare fuori per comprarsi quello di cui avevano bisogno perché gli toglievano anche il pocket money e quindi non andavano a scuola».
All’ispettorato del Lavoro di Latina, Maria Therese Mukamistindo si è presentata prestissimo sfuggendo alle domande dei cronisti. Oltre a quella di Youssef Kadmiri, la suocera di Soumahoro è chiamata a sanare la posizione altri due operatori che hanno lavorato per le cooperative Karibu e Consorzio Aid e non sono stati pagati regolarmente. Stefania Di Ruocco, era in forze alla Karibu dal 2016.
Per lei è stata definita la somma di oltre 21mila euro comprensive di Tfr. Da quasi due anni non aveva ricevuto nulla: da gennaio a dicembre 2021 e poi da gennaio 2022 sino ad ottobre di quest’anno. La speranza è che Karibu rispetti il piano di rientro stabilito in sede di accordo. Con lei a chiedere di rispettare il diritto alla paga Mohamed El Motaraji.
Le tre vertenze affrontate stamane sono solo una piccola parte. Secondo la stima di Gianfranco Cartisano di Uiltucs ammonta almeno a 400 mila euro il tesoretto di somme sottratte dalle cooperative gestiste da Mukamitsindo alla retribuzione regolare dei lavoratori, in gran parte migranti stranieri. Soumahoro aveva dichiarato nel video, in lacrime, che se fossero state accertate le accuse sarebbe stato dalla parte loro.
Estratto dell’articolo di Michele Marangon per corriere.it il 29 novembre 2022.
[…] La rete di collaborazione delle due cooperative riconducibili a Mukamitsindo nei vari comuni pontini, ha portato negli anni a consolidarsi del rapporto con la politica: assunzioni e consulenze elargite a chi aveva un ruolo di amministratore pubblico rappresentano un filone della storia, senza alcun rilievo nelle indagini ma utile, per ora, ad arricchire il complesso sistema delle cooperative.
Episodio certo è, ad esempio, l’assunzione di un ex assessore comunale a Roccagorga, Tommaso Ciarmatore. L’uomo era stato assunto quando il comune era a guida Pd. Una vicenda che potrebbe non essere isolata e che da Roccagorga (paese di 4mila anime che interruppe nel 2020 il rapporto con Karibu), potrebbe estendersi ad altre realtà.
Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 29 novembre 2022.
Nel Pd, che finora tace sulla vicenda dei finanziamenti senza gare alle cooperative di lady Soumahoro, qualcuno già nel 2015 aveva sollevato dubbi e richiesto chiarimenti, scontrandosi con un altro pezzo di partito.
Lo scenario è rappresentato dal botta e risposta tra i due consiglieri dem Fabiola Pizzulli e Francesco Scacchetti e Carla Amici, l'allora sindaca di Roccagorga, il centro di quattromila anime in provincia di Latina, uno degli epicentri dello scandalo, insieme a Sezze, dove ha sede la cooperativa della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo.
«Gentile sindaco - scrivono Scacchetti e Pizzulli - apprendiamo dagli organi di stampa che nell'ambito di specifiche direttive del ministero dell'Interno è stato approvato il piano di accoglienza Sprar per il triennio 2014- 2016: per la provincia di Latina si riconosce al comune di Roccagorga il finanziamento più importante, con 327mila euro l'anno».
Alla luce delle ultime vicende « che hanno sollevato il sistema di lucro con i fondi per la gestione dei migranti - aggiungono - chiediamo l'elenco di tutti i trasferimenti al Comune di Roccagorga e di conseguenza alla cooperativa Karibù». È il 15 gennaio 2015 quando i due consiglieri del Pd presentano l'interrogazione scritta alla sindaca Amici, sollevando dubbi sui finanziamenti erogati alla Karibù.
Perché a Roccagorga, come è emerso successivamente, avevano lavorato con la Karibù anche pubblici amministratori. E ad affittare gli immobili nei quali ospitare i migranti, erano stati pure funzionari comunali. […]
Caso Soumahoro, sul ghetto di San Severo regna l'omertà. Le autorità negano di conoscere il politico che organizzò la Lega braccianti. Bianca Leonardi il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.
Silenzio, omertà e indifferenza: questo è ciò che abbiamo trovato a Foggia riguardo la tremenda situazione del Gran Ghetto di Rignano a Torretta Antonacci. Ettari di terreno occupati da baracche dove vivono circa 2500 persone, con solo una piccola parte - la foresteria, dove sono presenti i container - gestita ora dall'associazione Anolf che cerca di fare il possibile in una parte di mondo dimenticata da tutti.
«Chi è Soumahoro?», ci hanno risposto esponenti delle autorità foggiane alla nostra domanda su eventuali interventi, passati e presenti. Perché se è vero che solo adesso l'Onorevole è nel ciclone sul fronte dell'inchiesta sulle coop di famiglia, è anche vero che la situazione a Foggia - dove è invece coinvolto personalmente almeno sul piano politico - va avanti da anni nel silenzio di tutti.
All'inizio della strada che porta alla baraccopoli, in località San Severo, sono presenti infatti costantemente due pattuglie della polizia che però non intervengono direttamente nel ghetto e glissano, senza darci nessuna risposta precisa su di chi è competenza il controllo di quella impenetrabile zona autogestita.
L'operato delle due volanti sembrerebbe limitarsi nell'allontanamento di eventuali turisti o curiosi, lasciando il ghetto lontano da sguardi indiscreti. È noto da sempre che all'interno di quella realtà lo scontro tra «clan», guidati da sindacati e associazioni, sia al centro dei numerosi reati e traffici illeciti. Insieme alla Lega Braccianti opera infatti Usb, che ha visto nascere Soumahoro per poi dividersi quando l'ora deputato ha dato vita, nel 2020, alla sua associazione. «Lega Braccianti e Usb sono i caporali qui. Gli uomini di Soumahoro insieme a quelli del sindacato ogni mattina ci chiedono i soldi per portarci a lavoro», raccontano i braccianti. «Lo chiamano taxi e se non paghi non lavori», spiega un altro bracciante. Il business dietro a questa pratica - che caporalato altro non è - sembrerebbe infatti portare nelle tasche dei gruppi ingenti somme. I «taxi» di cui parlano i braccianti sono semplicemente macchine che «operano per conto di Usb e degli uomini di Soumahoro» nel trasporto dei lavoratori, portandoli «dal padrone bianco». La cifra chiesta si aggira intorno ai 5 euro per ogni bracciante, ogni giorno.
Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi - e documentato - le centinaia di macchine presenti nel ghetto, «la maggior parte, se non tutte, rubate» - ci spiegano dall'associazione - e tutte senza assicurazione, che trasportano fino a 6 braccianti. «Sono mesi che Soumahoro ci ha promesso un pullman per portarci a lavoro ma non è mai arrivato e i suoi uomini continuano a chiederci soldi», ci racconta un lavoratore che ammette di non avere ogni giorno i soldi necessari e, di conseguenza, non poter lavorare.
Su questa situazione, come su molte altre riportate dai braccianti, come il giro di prostituzione gestito dalla «donna, tra le pochissime presenti del ghetto, fedelissima a Soumahoro» - ci spiega un ex affezionato dell'Onorevole - le risposte da parte dei piani alti sembrerebbero quasi inesistenti. Le segnalazioni, come le molte denunce fatte, sembrerebbero ferme e non approfondite. L'ultima operazione, racconta la Procura Foggia, risulta infatti quella che ha visto arrestare un solo caporale dopo due anni di indagini.
Soumahoro, quegli intrecci con il Pd. Gli amministratori dem lavoravano per la Karibu. Dario Martini su Il Tempo il 30 novembre 2022
I politici del Pd della provincia di Latina conoscevano bene la coop Karibu di Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro. Rapporti di «antica» data, che risalgono a quando la cooperativa dedita all'accoglienza dei migranti ha iniziato la sua attività, ormai due decenni fa. Oggi la società che fa capo alla madre della consorte del deputato di Verdi e Sinistra è al centro delle polemiche per gli stipendi non pagati, per l'utilizzo dei fondi pubblici e per le carenze igienico-sanitarie in cui erano costretti a vivere i profughi. Mukamitsindo è indagata per malversazione, false fatturazioni e truffa aggravata.
Ora che lo scandalo è scoppiato, è possibile documentare casi di politici che, prima di occuparsi dell'amministrazione pubblica, hanno lavorato per conto della coop della suocera di Soumahoro in qualità di commercialisti, dal momento che erano loro stessi a presentare i bilanci. Karibu nel corso degli anni si è aggiudicata molti affidamenti nell'ambito dell'accoglienza, sia a Sezze, dal 2001 al 2018, che a Priverno, dal 2014 al 2016. Basti pensare che nella sola Sezze si è aggiudicata circa 5,5 milioni di euro. Partiamo proprio da questo Comune, dove la Karibu ha vinto il primo progetto Sprar nel 2001. Da allora ha continuato a ricevere fondi, tra proroghe e nuovi bandi, per 18 anni, fino al 2019. In alcuni casi con semplice determine, in altri attraverso gare pubbliche. Lo Sprar è il «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati», il servizio del Viminale per i progetti di accoglienza, di assistenza e di integrazione dei richiedenti asilo a livello locale. Nei suoi primi anni di attività, la cooperativa di cui è amministratrice la suocera di Soumahoro, si è affidata alla consulenza di un commercialista, Sergio Di Raimo, che ha presentato i bilanci di Karibu dal 2004 al 2006. Di Raimo è tutt' altro che sconosciuto alla politica locale. È stato consigliere comunale di Sezze nel 2003, con una lista civica, quando il Pd non era ancora nato.
Poi, nel 2007, è stato assessore al Bilancio nella giunta Campoli. Nel 2012, primo degli eletti, è andato a presiedere il consiglio Comunale, fino al 2017, quando è diventato sindaco di Sezze con una giunta di centrosinistra. Sfiduciato nel 2021, si è ricandidato nell'ottobre dello stesso anno, ma è stato battuto da Lidano Lucidi. Attorno al 2015 la Karibu si è aggiudicata anche la gestione del Cas, il Centro di accoglienza straordinaria, sempre a Sezze. A difendere la regolarità degli affidamenti in questo settore è l'ex sindaco Campoli, che alcuni giorni fa ha pubblicato un lungo post con cui ha ricordato che la comunità di Sezze «in venti anni ha accolto centinaia di donne sole e di bambini, nella massima trasparenza amministrativa e senza che mai alcun dipendente o fornitore non venisse pagato o non venisse rispettata la dignità di queste persone, almeno per il progetto gestito dal Comune, che nasce nel 2001 con i protocolli d'intesa forniti direttamente dal ministero dell'Interno e in cui la cooperativa Karibu veniva indicata come ente gestore. Questa modalità - continua Campoli - è andata avanti fino al 2008 (tra l'altro trovando d'accordo un'amministrazione di centrodestra per quattro anni) fino a quando fui io a decidere di indire una gara pubblica per selezionare un partner per la gestione di questo provetto. Karibu vinse legittimamente e mantenne il servizio fino al 2017».
A poca distanza da Sezze si trova Priverno, l'altro comune pontino dove la Karibu ha svolto per anni la sua attività. Dal 2014 al 2016 si è aggiudicata 650mila euro dal Comune: 172mila nel 2014, 187mila nel 2015, 187mila nel 2016, e altri 103mila per accogliere 15 migranti aggiuntivi oltre a quelli già previsti. Questi affidamenti sono stati decisi nell'ottobre 2013 dalla giunta Delogu. Tutte gare con affidamento diretto. Come si legge nella delibera 45 del 2014, è stata individuata «nella cooperativa Karibu di Sezze il soggetto del terzo settore avente le caratteristiche necessarie per la progettazione e la gestione del servizio di accoglienza "integrata" a favore dei richiedenti asilo e/o dei rifugiati, in linea con il progetto Sprar, in quanto soggetto che gestisce analoghi servizi nel distretto dei Monti Lepini». Il vicesindaco di allora era Anna Maria Bilancia, attuale primo cittadino di Priverno.
Tra l'altro, negli anni 2013-2015, tra i consiglieri di maggioranza figurava Enrica Onorati, assessore comunale alle Attività produttive nel 2016 e attuale assessore regionale all'Agricoltura. In queste amministrazioni figurava anche Domenico Stirpe, già assessore nelle giunte Bilancia (2016-2021) e Delogu (2015), che ha ricoperto incarichi pure sotto Mario Renzi, sindaco Pds dal 1993 al 2003. Stirpe, come Di Raimo, ha lavorato come commercialista per la Karibu, presentando il bilancio del 2007. L'anno dopo, la coop di Mukamitsindo ha cambiato commercialista, e si è affidata a Tobia Tommasi, che ha presentato il rendiconto nel 2008. Tommasi è l'attuale assessore al Bilancio di Priverno ed è stato candidato consigliere alle comunali per Delogu sindaco nel 2013. Nel 2019 ha ricoperto anche l'incarico di revisore contabile per il progetto Sprar del Comune.
Intanto, si infiamma lo scontro in Regione Lazio. Il capogruppo della Lega, Angelo Tripodi, fa notare che «tra stipendi non pagati, lavoro in nero, condizioni inumane nei centri di accoglienza», si registra «il silenzio imbarazzato» del governatore dimissionario Nicola Zingaretti, del candidato alla presidenza Alessio D'Amato e dell'assessore all'Agricoltura Enrica Onorati, la stessa che si è fatta le ossa nella politica di Priverno, dove la coop Karibu incassava centinaia di migliaia di euro.
Virginia Piccolillo per corriere.it il 30 novembre 2022.
«Non sono Lady Gucci. Non mi farò diffamare. Porto tutti in Tribunale». Dopo lunghi giorni di silenzio Liliane Murekatete, compagna del deputato Abobakar Soumahoro, è sbottata contro i media proprio mentre gli ispettori del ministero delle Imprese e del Made in Italy chiedevano lo scioglimento del Consorzio Aid, gestito dalla «suocera di Soumahoro per "irregolarità insanabili"».
«Mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking» ha proseguito Liliane in uno sfogo all’Adnkronos, anticipando di aver dato mandato all’avvocato di querelare chi ha avuto atteggiamenti persecutori nei suoi confronti. Liliane non entra nel merito delle accuse di malversazione e truffa aggravata rivolte a sua madre Marie Terese Mukamitsindo nella gestione delle cooperative Consorzio Aid e Karibu di cui lei è stata consigliere fino allo scorso settembre.
Precisa che «peraltro sono in aspettativa dall'aprile 2022» e «sono in attesa della corresponsione degli arretrati». E ovviamente il sottotesto della narrazione esclude a priori l'ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa diventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali».
E aggiunge: «Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno».
Il silenzio di Marie Therese Mukamitsindo: «Non rilascio dichiarazioni» La Guardia di Finanza, a cui i magistrati hanno affidato le indagini, da mesi è al lavoro per scandagliare le voci di bilancio, flussi di finanziamenti e uscite di denaro per capire se, in primo luogo, i soldi che dovevano essere destinati ai lavoratori, siano stati dirottati altrove - Corriere Tv
Il silenzio di Marie Therese Mukamitsindo: «Non rilascio dichiarazioni»
Respinge il nomignolo di Lady Gucci e aggiunge: «La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata».
Perché, dice, «la gran parte delle foto» risale «al 2014/15», ovvero «quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno». Secondo Murekatete «il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la "cooperativa della moglie di Soumahoro" (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o "la cooperativa della famiglia di Soumahoro" che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell'Autodafé».
Liliane difende il compagno che si è auto sospeso dall’incarico di parlamentare: «Aboubakar - è stato messo in croce per quelle foto perché non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto».
Liliane si scaglia anche contro le «insinuazioni» e i «gratuiti sospetti» sull'acquisto della casa di Casal Palocco.«Che permeano il ragionamento socioculturale di molti articoli malevoli: la Murekatete ha certamente acquistato la casa con i soldi della cooperativa! E invece no, il prezzo non ricompreso nella somma erogata grazie al mutuo è di provenienza lecita», spiega: «E il paradosso è che la colpevolizzazione è arrivata ad un grado di intensità tale da pretendere che io debba spiegare la provenienza delle mie risorse economiche per soddisfare la curiosità pubblica».
E spiegando che se l'autorità giudiziaria glielo chiederà, non avrà problemi a dimostrare la liceità dell'acquisto, respinge «culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche». La misura, dice «è colma».
«Io Lady Gucci? Basta, porto in Tribunale chi mi diffama». Il j'accuse di Murekatete, compagna di Aboubakar Soumahoro: "Dalla stampa un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza". Il Dubbio il 30 novembre 2022
«Adesso basta, porto in tribunale chi mi ha diffamato». È un fiume in piena Liliane Murekatete, compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, finita nella bufera dopo l’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre Marie Therese Mukamitsindo.
Murekatete decide di parlare all’Adnkronos e punta il dito contro il sistema mediatico, lamentando un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti da parte della stampa. «Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno», afferma Liliane, che precisa di non ricoprire più alcun ruolo all’interno della Karibu: «Il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la "cooperativa della moglie di Soumahoro" (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o "la cooperativa della famiglia di Soumahoro" che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell’Autodafé».
A Murekatete non sono stati perdonati i selfie in cui compare con abiti e borse firmate: foto che hanno spinto i suoi detrattori a coniare per lei il soprannome « Lady Gucci». Ma la compagna di Soumahoro non ci sta: «La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata», si sfoga Murekatete con l’Adnkronos, sottolineando come «la gran parte delle foto» risalga «al 2014/15», ovvero «quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno».
Un vero e proprio tornado mediatico ha investito la famiglia Soumahoro, portando Aboubakar ad autosospendersi dal partito con il quale è stato eletto in Parlamento alle ultime elezioni politiche, l’Alleanza Verdi Sinistra: «Aboubakar – dice Liliane – è stato messo in croce per quelle foto perché non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto». E per quanto riguarda il pagamento degli stipendi ai dipendenti, rimarca la compagna di Soumahoro, «si sorvola sul fatto che anch’io (che peraltro sono in aspettativa dall’aprile 2022) sono in attesa della corresponsione degli arretrati. E ovviamente – insiste – il sottotesto della narrazione esclude a priori l’ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa di ventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali».
"Diffamata, ai limiti dello stalking". Soumahoro, la moglie Liliane Murekatete contro gogna razzista: "Lady Gucci? Fa male pensare a donna africana benestante". Redazione su Il Riformista il 30 Novembre 2022.
Ha aspettato e incassato senza dire nulla. E’ finita nel tritacarne mediatico e politico che ha massacrato il marito, e neo deputato, Aboubakar Soumahoro per una inchiesta che è ancora nella fase di indagini preliminari. Dopo settimane di silenzi, Liliane Murekatete, 45 anni, parla e non le manda a dire. Annuncia di portare "in tribunale chi mi ha diffamato" e offre la propria versione dei fatti su una vicenda, quella dell’inchiesta della procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre Marie Therese Mukamitsindo, 68 anni, che ha scatenato giornali, televisioni e politici, quasi in estasi nel massacrare il riscatto dell’ex sindacalista candidato e scaricato da una Sinistra "radical chic e con la puzza sotto il naso".
In una intervista all’AdnKronos, Liliane non ci sta e reagisce alla gogna e all’appellativo di "Lady Gucci", coniato dai suoi detrattori per alcune foto pubblicate con indosso abiti, accessori e borse firmate: "La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica ‘griffata’ e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata" sottolinea prima di chiarire che "la gran parte delle foto" risale "al 2014/15", ovvero "quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno".
In sintesi, così come sottolineato più volte dal Riformista in queste settimane, Soumahoro e la sua famiglia sono stati massacrati perché "negri", perché "vittime del razzismo della sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo". La stessa moglie dell’ex sindacalista ricorda proprio come "il sottotesto della narrazione esclude a priori l’ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa diventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali".
Altro che presunzione di innocenza in una inchiesta dove il deputato Soumahoro non è indagato. "Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno", afferma Liliane, che precisa di non ricoprire più alcun ruolo all’interno della Karibu.
"Il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la ‘cooperativa della moglie di Soumahoro’ (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o ‘la cooperativa della famiglia di Soumahoro’ che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell’Autodafé".
Soumahoro, che la scorsa settimana nel corso di Piazzapulita su La7, aveva rivendicato "il diritto all’eleganza e alla moda" perché "è libertà, la moda non è né bianca né nera", è stato "messo in croce per quelle foto perché – spiega Liliane -non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto".
Sugli stipendi non pagati ai lavoratori della Coop, la moglie di Soumahoro rilancia: "Si sorvola sul fatto che anch’io (che peraltro sono in aspettativa dall’aprile 2022) sono in attesa della corresponsione degli arretrati". Infine è chiamata anche a fare chiarezza sulla casa comprata a Casal Palocco dopo "insinuazioni" e i "gratuiti sospetti che permeano il ragionamento socioculturale di molti articoli malevoli: la Murekatete ha certamente acquistato la casa con i soldi della cooperativa! E invece no, il prezzo non ricompreso nella somma erogata grazie al mutuo è di provenienza lecita", spiega: "E il paradosso è che la colpevolizzazione è arrivata ad un grado di intensità tale da pretendere che io debba spiegare la provenienza delle mie risorse economiche per soddisfare la curiosità pubblica".
"Io – si difende Liliane – a questo processo mediatico non mi presto né intendo prestarmi: se l’autorità giudiziaria me lo chiederà, non avrò problemi a dimostrare la liceità dell’acquisto, ma respingo culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche".
Per Murekatete la misura è colma: "In questo piano inclinato – conclude nella sua intervista all’AdnKronos – non posso quindi fare altro, al momento, che dare incarico al mio avvocato, Lorenzo Borrè, per adire le vie giudiziarie nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking", annuncia la compagna di Aboubakar.
Estratto dell’articolo di Michele Marangon e Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.
[…] Conferma Yussef Kadmiri, un altro lavoratore delle cooperative: «Marie Thérèse e i suoi figli sono andati avanti sempre con scuse, sempre dicendo che avevano i soldi bloccati e non potevano pagare. Adesso Marie Thérèse lo ha ammesso. Spero che finalmente mi paghi. Ma lo sapevano tutti. Lo sapeva anche Soumahoro.
Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo ed erano costretti a lavorare fuori e non andare a scuola perché gli toglievano anche il poket money». [...]
Virginia Piccolillo e Michele Marangon per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.
«Anche a Natale ci hanno lasciato senza stipendio». Titti guarda in basso mentre racconta quello che ancora ha «troppa vergogna» a raccontare in famiglia: la «fregatura» ricevuta da Thérèse Mukamitsindo, suocera del deputato di Alleanza verdi-Si, Aboubakar Soumahoro. Le accuse: stipendi non pagati, promesse tradite e sfruttamento di chi si prendeva cura dei migranti. Un metodo ancora sotto i fari degli ispettori del Mise in una indagine così lunga che fa temere a Mukamitsindo un esito negativo: in presenza di gravi irregolarità si rischia il commissariamento o la messa in liquidazione delle cooperative.
E anche ieri Mukamitsindo è stata convocata dall’Ispettorato del lavoro di Latina per altri lavoratori lasciati senza contratto e troppe volte senza paga. E lo ha ammesso: «Sì, è vero. Non abbiamo fatto il contratto e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà». Un metodo che ha fatto raggranellare alle cooperative gestite allora da Marie Thérèse e dai figli Michel Rukundo e Liliane Murekatete, moglie del parlamentare ivoriano, un tesoretto di almeno 400 mila euro, stima il sindacato Uiltucs.
In quel tesoretto ci sono anche gli stipendi di Titti, operatrice italiana impiegata nel progetto Perseo che con i fondi dell’Anci Lazio prometteva di rendere autonomi i richiedenti asilo che ce l’avevano fatta: la domanda era stata accettata. La cooperativa Karibu avrebbe fatto il resto: borse lavoro, autonomia abitativa e piccole somme per acquistare beni di consumo utili a una vita in autonomia. Titti, giovane mamma, era tra quanti dovevano rendere possibile questo ultimo miglio verso l’inclusione ma, racconta, «per il Perseo non sono stata mai pagata vivendo una enorme frustrazione, oltre alle difficoltà di non avere lo stipendio. Ho accumulato oltre 20 mila euro di spettanze.
Non ero la sola. E nonostante questo andavamo avanti con la presa in carico dei giovani, contattando i possibili destinatari del progetto. Quando si trattava di attivare le "work experience", però, tutto si fermava. Karibu è stata totalmente inadempiente per la propria parte». E l’amarezza cresce se si accenna a Lady Soumahoro che, «mentre noi faticavamo ad andare avanti senza stipendio lei, tra tutti, era quella che ostentava di più».
Conferma Yussef Kadmiri, un altro lavoratore delle cooperative: «Marie Thérèse e i suoi figli sono andati avanti sempre con scuse, sempre dicendo che avevano i soldi bloccati e non potevano pagare. Adesso Marie Thérèse lo ha ammesso. Spero che finalmente mi paghi. Ma lo sapevano tutti. Lo sapeva anche Soumahoro. Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo ed erano costretti a lavorare fuori e non andare a scuola perché gli toglievano anche il poket money».
«Quando vengono colpiti i simboli di battaglie vitali per i democratici e per la sinistra, si deve riflettere. Su come, soprattutto, vengono certe volte incoraggiate ed esaltate figure di cui si conosce poco o non del tutto la sostanza, la vita concreta, gli stili di comportamento», commenta il dem Goffredo Bettini. E Nicola Fratoianni, che candidò Soumahoro, a suo dire all’oscuro di tutto, comincia a prendere le distanze: «Siamo di fronte certamente a una storia non bella. C’è una dimensione che riguarda la magistratura. Per il resto c’è una dimensione politica, la vedremo nel suo sviluppo».
Caso Soumahoro, l'ex socio: "Ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega per evitare di spendere soldi in affitti di mezzi". Storia di Redazione Tgcom24 l’1 dicembre 2022.
"Striscia la Notizia" torna a occuparsi del caso Soumahoro. Dopo la risposta dell'ex sindacalista a mezzo Ansa al servizio del tg satirico in cui venivano fatte le pulci al bilancio della sua Lega Braccianti, anche il socio Soumaila Sambare ha deciso di parlare. "Ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega – dice Sambare – per evitare che di spendere un sacco di soldi in affitti di mezzi". Ma questo furgoncino non lo avrebbe acquistato la Lega Braccianti ma una delle associazioni della moglie di Soumahoro.
L'ex socio aggiunge un altro particolare: "Ci sono stati dei morti qui, Soumahoro poteva pagare il trasferimento delle salme in Africa. I soldi sul conto c'erano, perché non li usava?". Dal bilancio si evince che i soldi della raccolta fondi del 2020 e del 2021 non sono stati mai utilizzati. L'onorevole Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da "Striscia la Notizia", dei suoi due ex soci. Il tg satirico ha iniziato a contattare Soumahoro dal 25 ottobre per intervistarlo e avere la sua versione della storia. Ma fino a oggi non ha avuto risposte dirette.
Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 30 novembre 2022.
Aboubakar Soumahoro non avrà fortuna nella scelta degli affini, ma ne ha sicuramente nell'acquisto delle case. Infatti il deputato con gli stivali, quando era ancora solo un sindacalista che difendeva gli interessi degli «invisibili» braccianti delle nostre campagne, ha acquistato un bel villino su due piani con taverna vicino al mare di Roma. E lo ha fatto a un prezzo davvero concorrenziale. Ha infatti comprato nel giugno di quest' anno per 360.000 euro un immobile che il vecchio proprietario aveva acquistato a 495.000 euro nel 2011. Quasi il trenta per cento in meno.
In questi giorni diversi professionisti hanno studiato il rogito e hanno notato, oltre all'ottimo prezzo, anche altre curiosità. Per esempio nel preliminare era intervenuta solo Liliane Muraketete, la compagna di Aboubakar, mentre all'atto definitivo, senza procedere alla cosiddetta electio amici (ossia la dichiarazione di nomina) è intervenuto anche il parlamentare.
Il preliminare è stato trascritto (con relativo surplus di spese) e, considerando che la caparra in parte è stata versata al notaio, alle nostre fonti è sembrato quanto meno irrituale. Nel prerogito, oltre ai 32.000 effettivamente anticipati (a cui si aggiungono i 5.000 dati in custodia al professionista), c'è una promessa di pagamento di 15.000 da eseguirsi entro i successivi 15 giorni.
Nell'atto definitivo risultano tutti i pagamenti, avvenuti in date diverse: i 32.000 di cui sopra; 10.000 euro inviati dal conto, sembra, di Liliane; 5.000 partiti da un'altra banca (erano la caparra del notaio?); un ulteriore invio da 3.000 euro probabilmente sempre della donna. Dei residui 310.000 euro, circa 264.000 provengono dal mutuo, gli altri arrivano dai Soumahoro: 96.000 euro in tutto tra preliminare e rogito definitivo. La coppia ha anche pagato 15.860 di mediazione.
L'immobile limitrofo, di analoghe dimensioni (130 metri quadrati contro 132) è stato pagato, nel 2019, 420.000 euro. Dunque non solo la casa ha visto crollare il proprio valore nell'arco di undici anni, ma è stata acquistata a un prezzo molto inferiore rispetto a un villino del tutto simile.
Tutto regolare? Facendoci un po' di coraggio abbiamo provato a chiedere al vecchio padrone di casa se per caso una parte dell'importo non sia stato corrisposto in nero.
Apriti cielo. A. V. si è molto arrabbiato: «Sono disponibile a parlare con voi purché non si facciano illazioni. Faccio l'imprenditore e non ho venduto questa casa con una parte in nero. Se andate a vedere sui siti immobiliari potrete verificare con i vostri occhi il valore di quella villetta. Con la crisi c'è stata una forte flessione sul mercato. L'immobiliare oggi non è un buon investimento.
Con mia moglie abbiamo impiegato oltre un anno per vendere quell'abitazione. Per noi era diventata piccola. Loro, come noi all'epoca, si sono innamorati di questa casa e l'hanno comprata. È stata l'offerta migliore che abbiamo ricevuto».
In realtà noi abbiamo visto che la casa adiacente è stata venduta a circa 420.000 euro «Lo ripeto: non accetto illazioni. Come avrei potuto accettare una parte di denaro in nero da uno sconosciuto portatomi dall'agenzia? Io non avevo nessun interesse a vendere una casa con una parte di soldi che non avrei potuto mai giustificare».
Gli facciamo notare che Soumahoro ha detto di aver potuto comprare il villino anche grazie ai proventi di uno suo libro. A. V. ribatte: «Io i soldi li ho ricevuti solamente dalla compagna. È lei che si è occupata dell'acquisto e ha fatto il preliminare con l'agenzia e solo dopo, al momento del rogito, è subentrato lui e hanno deciso di cointestarla. Stiamo parlando di poca cosa rispetto ai 60 milioni (quelli ricevuti dalle cooperative dei famigliari del deputato, ndr) di cui si parla tanto. La casa è poca cosa rispetto a tutto il resto. State prendendo un granchio secondo me».
E i bonifici arrivati in giorni diversi? «Credo che la signora abbia fatto ricorso a questo sistema di pagamento perché doveva racimolare dei soldi. Racimolare forse è una parola grossa. Stava mettendo insieme una riserva per poter acquistare l'immobile. Ma parliamo di poca cosa».
A. V. era al corrente di chi fosse Soumahoro? «Ho saputo solo dopo i primi incontri che era una persona famosa, molto nota. Io, però, non lo conoscevo prima. Quelli dell'agenzia mi hanno detto che era un sindacalista e che la moglie lavorava per una cooperativa.
Ma di più non saprei dire. Tutto quello che ho ricevuto, assegni e bonifici, sono stati tracciati e regolarmente riportati nell'atto».
A. V. ha incontrato i Soumahoro solo tre volte, nella fase di acquisto, e poi una quarta, quando è recato a recuperare la posta a Casal Palocco: «In quell'occasione mi sono accorto che avevano preso una cucina usata. Ognuno di noi spende i soldi come vuole e se vuole comprarsi la borsa di Gucci e poi mangiare pane e cipolle sono fatti suoi. Magari non è così.
O magari dietro a questa storia c'è tutto il marcio che sospettate, ma non lo troverete nell'acquisto di questa casa. Stiamo parlando di quattro soldi». Il denaro utilizzato per comprare la dimora è arrivato dalla stessa filiale in cui Soumahoro ha aperto un conto per ricevere i soldi delle donazioni destinate alla «sua» Lega braccianti.
Sulla piattaforma Gofundme è ancora attiva la raccolta fondi lanciata nel 2020 dal deputato (con l'oggetto «Campagna braccianti»). La raccolta è attiva dal 3 aprile di due anni fa (3 giorni prima che venisse attivata la partita iva della Lega braccianti) e a oggi risultano raccolti 225.000 euro. Il conto corrente su cui nel primo mese arrivavano i soldi non è, però, come detto, quello della Lega, bensì quello personale dell'ex sindacalista.
In quel momento l'Italia è in lockdown, ma nell'estratto conto di Soumahoro spiccano, oltre ai bonifici in entrata provenienti dalla piattaforma di raccolta fondi e una donazione di 5.500 euro fatta il 14 aprile dal presentatore televisivo Flavio Insinna, una serie di prelievi in contanti: due da 500 euro l'8 e il 9 aprile, un altro dello stesso importo il 15, 250 euro il 22 e il 27, giorno il cui Soumahoro effettua un secondo prelievo da 150 euro. Infine, 250 euro il 2 maggio.
Il 6 maggio il conto corrente aveva un saldo contabile di 101.105 euro. I movimenti dell'estratto conto in nostro possesso arrivano sino a quella data. La filiale dove venivano trasferite le donazioni, come detto, è la stessa in cui il 30 giugno di quest' anno Soumahoro e la compagna hanno sottoscritto davanti a un notaio romano il rogito per la villetta di Casal Palocco. Il parlamentare ivoriano e signora dovranno restituire il finanziamento in 360 rate mensili da 1.078 euro l'una, per un totale di 388.080 euro, garantiti esclusivamente da un'ipoteca del valore di 532.000 euro sull'immobile acquistato. Una somma davvero considerevole. Per sua fortuna l'ex sindacalista è riuscito a entrare a Montecitorio. E non per pulire le scrivanie.
Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 30 novembre 2022.
In tre anni, dal 2017 al 2019, la Prefettura di Latina ha applicato circa 490.000 euro di sanzioni alla coop Karibu che sono state detratte da quanto dovevano ricevere. In quel periodo la ditta guidata dalla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro ha gestito più di 2.500 migranti. Dal 2014 al 2019 la Prefettura ha pagato, al netto delle penali, circa 26 milioni di euro per i servizi di accoglienza. Molte di queste penali sono state pagate ai tempi del governo gialloverde, precedentemente le multe erano poco consistenti. Non sappiamo se andasse tutto bene o ci fosse un approccio ideologico.
È lungo l'elenco di esperienze su cui può contare la coop Karibu, citate dalla presidente Marie Therese Mukamitsingo (la suocera di Soumahoro) in una presentazione dell'azienda inviata al Viminale: ben 23 progetti finanziati tra il 2004 e il 2021 per un valore complessivo di 62.251.803 euro. Quelli di importo maggiore sono stati approvati dal ministero dell'Interno, (ma ne compaiono alcuni della Presidenza del Consiglio dei ministri e della Regione Lazio). Per l'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale ospitati nei Cas, i centri d'accoglienza straordinaria, il governo ha versato, come detto, tramite la Prefettura, 26 milioni di euro in sei anni. Ma ce ne sono anche un paio da 15 milioni di euro l'uno (30 complessivi) della durata di 15 anni (2004-2019). Uno per lo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) di Sezze e l'altro per quello di Roccagorga.
Lunedì abbiamo raccontato della lettera proveniente dal ministero dell'Interno e datata 31 gennaio 2019 inviata proprio al Comune di Roccagorga dal dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale. L'oggetto della segnalazione era il «Progetto Sprar 2014-2016 in prosecuzione ammesso al finanziamento del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo per complessivi 40 posti categoria ordinaria».
Nel documento si minacciavano 18 punti di penalità che avrebbero potuto portare alla «revoca del finanziamento» per questi due motivi: «Mancato rispetto della percentuale di posti destinati al Sistema di protezione indicata nella domanda di contributo»; «mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati e/o mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitativi». Una carenza, questa, che rischiava di comportare «il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata».
«La vicenda della cooperativa Karibu sta portando alla luce una serie di vizi nella gestione da parte degli enti pubblici ai quali la cooperativa erogava il servizio di accoglienza degli immigrati» è il commento dell'ex assessore di Roccagorga Lubiana Restaini. La quale ha portato avanti la sua battaglia contro questo sistema insieme con l'ex presidente del Consiglio comunale Maurizio Fusco.
La Restaini è molto infastidita da quello che ha letto e sentito in questi giorni: «Per esempio l'ex sindaco Nancy Piccaro ha raccontato al vostro giornale di aver revocato il servizio affidato alla Karibu, ma non vi ha spiegato per quale ragione nello stesso giorno, il 22 dicembre 2020, con due distinte determinazioni, siano stati liquidati 13.250 euro e 24.233,49 euro per il ricalcolo dei pagamenti del progetto Sprar degli anni 2014 e 2015. Io e Fusco ci siamo domandati perché il Comune dopo 5 anni, a ridosso del Natale, abbia dovuto fare una ricognizione delle fatture pagate un lustro prima. Quando siamo venuti a conoscenza di queste operazioni poco chiare abbiamo preso le distanze. Fusco addirittura uscì dalla Lega ed entrambi ci siamo rivolti al Viminale e alla autorità preposte».
Infatti Fusco e la Restaini avrebbero presentato due esposti alla Procura di Latina, al Viminale e alla Corte dei conti sulla questione dei circa 37.500 euro liquidati alla Karibu a cinque anni di distanza «senza una precisa richiesta di ricalcolo da parte della coop» oltre che «senza autorizzazione ministeriale all'utilizzo di eventuali somme risparmiate».
Concluso il contratto per il progetto Sprar 2017-2019 il sindaco Piccaro, con una lettera firmata il 25 giugno 2019, espresse la volontà di portare avanti il progetto e il 29 ottobre 2019 la domanda di prosecuzione venne inserita sulla piattaforma ministeriale. Solitamente tale istanza viene avanzata in situazioni di particolare fragilità dei migranti oppure nel caso siano state risparmiate delle risorse, ma la proroga non può superare l'anno di durata.
«Il Comune nel 2020, con un accordo scaduto, ha liquidato quasi ulteriori 400 mila euro per i servizi di Karibu. Ma la convenzione 2016-2019 non prevedeva né estensioni, né proroghe e neanche rinnovi automatici. In base alla richiesta del Sindaco del giugno 2019, in attesa dell'esame della domanda da parte della commissione, un decreto ministeriale del 13 dicembre 2019 stanziò ulteriori 230 mila euro per sei mesi, precisando che l'affidamento dei servizi dovesse avvenire nel rispetto delle norme».
Recentemente la Karibu ha lamentato il mancato pagamento di 90.000 euro per i servizi prestati e ne ha chiesto il saldo. Un revisore sta verificando insieme con il ministero che la doglianza sia legittima. Ieri all'ispettorato del lavoro Mukamitsindo ha incontrato tre suoi ex dipendenti rappresentati dal sindacalista della Uil Tucs Gianfranco Cartisano. La vertenza di due cittadini marocchini che hanno denunciato di aver lavorato in nero sia per Karibu che per il consorzio Aid è stata rinviata, anche se la loro vecchia datrice di lavoro non ha respinto l'accusa, ammettendo di fatto le retribuzioni fuori busta.
Invece è stata chiusa la pratica di conciliazione monocratica di S.D., assistita anche dall'avvocato Fabio Leggiero. La donna è stata alle dipendenze della Karibu dal 2016 all'ottobre 2022. Reclamava 22 mensilità e il tfr per un totale di 21.600 euro. La presidente Mukamitsindo avrebbe ammesso le proprie responsabilità: «Sì è vero. Abbiamo fatto i contratti e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà» avrebbe dichiarato all'interno dell'ufficio, provando a dilazionare la rateizzazione. Alla fine le parti si sono messe d'accordo per completare il versamento del dovuto entro il gennaio del 2024. Nell'accordo si legge che la Mukamitsindo «riconosce quanto rivendicato dal lavoratore». Chissà se adesso pagherà per davvero.
Giacomo Amadori per "La Verità" l’1 Dicembre 2022.
Non c'era nessun miracolo, nessuna imprenditrice da premiare, nessuna cooperativa modello. Nonostante per anni Marie Therese Mukamitsindo sia stata coccolata dalla politica e dai media, evidentemente interessati a tutelare gli interessi che ruotano intorno all'accoglienza dei migranti, adesso la regina è nuda.
Come anticipato dalla Verità, ieri il ministro Adolfo Urso ha svelato le sanzioni applicate alla coop Karibu dalla prefettura di Latina (491.000 euro in tre anni, a seguito di 22 ispezioni) e al consorzio Aid (38.000 euro dopo 32 ispezioni); quindi ha confermato la proposta di scioglimento fatto dagli ispettori per il consorzio Aid e ha anticipato i risultati dell'ispezione alla Karibu terminata verso le 21 di martedì, dopo circa 12 ore di indagini all'interno della struttura: la richiesta in questo caso è di liquidazione coatta amministrativa.
Il ministro Adolfo Urso l'ha spiegata con l'eccessivo indebitamento (circa 2 milioni di euro, un tema già ampiamente conosciuto ai nostri lettori). Il costante trend di peggioramento dei conti non lasciava intravedere vie d'uscita.
Urso ha dichiarato, come anticipato dalla Verità, che, dopo l'ispezione straordinaria all'Aid «le circostanze rilevate e la documentazione controllata hanno consentito agli ispettori la redazione del verbale» con la proposta di scioglimento e «la immediata notifica agli amministratori presenti».
Infatti gli ispettori hanno riscontrato «irregolarità non sanabili». Che, per la precisione, sono le seguenti: «Assenza di un reale scambio mutualistico, assenza di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell'ente». Inoltre, per il ministro, «è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio in quanto l'Aid di Latina non risulta espletare attività di coordinamento di cooperative collegate».
Per lo scioglimento la procedura è un po' farraginosa: prima che diventi effettivo, la proposta dovrà passare da un comitato centrale dove vi è una rappresentanza del mondo delle cooperative che esprimerà un parere obbligatorio, ma non vincolante. Più rapidi i tempi per la liquidazione della Karibu.
Dopo un primo tentativo di accesso, gli ispettori sono riusciti ad acquisire la documentazione rilevante e trarre le proprie severe conclusioni. Adesso la settima divisione della direzione vigilanza dell'ex Mise dovrà certificare la regolarità del lavoro ispettivo e adottare il provvedimento sanzionatorio. Poi, forse già questa settimana, il ministro nominerà il commissario liquidatore.
Il quale dovrà contestare ai vecchi amministratori eventuali responsabilità patrimoniali (ammanchi, distrazioni), che potrà segnalare anche alle autorità competenti.
Ma la vera novità di tutta questa storia è che la Karibu non sarebbe stata una cooperativa, ma una ditta a conduzione famigliare o al massimo un'associazione. Che nel giro di pochi anni avrebbe gestito più di 60 milioni di euro di fondi per l'accoglienza. Denaro che non è stato concesso solo dal ministero dell'Interno.
Per esempio anche il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese del Mise ha concesso circa 100 mila euro di aiuti alla Karibu tra il 2020 e il 2021. Un fiume di denaro erogato senza che nessuno si accorgesse della reale natura delle due coop sotto inchiesta. Una piccola holding che ha potuto non pagare oltre 1 milioni di euro di tasse e più di 100.000 euro di contributi previdenziali, pur mantenendo il Durc (documento unico di regolarità contributiva) immacolato sino a non molto tempo fa.
Eppure, come avrebbe candidamente ammesso la stessa presidente Mukamitsindo, la sua creatura non avrebbe avuto una vera struttura organizzativa. Tutto ruotava intorno all'ex profuga ruandese. Che aveva trasformato se stessa in una specie di Wanna Marchi dell'accoglienza.
Un'astuzia imprenditoriale ammantata di buoni sentimenti che ha potuto macinare soldi, fuori da ogni regola e controllo, sotto gli occhi distratti di istituzioni e donatori.
Insospettabile al punto che nessuno ha preso sul serio i tanti segnali di allarme che arrivavano, a partire dalle denunce dei lavoratori e dei migranti accolti nelle strutture gestite dalla Mukamitsindo.
Gli unici soci lavoratori presenti nei libri della Karibu erano lei stessa e il figlio Michel Rukundo, rispettivamente presidente e consigliere della coop. La prima (che risulta essere anche un'assistente sociale) percepiva circa 4.500 euro netti al mese, il suo ragazzo più o meno la metà (ma i suoi emolumenti raddoppiavano grazie alla presidenza in Aid).
C'erano poi 17 soci non lavoratori che erano veri e propri ectoplasmi.
Non risultavano neanche informati delle riunioni dell'assemblea dei soci. In una coop sana questi ultimi fanno molte cose, hanno scambi mutualistici, usufruiscono dei vantaggi che la coop genera, partecipano alle assemblee dove vengono prese le decisioni nell'interesse della cooperativa, vengono informati di eventuali contratti, approvano il bilancio. A Latina non accadeva niente di tutto questo.
Gli ispettori hanno letto dichiarazioni in cui si diceva che i soci erano stati convocati tramite posta certificata. Ma nel libro dei soci accanto ai nominativi di questi signori non c'erano gli indirizzi di pec. In Aid le convocazioni avvenivano tramite l'affissione di un foglio di carta nella sede legale del consorzio. Ma non è così che funzionano le cooperative. Sono gli organi amministrativi che devono inviare raccomandata, pec, qualcosa da cui risulti che il socio è stata raggiunto dalla comunicazione.
In sostanza tutti gli accertamenti hanno verificato che si trattava di assemblee farlocche che andavano completamente deserte. I soci erano figure svuotate di qualsiasi ruolo all'interno della vita democratica della coop, stavano lì per fare numero.
Nell'ultima assemblea della Karibu, indetta lo scorso 30 agosto per l'approvazione del bilancio, c'erano solo due nomi scritti nero su bianco: quella della Mukamitsindo e della figlia, «chiamata a fungere da segretario».
Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e «il consiglio di amministrazione al completo».
Ma per gli ispettori a quell'assemblea probabilmente non c'era nessuno se Marie Therese con i figli Liliane e Michel.
Il capitolo più interessante riguarda proprio la compagna di Aboubakar Soumahoro, la quale, ieri, attraverso l'Adnkronos ha rilasciato dichiarazioni in «giuridichese». Denunciando presunte campagne diffamatorie e rivendicando la regolarità dell'acquisto del villino di Casalpalocco in cui vive con il deputato con gli stivali, ha fatto sapere di non far «più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente». E, dopo aver precisato di non essere più consigliera da settembre, ha aggiunto di essere «in aspettativa dall'aprile 2022» e di essere «in attesa della corresponsione degli arretrati».
Insomma turlupinata tra i turlupinati, sebbene dalla propria madre o forse per colpa degli enti cattivi che non liquidano il dovuto (anche se al momento non risultano pagate poche decine di migliaia di euro a fronte di milioni di finanziamenti regolarmente incassati negli anni).
Ma gli ispettori, nelle carte della Karibu, hanno trovato due lettere che in parte smentiscono le dichiarazioni della donna. Si tratta di due scritture private vergate a mano dalla signora, con una grafia molto ordinata ed elegante. Una è datata 14 aprile (era giovedì santo), l'altra 13 maggio.
Con la prima Liliane annunciava le sue dimissioni dal Cda, nella seconda esprimeva la volontà di lasciare anche il ruolo di socio lavoratore della cooperativa. In entrambe le missive ringraziava e salutava. In calce la sua firma. Per gli ispettori si tratta di documenti che non avrebbero nessun valore giuridico perché le dimissioni avrebbero dovuto essere ratificate e ufficializzate dagli organi amministrativi e avrebbero dovuto essere comunicate alla Camera di commercio.
Per questo lei risulta ancora a tutti gli effetti essere un membro del consiglio di amministrazione. «Ha preso e si è messa da una parte. Ma in una coop si entra e si esce attraverso atti ufficiali» commenta una nostra fonte . Comunque, nonostante avesse espresso la volontà di lasciare dopo essersi una breve aspettativa, ha continuato a percepire il suo stipendio netto di oltre 2.000 euro sino al luglio scorso.
Ovvero sino a quando (era il 30 giugno) ha firmato il rogito e ha ottenuto il mutuo per il villino. Un finanziamento concesso probabilmente anche grazie anche alle buste paga della Karibu, da cui aveva già deciso di andar via. Prima di incassare 266.000 euro da rifondere in 360 rate mensili da 1.078 euro l'una, per un totale di 388.080 euro, aveva comunicato alla banca che da lì a pochi giorni avrebbe rinunciato allo stipendio e sarebbe diventata una «disoccupata»? Gli ispettori hanno verificato che l'ultimo cedolino è di luglio e conteneva anche il trattamento di fine rapporto. Alla fine ispettori e collaboratori hanno avuto l'impressione che Marie Therese e il figlio Michel abbiano vissuto gli accertamenti quasi come una liberazione. Di fronte alla tempesta mediatica e alle indagini penali, avrebbero manifestato quasi sollievo di fronte alla prospettiva di essere privati del controllo due società che sono diventate autentici fardelli.
Clemente Pistilli per "la Repubblica – Edizione Roma" l’1 Dicembre 2022.
Non ci sono stati solo gli ottimi rapporti con diversi Comuni pontini a garantire la gestione dei centri per migranti alle coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro.
Le cooperative ora al centro dell'inchiesta della Procura di Latina, che sta indagando sulle decine di lavoratori lasciati senza stipendio e sugli stranieri costretti a vivere con poco cibo, senza acqua e luce, sarebbero riuscite a incassare circa 65 milioni di euro in venti anni anche grazie alle Prefetture.
Soltanto il consorzio Aid, di cui è consigliera Maria Therese Mukamitsindo, ha infatti ottenuto ben 2,4 milioni di euro in soli tre anni dalle Prefetture di Latina e Lecce.
Tra servizi di accoglienza per richiedenti asilo e richiedenti protezione internazionale, nel 2018 la Prefettura di Latina ha dato 640.449 euro al Consorzio, che nel capoluogo pontino attualmente ha sede nello stesso immobile dove l'onorevole eletto con Alleanza Verdi e Sinistra ha stabilito la sede anche della sua Lega Braccianti.
Nel 2019 la stessa Prefettura ha poi concesso ad Aid oltre 914mila euro e oltre 640mila nel 2020. Ad affidarsi alla coop della suocera di Soumahoro non è però stata solo la Prefettura di Latina, dove Aid e Karibu sono radicate e dove hanno iniziato a muovere i primi passi sia Maria Therese Mukamitsindo che la figlia Liliane Murekatete.
Il Consorzio ha infatti ottenuto anche dalla Prefettura di Lecce 184.230 euro nel 2018 e tremila euro nel 2019. In Puglia, dove ha svolto larga parte della sua attività sindacale Soumahoro, quattro anni fa la stessa coop ha infine ottenuto, come emerge dai bilanci, 27.621 euro dalla Prefettura di Brindisi. Un fiume di denaro pubblico a cui, come ipotizzano gli inquirenti, non sarebbero corrisposti i servizi previsti.
Ieri intanto, rispondendo a un'interrogazione alla Camera di FdI, il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, ha sostenuto che la Prefettura di Latina, dal 2017 al 2019, dopo 22 ispezioni ha applicato circa 491mila euro di sanzioni alla cooperativa Karibù e che, negli anni 2018- 2022, dopo 32 ispezioni ha comminato 38mila euro di sanzioni ad Aid. Ben poco rispetto ai pagamenti fatti dalla stessa Prefettura.
Urso ha poi annunciato che, alla luce di quanto emerso dalle ispezioni avviate dal suo Ministero, nel Consorzio Aid sono state riscontrate « irregolarità non sanabili » per l'« assenza di un reale e autentico scambio mutualistico, di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell'ente » , e che « è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio», per cui gli ispettori hanno proposto lo scioglimento dello stesso. Ha poi aggiunto che è stata proposta pure la messa in liquidazione coatta amministrativa della Karibu, «per eccessivo indebitamento » . Cooperative a cui lo stesso Ministero, tra il 2020 e il 2021, ha concesso 110mila euro di aiuti con il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese.
Mentre Gianfranco Cartisano, segretario della Uiltucs, ieri ha chiesto al prefetto di convocare tutti gli enti che hanno affidato servizi alle due coop affinché si trovi una soluzione per i lavoratori non pagati, Angelo Tripodi, capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio ha poi criticato i silenzi dei vertici della Regione e dell'ex sindaco di Latina: « Gli esponenti di punta del Pd del Lazio prima hanno finanziato tutto questo senza controllare, andando a fare selfie e passerelle alle iniziative della Karibu. Ora tacciono sul sistema Latina».
Soumahoro, gli affari della famiglia col Pd: il caso si ingrossa. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 30 novembre 2022
Inchieste giudiziarie, le prime ammissioni di colpevolezza, ombre nere che riguardano i legami col Pd. Il "caso Soumahoro" si allarga. Ieri è stata una giornata molto tesa: i carabinieri fuori dalla porta dell'ispettorato del lavoro di Latina, mentre altri ispettori, incaricati dal ministero delle Imprese, nella vicina sede del Consorzio Aid stavano passando al setaccio i documenti dell'altra coop presieduta da Marie Therese Mukamitsindo, la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro indagata per truffa aggravata, fatture false e malversazioni. La cooperativa sociale Karibu doveva alla 30enne Stefania di Ruocco, sposata e mamma, oltre 20mila euro, e dopo due anni di rifiuti la Mukamitsindo, nella sede dell'ispettorato del lavoro, ha ammesso i mancati pagamenti: «È vero, non le abbiamo pagato gli stipendi per due anni». È la prima svolta.
GLI OBBLIGHI
Di fronte al conciliatore monocratico la suocera di Soumahoro ha accettato di pagare alla giovane gli arretrati: 21.595,20 euro- si legge nel verbale - che corrispondono alla tredicesima del 2020, a tutte le mensilità 2021, alle retribuzioni da gennaio a ottobre 2022. Mukamitsindo ha voluto liquidarla a rate. In passato ha già disatteso promesse simili, e dunque l'avvocato Fabio Leggiero, incaricato dal sindacato Uiltucs, ha imposto una condizione: la prima rata, 4.319 euro, a stretto giro, entro il 20 dicembre. «Il mancato pagamento nei termini previsti», dice a Libero, «darà la facoltà di richiedere la somma in un'unica soluzione».
In questo caso si è trattato di una lavoratrice che la suocera di Soumahoro aveva contrattualizzato, a differenza dei marocchini Youssef Kadmiri e Mohamed El Moutaraji, per i quali parlerebbero la sfilza di messaggiWhatsApp scambiati sia con Mukamitsindo sia con la figlia Aline, e però "lady Karibu" ha negato che abbiano lavorato per lei, o meglio, l'avrebbero fatto solo per poche settimane - sostiene - e si è rifiutata di pagarli. A complicare la posizione della famiglia Soumahoro dicevamo che potrebbero essere anche i rapporti col Pd. Si sta delineando un sistema di assunzioni e consulenze elargiti dalle due coop. A Roccagorga (Latina), quando amministravano i Dem, Karibu ha assunto un ex assessore comunale del Pd ai Servizi sociali, Tommaso Ciarmatore. Lo stesso Comune nel 2015 aveva ottenuto la gestione del centro d'accoglienza migranti. «In tutto questo il governatore del Lazio Nicola Zingaretti tace», tuonano i consiglieri regionali leghisti, «e tace anche il candidato alla presidenza Alessio D'Amato». Il deputato di Fdi Giandonato La Salandra ha presentato un'interrogazione parlamentare.
GLI INTRECCI
Ma anche nello stesso Pd, già nel 2015, c'erano dubbi, diciamo così, su certe operazioni: due consiglieri dem di Roccagorga, Fabiola Pizzulli e Francesco Scacchetti, avevano presentato un'interrogazione diretta all'allora sindaco, Carla Amici: «È stato approvato il piano d'accoglienza Sprar 20142016: per la provincia di Latina si riconosce al comune di Roccagorga il finanziamento più importante, 327mila euro l'anno. Alla luce delle ultime vicende che riguardano il sistema di lucro con i fondi per la gestione dei migranti chiediamo l'elenco dei trasferimenti al Comune di Roccagorga e alla cooperativa Karibu». In un comune di 4mila anime, 327mila euro all'anno a una coop. Ci sono poi stati funzionari che hanno affittato propri immobili agli stessi migranti.
E a Sezze, dove ha sede la coop, Karibu ha incassato in 18 anni 5 milioni e mezzo, senza gare d'appalto, tutto di proroga in proroga. Tutto sospetto. Intanto l'ex socio di Soumaoro, Soumaila Sambare, lancia nuove accuse: «Con i soldi del nostro conto Abou ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega Braccianti per evitare di spendere un sacco di soldi in affitti di mezzi». Il pulmino lo avrebbe acquistato una delle associazioni della suocera Soumahoro. E poi: «Ci sono stati dei morti qui, Soumahoro poteva pagare il trasferimento delle salme in Africa. I soldi sul conto c'erano, perché non li usava?». I conti perla raccolta fondi, ha mostrato Striscia la Notizia, coincidevano con quelli di Abou. Coincidenze?
Così la coop della famiglia di Soumahoro era legata a esponenti del Pd. A Roccagorga, piccolo centro in provincia di Latina, elargiti centinaia di migliaia di euro per l'accoglienza dei migranti. E si scopre che l'assessore ai Servizi sociali era dipendente della coop Karibù. Tonj Ortoleva il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.
Quella della cooperativa Karibù, gestita da Marie Therese Mukamitsindo, suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, è una storia complessa fatta di proteste, denunce e gestione sui generis dell’accoglienza di immigrati e richiedenti asilo. Oggi si sono accesi i riflettori della procura di Latina che indaga Mukamitsindo per i reati di malversazione, truffa aggravata e false fatturazioni. Ma già da tempo c'erano dubbi e perplessità sulle modalità di gestione e sui rapporti con la politica in particolare in piccoli comuni della provincia di Latina.
La coop "regina" dell'accoglienza in provincia di Latina
La coop di Sezze Karibù ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe (giustificate dalla continua emergenza) nel comune setino e poi in altre realtà della provincia pontina. Inoltre la Karibu, nel 2015, ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Nel 2018 erano ben 51 su 129 i centri per l’accoglienza dei migranti gestiti da Karibu in provincia di Latina, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo. Una coop che aveva per le mani una montagna di soldi pubblici, qualcosa come cinque milioni e mezzo di euro in 18 anni.
Il caso Roccagorga
Sulle attività di questa cooperativa, gestita dalla suocera di Soumahoro e dalla moglie, Liliane Murekatete, si sono spesso addensate nubi fatte di proteste, lamentele e sospetti. Già nel 2018 balzarono alle cronache le denunce del capogruppo regionale della Lega, Angelo Tripodi, che dava eco alle domande sollevate dall’esponente del suo partito a Roccagorga, Andrea Orsini. La Lega aveva infatti “scoperto” che l’assessore ai Servizi sociali del comune di Roccagorga, esponente del Partito democratico, era anche dipendente della coop Karibù. Si tratta di Tommaso Ciarmatore che si è sempre difeso sostenendo che sì lavorava per Karibù, ma in un’altra sede. Come dire, non c’è alcun conflitto d’interesse. La cooperativa della famiglia di Soumahoro gestiva l’accoglienza dei migranti nel comune ed era “arrivata ad incassare anche 300 mila euro in un anno”, come spiega Tripodi. Il capogruppo regionale del Carroccio presentò all’epoca una interrogazione in Regione corredata di documenti, come “la determina del 13 settembre 2017 con cui, a di un progetto di accoglienza per 40 posti, l’ente riceve dal Ministero 535 mila euro all’anno per tre anni, con affidamento diretto del servizio alla Karibù”.
A Roccagorga, 5 mila anime sui Monti Lepini, Karibù ha gestito per quindici anni l’accoglienza dei migranti e quasi sempre alla guida del paese c’era una amministrazione di centrosinistra. La convenzione veniva rinnovata automaticamente alla scadenza di ogni triennio, fino ad arrivare all’ultimo rinnovo per il triennio 2016-2019. Solo nel 2014 Roccagorga ha ottenuto oltre 300mila euro di fondi per i rifugiati mentre tra il 2017 e il 2019, sono stati elargiti 535mila euro l'anno. I soldi per questo genere di servizio, ricordiamolo, sono erogati dallo Stato, non dai singoli comuni. Una gestione comunque oscura, come ricorda il capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi: “La coop Karibù ha da sempre un legame forte col Partito democratico e con i comuni che esso amministra in provincia di Latina. Affidamenti spesso senza gara, proroghe generose, immobili affittati dai dipendenti pubblici alla cooperativa o come nel caso di Roccagirga l’assunzione di un amministratore del Pd nella società della suocera di Soumahoro”.
Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” il 29 novembre 2022.
Non è tutto Soumahoro quello che luccica. Partiamo dalla vicenda del mutuo per la casa di proprietà, poi passiamo alla suocera, che da ieri è indagata anche per truffa aggravata. Ebbene l'ex sindacalista, ospite a Piazzapulita (La7), ha sostenuto di aver acquistato il villino "grazie" alla moglie. Ma lei, Liliane, è "disoccupata". Quali garanzie hanno dato alla banca per accedere al credito (270mila euro), ha domandato Corrado Formigli. Il deputato ha risposto che la sua fonte principale di reddito all'epoca del rogito era "Umanità in rivolta", il libro scritto per Feltrinelli.
Ok. Si può campare con i proventi di un manoscritto, comprandosi anche casa? Vediamo un po': il saggio in questione, uscito nel 2019, aveva un prezzo di copertina di 13 euro. Di solito le case editrici lasciano un dieci percento all ' autore, quando va bene. E diciamo che sia andata così, dal momento che Abou aveva alle spalle due padri nobili a fare da garanti: uno dei più importanti giornalisti politici italiani, Marco Damilano, e colui che è conosciuto nel mondo come il nostro più grande scrittore contemporaneo: Roberto Saviano.
Nonostante gli sponsor e la promozione, a questo giornale risulta che "Umanità in rivolta" abbia venduto in tre anni poco più di 9mila copie. Tante per un esordiente. Poche, in relazione all'hype creato dai padrini intorno al personaggio. Ora due conti: un euro e spicci a copia (nelle librerie digitali oramai è in saldo) e viene fuori che Soumahoro ha ricavato dalla sua fatica letteraria poco meno di diecimila euro. Neanche i soldi per la proposta d'acquisto del bilivello in zona Roma Sud (quartiere dove vivono i calciatori della Roma). Insomma: "Qualquadra non cosa".
Ancora il libro: è il primo maggio 2019 e il paladino dei braccianti va dal Papa per donargli una copia. Ce lo porta Damilano, che a Francesco regala dei numeri dell'Espresso. La foto viene mostrata a Propaganda Live. Ma, sorpresa: secondo Striscia La Notizia dagli scatti sparisce la sbarra che separa Sua Santità dal nuovo "papa nero" della sinistra. Perché? Forse si vuole dare l'idea dell'intimità tra "colleghi". Forse Soumahoro è vittima inconsapevole del "caporalato" dei suoi mentori.
Lo spintonano sulla strada che porta alla gloria. Ma lui inciampa. Sempre ieri Striscia ha raccolto le testimonianze degli ex soci di Abou nella Lega Braccianti. Mamadou Balde racconta: "Durante il Covid abbiamo fatto richiesta per l'assegno del reddito d'emergenza: l'accordo era che 25 euro sarebbero andati al patronato e 25 euro a noi braccianti". Però "quando i soldi sono arrivati e abbiamo chiesto la nostra parte, Soumahoro ha cambiato faccia e ci ha ignorato". Imbarazzante.
Ma perché i colleghi dell'uomo di origini ivoriane parlano solo ora e hanno taciuto all'epoca dei fatti? Boh. Sempre secondo Pinuccio di Striscia ci sarebbero delle irregolarità anche nelle spese per il trasporto merci della Lega Braccianti: "Gli ex soci di Aboubakar ci hanno fornito gli estratti conto di spesa e per i trasporti vengono fuori 3-4mila euro: gli altri 33mila dove sono finiti?". Va detto che Soumahoro non è indagato.
Sua suocera invece sì. Per fattispecie penali pesantissime: truffa aggravata, false fatturazioni e malversazioni di erogazioni pubbliche. Le accuse dei pm di Latina nei confronti di Marie Therese Mukamitsindo si concentrano sulla "gestione opaca" delle coop Karibu e Consorzio Aid, che negli anni hanno ottenuto finanziamenti per cifre che superano i 60 milioni di euro. "L'indagine è a buon punto", spiegano gli inquirenti.
La Guardia di Finanza da mesi sta passando al setaccio le voci di bilancio, i flussi di finanziamenti e le uscite di denaro per capire se i soldi che dovevano essere destinati ai lavoratori, siano stati dirottati altrove. «Una vicenda bruttissima», dice Angelo Bonelli (verdi), «mi ha colto alla sprovvista». Parlare di «diritto all'eleganza» in relazione alle Vuitton di Lady Soumahoro è «totalmente inopportuno».
Aboubakar Soumahoro, l'ex socio della Lega Braccianti denuncia: "Ci ha sfruttati per fare carriera". Storia di Redazione Tgcom24 il 30 Novembre 2022
Caso Aboubakar Soumahoro. A "Striscia la Notizia" parla Mamadou Balde, uno degli ex soci della Lega Braccianti che denuncia il modus operandi del parlamentare di Verdi e Sinistra finito nell'occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali nel Lazio gestite dalla moglie e dalla suocera, iscritta nel registro degli indagati. «Durante il Covid abbiamo fatto richiesta per l’assegno del reddito d’emergenza: Soumahoro ci ha detto di fare tutti domanda dal nostro patronato e l’accordo con lui era che 25 euro sarebbero andati al patronato e 25 euro a noi braccianti», racconta Balde intervistato dall'inviato di "Striscia" Pinuccio.
Mamadou Balde denuncia: «Abbiamo fatto più di 600 domande, peccato che quando i soldi sono arrivati e abbiamo chiesto la nostra parte, Soumahoro ha cambiato faccia e ci ha ignorato. Ci ha sfruttato, ha utilizzato noi migranti per fare carriera».
Che fine hanno fatto i soldi per il trasporto delle merci? Pinuccio evidenzia un'altra incongruenza: nel bilancio della Lega Braccianti presentato da Soumahoro nella trasmissione "Piazza Pulita", alla voce “spese per i trasporti delle merci” risultano circa 38mila euro. «Eppure, gli ex soci di Aboubakar ci hanno fornito gli estratti conto di spesa e per i trasporti vengono fuori 3-4mila euro: gli altri 33mila dove sono finiti?», domanda l’inviato di Striscia.
Clemente Pistilli per repubblica.it il 2 dicembre 2022.
"Sull’onestà di Aboubakar Soumahoro metto la mano sul fuoco. Ha la mia solidarietà totale". Di più: "Forse nei prossimi giorni ci vedremo qui a Riace. È una persona distrutta, contro di lui c’è una strategia finalizzata alla denigrazione del valore morale e dell’impegno di una vita".
Esploso il caso delle coop della moglie e della suocera del deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, al centro di un’inchiesta della Procura di Latina su tributi evasi, lavoratori non pagati e migranti costretti a vivere in condizioni terribili, sono state ben poche le voci che anche a sinistra si sono levate a difesa del sindacalista diventato parlamentare.
L’unico che ha cercato subito di blindare Soumahoro è stato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che impiegavano migranti, e condannato lo scorso anno dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio, ritenendo che avesse messo su anche una vera e propria associazione per delinquere.
Tra il cosiddetto "Modello Riace" di Lucano e quello della famiglia di Soumahoro emerge però ora un punto di contatto e a scovarlo è stato Angelo Tripodi, capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio, il primo a sollevare una serie di dubbi sugli affari della coop Karibu e del Consorzio Aid e a denunciare un "sistema Latina".
Il presidente della coop Promidea, Carmine Federico, indagato dalla Corte dei Conti della Calabria insieme a Lucano e ad altri rappresentanti di una serie di cooperative, ipotizzando un danno erariale milionario nella gestione migratoria, è stato impegnato anche nel Consorzio Aid. Il Consorzio – come sostenuto anche da Tripodi – ha avuto la sede legale, dal 2009 al 2014, a Rende, in provincia di Cosenza, allo stesso indirizzo della Promidea. Il 31 dicembre 2009, tra l’altro, quando il Consorzio ha approvato il bilancio su quel documento c’è la firma della presidente Maria Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e dello stesso Carmine Federico, nella veste di segretario. L’emergenza migratoria calabrese – conclude – mi sembra connessa all’accoglienza nel Lazio e a Sezze, ma anche con la Lega Braccianti e i ghetti del foggiano.
La Corte dei Conti della Calabria, alla luce degli accertamenti della Guardia di finanza, ha contestato a Lucano, Federico e altre 40 persone un danno erariale di oltre 5 milioni di euro, relativo a irregolarità negli affidamenti per la gestione dei centri di accoglienza per i migranti in Calabria. Il presidente di Promidea risulta anche nel consiglio direttivo del Consorzio Sfide di Roma, costituito nel 2018 per partecipare agli avvisi di Fondimpresa, essere amministratore della società Inet, presidente del CdA della coop Atlante, amministratore di Promidea Impresa Sociale, e risulta avere quote del Cosenza Calcio.
Il Consorzio Aid, al centro dell’inchiesta della Procura di Latina e degli accertamenti dell’Ispettorato del lavoro di Latina, che solo dalle Prefetture di Lecce e Latina ha incassato 2,4 milioni in tre anni, a fronte di sanzioni per soli 38mila euro comminate alla luce di irregolarità riscontrate con 32 ispezioni, rischia ora lo scioglimento.
Lo ha sottolineato il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, al termine dei controlli inviati alle coop di Mukamitsindo e Liliane Murekatete, aggiungendo che sono state riscontrate "irregolarità non sanabili", per "l’assenza di un reale e autentico scambio mutualistico, di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell’ente", e che "è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio".
"Sostengo da tempo – evidenzia il consigliere regionale Tripodi – che c’è un sistema Latina e i fatti sembrano darmi ragione. Aid ha approvato i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibù a Sezze mantenendo la sede legale a Rende. Sono un garantista, però, ci sono processi e inchieste importanti in Calabria, nel Lazio e in Puglia".
Da nicolaporro.it il 2 dicembre 2022.
Continua ad essere il caso mediatico più importante di questi ultimi giorni, quello relativo al deputato di Verdi-Sinistra Italiana, Aboubakar Soumahoro, al centro di una vera e propria grana politica per il caos che ruota attorno alla coop della suocera.
A non convincere sono anche le posizioni del deputato con gli stivali e di sua moglie, al centro delle diatribe proprio per non essersi mai accorti di quanto succedeva nei centri gestiti dalla suocera (di cui la figlia ne risultava essere consigliere). Nel corso di queste settimane, il sito nicolaporro.it ha ripercorso, da cima a fondo, tutte le varie sfaccettature relative al caso. Dalle dichiarazioni dell’ex senatrice SI Fattori, che ha raccontato le condizioni igienico-sanitarie precarie delle coop gestite, al pianto di Soumahoro in un video pubblicato sui suoi canali social, fino ad arrivare alla sua difesa negli studi televisivi di Piazzapulita, il caso è arrivato anche tra le stanze di Radio24, dove Giuseppe Cruciani, dai microfoni de La Zanzara, ha attaccato il parlamentare con gli stivali.
Il fatto riguarda il libro di Soumahoro, Umanità in Rivolta, con il quale (a detta dello stesso deputato) sarebbe riuscito a mantenersi grazie all’ingente somma guadagnata dalla vendita di copie. Ma il dato lampante è che il saggio ha venduto circa 9mila. Facendo due calcoli, se la casa editrice avesse corrisposto a Soumahoro una cifra pari al 10 per cento del costo di una singola copia (13 euro), ecco che il parlamentare avrebbe ottenuto una somma intorno ai 10mila euro di guadagno. Un buonissimo traguardo per un esordiente (il libro è del 2019), ma sicuramente non sufficiente per riuscire a vivere senza altri proventi.
E, a questo punto, interviene Cruciani: "Il signor Bruno Vespa, cosa doveva comprarsi con gli introiti dei suoi libri allora? La reggia di Versailles, il Campidoglio, che cosa?". E ancora: "Ogni giorno ne escono di cotte e di crude, adesso la suocera ammette di non avere pagato gli stipendi. Basterebbe questo per mettere la pietra tombale sulla vicenda Soumahoro e di qualsiasi persona lo abbia portato sul palmo di mano". Ma non finisce qui, Cruciani sentenzia: "Il simbolo dell’integrazione, il simbolo dell’Italia nuova, dell’immigrazione regolare, questo era Soumahoro ed in questo modo è crollato".
Fabio Amendolara e François de Tonquédec per "La Verità" il 2 dicembre 2022.
Ha continuato a ripetere «non sono interessata» per tutta la telefonata. Inutile cercare di spiegare a Dafne Malvasi, la poetessa nata a Bari ma partenopea d'adozione che a 27 anni in seconde nozze ha sposato nel settembre 2008 Aboubakar Soumahoro, quale fosse la finalità della telefonata.
Appena ha sentito il nome di Aboubakar si è arroccata, dribblando pure le domande sul matrimonio. A un successivo messaggio, quando le abbiamo spiegato che secondo alcune fonti risulta ancora sposata con Soumahoro, ha risposto stizzita: «Io non voglio entrare in alcun modo in una vicenda che non mi riguarda. Siamo divorziati. Non ho nulla a che fare con tutto ciò».
La fine della relazione resta avvolta dal mistero. Di certo, però, quelle nozze sono un tassello importante nella scalata verso la vetta da icona dell'ultrasinistra che Aboubakar aveva già cominciato a costruire. Nel 2008 a Napoli era già un personaggio. E, così tra un corteo, una manifestazione e un sit-in con Rdb, del quale diventò subito il referente nazionale del settore immigrazione (per poi mollare poco dopo la sigla passando alla Rete antirazzista), si sposò a favore di telecamere al Maschio Angioino di Napoli.
Con una sorridente Rosa Russo Iervolino, all'epoca sindaco, visibilmente orgogliosa di celebrare l'unione tra l'intraprendente ivoriano e la cittadina napoletana Dafne.
«Nozze miste, leader immigrati sposa ragazza di Pianura (popoloso rione periferico napoletano, ndr)», titolò l'edizione napoletana di Repubblica. Che nell'articolo definì «speciale» il matrimonio. Il Corriere della sera, invece, dedicò una foto-notizia, definendo l'evento «un bel matrimonio».
«Abou, così lo chiamano gli amici, è punto di riferimento di tutta la comunità africana in città» e Dafne «è una bella ragazza bionda del quartiere di Pianura a Napoli teatro, negli ultimi giorni, di episodi di intolleranza nei confronti della locale comunità di immigrati che si è affidata proprio ad Abou per cercare soluzioni alle gravi condizioni di degrado in cui vive». Insomma, quello per Abou era il momento giusto.
Con il matrimonio a Pianura tutti i riflettori erano ormai su di lui. Tanto da diventare protagonista, ha scoperto Striscia la notizia, di una puntata della trasmissione Un mondo a colori (Rai Educational) di quello stesso anno.
«Una unione che va ben al di là del sentimento di tolleranza», pontificò Iervolino durante la cerimonia, aggiungendo: «e che prelude a rapporti ben più profondi e duraturi tra due ragazzi come voi che provengono da due mondi molto diversi».
Un particolare, quest' ultimo, che non deve aver portato granché fortuna alla coppia. Dei due ancora insieme si trovano tracce fino al 2011 (parteciparono insieme a un sit-in). Iervolino augurò comunque «tutto il bene di questo mondo» agli sposini. Chi ha partecipato alla cerimonia ricorda un Abou commosso, che alla vista di Dafne in un classico vestito da sposa completo di velo, non riuscì a trattenere le lacrime. L'emozione svanì quando alla domanda di rito rivoltagli dal sindaco sulla volontà di sposare Dafne, Abou rispose con un forte sì che rimbombò nell'antica sala del castello. A immortalare la favola di Abou e Dafne c'erano fotografi e telecamere.
«Ci siamo conosciuti il 14 luglio del 2004 nella mensa universitaria», raccontò all'epoca Dafne. Nella sua biografia disponibile online Dafne Malvasi racconta di essere nata a Napoli e di vivere «temporaneamente» a Torino da «molti anni», dove attualmente lavora come social media manager per la filiale italiana di una multinazionale tedesca.
La donna che sul web si descrive come «attenta osservatrice delle tematiche legate al gender gap e parte attivista dei movimenti femministi», è stata la vincitrice del XII Premio Poesia Città di Pesaro, per il Premio Letterario Internazionale «La Donna si racconta». Ma nella sua biografia, oltre che per la poesia, c'è spazio per «il sud del mondo».
«È stata la presa della Bastiglia e io rimasi incantato», precisò Abou. Ma già a fine cerimonia, al momento della foto di gruppo, cominciarono a mostrarsi le prime contraddizioni. Davanti alle torri del castello, riportano le cronache dell'epoca, un gruppo di ambulanti extracomunitari si allontanò di corsa con la merce raccolta in un telo al sopraggiungere di una macchina della polizia municipale.
È così da sempre: lui davanti alle telecamere, quelli che chiama «fratelli», invece, a vendere per strada o a lavorare nei campi. Ciononostante di difensori d'ufficio Soumahoro ne ha ancora più d'uno.
«Tutto quello che si sta raccontando sulla Lega Braccianti sono bugie per colpire Abou per motivi legati alla politica», afferma Zare Issa, membro della lega fondata da Soumahoro. Per lui «non esiste violenza nel campo di Torretta Antonacci e non c'è nessun esercito armato, siamo solo un'associazione che aiuta i braccianti, ci aiutiamo l'un l'atro». E rivendica: «Abou si è battuto per noi, prima di lui non avevamo neppure l'acqua potabile qui a Torretta Antonacci, mentre oggi abbiamo anche i container dove dormire».
Bufera in Campidoglio dopo la nostra inchiesta Karibu Capitale. Rita Cavallaro su L’Identità il 2 Dicembre 2022
Pubblicata oggi su L’Identità, ricostruisce il fiume di denaro, per oltre due milioni di euro, versato dal Comune alla coop della suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo. Sulla questione è intervenuta la Lega di Matteo Salvini, che sul caso presenta un’interrogazione alla Giunta Gualtieri e chiede la riunione delle Commissioni capitoline, per chiarire la vicenda.
"La Lega chiede conto di quanto emerge sui rapporti del Campidoglio con la coop Karibu che fa capo alla suocera del deputato Alleanza Verdi Soumahoro. Cifre altissime, che dal 2016 ad oggi ammonterebbero a oltre due milioni di euro di cui duecentomila solo nel 2022. È necessario che gli assessori competenti riferiscano e siano immediatamente riunite le Commissioni capitoline preposte. Quanto accade è una vergogna, un fiume di denaro uscito dalle tasche dei contribuenti per l’accoglienza e l’assistenza sociale sul cui destino si deve fare piena luce: quanti soldi, dal 2016, con la giunta Raggi, ad oggi, con la giunta Gualtieri, sono stati pagati alla coop, e che cosa è stato fatto. Vogliamo leggere i bilanci, sapere quanti bandi sono stati vinti da questa cooperativa anche a livello regionale, con la giunta Pd e M5S guidata da Zingaretti e D’Amato, e se siano mai arrivate prima lamentele dai lavoratori o da chi era loro vicino". Lo dichiara in una nota il capogruppo della Lega in Campidoglio Fabrizio Santori, a proposito delle ultime notizie pubblicate sul caso della cooperativa Karibu. "Una situazione così grave lascia pensare anche ad una pressoché totale mancanza di controlli puntuali, seri ed accurati, non soltanto sul piano economico e gestionale, ma anche su quello dei diritti del lavoro, per la sicurezza, l’igiene, la sanità e la condizione dei dipendenti. Di tutti questi dovuti controlli attendiamo di conoscere il numero, le modalità e i contenuti", conclude Santori.
Quell'inchiesta su Mimmo Lucano e l'ex collaboratore della suocera di Soumahoro. Dar. Mar. Il Tempo il 02 dicembre 2022
Il Consorzio Aid della suocera di Aboubakar Soumahoro ha avuto la sede legale dal 2009 al 2014 a Rende, in provincia di Cosenza. Nella stessa via e allo stesso civico si trovava anche Promidea, cooperativa che ha come presidente Carmine Federico, che è stato indagato dalla Corte dei Conti su un presunto danno erariale da circa 5 milioni nella gestione migratoria in Calabria, insieme all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e a un'altra quarantina di persone.
Carmine Federico è stato anche un collaboratore della coop della suocera di Soumahoro. Il 31 dicembre 2009, infatti, il Consorzio Aid approvò il bilancio in cui figuravano Marie Terese Mukamitsindo, in qualità di presidente, e proprio Carmine Federico come segretario. Inoltre, Aid approvò i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibu a Sezze, mantenendo la sede legale però a Rende.
A scoprire le connessioni tra la cooperativa di Mukamitsindo e la Calabria, è Angelo Tripodi, capogruppo della Lega alla Regione Lazio, uno dei primi a parlare del "Sistema Latina", riferendosi alla gestione delle società che fanno capo alla famiglia del parlamentare di Verdi e Sinistra su cui ha finito per indagare anche la Procura del capoluogo pontino.
Soumahoro & Lucano: un loro collaboratore indagato dalla Corte dei Conti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022
A provare a difendere Soumahoro è stato Mimmo Lucano l' ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che utilizzavano migranti, vendendo condannato nel 2021 dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per "truffa", "peculato", "falso e abuso d’ufficio"
Esploso il caso delle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, al centro di un’inchiesta della Procura di Latina su tributi evasi, lavoratori non pagati e migranti costretti a vivere in condizioni terribili, sono state ben poche le voci che anche a sinistra si sono levate a difesa del sindacalista diventato parlamentare."Sull’onestà di metto la mano sul fuoco. Ha la mia solidarietà totale. Forse nei prossimi giorni ci vedremo qui a Riace. È una persona distrutta, contro di lui c’è una strategia finalizzata alla denigrazione del valore morale e dell’impegno di una vita".
A provare a difendere Soumahoro è stato Mimmo Lucano l’ ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che utilizzavano migranti, vendendo condannato nel 2021 dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per "truffa", "peculato", "falso e abuso d’ufficio", ritenendo che avesse messo su anche una vera e propria associazione per delinquere.
Cosa unisce il "Modello Riace" di Lucano ed il modus operandi della famiglia di Soumahoro ? Esiste un punto di contatto scoperto dal capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio, Angelo Tripodi, il primo a sollevare una serie di dubbi sugli affari della coop Karibu e del Consorzio Aid denunciando un "sistema Latina". Stiamo parlando di Carmine Federico, presidente della coop Promidea, indagato insieme a Lucano e ad altri rappresentanti di una serie di cooperative, dalla Corte dei Conti della Calabria che ipotizza un danno erariale milionario nella gestione migratoria, il quale è stato impegnato anche nel Consorzio Aid.
Come evidenziato anche da Tripodi, il Consorzio Aid dal 2009 al 2014, ha avuto la sede legale a Rende in provincia di Cosenza, guarda caso allo stesso indirizzo della coop Promidea guidata da Carmine Federico. Infatti quando il Consorzio Il 31 dicembre 2009 ha approvato il proprio bilancio sul verbale di assemblea compare la firma della presidente Maria Therese Mukamitsindo, la suocera dell’ on. Soumahoro, e dello stesso Carmine Federico, nella veste di segretario. L’emergenza migratoria calabrese sembra collegata all’accoglienza nel Lazio e a Sezze, ma anche con la Lega Braccianti e i ghetti del foggiano.
La Corte dei Conti della Calabria, sulla base degli accertamenti svolti dalla Guardia di finanza, ha contestato a Mimmo Lucano, Carmine Federico ed altre 40 persone un danno erariale di oltre 5 milioni di euro, relativo a irregolarità negli affidamenti per la gestione dei centri di accoglienza per i migranti in Calabria. Il presidente della coop Promidea Carmine Federico risulta anche nel consiglio direttivo del Consorzio Sfide di Roma, costituito nel 2018 per partecipare agli avvisi di Fondimpresa, essere amministratore della società Inet, presidente del CdA della coop Atlante, amministratore di Promidea Impresa Sociale, e risulta persino detenere quote di partecipazione del Cosenza Calcio.
"Sostengo da tempo che c’è un sistema Latina e i fatti sembrano darmi ragione" evidenzia il consigliere regionale Tripodi che aggiunge "Il consorzio Aid ha approvato i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibù a Sezze mantenendo la sede legale a Rende. Sono un garantista, però, ci sono processi e inchieste importanti in Calabria, nel Lazio e in Puglia". Redazione CdG 1947
Liquidazione coatta per la "Karibu". Ma la Lamorgese firmò per altri soldi. L'annuncio del ministro Urso al Question time. Intanto da gennaio partono i rinnovi firmati dall'ex ministro dell'Interno: ai migranti dovrà essere trovata una nuova sistemazione. Antonella Aldrighetti su Il Giornale l’1 Dicembre 2022
La vicenda imprenditoriale di Marie Therese Mukamitsindo, suocera del deputato Alleanza Verdi Sinistra Italiana Aboubakar Soumahoro, sta volgendo al termine. Gli ispettori del ministero delle Imprese e del Made in Italy inviati a Latina, dopo aver verificato diverse irregolarità hanno proposto lo scioglimento del consorzio Aid e la liquidazione coatta della cooperativa Karibu. Lo ha riferito il ministro Adolfo Urso al question time specificando: «Il ministero dell'Interno ha informato che la prefettura di Latina, negli anni 2017-2019, a seguito di 22 ispezioni, ha applicato circa 491.000 euro di sanzioni alla cooperativa Karibu. E che negli anni 2018-2022, a seguito di 32 ispezioni, sono state comminate sanzioni nei confronti di Aid per un ammontare complessivo di circa 38.000 euro». Nel frattempo dovranno essere ripristinati i termini dell'accoglienza cui le coop della Mukamitsindo avrebbero dovuto fare fronte. Non bisogna dimenticare infatti i rinnovi firmati dall'ex ministro dell'Interno Lamorgese il 21 settembre e in vigore da gennaio 2023 a dicembre 2025. Rapporti contrattuali e appalti per Aid e Karibu a Latina, Priverno e Sezze per un totale annuo 2.868.622,27 euro ovvero 5.737.244,54 nel biennio. Prefettura, Comune e Viminale ora dovranno trovare una nuova collocazione per gli stranieri. Ci sarebbero inoltre altre 20 richieste di intervento in capo all'Ispettorato del lavoro di Latina per il riconoscimento degli emolumenti da corrispondere ad altri lavoratori migranti. Vale a dire che, sull'intero fronte, le indagini andranno avanti.
Sul fronte opposto invece la figlia della Mukamitsindo, Liliane Murekatete compagna di Aboubakar: un'intervista rilasciata all'AdnKronos punta il dito contro il sistema mediatico, lamentando un atteggiamento persecutorio e promette querele contro coloro che l'hanno diffamata «cinica griffata» per «affibbiarmi icastici titoli derisori». L'allusione è all'epiteto di «Lady Gucci», mentre spiega che: «Gran parte delle foto risale al 2014-2015, quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e non avevo ancora conosciuto il mio compagno». Già, infatti Soumahoro nel 2008 aveva sposato a Napoli Dafne Malvasi, un matrimonio a dir poco speciale al Maschio Angioino celebrato dall'allora sindaco Rosa Russo Iervolino, che gli è valso la cittadinanza italiana. Successivamente l'allora sindacalista dell'Unione sindacale di base si trasferì a Torino dove portò a frutto ulteriori battaglie pro migranti e poi a Roma, come dirigente nazionale. Qui iniziò l'ascesa politica e al contempo, nell'ambiente dell'accoglienza, iniziarono a circolare voci di gestione anomala dei ricavi raccolti, tra sottoscrizioni e fondo cassa, nelle baraccopoli di Foggia. Era il 2020 quando Abou fu attaccato frontalmente dall'Usb: «Si chiedeva conto di dove fossero finiti i soldi, alcune centinaia di migliaia di euro, raccolti attraverso ripetute sottoscrizioni finalizzate a portare cibo, durante il periodo del lockdown, nei ghetti dove vive una fetta importante del bracciantato migrante del nostro Paese, una sorta di cassa di resistenza». Di lì a poco Soumahoro fondò la Lega dei braccianti. Mentre l'Usb lo diffidò contro intimidazioni e strumentalizzazioni dei migranti nelle baraccopoli. Tant'è che a Torretta Antonacci, a Foggia, i migranti scaricarono presto Soumahoro che, di rimando, ha lasciato il seggio pugliese a Betta Piccolotti, moglie di Nicola Fratoianni.
Così Soumahoro e l'Usb Caruso dettavano legge tra i braccianti. Hanno basato entrambi la loro carriera politica sui migranti, l'uno nel Pd e l'altro in Rifondazione. Due carriere parallele poi naufragate in maniera simile. Bianca Leonardi su Il Giornale l’1 Dicembre 2022
«Lo scontro nel ghetto è da sempre tra Soumahoro e Caruso»: così riferiscono a Il Giornale gli abitanti di Torretta Antonacci, il ghetto foggiano dove entrambi i protagonisti sembrerebbero aver costruito le proprie carriere. Da una parte Aboubakar Soumahoro, a capo della Lega Braccianti; dall'altra Francesco Saverio Caruso, delegato Usb a Foggia che si occupa - a nome del sindacato - delle questioni legate al Gran Ghetto.
«Gli uomini della Lega Braccianti e dell'Usb ci chiedono soldi per portarci a lavorare e per qualsiasi altra cose, anche per un materasso»: queste le principali accuse rivolte ai due «capi-clan». La loro storia si intreccia proprio all'interno del sindacato, dove Soumahoro ha militato per decenni fino all'abbandono, nel 2020, quando ha deciso di costruire la sua realtà.
Da lì, la guerra: tanto che i fedelissimi del deputato con gli stivali, ex soci della Lega Braccianti, sembrerebbero passati a Usb. Uno su tutti Alpha Barre, che è «l'uomo del ghetto che nel suo capannone ha una cassaforte per tenere i soldi chiesti ai braccianti», ci racconta una persona che vive a Torretta Antonacci da più di 20 anni. E se la storia di Soumahoro è ormai cosa pubblica grazie alla potenza mediatica che negli ultimi anni è riuscito a costruire, quella dell'ex deputato di rifondazione comunista, Caruso, non sembra poi così diversa. Entrambi a fianco dei più deboli, in lotte ideologiche a sostegno degli ultimi. Proprio il rappresentante di Usb salì agli onori della cronaca quando durante il G8 venne accusato - e poi prosciolto - insieme ad altri militanti no global, movimento a cui apparteneva, di associazione sovversiva per aver organizzato gli incidenti durante la manifestazione del 2001. L'anno dopo, nel 2022, fu arrestato su ordine della procura di Cosenza con l'accusa di «sovversione, cospirazione politica e attentato agli organi costituzionali dello Stato». Nonostante questo, nel 2006, venne candidato da Rifondazione comunista - non senza dissenso - e ottenne il mandato alla Camera.
Proprio come successo con Soumahoro (la cui candidatura è stata messa in dubbio da Bonelli), anche Fausto Bertinotti, al tempo, affermò su Caruso che la sua proposta del suo nome era stata una «mossa poco felice». Ad accomunare i due casi anche l'estrema spettacolarizzazione in nome della libertà e della giustizia: Soumahoro incatenato davanti a Montecitorio «per far sentire la voce dei braccianti» e Caruso barricato - nel 2006 - all'interno di un centro di permanenza temporanea in provincia di Crotone.
Ed anche sulla gestione dei fondi i due capi di Torretta Antonacci sembrano seguire lo stesso modus operandi. Aboubakar inchiodato per quelle donazioni sospette che «non sono mai arrivate qui», come affermano i braccianti del ghetto, e Caruso condannato a restituire un'ingente somma di denaro per aver ricevuto un finanziamento pubblico che doveva servire per la costituzione di un network e di un giornale dei centri sociali campani, ma che poi, come accertato dalle indagini, è stato usato per scopi personali.
Ad oggi, sia Soumahoro che Caruso sembrerebbero agire nell'ombra del ghetto, delegando ai loro uomini gli affari. «Abbiamo paura di Usb e di Lega Braccianti», raccontano infatti i lavoratori di Torretta Antonacci. Entrambi hanno scelto il silenzio, tanto che proprio Usb non ha risposto a nessuna delle accuse mosse nei loro confronti ma anzi, riferiscono a Il Giornale fonti Usb che preferiscono restare anonime, «non è il caso di parlare di Soumahoro visto i casini che ci sono stati tra noi e lui».
Insomma, gli slogan sono gli stessi: da «libertà e autogestione» per Soumahoro a «certe leggi hanno armato le mani dei padroni» di Caruso, in un contesto in cui - stando alle testimonianze - quei padroni sembrerebbero proprio loro.
Veleni di Selvaggia Lucarelli sull'avvocato della moglie di Soumahoro, lui la querela. Il Tempo il 02 dicembre 2022
Selvaggia Lucarelli attacca l'avvocato di Liliane Murekatete, moglie del parlamentare Aboubakar Soumahoro: "Ha difeso Priebke". La giornalista e giurata di Ballando con le Stelle si rivolge direttamente a Lorenzo Borrè: "Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione", scrive su Twitter, scatenando sui social diverse reazioni polemiche, a favore e contro, la sua presa di posizione.
Da notare l'utilizzo dell'aggettivo "griffato", chiaro riferimento alle foto che la compagna di Soumahoro ha pubblicato sui suoi profili sociali anni fa in cui sfoggiava abiti o borse firmate. Pochi giorni fa, Murekatete si è sfogata contro il "racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata".
Non si è fatta attendere nemmeno la replica di Borrè: "Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post", dice il legale. Le parole della giurata di Ballando gli non sono piaciute. "La quelererò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale. Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.
"Peraltro - punge il legale - non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".
Estratto dell’articolo di Marina de Ghantuz Cubbe per repubblica.it il 3 dicembre 2022.
L’avvocato di Liliane Murekatete, moglie dell’onorevole Aboubakar Soumahoro, è Lorenzo Borrè. Una scelta che sta facendo discutere perché il legale, noto anche per essere la spina nel fianco del M5s, in passato ha difeso il criminale di guerra nazista Erich Priebke, condannato all'ergastolo per aver partecipato alla realizzazione dell'eccidio delle Fosse Ardeatine nel 1944.
Murekatete ha deciso di adire le vie legali "nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking" dopo la bufera scoppiata per l’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre, Marie Therese Mukamitsindo, indagata per truffa aggravata, false fatturazioni e malversazioni di erogazioni pubbliche.
Ma torniamo a Borrè: da ragazzo ha fatto parte del Fronte della gioventù […]. Poi la carriera da avvocato e lo studio in Prati da cui ha difeso trentuno ex pentastellati espulsi dal partito fondato da Beppe Grillo. Su 31 espulsioni impugnate, facendo le pulci allo statuto del M5s ha ottenuto la reintegrazione di tutti i suoi assistiti. Con buona pace di Grillo che un tempo è stato anche il suo di leader. Fino al 2012, quando è fuoriuscito dal Movimento dicendosi pentito. […]
"L'ex avvocato di Priebke...". La Lucarelli sferza la moglie di Soumahoro. Liliane Murekatete ha scelto Lorenzo Borrè come avvocato: duro l'intervento di Selvaggia Lucarelli contro la moglie di Soumahoro. Francesca Galici su Il Giornale il 2 Dicembre 2022
Che i Soumahoro siano diventanti ingombranti anche per la sinistra, lo dimostra una storia pubblicata questa mattina da Selvaggia Lucarelli. La giornalista ha commentato la vicenda che da giorni riempie le pagine di cronaca con una considerazione personale: "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c'era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione". Che il suo avvocato sia Lorenzo Borrè è cosa nota, visto che è stata lei stessa a riferirlo nel corso di una lunga intervista concessa all'agenzia Adnkronos: "In questo piano inclinato non posso quindi fare altro, al momento, che dare incarico al mio avvocato, Lorenzo Borrè, per adire le vie giudiziarie nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking".
Al di là del caso di Erich Priebke, agente della Gestapo e capitano delle Ss durante la Seconda guerra mondiale, Lorenzo Borrè è spesso definito come "l'avvocato dei 5s", perché dal suo studio di Roma Prati sono passati oltre 30 ex esponenti del Movimento 5 stelle espulsi dal partito, che si sono rivolti a lui per avviare un'azione contro il Movimento. L'azione di Borrè, per quanto concerne i 5 stelle, è stata efficace, considerando che nel 2016 è riuscito a far reintegrare 20 espulsi napoletani nel partito. Liliane Murekatete Punta sulle competenze dell'avvocato per uscire dal turbinio mediatico nel quale è stata coinvolta per la gestione di due cooperative nella provincia di Latina insieme a sua madre.
"A questo processo mediatico non mi presto né intendo prestarmi: se l'autorità giudiziaria me lo chiederà, non avrò problemi a dimostrare la liceità dell'acquisto, ma respingo culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche", ha detto ancora Liliane Murekatete, che non vuole nemmeno essere chiamata "Lady Gucci", così come da tempo l'hanno soprannominata nella zona in cui operano le coop e come viene chiamata dai quotidiani da quando è esploso il caso mediatico, che la giustizia segue da ben prima che arrivasse sui giornali.
La gogna contro i familiari. Intervista a Lorenzo Borré: “Ecco perché attaccano me per la difesa della moglie di Soumahoro”. Nicola Biondo su Il Riformista il 6 Dicembre 2022
Entrare nello studio dell’avvocato del Diavolo incute soggezione. E se l’avvocato si chiama Lorenzo Borré viene facile trasformare i pregiudizi in realtà: venti anni fa ha difeso, da giovane assistente di studio, il criminale di guerra nazista Erich Priebke e oggi è finito sui media perché difende Liliane Murekatete, moglie del deputato verde Aboubakar Soumahoro al centro di inchieste legate alle cooperative di famiglia. Scatenando una tempesta mediatica che rivela molto dell’idea di giustizia che scorre nell’intestino del Paese.
Iniziamo a curiosare le stanze dello studio, magari ci scappa lo scoop: un drappo nazista da collezione, qualche busto mussoliniano, un reperto da Thule. Niente di tutto questo, dannazione. Lo studio dell’avvocato del Diavolo è di una noia mortale, solo stampe tibetane e Budda. Tutto è iniziato con una domanda dell’intervistato. “Perché mi vuole intervistare?”. “Mi manda la Costituzione -è la risposta- l’art.24 in particolare: la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. E così inizia l’intervista riprendendo il giusto binario: il cronista domanda, l’intervistato risponde.
Il suo nome è ovunque avvocato, è il cattivo del giorno, il difensore dei nazisti dal quale si dovrebbe stare lontani. La signora Murekatete rimane una sua cliente nonostante il clamore?
Credo proprio di sì. Non mi ha chiesto il curriculum. Senza volerlo sono diventato un nuovo feticcio morale dell’intrattenimento populista. Il messaggio che sta passando poggia su un’aberrante logica secondo cui l’avvocato è di buona reputazione se difende le persone buone, ma è da allontanare come la peste se ha patrocinato i diritti dei cattivi. Di conseguenza è cattivo, pessimo, e stupido chiunque si rivolga all’avvocato medesimo.
Perché la signora Murekatete si è rivolta a lei?
Mi occupo da sempre di tutela della privacy e della reputazione e lei sostiene che questi suoi diritti siano stati lesi. Tutto molto semplice. Ora forse toccherà a me trovare un legale per tutelare la mia reputazione.
Perché?
Chi predica che l’avvocato che ha difeso un criminale di guerra nazista deve essere per forza un nazista, sostiene il fallimento della nostra cultura giuridica e, con esso, il collasso deontologico dell’avvocatura, con conseguente cortocircuito: applicando l’assioma della naturale contiguità ideologica tra l’avvocato e il proprio assistito si spalanca il baratro della criminalizzazione dell’avvocatura: basti pensare ai corollari che ne discenderebbero per i processi di mafia, per quelli su casi di stupro, tratta degli schiavi, traffico di stupefacenti, pedofilia. Mi dica lei se questo ragionamento possa essere quello di un difensore della legalità democratica.
Qualcuno dice che lei avrebbe addirittura protetto Priebke, è vero?
Il signore in questione, che scrive per un importante quotidiano, è incorso in un abbaglio colossale, confondendomi con un altro avvocato. Come ha visto non ho busti del ventennio in studio e nemmeno a casa, unica nota coloniale: una foto d’epoca di un guerriero dubat. Che poi sarebbe anche singolare che un nazista accetti di difendere una donna di colore, non crede? Come Lei sa ho partecipato a convegni accanto a luminari del diritto come Cassese e Onida e sa che le dico: un avvocato non democratico è una contraddizione in termini.
Forse tutto questo è spiegabile con l’espressione “business dell’attenzione”, che fa appello alle pulsioni perché è da lì che ha deciso anche di sostanziare la sua posizione nel mondo.
Conosco bene il populismo giudiziario, esercitato nelle sue varie forme. Un chirurgo opera tutti, non chiede chi è e cosa ha fatto il suo paziente. Ho la sensazione però che ciò che lamenta la mia assistita continui ancora adesso, utilizzando me come strumento.
Spieghi meglio questa sensazione.
La signora non può che essere giudicata negativamente a maggior ragione perché sceglie un avvocato cattivo, non democratico, non allineato. Perché ha scelto appunto l’avvocato del diavolo.
Lei sta facendo capire che c’è un tentativo di far apparire la sua cliente come una Circe, l’unica persona che deve pagare, al di là delle responsabilità penali che andranno accertate, per lo scandalo politico che ha coinvolto il marito, è così?
La signora Murekatete è stata gettata in un tritacarne mediatico, nella logica “colpevole a prescindere”. Una barbarie.
L’ordine degli avvocati si è fatto sentire da lei?
Già una volta intervenne in mia difesa quando venni inserito in una lista di proscrizione pubblicata su Facebook da un consigliere municipale del M5S. Oggi è tutto più grave perché è sotto attacco lo stesso concetto di libera avvocatura. Confido in una nuova ferma presa di posizione perché come disse una volta il giudice Alfonso Sabella, uno che di crimini efferati e di giustizia se ne intende, “quella dell’avvocato è una delle professioni più nobili al mondo e merita rispetto, anche i criminali peggiori hanno diritto alla difesa”. Nicola Biondo
Selvaggia Lucarelli e il vecchio vizio di sovrapporre cliente e avvocato. Dal caso Mollicone, alle polemiche su Lorenzo Borré, legale di Liliane Murekatete. Storie di avvocati “processati” dal Tribunale del popolo. Valentina Stella su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.
«Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione»: con questo tweet del 2 dicembre Selvaggia Lucarelli sembra essere caduta nel solito cliché per cui l’avvocato è assimilabile al suo assistito e al reato da lui commesso.
Basterebbe replicare come fece il famoso avvocato francese Jacques Verges: «Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis». Eppure si tratta di una distorsione culturale che interessa purtroppo una grossa fetta dell’opinione pubblica. Lo dimostrano i tanti casi che vi raccontiamo spesso su questo giornale.
Il più recente riguarda l’omicidio di Serena Mollicone ad Arce. A luglio di quest’anno la Corte di Assise di Cassino ha assolto l’intera famiglia Mottola dall’accusa di aver ucciso ventuno anni fa la giovane. Fuori dal Tribunale sia i Mottola che i loro avvocati e consulenti hanno rischiato un vero e proprio linciaggio: sono stati aggrediti dalla folla inferocita con spintoni e sputi e la situazione si è resa talmente incandescente che sono dovute intervenire le forze dell’ordine per creare un cordone intorno a loro per condurli nella sede dove era stata programmata una conferenza stampa. Come ha detto l’avvocato Francesco Germani, a capo del pool difensivo: «È molto triste vivere in un Paese dove per fare una conferenza stampa bisogna essere scortati dalla polizia, è molto triste ed amaro vivere in un Paese che non rispetta le sentenze dei giudici perché si ritiene da parte dei più che giustizia significhi solo condannare».
Poco prima vi avevamo partecipato la storia di tre avvocati viterbesi – Domenico Gorziglia, Marco Valerio Mazzatosta, Giovani Labate – colpevoli, secondo gli hater di Facebook, di assistere due giovani ex militanti di CasaPound arrestati nell’aprile del 2019 per lo stupro ai danni di una 37enne, avvenuto in un pub del capoluogo laziale. Così hanno scritto: «Ma gli avvocati sono i peggio», «i due vanno condannati in base alle leggi, vanno puniti, ma chi andrebbe arrestato seduta stante deve essere l’avvocato» e ancora «Lasciateli al popolo, saprà fare giustizia più di quella togata… non dimenticate il legale che andrebbe anche radiato». La Camera penale viterbese ha presentato anche querela con gli odiatori social e nonostante la richiesta di archiviazione del pm, il gip ha disposto nuove indagini, deducendo che la querela è stata giustamente presentata dalla Camera Penale di Viterbo che ha tra i suoi scopi statutari quello di «tutelare la dignità, il prestigio ed il rispetto della funzione del difensore».
E che dire delle minacce di morte ricevute da Massimiliano e Mario Pica, ex legali di tre indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte? Allora commentò con noi il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza: «Il clima è quello tipico di un Paese che ha smarrito la cultura civile e liberale. L’avvocato, in un contesto imbarbarito dai processi che si svolgono parallelamente sui media, diventa un ostacolo alla giustizia sommaria, quindi da minacciare ed eliminare». Ad aprile dello scorso anno vi abbiamo raccontato la storia di due avvocate di Brescia S.L. e M.M processate e insultate dal Tribunale del popolo per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale: «Ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza»; e persino più grave: «Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati».
Altro caso mediatico, altro attacco agli avvocati. Andrea Starace e Giovanni Bellisario, legali di Antonio De Marco, reo confesso del duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis, sono finiti nel mirino dei leoni da tastiera: «Anche l’avvocato dovrebbe andare in carcere», «non vi vergognate a difenderlo», «se le vittime fossero stati i vostri figli vi sareste comportati allo stesso modo?».
Nel 2017 alcuni balordi diedero fuoco alla macchina dell’avvocato Pierluigi Barone. Dopo ricevette una telefonata anonima al suo studio: «Il tuo cliente è un assassino», riferendosi ad uno dei cinque giovani, difeso da Barone, indagato al tempo con altri per omissione di soccorso per la morte del 18enne Matteo Ballardini. Proprio al Dubbio l’avvocato raccontò che nella telefonata fecero altre minacce: «Mi hanno detto che poi toccherà alla casa, e poi a mia moglie. Paura? Io sono un legale e non mollo i miei clienti. Questo modo di fare violento mina i principi base della Costituzione e della civiltà. E noi non possiamo cedere».
«Volevo complimentarmi con gli avvocati Mario Scarpa e Ilaria Perruzza, che assistono i 4 maiali stupratori di Rimini! Complimenti per la dignità che avete dimostrato nell’accettare la difesa e non aver rifiutato! Questo Stato tra qualche anno li promuoverà facendoli entrare a pieno diritto nella Casta dei Togati. Nel frattempo speriamo che il tempo regali ad entrambi l’esperienza vissuta dai due polacchi», fu invece uno dei tanti messaggi gravemente offensivi indirizzati ai due avvocati che assunsero l’incarico difensivo di quattro immigrati accusati dello stupro e della violenza avvenuti nei confronti di una giovane polacca e di un suo amico. Come scrisse Ettore Randazzo: «Tutti devono essere processati e dunque difesi. Incondizionatamente; altrimenti basterebbe un’accusa grave e infamante per giustiziare sommariamente una persona, espellendola dal consesso civile; non possiamo di certo consentire una simile barbarie».
Lucarelli censore del nulla: "Moglie Soumahoro sceglie Borrè, ex avvocato di Priebke". E si becca una querela ! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022
All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet. All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale"
L’alza-palette di "Ballando con le Stelle", Selvaggia Lucarelli pubblicista da Civitavecchia ha scritto oggi su Twitter questo commento (bloccando inutilmente la visione al nostro giornale): "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione" scatenando sui social diverse reazioni polemiche sulla sua presa di posizione.
il tweet che la Lucarelli non voleva farci vedere
"Da avvocato, questa volta non sono d’accordo con te, Selvaggia. Noi abbiamo il dovere di rappresentare e difendere legalmente l’Assistito e non siamo, in alcun modo, associabili alle condotte o procedimenti dello stesso. Ogni avvocato ha poi il proprio stile di comunicazione", la stoppa subito @MirkoMelluso. Interviene in risposta all’avvocato e alla Lucarelli, @BettoMandolini "Curiosità, è mai esistito un avvocato difensore che di fronte all’evidenza, scoperta logicamente in un secondo tempo, abbia abbandonato il proprio assistito?".
E la scia continua con Emily74: "Magari alcuni avvocati potrebbero scegliere di non accettare incarichi anche se mediaticamente importanti, se la persona è oggettivamente indifendibile (Priebke). Ognuno risponde alla propria coscienza e si c’è un problema di comunicazione". E poi con @fantprecario: "Proprio perché indifendibile deve avere un avvocato. C’è chi si è fatto ammazzare per difendere le br pur sapendo di andare al patibolo ed essere contrario alle loro idee. Si chiama giustizia".
Botte e risposte vanno avanti: "La questione personale qui è irrilevante. Libero di scegliersi il cliente. Ad es non difenderei mai uno di Italia viva. Quello che rileva è che ciascuno, anche Veltroni ove imputato debba avere diritto a un giusto processo", dice @fantprecario. La lista delle frecciate reciproche fra chi la pensa come la Lucarelli e chi no è ancora lunga. E non manca chi storce talmente il naso da scrivere, come fa @JonnyFirebead: "Ma adesso si ‘giudica’ un avvocato dai suoi clienti? E che dovremmo pensare degli avvocati della Lucarelli?".
"Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post". All’avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di ‘ex avvocato di Priebke’ come se fosse un disdoro professionale", annuncia Borrè all’Adnkronos. "La Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke…", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.
"Peraltro non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, – aggiunge il legale – della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".
Finalmente qualcuno ci auguriamo darà una "lezioncina" in tribunale alla "tuttologa-pubblicista" nota alle cronache solo per le polemiche ricercate e talvolta provocate, dissertando su tutto dall’alto del nulla.
Redazione CdG 1947
“Avvocato uguale indagato”: Lucarelli precisa. Ma qualcosa forse le sfugge…La precisazione della giornalista sul caso di Lorenzo Borré, legale di Liliane Murekatete. E la risposta del direttore del Dubbio. Il Dubbio l’8 dicembre 2022.
Gentile direttore,
leggo sul suo giornale un articolo dal bizzarro titolo “Selvaggia Lucarelli e il vizio di confondere la difesa dell’imputato con la difesa del reato”. Segue una lunga lista di casi di avvocati minacciati e insultati per aver difeso assassini e stupratori. A questa lunga lista, appunto, viene associato un mio tweet che nulla ha a che fare con l’argomento trattato. Il tweet era: “Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione”. Dunque, sottolineavo il rischio di un inciampo in chiave di comunicazione, visto che la signora è accusata di aver violato diritti umani e di aver danneggiato la sinistra e ha scelto di rivolgersi a un avvocato ex Fronte della gioventù, noto soprattutto per aver difeso Priebke. La mia perplessità era per giunta sensata, visto che molti giornali hanno riportato la notizia della curiosa scelta di quell’avvocato (per giunta già data da Il Fatto prima di me), confermando una mossa comunicativa poco indovinata. Per il resto, sottolineo che io stessa in passato mi sono rivolta a uno dei tanti avvocati di Priebke, quindi direi che l’accusa di associare gli avvocati ai reati di cui si occupano non dovrebbe riguardarmi. E dovreste essere così gentili da non includermi in ragionamenti così barbari e semplicistici.
Grazie, Selvaggia Lucarelli
Gentile Selvaggia Lucarelli,
la sua “precisazione” ci fa molto piacere. Come avrà capito noi del Dubbio siamo parecchio sensibili all’argomento e “ossessionati” dai numerosi inciampi logico-dialettici per i quali gli avvocati diventano magicamente complici se non addirittura correi dei propri assistiti. È capitato spessissimo in passato, e continua ad accadere ogni giorno. E le posso assicurare che la nostra Valentina Stella, nel suo articolo, ha mostrato solo una parte della macelleria dei diritti e del massacro che subiscono sia gli avvocati sia gli indagati, la cui presunzione di innocenza è quotidianamente asfaltata da una informazione, quella sì, semplicistica e barbara. D’altra parte siamo certi che lei sia perfettamente in grado di distinguere tra le due categorie: tra chi esercita il diritto alla difesa di ognuno di noi e chi è invece accusato di aver commesso delitti spesso orrendi, come nel caso di Priebke. Ciò non toglie che anche nel suo tweet ci sembra di rintracciare un paio di sbavature. Nel momento in cui anche lei scrive che la signora Liliane Murekatete, la moglie di Soumahoro, avrebbe fatto bene a scegliersi un avvocato diverso dal difensore di Priebke, ammette implicitamente che sì: talvolta la sovrapposizione tra avvocato e cliente è fisiologica, inevitabile.
Provo ad anticipare la sua legittima obiezione: “Io non ho mai detto che la signora Liliane Murekatete avrebbe dovuto scegliere un altro legale perché identifico l’avvocato di Priebke con i reati commessi dal suo vecchio assistito; io l’ho fatto perché conosco il mondo della comunicazione e so bene che questo argomento sarebbe stato usato contro di lei”. Cosa che – gliene diamo atto – è puntualmente accaduta. E qui siamo alla seconda obiezione: ammettere che la scelta di un avvocato possa condizionare l’opinione pubblica, significa infatti cedere alla mediatizzazione del processo penale, vero male della nostra giustizia. È questo, gentile Lucarelli, che abbiamo cercato di mettere in luce. E confidando di avere una nuova alleata contro la carneficina dei diritti e il massacro della reputazione dei nostri avvocati, siamo certi che la avremo accanto nelle nostre battaglie quotidiane.
Davide Varì, direttore de Il Dubbio
«Sono una garantista. Soumahoro è innocente fino a prova contraria». L'avvocata e deputata di Fratelli d’Italia, fa il punto, a quasi due mesi dall’inizio della XIX legislatura, sui primi passi mossi dal governo Meloni. Ma parla anche del caso giudiziario che ha travolto l'ex sindacalista. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 7 dicembre 2022.
Sara Kelany, avvocata e deputata di Fratelli d’Italia, fa il punto, a quasi due mesi dall’inizio della XIX legislatura, sui primi passi mossi dal governo Meloni. Un’analisi che tiene conto anche della vicenda dell’onorevole Aboubakar Soumahoro, nei confronti del quale è scattata la solita gogna mediatica, che, però, non deve far finire su un secondo piano alcune questioni legate alla gestione dei fenomeni migratori.
«Fratelli d’Italia – spiega al Dubbio Sara Kelany -, subito dopo le elezioni politiche dello scorso 25 settembre, ha indicato una direzione chiara. Rispetto al programma sia del centrodestra che del mio partito, il presidente Meloni ha iniziato subito a seguire delle linee programmatiche molto precise. Si tratta di un percorso individuato non solo nell’ultima campagna elettorale, ma già qualche tempo prima nella conferenza di Milano. In tutto questo vedo una grande continuità».
Onorevole Kelany, di recente la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha manifestato vicinanza ai sindaci e ha rilevato che bisogna intervenire in materia di abuso d’ufficio. Qualcuno parla di “svolta garantista” di Fratelli d’Italia. Cosa ne pensa?
Io mi stupisco quando ci si viene a dire “svolta garantista” di Fratelli d’Italia. Il partito al quale appartengo non è mai stato giustizialista. Anche rispetto alla questione specifica dell’abuso d’ufficio, come il presidente Meloni ha avuto modo di chiarire bene, durante l’assemblea dell’Anci, la linea non è cambiata affatto. Sulla questione della “svolta garantista” mi permetto sommessamente di dire che se noi non fossimo stati un partito garantista, non ci sarebbe mai stata l’indicazione come ministro della Giustizia di una persona del calibro di Carlo Nordio. Eravamo e siamo consapevoli delle qualità del ministro della Giustizia, che, tra l’altro, è stato ospite della nostra conferenza programmatica di Milano. Fratelli d’Italia sta, dunque, seguendo un percorso naturale. Con riferimento all’abuso d’ufficio il presidente Meloni ha detto quello che in realtà chiedono tutti i sindaci. Pertanto, più che “svolta garantista” parlerei di “svolta pragmatica”. Mi faccia però aggiungere un’altra cosa.
Prego, dica pure…
La necessità che l’abuso d’ufficio venga rivisto, nonostante la norma sia stata ritoccata più volte, dimostra attenzione verso i sindaci, impegnati in prima linea sui territori. Si tratta, inoltre, di una necessità bipartisan, come dimostrano, per esempio, le dichiarazioni del sindaco di Firenze e del presidente dell’Anci, da affrontare senza paletti ideologici. La percentuale delle archiviazioni e delle assoluzioni con riferimento al reato di abuso d’ufficio nei confronti degli amministratori è altissima. Si tratta di una ulteriore spia che indica la necessità di apportare dei cambiamenti per evitare che le PA vadano incontro alla paralisi con la famosa paura della firma.
Lei si è espressa in maniera chiara sul caso del suo collega deputato, Aboubakar Soumahoro, affermando la contrarietà a “sparare ad alzo zero contro un avversario su questioni giudiziarie tutte da accertare”. Una critica chiara contro la gogna mediatica?
Bisognerebbe affrontare le cose con molta più serenità e soprattutto con cognizione di causa. Il collega Soumahoro non è neanche indagato. Il problema, quindi, non deve essere considerato di natura giudiziaria. Anche perché ci sono i Tribunali che giudicano e le Procure che indagano. Occorrerebbe che anche la stampa fosse, più che meno attenta, meno strillona rispetto a quelle che sono le vicende giudiziarie. Spesso e volentieri possono trasformarsi in una bolla di sapone. Il problema del caso Soumahoro è di natura strettamente politica.
A cosa si riferisce nello specifico?
La vicenda di cui stiamo parlando ha scoperchiato, secondo me, il vaso di Pandora rispetto alla gestione dell’immigrazione a livello territoriale. Il politico ha il dovere di guardare queste vicende sotto la lente non dell’innocentismo o del colpevolismo, ma sotto la lente della dinamica politica sottesa a determinati fatti. La dinamica politica parla di una gestione sconsiderata dei flussi migratori non solo a monte. Fratelli d’Italia si approccia alla questione dell’immigrazione con grande attenzione e oculatezza. Il blocco navale, per esempio, è necessario nei termini di una missione europea congiunta di pattugliamento delle coste del Mediterraneo per evitare le morti in mare. Il problema migratorio si presenta pure a valle in merito alla gestione dei centri di accoglienza e dei migranti sul territorio. Di qui il tema delle garanzie da fornire a chi sbarca sul suolo italiano. La vicenda Soumahoro ha messo in luce una serie di situazioni ed eviterei di aizzare il caso giudiziario, mentre mi soffermerei di più sul caso della gestione delle cooperative che si occupano di immigrati.
Il successo elettorale di FdI sta mettendo in crisi l’altro partito di destra della coalizione, la Lega?
Fratelli d’Italia è anche un partito territoriale. Abbiamo tanti contenuti. La crescita di FdI si è consolidata nel tempo e non è casuale. Siamo partiti nel 2012, fra pochi giorni celebreremo i primi dieci anni di vita. Siamo eredi di Alleanza nazionale, siamo poi confluiti nel Pdl. Io personalmente cammino al fianco del presidente Meloni da quasi trent’anni, per la precisione da ventisette. Siamo abituati a pensare il partito in termini territoriali. Abbiamo tanti amministratori capaci con esperienza ultra- decennale. Per questo io credo che FdI andrà incontro ad una crescita esponenziale sui territori.
Stiamo per celebrare il Natale con la guerra in Europa, come ottant’anni fa. Il vecchio continente fa i conti con i fantasmi del passato?
La speranza è che la guerra in Ucraina si risolva il prima possibile. Come già chiarito dal presidente Meloni in più occasioni, noi siamo senza esitazioni al fianco dell’Ucraina. Se una soluzione del conflitto si può immaginare, questa può avere come base la possibilità per l’Ucraina di difendersi da un attacco ingiustificato da parte della Russia. La chiarezza della nostra posizione in politica estera è sotto gli occhi di tutti.
Giustizia, il reato non è tutto. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022.
Partiti, pm e realtà. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie
I casi di cronaca con forte impatto politico accendono spesso un derby tra cosiddetti garantisti e cosiddetti giustizialisti. L’aggettivo «cosiddetti» qui è d’obbligo perché accade non di rado che opposte fazioni si scambino le parti secondo convenienza: chiedendo punizioni per gli avversari e invocando tutele per gli alleati. La presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio (per tutti, non solo per amici e affini) è già prevista dall’articolo 27 della Costituzione.
E tuttavia in Italia la teoria è spesso contraddetta dalla prassi. Così, dopo decenni di conferenze stampa usate da pubblici ministeri e investigatori per esibire arrestati e indagati (neppure rinviati a giudizio) quali trofei del Male sconfitto, è stato necessario correre ai ripari. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie. Abbiamo impiegato cinque anni per raggiungere il «compiuto adeguamento» dell’ordinamento interno alle previsioni dell’Unione europea e ci siamo riusciti con un decreto legislativo accorto e forse perfino più restrittivo della direttiva da cui origina, tanto da sollevare qualche perplessità tra gli addetti ai lavori.
In realtà, al netto di sempre possibili miglioramenti, non si può che essere lieti se un perimetro garantito di civiltà giuridica viene ripristinato nel rapporto tra la giustizia penale e l’informazione. E però non si può non ricordare che l’informazione ha doveri a prescindere dalla sfera giuridica di una vicenda. Il vizio consolidato di pescare a strascico dalle «carte» della Procura lacerti di verbale o di intercettazione contro l’indagato per spararli in pagina, così contribuendo a una gazzarra politica dove non si capiscono più torti e ragioni, non va confuso in alcun modo con gli obblighi che l’informazione ha verso i cittadini: il principale dei quali resta quello nei confronti del cittadino-elettore.
In democrazia i media (suoi «cani da guardia» secondo un’immagine un po’ retorica ma sempre viva) servono a segnalare a chi deve esercitare il diritto di voto se il politico che sta per essere eletto ne sia degno o se il politico già eletto stia facendo con dignità e onore il suo mestiere (ex articolo 54 della nostra Costituzione). E tutto questo, si badi, a prescindere dall’esistenza o meno di un’indagine della magistratura. Se il candidato Tizio fa campagna elettorale sostenendo di essere una bicicletta, non è inappropriato che i giornalisti vadano a controllare se abbia due ruote al posto delle suole. Se entra in Parlamento un sindacalista con gli stivali coperti del fango dei campi, per segnalare al mondo che il suo mandato sarà tutto rivolto a proteggere i diritti degli ultimi e il lavoro di braccianti e immigrati, il minimo che deve attendersi è che i media vadano nei campi e nei ghetti da cui è venuto per verificare la qualità delle sue promesse. Non lo si fa sempre, è vero, e questo è sbagliato. Ma è esattamente ciò che si è fatto nel recente caso dell’onorevole Aboubakar Soumahoro.
A prescindere dai suoi esiti, la vicenda del neoparlamentare eletto con Alleanza Verdi e Sinistra è preziosa perché segnala alcune peculiarità: ma, attenzione, non nel circuito tra giustizia e informazione quanto piuttosto in quello tra informazione e politica. A differenza di tante altre vicende in cui è sacrosanto invocare il garantismo perché la stampa si muove al traino di un’inchiesta giudiziaria, qui è l’inchiesta che s’è mossa, con cautela, al traino della stampa. I cronisti sono andati alla fonte diretta della notizia, da quei migranti e da quei rifugiati che si presumeva fossero protetti nei centri d’accoglienza gestiti dalla suocera e dalla compagna di Soumahoro e che negli anni s’erano ribellati più volte per le pessime condizioni delle strutture. Il resto, dalle borse griffate della signora Soumahoro sino alla difficoltosa autodifesa del deputato, è contorno e si iscrive alla voce delle umane debolezze. La sostanza è una finzione svelata, che chiama in causa da una parte la cronica opacità di molte cooperative che si occupano di migranti e dall’altra la difficoltà crescente nella selezione della nostra classe politica. Perché solo ora, dato che le proteste nei centri d’accoglienza erano reiterate negli anni? Perché adesso il ruolo dell’onorevole rende lecito il pubblico scrutinio anche sugli affari di famiglia.
Questa non è in alcun modo una vicenda penale (il deputato non è indagato e non ha parte attiva nelle cooperative della suocera e della compagna): è una vicenda tutta politica. E lo è anche per un altro motivo, segnalato da Alessandro Campi sul Messaggero: ci costringe a riflettere sulla costruzione in laboratorio di un falso mito ad uso di un’ideologia o di una leadership, rimandando ad altri casi, il più assonante dei quali è quello di Mimmo Lucano. Anche l’ex sindaco di Riace venne innalzato dalla sinistra radicale e dal sistema mediatico (non solo italiano) come simbolo della giustizia sociale, salvo rifiutare un seggio europeo sicuro, che pure gli era stato offerto, ed essere risucchiato poi dalle sue stesse leggerezze di gestione dentro un processo che ha già portato a una condanna in primo grado.
L’ostensione della bontà è un potente prodotto da veicolare in un mondo politico la cui profondità di visione si ferma a un tweet. Ma fa un salto di specie quando incrocia una pessima legge elettorale. Soumahoro, sul conto del quale erano già arrivati segnali di perplessità dai territori fino alle orecchie dei leader che lo hanno candidato, era stato bocciato dagli italiani nel confronto diretto: il 25 settembre aveva perso contro Daniela Dondi di Fratelli d’Italia, nel collegio uninominale di Modena, storico feudo della sinistra. Ma era stato ripescato in Lombardia nella lista plurinominale del centrosinistra grazie al proporzionale: con quel meccanismo sempre deprecato e sempre immutabile che assegna ai segretari di partito diritto di vita o di morte sui candidati in virtù della posizione nel listino. E che, di fatto, spezza il rapporto tra eletto ed elettore, base di qualsiasi dialettica democratica, almeno in teoria.
Soumahoro e il giallo della salma spedita tre volte in Mali. La Lega Braccianti ha dichiarato che parte di due raccolte fondi su GoFoundMe sono state utilizzare per spedire la stessa salma in Mali: una era quella per i regali dei bambini e l'altra per sostenere le spese di uno sciopero. Francesca Galici il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.
"Striscia la notizia" continua a scavare su Soumahoro. Da quando è scoppiato il caso delle coop legate alla famiglia di Aboukabar Soumahoro, deputato eletto con Sinistra italiana e Verdi, l'inviato Pinuccio ha iniziato un'inchiesta seguendo il filone che non solo porta alle coop ma anche alla Lega Braccianti, il sindacato fondato proprio da Soumahoro. Sono state numerose le persone intervistate che hanno rivelato le proprie verità al telegiornale satirico di Antonio Ricci. Striscia la notizia ha anche dichiarato di aver più volte cercato di contattare il deputato, fin dallo scorso 25 ottobre, senza aver ancora ottenuto una risposta.
La prefettura di Latina toglie gli affidamenti alla coop della famiglia di Soumahoro
Nell'ultima puntata andata in onda, quella del 2 dicembre, Pinuccio ha intervistato la direttrice di GoFundMe, Elisa Finocchiaro, perché alcune delle raccolte fondi online promosse dalla Lega Braccianti sono state aperte proprio su quella piattaforma. In particolare, l'inviato di Striscia la notizia ne ha individuate tre, lanciate con lo scopo dichiarato di aiutare chi vive nei ghetti dei braccianti. Iniziative lodevoli da parte di Aboubakar Soumahoro, che infatti hanno ottenuto un ottimo riscontro nelle donazioni. Gli obiettivi dichiarati di ciascuna erano diversi: una era per l’acquisto di cibo durante la pandemia; una per i regali di Natale ai bambini del ghetto; la terza per organizzare uno sciopero. In tutto, sono stati raccolti così 280.000 euro.
Ma, stando a quanto riferisce Pinuccio, i conti non tornerebbero. "Come ci ha detto la direttrice della piattaforma, negli aggiornamenti che doveva pubblicare la Lega Braccianti si trovava una sorta di rendicontazione. Però siamo andati a vedere gli aggiornamenti fatti sotto la raccolta per i regali di Natale e troviamo una cosa strana", dice Pinuccio nel servizio. L'inviato riferisce che "tra gli aggiornamenti giustificativi di spesa c'è la spedizione di una salma di un migrante". Un uso diverso rispetto allo scopo per la quale è stata lanciata la campagna, confermato anche dalla direttrice, intervenuta telefonicamente: "Aboubakar Soumahoro non ha dichiarato di averli recapitati a dei bambini, ha dichiarato di averli recapitati a Borgo Mezzanone alle persone presenti in quell'occasione senza specificare l'età dei beneficiari".
Ci sarebbe un elemento ancora più particolare dall'inchiesta portata avanti da Pinuccio. "Se andiamo a vedere gli aggiornamenti fatti sotto la raccolta fondi per lo sciopero a Roma c'è un aggiornamento uguale: anche lì sono stati usati fondi per spedire una salma. Solo che la salma è la stessa. L'hanno mandata due volte, è strano", dice l'inviato. A voler essere precisi, però, le date di aggiornamento delle due raccolte fondi sono le medesime: 20 gennaio 2022. Quindi è probabile che siano stati utilizzati fondi dall'una e dall'altra raccolta per il medesimo fine, perché forse solo con una non si sarebbe raggiunto l'importo necessario per il rimpatrio della salma. Resta però il punto dell'utilizzo dei fondi dei donatori per scopi diversi rispetto a quelli dichiarati. "Sulla piattaforma abbiamo una forma di garanzia che prevede che viene dimostrato l'utilizzo improprio dei fondi rispetto a quello che viene dichiarato sul testo della campagna, tutti i donatori vengono rimborsati. Li rimborsiamo noi e poi, ovviamente, in base alla lettera di attestazione facciamo i nostri passi successivi", spiega Elisa Finocchiaro.
Ma per il rimpatrio della stessa salma, Aboubakar Soumahoro aveva lanciato una raccolta fondi dal suo profilo Facebook il 4 gennaio di quello stesso mese. In quel caso, la raccolta passava attraverso le coordinate bancarie del conto corrente intestato alla Lega Braccianti.
Soumahoro e il "grand hotel migranti". Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La suocera del deputato "sistemò" 100 persone in un albergo fallito
Nuovo triste capitolo della saga sulle coop Soumahoro. Protagonista la Karibu, con presidente la suocera del deputato di sinistra Aboubakar Soumahoro che nel 2014 decise di sistemare i «suoi» migranti all'interno di un hotel di Latina fallito.
La struttura in questione è l'Hotel de la Ville, un quattro stelle - si fa per dire, stando alle recensioni - sottoposto a fallimento nel 2013 emesso dal giudice delegato Fabio Miccio del Tribunale di Roma, a causa delle istanze di tre creditori. L'hotel sarebbe dovuto finire sotto il controllo del curatore fallimentare in attesa di un'asta ad evidenza pubblica che ne decretasse i nuovi proprietari, ma non andò proprio così. Una società privata, infatti, continuò ad affittare le stanze dell'hotel ai turisti. Ed è in questo scenario che entrò in gioco Karibu firmando addirittura un contratto di locazione con la suddetta società per accogliere i migranti. Ciò avvenne senza nessun controllo da parte dei piani alti tanto che tra il 2016 e il 2017 all'interno di quella struttura alloggiarono turisti e migranti contemporaneamente. A confermare ciò le recensioni su Tripadvisor di alcuni clienti.
«Dopo la consegna delle chiavi attraverso un corridoio coperto con tende alquanto fatiscenti - si legge in una recensione del 2016 - da una parte noto un gruppo di extracomunitari fuori a fumare. Proseguendo lungo le scale cominciano (i migranti, ndr) a scendere in ciabatte, non mi rendevo conto di dove mi trovassi. Entro nella mia camera squallida a dir poco, con moquette e mobili orrendi, la porta che non chiudeva e gli uomini fuori a guardare. Sono subito tornata alla reception per ritirare i documenti e andarmene, la signora aveva il diritto di avvisarmi della situazione».
Gli ospiti non sarebbero stati infatti avvertiti che avrebbero soggiornato in quello che, concretamente, era un casolare sporco e degradato, ma che sulla carta Karibu presentava come centro di accoglienza all'avanguardia. E ancora: «Nemmeno il tempo di entrare in possesso delle chiavi della camera, che si apre la porta della sala da pranzo e fuoriesce una quarantina di extracomunitari. Non fraintendete - si legge nella recensione di un altro ospite, sempre nello stesso anno - ma come è possibile che non vengano informati anticipatamente gli eventuali clienti?».
Si scopre, poi, che i migranti nella struttura erano quasi 100: «La struttura ospita al momento 96 migranti maschi e giovani che gironzolano per hall e corridoio», specifica un'altra recensione. Che aggiunge: «Aiutano i gestori nei lavori». La madrina per eccellenza dell'accoglienza sembrerebbe quindi, in quel caso, aver posizionato le sue «risorse» all'interno di una struttura fallita, gestita a caso da una società che, oltretutto, chiedeva ai presenti di «aiutare» senza ricevere compenso, come hanno raccontato i migranti. «Cari signori - si legge infatti in un'altra recensione - se avete deciso di guadagnare con questa povera gente chiudete la porta al pubblico. Abbiate almeno la dignità di avvisare le persone che arrivano».
Ma c'è di più: oltre a tutto questo degrado Mukamitsindo, e quindi la Karibu, è risultata inadempiente anche al pagamento dei canoni pregressi e delle indennità richieste, per cifre che si aggirano intorno a centinaia di migliaia di euro. In pratica, nemmeno pagava l'affitto. Di conseguenza il curatore ordinò per Karibu lo sfratto per morosità. Era il 2017, ma solo nel 2019 Madame Soumahoro decise di trovare un'altra struttura, il tutto senza fare rumore.
Alla coop Karibu dei Soumahoro la villetta abusiva del medico pregiudicato. Un altro caso oscuro nel passato della coop Karibu della famiglia di Aboubakar Soumahoro, sindacalista eletto deputato con la sinistra. Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Un altro caso oscuro nel passato della coop Karibu della famiglia di Aboubakar Soumahoro, sindacalista eletto deputato con la sinistra. Tutto avviene nel 2016. Un blitz della Digos scopre che in una struttura gestita dalla coop vi sono 140 migranti invece di 80, numero massimo consentito dalla legge. Scatta un'evacuazione forzata imposta alla Karibu e la presidente, suocera del deputato, è costretta a spostare i lavoratori in un'altra sistemazione. A quel punto, sotto consiglio della Prefettura di Latina, Mukamitsindo individua una nuova location a Latina, in via Nascosa, una zona buia e lontana da occhi indiscreti. La suocera di Soumahoro conclude con i proprietari della villetta - due medici del posto - un contratto di locazione da 15 mila euro al mese. Ma poco dopo i residenti della zona presentano un esposto sulle condizioni fatiscenti della struttura e gli stessi migranti denunciano condizioni igienico-sanitarie disastrose, tra cui l'assenza dell'allaccio alla rete fognaria e la mancanza di cibo, acqua, luce e il non pagamento del pocket money.
Le ispezioni dei Carabinieri portano alla scoperta del fatto che la villa scelta per accogliere i migranti era abusiva. Ma non finisce qui. Si scopre che il proprietario del casolare, Carlo Del Pero, è un pregiudicato. L'uomo era presente per lavori di manutenzione in entrambi gli incontri con le forze dell'ordine: una sorpresa in quanto Del Pero era stato arrestato anni prima e si trovava in quel momento agli arresti domiciliari, evasi proprio sotto gli occhi delle guardie. Il medico, in quel momento giudicato in appello ma poi condannato in Cassazione nel 2018 con le accuse di associazione a delinquere finalizzata al falso in atto pubblico e falso materiale ideologico, era noto in città per il suo passato quando, concretamente, distribuiva certificati falsi ai pazienti. Inoltre, sempre Del Pero, era conosciuto anche dalle autorità per aver lavorato nella questura di Latina.
Il sequestro dell'abitazione per abusivismo edilizio è stato immediato e Marie Therese Mukamitsindo ha dovuto trovare un'altra sistemazione per i «suoi» migranti. Lo scandalo, all'epoca, occupò tutte le prime pagine dei giornali locali, ma non è ancora chiaro il motivo per cui le autorità competenti non verificarono né la struttura né il «curriculum» del proprietario prima di dare l'ok.
Ombre sui sindaci che osannavano Soumahoro. La Prefettura di Latina: stop gestione dei centri. Le denunce passate sotto silenzio: "Strutture senza gas né acqua potabile". Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La vicenda delle coop di famiglia Soumahoro è ormai esplosa con l'inchiesta della procura di Latina. Ed è fresco «l'annullamento dell'affidamento dei Centri di accoglienza straordinaria affidata alla Aid e alla Karibu» da parte della prefettura di Latina per assegnarli ad altri. In realtà, nonostante solo nelle ultime settimane sia venuta a galla un'amara verità, quello dell'associazione Karibu sembrerebbe un percorso opaco già da molti anni.
La coop vinse, infatti, il bando per la gestione del progetto Sprar - in ordine alla gestione dell'accoglienza migranti - nel lontano 2011 restando l'imperatrice dei migranti fino al 2018. Tutto senza rinnovare il bando, ma solo mediante continue proroghe da parte del Comune di Sezze di cui è stata partner per tutta la gestione.
A far passare come modello di integrazione per gli immigrati la Karibu è stata la sinistra delle amministrazioni dei comuni pontini che, fin da subito, ha esibito la creatura di Madame Soumahoro come esempio da seguire.
Gli occhi puntati su Latina attirarono, infatti, molta attenzione tanto che nel 2010 anche il Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna si recò a Sezze per fare i complimenti alla fondatrice della Karibù: «Cercheremo di non farvi mancare nulla, troveremo la maniera migliore per venire incontro alle vostre esigenze», disse.
Il metodo «immigrati che gestiscono l'accoglienza di altri immigrati», nascondeva però problematiche importanti ignorate dai piani alti e, sembrerebbe, insabbiate dalle amministrazioni locali. Le proteste per le condizioni in cui gli ospiti venivano fatti vivere furono immediate e a macchia d'olio in tutte le strutture - grandi e piccole - gestite dalla coop. Nel 2018 i migranti di un centro Karibù la accusarono pubblicamente: cibo immangiabile, pocket money inesistente e strutture non conformi ai minimi requisiti igienico sanitari, come confermato anche dall'Asl.
Un gioco andato avanti fino al 2019, quando non era più possibile prorogare la gestione alla Karibu senza un nuovo bando.
A partecipare furono l'associazione Arteinsieme e la coop di Mukamitsindo. Nonostante a quest'ultima le fossero stati pignorati i finanziamenti solo l'anno precedente, riuscì a presentare l'offerta economica più vantaggiosa - non è dato sapere come - e il comune di Sezze fu in procinto di decretarla vincitrice.
È solo grazie al presidente della Commissione Appalti, l'architetto Eleonora Doga, che riscontrò anomalie nella gestione economica e incongruità nei costi di sicurezza aziendali tanto da affidare una verifica che si concluse con l'affidamento all'altra associazione.
I nuovi gestori, una volta insediatosi nei centri gestiti fino a poco tempo prima da Karibu, trovarono esattamente ciò che oggi è agli onori della cronaca: condizioni di vita degradanti, mancanza di cibo e trattamenti al limite dell'umano.
«Strutture prive di allacci per l'erogazione di acqua e metano e acqua non potabile»: queste, tra le tante, le denunce rimaste inascoltate.
La Prefettura di Latina: stop gestione dei centri. Ombre sui sindaci che osannavano Soumahoro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.
Tutto quello che i "giornaloni" della sinistra si guardano bene dal raccontae: altrimenti chi li sente Marco Damilano e Roberto Saviano, i "protettori" mediatici di Soumahoro.
Aseguito dell’inchiesta della procura di Latina è ormai deflagrata la questione delle coop gestite dalla suocera e moglie di Soumahoro . E’ fresco “l’annullamento dell’affidamento dei Centri di accoglienza straordinaria affidata alla Aid e alla Karibu“ disposto della Prefettura di Latina per assegnarli ad altri. In realtà, quello della coopertiva Karibu sembrerebbe un percorso opaco già da molti anni, nonostante solo nelle ultime settimane sia venuta a galla un’amara verità sinora taciuta da molti, controllori compresi.
La coop Karibu infatti vinse il bando per la gestione del progetto Sprar per la gestione dell’accoglienza migranti nel lontano 2011 restando indiscussa fino al 2018. Tutto ciò senza rinnovare il bando, ma solo attraverso continue proroghe rilasciate dal Comune di Sezze di cui la cooperativa è stata partner per tutta la gestione.
E’ stata la sinistra delle amministrazioni dei comuni pontini che immediatamente ha esibito la “creatura” Karibu di Marie Therese Mukamitsindo come esempio da seguire, facendola passare come modello di integrazione per gli immigrati.
Gli occhi puntati su Latina attirarono molte attenzioni al punto tale che nel 2010 anche il Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna si recò a Sezze per fare i complimenti alla fondatrice della Karibù: “Cercheremo di non farvi mancare nulla, troveremo la maniera migliore per venire incontro alle vostre esigenze“, manifestando un’evidente cecità politico-amministrativa.
Il metodo Karibu “immigrati che gestiscono l’accoglienza di altri immigrati”, occultava delle importanti problematiche letteralmente ignorate dai piani alti e, sembrerebbe dalle prime indagini ed accertamenti della Procura di Latina, insabbiate dalle amministrazioni locali. Le proteste per le condizioni in cui gli ospiti erano costretti a vivere furono tante ed immediate estese a macchia d’olio in tutte le strutture gestite dalla cooperativa. I migranti di un centro di accoglienza della coop Karibù Nel 2018 la accusarono pubblicamente: strutture non conformi ai minimi requisiti igienico sanitari, come confermato anche dall’ Asl cibo immangiabile, pocket money inesistente .
Una situazione vergognosa protrattasi fino al 2019, cioè sino quando non è stato più possibile prorogare la gestione alla coopertiva Karibu senza un nuovo bando. A partecipare furono l’associazione Arteinsieme e la coop di Marie Therese Mukamitsindo. Nonostante a quest’ultima le fossero stati pignorati i finanziamenti solo l’anno precedente, riuscì a presentare l’offerta economica più vantaggiosa – non è dato sapere come – e il Comune di Sezze fu in procinto di decretarla vincitrice.
Il “giochetto” non andò in porto soltanto grazie all’architetto Eleonora Doga presidente della Commissione Appalti, la quale riscontrò anomalie nella gestione economica e incongruità nei costi di sicurezza aziendali disponendo una verifica che si concluse con l’affidamento all’altra associazione che una volta insediatosi nelle strutture gestiti fino a poco tempo prima dalla coop Karibu, trovarono esattamente ciò che oggi è agli onori della cronaca: “Strutture prive di allacci per l’erogazione di acqua e metano e acqua non potabile” ed i riscontri alle tante denunce rimaste inascoltate, con i migranti abbandonati a condizioni di vita degradanti, mancanza di cibo e trattamenti al limite dell’umano.
Ma tutto questo i “giornaloni” della sinistra si guardano bene dal raccontare: altrimenti chi li sente Marco Damilano e Roberto Saviano, i “protettori” mediatici di Soumahoro. Redazione CdG 1947
Bianca Leonardi per “il Giornale” il 6 dicembre 2022.
Erogazioni alla Karibu anche da parte del Comune di Roma. L'amministrazione capitolina avrebbe, prima con la pentastellata Raggi e poi con il dem Gualtieri, finanziato molto generosamente la creatura di Mukamitsindo, suocera dell'onorevole Soumahoro, ora indagata per truffa aggravata.
Come rivela L'Identità, nel 2021 la Karibu avrebbe ricevuto «pagamenti dalla Capitale per 30.303 mila euro: 8mila l'11 giugno, 6200 e 2900 il 9 settembre e 13203 il 5 novembre». Nell'anno precedente, il 2020, nelle tasche della regina dei migranti, sarebbero arrivati quasi 63mila euro «con due versamenti da 31.090 l'11 febbraio e 31.531 il 21 febbraio».
Controllando i bilanci, questo giro di soldi non compare. Nel 2020 la Karibù non ha - carte alla mano - rendicontato le entrate del Comune di Roma. Nel 2021 stessa cosa: il bilancio non mostra nessun finanziamento da parte della giunta Gualtieri. Allo stesso tempo anche i bilanci del Comune di Roma non tornano: la sezione relativa a «cooperative ed associazionismo», che corrisponde alle spese sostenute a sostegno delle associazioni del terzo settore, riporta uno zero.
Nessun finanziamento né per il 2020, né per il 2021 agli enti del terzo settore: questo è ciò che dicono i documenti dell'amministrazione capitolina. A contestare lo strano e presunto legame tra amministrazione e Karibu è Fabrizio Santori, capogruppo della Lega in Campidoglio: «Cifre altissime, che dal 2016 ad oggi ammonterebbero a oltre 2 milioni».
E ancora: «Vogliamo vedere i bilanci, sapere quanti bandi sono stati vinti da questa cooperativa anche a livello regionale e se siano mai arrivate prima lamentele dai lavoratori o da chi era loro vicino», conclude Santori. Le lamentele c'erano, le proteste dei lavoratori nei centri di accoglienza gestiti da Karibu anche - come Il Giornale ha documentato - ma la bomba è esplosa solo adesso.
Il leghista parla anche di «totale mancanza di controlli puntuali, seri ed accurati anche su quello dei diritti del lavoro, per la sicurezza, l'igiene, la sanità e la condizione dei dipendenti». Caso emblematico su questo fronte è proprio il blitz della polizia nel 2011, quando le forze dell'ordine trovarono in un centro Karibu 51 africani in un solo appartamento in condizioni di malnutrizione e sofferenza. La coop non venne colpita dallo scandalo ma, proprio nello stesso anno, vinse il bando Sprar assumendo la gestione di tutti i migranti sul territorio di Latina, continuando fino al 2018. Non solo: nonostante la perdita della maggior parte dei centri i finanziamenti a Madame Soumahoro sono andati avanti fino a pochi mesi fa. Che la pioggia di contributi non si sia fermata, quindi, sembrerebbe certo; più difficile capire in che modo e perché tutto quel denaro da parte del comune di Roma, non rendicontato nelle spese per le associazioni, sia arrivato nelle tasche di Karibu.
I soldi dallo Stato, il focus sulle fatture: le indagini sulla coop dei Soumahoro. La procura di Latina sta vagliando tutti i documenti contabili della cooperativa Karibù a caccia di anomalie. Intanto i sindacati continuano a chiedere un salvataggio per i dipendenti rimasti senza lavoro. Tonj Ortoleva il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il denaro ricevuto dallo Stato per l’accoglienza dei migranti e l’uso effettivo che ne è stato fatto. Su questo si concentrano le indagini della procura di Latina che nelle ultime settimane ha moltiplicato i riflettori sulla cooperativa Karibù, gestita dai familiari dell’onorevole Aboubakar Soumahoro e che sta cercando conferme alle denunce arrivate da varie fonti. Gli investigatori della guardia di finanza stanno concentrando la loro attenzione su alcuni particolari rapporti tra la cooperativa ed alcuni fornitori su fatture con importi consistenti.
Un fiume di denaro per gestire l’accoglienza
La cooperativa Karibù ha gestito almeno 5 milioni di euro in 18 anni di attività nella provincia di Latina. La coop di Marie Therese Mukamitsindo ha gestito negli anni i maggiori centri di accoglienza nella provincia di Latina e lo ha fatto non senza polemiche e sospetti. Sui quali però solo ora si sono accese seriamente le luci delle indagini. Tanto per fare un esempio, sui soldi percepiti dalla cooperativa ci sono sempre state illazioni. Alcuni dipendenti, arrabbiati perché senza stipendio, riferivano di presunti passaggi di denaro dall’Italia all’Africa, in particolare in Ruanda, terra natia di Mukamitsindo. Illazioni, chiacchiere le hanno sempre bollate dalle parti di Karibù. Sfoghi senza alcun fondamento da parte di personale dipendente che era senza stipendio. Solo che ora, a quanto pare, quella chiacchiera è finita all’attenzione degli investigatori che intendono verificare se sia vera o meno questa vicenda. Di certo gli investigatori della guardia di finanza di Latina stanno approfondendo il capitolo relativo alle fatture verso l’estero emesse dalla cooperativa e ritrovate nei documenti di bilancio.
Il nodo dei lavoratori ancora senza soldi
In queste ore continuano gli incontri tra i sindacati e il prefetto di Latina Maurizio Falco per risolvere il nodo legato alla situazione difficile in cui versano i lavoratori di Karibù e del consorzio Aid. “Abbiamo incontrato il prefetto - spiega Gianfranco Cartisano della Uiltucs - e gli abbiamo ufficializzato le nostre richieste, ossia le criticità che riteniamo opportuno affrontare nell'incontro che sarà fissato a breve. In primo luogo la necessità urgente è il pagamento degli stipendi arretrati e la ricollocazione dei lavoratori nelle società nuove affidatarie dopo l’azzeramento degli appalti applicato dalla Prefettura. Come Uiltucs Latina oltre alle problematiche causate dalla Coop Karibu e AID abbiamo la necessita' di rispristinare e sensibilizzare un modello di politiche nel settore dell'accoglienza ed integrazione diverso, virtuoso e soprattutto dignitoso per i lavoratori. Il settore le cooperative i soggetti che gestiscono i progetti possono e debbono tener conto di questa forza Il tavolo istituzionale deve servire a voltare una brutta pagina della nostra Provincia: l'obiettivo è ricollocare i veri addetti dell'accoglienza e dell’integrazione, i soli che hanno gestito con professionalità ed hanno pagato il prezzo più alto della cattiva gestione delle cooperative".
Il caso Soumahoro a parti invertite. Lacrime, sceneggiate, stivali verdi da bracciante, la solita autoanalisi della sinistra afflitta e contrita. Gabriele Barberis su Il Giornale il 2 Dicembre 2022
Lacrime, sceneggiate, stivali verdi da bracciante, la solita autoanalisi della sinistra afflitta e contrita. La brutta vicenda legata alla coop di famiglia del parlamentare Aboubakar Soumahoro si sdoppia in uno psicodramma che viaggia in parallelo con una Procura, quella di Latina, decisa ad andare fino in fondo su accuse di irregolarità e sfruttamento di poveri lavoratori stranieri.
Sul piano giudiziario, visto con l'ottica garantista, c'è soltanto da lasciare operare in tranquillità i magistrati senza sollecitare o auspicare svolte clamorose. Dal punto di vista politico c'è poco da aggiungere alla figuraccia irrimediabile dell'ex sindacalista di colore, rivelatosi un opportunista lambito da tutti i fenomeni negativi legati allo sfruttamento degli immigrati. Proprio lui che ha costruito la sua resistibile carriera di paladino dei migranti su delega della solita sinistra chic e annoiata che ha costruito in salotto un anti-Salvini da erigere a esempio di disinteresse e virtù.
Forse è stata questa gogna, realizzata da Soumahoro con le sue stesse mani, a placare la sete giustizialista. Il volto nuovo del Parlamento che cade un mese dopo l'elezione, di fatto è già condannato dalla corte dell'opinione pubblica. Il Palazzo ha digerito negli anni ogni tipo di personaggio che pareva irresistibile, figurarsi un parvenu come Aboubakar.
Il dibattito sereno su guai giudiziari o paragiudiziari è senz'altro un grande segno di maturità generale. E va dato atto al centrodestra, che predica il garantismo come elemento fondante del suo Dna, di avere censurato l'esponente verde sul piano dei comportamenti pubblici senza invocare giri di manette o decadenza del seggio per indegnità. L'onorevole Soumahoro può restare tranquillamente al proprio posto e proseguire l'attività parlamentare in attesa degli sviluppi del caso.
Non occorre tuttavia una fantasia sfrenata per immaginare un caso analogo a parti invertite, con un esponente del centrodestra sfiorato da analoghe vicende penali e familiari. Il tribunale mediatico avrebbe già issato le ghigliottine con lo stesso spirito con cui gli allora ministri Federica Guidi e Maurizio Lupi furono giustiziati e costretti a dimettersi sull'onda di uno spirito giacobino che ingigantì episodi marginali alla stregua di reati da galera. Guarda caso nei confronti di due esponenti moderati di un governo di sinistra.
Le anime belle alla Soumahoro, che predicano fratellanza solo all'interno della stessa compagnia di giro, sono le stesse che hanno invocato provvedimenti per la figlioletta del premier Meloni al seguito della mamma al G20 di Bali e per le accelerate del figlio di Salvini sulla moto d'acqua della Polizia. Qualcuno è ancora convinto che i valori si annidino soltanto da una parte mentre l'altra diventa il ricettacolo di fascisti, evasori e ladri da fermare preventivamente per il bene superiore della società. La loro. Sempre più lunare e sempre più irriconoscibile per milioni di elettori normali.
Da “Striscia la notizia” il 29 novembre 2022.
Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Valerio Staffelli consegna il Tapiro d’oro a Laura Boldrini che nel 2018, in occasione della decima edizione del MoneyGram Awards per imprenditori immigrati, premiò come migliore imprenditrice straniera Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro, oggi indagata per truffa aggravata e false fatturazioni nell’ambito dell’indagine della procura di Latina sulla gestione di due cooperative.
«Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte», si difende Laura Boldrini, che aggiunge: «La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Il Tapiro d’oro consegnatelo anche alla giuria del premio».
«Quindi lei non aveva verificato?», chiede l’inviato. «Con una giuria di questo tipo chi non si fida? - risponde la deputata del PD - Penso che avrebbero dovuto fare loro questo lavoro. In quegli anni lì chi ha deciso di darle il premio evidentemente non sapeva nulla. Poi sono emerse queste magagne. Chiaramente oggi nessuna giuria avrebbe fatto questa scelta», conclude Boldrini.
Caso Soumahoro, Striscia la notizia consegna il tapiro a Laura Boldrini. Striscia la notizia continua a seguire il caso Soumahoro e ha raggiunto Laura Boldrini per consegnare il tapiro d'oro. Francesca Galici il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.
Da quando è scoppiato il caso delle Coop della famiglia di Aboukabar Soumahoro, Striscia la notizia ha deciso di occuparsi della vicenda per andare a fondo e scoprire cosa ci sia dietro le indiscrezioni che sono uscite negli ultimi giorni. L'inviato Pinuccio si sta occupando della Lega Braccianti e delle segnalazioni di chi ha conosciuto il deputato durante le sue battaglie per i braccianti, rivelando alcuni presunti retroscena sulla sua partecipazione alle battaglie in favore dei braccianti. Ma nel servizio che andrò in onda questa sera nel corso della puntata odierna del telegiornale satirico di Antonio Ricci, Valerio Staffelli consegnerà un tapiro d'oro a Laura Boldrini.
"Usava noi migranti per fare carriera". Altre accuse a Soumahoro
Come altri prima di lei, anche l'ex presidente della Camera dei deputati si smarca dalla vicenda. Va specificato che Aboukabar Soumahoro non è indagato e che le attenzioni della procura si concentrano su sua moglie e sua suocera. Ed è proprio quest'ultima il perno del servizio di Valerio Staffelli. Marie Therese Mukamitsindo, infatti, è stata premiata nel 2018 in occasione della decima edizione del MoneyGram Awards per imprenditori immigrati, premiò come migliore imprenditrice straniera. La donna ora è indagata per truffa aggravata e false fatturazioni. A premiare la suocera di Aboukabar Soumahoro è stata proprio Laura Boldrini, raggiunta da Valerio Staffelli.
"Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte", ha dichiarato l'ex presidente della Camera, smarcandosi dal premio: "La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Il Tapiro d’oro consegnatelo anche alla giuria del premio". Davanti alle parole di Laura Boldrini, Valerio Staffelli ha punto la deputata chiedendole se avesse premiato senza aver prima verificato, ma l'esponente del Pd ha immediatamente replicato: "Con una giuria di questo tipo chi non si fida? Penso che avrebbero dovuto fare loro questo lavoro. In quegli anni lì chi ha deciso di darle il premio evidentemente non sapeva nulla. Poi sono emerse queste magagne. Chiaramente oggi nessuna giuria avrebbe fatto questa scelta".
Bianca Leonardi per “il Giornale” il 7 Dicembre 2022.
«La situazione che emerge su sua suocera è terrificante», così la dem Boldrini a Radio 1, a «Un giorno da pecora», riguardo la vicenda Soumahoro. Quella suocera che lei personalmente ha premiato come miglior imprenditrice straniera nel 2018. E anche sulla moglie del deputato, anzi sulle famose borse, dice la sua: «Bastano 200 euro per una borsa, magari erano finte».
E il collega deputato lo scarica così: «Non ha fatto sentire la sua voce, questo è un neo pesantissimo», «non ritengo plausibile che lui non sapesse». E sul «non sapere» citato dall'ex presidente della Camera c'è da dire che le coop di famiglia Soumahoro non sono le uniche ad aver nascosto lati oscuri, tanto più - sembrerebbe - sui rapporti diretti con esponenti Pd.
Nel comune di Roccagorga, insieme a Karibu operava un'altra coop dal nome «Fantasie».
Un blitz dei carabinieri trovò all'interno di un appartamento, che doveva ospitare 6 persone, addirittura 46 rifugiati. A causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita disumane, i Carabinieri prima irruppero negli uffici della Regione Lazio, che aveva come presidente Zingaretti, poi presentarono un dossier sulle anomalie nei contratti tra «Fantasie» e Regione.
Carte che sono rimaste nei cassetti e che hanno visto solo l'arresto dei padroni di casa della coop in questione.
Ad intervenire fu la Lega, nelle parole del capogruppo in Consiglio regionale Angelo Tripodi, sui presunti legami tra dem e le coop, a partire dalla Karibu: «Ora si capisce l'attenzione del Pd per i migranti. L'assessore ai servizi con delega ai migranti di Roccagorga è dipendente della Karibu, un ex funzionario comunale - Nareste Orsini- risulterebbe consulente della stessa, il responsabile dell'ufficio tecnico comunale- Vincenzo Basilisco - ha messo a disposizione uno degli immobili di proprietà e anche il comandante dei vigili urbani- Fiorella Tolfa - avrebbe affittato alla Karibu un locale di famiglia».
E anche sui finanziamenti il consigliere del Carroccio fu chiaro, presentando anche un'interrogazione proprio al governatore Zingaretti: «Il paradosso è che Latina, con 126mila abitanti gestiva circa 500mila euro in tre anni, mentre Roccagorga, con 5mila abitanti, oltre 300 mila in un anno». Ma c'è di più: un'altra coop agiva insieme a Karibu, dividendosi i migranti da destinare alle strutture.
La romana «Tre Fontane» è stata infatti sbugiardata da testimonianze shock da parte degli ospiti. Una su tutte quella di Mohammed Ba che racconta di un trattamento di schiavitù: «Le condizioni di vita di questo centro sono miserabili, sono disumane» e ancora «perché italiani pensano di avere il diritto di maltrattarci come oggetti senza alcun valore». Su questo, oltre a una replica della coop che smentiva tutto, è calato il silenzio.
Si scopre però che «Tre Fontane» è la cooperativa coinvolta nel business dei migranti nell'inchiesta Mafia Capitale, che ha visto arrestati molti esponenti politici - la maggior parte del Pd - tra cui l'ex presidente dem del consiglio comunale di Roma Mirko Croatti. La coop nel 2015 ricevette infatti un'interdittiva anti-mafia, ma già agli inizi del 2016 risultò legittimata a partecipare ai bandi emessi dalle prefetture di tutta Italia. Oggi quella coop è confluita nel colosso italiano dell'accoglienza, Medihospes, che nonostante fiumi di indagini e non solo, nel 2020 solo a Roma lavorava in una condizione quasi di monopolio, gestendo il 63% di tutti i posti di accoglienza.
Da liberoquotidiano.it il 29 novembre 2022.
"Sorprendentemente guadagna uno 0,3%": Enrico Mentana snocciola le cifre dell'ultimo sondaggio Swg condotto per il TgLa7. E sottolinea con un certo stupore la crescita di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana. Il giornalista, infatti, ha fatto presente che sarebbe stato lecito aspettarsi tutt'altro risultato considerato il caso Soumahoro, eletto proprio con Verdi-Si in Parlamento. L'Alleanza di Bonelli e Fratoianni, invece, sale dal 4 al 4,3% in una settimana.
In vetta alla classifica resta Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, che in sette giorni perde solo lo 0,1% dei consensi, arrivando così al 30,3. A seguire, con un distacco non indifferente, c'è il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, stabile al 16,9%. Ormai al terzo posto il Pd di Letta, che continua a perdere consensi. I dem, infatti, sono passati dal 16,2% del 21 novembre al 15,8 di oggi, perdendo così lo 0,4%.
Subito dopo ci sono Azione e Italia Viva all'8,1% (+0,2%); la Lega al 7,8% (+0,2%) e Forza Italia al 6,5 (+0,1%). A seguire, dopo Verdi e Sinistra Italiana, troviamo PiùEuropa al 2,8%, ItalExit al 2,2 e Unione popolare all'1,6%. Il sondaggio in questione ha registrato anche l'opinione generale dei cittadini sulla manovra approvata dal governo. Su una scala di voti da 1 a 10, la legge di Bilancio della Meloni è stata giudicata con un 5,3. In passato quella di Draghi era stata valutata 5,8; quella del Conte II 4,7 e quella del Conte I 5,3.
Piero Santonastaso per professionereporter.eu il 7 Dicembre 2022.
Ho visto cose che voi giornalisti non potreste immaginarvi… Eccomi, mi candido a essere intervistato: dal 2017 al 2020 ho lavorato insieme ad Aboubakar Soumahoro – nell’Unione Sindacale di Base – rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo – anche come autista – nelle prime uscite ufficiali.
Era il momento della costruzione del personaggio, salito alla ribalta in contemporanea con il governo gialloverde nel giugno del 2018. Merito della famigerata copertina dell’Espresso “Uomini e no”, con i faccioni affiancati di Abou e Matteo Salvini.
Quella copertina fu il trampolino di lancio per la carriera politica di Soumahoro, una lunga rincorsa iniziata non con lo sparo di uno starter ma con le fucilate che il 2 giugno si erano prese la vita di Soumaila Sacko, bracciante maliano e attivista sindacale USB, assassinato mentre recuperava lamiere in una fornace abbandonata per costruire l’ennesima baracca nel “campo informale” di San Ferdinando, in Calabria.
Abou guidava allora le manifestazioni di protesta dei braccianti, con il suo carisma, la presenza fisica, il perfetto italiano da laureato. Poteva Diego Bianchi – in arte Zoro – non rimanere folgorato sulla via di San Ferdinando da tanta magnificenza? No, e come dargli torto? Il barometro politico a sinistra segnava “brutto stabile”, sul lato opposto un tale sentenziava che “la pacchia è finita” e un altro che la povertà era stata abolita.
La vista di Soumahoro dovette sembrare a Zoro l’apparizione di una “madonna pellegrina”, per dirla con Sergio Saviane. Fu così che il nostro bravo conduttore tornò dalla Calabria con un bel servizio e una convinzione, subito condivisa con il sodale Marco Damilano: abbiamo un leader per la sinistra.
L’invito per Abou a Propaganda Live e la copertina dell’Espresso furono i botti di richiamo prima di uno spettacolo pirotecnico. Da quel momento si moltiplicarono le richieste di intervista dall’Italia e dall’estero.
Non contava il contenuto, l’importante era che Abou parlasse. Così, se prima il meglio che potesse capitare era un servizio – con tutto il rispetto – di Radio Radicale, ora si mettevano in fila la BBC e Le Monde, Rolling Stone e Russia Television, Orf e Frankfurter Rundschau. Per tacere degli italiani, tra i quali solo Mediaset ci pensò su una ventina di giorni, prima di farsi viva.
Ma era solo l’inizio, tutti lo cercavano, tutti lo volevano. La regia, però, uscì pian piano dalla disponibilità di USB e passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano (consiglio, in proposito, di recuperare la spassosa pagina di Stefano Disegni sul Fatto Quotidiano di domenica 4 dicembre).
La costruzione del personaggio da quel momento divenne una faccenda a tre, fino alla definitiva e immotivata (o motivata, questione di punti di vista) rottura con USB nel luglio 2020.
Abou svanì in lontananza, verso il suo sindacatino personale, la Lega Braccianti oggetto oggi di tanta attenzione. Sparì per un po’ dai media nazionali e internazionali, anche la sua rubrica sull’Espresso si fece saltuaria, fino al ritorno in pompa magna per le ultime elezioni politiche con la conquista di un seggio alla Camera.
Oggi è tornato sotto i riflettori, tristissimi, dei media italiani. Fatta la tara alle opinioni personali e politiche su Aboubakar Soumahoro, le varie testate – con pochissime eccezioni – somigliano a una muta di bloodhound impegnati nella caccia al negro per applicare la legge di Lynch.
Perché di questo si tratta: quattro anni fa Abou era il nuovo che avanzava, circonfuso di luce, oggi è un politico debole e isolato, ideale per il tiro al bersaglio. Ha fatto errori a valanga, così come i suoi mentori che adesso se ne lavano le mani, ma non è oggetto di indagini giudiziarie.
Sarebbe bello – e la stampa italiana ne trarrebbe lustro – se questo incessante rovistare, anche nella spazzatura, fosse applicato con la stessa intensità e la stessa costanza a schiere di politici dalla pelle bianca che magari oggetto di indagini giudiziarie lo sono veramente.Coraggio cari colleghi, la pratica Abou vi dimostra che “si-può-fare” (cit.). Basta volerlo.
"Così Damilano e Zoro hanno creato il fenomeno Soumahoro". Piero Santonastaso svela la scalata mediatica del deputato italo-ivoriano: "Sulle sue doti si è innestata un'operazione politica, volevano un nuovo leader della sinistra". Luca Sablone l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Al di là dell'aspetto giudiziario, la vicenda Aboubakar Soumahoro è stata l'occasione che ha svelato tutta l'ipocrisia della sinistra. Il fronte rosso era convinto di aver trovato il suo nuovo potenziale leader, salvo poi abbandonarlo in un silenzio assordante alla luce della vicenda sulla cooperativa Karibu. Il deputato italo-ivoriano è arrivato in Parlamento anche grazie a una scalata mediatica che gli ha dato l'opportunità di prendersi spazi televisivi non indifferenti che l'hanno portato a essere dipinto come un estenuante difensore dei lavoratori stranieri sfruttati.
Come è nato il fenomeno Soumahoro
L'approdo alla Camera è solo l'ultima fase di un'ascesa mediatica che si è fatta via via più potente. A spiegare come è nato il fenomeno Soumahoro è stato Piero Santonastaso che, scrivendo su professionereporter.eu, ha fatto sapere di aver lavorato insieme all'italo-ivoriano nell'Unione sindacale di base dal 2017 al 2020 "rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo – anche come autista – nelle prime uscite ufficiali".
Come si è giunti alla creazione del personaggio? Santonastaso ha individuato due fulcri principali: da una parte Marco Damilano, dall'altra Diego Bianchi (in arte Zoro). Non può passare in secondo piano la nota copertina de L'Espresso risalente al 2018 dal titolo "Uomini e no" che ritraeva rispettivamente il volto di Soumahoro e quello di Matteo Salvini. Questo passaggio viene reputato il trampolino di lancio per la carriera politica del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana.
Aboubakar Soumahoro: il silenzio dei buonisti della tv di sinistra
L'italo-ivoriano è salito alla ribalta mentre era in vita il governo gialloverde, precisamente nel giugno del 2018. Guidava le manifestazioni di protesta dei braccianti, sfoggiando il suo carisma e una presenza fisica che hanno attirato l'attenzione della sinistra. Non a caso Santonastaso, intervistato da Libero, ha fatto notare che "sulle sue doti, innegabili, a livello di leadership e sulle lotte sindacali si è innestata un'operazione politica".
Il duo Damilano-Zoro
A svolgere un ruolo importante è stata anche l'intervista a Propaganda Live, programma in onda su La7 capitanato da Zoro. "Poteva Diego Bianchi non rimanere folgorato sulla via di San Ferdinando da tanta magnificenza?", ha annotato Santonastaso. Secondo cui la prima pagina de L'Espresso e l'ospitata a Propaganda Live hanno rappresentato "i botti di richiamo prima di uno spettacolo pirotecnico". Da qui "una convinzione, subito condivisa con il sodale Marco Damilano: abbiamo un leader per la sinistra". Il risultato? Una marea di richieste di interviste dall'Italia e dall'estero.
Santonastaso ha posto l'attenzione sul fatto che "la regia" uscì pian piano dalla disponibilità di Usb e "passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano". Infine ha sottolineato che Soumahoro "era molto calato nella parte e un po' di vanità l'ha coltivata", tanto che a un certo punto della sua vita da sindacalista "è stato tentato da altre sirene".
"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro
Nei giorni scorsi Diego Bianchi ha affrontato il caso e ha messo le mani avanti: "Non siamo imbarazzati, l'imbarazzo è l'ultimo dei sentimenti". Non ha fatto mancare una presa di posizione ("Siamo incazzati, delusi, amareggiati"), ma al tempo stesso ha messo le mani avanti e ha voluto accentuare i contorni di Soumahoro ricordando la foto con Papa Francesco: "Stiamo parlando di questo fenomeno, stiamo parlando di questo calibro qua". Poi ha respinto le accuse di aver creato il personaggio: "Noi non lo stiamo scaricando. Non vorrei sbagliarmi: lui su questo palco è salito due o tre volte: due sicuro, sulla terza ho già qualche dubbio. Da quello che leggo sembra che tutte le settimane stesse qua".
Soumahoro? "La vera storia della sua ascesa": chi inchioda Diego Bianchi. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano l’08 dicembre 2022
Questa è la storia della costruzione di un personaggio che pensava di spiccare il volo. Fino alla conquista della leadership della sinistra. «Aboubakar era molto calato nella parte e un po' di vanità l'ha coltivata. Diciamo che a un certo punto della sua vita da sindacalista è stato tentato da altre sirene...». Piero Santonastaso ha lavorato per Aboubakar Soumahoro per quasi quattro anni (tra il 2017 e il 2020) ai tempi dell'Unione sindacale di base (Usb). E nessuno meglio di lui può raccontare l'ascesa, e i prodromi della caduta, del deputato dell'Alleanza Verdi-Sinistra, travolto dalle disavventure che hanno colpito la sua famiglia, sotto accusa per la gestione di due Cooperative specializzate nell'accoglienza dei migranti.
COPERTINA E TV - Santonastaso ha affidato a professionereporter.eu la sua testimonianza sul caso del momento. Del resto chi meglio di lui, che ha passato tutto quel tempo con Soumahoro - «rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo, anche come autista» - può sapere cosa si cela dietro la maschera di Abou, che dall'inizio della bufera mediatica ha alternato lacrime a invettive?
Santonastaso, conversando con Libero, individua due tornanti decisivi. Il primo nel giugno 2018, quando esce la famosa copertina dell'Espresso- «Uomini e no»- che mette Soumahoro in contrapposizione a Matteo Salvini. Quello fu «il trampolino di lancio per la carriera politica» di Aboubakar. L'ivoriano già guidava le manifestazioni di protesta dei braccianti, ricorda il giornalista. «Sulle sue doti, innegabili, a livello di leadership e sulle lotte sindacali si è innestata un'operazione politica». I cui registi sono stati Diego Bianchi - alias "Zoro", conduttore di Propaganda live- e Marco Damilano, ex direttore dell'Espresso. «Tutti lo cercavano, tutti lo volevano. La regia, però, uscì pian piano dalla disponibilità di Usb e passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano», scrive Santonastaso. Propaganda live visita San Ferdinando, in Calabria, centro di azione di Abou. «Da quel momento si moltiplicarono le richieste di intervista dall'Italia e dall'estero».
Nulla pareva fermare l'ascesa di Soumahoro. «Abbiamo un leader per la sinistra», arriva a pensare il duo Zoro-Damilano. Perché ai temi tipicamente "progressisti", l'attuale deputato aggiunge carisma, presenza fisica, perfetto italiano da laureato e una certa predisposizione per la «forma. Indugiava in pomposità e ampollosità. Diciamo che era un Macron in sedicesimo», la butta là Santonastaso.
IL NUOVO SINDACATO - Il secondo snodo è l'improvviso addio all'Usb, nel luglio 2020. «Dall'oggi al domani, senza dire una parola. Non ci sono rimasto male solo io, ma tutto il sindacato, dove Soumahoro è sempre stato portato in palmo di mano». Aboubakar sceglie di correre da solo, fonda la Lega braccianti. Una rottura che Santonastaso definisce «immotivata (o motivata, questione di punti vista»). A ben guardare le avvisaglie della corsa solitaria c'erano già state con la celebre immagine di Soumahoro che si incatena a villa Phamphilij mentre sono in corso gli "Stati generali dell'economia" convocati dall'allora premier Giuseppe Conte. «Era prevista l'audizione di tutte le parti sociali, compresa l'Usb, ma lui decise di dissociarsi, chiedendo di essere ricevuto come "soggetto altro" rispetto alle sigle sindacali», ricorda l'ex collaboratore. Da quel momento inizia la cavalcata che lo porterà in Parlamento. L'inizio della fine, a guardare ciò che è successo dall'ingresso a Montecitorio con gli stivali lordati di fango. «Ha fatto errori a valanga, così come i suoi mentori che adesso se ne lavano le mani, ma non è oggetto di indagini giudiziarie», è la sentenza di Santonastaso. Già, gli errori: quale il principale? «Si è fatto prendere dal suo personaggio, si è sopravvalutato».
Il caso Soumahoro, ascesa e caduta della sinistra «televisiva» che rischia di trascurare i diseredati. Ieri i leader della sinistra ecologista Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, entrambi con un passato recente di impegno in Puglia tra Regione e consiglio comunale di Taranto, hanno provato a spiegare la loro «irresponsabilità» sulla vicenda nel salotto Rai di Lucia Annunziata. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Novembre 2022
Il caso Soumahoro? Una salita e discesa vorticosa tra «altare» e «polvere», come in un surreale verso del «5 maggio» in loop. L’inchiesta sulle presunte irregolarità a danno degli immigrati che sarebbero state commesse nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie del sindacalista eletto alla Camera da Verdi-Sinistra italiana, registra ogni giorno nuovi sviluppi. La disavventura familiare del politico italo-ivoriano, però, corre il rischio di travolgere in un colpo solo la sinistra solidarista pro migranti, il mondo generoso delle cooperative che si impegnano rispettando le regole per l’accoglienza e anche lo stesso Aboubakar, che alla tempesta mediatica ha risposto con battute di dubbio gusto, richiamando «il diritto alla moda e all’eleganza» per difendere la moglie tutta griffata nonostante i lavoratori delle sue strutture lamentassero drammatici ritardi negli stipendi.
Ieri i leader della sinistra ecologista Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, entrambi con un passato recente di impegno in Puglia tra Regione e consiglio comunale di Taranto, hanno provato a spiegare la loro «irresponsabilità» sulla vicenda nel salotto Rai di Lucia Annunziata. Il risultato, nonostante la non particolare incisività delle domande formulate dalla giornalista (evidenziata in una nota puntuta dal vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri), lo possono giudicare i lettori ripercorrendo con noi le risposte salienti dei due politici. Fratoianni in replica alla definizione di «raggiro» per definire il caso del sindacalista: «Non direi frode ma sicuramente un corto circuito, questo sì, tra chi interpreta una battaglia e comportamenti e scelte che gettano ombre. E questo pone un problema, che quelle lotte vengano messe in difficoltà. (…) Io non mi pento della scelta (di candidarlo, ndr). Spero che l'evoluzione della vicenda porti a una assoluzione e comunque mi occuperò di tutelare chi su questo fronte continua a lavorare».
Angelo Bonelli sui rilievi mediatici della vicenda: «Soumahoro non è coinvolto in nessuna inchiesta giudiziaria. Oggi, i giornali titolano “Il clan Soumahoro”. Lo trovo incredibile, perché si è garantisti con chi ha in corso procedimenti giudiziari, qui non c’è alcun procedimento». Poi aggiunge: «Noi siamo chiamati ad essere rigorosi, molto di più di altri. Non eravamo a conoscenza di queste questioni prima della campagna elettorale e non lo erano nemmeno tanti sindaci e prefetti, presidenti del Consiglio».
Soumahoro nel giro di pochi mesi è passato da icona delle lotte bracciantili, una sorta di «Giuseppe Di Vittorio di colore» ospitato da Fabio Fazio con crismi di santità, o «Un Obama di Cerignola» (Luigi Mascheroni dixit), a simbolo di tutto quello che non funziona nel sistema dell’accoglienza degli immigrati, con profili riportati dai giornali che superano anche gli argomenti propagandistici della destra sovranista. In un Paese dove l’Espresso - in una celebre e pessima copertina - aveva inscenato la dicotomia sull’accoglienza tra Soumahoro e Matteo Salvini con il titolo «Uomini e no», dove la negazione dell’umanità era l’allora vicepremier, questo caso è qualcosa di più del «cortocircuito» che evoca Fratoianni, e per questo politica e magistratura devono fare di tutto per chiarire i termini della vicenda in tempi brevi, al fine di non infangare chi opera nell’ambito delicatissimo dell’accoglienza e della difesa dei braccianti stranieri nella piena legalità.
L’autosospensione del parlamentare dal gruppo di Sinistra Italiana con l’ammissione di «aver commesso una leggerezza», si accompagna ai rilievi che emergono dalle testimonianze sulle inchieste. Chi ha lavorato per le coop ed è in attesa di soldi mai avuti è netto: «In realtà quello che pensiamo noi lavoratori è che siamo stati presi in giro - argomenta un impiegato che vuole restare anonimo -. Quando ho visto Aboubakar nei video e tutto quello che ha detto mi è venuto da ridere. Non può dire che non ha visto, non ha sentito e che non era parte della situazione».
L’ex parlamentare della sinistra Elena Fattori, inoltre, accusa Fratoianni di non essere intervenuto per stoppare la candidatura del leader della Lega Braccianti, nonostante gli avesse segnalato delle criticità emerse in un sopralluogo nelle coop di famiglia. E Fratoianni replica che la Fattori avrebbe dovuto, se in possesso di elementi, andare anche in Procura…
L’apertura dei partiti democratici alla società civile una volta si declinava con le candidature di alto profilo degli indipendenti di sinistra. È utile ricordare figure luminose come Lelio Basso, Stefano Rodotà, Mario Gozzini, Claudio Napoleoni, Ferruccio Parri o Carlo Levi. La crisi identitaria della sinistra ha trasformato gli indipendenti in «figurine», o peggio in meme come quelli che girano sui social di Soumahoro, con gli stivali da bracciante firmati Vuitton o con i piedi da hobbit. Se tutto questo è definibile un «cortocircuito», non va spiegato solo nei programmi tv di turno, ma anche nei luoghi storici della sinistra: nelle sezioni, davanti alle fabbriche e magari anche ai dimenticati che ogni giorno vivono nel ghetto dei diseredati di Borgo Mezzanone.
"I media, le lacrime, il moralismo. Così è nato il fenomeno Soumahoro". Fabio Torriero, docente di comunicazione politica alla Lumsa di Roma, considera Aboubakar Soumahoro una delle tante "fotografie ideologiche" che la sinistra ha già stracciato. Francesco Curridori il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.
"Siamo nell’era del partito post-ideologico e informatico e tutte le candidature sono mediatiche come Aboubakar Soumahoro". Fabio Torriero, docente di comunicazione politica alla Lumsa di Roma, non ha alcun dubbio su questo tant'è vero che "la destra, oggi, viene accusata di essere il partito dei giornalisti, mentre la sinistra ha sempre avuto la peculiarità di ricorrere al papa straniero o alle fotografie ideologiche".
Può fare degli esempi?
"Aboubakar Soumahoro è figlio di questa fotografia. La sinistra, quando sceglie i candidati, fa la fotografia: la società civile, i cantanti, i filosofi, i professori universitari ecc… E di questi target prende gli esponenti che dal punto di vista mediatico sono stati più rilevanti. Non escludo che qualcuno sia anche competente però di solito la scelta va sempre verso la mediaticità. Per Soumahoro, ovviamente, non esiste un 'reato di cognome' però il cortocircuito di una realtà opaca riguardante le irregolarità sui migranti per cui la legalità che si pretende dalla destra non viene sempre rispettata dalle cooperative. Il “non poteva non sapere” vale per tutti, non solo per Berlusconi. Anche Ilaria Cucchi ha, in qualche modo, beneficiato degli effetti di una dolorosissima vicenda personale che lei, sia ben chiaro, non ha mai strumentalizzato. Certo è che è venuta alla ribalta per le sue dichiarazioni e l’hanno scelta come portatrice di una battaglia civile. Anche in questo caso, dunque, abbiamo un’altra fotografia ideologica della sinistra".
Cosa pensa del video di Soumahoro?
"Assolutamente negativo. È un giocare sul vittimismo che dovrebbe intenerire e ricalcare il messaggio per cui c’è sempre una vittima e un carnefice. Qui il carnefice è chi lo ha messo in mezzo in una sorta di tribunale d’inquisizione. È una sorta di sindrome di Caino che riguarda vari personaggi politici che fanno le vittime, ma poi in realtà uccidono proprio come fece Caino con Abele. Quel filmato ha confermato questo vittimismo, mentre quando ci sono vicende opache dovrebbe prevalere la sobrietà. Giocare sul vittimismo ideologico è stato un autogol".
Si riferisce anche all’intervista rilasciata a Formigli?
"Sì, ma d’altronde che altro poteva dire oltre a dire che non aveva vigilato? Cosa doveva dire? Forse che non si è mai accorto che non venivano pagati gli stipendi oppure che esiste un business dell’immigrazione? Ripeto, la vicenda giudiziaria è cosa ben diversa dal dato politico. Adesso i carnefici diventano i giornali che hanno trattato la vicenda, mentre chi è opaco diventa la vittima. Questo discorso, invece, vale per tutti e non solo per il governo di centrodestra. Anche quando i giornalisti chiedono alla Meloni “cosa le insegna questa vicenda?” è una specie di tribunale mediatico".
Questa vicenda rientra nella famigerata “superiorità morale” della sinistra?
"Certo, è la cosiddetta sindrome di Voltaire. La sinistra non ha ancora capito la lezione del 25 settembre, ossia che questo schema bene/male è perdente. Se continuano a rappresentarsi come i puri e i perfetti significa perseverare negli errori. È sbagliato ritenersi i professionisti dell’ambientalismo, dei migranti e dei diritti civili. Ci sono più idee e più ricette per ognuno di questi temi. Finché ci sarà questo schema ci sarà sempre un Soumahoro che dirà di difendere gli umili, quando in realtà nessuno può attestarsi questa patente".
Ma proprio Soumahoro veniva dipinto come nuovo leader del Pd o del centrosinistra. In questi giorni, invece, è stato scaricato in poco tempo. Lei cosa ne pensa?
"Perché quando si incarna il puro e il giusto e si danno lezioni etiche e morali alla destra, poi non si può negare che c’è sempre uno più puro di te che ti epura. Si obbliga tutti a seguire uno schema rigido che, alla fine, diventa un autogol come un cane che si morde la coda. In nome della purezza, infatti, Soumahoro viene sbattuto fuori. Un partito garantista avrebbe fatto un’altra comunicazione e un’altra scelta più garantista ed equilibrata".
Il Pd, invece, come opera?
"Anche le primarie del Pd risentono dello stesso casting perché se da un lato è vero che è il partito dei sindaci e degli enti locali però, anche in questo caso, Stefano Bonaccini ed Elly Schlein sono le personalità più mediatiche per cui il criterio supera il contenuto. La Schlein, soprattutto, è una bandierina che rappresenta la sinistra liberal che lotta per i diritti civili così come David Sassoli rappresentava il cattolicesimo democratico oppure cercano di difendere i migranti. Se, però, la fotografia ideologica sbiadisce viene strappata".
Ottavio Cappellani per “La Sicilia” il 27 novembre 2022.
“Esiste il diritto all’eleganza”, ha detto questo, Aboubakar Soumahoro rispondendo, durante la trasmissione “Piazzapulita”, a Corrado Formigli che gli chiedeva degli abiti griffati della moglie (che pare comprasse mentre i braccianti alle dipendenze della cooperativa gestita dalla stessa moglie e della suocera, non avevano diritto all’energia elettrica e all’acqua).
Lo ha detto convinto, quasi indignato, a momenti gli faceva un cazziatone, al povero Formigli, che non era informato sul sacrosanto diritto all’eleganza, facendone persino una questione di colore della pelle. La risposta da dare a Soumahoro può essere una e una soltanto: “Sta minchia”.
Perché può esistere un diritto alla libertà di vestirsi ognuno come gli pare, ed esiste senz’altro un diritto alla dignità (per questo rivolgersi ai braccianti gestiti dalla moglie e dalla suocera), ma di diritto all’eleganza non si parla in nessun codice.
Che un parlamentare dica una cosa del genere, dai, fa ridere, soprattutto se a dirlo è un parlamentare che della “seriosità” ha fatto la sua cifra, anche nel ditino alzato e accusatorio, e al quale tutti riconoscono linguaggio forbito dove invece, adesso è chiaro, si tratta probabilmente soltanto di retorica strasentita e strasputtanata.
Perché, ove esistesse, il diritto all’eleganza obbligherebbe lo Stato a erogare contributi all’eleganza, magari anche agli sfruttati, che forse preferirebbero cibo, acqua, energia elettrica, e noi vedremmo queste file di sfruttati dal caporalato andare al lavoro ogni mattina in abiti griffati.
Certo, pretendere che ogni parlamentare abbia una minima nozione di diritto sarebbe pretendere troppo, ma almeno qualcuno che non sia convinto che possa esistere il “diritto all’eleganza” sarebbe auspicabile.
Peccato non ci sia un diritto al “vada affan...”.
Scontri nel ghetto: cosa c'è dietro le aggressioni degli uomini di Soumahoro. Come già denunciato da ilGiornale.it, nel ghetto di Torretta Antonacci gli uomini di Sumahoro si impongono con la forza. Ma a Latina Karibu e Anolf vanno a braccetto. Bianca Leonardi il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Era lo scorso agosto quando nel ghetto di Torretta Antonacci si insediva l’associazione Anolf, dopo aver vinto il bando regionale per la gestione della foresteria. L'associazione, che opera a livello nazionale, se a Foggia è stata presa di mira da con aggressioni da parte degli uomini della Lega Braccianti, sul fronte Latina si scopre sia stata a fianco per anni dell coop di famiglia di Soumahoro. L'arrivo di Anolf nel ghetto ad Aboubakar Soumahoro non è mai piaciuto, tanto che proprio il deputato pubblicamente manifestò, con tanto di megafono e braccianti piazzati come comparse dietro di lui, rivendicando il diritto della tanto osannata autogestione. E se sui social il "diritto alla libertà" e la "protezione della dignità dei braccianti" ha conquistato molte persone, in quella terra di nessuno le belle parole si sono trasformate fin dall’inizio in violenza.
Il presidente Anolf Puglia, Mohammed Elmajdi, che è anche segretario territoriale Cisl di Foggia, è stato il primo nel mirino degli uomini del deputato tanto da essere aggredito il primo giorno che si è presentato al ghetto, come abbiamo documentato. "Mi hanno fermato mentre andavo a ritirare le chiavi, erano gli uomini della Lega Braccianti e dell’Usb. Mi hanno intimato di andarmene e mi hanno battuto sulla macchina. Alcuni li ho riconosciuti e li ho denunciati", così raccontava a IlGiornale.it fornendoci anche la denuncia dove si leggono i nomi degli aggressori. Ad oggi Elmajdi non può entrare nel ghetto.
Una sorte simile è toccata al coordinatore Anolf che, solo qualche giorno fa - come ci ha riferito - , dopo la nostra visita a Torretta Antonacci è stato minacciato e aggredito. Una vera e propria lotta contro questa realtà che, abbiamo scoperto, sia collegata a Soumahoro più di quanto lui stesso voglia far credere a tutti. La stessa associazione, infatti, ha operato per anni a fianco proprio della Karibu, la coop di Latina che vede indagata la suocera di Soumahoro per truffa aggravata. È proprio il Comune di Latina nel dicembre 2018, quando Soumahoro era già insieme alla compagna Liliene, figlia di Mukamitsindo, a raccontare la collaborazione tra la coop di famiglia del deputato e l’associazione aggredita e presa di mira dagli uomini dell’ex sindacalista nella "sua" terra dei braccianti.
"Questa amministrazione ha sempre condiviso e incentivato la politica dell’accoglienza e dell’integrazione", spiega l’amministrazione di Latina durante il convegno Associazioni di migranti, nuove energie per il territorio. A partecipare, ed essere ringraziate, le due realtà - Anolf e Karibu - che vengono presentate come partner del nuovo progetto. La stessa Marie Thérèse Mukamitsindo, presidente della coop pontina, affermò: "Aver visto due associazioni formarsi con tanto entusiasmo e vederle muoversi sul territorio ci ha riempito di orgoglio".
Due pesi e due misure: nello scenario degradato di Foggia la Lega Braccianti, fomentata da Soumahoro, si scaglia - anche violentemente - proprio contro l’associazione che collabora con le coop della sua famiglia, a Latina lavorano insieme. Sembrerebbe quasi che quel finto alone patinato che la suocera del deputato ha dato per anni alle coop da lei gestite, rivelatosi poi film dell’orrore, fruttasse di più delle baracche del ghetto. Facile ruggire nelle terre di nessuno, ancora più facile far finta di non vedere di fronte alle istituzioni che aiutano.
"Per giorni senza cibo e riscaldamento". La denuncia sulla coop Karibu. I ragazzi ospiti nella comunità Karibu di Roccasecca si lamentano: "Oggi non abbiamo niente da mangiare". La scoperta di Non è l'arena: "Mancano cibo e acqua calda da almeno sei giorni". Luca Sablone il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il caso che ha travolto Aboubakar Soumahoro continua a trovare ampio spazio nel dibattito politico del nostro Paese. L'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda la domenica sera su La7, ha riservato grande attenzione alla vicenda relativa alla cooperativa Karibu in seguito a ciò che sta continuando a venire a galla. Tra stipendi non pagati e condizioni di quotidianità non proprio ideali, si delinea una situazione sempre più imbarazzante per la sinistra nostrana.
Silvio Schembri, inviato di Non è l'arena, si è recato a Latina per cercare di ottenere risposte sulla questione. In attesa di parlare con la signora Mukamitsindo ha notato un gruppo di ragazzi stranieri uscire dalla sede della Karibu notevolmente infastiditi, delusi e amareggiati per quanto avvenuto da poco. "Niente di buono", è stata la lamentela che un ragazzo ha palesato davanti alle telecamere della trasmissione.
Non è stato possibile instaurare una conversazione in lingua italiana a causa delle difficoltà riscontrate dai giovani, motivo per cui è stato deciso di utilizzare un traduttore vocale sul cellulare per poter dialogare. Così i ragazzi hanno spiegato il motivo della loro presenza in quel posto: "Oggi non abbiamo niente da mangiare". Uno di loro ha confermato di essere nella comunità della Karibu, precisamente a Roccasecca (provincia di Latina). La richiesta espressa è quella di avere cibo ogni giorno.
A quel punto l'inviato di Non è l'arena ha deciso di andare a verificare di prima persona la realtà dei fatti nella comunità di Roccasecca dei Volsci. Lo scenario che si è presentato di fronte alle telecamere è palese: frigo quasi vuoto, freezer completamente vuoto. "Ragazzi, ma fa freddo qua...", ha annotato il giornalista. Che poi ha fatto una scoperta di non poco conto: "In struttura mancherebbero cibo e acqua calda da almeno sei giorni".
"Aspetta, aspetta, aspetta", è la risposta che i ragazzi denunciano di ricevere quando vengono avanzate determinate richieste. I contorni della situazione si commentano da soli: un ventilatore acceso per asciugare i vestiti, riscaldamenti spenti, un coltello al posto della maniglia della porta.
Silvio Schembri è riuscito a intercettare Michel che però non ha fornito risposte ben precise al grido d'allarme dei ragazzi della comunità di Roccasecca. "Lo dicono i ragazzi che non hanno cibo...", si è limitato a dire. Allo stesso modo non è arrivata una precisazione da Mukamitsindo, entrata in macchina senza voler replicare.
Lady Soumahoro, gli scatti hot per cui non ha pagato il fotografo. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.
La moglie di Aboubakar Soumahoro avrebbe scattato delle foto hot una decina di anni fa. Scatti che sono spuntati in maniera casuale dagli archivi del fotografo Elio Carchidi: si trovano inserite nel portofolio tra le “fotografie glamour”. Sono in tutto undici scatti che ritraggono una donna che sembra essere proprio Liliane Murekatete. Intervistato da Mowmag.com, Carchidi ci ha tenuto a precisare che non è stato lui ad andare a rispolverare quelle foto, che si trovavano da anni sul suo sito.
“Venderle? Non è il mio mestiere e non rientra nella mia etica professionale - ha dichiarato - speravo che rimanessero lì per gli amanti della fotografia e non a uso e consumo della cronaca”. Inoltre il fotografo ha svelato che il servizio è stato effettuato gratis, con Dagospia che ha subito ironizzato sul “vizietto” di lady Soumahoro di non pagare. “In questo caso non è costato nulla - ha spiegato Carchidi - perché si trovano accordi tra modella e fotografo e si spera di poter poi vendere a giornali e riviste queste foto. All’epoca non andò così e rimasero invendute”.
Il fotografo si è detto anche piuttosto sicuro che si tratti di Liliane Murekatete nei sui scatti: “So che si chiama così, come avevo riportato sul nome del portfolio sul sito, e ho saputo di loro quando ne hanno parlato le cronache in questi giorni. Prima non sapevo chi fossero questi signori. Ho visto le loro foto sui giornali e mi è sembrata lei”.
Soumahoro, Liliane Murekatete "devastata": la mossa dopo le foto hot. Il Tempo il 06 dicembre 2022
Passa alle vie legali Liliane Murekatete, la compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, e non per l'inchiesta della Procura di Latina sulle coop gestite dalla madre. La donna, infatti, si dice "devastata psicologicamente" per la divulgazione del servizio fotografico piuttosto esplicito realizzato una decina di anni fa e spuntato sul sito del fotografo Elio Leonardo Carchidi, colui che ha scattato le immagini.
La compagna di Soumahoro è "devastata psicologicamente" per la circolazione delle foto online e sulla stampa quotidiana, afferma il legale della donna, l'avvocato Lorenzo Borrè intervistato da Mowmag.com. "È stato come se le fosse esplosa una bomba atomica in casa. La signora è devastata psicologicamente. Si è superato ogni limite accettabile e ho ricevuto mandato, in parte già assolto, affinché i responsabili siano chiamati a risponderne nelle competenti sedi giudiziarie. Nessuna esclusa", dichiara il legale.
Il primo a dare risalto alle immagini da molti definite "hot" è stato lunedì 5 dicembre il sito Dagospia. In seguito Mow aveva intervistato Carchidi che aveva precisato di non essere stato lui ad andare a rispolverare le foto, che si trovavano da anni sul suo sito. Borrè oggi fa sapere che non era a conoscenza che quelle foto fossero disponibili sul sito del fotografo fin dal 2012: "Assolutamente no. Né mi risulta che la signora abbia mai dato l’autorizzazione alla divulgazione. E poi a quali fini l’avrebbe data?! Non scherziamo, perché qui la vicenda è grave, gravissima", sottolinea l'avvocato. Borrè inoltre sottolinea che i Soumahoro "sono sconcertati per quello che sta accadendo. Ma sanno che il tempo è galantuomo. Al momento sono incudine, ma ricordiamoci di cosa diceva Leonardo Sciascia sul rapporto incudine/martello", afferma l'avvocato.
Sulla polemica lanciata da Selvaggia Lucarelli, sulla scelta di Borrè, che è stato anche difensore dell’ex Ss Priebke, come legale, l'avvocato commenta: "Fa parte del processo di mostrificazione". "Perché questo accanimento convergente, di destra e di sinistra, contro persone la cui responsabilità è tutta da dimostrare?", conclude.
Lady Soumahoro, foto di nudo? Cosa c'è dietro davvero. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 07 dicembre 2022
È un risveglio da bollenti spiriti. Dagospia pubblica le foto hot della "Cooperadiva". La "Cooperadiva", ficcante calembour - gioco di parole giornalistico - è Liliane Murekatete, fino all'alba di ieri "Lady Gucci" per via delle foto con gli abiti griffati e del diritto all'eleganza rivendicato per lei dal marito Aboubakar Soumahoro, ma degli abiti costosi, adesso e almeno per un po', parleranno in pochi. D'altronde sono spariti. Dagospia spara come prima notizia alcuni scatti di un'avvenente signora senza veli e la somiglianza con la consorte del deputato scelto da Fratoianni e Bonelli è impressionante. «Un lettore birichino ci segnala:», scrive Dago, «"navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo"». «Quella bella signorina dai modi accoglienti», continua il sito, «sembrerebbe in effetti la compagna di Soumahoro. Sarà davvero lei o è una donna che le somiglia moltissimo?». È lei o non è lei? Ci informiamo.
A CACCIA DI FAMA
Certo che è lei. Le foto, che risalgono al 2012, lasciano poco all'immaginazione, e pubblichiamo solo quelle pubblicabili. Sono inserite, peraltro in primo piano, nella sezione "foto erotiche e di nudo" del sito Studio154 del fotografo Elio Carchidi, che nel suo ricco archivio fotografico vanta lavori di altro genere con molti volti noti dall'ex arbitro Pierluigi Collina, alla modella Claudia Koll, all'allenatore della Spagna Luis Enrique- e altri sconosciuti che però aspirano o aspiravano a diventare celebri. Tra questi Liliane Murekatete. «Ma allora è un vizio!», aggiunge Dagospia. «Per quel servizio il fotografo non ha ricevuto manco un euro (manco i lavoratori della cooperativa Karibu)». Il riferimento è a una delle due coop (l'altra è il Consorzio Aid) finite nel mirino della procura di Latina, gestite dalla mamma di Liliane - la suocera del deputato con gli stivali - indagata per frode aggravata, fatture false e malversazioni. La Murekatete è stata a lungo nel Cda di queste coop, accusate di non aver dato un euro per anni a decine di lavoratori.
L'ACCORDO
Quanto ha pagato per queste foto Lady Gucci? Parla il fotografo, Carchidi: «Niente. A volte ci si accorda tra modella e fotografo e si spera di vendere gli scatti a giornali o riviste. All'epoca però non ci siamo riusciti. È rimasto tutto invenduto. La signora non le ha pagate», ha sottolineato Carchidi, «ma si è occupata di altre cose, dell'ambientazione, del suo look».
Quindi non ha fatto lei la soffiata a Dagospia? «No, non è il mio mestiere. E poi mi sono accorto casualmente della cosa vedendo le foto che sono state pubblicate in questi giorni dai giornali. Le foto hanno 10 anni». Altra parentesi giudiziaria: dopo gli accertamenti delle forze dell'ordine, lo ricordiamo, la prefettura di Latina ha predisposto l'annullamento dell'affidamento dei centri di accoglienza straordinaria alle due coop.
Ieri Gianfranco Cartisano, segretario del sindacato Uiltucs che a Latina segue molti ex lavoratori di Karibu e Consorzio Aid, ha incontrato il prefetto, Maurizio Falco, il quale ha confermato che la prefettura è disposta a farsi da garante per i pagamenti legati agli affidamenti pubblici della Regione Lazio e dei Comuni di Latina e Roma. Il sindacato chiede anche la «ricollocazione dei lavoratori nelle società nuove affidatarie». Torniamo a Lady Soumahoro. A che scopo ha chiesto di fare le foto? «Ne faccio di ogni tipo», spiega il fotografo, «per profili istituzionali o pubblicitarie. Anche per profili Linkedin. Ci sono donne, uomini, modelle, attori e attrici che vogliono avere un archivio fotografico di un certo tipo». Foto senza veli. Nemmeno uno stivale.
Lady Soumahoro "devastata": esplode l'ira, chi porta in tribunale. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2022.
Non c'è pace per Liliane Murekatete. La moglie del deputato Aboubakar Soumahoro non deve solo fare i conti con la cooperativa indagata con l'accusa di mancati pagamenti e di pessime condizioni di lavoro in cui teneva i dipendenti. Ad oggi infatti la Murekatete è al centro della cronaca per le sue foto osé. Scatti che la ritraggono senza veli pubblicati in forma anonima e diffusi da Dagospia. Una mossa che avrebbe "devastato psicologicamente" la donna, tanto da spingerla a prendere seri provvedimenti.
Stando al Messaggero sarebbe già scattata la denuncia ai danni del fotografo Elio Leonardo Carchidi. "Come suo avvocato - commenta Lorenzo Borrè - segnalo continui appostamenti di troupe televisive davanti alla sua abitazione, furti di immagini del figlio di tre anni (attività vietata), immagini diffuse senza consenso". Per questo "reagiremo nelle competenti sedi giudiziarie".
Eppure lo stesso Carchidi ha chiarito di non essere stato lui l'autore della soffiata. "No, non è il mio mestiere. E poi mi sono accorto casualmente della cosa vedendo le foto che sono state pubblicate in questi giorni dai giornali. Le foto hanno 10 anni". Per di più - come precisato dal fotografo - le immagini non sono mai state pagate. Dago, a scoop diffuso, ha scritto: "Un lettore birichino ci segnala: 'navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo'". Chi ci sia dunque dietro non è dato sapersi. Certo è che Liliane è pronta ad andare a fondo della questione
La donna "devastata psicologicamente". Liliane Murekatete denuncia per le foto di nudo diffuse sui media, “attacco senza precedenti” alla moglie di Soumahoro. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Dicembre 2022
Liliane Murekatete passa alle vie legali anche contro chi ha diffuso online le sue foto senza veli su media e quotidiani. Un’altra mossa che avrebbe “devastato psicologicamente” la donna finita al centro dell’attenzione mediatica per lo scandalo scoppiato intorno all’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa fondata da lei e sua madre, Marie Therese Mukamitsindo, indagata frode aggravata, fatture false e malversazioni. Caso che ha coinvolto anche il suo compagno, appena eletto alla Camera, il sindacalista impegnato a difesa dei diritti dei braccianti Aboubakar Soumahoro.
Prima del caso delle foto Murekatete aveva già annunciato querele per tutti quelli che l’avevano definita Lady Gucci. “Adesso basta, porto in tribunale chi mi ha diffamato”, aveva detto la donna ad AdnKronos accusando la stampa di un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti. “Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno“.
La donna aveva anche precisato di non ricoprire più alcun ruolo nella cooperativa. “La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica ‘griffata’ e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata“. La maggior parte delle foto, aveva precisato, risaliva agli anni 2014 e 2015, “quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno”.
Quel tornado mediatico che l’aveva travolta, e di cui la donna lamenta di essere vittima, ha tuttavia raggiunto il punto più grave nella diffusione online di alcune foto senza veli di Murekatete, scattate anni fa a quanto risulta da Il Messaggero da un fotografo che ora sarebbe stato denunciato. Quelle foto sono state riprese nei giorni scorsi anche da giornali e stampa. “Un lettore birichino ci segnala” scriveva Dagospia “navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo”.
Il fotografo, interpellato, ha fatto sapere di non essere stato lui a diffondere le foto, che sarebbero state secondo questa versione rispolverate casualmente. Striscia la notizia le aveva mandate in onda in un montaggio in cui sovrapponeva alle parti intime della donna volti di personaggi noti legati alla sinistra: come il giornalista Diego Bianchi, il giornalista Marco Damilano, Gad Lerner, i leader di Verdi e Sinistra Italiana Bonelli e Fratoianni.
L’avvocato di Murekatete ha definito l’attacco mediatico subito nelle ultime settimane dalla famiglia di Soumahoro come “senza precedenti” in Italia. “Come suo avvocato segnalo continui appostamenti di troupe televisive davanti alla sua abitazione, furti di immagini del figlio di tre anni (attività vietata), immagini diffuse senza consenso“, ha aggiunto il legale. “Reagiremo nelle competenti sedi giudiziarie”.
La donna è ” devastata psicologicamente” per la diffusione dei vecchi scatti ha aggiunto il legale a Mowmag. “È stato come se le fosse esplosa una bomba atomica in casa. Si è superato ogni limite accettabile e ho ricevuto mandato, in parte già assolto, affinché i responsabili siano chiamati a risponderne nelle competenti sedi giudiziarie. Nessuna esclusa”. Una replica all’attacco che da un’indagine, un caso politico, era arrivato al “diritto all’eleganza”, come definito in una grottesca difesa di Soumahoro a Piazza Pulita, fino al corpo di una donna diffuso sui media senza alcuna ragione.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Borse di lusso e corpo esibito: perché difendo Liliane Murekatete, lady Soumahoro. Concita De Gregorio il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.
La moglie del deputato rosso-verde (che si è sospeso) è finita sotto inchiesta ed è stata irrisa perché colpevole di aver posato seminuda e di amare gli abiti di marca: ma perché Chiara Ferragni può farlo e lei no?
Questo è un articolo in difesa di Liliane Murekatete, direi in sintesi: ma prima di strillare la radical chic difende la nera, comunisti col Rolex, vergognatevi, vi pregherei di leggerlo. Sono domande rivolte a tutti — destra sinistra centro, gente che non si occupa di politica, intellettuali, semplici curiosi — e sarebbe interessante discuterne anziché insultare.
DAGONOTA il 12 dicembre 2022.
Concita nel suo articolo su Lady Soumahoro scambia lucciole per lanterne. Cosa che le riesce piuttosto bene. Si fa paladina di una causa inesistente. Si arrabbia e rotea la sua spada ma lo fa contro i mulini a vento. Nessuno ce l’ha con Liliane Murekatete, compagna del deputato Soumahoro - che gestiva il ghetto dei migranti - perché ha posato senza veli.
Nessuno ce l’ha per le foto della signora Liliane che avrebbero dovuto probabilmente essere riunite in un book per il mondo dello spettacolo. Nessuno ce l’ha con la signora Murekatete per il colore della sua pelle. Nessuno ce l’ha con chi si esibisce svestita e nemmeno con chi viene da paesi lontani.
La cosa che turba e che disturba non è che la signora Liliane ami i vestiti firmati. Infatti la Murekatete non è indagata dalla procura di Latina; lo è la madre Marie Terese Mukamitsindo.
Quello che disturba, anzi che ci fa orrore, è la coop di mammà, dove in passato Lady Gucci ha ricoperto incarichi societari. Coop dove – a insaputa dei Soumahoro - i più deboli, i più fragili, i più esposti, quelli che sbarcano dalle carrette del mare e che invece di venire accolti, coccolati, aiutati e amati vengono vilipesi, sfruttati, ospitati in case gelide e affamati. Che vengano fatti lavorare senza essere pagati.
Concita elogia l’ipocrisia di chi si fa paladino degli ultimi per trattarci da gonzi e per utilizzare la nostra buona fede. Questo ci indigna, i milioni che sono svaniti nel nulla e la nudità delle donne o il colore della pelle niente hanno a che vedere con il nostro sdegno.
Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 12 dicembre 2022.
Questo è un articolo in difesa di Liliane Murekatete, direi in sintesi: ma prima di strillare la radical chic difende la nera, comunisti col Rolex, vergognatevi, vi pregherei di leggerlo.
Sono domande rivolte a tutti - destra sinistra centro, gente che non si occupa di politica, intellettuali, semplici curiosi - e sarebbe interessante discuterne anziché insultare. Non perdo le speranze.
La prima domanda a cui non trovo risposta è in cosa divergano, a parte gli esiti, le aspirazioni di Liliane Murekatete (compagna del sindacalista Aboubakar Soumahoro, lui al centro di una bufera politica e reputazionale, lei esibita e irrisa in tv come colpevole di aver posato dieci anni fa seminuda e di amare, oggi, gli abiti di marca) e quelle di Chiara Ferragni, la più popolare influencer italiana al mondo, una trentina di milioni di follower su Instagram, imprenditrice di se stessa, prossima co-conduttrice del Festival di Sanremo e riferimento per milioni di giovani donne.
Ferragni, quest' estate al centro di una piccola polemica perché nelle foto aveva - cito - "le stelline sulle tettine", cioè si fotografava in mutande come è liberissima di fare, nella vita ha messo il suo corpo da Barbie al servizio della sua personale impresa. Ha esibito se stessa per avere popolarità, ha pubblicizzato abiti altrui fino a essere corteggiata dai grandi marchi e, quando è diventata abbastanza celebre, ha messo in commercio il suo.
Un talento imprenditoriale celebrato dalle femministe come esempio di emancipazione.
Il metro del successo sono i soldi, naturalmente: è un criterio mercantile. La cercano Liliana Segre e gli Uffizi: una sua foto al museo della Shoah o davanti a un Botticelli vale oro.
Dunque: un modello virtuoso. Non vedo perché una giovane donna arrivata in questo Paese dal Ruanda non debba prendere appunti e provare a imitarla. Chiedo. Se il gioco è questo, è così che si fa.
Anni fa, era il 2009, Lorella Zanardo curò un lavoro intitolato "Il corpo delle donne". Era un film che mostrava l'uso del corpo femminile in tv, in pubblicità, nei media. Dopo la rivoluzione degli anni Settanta una netta involuzione, sosteneva. Perché se nello stesso studio c'è un uomo in giacca e cravatta e una donna in mutande ma la temperatura è la stessa non è perché lei ha caldo, che sta nuda. Se sta accucciata sotto un tavolo di plexiglas non è perché sta comoda così.
Zanardo portò per anni il suo lavoro nelle scuole, nelle università. Ricordo che in un'aula magna, a fine proiezione, si alzò una studentessa per dire: mi scusi prof ma lei ha presente come funziona il mondo? L'abbiamo trovato così. Adesso ci dite che no, non dobbiamo usare il nostro corpo, è sbagliato: allora cosa ci resta?
Poi certo ci sono le motivazioni. Puoi girare un film porno per militanza femminista, perché non hai come mantenere la famiglia, per allegria o per disperazione. Puoi esibire il seno e il sedere perché ti va, ti diverte la mattina mentre nel pomeriggio scrivi un saggio su Wittgenstein.
O puoi farlo perché non hai altro da vendere. Una volta Dacia Maraini mi disse che al tempo della sua gioventù dovevi "essere un po' carina e sembrare un po' cretina" per non spaventare nessuno e fare in pace quel che volevi. Lei, per dire, ha fatto Dacia Maraini.
Ci sono giornaliste di cui conosciamo tutti le misure di reggiseno. Diletta Leotta e Giovanna Botteri fanno lo stesso mestiere, in ambiti diversi, sono entrambe amatissime - nei rispettivi rami d'impresa e da porzioni di pubblico con diverse attitudini. Però credo che Leotta guadagni di più. Che sia contesa in ragione del seguito e delle copertine che colleziona oltre che per le sue doti di cronista.
Chi ti ingaggia desidera a volte quello che sai fare bene solo tu, per esempio raccontare la guerra come Francesca Mannocchi, altre volte per i punti Auditel che il tuo seguito può portare in dote. Il seguito si ottiene più facilmente con una foto cosparsa di olio solare in piscina che con un'inchiesta sui Casamonica, su questo credo non ci siano dubbi.
Se mostri il corpo generi consenso - o dissenso, che è una diversa forma di incremento della popolarità. Puoi persino, da quella posizione, fare campagne contro il bullismo, il revenge porn. Battaglie per le donne abusate. Essere testimonial nella lotta al cancro al seno, partendo dalla magnificenza del tuo.
Ho sentito due giorni fa Azar Nafisi, scrittrice iraniana, dire che per le ragazze di Teheran mettere il rossetto significa fare la rivoluzione. Certo, perché in Iran è proibito. Ma se vivi in un Paese dove il rossetto glitterato Ferragni te lo regalano a tredici anni per Natale che rivoluzione è. La minigonna fu eversiva quando Mary Quant dette un taglio ai gonnelloni alla caviglia, il burqa del senso occidentale del pudore.
Oggi la minigonna la indossa per andare a scuola la stessa tredicenne del rossetto. Torna sempre in auge, il tema, quando gli insegnanti invitano i genitori a far vestire i loro figli più sobriamente, in classe. Le madri insorgono in chat: censura. A proposito del concetto di libertà sull'asse Roma-Teheran. La cura del proprio corpo è un gesto di amor proprio, è un altro argomento: lo fai per te stessa.
Tuttavia non mi pare che di solito avvenga in condizioni di monachesimo: più spesso è per mostrarsi sui social di tre quarti, in quella speciale torsione in cui si vedono insieme il volto e il sedere, meglio se allo specchio. Tempo fa Elisabetta Canalis, bellissima ragazza che vive in America, fu oggetto di una polemica politica perché - di nuovo per Sanremo - un ente pubblico l'aveva chiamata pagandola assai perché sponsorizzasse la Liguria.
Ho tantissimo rispetto per il lavoro di Elisabetta Canalis, la seguo su Instagram: le ultime foto la trovano accucciata in microshort sul piano del suo lavello di cucina. Vedo il lavoro immane che fa. Bisogna correre fin dall'alba non so quante ore, boxare, bere beveroni verdi, nutrirsi di germogli di soia. Una vita di sacrifici. Lo scopo dei quali mi sembra generare reddito e intanto mostrare alle ragazze come diventare come lei. Per tornare a Maraini: "Fare quello che vuoi" in questo caso finisce qui.
Ho sentito che un regista importante sta girando un film sulla vita di Elisabetta Gregoraci, madre del figlio di Briatore. Di cosa abbia messo al servizio la sua bellezza, le domanderà di certo. Non vedo l'ora. Quindi, tornando a Liliane Murekatete. In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese. Perché è nera? Impossibile: escludiamo il razzismo.
Perché ha scelto per difendersi l'avvocato di Priebke? Ma gli avvocati migliori sono quelli che fanno assolvere gli imputati peggiori. Allora è perché qualcuno ha detto di averla sentita dire di essere la nipote del premier del Ruanda?
È una voce di terza mano. Invece che Ruby (Karima El Mahroug) fosse la nipote di Mubarak l'ho sentito dal premier allora in carica e ho visto il Parlamento italiano, nella sua maggioranza, annuire e votare la ridicola menzogna. Ma forse è perché la madre è sotto accusa per aver commesso illeciti, reati.
Però se le malversazioni dei padri ricadessero sui figli sarebbe al collasso il sistema economico del Paese. Direte: ma lei era nel consiglio di amministrazione di quella coop. Sì, eppure non tirerei in ballo i figli delle famiglie imprenditoriali regnanti a cui sono intestate casseforti o fondazioni, che di parenti prestanome è lastricata l'italica impresa.
Ultima ipotesi. Sarà perché è la compagna di un sindacalista e non di un miliardario? Sarà un'accusa di incoerenza (lui difende i poveri e tu ti vesti da ricca) per interposta persona?
Non entrerò nel caso Soumahoro, la giustizia dirà. Parlo di lei, persona distinta. Segnalo che la responsabilità penale è personale, l'identità inviolabile. Non puoi essere colpevole di essere la moglie di, figlia, amante, la cugina di. Donne-appendice: questa sì una grande battaglia degna del femminismo di ogni epoca.
Il fatto è che le battaglie vinte, quelle al servizio di chi è molto popolare, sono facili da combattere: sono vinte anche se le perdi, riverberi nell'eco mediatica e nella luce di chi ne ha già molta di suo. Più difficile è mettersi dalla parte del buio. Combattere le battaglie perse. Che sono però le sole che avrebbero bisogno di voci autorevoli, argomenti cristallini e post sui propri social da milioni di follower. Costano, effettivamente: non rendono.
Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2022.
Realtà, stammi lontana (non sia mai si scoprissero le ipocrisie della sinistra). I tempi sono duri (è meglio fantasticare). Signori e signore, colti e ignoranti, curiosi e menefreghisti, la notizia oggi è che il diritto alla scemenza surclassa quello all'eleganza (l'argomentone delle scorse settimane).
Suo sponsor è Concita De Gregorio, che ne approfitta per deliziarci con ben due paginone su Repubblica, l'equivalente di quelle che lo stesso quotidiano dedica al Qatargate. In un processo penale invocheremmo fior di attenuanti di tipo sanitario, ma di questo pane si ciba certo giornalismo. Donna Concita voleva difendere lady Soumahoro. In verità l'ha finita.
Distrutta. Denudata moralmente più di quanto abbia fatto dieci anni fa un fotografo.
Dicevano che il problema di Palermo è il traffico. Johnny Stecchino oggi potrebbe interpretare gli articoli di Concita De Gregorio. Balle in quantità industriale. I social si sbellicano dalle risate, le persone serie strabuzzano gli occhi. E si chiedono dove si voglia arrivare scrivendo fiabe sul lupo cattivo che nessuno si azzarderebbe mai ad accarezzare sul muso.
Paragonare Liliana Murekatete, la compagna di Aboubakar Soumahoro, a Chiara Ferragni è un esercizio di fantasia a cui non avremmo mai potuto pensare. Al massimo un sogno notturno del deputato preferito dalla cooperativa Karibu. Ma il confronto non regge, e non per questioni fisiche o di portamento.
Non credi a ciò che leggi quando scorri questa frase: «In cosa divergono, a parte gli esiti, le aspirazioni di Liliane Murekatete», «esibita e irrisa in tv come colpevole di aver posato dieci anni fa seminuda e di amare, oggi, gli abiti di marca», e «quelle di Chiara Ferragni»?
Mica è finita.
Così prosegue la De Gregorio: «In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese Chiara Ferragni.Perché è nera?».
Sì, l'esame conferma che siamo in pieno e conclamato diritto alla scemenza. Progressisti di tutto il mondo, unitevi. Signora De Gregorio, che resta una penna brillante e la sciupa così, ma lei lo sa che Chiara Ferragni le tasse le paga e quel mondo che ruota attorno alle cooperative per «aiutare» i migranti e a cui Liliane non era estranea, deve rispondere persino di contributi non pagati?
Cara Concita, lei è informata delle condizioni in cui erano ridotti i dipendenti della Karibù rispetto a quelle in cui operano i dipendenti della moglie di Fedez? Ad esempio, chissà se è una balla che lì gli stipendi non li pagavano e qui invece sì...
Per caso alla Ferragni sono piovuti dal cielo 60 milioni di euro di fondi pubblici senza gare, senza rendiconti, senza nulla, mentre i soldi suoi l'influencer che lei usa come paragone della Murekatete ha speso persino soldi privati ricavati dalle donazioni per realizzare una terapia intensiva e molto altro ancora utile alla sanità?
E tutto quel che è accaduto in casa Soumahoro - non i presunti reati, che sono compito del magistrato accertare, ma proprio i comportamenti - si spacciava per opere caritatevoli servite a portare in Parlamento il celebre deputato autosospeso? Pubblicità ingannevole, potrebbero chiamarla alcuni.
Lady Concita fa di più, elenca una serie di donne - tutte belle - che hanno fatto successo anche per il loro fascino. Ha dimenticato una delle più avvenenti, la parlamentare greca che sembrava aver qualche tasso di familiarità con il compagno Panzeri. Ovviamente non ne parliamo... Occultamento di vergogna. Liliane Murekatete uguale a Chiara Ferragni. E Soumahoro uguale a chi, se è possibile domandarlo? Oppure lui non c'era? E se c'era dormiva? Sa che cosa si rimprovera a quel clan, ma la De Gregorio non se lo ricorda?
Lo scrive Nicola Porro: «Il mancato pagamento del fisco, degli operai, dei propri dipendenti, dell'Inps, dell'Irpef, dell'Ires ecc. Alla faccia della sinistra che ce la mena un giorno sì e un altro pure con l'evasione!». E non c'è neppure bisogno della grande firma per esprimere sconcerto per un delirio inaspettato. Basta scorrere twitter: «Spiace, ma io non attacco la compagna di Sumahoro per aver posato nuda o avere bei vestiti. Io la critico per aver fatto scempio dei miei soldi, invece di darli a quei poveretti che lei, la madre ed il marito avevano giurato di difendere e di proteggere». Lo ha scritto una persona normale. Molto più normale di Concita De Gregorio. Due pagine che potevano essere spese meglio.
Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 13 dicembre 2022.
C'è una grande confusione sotto l'altra metà del cielo. E più che quella delle donne, intendiamo quella delle professioniste del femminismo. Sono successe troppe cose, tutte insieme e in poco tempo. Troppe cose complicate da decodificare, digerire e poi spiegare a se stessi e agli altri, siano lettori o elettori.
Per amor di sintesi elenchiamo i tre eventi principali di questa crisi: la vittoria del centrodestra e quindi l'ascesa di Giorgia Meloni a palazzo Chigi; lo scandalo che ha coinvolto l'onorevole Aboubakar Soumahoro e la moglie Liliane Murekatete, trascinando con loro tutto il mondo dell'accoglienza e del suo apparato ideologico; il Qatar-gate con il coinvolgimento, tra gli altri, della vice presidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili. Tre colpi che hanno fatto tremare anche le più solide certezze della sinistra più convinta della propria superiorità morale e, appunto, di genere.
Ieri, su Repubblica, si è esibita Concita De Gregorio, firma di punta della galassia politica che fonde il progressismo più chic con la difesa più radicale dei diritti delle donne. L'ex direttrice dell'Unità non si nasconde dietro una borsa di Louis Vuitton e, con coerenza, ammette subito la sua missione: difendere Liliane Murekatete. Tentativo più che legittimo, a patto di non sconquassare tutto il sistema di valori con il quale la sinistra per anni ci ha sconquassato le scatole.
Cosa che puntualmente avviene. I due pilastri del pensiero della De Gregorio sono le basi della nuova sinistra dei diritti: cioè il diritto al lusso e il diritto all'esibizione del proprio corpo. Il primo teorizzato - con invidiabile coraggio - in diretta televisiva dall'onorevole Soumahoro e il secondo addebitato dalla giornalista a Chiara Ferragni. E potremmo anche fermarci già qui: perché se parlando di diritti siamo passati da Rousseau e Locke ai due sopraccitati, beh, qualche problema c'è, ci è sfuggita almeno una via di mezzo.
E ora, la De Gregorio, per difendere la passione di lady Soumahoro per borse griffate e foto sexy, la paragona proprio alla Ferragni, perché anche lei pubblica foto su Instagram con marchi di lusso e mutande bene in vista. Da queste colonne siamo sempre stati piuttosto severi con la regina delle influencer, ma cosa c'entra con Liliane Murekatete?
Al netto di un certo insipido buonismo e uno spiccato qualunquismo vagamente di sinistra, la Ferragni non si è mai occupata di accoglienza e ha fatto i suoi (tanti) soldi nel nome del più spudorato capitalismo, senza nascondersi dietro il paravento dell'umanitarismo e soprattutto senza finire in torbide inchieste su milioni dispensati dallo Stato.
Ma è diventata l'ultimo scudo dietro al quale i dem tentano di occultare le loro magagne. Un vizio antico, quello del doppiopesismo rosso. Sinistra al caviale, sinistra da ztl e comunisti col Rolex - per citare solo i più diffusi non sono solo modi di dire e luoghi comuni. O meglio, nel tempo lo sono diventati, ma si basano su solide realtà fattuali.
Per capire geograficamente dove vince la sinistra ormai non serve più consultare gli esperti di flussi elettorali, basta aprire immobiliare.it e cercare dove costano di più le case al metro quadrato. Il Pd, e i suoi cespugli sinistri, sono animali che abitano la fauna dei centri storici. Si sbracciano, dai loro salotti, per il proletariato, ma hanno l'orrore per le periferie proletarie, veleggiano su comode barche a vela - come il famoso Ikarus di D'Alema lontano dai marosi del populismo e soprattutto del popolo.
D'altronde l'ultimo comunista di successo di cui si abbia memoria è Fausto Bertinotti, uno che somigliava molto di più a un lord inglese che a un operaio di Mirafiori. E anche Olivia Palladino, compagna di Giuseppe Conte, neo avvocato degli ultimi, è già finita nel mirino del web per aver sfoggiato borse firmatissime: perfetta per essere la first lady della gauche.
Tra la sinistra e il lusso c'è sempre stato un grande feeling. E non ci sarebbe nulla di male, se non predicassero pauperismo per poi vivere come nababbi, se non detestassero il capitalismo salvo poi esserne ingranaggi oliatissimi, se non predicassero inclusività facendo parte di una delle caste più esclusive. Il problema è solo uno: l'ipocrisia. Ultimo vero comune denominatore rimasto alla sinistra.
L’indifendibile Liliane Murekatete. Il suo lusso esibito uno schiaffo ai poveri. Francesco Bei su La Repubblica il 13 Dicembre 2022.
Intanto onore a Concita De Gregorio. Poteva starsene zitta, poteva evitare di esporsi alla sputacchiera dei social difendendo Liliane Murekatete, da noi giornalisti appellata con il discutibile (molto discutibile, chiediamo venia) titolo di "lady Soumahoro". Onore a Concita perché, come dice lei nell'articolo che abbiamo pubblicato ieri, è difficile "mettersi dalla parte del buio", combattere battaglie perse in partenza che "costano e non rendono".
Francesco Bei per “la Repubblica” il 13 dicembre 2022.
Intanto onore a Concita De Gregorio. Poteva starsene zitta, poteva evitare di esporsi alla sputacchiera dei social difendendo Liliane Murekatete, da noi giornalisti appellata con il discutibile (molto discutibile, chiediamo venia) titolo di "lady Soumahoro".
Onore a Concita perché, come dice lei nell'articolo che abbiamo pubblicato ieri, è difficile «mettersi dalla parte del buio», combattere battaglie perse in partenza che «costano e non rendono». Lo dimostra, ma Concita lo sapeva già, il fatto che ieri nello scantinato maleodorante di Twitter il suo nome - suo di Concita, non di Murekatete - sia finito nei trend topics . E ovviamente a prevalere, diciamo 9 a 1, erano i commenti a sfavore della sua apologia.
Devo quindi sforzarmi per scrivere queste poche righe "contro", perché anche a me, come a Concita, d'istinto appassionano più le salite che le discese. E tuttavia proprio per rispettare quell'invito alla discussione sul caso, sine ira ac studio , ecco perché non sono d'accordo con la sua tesi. È sbagliato accostare Chiara Ferragni o Diletta Leotta a Liliane Murekatete. Possiamo discutere se sia legittimo o meno, quanto sia davvero femminista "vendersi" la propria nudità per vendere un prodotto, quanto dobbiamo essere post-moderni per ritenerla una cosa normale. Io penso, pasolinianamente, che sarebbe meglio non essere così proni alla cultura consumista di massa - che spinge a consumare anche il proprio corpo - ma mi rendo conto che il mondo, purtroppo anche il mondo della maggioranza delle donne, va da un'altra parte.
Lo accetto, come Concita, senza moralismi. Lo accetto da Ferragni, liberissima di fare quello che vuole. Non lo accetterei invece da Murekatete, che di mestiere non fa l'influencer, ma dovrebbe gestire una cooperativa che aiuta gli ultimi tra gli ultimi, quelli arrivati in Italia senza nemmeno un paio di scarpe. Anche se bisogna subito dire che Liliane le sue foto nude non le ha pubblicate, ma le sono state estorte senza il consenso. Concentriamoci dunque soltanto sugli scatti pubblici, quelli con le griffe del lusso. Discutiamo di quelli.
E non parliamo nemmeno dell'inchiesta della procura di Latina, restiamo garantisti e speriamo che Liliane Murekatete e sua madre siano prosciolte da ogni accusa. Il problema è politico, non penale. Il problema sono le testimonianze univoche delle decine di vittime - uso volutamente un termine forte - del "sistema" Murekatete. Se lasci al freddo dei ragazzini, li nutri a pane e acqua e non dai loro nemmeno quei pochi spiccioli che la carità di Stato prevede come argent de poche , sei su un piano morale (morale: un aggettivo da rivalutare) diverso, diciamo così, da Ferragni. Che il personale alle sue dipendenze lo paga e immagino anche non poco, con i soldi che legittimamente guadagna. Non c'entra il colore della pelle.
Non c'entra il razzismo per quelle persone, soprattutto di sinistra, che sono rimaste giustamente inorridite dalla vicenda Soumahoro. C'entra invece la professione di Murekatete, il senso della sua missione, il fatto che abbia forse ingannato i migranti che le erano stati affidati affinché se ne prendesse cura, il fatto che abbia sfruttato, insieme alla madre, i lavoratori alle sue dipendenze lasciandoli senza stipendio per mesi. È qui che la questione delle fotografie esplode. Mi riferisco, ripeto, agli scatti pubblici con i vestiti firmati.
L'uso squallido, voyeuristico, misogino, che ne hanno fatto i quotidiani della destra non cambia di una virgola il ragionamento. Quel lusso ostentato sui social, mentre i ragazzi africani ospiti della Karibù facevano la fame, quello sì che indigna e non potrebbe essere altrimenti.
Come, giustamente, indignano le buste piene di banconote trovate a casa dei sedicenti campioni dei diritti umani, che di giorno si facevano belli nei convegni e di notte contavano i soldi degli emiri. Proprio perché la sinistra si vanta di avere degli standard morali diversi e più alti, il tonfo quando cade fa più rumore. Durante la crisi ci sono stati imprenditori che si sono suicidati perché non riuscivano più a dare lo stipendio ai loro operai. Nessuno pretende dalla signora Murekatete sacrifici simili, ma forse con una borsa griffata in meno avrebbe potuto garantire qualche settimana di pasti decenti ai migranti ospiti della cooperativa.
C'è infine la vecchia storia della moglie di Cesare, che deve essere al di sopra di ogni sospetto. Sostiene Concita che le eventuali accuse di incoerenza andrebbe rivolte semmai al solo Soumahoro e non anche alla moglie, perché le colpe (eventuali) sono sempre personali e Murekatete non deve essere considerata una donna-appendice. Il fatto è che in questa brutta storia casomai è Aboubakar a essere un uomo-appendice. Nel senso che a lui personalmente, nella storia dei soldi alla cooperativa, non viene imputato nulla, fatta salva forse una culpa in vigilando . È stato lui a essere travolto dalle due donne, non viceversa.
Post scriptum sulla scelta dell'avvocato: anche su questo dissento. Lo so, è vero come dice Concita che gli avvocati migliori sono quelli che fanno assolvere gli imputati peggiori. Tuttavia, non sia mai, domani dovessi avere bisogno di un legale, sceglierei piuttosto un Pisapia. Così, a naso, per affinità, anche per poterci andare a prendere un caffè insieme sotto lo studio e poterci parlare di Paolo Conte invece che di Priebke.
"Come la Ferragni". La folle difesa della De Gregorio della lady Soumahoro. Concita De Gregorio, per difenderla, ha paragonato la compagna di Soumahoro a Chiara Ferragni e ha sottinteso un razzismo latente. Francesca Galici il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Concita De Gregorio, nell'ultimo suo articolo su la Repubblica, difende Liliane Murekatete, compagna di Aboukabar Soumahoro e la paragona a Chiara Ferragni. Usa belle parole la De Gregorio nel suo lunghissimo articolo in difesa della Murekatete, gliene va dato atto e non c'è nemmeno da scandalizzarsi se la sinistra ha scelto di prendere le sue parti. O meglio, una porzione di sinistra, perché gli altri hanno deciso di tacere. Lecita una posizione e lecita l'altra. Ma paragonare la moglie di Soumahoro a Chiara Ferragni e lasciar intendere che dietro le critiche a Liliane Murekatete ci sia il razzismo è intellettualmente scorretto per molti motivi.
Il silenzio di Soumahoro sulla coop che gestiva il ghetto dei migranti
"In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese. Perché è nera?", scrive Concita De Gregorio. Sulle foto senza veli nessuno deve intervenire, in quanto l'uso libero che la compagna di Soumahoro (così come qualunque ogni altra donna) fa del suo corpo non deve essere oggetto di giudizio. Ma sul paragone con la moglie di Fedez c'è più di qualche passaggio fallace, partendo proprio dal ruolo che le due donne hanno nella società.
Liliane Murekatete è (o è stata) nel consiglio di amministrazione di coop operanti nella gestione dei migranti. Quel tipo di cooperative ricevono ingenti finanziamenti dallo Stato per operare, che non ricevono le imprese tradizionali come quella di Chiara Ferragni. Il componente di un consiglio di amministrazione, in linea di principio, interviene nella gestione e per quanto al momento sotto la lente di ingrandimento delle autorità ci sia sua madre, difficilmente Liliane Murekatete non sapeva delle incongruenze che sono emerse nelle ultime settimane. Ed è proprio l'ambito operativo a solcare le maggiori differenze tra Liliane Murekatete e Chiara Ferragni: belle e giovani entrambe, ma con obiettivi dichiarati evidentemente diversi.
E non c'entra niente il fatto che la compagna di Aboukabar Soumahoro sia nera. Le critiche le avrebbe ricevute comunque davanti a quello che è emerso, anche perché si accompagna al deputato "con gli stivali". Certo, probabilmente se il suo compagno non fosse stato Soumahoro ci sarebbe stata un'eco mediatica meno importante ma anche qui il razzismo non c'entra nulla. Aboukabar Soumahoro ha fatto della difesa dei braccianti sfruttati il suo "core business" politico. Ha basato l'intera carriera, sindacale prima e politica poi, sulla difesa dei migranti e non sulle canzoni rap come ha fatto Fedez. È proprio sul tema centrale dell'inchiesta che coinvolge le coop nelle quali è coinvolta Liliane Murekatete che il deputato ha ottenuto popolarità. E questo è un dato incontrovertibile.
Il caso Soumahoro e nepotismi di Sinistra. Shukri Daid su La Repubblica il 4 Dicembre 2022.
Inevitabilmente, dal punto di vista mediatico, lo scandalo delle malversazione di fondi pubblici delle cooperative Karibù e Consorzio AID di Latina, dedite all’accoglienza ed integrazione degli immigrati, non poteva che prendere il nome dell’On.le Aboubakar Soumahoro il quale, sebbene del tutto estraneo alle inchieste penali avviate, è pur sempre l'esponente di maggiore notorietà del gruppo familiare del quale egli è entrato a far parte da quando, nel 2018, ha iniziato a legarsi sentimentalmente a Liliane Murekatete, la 45enne ruandese (anch'ella estranea alle inchieste penali attualmente in corso) che sedeva nel consiglio di amministrazione dei due enti collettivi presieduti da sua madre Marie Therese Mukamitsindo, l'unica del gruppo nei confronti della quale è stata sollevata un'accusa - ancora tutta da verificare - dalla Procura della Repubblica di Latina.
L’adesivo mediatico dello scandalo al neo-deputato di Verdi e Sinistra italiana deriva da due formule, anch’esse di sintesi mediatica, derivate dal mondo giudiziario: “non poteva non sapere” ovvero “a sua insaputa” che, a loro volta, sottolineano due peccati opposti ma comunque gravi quali l’ignavia nel non eliminare aspetti negativi di vicende conosciute, oppure l’inammissibile ingenuità di non essersi accorti di qualcosa di negativo che era invece di solare evidenza.
L'On.le Aboubakar Soumahoro eletto deputato per l'Alleanza di Verdi e Sinistra italiana nella XIX Legislatura
L’accecante bagliore dello “scandalo Soumahoro” ha però messo in ombra diversi altri scandali di più vasta portata che hanno, invece, origine politica e che si sono radicati nella Sinistra in Italia.
Nel rispondere alla Camera al question time a fine dello scorso novembre, il Ministro delle imprese e del made in Italy (Mimit) Adolfo Urso ha rivelato che le due cooperative, attive dai primi anni 2000, erano state oggetto di diversi controlli da parte delle autorità preposte: fra il 2017 ed il 2019, vi erano state 22 ispezioni all’esito delle quali la Coop. Karibù aveva collezionato sanzioni per circa 491.000 euro mentre il Consorzio AID, tra il 2018 e il 2022, era stato sanzionato, a seguito di 32 ispezioni, per circa 38.000 euro.
Nonostante queste gravi penalità, tuttavia, i due enti collettivi erano ancora attivi con l’ovvia conseguenza che, o per pagare le sanzioni le cooperative avrebbero diminuito i benefici per gli ospiti, oppure che le sanzioni non sarebbero state pagate potendo così continuare nei comportamenti invano sanzionati. In ogni caso ci avrebbero - come ci hanno - rimesso gli ospiti immigrati sicché è l’intero sistema dell’accoglienza e dell’integrazione che manifesta la sua incapacità di perseguire gli scopi prefissati.
Questa inadeguatezza nel gestire correttamente il fenomeno dell’immigrazione rende chiara l’inefficienza della normativa del settore (una responsabilità generale) ma anche l’incompetenza gestionale della Sinistra che, dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati, fa una delle sue bandiere tanto da aver inserito Aboubakar Soumahoro nelle sue ultime liste elettorali, laddove la destra si schiera per arginare nuovi arrivi e per respingere gli arrivati.
In questa propensione alla gestione in prima persona del settore, la Sinistra ha commesso la palese ingenuità di limitarsi al curriculum di Soumahoro e alle sue manifestazioni pubbliche senza approfondire il suo contesto di vita dal quale sarebbe emerso che, ben prima della formazione delle liste, sull’attività cooperativistica della compagna Liliane Murekatete e della di lei madre Marie Therese Mukamitsindo, si addensavano nembi oscuri perché erano già in corso doglianze sindacali (e della Procura della Repubblica di Latina) per mancati pagamenti di stipendi e contributi a 26 lavoratori per circa 400 mila euro. Gli effetti di questi errori si scaricano adesso non solo sulla Sinistra, ma su tutto il settore dell’accoglienza e dell’integrazione che va invece preservato da ogni scandalo per l’importanza del supporto ai più deboli che svolge.
L'On.le Nicola Fratoianni eletto deputato per l'Alleanza Verdi e Sinistra italiana nella XIX Legislatura
Il pesante gravame che incombe sulla Sinistra per questa specifica esperienza appare conseguenza dell’imperizia del suo gruppo dirigente che ha perfino accettato che la moglie di Fratoianni venisse candidata alle ultime elezioni (ed infine eletta) senza accorgersi di porre in essere un nepotismo che era stato già oggetto di scherno quando Berlusconi aveva candidato persone a sé vincolate da legami assai meno forti del coniugio. Ma quel che è più grave è che la superficiale scelta di Aboubakar Soumahoro quale testimonial della lotta al razzismo ed all’emarginazione degli immigrati rischia di ricadere proprio su questi ultimi, che appaiono oggi incapaci di esprimere, da Sinistra, neppure un loro rappresentante dei circa 4 milioni di nuovi italiani che non possa essere coinvolto, a torto o a ragione, nei più antichi vizi degli indigeni.
La Sinistra impari da Salvini, Segretario della Lega Nord, che nella scorsa XVIII Legislatura portò al Senato l’On.le Tony Chike IWOBI, di origini nigeriane, che ha svolto il suo mandato senza scaldali né manifestazioni egocentriche e tragga anche le dovute conseguenze da quella seduta al Senato del 6 febbraio 2015 in cui il PD si schierò contro il rinvio a giudizio di Calderoli per gli insulti razzisti lanciati dal palco della festa leghista di Treviglio contro l’On.le Cecile Kyenge, sua parlamentare: lasciando così intendere che non è razzista dare dell’orango ad una persona nera.
Di fronte a quello che appare ormai un vizio nello scegliere superficialmente i propri comportamenti ed i propri candidati, per poi non difenderli dagli attacchi per le loro debolezze, appare giunto il momento di una serie di sedute di autocoscienza nella Sinistra d’Italia.
Paolo Bracalini per ilgiornale.it il 12 dicembre 2022.
Dalle sardine ai cavallini rampanti, il passo è breve e transita dalla politica. Si tratta di una battuta sbagliata, ma la foto (e il commento) pubblicata sui social da Mattia Santori, leader delle Sardine, non è stata particolarmente apprezzata. «Non ho fatto in tempo a mettermi la camicia che subito Stefano Bonaccini mi ha preso l'auto aziendale» scrive Santori pensando di essere ironico e postando una foto di lui, in abito e camicia visto il clima estivo di Dubai, con a fianco il governatore Stefano Bonaccini e dietro una fiammeggiante Ferrari gialla.
Un simbolo di lusso che non ci si aspetta dai rivoluzionari alla bolognese, dichiaratamente ispirati a ideali «di stampo gramsciano» (cit). Ora, a parte il fatto di essere a Dubai per l'Expo2020 in qualità di consigliere comunale Pd «con delega al turismo», a parte il fatto di essere a braccetto con il governatore, a parte il fatto di farsi la foto tamarra con le auto di lusso sullo sfondo, è tutto il quadretto che stona. I commenti al post glielo fanno notare in massa. «E brava la sardina! Questo ha capito tutto della vita. Vedrai che presto arriverà pure per te una poltroncina ben retribuita», «Passare dalle sardine al caviale è un attimo....», «Ma come è caduta in basso la sinistra», «Ma non avevi detto che non volevi entrare in politica?
Ti stai preparando per accomodarti, giusto? Tra sardine e tonno il posto è già bello che pronto», e via così. Al netto di alcuni che penseranno davvero che Santori avrà come auto di servizio una Ferrari, le altre critiche riguardano l'evoluzione (tipica) della sardina, da movimentisti a politici (ormai organici al Pd emiliano), una parabola già vista. Già un'altra volta Santori era inciampato in uno scatto infelice, quando si era fatto fotografare insieme a Luciano Benetton e Oliviero Toscani, un'immagine che scatenò un mare di polemiche e portò alla scissione di un gruppo romano di Sardine («Un errore politico ingiustificabile»).
Il movimento nel frattempo si è sgonfiato, qualche giorno fa all'anniversario del primo famoso raduno a Bologna, quando riempirono piazza Maggiore, non c'erano migliaia di persone, ma solo poche decine. «Non saremo mai un partito» ha detto Santori. Al massimo una corrente del Pd.
I rivoluzionari che pretendono il diritto al lusso. L'odiosa ipocrisia di chi predica l'inclusione facendo parte di un mondo esclusivo. Francesco Maria Del Vigo il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.
C'è una grande confusione sotto l'altra metà del cielo. E più che quella delle donne, intendiamo quella delle professioniste del femminismo. Sono successe troppe cose, tutte insieme e in poco tempo. Troppe cose complicate da decodificare, digerire e poi spiegare a se stessi e agli altri, siano lettori o elettori. Per amor di sintesi elenchiamo i tre eventi principali di questa crisi: la vittoria del centrodestra e quindi l'ascesa di Giorgia Meloni a palazzo Chigi; lo scandalo che ha coinvolto l'onorevole Aboubakar Soumahoro e la moglie Liliane Murekatete, trascinando con loro tutto il mondo dell'accoglienza e del suo apparato ideologico; il Qatar-gate con il coinvolgimento, tra gli altri, della vice presidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili. Tre colpi che hanno fatto tremare anche le più solide certezze della sinistra più convinta della propria superiorità morale e, appunto, di genere.
Ieri, su Repubblica, si è esibita Concita De Gregorio, firma di punta della galassia politica che fonde il progressismo più chic con la difesa più radicale dei diritti delle donne. L'ex direttrice dell'Unità non si nasconde dietro una borsa di Louis Vuitton e, con coerenza, ammette subito la sua missione: difendere Liliane Murekatete. Tentativo più che legittimo, a patto di non sconquassare tutto il sistema di valori con il quale la sinistra per anni ci ha sconquassato le scatole. Cosa che puntualmente avviene. I due pilastri del pensiero della De Gregorio sono le basi della nuova sinistra dei diritti: cioè il diritto al lusso e il diritto all'esibizione del proprio corpo. Il primo teorizzato - con invidiabile coraggio - in diretta televisiva dall'onorevole Soumahoro e il secondo addebitato dalla giornalista a Chiara Ferragni. E potremmo anche fermarci già qui: perché se parlando di diritti siamo passati da Rousseau e Locke ai due sopraccitati, beh, qualche problema c'è, ci è sfuggita almeno una via di mezzo.
E ora, la De Gregorio, per difendere la passione di lady Soumahoro per borse griffate e foto sexy, la paragona proprio alla Ferragni, perché anche lei pubblica foto su Instagram con marchi di lusso e mutande bene in vista. Da queste colonne siamo sempre stati piuttosto severi con la regina delle influencer, ma cosa c'entra con Liliane Murekatete? Al netto di un certo insipido buonismo e uno spiccato qualunquismo vagamente di sinistra, la Ferragni non si è mai occupata di accoglienza e ha fatto i suoi (tanti) soldi nel nome del più spudorato capitalismo, senza nascondersi dietro il paravento dell'umanitarismo e soprattutto senza finire in torbide inchieste su milioni dispensati dallo Stato. Ma è diventata l'ultimo scudo dietro al quale i dem tentano di occultare le loro magagne. Un vizio antico, quello del doppiopesismo rosso. Sinistra al caviale, sinistra da ztl e comunisti col Rolex - per citare solo i più diffusi - non sono solo modi di dire e luoghi comuni. O meglio, nel tempo lo sono diventati, ma si basano su solide realtà fattuali. Per capire geograficamente dove vince la sinistra ormai non serve più consultare gli esperti di flussi elettorali, basta aprire immobiliare.it e cercare dove costano di più le case al metro quadrato. Il Pd, e i suoi cespugli sinistri, sono animali che abitano la fauna dei centri storici. Si sbracciano, dai loro salotti, per il proletariato, ma hanno l'orrore per le periferie proletarie, veleggiano su comode barche a vela - come il famoso Ikarus di D'Alema - lontano dai marosi del populismo e sopratutto del popolo. D'altronde l'ultimo comunista di successo di cui si abbia memoria è Fausto Bertinotti, uno che somigliava molto di più a un lord inglese che a un operaio di Mirafiori. E anche Olivia Palladino, compagna di Giuseppe Conte, neo avvocato degli ultimi, è già finita nel mirino del web per aver sfoggiato borse firmatissime: perfetta per essere la first lady della gauche.
Tra la sinistra e il lusso c'è sempre stato un grande feeling. E non ci sarebbe nulla di male, se non predicassero pauperismo per poi vivere come nababbi, se non detestassero il capitalismo salvo poi esserne ingranaggi oliatissimi, se non predicassero inclusività facendo parte di una della caste più esclusive. Il problema è solo uno: l'ipocrisia. Ultimo vero comune denominatore rimasto alla sinistra.
Alessandro De Angelis per “La Stampa” il 12 dicembre 2022.
In questa storiaccia, che annuncia uno scandalo gigantesco, di corruzione gozzovigliante - soldi nei borsoni che evocano la mazzetta gettata da Mario Chiesa nel water, padri in fuga col malloppo, mogli e figlie che prenotano vacanze faraoniche - peggio del denaro c'è solo la reazione balbettante della sinistra. Ed è proprio questa reazione, che col garantismo non c'entra nulla, a configurare il caso come un elemento di strutturale collasso politico e morale. Non il mariuolo o la classica mela marcia in un corpo sano.
Soumahoro e Panzeri, mutatis mutandis, ognuno con le sue signore, sono due volti dello stesso cinico modello: la disinvoltura, propria o familiare, agita dietro e grazie all'immagine pubblica di difesa dei diritti umani. Circostanza tale da rendere ancora più intollerabili quei comportamenti.
A meno che il cronista non sia così limitato da non comprendere che non di cedimento morale si tratta, ma di diabolica e raffinata strategia posta in essere da chi, impegnato a criticare il capitalismo, quando si discute il Manifesto dei valori, adesso tace, da Articolo 1 al Pd: chissà, magari sembra corruzione ma è un modo per dissanguare i ricchi della terra, versione aggiornata al terzo millennio dell'esproprio proletario di cui Bruxelles è l'avamposto più avanzato.
Scherzi a parte, in questo assurdo dei principi, c'è chi arriva a consumare il reato senza neanche l'alibi ipocrita del "rubare per il partito", ma l'assenza di una messa a tema della questione morale, da parte dei vertici della sinistra, rivela un meccanismo omertoso generalizzato. Le cui radici sono nel fatto che "può capitare" a tutti, di ritrovarsi tra colleghi o famiglie altri Soumahoro o Panzeri, in un partito schiacciato sul governismo affaristico o dove il tesseramento è affidato ai capibastone.
E dunque, in un clima di appartenenza allo stesso consorzio politico-morale, nessuno ha la forza di difendere i valori, parola ridotta solo a chiacchiera nell'ammuina congressuale sui Manifesti. Accadde lo stesso con Nicola Oddati, responsabile delle Agorà di Enrico Letta, beccato a gennaio a Termini con 14mila euro in tasca, controllo non casuale perché da tempo la procura stava indagando per un presunto giro di favori con imprenditori: si dimise e finì lì. Come finì con la relazione Barca lo sforzo di rinnovamento del marcio partito romano, dopo Mafia Capitale.
In questo quadro si spiega la reazione della destra, tutto sommato misurata. Da un lato, da questa vicenda incassa il terreno ideale per una campagna contro le Ong; dall'altra preferisce (a sinistra) un gruppo dirigente condizionabile a una "piazza pulita" da cui nasca qualcosa di nuovo e insidioso. E non a caso il governo incontra D'Alema, gran consigliere di Conte e della sinistra Pd, nei panni di consulente di un gruppo di investitori qatarini pronti a competere per rilevare la raffineria di Lukoil a Priolo. La destra sa che questi dirigenti sono la sua polizza a vita.
(ANSA il 13 dicembre 2022) - Gli uffici dell'assistente dell'eurodeputato Pietro Bartolo all'Eurocamera di Strasburgo sono stati posti sotto sigillo, ha constatato l''ANSA. I sigilli sono stati apposti questa mattina, ha confermato una persona del suo staff.
Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2022.
Da una parte c'è lo sgretolamento totale e definitivo, sulla scia di Mafia Capitale e dei casi Mimmo Lucano e Aboubakar Soumahoro, del grande castello di ipocrisia creato dalla sinistra oltre quarant' anni or sono con la famosa "questione morale" di Berlinguer. Una roba che, va detto, per essere vista fin dall'inizio con diffidenza non richiedeva grandi sforzi.
Bastava leggersi non il libro, ma l'ultima pagina della Fattoria degli animali di Orwell per avere le idee chiare: «Le creature volgevano lo sguardo dal maiale all'uomo, e dall'uomo al maiale, e ancora dal maiale all'uomo: ma era già impossibile distinguere l'uno dall'altro». Dove l'uomo era ovviamente lo spietato oppressore e il maiale l'intrepido rivoluzionario.
Ma gli effetti del Qatar gate non si abbatteranno, purtroppo, solo su quel mondo dei buoni e degli onesti a prescindere in cui la corruzione, il mercimonio e lo sfruttamento dei più deboli dietro lo scudo della presunta superiorità morale si sono alimentati e diffusi.
Tra i molti danni collaterali del clamoroso traffico di mazzette finito nel mirino della giustizia belga tra lobbisti e parlamentari europei di area socialista, molti dei quali legati a doppio filo al nostro Pd (e ai suoi cespugli) sta iniziando a materializzarsi anche quello di una colossale colata di fango sull'intero Paese.
Per carità, con il passar delle ore si moltiplicano gli appelli a circoscrivere l'accaduto alle persone coinvolte, per evitare che il discredito si allarghi a macchio d'olio. Anche la presidente dell'europarlamento Roberto Metsola ha provato, aprendo la plenaria di ieri tra le urla e le proteste, a spiegare che «questo scandalo non è una questione di destra o sinistra, non è questione di nord o sud».
Epperò nei corridoi dell'europarlamento iniziano a circolare con insistenza espressioni come "italian connection" o "italian job". Ad alimentare la convinzione che si sia trattato di «un colpo all'italiana», del resto, ci sono anche le indagini che, allargandosi, vedono sempre più connazionali coinvolti.
Illazioni e accuse sicuramente velate e dette a mezza bocca, ma non così trascurabili. Al punto che ieri sera persino Antonio Tajani ha sentito il bisogno di respingere pubblicamente l'attribuzione geografica ed antropologica della responsabilità dello scandalo.
«L'Italia», ha detto il ministro degli Esteri in un punto stampa al termine del consiglio degli Affari esteri a Bruxelles, «è un grande Paese: se ci sono dei parlamentari o degli assistenti che hanno commesso dei reati, sono questioni che riguardano le singole persone, non il sistema Italia, come non riguardano il sistema Parlamento».
Insomma, la frittata è fatta. Dopo il mandolino, la pizza e la mafia ora gli italiani nel mondo dovranno anche giustificarsi di non andare in giro con borsoni zeppi di banconote ricevute da Paesi arabi per ripulirgli un po' il pedigree in materia di rispetto dei diritti civili e sindacali.
E, per ironia della sorte o, come dicono quelli che parlano bene, per eterogenesi dei fini, a svergognare l'Italia in Europa alla fine ci hanno pensato proprio gli amici di quelli che hanno passato gli ultimi mesi a raccontare che a fare figuracce oltreconfine, mettendo in imbarazzo tutto il Paese, sarebbe stato il nuovo governo.
Le vicende sono troppo recenti per essere dimenticate anche da un popolo con la memoria corta come la nostra. «Questa destra ci porterebbe molto lontano dai valori europei»; «Meloni lavora per sfasciare l'Europa»; «Noi vogliamo un'Italia che conti in Europa». Solo per citare alcune dichiarazioni fatte dal segretario dimissionario del Pd, Enrico Letta, durante la campagna elettorale. Che poi sono le frasi più innocue.
Già, perché tra intellettuali, politici e media di area le accuse che volavano erano ben più pe santi. Comprese quelle sulla imminente demolizione dei diritti civili, a cui alcuni alti esponenti delle istituzioni Ue hanno persi no abboccato, sostenendo che avrebbero vigilato sulle azioni del nuovo governo.
E mentre gli occhi di Strasburgo e Bruxelles erano tutti puntati sul centrodestra postfascista, nemico degli immigrati, omofobo, anti immigrati, anti Pnrr, anti patto di stabilità e anti tutto, gli eurodeputati del Pd si riempivano tranquillamente le tasche di tangenti per difendere il Qatar.
La beffa delle beffe è degli ultimi giorni, con tutte le opposizioni impegnate a descrivere un governo amico degli evasori, dei riciclatori di denaro e di chi gira coi contanti in tasca intenzionato a commettere reati di ogni tipo.
Salvo poi scoprire che il tetto a 5mila euro inserito in manovra non solo è la metà di quello proposto dalla Ue, ma anche infinitamente più basso della quantità di contante con cui circolano normalmente i "sinistri" finiti sotto indagine nell'inchiesta sul la Tangentopoli Ue.
Ma non è finita. Della serie il lupo perde il pelo ma non il vi zio, nelle ultime ore i due contendenti per la segreteria del Pd, Elly Schlein e Stefano Bonaccini, hanno fatto a gara a prendere le distanze dallo scandalo Qatar.
«La vicenda è gravissima e ripugnante», ha detto la prima. «Se confermato sarebbe uno scandalo clamoroso», ha detto il secondo. Il sottinteso è che quella ro ba appartiene al vecchio e marcio Pd, non al nuovo che si apprestano a guidare e rifondare. In altre parole, la superiorità morale vale ancora, ma solo per chi li vota.
Mozione Qatar. Il grande imbarazzo sulla nuova questione morale della sinistra. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022
Prima di trarre conclusioni bisogna aspettare le sentenze, ma la storia dei politici progressisti di Bruxelles merita comunque un chiarimento da parte dei leader vecchi e futuri del Pd e di Articolo 1
Nel tardo 1989, in una drammatica riunione del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca uno degli esponenti più autorevoli di quel partito, intervenne senza giri di parole: «Ligato è un uomo nostro, non possiamo tacerne». Ludovico Ligato era il presidente del Ferrovie, democristiano, ucciso nell’agosto di quell’anno per motivi mai chiariti.
Scalfaro contestava il silenzio dei suoi amici democristiani perché «è un uomo nostro» ma non ebbe successo e il silenzio perdurò. Ecco, la cosa che certe volte fa più paura è questo, il silenzio. Che può significare due cose: o è vergogna o è instupidimento.
Enrico Letta ha chiesto doverosamente chiarezza e annunciato che il Partito democratico si costituirà come parte lesa. Bene. Ma non ci ha detto minimamente come sia stato possibile uno schifo del genere nella sua famiglia politica. Qualcuno anzi si scoccia pure e si dice «incazzato».
Se sono incazzati loro figuriamoci gli elettori. Ci fosse uno che abbia chiesto scusa (premettendo alle scuse l’estenuante ma giusto richiamo al garantismo), che abbia detto una cosa tipo «non ce ne siamo accorti, era una così brava persona», come dicono quelli del piano di sotto quando arrestano l’inquilino del piano di sopra.
E allora: Antonio Panzeri è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Partito democratico e infine Articolo Uno per decenni. «È un uomo nostro»: la frase di Scalfaro non l’ha detta nessun dirigente. È possibile, per quanto inquietante, che nemmeno uno si sia accorto della personalità di costui, forse di un probabile cambio del suo tenore di vita, che so, di un qualche cosa che non quadrasse con il cliché di ex sindacalista votato alla causa dei lavoratori di tutto il mondo, segnatamente, da ultimo, del mondo arabo.
I vari europarlamentari del Partito democratico di questi anni non lo hanno frequentato? Gli assistenti, che a Bruxelles lavorano ora per uno ora per l’altro, non hanno notato nulla? Così come è possibile, anche se allucinante, che i socialisti europei, e in particolare greci, non si siano mai accorti di che tipetto fosse Eva Kaili, una compagna talmente capace da essere eletta vicepresidente dell’Europarlamento su designazione dei socialisti. È possibile, anzi è probabile, che nessuno avesse sospettato alcunché. Ma allora sono tutti degli sprovveduti, dei tontoloni, degli addormentati.
Tra tante persone intelligenti e oneste non uno che avesse rizzato le antenne: un tempo, dispiace dirlo, a sinistra non funzionava così. C’erano gli anticorpi. A partire dalla sensibilità dei dirigenti.
Si dice: le mele marce ci sono sempre. Sì, ma qui sta emergendo un sistema, una rete che probabilmente è stata pazientemente intessuta per anni. Al di là dei luoghi comuni, che dice Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito democratico e leader morale di Articolo Uno che si appresta a rientrare nel Partito democratico? L’arrestato non era un uomo suo? Ha parlato Matteo Renzi, come al solito polemico: Panzeri «se ne andò dal Partito democratico perché diceva che io ero contro i valori della sinistra. Ma quali erano questi valori?».
Renzi era segretario del Partito democratico quando nel 2014 Panzeri venne ricandidato, ma giova ricordare che le liste elettorali sono lottizzate tra le correnti ed è difficile che una corrente metta il becco sulle scelte delle altre: e anche questo nel Partito democratico ci sarebbe da correggere. E Articolo Uno, un partito così piccolo, non si accorge che c’è del marcio a Bruxelles che origina da un suo esponente? Nessuno se n’è accorto ma è proprio questo che sotto il profilo politico preoccupa.
Si aspettano i risultati delle indagini, com’è giusto, e poi dei processi, ma pare veramente difficile a questo punto pensare che si tratti di un errore giudiziario, visto che ci sono personaggi, come il padre della ex vicepresidente greca, che scappano con il bottino; e va sempre ricordato che le responsabilità penali sono personali.
Le responsabilità politiche però no, sono collettive. Sono dei partiti, Partito democratico e Articolo Uno che ormai è nel Partito democratico. Stefano Bonaccini ha ricordato Enrico Berlinguer e la questione morale: solo che ora la questione morale è un problema della sinistra. Quella sinistra che ha il dovere di capire e di spiegare come sia stata possibile questa roba soprattutto per rispetto dei suoi elettori, già frastornati dalla crisi di questi mesi a cui si aggiunge adesso la vergogna di «un uomo nostro» al centro di uno scandalo internazionale. Il grande silenzio è la risposta peggiore.
È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Marco Gervasoni il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.
È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Ma così è. Pensiamoci: l'area politica socialista che, dal crollo del Muro di Berlino in poi, per sostituire una nuova utopia con quella appena morta, è stata la più fanatica sul piano dell'europeismo, sposato con i diritti e il secolarismo multiculturalista, è anche quella che sta danneggiando maggiormente non solo il sogno europeo, come tale irrealizzabile, ma anche la Unione Europea reale. Le banconote di decine di migliaia di euro in casa di parlamentari, ex parlamentari, loro collaboratori; le ong, le sacre ong, utilizzate come organizzazioni di raccolta fondi per spese sembra personali, le vacanze a 9 mila euro, paiono uno scenario che neppure i brexiters più scatenati, i Nigel Farage, le Le Pen e i Salvini di un tempo, avrebbero potuto costruire, nella loro propaganda per l'uscita dalla Ue e dall'euro. E oggi ancora, a gongolare è Orban, che può accusare di ipocrisia il Parlamento europeo, promotore, non senza ragione, di mozioni per condannare la corruzione e la violazione dello stato di diritto in Ungheria. Violazioni certo presenti, ma se poi paragoniamo Budapest a Doha, Orban ne esce come un seguace di Soros.
Non ultimo, l'effetto negativo è anche nei confronti della Russia, la cui propaganda ora afferma di non voler prendere lezioni da un'entità corrotta come la Ue - benché un europarlamentare Pd, non indagato, ma lambito, sia anche uno di quelli che vota regolarmente pro Putin da quando è iniziata la guerra.
Come scriveva nell'editoriale di ieri il Financial Times, «che regalo agli anti europeisti», tanto più che il parlamento si presenta come «la coscienza morale dell'Europa». Certo, siamo tutti garantisti, anzi lo siamo più noi degli esponenti del Pd, che fingono di non conoscere figure elette per diverse legislature e prestigiosi esponenti del loro gruppo, il Pse. Ma certo, i socialisti dovrebbero chiedersi perché i paesi arabi abbiano puntato soprattutto su di loro: la risposta, tra le tante, è che mai nessuno, come loro, ha sviluppato un rapporto cosi forte con l'Islam, con tutto il correlato di tolleranza verso l'immigrazione clandestina e legami con le ong. E chi ha fatto crescere maggiormente l'Islam nelle società europee, se non sindaci e premier di partiti del Pse? Insomma, come nell'antica tragedia, la nemesi non è cieca e finisce sempre per colpire laddove deve.
Superiorità morale, così crolla la bugia. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Augusto Minzolini il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.
A volte si rimuovono il passato e le proprie convinzioni ideologiche ed etiche in un batter d'occhio. Con un colpo di spugna si cancella dalla memoria ciò che si è predicato per mezzo secolo. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Questo, almeno per adesso, è un dato di fatto. E solo ora, in assenza di una linea di difesa credibile, il commissario europeo Paolo Gentiloni, ex premier del Pd, ammette: «Penso che la sinistra abbia riconosciuto che comportamenti di corruzione non sono appannaggio della destra o della stessa sinistra. I corrotti sono di destra e di sinistra».
Ragionamento che non fa una piega, perché l'onestà, come la corruzione, non ha colore. Purtroppo, però, la sinistra, in tutte le sigle cangianti con cui si è presentata negli anni, ha sempre teorizzato il contrario. È sempre vissuta, da Enrico Berlinguer in poi, nel mito della propria diversità, pardon della propria superiorità morale. Un totem che ora viene drasticamente meno. Ciò che è avvenuto a Strasburgo, infatti, mette fine ad una rendita di posizione di cui per decenni ex-comunisti, cattocomunisti, sinistra democristiana, ds, margherite, ulivi e partiti democratici o articoli uno, hanno sempre beneficiato, coltivando un'illusione - o una maleodorante bugia: quella che gli schieramenti politici non si formano sulle idee, ma sull'etica.
Ora è rimasto solo qualche Savonarola da strapazzo a teorizzarlo. Anche perché accettare mazzette da chi considera nel proprio Paese la vita e la libertà delle persone meno di niente mentre si mettono in piedi Ong per la difesa dei diritti umani, dimostra che tutto è in vendita: ideologia, coscienza e anima. Qualcuno ha fatto il paragone con Tangentopoli, ma neppure questo calza, perché la maggior parte degli indagati e dei condannati di allora fu mandato al «patibolo morale» per finanziamento illecito ai partiti, cioè le mazzette nella maggior parte dei casi - non tutti, perché i mascalzoni ci sono sempre stati - servivano a tenere in piedi un'attività politica, cioè coltivare nella società idee, appunto, di centro, di destra o di sinistra. Qui, invece, il paravento degli ideali di libertà e di rispetto della vita umana servono solo a consegnare le vittime che, sulla carta, si difendono ai carnefici. Appunto, si vende l'anima al diavolo.
Per cui non c'è alibi, motivazione, ragione che in questo caso possa coprire il marcio. Questa vicenda è la pietra tombale sulla diversità della sinistra perché la corruzione investe l'ultima bandiera di quel mondo, cioè la difesa dei diritti umani, delle libertà e del rispetto dei lavoratori, le battaglie su cui partiti e sindacati si sono concentrati, dall'immigrazione alla lotta contro le autocrazie. Ma c'è anche un elemento simbolico da non trascurare. La storiaccia è ambientata in un posto che la sinistra ormai da anni ha eletto a luogo sacro contro il populismo e il sovranismo: il Parlamento europeo. E, invece, grazie ai nuovi farisei che oggi si alimentano di «retorica europeista» come ieri di «questione morale», i mercanti hanno violato il tempio.
Il bianco e il nero. "Qatar? A sinistra finalmente sono 'normali'.." "Una vicenda ininfluente" Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Ecco le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto. Francesco Curridori il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo raccolto le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto.
La vicenda delle mazzette arrivate dal Qatar quanto danneggia il Pd e la sinistra?
Piepoli: “Il danno lo hanno ricevuto dalle elezioni, non dal Qatar. Si sono disfatti, hanno lottato per perdere e hanno perso. Di questa vicenda mi vien da dire solo questo: ‘Finalmente sono normali, rubano anche loro’. Che, poi, è ciò che pensa anche l’opinione pubblica. Pensa che sono normali filibustieri, altro che ‘sacre ruote del carro della vita’. E, in effetti, personalmente, ritengo questa una vicenda normale e priva di qualsiasi rilevanza politica”.
Noto: “Il Pd è in calo da mesi. Dalle elezioni a oggi è passato dal 19 al 16%. Non è detto che subirà un’ulteriore flessione dovuta a questa vicenda. Il vantaggio è che i parlamentari europei coinvolti sono poco noti. Il problema che si pone in vista del congresso Pd, casomai, è quello relativo alle regole da darsi per non incorrere in questi rischi?”
Il caso Somahoro com’è stato percepito dall’opinione pubblica?
Piepoli: “Non abbiamo fatto rilevazioni in merito a questo caso, ma posso dire ciò che ho percepito io. Anche in questo caso si tratta di una normale vicenda che non appassiona l’opinione pubblica che, in realtà, è molto più interessata all’esito dei Mondiali di calcio. ‘Panem et circenses’ dell’imperatore Claudio è valido ora come nel 53 a.C.”.
Noto: “C’è stata una forte delusione perché Somahoro era diventato un personaggio pubblico. Non sono i singoli fatti che spostano il consenso però, anche se c’è stata una forte delusione, non è detto che qualcuno cambi la propria intenzione di voto”.
Minacce alla Meloni. Il premier passa come vittima oppure ha sfruttato mediaticamente le intimidazioni ricevute?
Piepoli: “No, la Meloni è una donna che si fa rispettare. È l’unica donna post-fascista in Italia ed è riuscita a imporsi in un partito di maschi. Sono convinto che governerà bene e per cinque anni”.
Noto: “Questi eventi, invece, colpiscono molto gli italiani che sono molto attenti a queste cose. Gli italiani si sentono sicuramente vicini al premier e la Meloni ne esce ‘vittima’ in termini politici”.
Alla Meloni converrebbe elettoralmente ritirare la querela nei confronti di Saviano?
Piepoli: “Ritirare una querela è sempre un atto d’onore e, se lo facesse, avrebbe la mia ammirazione. Ma, se non la ritira, fatti suoi. Non è un qualcosa che tocca l’opinione pubblica. È solo un problema personale. Al Paese interessa che ci siano più posti di lavoro, non Saviano. Chi è Saviano? Che cosa ha prodotto per il Paese?”.
Noto: “Il consenso a un partito politico non cambia come noi cambiamo i programmi televisivi. Il consenso è più duraturo che cambia in base a più fattori. Dovendo pensare al proprio elettorato, non dovrebbe ritirare la querela. Se, invece, volesse rendersi più attraente verso l’elettorato di sinistra che non l’ha votato, allora dovrebbe ritirarla. Fare una scelta o l’altra non sposta consenso nell’immediato”.
Regionali nel Lazio e nella Lombardia. Chi è il favorito?
Piepoli: “I tre candidati della Lombardia sono tutte persone degne e preparate per governare una Regione che ha il Pil della Svizzera. Sul Lazio non abbiamo ancora dati. Al momento, però, posso dire che non c’è alcun favorito certo”.
Noto: “Nel Lazio è difficile dirlo perché mancano ancora i candidati. Il centrodestra, è avanti, ma senza il candidato si può dire poco, ma non è certamente un buon segnale. In Lombardia è avanti Fontana e subito dopo Majorino e la Moratti si contendono il secondo posto. Secondo i nostri sondaggi il candidato del Pd è un po’ più avanti, ma per il momento Fontana è avanti in maniera significativa”.
Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista. Federico Novella su Panorama il 12 Dicembre 2022.
La vicenda Panzeri, come quelle degli ultimi mesi di altri big italiani del Pd, racconta come sono sempre più i comunisti che non difendono gli interessi degli ultimi ma soprattutto i loro stessi Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista
Per quanto sia obbligatorio considerare tutti innocenti fino a prova contraria, lo spaccato che esce dall’eurotangentopoli in salsa Qatar è desolante per diversi motivi. Il primo è che tutti i protagonisti politici sono affiliati alla sinistra europea. A dar retta alle accuse della procura sono loro, i paladini degli ultimi, i primi a tentare di arricchirsi personalmente. Dal fulcro dell’indagine, Antonio Panzeri, fino alla vicepresidente del parlamento Kaili, sacchi di denaro volano sui bei propositi umanitari di chi dice di lottare per i diritti dei più sfortunati. Attendiamo i dettagli dell’inchiesta, e soprattutto aspettiamo di vedere se ci sia qualcosa di più grande sotto la punta dell’iceberg. In particolare dietro quest’ennesima Ong dal nome che è tutto un programma, “Fight Impunity” , creatura di Panzeri dal quale si sono dimesse in blocco le eccellenze italiane ed estere che fino a ieri ne abitavano il board: dalla Bonino al greco Avramoupolos.
In Italia abbiamo appena finito di indignarci per il caso Soumahoro, ed ecco arrivare la tempesta di Bruxelles: vicende diverse, ma equivalenti su un punto: occorre prestare attenzione a chi si professa buono e pio. La bontà può diventare spesso un paravento per nascondere traffici quantomeno oscuri. L’altra certezza, mentre la procura indaga, è che il Parlamento Europeo non sembra esattamente quel palazzo di vetro che vorrebbero raccontarci. Stando a quanto si legge in queste ore, somiglia più ai corridoi bui delle Nazioni Unite, dove transita gente di ogni risma, senza controlli e senza grandi slanci morali. Non poteva che essere così, dal momento che le istituzioni europee , così congegnate, non hanno mai avuto reale legittimità democratica. E laddove non c’è trasparenza, prima o poi arrivano soldi e lobbisti. Il quotidiano “Il Giorno” ha ricordato che 485 deputati hanno lasciato l’europarlamento nel 2019: di questi, il 30% lavora oggi per gruppi di pressione. Panzeri era uno di questi. La politica delle porte girevoli spesso non è illegale, ma si sviluppa selvaggiamente all’ombra di regole deboli e oscure. Come si diceva in principio, sulla materia dei diritti umani sembra essere la sinistra quella più propensa a coltivare rapporti di alto livello. Sul secondo lavoro di Massimo D’Alema, cioè quello della consulenza finanziaria, si è detto molto: ultimamente pare abbia fatto da tramite tra una cordata di sceicchi del Qatar e il governo, per l’acquisizione della raffineria Lukoil di Priolo. Nulla di male, per quanto ne sappiamo. Ma quest’abitudine ha fatto dire al vicesegretario del Pd Provenzano che “vedere grandi leader della sinistra fare i lobbisti la dice lunga sul perché la gente non si fida più”. E qui arriviamo all’ultima certezza di questa storia, a prescindere dagli esiti delle indagini: ad essere morta e sepolta è la cosiddetta “superiorità morale” della sinistra. La sindrome per cui da quella parte politica ci si arroga il diritto di distribuire agli avversari patenti di onestà e limpidezza morale. Una sindrome nata con Tangentopoli, e morta con Qataropoli. Nata con la presunta difesa dei diritti degli sfortunati, e morta con la difesa dei diritti degli Emirati.
Da lastampa.it il 10 dicembre 2022.
«Continuo a leggere sui media che la Signora Soumahoro mi avrebbe denunciato per avere diffuso sue fotografie senza veli, da me scattate, senza il suo consenso. L'accusa che mi si muove è del tutto infondata». Il fotografo Elio Leonardo Carchidi replica alla notizia della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete, che lo avrebbe denunciato per la «diffusione senza permesso» di alcuni scatti hard che la riguardano.
La donna è al centro dello scandalo delle coop che gestiva insieme alla madre, sulle quali sta indagando la Procura di Latina tra stipendi e tasse non pagati e migranti costretti a vivere senza cibo e acqua. Non le sono stati perdonati i selfie in cui compare con abiti e borse firmate: foto che hanno spinto i suoi detrattori a coniare per lei il soprannome «Lady Gucci».
Nei giorni scorsi Liliane Murekatete si è difesa accusando i media per «la costruzione del racconto volto a rappresentarmi come una cinica 'griffata' e ad affibbiarmi icastici titoli derisori». E ora tramite l’avvocato Lorenzo Borrè ha fatto sapere di aver presentato una denuncia verso il fotografo, Elio Leonardo Carchidi, che a suo dire ha pubblicato online le foto – individuate e riprese poi da alcuni organi di informazione – senza permesso.
Ma Carchidi non ci sta. E a sua volta ha definito «infondate» le accuse di lady Soumahoro, «come potrò dimostrare». «Ho conferito mandato all'Avv. Fabrizio Galluzzo – ha concluso il fotografo – affinché mi difenda nelle opportune sedi e tuteli la mia onorabilità e professionalità, lese dalle non veritiere notizie trapelate».
Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 6 dicembre 2022.
Il caso di Aboubakar Soumahoro, della sua compagna Liliane e della di lei famiglia ha preso una piega hot. Anzi rischia di diventare un vero sexygate. Tutto è iniziato ieri mattina quando il sito Dagospia ha pubblicato alcune foto in pose ammiccanti di Liliane, già soprannominata Lady Gucci, con grande scorno della protagonista.
In un video del 2018 trasmesso domenica da Non è l'Arena la donna ha spiegato che quelle borse potevano essere dei regali del passato. E adesso dal passato spuntano le foto scollacciate. Un portfolio intitolato Glamour con sotto il nome della modella: Liliane.
Era il 2012 e la donna ai tempi aveva 35 anni e bazzicava o aveva bazzicato Palazzo Chigi, quando capo del governo era Silvio Berlusconi. I dodici scatti che si trovano ancora sul sito del fotografo calabrese Elio Carchidi, non lasciano molto spazio all'immaginazione.
La giovane ruandese sfoggia diversi completi intimi e anche una parrucca bionda.
In quattro pose indossa un body rosso trasparente, in altre due una culotte nera, in una un reggiseno carioca e in cinque è senza vestiti, sia sotto la doccia che in un letto sfatto, dove esibisce un nudo integrale frontale appena celato dal drappeggio di un lenzuolo.
All'epoca Liliane non conosceva Soumahoro e veniva da una lunga esperienza a Palazzo Chigi. Poi era arrivato Mario Monti e lei si era tolta lo sfizio di farsi ritrarre senza veli.
Per capire il senso dell'operazione abbiamo contattato Carchidi, che nega di aver inviato lui le immagini a Dagospia. Gli chiediamo se quegli scatti potessero servire per qualche inserzione online. Ma il professionista è categorico: «Escluderei a priori che quelle foto siano state fatte per un annuncio sexy».
Per quel lavoro Carchidi non sarebbe stato pagato: «Mi sarebbe dovuto tornare utile solo dal punto di vista del portfolio. Ho pubblicato questa brochure per dire che realizzo quel tipo di immagini».
Il fotografo ammette di aver sperato di poter cedere suoi scatti a qualche rivista glamour: «Ma purtroppo, non essendo lei un personaggio noto, sono rimasti invenduti».
Gli ricordiamo che quella modella aveva appena lasciato Palazzo Chigi e domandiamo se durante lo shooting Liliane avesse parlato di quel mondo. Risposta: «Mi ha solo detto che lavorava o che aveva comunque contatti con Palazzo Chigi o con settori della politica, ma non mi fece nomi di personaggi anche perché non c'era grande confidenza. L'avrò vista tre volte in tutto». Da allora si sono scambiati solo un messaggio su Facebook, quando Carchidi ha scoperto dai social che Liliane era rimasta incinta.
Ma alla fine del set fotografico la futura compagna di Soumahoro si mostrò contenta: «Sì, era molto soddisfatta delle immagini». Non le ha mai chiesto di toglierle dal sito? «No, altrimenti l'avrei fatto». Aveva scelto lei il genere di pose? «Quelle si scelgono insieme, non c'era un layout da seguire, era abbastanza libero. Il nudo è venuto così, non si chiede mai espressamente».
Di fronte alla nostra curiosità, il fotografo un po' si ritrae, anche perché ieri 3-4.000 utenti hanno visitato il suo sito: «Ho clienti di ogni genere, dal prete al chierichetto, sportivi, giornalisti. Ci sono anche signori e signore che amano farsi fotografare in atteggiamenti sexy senza nessun obiettivo preciso forse per un piacere intimo. Quelle non erano foto per vendersi questo sicuramente no».
La ragazza le sembrava una professionista della moda? «No, non posava come una modella esperta, era una ragazza normale che lo faceva per il gusto di divertirsi, nulla di più».
Fu accompagnata da qualcuno sul set? «No, venne da sola. Lei mi ha sempre parlato della famiglia, verso la quale aveva un grosso attaccamento. Mi disse che lavorava in politica, ma non sono stato lì a indagare, in tanti millantano conoscenze nei palazzi. Lo ripeto, mi confidò di avere qualche contatto a Palazzo Chigi».
Nei giorni scorsi abbiamo parlato anche con V.G., cognata di Liliane. Le abbiamo chiesto lumi sui trascorsi della donna ruandese con il governo Berlusconi e questa è stata la risposta, a giudizio della nostra interlocutrice, «esemplificativa»: «Una sera eravamo tutti a cena. Non ricordo se fosse Natale o Pasqua o un'occasione così e mio figlio, il secondo, che era piccolino, avrà avuto 5 o 6 anni, ha chiesto alla zia che era sempre in giro, in viaggio: «Ma tu veramente che lavoro fai?".
È sceso il silenzio. Nessuno ha risposto, tanto meno lei che ha sviato il discorso. Io non so esattamente quale fosse la sua attività, non l'ho mai saputo io ero curiosa aspettavo la risposta, ma non è arrivata». L'idea di V.G. qual era? La donna ha replicato con un sorriso eloquente e queste parole: «Non lo so e non mi interessa più di tanto.
Ognuno nella sua vita fa quello che crede. Comunque ci sono persone che hanno il potere di far sembrare quello che non è e lei probabilmente è una di queste».
Liliane Murekateke, figlia della fondatrice della Karibu Marie Therese Mukamitsindo, era stata a Palazzo Chigi con Berlusconi, tra il 2003 e il 2006, cooptata da Alberto Michelini all'epoca nominato rappresentante personale di Berlusconi per il «Piano di azione per l'Africa». Poi ci era rimasta con Romano Prodi e, di nuovo, con il Cavaliere dopo il suo trionfo elettorale del 2008. Di lei Michelini ha ricordato un aneddoto: «Un giorno incontrammo il primo ministro del Ruanda e lei me lo presentò come suo zio.
Così mi disse. E vidi che si salutavano in modo affettuoso».
L'unico riscontro che si trova su Internet di questi incarichi istituzionali risale al 2009, anno in cui ha percepito dalla Presidenza del Consiglio per una consulenza 8.500 euro (a fronte di uno stanziamento per il progetto di 17.000). Sul suo profilo Linkedin la compagna di Soumahoro, riguardo alla sua esperienza a Palazzo Chigi, sostiene di essere stata per un anno, a partire dal 2008 «vice rappresentante personale a interim per l'Africa del Primo ministro» e poi, dal 2009 al 2011, «rappresentante personale a interim per l'Africa del Primo ministro».
Ed è durante questo incarico che, nel giugno 2010, l'allora ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna si reca a Sezze (Latina) per visitare la sede della Karibu, evidenziando «l'importanza di sostenere, finanziariamente e non solo, realtà che, come queste, cercano di far dimenticare alle donne i traumi terribili subiti».
L'anno dopo arriva, proprio grazie al centro-destra, quella che forse è stata la svolta per la coop. È raccontata negli atti di un'indagine congiunta della Polizia locale e della stazione dei carabinieri di Sezze. L'inchiesta riguardava la gestione dei profughi approdati nei comuni della Provincia di Latina dopo l'ondata di sbarchi causata dalla guerra in Libia che aveva messo a dura prova l'ultimo governo Berlusconi.
La gestione della tendopoli di Manduria, in provincia di Taranto, aveva infatti portato alle dimissioni sia del sindaco della cittadina pugliese sia a quelle, ben più eclatanti, dell'allora sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano.
La Regione Lazio, all'epoca guidata dalla giunta di centro-destra presieduta da Renata Polverini, coinvolge, insieme ad altri Comuni limitrofi, quello di Sezze. Inizialmente partecipano al progetto tre realtà del posto, ma non la coop della Mukamitsindo. Ma, come annotano gli investigatori, «successivamente ci sono una serie di comunicazioni tra la Regione Lazio - soggetto attuatore - e la cooperativa Karibu, dove si richiedeva la disponibilità all'accoglienza». Che viene offerta per 50 profughi.
Gli investigatori sentono due volte la presidente Marie Therese, mamma di Liliane. Nel secondo interrogatorio del luglio 2011 la donna riferisce le presunte accuse di alcuni ospiti contro una delle realtà coinvolte nel progetto: «Mancava il corso di lingua obbligatorio, il medico che effettuasse delle visite, l'acqua potabile, la corresponsione del pocket money». E di fronte a questo scenario, l'imprenditrice, ritenendo di essere stata «tratta in inganno», prende l'iniziativa e comunica telefonicamente alla Regione Lazio «che per tale situazione venivano presi in carico completamente dalla coop Karibu» e che «sarebbero stati allocati in altre sedi con aggravio di spese».
Una mossa che dà il via alla crescita esponenziale della Karibu, che era diventata partner Sprar del Comune di Sezze nel 2010, dopo aver gestito, dal 2001, lo Sportello immigrazione municipale. Un exploit confermato dal bilancio del 2011 della cooperativa che, grazie anche alla distribuzione dei profughi libici sul territorio pontino, vede schizzare il valore della produzione da 837.297 euro a 2.065.310 euro. Cifra che nel 2012 cresce ulteriormente, arrivando a 2.696.519. Un fatturato più che triplicato, anche grazie all'emergenza libica.
Tommaso Labate per corriere.it il 7 dicembre 2022.
«No, non avevo assolutamente collegato, d’altronde sarebbe stato impossibile. Ero davanti alla televisione, a un certo punto parte un servizio sul caso Soumahoro e appare la sua compagna. Sulle prime dico tra me e me “mah, può essere, forse, chissà…”. Poi ho guardato meglio, ed era davvero lei».
Questo racconto comincia con la testimonianza di Laura Boldrini. Che, all’inizio dello scandalo che ha travolto la cooperativa Karibu di Marie Therese Mukamitsindo e macchiato l’immagine del di lei compagno della figlia Aboubakar Soumahoro, fresco deputato della Repubblica eletto con l’alleanza Verdi-Sinistra e oggi autosospeso dal gruppo parlamentare, sta seguendo in tv un programma che si occupa del caso.
L’ex presidente della Camera, che ha un passato importante nell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, conosce ovviamente Soumahoro e in passato ha incontrato anche Marie Therese. Le manca il «link» tra i due. Le manca, o quantomeno è quel che crede fino a quel momento, la figura di Liliane Murekatete, figlia di Therese e compagna di Aboubakar.
Sembra la scena finale de I Soliti Sospetti, quando il commissario interpretato da Chazz Palminteri scruta con attenzione la lavagna di fronte alla quale ha interrogato l’anonimo personaggio interpretato da Kevin Spacey. E accende un nuovo faro sulla storia della donna più «cercata» d’Italia. La cooperante dalle borse e degli abiti firmati, la «Lady Soumahoro» che qualcuno ha ribattezzato «Lady Gucci», la «CooperaDiva» (copyright Dagospia), la donna che invoca per interposta persona «il diritto all’eleganza» (copyright Soumahoro), la bellezza che in alcuni scatti del web ripiombati dal passato posa in vesti a dir poco succinte. Per le foto che ritraggono Liliane è partita la diffida alla pubblicazione.
Ma soprattutto, e qui la storia è talmente sorprendente da far impallidire anche l’intreccio del Bel Ami di Maupassant, l’ex sconosciuta che attraversa quattro diverse legislature con quattro travestimenti differenti: quella dei governi Berlusconi II e III da dipendente della Task force per l’Africa guidata da Alberto Michelini, quella del Prodi II da dipendente di Palazzo Chigi, quella del Berlusconi IV sempre al palazzo del governo e l’inizio del Meloni I come ultracelebre compagna di un deputato dell’opposizione.
L'arrivo a Palazzo Chigi
Intervistato dal programma de La7 Non è l’arena, condotto da Massimo Giletti, l’ex berlusconiano Michelini racconta di come la giovane Liliane Murekatete, che all’inizio degli anni Duemila lavora con lui, si presentasse come «nipote del premier rwandese». Quando la Task Force per l’Africa voluta da Berlusconi va in missione in Rwanda, «il premier me l’ha presentato lei dicendo 'è mio zio'. E non avevo dubbi di credere che lo fosse, anche perché ho visto come lui salutava lei, affettuosamente, come un familiare…».
Ma com’era arrivata una ragazza poco più che ventenne come Liliane a lavorare per il governo Berlusconi? Racconta Laura Boldrini: «Come sapete, ogni 21 giugno si tiene la Giornata mondiale del rifugiato. Per l’occasione, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite chiede alle organizzazioni di segnalargli alcuni testimoni da far intervenire alle celebrazioni. Ora non ricordo quale fosse l’organizzazione, se la Caritas o il Cir o qualcun altro, ma proprio da una di queste viene segnalata questa ragazza, Liliane. Che infatti prende la parola. Era l’inizio degli anni Duemila, non saprei dire l’anno di preciso. So solo che, qualche tempo dopo, incontro Michelini. Che mi dice: 'Ma lo sai che quella bravissima ragazza che è intervenuta il 21 giugno l’abbiamo presa a lavorare con noi?’».
Solo quindici anni dopo, nel 2017, durante la consegna di un premio assegnato da Moneygram, Boldrini farà la conoscenza – a un evento a cui partecipano anche Emma Bonino e Gianni Pittella – della mamma Maria Therese e ritroverà la giovane Liliane conosciuta anni prima. Il link con Soumahoro le apparirà invece solo guardando la tv qualche settimana fa, all’inizio del «caso».
«Ad Arcore non è mai venuta»
Ma che cos’aveva fatto Liliane negli anni precedenti? Dai primi anni Duemila all’autunno del 2011, quando cade il governo Berlusconi IV, non si muove da Palazzo Chigi. Nel 2006 Michelini, per sua stessa ammissione, la segnala al governo Prodi insieme a un’altra componente della sua segreteria particolare. E quando i berlusconiani tornano al governo due anni dopo, ecco che Liliane è ancora al suo posto. Solo che stavolta sale di grado e «assume addirittura il ruolo - è sempre Michelini che parla - di rappresentante personale facente funzioni».
L’ex senatrice Maria Rosaria Rossi, in quella fase, è il braccio operativo del Cavaliere. Monitora la sua attività a Palazzo Chigi e, com’è noto, controlla chi entra e chi esce da Palazzo Grazioli a Roma e dalla Villa di Arcore. «C’era una persona che assomigliava a lei che lavorava per il governo a quel tempo. Ma non saprei dire con certezza se si trattasse o meno della compagna di Soumahoro che ho visto sui giornali e in tv in questi giorni. Mi chiede se potrebbe essere lei? Col condizionale rispondo di sì, potrebbe».
È possibile che Liliane Murekatete frequentasse le residenze private di Berlusconi? «Su questo posso essere più precisa. E la risposta è assolutamente no. Ad Arcore di sicuro non è mai venuta».
Il 21 giugno di una ventina di anni fa, durante la Giornata mondiale del rifugiato, la vicenda di Liliane prende un’altra piega. Vent’anni dopo è tutta un’altra storia, con decine di altre storie in mezzo. Gli scatti decisamente piccanti tornati a circolare sulla Rete hanno adesso una firma, quella del fotografo Elio Carchidi. Scattate nel 2012, non erano state richieste o acquistate da nessuno. Oggi vanno a ruba.
Giacomo Amadori per La Verità il 10 dicembre 2022.
La lista dei soci non lavoratori della Karibu che la presidente Marie Therese Mukamitsindo ha consegnato agli ispettori del ministero delle Imprese e del made di Italy il 29 novembre scorso è sconcertante. Non solo a fianco dei nomi non c'erano riferimenti per eventuali contatti, ma l'identità degli stessi lascia pochi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte a una cooperativa fasulla.
Nell'elenco c'è di tutto: sette soci fanno parte della famiglia allargata di Aboubakar Soumahoro, gli altri dieci sono quasi tutti ex lavoratori che non hanno quote, né hanno partecipato alla vita sociale della coop. Anzi più di uno deve ancora incassare vecchi stipendi. Alcuni hanno lasciato la Karibu da anni e ricevono o hanno ricevuto l'indennità di disoccupazione.
C'è chi vive all'estero e persino chi è morto. Ma nessuno di loro, a parte i parenti acquisiti di Soumahoro, sembra aver mai deciso qualcosa o votato bilanci.
La Verità ha visionato in esclusiva la lista dei soci della coop per cui è stata chiesta la liquidazione coatta amministrativa. Oltre ai consiglieri di amministrazione, Marie Therese, il figlio Michel Rukundo e la figlia Liliane Murekatete (compagna di Aboubakar) nel libro soci ci sono altri 14 nominativi. Probabilmente inseriti a insaputa dei diretti interessati. Tra questi c'è anche Valeria G. che, in esclusiva, ci aveva raccontato di essere stata licenziata nel 2021 e di aver denunciato il coniuge Richard Mutangana per violazione degli obblighi di assistenza famigliare.
Anche Richard, terzo figlio di Marie Therese, è ovviamente socio, sebbene da febbraio non sia più un dipendente e, dal 2017, si sia trasferito in Ruanda dove gestisce una pizzeria e altre attività. Mutangana, lo ricordiamo, è stato, almeno sino al 2017, rappresentante legale dell'associazione di promozione sociale Jambo Africa, spesso presentata come una cooperativa; un'organizzazione che offriva servizi alla Karibu. Dal conto della Jambo partivano le ricariche per i migranti, ma anche ricchi bonifici diretti verso il Ruanda, movimenti attenzionati dal nostro Antiriciclaggio.
Socia della Karibu era pure Aline Mutesi, quarta figlia di Marie Therese. La trentatreenne di origini ruandesi è recentemente ritornata in Australia dal compagno iraniano e ufficialmente era anche presidente retribuito del consorzio Aid, altra struttura per cui Confcooperative e il ministero hanno chiesto lo scioglimento. Nell'elenco c'è anche la compagna italiana di Rukundo, Marina V., e con lei siamo a sette soci tutti interni alla famiglia.
Gli altri dieci sono in gran parte ex operatori di origine straniera. Alcuni non siamo riusciti a rintracciarli. Come Eugenie U., sessantenne originaria del Burundi e residente in provincia di Latina, che non sembra aver mai percepito redditi dalla galassia di cooperative degli affini di Soumahoro. Vana è stata anche la ricerca della quarantottenne «socia» camerunense Alem Catherine N.. La libanese Zahia H., classe 1948, ha lavorato part-time per la Jambo Africa dal 2013 al 2016 prima di percepire la disoccupazione dal 2016 al 2017. Il 29 novembre sera, quando Marie Therese e il figlio hanno consegnato la lista dei soci agli ispettori, sopra c'era anche il suo nome. Peccato che fosse morta il giorno prima.
Evidentemente le comunicazioni tra soci dovevano andare a rilento. Mekdes T., trentaduenne etiope, è, invece, tornata in Africa. O per lo meno così ci ha riferito chi la conosce. Dal 2016 al 2019 ha lavorato per la Karibu, percependo redditi oscillanti tra i 12.000 e i 18.000 euro annui.
Nel 2020 e nel 2021 ha riscosso la Naspi. La donna su Internet risultava presidente dell'associazione Gmia, che nella propria pagina Facebook non spiega quale sia l'attività svolta. La Rete ci informa che l'8 marzo 2019 Mekdes T. ha partecipato insieme con Liliane Muraketete alla manifestazione «Lottomarzo, lo sciopero globale transfemminista». Nell'occasione Karibu, Aid e Gmia hanno affrontato il tema della formazione e dell'aggiornamento professionale in un seminario intitolato «Libere di muoverci, libere di restare».
Ieri siamo riusciti a parlare con un'altra rappresentante di Gmia, la vicepresidente Margaret Musio M., cinquantenne keniota. Nel 2017 è transitata dalla già citata e misteriosa Jambo Africa alla Karibu. Anche per lei gli stipendi variavano tra i 13.000 e i 17.000 euro annui. Dal marzo di quest' anno, dopo aver lasciato la coop della Mukamitsindo, ha iniziato a percepire l'assegno di disoccupazione. Quando le nominiamo il nome della Gmia, sibila una lunga interiezione: «Aaaaaaah. Noi abbiamo creato questa associazione, ma non abbiamo avuto entrate.
La Karibu ci deve ancora pagare perché abbiamo fatto le pulizie nelle strutture. Andavamo in giro con le macchine a puli' di domenica, ma non abbiamo ricevuto un centesimo. Per due anni non siamo stati retribuiti e alla fine ci siamo rifiutati di andare a puli'». Chi vi ha fatto aprire la Gmia? «È stato un consiglio vabbé lasciamo perdere». La Gmia e la Jambo Africa erano satelliti della Karibu, emanazioni della holding che negli anni ha ottenuto più di 60 milioni di fondi per l'accoglienza.
Anche Margaret Mutio risulta socia della Karibu «Socia io? No, ho solo lavorato come operatrice nei centri di accoglienza della Karibu. Magari avessi preso i soldi come socia». Ribattiamo con la signora che il suo nome è stato inserito nel libro soci e lei esclama: «Nei miei conti non ho neanche un centesimo. Ho dovuto chiedere aiuto a degli amici italiani per pagare l'affitto e per mangiare. Venisse la Guardia di finanza a controllare. Se fossi socia mi spetterebbe una quota. Ma dalla Karibu e da Aid a me non è arrivato un euro per quel ruolo. Avrei dovuto anche conoscere tutti i progetti, le entrate, i guadagni, ma io non so nulla e sto morendo di fame».
Quindi Margaret era uno dei finti soci che serviva a garantire il rispetto della fondamentale prerogativa di una coop? La donna concorda: «Sì, per poi poter vincere i bandi. io sono solo una ex dipendente e non mi hanno liquidato neanche tutti i soldi che mi dovevano». Dunque nemmeno questa lavoratrice ha votato l'ultimo bilancio della Karibu, quello con un buco 2 milioni di euro di debiti? «Io stavo nelle strutture di accoglienza. Noi non sapevamo tante cose che competono ai soci e che si trovano nelle carte».
Nella lista dei «fantasmi» si trova anche la ex presidente di Jambo Africa, Christine Ndyanabo K., cinquantaduenne ugandese. Ha lavorato tra il 2016 e il 2017 come dipendente part-time (salario tra i 14.000 e i 16.000 euro). Nel 2018 per sei mesi alla Karibu ha incassato 9.000 euro. Da dicembre 2018 ad aprile 2020 ha preso la disoccupazione. «Quando ero alla Jambo, la Karibu ci finanziava per fare la spesa e noi mandavamo le ricevute alla coop». Mutangana aveva una retribuzione di circa 40.000 euro.
«Macché» obietta la nostra interlocutrice piuttosto incredula. «Io no di sicuro. Io prendevo circa 7-800 euro al mese per il lavoro che facevo, che non era solo quello di presidente». Chiediamo a Christine se fosse socia e la replica anche questa volta è netta: «No, io ero solo una lavoratrice della Karibu. So che mettevano alcuni di noi come soci, ma non venivamo retribuiti per questo». In mezzo a tanti falsi soci, ce n'era una vera che nella scorsa primavera ha lasciato la barca che affondava.
Si tratta di Liliane, la compagna di Soumahoro. Non sappiamo se la quarantacinquenne amante della moda, Aline e Richard siano usciti dalla Karibu e da Aid perché i conti stavano per saltare o perché avevano avuto notizia delle indagini in corso della Procura di Latina sulla presunta gestione truffaldina di fondi pubblici. Qualunque sia il motivo, il 13 maggio 2022, poche settimane prima di firmare l'acquisto della sua prima casa e di prendere l'ultima busta paga dalla Karibu, Liliane scrive alla madre, rivolgendosi a lei con l'ossequioso appellativo di «egregio presidente».
Una scrittura privata che nell'ultimo periodo è circolata anche dentro alla coop e di cui siamo entrati in possesso. È scritta a mano e l'intestazione con il vecchio indirizzo di casa di Liliane è in stampatello. Il testo è il seguente: «Come anticipato per le vie brevi, considerato che ho preso in data 4/4/2022 un'aspettativa e in data 11/4/2022 mi sono dimessa dal cda Karibu, confermo anche in questa breve missiva di essere tolta come socia della cooperativa. Con l'augurio di buon lavoro, colgo l'occasione per rinnovare i miei più sinceri sentimenti di stima».
A luglio, come detto, Liliane prenderà l'ultima busta paga con tfr e il 30 agosto, invece, comparirà come segretario nel verbale di assemblea per l'approvazione del bilancio della coop. Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e «il consiglio di amministrazione al completo». Ma per gli ispettori ministeriali a quell'assemblea probabilmente non partecipò nessuno se non Marie Therese con i figli Liliane e Michel. Anche perché gli altri soci sembra proprio che non possedessero quote, né avessero voce in capitolo nelle decisioni della Karibu.
Soumahoro, "mai un attacco". Scandalo senza fine, cosa spunta adesso. Libero Quotidiano l’11 dicembre 2022
L'ex sindacalista Aboubakar Soumahoro urlava contro le istruzioni per i ghetti foggiani, in particolare Borgo Mezzanone. Contro tutti, tranne che contro "il colosso dell'accoglienza Meidhospes che a Roma agisce in regime di monopolio ed ha appalti in tutta Italia", riporta il Giornale. "La gestione-lager della cooperativa legata a Mafia Capitale, documentata dall'inchiesta di Fabrizio Gatti per l'Espresso e finita poi sotto inchiesta, non ha mai riguardato il deputato con gli stivali", si legge.
I fatti risalgono al 2017 quando Camillo Aceto, presidente della coop che al tempo si chiamava Senis Hospes, si aggiudica il bando per la gestione del CARA al gran ghetto di Borgo Mezzanone. La scoopvince a ribasso con con 15 milioni, "abbassando la diaria dei 30 euro per ogni migrante - come riportava il bando, anche se per legge dovrebbero essere 35 - a 22 euro. 'Un'offerta anormalmente bassa che suscita il sospetto della scarsa serietà', scrisse l'Autorità Nazionale Anticorruzione che rimase inascoltata. Il bando della prefettura fu infatti affidato comunque ad Aceto, fino a quando il Viminale non la revocò: 1400 migranti al posto di 636 scritti nel contratto, condizioni di vita disumane e un utile - per i gestori - di un milione di euro al mese".
Nel 2018, Soumahoro è nell'Usb e si fidanza con Liliane che era nel cda di Karibu di proprietà della madre - ora indagata per truffa aggravata - "che, scopriamo, lavorava proprio fianco a fianco de"Le Tre Fontane, di proprietà di Medihospes, con cui si divideva i migranti a Latina. Un intreccio tra Latina e Foggia nel completo silenzio di Soumahoro". Non solo. "Dopo lo sfratto dal ghetto foggiano si avvia una procedura aperta per la gestione del CARA di Borgo Mezzanone, questa volta divisa in lotti. Nel 2021 è il presidente della Regione Emiliano che firma un protocollo d'intesa 'per la riconversione di Borgo Mezzanone' tra Regione, Provincia, Prefettura e ministero dell'Interno mettendo in campo la cifra di poco più di due milione e mezzo di euro, che vanno aggiunti, peraltro, ai fondi Pnrr, 103 milioni, emessi dal governo Draghi per lo smantellamento dei ghetti foggiani", si legge ancora. E il 12 ottobre 2021 "risulta che la Regione Puglia abbia erogato un finanziamento che sul sito del ministero non compare - per la gestione del Lotto 1 e per il valore di 698mila euro. La causale è la stessa del maxi bando da 2 milioni e mezzo ma non presenta il nome dell'aggiudicatario". Quindi la domanda è: a chi sono andati quei soldi?
Il silenzio di Soumahoro sulla coop che gestiva il ghetto dei migranti. Contro tutti, ma non contro i potenti: nessuna protesta, nessuna proclamazione di "autogestione" sulla gestione del lager di Borgo Mezzanone. Ecco perché il sindacalista con gli stivali ha taciuto. Bianca Leonardi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.
“Non possono appaltare la libertà dei braccianti”, “Libertà!”, “Via da qui”: questi gli slogan dell’ora deputato ed ex sindacalista Aboubakar Soumahoro contro la gestione istituzionale nei “suoi” ghetti foggiani, in particolare Borgo Mezzanone. Contro tutti, tranne uno: il colosso dell’accoglienza Meihospes, proprio quello che a Roma agisce in regime di monopolio, detenendo oltre il 63% dei centri di accoglienza della capitale.
Si scopre che la mega coop legata a Mafia Capitale ha un passato oscuro proprio nel ghetto-patria di Soumahoro. Era il 2017 quando Camillo Aceto, presidente al tempo di Senis Hospes e ora di Medihospes - stessa coop, ma con nome diverso - vince l’appalto per la gestione del Cara di Borgo Mezzanone. Un bando con una base d’asta di 21 milioni di euro per la gestione di un solo anno: una vincita che fin dall’inizio è apparsa controversa per svariati motivi. Al primo posto i legami tra Senis Hospes e il Gruppo La Cascina, presente in tutte le inchieste di Mafia Capitale e di cui proprio Aceto era il vicepresidente tanto che, al momento dell’aggiudicazione, proprio il protagonista aveva un avviso di garanzia legato a quei fatti. Ma c’è di più: le anomalie strettamente collegate a quel bando erano visibili fin dall’inizio a tutti, ma non hanno fermato l’aggiudicazione.
La base d’asta era appunto poco meno di 21 milioni di euro, ma la Senis Hospes propone un’offerta a ribasso - che gli permette di vincere - di 15 milioni mediante l’abbassamento della diaria sui migranti. Per legge il corrispettivo minimo da destinare ad ogni ospite dei centri accoglienza al giorno è di 35 euro, sul bando della Prefettura di Foggia era già ribassato a 30 euro ma Aceto propone soli 22 euro.
“Un’offerta anormalmente bassa, che suscita il sospetto della scarsa serietà”, affermò al tempo l’Autorità Nazionale Anticorruzione, che rimase però inascoltata. E Fabrizio Gatti - autore del dossier per l’Espresso “Sette giorni all’inferno” che ha permesso di avviare un’inchiesta dopo la documentazione delle condizioni inumane all’interno del ghetto - dichiarò: “La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità”.
E infatti le cose non andarono nel modo giusto: nel 2018 il Viminale decise di revocare la gestione a Senis Hospes, che incassava un utile di un milione di euro al mese, a causa delle condizioni in cui venivano fatti vivere i migranti/braccianti. Sovraffollamento al primo posto, con 1400 persone al posto di 636 scritti nel contratto, misure di sicurezza inesistenti, personale praticamente inesistente, condizioni igienico- sanitarie al limite del vivibile e lavoro in nero mediante caporali che sfruttavano i braccianti con turni massacranti di più di 12 ore.
A livello giudiziario, dopo l’apertura dell’inchiesta, non sono emerse conseguenze concrete nei confronti della coop, ne di Camillo Aceto, tanto che negli anni successivi si è espansa ancora di più su tutto il territorio italiano con la vincita - all’ordine del giorno - di appalti milionari. A livello politico, nemmeno.
Quello che incuriosisce è la figura di Aboubakar Soumahoro: proprio nel 2018 si fidanzava infatti con Liliane Murekatete, ai tempi nel cda della Karibu di proprietà della madre - che ora è indagata per truffa aggravata - e che a quel tempo collaborava a Latina proprio con una creatura di Aceto. Karibu e “Le Tre fontane” - ora inglobata in Medihospes e anch’essa nel ciclone di Mafia Capitale - si scopre che si “dividevano” i migranti sul territorio pontino. Un filo diretto tra Foggia e Latina, tra il ghetto del deputato con gli stivali e le vicende della famiglia di cui dice di aver mai saputo nulla.
Un silenzio, quello di Soumahoro, che pesa come un macigno considerando che la gestione della Senis Hospes è l’unica che non ha ricevuto le forti e potenti proteste di cui l’ex bracciante si è sempre fatto portavoce in nome dell’autogestione dei ghetti.
Quel finanziamento fantasma di Emiliano: il giallo delle coop per i migranti. Un'erogazione da parte della Regione Puglia, che non compare sul sito del Ministero dell'Interno e non presenta il nome dell'aggiudicatario, per la gestione di Borgo Mezzanone. Ma nel ghetto, al momento, non c'è nessuno. Bianca Leonardi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Le vicende legate al presunto “business migranti” e agli appalti milionari sui centri accoglienza continuano e sembrerebbe non si siano mai fermate. Come già abbiamo documentato, al centro di questo vortice c’è ancora la Medihospes, uno dei colossi dell’accoglienza che opera in tutt’Italia ma principalmente a Roma e in Puglia, dove ha anche la sede.
Ed è proprio in Puglia che la coop, legata a Mafia Capitale, è stata al centro di un’inchiesta a causa della gestione del ghetto di Borgo Mezzanone. Nel 2018, dopo un anno di presenza nella “casa” del deputato Soumahoro - che non ha mai proferito parola sulla questione - il Viminale decise di revocare il bando - che già in partenza presentava qualche magagna come già abbiamo raccontato - a causa delle condizioni inumane in cui venivano fatti vivere i migranti. La coop di Camillo Aceto, che al tempo si chiamava Senis Hospes, fu quindi “sfrattata” senza però conseguenze giudiziarie concrete. Subito dopo venne infatti indetto una nuova procedura aperta alla ricerca di un nuovo gestore per il Cara di Borgo Mezzanone, questa volta diviso in lotti per, come ha sottolineato il Presidente della Regione Michele Emiliano, evitare l’egemonia di una sola realtà.
Ed è sempre Emiliano che nel 2021 firma un protocollo d’intesa specifico sulla “riconversione di Borgo Mezzanone” tra Regione, Provincia di Foggia, Prefettura di Foggia e Ministro dell’Interno. Il nuovo bando mette sul tavolo la cifra di poco più di due milioni e mezzo di euro che vanno aggiunti, peraltro, ai fondi Pnrr emessi dal governo Draghi proprio per lo smantellamento dei ghetti foggiani e che corrispondono a 103 milioni di euro. L’iter di aggiudicazione va però a rilento e si protrae per anni così da sembrare più complesso e lungo del previsto. Consultando i documenti, infatti, si legge di un annullamento improvviso del bando, per poi tornare attivo solo pochi giorni dopo, il tutto senza il nome degli offerenti.
Poco chiara, però, è la scoperta de IlGiornale.it di un finanziamento fantasma da parte della Regione Puglia. Proprio il 12 ottobre 2021, nemmeno tre mesi dopo l’indizione del suddetto bando per “Interventi urgenti per la realizzazione di insediamenti per ospitalità migranti presso il Cara di Borgo Mezzanone”, compare un’erogazione di poco meno di 700mila euro da parte della Regione Puglia per l’affidamento di uno dei lotti. Affidamento che sul sito del Ministero dell’Interno non compare, nonostante il protocollo d’intesa sancisca la cooperazione tra gli enti. I dettagli, inoltre, non ci sono: è presente solo il nome dell’incaricato del procedimento - tale Roberto Polieri - ma il nominativo a cui è stato liquidato quell’importo non compare. Ma c’è di più: cercando di accedere alla documentazione, che dovrebbe essere pubblica, si legge: “la presente è riservata ai soli operatori invitati dalla stazione appaltante” e cioè dalla Regione Puglia.
I dubbi sembrerebbero inevitabili: a chi sono andati quei soldi e per quale reale motivo, visto che al momento Borgo Mezzanone non è gestito da nessuno?
Striscia, Soumahoro e i soldi spariti: la frase al telefono che può cambiare tutto. Libero Quotidiano il 13 dicembre 2022
A Striscia la Notizia arriva un'altra stoccata ad Aboubakar Soumahoro. Questa volta Pinuccio - l'inviato del tg satirico di Canale 5 - indaga su una raccolta fondi a parte del parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi per l'emergenza Covid. Durante la pandemia, Soumahoro aveva organizzato una raccolta fondi per destinare aiuti a chi era in difficoltà, inclusi dispositivi come mascherine e altri strumenti per far fronte al pericolo contagio.
Poi sarebbe arrivato il grande giorno della consegna degli aiuti a Pescara. Ma a quanto pare come ha raccontato uno degli amici di Soumahoro, l'incontro è stato annullato. Insomma Soumahoro non avrebbe portato quello che aveva promesso. "Io conosco Aboubakar da anni, abbiamo anche diviso la casa insieme. Non avrei immaginato un simile comportamento", ha affermato l'amico di Soumahoro.
Poi arriva l'affondo: "Quella mattina tutti aspettavano Aboubakar per consegnare a chi li attendeva gli aiuti promessi. Mi è arrivata una telefonata, era Soumahoro e mi disse rimandiamo, non posso venire, rimandiamo", racconta l'amico del parlamentare. E di fatto quell'incontro per distribuire i dispositivi e i beni di prima necessità acquistati con la raccolta fondi, non venne mai recuperato. E a questo punto Pinuccio a Striscia la Notizia si pone una domanda importante: che fine hanno fatto quei soldi?
Comunicato stampa di “Striscia la notizia” il 13 dicembre 2022.
Stasera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) torna l’appuntamento con Pinuccio e il “caso Aboubakar”, con la seconda parte dell’intervista esclusiva a Yacouba Saganogo, sindacalista connazionale di Soumahoro e una delle prime persone che l’attuale onorevole ha incontrato al suo arrivo in Italia.
“In ventidue anni in Italia non ho mai conosciuto la pacchia, ho dormito per strada, lavorato nei campi e sofferto per non riuscire a mangiare”, dichiarava un Aboubakar “stivalato” all’ingresso del Parlamento poco dopo l’elezione. Una versione della storia che non convince il suo storico amico:
«Abù non ha mai fatto il bracciante – racconta Saganogo – e non ha mai lavorato la terra. L’immagine di lui con gli stivali fuori dal Parlamento non mi è piaciuta, perché la verità è che gli stivali non li ha mai portati». «Gli interessava della propria immagine – continua Saganogo – e veniva nel ghetto solo per fare selfie e video, mentre quelli che lavoravano eravamo noi. Ha usato la Lega Braccianti e i migranti per fare carriera, ad alcuni ha anche promesso permessi di soggiorno che, ovviamente, non poteva procurare».
A differenza degli altri media, Striscia la notizia non si è occupata solamente dello scandalo delle cooperative sociali gestite dalla compagna e dalla suocera (indagata) dell’ex sindacalista ma dei fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Pinuccio, dei suoi due ex soci.
Striscia ha iniziato a contattare Soumahoro il 25 ottobre per intervistarlo e avere la sua versione della storia. Ecco le dieci domande (più una) a cui vorremmo da lui una risposta:
1. Come sono stati spesi i fondi raccolti per la pandemia?
2. A chi sono stati consegnati i regali della raccolta di Natale destinati ai bambini di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone?
3. Quanti soldi sono stati raccolti su PayPal e sul suo conto corrente personale e come sono stati spesi i fondi di quelle collette?
4. Come mai il rimpatrio della stessa salma è stato utilizzato come giustificativo di tre raccolte diverse?
5. Nell’accordo col patronato cosa era previsto e perché i suoi ex soci riferiscono di percentuali sulle pratiche?
6. Ci può fornire il verbale dell'assemblea in cui sono stati estromessi i due soci fondatori della lega braccianti?
7. Oltre al bilancio, è possibile vedere nel dettaglio le entrate e uscite dell’Associazione Terzo Settore Lega Braccianti?
8. Ha mai fatto il bracciante agricolo in Italia?
9. Con che fondi ha pagato la campagna elettorale?
10. Gli stivali di gomma portati in parlamento sono suoi?
11. Perché non voleva fare entrare altre associazioni all’interno del ghetto e doveva gestire tutto lui con la Lega Braccianti?
Zona bianca, "davvero non sapevate nulla di Sumahoro?". La Evi balbetta. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.
A Zona Bianca si parla del caso Soumahoro. Ospite di Giuseppe Brindisi, nella puntata del 4 dicembre, c'è Eleonora Evi di Europa Verde, la quale, incalzata dalle domande del conduttore, si mette praticamente a balbettare: "Davvero nessuno sapeva nulla delle ombre sulla cooperativa di Soumahoro?", chiede Giuseppe Brindisi. "No non lo sapevamo", risponde imbarazzata la Evi. "Obiettivamente facciamo un mea culpa, ci prendiamo tutta la responsabilità di aver fatto delle valutazioni e un esame sui profili non così approfondita". Però prova a difendersi e difendere il suo partito che ha candidato Aboubakar Soumahoro: "Non siamo però una polizia giudiziaria, la sua fedina penale era pulita. Abbiamo fatto delle scelte cercando dei profili, la sua storia parla per lui".
E ancora, si arrampica sui vetri Eleonora Evi: "C'è stata una gogna mediatica, un accanimento mediatico molto forte". Ma a quel punto Roberto Poletti che è ospite in studio perde la pazienza e le fa notare che "Soumahoro prenderà 15mila euro al mese per cinque anni, compresa la buona uscita gli daremo un milione di euro". E affonda: "E voi dite vabbè, è stato uno sbaglio, la giustizia farà il suo corso... Ci sono dei servizi giornalistici di Striscia la notizia che provano raccolte fondi quantomeno sospette".
Adesso Gad Lerner difende Soumahoro: "Accanimento quasi morboso". Il giornalista si schiera col deputato: "Nei suoi confronti c'è un senso di rivalsa. State ingigantendo una vicenda che riguarda la suocera". Luca Sablone il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La sinistra non riesce ancora a farsene una ragione. Il caso Aboubakar Soumahoro rappresenta un forte imbarazzo a prescindere dal corso che la giustizia farà: è una vicenda politica che, ancora una volta, ha smascherato l'inconsistenza degli slogan teorici e la fragilità con cui il fronte rosso ha dipinto l'italo-ivoriano come potenziale leader per le sue parole a difesa dei migranti e dei lavoratori sfruttati. Gli ultimi sviluppi hanno messo in soggezione la sinistra, ma c'è chi come Gad Lerner non si rassegna e non si dà pace.
Il giornalista de Il Fatto Quotidiano ha voluto prendere le difese del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana, schierandosi dalla sua parte e puntando il dito contro chi - a suo giudizio - accentua i contorni della vicenda in modo inappropriato: "È evidente che nei suoi confronti c'è un accanimento speciale, quasi morboso. C'è un gusto, un senso di rivalsa dovuto al fatto che abbiamo smascherato un furbo?".
Gad Lerner ha voluto sottolineare che al momento Soumahoro è fuori dalla questione giudiziaria e tende a escludere che possa aver commesso dei reati in tal senso. Ha parlato di "compiacimento" per il comportamento che si adotta quando si affronta il caso Soumahoro e ha lanciato un'accusa ben precisa: "State ingigantendo una vicenda che riguarda la suocera o quasi suocera". "Il fatto che questi invisibili abbiano trovato come portavoce la persona che poi è caduta nel discredito dà quasi un senso di sollievo...", ha aggiunto in riferimento a chi tratta in maniera sferzante il caso.
Sulla questione si è espresso anche Alessandro Sallusti, che ha commentato senza giri di parole il tentativo di Gad Lerner di stigmatizzare l'accanimento mediatico: "È un po' come sentire un piromane che mette in guardia dal fuoco. Lui ha costruito la sua carriera contro i suoi rivali politici". Il direttore di Libero ha poi chiamato in causa l'intellighenzia della sinistra: "Si è fatta fottere da una signora accusata di essere una truffatrice, questo deve farci riflettere".
"L'avete premiata come migliore imprenditrice dell'anno...", ha aggiunto Sallusti. Infatti proprio nei giorni scorsi Striscia la notizia notizia, storico tg satirico in onda su Canale 5, ha consegnato il tapiro d'oro a Laura Boldrini visto che nel 2018 Marie Therese Mukamitsindo era stata premiata come migliore imprenditrice straniera in occasione del MoneyGram Awards. A consegnare il premio era stata proprio Boldrini.
Aboubakar Soumahoro: il silenzio dei buonisti della tv di sinistra. Parlare di Aboubakar Soumahoro a sinistra sembra essere un tabù: eppure è possibile farlo riportando anche solo i fatti, senza processi mediatici. Francesca Galici il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Da settimane, i media si stanno occupando del caso delle coop legate alla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro, eletto in Parlamento lo scorso settembre in quota Sinistra italiana - Verdi. Un caso mediatico importante, con risvolti che potrebbero essere di più ampio respiro sull'intero sistema di gestione dei migranti, e non solo su due specifiche coop. Aboubakar Soumahoro è un personaggio "inventato" dal buonismo di sinistra, quello imperante in certi programmi televisivi e riviste, dedito alla propaganda. E questo spiega il silenzio di quegli stessi attori in queste settimane in cui, probabilmente, sta emergendo che Aboubakar Soumahoro non è esattamente la persona che loro pensavano fosse.
Il caso Soumahoro a parti invertite
Attenzione: il deputato non è indagato. La giustizia si sta concentrando prevalentemente sull'attività di sua suocera e della sua compagna. E si badi bene, compagna e non moglie: per molti a volte si tratta di sinonimi ma a livello legale ci sono sfumature che non possono essere ignorate. Ma fatta questa doverosa premessa, le considerazioni sul modo in cui i media buonisti trattano la vicenda è comunque, per usare un eufemismo, bizzarro.
"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro
Sì, perché da parte di Fabio Fazio non si è vista la faccia contrita delle grandi occasioni, quella dedicata alle denunce dei presunti misfatti che gravitano nell'area politica a lui sgradita. Ed è calato il gelo nello studio di Che tempo che fa, quando Massimo Giannini (direttore de La Stampa) ha accusato la stampa di destra di bacchettare Soumahoro, definendo il tutto "inaccettabile". Però al direttore andrebbe ricordato che ci sono stati la Repubblica e il Corriere della sera tra i primi quotidiani a riportare, com'è giusto che sia, le notizie inerenti l'indagine della procura di Latina (non pettegolezzi).
Nessuna "letterina" è stata scritta da Luciana Littizzetto a lady Soumahoro per l'ostentazione del lusso, quanto meno stridente con l'attività di accoglienza dei migranti. Forse perché, come ha detto il deputato, la compagna ha "diritto alla moda", quindi davanti a questi diritti anche Lucianina fa un passo indietro? Il "diritto alla moda" sembra comunque ormai entrato stabilmente nelle abitudini consolidate della sinistra, visto che Pierluigi Bersani è stato visto nella nota boutique di un marchio d'alta moda francese con un bel sacchetto in mano. O forse era un moto di solidarietà per la moglie di Soumahoro?
"Il mutuo? Grazie al libro". Ma Soumahoro ha venduto solo 9 mila copie
E ha fatto silenzio anche Bianca Berlinguer nel suo Cartabianca, che ha dedicato ancora spazio alla guerra in Ucraina per giustificare la presenza fissa di Alessandro Orsini. Tace Marco Damilano, che in un certo senso ha lanciato il personaggio di Aboubakar Soumahoro. Tacciono Lilly Gruber, Lucia Annunziata e anche Roberto Saviano, che pure ha spesso dimostrato di non aver problemi sfoderare la sua penna affilata. L'unica intervista televisiva in questo caos mediatico, il deputato l'ha rilasciata a Corrado Formigli a Piazzapulita. Peccato che il giornalista non sia stato in grado di ribattere (com'è capace di fare in altre occasioni) quando il suo ospite gli ha detto che negli ultimi anni ha vissuto grazie alla vendita delle copie del suo libro. Che pare siano state circa 9mila. Pur sempre all'interno della necessaria tutela e del garantismo, forse i soloni dell'informazione che si arrogano il diritto di distribuire patenti di democrazia e di correttezza, dovrebbero imparare a lavorare con un po' più di obiettività. Non guasterebbe né a loro e nemmeno all'informazione italiana.
Striscia, Flavio Insinna? All'inaugurazione della "Casa dei diritti" di Soumahoro... Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.
Striscia la Notizia torna sul caso Soumahoro. E nella puntata in onda lunedì 5 dicembre su Canale 5 Pinuccio avanza nuovi sospetti. In particolare l'inviato del tg satirico si concentra sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti direttamente dal profilo Facebook di Aboubakar Soumahoro. Alcuni di questi soldi dovrebbero essere stati utilizzati per la costruzione della "Casa dei diritti" del ghetto di Rignano, inaugurata a gennaio 2022 alla presenza del conduttore Flavio Insinna. Immobile - e qui sta il problema - che però da gennaio a oggi è rimasto chiuso.
Mostrando le diverse raccolte, Pinuccio trova l'inaugurazione della nota "Casa" che vedeva quella che Striscia definisce "la mamma putativa": il conduttore Rai. Proprio Insinna, interpellato da Soumahoro in un video diffuso sui social spiega: "Uno nella vita deve scegliere da che parte stare, questa è la nostra".
Eppure qualcosa non torna: "Ma questa raccolta fondi fatta con la Lega Braccianti - si domanda Pinuccio - quanti soldi ha raccolto? Ci sono dei giustificativi? Qui non si sa proprio nulla". E ancora: "E sulla Casa dei diritti non sappiamo nemmeno se sia o meno abusivo. Per di più è pure chiusa. Abbiamo dei video". I filmati parlano chiaro: all'interno dell'abitazione non c'è nessuno e le porte sono sbarrate. "Qui - conclude Striscia - i conti non tornano. Chiediamo ora alla mamma Insinna se per caso sa qualcosa".
“Rai imbarazzante, cassa di risonanza della sinistra”. Gasparri esplode sulla difesa di Soumahoro. Il Tempo il 27 novembre 2022
Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, è imbufalito per l’intervista doppia di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli andata in scena nel corso della puntata del 27 novembre di Mezz’ora in Più, il programma tv di Rai3 condotto da Lucia Annunziata. L’esponente azzurro ha esternato la propria rabbia pubblicamente: “È imbarazzante vedere la Rai messa a disposizione di Bonelli e Fratoianni che invece di rispondere del grave errore fatto candidando Aboubakar Soumahoro hanno utilizzato gli spazi di Raitre e in particolare della trasmissione dell'Annunziata ‘In mezz'ora’ per accusare il mondo intero, dai problemi Ischia a Sharm el-Sheikh, invece di rispondere del loro gravissimo errore. L'Annunziata alternava domande poco incisive ad atteggiamenti da amica appena un po’ perplessa, quasi complice del ‘gatto e la volpe’, che nel suo studio hanno eluso le questioni fondamentali che andavano poste in ben altro modo.
Gasparri prosegue nell’invettiva: “Abbiamo letto sui giornali le vicende delle cooperative, le fantaluche che ha raccontato Aboubakar Soumahoro, dicendo che per tre anni ha vissuto grazie ai proventi di un libro che ha venduto poche copie, poi teorizzando ‘il diritto all'eleganza e alla moda’ di sua moglie, fotografata con abiti e accessori di lusso, mentre doveva occuparsi, con le sue cooperative, di tutelare persone in difficoltà. Di tutto questo non si è parlato. Sembrava quasi che Bonelli e Fratoianni dovessero loro mettere sotto accusa il resto della umanità. Non si fa così il servizio pubblico. Questa è la vecchia Rai, cassa di risonanza dei settori più estremi e più fallimentari della sinistra.
“Fratoianni e Bonelli devono - l’auspicio finale di Gasparri - prima di tutto scusarsi dell'errore fatto e non arzigogolare negando di essere stati informati, quando ci sono stati esponenti del loro partito e noti sacerdoti della Caritas che li avevano messi sull'avviso. Una brutta ulteriore pagina di un servizio pubblico che deve andare verso una nuova stagione. Non può continuare a essere il predellino di una sinistra ambigua e perdente”.
Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 25 novembre 2022.
Ops. Che figura compagni! Ci scappa da ridere, molto, ma è una risata triste, ed è un peccato. Certo, non triste come la copertina dell'Espresso del 17 giugno 2018, molto più tragica come comica, almeno per chi l'ha pensata. Titolo: "Uomini e no", come il romanzo di Elio Vittorini sulla Resistenza.
L'uomo, sulla sinistra, è il sindacalista Aboubakar Soumahoro, ancora cittadino semplice, non un deputato della Repubblica. Il "no", sulla destra, è Matteo Salvini, allora neo-ministro dell'Interno. "Il cinismo", si legge sotto i due volti, "l'indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l'empatia, l'appello all'unità dei più deboli". Poi il domandone, retorico: "Voi da che parte state?".
Aboubakar paladino degli "ultimi", per Repubblica. Aboubakar strenuo difensore, forse l'ultimo, dei diritti dei neri e delle minoranze, per La7, che assieme al settimanale progressista ha costruito, elevato e idolatrato l'immagine del futuro parlamentare ivoriano con gli stivali, oggi crollata sotto i colpi di un'inchiesta giudiziaria che se al momento non lo vede indagato, fa a brandelli la narrazione portata avanti per anni da lui e dalla sinistra.
Salvini quella copertina l'aveva criticata: «Alla faccia del giornalismo, ormai alla sinistra rimangono bugie e insulti. Mi fanno tenerezza», e aveva allegato l'emoticon di un bacio.
Era il tempo dei "bacioni" inviati ad avversari politici e insultatori vari, tutti a sinistra. La replica di Marco Damilano, allora direttore dell'Espresso, era stata durissima: «Di bugie e insulti la Lega di Salvini è esperta da anni: i dati amplificati sull'immigrazione per creare la percezione di un'invasione che non c'è, il dileggio dell'avversario politico.
A noi interessa reagire e rappresentare la voce di quella parte di società italiana che non si rassegna a un governo e a un politico impegnato in una campagna elettorale permanente sulla pelle dei migranti e di chi dissente. Un politico che», aveva aggiunto Damilano, «da anni discrimina tra cittadini di serie A e di serie B. Chiediamo ai lettori di giudicare chi sia l'uomo tra un ministro sicuro del suo potere politico e mediati co e un sindacalista di strada che difende i suoi fratelli e compagni».
E come li ha difesi! Ma il "ciclone Soumahoro", dicevamo, s' è fatto sempre più potente anche grazie ad altri buonisti militanti in servizio permamente. Fabio Fazio, Roberto Saviano, Giobbe Covatta, Michela Murgia. Poi c'è il leader maximo dell'esercito, Diego Bianchi, "Zoro", il mattatore di Propaganda Live che a colpi di «Daje!» caricava il Soumahoro che guidava gli scioperi nei campi del Foggiano. Pugno chiuso e calosce.
Tra le perle più pure la puntata del 22 maggio 2020, appena terminata la fase più dura della pandemia. Decine di braccianti in aperta campagna capeggiati da Aboubakar. Finisce il servizio in cui l'eroe dei due stivali viene messo a confronto col bruto Salvini il quale sollevava delle perplessità per il fatto che a scioperare fossero «dei clandestini», e Bianchi esclama: «Grazie, Aboubakar! Si batte la mano sul petto, sul cuore». Aboubakar, alla fine, lancia il grido di battaglia: «È solo l'inizio, è solo l'inizio!». Applausi dallo studio. Mah. A occhio, compagno Aboubakar, siamo più o meno alla fine. Certo, non dello stipendio da parlamentare...
Da Soumahoro a Saviano il contrappasso dei moralisti. Antonio Terrenzio su Culturaidentita.it il 25 Novembre 2022
“Il borghese è il proletario alla prima opportunità”. L’aforisma fulminante deve appartenere a Gomez Davila, se ricordo bene.
Parafrasandolo ne verrebbe in mente uno più cattivello:” Il bianco sfruttatore è il negro alla prima opportunità”, perché è questo che si adatta meglio alla figura di Soumahoro, con nuovi importanti novità che emergono dal giro di affari delle cooperative gestite dalla suocera o da chi per lui. Lo ricordate? Le sceneggiate con gli stivali davanti al Parlamento, le cialtronate da Martin Luter King dei poveri nel campo Borgo Torretta, che arringa tra i poveri africani sfruttati e che tuona contro Michele Emiliano e la Regione Puglia. Soumahoro che fa la raccolta fondi per i bambini per 16 mila euro, anche se di bambini nel campo non ce ne sono e si viene a sapere che con la sua Lega Braccianti incassava quasi 200mila Euro solo nel periodo della pandemia. In più stipendi non pagati. Come se non bastasse sua moglie fa la Ferragni in versione afro su Instagram e tra un selfie e l’altro apre un mutuo di 250mila Euro per una villa da 450mila: tu chiamala se vuoi, cooperazione. Non c’è crimine peggiore di lucrare sulla pelle dei propri connazionali.
Eppure don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo, come riferisce a Repubblica, aveva avvertito Fratoianni di non fidarsi e che candidarlo nelle liste del suo partito sarebbe stato un clamoroso autogol. Adesso che si aspetta un riscontro giudiziario, la sinistra tutta vive uno psicodramma collettivo che si aggrava scandalo dopo scandalo. Prima Mimmo Lucano inguaiato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, poi Saviano denunciato per aver dato di “bastardi” a Meloni e Salvini, i contributi non pagati alle colf dalla Boldrini, ora lo scandalo del sindacalista ivoriano, astro nascente ma già in caduta libera del PD: la sinistra vive una crisi di identità a tutti i livelli. La difficoltà nella individuazione di un leader che la rappresenti, con patetici psicodrammi nelle kermesse dei suoi congressi, è molto più della rielaborazione di una sconfitta elettorale. La sinistra progressista è ormai entrata in una crisi antropologica, persa tra i meandri di ideali astratti e fumosi: ma i progressisti lo capiranno mai? La sinistra uscirà mai dal concentrato di stereotipi ed ipocrisia che la caratterizzano da anni? Quando capirà che non è affidandosi a nuovi “santini” che riuscirà a dimostrare la sua superiorità umana e valoriale?
Nell’establishment editoriale si intravedono le divisioni regnanti tra le forze di opposizione che non riescono a tenersi insieme nemmeno in funzione antigovernativa. Lo stato di confusione è massima. Se poi si aggiunge una tragicomica capacità di farsi del male con scandali che si ripetono in maniera cadenzata, allora la crisi è un tunnel che non vede mai la luce all’uscita.
Il vertici del PD sembrano smarriti, stentano a rimodellare una propria identità ed insistono nella ripetizione dei propri errori ideologici, come l’abbraccio fanatico a tutte le cause della correttezza politica.
La candidatura di Elly Schlein come guida del PD, è il sintomo di una radicalizzazione su istanze lontane anni luce dal popolo, e se tale linea dovesse prevalere, non è difficile immaginare un governo guidato da Giorgia Meloni per altri 10 anni, come ricorda il politologo Orsina in una intervista.
Gli scandali come quello di Soumahoro e dei suoi familiari sembrano il naturale contrappasso di chi predica rispetto, diritti, lotta alle discriminazioni e poi fa tutt’altro. Se la sinistra cade sempre sui suoi principi fondamentali, che sventola di fronte ai suoi avversari, e poi dà prova dell’esatto contrario, una ragione ci dovrà essere. Non bastano un paio di stivali sporchi per darsi una patente di immacolabili, adesso lo sapete.
Antonio Giangrande: Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Paladini dei lavoratori, però li sfruttano. Pasquale Napolitano il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.
Da Fico a Boldrini e Bellanova: la sinistra spesso pizzicata a fare la furba
In piazza per difendere i diritti dei lavoratori. Ma quando si tratta di pagarli i leader della Pd e della sinistra se ne scappano a gambe levate. Fico, Boldrini, Bellanova, Di Battista, Soumahoro: tutti con il braccino corto e allergici a pagare (e dire grazie) ai propri lavoratori. E poi c’è il «il campione del riformismo: il sindaco di Milano Beppe Sala che vuole un social media con uno stipendio da 9 euro lordi all’ora. Natale, Pasqua e Capodanno compresi. Un’idea rivoluzionaria di salario minimo. Chapeau. Tutti i leader della sinistra con il braccino corto hanno anche un’altra cosa in comune: sono sempre pronti a minacciare querele. La storia recente ci ha regalato tante bandiere della sinistra cadute sui lavoratori. Laura Boldrini è forse il nome più illustre. Ma anche quello che fa più rumore. Un doppio inciampo. L’assistente e la colf avrebbero rivendicato dall’ex numero uno di Montecitorio, oggi tra i big del Pd, stipendi e straordinari. Ma la Boldrini nega e minaccia querele. Il caso rimbalza un anno fa. L'ex colf di nazionalità moldava si è rivolta a un patronato di Roma per chiedere il pagamento della liquidazione di 3000 euro, a dieci mesi dalla fine del contratto, dopo una collaborazione durata otto anni. Anche Roberta, la sua ex collaboratrice parlamentare, aveva raccontato al Fatto di mansioni che esulavano dai propri compiti contrattuali. «Ho lavorato due anni e mezzo con la Boldrini posso dire che ho tre figli, partivo il martedì alle 4.30 da Lodi per Roma, lavoravo per tre giorni 12 ore al giorno, dalla mattina presto alle nove di sera. Per il resto lavoravo da casa, vacanze comprese. Guadagnavo 1.200 / 1.300 euro al mese, da questo stipendio dovevo togliere costi di alloggio e dei treni da Lodi». Boldrini aveva parlato di equivoco. La colf è stata la buccia fatale per un altro presidente della Camera: Roberto Fico. Le Iene tirano fuori la storia della domestica pagata in nero dall’allora presidente di Montecitorio nell’abitazione di Napoli. Fico si infuria e denuncia il programma Mediaset. Querela persa (per Fico). Altro verdetto negativo è arrivato per l’ex ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova, sindacalista come Saumahoro. La Corte di Appello di Lecce ha condannato l’ex ministra delle Politiche agricole e il Pd provinciale di Lecce per aver impiegato per oltre tre anni un addetto stampa senza averlo mai assunto come dipendente. Per i giudici di fatto l’addetto stampa era un dipendente del partito. La Corte d’Appello ha riconosciuto la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato e condannato Bellanova e il partito a risarcire il lavoratore e a pagare le spese processuali. Il Pd provinciale e Bellanova dovranno pagare oltre 50 mila euro a Maurizio Pascali: 43 mila il partito e 6.700 l’ex sindacalista. Storia simile è accaduta alla federazione Pd di Napoli: l’ex portavoce Alessandra Romano rivendica gli stipendi arretrati: il caso è finito in Tribunale. C’è poi il "leader morale" della sinistra: Alessandro Di Battista, il Che grillino che gira il mondo alla scoperta di idee per i suoi libri. Nel 2018 l’azienda del padre, Vittorio Di Battista, finì nella bufera per debiti e stipendi non pagati ai lavoratori. Nulla di male. La strategia è semplice: quando si tratta di mettere mano al portafogli scappare. Fuga. Fratoianni e Bonelli chiedono l’autosospensione di Soumahoro. Perché mai? È così in buona compagnia tra Pd e sinistra.
Milano, abusivi gestiscono la lista di appuntamenti dell'ufficio immigrazione. Redazione Tgcom24 il 9 novembre 2022.
A Milano i richiedenti asilo sono costretti a lunghe attese fuori la questura e c'è chi specula su di loro. L'inviata di " Striscia la Notizia" Rajae ci mostra la situazione di via Cagni dove ogni giorno (e ogni notte) centinaia di persone si accampano in attesa di un appuntamento. I tempi di attesa sono così lunghi perché non ci sarebbero abbastanza interpreti e un efficiente sistema di prenotazione. Peccato che poi, fuori dal sistema ufficiale, ne esiste uno parallelo e abusivo che garantisce posti in lista dietro un cospicuo pagamento.
Un posto in lista d'attesa costerebbe infatti 300 euro a immigrato. 100 euro in anticipo e i restanti 200 euro quando l'iscrizione alla lista viene di fatto effettuato. Dopodiché, alle persone non resta che accamparsi fuori la questura e attendere il proprio turno. A gestire la lista di appuntamenti dell'ufficio immigrazione sarebbe un gruppo di egiziani già denunciati alla polizia dai richiedenti asilo: "Noi non vogliamo problemi. Vogliamo solo prendere i nostri documenti e andare a lavorare. È la questura a dover gestire gli appuntamenti senza passare da questi egiziani o arabi".
Coltelli, sputi e calci: la polizia nell'inferno di via Cagni a Milano. Centinaia di persone ogni giorno si mettono in fila per le richiesta d'asilo e sono quotidiani gli scontri con la polizia che cerca di mantenere l'ordine. Francesca Galici il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.
In via Umberto Cagni a Milano ogni giorno si vive l'inferno. Lo sanno bene gli uomini del reparto Mobile della polizia di Stato, e non solo, costretti a gestire ogni giorno centinaia di migranti irregolari che si mettono in fila all'ufficio immigrazione della Questura per avviare le pratiche d'asilo. "Via Umberto Cagni è sicuramente l'esempio per eccellenza dei frutti di una immigrazione senza controllo, che purtroppo ricade ancora una volta sulle teste dei residenti e soprattutto sugli uomini e le donne delle forze dell'ordine che devono gestire un fenomeno ingestibile", ha dichiarato Pasquale Alessandro Griesi, segretario regionale Lombardia del sindacato Fsp Polizia di Stato, raggiunto da ilGiornale.it.
La situazione di via Umberto Cagni dovrebbe essere ben nota alle autorità e alle istituzioni, visto che da anni gli stranieri si accampano davanti all'ufficio immigrazione, giorno e notte, estate e inverno, con tutto ciò che ne consegue. Ed è un'escalation quella a cui si assiste, come dimostra quanto accaduto ieri mattina, quando alcuni agenti di polizia sono stati aggrediti con spinte, calci e sputi dai migranti in coda. Il sindacalista ci ha spiegato che, per quanto gli uomini assegnati all'ufficio immigrazione non siano in numero adeguato per numero di pratiche da evadere, l'ufficio immigrazione di Milano "è il più performante in Italia per le presentazioni spontanee". A garantire il servizio d'ordine ci pensano gli uomini del reparto Mobile, costantemente presenti insieme a tutte le altre forze di polizia sul territorio.
Una situazione così non è più sostenibile, come denunciano i sindacati di polizia, che non si rassegnano alle scene a cui si trovano costretti ad assistere, spesso intervenendo per riportare la situazione alla calma a rischio della propria incolumità. "Nell'ultimo servizio di ordine pubblico abbiamo notato che gli immigrati, circa 250/300 persone, dopo diversi servizi televisivi e giornalistici, sono diventati molto più aggressivi. Hanno letteralmente aggredito una squadra del reparto con spinte, sputi e insulti, nell'attesa di un errore o una spinta più energica da parte dei poliziotti preposti, che sono costretti a fare da transenna per regolare il flusso d'ingresso", denuncia ancora Pasquale Alessandro Griesi.
Tutto questo mentre da Palazzo Marino le istituzioni non intervengono, lasciando tutto il peso della gestione sui poliziotti. Solo poche settimane fa il Pd pare si sia reso conto del degrado, senza però intervenire. Come se non bastasse, come denunciano i sindacati di polizia, gli stranieri in coda hanno costantemente il cellulare tra le mani e riprendono qualunque mossa degli agenti. Il motivo è ovvio: sono pronti a riprendere ogni minima sbavatura e passo falso dei poliziotti, per poi girare i video a qualche antagonista, che poi ci monta su un caso mediatico.
Il Pd si accorge ora del caos migranti. L'ira della polizia: "Perché sono qui?"
Comprensibile il disagio e la pressione subita dagli agenti, costretti a operare in scenari ad alta pericolosità, sotto provocazione e con i cellulari sempre puntati addosso. E per capire cosa si intende per "alta pericolosità" bisognerebbe trovarsi a passare in via Cagni in quei frangenti. Ieri, per esempio, durante la colluttazione tra gli stranieri e gli agenti, è stata rinvenuta anche un'arma bianca, ma non solo: "Mentre spingevano, a qualcuno è anche caduto un coltello a serramanico a terra. Inoltre, nella calca uno di loro è svenuto, tanto che i poliziotti preposti non riuscivano a tirarlo fuori, perché gli immigrati accalcati lo calpestavano incuranti".
Nel video esclusivo in allegato, si vedono decine di persone che, nonostante sia stata comunicata la chiusura dell'ufficio, continuano a rimanere in coda. "Questi sono i frutti di una immigrazione incontrollata che ora va gestita. Il problema si è dovuto spostare da via Montebello, dove già vengono gestite circa 300 persone giornaliere. Immaginiamo se si aggiungessero anche i numeri di via Cagni con annesso campeggio: lascio a voi le conclusioni", dice con amarezza Griesi.
Da anni questa è la situazione di via Cagni, ora attenzionata dai vertici istituzionali e dall autorità: "Sappiamo per certo che la questione è attenzionata dal prefetto e dal questore e che presto sarà convocato un tavolo congiunto in prefettura (questura, prefettura, comune e forse terzo settore) per tentare di arginare il problema. Ma diventa indispensabile che ognuno si prendesse le proprie responsabilità". Questo è il momento di agire, sottolinea Pasquale Alessandro Griesi e tutti devono dare il proprio contributo: "Questo fenomeno immigratorio incontrollato non ha soluzioni ma può essere solo gestito dalla collaborazione di tutti, nessuno escluso, e non come accaduto sino ad oggi sulle spalle dei singoli operatori di polizia". Un appello che si spera venga raccolto da chi di dovere.
Ong, il trucco dei "barchini alla deriva": le foto che svelano la farsa. Libero Quotidiano l’08 novembre 2022
Frontex, l'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, smaschera gli scafisti. Un video mostra l'escamotage utilizzato dai trafficanti di uomini nel Mediterraneo per far apparire i migranti come "alla deriva" e bisognosi di soccorso in mare. Il filmato, di cui sopra mostriamo quattro momenti, testimonia come le organizzazioni criminali, una volta raccolti gli stranieri sulle coste libiche, poi li trasferiscano su un'altra nave che verrà lasciata libera di dirigersi verso l'Italia.
A quel punto l'imbarcazione dell'organizzazione si allontana, lasciando al suo destino il barchino, che apparirà come un battello di fortuna utilizzato dagli aspiranti profughi per raggiungere il nostro Paese. Un modo per recidere il legame tra gli scafisti e i destinatari del "passaggio" verso il nostro Paese.
Il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, non ha dubbi sulla bontà della linea dura intrapresa dal momento del suo insediamento al Viminale: "Stiamo seguendo la situazione al porto di Catania ora per ora. Ci stiamo comportando con umanità, ma anche con fermezza su quelli che sono i nostri principi. In tal senso impronteremo le nostre prossime azioni. Stiamo lavorando sia sui tavoli europei che su quelli nazionali".
Spagna, prima condanna per diffusione di fake news su minori migranti. L'uomo, che aveva pubblicato la bufala sui social, è stato condannato a 15 mesi di reclusione per "lesione della dignità delle persone per motivi discriminatori". Il Dubbio l’8 novembre 2022.
Quindici mesi di carcere e una multa di 1620 euro. E’ la prima condanna comminata in Spagna per la diffusione di fake news finalizzate alla discriminazione di una «categoria vulnerabile», in questo caso migranti minorenni.
L’uomo, una guardia civile, aveva pubblicato sul suo profilo Twitter il filmato di una brutale aggressione nei confronti di una donna, attribuendola a migranti non accompagnati di un centro di accoglienza a Barcellona. L’accusa si è però rivelata falsa, perché l’aggressione era sì avvenuta, ma in Cina, e il video era stato diffuso dalle autorità locali per identificare l’autore. Oltre a questa bufala – scrive El Pais – il profilo della guardia civile su Twitter conteneva “più post di natura xenofoba e razzista”, con “informazioni distorte e/o false sugli immigrati in generale”. La maggior parte dei messaggi è stata pubblicata durante l’estate del 2019; Uno di loro era accompagnato da una croce celtica (un emblema comunemente usato dai gruppi di estrema destra) e da una frase pronunciata dal leader del Ku Klux Klan David Lane: “Dobbiamo garantire l’esistenza della nostra razza e un futuro per i bambini bianchi”.
L’uomo ha ammesso di aver pubblicato, nel luglio 2019, un messaggio sul suo account Twitter “mosso dalla sua animosità e dal rifiuto degli immigrati stranieri di origine marocchina”. Il messaggio è stato accompagnato da un video da far rizzare i capelli che ha raccolto quasi 22.000 visualizzazioni. Nei 45 secondi di filmato, si vede un uomo che picchia una donna: la prende a pugni e a calci, lasciandola priva di sensi. L’aggressore quindi le tira giù i pantaloni e la trascina sul pavimento in un angolo non coperto dalla telecamera.
La sentenza conclude che l’uomo ha diffuso il video “con manifesto disprezzo della verità” per “diffamare globalmente e ingiustamente minori non accompagnati di altri paesi”, in modo che questi ragazzi fossero associati a “atti violenti e aggressioni sessuali”. La diffusione di messaggi del genere non fa altro che “accrescere pregiudizi e stereotipi nei confronti di questo gruppo nella popolazione” che, secondo il pm, è composto da persone “particolarmente vulnerabili”. L’uomo è stato quindi condannato a 15 mesi di reclusione e al pagamento di una multa di 1.620 euro per “lesione della dignità delle persone per motivi discriminatori”. La pena è stata sospesa a condizione che la guardia civile non apra nuovi profili con contenuto discriminatorio e che segua un percorso di reinserimento incentrato sulla non discriminazione.
"Ong e reti criminali spingono i migranti verso l'Italia". Il report segreto spiega l'emergenza. Il Tempo l’08 novembre 2022
Il flusso continuo dei migranti verso le coste italiane trova una spiegazione all'interno di un dossier riservato, che conferma il ruolo determinante delle ong e delle associazioni criminali che gestiscono il traffico navale. «La presenza delle navi delle ong, soprattutto in navigazione tra Zuara e Zawiya, continua a essere un ulteriore fattore di attrazione», un «pull factor», per i migranti che partono dalla Libia per raggiungere l’Italia. È quanto si legge nel documento riservato di Frontex, l’Agenzia europea della vigilanza dei confini, relativo al periodo 1 gennaio-18 maggio 2021, slavato dall’Adnkronos.
Secondo quanto sottolinea Frontex nel documento, «i migranti che arrivano dalla Libia dichiarano costantemente» di aver verificato, prima della partenza, la presenza delle ong nell’area, spiegando che, «in assenza delle navi delle ong nel Mediterraneo, molti rifiutano di partire».
Stando a quanto analizzato da Frontex, per come si sono riorganizzate le rotte dei trafficanti di esseri umani la Libia, e Zuara in particolare, sono diventati un polo d’attrazione e l’imbarco principale verso l’Europa e l’Italia. «La Libia è ancora una volta percepita dai subsahariani come l’ultimo paese di partenza per raggiungere l’Ue», si spiega nel documento riservato. «Il fatto che ad oggi molti di questi migranti segnalati nell’operazione navale europea Themis abbiano bisogno solo di un periodo compreso tra sei e sette mesi per raggiungere l’Italia - sottolinea Frontex - suggerisce che le reti criminali hanno riadattato in modo efficiente il loro modus operandi per "trafficare" migranti in Libia e oltre in Italia».
In particolare, nel 2021, si legge nel documento riservato Frontex, «Zuara è diventato un hub di traffico e il principale luogo di ultima partenza in Libia e nella regione del Mediterraneo centrale», da cui è partito «circa il 40% di tutti i migranti segnalati nel Mediterraneo centrale». E le informazioni raccolte attraverso le attività di debriefing indicano «sempre più il coinvolgimento diretto delle milizie delle autorità locali nell’attività di "traffico" a Zuara. Questa zona - la conclusione dell’analisi di Frontex - continuerà probabilmente ad attrarre migranti che cercano di raggiungere l’Italia dalla Libia».
Migranti, il documento segreto Ue: "Profughi attratti dalle ong, partono solo se..." Dario Martini su Il Tempo il 09 novembre 2022
La presenza di navi delle Ong, soprattutto in navigazione tra Zuara e Zawiya, continua ad essere un ulteriore fattore di attrazione» - quello che in gergo si chiama pull factor - «per i migranti che partono dalla Libia per raggiungere l'Italia». Matteo Salvini lo sostiene da anni. Stavolta però non è lui ad aver pronunciato queste frasi. È messo nero su bianco in un rapporto riservato di Frontex, l'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, relativo al periodo compreso tra il primo gennaio e il 18 maggio 2021, che l'Adnkronos ha potuto visionare. L'organismo di controllo e gestione delle frontiere esterne della Ue aggiunge anche un altro particolare importante: «I migranti che arrivano dalla Libia dichiarano costantemente» di aver verificato, prima della partenza, la presenza delle Ong nell'area, spiegando che «in assenza di queste navi nel Mediterraneo, molti rifiutano di partire». La zona in questione, da cui partono la maggior parte dei migranti dalla Libia, è quella compresa tra Zuara e Zawiya, a ovest di Tripoli. Soprattutto la prima città è diventata il principale polo d'imbarcazione per l'Italia. Infatti, si legge ancora nel documento di Frontex, «la Libia è ancora una volta percepita dai subsahariani come l'ultimo paese di partenza per raggiungere l'Unione europea», e il fatto che «molti di questi migranti segnalati nell'operazione navale Themis abbiano bisogno solo di un periodo compreso tra sei e sette mesi per raggiungere l'Italia suggerisce che le reti criminali abbiano riadattato in modo efficiente il loro modus operandi per trafficare migranti in Libia e oltre in Italia». Inoltre, «Zuara è diventato l'hub di traffico e il principale luogo di ultima partenza in Libia e nella regione del Mediterraneo centrale», da cui è partito «circa il 40% di tutti i migranti segnalati».
La linea del governo italiano da quando c'è Matteo Piantedosi al Viminale è rivolta proprio a "spezzare" questo meccanismo, per cui le navi delle Ong intercettano i barconi partiti dalla Libia in acque internazionali e poi puntano dritto verso l'Italia. Qualcosa però sta cambiando. La Ong basca Salvamento Marítimo Humanitario (Smh) l'altro ieri ha annunciato il rinvio di una missione prevista nel Mediterraneo centrale. In una nota pubblicata sui media iberici, l'organizzazione non governativa spiega che la decisione è dovuta alle «incertezze che ci sono in Italia sulle misure che potrebbe prendere il nuovo governo di estrema destra». Il rischio principale, spiega Smh, è che eventuali misure disciplinari italiane possano provocare ripercussioni negative sulle certificazioni di sicurezza del settore navale spagnolo in generale (ad esempio, aumento delle polizze assicurative).
La notizia è stata accolta con favore da Matteo Salvini, che da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha firmato i decreti di sosta temporanea per le navi Humanity 1 e Geo Barents che battono rispettivamente bandiera tedesca e norvegese. Proprio Salvini ora esulta sui suoi profili social: «Piantedosi, prima vittoria: Ong rinuncia alla missione. Avanti così. L'Italia non sarà complice del traffico di essere umani. Qualcuno inizia a capirlo?». Neanche 24 ore prima, il leader della Lega aveva spiegato che non si tratta di naufragi sventati dalle Ong, ma di «viaggi organizzati sempre più pericolosi», per cui ai migranti viene chiesto di pagare anche due-tremila dollari a testa».
Ecco chi ha riempito l'Italia di migranti. Le attività delle Ong a largo della Libia sono iniziate nel 2016: in questi sei anni sono migliaia le persone fatte sbarcare in Italia dalle navi guidate dagli attivisti. Mauro Indelicato il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.
È una storia lunga quella che contraddistingue la “sfida” tra il governo italiano e le Ong. Una storia che, a differenza di quanto si possa pensare, non è iniziata con esecutivi di centrodestra. La questione relativa all'intervento nel Mediterraneo delle navi Ong che portano poi migranti in Italia, è partita tra il 2016 e il 2017.
Nel biennio in cui il nostro Paese ha contato l'ingresso irregolare di quasi 300.000 migranti, il governo di Paolo Gentiloni, su input dell'allora ministro dell'Interno Marco Minniti, ha ideato il primo “codice di regolamentazione” delle attività delle Ong. Documento che ovviamente non è andato giù ai vari attivisti, responsabili in quel momento della gran parte degli sbarchi.
Le navi Ong più presenti fino al 2017
Per comprendere al meglio chi in quella precisa fase storica è più impegnato nel Mediterraneo, basta leggere i documenti dell'inchiesta della procura di Trapani sulle Ong. Si tratta di un'indagine condotta dai magistrati siciliani proprio per capire come mai le navi riuscivano allora a intercettare così tanti barconi tra la Libia e le coste italiane.
Da quell'inchiesta è nato un processo ancora in corso su sospetti collegamenti tra Ong e trafficanti. Accuse sempre respinte dai diretti interessati, alle prese con le prime fasi dibattimentali in corso a Trapani.
Pasticcio al tribunale: rinviato (ancora) il processo contro le Ong a Trapani
A prescindere dagli esiti processuali, i documenti della procura sono comunque importanti per ricostruire le dinamiche di quegli anni. Le due navi più impegnate in mare erano la Von Hestia di Save The Children, la Vos Prudence di Medici Senza Frontiere e la Iuventa dell'Ong tedesca Jugend Rettet. Capi missione e comandanti sono al momento a giudizio. Tra questi figurano anche cittadini tedeschi, francesi e spagnoli.
Il braccio di ferro nell'era Salvini
Non tutte le Ong hanno accettato il codice di Minniti, così le attività in mare di molte navi sono risultate ridimensionate. Il braccio di ferro è però ripreso con l'avvento al Viminale di Matteo Salvini, ministro dell'Interno nell'ambito del governo Conte I.
Il leader della Lega ha avuto tra i suoi obiettivi quelli di controllare maggiormente le attività delle Ong. Da qui l'approvazione dei due decreti sicurezza tra il 2018 e il 2019. In questa fase tra le prime a sfidare le norme volute da Salvini è stata l'Ong italiana Mediterranea Saving Humans, con la nave Mare Jonio.
Capomissione all'epoca era l'ex attivista no global Luca Casarini, finito poi per essere indagato dalla procura di Agrigento assieme al comandante della Mare Jonio, Pietro Marrone. Un procedimento poi archiviato dai magistrati siciliani negli anni successivi.
Stessa sorte toccata al comandante Arturo Centore, a maggio protagonista di un approdo in acque italiane non autorizzato dal governo italiano con la sua Sea Watch 3, nave dell'omonima Ong tedesca. Lo stesso mezzo poi con cui, esattamente un mese dopo, il comandante Carola Rackete ha forzato il blocco di una motovedetta della Guardia di Finanza all'imbocco del porto di Lampedusa. Quest'ultimo è forse il più famoso episodio nell'ambito del braccio di ferro tra Ong e governo italiano. Rackete è stata sottoposta per due giorni agli arresti domiciliari, poi la sua posizione in seguito è stata archiviata.
Sempre nell'estate del 2019 a far sbarcare diversi migranti in Italia è stata l'Ong spagnola Open Arms, fondata dal catalano Oscar Camps. Nell'agosto del 2019 la nave Open Arms, comandata da Marc Reig Creus e con capo missione Ana Isabel Montes Mier, ha ricevuto il divieto di approdo in Italia da parte del Viminale. Il 20 agosto però è salito a bordo l'allora procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, il quale ha posto sotto sequestro la nave e ha ordinato lo sbarco a Lampedusa.
Lo stesso Patronaggio ha poi aperto un fascicolo nei confronti di Salvini per abuso di ufficio e sequestro di persona. Un fascicolo da cui è partito il processo oggi in corso a Palermo contro l'ex ministro dell'Interno.
Caso Open Arms, processo al via: la mossa di Salvini
Negli anni successivi non si è assistito a nuovi scontri. E questo perché con l'arrivo di Luciana Lamorgese al Viminale la linea è cambiata. A diverse navi Ong è stato dato il via libera allo sbarco, anche se non sono mancati episodi in cui per giorni dal ministero dell'Interno è mancato il via libera definitivo all'ingresso in Italia. Tra le navi più attive nell'ultimo triennio vi è la Ocean Viking di Sos Mediterranée, oggi tra quelle ferme di fronte le coste siciliane.
Fuori dal Coro, Giordano: "I soldi di George Soros", accusa devastante. Libero Quotidiano il 09 novembre 2022
"I soldi di George Soros sono disinteressati sulla politica dell'immigrazione? Davvero sono disinteressate le Ong?": Mario Giordano si è posto queste domande ieri sera a Fuori dal Coro, la sua trasmissione in onda su Rete 4. Il dubbio è sempre lo stesso: si tratta di complici dei trafficanti di uomini? "A Trapani c'è un'inchiesta in corso - ha proseguito il conduttore - ce ne eravamo occupati qualche tempo fa. Avevamo recuperato dei documenti esclusivi che oggi sono quanto mai attuali".
La questione migranti è tornata ad essere di attualità dopo l'ultimo braccio di ferro tra il governo e le Ong. L'esecutivo presieduto da Giorgia Meloni ha dimostrato di avere una linea chiara sull'argomento. Ieri il premier ha promesso che la parola data agli italiani che l'hanno votata non verrà tradita.
Fuori dal Coro ha mandato in onda un vecchio servizio con la testimonianza di Luca, l'agente sotto copertura del servizio centrale operativo che si è infiltrato a bordo della Vos Hestia, una delle navi addette al salvataggio dei profughi finite al centro dell'indagine della procura di Trapani. Le parole dell'uomo fanno sorgere parecchi dubbi. Parlando di un episodio, in particolare, l'agente ha ricordato: "Quando eravamo al limite delle 12 miglia dalla costa libica un'imbarcazione con 13 persone a bordo, tutte incappucciate e armate con mitragliatrici, si è avvicinata alla nostra imbarcazione e ha fatto esplodere diverse raffiche coi mitra".
Soros, chi è l'anti-italiano che tanto piace alla sinistra. Gian Luca Mazzini su Libero Quotidiano il 16 novembre 2022
Ancora polemiche sui giornali per la vicenda del professore di Roma finito nella bufera per essersi rifiutato di sottomettersi all'ideologia gender nella sua scuola. Il docente, che non aveva accettato di chiamare con un nome maschile una studentessa femmina (che "si sente maschio"), ora rischia sanzioni disciplinari e legali.
Il modello gender dilaga nelle scuole italiane e da più parti si chiede l'intervento del nuovo ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara. A finanziare la diffusione di questo messaggio, c'è sempre lui: l'immancabile George Soros. Il filantropo ungherese che, con la sua Open Society, finanzia progetti e campagne a favore del globalismo come il sostegno alle Ong che favoriscono l'immigrazione clandestina. L'ultima iniziativa è quella a favore delle organizzazioni Lgbtq. Soprattutto in Europa.
Non passa giorno che non si parli di intromissioni di Mosca nelle vicende politiche dei paesi occidentali. Le intromissioni di Soros in Italia risalgono alla fine del secolo scorso e sono sempre state salutate con favore dalla sinistra. La carriera anti-italiana di Soros inizia negli anni Novanta.
Nella recente campagna elettorale il leader del Terzo polo Carlo Calenda ha accusato suoi ex alleati del partito +Europa di aver ricevuto un milione e mezzo di finanziamento dal filantropo ungherese per creare un "listone antifascista".
Informazione fornita da Benedetto della Vedova. Il segretario di + Europa ha specificato che i soldi non sarebbero andati al partito (è reato) ma a singoli candidati. Emma Bonino precisa: «Non solo confermiamo questi soldi mali rivendichiamo: con Soros abbiamo una consolidata e duratura visione dei valori politici liberali e democratici e una comune visione europeista».
Doveroso ricordare che Soros è considerato una delle trenta persone più ricche del pianeta, in sintonia con i Radicali tanto da finanziare e promuovere in Italia di tutto: Ong per gli immigrati clandestini, aborto, eutanasia, droga libera. La popolarità in Italia risale al 1992 quando il finanziere, vendendo lire allo scoperto in cambio di dollari, costrinse la Banca d'Italia a bruciare 48 miliardi di dollari per sostenere il cambio portando alla svalutazione della nostra moneta di circa il 30% con l'estromissione dal Sistema Monetario Europeo. Nel 1995 Soros riceveva la laurea honoris causa da parte dell'Università di Bologna dal professor Prodi. L'ex presidente del Consiglio e della Commissione europea, insieme a tutta la sinistra, ha sempre finto di non ricordare che per rientrare nello Sme l'Italia fu obbligato a una delle più pesanti manovre finanziarie della storia da 93 mila miliardi. All'epoca fece la sua prima comparsa la tassa sulla casa: l'Ici oggi Imu. Uno dei tanti regali avvelenati dell'amico della sinistra anti-italiana George Soros.
Stasera Italia, Bruno Vespa sui clandestini: "Sono migranti di serie A". Libero Quotidiano il 09 novembre 2022
A Stasera Italia si parla ancora di emergenza migranti. In collegamento c'è Bruno Vespa che a Barbara Palombelli dichiara di essere d'accordo con Giorgia Meloni. Molti tra coloro che sbarcano sulle coste italiane non sono affatto naufraghi ma migranti e, perlopiù, di serie A. Il giornalista, però, chiede l'intervento dell'Europa per fare chiarezza in tutta la materia.
"E' vero, questi non sono naufraghi ma sono migranti. Questa è la serie A dei migranti - spiega Vespa a Palombelli - Sono persone che, per migliorare il loro tenore di vita, pagano una somma anche importante, salgono su una nave sicura, vengono rilevati da un'altra nave sicura dietro appuntamento e sbarcano in Italia. Poi ci sono quei disgraziati che pagano meno, vanno con gli scafisti o per conto loro, qualche volta annegano, spesso vengono raccolti dalla nostra Guardia costiera o da chi capita e questi sono la maggior parte. Il problema è: andiamo avanti così per sempre? Bisogna chiarire che, prima di far sbarcare i migranti da una nave, è necessario decidere quanti vanno a quale Paese. L'Europa si deve svegliare e fare quelli che chiediamo da anni".
Marta Serafini per il “Corriere della Sera” l’8 novembre 2022.
«Abbiamo pagato 70 mila dollari in totale ai trafficanti. E dal 2020 ad oggi abbiamo provato cinque volte a fuggire, prima di riuscire a prendere il mare». Non sanno ancora se sbarcheranno e se potranno salvarsi davvero. Ma di sicuro sanno cosa hanno sofferto. A.
e F., marito e moglie siriani di 32 e 22 anni. Nel 2020 decidono di lasciare la loro Damasco insieme alla loro bambina di 5 anni, S.
L'uomo ha un buon lavoro, commercia tessuti. Ma ha paura per la figlia, non vuole che cresca in un Paese in guerra. «È per lei che lo abbiamo fatto», racconta al Corriere da bordo della Ocean Viking, mentre la nave si trova ancora in mare davanti alle coste della Sicilia.
Prima Beirut, poi da lì in aereo fino a Bengasi, in Libia. «Durante i diversi tentativi di fuga, due sono stati i momenti più drammatici, quando i trafficanti hanno puntato i kalashnikov contro la testa di mia moglie e di mia figlia e qualcun altro sparava in aria. Mi hanno detto che o pagavo o le ammazzavano». Nel ricordo di questa famiglia però resterà per sempre marchiato a fuoco anche il giorno in cui la donna viene costretta a lavare i corpi dei migranti morti durante il naufragio nel quale lei e suo marito e la bambina si sono invece salvati. «Mia moglie si è sentita male, è collassata. Chi può farti una cosa del genere? Nemmeno a un animale faresti tanto male».
Gli anni passano tra abusi e orrori. Ad ogni passaggio A. si vede estorto denaro per salvare la sua vita e quella di sua moglie e di sua figlia. Per evitare l'arresto, per salire sui gommoni sgonfi, su cui rischia di morire e di veder morire la sua famiglia. Fino al 9 ottobre scorso quando i tre vengono caricati sull'ennesimo barcone in partenza da Sabratha. Poi dopo 9 ore vengono salvati. Ma questa volta nessuno estorce loro denaro.
Sono gli operatori della nave di Sos Méditerranée, la stessa su cui ora si trovano. Seduti sul ponte, o fermi a guardare l'orizzonte del mare tutto uguale, sanno poco quello che succede in Italia in queste ore. Sanno solo che vogliono arrivare «per dare finalmente a nostra figlia la possibilità di un futuro».
Ma anche sul molo di Catania il supplizio non finisce. Tra i 35 rimasti a bordo della Humanity 1, c'è chi ha iniziato a rifiutare il cibo. «Hanno visto tutti i loro compagni sbarcare. A loro invece è stato detto di no. Perché magari hanno 19 anni e non 18 o non hanno cicatrici abbastanza visibili sulla pelle. Sono disorientati, stanno perdendo fiducia. Per questo stanno smettendo di mangiare», racconta al Corriere Rocco, calabrese, operatore della ong tedesca. E racconti di disagio arrivano anche dal palazzetto dello sport di Catania dove sono ospitati i minorenni sbarcati in queste ore.
A visitarli Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde. «Stanno lì distesi su lettini di plastica», spiega. Ma a colpirlo particolarmente è stata la visita insieme al senatore del Pd Antonio Nicita, a bordo della Geo Barents, la nave di Medici Senza Frontiere, sbarcata domenica sera su cui ieri è salito per portare solidarietà agli oltre 200 rimasti a bordo dopo le operazioni di sbarco per minori e fragili. «Sono scosso, mi creda. Ho visto i segni della scabbia sui genitali degli uomini che si sono denudati davanti a me per mostrarmi le loro condizioni. E i segni profondissimi lasciati dalle frustate e dalle torture subite nei centri di detenzione in Libia. Cosa devono patire ancora per avere diritto a protezione?». Da contestare, secondo Bonelli, le modalità di ispezione delle autorità sanitarie che hanno individuato i soggetti più fragili e dunque li hanno autorizzati a scendere. «Per Geo Barents le operazioni sono durate 4 ore. Erano in 570. Significa meno di mezzo minuto a persona. È sufficiente per decidere chi ha diritto a una vita?».
È la quinta volta che tentano di mettersi in salvo: “Per dare un futuro a nostra figlia”. In fuga da Damasco, storia di una famiglia a bordo dell’Ocean Viking: “Con i kalashnikov addosso o pagavo o ci ammazzavano”. Elena Del Mastro su Il Riformista l’8 Novembre 2022
Possono solo scrutare l’orizzonte e continuare a sperare, come fanno ormai dal 2020, quando hanno deciso di scappare da Damasco per cercare la salvezza. È questa la storia di una coppia di siriani, marito e moglie di 32 e 22 anni, che si sono messi in viaggio due anni fa con la loro figlia di 5 anni. La loro è una delle drammatiche storie che si incontrano a bordo dell’Ocean Viking, la nave ong che li ha pescati in balia delle onde e che si trova ancora in mezzo al mare davanti alle coste siciliane. Una storia terribile, simile a quelle dei loro compagni di viaggio, provati da drammi e sofferenze, che il governo italiano non fa sbarcare. O meglio, che ancora lascia in attesa, mentre è in scena il braccio di ferro con le ong.
“Abbiamo pagato 70 mila dollari in totale ai trafficanti. E dal 2020 ad oggi abbiamo provato cinque volte a fuggire, prima di riuscire a prendere il mare”, raccontano intervistati dal Corriere della Sera. Per ora restano a bordo, possono solo aspettare prima di capire cosa ne sarà di loro questa volta. Il papà a Damasco aveva un buon lavoro di commerciante di tessuti. “Abbiamo deciso di scappare per nostra figlia”, raccontano. Non vogliono che cresca in un paese in guerra. Damasco, Beirut, poi in aereo fino a Bengasi, Libia, passando da una mano violenta a un’altra, da disumanità ad atrocità. Tra estorsioni di denaro per salvare la loro vita o evitare l’arresto, per salire su gommoni quasi sgonfi rischiando la vita.
“Durante i diversi tentativi di fuga, due sono stati i momenti più drammatici, quando i trafficanti hanno puntato i kalashnikov contro la testa di mia moglie e di mia figlia e qualcun altro sparava in aria. Mi hanno detto che o pagavo o le ammazzavano”, racconta il papà. L’uomo ricorda uno dei momenti più drammatici di quel tremendo viaggio, quando dopo un naufragio, fortunatamente sopravvissuti, la moglie è stata costretta a lavare i corpi dei compagni di viaggio morti: “Mia moglie si è sentita male, è collassata. Chi può farti una cosa del genere? Nemmeno a un animale faresti tanto male”.
Il 9 ottobre sono saliti su un barcone in partenza per Sabratha, poi 9 ore sono stati recuperati dalla Ocean Viking. Nessuno ha chiesto loro soldi per salvarli, una mano è stata tesa verso di loro, insieme alla speranza di poter finalmente toccare terra italiana. Un sogno che non sanno ancora se sarà realizzato dopo tanta sofferenza. Un viaggio atroce “per dare finalmente a nostra figlia la possibilità di un futuro”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
La legge Bossi-Fini è sbagliata e alimenta il lavoro nero. Meloni la cambierà? Bruno Manfellotto su L'Espresso il 24 Ottobre 2022.
La norma prevede un paradosso: per lavorare un immigrato deve essere in regola, ma per essere in regola deve avere un lavoro. E in questo testacoda finiscono migliaia di persone
Vent’anni dopo, potenza del contrappasso, potrebbero essere Meloni e Salvini, neo premier e vice, leader di FdI e della Lega, a dover correggere storture e insufficienze della legge sull’immigrazione firmata nel 2002 dai loro papà Bossi e Fini, allora capi dei leghisti e dei postfascisti di An, ministro delle riforme l’uno, vicepresidente del Consiglio l’altro nel secondo governo Berlusconi. Fa bene Gloria Riva a notarlo a conclusione del suo allarmante rapporto su un male che sta diventando endemico: le aziende cercano personale, ma non lo trovano. O non possono averlo. E lanciano l’allarme.
La manodopera italiana non basta, o non ce n’è, o ignora le offerte di lavoro. Per più di una ragione: mentre la società invecchia, molti giovani cercano all’estero specializzazioni che non trovano qui, o un futuro migliore; per chi resta non c’è formazione coerente con le nuove esigenze di mercato; per non dire delle condizioni di lavoro e di paga che molti ragazzi non hanno più intenzione di accettare. Non resta dunque che ricorrere agli stranieri.
A governare tutto, Riva lo spiega bene, è appunto la Bossi-Fini che non solo contingenta i flussi, ma è costruita come il romanzo-film “Comma 22” il cui fatidico paradosso - «Chi è pazzo può essere esentato dalle missioni di volo, ma chi vuole essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo» - potrebbe essere parafrasato così: per poter lavorare un immigrato deve essere in regola, ma per essere in regola deve avere un regolare posto di lavoro. E tutto si ferma. Con le conseguenze denunciate dagli imprenditori, molti dei quali rappresentano proprio quel Nord produttivo che ha votato a destra: servono ogni anno 350mila tra carpentieri, elettricisti, infermieri, ingegneri, camerieri, muratori, addetti alle pulizie, ne sono disponibili solo 70mila. Del resto l’Italia è, in Europa, tra i Paesi con il minor numero di immigrati (9 per cento della popolazione, 13 in Germania, 23 in Svezia).
Non è un caso allora che la piaga del sommerso dilaghi: dice l’Istat che nonostante il fermo da Covid e lockdown, sono ancora tre milioni i lavoratori in nero, in ogni settore, e poco o nulla è stato fatto nemmeno per arginare il ricatto del caporalato che riduce gli uomini a schiavi e inquina l’intero mercato del lavoro. Spesso con la condiscendenza degli stessi imprenditori che si avvantaggiano di costi bassi e di manodopera senza diritti. I ritardi culturali, le polemiche di comodo su ius soli e ius scholae colpiscono anche chi sta qui da anni se perfino una campionessa della pallavolo come Paola Egonu, nata in Veneto, italiana di pelle scura, decide di lasciare la nazionale e il suo Paese per i continui insulti razziali e sessuali.
In tempi di guerra, di inflazione alta e di crescita zero, non sono questioncelle. La Caritas ha pubblicato dati drammatici sulla diffusione della povertà: 5 milioni e mezzo di italiani, il dieci per cento della popolazione, sono in miseria. Nel frattempo si torna a discutere di reddito cittadinanza che, come si sa, piace poco alla destra, ma è oggi incassato da due milioni e mezzo di persone. Non si può fare a meno di incrociare i due dati: anche se i giovani sdraiati sui divani e i furbetti con reddito in tasca e secondo lavoro in nero fossero solo un’invenzione polemica, resta il fatto che almeno tre milioni di italiani vivono senza lavoro e senza soldi. Parafrasando facili slogan sbandierati in questi mesi, verrebbe da dire alla coppia Meloni-Salvini che povertà e disoccupazione non sono né di destra né di sinistra. E che ora tocca a loro.
Miliardi sulla pelle dei migranti: la sorveglianza delle frontiere fa ricca l’industria delle armi. La lobby dei produttori di materiali bellici spinge la crescita esponenziale degli investimenti tecnologici per il controllo dei confini europei: un mercato che vale quasi 70 miliardi di dollari l’anno. E alimenta un circolo vizioso di soprusi e violenza. Giulia Bosetti su L'Espresso il 17 Ottobre 2022.
Lunedì 17 ottobre alle 21.20 Presadiretta su Rai Tre con l’inchiesta “Armi di controllo di massa”, realizzata da Giulia Bosetti e Eleonora Tundo.
Una crescita annua tra il 7 e il 9 per cento, un fatturato che oscilla tra i 65 e i 68 miliardi di euro all’anno. Sono i numeri di un settore che non conosce crisi: il gigantesco complesso industriale del controllo delle frontiere. Una gamma sconfinata di tecnologie impiegate per difendere i confini dell’Occidente, un esercito di droni, sensori, robot intelligenti, sistemi di videosorveglianza e intelligenza artificiale, prodotti da quegli stessi colossi su cui oggi più che mai puntano gli occhi e investono soldi i governi di tutto il mondo: le società produttrici di armi.
Proteggere le frontiere è diventato il grande mantra degli Stati occidentali e in particolare dell’Europa, dove la crescita di mercato doppia quella degli altri Paesi: 15 per cento l’anno. Più la guerra minaccia il cuore del vecchio continente, più aumentano i rifugiati e i migranti e più si attrezza l’industria militare: «Le aziende fanno profitti grazie ai muri fisici e virtuali che sono diventati parte integrante delle politiche dell’Unione europea a causa delle pressioni delle aziende, che hanno trasformato la migrazione da un problema umanitario a un problema di sicurezza». Mark Akkerman, ricercatore di Stop Wapenhandel, organizzazione indipendente olandese che monitora il business degli armamenti, ha indagato il ruolo dell’industria nella militarizzazione delle politiche di frontiera.
Nel suo piccolo ufficio di Amsterdam, circondato di report e dossier, parla senza mezzi termini: «I produttori di armi hanno influenzato il dibattito pubblico facendo passare l’idea che i migranti siano una minaccia, per poi proporre come soluzione le loro tecnologie e i loro servizi. L’Europa e gli Stati membri sono molto sensibili alle richieste della lobby delle armi». A giudicare dalle somme che l’Ue ha deciso di investirci, Akkerman non sbaglia. Nel report “A quale costo”, le organizzazioni Statewatch e Transnational Institute analizzano le spese dell’Unione europea: tra il 2021 e il 2027 gli investimenti per i settori sicurezza e difesa ammontano a 43,9 miliardi di euro, un aumento di budget del 123 per cento. Il Fondo per la gestione del controllo delle frontiere cresce del 131 per cento, passando a 6,2 miliardi di euro e i finanziamenti di Europol e di Frontex, l’agenzia per la sicurezza dei confini, sfiorano i 10 miliardi di euro: un aumento del 129 per cento.
Grazie a una lunga serie di richieste di accesso agli atti, l’osservatorio Corporate Europe di Bruxelles ha scoperto come l’industria privata e i suoi gruppi di pressione hanno influenzato le decisioni politiche dell’Unione europea: «Il budget di Frontex è cresciuto a dismisura e l’agenzia ha ottenuto maggiori poteri nella gestione degli appalti per le frontiere, senza un adeguato sistema di trasparenza e controllo dell’attività di lobby», spiega la ricercatrice Margarida Silva.
In tre anni, Frontex è stata in contatto con 108 società private, con cui ha organizzato diciassette meeting. Hanno partecipato le principali compagnie di armi in Europa: la francese Airbus, le spagnole Indra e Gmv, l’italiana Leonardo. «Le aziende hanno cercato di convincere Frontex e gli Stati membri a spendere più soldi in tecnologie di sorveglianza e controllo delle frontiere», conclude Silva. E ci sono riuscite. Per Hannah Neumann, eurodeputata tedesca dei Verdi relatrice della Risoluzione sull’export di armi del Parlamento europeo del 2020, è un circolo vizioso: «Le aziende vendono armamenti a Paesi terzi che li utilizzano per fare la guerra, costringendo le persone a fuggire dalla loro patria. Poi le stesse società vendono ai governi europei tecnologie e attrezzature per impedire a quelle persone di entrare in Europa». L’industria militare vanta un accesso privilegiato alla Commissione e ai governi europei, che in alcuni casi ne sono anche azionisti. Vedi Leonardo, partecipata al 30 per cento dal ministero dell’Economia italiano, o Thales, dello Stato francese per il 25 per cento. «Recentemente la Commissione europea ha creato lo Strumento per la stabilità e la pace e c’è stata una fortissima pressione dell’industria delle armi per includere nei suoi finanziamenti la fornitura di attrezzature per la sicurezza delle frontiere come telecamere nascoste o recinzioni di filo spinato», rivela Neumann.
La partita cruciale si gioca sui confini esterni dell’Ue. Dal 2015 ad oggi, la Croazia ha ricevuto dall’Ue 163 milioni di euro per acquistare dispositivi di imaging termico, telecamere a infrarossi, apparecchiature che rilevano i battiti cardiaci, droni a lungo e medio raggio che trasmettono dati in tempo reale, fuoristrada con termocamere mobili su rimorchio ed elicotteri tra i più avanzati al mondo: due Eurocopter francesi prodotti da Airbus e due AW139 dell’italiana Leonardo, con tanto di termocamere che possono riprendere fino a 10 chilometri di distanza. Tecnologie che hanno portato a un’escalation di violenza nei respingimenti illegali della polizia croata. Lo attesta un rapporto di Border violence monitoring network del 2021. E lo vivono sulla propria pelle i rifugiati afghani che ogni giorno tentano il “game” sulla rotta balcanica, giocando a nascondino con la polizia di frontiera croata per poi essere respinti. Picchiati, derubati, denudati. A Velika Kladusa, piccolo comune della Bosnia nord-orientale, ne ho incontrati a decine. Con i piedi fasciati, le dita spezzate, le schiene sfregiate. Famiglie con bambini, ragazzini strappati ai genitori. Come Hadi e Nabi, 17 e 14 anni. Spuntati dal bosco con lo zaino in spalla e la paura negli occhi. «La polizia croata ci ha catturato grazie alle telecamere nascoste sugli alberi. Ma dobbiamo riprovarci, per arrivare ad Amburgo dalla mamma e chiedere la protezione umanitaria». Il difensore civico dell’Ue ha avviato un’indagine ufficiale sulle responsabilità della Commissione nell’utilizzo di fondi pubblici per operazioni della polizia di frontiera che violano i diritti dei rifugiati: «Quando i poliziotti mi hanno arrestato, indossavano visori a infrarossi, avevano droni e geolocalizzatori. A qualcuno hanno rotto le braccia, a qualcun altro le gambe. Questo ci sta facendo l’Europa», si sfoga un giovane afghano.
Dai boschi della Croazia alle isolette greche nel Mar Egeo, la parola «accoglienza» fa sempre rima con «sorveglianza». Isola di Samos, 1.200 metri dalle coste della Turchia. Spiagge candide, acque cristalline e un campo rifugiati videosorvegliato h24, con sistema di sicurezza a raggi X e autenticazione in due fasi: tesserino di riconoscimento e impronte digitali. Doppia recinzione militare in stile Nato, una società privata incaricata della sicurezza, Samos è il primo dei cinque campi profughi altamente tecnologici che la Grecia sta allestendo sulle isole del Dodecaneso con i soldi dell’Unione europea. Tutto viene monitorato dal centro di massima sicurezza di Atene grazie a Centaur, un sistema di sorveglianza elettronica futuristico dotato di algoritmi di analisi del movimento: «Stila anche il report delle emergenze.
Comunichiamo al campo quello che sta succedendo e facciamo intervenire la polizia o la Guardia Costiera», racconta Manos Logothestis, Segretario generale per l’accoglienza dei richiedenti asilo, di fronte a decine di telecamere puntate sui rifugiati: «Avremo droni e visori a lungo raggio e tutti gli operatori possono mandarci in tempo reale immagini girate con i loro smartphone». La Commissione europea ha definito il campo di Samos una pietra miliare nella gestione della migrazione, ma in una lettera aperta i rifugiati siriani che ci vivono lo paragonano alla prigione di Guantanamo: «Stiamo impazzendo. Ci sono atti di autolesionismo, persone che si tagliano con il coltello e sbattono la testa contro il muro». Gabriel Feldman dell’Png Still I Rise, è seriamente preoccupato per le loro condizioni psicologiche: «Ci sono stati raid notturni della polizia, molti abitanti del campo sono sotto shock e tutti vivono nel terrore». Europe Must Act e il Samos Advocacy Collective, una rete di attivisti e organizzazioni che lavorano sull’isola, hanno denunciato le detenzioni illegali dei rifugiati e la violazione dei diritti umani fondamentali e hanno scritto una lettera alla Commissione europea. «La Commissione sta monitorando da vicino la situazione e continuerà ad affrontare la questione con le autorità greche competenti», è stata la risposta. L’Europa continua a sorvegliare.
L'operazione tra le province di Napoli e Caserta. Blitz contro i finti matrimoni per ottenere permesso di soggiorno, donne obbligavano migranti a pagare fino a 6500 euro. Redazione su Il Riformista il 12 Ottobre 2022
Pagavano fino a 6500 euro per sposarsi e ottenere il permesso di soggiorno in Italia. Sarebbero circa 40 i matrimoni di comodo ricostruiti dalla Procura partenopea nell’ambito di una indagine partita nell’estate del 2019.
Nelle province di Napoli, Caserta, Bergamo e Milano, i Carabinieri della Compagnia di Caserta, con il supporto di quelle territorialmente competenti, a conclusione di un’articolata attività di indagine coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Napoli, hanno dato esecuzione ad una ordinanza di custodia cautelare emessa dall’ufficio Gip del Tribunale di Napoli, su richiesta della Procura, nei confronti di 18 persone gravemente indiziati, a vario titolo, per associazione per delinquere finalizzata a favorire l’illecito ingresso e l’indebita permanenza nel territorio italiano di stranieri clandestini e irregolari.
Le 18 misure cautelari prevedono 5 soggetti in carcere, 11 agli arresti domiciliari e 2 obblighi di dimora. Gli arrestati sono 5 di nazionalità marocchina e 13 italiani di cui 12 donne.
L’attività investigativa, avviata nel luglio 2019, ha consentito di individuare una consolidata organizzazione che aveva come finalità principale il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sul territorio italiano attraverso lo schema del cosiddetto “matrimonio di comodo” tra cittadini italiani compiacenti, che percepivano in cambio della loro disponibilità un corrispettivo in denaro, e cittadini extracomunitari, ai quali venivano richiesti fra 5000 e 6500 euro in contanti, che potevano poi così richiedere il rilascio del permesso di soggiorno.
Il gruppo criminale era ramificato nei comuni di Napoli, Castel Volturno, Mondragone, San Cipriano d’Aversa e Avezzano. Nel corso dell’attività d’indagine, inoltre, sono stati riscontrati più di quaranta matrimoni fittizi ed è stato accertato un volume di affari di quasi duecentomila euro quale provento dell’attività delittuosa.
Migranti, la fuga sui jet privati per arrivare in Europa: 5 arresti tra Italia e Belgio. Il Tempo il 14 settembre 2022
Jet privati per passare dalla Turchia verso il Paese caraibico Saint Kitts&Nevis, con scalo intermedio in Europa: cinque mandati di arresto europeo, emessi dall'autorità giudiziaria del Belgio, sono stati eseguiti con il coordinamento delle agenzie Eurojust ed Europol, dalla Polizia di Stato tra Roma e Bruxelles nei confronti di quattro uomini di nazionalità egiziana, tre dei quali residenti in Italia e uno in Belgio, e di una donna di origine tunisina ma residente a Bruxelles. Irreperibili altri due componenti dell'organizzazione, di nazionalità straniera, ricercati con il supporto del Servizio per la Cooperazione Internazionale della direzione centrale della polizia criminale e delle agenzie statunitensi Hsi e Dss.
Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, sono state condotte dal Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, assieme alla Squadra Mobile e alla Polizia di Frontiera di Bari e hanno portato alla costituzione di una squadra investigativa comune, composta da forze di polizia di Italia, Belgio, Germania, Austria e Francia. Decisiva la collaborazione dell'agenzia statunitense Homeland Security Investigation-Immigration and Custom Enforcement e dal Diplomatic Security Service americano.
Spunto per l'inchiesta, chiamata "Jetdream", è stato l'arrivo in alcuni scali europei, di jet privati con a bordo cittadini stranieri di nazionalità prevalentemente kurda o irachena: secondo quanto accertato, utilizzando falsi documenti diplomatici di Saint Kitts & Nevis, Stato insulare dell'America centrale che corrisponde a un piccolo arcipelago formato da due isole, riuscivano a imbarcarsi dalla Turchia su voli privati diretti verso il Paese caraibico, con uno scalo intermedio in Europa. Una volta raggiunto l'aeroporto, i passeggeri dichiaravano la loro reale nazionalità alle autorità di polizia e richiedevano asilo politico.
Il prezzo per il viaggio sarebbe stato pari a 10mila euro a persona. Nel periodo di tempo compreso fra ottobre e dicembre 2020, ci sarebbero stati almeno 5 viaggi, in altrettanti Paesi europei, tra cui l'Italia, con lo scalo all'aeroporto di Bari, nel mese di novembre. Sono stati sequestrati conti correnti e beni per 426mila euro riconducibili agli indagati. La Police Fédérale del Belgio ha sequestrato due aeromobili.
LA PETIZIONE. I mediatori culturali e interpreti si ribellano alla agenzie che prestano servizi per Frontex. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 30 agosto 2022
Una petizione su change.org denuncia le condizioni di lavoro nelle agenzie interinali a cui Frontex ha affidato in appalto i servizi di traduzione. Frontex respinge le accuse, ma sotto la petizione aumentano le testimonianze
Kamaran Shiwani è un traduttore di origine irachene. Fa il suo lavoro da oltre trent’anni. Per ventidue, invece, ha prestato servizio all’interno degli uffici immigrazione e per le polizie di frontiera. Fino al 2019 ha lavorato per Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera finita al centro di inchieste giornalistiche che la accusano di commettere respingimenti illegali di migranti in mare.
Oltre a parlare l’arabo, l’inglese e il serbocroato, Shiwani conosce anche diversi dialetti della lingua curda, essenziale per chi lavora nel settore dell’immigrazione a supporto delle autorità e delle persone che attraversano la frontiera. Oggi Shiwani supporta la petizione pubblicata su change.org da parte di alcuni traduttori e mediatori culturali che lavorano per agenzie interinali a cui Frontex ha affidato in appalto i servizi di traduzione.
Tra queste agenzie c’è la Seprotec, una società che opera in Spagna da oltre 25 anni, finita nella petizione che accusa l’azienda di sfruttamento lavorativo e di fornire bassi salari. «Poiché i contratti vengono stipulati per 1-2 mesi, i costi mensili nel paese di destinazione sono più alti del solito – si legge nella petizione pubblicata online – ciò significa che questo stipendio non sarà sufficiente a coprire costi come l’alloggio e il trasporto, per non parlare di altre spese come tasse, assicurazioni, costi mensili nel nostro paese di residenza».
A questo si somma che «le condizioni di lavoro per Frontex sono impegnative, è richiesta la disponibilità 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Nella vita quotidiana, ciò significa che i mediatori culturali non possono allontanarsi più di 30 minuti dalla base di lavoro e devono essere pronti giorno e notte». Il calcolo che fanno i promotori della petizione è di un salario di circa 2,50 euro l’ora se si considera la disponibilità 24 ore su 24 e 7 giorni su 7.
«Prima del 2016 Frontex firmava accordi direttamente con i mediatori culturali e i traduttori, ma poi hanno delegato i contratti ad altre aziende che non riescono a garantire ottimi interpreti per tutti i punti di approdo», dice Shiwani. «Per figure multilingue come me Frontex non ha bisogno di più persone. Ma ora con la bassa paga non siamo più disposti ad accettare queste tariffe», continua Shiwani.
LA RISPOSTA DI FRONTEX E SEPROTEC
«Abbiamo letto la petizione degli interpreti e dei mediatori culturali con grande preoccupazione. Vorremmo sottolineare che Frontex non accetta condizioni di lavoro non etiche o illegali», dicono a Domani dall’ufficio stampa dell’Agenzia europea. «Ogni anno, circa 80 interpreti e mediatori culturali lavorano sul campo con i fornitori di servizi appaltati da Frontex. Il loro lavoro è fondamentale per il funzionamento delle nostre operazioni e la loro professionalità è molto apprezzata in quanto sono presenti durante i colloqui con i migranti che arrivano in Europa e facilitano notevolmente le procedure di registrazione e identificazione».
Per Frontex tutte le procedure di appalto sono state rispettate e loro non possono interferire nel rapporto contrattuale o lavorativo tra l’appaltatore e gli interpreti. Tuttavia, «abbiamo mantenuto il diritto di risolvere il contratto in caso di irregolarità, frode o violazione degli obblighi contrattuali», dice l’ufficio stampa. «Analogamente ad altri contratti, Frontex monitorerà l’attuazione del contratto e prenderà in considerazione misure nel caso in cui le condizioni non siano rispettate».
La Seprotec, invece, ci tiene a precisare che Moctar Mohammed, l’autore della petizione pubblicata su change.org, non è un loro dipendente. «Il signor Moctar non è un dipendente di Seprotec o un collaboratore abituale. Ha lavorato come libero professionista per l’azienda su un altro progetto per circa tre mesi nel 2019. I mediatori culturali ricevono una retribuzione mensile, mai oraria. I progetti vengono concordati e firmati su una base di 5/6 mesi». Inoltre, secondo loro, il conteggio di 2,50 euro all’ora è «irrealistico» perché «essere di turno non è la stessa cosa che essere in servizio».
A questo si somma che «negli ultimi due anni il numero medio di ore di lavoro dei mediatori culturali nell'ambito di questo contratto è di circa 32 ore settimanali e meno del 5 per cento circa dei servizi sono forniti al di fuori del normale orario di lavoro».
Ma di diverso parare sono i firmatari della petizione. Nella pagina web diversi commenti accusano l’azienda di sfruttamento lavorativo. «Sono stato interprete di Seprotec in alcuni paesi dell'Ue e posso affermare che questa notizia spiega la realtà della situazione. Questa azienda sfrutta sempre i suoi interpreti, sempre. Frontex deve controllare questa azienda e costringerla a offrire buone condizioni di lavoro. Seprotec non ha scrupoli», scrive un utente.
YOUSSEF HASSAN HOLGADO.
Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.
Nessuno ferma più le Ong. Superati i 50mila sbarchi. Con una flotta di 18 navi e 2 aerei, ormai agiscono senza freni. Sono di 5 Paesi, ma portano tutti in Italia. Fausto Biloslavo il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.
Da venerdì abbiamo superato i 50mila sbarchi di migranti, che in gran parte non scappano da Paesi in guerra. E la flotta delle Ong si sta allargando con ammiraglie, come Open Arms uno, che può imbarcare fino a mille persone. L'ultimo dato del Viminale aggiornato a ieri mattina è di 50.760 arrivi. Lo stesso periodo dello scorso anno erano 35.480 e nel 2021 quasi tre volte di meno. Le stime della Guardia costiera indicano che entro la fine dell'anno arriveranno almeno in 77mila.
Solo da domenica sono giunti sulle nostre coste in mille. Ieri si è concluso lo sbarco di 600 migranti ad Augusta. Il sindaco Giuseppe Di Mare ha dichiarato: «L'Europa non può voltare le spalle e scaricare tutto sull'Italia e sui comuni».
Appelli che cadono nel vuoto e nel frattempo è finita in manette una coppia di russi che con il loro veliero hanno trasportato dalla Turchia in Sicilia 108 migranti afghani, iraniani e iracheni.
Però le prime tre nazionalità nella classifica degli sbarchi non scappano da Paesi in guerra. I tunisini sono ben 10.086, gli egiziani 9.385 ed i cittadini del lontano Bangladesh 8.490.
In questo caos le Ong hanno mano libera. Fino a Ferragosto avevano sbarcato in Italia 7.270 migranti, duemila in più rispetto allo scorso anno. Ieri la Geo Barents, la nave di Medici senza frontiere ha intercettato 106 persone su segnalazione del Centro di coordinamento del soccorso italiano. Il problema è che l'ammiraglia «ultimamente agisce come coordinatrice dei soccorsi anche per le altre navi», spiega una fonte del Giornale in prima linea sul mare. Geo Barents può imbarcare fino ad 800-1000 migranti e la tendenza delle Ong del mare è di dotarsi di unità sempre più grandi.
La flotta a disposizione, anche se non tutte le imbarcazioni sono operative, conta su 18 unità che rispondono ad Organizzazioni non governative di cinque Paesi europei compresa l'Italia. I talebani dell'accoglienza tedeschi fanno la parte del leone con 8 navi, comprese le Sea Watch e due aerei di ricognizione. Il Seabird ha una base a Lampedusa, da dove decolla regolarmente nonostante fosse stato precedentemente bloccato dall'Ente nazionale per l'aviazione civile. Due navi battono bandiera norvegese, una britannica e quattro spagnola. Il centralino dei migranti è il solito Alarm phone con sede in Francia. Solo la mare Jonio è italiana.
Open arms uno è la nuova ammiraglia, un bestione lungo 66 metri. A sud di Malta, verso la Libia, ha recuperato il 17 agosto, nella sua prima missione, 101 persone. In caso di emergenza, si legge sul sito dell'Ong spagnola, potrebbe ospitarne mille.
La nave, costata 2,5 milioni di euro, è stata donata da Enrique Piñeyro, argentino nato a Genova, di famiglia miliardaria, direttore della Ong Solidaire. Si è subito inteso con Oscar Camps, fondatore di Open arms, nemico giurato di Matteo Salvini.
Il varo di «una delle più grandi navi di soccorso marittimo d'Europa» è avvenuto l'8 giugno a Barcellona. Sulla banchina c'erano la sindaca, Ada Colau, il presidente della Catalogna autonoma, Pere Aragonès, e il presidente del Porto, Damià Calvet. Neanche un migrante arriverà in Spagna, che è diventata una vera e propria base delle Ong del mare. In particolare a Burriana dove è nata l'«Aurora - Support Group», organizzazione di sinistra in appoggio ai talebani dell'accoglienza. La base non serve solo alla manutenzione della navi, ma pure al reclutamento di volontari e addestramento dell'equipaggio. Gli attivisti di Aurora favoriscono la «mediazione con enti, istituzioni e aziende» locali e prevedono un investimento di 16 milioni di euro per una zona del porto riservata alle Ong. Il simbolo stampato sulle borse in stoffa in vendita per raccogliere fondi è un pugno chiuso dentro un salvagente. E lo slogan non lascia dubbi: «Libera circolazione per tutti», anche se non scappi dalle guerre.
Sequestrato un milione di euro dalla Guardia di Finanza ad una coop di assistenza ai migranti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Agosto 2022.
La cooperativa tarantina Costruiamo Insieme , attualmente indagata, ha gestito negli anni che vanno dal 2015 al 2018 sette centri di accoglienza straordinaria per lo più nel tarantino e nel barese (a Bitonto e Modugno) attività per la quale ha incassato dalla Prefettura di Taranto e da quella di Bari la somma 16,5 milioni di euro .
Militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Taranto guidati dal colonnello Valerio Bovenga hanno dato esecuzione a un decreto di sequestro preventivo di disponibilità finanziarie, per un importo complessivo di oltre 1 milione di euro. Il provvedimento cautelare in questione, emesso dal Gip dr. Francesco Maccagnano del Tribunale di Taranto, su richiesta di adozione avanzata dalla pm dr.ssa Marzia Castiglia della Procura della Repubblica locale, rappresenta l’epilogo di complesse attività investigative condotte dalle Fiamme Gialle tarantine a partire dal 2021 nei confronti dalla società cooperativa Costruiamo Insieme che ha sede legale in via Cavallotti 84 a Taranto.
4 persone sono indagate per l’ipotesi di reato di appropriazione indebita: la presidente della cooperativa Nicole Sansonetti, di 52 anni, del vicepresidente Felice Guarino di 53 anni, Chiara Castello di 53 anni ed Alberto Durante di 66 anni, soci sino al marzo del 2017. All’esito delle investigazioni svolte è emerso che gli indagati, tra il 2017 e il 2018, avrebbero ricevuto dalla cooperativa Costruiamo Insieme che opera a Taranto nel settore dell’assistenza agli immigrati, somme di denaro a titolo di “anticipazioni”, per un importo di oltre 1 milione di euro, apparentemente mai reinvestite nell’attività del soggetto economico. Il credito accumulato dalla cooperativa nei confronti dei soci sarebbe stato successivamente compensato mediante il riconoscimento in favore dei beneficiari di ingenti e ingiustificati ristorni.
Inoltre risulta che la cooperativa Costruiamo Insieme ha utilizzato i fondi societari per acquistare un appartamento a Milano del valore di 250mila euro che non è mai stato utilizzato per i fini sociali per i quali è stata costituita la cooperativa. Ma non solo. Acquistata anche una villa nel villaggio residenziale “Riva dei Tessali” a Castellaneta Marina, ed una masseria a Martina Franca.
Attualmente la cooperativa Costruiamo Insieme è inattiva e risulta aver ceduto la sede del centro d’accoglienza tarantino alla cooperativa barese Lavoriamo Insieme che secondo gli investigatori delle Fiamme Gialle potrebbe essere controllata dagli stessi indagati, e che peraltro si occupa prevalentemente di progettazione, l’erogazione e la gestione di servizi socio-educativi diurni per minori e famiglie, e che nel 2016 ha ottenuto l’ autorizzazione definitiva al funzionamento della Comunità Alloggio per Gestanti e Madri con Figli a Carico “OIKOS”(ai sensi della L. R. 19/2006 e s.m.i.), con determinazione del Comune di Bari.
La cooperativa tarantina Costruiamo Insieme , attualmente sotto indagine, ha gestito negli anni che vanno dal 2015 al 2018 sette centri di accoglienza straordinaria per lo più nel tarantino e nel barese (a Bitonto e Modugno) attività per la quale ha incassato dalla Prefettura di Taranto e da quella di Bari la somma 16,5 milioni di euro.
L’attività di questo genere di cooperative si basa sull’aggiudicazione di bandi pubblici delle Prefetture a cui fa seguito l’accoglienza ed assistenza degli immigrati da ospitare nelle strutture idonee. L’ultimo bilancio disponibile della cooperativa Costruiamo Insieme è quello relativo all’esercizio chiuso al 31 dicembre 2019, che riporta una perdita pari a 2,7milioni di euro. Nei due anni precedenti, cioè 2017-2018 le attività societarie avevano riportato utili per un totale di oltre 5 milioni di euro.
Una circostanza controversa è che la cooperativa indagata, seppure risulta “inattiva” alla luce degli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza, sul proprio sito e sulla pagina Facebook sembrerebbe essere attiva, l’ultimo post pubblicato è in data 16 agosto 2022, e pubblica una serie di interviste audio (che dalla voce sembrerebbero effettuate dal giornalista tarantino Claudio Frascella) che spaziano dal gruppo musicale dei Pooh al comandante della Polizia Locale di Taranto Michele Matichecchia.
"Qui non fate controlli". Denunciato il "prete dei migranti". Il parroco pistoiese è stato denunciato per non aver permesso agli ispettori di Asl e agli agenti della municipale, in sua assenza, di effettuare un controllo nell parrocchia dove ospita alcuni migranti. Salvini lo bacchetta: "Caro don, rispetti le regole". Giovanni Fiorentino il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.
Don Massimo Biancalani è stato denunciato per non aver consentito i controlli di Asl e polizia municipale nella parrocchia di Vicofaro dove da tempo accoglie alcuni immigrati. Lo riporta il quotidiano La Nazione, secondo cui il sacerdote pistoiese è stato segnalato all’autorità giudiziaria per non aver permesso l’accesso degli ispettori dell’azienda sanitaria che (insieme agli agenti della municipale) avrebbero dovuto eseguire un controllo nella chiesa e nei locali attigui che da anni ospitano i migranti che si avvicendando nella frazione del Comune di Pistoia, in Toscana. Una comunità che per questa ragione è più volte balzata anche agli onori delle cronache nazionali, nel recente passato.
E che continuerebbe a presentare delle criticità non da poco, perlomeno a livello locale: nelle scorse settimane ad esempio, il sindaco di centrodestra Alessandro Tomasi aveva scritto al prefetto di Pistoia per sollecitare un intervento. Una richiesta inoltrata a suo dire dopo aver ricevuto numerose segnalazioni da parte dei residenti della zona, che lamentavano sempre più spesso una situazione divenuta ormai insostenibile fra risse continue fra gli ospiti, aree pubbliche trasformate in latrine a cielo aperto ed auto danneggiate. Controlli concretizzatisi nei giorni scorsi, quando don Massimo non era presente. Solo che i responsabili della struttura in sua assenza si sarebbero rifiutati di far entrare agenti ed ispettori.
“Mi avevano avvisato della necessità di un nuovo sopralluogo. E io come sempre avevo dato piena disponibilità. Poi è accaduto che la data è slittata. E che, quando gli ispettori si sono ri-presentati, io fossi fuori città per altri impegni – ha riferito il parroco a La Nazione, spiegando il proprio punto di vista - mi hanno contattato telefonicamente ma io ho chiesto di poter differire il sopralluogo. Non ho nulla da nascondere, ma nel tempo nella nostra comunità sono entrati anche diversi ragazzi problematici. Persone che senza la mia presenza avrebbero potuto spaventarsi o reagire male davanti alla polizia. Ed è per questo che ho chiesto di non entrare senza di me”.
Sulla vicenda è intervenuto anche Matteo Salvini, che in passato ha più volte discusso a distanza con don Biancalani. E nemmeno stavolta il segretario della Lega gli ha risparmiato una "stoccata", invitandolo a rispettare le normative. "La legge è uguale per tutti, caro 'don' - le sue parole - accogliere e integrare è un diritto e un dovere, ma il rispetto delle regole e del prossimo lo è altrettanto”.
Da leggo.it domenica 24 Luglio 2022.
Ragazzino abbandonato in autogrill, il sindaco di Cessalto: «Ci costa 150 euro al giorno»
La giunta del Comune si è dovuta riunire per deliberare la concessione di 18mila euro a favore dell'adolescente
Un ragazzino straniero è stato abbandonato dai genitori nell'area di servizio di Calstorta, lungo l'autostrada A4, in direzione di Trieste: ora è seguito dai servizi sociali del comune di Cessalto, nel Trevigiano, che lo hanno affidato a una struttura protetta del Veneziano.
Per provvedere alle necessità primarie dell'adolescente, che non parla una parola di italiano, la nuova giunta del Comune, come riporta il Corriere del Veneto, si è dovuta riunire per deliberare la concessione di 18mila euro a favore dell'adolescente. La cifra servirà per coprire le spese fino a fine anno. L'abbandono risale a più di un mese fa, in piena campagna elettorale.
Adolescente abbandonato in Autogrill, la denuncia del Comune
Il Comune, secondo quanto previsto dalla legge, dovrà provvedere al ragazzino fino al compimento della maggiore età.
«In Italia - spiega il neo-sindaco di Cessalto, Emanuele Crosato - abbiamo un welfare che funziona, ma l'autostrada, per Comuni come il nostro, è un'arma a doppio taglio. Fa bene alle imprese ma non alle casse comunali, perché nelle due aree di servizio che si trovano nel nostro territorio comunale vengono abbandonati oltre al ragazzino, vicenda tristissima, anche veicoli a cui vengono tolte le targhe, che poi tocca a noi smaltire, e animali di diversa taglia di cui poi ci dobbiamo prendere cura. Un salasso per il nostro bilancio che deve fare i conti anche con i rincari energetici».
Il giovane ha espresso l'intenzione di lavorare per mandare dei soldi a casa, ma la situazione non è facile, neppure per l'amministrazione di Cessalto, quasi 4mila abitanti. «A noi adesso "costa" 150 euro al giorno e saremo molto presto costretti a chiedere contributi a Regione e Stato, anche se vorremmo in realtà trovare delle soluzioni alternative - dice il sindaco - che al momento non ci sono».
Cessalto, abbandonato a 16 anni in autogrill sulla A4: la storia che sconvolge l'Italia. Serenella Bettin su Libero Quotidiano il 25 luglio 2022
Non è di certo il caldo asfissiante di questi giorni il responsabile di gesti folli compiuti dai genitori a danno dei figli. Alcuni sono così crudeli da accoltellare le creature nate dal loro stesso grembo, di uccidere neonate indifese, lasciarle perire come piante al sole, senza acqua né cibo per giorni. E sono anche capaci anche di abbandonarli lungo le autostrade, come animali non più graditi.
Un tragitto quello della A4, direzione Venezia-Trieste, che collega l'Est con l'Ovest d'Europa. Qui ogni giorno ci fluiscono camion, auto, moto, una strada conosciuta non solo per le sue vittime - nel 2021, 21 morti ma anche perché canale di collegamento per i banditi, i fuorilegge, i migranti che prima del covid si attaccavano ai cassoni dei camion e approdavano in Italia.
Qui, soprattutto all'altezza dell'uscita di Cessalto, un Comune che è l'ultimo spicchio in provincia di Treviso, ci finisce di tutto. Animali abbandonati, veicoli. Il neosindaco Emanuele Crosato ogni settimana chiama il canile per riuscire a dare una sistemazione a questi cuccioli indifesi mollati lì da uomini incivili. Di media sono tre a settimana. Ma di dover soccorrere un giovane ragazzo ancora non gli era capitato. Il fatto è avvenuto un mese fa. Il minore, 16 anni, albanese, è stato abbandonato dai genitori in Autogrill, nell'area di servizio Calstorta. Fu la polizia stradale ad avvertire il Comune - all'epoca non guidato da Crosato - e da lì i servizi sociali se ne sono presi carico. Anche perché, essendo un minore non accompagnato, non lo si può rispedire indietro. E veniamo al momento in cui il ragazzino viene messo in una struttura protetta del veneziano, struttura che costa la bellezza di 150 euro al giorno. Per provvedere alle necessità del ragazzo, la neogiunta del Comune di Cessalto si è dovuta riunire per deliberare 18 mila euro a favore del sedicenne. Una bel regalo si è ritrovato il sindaco appena eletto, che il 30 luglio spegne 40 candeline.
Ma Cessalto è un Comune piccolo, gli abitanti sono 3.800, con poco personale adibito e risorse assai limitate, e per di più ospita varie donne ucraine. Il ragazzino non parla una parola di italiano, non ha con sé documenti, finora non ha comunicato nulla né sulla sua provenienza, né sulla sua famiglia. Una cosa l'ha detta: che vuole lavorare per dare i soldi al suo nucleo familiare. Il punto è il salasso che l'amministrazione si trova a dover pagare. Anche perché per far avere i documenti al sedicenne, in Italia ci passano le calende greche. «Questi costi - dice a Libero il sindaco Crosato - ricadono sull'amministrazione comunale. La struttura dove si trova il ragazzo ci chiede 150 euro al giorno. Il che vuol dire che al mese ci costa 4 mila euro. Io destino volentieri i 18 mila euro per un ragazzo, però li tolgo da altre parti. Noi sindaci siamo completamente lasciati soli. Volevo dargli la possibilità di vivere serenamente, senza però che fosse tutto sulle spalle del comune. Da una parte guardo i bilanci, dall'altra mi dico: se fosse mio nipote? Ora proveremo a vedere se c'è la possibilità di inserirlo in qualche famiglia». La legge prevede che il Comune dovrà provvedere a lui fino al compimento della maggiore età. Soldi che ne se vanno, oltre a quelli già spesi per smaltire rifiuti e veicoli marci sul ciglio di una strada. Solo che qui si tratta di una persona. E per fortuna, checché ne dicano le anime belle, siamo ancora umani.
La sentenza. Andrea Costa assolto, crolla il castello di accuse contro il presidente di Baobab: “Rifarei tutto, continueremo ad aiutare i migranti”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Il fatto non sussiste. Con questa formula è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento della emigrazione clandestina Andrea Costa, presidente di Baobab Experience onlus, l’associazione che da anni si occupa di fornire assistenza ai migranti che transitano per Roma.
A deciderlo è stato questa mattina il Gup del tribunale di Roma al termine del processo svolto con rito abbreviato nei confronti di Costa e di altri due imputati, attiviste dell’associazione. Lo stesso pm titolare del fascicolo aveva chiesto di far cadere le accuse nei confronti di tutti gli imputati.
La vicenda che aveva portato incredibilmente Costa di fronte a un giudice risale al 2016, dopo lo sgombero del centro d’accoglienza allestito da Baobab in via Cupa, tra Tiburtina e San Lorenzo, a Roma. In quell’occasione Costa e gli altri volontari avevano offerto supporto a otto migranti sudanesi e un cittadino del Ciad, aiutati ad acquistare biglietti dei treni e autobus per passare la frontiera di Ventimiglia e andare in Francia.
Mentre era in corso l’udienza, fuori dalla cittadella giudiziaria si è anche svolto un sit-in di sostegno a cui hanno preso parte circa duecento persone, che hanno accolto la sentenza di assoluzione con un lungo applauso di gioia e liberazione.
Chiaramente soddisfatto Costa, che commentando l’assoluzione si è detto “soddisfatto perché un giudice ha sancito quello che già sapevo: che il fatto non sussiste, ora c’è qualcuno che lo ha messo nero su bianco”.
“In questi anni è stata dura sapere di essere sotto indagine pur avendo la consapevolezza di avere agito in modo corretto – ha aggiunto Costa, difeso in giudizio dall’avvocato Francesco Romeo -. Rifarei tutto, continueremo ad aiutare le persone che hanno bisogno così come sta avvenendo per i profughi che arrivano dalla Ucraina“.
Il caso del presidente di Baobab Experience. “Andrea Costa assolto per un processo che non si doveva fare”, parla l’avvocato Francesco Romeo. Federica Graziani su Il Riformista il 4 Maggio 2022.
Il fatto non sussiste. Così ha stabilito la sentenza del processo ai danni del presidente di Baobab Experience, Andrea Costa, e di due volontari dell’associazione, tutti accusati di favoreggiamento dell’emigrazione clandestina e ora assolti pienamente. I fatti contestati risalivano all’ottobre del 2016, subito dopo lo sgombero della tendopoli di via Cupa, in cui Baobab aveva allestito una prima accoglienza per i migranti in transito di passaggio a Roma. In quella data i volontari dell’associazione avevano offerto aiuto a otto cittadini del Sudan e uno del Ciad, rimasti per strada dopo lo sgombero, comprando loro i biglietti ferroviari necessari a raggiungere il centro di accoglienza della Croce Rossa Italiana di Ventimiglia. Commenta con noi la sentenza l’avvocato difensore dei tre attivisti, Francesco Romeo.
Iniziamo dal principio del processo al presidente di Baobab Experience, Andrea Costa, e a due volontari dell’associazione. Perché è stato istruito? Questo processo è nato con un’ipotesi investigativa di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’emigrazione clandestina fondata sul sospetto che all’interno dell’associazione Baobab si fornissero ai migranti documenti falsi per farli andare in altri paesi dell’Unione Europea.
Ed era il 2016.
Sì, questa ipotesi è partita nel settembre del 2016, proprio in concomitanza con lo sgombero della tendopoli di via Cupa, del 30 settembre. Ma è un’ipotesi che non trova riscontro e verrà poi archiviata nel 2020.
Ma non finisce qua…
No, da quest’ipotesi iniziale di sospetto di un’associazione clandestina, poi caduta, rimane in piedi l’episodio delle nove persone, otto sudanesi e un ciadiano, che vengono intanto sgomberate insieme agli altri trecento migranti in quel 30 settembre del 2016. Chi trova un riparo di fortuna, chi cerca di sistemarsi da qualche parte, chi finisce nel centro della Croce Rossa di via del Frantoio, chi rimane per strada. Ecco, in quest’ultimo gruppo sono i nostri nove, che dopo qualche giorno all’addiaccio chiedono ai volontari di Baobab un aiuto per raggiungere il campo della Croce Rossa di Ventimiglia. Vengono comprati così i biglietti dell’autobus e una volontaria li accompagna a Genova, e poi a Ventimiglia. Questi i fatti. I nove sono poi fermati sul lungomare di Ventimiglia – il che dimostra che non è che si nascondessero o cercassero di passare la frontiera di nascosto – e vengono mandati nel centro di prima accoglienza di Taranto. Da lì in poi noi ne perdiamo le tracce ma non sono persone che sono state espulse o inviate in un Cpr (nota: Centri di permanenza per i rimpatri). Vengono invece mandati in un centro di prima accoglienza perché si tratta di persone che hanno diritto alla protezione internazionale, protezione che loro avrebbero voluto chiedere a Ventimiglia mentre invece sono stati rispediti indietro, a Taranto.
Quand’è che lei viene contattato per essere l’avvocato difensore dei tre volontari del Baobab?
A un certo punto del 2019 arriva un avviso di interrogatorio, durante le indagini preliminari, e lì scopro che i tre sono indagati di favoreggiamento dell’emigrazione clandestina. Arriva nel 2019 perché è quell’anno in cui il processo si biforca. Rimane in piedi il processo per favoreggiamento a loro tre, mentre va su un binario morto il procedimento relativo all’associazione a delinquere, che poi troverà l’archiviazione nel febbraio del 2020.
Arriviamo al processo di oggi. Com’è andato?
Prima di arrivare al processo devo dire che noi abbiamo scelto di fare un giudizio abbreviato condizionato all’interrogatorio di Andrea Costa, all’audizione di un funzionario della Croce Rossa Italiana e alla produzione di alcuni documenti, fra i quali estratti del rapporto sulla protezione internazionale in Italia nel 2017, per quel che riguarda i paesi del Sudan e del Ciad, per dimostrare che si trattava di persone che non erano clandestine ma avevano diritto alla protezione internazionale. Oggi poi siamo arrivati alla sentenza.
Che è stata di piena assoluzione, per tutti e tre.
Sì, piena assoluzione perché il fatto non sussiste. Si è preso atto, io credo – anche se le motivazioni della sentenza arriveranno solo fra trenta giorni, che si è trattato di generosità e solidarietà nei confronti di persone che stavano per strada e volevano solo raggiungere un centro della Croce Rossa. Non certo di sfruttamento o favoreggiamento dell’emigrazione clandestina.
Questo processo si doveva fare?
Il punto è che questo processo non si doveva fare. E questo perché sia l’ipotesi investigativa sull’associazione che l’ipotesi residua, sul favoreggiamento, sono frutto di una lettura di storta e suggestiva degli elementi presenti in atti e delle norme sul Testo unico dell’immigrazione. Una lettura distorta che è venuta dagli investigatori, da chi portava avanti le indagini, vale a dire dalla squadra mobile. Purtroppo devo dire che in un primo momento la Procura ha assecondato questa lettura. Oggi invece ha chiesto l’assoluzione.
Ci sono stati casi simili a questo, in cui condotte che poi si rivelano di solidarietà vengono criminalizzate?
Casi ce ne sono stati. Ne ricordo uno proprio a Ventimiglia, riguardava Félix Croft, assolto a Imperia per una vicenda molto simile a questa.
Come interviene il clima politico che c’è stato in quegli anni in Italia intorno alle questioni dell’immigrazione in processi come questo?
Il peso della politica è evidente e secondo me questo è il punto. Dall’estate del 2016 ha preso forma una strategia di attacco alle Ong, o meglio, ha preso forma una strategia di contrasto all’immigrazione ed emigrazione clandestina con le tecniche del contrasto alla criminalità organizzata. Tanto è vero che tutti questi processi finiscono nelle mani della Direzione Distrettuale Antimafia, e anche questo processo è partito lì. Si sono insomma parificate le strategie di contrasto all’immigrazione clandestina con le tecniche dell’antimafia e questo ha portato ai processi ai danni delle Ong. Prima conoscevamo solo quelli alle Ong di mare, Baobab è il primo caso di una Ong che opera a terra che viene in evidenza.
Le leggo un aforisma di Karl Kraus. “Chi elogia la nostra giustizia, somiglia terribilmente a quella persona che cercava di consolare una vedova il cui marito era morto per una grave forma di polmonite, dicendole per tranquillizzarla che ‘forse non era andata poi tanto male’.” Come risponderebbe a Kraus un avvocato che ha appena vinto un processo?
La giustizia non arriva mai né per inerzia, né da sola. È necessario lavorare incessantemente affinché le norme che prevedono delle fattispecie di reato risultino aderenti ai principi costituzionali e ai principi dello Stato di diritto. Diversamente, si rischia di deragliare e finire in una logica del sospetto come è accaduto all’inizio di questo caso di cui stiamo parlando. Quindi, ecco, bisogna lavorare incessantemente perché non vada poi così tanto male come scrive Kraus.
Quali sono i maggiori paradossi della giustizia degli ultimi anni in Italia?
Una spiccata ed esagerata acquiescenza delle Procure rispetto alle ipotesi degli investigatori. Spesso arrivano a processo storie che non ci dovrebbero proprio arrivare.
Come interagiscono i media e la giustizia?
Il rapporto tra media e processi è molto complesso. Spesso i media fanno da cassa di risonanza a delle ipotesi investigative e talvolta, ma solo talvolta, colgono nel segno ed esercitano la funzione di sorveglianza critica che la stampa deve garantire su ogni forma di potere, ivi compreso quello giudiziario. Lei si definirebbe un attivista, come fanno i suoi tutelati? Beh, sì, i miei tutelati sono degli attivisti. Io sono un avvocato che dà una mano a questi attivisti.
Quali sono stati i suoi maestri?
Io sono un autodidatta.
Completamente autodidatta?
Sì. Direi di sì.
Destra e sinistra esistono ancora?
Io sono prima un cittadino e poi un avvocato. E sono un cittadino di sinistra, quindi anche un avvocato di sinistra. Essere di sinistra per me, oggi, significa ancora stare dalla parte di chi subisce delle ingiustizie. Sempre.
Federica Graziani
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 30 aprile 2022.
In Italia era diventato famoso per il braccio di ferro con le Ong impegnate a salvare in mare i migranti in fuga dalla Libia. Le aveva accusate di favorire il lavoro dei trafficanti, fornendo all'allora ministro dell'Interno, Marco Minniti, le motivazioni per istituire un «codice di condotta» e all'attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio lo spunto per definirle «taxi del Mediterraneo».
Era il 2017 e cinque anni dopo la storia di Fabrice Leggeri alla guida di Frontex si è conclusa con il suo addio all'agenzia dell'Unione europea, travolto dall'accusa di aver violato i diritti umani nelle operazioni di controllo delle frontiere. Consentendo e addirittura praticando i respingimenti, considerati illegali dal diritto internazionale. «Sembra che il mandato di Frontex, in base al quale ero stato nominato e poi riconfermato nel 2019, sia stato silenziosamente cambiato» ha scritto, piccato, nella lettera di dimissioni. Nella quale specifica di voler usufruire dei 61 giorni di ferie residui.
Il francese era a capo di Frontex dal 2015, l'anno dei flussi record lungo la rotta balcanica, e sotto la sua guida l'agenzia è cresciuta fino a diventare una vera e propria guardia costiera e di frontiera dell'Unione. All'epoca del suo insediamento, Frontex aveva un budget annuale di 142 milioni di euro, cresciuto gradualmente fino a toccare quota 757 milioni di euro quest' anno, con un notevole incremento del personale, che nel 2027 conterà 10 mila agenti. In questi anni, però, risorse e personale sono aumentati di pari passo con le accuse, culminate con un'indagine dell'Olaf, l'ufficio antifrode dell'Ue. Il report finale non è stato ancora reso pubblico, ma le indiscrezioni dicono che nelle 200 pagine vengono riportati centinaia di casi di respingimenti illegali compiuti dagli agenti di Frontex, soprattutto nel Mar Egeo.
Non solo: la gestione di Leggeri era finita nel mirino anche del mediatore europeo, del Parlamento Ue e di varie inchieste giornalistiche: l'ultima, firmata da un consorzio internazionale, era stata pubblicata proprio giovedì sera. La Commissione europea ha preso nota delle dimissioni e ha assicurato che procederà subito all'individuazione di un sostituto, ma è chiaro che il caso lascia Frontex nel caos e soprattutto rimette in discussione il ruolo dell'agenzia, diventata il braccio armato della «Fortezza Europa».
Quella che fino a pochi mesi fa discuteva se finanziare o meno con i fondi Ue la costruzione delle barriere ai confini con la Bielorussia. Leggeri si era più volte lamentato della difficoltà di impedire l'ingresso irregolare dei migranti rispettando al tempo stesso il principio di non-respingimento, quello che dovrebbe garantire a tutti il diritto di chiedere asilo. Opposte le reazioni al Parlamento Ue, dove esulta il gruppo dei socialisti-democratici («Avrebbe dovuto dimettersi già un anno fa»). Mentre la Lega chiede di non strumentalizzare il caso perché «c'è la necessità assoluta» di un'agenzia come Frontex.
Gianluca De Rossi per “il Messaggero” il 14 aprile 2022.
Sarà il tepore primaverile spinto dall'anticiclone africano che sta alzando le temperature dopo il freddo dei giorni scorsi, o forse solo l'avvicinarsi della Pasqua, ma in molti cresce la voglia di andare al mare. Ma come si potrà andare in spiaggia? Ci saranno ancora restrizioni dettate dalle misure di prevenzione per il Covid? La risposta l'ha data il Ministero della Salute: via distanze e numero chiuso sulle spiagge, e al mare, dunque, torna l'era pre Covid.
Gli unici accorgimenti da rispettare sono privilegiare l'accesso agli stabilimenti tramite prenotazione, favorire le modalità di pagamento elettroniche, organizzare gli spazi in modo da consentire l'accesso agli stabilimenti in modo ordinato, senza code e assembramenti di persone, igienizzare gli spazi comuni, spogliatoi, docce, servizi igienici, lettini e sedie a sdraio. A Rimini, tuttavia, è stato deciso di mantenere le distanze tra gli ombrelloni introdotte nelle ultime due estati. Ma gli stabilimenti balneari sono pronti ad accogliere i turisti e i vacanzieri di prossimità?
Sono molti gli operatori a lamentare la carenza di lavoratori stagionali: «Difficile trovarli, quest' anno ancora di più», fanno sapere sia il Sib, il Sindacato balneari, sia Assobalneari. Ma dove non vogliono operare i lavoratori italiani si aprono le porte ai rifugiati ucraini, quelle persone scappate dalla guerra che quel lavoro lo accettano molto volentieri.
E con lo status di rifugiato i cittadini ucraini potranno svolgere lavoro dipendente, stagionale o autonomo, perché l'accoglienza dei profughi ha forzato i limiti imposti ogni anno all'accesso al lavoro in Italia dei cittadini extracomunitari, spalancando le porte del lavoro a tutte le persone in fuga dall'Ucraina.
Unico requisito il possesso della richiesta del permesso di soggiorno presentata in Questura e legata alla protezione temporanea Ue, protezione che dà diritto a un anno di lavoro, rinnovabile per altri due periodi di 6 mesi ciascuno. «In tutta Italia abbiamo aperto le porte degli stabilimenti a chi fugge dalla guerra - dice Enrico Schiappapietra, vice presidente Sib -. E non offriamo solo ospitalità, ma anche lavoro per sostituire quei lavoratori stagionali che preferiscono tenersi il reddito di cittadinanza e non lavorare».
Quali lavori posso fare i rifugiati ucraini nel settore turistico e sulle spiagge? «Se parlano un po' di italiano possono fare gli assistenti nello stabilimento, accompagnando i bagnanti all'ombrellone, oppure gli steward agli ingressi, le baby sitter ai bambini in spiaggia - dice Riccardo Padovano Lacchè, presidente del Sib Abruzzo -. Oppure operare alla reception, in cucina o nel servizio di pulizia delle camere. Ho già assunto una persona fuggita dalla guerra: è una mamma 50enne di due ragazzi, parla inglese e mastica un po' di italiano. Mi ha chiesto un lavoro per il figlio 15enne, che ha portato con sé fuggendo dal Donbass, ma non l'ho potuta accontentare perché lui è troppo giovane, mentre il marito e l'altro figlio 18enne sono rimasti in patria a combattere».
Porte aperte ai profughi ucraini anche negli stabilimenti del Lazio: «Abbiamo già concretamente aiutato la popolazione ucraina inviando aiuti ma ora possiamo fare di più - dice Massimo Perin, Assobalneari Lazio -. In tutta Italia abbiamo deciso di aprire le porte ai rifugiati, che sono principalmente donne e bambini. Li accogliamo in spiaggia e ben vengano i lavoratori ucraini. Ad aprile e maggio andranno formati per operare durante la stagione a fianco ad altri lavoratori con vitto, alloggio e un buon stipendio garantiti».
Cild accusa: centri per i migranti finiti nelle mani dei colossi privati. I Cpr, di fatto, sono un sistema di detenzione, ma a differenza delle patrie galere vivono in una specie di limbo giuridico dove esistono meno garanzie per i trattenuti e dove, appunto, i privati possono gestirli e trarne il massimo profitto. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 marzo 2022.
I centri di permanenza e rimpatrio (Cpr), una detenzione di fatto per migranti che non hanno commesso reati, sono in mano a privati che hanno l’obiettivo di guadagnare dalla reclusione dei migranti. Questo avviene a differenza delle carceri italiane, dove il nostro ordinamento vieta la loro privatizzazione. I Cpr, di fatto, sono un sistema di detenzione, ma a differenza delle patrie galere vivono in una specie di limbo giuridico dove esistono meno garanzie per i trattenuti e dove, appunto, i privati possono gestirli e trarne il massimo profitto.
Per comprendere tutto ciò, bisogna leggere il rapporto “Buchi neri” della Coalizione italiana libertà e diritti civili ( Cild) a firma degli avvocati Federica Borlizzi e Gennaro Santoro dove vengono non solo sviscerati i problemi dal punto di vista giuridico e sanitario, ma anche economico.
Basti pensare che dal 2018 a oggi lo Stato italiano ha speso 44 milioni di euro per la gestione dei dieci Centri presenti sul territorio. Sempre dal rapporto della Cild, emerge che egli ultimi anni il mercato della detenzione ha attirato le mire di vere e proprie multinazionali del settore. Come Gepsa e Ors, che gestiscono i Cpr di Torino, Macomer e a breve anche quello Ponte Galeria, ma nel corso degli anni hanno avuto appalti anche per Cara, Cas ed ex Cie in diverse regioni italiane. Le loro società madri, Engie Francia e Gruppo Ors con sedi rispettivamente in Francia e Svizzera, sono affermate a livello europeo: la prima fornisce servizi ausiliari in 22 strutture penitenziarie transalpine, la seconda è titolare di centri di accoglienza e trattenimento in Svizzera, Germania, Austria e Italia.
IL CPR ROMANO DI PONTE GALERIA IN MANO AL GRUPPO ORS
Per comprendere il fenomeno, bisogna analizzare il caso singolo. Ovvero il cpr romano di Ponte Galeria. La Colazione Italiana Libertà e Diritti civili ( Cild), questo mese ha pubblicato un rapporto specifico dove rivela che, a dicembre scorso, ad aggiudicarsi la gara d’appalto è Ors Italia srl, ma non è dato sapere il ribasso proposto sul prezzo a base dell’asta ( 7 milioni di euro), non essendo stata la relativa offerta pubblicata sul sito della Prefettura. Ma la Cild spiega che si sa per certo chi sia questa nuova società che ha preso la gestione del Centro. Infatti, il Gruppo ORS è una società, con sede a Zurigo, attiva da più di 30 anni nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa dei migranti in tutta Europa.
Secondo l’ultima relazione aziendale del 2020, il Gruppo ORS, che conta 1300 dipendenti, gestisce strutture di accoglienza e trattenimento in 4 Paesi europei: Svizzera, Germania, Austria, Italia. Ma pesa il fatto che Il Gruppo è stato al centro di inchieste giornalistiche che hanno tentato di comprendere chi vi fosse dietro la società: ORS Holding risulta, come si legge nel rapporto di Cild, infatti, «partecipata per intero dalla OXZ Holding ( OX Group) di Zurigo. Il gruppo è stato acquisito nel 2013 da un fondo di private equity controllato dalla londinese “Equistone Partners”, uno spin- off della banca Barclays, attivo dal 2011».
LA DENUNCIA DI AMNESTY
Sempre la Cild, rivela che nel 2015 ORS è stata oggetto di un Rapporto di Amnesty International che ha denunciato le condizioni inumane di accoglienza dei migranti nel Centro austriaco di Traiskirchen: «Progettato per 1.800 persone, era arrivato a ospitare 4.600. La logica, in quel centro come in tutte le strutture gestite da ORS, sembra essere sempre la stessa: taglio dei costi e massimizzazione del profitto con “risparmi” su visite sanitarie, corsi di formazione, penuria di cibo, qualità degli alloggi». Non solo. Nel 2018 l’Ong “Droit de Rester” denuncia la cattiva gestione da parte di ORS delle strutture di accoglienza di Friburgo.
Come già detto, In Italia ORS è attiva dal 22 agosto 2018. Dopo un periodo di inattività, nel 2019 si è aggiudicata diversi appalti per la gestione di Centri di accoglienza in Friuli Venezia Giulia e Sardegna. Rispetto all’isola sarda, ORS Italia ottiene, dal gennaio 2020, la gestione del CPR di Macomer e, nel marzo dello stesso anno, anche l’affidamento del controverso CAS di Monastir.
A riguardo, il deputato Erasmo Palazzotto, in una interrogazione al Ministro dell’Interno, aveva evidenziato come «si pone il grande dubbio di come sia possibile, per una società a responsabilità limitata sostanzialmente inattiva, superare i requisiti di concreta esperienza ed essere ritenuta idonea alla gestione di grandi centri di accoglienza. Il timore dell’interrogante è che ci si trovi di fronte a una società che si avvarrebbe solo e totalmente della casa madre svizzera senza possedere mezzi e personale proprio con le qualifiche e l’esperienza richieste dai relativi bandi, consentendo che sul futuro di tali centri possano mettere le mani delle realtà discutibili interessate solo al profitto a discapito di migranti e contribuenti». Oramai il Gruppo ORS, sembra essere entrato a pieno titolo nel business della detenzione amministrativa italiana. Non a caso, nell’arco di pochi mesi, si è aggiudicato non solo la gestione del Centro di Roma- Ponte Galeria ma anche, nel febbraio 2022, quella del CPR di Torino, peraltro con un ribasso rispetto al prezzo d’asta addirittura dell’ 11%.
LA QUESTIONE DELLE SEZIONI FEMMINILI
Ma la Cild denuncia che le novità della nuova gestione del Cpr di Ponte Galeria non sono finite. Infatti, con la nuova gara d’appalto del 2021: da un lato, si riduce drasticamente la capienza massima del Centro, che passa da 250 a 120 posti; dall’altra sembra non essere più presente la sezione “femminile” nel Cpr di Ponte Galeria. Si tratta di una eventualità che, se fosse confermata, comporterebbe il fatto che, in Italia, nessuna donna potrebbe essere trattenuta nei Cpr, essendo quello di Ponte Galeria l’unico con la sezione femminile attiva.
Notizia che – secondo la Cild – sarebbe da accogliere con favore se ciò significasse che nessuna straniera sia più soggetta a rimpatrio. In caso contrario, il rischio che si pone è che le cittadine straniere siano, in attesa dell’espulsione, trattenute nelle controverse “strutture idonee presso la disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza” e/ o in “locali idonei presso gli Uffici di frontiera” ( art. 13, comma 5 bis del TUI, come modificato dal d. l. n. 113/ 2018). Il report denuncia che si tratta di una prospettiva pericolosissima posto che, come evidenziato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, la normativa non stabilisce le condizioni di trattenimento presso tali “locali idonei” e non è dato sapere neanche l’esatta ubicazione di tali strutture.
La Cild sottolinea che «la triste storia della detenzione amministrativa delle donne nei Centri di trattenimento ci parla di privazioni della libertà spesso illegittime, avvenute a danno di cittadine straniere vittime di tratta e di violenza». Storie che, spesso, hanno preso una direzione diversa dal rimpatrio solo grazie all’attività delle associazioni della società civile, tra tutte la Cooperativa “Be Free” che, per anni, ha prestato assistenza nel Cpr di Ponte Galeria.
GALERE INACESSIBILI. I centri per il rimpatrio dei migranti hanno fallito e costano quasi 45 milioni. LUCA ATTANASIO su Il Domani il 20 marzo 2022
Le dieci strutture di “accoglienza” temporanea dove finiscono i cittadini non europei sprovvisti di permesso di soggiorno sono dei non luoghi, che favoriscono la nullificazione delle persone.
«I bagni sono in condizioni deprecabili, in alcuni centri sono senza porte, non esistono tavoli, si mangia in piedi, non ci sono punti di aggregazione, attività sportive».
Una questione enorme, inoltre, è rappresentata dai costi. Come riporta la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), nell’ultimo triennio per la gestione appaltata a soggetti privati dei dieci Cpr sono stati spesi circa 44 milioni di euro.
LUCA ATTANASIO. Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017; Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni, settembre 2018.
Così i soldi dall'Europa finiscono all'Islam radicale dei Fratelli Musulmani. Mauro Indelicato su Il Giornale il 16 Febbraio 2022.
La stessa commissione europea, rispondendo a un'interrogazione dell'europarlamento, ha ammesso di aveer erogato soldi a una serie di associazioni legate all'Islam Politico.
La tendenza dei Fratelli Musulmani in Europa è chiara: “laicizzare” le proprie istanze, portare avanti associazioni in grado di promuovere temi “sensibili” alle orecchie (e alle tasche) delle istituzioni comunitarie. Una strategia che sta funzionando. Così come riportato su Libero nei giorni scorsi, da un'interrogazione al parlamento di Strasburgo presentata dai parlamentari di Identità e Democrazia e di Conservatori e Riformisti sono emerse cifre importanti di finanziamento a gruppi ritenuti vicini alla fratellanza.
Così i Fratelli Musulmani si sono avvicinati alle sinistra europea
La risposta presentata dalla Commissione europea ha offerto un quadro tutt'altro che rassicurante. Ad esempio, è stata riportata la notizia di un finanziamento complessivo di 170mila Euro dal 2013 al 2019 erogato dall'Ue alla Femyso. Si tratta del Forum dei giovani e degli studenti musulmani, formazione ritenuta vicina ai Fratelli Musulmani.
Una pioggia di soldi giustificata in parte per programmi di istruzioni, almeno 125mila Euro, e in parte, per un importo dei restanti 45mila Euro, per progetti relativi a programmi di integrazione e uguaglianza. In poche parole, ponendosi come rappresentanti di istanze sociali delle comunità musulmane, i membri della Femyso sono riusciti a strappare importanti finanziamenti alle casse di Bruxelles.
Una situazione ritenuta allarmante dai parlamentari che hanno presentato l'interrogazione. Tra questi figurano alcuni deputati della Lega. Susanna Ceccardi, esponente del Carroccio a Bruxelles e anche lei tra i firmatari, ha giudicato “inaccettabili” i finanziamenti a favore della Femyso e di altre associazioni vicine ai Fratelli Musulmani, preannunciando ulteriori richieste di chiarimenti.
La Femyso infatti è un'associazione che sta facendo discutere molto in Francia. Marlène Schiappa, ministro dell'integrazione francese e non certo nota per posizioni anti Islam, ha definito il forum dei giovani musulmani “lo pseudonimo dell'islamismo”. Anche perché l'associazione fa parte della Fioe, la Federazione delle Organizzazioni Islamiche in Europa. La stessa che ha promosso iniziative volte a integrare tratti della Sharia negli ordinamenti del Vecchio Continente.
Così le reti antirazziste appoggiano i Fratelli musulmani
Del resto obiettivo della fratellanza è quello di promuovere il cosiddetto “Islam Politico”, una visione molto conservatore dell'Islam da diffondere anche in Europa con tutti i mezzi possibili. Dalla politica al Soft Power creato grazie a una rete capillare di associazioni per l'appunto, in grado di portare le istanze islamiste all'interno delle istituzioni europee. Non a caso la Femyso non è l'unico forum ad aver beneficiato di fondi comunitari in questi anni. Soldi sono stati erogati ad esempio anche al Collectif contre l'islamophobie en France (Ccif), sciolto nel 2020 dal governo francese dopo l'omicidio del professore Samuel Paty in quanto, secondo le autorità di Parigi, l'associazione è stata ritenuta molto vicina ad ambienti islamisti.
La pioggia di denaro per i Fratelli Musulmani non rappresenta solamente un problema di natura economico. Del resto, i gruppi legati all'Islam Politico hanno già a disposizione molti fondi, le migliaia di Euro erogate dall'Ue sono al confronto centesimi per i loro budget. Dall'estero, tramite filantropi e altri privati, arrivano molti più soldi e inoltre la fratellanza ha storicamente ricevuto sostegno da Paesi come Turchia e Qatar. Più che altro il problema è di natura politica. Erogare anche un centesimo a un'associazione immersa nella “zona grigia” dell'islamismo vuol dire riconoscimento politico ai gruppi radicali. Un autogol per l'Europa e un pericolo per la sicurezza di tutti.
Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e
"500 euro a testa". Il business degli stranieri sui migranti. Marco Leardi il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.
La polizia di Milano ha arrestato sei cittadini camerunesi e quattro afghani: gestivano gli spostamenti illegali di migranti dall'Africa e dall'Afghanistan all'Europa. Ecco come funzionava il business illecito.
Dalla ricezione delle richieste dei migranti all'attraversamento della frontiera, il business dell'immigrazione clandestina veniva curato al dettaglio. C'era pure un tariffario per il servizio offerto: 500 euro per passare la frontiera tra l'Italia e la Francia. Pacchetto all inclusive all'insegna dell'illegalità. La polizia di Milano, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia, ha arrestato dieci persone per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e traffico di esseri umani. A finire in manette sono stati sei cittadini camerunensi e quattro afgani, che - secondo le indagini - appartengono a due differenti associazioni a delinquere.
I dieci stranieri facevano parte di cellule specializzate nel trasferimento terrestre dei migranti provenienti, in particolare, dalla zona centrale dell'Africa o dall'Afghanistan. Sempre secondo le indagini, gli immigrati erano diretti soprattutto verso la Francia o altri paesi francofoni. Il loro trasferimento, chiaramente, avveniva aggirando le regole vigenti sulla mobilità degli stranieri, con modalità articolate e ormai rodate finite nel mirino degli inquirenti. Nello specifico, il traffico di esseri umani è stato sgominato attraverso un'azione investigativa sorretta sul campo da servizi di sorveglianza dinamica e di intercettazione telefonica, uniti all'analisi dei dati di traffico telefonico riferiti ai soggetti indagati. Un'operazione articolata che ha portato poi a individuare i gestori del sistema illecito.
L'indagine ha consentito di ricostruire dettagliatamente ben 29 "viaggi" per i quali gli indagati, secondo l'accusa, erano quasi dei tour operator. Come emerso dagli accertamenti, si occupavano infatti di tutta l'organizzazione delle rotte che puntavano oltreconfine: dalla ricezione delle richieste dei vari migranti, e di altri trafficanti, all'attraversamento della frontiera. Stando al quadro accusatorio, per incrementare il "business" criminale gli stranieri delle due differenti cellule operavano in sincrono, anche per individuare gli appartamenti che avrebbero poi ospitato i clandestini in attesa della partenza. Inoltre, si sarebbero occupati di recuperare documenti di identità validi per l'espatrio e avrebbero individuato i tragitti più idonei per evitare eventuali controlli delle forze dell'ordine.
I trafficanti - ha ricostruito la polizia - chiedevano la somma di circa 500 euro per ciascun passaggio oltreconfine. Il che garantiva loro considerevoli guadagni: in questo modo, il business trovava una costante fonte di illegale sostentamento. Sulla pelle di chi, a sua volta, versava denaro nelle casse dei criminali.
Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.
Il Pg affonda il colpo: «Dieci anni e cinque mesi per Mimmo Lucano». Una richiesta di poco inferiore a quella stabilita dai giudici del Tribunale di Locri che in primo grado avevano disposto 13 anni e due mesi di carcere. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 28 ottobre 2022.
Una condanna a dieci anni e cinque mesi di reclusione: questa la richiesta avanzata dai magistrati d’Appello nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace e principale imputato nel processo Xenia. Una richiesta di poco inferiore a quella stabilita dai giudici del Tribunale di Locri che in primo grado avevano disposto 13 anni e due mesi di carcere. Sono servite più di tre ore ai Pg Fimiani e Giuttari per riannodare il fili del processo al “modello Riace”.
L’unificazione di tutti i reati (sia quelli legati alle ipotesi di peculato sia quello di associazione a delinquere) con il vincolo della continuazione, un paio di prescrizioni per i presunti reati che riguardano la raccolta differenziata e l’emissione delle carte d’identità, l’inutilizzabilità di parte delle intercettazioni finite nel procedimento di primo grado: questi i punti che hanno portato i magistrati d’accusa a chiedere un piccolo “sconto” rispetto alla pesantissima sentenza locrese, andata ben oltre le stesse richieste dei pm che in sede di requisitoria avevano chiesto 7 anni e 11 mesi di carcere per “il curdo”.
Ma nella sostanza, l’impianto della prima sentenza sembra avere retto rispetto alle considerazioni dell’accusa, che più volte ha sottolineato le irregolarità contabili registrate nella gestione dei progetti di accoglienza ai migranti: le case, che non avrebbero rispettato gli standard, i compensi per le manifestazioni degli artisti che avrebbero fatto pubblicità all’intero sistema, l’acquisto del frantoio da destinare ad una cooperativa di immigrati.
Nel meticoloso ed asettico elenco dei presunti reati contestati agli imputati – oltre a Lucano sono 17 le persone finite alla sbarra – quello che però non emerge mai, durante l’udienza, è il senso stesso del modello Riace, sacrificato in aula sull’altare di conti che non tornerebbero e tabelle non rispettate.
«È stata una requisitoria serena e pacata – hanno detto a margine dell’udienza i legali di Lucano, Pisapia e Daqua – che ha condiviso parte delle nostre richieste. Ovviamente non siamo d’accordo con le richieste e le motivazioni avanzate dai Pg. Adesso è il nostro turno e spiegheremo i motivi dell’appello. Speriamo in un esito positivo di questa vicenda perché abbiamo sempre ritenuto che i reati siano inconsistenti» .
Oltre a Lucano, il Pg hanno chiesto la rideterminazione delle pene anche nei confronti degli altri imputati. Fernando Capone (8,10 anni di reclusione), Cosimina Ierinò (8,1), Jerry Tornese (5 anni), Pietro Curiale (4,8), Abeba Abraha Gebremarian (4 mesi con pena sospesa), Giuseppe Luca Ammendolia (2,10), Nicola Auddino, Assan Balde, Oumar Keita (8 mesi con pena sospesa), Anna Maria Maiolo (4,8 anni), Gianfranco Misuraca (4), Salvatore Romeo (4,10), Maria Taverniti (4,4), Lemlem Tesfahun (4,8) e Filmon Tesfalem (8 mesi con pena sospesa). Chiudono le richieste di assoluzione per Cosimo Misuraca e Maurizio Senese.
L’inchiesta Xenia era esplosa nell’ottobre del 2018, con l’arresto di Lucano. Un arresto che in poche ore aveva fatto il giro del mondo. Associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio, truffa, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e concussione ( le ultime due ipotesi di reato sono cadute in primo grado): accuse pesantissime che si abbatterono come un meteorite sull’intero “sistema” di accoglienza che aveva portato Riace e il suo modello di integrazione dal basso sulle prime pagine dei giornali di mezzo pianeta.
Accuse frutto di un’indagine della guardia di finanza durata anni e partite da una serie di relazioni ispettive ( e contrastanti tra loro) commissionate dalla Prefettura reggina allora guidata da Michele Di Bari, il Prefetto promosso a capo del dipartimento immigrazione al Viminale e poi costretto a lasciare l’incarico in seguito ad un’indagine sulla moglie. Accuse sempre respinte dallo stesso Lucano al cui fianco, negli anni, si è schierata l’opinione pubblica, scesa in piazza per difendere “il curdo” e il suo modello di accoglienza.
La Pg fa lo sconto a Lucano: chiesti 10 anni e 5 mesi. Angela Stella su Il Riformista il 27 Ottobre 2022
La Procura generale di Reggio Calabria ha chiesto la condanna a dieci anni e cinque mesi di carcere per Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace e principale imputato del processo “Xenia”, nato da un’inchiesta della guardia di finanza sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel piccolo paese della Locride. Davanti alla Corte d’Appello di Reggio, presieduta da Giancarlo Bianchi, si è conclusa ieri la requisitoria dei sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari che hanno chiesto per Lucano una pena inferiore rispetto a quella inflitta dal Tribunale di Locri che lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione.
I sostituti pg hanno rilevato la prescrizione per i due presunti abusi d’ufficio: quello relativo alla mancata riscossione da parte del Comune dei diritti per il rilascio delle carte di identità, e quello sull’affidamento della raccolta dei rifiuti a due cooperative che utilizzavano gli asinelli per effettuare il servizio nel borgo ma che erano prive dell’iscrizione all’albo regionale. La Procura generale ha inoltre riconosciuto l’unificazione di tutti reati con il vincolo della continuazione. Per questo ha ridotto la richiesta di condanna rispetto alla sentenza di primo grado. Lucano in quel momento non era presente in aula. Dopo aver ricostruito gli elementi di prova e dopo aver ritenuto inutilizzabili alcune intercettazioni telefoniche, i due sostituti pg hanno chiesto la condanna anche per altri 15 imputati. Per due è stata chiesta l’assoluzione.
“È stata una requisitoria serena, pacata. In parte i sostituti procuratori generali hanno condiviso quanto è stato sollevato da noi come difesa di Mimmo Lucano in contrasto con la sentenza di primo grado. Su altri punti non condividiamo sia le richieste di condanna che le motivazioni”: è quanto ha affermato ieri al termine dell’udienza dall’avvocato ed europarlamentare Giuliano Pisapia difensore, assieme all’avvocato Andrea Daqua, dell’ex sindaco di Riace. “Adesso iniziano le difese – ha aggiunto Pisapia – e noi confidiamo in una sentenza positiva”. Invece l’avvocato Daqua ha sottolineato come la “Procura generale abbia condiviso l’eccezione sulla inutilizzabilità di alcune intercettazioni così come previsto dalla sentenza ‘Cavallo’ della Corte di Cassazione. Nel nostro intervento spiegheremo i motivi del nostro appello e chiaramente speriamo in un esito positivo perché abbiamo sempre ritenuto che i reati contestati a Mimmo Lucano sono insussistenti”. Mimmo Lucano in questi giorni aveva ribadito di non voler puntare a uno sconto di pena ma, “all’assoluzione”. Angela Stella
Il Villaggio globale di Riace ripopolato dagli afghani: nonostante tutto, l’accoglienza non si ferma. Mentre l’ex sindaco Mimmo Lucano attende la sentenza d’appello, una rete di associazioni mantiene in vita il borgo con aiuti e sottoscrizioni “contro la criminalizzazione di un modello solidale”. Alice Pistolesi su L'Espresso il 4 luglio 2022.
Dall’Afghanistan a Riace per ricostruire una nuova vita. Quattro famiglie sono arrivate nel mese di giugno nel borgo calabrese, dove l’accoglienza ministeriale è stata bloccata poco dopo l’avvio del procedimento giudiziario contro Mimmo Lucano. Il processo di appello all’ex sindaco, condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere con una serie di accuse legate alla gestione dei progetti di accoglienza dei richiedenti asilo, è iniziato il 25 maggio. Il 6 luglio è fissata la prossima udienza.
Ezatullah e Roqia, 30 e 29 anni sono arrivati a Riace dopo una lunga attesa. «Abbiamo trascorso quasi nove mesi in Pakistan. Veniamo da Kandahar. Siamo fuggiti con la nostra bimba di tre anni alla fine di agosto e siamo riusciti ad attraversare il confine. Io lavoravo con gruppi di statunitensi, mentre mia moglie era una maestra. Non potevamo restare, rischiavamo entrambi tremende ritorsioni», raccontano a L’Espresso.
Entrare o uscire dal Pakistan non è facile. Ezatullah e la sua famiglia hanno dovuto aspettare che venisse loro concesso un visto, che costa circa 800 euro a persona. A Riace sono quindi arrivati tramite un percorso umanitario gestito dall’associazione Jimuel Onlus.
«Ci siamo presi carico del costo del visto e del viaggio. Lo Stato italiano chiede infatti delle garanzie per l’arrivo delle persone provenienti dall’Afghanistan. Noi siamo riusciti a coprire i costi per quattro famiglie tramite le sottoscrizioni di privati che hanno donato quote all’associazione. Riace, subito dopo l’invasione russa, si era resa disponibile anche ad accogliere famiglie ucraine, ma serviva un’approvazione formale, che il Consiglio Comunale non ha dato», racconta Isidoro Napoli, presidente di Jimuel.
A Riace Ezatullah e Roqia hanno iniziato la propria ripartenza. Roqia ha una borsa lavoro in un laboratorio di sartoria ed entrambi stanno frequentando la scuola di italiano. «Vedo il mio futuro qui, prima di arrivare speravo di trovare un buon posto in cui vivere ma non potevo esserne sicuro. Il nostro obiettivo è imparare l’italiano prima possibile e iniziare la nostra nuova vita», prosegue Ezatullah.
Un “modello Riace” in versione ridotta sta quindi ricominciando. Le famiglie afghane sono ospitate all’interno del cosiddetto Villaggio globale, la zona del borgo in cui le decine di case abbandonate dai cittadini emigrati nel Nord Italia o all’estero vengono affittate, tramite un’associazione, alle famiglie rifugiate.
«Gli afghani stanno ripopolando il borgo ma in realtà l’accoglienza spontanea a Riace non si è mai fermata», racconta Mimmo Lucano.
E non si è fermata nonostante nel 2016 sia iniziata la trafila giudiziaria per l’ex sindaco e nel 2017 siano stati congelati i fondi del progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, sostituito nel 2018 dal Sipromi, Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati e nel 2020 dal Sai, Sistema accoglienza Integrazione), finanziato con fondi del ministero dell’Interno.
Dopo che a Riace vennero bloccati i progetti in corso, i migranti vennero trasferiti in altri centri sparsi in tutta Italia. Il blocco dei finanziamenti ha di fatto paralizzato l’accoglienza a Riace: il borgo si era nuovamente spopolato, anche se c’era chi aveva comunque deciso di restare. Il modello Riace, iniziato nel 1998 con i primi sbarchi di curdi e ampliato nei vent’anni successivi, ha contribuito, secondo molti, a fermare lo spopolamento del piccolo centro. In quindici anni il Paese era infatti tornato ai livelli di popolazione del 1920, arrivando a superare i 2.500 abitanti, mentre negli anni Novanta abitavano a Riace solo 1.600 persone.
La storia di accoglienza del borgo calabrese parte da lontano e ha visto Mimmo Lucano in prima linea prima come volontario e poi come sindaco. Lucano è stato infatti primo cittadino di Riace dal 2004 al 2018, anno in cui Antonio Trifoli è stato eletto con una lista civica vicina alla destra, mentre l’ex sindaco non ha ottenuto i voti per poter entrare in Consiglio comunale.
«Ho sempre pensato che l’accoglienza nei borghi spopolati contribuisse a far rinascere un senso di identità. Le comunità in cui ci sono solo autoctoni non sono ideali, non c’è crescita, contaminazione. Io ho sempre considerato quello che abbiamo creato negli anni come qualcosa di spontaneo, che andasse al di là dei confini. Il fatto che un luogo di emigrazione in cui non c’è lavoro e ci sono fortissime infiltrazioni mafiose si stesse trasformando in uno di arrivo ha incuriosito tanti. Nel bene e nel male», racconta Mimmo Lucano.
Ma a ripopolare Riace sono stati negli anni anche i riacesi stessi. Tra questi c’è Vincenzo, emigrato prima in Toscana e poi a Parigi subito dopo il diploma per ragioni di studio e lavoro, e rientrato nel Paese per lavorare con l’accoglienza.
«Sono tornato ad abitare nella mia vecchia casa. Lasciare Riace era stata una necessità visto che volevo lavorare con il cinema. Adesso continuo a farlo ma ho la base nel mio paese e aiuto a portare avanti il nostro progetto di accoglienza. Come me sono stati molti i giovani riacesi che erano tornati per lavorare negli anni passati. Ora in molti sono ripartiti», racconta.
Riace continua in ogni caso a essere «meta di un’accoglienza spontanea». Sono ad oggi, oltre alle famiglie afghane arrivate a giugno, trenta le persone provenienti da Nigeria, Ciad, Etiopia, Etitrea, Somalia, Ghana ed Egitto che abitano nel borgo. «Arrivano tramite passaparola. Tra loro c’è chi ha concluso i progetti di accoglienza nei Sai ma non sa dove andare. C’è chi fugge dalla violenza dei propri familiari. La scorsa settimana è arrivata una ragazza nigeriana incinta con i suoi due bambini. Vengono qui perché sanno che possono trovare una porta aperta, che nonostante tutto non lasciamo per la strada nessuno», spiega l’ex sindaco.
Nel Villaggio globale non ci sono solo case. È anche un luogo di attività: restano aperti i laboratori tessili, di falegnameria, il forno sociale, la biblioteca dei diritti umani ed è in fase di creazione Radio Aut, una web radio che si rifà all’esperienza dell’emittente antimafia creata a Cinisi negli anni Settanta da Peppino Impastato.
È attivo, poi, il banco alimentare che fornisce ogni settimana un buono spesa a ciascun nucleo familiare, così come l’ambulatorio medico in cui tre medici specialisti visitano gratuitamente sia le persone rifugiate che i riacesi.
Dietro al modello di accoglienza c’è il sostegno di una serie di associazioni. Centinaia le attività che dall’inizio del processo a Lucano si sono svolte in tutta Italia per raccogliere fondi con l’obiettivo di portare avanti il progetto. Una delle realtà più attive è “Una luce per Riace”, associazione bolognese che si occupa di pagare le bollette alle case dei rifugiati che abitano nel Villaggio globale. Al lavoro anche vari “Comitati 11 giugno” (data di inizio del processo a Mimmo Lucano) che stanno, tramite sottoscrizioni, sostenendo il modello di accoglienza con eventi, iniziative e raccolte fondi.
Un modello, quello di Riace, che ha subito un processo di criminalizzazione. A dirlo, tra gli altri, una delegazione di parlamentari europei di Verdi (Greens-Efa) e Sinistra (Left) che i primi di giugno ha fatto visita al borgo calabrese per portare la propria solidarietà all’ex sindaco. Un sostegno che, secondo Damien Careme del gruppo dei Greens, si sostanzia al Parlamento di Strasburgo con l’appoggio di 60 deputati.
La criminalizzazione della solidarietà non è un fatto solo italiano ed è anzi diffusa in tutta Europa. Secondo un dossier realizzato dal gruppo dei Verdi, sono state 89 le persone perseguite nei Paesi Membri tra gennaio 2021 e marzo 2022. Tra questi 18 devono affrontare nuove accuse e quattro sono essi stessi migranti. Nell’88 per cento dei casi le persone sono state accusate di «favoreggiamento dell’ingresso, del transito o del soggiorno di migranti». A questi casi si sommano poi le quasi 300 persone che tra agosto e settembre 2021 sono state arrestate per aver aiutato i migranti che attraversavano illegalmente le frontiere tra Bielorussia e Polonia a seguito della crisi afghana.
Anche il rapporto “Accused of solidarity”, publicato da Border violence monitoring network (Bvmn, una rete indipendente di associazioni che monitorano le violazioni dei diritti umani alle frontiere esterne dell’Ue) alla fine di maggio descrive e documenta il processo di «criminalizzazione» dei migranti e delle associazioni e operatori impegnati in questo campo. Elencando e contestualizzando gli episodi di criminalizzazione il rapporto evidenzia il «deterioramento della situazione» per chi offre sostegno ai migranti. Una criminalizzazione che, secondo le rilevazioni di Bvmn, sta diventando «sempre più raffinata perché attuata con metodi e strumenti formalmente legali».
Caso Lucano, l’asso della difesa: «Silenziata un’intercettazione». Disposta la riapertura dell’istruttoria dibattimentale in appello. I legali depositano una lunga conversazione che «avrebbe potuto cambiare le sorti del processo». Simona Musco su Il Dubbio il 7 luglio 2022.
Quattro intercettazioni trascritte male, una totalmente mancante. E poi, un documento che avrebbe smentito un’ipotesi di peculato e che per il Tribunale di Locri non era stato allegato dalla difesa e che invece era lì, come dimostrato dagli atti depositati alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.
Il processo d’appello a Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per la gestione dell’accoglienza nel piccolo paesino dei bronzi, è partito così, con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, disposta dal collegio presieduto da Giancarlo Bianchi. A chiederlo erano stati i difensori di Lucano, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia – con il parere favorevole dei sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari -, che hanno depositato anche un parere pro veritate di 50 pagine stilato dal consulente Antonio Milicia. Un documento che contiene la nuova trascrizione delle intercettazioni – compresa quella «silenziata» durante il processo di primo grado – e corredato da un cd con gli audio di quei dialoghi.
La prova più importante è proprio l’intercettazione finora non presa in considerazione, capace, secondo i legali, di «cambiare le sorti del processo». Si tratta di un’ambientale che cattura la conversazione tra Lucano e un funzionario della prefettura, Salvatore Del Giglio, poi divenuto teste dell’accusa nel corso del processo. Una lunga chiacchierata, durante la quale Del Giglio prima avvisa Lucano che «non è improbabile, che un domani, così come (inc.) se non è già arrivata da voi, verranno la Guardia di Finanza» e poi ammette che «l’amministrazione dello Stato non vuole il racconto della realtà di Riace. Vuole… perché oggi la mission dello Stato… sapete, lo Stato è composto… come qua da voi. C’è l’opposizione». Ma non solo. Del Giglio spiega che per la politica l’integrazione non è un obiettivo. «La mia certezza – sottolinea – è che l’organizzazione fa acqua da tutte le parti. Non ultimo il fatto che dopo lo Sprar non c’è niente. E allora, questo mi fa dedurre che l’obiettivo integrazione è soltanto una parola buttata là».
Finiti i progetti, infatti, il dopo non interessa più a nessuno e «si continua a guardare a questo problema se non come a un fastidioso inconveniente di passaggio. Intanto non è di passaggio. E ce lo dice la realtà. Intanto non è compatibile con l’attuale ordinamento a 360 gradi». Durante la conversazione Lucano riferisce anche le parole pronunciate dal funzionario prefettizio Salvatore Gullì: «Io ho dovuto scrivere perché fa schifo il sistema nazionale dell’accoglienza – gli avrebbe riferito – abbiamo utilizzato questa cosa di Riace per… per dire queste cose». Ma Lucano non ci sta a fare da capro espiatorio per tutti: «Perché deve pagare Riace?», si chiede. Domanda alla quale “risponde” lo stesso Del Giglio: «Siccome io ritengo, dal suo punto di vista della sua relazione… che comunque Riace, al di là delle disfunzioni eventuali o delle anomalie amministrative, quindi della burocrazia, abbia realizzato una realtà evidentemente ancora unica sul territorio non solo nazionale, dovete difenderla. Con qualsiasi conseguenza».
Nel ricorso in appello, Daqua e Pisapia avevano evidenziato che l’obiettivo di Lucano «era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprar: l’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso». E secondo i due legali, «il giudice di prime cure si è preoccupato di trovare “ad ogni costo” il colpevole nella persona di Domenico Lucano, utilizzando oltremodo il compendio intercettivo, proponendone, tuttavia, un’interpretazione macroscopicamente difforme dal suo autentico significato e contrastante con gli inconfutabili elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale».
Intercettazioni inutilizzabili, hanno inoltre contestato, dal momento che si è proceduto alle captazioni «per i reati non autonomamente intercettabili», in contrasto con la famosa e ormai applicata sentenza Cavallo. «Per questo tribunale gli esiti di un’intercettazione, autorizzata per un reato che lo consente, e raccolti nell’ambito di uno stesso procedimento, possono essere utilizzati anche per l’accertamento di tutti gli altri reati emersi e ad esso connessi indipendentemente dalla loro intercettabilità autonoma», hanno evidenziato.
La riqualificazione dell’accusa di abuso d’ufficio in truffa aggravata avrebbe poi consentito, secondo la difesa, «di utilizzare le intercettazioni» e i riferimenti «a fatti suggestivi come quelli relativi alle vicende legate alle Isole Cayman, che oltre a non essere oggetto di alcuna contestazione, si sono rivelate destituite da ogni fondamento». E per quanto riguarda l’accusa di associazione a delinquere, «il giudice, con un procedimento mentale riconducibile alla figura dell’induzione, conclude per la configurazione del reato nonostante i dati probatori ne hanno palesemente escluso la sussistenza». Il processo riprenderà il 26 ottobre prossimo, giorno in cui è prevista la requisitoria dai sostituti procuratori generali Fimiani e Giuttari.
Il caso dell'ex sindaco di Riace. Come hanno incastrato Mimmo Lucano, in Appello riappare la prova che lo scagiona. Angela Stella su Il Riformista l'8 Luglio 2022
La Corte d’appello di Reggio Calabria ha disposto la riapertura dell’istruttoria dibattimentale nel processo, denominato “Xenia”, a carico dell’ex sindaco di Riace Domenico Lucano, di 64 anni, imputato di una serie di reati legati alla gestione dei migranti nel centro della Locride e condannato in primo grado a 13 anni e due mesi, quasi il doppio rispetto alla condanna richiesta dall’accusa. La riapertura dell’istruttoria è stata disposta dal collegio giudicante, con il parere favorevole dei sostituti procuratori generali. Ma ancor più importante è il fatto che è stata ammessa l’acquisizione agli atti del processo, sempre con il parere favorevole della pubblica accusa, della perizia redatta dal consulente della difesa Antonio Milicia che, su incarico dei legali di Lucano – Andrea Daqua e Giuliano Pisapia – , ha trascritto il contenuto di 5 intercettazioni, di cui quattro trascritte male e una mancante del tutto, tirate fuori dalla difesa dalle migliaia di pagine dell’inchiesta.
Proprio quest’ultima sarebbe la prova più importante la quale, secondo i legali, potrebbe «cambiare le sorti del processo» che riprenderà il 26 ottobre. Si tratta di un’ambientale della Guardia di Finanza che cattura una conversazione tra Lucano e un funzionario della prefettura, Salvatore Del Giglio, poi divenuto teste dell’accusa nel corso del processo. Del Giglio era stato mandato a Riace per redigere una relazione sulla gestione dei migranti: «L’amministrazione dello Stato non vuole il racconto della realtà di Riace… oggi la mission dello Stato… sapete che lo Stato è composto… come qua da voi. C’è l’opposizione….». E sempre l’ispettore della prefettura aggiunge: «Io ritengo, dal suo punto di vista della sua relazione… che comunque Riace, al di là delle disfunzioni eventuali o delle anomalie amministrative, quindi della burocrazia, abbia realizzato una realtà evidentemente ancora unica sul territorio nazionale, dovete difenderla. Con qualsiasi conseguenza. Che ve ne fotte, sindaco!».
E allora Mimmo Lucano chiede: «Perché deve pagare Riace?». Ma il funzionario Del Giglio aveva già fornito il suo consiglio: «Voi non potete fare altro che andare avanti, altrimenti fareste il loro gioco. Vi dovete aspettare, perché non è improbabile, che un domani verranno la Guardia di finanza…». E così è stato. Tale intercettazione getterebbe ombre sulla relazione estremamente negativa della Prefettura finita agli atti dell’inchiesta. Per Daqua e Pisapia invece l’obiettivo dell’ex sindaco di Riace «era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprar: l’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso». Nelle motivazioni d’appello i legali rilevano anche che in sentenza c’è stato un «uso smodato delle intercettazioni telefoniche, conferite in motivazione nella loro integralità attraverso la tecnica del copia/incolla».
Intercettazioni che, in molti casi, secondo gli avvocati, sarebbero inutilizzabili dal momento che si è proceduto alle captazioni «per reati non autonomamente intercettabili», in contrasto con la famosa sentenza delle Sezioni Uniti Cavallo che ha sancito il divieto di utilizzazione di intercettazioni disposte in procedimento diverso. Chi è da sempre accanto a Mimmo Lucano è Luigi Manconi, Presidente di A buon diritto: «Ho sempre creduto nella incondizionata buonafede di Mimmo Lucano – ci dice l’ex docente di Sociologia dei fenomeni politici – e sono lieto che in questi documenti vi sia una ulteriore conferma. Aggiungo che, dal momento che nel territorio di Riace l’associazione fondata da Lucano “La città futura” ha ripreso a funzionare offrendo accoglienza ai profughi afghani, nelle prossime settimane insieme a Gad Lerner, Eugenio Mazzarella e Alex Zanotelli lanceremo una nuova sottoscrizione per raccogliere fondi. Invece, quelli raccolti con la precedente sottoscrizione sono circa 380 mila euro e sono destinati a pagare la multa inflitta dal tribunale in attesa della sentenza di appello che, mi auguro, possa annullarla o ridimensionarla». Angela Stella
Giorgia Meloni, lo scandalo la scatena: "30mila euro per Mimmo Lucano. Certa sinistra..." Libero Quotidiano il 7 luglio 2022
Ancora lui. Ancora Mimmo Lucano, il controverso ex sindaco di Riace. Torna al centro delle cronache perché la regione Toscana, con giunta di sinistra, ha deciso di stanziare 30mila euro per un "meeting antirazzista" che si è aperto proprio con Mimmo Lucano in veste di super-ospite.
Una circostanza che ha scatenato Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d'Italia, che passa all'attacco su Twitter: "Regione Toscana regala 30mila€ a un evento antirazzista con Mimmo Lucano, condannato in primo grado con l’accusa di aver sfruttato un sistema di accoglienza per arricchirsi. Certa sinistra proprio non riesce a rispettare le regole e a non vedere l’immigrazione come un business", tuona la leader di FdI.
A corredo delle sue parole un fotomontaggio che recita: "Riecco Mimmo Lucano. La giunta rossa finanzia il meeting antirazzista. Dalla Regione Toscana, 30mila euro per l'evento che ieri sera si è aperto con Mimmo Lucano super ospite". Dunque, si ricorda la posizione, chiarissima, assunta da Fratelli d'Italia: "Gravissimo, buttano così i soldi pubblici".
Mimmo Lucano non si arrende: così vuole "ribaltare" il processo. La Corte d'appello ha disposto la riapertura dell'istruttoria dibattimentale nel processo a carico dell'ex sindaco. Secondo i suoi difensori c'è una nuova intercettazione in grado di "cambiare tutto". Marco Leardi su Il Giornale il 7 luglio 2022.
Mimmo Lucano, adesso, inizia a crederci davvero. La sua speranza è che in tribunale possa cambiare tutto. Che quella condanna a 13 anni e 2 mesi inflittagli in primo grado venga annullata. A riaccendere gli auspici dell'ex sindaco di Riace è stata la decisione della Corte d'appello di riaprire l'istruttoria dibattimentale nel processo a suo carico, con l'acquisizione di un'intercettazione ambientale che - secondo gli avvocati dello stesso Lucano - potrebbe far vacillare l'impianto accusatorio.
Il documento in questione, a quanto si apprende, è stato portato all'attenzione dei magistrati dai difensori dell'ex sindaco, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano. Il Collegio, con il parere favorevole dei sostituti procuratori generali, ha ammesso agli atti del processo anche una perizia fonica redatta dal consulente della difesa Antonio Milicia. Per i legali, quell'audio registrato dalle cimici della finanza e mai depositato agli atti del processo potrebbe cambiare la lettura dei fatti stabilita dalla sentenza di primo grado. Nello specifico, come riporta Repubblica, nell'intercettazione in questione si ascolterebbe uno dei funzionari della prefettura incaricati di un'ispezione a Riace affermare: "L'amministrazione dello Stato non vuole il racconto della realtà di Riace… Oggi la mission dello Stato… Sapete, lo Stato è composto… come qua da voi. C'è l’opposizione".
Parole che, secondo i difensori di "Mimmo Capatosta", sarebbero sufficienti a "invalidare mezzo processo" e getterebbero anche ombre sulla relazione negativa della prefettura finita poi agli atti dell'inchiesta. Nel loro ricorso, gli avvocati hanno inoltre lamentato un "uso abnorme" delle intercettazioni nel corso del primo grado, a dispetto - hanno contestato - di quanto stabilito da recenti sentenze della Cassazione. Intanto, l'ex sindaco di Riace (recentemente accolto come super ospite a un evento organizzato dall'Arci) torna a dirsi innocente e ribadisce: "Non mi interessa una riduzione di pena, sconti o altro. Io voglio l'assoluzione piena".
Il processo riprenderà il 26 ottobre prossimo, giorno in cui i giudici d'appello dovranno valutare eventuali altre richieste da parte dei difensori di Lucano. Per lo stesso giorno, inoltre, è prevista la requisitoria dai sostituti procuratori generali Fimiani e Giuttari. I tempi per arrivare alla sentenza non saranno dunque fulminei ma ora l'ex sindaco di Riace sembra avere più speranze. "Io non sono innocente, non lo sarò mai. Ma andiamo a guardare bene di cosa sarei colpevole. Di cinque carte d'identità che non ho fatto pagare a una famiglia di rifugiati e ho pagato di tasca mia? Che reato è, altruismo?", ha rilanciato, come scrive Repubblica.
I giudici valuteranno ora i nuovi elementi ammessi a processo, mentre l'accusa conta di far valere nuovamente le proprie ragioni. Nel procedimento, insieme a Lucano, sono imputate altre 17 persone coinvolte, a vario titolo, nell'inchiesta della procura di Locri, condotta con il supporto investigativo della Guardia di finanza, che nell'ottobre del 2018 portò anche alla disposizione degli arresti domiciliari di Lucano.
Il giudice che dovrà decidere su Lucano? Al telefono gli diceva: "Siamo tutti con te". Felice Manti e Antonino Monteleone il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.
La Tarzia, chiamata a presiedere l'Appello, è amica dell'ex sindaco.
Non c'è solo il libro di Matteo Renzi a riaccendere i riflettori sulle vicende giudiziarie dell'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e sugli «aiutini» conclamati di una parte della magistratura più rossa. Aiutini che però non l'hanno salvato da una pesantissima condanna in primo grado a 13 anni e due mesi di detenzione e 700mila euro di risarcimenti per colpa di qualche leggerezza amministrativa e contabile sui soldi che arrivavano dal Viminale, gestiti «con una logica predatoria», scrivono i giudici nelle motivazioni, da persone «sempre più asservite ai loro appetiti di natura personale, strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell'accoglienza». Una sentenza durissima, quella scritta dallo stesso presidente del Tribunale Fulvio Accurso, che i legali di Lucano confidano di cancellare in appello.
Il procedimento sarebbe già incardinato, un po' in anticipo rispetto alla media italiana, davanti alla seconda sezione penale della Corte d'Appello di Reggio Calabria, presieduta dal giudice Olga Tarzia. La questione da dirimere, secondo la difesa di Lucano, è che tutto ciò che faceva l'ex sindaco di Riace era nel solo interesse dei migranti, non certo per arricchirsi né per fare politica, insomma uno scenario assai distante da quello che il Tribunale di Locri ha descritto nelle motivazioni della condanna.
Nasce tutto da alcune ispezioni della Prefettura di Reggio Calabria. Non mancano gli elogi per la capacità di offrire un rifugio ai tanti richiedenti asilo ospitati. Ma alcuni immobili utilizzati non avrebbero rispettato i requisiti di legge. Pochi, tra i richiedenti asilo, venivano effettivamente coinvolti nei progetti per l'integrazione (sedie vuote ai corsi di italiano) e in quelli per l'erogazione dell'assistenza legale. Il prefetto di allora, Michele Di Bari, accusato di essere «leghista» e di simpatie salviniane, manda le relazioni dei suoi ispettori sul tavolo della procura di Locri che comincia a indagare. Mimmo Lucano, nel frattempo, era ben consapevole dei riflessi positivi del «Modello Riace» in grado di riscuotere consensi sia in Prefettura che tra la magistratura. C'era qualcuno che lo aiutava, attraverso preziosi consigli, su come difendere l'applicazione concreta del sistema di accoglienza targato Mimmo Lucano. Si tratta di Emilio Sirianni, anima di Magistratura democratica in Calabria - regione che esprime il presidente della storica corrente, il pm anti 'ndrangheta Stefano Musolino - nonché autore di articoli sulla giustizia per il magazine online QuestioneGiustizia diretto dall'ex pm Nello Rossi.
Per i pm di Locri, Sirianni sarebbe stato più di un amico, quasi un mentore. Avrebbe, infatti, «redatto controdeduzioni in favore di Lucano» pur senza sfociare in modalità «atte a inquinare lo scenario probatorio», neppure quando invitava Lucano a cancellare alcune mail.
Certo, Sirianni non sarebbe l'unica toga a manifestargli sostegno: in una conversazione captata Lucano si vanta «dell'appoggio di una parte della magistratura». E nella sentenza che lo condanna si parla anche dei rapporti proprio con Olga Tarzia, da dicembre 2017 presidente di sezione della Corte d'Appello di Reggio Calabria. Che a Lucano avrebbe detto, secondo la versione dell'ex sindaco: «Siamo con voi... C'è stata la riunione di tutti i magistrati democratici. Ci dovete dire come evolve questa situazione con la Prefettura e prenderemo una posizione».
Se fosse confermato che quella presieduta dalla dottoressa Olga Tarzia sarà la sezione che giudicherà Mimmo Lucano, siamo sicuri che sia la più idonea per giudicarlo? Esistono motivi di opportunità che dovrebbero spingere il giudice a riconsiderare l'incarico?
Mimmo Lucano ricorre in appello contro la condanna a 13 anni: punta all’assoluzione. VANESSA RICCIARDI su Il Domani l'11 febbraio 2022
Per gli avvocati Pisapia e Daqua le motivazioni della sentenza rese note lo scorso dicembre sono «basate su suggestioni, congetture e logiche del mero sospetto», sono convinti dell’errore del giudice
L’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano ha presentato ricorso in appello contro la condanna di primo grado a 13 anni e due mesi, i suoi avvocati chiedono l’assoluzione. Per i giudici del Tribunale di Locri, Lucano è colpevole di associazione a delinquere e peculato commessi nella gestione dell’accoglienza ai migranti, progetti però lodati in tutto il mondo e che gli stessi giudici hanno descritto come figli di un’utopia.
Per gli avvocati difensori Giuliano Pisapia e Andrea Daqua la sentenza è abnorme e contraddittoria: «Oggi abbiamo presentato appello avverso la sentenza di condanna». Pisapia e Daqua non hanno dubbi che le loro motivazioni sono abbastanza forti da portare al ribaltamento del giudizio di primo grado: «La sentenza, lo avevano già rilevato, è apparsa fin dal primo momento abnorme perché in evidente contrasto con le risultanze processuali. Dopo l’attenta lettura delle motivazioni basate su suggestioni, congetture e logiche del mero sospetto, siamo ancora più convinti dell’errore commesso dal giudice di primo grado».
L’errore, proseguono, «inficia l’intero iter motivazionale seguito dal Tribunale il quale giunge alla condanna non solo utilizzando le intercettazioni che, secondo quando stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione, sono inutilizzabili ma interpretandole in maniera difforme dal loro effettivo significato».
Inoltre le prove portate avanti dai giudici, commentano, non sono complete: «La motivazione, poi, è risultata assolutamente carente rispetto alla corposa documentazione da noi prodotta». Infine «abbiamo contrastato, nel merito, i singoli capi della sentenza e le argomentazioni (contraddittorie) del Tribunale, a partire da quelle sui reati più gravi: associazione per delinquere e peculato».
Adesso aspettano: «Siamo convinti di aver fornito alla Corte di Appello argomentazioni sufficienti per la riforma della sentenza impugnata e la conseguente assoluzione di Mimmo Lucano».
LA SENTENZA DEL TRIBUNALE
Nella motivazione si leggeva che il Tribunale di Locri presieduto dal giudice Fulvio Accurso confermava la bontà del sistema di accoglienza ai migranti di Lucano: «È senz’altro emersa una pura passione» per quel «mondo nuovo che lui ha saputo creare», al punto che i giudici hanno fatto riferimento alla Città del Sole di Tommaso Campanella, un luogo dove vigono felicità e armonia.
Il punto cruciale delle motivazioni della condanna sarebbe stato «il bieco calcolo politico». I suoi collaboratori che gli avrebbero portato pacchetti di voti per i giudici si sono mossi «nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi».
Il modello Riace, ha scritto Enrico Fierro su queste pagine, però ha rivitalizzato un paese spopolato dall’emigrazione, spalancato le porte di case abbandonate da decenni e fatto rivivere il borgo antico, ha riaperto scuola e asili, riportato la vita nei vicoli, consentito a piccole economie di reggere.
Infine la conferma che Lucano non si sia arricchito è arrivata dalle stesse carte: «Nulla importa che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca», spiegavano i giudici nelle motivazioni della sentenza, «ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza». Motivazioni che per gli avvocati nulla hanno a che fare con la rilevanza penale.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
«Il Tribunale cercava in Lucano il colpevole ad ogni costo…». I difensori dell'ex sindaco di Riace contestano le motivazioni che hanno portato il tribunale di Locri ad infliggere all'imputato una condanna pesantissima. Criticata la condotta dei giudici sull'utilizzabilità delle intercettazioni. Antonio Alizzi su Il Dubbio il 15 febbraio 2022.
Un appello lungo e articolato su più questioni giurisprudenziali, quello depositato presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria dai legali di fiducia di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, condannato in primo grado dal tribunale di Locri a oltre 13 anni di carcere. Gli avvocati Andrea Giuseppe Daqua e Giuliano Pisapia hanno presentato ricorso avverso il provvedimento firmato dal collegio giudicante presieduto da Fulvio Accurso, che ha confermato il quadro indiziario emerso dalle indagini coordinate dalla procura di Locri e condotte dalla Guardia di Finanza sul cosiddetto “Sistema Riace”, legato essenzialmente all’accoglienza dei migranti nel piccolo Comune in provincia di Reggio Calabria.
Caso Lucano, la difesa smonta la sentenza di primo grado
Nel documento a firma dei due penalisti, tuttavia, si evidenziano le falle investigative e soprattutto le contraddizioni nelle motivazioni che hanno portato il tribunale di Locri ad infliggere una pesantissima condanna contro Mimmo Lucano. «La sentenza si risolve in una sintetica ricognizione di fatti e di condotte, corredata da affermazioni apodittiche, assertive e da circostanze che confermano il maturato convincimento che il giudicante sia incorso in un palese errore prospettico, il quale ha condizionato pesantemente il presente giudizio».
I difensori di Mimmo Lucano vanno giù duro: «Il giudice di prime cure si è preoccupato di trovare “ad ogni costo” il colpevole nella persona di Domenico Lucano, utilizzando oltremodo il compendio intercettivo proponendone, tuttavia, un’interpretazione macroscopicamente difforme dal suo autentico significato e contrastante con gli inconfutabili elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale».
Le intercettazioni inutilizzabili
Secondo Daqua e Pisapia, inoltre, «l’intera sentenza è un esempio classico di “eccesso di motivazione”, da cui da tempo la dottrina denuncia l’incidenza nefasta sul sistema giudizio». Nella lunga memoria difensiva è citata anche la parte dedicata all’inutilizzabilità delle intercettazioni, tema esposto nei vari step processuali, secondo cui «ha errato il giudice di prime cure nella parte in cui, rigettando le doglianze difensive» sulle captazioni «per i reati non autonomamente intercettabili», si è posto in contrasto con la famosa e ormai applicata sentenza Cavallo ( n. 51/ 2020 Sezioni Unite della Cassazione). Ciò ha posto dunque in netto contrasto il tribunale di Locri con la giurisprudenza più alta, affermando che «per questo tribunale gli esiti di un’intercettazione, autorizzata per un reato che lo consente, e raccolti nell’ambito di uno stesso procedimento, possono essere utilizzati anche per l’accertamento di tutti gli altri reati emersi e ad esso connessi indipendentemente dalla loro intercettabilità autonoma».
Abuso d’ufficio e associazione a delinquere
Infine, la questione riguardante l’abuso d’ufficio riqualificato in truffa aggravata, che (secondo la difesa) «ha consentito al tribunale di Locri di utilizzare le intercettazioni» e i riferimenti «a fatti suggestivi come quelli relativi alle vicende legate alle Isole Cayman, che oltre a non essere oggetto di alcuna contestazione, si sono rivelate destituite da ogni fondamento». In conclusione, la difesa scrive, in riferimento all’accusa di associazione a delinquere, che «il giudice con un procedimento mentale riconducibile alla figura dell’induzione, conclude per la configurazione del reato nonostante i dati probatori ne hanno palesemente escluso la sussistenza».
Emilio Sirianni, le rivelazioni di Palamara: "Gratteri fascista, Minniti parac***". Gli insulti della toga che difendeva Mimmo Lucano. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano l'8 febbraio 2022
Pubblichiamo di seguito il capitolo "Un magistrato per amico - Mimmo Lucano e il giudice indagato perché ostacolava i colleghi" del nuovo libro intervista di Alessandro Sallusti all'ex magistrato Luca Palamara. Il volume Lobby & logge, edito da Rizzoli, è da oggi in libreria.
Proviamo a fare un punto. Abbiamo visto fin qui che le accuse contro i magistrati coinvolti nella lobby siciliana di Antonello Montante sono state archiviate sia nel procedimento penale che in quello disciplinare del Csm, che quelle a proposito della gestione del falso pentito Scarantino sulla strage di via D'Amelio sono state archiviate sul piano penale e neppure portate di fronte dal Csm, che i magistrati chiamati in causa dal faccendiere Amara per la loggia Ungheria, che si sappia, a ora non sono neppure indagati. È come se esistessero due giustizie, due codici penali, due metri di giudizio: uno vale per tutti meno che per i magistrati, l'altro solo per i magistrati. Andreotti disse: «Quando ho dovuto affrontare il mio processo ho capito perché la stupenda scritta "La legge è uguale per tutti" è alle spalle e non davanti agli occhi del giudice».
«Non mi trascini su questo terreno, sono pur sempre un magistrato - ufficialmente ex ma non per me - e oggi pure imputato. Però se vuole possiamo affrontare da dietro le quinte un'altra storia ricca di anomalie del magico mondo che ho frequentato e per anni diretto».
Siamo qui per questo.
«Ha presente il caso di Mimmo Lucano?»
Domenico Lucano detto Mimmo, perito chimico, tre volte sindaco - la prima nel 2004 - di Riace, piccolo comune della costa ionica calabrese, 1.500 abitanti più 450 tra rifugiati e immigrati che lì si sono stabiliti grazie al suo innovativo modello di accoglienza che lo ha reso un eroe della sinistra e famoso nel mondo. Modello che però non ha convinto i magistrati calabresi: nell'ottobre del 2017 è indagato per truffa nella gestione dei fondi europei, concussione e abuso d'ufficio; un anno dopo viene arrestato, ai domiciliari, per favoreggiamento dell'immigrazione attraverso anche matrimoni combinati e rilascio di carte d'identità a immigrati privi di permesso di soggiorno; nell'aprile del 2019 viene rinviato a giudizio e il 30 settembre 2021 il tribunale di Locri lo condanna a tredici anni di carcere - il doppio della pena chiesta dal pm - per associazione a delinquere, peculato, truffa, falso e abuso d'ufficio.
«Perfetto. Ma questa è storia nota, poi ne parleremo. Quella su cui voglio ragionare ora è un'altra, semisconosciuta in generale e sconosciuta in alcuni importanti dettagli che i mezzi di informazione hanno snobbato - probabilmente non a caso -, al massimo diluito dentro il clamore della sentenza shock. Parlo della storia del giudice Emilio Sirianni. Emilio Sirianni, giudice della Corte di Appello di Catanzaro. Proprio lui, è uno dei duri e puri di Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura. Di più, è un falco che sulle chat interne guida la rivolta contro Giuseppe Cascini, membro del Csm e già leader di Magistratura democratica che con me ha condiviso per anni il sistema delle correnti».
Dalle chat estratte del suo telefonino anche gli accrediti gratuiti - per il figlio - della tribuna vip della Roma all'Olimpico e la raccomandazione per il fratello minore, Francesco, anche lui magistrato.
«A Sirianni tutto questo non va giù e inizia a martellare: Cascini, ma tu facevi le stesse cose di Palamara? Ma tu eri sodale di Palamara? E via dicendo, un vero processo pubblico. Alla fine Cascini sbotta: «Tu sei come Porro e Amadori (Nicola Porro, conduttore di "Quarta Repubblica" su Rete 4, e Giacomo Amadori, cronista giudiziario della "Verità", N.d.R.) che mettono insieme il contenuto delle chat di Palamara in modo strumentale. Ma alla fine si dimette da Md lanciando un avvertimento: vorrà dire che mi dovrò astenere dal valutare il procedimento aperto al Csm su Sirianni».
Un disciplinare? Per quali fatti?
«Sirianni aveva un grosso problema, la sua amicizia con Lucano. Più che una amicizia, durante tutta l'inchiesta era diventato il suo consulente legale e politico».
Mi faccia capire. Nel tribunale di Locri c'erano dei magistrati che indagavano su Lucano e a Catanzaro un magistrato che lo difendeva?
«Non lo dico io, è tutto agli atti dell'inchiesta aperta su di lui dalla procura di Locri. A Lucano Sirianni ha redatto controdeduzioni e note difensive, suggerito il tenore delle dichiarazioni da rendere alla stampa. In una occasione gli ha scritto la replica da dare a una dichiarazione del procuratore di Locri, poi gli raccomanda di cancellare subito la mail. Ma fa ancora di più. Lo mette in guardia dal parlare al telefono, un avvertimento indiretto che lo stanno intercettando, e coinvolge in questa linea di difensore occulto anche Roberto Lucisano, suo compagno di corrente e presidente della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria, uno che in teoria potrebbe essere un futuro giudice di Lucano. O almeno così gli fa credere in alcune telefonate intercettate: "Ho parlato con Lucisano, il quale mi dice che la procura di Locri sta indagando ma che su questo Magistratura democratica farà una crociata"».
A occhio ce ne è abbastanza per rimuoverlo dal suo incarico.
«Qui dobbiamo stare molto attenti a misurare le parole, o meglio a trattenerle. Per cui rimaniamo ai fatti. E i fatti dicono che la procura di Locri ha archiviato la pratica su Sirianni pur mettendo nero su bianco che "il comportamento mantenuto è stato poco consono a una persona appartenente all'ordine giudiziario, peraltro consapevole di parlare con una persona indagata"».
Non ci credo. E se devo crederci allora questo doveva valere anche per lei che parlava con l'indagato Centofanti.
«C'e una differenza abissale. Sirianni è un leader di Magistratura democratica, paladino della sinistra giudiziaria, amico e consulente dell'icona dell'accoglienza che tanto piace alla gente che piace».
Vabbè, però sul piano disciplinare il Csm avrà fatto il suo dovere.
«Assolutamente sì, lo ha prosciolto. La commissione disciplinare, il 10 luglio 2020, sentenzia che - la faccio breve - i fatti a lui imputati sono avvenuti nel privato e non in pubblico, quindi non c'e discredito per la magistratura».
Sarà, però in questa storia, e nella sentenza del Csm, mancano due tasselli.
«Questa volta il curioso sono io».
Le leggo delle intercettazioni tra Sirianni e Lucano allegate agli atti dell'inchiesta ma mai pubblicati. La prima è all'indomani di una puntata di DiMartedì in cui Giovanni Floris pone a Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, dubbi sulla fondatezza dell'inchiesta su Lucano e lui risponde laconico: «Sarei cauto, bisogna leggere bene le carte». Al telefono, Lucano sembra preoccupato delle parole di Gratteri, ma Sirianni lo rassicura: «Lascialo stare, è un fascista di merda ma soprattutto un mediocre, un mediocre e ignorante». Ce ne è anche per l'allora ministro degli Interni Marco Minniti, che in Calabria è una autorità assoluta. Per la sua politica rigida sull'immigrazione viene definito da Sirianni «uno pseudo comunista burocrate che ha leccato il c**o a D'Alema per tutta la vita».
«Strano che l'integrale di queste intercettazioni non sia mai uscito sui giornali, e ancora più strano che non siano mai arrivate al Csm, e non penso che sia stato un disguido delle poste. Penso che quelle frasi gravemente scorrette nei confronti di importanti magistrati e politici avrebbero creato dei grattacapi non solo a lui ma a tutta la sinistra giudiziaria. Oltre che ai tanti fan di sinistra di Lucano, quindi meglio era, ed è, lasciare quei verbali nel cassetto delle procure e dei giornali».
Ma esiste un'altra intercettazione, il secondo tassello di cui parlavo, che è caduta nell'oblio. È quella in cui il magistrato Sirianni ammette che chi è convintamente magistrato di Magistratura democratica non deve applicare la legge, ma interpretarla. Eccola integrale. Dice Sirianni a Lucano: «Io parto da un altro presupposto, io non credo che siamo tutti in malafede, i magistrati. La realtà è un'altra: purtroppo questi giovani magistrati sono dei ragazzi che sono cresciuti con la televisione di Berlusconi, non hanno una conoscenza della realtà sociale, non hanno una empatia politica con quello che gli succede attorno. Specialmente quelli che vengono in Calabria non sanno un cazzo della Calabria, quindi spesso e volentieri la maggior parte rimane così. Quelli che cominciano a capire quello che gli succede intorno ci mettono tempo. Questo è il sistema purtroppo. Queste sono persone che hanno studiato e che hanno vinto un concorso. Su cento di loro, uno forse ha la sensibilità sociale e politica. Tutti gli altri sono ragazzi di famiglie benestanti che hanno studiato. C'è una scarsa [...] modello di magistrato, cioè esattamente quello su cui è nata Magistratura democratica. Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte, siamo dalla parte, siamo dalla parte del più debole, perché questo è scritto nella Costituzione, non perché questa è una rivoluzione».
«In questa intercettazione - che utilizza un linguaggio che, posso immaginare, un insigne giurista come Zagrebelsky avrebbe definito lingua sporca -, c'è tutto quello che ho vissuto nei miei undici anni alla guida del Sistema che ha governato la politica giudiziaria. L'egemonia culturale di sinistra che sovrastala Costituzione, la partigianeria che interpreta la legge. Per me Sirianni non è una eccezione, ma rappresenta il comune sentire di una parte molto importante della magistratura. È la norma. È il motivo per cui quando il procuratore di Viterbo, un collega sardo - come abbiamo raccontato nel Sistema -, mi interpella molto scettico sulla posizione particolarmente dura dell'Associazione nazionale magistrati e del Csm nei confronti di Salvini che da ministro degli Interni stava bloccando i nostri porti alle navi cariche di immigrati, io gli rispondo: "Hai ragione, ma bisogna fare così". Io non volevo dare un giudizio, nel mio ruolo di leader per stare in piedi dovevo assecondare la pancia della magistratura che era, e ancora e, quella esplicitata da Sirianni nella intercettazione che mi ha letto».
Vabbè, ma allora vale tutto.
«Non siamo di fronte a dei pazzi, a delle mele marce. No, sull'immigrazione, e non solo su quello, ma certo sull'immigrazione c'è un indirizzo politico giudiziario che ha ben espresso Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica: "È semplice, gli scafisti" disse in una intervista del 5 agosto 2017 al Manifesto, "sono l'unico vettore al quale possono affidarsi in mancanza di canali legali di ingresso. Ma non sono gli scafisti che li trascinano in mare, sono loro che fuggono da immani tragedie"».
Per la verità Riccardo De Vito è più famoso per altre storie. È il magistrato che nel 2020, interpretando in maniera estensiva una circolare del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sull'emergenza Covid, ordinò la scarcerazione del boss Pasquale Zagaria, suscitando un vespaio di polemiche, e che nel 2021 fu trasferito dal Csm con procedura d'urgenza dalla sua sede a Nuoro, per incompatibilità ambientale, dopo l'intercettazione di una sua telefonata con una avvocata locale che era sotto inchiesta con tanto di trojan nel telefonino - intercettazione di cui, essendoci in mezzo un magistrato, non è mai stato reso noto il contenuto.
«Tutto vero, però torniamo al punto, quello di Lucano, che non riguarda solo i magistrati ma anche il suo mondo. Glielo dico chiaro. Io mi auguro che Mimmo Lucano riesca a chiarire nei successivi gradi di giudizio la sua posizione processuale, e pur stimando quei giudici di Locri credo che infliggere una condanna a tredici anni sia eccessivo, una enormità. Anche io credo che tredici anni a Lucano siano tanti. O meglio, pur nel pieno rispetto delle motivazioni dei giudici di Locri, depositate il 17 dicembre del 2021, non mi spiego una pena così alta viste le imputazioni contestate e il contesto nel quale le condotte dello stesso Lucano si sono verificate».
E quindi chi gliel'ha tirata così dura a Lucano? Può essere che una condanna così pesante sia la conseguenza di un braccio di ferro tra correnti della magistratura?
«Mi rifaccio alla mia esperienza: il tema dell'immigrazione implica inevitabilmente delle opzioni politiche da parte di chi e chiamato a giudicare, ma certo l'interferenza di Sirianni può essere stato l'innesco».
In ogni caso, per lei è una sentenza inquinata.
«Per rimanere dalle sue parti, Sallusti, lo ha sostenuto anche Vittorio Feltri, uno intellettualmente onesto. Io non dico che è una sentenza inquinata ma una sentenza che ha fatto molto discutere per l'enormità della pena. Ma è una enormità non inferiore ai 750 milioni circa di risarcimento a De Benedetti che il giudice Mesiano del tribunale di Milano ha inflitto a Silvio Berlusconi nella causa del lodo Mondadori. Come già le ho detto nella conversazione all'origine del libro precedente, quella sentenza venne emessa quando ero presidente dell'Anm e di quella enormità si discusse vivacemente all'interno della magistratura. Sia sotto il profilo del calcolo del danno - tanto è vero che quella cifra venne poi ridotta nel giudizio di appello -, che sotto quello della mancata revocazione della sentenza della corte d'appello di Roma del 24 gennaio 1991, che annullava il lodo in questione. Decisione rispetto alla quale, peraltro, gli altri due giudici della corte d'appello componenti il collegio avevano confermato di non aver subito alcuna interferenza. Solo che Berlusconi, a parte lei e pochi altri, è stato lasciato solo, anzi c'è stata un'esultanza generale, mentre dopo la condanna a Lucano sono scesi in campo intellettuali e giornalisti solitamente posizionati senza se e senza ma al fianco della magistratura. Anche l'enormità, l'anomalia di una sentenza dipende da chi è la vittima».
Il 2 ottobre 2021, dopo la sentenza che condanna a tredici anni Mimmo Lucano, Eugenio Mazzarella, filosofo e poeta nonché deputato del Pd, lancia un appello - e una raccolta di fondi - in difesa dell'ex sindaco di Riace e contro la sentenza. Appello sottoscritto da decine di intellettuali, scrittori e giornalisti di sinistra.
«Tutta gente che conosco bene, erano i miei migliori alleati quando si trattava di impedire la riforma della giustizia e appoggiare i processi sommari alle abitudini private di Berlusconi. Io so come vengono organizzate queste cose, ho fatto parte di quel mondo ed ero anche riverito, e non importa se oggimoltissimi hanno preso ipocritamente le distanze. Li ho usati, mi hanno usato, fanno i rivoluzionari ma sono parte fondamentale del Sistema che abbiamo portato allo scoperto. Un sistema in cui ognuno gioca la sua parte. Anche persone che, come racconteremo adesso, non ti aspetteresti mai di incontrare lì».
"Una serie con Netflix". Lucano vuole il buonismo in tv. Marco Leardi il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Mimmo Lucano racconterà il modello Riace in una serie Netflix. Condannato a 13 anni e 2 mesi di galera, l'ex sindaco prepara la riabilitazione televisiva. E ammette: "Ho fatto delle carte d'identità false".
Ciak si gira: per Mimmo Lucano, il business continua. La narrazione buonista non si ferma e anzi, diventa serie. La condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione a delinquere, abuso d'ufficio, truffa e peculato non ha fermato l'ex sindaco di Riace, che ora si appresta a trasformare la propria vicenda in una serie tv. Osannato dalla sinistra per il suo modello di accoglienza ma smascherato e condannato dai giudici per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, l'uomo dei migranti prepara la propria riabilitazione pubblica (anche) attraverso il piccolo schermo. Come riporta la Stampa, l'ex politico calabrese girerà infatti una serie autobiografica per Netflix.
Così, la multinazionale dello streaming diventerà la piattaforma ideale per raccontare Lucano e il "modello Riace" dal punto di vista di chi quel paradigma lo aveva ideato e cesellato nei minimi dettagli, al punto da renderlo un intoccabile totem dell'immigrazionismo. Chi criticava "Mimmo o curdu", o anche solo dubitava del suo progetto, veniva tacciato di xenofobia e di mancata sensibilità verso i temi dell'accoglienza. Ammantanto da un'aura di (apparente) perfezione, il "villaggio globale" di Lucano veniva raccontato come un esempio politico e sociale a cui fare riferimento. Quello stesso approccio ritroverà probabilmente spazio nella produzione televisiva che vedrà l'ex sindaco coinvolto in prima persona.
Nel frattempo, però, quel sistema è crollato sotto il peso delle inchieste e degli accertamenti che hanno mostrato tutta un'altra verità. Secondo i giudici, infatti, Lucano aveva strumentalizzato il sistema dell'accoglienza a beneficio della sua immagine politica. I migranti, in alcuni frangenti, "apparivano come l'ultimo dei suoi pensieri", si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado. Ora, mentre si mette a fuoco la versione Netflix della vicenda, l'ex sindaco lamenta un accanimento giudiziario nei suoi confronti. "Quattordici anni si danno per omicidio. Io sono incensurato. Stanno infierendo su una persona innocente", dice alla Stampa. Poi però ammette candidamente che nel sistema Riace l'illegalità non mancava.
"Ho fatto delle carte d'identità false, questo sì. Pagandole a mie spese...", riconosce. Chissà se la serie tv racconterà anche questo. La storia di Lucano era già diventata una fiction commissionata dalla Rai e interpretata da Beppe Fiorello; la produzione televisiva che elogiava il modello Riace non ha però mai visto la luce. Dopo una serie di rimandi, infatti, la messa in onda della fiction era stata congelata in attesa che si facesse chiarezza sulle pendenze giudiziarie dell'ex sindaco. Ora, "Mimmo o curtu" ci riprova su Netflix e intanto assicura: "Se esiste Dio, ritornerò a fare il sindaco".
Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente co
Niccolò Zancan per “la Stampa” il 6 febbraio 2022.
«La vita è una volata di vento. Alla fine rimangono solo le scelte che hai fatto. Io non sono uno della Lega, non lo sarò mai». Mimmo Lucano è vivo, innanzitutto. Questo c'è da dire. Non è rimasto schiacciato sotto il peso della condanna a 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione a delinquere, abuso d'ufficio, truffa e peculato. Abita sempre a Riace nella solita stanza, con un letto singolo e una stufetta.
Presto si comprerà due capre e girerà una serie autobiografica per Netflix, ogni giorno coltiva lo stesso sogno di rivalsa: «Se esiste Dio, ritornerò a fare il sindaco di questo paese. Il processo d'appello dovrebbe concludersi nel giro di un anno e mezzo, fra due anni voglio ricandidarmi». Ha cataste di carte processuali sui tavoli e avvocati che lo raggiungono per difenderlo gratuitamente, ha diffidenze e sbalzi d'umore.
Alle sei di sera ordina una camomilla nell'unico bar davanti al municipio: «I nervi. Non dormo tanto bene». La sua utopia era diventata realtà. Ben visibile. Sulla mappa d'Italia. Riace: «Il paese dell'accoglienza». Ristrutturare, riparare, dare cittadinanza. Usare i soldi dei progetti Sprar per piantare semi di vita vera, aprire negozi e laboratori. Ne aveva scritto anche il New York Times, e persino Wim Wenders era arrivato per girare nel borgo chiamato «Villaggio globale».
L'inchiesta giudiziaria, con la sentenza di primo grado del 30 settembre 2021, ha cancellato tutto questo. Il pm aveva chiesto una condanna a 7 anni, il giudice ha raddoppiato la pena. Nelle notti agitate, sono tre i fatti che Mimmo Lucano mette in fila con la rabbia nel cuore. Primo. «Un piccolo commerciante mi ha accusato di concussione il 19 dicembre 2016. Un piccolo commerciante vicino a ambienti mafiosi, una persona violenta, che poi ha sconfessato se stesso e ritirato le accuse.
Ma quella denuncia completamente falsa ha innescato l'inchiesta, assieme all'ispezione della prefettura». Secondo fatto. «Sono stato io stesso a sollecitare un'ispezione urgente e non a campione a Riace. Il documento con la mia firma è del 4 ottobre 2016. E come incomincia la relazione degli ispettori? Con questa frase: "Si ritiene doveroso evidenziare in via preliminare gli aspetti positivi del modello Riace. Il progetto assicura la necessaria accoglienza e assistenza nel pieno rispetto dei diritti fondamentali. È stata constatata una realtà di pacifica convivenza"».
C'è scritto proprio così nella premessa dell'ispezione che poi, alla fine, ha sostenuto l'accusa e portato alla condanna. Segue il terzo fatto che tormenta Mimmo Lucano. «A settembre del 2016 alla prefettura di Reggio Calabria arriva Michele Di Bari. Guarda caso, uno che fa carriera. Matteo Salvini lo nomina capo dipartimento, è un uomo di fiducia del potere.
Che pochi giorni fa si è dovuto dimettere, quando la moglie è stata indagata per caporalato. È il prefetto Di Bari, se ha il coraggio, che dovrebbe dire perché a Riace si è comportato in un certo modo. È lui che deve spiegare perché nella baraccopoli di San Ferdinando, dove era responsabile legale, ha sempre lasciato condizioni disumane. Lui che ha autorizzato la manifestazione di Forza Nuova. È l'ex prefetto Di Bari che potrebbe spiegare molte cose, il suo odio contro di me».
A Riace sono rimasti pochi residenti: 350 dove se ne contavano 1000. Restano i murales del villaggio globale, il «Princess Africa Shop». Restano gli asini che servivano per la raccolta dei rifiuti, appalto per cui il sindaco è stato condannato. «L'affidamento diretto era l'unico modo per sottrarre la gestione dei rifiuti ai soliti noti», dice Lucano. Nelle motivazioni della condanna firmate dal presidente del Tribunale di Locri, Fulvio Accurso, c'è anche l'accusa di aver «strumentalizzato il sistema dell'accoglienza» a beneficio della sua immagine politica.
«Io? Potevo farmi eleggere al Parlamento Europeo, in molti mi hanno offerto la candidatura. Sono nullatenente, a parte una vecchia Giulietta. Vivevo con l'indennità da sindaco da 1050 euro al mese, la mia era una missione. Quattordici anni si danno per omicidio. Io sono incensurato. Stanno infierendo su una persona innocente». «Perché?», gli domandiamo per l'ennesima volta.
«Non riesco a volere male al giudice che mi ha condannato, ci siamo guardati negli occhi. Ma so che Riace era un piccolo paese di persone povere che dimostrava che l'accoglienza era una cosa possibile. Era l'incubo di Salvini. Da Riace arrivava un messaggio pericoloso». Non crede di aver fatto pasticci? «No. Il processo nel merito non c'è stato. Ho fatto delle carte d'identità false, questo sì. Pagandole a mie spese, per non buttare in mezzo alla strada delle persone. L'unica cosa per cui mi sento in colpa è la mia famiglia. Sono andati via: ho sbagliato nei confronti dei mie figli e di mia moglie».
In paese tutti salutano «Mimmo». Mimmo Lucano non ha alcuna intenzione di darsi per vinto. Aprirà presto «Radio Aut Riace» e sta risistemando una dimora storica per trasformarla in museo. Ma adesso è l'ora di dare il mangime alle galline. Bisogna salire alla quercia, l'albero dove i parenti aspettavano i reduci dalla guerra. A metà del sentiero arriva un messaggio di sua figlia con un cuore rosso, e dal telefono dell'ex sindaco di Riace si mette a suonare una canzone di Francesco Guccini: «La casa sul confine della sera, oscura e silenziosa se ne sta».
Il "metodo" delle Ong: come nasce il pressing che fa crescere gli sbarchi. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Le navi delle Organizzazioni Non Governative anche nel 2021 hanno confermato la loro piena attività in mare. Decisivo il loro pressing nei porti italiani per far salire il numero degli arrivati. Occorre risalire al 2017 per vedere simili scenari sull'immigrazione per gli sbarchi in Italia. Anche se si è ben lontani per fortuna dal valore assoluto di quell'anno record, nel 2021 si è comunque osservato un incremento di oltre il 50% di migranti sbarcati rispetto all'anno precedente. Importante in tal senso il ruolo delle Ong. Le navi umanitarie hanno incrementato la loro attività, portando maggiore pressione sul governo.
Il pressing delle Ong
Qual è stato il ruolo delle Ong nell’ambito del fenomeno migratorio targato 2021? È questa una delle domande alle quali non si può non rispondere quando si parla di immigrazione con riferimento alle coste italiane. Nel corso dell’anno che sta per concludersi il ruolo delle Organizzazioni Non Governative è stato infatti preponderante per la crescita dei numeri relativi agli extracomunitari ospitati dalla nostra Nazione. La trama di un film visto e rivisto che si conosce a memoria e che stanca. Una sceneggiatura ormai obsoleta, ma che si presenta sempre puntuale come da “palinsesto”. Così hanno agito le Ong nel 2021. In navigazione vicino le coste libiche, luogo in cui parte la stragrande maggioranza dei migranti, hanno caricato sulle loro imbarcazioni gli stranieri e, stazionando vicino le coste italiane, hanno chiesto un porto sicuro al nostro governo. Il pressing esercitato con mera pretesa, ha escluso altri destinatari: nessun altro Paese è stato chiamato in causa per ottenere accesso sulla terraferma come se il nostro fosse l’unico europeo deputato all’accoglienza. Gli oltre67mila migranti arrivati in Italia quest’anno sono decisamente anche il frutto dell’attività delle Ong.
Il ruolo delle Ong
Quella cui si è assistiti in questo Natale è stata una vera e propria escalation di richieste. Le Ong hanno agito come pioggia battente, non hanno lasciato respiro con le loro pretese scaricando i migranti nei nostri porti un giorno appresso all’altro. Ma qual è stato il loro ruolo nel corso del 2021? Le Organizzazioni Non Governative hanno di certo agevolato la crescita dei numeri che oggi appaiono sul cruscotto del Viminale. Di quegli oltre 67mila arrivati, circa 10mila sono stati portati proprio dalle loro navi. La più attiva del 2021 risulta essere l’Ocean Viking di Sos Mediterranée con i suoi oltre circa 2.700 migranti. Al seguito, la Sea Watch nella “versione” 3 e 4 con circa 2.500 stranieri scaricati in Italia. Si è manifestata attiva anche la Geo Barents. La nave di Medici Senza Frontiere entrata in funzione lo scorso maggio ha fatto il botto in pochi mesi con circa 1200 migranti. Seguono poi Sea Eye e Open Arms. La prima con più di mille immigrati e la seconda con circa 500. A conti fatti dunque il 14% dei migranti è stato portato dalle navi delle Ong.
Non è solo questione di numeri
È impossibile non valutare il ruolo delle Ong nell'economia complessiva del fenomeno migratorio. Quando dall'altra parte del Mediterraneo i trafficanti sanno della presenza di una o più navi pronte a far salire a bordo dei migranti, dalla Libia vengono fatte partire decine di barche. Non mancano i precedenti storici in tal senso anche legati alle attività di altre navi, come quelle militari. Tra il 2016 e il 2017, nel biennio più nero sul fronte migratorio, i mezzi della missione Triton hanno attratto lungo le nostre coste migliaia di migranti facendo registrare anche record di sbarchi tutt'ora imbattuti.
È il cosiddetto “pull factor”, tanto stigmatizzato dal mondo delle Ong ma sempre attuale nel valutare i dati complessivi delle migrazioni verso l'Italia. Le attività delle navi umanitarie nel 2021 sono cresciute e questo ha avuto una conseguenza sul numero degli sbarchi. Attenzione: il pull factor non è l'unico elemento. Ci sono altre circostanze quali, tra tutte, l'eterna instabilità in Libia, il ruolo dei trafficanti e la pressione migratoria che arriva dal Sahel. Ma indubbiamente il fattore di attrazione determinato dalle Ong non è trascurabile e vale molto di più delle percentuali di sbarcati con le navi umanitarie.
Il ruolo politico
C'è poi un altro fattore da considerare riguardo l'operato delle Ong. È quello politico. Il 2021 è stato l'anno del cambio di governo e di maggioranza. Si è passati da un esecutivo di centro-sinistra a uno invece comprendente gran parte dei partiti presenti in parlamento, tra cui la Lega. In un contesto del genere, considerando lo storico braccio di ferro tra le Ong e il segretario della Lega Matteo Salvini quando era al ministero dell'Interno, ogni richiesta di porto sicuro da parte di una delle organizzazioni è un elemento di frizione in più per il governo. Dietro i numeri degli sbarchi tramite le Ong, si cela quindi una tensione non secondaria tra le varie forze a sostegno dell'esecutivo guidato da Mario Draghi.
Non è un caso che, come accaduto in occasione dell'inizio del processo Open Arms che vede imputato proprio Matteo Salvini, dal Pd siano arrivati espliciti appoggi alle Ong. Emblematica in tal senso la foto del segretario dem Enrico Letta con la felpa Open Arms al fianco del fondatore dell'Ong spagnola. Tensioni quindi che sono destinate a riproporsi anche nel 2022. Le Ong infatti promettono battaglia già a partire dal nuovo anno. Non si aspetterà aprile per tornare in mare, ma i mezzi umanitari stazioneranno a largo della Libia non appena le condizioni del mare lo consentiranno.
Sofia Dinolfo.
Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby. Ed ecco che poi sono arrivate le prime esperienze lavorative effettive: dalla conduzione di una trasmissione di calcio in una tv locale (dal 2006 al 2009), all’approccio con la cronaca tramite il quotidiano cartaceo La Sicilia (dal 2010 al 2012). Poi quella che, a livello personale, ha rappresentato una vera e propria palestra nella mia crescita lavorativa: il giornalismo televisivo. Dal 2011 al 2016, sempre ad Agrigento, mi sono occupata della stesura di servizi televisivi, della conduzione del telegiornale, della realizzazione e conduzione di programmi spaziando fra tutti i colori della cronaca, ma anche nel settore della medicina. Negli anni successivi ho intrapreso l’esperienza giornalistica in radio confrontandomi con una nuova metodologia di approccio al pubblico che mi ha spinto ad amare ancor di più questo lavoro. Scrivo per il Giornale.it assumendo con impegno ed orgoglio il dovere di raccontare ai lettori i fatti di cronaca di principale interesse.
Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le
Da video.corriere.it il 27 dicembre 2021. C'è un video che immortala il passaggio di denaro dall'imprenditore Luca Ciro Giovanni Leccese a Mario Antonio Lerario, ex dirigente della Protezione civile della Regione Puglia. A documentare con immagini quella che secondo la Procura di Bari è la consegna di una tangente è una microspia piazzata dagli investigatori nella macchina di Lerario. Proprio a seguito di quella intercettazione audio-video i finanzieri hanno seguito il dirigente e poi lo hanno arrestato in flagranza per corruzione. L'episodio risale alla mattina del 23 dicembre. Da quel giorno Lerario è in carcere. Ieri, dopo la convalida dell'arresto, è stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari anche per l'imprenditore. Nel video si vede Lerario seduto in macchina al posto del guidatore, mentre l'imprenditore apre lo sportello dal lato passeggero, estrae dalla tasca interna del giubbotto una busta bianca (che poi si scoprirà contenere 10 mila euro in 200 banconote da 50 euro) e la mette nel vano porta oggetti tra i due sedili anteriori.
Da ansa.it il 27 dicembre 2021. "Gli ho portato un pensiero che era un cesto natalizio e un cartone con una bottiglia di champagne". Così si è giustificato l'imprenditore di Foggia Luca Ciro Giovanni Leccese, titolare della società Edil Sella, quando è stato interrogato dopo aver consegnato all'ormai ex dirigente della Protezione civile regionale Mario Lerario una tangente da 10 mila euro, in 200 banconote da 50 euro. La vicenda risale al 23 dicembre scorso ed è costata a Lerario l'arresto in flagranza e poi la detenzione in carcere e all'imprenditore gli arresti domiciliari. Entrambi sono accusati di corruzione. Agli arresti domiciliari è finito anche un altro imprenditore, Donato Mottola, di Noci, titolare della società Dmeco Engineering, accusato di aver consegnato il giorno prima a Lerario un'altra tangente da 20 mila euro, una "manzetta" la chiama lui al telefono parlando con la moglie dopo aver recapitato al dirigente il "regalo di Natale", cioè una "mazzetta" nascosta in un pezzo di manzo pregiato. Entrambi gli imprenditori, hanno accertato le indagini della Guardia di Finanza, coordinate dal procuratore Roberto Rossi e dall'aggiunto Alessio Coccioli, avevano con la Protezione civile regionale diversi appalti per oltre 5,3 milioni di euro complessivi. Appalti relativi alla realizzazione di container per l'isolamento dei migranti positivi al Covid nel Cara di Borgo Mezzanone, per gli uffici della sede di Foggia del Numero unico 112 nell'aeroporto dauno, per l'ospitalità di migranti lavoratori stagionali sempre nel Foggiano e anche per l'installazione di strutture prefabbricate mobili di emergenza per pre-triage a servizio e supporto delle strutture ospedaliere durante la pandemia. Appalti che hanno garantito a Leccese entrate per circa 2,8 milioni di euro, a Mottola per quasi 2,5 milioni. Entrambi, interrogati dopo l'arresto in flagranza di Lerario, hanno confessato, spiegando che quel denaro era una loro personale iniziativa, un "regalo" al dirigente, come ringraziamento per i lavori che erano stati affidati loro. Negli atti, riportando il contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali cominciate almeno da maggio 2021 nell'ambito della più ampia indagine della Procura sulla realizzazione della struttura per le maxi emergenze Covid nella Fiera del Levante di Bari, emerge "l'esistenza di una fitta rete di rapporti tra il pubblico ufficiale e gli imprenditori coinvolti caratterizzata dall'asservimento, in cambio di un tornaconto personale, della funzione pubblica del primo agli interessi economici dei secondi". La gip, nel ritenere sussistente il pericolo di inquinamento probatorio da parte di Lerario, parla di "mercimonio delle pubbliche funzioni" ed evidenzia che durante le indagini il dirigente si sarebbe anche "preoccupato di far bonificare il proprio ufficio dove erano state sistemate cimici audio-video", consapevole di essere intercettato, in un atteggiamento di "spregio assoluto per la funzione pubblica rivestita”. La vicenda è stata al centro anche di un post del leader della Lega, Matteo Salvini, il quale l'ha citata mettendo in collegamento le presunte tangenti con il business dell'accoglienza migranti.
Tangenti, le prime confessioni dell’ex dirigente della Protezione civile pugliese Mario Lerario arrestato dalla Finanza. Il Corriere del Giorno il 26 Dicembre 2021. L’ormai ex dirigente della Protezione civile pugliese ha verbalizzato di avere incontrato l’imprenditore per lo scambio degli auguri di Natale nella Fiera del Levante, dove è allestito l’ospedale per l’emergenza Covid, ammettendo che l’imprenditore gli aveva consegnato un cesto augurale natalizio infilando però una busta nel cassetto del cruscotto dell’auto. L’ex dirigente della Protezione civile pugliese Mario Lerario, in carcere dal 23 dicembre dopo essere stato arrestato in flagranza di reato, è stato sottoposto alla presenza dei magistrati inquirenti, il procuratore capo Roberto Rossi ed il procuratore aggiunto Alessio Coccioli) all’ di convalida durante la quale ha ammesso di aver intascato una busta con denaro dall’ imprenditore Luca Ciro Giovanni Leccese, negando però pregressi accordi corruttivi. L’indagato, videocollegato dal carcere di Bari assistito dall’avvocato Michele Laforgia. , ha deciso di rispondere alle domande della Gip Anna Perrelli ammettendo di aver accettato una busta con 10mila euro scovata dalle Fiamme Gialle nel cruscotto della sua autovettura.
I finanzieri dopo averlo intercettato nella sua auto all’interno della quale aveva da mesi microspie, hanno fermato Lerario che aveva con sé la busta chiusa. L’imprenditore Luca Ciro Giovanni Leccese titolare di una società che nello scorso mese di luglio ha vinto un appalto con la Protezione civile pugliese relativo al campo di Borgo Mezzanone a Foggia, ha consegnato la presunta tangente a Lerario, già interrogato in qualità di indagato, avrebbe ammesso anch’egli l’evidenza dei fatti. Leccese è invece ai domiciliari insieme all’altro imprenditore Donato Mottola quello che metteva i soldi dentro un pezzo di carne donata al dirigente regionale (da cui ha preso il nome di «manzetta»)
L’ex dirigente della Protezione civile pugliese ha verbalizzato di avere incontrato l’imprenditore per lo scambio degli auguri di Natale nella Fiera del Levante, dove è allestito l’ospedale per l’emergenza Covid, ammettendo che l’imprenditore gli aveva consegnato un cesto augurale natalizio infilando però una busta nel cassetto del cruscotto dell’auto; Lerario ha detto poi di essersene andato e di essere quindi stato fermato dopo una ventina di minuti dalla Guardia di Finanza proprio mentre stava per raggiungere il palazzo della Regione.
Lerario ha ammesso di aver ipotizzato che nella busta ci potessero essere dei soldi pur senza aprirla, e di non averla restituita, sostenendo che con l’imprenditore non c’era alcun accordo e non c’è mai stato uno scambio di favori. Una teoria un pò debole che infatti non è stata ritenuta credibile dagli inquirenti.
La difesa di Lerario al termine dell’interrogatorio di garanzia ha chiesto la scarcerazione, mentre il procuratore Rossi e l’aggiunto Coccioli, hanno insistito per la custodia in carcere, o in subordine, che venga concessa la misura cautelare più attenuata degli arresti domiciliari. La gip Perrelli si è riservata ed ora si attende la decisione.
Il gruppo regionale di Fratelli d’Italia con una nota commenta: “Dopo le ultime vicende giudiziarie che hanno travolto e stravolto i vertici della Sanità e della Protezione civile, siamo ancor più rammaricati per l’occasione mancata: l’istituzione di una Commissione speciale d’inchiesta sulla Gestione dell’emergenza Covid in Puglia. Una richiesta presentata dal gruppo di Fratelli d’Italia e che la maggioranza di rosso-gialla bocciato senza esitazione e tentennamenti! Con argomentazioni risibili, come l’inutilità di una Commissione ad hoc alla luce delle prerogative dei consiglieri, dimenticando che da oltre un anno ci viene negata la possibilità di accedere a qualsiasi atto relativo all’acquisto di Dispositivi Individuali di Protezione dalla Cina, alla fabbrica di mascherine o all’ospedale Covid alla Fiera del Levante, per fare qualche esempio concreto del fiume di risorse pubbliche impegnato” evidenziando che “Conoscere e approfondire la natura dei processi decisionali e le logiche che hanno portato a determinate scelte, da noi sempre contestate – in comunicati e conferenze stampa abbiamo con cifre e dati alla mano dimostrato che non solo erano antieconomiche, ma inutili -, la Commissione avrebbe potuto portare anche a correzioni di rotta, con sostanziosi risparmi per la collettività, dato che l’emergenza pandemica è ben lontana dall’essere finita“. Gli investigatori dichiarano però che l’arresto di Lerario non è collegato con l’inchiesta sull’ospedale Covid allestito nella Fiera del Levante di Bari in cui sono indagati, oltre all’ex capo della Protezione civile regionale, altri sette imprenditori. Le indagini, condotte dalla guardia di finanza, si protraggono da diversi mesi e Lerario era sottoposto a intercettazioni ambientali, proprio nel contesto di queste indagini,
Schiavi neri e islam, la verità sulla tratta degli esseri umani che non vi dicono. Giuseppe Valdiara su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2021. La minimizzazione della uccisione del giovane studente italiano Davide Giri da parte del New York Times e dei media progressisti americani è stata denunciata da Federico Rampini. Questo atteggiamento sarebbe ormai una costante del NYT ogni qual volta, come in questo caso, afroamericani siano gli autori di gravi fatti di sangue. Quello che un tempo fu il più autorevole giornale americano è arrivato a lanciare una iniziativa, The 1619 Project, che mira a processare la storia americana e delle sue istituzioni, alla luce del fenomeno schiavista. Il 1619 fu infatti l'anno in cui una nave olandese di ritorno dall'Africa avrebbe portato in Virginia i primi 20 schiavi africani. La condanna della cultura "bianca" e delle istituzioni occidentali, a causa del retaggio schiavista, avviene tuttavia in una lettura colpevolmente parziale dei fatti storici. Il fenomeno schiavista, nell'epoca moderna, vede un ruolo importante innanzitutto di mercanti arabi che avrebbero venduto sui mercati orientali ben 17 milioni di africani, secondo Ralph Austen.
In questo contesto si innestò a partire dal XVI secolo l'azione particolarmente efferata dei pirati barbareschi ai danni delle popolazioni europee. Come è stato scritto in un bel libro di Robert C. Davis, professore di Storia sociale italiana presso l'università statale dell'Ohio, nel 1500 la tratta transatlantica degli schiavi contava in media 3200 prigionieri africani all'anno, i corsari che partivano da Algeri, e successivamente da Tunisi e da Tripoli, facevano altrettanti schiavi bianchi e anche di più in un solo raid sulle coste europee. È stato calcolato che in 250 anni, fra 1530 e 1780, circa 1 milione 250.000 bianchi e cristiani sarebbero finiti schiavi in Nord Africa. Schiavi bianchi e cristiani non si trovavano però solo sulla costa barbaresca. Padre Baggio di Turena verso il 1670 scriveva: «In 20 anni di opera missionaria ad Aleppo, Baghdad, Il Cairo e Suez sul Mar Rosso ho potuto vedere la miseria infinita di poveri cristiani fatti schiavi».
ROTTE ATLANTICHE - La tratta degli africani sulle rotte atlantiche non nasce dunque dal nulla. Del resto, come testimoniano Maximiliano Barrio Gonzales e Salvatore Bono, in altri due lavori sulla schiavitù nel Mediterraneo, dei 5/6 milioni di schiavi al servizio nell'impero ottomano, i 4/5 erano africani. I mercanti bianchi che portavano gli schiavi in America approfittarono dunque di un vasto mercato schiavile già da tempo ben avviato. Le varie comunità africane in guerra fra di loro vendevano infatti i loro prigionieri a intermediari neri o arabi che a loro volta li rivendevano ai trafficanti occidentali. Il sangue degli schiavi arricchiva in primo luogo principi neri e mercanti mussulmani.
La orrenda pratica schiavista non è dunque prerogativa esclusiva dei Paesi occidentali, che anzi, in nome di principi umanitari sconosciuti presso altre culture, nel 1800 giunsero ad imporre il divieto della tratta dei neri, che ancora diversi capi tribù africani e numerosi mercanti mussulmani praticavano imperterriti. Già nel 1537 papa Paolo III aveva previsto la scomunica per coloro che avessero ridotto in schiavitù le popolazioni amerinde. La Francia rivoluzionaria abolì provvisoriamente la servitù nel 1774. Sarà poi lo Slave Trade Act, votato dal Parlamento britannico il 25 marzo 1807, ad imprimere una svolta decisiva alla lotta contro lo schiavismo. A partire dal 1808 anche gli Stati Uniti vietarono il commercio degli schiavi, ma non ancora la schiavitù. Sull'esempio inglese, nel 1817 pure Spagna e Portogallo abolirono schiavitù e tratta, seguiti nel 1830 dalla Francia. La marina britannica si incaricò anzi del compito di reprimere il commercio internazionale, ancora diffusamente praticato fuori dall'Occidente, pattugliando gli Oceani Indiano e Atlantico. Su una lettura partigiana della storia si sta in realtà costruendo l'odio verso la cultura "bianca", primo passo per un odio razziale alla rovescia
· Quelli che…Porti Aperti.
"Non c'è un'invasione". Ma il rapporto dei vescovi sui migranti non dice tutto. Nel rapporto Migrantes si sottolinea come l'Italia abbia una media di richiedenti asilo, in rapporto alla popolazione, inferiore rispetto al resto d'Europa. Ma i problemi per il nostro Paese arrivano dagli sbarchi. Mauro Indelicato il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.
In occasione della presentazione dell'annuale rapporto Migrantes sull'immigrazione in Italia e in Europa, la Cei ha voluto in qualche modo ridimensionare le attuali preoccupazioni sulla sicurezza. Preoccupazioni molto latenti all'interno dell'opinione pubblica, soprattutto perché l'anno in corso sta facendo registrare numeri molto elevati di sbarchi e di attraversamenti irregolari del nostro confine.
La Cei ha voluto sottolineare come il rapporto tra popolazione e richiedenti asilo nel nostro Paese non è tra i più alti in Europa. Da qui dunque il richiamo ad evitare allarmi ritenuti eccessivi sulla sicurezza. Tuttavia, gli stessi numeri della Cei e del rapporto Migrantes hanno mostrato altri aspetti del fenomeno migratorio che in qualche modo spiegano perché il tema della sicurezza e degli sbarchi è così sentito.
I numeri del rapporto Migrantes
Nel valutare complessivamente l'immigrazione in Italia e in Europa, il rapporto Migrantes ha raccolto i dati europei sui richiedenti asilo. È qui che emerso come il nostro Paese ha una media di richiedenti asilo inferiore, in rapporto alla popolazione, rispetto al resto dell'Unione Europea.
“Alla fine del 2021 – si legge nel rapporto – prima dello scoppio della guerra in Ucraina, i rifugiati in Italia erano in totale 145mila, mentre la Francia ne ospitava già mezzo milione e la Germania 1.256.000”. Non solo, ma quanto all'incidenza sulla popolazione “la Grecia già sosteneva un carico multiplo rispetto a quello italiano – si legge – quasi 12 rifugiati ogni mille abitanti contro i nostri due o poco più”.
“Sempre nel 2021 – prosegue il rapporto – se l'Italia ha registrato 45.200 richiedenti asilo per la prima volta, la Germania ne ha registrati 148.200, la Francia 103.800 e persino la Spagna ne ha ricevuti di più, 62.050”.
Il problema degli sbarchi
Dunque, secondo la Cei queste cifre forniscono uno spaccato di come il nostro Paese, nel contesto europeo, non sia quello più colpito dal fenomeno migratorio. E quindi, di conseguenza, non esiste alcun allarme sicurezza, alcun allarme invasione e né tanto meno un allarme più generale sul tema immigrazione.
Tuttavia il numero dei richiedenti asilo è solo una parte del problema. Se è vero che l'Italia ha meno richiedenti di Germania e Francia, i cui mercati del lavoro attraggono molte persone soprattutto da est, è altrettanto vero che il nostro Paese è soggetto all'arrivo di migliaia di migranti irregolari via mare. Il fenomeno degli sbarchi ha coinvolto nel 2022 soprattutto le nostre coste.
L'anno sta per chiudersi con la soglia psicologica dei centomila migranti sbarcati irregolarmente in Italia pronta a essere superata. Nel 2021 ci si è fermati a 67mila, cifra già alta se paragonata al 2020, quando sono sbarcati poco più di 30mila migranti.
Una situazione che ha provocato un aumento anche del numero di persone entrate nel circuito dell'accoglienza, già quasi saturo e fortemente provato. E questo è stato certificato dalla stessa Cei. “Alla fine di ottobre 2022 – si legge nel rapporto Migrantes – si trovavano in accoglienza in Italia 103.161 fra richiedenti asilo, rifugiati e migranti. Alla fine del 2021, dopo anni di discesa, si era toccato il minimo dal 2017, con appena 78.421 persone accolte”.
Ben si comprende quindi come mai il problema relativo alla gestione del fenomeno migratorio è così avvertito soprattutto all'interno dell'opinione pubblica. Il continuo aumento degli sbarchi rischia di incidere e non poco sul sistema di accoglienza e quindi anche sulla sicurezza.
Migranti, ondata di sbarchi sulle coste italiane: approdati quasi mille clandestine. Il Tempo l’11 dicembre 2022
Non si placa l’emergenza migranti in Italia. Dopo il via libera del Viminale è approdata a Salerno la Geo Barents, di Medici Senza Frontiere, con 248 persone a bordo, tra cui 84 minori. A Bari è invece arrivata Humanity1, con 261 migranti. Tra le persone sbarcate, che provengono da 22 nazioni, secondo la Ong Sos Humanity diverse hanno segni di torture e abusi sessuali. Una delle tre donne incinte a bordo sarebbe stata violentata per sette volte, un'altra ha subito la amputazione di un pezzo di orecchio. Altri 400 migranti sono invece giunti tra Reggio Calabria e Messina, scortati da due unità navali, che hanno soccorso due imbarcazioni.
Le Ong sbarcano tutti. Ma ora ne arrivano altri. Valentina Raffa il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.
In 500 accolti a Bari e Salerno. Intanto diversi pescherecci approdano in Calabria
Mare grosso e brutto tempo non fermano gli sbarchi. In 200, stipati su un vecchio peschereccio, sono arrivati in Calabria. L'imbarcazione, trainata da un rimorchiatore, è stata scortata fino in porto da due unità navali della capitaneria di porto e una della Guardia di finanza, che hanno intercettato il peschereccio al largo delle coste calabresi di Brancaleone. Dei 200, soprattutto afgani e siriani, in 150 sono stati fatti sbarcare a Reggio Calabria, mentre 49 (tra cui 4 minori non accompagnati) sono stati condotti a Messina. Si aggiungono ai 93 migranti arrivati nel tardo pomeriggio di sabato a Roccella Ionica, nella Locride, anch'essi intercettati in mare da una motovedetta della Guardia costiera al largo della Calabria. Viaggiavano su una barca a vela partita giorni prima dalle coste turche, che si trovava in difficoltà per le cattive condizioni del mare. E sempre a Roccella Jonica, tra giovedì e venerdì, in due sbarchi, ne erano arrivati circa 150.
Non sono poi mancati gli sbarchi ad opera delle Ong, che per giorni hanno ciondolato dinanzi alle coste da cui si registrano più partenze. Ed ecco la nave Humanity 1 di Sos Humanity che, dopo avere raccolto in mare 261 migranti, li ha condotti puntualmente in Italia. Il porto assegnato è stato Bari. Tra loro 40 donne, di cui 28 adulte, e tra queste 3 incinte, e 12 minorenni. Una delle donne incinte sarebbe stata violentata più volte. Altre due donne presentano segni di violenze: una all'orecchio, in parte amputato, e una al seno. In totale ci sono 93 minori, 67 dei quali non accompagnati, 23 bambini sotto i 14 anni e 3 neonati. Quasi tutti gli adulti dopo le operazioni di identificazione raggiungeranno diversi centri sparsi per lo Stivale, mentre i minori non accompagnati resteranno in Puglia.
Anche la Geo Barents di Medici senza frontiere è stata autorizzata allo sbarco «per l'approssimarsi del maltempo e le condizioni del mare» che avrebbero «esposto le persone a bordo a rischi». I 248 passeggeri, presi in mare tra il 4 e il 6 dicembre, sono approdati a Salerno. La nave proviene dalla Sicilia, dove, precisamente a Lampedusa, è stata evacuata con i suoi 4 figli Fatima, la donna che ha partorito in mare il piccolo Alì. Sull'isola nella notte tra giovedì e venerdì erano sbarcati anche i 33 migranti della Louise Michel. Venti ragazzi sbarcati a Salerno sono stati accolti in strutture della città, 64 sono stati trasferiti a Taranto. «Siamo disposti all'accoglienza» ha commentato il sindaco di Salerno, Vincenzo Napoli, dopo le iniziali preoccupazioni espresse prima dello sbarco, in quanto le squadre di Protezione civile regionale sono ancora impegnate a Casamicciola.
Sono 97.236 i migranti giunti sulle nostre coste da inizio anno, con dati del Viminale aggiornati al 9 dicembre. Sono oltre 30mila in più rispetto al 2021 e più di 60mila rispetto al 2020. Per la maggior parte sono egiziani, che superano di poco i 20mila (21% degli sbarcati), seguiti dai tunisini che sono 17.539 (18%).
Geo Barents, musica da discoteca e balli: cosa è successo sulla nave Ong. L'emergenza umanitaria che imponeva uno sbarco immediato in Italia ha subito lasciato il passo ai balli al momento dell'assegnazione del porto di Salerno. Francesca Galici il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La Geo Barents ha ottenuto il porto di sbarco per i quasi 250 migranti che si trovano a bordo e in questo momento è in navigazione verso Salerno, dove arriverà nelle prossime ore. Stavolta nessun braccio di ferro col governo italiano ma la prepotenza delle navi delle organizzazioni non governative è sempre la stessa. Hanno premuto contro i confini italiani per alcune ore, hanno alzato la voce accusando l'Europa di disumanità, hanno preteso lo sbarco immediato e, come sempre avevano eletto la Sicilia per lo sbarco dei migranti. Come sempre, hanno fatto leva sui sentimenti e sul populismo, portando avanti la solita narrazione sui migranti disperati e senza forze che avevano urgenza di sbarcare. Ma questo non ha impedito balli e canti a bordo nel momento in cui è stato annunciata l'assegnazione.
La strategia per aggirare le direttive: altre due Ong verso porti italiani
Il video è stato pubblicato da Giansandro Merli, cronista del Manifesto, sui suoi profili social. Il giornalista è stato ammesso a partecipare alla missione a bordo per raccontare quello che avviene su una nave Ong quando questa è nel Mediterraneo centrale. A guardare le immagini, la sensazione è che l'euforia a bordo non sia figlia dell'assegnazione di un porto sicuro ma dell'assegnazione di un porto in Italia. E c'è differenza tra le due fattispecie. Perché i porti sicuri riconosciuti dalle organizzazioni internazionali non si trovano solo in Italia: anche la Tunisia e l'Egitto sono considerati place of safety per lo sbarco. L'obiettivo dei migranti, che pagano spesso cifre esorbitanti agli scafisti per essere messi a bordo delle bagnarole in mezzo al Mediterraneo, non è sempre quello di mettersi in salvo dalle guerre o dalle persecuzioni.
La maggior parte dei migranti che sono sbarcati nel nostro Paese, come ben spiegano i numeri ufficiali del Viminale, sono egiziani e tunisini, esattamente in questo ordine. Si tratta di migranti economici, che partono senza documenti ed effettuano illegalmente l'ingresso in Europa al solo scopo di migliorare la loro condizione economica. Pertanto, a loro non interessa un porto sicuro purché sia, ma partono con la pretesa di un porto in Europa. Possibilmente in Italia. Questo spiega l'esultanza al momento dell'annuncio: chissà se a bordo della Ocean Viking, che il mese scorso è stata fatta sbarcare in Francia, ci sono state le stesse scene. Anche perché non è certo la prima volta che a bordo delle Ong che sbarcano in Italia si assiste a balli e canti di questo tipo.
Saman Abbas, Vittorio Feltri: "Frontiere chiuse ai musulmani irriducibili". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano l’01 dicembre 2022
La tragica e disgustosa vicenda di Saman si avvia a un epilogo che con la giustizia ha poco che fare. Vero che il padre della povera ragazza è stato arrestato in Pakistan, suo paese d'origine, dove si era riparato subito dopo l'atroce delitto per sfuggire ai rigori delle leggi italiane. Tuttavia, conoscendo per esperienza le norme in vigore in certi stati islamici, temo che l'uomo rimarrà nella sua patria, in cui esiste ancora la possibilità di perdonare chi uccide per motivi discutibili di onore. Spero di sbagliare, sono però convinto che l'assassino non sarà giudicato in Italia, bensì nel luogo dove è nato e cresciuto prima di venire da noi onde campare meglio. Ma al di là delle mie convinzioni, che - ripeto - saranno smentite dai fatti, vorrei proporre un ragionamento che con il razzismo non c'entra nulla.
Noi ospitiamo migliaia di extracomunitari, molti dei quali si integrano nella nostra società assimilandone i costumi, le abitudini e perfino la cultura. E fin qui tutto va bene, a parte qualche eccezione. Però, c'è un però. Nella quantità degli immigrati non pochi sono di religione islamica, i quali non solo non rinunciano alle loro tradizioni che confliggono con la nostra mentalità, ma sono fortemente decisi a imporre a noi il loro credo, i cui dettagli contrastano con i nostri principi anche civili. È un fatto che la Costituzione che ci siamo dati a guerra finita prevede per qualsiasi cittadino la possibilità di professare i riti che gli garba. Ma nel caso dei maomettani andrei più cauto, dato che la loro fede non collima con i nostri codici, oltre che con i comportamenti diffusi da queste parti.
In sostanza, dovremmo aprire le frontiere a tutti, tranne a coloro che sono apertamente in antitesi con la civiltà che ci siamo dati. Di conseguenza, se costoro non apprezzano il modello italiano e preferiscono quello di Allah e non intendono rinunciarvi, se ne stiano a casa loro e non vengano qui a sfasciare l'ordine costituito. Teoricamente non esiste alternativa: o lo straniero invasato di islamismo si adatta al nostro modus vivendi, oppure rimanga nella sua terra. Invece l'Italia, e in genere ogni nazione europea, non solo rinuncia alla dignità culturale, ma addirittura, per un malinteso senso di superiorità, offre agli stranieri che non si piegano alla civiltà occidentale la edificazione di moschee che sono laboratori non di spiritualità, bensì di violenza terroristica, come risulta dalle cronache degli ultimi anni. Ribadisco, non si intende fare prediche ostili a chi viene qui per lavorare e guadagnarsi da vivere, ma difendere con orgoglio la nostra civiltà che è cristiana anche per chi è ateo, e non tollera gente che ammazza per antica abitudine, sapendo che massacrare una persona per presunti motivi di onore non sarà lecito ma neanche punibile severamente.
Svegliati UE il multiculturalismo chic loro non lo capiscono. Guido Igliori su Culturaidentota il 30 Novembre 2022
Quanto ci manca Oriana Fallaci. Nel vero senso del termine: quanto manca a noi giornalisticamente e letterariamente. E quanto manca all’Occidente: se non proprio lei, almeno UNA Oriana Fallaci. Era (è) uno dei Profeti inascoltati del 900, di cui si è occupato il nostro mensile e forse mai espressione fu (è) più azzeccata per lei: inascoltata allora, quando scrisse quel suo articolo dal titolo La rabbia e l’orgoglio, con cui la giornalista rompeva il silenzio successivo all’attacco terroristico al World Trade Center che sconquassò il mondo e le Twin Towers crollavano come castelli di carta. In quell’articolo ripercorreva l’orrore e condannava il fondamentalismo islamico, rivolgendo una dura critica all’Occidente per la mancanza di coraggio e passione nel difendere la propria identità e libertà. E inascoltata oggi, dopo che a Bruxelles e in altre città belghe decine di tifosi marocchini dopo la vittoria del Marocco contro il Belgio ai Mondiali in Qatar si sono scontrati con la polizia, distrutto finestre e dato fuoco a motorini e automobili: ci chiediamo che senso abbia il multiculturalismo come lo intende, guarda caso, Bruxelles cioè la UE, cioè il multiculti chic che non ha mai fatto un bagno nella realtà. Sotto le braci dell’integrazione a tutti i costi cova l’odio e quanto accaduto in Belgio e, nel recente passato, nelle banlieu francesi, ne è la dimostrazione. Se basta una partita di calcio a incendiare una città…E infatti massima allerta anche a Parigi, perché oggi si giocherà Tunisia Francia. Ma attenzione: non è, come ha twittato Paolo Gentiloni, il calcio la causa ("Il calcio fa da detonatore", ha scritto sul suo profilo Twitter): no, c’entra niente il calcio con la guerriglia urbana, al massimo può essere l’esempio lampante di quanto siano distanti certi mondi culturali. La UE dei diritti universali, che riprende l’Illuminismo guarda caso francese, considera l’identità una roba vecchia e deteriore. Lo ha detto la stessa Ursula (von del Leyen): "L’identità è passata di moda". Quando invece, a nostro giudizio, è proprio adesso che l’identità e la cultura si devono imporre. Lo dicesse ai vandali che hanno messo a ferro e a fuoco Bruxelles. Sono incidenti etnici, inutile girarci attorno e l’incendio era da tempo lì lì per scoppiare, ricordate Molenbeek? Non è una questione che interessi solo il Belgio o la Francia, interessa tutta l’Europa, anche l’Italia (ben vengano le moschee, c’è libertà religiosa, ma chi sono i finanziatori? E chi sono gli imam che le gestiscono?). La UE deve svegliarsi: avrebbe bisogno di rileggere alcuni passi di quel famoso articolo (e non solo quello) di Oriana Fallaci: in Occidente secondo la UE avere un’identità à sbagliato e fuori moda, ma pare che l’orda che ha bruciato Bruxelles invece l’identità ce l’abbia ben presente…
Nessun luogo è straniero all'uomo. Le migrazioni sono da sempre alla base della civiltà: la lezione di Seneca. Filippo La Porta su Il Riformista il 15 Novembre 2022
Cosa bisogna intendere per “patria” e quali sono i suoi confini? Proviamo a rivolgerci ai classici letterari. Anche la nostra classe dirigente dovrebbe farlo, visto che insiste così tanto su identità italiana e tradizione. Ma prima dedichiamo solo un breve commento all’imbarazzante attualità. Farci dare dei “disumani” dai francesi, ammettiamolo, sembrava una impresa impossibile. Proprio dai francesi? La Francia, patria di appuntiti illuministi, di perfidi moralisti, di romanzieri devoti solo alla “aspra verità”(Stendhal), è un paese fondamentale per la costruzione della modernità stessa, ma così a occhio non appare segnato da una vocazione buonista-caritatevole (una commedia cinematografica francese è sempre un po’ più “cattiva” della omologa italiana). Eppure ci siamo meritati quell’epiteto, stavolta siamo stati più “cattivi” noi. Complimenti!
Torniamo al tema: il nazionalismo francese oscilla tra sciovinismo di grandeur e Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’’89, tra etnocentrismo dell’odiosa Action Francaise e idea di repubblica universale. Il nazionalismo italiano nasce perlopiù antidemocratico ai primi del ‘900, tanto che per ritrovare quella tensione universalistica dobbiamo risalire a Mazzini. Ma se andiamo più indietro, nella nostra tradizione, troveremo tutti gli anticorpi necessari contro qualsiasi nazionalismo etnico e aggressivo. E allora, cari patrioti, proviamo a consultare in proposito Dante, che ha inventato l’Italia assai prima di Cavour e Garibaldi. Nel De vulgari eloquentia leggiamo, perentoriamente: “Noi dunque, a cui il mondo è patria come ai pesci il mare”. Certo, per Dante il luogo di nascita definisce pur sempre la civitas di appartenenza, con i doveri che ciò comporta. Il poeta era uomo di parte, aveva partecipato alla stagione delle lotte comunali, e si è sempre sentito cittadino dell’amata Firenze, da cui venne condannato all’esilio. Eppure usa questa meravigliosa immagine, che viene da Ovidio, e ribadisce un principio a suo tempo formulato da Seneca. Pensate che la condizione di migranti sia una anomalia nella storia umana, o peggio una colpa, un fenomeno da contrastare con ogni mezzo?
Seneca, mandato in esilio in Corsica da Claudio, scrive una lettera per consolare la madre Elvia e farle sapere che l’esilio non è una cosa così mostruosa. Sentite cosa dice: “Cambiare residenza è un naturale bisogno dell’anima; l’uomo infatti ha un’indole mutevole e inquieta, non sta mai fermo, va di qua e di là”. Sapete perché? Perché siamo composti di materia celeste, non solo terrena, e “la natura dei corpi celesti sta nel continuo movimento; essi sono sempre in fuga, sempre in corsa vertiginosa”. Tutti noi siamo come le stelle che illuminano il mondo: “nessuna di esse è ferma”. Ma è impressionante l’elenco, assai mosso e colorito, che fa Seneca per dimostrare che popolazioni intere cambiano continuamente sede. Sembra una immagine ante litteram della globalizzazione recente. “Che significano le città greche sorte in mezzo a paesi barbari? E la lingua macedone tra i Persi e gli Indi? La Scizia e tutta quella regione abitata da popolazioni selvagge e indomite mostra città greche fondate sui lidi del Ponto; né il rigore del lungo inverno, né l’indole degli abitanti, aspra come il loro clima, hanno scoraggiato quanti trasferivano lì le loro dimore. L’Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato settantacinque città sparse un po’ dappertutto; tutta questa costa dell’Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L’Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l’Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il passaggio dei Germani.”.
E ancora: “Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra: alcuni, sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine; altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un’eccessiva densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una terra fertile e fin troppo decantata. Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l’altra. Questo, però, è certo: che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell’uomo” (Consolatio ad Helviam).
Così conclude il ragionamento: “Percorriamo tutta la terra, non vi sarà nessun esilio; infatti al mondo non c’è luogo che sia straniero all’uomo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo al cielo; la distanza che separa l’uomo da Dio è sempre la stessa”. Perdonate le ampie citazioni ma in tutta la letteratura non vi è, credo, descrizione più precisa del fenomeno migratorio (le sue ragioni, le sue dinamiche, il suo intimo legame con la natura umana) e una rappresentazione così ispirata, felice di quel mutevole caleidoscopio di etnie che è il nostro stesso pianeta. Una istantanea memorabile (e aggiungo: simpatetica) dell’umanità sempre in movimento e in fuga, scattata duemila anni fa. Va bene i nostri attuali governanti forse non sono composti della stessa sostanza celeste degli astri. Tutto ciò che è movimento e migrazione non lo capiscono. Pazienza. Anche perciò vogliono che il nostro territorio sia un luogo “straniero” per altri uomini. Ma non hanno mai sentito, neanche per un momento, di stare al mondo come i pesci al mare, non hanno mai percepito questa appartenenza universale evocata dal padre della nostra lingua (e della nostra piccola patria)? Filippo La Porta
Migranti: 10 anni di errori, ipocrisie, propaganda e il falso problema delle Ong. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2022.
Gli sbarchi sono ripresi e la chiamiamo ancora emergenza immigrazione. Ma come siamo arrivati fin qui? Vediamo come sono andate davvero le cose negli ultimi dieci anni tra sottovalutazioni, ipocrisie, errori e propaganda.
Il regolamento di Dublino
Il regolamento di Dublino sancisce un principio: «Se il richiedente asilo ha varcato illegalmente la frontiera di uno Stato membro, è quello Stato membro che deve farsene carico». Viene ratificato nel 2003 e l’Italia (governo Berlusconi II, qui), che avrebbe potuto esercitare il diritto di veto e bloccarlo, lo firma. E così il nostro Paese accetta (forse inconsapevolmente) tutti gli oneri degli anni a venire, poiché anche la successiva riverniciatura del 2013 non porterà cambiamenti risolutivi.
Se il richiedente asilo ha varcato illegalmente la frontiera di uno Stato membro, è quello Stato membro che deve farsene carico
Le porte girevoli verso l’Europa
La pressione migranti inizia a farsi sentire sulle coste italiane nel 2011, anno in cui gli sbarchi saranno complessivamente 64.261 contro i 4.450 del 2010. Il grosso delle partenze è dalla Libia travolta dall’instabilità del dopo Gheddafi e da dove a migliaia tentano la traversata verso l’Europa via Italia. Insieme ai numeri salgono anche i morti in mare. Il 3 ottobre 2013 c’è il tragico naufragio all’isola dei Conigli: 366 annegati. Sotto la spinta dell’indignazione mondiale, il 18 ottobre 2013, il governo di Enrico Letta dà il via all’operazione Mare Nostrum, costo 9,5 milioni al mese e tutti a carico nostro (c’è solo l’appoggio della Slovenia). Due gli obiettivi: pattugliare con le navi della marina militare fino a ridosso delle coste libiche, soccorrere e contrastare i trafficanti. In un anno 366 scafisti arrestati e 166.682 sbarchi (qui il documento). Ma non pesano troppo: i centri di accoglienza si svuotano in fretta perché la maggior parte dei migranti se ne va verso il Nord Europa.
Il fotosegnalamento complica le cose
Nel 2014 la storia cambia: l’Europa accusa l’Italia di violazione del Regolamento di Dublino e di lasciar transitare verso i Paesi europei i migranti non identificati. Il ministero dell’Interno, il 25 settembre, è costretto a emanare una circolare: «Lo straniero deve essere sempre sottoposto a rilievi segnaletici» (qui il documento). I rilevamenti devono essere trasmessi entro 72 ore al sistema centrale Eurodac, il database europeo delle impronte digitali per coloro che varcano illegalmente una frontiera europea. Da quel momento le porte girevoli si complicano. Mare Nostrum finisce e, nel maggio 2015, parte l’operazione Sophia che fa le stesse cose di Mare Nostrum, ma con forze militari e di polizia europee sotto il comando italiano. In due anni (2015-2016) gli sbarchi sono 335.278 e, a fine 2016, la situazione va fuori controllo. Rivolta dei sindaci, anche di centrosinistra: «Non sappiamo più dove mettere i migranti». A dicembre dello stesso anno. il governo Gentiloni nomina Marco Minniti ministro dell’Interno. Lui la Libia la conosce bene e il mandato è quello di togliere le castagne dal fuoco. E in Libia Minniti va.
I 15 mesi di Minniti al Viminale
Il 2 febbraio 2017 viene firmato il Memorandum Italia-Libia: una convenzione del governo italiano con la guardia costiera libica per fermare le partenze via mare. A luglio, sempre del 2017, vengono stipulati accordi con i sindaci del Fezzan per bloccare la rotta migratoria che entra in Libia (qui il documento) da Algeria, Niger, Chad, offrendo in cambio un sostegno economico allo sviluppo delle comunità locali. Il progetto è finanziato anche dalla Ue, come pure il rimpatrio volontario (gestito dall’agenzia Onu Iom) dai centri di detenzione libici verso i Paesi d’origine con un budget in tasca per rifarsi una vita. Dal 2017 a oggi i rimpatri sono circa 48 mila. Segue l’intesa con l’Alto commissariato per i rifugiati Unhcr (qui il documento) per evacuazioni emergenziali a carico dello Stato italiano con destinazione Roma. Da fine 2017 al 2019 dai centri di detenzione, quelli accessibili, sono trasferiti a Roma con voli umanitari in 913, fra aventi diritto alla protezione e fragili. Un numero piccolo, ma in Libia governano le bande di taglieggiatori e con loro occorre fare i conti. I trasferimenti riprendono nel 2021 con il coinvolgimento del ministero dell’Interno, la Comunità di Sant’Egidio e Chiese evangeliche. Dall’orrore delle prigioni salvate 500 persone. Sta di fatto che tra maggio 2017 e maggio 2018 gli sbarchi calano a 72.571 e continuano a scendere fino ad agosto 2019, a quota 28.505. Intanto il governo è cambiato e al posto di Minniti arriva Matteo Salvini.
La convenzione con la guardia costiera è stata universalmente condannata (…) Tutti la considerano scandalosa, ma poi nessuno la cancella.
Le ipocrisie istituzionali
La convenzione con la guardia costiera libica è stata universalmente condannata: impedisce le partenze, ma molti migranti vengono portati nei centri non ufficiali dove sono costretti ai lavori forzati, seviziati, le donne stuprate. Succedeva con Gheddafi, succede dopo. Quella convenzione è scaduta nel 2020, ma il governo italiano (Pd, M5S), dopo averla pesantemente criticata, la rinnova. Così come fa di nuovo il 3 novembre il governo Meloni, mentre la situazione in Libia è ancora peggiore di prima. Tutti lo considerano un accordo scandaloso, ma poi nessuno lo cancella. La Libia è uno dei pochi Paesi al mondo che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 che impone il rispetto dei diritti umani. Bombardata nel 2011 sotto la bandiera Nato, giustiziato il dittatore Gheddafi nel 2015 il solo governo legittimo riconosciuto dalle Nazioni Unite è quello di Al-Sarraj. A quel punto l’Onu potrebbe chiedere al premier libico di firmare la convenzione di Ginevra, ma non lo fa, non lo chiede la Ue e nessun singolo Stato membro. Tant’è che l’Unhcr tutela i rifugiati in Libia dal suo ufficio di Tunisi. Una base a Tripoli viene aperta nel 2017, quando Minniti ottiene da Al-Serraj le garanzie di sicurezza per il personale umanitario che deve entrare nei centri di detenzione e selezionare i più fragili per evacuarli attraverso il corridoio umanitario.
Cosa succede in Europa: gli accordi per la relocation
Intanto in Ue con due decisioni del Consiglio, la 1523 del luglio 2015 e la 1601 del settembre dello stesso anno, viene previsto un sistema di relocation a favore dell’Italia per 39.600 migranti. È quella che comunemente viene definita ricollocazione obbligatoria: vuol dire che l’Europa accetta di prendersi una parte dei nostri aventi diritto all’asilo, che tra il 26 settembre 2015 e il 26 settembre 2017 sono 36.345. Alla fine ne saranno presi 12.740 (la Germania per esempio ne accoglie 5.453, la Francia 641). Nel settembre 2017 arriva anche la sentenza della Corte di giustizia europea che, rigettando il ricorso di Ungheria e Slovacchia contro i ricollocamenti dall’Italia, riafferma con forza il principio di redistribuzione solidale dei profughi. Principio non accettato, però, dalle cancellerie di Budapest, Varsavia e Praga (Paesi Visegrad) che si oppongono. Scaduta la convenzione, alla prima seduta del Consiglio, Conte e Salvini non insistono e si va verso la redistribuzione facoltativa che, alla fine, si concretizza nell’accordo di Lussemburgo nel giugno 2022, fortemente voluto dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. L’accordo prevede il ricollocamento annuo di circa 10 mila aventi diritto all’asilo. A metà novembre 2022 ne sono stati ricollocati solo 117.
Le nuove partenze dalla Libia: l’influenza della Russia
Nel 2018 Salvini ritira la missione Sophia dalle acque libiche per occuparsi solo dei confini nazionali e, da lì in avanti, l’operazione va verso lo smantellamento (marzo 2020). Intanto in Libia esplode il caos, l’influenza politica italiana sparisce e arrivano quella turca in Tripolitania e quella russa in Cirenaica. Dal 2021 sono riprese le partenze e quest’anno, su 94.341 sbarchi (al 24 novembre), oltre la metà dei migranti arriva proprio dalla Libia di cui oltre 30 mila dalla Tripolitania e, per la prima volta, oltre 17 mila dalla Cirenaica. E i barconi grossi partono proprio da lì. Nello stesso periodo dell’anno scorso le partenze dalle due regioni libiche erano rispettivamente 24.697 e 2.276. Non si può escludere che in Cirenaica sia in atto una pressione da parte della Russia. Ma da quali Paesi provengono i migranti che partono dalla Libia? Principalmente dall’Egitto (17.678), dal Bangladesh (13.794), dalla Siria (5.863), seguono Eritrea e Pakistan. Se includiamo anche gli arrivi da Turchia e Tunisia e altri Paesi, sulle coste italiane negli ultimi 12 mesi si sono superati i 100 mila sbarchi. Il sistema di accoglienza non ne regge più di 70.000. Siamo tornati al punto di partenza.
Cosa chiedere all’Europa: i flussi regolari
Tutta la propaganda sui porti chiusi, impossibili da attuare, ci è di nuovo esplosa in mano. Dopo dieci anni dovremmo aver capito che le migrazioni non sono un’emergenza, ma un fatto strutturale che va governato perché ci saranno sempre. A causa delle guerre, dei mutamenti climatici, della ricerca di migliori condizioni di vita. Bisogna insegnare a convivere con i migranti, di cui peraltro abbiamo bisogno. Inutile insistere su una ripartizione contando sulla solidarietà europea che non ci sarà. In base agli ultimi dati disponibili, la Spagna deve fare i conti con oltre 100 mila irregolari, quasi 500 mila la Francia, 1,2 milioni la Germania, mentre Ungheria e Polonia stanno gestendo qualche milione di profughi ucraini. Mentre continuare a litigare su dove devono sbarcare i migranti che arrivano con le Ong allunga solo la lista delle ipocrisie: nel 2022 oscillano intorno al 10% del totale. Quello che realisticamente possiamo e dobbiamo pretendere dall’Europa è, invece, un sostegno economico per fare due cose: 1) la costruzione di un sistema civile di accoglienza e integrazione; 2) accordi con i Paesi sull’orlo del baratro per avviare flussi regolari. La Tunisia e l’Egitto stanno negoziando un prestito con il Fondo Monetario Internazionale perché hanno la necessità di una stabilizzazione politico-sociale. Un prestito che sarà accordato a condizione che vengano ridotti i sussidi per i beni primari. È inevitabile che, di fronte alla mancanza di speranze, i giovani tentino una miglior sorte rischiando la traversata. Ricordiamo che la quasi totalità degli sbarchi riguarda maschi fra i 14 e i 30 anni. Per questo con Tunisia, Egitto, Niger e Bangladesh è necessario costruire un accordo: concedere 20.000 ingressi legali attraverso il consolato, ma con il rimpatrio immediato di quelli in più. Così si stronca il traffico di esseri umani e quel che ne consegue: i morti in mare, e migliaia di irregolari dati in pasto alla criminalità o, nella migliore delle ipotesi, al lavoro nero.
Le balle del governo. Le leggi sui migranti sono chiarissime, ma il ministro Piantedosi le ignora. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 5 Novembre 2022
Il neo ministro dell’Interno, prefetto Piantedosi viene presentato spesso come un “tecnico” ovvero come un alto funzionario che, pur avendo inequivocabilmente sposato un orientamento politico di una destra piuttosto estrema come quella dell’attuale governo e del partito a cui egli è tradizionalmente legato, la Lega Nord, rimane comunque un uomo delle istituzioni che ricerca soluzioni nell’alveo dell’ordinamento giuridico vigente.
Di tale patinata immagine si deve però dubitare alla luce di molte iniziative che lo vedono coinvolto, da ultima la richiesta o per l’esattezza la condizione da ultimo posta da lui medesimo al fine di consentire l’attracco in Italia alle navi delle organizzazioni umanitarie attualmente ferme in alto mare perché nessuno stato europeo interpellato, tra cui l’Italia, ha risposto alle richieste di assegnare un porto sicuro. La condizione è che le domande di asilo (definite dal diritto europeo domande di protezione internazionale) vengano manifestate al comandante della nave soccorritrice e da egli registrate e che lo stato di bandiera di tale nave diventi, per così dire, automaticamente, lo Stato competente ad esaminare quelle domande di protezione. Seguendo tale tesi allo sbarco in Italia seguirebbe quindi, d’ufficio, l’immediato trasferimento dei richiedenti asilo verso il Paese europeo coinvolto. Tutto ciò è previsto dal diritto vigente in materia di asilo nell’Unione Europea?
Il diritto dell’Unione Europea in materia di accesso alla procedura di asilo è disciplinato in primo luogo dalla Direttiva 2013/32/Ue, detta “direttiva procedure”; la direttiva non è una raccomandazione o una indicazione politica bensì è, come tutte le altre norme dell’Unione in materia, una fonte normativa sovraordinata che è stata obbligatoriamente recepita da tempo da parte di tutti gli Stati membri e che prevede che la procedura di richiesta asilo “si applica a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri” (articolo 3 paragrafo 1 della Direttiva 2013/32/UE sulle procedure). Scopo della Direttiva è quindi quello di definire con precisione, senza lasciare alcun margine di ambiguità, le modalità, procedure e condizioni per la presentazione delle domande di asilo di un cittadino di un paese terzo rispetto a uno stato dell’Unione. La domanda di protezione internazionale è infatti “una richiesta di protezione rivolta a uno Stato membro da un cittadino di un paese terzo o da un apolide” (art. 2 lettera b).
Le disposizioni della citata Direttiva si collegano strettamente all’individuazione dello Stato membro competente ad esaminare la domanda di protezione, materia che è definita in via esclusiva dal Regolamento (Ue) 604/2013, detto comunemente Regolamento Dublino III. Si tratta di un Regolamento la cui totale inefficienza è nota e che l’Unione Europea sta tentando di modificare da almeno cinque anni senza successo prevalentemente a causa dell’opposizione totale di molti Stati dell’Unione (riuniti nel cosiddetto gruppo di Visegrad ma non solo) che si oppongono a introdurre ogni principio di redistribuzione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri sulla base di criteri oggettivi quali la popolazione e il reddito ed eventualmente altri parametri ulteriori. Chi si oppone a questa riforma sono gli Stati con un governo a orientamento politico che possiamo definire sovranista; tra i più famosi l’Ungheria e la Polonia ed altri, affini per ideologia al nuovo e assai problematico Governo italiano.
Sul punto della riforma del Regolamento Dublino ritornerò in conclusione; intanto ciò che è indubbio, e che fino a questa auspicata ma finora chimerica riforma il Regolamento rimane però quello vigente, anche se vetusto. All’art. 3 di detto Regolamento, in coordinamento con la Direttiva procedure si prevede che “ Gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Una domanda d’asilo è esaminata da un solo Stato membro, che è quello individuato come Stato competente in base ai criteri enunciati” dal Regolamento stesso.
Nel diritto dell’Unione la competenza ad esaminare la domanda di asilo di un naufrago che manifesta tale volontà al comandante di un’imbarcazione privata (non fa alcuna differenza se si tratta di una organizzazione umanitaria o di una nave commerciale qualsiasi) non è in alcun modo individuata sulla base dello stato di bandiera della nave stessa e certo tale circostanza non fonda alcun nuovo criterio di competenza e tanto meno può essere posto come nuova fantasiosa condizione vincolante da alcun governo dell’Unione che, qualunque sia il suo orientamento politico, rimane sottoposto al rispetto delle leggi vigenti.
Ovviamente lo Stato italiano può chiedere allo stato di bandiera di qualsiasi nave di farsi carico delle domande di asilo delle persone soccorse, così come lo può fare verso qualsiasi altro Stato, coinvolto o meno in un’operazione di soccorso in quanto “ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento” (art. 17) In assenza della volontà di uno Stato di assumere una competenza non propria il Regolamento Dublino è ben chiaro su quale sia il Paese europeo competente ad esaminare la domanda di asilo del naufrago soccorso in mare ed è, salvo disposizioni specifiche di tutela per i minori non accompagnati e per i ricongiungimenti famigliari il Paese nel quale “il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro”. (art. 13 paragrafo 1). In parole semplici dove mette piede per la prima volta. Norma irragionevole ma vigente dove comanda la geografia delle vie di fuga e non la condivisione delle responsabilità e che non siamo ancora riusciti a cambiare in questa Europa di tutti contro tutti.
Cosa può dunque fare il Governo italiano oltre a rispettare la legge vigente? Può senza dubbio ricercare un accordo politico, come è già stato fatto dal governo precedente, per attuare tra alcuni Stati “volonterosi” una sorta di accordo di ripartizione della competenza delle domande di asilo che sarebbero di competenza di un altro Stato, nel caso specifico dell’Italia come paese dove è avvenuto lo sbarco. Si tratterebbe di una sperimentazione positiva che se ripetuta e progressivamente allargata aprirebbe la strada alla auspicabile riforma del vetusto Regolamento Dublino. La domanda è però se il Governo italiano vorrà seguire questo percorso concreto o non sarà interessato a farlo preferendo al suo posto il triste spettacolo di esibizioni muscolari con le quali si è presentato in Europa.
Soprattutto la domanda è se vorrà, magari anche nel nome di un evidente interesse nazionale, impegnarsi per una riforma del Regolamento Dublino che superi l’irragionevole criterio attuale che collega la competenza all’esame della domanda di asilo al primo paese in cui il richiedente mette piede o non farà nulla di tutto ciò perché percorrere questa strada per arrivare a una reale solidarietà ed equa distribuzione delle responsabilità in Europa lo metterebbe in totale rotta di collisione con gli altri governi sovranisti a cui si accompagna e che di solidarietà e nozioni simili non ne vogliono proprio sapere. Gianfranco Schiavone
"Onorevole Minnie", "Quanti ne ospiti a casa tua?". Donzelli epocale, come stende Vauro. Libero Quotidiano il 7 Novembre 2022.
Scontro in diretta da Massimo Giletti a Non è l'arena su La7, nella puntata del 6 novembre, tra Giovanni Donzelli di Fratelli d'Italia e Vauro. In studio si parla degli sbarchi di due navi ong, la Geo Barents e la Humanity 1. Donzelli difende la decisione del governo di Giorgia Meloni di far scendere solo donne, bambini e persone fragili. "È il diritto internazionale che divide i rifugiati dalle guerre e i migranti economici. Li facciamo scegliere agli scafisti o vogliamo sceglierli con criteri civili e di rispetto umano?", attacca il meloniano.
Quindi il vignettista passa agli insulti: "Volevo evitare aggettivi come cinico ma l'onorevole Minnie...". A quel punto interviene Giletti: "No dai, Vauro...". Ma Donzelli risponde: "Io sono una persona di ironia". Vauro continua a insultarlo:"Tolga il costume. Vorrei capire dall'onorevole Minnie perché il complottista capitano tedesco dovrebbe ostacolare il governo italiano". Quindi Donzelli lo stende: "Il suo bullismo non mi intimorisce Vauro, quanti ne ospita lei in casa sua visto che fa il bulletto? Comodo parlare...".
Quarta Repubblica, Sallusti asfalta Cecilia Strada: "Ong? Tu dov'eri?" Libero Quotidiano l’8 novembre 2022
Alessandro Sallusti non le manda a dire. Il direttore di Libero, ospite a Quarta Repubblica, ha voluto mettere le cose in chiaro sul caso delle navi Ong che stanno assaltando i nostri porti. Come è noto il Viminale e il governo stanno cercando di mettere un freno agli sbarchi sulle nostre coste cercando di dare un ordine al caos dei porti aperti lasciato dall'ex ministro degli Interni, Luciana Lamorgese. Opsite del talk show condotto da Nicola Porro, Sallusti ribatte a Cecilia Strada, paladina delle Ong e tifosa della politica degli sbarchi senza sosta. La Strada punta subito il dito contro il governo: "A me importa che il mio Paese rispetti i diritti umani di queste persone". La frase è un siluro buonista contro il governo. La Strada ovviamente ignora l'assistenza che l'esecutivo ha garantito ai naufraghi a bordo dell'Humanity 1 e delle altre navi Ong. Ma tant'è.
E così Sallusti la fulmina con una frase che di fatto smaschera l'ipocrisia della sinistra davanti alla gestione della crisi migratoria: "Mi chiedo dov'era Cicilia Starda quando la Lamorgese ha fermato quattro Ong. Il problema non sono gli immigrati ma il problema si chiama Giorgia Meloni!".
Insomma il fronte buonista usa in modo strumentale i migranti che si trovano a bordo delle navi Ong per colpire l'esecutivo. Dopo la sterile battaglia sul provvedimento anti-rave, ora è il turno delle Ong. Ogni pretesto viene usato per cercare di rimediare alla sonora sconfitta della sinistra del 25 settembre. Ma con scarsi risultati...
Perché sulle Ong Cecilia Strada si sbaglia. La figlia del fondatore di Emergency ha accusato duramente il governo per il blocco delle navi Ong al largo della Sicilia. Ecco perché la sua posizione presenta delle incongruenze. Mauro Indelicato il 7 Novembre 2022 su Il Giornale.
Cecilia Strada, figlia del fondatore di Emergency Gino Strada e attivista di Resq People, nelle scorse ore è intervenuta sulla questione relativa alle navi Ong ferme a largo della Sicilia. E ha, come nelle previsioni, attaccato duramente l'attuale governo.
“La situazione è chiara – ha dichiarato in una recente intervista – da una parte ci sono l'umanità e il diritto, dall'altra il governo italiano. Qualsiasi popolo dovrebbe essere terrorizzato da un governo che calpesta i diritti dei deboli e le leggi internazionali”.
Le parole di Cecilia Strada
Secondo l'attivista, a essere del tutto fuori dal controllo delle leggi internazionali sono i governi. Non solo quello italiano, ma è ovviamente contro il nuovo esecutivo guidato da Giorgia Meloni che Cecilia Strada ha lanciato chiare accuse. “Stiamo assistendo alla violazione gravissima dei diritti umani dei naufraghi – si legge nelle sue parole – ma anche di quelli dell'equipaggio delle navi, in attesa da giorni di sbarcare un migliaio di persone in un paese di 60 milioni di abitanti”.
“Da cinque anni – ha proseguito – le navi delle Ong vengono descritte come navi pirata. È vero invece il contrario: siamo gli unici, insieme ai mercantili, a rispettare il diritto e le convenzioni internazionali che impongono di soccorrere i naufraghi”.
In poche parole, secondo Cecilia Strada il divieto di sbarco per le navi Ong imposto dal Viminale, oltre a essere scorretto politicamente, rappresenterebbe una violazione del diritto internazionale. E quindi una nuova puntata del braccio di ferro tra governo e attivisti.
“La guerra contro di noi non nasce in queste ore – ha poi proseguito l'attivista – in cui assistiamo a violazioni palesi e oscene: da anni si demonizza chi sta in mare a colmare il vuoto dei Paesi europei, che hanno abbandonato il Mediterraneo”. Una guerra in cui quindi le navi Ong, secondo questa ricostruzione, sarebbero vittime e parti lese.
Come detto però, Cecilia Strada non ha puntato il dito solo contro il governo italiano. Le accuse sono state rivolte anche verso l'Europa, rea di aver lasciato irrisolto il problema, Malta e la Libia. Quest'ultima non viene vista come porto sicuro, mentre a La Valletta è stato contestato il fatto di non intervenire adeguatamente nei soccorsi.
Come stanno realmente le cose
Su quest'ultimo punto, la figlia del fondatore di Emergency ha ragione: Malta spesso in un passato anche molto recente ha lasciato l'incombenza degli interventi all'Italia, gravando quindi sulla nostra fragile situazione interna. Sul resto però, all'attivista sembra sfuggire qualche punto.
In primo luogo, lo sbarco “di qualche migliaio di migranti” anche in un Paese da sessanta milioni di abitanti potrebbe rappresentare un problema politico non indifferente. In un contesto dove sono arrivati in Italia quasi centomila migranti dal primo gennaio a oggi, ogni sbarco inevitabilmente è destinato a gravare sul già appesantito sistema di accoglienza. Per questo in campagna elettorale il tema è stato molto sentito. E, sempre per questo, oggi il discorso relativo alle Ong ha un peso politico importante.
C'è poi la questione relativa alla conformità con il diritto internazionale. Cecilia Strada ha difeso l'operato di quelle navi che costantemente dirigono la prua verso l'Europa. “La Tunisia, l’Egitto, Malta hanno tutte aree Sar ('Search and Rescue') di competenza – ha ricordato in un'intervista su IlGiornale.it l'ammiraglio Nicola De Felice – nella cui aree sono tenuti a prestare soccorso e a salvaguardare la vita delle persone recuperate in mare. Chi soccorre ha l’obbligo di rispettare l’area Sar del Paese in cui si trova, non può fare ciò che vuole”.
L'ammiraglio smonta i buonisti: "Un blocco navale per fermare i migranti"
Tradotto, nessuno può fare di testa propria. Né tanto meno le Ong. Le quali quindi non possono costantemente chiedere un porto sicuro all'Italia. L'impressione è che la partita legale e politica tra governo e Ong si giocherà proprio su questo tasto.
Politica estera. La Germania ci fa (ancora) la morale sui migranti. Ma qualcosa non torna. Il gruppo editoriale tedesco Rnd accusa il governo di adottare una "retorica polemica e un'azione flessibile" nei confronti dell'immigrazione. Ma qualcosa non torna. Roberto Vivaldelli il 7 Novembre 2022 su Il Giornale.
"Retorica polemica e azione flessibile nella politica sulle migrazioni". È il commento del gruppo editoriale tedesco Rnd in merito alla politica dei "porti chiusi" annunciata dal ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi e alla vicenda della nave umanitaria "Humanity 1", gestita dall'organizzazione non governativa tedesca Humanity. Rnd, come riporta l'agenzia Nova, sottolinea che dopo giorni di attesa in mare, la maggior parte dei migranti che erano a bordo dell'unità dopo essere stati soccorsi nel Mediterraneo è stata autorizzata a sbarcare nel porto di Catania. Inoltre, dall'entrata in carica dell'esecutivo, l'Italia ha accolto oltre 9mila migranti, ossia circa 650 al giorno, arrivati con proprie imbarcazioni o salvati dalla Guardia costiera. La tesi di Rnd è che, pertanto, "da questo punto, di vista non si può parlare di porti chiusi", poiché tale politica si applica soltanto alle navi delle organizzazioni non governative. Inoltre, degli oltre 80mila migranti finora sbarcati in Italia nel 2022, soltanto il 16% è arrivato sulle navi delle Ong. Il Paese ha accettato il restante 84% "senza problemi". Ricostruzione lacunosa, che non tiene conto di importanti fattori.
Cortocircuito a sinistra sugli sbarchi
Ci sono diverse cose che non tornano in questa disamina. Innanzitutto, per gestire una partita complessa come quella dell'immigrazione e delle Ong ci vuole tempo e il governo Meloni si è insediato da appena due settimane. Nessuno può pretendere che il governo inverta la rotta in un periodo così breve. Secondo aspetto: se il governo è davvero così morbido verso le Ong e l'immigrazione, come mai i legali della Humanity 1 hanno annunciato un ricorso al Tar del Lazio per il presunto "mancato rispetto delle norme internazionali" sui soccorsi in mare e uno al Tribunale civile di Catania affinché il giudice ordini lo sbarco di tutti i 35 migranti rimasti a bordo? Per la politica degli "sbarchi selettivi", il governo si è beccato inoltre la ramanzina della Cgil e della sinistra. Il sindacato ha sottolineato in una nota che "ciò che sta accadendo a Catania non è degno di un Paese civile". Dello stesso avviso la deputata dem Elly Schlein, secondo la quale "quanto accade a Catania è inumano e illegale. Il soccorso si conclude con lo sbarco nel porto sicuro". Insomma, delle due l'una: o il governo è troppo accondiscendente nei confronti delle ong e dell'immigrazione come sostiene Rnd oppure è "disumano", come afferma la sinistra italiana. Due ipotesi che non possono convivere insieme. A questo punto Rnd dovrebbe criticare la sinistra per aver aizzato una polemica evidentemente strumentale ed esagerata. Principio di non contraddizione.
La solita morale contro l'Italia
Dalla tesi del gruppo editoriale Rnd - per carità, assolutamente legittima - emerge inoltre il solito "vizietto" di fare la morale al governo italiano qualunque cosa faccia in merito alla partita dell'immigrazione, dopo che il nostro Paese è stato - per anni - lasciato da solo ad affrontare l'emergenza, come più volte ammesso peraltro anche dai vertici europei e dall'ex cancelliere tedesca Angela Merkel. Se è troppo duro non va bene perché è "inumano", se è troppo morbido non va bene nemmeno quello. Ci si dovrebbe chiedere cosa ha fatto seriamente la Germania in questi anni per aiutare l'Italia nell'affrontare il tema gli sbarchi sulle proprie coste. Troppo poco, se ogni anno ci ritroviamo immancabilmente nella stessa situazione di dover discutere come gestire la delicata partita dell'immigrazione illegale sulle nostre coste, che dovrebbe essere considerato un problema europeo ma, nei fatti, non lo è. Se Berlino intende accogliere tutti i migranti, anche i non rifugiati, allora se ne faccia carico. Altrimenti diventa, questa sì, una fumosa retorica contro l'Italia.
"Nepotismo". Ecco chi è il "furbetto" che si fa finanziare la ong dalla Germania. Mauro Indelicato su Il Giornale il 16 novembre 2022.
È diventata un caso in Germania la vicenda relativa al finanziamento dell'associazione United4Rescue, la stessa per intenderci che a breve metterà in mare la nave umanitaria Sea Watch 5. La commissione bilancio del parlamento tedesco, infatti, nei giorni scorsi ha approvato lo stanziamento di due milioni di euro all'anno fino al 2026 a favore dell'Ong.
"Nepotismo". Ecco chi è il "furbetto" che si fa finanziare la ong dalla Germania© Fornito da Il Giornale
La Bild però ha messo in luce un possibile caso di conflitto di interessi tutto politico. Il presidente di United4Rescue, Thies Gundlach, è il compagno di Katrin Göring-Eckardt, personaggio di spicco dei Verdi e vice presidente della Camera bassa del parlamento tedesco.
Il “caso” United4Rescue
L'approvazione del finanziamento a favore dell'associazione era già oggetto di dibattiti politici. E non è passata inosservata anche in Italia, visto che ha avuto per oggetto lo stanziamento di fondi a favore di una delle reti Ong più attive nel Mediterraneo centrale.
Due milioni di Euro all'anno girate all'associazione tedesca non costituiscono solo un importante aiuto finanziario, ma soprattutto un significativo riconoscimento politico. La Spd, partito del cancelliere Scholz, ha parlato della necessità di aiutare le Ong. Lars Cancelleri, responsabile delle politiche migratorie della Spd, ha parlato di “missioni private importanti per salvare vite ma che devono diventare superflue”.
Nelle scorse ore il caso è tornato a essere dibattuto sulla scia di quanto messo in evidenza dalla Bild. In un articolo pubblicato sul quotidiano tedesco, è stato sottolineato come il presidente dell'Ong finanziata è il compagno di uno dei voti più popolari dei Verdi, partito che sostiene la maggioranza.
Thies Gundlach è partner infatti da diversi anni di Katrin Göring-Eckardt. Quest'ultima su Twitter nei giorni scorsi è stata tra le più entusiaste del finanziamento ottenuto da United4Rescue. “Sono molto contenta – ha scritto – che sia stato possibile sostenere la Ong con il bilancio federale”. La Bild si è quindi concentrata su un possibile conflitto di interessi.
Katrin Göring-Eckardt non è una parlamentare di secondo piano. È tra i leader dei Verdi ed è quindi un esponente di spicco della maggioranza. Non solo, ma dallo scorso anno ricopre anche il ruolo di vice presidente del Bundestag, la Camera Bassa del parlamento tedesco.
I Verdi hanno fatto quadrato attorno la vicenda. Sven-Christian Kindler, portavoce per la politica di bilancio del partito, ha dichiarato l'inesistenza di conflitto di interessi in quanto Katrin Göring-Eckardt non è membro della commissione bilancio e non ha quindi votato il finanziamento. “Non ho avuto alcun contatto con Göring-Eckardt per la decisione della commissione di bilancio di finanziare United4Rescue" ha dichiarato Sven-Christian Kindler.
Opposizione all'attacco: "Si tratta di nepotismo"
Ma dall'opposizione guidata dalla Cdu, il partito cristiano democratico, non la pensano in questa maniera. “Questo pone la proposta in una luce significativamente diversa e sposta chiaramente l'impegno della coalizione semaforo verso il nepotismo”, ha dichiarato il deputato Carsten Körber.
“Il fatto che il partner del vicepresidente dei Verdi del Bundestag sia nel consiglio di amministrazione di questa associazione – gli ha fatto eco Wolfgang Stefinger, membro della commissione bilancio – e che l'associazione sia generosamente finanziata dal ministero degli Esteri guidato dai Verdi ha un sapore estremamente negativo”.
L'ira di Scholz contro la Chiesa evangelica: finanzia le Ong che sbarcano clandestini. Spagna: espulsioni difficili. Francia: norme più severe come in Svezia. Daniel Mosseri l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.
Sette anni dopo la marea umana dell'agosto del 2015, quando oltre un milione di profughi mediorientali arrivò in Germania, l'emergenza immigrazione rialza la testa. Dall'inizio del 2022 Berlino ha ricevuto circa 140.000 domande di asilo (più 35% sul 2021) e la stanchezza dei sindaci tedeschi è palpabile: dall'inizio della guerra russo-ucraina la Repubblica federale ha accolto un milione di ucraini che non devono provare alle autorità lo status di profugo. Un'eccezione contestata da tanti amministratori che vi leggono un incentivo a venire in Germania. Già a settembre i Comuni hanno avvertito il cancelliere Olaf Scholz di aver raggiunto il limite della propria capacità. Ma anche il governo è stanco: ieri, ha scritto Repubblica, Berlino avrebbe lasciato trapelare la propria irritazione nei confronti della Chiesa evangelica tedesca, «colpevole» di finanziare organizzazioni come United4Rescue che con le sue navi favorisce lo sbarco di migranti irregolari sulle coste del sud Europa.
In Francia i media sono concentrati da giorni sulla proposta di legge firmata dai ministri dell'Interno, Gérald Darmanin, e del Lavoro, Olivier Dussopt, per dare una stretta all'immigrazione. Poiché, spiega Le Monde, dei 122,000 decreti di espulsione di irregolari (Oqtf) emessi nel 2021 solo il 10% ha trovato esecuzione, i due ministri hanno suggerito di diminuire da dodici a quattro il numero delle categorie per ricorrere contro un Oqtf davanti aun giudice. «D'ora in poi, registreremo tutti gli Oqtf nell'archivio delle persone ricercate. Non si tratta di ripristinare il reato di soggiorno irregolare», ha spiegato Darmarin a Le Monde, «ma di contare tutte le partenze degli stranieri». In Francia la maggior parte degli irregolari, spiega ancora il quotidiano, è arrivata legalmente ma è rimasta dopo la scadenza del visto o del permesso di soggiorno. Come per esempio Dahbia B., la 24enne algerina accusata di aver torturato e ucciso Lola Daviet, la 12enne trovata morta in un baule a Parigi a fine ottobre. Anche Dahbia B. era stata colpita da un Oqtf non eseguito. Secondo il progetto Darmarin e Dussopt, al voto del Parlamento dal 2023, potrebbe restare invece l'irregolare che sappia svolgere un mestiere altamente richiesto a condizione però che la persona superi dei testi di francese. Misure che richiamano quelle più severe adottate mesi fa dal governo socialdemocratico in Danimarca e quelle in via di elaborazione da parte del nuovo esecutivo in Svezia, una coalizione di centrodestra con l'appoggio esterno del locale partito sovranista. Anche la Spagna ha un problema con le espulsioni: in queste ore Aprog, l'associazione dei rappresentanti della Guardia Civil, ha criticato il governo perché non darebbe esecuzione alle espulsioni delle persone che riescono a valicare le alte recinzioni che circondano Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sul suolo marocchino. Un accordo Madrid-Rabat obbliga il Marocco a riprendere chi è riuscito a scavalcare ma poiché questo non avviene «si crea un incentivo a farlo», sostiene Aprog. Lo scorso 24 giugno 67 uomini, in prevalenza sudanesi, sono rimasti uccisi durante un intervento della polizia marocchina intervenuta per fermare una corsa di 1.500 giovani verso il territorio spagnolo di Melilla.
Migranti, è invasione. Le Ong ci assediano: violano la legge e poi si affidano ai giudici del Tar. Fausto Biloslavo l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.
La "bomba" migranti, lasciata in eredità dal ministro Lamorgese, sta esplodendo con arrivi continui, rivolte delle Ong e dei capitani delle navi
La «bomba» migranti, lasciata in eredità dal ministro Lamorgese, sta esplodendo con arrivi continui, rivolte delle Ong e dei capitani delle navi, che rischiano grosso, multe previste dal governo e offensive legali dei talebani dell'accoglienza a colpi di cavilli e carte bollate.
Anche la nave Rise Above con 89 migranti a bordo stava facendo rotta ieri sera verso Reggio Calabria dopo aver dichiarato lo stato di emergenza per mancanza di carburante ottenendo l'autorizzazione dalla Guardia costiera. Sbarcheranno tutti. Copione previsto per la terza delle quattro navi delle Ong che «assediano» l'Italia.
A Catania, nel frattempo, è andato in scena l'«ammutinamento» dei capitani delle due unità attraccate per sbarcare i fragili che avevano a bordo, la Humanity 1 e Geo Barents. I comandanti si sono rifiutati di rispettare l'ordine governativo di salpare con i migranti che non sono stati fatti scendere a terra, 35 sulla prima nave e 214 sulla seconda.
Il più loquace è Joachim Ebeling, 59 anni, tedesco, al timone di Humanity 1, che dichiara: «Sono davvero indignato e sconvolto dal decreto illegale del governo italiano, che non mi consente di far sbarcare a terre le persone». Non è nuovo a sfide del genere con il nostro paese. Nel settembre del 2020 comandava la nave Alan Kurdi, di Sea Eye, altri talebani tedeschi dell'accoglienza. Alla fine è riuscito a sbarcare in Sardegna 133 persone recuperate in mare, dopo averci provato a Lampedusa. La nave è stata sequestrata per un po' di tempo.
Per ora è stata notificato alle imbarcazioni delle Ong «un avvertimento che ci dice che se non rispettiamo le norme del decreto rischiamo una multa fino a 50mila euro» ha precisato Medici senza frontiere della Geo Barent. In pratica i comandanti dovrebbero salpare e uscire dalle acque nazionali, ma si rifiutano e rischiano una denuncia alla procura di Catania per resistenza a pubblico ufficiale. Difficilmente un arresto, ma si potrebbe arrivare al sequestro della nave, che non è mai definitivo.
L'altro capitano, della Geo Barents, è un norvegese classe 1975, Asbjørn Martin Ekroll. Di lui non si sa molto di più, ma a bordo, c'è la spagnola Ana Isabel Montes Mier, a capo delle squadre di ricerca e soccorso di Msf. Pasionaria dell'accoglienza si è fatta le ossa con Open arms e il braccio di ferro con l'allora ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Il 14 maggio ha testimoniato orgogliosamente per cinque ore e mezzo a Palermo nel processo contro il leader leghista. E nelle ultime settimane pontificava sulla Geo Barents con la maglietta di Msf.
I migranti rimasti a bordo delle quattro navi, compresa Ocean Viking di Sos Mediterranee in acque internazionali, sono ancora 572. Molti sono passati per i gironi danteschi dei centri di detenzione libici oppure nei lager dei trafficanti, ma adesso, ormeggiati a Catania, sostengono di patire le pene dell'inferno. Le Ong rincarano la dose denunciando «gravi infezioni» e «problemi psicologici» che potrebbero provocare il suicidio. In tre si sono gettati in mare dalla Geo Barents prontamente recuperati e riportati sulla banchina. I 35 a bordo della Humanity 1 hanno iniziato lo sciopero della fame cominciando a gridare «aiutateci» in inglese.
Le Ong, seguendo le tappe già testate in passato, hanno lanciato l'offensiva legale con team di avvocati già pronti. Riccardo Campochiaro, che rappresenta la tedesca Sos Humanity, ha confermato non solo il ricorso al Tar del Lazio contro il decreto governativo, ma pure un altro d'urgenza al tribunale civile di Catania per far sbarcare tutti i migranti rimasti a bordo. E gruppi di legali pro Ong stanno preparando raffiche di esposti.
Anche Msf affila i «coltelli» giudiziari e Sos Mediterranee ha denunciato che sulla loro nave la «situazione è esplosiva» con i migranti a bordo da 20 giorni, «il periodo più lungo mai trascorso su Ocean Viking».
La bomba libica non riguarda solo le Ong, che hanno sbarcato in Italia diecimila migranti dall'inizio dell'anno. Ieri è stato intercettato al lago di Siracusa l'ennesimo maxi peschereccio partito da Tobruk, in Cirenaica, Libia orientale, con 498 persone a bordo. Nel primo pomeriggio un altro arrivo di 69 migranti, ma su un barcone di 12 metri, salpato da Minieh in Libano. Siriani, palestinesi, iracheni, libanesi che avevano pagato dai 6mila ai 10mila dollari ciascuno. Non c'è da stupirsi se quest'anno sono già sbarcati in Italia 88.100 migranti.
Il governo si ritrova con le armi spuntate. "Queste norme obbligano ad accogliere tutti". L'ammiraglio Caffio: "La strada è in salita. Il caso Rackete punto di svolta". Massimo Malpica l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.
Linea dura su fondo molle. «Stoppare» il traffico delle navi delle Ong nel Mediterraneo ha senso, ma la strada è in salita. Lo conferma al Giornale l'ex ammiraglio Fabio Caffio, esperto di diritto marittimo e accurato analista della crisi migratoria attraverso il Mediterraneo. «Se la nave di una Ong soccorre un migrante in acque libiche, passa per la zona Sar maltese e arriva in Italia», ragiona Caffio, «chi è competente per il Place of safety?». Esempio calzante, analisi scoraggiante. Perché se la competenza «è del Paese responsabile della zona Sar», spiega l'ex ammiraglio, è anche vero che la Libia dal 2019 non è più un porto sicuro dove sbarcare i migranti salvati. «Lo dicono continua - l'Unhcr e il decreto di Di Maio del 4 ottobre 2019 sui Paesi di origine sicura». Malta con i suoi 500mila abitanti e una minima capacità di accoglienza «tiene un profilo basso», chiosa Caffio. Resta l'Italia. E le Ong. «Tutto comincia nel 2013 ricorda l'ex ammiraglio - durante Mare Nostrum, la missione umanitaria della Marina, con la Guardia Costiera, competente per la Sar, che fa salvataggi deviando le navi mercantili, che nel solo 2014 salvano circa 40mila migranti». Ma gli armatori non ci stanno, e così tocca alle Ong, «coordinate prosegue Caffio - dalle Capitanerie che con Una vis, nel 2016, le accreditano e utilizzano come proprio strumento per le attività di soccorso». Nel 2018 la Libia stabilizzata «non vuole più prosegue - le Ong nelle proprie acque». Come pure il governo gialloverde e Salvini, «che dice alle capitanerie di non chiamare le Ong e di rivolgersi alla Libia». Che però nel 2019 torna «non sicura». E riecco le Ong.
Il punto di svolta? Il quasi speronamento della nave Gdf da parte della Sea Watch 3 nel 2019. «Rackete viene prosciolta. E la Cassazione afferma l'equazione soccorso uguale sbarco in porto sicuro», spiega Caffio. Un principio poi «reso giuridico con il decreto legge 130/2020», aggiunge. Insomma, la linea dura del governo Meloni si scontra con «una normativa e dei principi dedicati ad accogliere tutti». Anche il decreto per «sloggiare» Humanity è a rischio. «La discriminante applicata non mi sembra avere una base solida nella nostra legislazione», taglia corto l'ex ammiraglio. Che una strada la vede ancora percorribile. «Quella dei corridoi legali di espatrio, già indicata dal governo. E coinvolgere la Ue, pretendere che sia parte attiva. Serve un meccanismo di consultazione rapido, una cabina di regia a Bruxelles che decida in fretta sulla ripartizione tra Paesi Ue, che a Malta funziona e da noi fa ridere. Oltre a politiche comuni per punire i trafficanti, che perseguiamo solo noi in Italia».
Quanto al tema degli Stati di bandiera delle navi, qualcosa anche qui si potrebbe fare, conclude l'ex ammiraglio. «Chiedere almeno a Spagna e Francia, perché a Germania e Norvegia mi pare difficile, di imporre alle navi delle Ong che battono la propria bandiera di portare i migranti salvati nei propri porti».
Da repubblica.it il 7 novembre 2022.
Giornata di attesa al largo della costa siciliana. Gli equipaggi delle due navi Ong, Humanity 1 e Geo Barents, che hanno potuto fare scendere i migranti giudicati "fragili" dai medici inviati dalla Guarda costiera italiana, si rifiutano di ripartire con gli altri profughi in discrete condizioni di salute. Alla Rise Above è stato assegnato il porto di Reggio Calabria, dove sbarcheranno tutti gli 89 migranti a bordo..
Intanto governo e opposizione continuano a sfidarsi sull'accoglienza dei richiedenti asilo soccorsi dalle quattro navi umanitarie presenti nel Mediterraneo. Mentre continuano gli sbarchi da parte dei disperati presenti sulle imbarcazioni che ce la fanno da sole a raggiungere la zona Sars italiana.
Liana Milella per repubblica.it il 7 novembre 2022.
Il provvedimento Piantedosi? "È contrario alla legge del mare, alle convenzioni internazionali sottoscritte dall'Italia, e alla nostra Costituzione". Distinguere a bordo tra chi è fragile e chi no? "Le nostre leggi vietano di discriminare in base al sesso, all'età, oppure a un'infermità in atto". Non ha dubbi Giovanni Maria Flick, ex presidente della Consulta ed ex Guardasigilli del primo governo Prodi.
Il ministro dell'Interno è Piantedosi, e non Salvini, ma sembra proprio che siamo tornati a 4 anni anni fa e alla "guerra" dell'Italia contro i migranti.
"Sì, è proprio così, ma questa è una guerra più che contro di loro contro chi li salva applicando la legge fondamentale del mare, l'ordinamento internazionale, e la nostra Carta".
Di che leggi parla?
"Di tutte quelle che prevedono il salvataggio di chi rischia la vita in mare e che impongono di accogliere subito la nave in un porto sicuro e vietano di rimandare nello stesso posto da cui è fuggito chi si trova in pericolo".
Se le cose stanno così il decreto di Piantedosi è illegittimo.
"Lo ritengo contrario alla legge del mare, alle convenzioni internazionali e alla nostra Costituzione".
In che senso è incostituzionale? Perché blocca i migranti sulle navi e pretende di distinguere tra chi è "fragile" e chi no?
"Per entrambe queste ragioni. Perché la vita è sacra e la Costituzione non attribuisce all'autorità pubblica il diritto di distinguere il grado di pericolo e la diversità di posizione tra coloro che rischiano la vita o che comunque verrebbero respinti. L'accoglienza in un porto "sicuro" è il presupposto necessario per verificare se quelle persone possano essere accolte oppure no".
Questa "selezione" il governo vuole farla direttamente sulle navi. È mai possibile?
"Forse potrebbe esserlo su navi che battono bandiera italiana e sono parte del territorio nazionale. Ma non può esserlo su navi straniere e da parte di chi sta tentando di salvare persone in pericolo".
Certo è paradossale pensare che l'equipaggio di una Ong possa assumere le funzioni proprie di un ufficio di polizia di frontiera.
"Sono d'accordo. Non si possono imporre questi obblighi a chi sta operando un salvataggio per spirito umanitario e per giunta in condizioni di grande difficoltà".
Esiste un criterio per decidere che una mamma e un bambino possono scendere a terra perché "fragili", mentre il marito e padre deve restare a bordo?
"Mi pare veramente sconcertante. Quando la nave entra nel territorio italiano chi è a bordo è soggetto alla nostra legge. Che non discrimina le condizioni di fragilità in base al sesso, all'età, oppure a un'infermità in atto. Ogni migrante ha alle spalle un viaggio drammatico, forse le torture nei campi libici, e adesso incombe su di lui pure il rischio di essere rimandato indietro".
Queste navi non sono italiane. Si può chiedere al comandante una simile procedura?
"Le convenzioni internazionali impongono il diritto-dovere di portare la nave in un porto sicuro; non certo quello di operare o condividere discriminazioni tra un migrante e l'altro".
Ma proprio a quel comandante l'Italia, con le nuove regole del ministro dell'Interno, ordinerà di rimettersi in mare con il suo carico di migranti, a quel punto parziale...
"L'Italia non può imporre una simile procedura, deve risolvere prima il problema a livello europeo, perché ha sottoscritto gli accordi di Dublino che l'hanno investita della funzione di controllo delle frontiere europee lungo 800 km di costa. Il nostro Paese ha il dovere di accogliere i migranti e di verificare poi, quando tutti sono in salvo, chi possa restare e chi no".
Ma ha letto cosa propone il governo? L'asilo spetterebbe alla nazione cui appartiene la Ong che ha salvato i migranti.
"L'Italia, lo ripeto, non può dimenticare le convenzioni e gli accordi che ha sottoscritto in cui questa nuova soluzione ovviamente non è prevista e peraltro contraddice la necessità che la nave venga accolta "sollecitamente" in un porto sicuro. In ogni caso non possono essere i migranti a pagare il prezzo delle diatribe tecniche e politiche del nostro governo in conflitto con gli altri membri della Ue, né tantomeno si possono "monetizzare" gli stessi migranti perché vengano trattenuti da paesi che non rispettano i diritti umani o perché non vengano usati per creare difficoltà alla Ue".
Il decreto dell'esecutivo. Cos’è lo “sbarco selettivo”, la linea dei porti chiusi sui migranti del governo Meloni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Novembre 2022
Le operazioni di “sbarco selettivo” sono continuate nella notte a Catania. Due le navi gestite da ong che hanno soccorso migranti nel Mediterraneo nei giorni scorsi e cui è stato concesso l’attracco nel porto siciliano: la Humanity 1 di SOS Humanity e la Geo Barents di Medici Senza Frontiere. Il governo ha deciso con un decreto annunciato venerdì scorso che a sbarcare siano soltanto le donne, i bambini e le persone considerate fragile. È la nuova linea dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, che torna sulla traccia segnata dalle politiche dei “porti chiusi” inaugurata dal segretario della Lega Matteo Salvini al tempo del governo Conte 1.
Lo sbarco parziale è previsto da un decreto interministeriale (Interno, Difesa e Infrastrutture) approvato venerdì scorso: la misura prevede che, una volta entrate in acque italiane, le navi delle ong debbano sottoporsi a un’ispezione delle forze dell’ordine italiane per decidere quali migranti possano scendere. Alla fine delle ispezioni, e finite le operazioni di soccorso di donne, bambini e persone ritenute fragili, le navi delle ong devono lasciare il porto e le acque italiane. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha parlato in conferenza stampa delle navi che devono essere trattate “come un’isola” dello stato di cui battono la bandiera. Il governo di quest’ultimo dovrebbe allora prendersi carico delle richieste d’asilo.
Piantedosi aveva inoltre spiegato che il decreto è stato emesso in base all’articolo 1 comma 2 del decreto legge 130/2020, il cui testo convertito in legge prevede che “il ministro dell’interno può limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale”, “fermo restando quanto previsto dall’articolo 83 del codice della navigazione, per motivi di ordine e sicurezza pubblica”. I motivi di ordine e sicurezza pubblica sarebbero rappresentati in questo caso, per uno Stato di circa 60 milioni di cittadini, da qualche centinaio di migranti soccorsi mare in gravi condizioni fisiche e psicologiche. Le leggi internazionali, e in particolare la cosiddetta convenzione di Amburgo firmata nel 1979, prevedono però che gli sbarchi debbano avvenire nel primo “porto sicuro” per prossimità geografica al luogo di salvataggio. Il “porto sicuro” deve essere indicato dall’esecutivo alle navi.
“La priorità assoluta è la salute dei migranti. È un triage clinico, scendono prima i minori e poi le gestanti, tutto il resto verrà controllato uno per uno dai medici del ministero della Salute”, ha spiegato al Gr 1 della Rai il direttore dell’Usmaf Sicilia Claudio Pulvirenti. Dalla Humanity 1 hanno denunciato, come riporta Il Corriere della Sera, che “durante la breve visita medica di ieri sera, quando i 35 sopravvissuti sono stati considerati ‘sani’ dalle autorità italiane, non era presente né un traduttore per valutarne le condizioni psicofisiche, né c’era una valutazione psicologica. Inoltre- ha aggiunto la portavoce di Sos Humanity Petra Krischok – i 35 sopravvissuti hanno diritto a richiedere asilo e a una procedura formale di asilo, che può essere svolta solo a terra”.
“Un’operazione di soccorso si può considerare terminata solamente una volta che tutti i sopravvissuti sono stati fatti sbarcare in un luogo sicuro. Lo sbarco selettivo e parziale, come quello proposto dalle autorità italiane, non è da considerarsi legale secondo le convenzioni di diritto marittimo” sostiene Medici Senza Frontiere. “Secondo il diritto internazionale – prosegue la ong – una nave non è responsabile dell’accoglienza a bordo dei sopravvissuti laddove siano possibili soluzioni alternative. Inoltre, il governo responsabile dovrebbe prendere ogni misura necessaria per far sì che i sopravvissuti restino a bordo il minor tempo possibile, secondo quanto stabilito dalle Linee Guida sul Trattamento delle Persone Soccorse in Mare“.
35 i migranti rimasti a bordo della Humanity 1 che aveva soccorso 179 migranti. Il Capitano Joachim Ebeling ha dichiarato che nella mattina di domenica ha ricevuto la richiesta di lasciare il porto di Catania. Si è rifiutato. “Sarebbe contro le leggi andare via con i sopravvissuti, come mi ha spiegato il mio legale. I naufraghi rimasti a bordo sono in uno stato depressivo e di apatia, siamo profondamente preoccupati per la loro salute mentale. È difficile riuscire a spiegargli quello che sta succedendo ed è qualcosa che io stesso non riesco a capire perché è contro le leggi”. La ong SOS Humanity ha annunciato che farà ricorso al TAR del Lazio.
Geo Barents ha attraccato nel porto di Catania domenica mattina, a bordo 572 migranti. I primi sbarchi sono cominciati nel tardo pomeriggio di domenica. Altre due navi sono al largo della Sicilia – la Ocean Viking, con 234 migranti a bordo, e la Rise Above, 90 migranti – e aspettano indicazioni per attraccare e sbarcare le persone che hanno soccorso. “Questi sono viaggi organizzati. Chi è a bordo di quelle navi paga circa 3mila dollari, che diventano armi e droga per i trafficanti. Sono viaggi organizzati sempre più pericolosi. Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani che è già grandissimo, ma di armi e droga legato al traffico di esseri umani”, ha detto a Non stop news su Rtl 102.5 il ministro delle infrastrutture Salvini.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Migranti, cosa significa “carico residuale” e “sbarco selettivo”? Gabriele Vecchia l’07/11/2022 su Notizie.it.
L'opposizione attacca: "Linguaggio inaccettabile per scelte ancor più inaccettabili"
Hanno fatto scalpore i termini utilizzati dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi riguardanti la questione sbarchi in Italia, per descrivere l’approccio muscolare del nuovo governo sono stati usati due termini che non sono andati giù ai vertici del Pd, ovvero “Carico residuale” e “Sbarco selettivo”.
Per Enrico Letta si tratta di: “Linguaggio inaccettabile per scelte ancor più inaccettabili, contrarie ai principi di umanità e alle regole internazionali”.
LEGGI ANCHE: Venezia, attivisti della Ong Mediterranea contro Piantedosi: “Fateli sbarcare!”
Cosa significa “Carico residuale”
Il ministro dell’Interno ha utilizzato questo termine per indicare i 35 migranti ancora a bordo dell’ONG tedesca Humanity 1. Si tratterebbe di persone che si trovano in uno stato di buona salute, per questo motivo quindi non è necessario prestare loro alcun soccorso, vista la decisione da parte del Governo di fare sbarcare solo e soltanto, oltre a donne e bambini, chi è in cattive condizioni psico-fisiche.
Cosa significa “Sbarco selettivo”
Il termine proviene ancora una volta dalle parole usate dai ministri Piantedosi e Salvini. Secondo l’opposizione sarebbe stato usato per “dividere” i migranti all’interno delle navi tra chi si trova in cattive o buone condizioni psico-fisiche, dando solo alle prime al possibilità di sbarcare, mentre gli altri dovrebbero rimanere dentro le navi che hanno prestato soccorso e tornare negli stati di cui le ONG fanno parte.
Sulla questione intanto, si sono espressi Medici Senza Frontiere: “Lo sbarco selettivo e parziale, come quello proposto dalle autorità italiane, non è da considerarsi legale secondo le convenzioni di diritto marittimo”
Niccolò Carratelli per “La Stampa” l’8 novembre 2022.
Ci ha messo diversi giorni, Giuseppe Conte. Giorni di silenzio assoluto, mentre a centinaia di migranti, soccorsi nel Mediterraneo, veniva impedito di approdare in Sicilia. Non una parola nemmeno di fronte allo sbarco selettivo andato in scena nel porto di Catania, né davanti alla definizione di «carico residuale» per le persone costrette a restare a bordo.
L'assenza di reazioni da parte di esponenti del Movimento 5 stelle non è passata inosservata, sui social in molti hanno preso di mira il presidente, che alla fine è intervenuto con un lungo post su Facebook. Per dire che «il tema dei flussi migratori è complesso e va affrontato con politiche di ampio respiro, senza facili slogan o esibizioni muscolari a danno di persone e famiglie disperate».
Giusto, ma stava ancora finendo di scrivere, che già in dieci si erano affrettati a rinfacciargli la stagione dei decreti sicurezza, firmati da presidente del Consiglio, e dei porti chiusi all'epoca del governo gialloverde, senza che lui riuscisse a opporsi a Matteo Salvini. Una macchia che l'ex premier non può cancellare, il suo principale tallone d'Achille nel tentare di accreditarsi come nuovo leader della sinistra. Qualunque cosa dica, rischia di suonare stonata.
«Il diritto di ogni Stato sovrano a controllare i propri confini non giustifica la violazione delle molteplici norme di diritto internazionale che tutelano la dignità di ogni essere umano - avverte ancora su Facebook -. Trattenere in mare per alcuni giorni in più donne, uomini e minori, comunque destinati a sbarcare, non risolve il problema: evitiamo iniziative di pura propaganda».
Scatta il riflesso pavloviano: e la Open Arms? E la Diciotti? E la Gregoretti? Il vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano, che al porto di Catania è andato di persona, ha l'occasione per affondare il colpo: «Mi hanno colpito il silenzio e l'attesa di Conte nell'esprimere un'opinione su una vicenda che riguarda i valori e i principi fondamentali di una forza progressista - dice -. Il Pd è stato lì dal primo momento, bisogna essere coerenti quando ci si dichiara progressisti».
Sbarcano tutti col certificato medico. Il ricorso beffa: "Rischi psicologici". La linea della fermezza piegata dall'Asl Catania, scendono a terra gli altri migranti. Fausto Biloslavo il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.
Ong-governo, 3 a 1. A parte quelli diretti a Marsiglia gli altri migranti a bordo delle tre navi dei talebani dell'accoglienza sbarcano tutti in Italia, come sempre. La linea dura del Viminale è fallita quasi del tutto. La prima avvisaglia è stato lo sbarco farsa dei migranti della Rise Above, la nave della Ong tedesca, Mission Lifeline, attraccata e già ripartita da Reggio Calabria per ripetere il copione. Poi è saltato fuori il grimaldello utilizzato da Medici senza frontiere, che ha chiesto un'ispezione a bordo della Geo Barents sui 211 migranti rimasti, dopo lo sbarco dei fragili. La nave ormeggiata a Catania avrebbe già dovuto lasciare il porto su ordine governativo. I sanitari dell'Azienda locale hanno riscontrato «un rischio psicologico» per «lo spazio confinato» a bordo. In serata tutti i migranti sono scesi a terra. E si è usato lo stesso grimaldello per la Humanity 1 con 35 migranti rimasti a bordo. Gli ispettori dell'Usmaf hanno riscontrato l'alto rischio psicologico e, ieri sera, i migranti sono scesi dalla nave della Ong. Saliti su un bus, all'uscita dal molo, sono stati accolti dagli attivisti con applausi e al coro «libertà». Alcuni si sono affacciati dai finestrini dando il cinque ai manifestanti. Una specie di Caporetto, che forse fa parte di un accordo non scritto con francesi e tedeschi, che sono legati a navi e Ong ribelli.
L'ultima nave delle Ong ad arrivare, ieri, in porto, la Rise Above, ha cantato vittoria per prima. Batteva bandiera tedesca e «assediava» l'Italia, ma è stata graziata. Dal Viminale fanno sapere che era «troppo piccola, strapiena di migranti e con molti minori». Quando ha finito il carburante, dichiarando lo stato di emergenza, è stata autorizzata a sbarcare gli 89 a bordo a Reggio Calabria. Tutti provenivano da paesi non in guerra come la Tunisia e l'Egitto ed erano stati recuperati in acque di competenza maltese senza alcuna autorizzazione da Roma. I neonati erano 8 e 34 i minori dai 7 ai 17 anni. La beffa è stata evidente grazie a un filmato di Rai News 24 sui migranti appena scesi a terra che salutano, in perfetta forma, gli amiconi dell'equipaggio. Non solo: molti dei presunti minori sono ragazzoni altri due metri ben oltre la maggiore età. Come se non bastasse Rise Above è tornata in mare per ripetere il copione.
La seconda, clamorosa, vittoria a colpi di certificati medici è arrivata in serata a Catania con l'annunciato sbarco di tutti i 211 migranti rimasti a bordo della Geo Barents. Da ore avevano inscenato proteste mostrando cartelli «Help» (aiuto) e «Disembark 4 all» (sbarco per tutti). Il grimaldello dello stress psicologico ha funzionato per farli scendere a terra. Curioso che gente tosta sopravvissuta a violenze e detenzioni in Libia, come le stesse Ong hanno denunciato, adesso riscontri gravi problemi psicologici nonostante siano al sicuro e venga garantita l'assistenza necessaria. Si vuole replicare la stessa tattica per gli ultimi 35 migranti a bordo di Humanity 1. Anche se presso il tribunale civile di Catania pendeva un ricorso d'urgenza presentato da un agguerrito team legale dei tedeschi di Sos Humanity. A bordo sono rimasti 14 cittadini del Bangladesh, 5 egiziani e 11 pachistani. Nessuno è scappato da zone di guerra. Nelle 22 pagine, che il Giornale ha letto, i migranti giunti illegalmente via mare dalla Libia «chiedono al Tribunale di ordinare al Ministero degli Interni, delle Infrastrutture e della Difesa di autorizzare lo sbarco». Il tutto si basa sulla richiesta di asilo, che l'avvocato Riccardo Campochiaro ha raccolto dagli stranieri a bordo della Humanity 1, che batte bandiera tedesca.
Nelle prime sette pagine si sostiene che molti dei 35 stranieri a bordo «sono stati soccorsi nell'evento () del 24.10 mentre un'imbarcazione era alla deriva e stava affondando». La Humanity 1 ha ricevuto la richiesta di intervento da Alarm phone, il centralino dei migranti, che si sostituisce ai Centri di coordinamento degli Stati. Il recupero dei migranti è avvenuto in acque internazionali di competenza maltese per la ricerca e soccorso senza alcun via libera italiano». Poi la nave è stata «autorizzata a entrare nelle acque territoriali italiane per ripararsi dal maltempo» e a dirigersi a Catania per sbarcare i fragili. La linea dura del governo si è sciolta come neve la sole e sbarcano tutti con il certificato medico.
Sbarcano tutti in Italia con il certificato medico. Per i sanitari i migranti sono "fragili": il governo deve cedere. Ma la linea dura serve: Macron ci aiuta e si prende una nave. Augusto Minzolini il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.
Sono sbarcati tutti a Catania, eppure porre la questione di principio sulle navi Ong che dovrebbero dirigersi verso i Paesi di cui battono bandiera con il loro carico di migranti a qualcosa è servito. Emmanuel Macron dopo un colloquio con Giorgia Meloni ha aperto il porto di Marsiglia alla Ocean Viking. Frontex, l'agenzia europea delle guardie di frontiera, ha ammesso che la presenza delle navi Ong sulle coste della Libia favorisce l'immigrazione clandestina: non sono una soluzione, quindi, ma una parte del problema. E, senza la battaglia ingaggiata dal Viminale, probabilmente non ci sarebbe stata la presa di posizione di Papa Francesco, che ha ammesso come il problema degli emigranti per mare non può ricadere solo sulle spalle dell'Italia, ma richiede un impegno comune degli altri Paesi europei sul tema dell'accoglienza. Parole, quelle del Papa, che nel loro realismo hanno spiazzato pure una parte dei vescovi italiani.
Ecco perché, anche se ieri tutti i passeggeri delle altre due navi Ong ormeggiate a Catania sono sbarcati utilizzando i mille espedienti e i mille cavilli che regolano la vita nel nostro Paese, la battaglia di principio ha avuto un senso. Del resto lo avevamo scritto proprio su questo Giornale: il problema non era il numero di immigrati che avrebbero messo piede sul suolo italiano - nessuno, la metà o tutti - ma lanciare un messaggio alle coste dell'Africa e a Bruxelles. Soprattutto era necessario mettere in evidenza che in questo anno e mezzo in cui la Lamorgese è stata al Vimimale adottando la politica dello struzzo e cullandosi nella speranza di poter esorcizzare il problema, c'è stata un'escalation del fenomeno che rischia di diventare incontrollabile.
Motivo per cui c'era bisogno di una presa di posizione che segnalasse un cambio di orientamento. Poi, certo, non puoi modificare l'andazzo da un giorno all'altro, specie in Italia. Da noi c'è gente che prende per mesi lo stipendio standosene a casa grazie ad un certificato medico, immaginatevi se dei poveri cristi all'esame di uno psicologo non trovino la diagnosi che gli permetta di sbarcare. Il nostro è il Paese delle mille regole, dei tanti attori che si muovono sul palcoscenico dello stesso problema: magistrati, capitanerie di porto, medici. Ogni questione diventa un guazzabuglio che nell'ipotesi migliore, con la complicità della retorica di sinistra, ti fa finire davanti ad una toga spesso di parte. E fra tanti protagonisti e comparse, il potere più debole è la politica. Anzi, in questa occasione siamo arrivati al paradosso che le ragioni del governo italiano siano state prese più in considerazione in Francia o tra gli ufficiali di Frontex, che non nel porto di Catania.
Anche da questo punto di vista è valsa la pena di mettere le carte sul tavolo: se davvero l'azione del governo vuole essere efficace, ci deve essere una semplificazione delle norme, bisogna varare una legislazione che dia certezze e individui i soggetti a cui debbono essere affidate le decisioni in questi frangenti, cioè chi debba avere l'ultima parola. Ci vuole, appunto, una buona dose di pragmatismo al posto dell'ideologia. Ma soprattutto ci vogliono regole che non mettano lo Stato di fronte al tragico imbarazzo, al drammatico dilemma di dover scegliere tra il difendere le nostre frontiere da un'invasione clandestina e il salvare delle vite in mezzo al mare.
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 15 novembre 2022.
Le megamulte del primo decreto sicurezza non le ha mai pagate nessuno. I tribunali civili della Sicilia a cui le Ong "punite" da Salvini hanno fatto ricorso le hanno sempre annullate, le navi sequestrate sempre riconsegnate alle organizzazioni umanitarie. Unica eccezione la Iuventa, ancora sotto sequestro a Trapani nell'ambito dell'unico processo a carico di esponenti di Ong che, dopo 5 anni, non riesce neanche ad entrare nel vivo.
«Noi - racconta Beppe Caccia, armatore di Mediterranea Saving human - abbiamo ricevuto due multe, una da 65.000 euro per la Alex e una da ben 300.000 euro per la Mare Jonio nell'estate 2019. Ed entrambe le imbarcazioni furono poste sotto sequestro. Provvedimenti amministrativi punitivi fortemente voluti da Salvini e talmente inconsistenti che il tribunale civile cui ci siamo subito appellati non ha avuto esitazioni a darci ragione». […]
Cancellate anche le altre due uniche multe comminate nell'era Salvini: quella alla Sea Watch 3 di Carola Rackete in occasione dell'entrata di forza a Lampedusa a giugno 2019 e quella alla Eleonor della ong tedesca Missione Lifeline, condotta fin dentro il porto di Pozzallo dal comandante Claus Peter Reisch dopo la dichiarazione dello stato di emergenza.
Anche in quest' ultimo caso, multa da 300.000 euro e sequestro dell'imbarcazione. Tutto annullato dal tribunale civile di Ragusa che dichiarò la prevalenza del diritto internazionale e dell'obbligo di soccorso sui decreti sicurezza. Principi a cui, successivamente, la Cassazione che ha definitivamente prosciolto Carola Rackete ha messo il sigillo definitivo.
Caso Iuventa, l’Ong Mediterranea: «A Trapani processo farsa». La difesa non usa mezzi termini. «Non ci era mai capitato di non poter firmare il verbale di un interrogatorio». La Procura si sarebbe nuovamente rifiutata di fornire un interprete qualificato durante l’interrogatorio di un imputato tedesco. Il Dubbio il 03 dicembre 2022
Tiene ancora banco il caso Iuventa e stavolta l’Ong Mediterranea, sul proprio sito, pubblica una nota ancora più dura rispetto alle precedenti, denunciando l’evolversi processuale dinanzi al tribunale di Trapani.
«Il sequestro della nave di soccorso Iuventa è stata una tragedia – ma il processo contro i membri dell’equipaggio è una farsa! Nell’importante serie di udienze preliminari contro i membri dell’equipaggio del soccorso civile in mare, la Procura si è nuovamente rifiutata di fornire un interprete qualificato durante l’interrogatorio di un imputato tedesco. È la terza volta che uno degli imputati si reca a Trapani per essere interrogato. Già due interrogatori, tenutisi il 29.10.22 e il 12.11.22, erano stati interrotti perché la Questura di Trapani non era in grado di fornire un interprete adeguato. Questa volta è stata la Procura stessa a sostituirlo e a condurre l’interrogatorio. Tuttavia, l’interrogatorio si è concluso dopo soli 30 minuti» si legge nel comunicato stampa.
«L’ufficio del pubblico ministero ha presentato lo stesso interprete della volta precedente: un ufficiale di polizia in pensione che non figura nell’elenco ufficiale degli interpreti ammessi al tribunale. Non ha esperienza di interpretariato e quindi ha fallito già all’ultimo tentativo di interrogatorio. Il fatto che l’accusa non sembri preoccuparsi di queste circostanze è motivo di seria preoccupazione, perché può solo significare che in realtà non è affatto interessata a chiarire i fatti relativi alle accuse mosse contro i quattro membri dell’equipaggio della Iuventa e degli altri 21 imputati. «Il diritto fondamentale a un processo equo è stato negato all’imputato per la terza volta, a dimostrazione del fatto che il pubblico ministero non è interessato a conoscere il contesto fattuale per decidere se il caso è degno di essere giudicato», ha dichiarato Francesca Cancellaro, avvocata della difesa.
La difesa si è persino rifiutata di firmare il verbale al termine dell’interrogatorio. «Siamo esterrefatti da quanto accaduto oggi nell’ufficio della Procura di Trapani. Non ci era mai capitato di non poter firmare il verbale di un interrogatorio. Il verbale non rispecchiava le dichiarazioni che avevamo fatto, quindi abbiamo chiesto al procuratore di correggere e il procuratore ha negato, quindi abbiamo dovuto rifiutare la firma» ha detto Nicola Canestrini, avvocato della difesa.
Dariush Beigui, Iuventa: «Non mi fido della volontà e della capacità delle autorità investigative di garantire il rispetto dei miei diritti. Come potrei farlo se non rispettano nemmeno le loro stesse regole e i loro regolamenti?».
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 5 dicembre 2022.
Darius Beigui è incredulo. Per la terza volta in tre mesi è volato dalla Germania fino a Trapani per potersi difendere nel processo in cui rischia vent'anni di carcere per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e per la terza volta non ci è riuscito. Parla tedesco e non conosce l'italiano e, per quanto sembri incredibile, a Trapani né la polizia né la Procura sono in grado di portare in aula un interprete. […]
Darius è uno dei componenti dell'equipaggio di giovanissimi tedeschi che nell'estate 2016, a bordo della nave Iuventa della Ong Jugend Rettet, mise in salvo 2000 persone. Soccorsi effettuati grazie ad appuntamenti con gli scafisti, è la tesi della Procura di Trapani che - dopo una lunghissima indagine suffragata anche dalle prove di un infiltrato della Polizia a bordo di un'altra nave umanitaria che operava nello stesso tratto di mare e con tanto di giornalisti intercettati - ha deciso di chiedere il processo per ventuno persone, componenti degli equipaggi e volontari di tre Ong, la Jugend Rettet, Save the children e Msf. Una storia diventata anche un film realizzato dal regista Michele Cinque.
La Iuventa, ormai ridotta ad un ammasso di rottami, è sotto sequestro da cinque anni al porto di Trapani, il processo è l'altra faccia della medaglia di quello che vede imputato a Palermo Matteo Salvini, l'unica di tante inchieste aperte sull'operato delle navi umanitarie ad essere approdata davanti ad un giudice, gli imputati e le Ong (in un momento come questo dove la flotta di soccorso civile nel Mediterraneo è di nuovo nel mirino dei governi di mezza Europa) scalpitano per difendersi e affermare il principio del dovere di soccorso delle vite umane su tutto.
Ma a Trapani non si riesce a fare un processo garantendo i diritti degli imputati, e il tribunale ha deciso di ammettere in aula (il procedimento in fase di udienza preliminare è a porte chiuse) osservatori internazionali. «È la prima volta - dice l'avvocata Francesca Cancellaro - che un tribunale in Italia consente la presenza di osservatori internazionali in un'udienza preliminare dando alla società civile l'opportunità di essere direttamente informata su ciò che accade in aula».
Surreale quanto successo al tribunale di Trapani venerdì quando, per la terza volta, si è provato ad interrogare Darius Begui. Il pm ha portato in aula come interprete un funzionario di polizia in pensione, il cui nome non è nell'elenco ufficiale. Dopo trenta minuti, l'interrogatorio è stato interrotto e la difesa si è rifiutata di firmare il verbale. […]
Tra lacci burocratici e garantismo i rimpatri dall'Italia sono quasi impossibili. Il campionario dei trucchi è ricco di episodi, talvolta piuttosto disgustosi. Luca Fazzo il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.
Il campionario dei trucchi è ricco di episodi, talvolta piuttosto disgustosi: come quello dei trans brasiliani che arrivati all'aeroporto che doveva riportarli in patria si cosparsero dei propri escrementi, con l'ovvio risultato che il comandante del velivolo si rifiutò di prenderli a bordo. Senza arrivare a questi estremi, la difficoltà che l'Italia incontra nell'eseguire materialmente le espulsioni degli immigrati clandestini è figlia di un incrocio di espedienti, norme garantiste, e soprattutto di accordi bilaterali che - quando esistono - rendono il rimpatrio di chi è entrato illegalmente sul territorio tricolore piuttosto arduo: specie se paragonato alle prassi sbrigative attuate in altre nazioni europee, come dimostrato in queste ore dal governo francese.
Sono fragilità, quelle italiane, ben conosciute da chi nelle questure si occupa materialmente delle espulsioni dei clandestini. La più ingombrante: l'obbligo, per ogni singolo straniero identificato, di contattare la rappresentanza consolare del paese di provenienza, che a volte non risponde e spesso nega di riconoscere come proprio connazionale il clandestino. L'assenza di documenti è infatti costante, anche perchè spesso sono i diretti interessati a distruggere i passaporti per evitare il ritorno a casa.
Unica eccezione è l'Albania, che ha firmato un accordo di cooperazione che garantisce il rimpatrio senza troppe formalità dei propri cittadini. Per il resto gli accordi bilaterali sono spesso farraginosi: come nel caso della Tunisia, il paese da cui proviene una quota rilevante dei boat people che attraversano il canale di Sicilia, che accetta restituzioni solo in piccoli contingenti, a volte non più di venti uomini per volta. Riempire un charter diventa così impossibile, e l'Italia deve affidarsi agli aerei che fanno da collettori in altri paesi europei e che effettuano un ultima tappa sulla Penisola prima di arrivare a destinazione in Nordafrica. Ma è un meccanismo complicato, nel tempo in cui si riesce a imbarcarne qualche decina ne arrivano altre centinaia.
Ad ostacolare i rimpatri ci sono, affianco ai cavilli, legittime preoccupazioni umanitarie. Ai regimi dittatoriali o ai paesi senza autorità stabili e riconosciute tendenzialmente non vengono restituiti i loro cittadini in fuga. Ma di questi scrupoli italiani i migranti sono perfettamente a conoscenza, e spesso se ne approfittano per simulare rischi inesistenti o marginali. C'è chi dichiara di rischiare la vita per la sua fede cristiana, o in quanto omosessuale, o perché ricercato per motivi politici. Si tratta di argomenti difficili da verificare, e che a volte portano comunque i giudici di pace - che per legge hanno la facoltà di bloccare in diretta l'espulsione dello straniero - a accogliere la richiesta. E poi c'è il grande tema delle gravidanze, cui viene dato dall'Italia una tutela quasi integrale non solo per le madri ma anche per i presunti padri. Le donne incinte vengono accolte e tutelate, ma insieme a loro hanno diritto di asilo anche i loro partner, tanto che tra gli addetti ai lavori c'è la convinzione che spesso le gravidanze siano pianificate in funzione dello sbarco in Italia. Per non parlare dei figli combinati con donne italiane, quasi sempre rom, che diventano una sorta di permesso di soggiorno a pagamento.
Il grande squilibrio dei poteri. Lo strapotere dei pm e le ingerenze nella politica sui migranti: le Procure indagano a loro piacimento. Gennaro De Falco su Il Riformista l’11 Novembre 2022
I recentissimi sbarchi di massa dalle navi della Ong di immigrati in corso in Italia non possono non indurre ad alcune riflessioni di ordine politico istituzionale. Non è questa la sede per affrontare il fenomeno in termini ideologici o etici su cui possono esistere ed esistono posizioni assolutamente divergenti e su cui non voglio entrare perché tutte le diverse sensibilità che esistono meritano comunque il massimo rispetto ed anche per non abusare dello spazio che mi viene assai generosamente concesso su queste pagine, ma è assolutamente un fatto che il fenomeno in tutto il bacino mediterraneo interessi in maniera assai massiccia soprattutto il nostro Paese.
È inoltre assolutamente un fatto che i governi “politici” che si sono susseguiti in questi anni ricevendo, piaccia o non piaccia, un ampio consenso elettorale proprio su questi temi hanno poi dovuto abdicare immediatamente lasciando scendere e rimanere in Italia tutti coloro che sono riusciti a giungere sulle nostre coste. È inoltre un fatto che anche la Chiesa, che in un primo momento ha esplicitamente sostenuto gli arrivi, ora sembra avere assunto un atteggiamento più prudente ma, nonostante il più o meno condivisibile atteggiamento chiaramente ostile dell’elettorato e delle forze politiche prevalenti, il fenomeno, giusto o non gusto che sia, si sta intensificando e sembra del tutto inarrestabile. A questo punto bisogna chiedersi le ragioni per le quali l’Italia, nonostante gli esiti elettorali, sia divenuta ormai stabilmente la porta di ingresso dell’Europa. A ben vedere la ragione è evidente e chiarissima e la si trova nelle intercettazioni emerse nella vicenda Palamara. Secondo quanto riportò La Verità nell’agosto 2018, a proposito della questione migranti e le presa di posizione di Salvini, il capo della Procura di Viterbo Paolo Auriemma (non indagato) disse a Palamara: «Salvini indagato per i migranti? Siamo indifendibili». Ma Palamara replicò: «No hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo».
Queste conversazioni finite tutte nel dimenticatoio, come sempre accade in questo Paese quando un fatto è troppo grosso per poterlo affrontare, unitamente alle successive vicende giudiziarie e la sconcertante vicenda dello speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza ci spiegano le ragioni del fenomeno che ci rende assolutamente unici in tutta Europa. Ripeto, in questa sede non voglio entrare nel merito di quanto è accaduto ed accade e dire se secondo me sia giusto o sbagliato ed anche se sia sostenibile dall’ Italia o dall’Europa ma solo comprendere ed interpretare le ragioni di questo stato di cose. Ebbene, secondo me la ragione di quanto accade, piaccia o non piaccia, sta soprattutto nella riforma legislativa che nel 1993 ha soppresso l’immunità parlamentare determinando il totale squilibrio dei poteri e nei poteri e svuotando di ogni contenuto reale la democrazia rappresentativa. Non nascondiamoci dietro un dito, la vera ragione di questo stato di cose è il fondato timore della politica di assumere iniziative di contrasto effettivo verso gli sbarchi per il timore di subire gli attacchi del potere giudiziario o meglio dei pm.
In effetti al giorno d’oggi i poteri dei singoli uffici di Procura sono amplissimi e sono acuiti dal fatto che le norme sulla competenza territoriale sono opinabilissime. In pratica ogni pm può indagare ed emettere provvedimenti a suo piacimento. Del resto mi pare che anche l’attuale ministro della giustizia ritenga necessario il ripristino proprio dell’immunità parlamentare, staremo a vedere. Si potrà dire che se ciò avvenisse la lotta alla corruzione si indebolirebbe; ora, a parte il fatto che non mi pare che con la riforma del ’93 il fenomeno della corruzione si sia ridotto, certamente si è molto ridotta la nostra libertà e, a questo punto, c’è da chiedersi quale è il prezzo che su questi temi ancora si vuole e si può pagare. Oggi è così con l’immigrazione ma se il fenomeno si consolidasse e ampliasse anche in ambito industriale, come del resto è già avvenuto a Taranto, cosa accadrebbe o magari accadrà? A me pare evidente, quale che sia l’atteggiamento verso le migrazioni, che un riequilibrio del rapporto tra e nei poteri dello Stato sia indispensabile ed urgente e che lo snodo fondamentale di questo riequilibrio non possa non essere il ripristino dell’immunità parlamentare e magari anche l’introduzione di rigide incompatibilità che regolino l’accesso in politica dei magistrati. Gennaro De Falco
Marcello Sorgi per “La Stampa” il 15 Novembre 2022.
La rottura tra Italia e Francia sul destino dei migranti e sul comportamento delle navi delle Ong sembrava avviata a soluzione dopo un colloquio telefonico tra Mattarella e Macron, seguito da un comunicato condiviso in cui i due presidenti si ripromettevano di ristabilire la collaborazione tra i due Paesi e all’interno dell’Unione europea.
Colloquio e comunicato di cui, neanche a dirlo, il Capo dello Stato aveva preventivamente informato la premier Meloni, che ovviamente non si era opposta. Ma quando il risultato positivo dell’iniziativa del Quirinale è divenuto pubblico, è stato il presidente del Senato La Russa a obiettare che la pace tra Roma e Parigi può avvenire solo riconoscendo che il governo italiano ha fatto bene a tenere “la barra diritta” su migranti e Ong.
Nella lunga crisi italiana, che si avvia a compiere trent’anni, un esplicito dissenso tra la prima e la seconda carica dello Stato non s’era ancora visto. E non perché debbano necessariamente andare d’accordo, ci mancherebbe. Ma perché i ruoli delicati che ricoprono impongono di non prendere parte attivamente al confronto politico, riservandosi, appunto, una posizione terza.
La Russa lo aveva riconosciuto all’atto della sua elezione sullo scranno più alto di Palazzo Madama, giurando, letteralmente giurando che sarebbe stato il presidente di tutti. Salvo poi prendere partito ieri e schierarsi con il governo.
Cosa si siano detti Mattarella e Macron è rimasto riservato, anche se il comunicato comune fa fede delle loro intenzioni. Ma al di là della correttezza formale che lo ha spinto a concordare con la premier i dettagli della propria iniziativa, è chiaro che il Presidente della Repubblica, parlando con il suo omologo francese, non sarà certo entrato nei dettagli dell’incidente diplomatico che ha visto giovedì la durissima reazione dell’Eliseo in risposta, sia alla presa di posizione di Salvini dopo l’annuncio della partenza della nave Ocean Viking, sia alla nota con cui Palazzo Chigi, volendo esprimere gratitudine a Macron, lo faceva apparire piegato dalla “linea dura” dell’esecutivo.
Mattarella si sarà limitato a spiegare che non valeva la pena compromettere la relazione speciale tra Italia e Francia, sancita dal Trattato del Quirinale, per quello che tutto sommato poteva essere considerato un equivoco.
Altrettanto chiaro è perché La Russa - e poco dopo, in termini più prudenti, il vicepresidente della Camera Rampelli, anche lui di Fratelli d’Italia - abbia sentito il bisogno di prendere le distanze da una mossa così ragionevole, che subito ha prodotto il risultato di un allentamento della tensione tra i due Paesi.
Sebbene non toccasse a lui dirlo, il presidente del Senato, esattamente come Meloni, ha sentito il bisogno di marcare l’aspetto “identitario” della svolta di destra segnata dalle elezioni. Costi quel che costi, anche il rischio di scortesia istituzionale verso il Quirinale, e ancor di più che il colloquio tra Mattarella e Macron possa diffondere il dubbio di un governo in rodaggio o sotto tutela, pronto ad accettare il compromesso tracciato dal testo diffuso di comune accordo dai due.
No, Mattarella faccia quello che vuole, ma il governo non arretra neppure di un millimetro. E non arretra, non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo, per timore che Salvini, fin qui entusiasta della durezza verso le Ong, e disposto a condividerne il merito con Meloni, possa approfittarne dicendo che la presidente del Consiglio ha fatto marcia indietro.
Allo stesso modo è intuibile quale sarà il passo successivo del governo: la riproposizione di quei “decreti sicurezza” che prevedevano la confisca delle navi delle Ong che Salvini, allora ministro dell’Interno, aveva imposto all’esecutivo gialloverde.
Sarà il nuovo provvedimento “identitario” con cui il governo vorrà far capire all’Unione, una volta e per tutte, che sugli interessi nazionali l’Italia non transige. A qualsiasi prezzo: anche la progressiva emarginazione dall’Europa che deve approvare la manovra economica di fine anno e non metterci in mora per i ritardi nella preparazione del Pnrr.
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 16 novembre 2022.
Sotto a chi tocca. È da tre settimane che ogni giorno uno svalvolato fa saltare in aria le istituzioni che rappresenta. La Russa "contro" Mattarella, del quale fa il vice, è il caso più eversivo, ma l'agenda degli strafatti trabocca di un irrefrenabile revanscismo sempre più spericolato.
La Russa lo incarna e lo riassume, ma con lui c'è il sottosegretario farmacista, Marcello Gemmato, che sbrocca contro la scienza dei vaccini e tutti ne chiedono le dimissioni, tranne i soli che dovrebbero: i farmacisti. E il ministro della Difesa Guido Crosetto, nel solito fuorionda che va in onda, dà del "cretino" a Giuseppe Conte. Intanto il Gennaro Sangiuliano della Cultura, che nella Rai malviveva, impettito nell'idealismo gentiliano svillaneggia la Rai perché trascura, nientemeno, Pirandello (che era fascista).
Le quotidiane vampe di revanscismo sono i soffioni del sottosuolo, la rivincita selvaggia, ben più viva e pericolosa del tempietto fascista con bassorilievo e medaglie, foto e statue del Duce, roba innocua da goliardia nera, da feticismo in orbace. Il presidente del Senato "tiene" bene l'aula, ma non si tiene dinanzi alla vendetta e trattiene male il ghigno come il fratello Romano trattiene male il braccio ai funerali degli ex camerati.
La Russa "si accende e non ragiona" come lo zio fascista cantato da Gaber e fa rimpiangere persino la presidente Casellati che sapeva tacere. Ma c'è di più. La Russa cambia anche in viso. E infatti non somigliava più alla macchietta del fascismo rasposo, gli occhi avevano smesso di dardeggiare e pure la barbetta si era come ritirata e la voce si era fatta meno roca: quando Ignazio ha corretto Mattarella, che si era speso con Macron per ricucire, quando ha detto "la fermezza del governo va condivisa" è sparita la macchietta ed è venuta fuori la sua vera fisionomia da revanscista, vedremo quanto incompatibile con la carica che ricopre.
Non sono recite da parrocchietta buone per parodie facili facili "il carico residuale" di Piantedosi e poi la campagna di Francia e la contromossa dell'alleanza con la Grecia, Cipro e Malta. Dalla foto sul treno per Kiev di Mario Draghi con il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz siamo passati all'Asse con gli sfigati per "difendere i confini" e rispettare le regole che Salvini riassume così: "Se c'è una nave norvegese si fa un colpo di telefono in Norvegia, se c'è una nave tedesca si fa un colpo di telefono a Berlino". E in questo teatro a Bali Giorgia Meloni è arrivata con la piccola Ginevra, Mamma Roma al G20 perché l'Italia è "dura", ma è pur sempre la patria del melodramma.
La politica italiana ha avuto grandi donne protagoniste, autorevoli e competenti, che però si castigavano per somigliare agli uomini, Iotti, Anselmi, Merlin Poi, da Prestigiacomo sino a Boschi, c'è stato il trionfo della ministra giovane e bella, telegenica, non si sa quanto preparata, approvata dal gusto del capo, Berlusconi prima e Renzi dopo. E ora c'è Giorgia Meloni con le unghie retrattili, la candida malandrina che si è fatta strada a gomitate, un vetro che se la tocchi stride, con la sindrome di accerchiamento, aggressiva e aggredita, il vittimismo come alimento del revanscismo degli svalvolati, che ogni giorno svelano caratteri e promettono più sapide sorprese, come sempre accade con gli scarti rivelatori della verità.
E così un altro sottosegretario di Fratelli d'Italia, Alessio Butti, ha improvvisamente contestato i tempi del Pnrr, ha denunciato il governo Draghi e ha definito Vittorio Colao "imbarazzante", mentre di nuovo Crosetto, il liberale punk, si è inventato che le navi Ong sono "centri sociali galleggianti", come Il bordello galleggiante (Garzanti 2001) che è il bellissimo libro della storica oxfordiana Siân Rees sul viaggio nel 1789 di una nave carica di migranti donne, dalle prigioni di Londra verro Botan Bay e la futura Sidney, 237 detenute, ladre, prostitute e vagabonde mandate a popolare l'Australia. Contro i bordelli galleggianti, il sottosegretario Giovambattista Fazzolari, che ieri ha stretto la mano a Biden intimidito più di Fanfani che almeno recitò un sorriso quando la strinse a Kennedy, ha annunciato che presto il Viminale imporrà «nuovi decreti sicurezza» perché, ha spiegato Fazzolari, «basta, ora si cambi impostazione».
E «Giorgia Meloni - ha detto - è il cigno nero», l'evento improvviso, lo tsunami del libro di Nassim Taleb, che già fu evocato da Paolo Savona, l'autore della trilogia dell'Incerto , che oltre la previsione dell'imprevedibile predica il consapevole mettersi in gioco, il giocarsi la pelle, Skin in the game , insieme a quella di tutti gli italiani. Uno dei capitoli si intitola: "Puoi essere un intellettuale, ma restare un idiota". Un altro: "Guardati dalle soluzioni complicate (c'è chi è pagato per inventarle)".
È questo il laboratorio del revanscismo italiano, non "Ballando con le stelle della Decima Mas" e neppure la Dux srl che, nelle amatissime Marche produce spettacoli im-per-di-bi-li, sovvenzionati dalla Regione del fedelissimo Acquaroli.
Sembra che sia passato un secolo dalla noiosa sobrietà dell'agenda Draghi, ed è certo che per noi giornalisti è molto più divertente raccontare gli svalvolati che deformano e sporcano gli abiti da classe dirigente, che non riescono a indossare. Per noi, dicevo, sono il gran ballo della "sproporzione", anche se Calderoli non è più quello che "sbuffa, ansa e i fiammei occhi sbarra", il mostro biassiale della legge elettorale "porcata" e delle magliette anti-islamiche, e i Fratelli d'Italia non sono più Predappio e stivaloni neri. Ma il revanscismo è rabbia repressa, è una pentola che ogni giorno vomita qualcosa, è il rancore di un'eterna minoranza, la sindrome del siamo soli al mondo, siamo soli contro il mondo.
Il revanscismo è il cognato Francesco Lollobrigida che già il primo giorno promise di cambiare la Costituzione. Revanscismo è Piantedosi-Salvini e revanscismo sono le botte agli studenti della Sapienza e i sei anni di galera agli sballati del rave party raccontati come i sabba, come le messe nere dei giovani di sinistra. Ebbene, solo La Russa dà ordine al disordine degli svalvolati.
Perché la presidenza del Senato pretende una crescita e richiede una gavetta che La Russa ha fatto, e per le procedure che non conosce e le competenze che non ha acquisito ci sono i funzionari che tutelano la testa di tutti i presidenti. Ma ora sappiamo che gli manca la continenza politica e che non controlla la sua antropologia di vecchio arrabbiato. È in grado di sostituire Mattarella? Ricorda quella funzione di "vicedirettore vicario" che nelle vecchie redazioni dei giornali si mutava in "vicedirettore sicario". Vedremo come l'Italia saprà attrezzarsi al revanscismo e come il Quirinale reagirà sul campo, perché, come dice il proverbio, è lo stesso morto che insegna a piangere.
La linea per difendere i confini: identificazione e richiesta di asilo a bordo delle imbarcazioni. Fausto Biloslavo il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.
Il braccio di ferro del governo con le Ong del mare ha poche vie d'uscita. Alla fine potrebbero averla vinta i talebani dell'accoglienza grazie all'Europa, che inneggia ai diritti dei migranti, ma alla prova dei fatti è latitante o quasi. E agli alleati di sempre, che stanno già scendendo in campo dalla sinistra pro migranti con lo scodazzo di magistrati progressisti, il garante dei detenuti e pure il presidente della Croce rossa. O forse no: i ministro dell'Interno, della Difesa e delle Infrastrutture hanno firmato un provvedimento che permette il soccorro a chi ha bisogno a bordo del navi delle Ong, ma poi devono andarsene dalla acque territoriali. «Stasera abbiamo formalizzato un provvedimento interministeriale che è una prima presa di posizione della nave delle ong, Humanity 1 che ha forzato entrando in acque territoriali italiane, dirigendosi verso Catania, senza ottemperare a quelle che erano state le nostre richieste (chi sono le persone a bordo, dove sono state in salvo e quali fossero le oggettive condizioni). Le risposte avute non sono state all'altezza delle nostre aspettative». Lo ha detto il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, in conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri. «A Humanity 1 che sta entrando nelle acque italiane davanti a Catania sarà imposto di fermarsi in rada e potrà permanere in acque italiane solo il tempo necessario per consentirci di vedere tutte le eventuali emergenze di carattere sanitario. Ci faremo carico delle persone che hanno bisogno, come le donne incinte o i bambini» ha precisato Piantedosi. La nave di Sos Humanity ha sostenuto che era scoppiata una rivolta a bordo.
I margini di manovra del nuovo esecutivo sono limitati. Il Viminale, di concerto con il ministero degli Esteri, sta puntando sullo stato di bandiera. «Le navi delle Ong non soccorrono persone in mare per caso - spiega una fonte del Giornale che si occupa della crisi - È un impegno sistematico e lo stato di bandiera deve assumersene la responsabilità». Delle quattro navi con 1.080 migranti a bordo che «assediano» l'Italia per farli sbarcare da noi, due battono bandiera tedesca (Humanity 1 e Rise Above) e le altre quella norvegese (Ocean Viking e Geo Barents).
Piantedosi è convinto «che sia un problema che vada condiviso con i Paesi di bandiera. In ossequio ai principi di diritto internazionale, quando si sale a bordo di una nave in acque internazionale è come se si fosse saliti su un'isola sotto l'egida territoriale di quel Paese. E questo dovrebbe far radicare gli obblighi di assistenza».
Il tentativo governativo è che i migranti avanzino a bordo la richiesta di asilo, ovvero su una nave che è per norma internazionale territorio tedesco o norvegese nel caso delle Ong del mare coinvolte nel braccio di ferro. «In questa maniera scatterebbe il trattato di Dublino con la responsabilità della Germania e della Norvegia» spiega chi gestisce la crisi. Le Ong stanno forzando la mano, come hanno sempre fatto in passato. Rise Above si è già avvicinata a Siracusa a causa delle condizioni in peggioramento del mare. Le altre Ong usano il solito copione delle storie lacrimevoli a bordo e della situazione insostenibile a lungo termine. «È chiaro che prima o dopo quando scarseggeranno viveri e combustibili dichiareranno lo stato di emergenza chiedendo di entrare in porto» spiega la fonte del Giornale. Difficile opporsi, ma «una volta al riparo e riforniti si potrebbe continuare a non fare sbarcare i migranti, che se chiedessero asilo a bordo rientrerebbero sotto responsabilità tedesca o norvegese». Con il nuovo provvedimento non posso sostare in rada più del tempo necessario per il soccorso.
Una strada mai percorsa in precedenza, che le Ong tenteranno di far saltare con i soliti esposti alla magistratura. Non è un caso che i magistrati di Area democratica per la giustizia abbiano subito preso posizione: «Negando l'assegnazione di un porto sicuro si impedisce il soccorso in mare di persone in stato di necessità e a rischio di morte». E anche Mauro Palma, il garante dei detenuti, ha sentenziato nelle ultime ore che «i diritti fondamentali delle persone prevalgano sulle controversie tra Stati».
Bruxelles ci volta le spalle: "Profughi falso problema". La commissaria Johansson: "Ci servono". Lo strappo francese arriva dopo i niet di Berlino e Oslo ad accogliere le navi. Gian Micalessin l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.
Volendo guardare alla rottura della Francia con il realismo dei numeri non ci sarebbe da preoccuparsi. La decisione di venir meno all'impegno di ricollocare 3.500 migranti assunto nel quadro del Piano di Redistribuzione Europeo dello scorso giugno è solo la concretizzazione di una promessa già mancata. E la richiesta agli altri paesi europei di condividerne la scelta pronunciata dal ministro dell'interno francese Gérald Darmanin ne rappresenta soltanto l'appendice più odiosa.
Nei cinque mesi appena trascorsi, mentre l'Italia accoglieva gli oltre 60mila migranti sbarcati da giugno ad oggi, la Francia si è fatta carico, bontà sua, di appena 38 persone. Quindi la decisione di non rispettare le promesse era già stata presa. Mancava soltanto la scusa per renderla ufficiale. Ed è anche chiaro che la retromarcia di Parigi non deriva dalla scelta del nostro governo di avviare un più deciso confronto con le navi delle Ong. La scelta dell'Eliseo altro non è se non la conseguenza dell'avventato «vigileremo» pronunciato ai primi di ottobre dal ministro francese per gli Affari europei Laurence Boome. Un «vigileremo» scandito, non va dimenticato, prima ancora che Giorgia Meloni formasse il proprio governo. «Vogliamo lavorare con Roma - aveva detto allora la Boome - ma vigileremo su rispetto di diritti e libertà.». Una diffida pregiudiziale anticipata da quella, ancor più grave, della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen pronta ad anticipare - prima del voto degli italiani - la determinazione ad utilizzare «strumenti adeguati» per sbarrare la strada ad governo di destra pronto a portare l'Italia in una «situazione difficile». Insomma la rottura francese è soltanto la realizzazione concreta di quanto già evocato a Parigi e a Bruxelles. E questo deve far capire a Giorgia Meloni che gli «strumenti adeguati» non riguarderanno solo l'immigrazione, ma tutti gli altri settori della politica costretti a misurarsi con i paletti dell'Unione.
La Francia è, insomma, solo la portavoce più sguaiata di un gruppo di governi decisi, per ragioni ideologiche, a rendere assai complesso il lavoro del nostro esecutivo. Anche perché, non dimentichiamolo, le esternazioni francesi arrivano dopo quelle dei portavoce di Berlino e Oslo fermissimi nel rifiutare ospitalità nei propri porti a due navi Ong battenti bandiera dei loro stessi paesi. Due «nein» pronunciati, significativamente, proprio mentre il nostro Presidente del Consiglio incontrava per la prima volta le autorità di Bruxelles. E per quanto riguarda le autorità europee fa specie la sottovalutazione del problema migratorio enunciata ieri, durante una visita in Bangladesh, dalla Commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, «Non penso che i migranti siano un problema - ha detto la Commissaria - la migrazione è qualcosa di naturale. E ci serve». Una frase per lo meno irriverente nei confronti di un'Italia dove i 12mila 690 cittadini del Bangladesh sbarcati da inizio anno rappresentano, dopo egiziani e tunisini, la terza componente della migrazione irregolare.
Ilario Lombardo per “La Stampa” il 10 novembre 2022.
Il caso della nave Ocean Viking è di fatto il primo incidente diplomatico di Giorgia Meloni e si è scatenato anche a causa di una nota. Per capire cosa è successo finora tra Italia e Francia bisogna mettere in fila i fatti, e ricostruire cosa è avvenuto dietro le quinte, cosa ha portato i rapporti tra Roma e Parigi dal sembrare distesi e collaborativi a scadere, nel giro di poche ore, in un duro scambio di accuse.
La nota, dunque. Che ha fatto infuriare i francesi, convinti che la faccenda della nave dei migranti andasse gestita con un profilo più basso e senza quelle rivendicazioni politiche che hanno messo in difficoltà l'Eliseo. È il punto di svolta della storia: il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi arriva alle nove di sera in punto di martedì, l'altro ieri.
È la celebrazione entusiastica di una vittoria. Giorgia Meloni esprime «il sentito apprezzamento» per la decisione della Francia di prendersi carico dei 243 migranti della Ocean Viking, nave battente bandiera norvegese, ma gestita da una Ong transalpina, la Sos Méditerranée. Per la premier è il segnale di una svolta, che premia l'Italia dopo appena due settimane dalla nascita dell'esecutivo. Il momento va esaltato. E Matteo Salvini certo non si può far sfuggire l'occasione. Arriva ben prima di Meloni e sentenzia: «L'aria è cambiata».
Qualcosa però nella comunicazione tra Roma e Parigi non ha funzionato o improvvisamente si è inceppato. Perché, mentre Meloni pare voler oscurare l'aver dovuto accogliere tutti i migranti della Humanity1 a Catania presentando l'apertura francese come un successo con l'Europa, a nemmeno due ore dalla nota ufficiale di Palazzo Chigi l'agenzia di stampa francese Afp batte un durissimo j'accuse che sembra travolgere tutte le certezze della destra italiana. Alle undici di sera una fonte anonima del governo francese definisce «inaccettabile il comportamento italiano» sulla Ocean Viking, perché contrario al diritto del mare e allo spirito europeo.
È piena notte, ormai. Ma si intuisce già che qualcosa non torna. La conferma arriva poche ore dopo, quando il governo francese scende nell'agone non più come fonte anonima. È il portavoce Oliver Vèran a metterci la faccia e la voce, in radio, su FranceInfo, invitando il governo Meloni a prendersi le sue responsabilità e scandendo bene una frase: «La barca si trova attualmente nelle acque territoriali italiane».
C'è una contraddizione evidente tra l'esultanza della presidente del Consiglio italiana e dal suo vicepremier leghista, e le reazioni di Parigi, mai smentite dall'Eliseo. Ma c'è dell'altro. Alle otto di ieri sera - è la versione dei fatti registrata a bordo della Ocean Viking, mentre si trova al largo di Cagliari - nessuna comunicazione di sbarco è giunta dalla Francia.
La ricostruzione che segue è frutto di un lavoro basato soprattutto su fonti diplomatiche francesi perché nulla o quasi è trapelato da Palazzo Chigi. La Stampa ha contattato tre fonti differenti tra i collaboratori della premier senza mai ricevere una risposta.
La prima e più importante domanda è stata: prima di pubblicare la nota delle nove di sera la Francia aveva comunicato ufficialmente la disponibilità a ricevere i migranti? La domanda nasce perché due fonti francesi avevano fatto notare che a Parigi non risultava nulla di formale e di bollinato dall'Eliseo.
Non solo. Alla Farnesina non risultano decisioni ufficiali, e anche al Viminale non sanno cosa rispondere. Se non che anche loro non hanno ricevuto aggiornamenti dal ministero dell'Interno francese. Tutto, dicono, è in mano a Palazzo Chigi.
Questo passaggio è il cuore dello scontro. La nota di Meloni - da quanto si sa - si basa su un colloquio avvenuto con Emmanuel Macron a Sharm el-Sheik, riportato dalle agenzie, e poi da un lancio Ansa del pomeriggio di martedì che cita "fonti del ministero dell'Interno francese": «Lo sbarco si svolgerà a Marsiglia. Non saranno fatti scendere solo i deboli e lasciati a bordo gli altri. Scenderanno tutti perché tutti hanno diritto a presentare domanda d'asilo». Una dichiarazione che non lesina critiche all'Italia e agli sbarchi selettivi.
A Palazzo Chigi minimizzano, forti della convinzione che Macron abbia dato il suo sostegno a Meloni. Per i sovranisti è più importante il traguardo politico, raggiunto costringendo la Ocean Viking a cambiare rotta e i francesi a farsi carico dei profughi. A Parigi però non la vedono così. Una fonte francese spiega l'umore da quelle parti: «Capiamo che un leader debba parlare al suo popolo e usare certi toni, ma le relazioni diplomatiche internazionali non funzionano così».
Le stesse fonti fanno notare che per ore, dopo la notizia dell'Ansa, nessun commento ufficiale trapela dall'Eliseo. A lungo non parla nessuno. Solo il governo italiano lo fa. Anzi, di più: l'unica fonte ufficiale a dare notizia dell'accordo è la nota di Palazzo Chigi. Mai rilanciata da Macron. E a cui risponde il ministro della Solidarietà Jean-Christophe Combe, ex direttore della Croce rossa francese: «Tocca all'Italia aprire i suoi porti»
E' probabile anche che sulle repliche risentite dei francesi abbiano pesato dei fattori interni: i rapporti con Bruxelles, meno propensa a cedere di fronte alle forzature italiane, come dimostra la nota della Commissione Ue, e il timore di dare sponda all'estrema destra.
A Parigi la linea è rimasta sempre stessa, ed è quella condivisa tra il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e il suo omologo Gérald Darmanin, ribadita lunedì: prima l'Italia fa sbarcare i profughi, poi la Francia ne prende una parte. In teoria, confermano dal Viminale, nulla è cambiato.
Si fa ma non si dice. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 10 novembre 2022.
Il pasticciaccio brutto con i francesi è la prova di ciò che non funziona in questa maggioranza, dove c’è un partito che ha vinto le elezioni e si sforza, non sempre riuscendovi, di mantenere un basso profilo, e altri due che invece usano la ribalta per fare propaganda alla ricerca dei voti perduti. Dopo l’accordo raggiunto con Macron per mandare in Francia una nave di migranti, il buonsenso avrebbe dovuto indurre i partiti di governo a ringraziare Parigi o, almeno, a incassare in silenzio quel che a loro appariva come un successo. Invece Lega e Forza Italia hanno esultato sotto le rispettive curve («L’aria è cambiata!», «La fermezza paga!») senza rendersi conto che ad ascoltarli non c’erano soltanto i sovranisti indigeni, ma quelli d’oltralpe. Ora, a parole i sovranisti sono tutti fratelli, ma nei fatti ognuno pensa prima al proprio pollaio (il giorno in cui si trovassero contemporaneamente al potere, l’Europa tornerebbe alla Guerra dei trent’anni). Vedendoli gonfiare il petto per il dirottamento della nave verso Tolone, la Le Pen si è compiaciuta in quanto amica dei sovranisti italiani, ma si è arrabbiata in quanto sovranista francese, innescando un meccanismo interno che ha portato i ministri di Macron a rovesciare addosso all’Italia quel disprezzo di cui i nostri cugini sono sempre ampiamente forniti. Se vuole durare, la Meloni farà bene a prendere esempio dalla Nazionale di Bearzot del 1982, quando l’unico autorizzato a parlare era Zoff, un capitano decisamente più taciturno di Salvini.
La Francia naufraga sui migranti: “Italia disumana, non prendiamo altri profughi”. E parte il boicottaggio. Dario Martini su Il Tempo l’11 novembre 2022
La Francia getta la maschera. La solidarietà nell'affrontare l'emergenza immigrazione non è mai esistita e non ci sarà nemmeno in futuro. La «collaborazione» promessa il 23 ottobre scorso, quando Emmanuel Macron ha incontrato Giorgia Meloni a Roma, resterà lettera morta. Il governo di Parigi fa sapere che la nave Ocean Viking, con 234 profughi a bordo, verrà accolta oggi a Tolone. Ma solo questa volta e «in via eccezionale». Il ministro dell'Interno, Gerald Darmanin, con una giravolta improvvisa, chiama a raccolta gli altri Stati dell'Unione europea affinché facciano fronte comune contro l'Italia: «È evidente che con effetto immediato la Francia sospende l'insieme dei ricollocamenti di 3.500 rifugiati a beneficio dell'Italia e chiede a tutti gli altri partecipanti al Meccanismo europeo, in particolare alla Germania, di fare lo stesso». Un dietrofront repentino accolto con stupore al Viminale. Anche perché era stato lo stesso Darmanin, solo pochi giorni fa, a dare piena disponibilità ad accogliere i migranti a bordo della Ocean Viking, la nave gestita dalla ong Sos Mediterranee che fino a martedì ha insistito per attraccare a Catania. Disponibilità confermata anche da Macron a Meloni a margine della conferenza Cop27 sul clima che si è tenuta Sharm el Sheikh in Egitto. Fonti di Parigi hanno fatto filtrare che la crisi diplomatica si è aperta quando il presidente del Consiglio italiano ha ringraziato apertamente la Francia per la solidarietà mostrata nel gestire la situazione della Ocean Viking. Parigi l'ha giudicata una forzatura, perché Macron non avrebbe mai dato esplicito assenso ad accogliere la nave, limitandosi ad una generica collaborazione a ripartire in comune i migranti.
In realtà, il via libera di Parigi a farsi carico dell'imbarcazione di Sos Mediterranee non è un'invenzione, tanto che il comandante si è allontanato da Catania e ha fatto rotta su Marsiglia solo quando gli è arrivato il nulla osta francese. Darmanin fornisce un'ulteriore versione: «Quello che avevamo proposto all'Italia era di accogliere questa nave, che come per tutte quelle precedenti, vale la regola di 1/3 per il Paese che accoglie, 1/3 per la Francia, 1/3 per la Germania, naturalmente poi mettendosi d'accordo con altri Paesi. Questo è quello che abbiamo proposto al governo italiano. Abbiamo detto che se avessero accolto la nave in virtù degli impegni internazionali, avremmo lasciato in Italia le persone più malate e le loro famiglie, noi in Francia avremmo accolto i minori e ci siamo messi d'accordo con la Germania affinché, insieme ad altri Paesi europei, in particolare la Norvegia, potessero accogliere le altre persone». Il ministro dell'Interno francese ribadisce che questa «è la proposta congiunta della Francia e della Germania al governo italiano da diverse ore e da diversi giorni. Non comprendiamo quella che mi sembra una mancanza di ascolto e una tergiversazione, forse addirittura una mancanza di professionalità che talvolta abbiamo avuto l'impressione di avere con i nostri interlocutori». Poi la stoccata finale: «L'Italia è stata molto disumana», conclude Darmanin.
La Francia, intanto, incassa il sostegno di nove paesi europei (Croazia, Romania, Bulgaria, Lituania, Malta, Portogallo, Lussemburgo, Irlanda e Germania) che hanno già acconsentito di prendere due terzi dei migranti a bordo della Ocean Viking. Ottanta solo Berlino. Il governo francese non si ritira solo dal meccanismo di solidarietà europeo. Va oltre, annunciando il «rafforzamento dei controlli alla frontiera con l'Italia», dove invierà 500 agenti. Il confine è quello di Ventimiglia, dove già adesso la Francia respinge in media ottanta migranti al giorno. Alla frontiera, infatti, stazionano sempre circa 250 stranieri - in gran parte magrebini o dell'Africa subsahariana, ma anche afgani che soprattutto di notte tentano di varcare il confine. Ad uno sguardo più attento, quindi, non c'è da sorprendersi della presa di posizione del governo francese. La solidarietà più volte evocata non è mai esistita.
Migranti, quando si bloccano le navi calano anche i morti in mare: i dati che premiano Salvini. Pietro De Leo su Il Tempo l’11 novembre 2022
Il senso del dramma è nella storia più tragica degli ultimi giorni, un bambino di neanche un mese morto, per ipotermia, durante la traversata del Mediterraneo. Era in un barchino con 37 persone che la Guardia Costiera ha soccorso a largo di Lampedusa. La mamma del piccolo, originaria della Costa d'Avorio ha detto che soffriva di problemi respiratori e la navigazione in condizioni precarie gli è stata fatale. Un paio di giorni addietro, una donna muore poco dopo essere arrivata sull'isola, anche in questo caso di ipotermia. Inizio novembre. Un peschereccio salva una donna, anche lei ivoriana, che si è buttata in mare dopo che l'imbarcazione su cui stava tentando di attraversare il Mediterraneo ha preso fuoco, provocando la morte di due bimbi di 10 mesi e 2 anni. Dietro la cronaca si nasconde l'essenza di un traffico di esseri umani che ghermisce vite, e sparge disagio e disperazione anche nei luoghi d'approdo. Basta leggere le dichiarazioni del sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino, rilasciate all'Adnkronos: «Ogni ora del giorno e della notte ricevo chiamate delle forze dell'ordine che mi comunicano l'arrivo di cadaveri. Sono numeri da bollettino di guerra». In questo primo tratto di cammino dell'esecutivo, dove una gestione comunitaria del dossier è stata posta sul tavolo con forza, di fronte al livello del dolore, una fotografia utile è quella scattata dai numeri, e rivela che i morti nel Mediterraneo calano in presenza di circostanze, politiche oppure oggettive, che ostacolano le partenze.
Basta prendere in esame le cifre dell'Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni. Prendendo soltanto la rotta centrale (quella che coinvolge principalmente l'Italia), nel 2015 (governo Renzi), si ebbero 3.149 tra morti e dispersi. Cifra che lievita a 4.574 nel 2016. Al termine di quell'anno, però, cambia esecutivo, con Paolo Gentiloni che subentra a Palazzo Chigi. Al Viminale arriva Marco Minniti, che allaccia un memorandum di cooperazione con la Libia. A quel punto, la cifra cala in maniera significativa: 2.853 vite perdute nel 2017. Nel 2018, a giugno, altro cambio di governo, entra in carica il Conte 1 (Lega-Movimento 5 Stelle) con il relativo avvicendamento nel ruolo di ministero dell'Interno: arriva Matteo Salvini e imposta la linea dei «porti chiusi» che scatenò l'ostilità della sinistra, sia politica che culturale. A fine anno, però, il numero di morti e dispersi si attestò sui 1.314, dunque un segno meno.
E calarono a 1.262 nel 2019, anno in cui Salvini rimase al Viminale fino a settembre, mese nel quale il Conte 1 lasciò il campo al Conte 2, sostenuto da una maggioranza autenticamente di sinistra. Da lì, cominciò lo smontaggio dei decreti sicurezza, voluti dal leader della Lega al governo (con l'appoggio del M5S e dello stesso Conte). Nel 2020, il Covid scoraggiò le partenze, pur tuttavia i morti e i dispersi si attestarono a 1.000. L'andamento, purtroppo, è cresciuto nell'anno successivo, 1.567 in tutto il 2021. E nel 2022, finora, il tragico numero è 1.337. Dunque è incoraggiando la cooperazione con i Paesi di partenza e contrastando i «pull factors», anche ideologici, che si possono salvare vite umane.
Politica internazionale. La Francia ci fa la morale. Ma respinge 80 migranti al giorno a Ventimiglia. È arrivata la ritorsione su Roma, ma Parigi dimentica quanto accade quotidianamente a Ventimiglia. Negli ultimi sette anni sono stati registrati 28 morti. Massimo Balsamo il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.
Clima di altissima tensione tra Italia e Francia sul dossier migranti. Il governo italiano ha impedito lo sbarco delle persone a bordo della Ocean Viking, nave ora diretta a Tolone, e Parigi non ha perso tempo per il contrattacco. Il ministro dell’Interno Darmanin ha annunciato la sospensione del trasferimento e dell’accoglienza di 3500 rifugiati attualmente in Italia. L’esecutivo transalpino fa la morale a Roma per la gestione dell’immigrazione, senza lesinare critiche piuttosto aspre. Ma forse dimentica quanto accade quotidianamente alla frontiera di Ventimiglia.
Parigi blocca l'arrivo dei rifugiati dall'Italia: "Gli altri Paesi Ue facciano lo stesso"
La Francia dimentica Ventimiglia
“Sui migranti voi ci criticate, ma a Ventimiglia con i respingimenti fate di peggio”, le parole del premier Meloni dirette ieri ai francesi. E i numeri non lasciano spazio a dubbi. Come evidenziato dall’Ansa, sono circa 80 in media i migranti respinti ogni giorno dalle autorità francesi alla frontiera di Ventimiglia. Un’emergenza umanitaria cronica, che riguarda principalmente migranti afgani, magrebini o dell'Africa sub sahariana. Secondo gli esperti, circa 250 stranieri stazionano regolarmente al confine tra i due Paesi.
Non sono mancati episodi di violenze, con migranti fermati con la forza e riportati in Italia dalla gendarmerie. Sul punto è intervenuto anche il viceministro Edmondo Cirielli al Corriere: “A Ventimiglia le persone che cercano di attraversare la frontiera vengono catturate durante la notte e riportate a forza in Italia. Quindi non può darci lezioni di moralità chi, giustamente, ma con durezza, fa rispettare le leggi”.
La Francia crede di avere la verità in tasca, tanto da fare la morale al governo Meloni. Ma le frontiere del Paese di Macron sono blindatissime. E, come già anticipato, sono state già registrate diverse tragedie nel corso degli ultimi anni: per la precisione, 28 morti dal 2015 ad oggi. Uno degli ultimi drammatici casi risale a pochi giorni fa: dopo essersi lanciato da un tir sull'A10, il 19enne Ahmed Safi è stato urtato da due auto e trascinato da un tir per circa cinquecento metri fino alla barriera di Ventimiglia.
Immigrazione, Vittorio Feltri asfalta Macron: perché deve tacere. Vittorio Feltri Libero Quotidiano l’11 novembre 2022
Una fonte del governo francese ha criticato aspramente l'atteggiamento dell'esecutivo italiano, che sarebbe «contrario al diritto del mare e allo spirito di solidarietà europea». Il portavoce del governo francese, Oliver Vèran, ha aggiunto che l'Italia «deve rispettare gli impegni europei». Deve. Deve aprirsi a tutti. Ma non esiste alcun contratto che vincoli il nostro Paese ad allargare le braccia a centinaia di migliaia di migranti, per di più caricati a bordo di navi battenti bandiera di altri Stati membri dell'Unione, le quali imbarcazioni pretendono di approdare tutte nei nostri porti scaricando quel materiale umano che i Paesi della bandiera non sono disposti ad accogliere. Nessuno vuole gli immigrati ma tutti ci giudicano se siamo pure noi a rifiutarli.
Ormai è consuetudine che l'Italia sia porto aperto a tutti e terra di nessuno, senza confini, senza sovranità, senza controllo sul proprio territorio. Sarà dura, anzi durissima, abbattere questo convincimento, demolire questa prassi consolidata, eppure è una necessità farlo subito al fine di garantire e difendere quei principi di legalità che per troppo tempo sono stati sovvertiti mediante una sorta di ricatto morale. Sento ripetere ormai ogni dì a politici e commentatori di sinistra che l'Italia sarebbe egoista, indifferente, chiusa, che la Germania invece sarebbe generosa, pronta a spalancare le frontiere a chiunque, lo stesso varrebbe per la Francia.
Tuttavia stadi fatto che i clandestini provenienti da altri continenti, ossia da Africa e Asia, siamo sempre noi a recepirli. Ormai l'illegalità è diventata costume. Basti considerare che dal primo gennaio all'8 novembre sono sbarcati sul nostro suolo 88.670 immigrati, con punte mensili di quasi 17 mila approdi. Gli extracomunitari che prediligono questa maniera di introdursi in Italia, dal momento che da queste parti è possibile, provengono soprattutto da Egitto, Tunisia, Bangladesh. Nella stragrande maggioranza dei casi non si tratta di rifugiati, di individui che godono del diritto di asilo, bensì di migranti i quali si affidano alla criminalità per raggiungere lo stivale. Dovremmo forse incoraggiare questa modalità di operare? O sarebbe più giusto e sensato regolare i flussi, combattere il traffico di esseri umani, disincentivare queste traversate talvolta mortali, mettere finalmente un po' di ordine?
Si obietta altresì che questa massa imponente di persone non intenda mica vivere in Italia, bensì intenta raggiungere altri Paesi. E chi se ne frega delle loro intenzioni? Conta il risultato: chi prova ad andare altrove viene rispedito qui, qualche volta a calci nel fondoschiena. Cosa che i francesi, che si scandalizzano per la condotta del governo Meloni, compiono abitualmente. Gli esecutivi di sinistra non hanno fatto altro che erodere la nostra sovranità, che non è una parolaccia né una colpa o un delitto. Gli Stati che pur ci giudicano e condannano ciò che di più legittimo realizziamo, ossia la tutela dei nostri confini, difendono la propria sovranità mentre esigono che l'Italia vi rinunci in nome della "solidarietà europea", ossia in nome di qualcosa che peraltro non esiste, un concetto astratto e fasullo che negli anni è servito soltanto a piegarci, inducendoci ad accettare, senza tentare la benché minima ribellione, di divenire il campo clandestini d'Europa. La vera solidarietà consisterebbe semmai nel contribuire affinché non gravi solamente sul Bel Paese l'onere di accogliere e gestire quasi ventimila clandestini al mese.
Migranti, durissima replica di Mulè alla Francia: “Loro gli sparano, noi no”. Giampiero Casoni l’11/11/2022 su Notizie.it.
Migranti, durissima replica di Mulè alla Francia: "Loro gli sparano, noi no, vogliamo parlare della realtà o sentirci sempre i pulcini Calimero?"
Sul tema dei migranti a Tagadà su La7 va in onda la durissima replica di Giorgio Mulè alla Francia: “Loro gli sparano, noi no”. L’esponente di Forza Italia cita le “porcherie” che altri paesi europei metterebbero in atto. Insomma, il caso-ong è sempre più braccio di ferro Parigi-Roma e la Francia infatti invita tutta Europa a sospendere gli accordi con l’Italia: “Le conseguenze saranno gravissime”.
Migranti, durissima replica di Mulè
Giorgio Mulè però ha replicato e picchiato duro: “Non facciamo tutte quelle porcherie. E oggi ci mettono sul banco degli imputati quando lo 0,03% sono stati portati in Francia negli ultimi tre mesi. Vogliamo parlare della realtà o sentirci sempre i pulcini Calimero? In Europa arriveremo molto più forti: nessuno potrà più spostarsi dall’altro lato”. E ancora: “Negli ultimi 10 anni non mi sembra che abbiamo ottenuto grandi successi”.
“Non buttiamo nessuno a mare e non spariamo”
“Segnalo che il principio è: se prendi a bordo dei migranti devi comunicare con le autorità italiane e metterti d’accordo rispetto a dove li devi sbarcare. Se pretendi di caricarli senza avvertire nessuno e decidendo di andare dove ti pare non può funzionare“. Poi l’affondo: Noi non abbiamo buttato nessuno a mare, non spariamo sui migranti, guardate verso la Spagna, non buttiamo nessuno sui treni, guardate verso la Francia a Ventimiglia.
Tagadà, Rampini contro la Francia: "Cosa ho visto a Ventimiglia". Libero Quotidiano il 10 novembre 2022
"Tutti i governi europei sono sovranisti, tutti senza eccezione": Federico Rampini, in collegamento con Tiziana Panella a Tagadà su La7, commenta così la risposta dura della Francia all'atteggiamento del governo italiano in materia di migranti. Dopo la scelta dell'Italia di negare lo sbarco in uno dei suoi porti alla Ocean Viking, il ministro dell'Interno francese Darmanin ha detto che questo avrà chiaramente delle "conseguenze estremamente gravi per le nostre relazioni bilaterali".
"L'atteggiamento della Francia nei confronti dei richiedenti asilo e dei profughi in arrivo dall'Italia, a prescindere anche da chi sia il presidente di turno all'Eliseo, è così da moltissimi anni", ha proseguito Rampini. Che poi ha ricordato: "Io ho visitato 10 anni fa i primi campi profughi a Ventimiglia, la sospensione degli accordi di Schengen a Ventimiglia è una cosa antica. Ma così fan tutti, non è che il sovranismo in questo momento è una caratteristica italiana". L'editorialista del Corriere della Sera fa anche l'esempio della Germania: "Tentò nel 2015, di fronte a un inusitato afflusso di profughi allora soprattutto dall'Afghanistan e dalla Siria, la cosiddetta politica delle braccia aperte, del benvenuto. Fu un disastro e poi chiuse le frontiere. Adesso la Germania, come tanti altri Paesi nordici, le mete più ambite dei migranti, pratica una politica estremamente selettiva, se li vogliono scegliere loro i migranti".
Quella che viene messa in atto da diversi paesi, insomma, è una "politica che guarda alle esigenze del proprio mercato del lavoro, una politica diversa dall'apertura delle frontiere - ha continuato Rampini -. Questa è la realtà: tutti i Paesi d'Europa, ciascuno a modo proprio, sono sovranisti. Anche quando parlano il linguaggio dell'europeismo".
Ong, la menzogna di Parigi: ecco quanti immigrati ha accolto. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 12 novembre 2022
Ripicca francese. Il ministro dell'Interno Gerald Darmanin annuncia che l'accoglienza della Ocean Viking nel porto di Tolone costerà cara all'Italia. Loro si faranno carico dei 234 migranti che sono a bordo della ong, sì, ma stracceranno l'accordo che prevedeva il ricollocamento di 3.500 richiedenti asilo. In Francia e in Germania. Intanto sarebbe interessante capire a che titolo Darmanin parli anche a nome del governo tedesco. Ma poi le cifre: al momento i migranti trasferiti oltralpe sono 38. Trentotto. Un passo indietro. È il 10 giugno quando il Consiglio europeo dei ministri dell'Interno trova l'accordo su una dichiarazione politica. Viene creato un meccanismo di solidarietà che prevede la redistribuzione volontaria delle persone migranti. Lo firmano 18 Stati membri, tra cui appunto Francia e Germania. Si dà priorità anche agli sbarchi nei porti italiani. E si ipotizza la dislocazione di diecimila stranieri tratti in salvo nelle operazioni Sar nel Mediterraneo centrale e lungo la rotta atlantica occidentale.
L'operazione è sotto l'egida della Commissione europea, con il supporto logistico dell'Agenzia dell'Unione europea per l'asilo (Euaa) e dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che si fa carico di pagare i biglietti aerei per il trasferimento. Viene creata addirittura una piattaforma on line attraverso la quale gli Stati firmatari possono "prenotarsi" i migranti. Di più: sceglierseli. Facoltà che l'Italia non ha mai avuto, ma va be'. I più "gettonati" sono i richiedenti asilo afgani e siriani, perché profughi veri. Però c'è speranza anche per i migranti economici. Che, per farsi prendere, devono indicare la propria specialità. Se sanno fare qualcosa. Tipo operai, badanti, cuochi, eccetera. Il sottotesto è che all'Italia restano gli scarti. E poi si parla di 10mila ricollocamenti su 90mila arrivi. Pochini. Tuttavia c'è la prospettiva di una embrionale forma di collaborazione europea sul tema dell'immigrazione, dopo anni di porte chiuse.
Piuttosto che niente, meglio piuttosto. Perché l'alternativa è l'applicazione alla lettera del trattato di Dublino. Cioè: il migrante è un problema dello Stato dove sbarca. Si parla di una revisione possibile, ma da qui al 2024. Non oggi. E neanche domani. Insomma, tutto bene. O quasi. Il 28 luglio dei funzionari francesi arrivano in missione al Cara di Bari. Vengono a scegliersi il primo gruppo di migranti. Fanno sul serio. Anche i tedeschi seguono la stessa modalità. E la Lituania e la Romania. L'accordo sembra funzionare. L'allora ministro dell'Interno Luciana Lamorgese è trionfante: «Tappa storica», esulta lisciando i mangiarane: «Un risultato possibile grazie alla presidenza francese» del Consiglio europeo. È il 5 di agosto. Dopo poco si scopre la truffa: l'ordinazione di Emmanuel Macron è un antipastino. Quali 3500, sono 38. In quattro mesi. Con questi ritmi ci sarebbero voluti otto anni per arrivare alla cifra annunciata, ma tanto Parigi ha detto che non li vuole più. Legalmente e illegalmente. Tanto che la gendarmeria già lucida i manganelli al confine con Ventimiglia.
In realtà tutto il meccanismo di solidarietà, quello che aveva fatto alzare la glicemia di Lamorgese, si è rivelato una sòla. L'ennesima. I ricollocati non sono diecimila e neanche mille. Ma appena 117. Solito risultato: l'Italia fregata e la Francia, Stato perculante, che fa pure l'offeso. Per il ministro dell'Interno italiano, Matteo Piantedosi, «la reazione che la Francia sta avendo di fronte alla richiesta di dare accoglienza a 234 migranti - quando l'Italia ne ha accolti 90mila solo quest'anno - è totalmente incomprensibile. Ma dimostra anche quanto la postura delle altre nazioni di fronte all'immigrazione illegale sia ferma e determinata. Quello che non capiamo è in ragione di cosa l'Italia dovrebbe accettare di buon grado qualcosa che gli altri non sono disposti ad accettare». Parafrasando il poeta di Zagarol: sono tutti solidali con il porto degli altri.
L'Italia fa bene ad andare avanti nello scontro con la Francia?
"Non è consentito fare quello che si vuole in Italia e andare in Europa con il volto presentabile. Al nostro Governo, a Meloni a Salvini, mi permetto di suggerire di abbandonare la retorica e la demagogia, del sovranismo della patria, della nazione"; le parole di Vincenzo De Luca in diretta Facebook.
Il governo Meloni continua a godere della fiducia degli italiani. Di fatto la leader di Fratelli d'Italia adesso, secondo una rilevazione di Lab21.01 per affaritaliani.it ha raggiunto il 54,1 per cento dei consensi, una quota che sottolinea quanto la maggioranza degli italiani condivida le mosse del premier. Sempre lo steso sondaggio si sofferma anche sull'invio delle armi all'Ucraina e di fatto il 53,2 per cento del campione non condivide questo tipo di sostegno a Kiev.
A favore dell'invio degli armamenti per contrastare l'invasione russa è il 46,8 per cento del campione, una quota comunque molto alta. Ma da tenere d'occhio ci sono i dati sui partiti. Il partito del premier, FdI, continua a salire e adesso tocca quota 28,3 per cento. Stabile la Lega e risale seppur di poco Forza Italia. Occhio poi alle opposizioni. Nella guerra tra Pd e Cinque Stelle a spuntarla è Conte che porta l'M5s al 18 per cento mettendosi alle spalle in modo definitivo i dem di Enrico Letta che è in caduta libera al 16,4 per cento.
Da segnalare poi il Terzo Polo al 7,8 per cento. Insomma il dato principale che arriva da questo sondaggio è la crescita della Meloni ma anche il sorpasso avvenuto da parte del Movimento sul Pd. La risalita di Forza Italia e la tenuta della Lega segnalano lo stato di ottima salute di cui gode la coalizione di centrodestra che guida il governo e la maggioranza in Parlamento.
Stasera Italia, Toti travolge Macron: "Va avanti da anni, cosa fa la Francia". Libero Quotidiano il 12 novembre 2022
La Francia continua a tenere il punto: guerra contro l'Italia sul fronte migranti. Dopo le scintille tra Macron e la Meloni per lo sbarco della Ocean Viking nel porto di Tolone, sono scattati i respingimenti a Ventimiglia. Controlli serrati alla frontiera e sui treni in transito.
La polizia francese ha ricevuto ordini precisi da Parigi e dunque si materializza la "vendetta transalpina". Ma i francesi che ci danno lezioni di accoglienza scordano il modo in cui loro trattano gli immigrati. Le cronache di questi ultimi anni sono piene di respingimenti al confine con percosse sui migranti e l'uso di metodi poco ortodossi per rispedirli in Italia. Ma nonostante queste violenze, Parigi ci dà lezioni.
E a rinfrescare la memoria all'Eliseo c'ha pensato Giovanni Toti che intervenendo a Stasera Italia ha immediatamente messo in chiaro le cose. Il governatore della Liguria sa bene cosa accade a Ventimiglia e così afferma: "I francesi predicano la solidarietà ma la praticano molto poco. Tutti i giorni sono ottanta i migranti che vengono intercettati sul confine tra Italia e Francia e vengono riaccompagnati in Italia, questo va avanti dal 2016". La pura e semplice verità. Ecco dunque mostrata tutta l'ipocrisia di Parigi. I francesi fanno i maestrini sui migranti sulle spalle dell'Italia.
Maurizio Belpietro per “La Verità” l’11 novembre 2022.
Vi ricordate il Trattato del Quirinale? Doveva essere la pietra miliare dei nuovi rapporti fra la Francia e il nostro Paese. Lo firmarono un anno fa Emmanuel Macron e Mario Draghi e aveva lo scopo di migliorare le relazioni franco-italiane su 11 materie, tra le quali le politiche migratorie. Beh, è bastato poco per scoprire che quel patto è carta straccia. Altro che asse fra Parigi e Roma da contrapporsi allo strapotere della Germania.
Le promesse sottoscritte in pompa magna dai due governi sotto l'occhio compiaciuto di Sergio Mattarella, erano un libro dei sogni destinato a restare tale e sono bastati pochi mesi per scoprirlo. Dall'energia alla politica industriale, i nostri cugini transalpini sono intenzionati a far da soli, badando alla propria convenienza. E non hanno alcuna voglia di coordinarsi con noi.
Anzi, se c'è la possibilità di fregarci, lo fanno volentieri. Non è un mistero che le compagnie petrolifere francesi cerchino ogni occasione per sabotare gli accordi fra l'Italia e i Paesi africani. La guerra che ai tempi di Nicolas Sarkozy fu scatenata contro Gheddafi aveva come obiettivo solo le forniture petrolifere e le manovre in Algeria contro l'Eni - che continuano tutt' oggi - hanno nel mirino il gas che importiamo. In pratica, a Parigi cambiano i presidenti, ma non le streghe che puntano a trasformare il nostro Paese in una colonia francese.
Lo dimostra quanto accaduto con la Ocean Viking, una delle navi quotidianamente impegnate non a soccorrere i migranti, ma a trasbordarli da una costa (quella libica) all'altra (quella italiana). In barba all'articolo 4 del famoso Trattato del Colle, in cui le parti si impegnavano non soltanto a operare insieme per una riforma della politica migratoria, ma anche a tener conto della particolarità dei flussi migratori verso le rispettive frontiere, Parigi ha deciso di sospendere ogni trattativa con l'Italia sul tema dei rifugiati. Addirittura, la Francia si è rivolta all'Unione europea chiedendo di sospendere il ricollocamento dei migranti nei Paesi Ue.
Ad annunciarlo è stato il ministro dell'Interno transalpino, Gerald Darmanin, il quale ha comunicato la decisione del suo governo di sospendere con effetto immediato l'accoglienza di 3.500 rifugiati come rappresaglia per la mancata autorizzazione allo sbarco degli extracomunitari a bordo della Ocean Viking, nave di proprietà della Ong francese Sos Méditerranée.
In altre parole, siamo tornati ai bei tempi in cui i gendarmi di Parigi fermavano i migranti arrestati nel loro territorio e, senza dire nulla alle autorità italiane, li scaricavano fra i boschi di qua dal confine. Dunque, a meno di un anno il trattato del Quirinale si rivela una grande bufala o, se preferite, una grande fregatura, perché i francesi si sono presi ciò che di buono conteneva per i loro affari e poi lo hanno mandato all'aria in base alla loro convenienza.
Oltre a ripercussioni internazionali, la faccenda ha anche risvolti molto nazionali perché, come era facile immaginare, la sinistra non vedeva l'ora di inzuppare il pane in una grana europea per poter accusare il governo di isolare il nostro Paese all'interno dell'Unione. In realtà, la vicenda è tutta francese, perché Emmanuel Macron, dopo una serie di episodi criminali che vedono coinvolti migranti che avrebbero dovuto essere espulsi (a Parigi una bambina è stata sgozzata da una donna algerina con permesso scaduto e raggiunta da un decreto di allontanamento), è sotto accusa e ad approfittarne, più che l'opposizione, è il suo ministro dell'Interno, il quale non vede l'ora di prenderne il posto all'Eliseo. Insomma, quella francese è anche una faida politica tutta in salsa transalpina.
Anzi, una specie di regolamento di conti fra falchi e colombe. A maggior ragione, le forze politiche del nostro Paese dovrebbero fare fronte comune, ma se il principale partito della sinistra è guidato da un signore come Enrico Letta, che è più sensibile al richiamo parigino che a quello della nostra Patria (infatti non vede l'ora di traslocare), che patto di unità nazionale volete che sia siglato? Il cuore del Pd batte per i francesi, mica per gli italiani: per questo spalancano le porte agli immigrati.
Da repubblica.it il 12 novembre 2022.
Mehran Karimi Nasseri, rifugiato politico iraniano che ha vissuto più di 18 anni all'aeroporto parigino di Roissy-Charles de Gaulle ed ha ispirato il regista Steven Spielberg per il suo film The Terminal, è morto oggi nello scalo in cui aveva trascorso anni di vita. Lo si è appreso da fonti aeroportuali. Nasseri, 76 anni, è morto per cause naturali nel terminal 2F.
Dopo aver speso tutti i soldi incassati per il film, era tornato da qualche settimana a vivere all'aeroporto. Addosso aveva diverse migliaia di euro. Era nato a Masjed Soleiman, nella provincia iraniana del Kuzistan, e con il soprannome di "Sir Alfred" aveva eletto a sua dimora Roissy dal novembre 1988, dopo un lungo girovagare alla ricerca della madre.
Era stato a cercarla a Londra, a Berlino e ad Amsterdam. Ogni volta era stato espulso dalle autorità dei vari paesi non essendo in possesso di documenti regolari. Nel 1999, aveva ottenuto lo status di rifugiato in Francia e un permesso di soggiorno.
A Roissy, era diventato un volto familiare per il personale dell'aeroporto e una figura emblematica, protagonista di servizi giornalistici, tv e radio di tutto il mondo. Nel 2004 Tom Hanks interpretò il suo ruolo nella storia a lui ispirata The Terminal. Dopo il film, Nasseri si sarebbe trasferito in una casa di accoglienza a Parigi.
La Francia rilancia. "Meloni perdente". Ma intanto rinnega gli accordi Ue sui flussi migratori. Da un lato c'è un'Italia che vuol lavorare sul dossier immigrazione a Bruxelles, insieme con gli altri Paesi, dall'altro c'è una Francia che insiste nel voler battibeccare, provocando Roma, cercando di isolarla. Francesco De Remigis il 14 Novembre 2022 su Il Giornale.
Da un lato c'è un'Italia che vuol lavorare sul dossier immigrazione a Bruxelles, insieme con gli altri Paesi, dall'altro c'è una Francia che insiste nel voler battibeccare, provocando Roma, cercando di isolarla, e lasciando che il neo governo di centrodestra sia messo nella condizione di occuparsi dei disperati in solitaria, e ricevere magari sanzioni europee per aver sollevato la questione delle navi Ong battenti bandiere straniere: «Giorgia Meloni è la grande perdente in questa situazione», è l'ennesimo attacco frontale di Parigi. Dopo quello della ministra degli Esteri, Catherine Colonna, a sparare a zero su Roma è il portavoce dell'esecutivo francese Olivier Véran, su BfmTv tv, che punta il dito contro il «nuovo governo» e conferma che Parigi non farà quanto previsto a giugno, e cioè l'accoglienza «di un po' più di 3 mila persone» sbarcate in Italia, «di cui 500 entro la fine dell'anno» nel quadro del meccanismo di solidarietà europea.
All'Eliseo non va proprio giù lo sbarco della Ocean Viking a Tolone. E dopo averlo mascherato alle telecamere, per evitare scossoni politici in un Paese che, stando i sondaggi, ha scoperto come la maggior parte dei francesi si dica ormai satura di immigrati, e non disposta a vedersene altri in arrivo, Emmanuel Macron ruba il pallone; va via dal comune campo di gioco chiedendo agli altri di fare lo stesso. Osservare, guardare, percepire l'aria degli Stati è la tattica d'Oltralpe, tamponando la destra francese che dà ragione a Roma. Dopo aver riposto ai blitz anti-governo, Palazzo Chigi guarda invece avanti. «Abbiamo posto un problema politico, ora serve una scelta», spiega il vicepremier Antonio Tajani. Nuovo botta e risposta, con il ministro Véran che interpella ancora Bruxelles. Stavolta per ottenere una punizione che freni le idee italiane: «L'Europa si pronunci dopo il no di Roma allo sbarco» della Ocean Viking.
Visioni contrapposte. La Commissione europea lavora a un piano di emergenza limitato (per ora) all'aspetto delle «partenze» dalla costa nordafricana, migliorando gli aiuti alla cooperazione con i Paesi di origine e di transito dei migranti (Bruxelles non ha infatti competenza sulle acque internazionali). Roma cerca l'asse con Malta, Cipro e Grecia sui ricollocamenti, in vista del vertice dei ministri dell'Interno. «Già sosteniamo l'onere più gravoso della gestione dei flussi nel Mediterraneo, nel pieno rispetto di tutti gli obblighi internazionali e delle norme dell'Ue», si legge nella nota comune. Poi un j'accuse nero su bianco: il meccanismo di relocation varato il 10 giugno 2022 si è dimostrato «lento, e tutto ciò è increscioso e deludente, perciò non possiamo sottoscrivere l'idea che i Paesi di primo ingresso siano gli unici punti di sbarco per gli immigrati illegali, soprattutto quando ciò avviene sulla base di una scelta fatta da navi private». Madrid si smarca dal gruppo anti-Ong, e prova a dar lezioni: «Scelte simili andrebbero a discapito di quelli che, come la Spagna, rispettano obblighi internazionali e salvano vite con risorse pubbliche». Peccato che al confine tra Nador e Melilla il 24 giugno scorso siano morti 23 migranti, come denunciato dalla Bbc, che accusa le autorità spagnole di violenze estreme nei respingimenti. A Roma la strada pare tracciata: «Le Ong dovrebbero servire a salvare le persone in mare, non a fare i taxi», insiste Tajani. Una sponda arriva dai moderati europei, con Manfred Weber, presidente del Ppe, pronto a oliare i meccanismi bruxellesi. C'è da domare Berlino, con l'ambasciatore tedesco in Italia che dice: «Le Ong salvano vite e meritano riconoscenza», mentre il Bundestag ha stanziato 2 milioni di euro all'anno, fino al 2026, a favore dell'associazione United4Rescue. Eppur si tratta. L'Ue, dopo le mosse dell'Italia, sembra decisa ad anticipare il vertice a fine mese. «Credo si debba chiudere una polemica che non è partita da noi - aggiunge Tajani - è casuale che una nave sia andata verso la Francia». Intanto a Ventimiglia gli agenti d'Oltralpe controllano tutti i veicoli in transito verso la Francia. E' la prima rappresaglia di Parigi. Lunghe code, con il governatore della Liguria Giovanni Toti che denuncia la «violazione di Schengen».
Francia, ecco la verità su Macron: quello che nessuno ha mai detto. Renato Farina su Libero Quotidiano il 13 novembre 2022
A Calais c'è la storia dei treni. Sulla sponda francese della Manica anche i treni danno la caccia ai migranti. Appena hanno l'occasione li tirano sotto. A questo proposito ho svolto una piccola inchiesta. Com'è arcinoto il ministro gallico dell'Interno, German Dormanin, ha accusato il nostro Paese di «disumanità» nei confronti di chi attraversa il mare per venire in Europa. Fantozzi gli risponderebbe «Com' è umano, lei» mentre il mega-ultra-direttore si adagia su poltrone di pelle umana. Siamo al bue che dà del cornuto all'asino. Bè, qui invito il lettore a tastare le corna del bue, in francese boueuf cornu. Ha più corna del drago dell'apocalisse. Partiamo dal caso che non cita nessuno.
1- «I servizi di emergenza sono stati chiamati alle 6.02 del mattino per un pedone di età indefinita che era stato investito da un treno merci sulla strada di Castre», a sud-est di Calais, hanno dichiarato i vigili del fuoco. «L'impatto è stato molto violento» e l'uomo è morto nonostante l'intervento dei servizi di emergenza». Questo segnalavano le agenzie ai francesi. Niente di notevole. Poi abbiamo scoperto che questo signore non identificato era un adulto presumibilmente africano. Attraversava i binari? No. Il poveretto dormiva in sacco a pelo. È un espediente per impedire di essere arrestati dai poliziotti, o più sbrigativamente sottoposti a una tempesta di cazzotti. Infatti, e con qualche ragione, i gendarmi preferiscono non correre il rischio di essere travolti. Dormono con un orecchio e un occhio aperti, se sei vicino al ferro la vibrazione ti avverte dell'arrivo della locomotiva. Non sempre. «È possibile si sia alzato negli ultimi istanti», annota il comunicato dei vigili del fuoco, ma è stato meno svelto del solito. Questo dà la misura della disperazione dei migranti. Neanche i treni sono gentili con loro. Ricorda l'episodio con cui Solzenicyn comincia Arcipelago Gulag: da sotto il ghiaccio, nell'eterno gelo artico, emergono molluschi vecchi di migliaia di anni: ferocemente gli zek (i detenuti dei lager comunisti) li mangiano avidamente.
LA DENUNCIA SUI MEDIA
Le Figaro svela che casi simili sono «molto frequenti». Un migrante sudanese di 25 anni era già morto il 1° marzo dopo essere stato investito da un treno lì vicino. Il 4 novembre idem: un treno ha travolto 4 migranti sorpresi tra i binari Dunkerque e Calais, uccidendone uno, ferendo gli altri, più svelti del primo. I treni? Anche i camion. Il 15 gennaio, un sudanese di 18 anni è morto schiacciato dal camion da cui era caduto. Un mese prima, un altro sudanese 16enne era morto allo stesso modo nel parco commerciale di Transmarck. Inglesi e francesi praticano il respingimento nella Manica, per dissuadere dalla pericolosa traversata della Manica. 2021 (dati ufficiali) 31 morti e 4 dispersi, 2022: vedremo.
2- Calais, appunto. È dal 1999 che la faccenda di questa così esemplarmente umana accoglienza al migrante si ripete. Allora venivano dai Balcani. Contavano di essere accolti da Sua Mestà provenendo dalla ex-Iugoslavia bombardata dalla Nato. I francesi non li volevano, la Gran Bretagna nemmeno. La Croce rossa allestì il campo di Sanglotte. Si formò pian piano la "giungla". Essa fu evacuata brutalmente nell'ottobre del 2016. Ci sono state inchieste indipendenti su numero e trattamento condotte poco prima e poco dopo questo selvaggio sgombero, a cui seguì una caccia al migrante da parte di locali aizzati dalla polizia. Il Refugee Rights Data Project contò, nel 2016, 9.106 persone, inclusi 865 minori, il 78% dei quali non sono accompagnati. Trascrivo la sintesi: «Il trattamento dei rifugiati da parte della polizia è estremamente allarmante. Dalla nostra indagine emerge che il 75% è stata vittima di violenza della polizia. Gas lacrimogeni ad personam, proiettili di gomma, cani. Il 3 % denuncia abusi sessuali. Questi dati dimostrano violenza sistematica da parte della polizia».
3- Scendiamo a Sud. Sistematicamente la polizia di dogana francese entra in Italia, quasi fosse il loro cesso. Il caso più sfacciato si è registrato il 30 marzo 2018 a Bardonecchia. Quattro agenti francesi sono entrati nel centro, che si trova nei locali della stazione ed è gestito attualmente dalla ong Rainbow for Africa, accompagnando un nigeriano per fargli riempire una provetta di urina in bagno per vedere se era drogato. Risultato negativo.
NESSUNA SCUSA
Gli agenti erano armati e hanno intimidito i presenti. Il solito Dormanin spiegò che la polizia ne aveva il diritto. L'Italia protestò. Nessuna scusa formale. All'inizio di quel febbraio era accaduto un fatto ancor più schifoso. Dopo che la Francia aveva chiuso i confini a Ventimiglia, il tentativo di passare in Francia si era spostato in Val di Susa. Una nigeriana malata di linfoma e incinta era stata intercettata insieme al marito al confine, e riportata a Bardonecchia. Lì era stata soccorsa dai volontari che l'avevano portata in ospedale a Torino. Circa un mese dopo, la donna è morta durante il parto. Diritti umani? Non scherziamo.
4- Claviere. Lì c'è un confine invisibile, vigilato da droni, telecamere. Le guardie francesi usano raccogliere come fossero uno stormo di passeri quelli che riescono a sfuggire a questi controlli,ma vengono beccati dalle parti del Monginevro e senza verbali, clandestinamente, li riportano nei boschi.
5- A giugno un egiziano 35enne è stato colpito alla testa nella sparatoria avvenuta al termine di un lungo inseguimento partito a pochi chilometri dal confine con l'Italia. A Mentone Amnesty International France, Médecins sans Frontière, Caritas, denunciano la detenzione dei migranti in container. Scrivono all'Onu e chiedono al delegato speciale, Felipe Gonzales Morales, di «venire a constatare di persona le gravi violazioni ai diritti delle persone commesse dalle autorità francesi».
"Li lasciò morire": l'inchiesta che smaschera l'ipocrisia francese sui migranti. La Francia avrebbe ignorato i ripetuti sos del gommone affondato il 24 novembre 2021 nella Manica, scaricando le responsabilità sul Regno Unito. Francesca Galici il 15 Novembre 2022 su Il Giornale.
La Francia da settimane è impegnata a fare la morale all'Italia sui migranti, dall'alto dei 200 o poco più fatti sbarcare (ma non in territorio francese) dalla nave Ocean Viking, contro gli 800 circa sbarcati in Italia da tre navi Ong. Per essersi fatta carico di una nave su quattro, in un momento in cui l'Italia sta subendo una fortissima pressione dal Mediterraneo centrale e dalla rotta balcanica, la Francia ha messo in atto ritorsioni contro il nostro Paese, ha chiesto agli altri dell'Unione europea di isolare l'Italia e ha blindato la frontiera di Ventimiglia. Un comportamento inaccettabile e ipocrita da parte di un Paese che sul fronte dei migranti avrebbe ben poco da insegnare, anche alla luce del nuovo accordo che, in comunione con il Regno Unito, alza un muro nel canale della Manica.
I due Paesi, infatti, hanno chiuso un patto col quale viene stabilito che sulle coste francesi verranno schierati ulteriori 350 agenti, supportati da cani e droni, per impedire l'attraversamento della Manica. E il patto arriva a un anno quasi dal non dimenticato naufragio in quel braccio di mare, che portò alla morte di 27 persone, tra i quali anche una bambina. Le Monde ha pubblicato gli elementi dell'inchiesta su quel naufragio e la Francia non sembra essere priva di responsabilità per quanto accadde il 24 novembre 2021. Secondo il giornale francese, infatti, il Paese transalpino avrebbe ripetutamente ignorato gli sos provenienti dall'imbarcazione in difficoltà nel canale della Manica.
Gli inquirenti, infatti, avrebbero ascoltato le registrazioni delle chiamate di soccorso dalle quali si evincerebbe che il Centro regionale operativo di sorveglianza e dei salvataggi in mare posizionato a Griz-Nez, a breve distanza da Calais sulla sponda francese della Manica, si sarebbe rifiutato di mandare un'imbarcazione a controllare quanto stava accadendo ed, eventualmente, a prestare soccorso. L'imbarcazione, nel momento dell'sos, si trovava in acque internazionali, a breve distanza dal limite territoriale del Regno Unito: questa sarebbe la motivazione per il mancato soccorso. Le Monde ha riportato le trascrizioni delle conversazioni tra il barchino e il centro di soccorso, uno scambio drammatico nel quale dalla Francia risponderebbero: "Voi siete in acque inglesi". Ma nessuno, né da una parte né dall'altra, ha mandato i soccorsi.
Ma c'è di più. Perché sempre sul giornale francese viene rivelato che nel momento in cui un'imbarcazione transalpina di passaggio ha individuato il barchino in difficoltà, sarebbe stato invitato ad allontanarsi perché "sarebbero arrivati gli inglesi". Ma nessuno, nelle ore successive, ha prestato soccorso alla carretta del mare. Un peschereccio francese in transito molte ore dopo tra Calaid e Dover trovò o corpi galleggianti accanto a un gommone sgonfio: dei 29 a bordo, si salvarono solo due uomini.
Questi sono quelli che da giorni vogliono fare la morale al nostro Paese sulla gestione dei migranti. E il ministro degli Interni Darmanin, quello che ha alzato maggiormente la voce contro l'Italia, è colui che nel suo Paese sta portando avanti una legge che inasprisce le condizioni per ottenere l'asilo e non solo.
Francia? Da Napoleone a Sarkozy, quanti imbarazzi: rileggetevi la storia...Francesco Carella su Libero Quotidiano il 14 novembre 2022.
Che la Francia di Emmanuel Macron, dopo avere accolto nel porto di Tolone la nave Ocean Wiking con 230 immigrati a bordo, decida di aprire un aspro conflitto con l'Italia dichiarando di considerare carta straccia gli accordi già firmati per accogliere 3500 migranti e che, inoltre, inviti i Paesi dell'Unione ad annullare il meccanismo di solidarietà europea non deve stupire più di tanto. Infatti, l'alta tensione che in queste ore sta segnando i rapporti fra Roma e Parigi riporta alla memoria altre drammatiche tenzoni che nel corso di oltre un secolo e mezzo di storia unitaria il nostro Paese ha dovuto affrontare con i vicini d'Oltralpe con al centro, il più delle volte, l'area del Mediterraneo.
A sfogliare l'album dei rapporti fra Italia e Francia vi è solo l'imbarazzo della scelta nel ricordare gli episodi più imbarazzanti e quasi sempre legati a ciò che è stato chiamato il "complesso della grandeur". Non si fece in tempo a proclamare la nascita del Regno d'Italia nel marzo 1861 che Napoleone III, dimenticando di averne agevolato la realizzazione negli anni precedenti, aprì una stagione d'intense polemiche per il semplice fatto che il giovane Stato si dimostrò fin da subito non disponibile a muoversi sullo scacchiere internazionale assecondando gli interessi della diplomazia parigina.
SCONTRO SULLA TUNISIA
Uno scontro durissimo si consumò nel 1881, quando l'Italia, forte anche di una presenza storica con una comunità di oltre ventimila connazionali, pensava di fare della Tunisia una propria colonia. Il governo italiano, però, non aveva fatto i conti con le mire espansionistiche della Francia in Nord Africa. In pochi mesi, la Tunisia divenne protettorato francese- operazione passata alla storia come "schiaffo di Tunisi" - e uno dei primi atti del governo francese fu quello di non riconoscere i diritti acquisiti nel tempo dalla comunità italiana.
L'anno dopo, anche in risposta a quanto accaduto sulla vicenda tunisina, il nostro Paese firma il Trattato della Triplice Alleanza con la Germania e l'Austria-Ungheria. I giornali parigini dell'epoca si riempiono di vignette in cui i nostri governanti vengono raffigurati come lustrascarpe impegnati alacremente a lucidare gli stivali del Cancelliere tedesco Otto von Bismarck. La situazione degenerò al punto da sfociare nel 1888 in una guerra doganale dagli effetti economici devastanti per l'agricoltura italiana, in particolar modo per quella meridionale.
Continuiamo a sfogliare il nostro album. Un vero e proprio "colpo di pugnale alla schiena" - come venne definito, questa volta a ragion veduta, dai giornali parigini - lo inferse l'Italia il 10 giugno 1940, quando dichiarò guerra a una Francia che aveva di fatto già capitolato sotto i colpi dell'esercito tedesco. Un'altra pagina da non dimenticare è quella che venne scritta nel 1969, quando Mu' ammar Gheddafi prese il potere in Libia con un colpo di Stato ed espulse tutti gli italiani, dopo averne confiscato i patrimoni.
ELIMINAZIONE DI GHEDDAFI
Ebbene, in quella occasione i primi aerei da combattimento furono forniti al Colonnello proprio dalla Francia. Salvo cambiare registro nel 2011, quando Nicolas Sarkozy avvia una guerra sciagurata che porta all'eliminazione di Gheddafi, aprendo, in tal modo, una lunga stagione di caos in Libia foriera di un'imponente accelerazione del traffico di esseri umani per mano di scafisti senza scrupoli. Eppure, ci furono anni in cui due grandi statisti, Alcide De Gasperi e Robert Schuman, s'impegnarono fortemente per porre le basi di una grande rivoluzione, non solo fra Italia e Francia, ma fra i Paesi del Vecchio Continente: si trattava del sogno di un'Europa unita. Sogno che sarebbe diventato realtà, come si legge nella "dichiarazione Schuman", a patto di non dimenticare che «l'Europa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Una dichiarazione che oggi andrebbe riletta nelle stanze dell'Eliseo.
Respingimenti e disumanità. Da President Warfield a Exodus 47, la storia delle deportazioni in nave. David Romoli su Il Riformista l’11 Novembre 2022
Le navi che solcano il Mediterraneo cariche di profughi, sballottate da un porto all’altro di Paesi che si rimpallano la responsabilità dell’accoglienza, dovrebbero chiamarsi tutte “St. Louis”, come la nave tedesca che il 13 maggio 1939 salpò da Amburgo diretta a L’Avana, Cuba. A bordo viaggiavano 937 passeggeri ebrei che fuggivano dalle leggi razziali, dalla persecuzione inaspritasi dopo la Notte dei Cristalli tra il 9 e il 10 novembre 1938, dai rischi apocalittici che vedevano profilarsi all’orizzonte. Erano tutti forniti di regolari visti turistici pagati 150 dollari. In mezzo alla sala da pranzo campeggiava il busto dell’uomo dalle cui grinfie cercavano di fuggire, Adolf Hitler, ma il capitano, Gustav Schroder, lo aveva fatto coprire con una tovaglia.
La nave arrivò al porto dell’Avana il 27 maggio ma le autorità cubane negarono il permesso di sbarcare. Poche settimane prima le leggi sull’immigrazione erano cambiate, senza che i passeggeri del St. Louis ne fossero al corrente. Salvo che per i cittadini degli Usa, il visto costava ora 500 dollari ma solo previa autorizzazione del governo cubano che permise lo sbarco solo di 28 passeggeri, nonostante le pressioni di Washington perché li accogliesse tutti. Ma quando, dopo cinque giorni, il capitano Schroeder fece rotta verso la Florida, la Casa Bianca di Roosevelt negò l’accoglienza. Schroder pensò allora di risalire lungo la costa facendo sbarcare i passeggeri di nascosto ma la guardia costiera tallonò il St. Louis per impedirlo. La nave si rivolse al Canada, chiedendo di poter sbarcare ad Halifax: il direttore dell’immigrazione Blair, un nemico giurato dell’immigrazione ebraica, si oppose e il governo negò il permesso mentre le condizioni di vita sulla nave diventavano sempre più difficili, soprattutto per la mancanza d’acqua.
Schroder si rassegnò a fare marcia indietro ma rifiutò di riportare i profughi nella Germania dalla quale erano fuggiti. Il 17 giugno la nave raggiunse Anversa mentre erano in corso le trattative tra i diversi Stati europei per i ricollocamenti. Il Regno Unito accolse 288 profughi, la Francia 224, in Belgio rimasero 214 ebrei e 181 finirono in Olanda. L’anno seguente tutti i Paesi continentali in cui si trovavano i reduci dal “viaggio dei dannati” furono invasi dalla Germania. Tra i passeggeri del St. Louis 254 finirono nei campi di sterminio. Nel complesso dei 620 ebrei riportati in Europa se ne salvarono 365. Otto anni dopo un’altra nave carica di profughi ebrei avrebbe occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo per settimane e mesi. Stavolta non cercavano di sfuggire alla persecuzione e allo sterminio, erano sopravvissuti ai lager ed erano ammassati da due anni nei campi profughi che ospitavano circa 200mila profughi ebrei che avevano perso tutto nella Shoah e cercavano di raggiungere clandestinamente la Palestina sfidando i limiti ferrei all’immigrazione ebraica posti dall’Inghilterra, in virtù del suo mandato sul Medio Oriente.
La Mossad Le’ Aliya Bet, la branca dell’Haganah, principale organizzazione sionista, che si occupava dell’immigrazione clandestina aveva già organizzato oltre 50 viaggi, ogni volta portando a destinazione gruppi più o meno numerosi di profughi. Nel luglio 1947, mentre si avvicinava la decisione dell’Onu sulla spartizione della Palestina e la nascita dello Stato di Israele, l’Haganah decise di organizzare un trasporto molto più numeroso, quasi certamente con lo scopo di creare un caso internazionale. La “President Warfield” era una nave americana costruita nel 1927. Requisita dall’esercito nel 1944 aveva partecipato allo sbarco in Normandia. Poteva contenere comodamente 400 passeggeri arrivando anche a 700. La Haganah, dopo aver acquistato la nave nel 1946 decise di imbarcare 4.575 profughi. Al comando c’era un ufficiale dell’Haganah, Ike Aronowitz, che la aveva già guidata negli anni di guerra. Un altro ufficiale del Mossad, Yossi Hamburger, detto Harel, assunse il comando militare.
La nave, con bandiera dell’Honduras, passò per Marsiglia e di lì raggiunse Portovenere, vicino La Spezia, dove fu modificata in modo da poter trasportare migliaia di persone ma anche fornita di sistemi di difesa in caso di attacco inglese. Intanto 160 camion si occupavano di trasferire i profughi nel porto francese di Sète, dove si imbarcarono l’11 luglio. Dopo sei giorni, la President Warfield, in viaggio verso Haifa, fu ribattezzata Exodus 47 e issò la bandiera con la stella di David. Poche ore più tardi, il 18 luglio, le navi inglesi intimarono alla Exodus di invertire la rotta e dopo il rifiuto attaccarono la nave dei profughi speronandola per sette volte e andando all’arrembaggio. I profughi si difesero per due ore, in una battaglia che costò la vita a due passeggeri e a un soldato inglese, poi la Exodus si arrese e i profughi furono trasferiti a Cipro. Solo i due comandanti rimasero nascosti nella nave sequestrata dalla quale, grazie all’aiuto dei portuali, raggiunsero poi il comando dell’Haganah.
I clandestini furono rimpatriati su tre navi che avrebbero dovuto sbarcarli nella Francia dalla quale erano partiti. Il governo francese però si rifiutò di collaborare. Il portavoce dell’esecutivo Francois Mitterrand lesse una dichiarazione: «La Francia non intende chiudere le porte agli emigranti ma non li costringerà neppure a scendere a terra». Le navi restarono di fronte al molo di Port-de-Bouc dal 29 luglio al 23 agosto. Solo 138 profughi scelsero di accettare l’ospitalità francese. Gli altri rimasero a bordo, dichiararono lo sciopero della fame, concentrarono su di sé l’attenzione di tutto il mondo, con un crescente discredito per l’Inghilterra. L’immagine del Regno Unito subì un nuovo colpo quando, il 21 agosto, annunciò che i profughi sarebbero stati portati, o deportati, proprio in Germania. Solo alle donne incinte o con figli sotto i 14 anni sarebbe stato consentito di raggiungere la Palestina: erano 57 e nessuna di loro accettò l’offerta.
Le navi attraccarono ad Amburgo l’8 settembre. I passeggeri delle prime due accettarono di lasciare le navi senza resistere, quelli della terza si asserragliarono nelle stive e furono trascinati fuori solo dopo una battaglia che provocò decine di feriti. Tutti furono trasferiti in due campi profughi intorno a Lubecca. I sopravvissuti di Auschwitz non riuscirono a raggiungere la Palestina. Tornarono negli accampamenti di fortuna in cui erano confinati da due anni. Però la battaglia dell’Exodus, durata quasi due mesi, si risolse in una sconfitta campale per il Regno Unito e incise sulla decisione dell’Onu che, pochi mesi dopo, si espresse a favore della nascita di Israele. Chi dichiara guerra alle navi cariche di disperati in cerca di salvezza dovrebbe ricordarsi di quell’esperienza. David Romoli
E sull'immigrazione i socialisti francesi fanno i sovranisti. Francesco De Remigis su Il Giornale il 15 novembre 2022.
L'uomo politico che ha permesso a Emmanuel Macron di diventare presidente la prima volta, aiutandolo sin dal maggio 2016, quand'era ancora un ministro pressoché sconosciuto, e che gli ha fatto incontrare economisti, lobbisti, trovando sponsor e finanziatori rischia ora di farlo saltare dal «trono», dove l'inquilino dell'Eliseo è tornato appena 7 mesi fa. La decisione di aprire il porto di Tolone è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Infatti, ad attaccare Macron sullo sbarco concesso alla Ong, non sono più solo le opposizioni, ma il «senatore», come continuano a chiamarlo in Francia nonostante sia in stand by dall'agone politico causa malattia. L'uomo che è stato kingmaker del presidente, ritiratosi dal dibattito pubblico per combattere un cancro, invece, stavolta, ha deciso di parlare, criticando aspramente l'accoglienza della Ocean Viking accordata dal suo pupillo. Un malessere da sinistra, il suo, che dà voce ai tanti che nella «Macronia» non dicono ciò che pensano. E che sparano contro l'Italia nascondendo la verità per difendersi dalle destre.
Invece Gérard Collomb, 75 anni, uno dei decani della politica francese con una serie di legislature alle spalle nei ranghi del Partito socialista tra Assemblée e Senato, sindaco di Lione per 19 anni prima che la città venisse parassitata dal politically correct dei verdi (con la maggioranza ambientalista che ha appena votato in consiglio comunale per un contributo di 14 mila euro a SOS Méditerranée) ha rilasciato un'intervista fiume al settimanale Le Point facendo copia e incolla delle dichiarazioni di Marine Le Pen, intestando la critica alle Ong anche alla sinistra, attaccando Macron frontalmente e rafforzando il Rassemblement national.
Un autentico campo minato per la stabilità dell'Eliseo. Perché Collomb, ex ministro dell'Interno proprio di Macron fino al 2018 (lasciò il governo per ricandidarsi a Lione, vincendo ancora), ha denunciato l'apertura di «una breccia».
Un «precedente», secondo lui, pericolosissimo per la Francia. «Non può che favorire le reti di scafisti per i quali i migranti sono fonte di guadagni considerevoli», spiega. «Se ci limitiamo a una reazione di sensibilità, rafforziamo il problema più che risolverlo».
L'attracco dell'Ocean Viking e dei suoi 230 migranti sta già costando caro all'Eliseo nel gradimento, visto che stando ai sondaggi la maggior parte dei francesi si dice satura di immigrati, e non disposta a vedersene altri in arrivo; estrema sinistra a parte. L'Esagono è poi ancora scosso dal brutale omicidio della piccola Lola, la 12enne parigina uccisa nel suo stabile da una 24enne algerina, irregolare, che aveva ricevuto un foglio di via lo scorso 22 agosto, senza dar seguito all'ordine.
Ma se ora pure un vecchio socialista, anzi uno degli iniziatori della gauche plurielle, attacca duramente le porte aperte alla Ocean Viking, e pure l'impianto della nuova legge sull'immigrazione che prevede permessi di soggiorno a go-go, «sbagliati», è anche un segno dei tempi. Che porta alla luce una certa ipocrisia dell'Eliseo.
Nel 2018, infatti, l'allora ministro Collomb si era opposto all'idea di un cosiddetto «centro controllato» per migranti (hot spot) a Tolone, evocata all'epoca dal presidente. Collomb non lo disse per non creare problemi.
E a Le Point ammette oggi per la prima volta che per questo si dimise. «Se lo avessi detto a suo tempo, avrei danneggiato gravemente Macron» e Le Pen avrebbe potuto «essere eletta». E oggi, è ancora un sostenitore di Macron? «Non sostengo un uomo, ma una linea, e la linea sull'immigrazione non mi va». Scaricato. Per la seconda volta, dal suo «padrino».
Frasi che rischiano di sgretolare una «Macronia» già in affanno. La bomba a mezzo stampa può avere effetti devastanti - basta vedere i tiggì - su un presidente che non ha la maggioranza in Assemblée.
Ed è a grappolo, perché Collomb ha rincarato la dose su BfmTv: «Se accanto all'ingresso dell'Ocean Viking mettete pure le promesse di regolarizzazione della legge sull'immigrazione (annunciata dall'esecutivo per il prossimo anno, ndr), e se foste un migrante, direste: 'Bisogna che io vada in Francia'». Sostanzialmente le parole pronunciate negli ultimi giorni da Le Pen e da Eric Zemmour, che hanno chiesto di smetterla di far credere ai disperati africani a «un Eldorado che non esiste».
Collomb evidenzia il «rischio arrivi di massa nei mesi a venire», causa accoglienza della Ong. «Così finiranno sotto i ponti». L'uomo che aveva tolto a Macron innumerevoli castagne dal fuoco nel primo mandato (compreso l'affaire Benalla) è uscito dal silenzio. Rinnega la sua creatura. E lo mette in castigo.
Estratto di "Ipocrisea", di Francesca Ronchin (ed. Aliberti), pubblicato da "La Verità" il 30 novembre 2022.
Ancora una volta, sono le vicende delle navi delle Ong a riaccendere il dibattito sulle politiche migratorie. Quando l'Italia mette un freno al loro sbarco e l'11 novembre la Ocean Viking di Sos Méditerranée punta dritto a Tolone, si apre la crisi diplomatica tra Italia e Francia. Con il suo carico di 230 migranti, l'arrivo della Ong in terra francese è un precedente che per l'Eliseo «non deve ripetersi».
Da subito, lo scontro innescato da Roma, svela piccole e grandi disonestà dell'Europa e dei suoi Stati membri. Italia compresa. Negli stessi giorni in cui fa la morale all'Italia, la Francia invia a Ventimiglia 500 agenti per blindare i confini e firma una dichiarazione congiunta con l'Inghilterra per lottare contro tutte le forme di immigrazione irregolare con imbarcazioni di fortuna (comprese le traversate del Canale della Manica).
Misure che confermano la vera linea del governo francese che, se da un lato rimprovera la mancata accoglienza da parte dell'Italia, dall'altro chiude il rubinetto ai flussi al punto da mettere a punto una nuova legge sul diritto d'asilo che, oltre a limitare lo ius soli, dovrebbe rendere le espulsioni più veloci. Dalla sua, l'Italia, con oltre 90.000 arrivi nel 2022, lamenta di essere lasciata sola dagli altri Stati europei descritti come una costellazione di egoismi, a partire dalla scarsa disponibilità a redistribuire quanti arrivano (solo 117 i migranti ricollocati nel 2022).
Dai dati sull'accoglienza finale dei rifugiati però il patentino di bontà non spetta all'Italia che con 45.000 domande di asilo nel 2021 si trova dietro le oltre 100.000 di Germania e Francia. Roma chiama in causa il sistema di ricollocamento europeo (che però riguarda solo i rifugiati) ma non si capisce su che base gli Stati membri dovrebbero farsi carico di migranti arrivati irregolarmente in un Paese, l'Italia, che per sua scelta da anni pratica una politica di accoglienza indiscriminata.
Evidente anche la goffaggine dell'Unione europea che, se da un lato foraggia la Turchia con oltre 6 miliardi di euro per fermare i migranti, quando si tratta di commentare la stretta sulle imbarcazioni umanitarie, tramite la portavoce della Commissione Ue, Anitta Hipper, dichiara che «non c'è differenza tra le navi delle Ong e le altre navi».
Un'affermazione in contrasto con l'Agenzia Frontex secondo la quale, sebbene sia vero che le Ong rappresentino, al momento, solo il 16% degli arrivi, agiscono da «pull factor», fattore di attrazione, che incentiva le partenze e producono «conseguenze inattese» come confermano svariate fonti autorevoli [... ] Dai dati che ci fornisce la Guardia Costiera italiana, se ai tempi di Mare Nostrum, i migranti partivano a bordo di mezzi a scafo rigido, l'anno dopo, quando aumentano le navi di soccorso, gli scafisti iniziano ad optare per i gommoni made in China, venti volte più pericolosi ma molto più economici, che arrivano a rappresentare l'84% dei mezzi utilizzati.
Quando nel 2018 le missioni europee si interrompono e il numero di Ong subisce una lieve flessione, ecco che l'utilizzo dei gommoni cala perché gli scafisti sono uomini d'affari e il servizio offerto deve funzionare. Dunque se da un lato, la presenza delle navi di soccorso riduce il rischio di morire, l'uso massiccio di gommoni, da esse generato, lo alza.
In un effetto domino si è inoltre abbassato il prezzo del viaggio che a sua volta ha portato ad un ampliamento della platea dei migranti pronti a partire.
Anche in presenza di condizioni meteo proibitive, perché con le navi di soccorso in mare il tratto da percorrere è breve [...] I migranti, sistematicamente esclusi dal dibattito sul tema, lo sanno bene. «La vostra presenza induce i migranti a partire quindi per favore la prossima volta state alla larga se il tempo non è buono», scriveva sul profilo twitter di Sos Méditerranée il 23 aprile 2021, dopo l'ennesimo naufragio davanti alle coste libiche, Nurudeen Abu, un migrante salvato dalla Ocean Viking due mesi prima.
Dopo 24 ore il tweet viene cancellato. Qualcuno gli fa notare che il suo appello rovina la buona reputazione delle Ong. [...] Una vecchia abitudine quella di cambiare i contorni delle cose, come quella di chiamare «pescatori» i facilitatori e i trafficanti che scortano i migranti. Me ne sono accorta durante un viaggio a bordo della Aquarius, il guardapesca della Ong Sos Méditerranée, immortalato in un servizio trasmesso da Report e che ha dato spunto a questo libro. Durante i soccorsi, ci sono barchini in vetroresina con a bordo uomini coperti da grossi cappelli di paglia che curiosamente nei svariati servizi giornalisti non compaiono mai. Quando chiedo alla Ong chi siano, mi viene ripetuto che si tratta di semplici "pescatori", senza canne da pesca e interessati solo a che i migranti raggiungano le Ong.
[...] Con il loro darsi il cambio in modo coordinato, dietro l'urgenza umanitaria del salvare vite (giusto) e del rispetto dei diritti umani (altrettanto giusto), le Ong si stanno inoltre sostituendo agli Stati alimentando una politica immigratoria ibrida che si regge sulla confusione tra due piani distinti. Il sistema di accoglienza che permette a un migrante che arriva in modo illegale di fare domanda di protezione come rifugiato non dovrebbe essere sovrapposto alla necessità da parte di uno Stato di programmare modalità di ingresso legali sostenibili e coerenti con proprie disponibilità e fabbisogni.
I due piani invece vengono confusi con scarso successo come raccontano i dati Ocse 2019 secondo i quali l'incidenza dei profughi sul mercato del lavoro italiano nell'ultimo decennio non ha superato lo 0,3% degli occupati [...] Del resto, guardare ai flussi economici come flussi di rifugiati apponendovi un manto di umanitarismo significa o non comprendere che non ci si trova davanti a un'emergenza occasionale bensì a un fenomeno di trasformazione economica, oppure comprenderlo, condividere la metamorfosi in atto e ciò nonostante negarla.
Una falsificazione retorica non sostenibile. [...] Come sembra rivelare anche la linea dura adottata oltre che da Turchia e Paesi «sovranisti» come Polonia e Ungheria, persino dalla più moderna Svezia o dalla socialdemocrazia danese che, in attesa di vagliare le domande di asilo, ha deciso di inviare i migranti illegali in Ruanda. Nonostante gli appelli, ipocriti, al rispetto dei diritti umani e all'accoglienza, l'Europa lascia fare.
L'Ong smaschera Macron: "Non ci ha offerto un porto sicuro". Luca Sablone su Il Giornale il 16 novembre 2022.
La retorica buonista della Francia era stata subito smontata da quanto accade a Ventimiglia e ora a smascherare ulteriormente Parigi ci ha pensato la portavoce della Sos Mediterranée Italia. Si tratta di Elisa Brivio, che ha spiegato nel dettaglio quanto accaduto nell'ambito della vicenda Ocean Viking: alla fine la nave ha attraccato al porto di Tolone e i 230 migranti sono stati fatti scendere. Ma davvero la Francia è nelle condizioni di impartire lezioni all'Italia? Non proprio, alla luce anche del racconto arrivato dalla Organizzazione non governativa (Ong) al timone della nave.
"Dalla Francia nessun porto sicuro"
La portavoce della Sos Mediterranée Italia, nell'intervista rilasciata a La Stampa, ha voluto porre l'attenzione sul significato esatto che caratterizza un vero porto sicuro: per "pof" (ovvero "place of safety"), si intende un porto in cui le persone salvate in mare possono non solo sbarcare ma anche "esercitare i loro diritti, a partire da quello di richiedere asilo". E quello offerto dalla Francia sarebbe perfettamente coerente con questa definizione?
Non a caso Elisa Brivio ha sottolineato che Tolone giovedì ha concesso un porto "in via eccezionale, non un porto sicuro". Poi, rispondendo a precisa domanda, ha aggiunto: "Quindi la Francia non ha mai offerto un porto sicuro? A noi mai". E ha parlato di un "colossale equivoco" che successivamente ha inasprito i rapporti tra il nostro Paese e la Francia.
Nelle 43 richieste di porto sicuro erano state coinvolte l'Italia e Malta, considerati "i Paesi più vicini" in cui "bisogna sbarcare". Non solo: a Francia, Grecia e Spagna era stato rivolto un appello per "un supporto" affinché "si trovasse una soluzione". Il risultato? "Nessuno aveva mai risposto, né gli uni né gli altri".
L'ipocrisia di Parigi
In questi giorni Parigi ha usato toni molto duri, minacciando ritorsioni contro il nostro Paese per il caso Ocean Viking. Il che, tra le altre cose, si è tradotto nello stop all'accoglienza di 3.500 rifugiati dall'Italia. Con il passare delle ore non si è placata la serie di reazioni scomposte dalla tanto solidale e accogliente Francia che, nel frattempo, ha respinto le domande di asilo di 44 dei 230 migranti soccorsi e si sta preparando a procedere all'espulsione nel loro Paese di origine.
L'ipocrisia francese è stata denunciata anche da Marine Le Pen, che al Corriere della Sera ha ricordato un precedente che ha coinvolto proprio Parigi: ora il governo francese si affretta a denunciare la gestione italiana e a evocare ragioni umanitarie, "ma nel 2018 la nave Aquarius venne rifiutata dalla Francia e fu costretta a navigare fino a Valencia". Senza dimenticare che sul sito Oxfam nel 2018 venivano criticati i respingimenti di minori non accompagnati da parte della Francia, "in palese violazione del diritto europeo e interno". Si parlava di "minori non accompagnati anche di 12 anni" che "continuano a essere vittime di abusi, detenzioni e respingimenti illegali". Ecco perché le lezioncine di Parigi lasciano il tempo che trovano.
Specchio riflesso. La Francia critica l’Italia ma sull’immigrazione non è poi così diversa. Carlo Panella su L’Inkiesta il 17 Novembre 2022.
Un articolo di Le Monde ha ricordato al governo di Parigi, tanto indignato per le posizioni di Roma sulla Ocean Viking, che un anno fa si era comportato allo stesso modo di fronte a un’imbarcazione semiaffondata nella Manica
Lunedì scorso Le Monde ha fatto uno sgambetto al governo francese e ha pubblicato con grande rilievo in prima pagina il resoconto dei disperati appelli di richiesta di soccorso di un’imbarcazione semiaffondata al largo di Dunkerque carica di migranti, ai quali la Guardia Costiera francese si è ben guardata dal rispondere, men che meno dal mandare soccorso, in attesa che il relitto entrasse nelle acque territoriali inglesi per potersene lavare le mani. Risultato: 27 immigrati morti che potevano facilmente essere salvati nelle acque territoriali francesi. In data 24 novembre 2021.
Un evidente e voluto contrappasso che Le Monde ha mostrato ai membri del governo francese indignati per il «comportamento disumano» del governo italiano sull’Ocean Viking.
Una scelta editoriale forte che evidenzia come, visto dalla Francia, il dossier dei salvataggi in mare degli immigrati irregolari sia tutt’altro che lineare.
Questo perché impatta fortemente su una situazione politica interna fortemente magmatica. Innanzitutto, per una ragione stranamente poco valutata in Italia: il distacco che Emmanuel Macron marca sin da prima delle elezioni legislative dal quadro governativo. Una attitudine che l’ha visto, una volta eletto presidente con un discreto margine, marcatamente non impegnarsi nella campagna elettorale.
In seguito, il presidente francese ha sempre più delegato alla premier Elisabeth Borne – di provenienza socialista – la complicata gestione della politica interna con un governo che non ha assolutamente una maggioranza nella Assemblée Nationale e ha marcato fortemente il suo secondo mandato essenzialmente sui grandi temi della politica internazionale e ambientale.
Si è tenuto ben lontano dai dossier scottanti – riforma delle pensioni, della sicurezza sociale, dell’immigrazione, politiche di bilancio – che hanno infiammato il dibattito e i voti parlamentari ed è intervenuto praticamente solo per minacciare lo scioglimento della Assemblée Nationale alla vigilia dei voti più scabrosi.
Non è un caso che mentre Emmanuel Macron in persona, nel giugno del 2018, si fosse pesantemente e pubblicamente pronunciato contro l’accoglienza nei porti francesi della nave Acquarius, durante tutta la vicenda dell’Ocean Viking ha invece marcato un assoluto silenzio – e così le “fonti dell’Eliseo” – lasciando il dossier interamente nelle mani degli esponenti del governo incluse le polemiche col governo italiano.
Ministri colti in contropiede dalle incaute e gradasse dichiarazioni di Matteo Salvini, proprio nella fase nella quale era in atto il tentativo di spaccare il gruppo dei neo gollisti Républicains per allargare il supporto all’esecutivo nella Assemblée Nationale e acquisire così una maggioranza certa.
Di fronte a un’opinione pubblica già tesissima sui temi dell’immigrazione, il trauma di fare sbarcare per la prima volta una nave carica di immigranti irregolari in un porto francese – fatto mai avvenuto prima – ha così terremotato il quadro politico interno e spinto verso una estrema rigidità verso l’Italia vari ministri francesi.
Rigidità non apprezzata ad esempio da Le Monde che, nel criticare fortemente il governo italiano, non ha mancato di prendere le distanze dal governo francese considerando l’avvenuto un’occasione sprecata in un’ottica europea.
Nel frattempo Emmanuel Macron, ha continuato a mantenere un rigoroso e inusuale silenzio, rotto solo dal comunicato comune con Sergio Mattarella che sottolinea quanto interessa al presidente francese: un’azione coordinata tra le nazioni nell’Unione europea.
Dunque, non certo un Emmanuel Macron soddisfatto dell’infelice exploit del governo italiano, ma sicuramente un presidente francese cosciente che a fronte della rottura sempre più netta e irrecuperabile dell’asse Franco-tedesco gli conviene tenersi aperti tutti i giochi e le alleanze possibili in Europa. Anche con l’Italia.
Migranti, Le Pen smaschera Macron: "L'Italia ha ragione, governo francese ipocrita". Il Tempo il 16 novembre 2022
"Le accuse del governo francese all'Italia sono profondamente ingiuste e rivelano un rigetto della democrazia". È quello che ha detto in un'intervista al Corriere della Sera, Marine Le Pen, la deputata all'Assemblea nazionale francese.
Le Pen accusa il governo francese di comportarsi in maniera ipocrita sui migranti e critica l’operato del presidente Emmanuel Macron sulle ultime vicende relative agli sbarchi dei migranti in Europa. L’esponente dell’opposizione spezza una lancia in favore di Giorgia Meloni: "Gli italiani hanno eletto Meloni, notoriamente contraria all'immigrazione clandestina anarchica che le Ong cercano di imporci. Rifiutando lo sbarco alla Ocean Viking il governo di Roma non fa che rispettare la volontà del popolo italiano. Quanto al governo francese, lo trovo ipocrita perché evoca ragioni umanitarie, ma nel 2018 la nave Aquarius venne rifiutata dalla Francia e fu costretta a navigare fino a Valencia” sottolinea al Corriere della Sera. Le Pen incalza il suo avversario Macron per quanto riguarda l’intero sistema di accoglienza dei migranti e sferra anche un attacco alle Ong. “Perché le imbarcazioni delle Ong, che io considero complici degli scafisti, non approdano in Algeria, o ancora più vicino in Tunisia? Quelli non sono porti sicuri? È un atteggiamento di grande disprezzo nei confronti di quei Paesi, oltretutto incomprensibile visto che ogni anno centinaia di migliaia di europei vanno a passare le loro vacanze in Tunisia. I porti tunisini sono sicuri per i turisti e non per la Ocean Viking? La verità è che il governo francese è favorevole all'immigrazione e non lo vuole dire” spiega la leader della destra francese.
Le Pen sostiene che fin quando non verrà modificata la politica sui migranti la situazione peggiorerà sempre di più. L’obiettivo dovrebbe essere quello di evitare le partenze degli extracomunitari dalle loro nazioni e ciò si può ottenere con i porti chiusi. “Bisogna passare al braccio di ferro: per esempio non concederli più agli algerini, compresi i loro dirigenti, e bloccare le rimesse degli algerini di Francia verso le loro famiglie in Algeria”. Durante l'intervista la leader francese ha sottolineato anche l'importanza del primato dell’interesse nazionale, commentando le azioni di governi sovranisti come la Polonia e l’Ungheria. “Non c'è alcuna incoerenza nel fatto che ogni Paese pensi prima di tutto al proprio interesse. Io non voglio accogliere migranti nel mio Paese e non voglio neanche imporli agli altri. L'Unione europea non può imporre migranti a popoli che non li vogliono” ha concluso.
I trucchi della Francia per respingere i clandestini prima dell'ingresso. Controlli rapidi in una "zona di attesa" e rimpatri in accordo con Stati africani "Amici". Mauro Indelicato il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.
La Francia ha deciso di rimpatriare almeno 44 dei 234 migranti sbarcati dalla Ocean Viking venerdì scorso. Ad annunciarlo martedì è stato, nel corso di un intervento all'Assemblea Nazionale, il ministro dell'Interno Gerald Darmanin. I migranti in questione per la verità non sono mai entrati ufficialmente in territorio francese. Parigi infatti ha scelto, subito dopo lo sbarco della nave dell'Ong Sos Mediterranée a Tolone, di confinare i richiedenti asilo in una struttura turistica nella penisola di Giens. Una struttura dichiarata eccezionalmente per l'occasione «zona di attesa internazionale». Uno stratagemma per identificare subito e velocemente i migranti, senza far formalmente attraversare loro la frontiera.
Una mossa che in Italia non è mai stata fatta e che senza dubbio porterebbe a forti polemiche politiche, sia in ambito interno che a livello europeo. Quando invece l'Eliseo ha annunciato il confinamento a Giens, nessuno ha battuto ciglio. Lontano da sguardi indiscreti, con la stampa tenuta a debita distanza dalla struttura di accoglienza, le autorità transalpine sono state molto veloci nell'esaminare ogni singola domanda di asilo presentata dai migranti sbarcati venerdì. «La Francia ha detto in parlamento il ministro Darmanin ha respinto le domande di asilo presentate di 44 migranti sbarcati dalla Ocean Viking e per loro sono state avviate le procedure per il rimpatrio nei Paesi di origine». Anche in questo caso si tratta di procedure rapide, insolitamente veloci per un Paese europeo alle prese con espulsioni, rimpatri e accompagnamento nelle aree di origine dei migranti.
In Italia ad esempio il numero di chi viene effettivamente riportato in patria, non avendo titoli per rimanere nel territorio nazionale, è sempre stato molto basso. Specie se messo a confronto con il dato in continuo aumento degli sbarchi. Il problema sta nella difficoltà di stringere specifici accordi con i governi dei Paesi di origine. Un problema che però non ha la Francia. Parigi, rispetto all'Italia e ad altri Paesi europei, può far leva su un'importante rete politica e diplomatica, soprattutto nel nord Africa e nell'Africa subsahariana.
L'Eliseo parte quindi da una posizione di vantaggio derivata dal suo passato coloniale. Anche se infatti l'influenza transalpina nel continente è in netta diminuzione, tuttavia è ancora molto forte specialmente nelle realtà francofone. È grazie a questo che il governo di Parigi può essere in grado di allestire, nel giro di pochi giorni, il trasferimento anche di piccoli gruppi di migranti nelle loro aree di origine. Un contesto che spiega come mai la Francia nel tempo non ha mai realmente voluto incidere in un cambio di passo delle politiche migratorie in Europa. Quando anche Mario Draghi, da presidente del consiglio italiano, ha parlato di un comune impegno europeo per incrementare i rimpatri, il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto spallucce: non è interesse suo cambiare lo status quo e all'Eliseo può anche star bene che in Italia sbarchino, come quest' anno, quasi centomila migranti. Peraltro Macron è impegnato sul fronte interno a un intenso giro di vite per favorire rimpatri ed espulsioni. Il governo ha infatti presentato un piano, da approvare in parlamento nel 2023, per intensificare i controlli sugli irregolari e togliere loro i benefici.
Meloni, molto colpita da reazione aggressiva Francia
(ANSA l’11 novembre 2022) - "Quando si parla di ritorsioni in un dinamica Ue qualcosa non funziona. Sono rimasta molto colpita dalla reazione aggressiva del governo francese, incomprensibile e ingiustificabile". Lo ha detto la premier Giorgia Meloni interpellata in conferenza stampa.
Meloni, oggi a Tolone prima nave Ong a sbarcare in Francia
Meloni,Francia accoglie 230 migranti, da noi 90mila sbarchi
"Io credo che valga la pena mettere insieme due numeri: la nave Ong Acean Viking che oggi attracca in Francia è la prima nave di una Ong che abbia mai attraccato in Francia con 230 migranti. Questo ha generato una reazione molto dura nei confronti dell'Italia che ha fatto entrare quasi 90mila emigranti". Lo afferma la premier, Giorgia Meloni, in conferenza stampa.
Migranti:Meloni,noi non solidali? Ne abbiamo accolti 90mila
"Si dice che si bloccherà un sistema di ricollocamenti che era stato deciso e quindi noi che non saremmo solidali non possiamo avere solidarietà. Noi che ne abbiamo accolti 90mila quest'anno. Nell'accordo si prevede che dovrebbero essere ricollocate 8000 persone e fino ad ora ne sono stati ricollocati 117 di cui 38 in Francia, qualcosa non va". Lo afferma la premier Meloni.
Meloni,in nessun accordo scritto Italia unico porto di sbarco
"Cosa fa arrabbiare? Il fatto che l'Italia deve essere l'unico porto di sbarco per i migranti del Mediterraneo? Questo non c'è scritto in nessun accordo". Lo ha detto Giorgia Meloni in conferenza stampa.
Meloni,basta litigi,soluzione è che Ue difenda suoi confini
"Ora tre cose possiamo fare: possiamo decidere che siamo l'unico porto d'Europa ma non sono d'accordo, non ho avuto questo mandato. Ipotesi due: non credo che si debba litigare ogni volta con Francia, Grecia...Unica soluzione comune, e ne ho parlato con Macron, Germania e Ue, è la difesa dei confini esterni dell'Ue, bloccare le partenza, aprire hotspot. Abbiamo speso milioni di euro per aiutare la Turchia, ora serve una soluzione europea". Lo afferma la premier, Giorgia Meloni, in una conferenza stampa. (ANSA)
(ANSA l’11 novembre 2022) - "Una politica pasticciata per affrontare l'immigrazione clandestina", scrive oggi il quotidiano francese Le Figaro, in un editoriale dedicato alla vicenda dell'Ocean Viking e dal titolo "Macron preso nella sua trappola".
"A forza di dire o fare una cosa e il suo contrario - scrive Le Figaro - l'esecutivo è caduto nella sua stessa trappola. Come si può accusare di razzismo un deputato del Rassemblement National che si opponeva nell'emiciclo all'arrivo dell'Ocean Viking sulle nostre coste, quando una settimana dopo Emmanuel Macron e Gérald Darmanin cercano con ogni mezzo di respingere quella stessa nave?
E allo stesso modo, come si può essere intransigenti con l'esecuzione degli obblighi di lasciare il territorio, auspicando al tempo stesso la facilitazione nella distribuzione di permessi di soggiorno per aiutare i settori di attività in difficoltà? Tutto questo non assomiglia né alla fermezza, né all'umanità, ma piuttosto a una politica pasticciata".
Salvatore Dama per “Libero quotidiano” l’11 novembre 2022.
Ripicca francese. Il ministro dell'Interno Gerald Darmanin annuncia che l'accoglienza della Ocean Viking nel porto di Tolone costerà cara all'Italia. Loro si faranno carico dei 234 migranti che sono a bordo della ong, sì, ma stracceranno l'accordo che prevedeva il ricollocamento di 3.500 richiedenti asilo. In Francia e in Germania.
Intanto sarebbe interessante capire a che titolo Darmanin parli anche a nome del governo tedesco. Ma poi le cifre: al momento i migranti trasferiti oltralpe sono 38. Trentotto. Un passo indietro. È il 10 giugno quando il Consiglio europeo dei ministri dell'Interno trova l'accordo su una dichiarazione politica. Viene creato un meccanismo di solidarietà che prevede la redistribuzione volontaria delle persone migranti.
Lo firmano 18 Stati membri, tra cui appunto Francia e Germania. Si dà priorità anche agli sbarchi nei porti italiani. E si ipotizza la dislocazione di diecimila stranieri tratti in salvo nelle operazioni Sar nel Mediterraneo centrale e lungo la rotta atlantica occidentale.
L'operazione è sotto l'egida della Commissione europea, con il supporto logistico dell'Agenzia dell'Unione europea per l'asilo (Euaa) e dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che si fa carico di pagare i biglietti aerei per il trasferimento. Viene creata addirittura una piattaforma on line attraverso la quale gli Stati firmatari possono "prenotarsi" i migranti. Di più: sceglierseli.
Facoltà che l'Italia non ha mai avuto, ma va be'. I più "gettonati" sono i richiedenti asilo afgani e siriani, perché profughi veri. Però c'è speranza anche per i migranti economici. Che, per farsi prendere, devono indicare la propria specialità. Se sanno fare qualcosa. Tipo operai, badanti, cuochi, eccetera. Il sottotesto è che all'Italia restano gli scarti. E poi si parla di 10mila ricollocamenti su 90mila arrivi. Pochini.
Tuttavia c'è la prospettiva di una embrionale forma di collaborazione europea sul tema dell'immigrazione, dopo anni di porte chiuse.
Piuttosto che niente, meglio piuttosto. Perché l'alternativa è l'applicazione alla lettera del trattato di Dublino. Cioè: il migrante è un problema dello Stato dove sbarca. Si parla di una revisione possibile, ma da qui al 2024. Non oggi. E neanche domani.
Insomma, tutto bene. O quasi. Il 28 luglio dei funzionari francesi arrivano in missione al Cara di Bari.
Vengono a scegliersi il primo gruppo di migranti. Fanno sul serio. Anche i tedeschi seguono la stessa modalità. E la Lituania e la Romania.
L'accordo sembra funzionare. L'allora ministro dell'Interno Luciana Lamorgese è trionfante: «Tappa storica», esulta lisciando i mangiarane: «Un risultato possibile grazie alla presidenza francese» del Consiglio europeo. È il 5 di agosto. Dopo poco si scopre la truffa: l'ordinazione di Emmanuel Macron è un antipastino. Quali 3500, sono 38. In quattro mesi. Con questi ritmi ci sarebbero voluti otto anni per arrivare alla cifra annunciata, ma tanto Parigi ha detto che non li vuole più. Legalmente e illegalmente. Tanto che la gendarmeria già lucida i manganelli al confine con Ventimiglia.
In realtà tutto il meccanismo di solidarietà, quello che aveva fatto alzare la glicemia di Lamorgese, si è rivelato una sòla. L'ennesima. I ricollocati non sono diecimila e neanche mille. Ma appena 117. Solito risultato: l'Italia fregata e la Francia, Stato perculante, che fa pure l'offeso. Per il ministro dell'Interno italiano, Matteo Piantedosi, «la reazione che la Francia sta avendo di fronte alla richiesta di dare accoglienza a 234 migranti - quando l'Italia ne ha accolti 90mila solo quest' anno - è totalmente incomprensibile. Ma dimostra anche quanto la postura delle altre nazioni di fronte all'immigrazione illegale sia ferma e determinata. Quello che non capiamo è in ragione di cosa l'Italia dovrebbe accettare di buon grado qualcosa che gli altri non sono disposti ad accettare». Parafrasando il poeta di Zagarol: sono tutti solidali con il porto degli altri.
Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” l’11 novembre 2022.
Brutta storia questa dei "francesi che si incazzano", per dirla alla Paolo Conte. Brutta, ma non bruttissima. I francesi mostrano i muscoli, loro che al valico di Ventimiglia hanno fatto carne da cannone dei diritti degli immigrati che volevano entrare in Francia, gli stessi i cui gendarmi una volta sconfinarono per operare armati in territorio italiano contro immigrati giudicati poco simpatici, ecco quei francesi lí oggi fanno la voce grossa perché l'Italia ha tenuto al largo una nave di una ong francese e quindi alla fine se la devono prendere loro, ma non prima di annunciare che per ripicca non applicheranno l'accordo già raggiunto per farsi carico di 3.600 migranti oggi parcheggiati in Italia.
Detto che fino ad ora di qui 3.600 se ne sono presi solo 38 e che non c'è evidenza che sarebbero andati oltre, detto quindi che i francesi ci stanno prendendo per i fondelli - non è la prima volta nella storia e non sarà certo l'ultima- penso che non ci si deva fare distrarre da queste polemiche transalpine tra paesi di una certa storia e tradizione uniti dalla passione per vini, formaggi e Leonardo Da Vinci.
No, i problemi non vengono dai numeri bensì dai principi: quelli giustamente, e finalmente, enunciati negli ultimi giorni dal ministro Piantedosi sono perfettamente sovrapponibili a quelli del presidente Macron: un grande paese non si fa prendere per i fondelli, né dagli scafisti, né dalle ong e neppure da parenti serpenti, che poi se c'è da trarre in salvo e financo ospitare qualche migliaio di disgraziati non sará quello il problema come del resto non lo è mai stato neppure in passato.
La diversità tra questo governo e i suoi predecessori non mi sembra stia infatti nello "stop ai soccorsi" - che Piantedosi non si è mai sognato neppure di pensare - bensì nello "stop alle prese per i fondelli" di ogni ordine e grado, cioè sia a quelle in doppiopetto dei burocrati e politici europei, sia a quelle con la faccia da ceffi di chi sui viaggi lucra milioni che poi investe per lo più nel commercio di droga e armi.
Non è questione di chi vince e chi perde tra noi e i francesi, ce la giocheremo di volta in volta. Quello che mi sembra l'Italia stia dicendo è che almeno le regole siano le stesse per tutti, non che noi si finisce in castigo ogni due per tre senza aver torto un solo capello a nessuno mentre ai francesi del democratico Macron è concesso di prenderli, gli immigrati, a manganellate se solo si avvicinano ai loro confini.
Estratto dell'articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” l’11 novembre 2022.
Isolamento internazionale dell’Italia in Europa, giù le relazioni diplomatiche con partner decisivi, blocco dei ricollocamenti previsti in Francia. Non si capisce un tubo, è molto strano, per non dire grottesco, quel che va facendo la presidente Meloni in materia di immigrazione e accoglienza dei profughi.
[…] Il massimo sforzo di creare le condizioni di una integrazione politica piena e legittimante del nuovo governo di destra a Bruxelles sembrava prevalere su altre considerazioni. E l’attenzione ai rapporti con la Francia, oggi sul filo di lama di una polemica molto astiosa, era emersa da subito, già nella fase di preparazione del governo Meloni.
D’altra parte la gestione del Pnrr e degli accordi di Dublino e altri tuttora validi, e del budget finanziario di compensazione dell’accoglienza marittima, autorizza i francesi, oltre tutto provocati dalle incaute e guascone dichiarazioni di Salvini sui “porti francesi aperti”, a richiamare l’Italia dei “porti chiusi” alle sue effettive responsabilità di partner europeo beneficiario di ingenti aiuti finanziari, con un’apertura collaborativa nella gestione degli sbarchi che però parte dal rispetto del diritto della navigazione e dunque dall’apertura degli approdi sicuri per le imbarcazioni che salvano profughi o migranti dal naufragio in mare.
[…] Ci hanno già provato a fare la voce grossa e a usare le maniere forti: non regge, nemmeno dal losco punto di vista della propaganda e della demagogia populista cosiddetta. Ci si aspettava un cambio di registro guidato con un minimo di saggezza dalla presidente del Consiglio e in ragione delle sue ambizioni di durata, di efficacia, di tenuta politica nel concerto europeo.
Ci si poteva aspettare una voce nuova nelle sedi istituzionali, una riflessione sui Trattati, una rete di relazioni da costruire, massimamente con la Francia che è nostro partner privilegiato soprattutto ora che è in questione la revisione di Maastricht e declina o si ridimensiona l’asse franco-tedesco. Sono stati assorbiti a milioni i profughi dall’Ucraina, in contesti diversi e con sofferenze sociali per tutti.
La difesa dei confini della patria c’entra poco con quello che è successo a Catania o a Reggio Calabria. Invece abbiamo, con la complicità finora di Meloni stessa, un calco starnazzante della vecchia e improbabile sceneggiata anti immigrazione, che fu a colpi di “zecca comunista”, “dàgli alle ong”, “l’Italia la vedrete solo in cartolina”. Che senso ha?
Controcorrente, Verderami mette la Francia spalle al muro: “Siete voi i veri disumani”. Il Tempo il 12 novembre 2022
Si voleva dare un segnale alla Francia o la situazione sui migranti è precipitata inconsapevolmente? La domanda è rivolta da Veronica Gentili, conduttrice di Controcorrente, talk show serale di Rete4, a Francesco Verderami, giornalista del Corriere della Sera, ospite della puntata del 12 novembre. “Fare i solidali con i porti degli altri è molto facile - esordisce Verderami - e la Francia se ne sta accorgendo, perché è la prima nave che arriva nei porti francesi. In politica, specie in quella europea, la soluzione non ha mai un risultato vero e reale se c’è un vincitore, quindi l’idea che al gol segnato nel momento in cui l’Ocean Viking si è diretta verso la Francia ti togli la maglietta e la cominci a sventolare davanti alle curve ti becchi un cartellino”.
“Secondo me - sottolinea ancora il giornalista - la maglietta l’ha strappata Matteo Salvini, con una dichiarazione sopra le righe. Poi è intervenuta la nota della Presidenza del Consiglio, che secondo me andava evitata. Lì c’è stata una reazione spropositata e arrogante dei francesi, un qualcosa che ha dimostrato che il problema Parigi e Berlino lo vogliono tenere il più possibile distante da loro. Un conto sono gli immigrati che arrivano via terra, un altro quelli che arrivano via mare, hanno un impatto visivo e mediatico molto forte. A Tolosa hanno capito che cosa significa avere una nave, ed è la prima. In questa vicenda dell’immigrazione nessuno è innocente e in quanto a disumanità degli italiani dovremmo ricordare ai francesi che esistono papelli di dossier in possesso della Commissione Europea che denunciano la violazione dei diritti umani da parte della Gendarmeria francese, con veri e propri processi nei tribunali da parte della giustizia francese. I francesi - conclude Verderami - non possono pontificare, hanno messo 500 agenti a Ventimiglia e ricordo che nel 2018 invasero l’Italia con un furgoncino. Lì davvero disumano”.
«Servono immigrati, non il contante»: cosa vogliono gli imprenditori del Nord Est che hanno punito la Lega. Viaggio tra gli industriali e gli artigiani di Veneto e Friuli che all’unisono chiedono al governo di spegnere la campagna elettorale e passare ai fatti. E di ricordarsi delle promesse. Carlo Tecce su L’Espresso l’11 Novembre 2022.
Lasciate ogni retaggio, stereotipo, luogo comune, voi che entrate nel nord est d’Italia. Quello puntellato da vigneti, rimesse, botteghe, capannoni, altiforni, interporti, villette. No, sbagliato, pregiudizi dozzinali: industriali e artigiani veneti non invocano il blocco dei migranti economici, non sbraitano contro il reddito di cittadinanza, non bramano l’utilizzo illimitato dei contanti. Sì, corretto, tendenza consolidata: industriali e artigiani veneti sentono distante e cacofonica la Lega nazionale di Matteo Salvini e più contigua e lineare Giorgia Meloni e di riflesso Fratelli d’Italia.
Il lavoro degli stranieri vale il 9 % del Pil. Ecco perché l’Italia ha bisogno di più immigrati: come uscire dalla crisi della manodopera. Angela Stella su Il Riformista il 15 Novembre 2022
Favorire l’immigrazione regolare contro “l’emergenza-manodopera” nel nostro Paese. È quanto suggeriscono i dati del “Rapporto 2022 sull’economia dell’immigrazione”, curato dalla Fondazione Leone Moressa e presentato ieri alla Camera dei Deputati. “Nonostante la pandemia abbia determinato un calo nei redditi dichiarati da contribuenti immigrati (-4,3%) – hanno spiegato Enrico di Pasquale e Chiara Tronchin della Fondazione – il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 28,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 26,8 miliardi) rimane attivo per +1,4 miliardi di euro. Gli immigrati, prevalentemente in età lavorativa, hanno infatti un basso impatto sulle principali voci di spesa pubblica come sanità e pensioni”.
Per quanto concerne le tipologie di lavoro si evidenzia che “tra gli italiani, il 37,5% svolge attività qualificate e tecniche, contro il 7,8% degli stranieri. Al contrario, i lavoratori non qualificati sono l’8,5% tra gli italiani e il 31,7% tra gli stranieri. Nonostante la concentrazione in fasce medio-basse, i lavoratori immigrati producono 144 miliardi di Valore Aggiunto, dando un contributo al PIL pari al 9%. L’incidenza sul PIL aumenta sensibilmente in Agricoltura (17,9%), Ristorazione (16,9%) ed Edilizia (16,3%)”. “L’apporto del lavoro degli stranieri in Italia è fondamentale e ormai strutturale sul piano economico”, ha dichiarato il deputato Riccardo Magi, presidente di +Europa, che ha ospitato la presentazione del Rapporto. “Chiedersi come aumentare gli ingressi legali dei lavoratori stranieri dovrebbe essere una priorità dei Governi, a prescindere dalla maggioranza politica. E invece il dibattito si avvita intorno alla questione delle ong e degli sbarchi di poche centinaia di persone. I dati della fondazione Moressa – ha osservato il parlamentare – dovrebbero essere conosciuti da tutti per affrontare con maggiore consapevolezza la questione migratoria in Italia, lasciando da parte i soliti vecchi slogan”.
Il report sottolinea anche una ripresa degli ingressi per lavoro: “Dopo le chiusure del 2020, nel 2021 tornano a crescere i Permessi di Soggiorno rilasciati: 274 mila, più del doppio dell’anno precedente. In ripresa, soprattutto, gli ingressi per lavoro, passati da 10 mila a oltre 50 mila e pari al 18,5% dei Permessi totali. Tuttavia, il primo canale di ingresso per gli immigrati in Italia è il ricongiungimento familiare (44% dei nuovi Permessi). Gli ingressi per lavoro in Italia (8,5 ogni 10.000 abitanti) rimangono a un livello molto più basso rispetto alla media Ue (29,8). Gli stranieri residenti in Italia sono oggi stabili a quota 5,2 milioni, l’8,8% della popolazione”. Un altro dato significativo riguarda le sanatorie: “La politica migratoria italiana ha dovuto far ricorso periodicamente a procedure di emersione. Complessivamente 8 sanatorie in circa 30 anni, con oltre 2 milioni di beneficiari”.
Come evitarlo a favore di una regolarizzazione permanente? “Ho ripresentato in questa legislatura – ha concluso Magi – la proposta di legge ‘Ero straniero’ che prevede, tra l’altro, la regolarizzazione su base individuale degli stranieri che si trovino in situazione di soggiorno irregolare allorché sia dimostrabile l’esistenza in Italia della disponibilità di un’attività lavorativa o di comprovati legami familiari o l’assenza di legami concreti con il Paese di origine, sul modello della Spagna e della Germania”. Angela Stella
Gad Lerner, fango sulla Meloni: "Si accanisce, poi...". Cosa scorda. Libero Quotidiano il 12 novembre 2022
Gad Lerner accusa Giorgia Meloni che "dopo aver cianciato per anni in tv di blocco navale e di sostituzione etnica" - testuale - ora "invoca 'la difesa dei confini esterni dell'Ue'. Ma continua a fare la vittima e finge di non capire perché Francia e Germania l'accusano di avere infranto le regole col suo rifiuto di garantire approdo alla Ocean Viking nel porto sicuro più vicino, come impone il diritto del mare". Scorda però Lerner che banalmente la premier sta difendendo i confini italiani e che l'epoca dei porti aperti a chiunque è finita da tempo.
Tant'è. Nel suo articolo sul Fatto quotidiano il giornalista prosegue dicendo che la premier "accampa argomenti demagogici che possono incantare un'opinione pubblica benevola" e che "non sarà certo con l'esibizione muscolare di un'azione esemplare, cioè accanendosi su 234 disgraziati, che si potrà conseguire la 'soluzione europea' da tutti auspicata". L'obiettivo politico per Lerner "è chiaro: smantellare la rete europea della solidarietà che sostiene il soccorso in mare praticato dalle navi Ong. Giungono a denigrarle come 'navi pirata', calpestando il comune senso di umanità: una campagna ideologica che maschera l'impotenza di fronte alla tragedia, offrendo in alternativa solo la riproposizione di un nazionalismo suprematista e nativista".
Invece, conclude Lerner "basterebbe riconoscere che sono poveri. E che il colore della pelle diverso non li rende meno bisognosi di aiuto. Accanirsi contro di loro con la subcultura del 'prima i nostri' scredita l'Italia e allontana una soluzione comune".
PiazzaPulita, il monologo del "francese" Formigli: "Scene vergognose". Libero Quotidiano l’11 novembre 2022
Corrado Formigli apre la puntata di PiazzaPulita di giovedì 10 novembre con un durissimo attacco al governo Meloni e alla Francia: "Mentre un bambino di 20 mesi muore a Lampedusa, Italia e Francia litigano furiosamente sui migranti che nessuno vuole". "A Catania abbiamo assistito a scene vergognose", prosegue il conduttore. "La Francia ha cancellato l’impegno di ricollocare 3500 migranti che sono in Italia e sarebbero dovuti andare in Francia e minaccia gravissime conseguenze nei rapporti bilaterali con l’Italia".
"A Catania si poteva gestire in maniera meno traumatica da parte del governo ma la Francia spesso ha infranto il diritto internazionale come nel 2016 a Ventimiglia dove ora ha schierato 500 agenti per non far entrare uno spillo", accusa Formigli. "Italia e Francia hanno rotto le regole internazionali e ora siamo di fronte a una crisi diplomatica senza precedenti. L’Italia di Giorgia Meloni può permettersi una rottura con la Francia di questa portata? E con quali conseguenze? È nell'interesse dell'Italia rompere con la Francia e rischiare di isolarci?", chiede il conduttore. Quindi snocciola i numeri dei rifugiati accolti dai diversi Paesi europei dell'Ispi. "Gli immigrati clandestini in Italia sono nella media con il resto dell'Europa", conclude.
Francia furiosa, Europa sdegnata. Italia pecora nera dell’Ue: si considera in guerra coi migranti ma la sta perdendo. Piero Sansonetti su Il Riformista l’11 Novembre 2022
Non sono passate neppure tre settimane dall’insediamento del governo Meloni, ma i danni, per ora sul piano internazionale, sono superiori ad ogni previsione. Rischiano di essere irreversibili. Il respingimento dei naufraghi della Ocean Viking ha provocato una reazione durissima di Parigi “ «È chiaro che ci saranno conseguenze estremamente gravi per le nostre relazioni bilaterali», ha affermato il ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin.
Anche Bruxelles ha spiegato in modo netto che i naufraghi soccorsi in mare devono essere portati in meno tempo possibile nel porto sicuro più vicino e sbarcati. Uno schiaffo in faccia all’Italia. La Francia ha accettato di portare sul suo territorio i naufraghi, facendoli venire da Catania, per puro spirito umanitario. La legge imponeva all’Italia di farli sbarcare. Le conseguenze di questa incomprensibile condotta xenofoba da parte del governo italiano sono due, e molto serie.
La prima è quella che nel titolo abbiamo definito la “Caporetto morale”. L’Italia si considera in guerra con i migranti e i profughi, ma questa guerra la sta perdendo. La seconda conseguenza è l’isolamento. Il rapporto con la Francia è compromesso, ma non solo con la Francia. L’Italia ormai è considerata la pecora nera dell’Unione europea.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019
Siamo hub di migranti? Falso. Il ministro Piantedosi smentito dai numeri ufficiali: non siamo il paese più solidale. Aldo Torchiaro su Il Riformista l’11 Novembre 2022
Sulla pelle dei migranti la politica mostra tutti i suoi limiti. La guerra ideologica, la speculazione elettorale, il circo mediatico che ruota intorno a chi rischia la vita per solcare il Mediterraneo, affida a un mare di parole quel che i dati metterebbero a nudo senza infingimenti. La fonte ufficiale è il Ministero dell’Interno. Secondo il conteggio bollinato dal Viminale sono 89926 i migranti approdati via mare nel nostro Paese nel corso del 2022, dal primo gennaio al dieci novembre. Negli ultimi dieci giorni, con tutti i ministeri del nuovo governo in piena funzione, sono stati 4543 ad arrivare sulle nostre coste. Approdi che tengono conto di chi arriva con il suo barchino, con i barconi stracarichi, chi viene recuperato dalla guardia costiera italiana nelle missioni S.A.R. e chi viene recuperato a bordo delle navi delle Ong internazionali.
A fronte di 4543, per circa 500 si sono accesi i riflettori mediatici, concentrando il focus sulle tre Ong che hanno effettuato operazioni di recupero e salvataggio in acque internazionali. Nel 2020, con il governo Conte 2 sorretto da Pd e M5s i migranti sbarcati erano stati 30.780, ovvero un terzo degli attuali. Nel 2021, con il governo Draghi, questa cifra era arrivata a 57.458. In dieci anni, dal 2011 al 2021, sono arrivati dal Mediterraneo 800mila migranti, con una media di 80mila all’anno. Un volume del tutto gestibile, se si pensa che quindici anni fa la popolazione straniera residente aumentava al ritmo di 300mila persone all’anno. Il 32° dossier Idos del 2022, presentato la settimana scorsa sulla base dei dati del ministero dell’Interno, ribadisce ancora una volta che l’Italia non è più un Paese di immigrazione. E non lo è ormai da diversi anni.
Nel corso del 2021 nell’Ue – dove i 3,5 milioni di rifugiati e richiedenti asilo incidono per appena lo 0,8% sulla popolazione totale – sono state presentate complessivamente 632.655 domande di asilo (di cui 537.630 per la prima volta), con un aumento del 33,8% rispetto al 2020, ma nello stesso tempo con un calo del 9,5% rispetto al 2019, cioè prima che la mobilità umana venisse stravolta dalla pandemia. La vulnerabilità estrema che caratterizza questi flussi è testimoniata anche dall’ampio numero di domande che hanno riguardato minorenni: 183.720, quasi 1 ogni 3 (il 29,0% del totale). Di queste, 23.335 concernono minori stranieri non accompagnati. Solo il 38,5% delle 524.470 domande d’asilo esaminate, nello stesso anno, dagli Stati dell’Unione ha ricevuto, in primo grado, una risposta positiva, ma il tasso cambia a seconda dei vari Paesi membri (dall’8,6% della Slovenia all’84,6% dell’Irlanda) e delle nazionalità dei richiedenti. Alle decisioni di primo grado si aggiungono le 207.820 definitive, ottenute a seguito di ricorso, di cui quelle positive sono state a loro volta il 34,8%. Ne risulta che complessivamente nel 2021 i Paesi Ue hanno concesso protezione a circa 274.145 richiedenti.
Colpisce sia l’elevato numero di richieste di trasferimento della domanda allo Stato di primo ingresso, in base al Regolamento di Dublino (126mila, secondo i dati provvisori di Eurostat, pari a 1 ogni 5 richieste), sia, in ottica di lungo periodo, l’elevata quota di richiedenti che avevano già fatto istanza di protezione in passato: il 61,7% dei 510.696 set biometrici archiviati presso la banca dati Eurodac riguarda richiedenti asilo che negli ultimi 10 anni avevano già presentato una domanda. A sua volta il 2022, oltre ai quasi 4 milioni di ucraini beneficiari di protezione temporanea registrati tra marzo e agosto, ha conosciuto, nei primi 5 mesi, una consistente ripresa dei flussi, con 300mila richieste di asilo presentate (l’85% in più rispetto allo stesso periodo del 2021). In assenza di informazioni ufficiali sulle modalità di ingresso dei richiedenti asilo in Italia, tornano utili i dati del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) riferiti alle persone che vi sono accolte, i quali attestano la prevalenza degli arrivi via mare (68,6% nel 2021), seguiti da quelli via terra (11,5%, soprattutto dalla Slovenia) e via aerea (7,3%, esclusi i rinviati in Italia da altri Stati Ue ai sensi del Regolamento Dublino e i casi di resettlement).
Secondo i dati Eurostat più aggiornati, nel 2021 in Italia hanno fatto per la prima volta richiesta di protezione internazionale oltre 42 mila persone, il quarto numero più alto tra i 27 Paesi dell’Ue, dietro a Germania, Francia e Spagna. Nei dieci anni tra il 2012 e il 2021, il dato italiano sale a circa 592 mila richiedenti asilo, al terzo posto, dietro a Germania e Francia. Le cifre parlano chiaro: in Germania nel 2021 ci sono stati 148.200 ingressi di extracomunitari; in Francia, 103.800. La Spagna ne ha accolti 62.100 (a fronte di una popolazione di trenta milioni in meno dell’Italia) e quindi noi, quarti con 43.900 arrivi. Quinta in classifica è la piccola Austria, con 36.700 migranti accolti. Una differenza di settemila migranti tra Roma e Vienna, a dispetto della notevole differenza tra i due Paesi. È proprio nel considerare l’accoglienza in rapporto alla dimensione demografica degli Stati Ue che la classifica cambia, impietosamente. Soprattutto se guardiamo ai dati dei richiedenti asilo. Nel 2021, l’Italia era quindicesima su 27 Paesi membri, con una persona che ha fatto per la prima volta richiesta di protezione ogni 1.308 abitanti.
Il nostro Paese ricopre la stessa posizione se si guardano i dati relativi ai dieci anni tra il 2012 e 2021, con un richiedente asilo ogni 100 abitanti. In entrambi i casi, gli altri tre grandi Paesi Ue – Germania, Francia e Spagna – erano davanti a noi in classifica. L’Italia si incaponisce in una guerra ideologica senza capo né coda, finendo vittima di una demagogia razziale, una Caporetto morale innervata sull’amplificazione di dati clamorosamente poco consistenti. L’ultimo allarme, per capirci, ha riguardato un approdo a Lampedusa di 28 persone provenienti da Costa d’Avorio, Burkina Faso, Guinea, Camerun e Nigeria. Migranti che dal centro Africa si trovano, per arrivare nel Mediterraneo, ad essere detenuti per mesi nei centri libici. Dai quali si esce turbati, fisicamente provati e psicologicamente distrutti, come non possono che diagnosticare i medici coinvolti negli esami a bordo delle navi attraccate in questi giorni. Per rispondere con misure finanziarie adeguate al flusso migratorio, la Commissione Europea ha attivato strumenti diversi, a partire dal “Fondo asilo migrazione e integrazione 2014-2020” (Fami)”, istituito con Regolamento UE n. 516/2014 con l’obiettivo di promuovere una gestione integrata dei flussi migratori sostenendo tutti gli aspetti del fenomeno: asilo, integrazione e rimpatrio. Ma la materia è oggetto di un prisma di finanziamenti e dotazioni diverse.
La Direzione Degenerale Re.Gio. (“Politiche Regionali”) della Commissione Europea è l’hub da cui vengono assegnate, secondo il fabbisogno, le risorse necessarie ai diversi Stati membri, in ragione del numero di migranti accolti. All’interno di questa vi è la gestione del Fondo di Solidarietà Europeo, nato per rispondere alle comunità naturale e in realtà diventato un fondo-omnibus. Che interessa sempre di più l’emergenza migranti. La dotazione originaria prevista per l’Italia era pari ad € 310.355.777,00. Attualmente le risorse complessive, riferite all’ultima versione approvata del Piano Nazionale, ammontano a € 399.075.470,00 di quota comunitaria, cui si aggiunge una pari somma di risorse nazionali. Giorgia Meloni rispondendo a Parigi che sul caso della Ocean Viking (diretta verso le coste francesi), ha invitato l’Italia a rispettare gli accordi europei in tema di accoglienza, ha dichiarato che “Il governo italiano rispetta tutte le convenzioni internazionali”, aggiungendo poi che le persone presenti sulla nave della ONG Sos Mediterranée non possono definirsi “naufraghi ma MIGRANTI”.
Il ministro Piantedosi protesta: “La reazione che la Francia sta avendo di fronte alla richiesta di dare accoglienza a 234 Migranti – quando l’Italia ne ha accolti 90mila solo quest’anno – è totalmente incomprensibile di fronte ai continui richiami alla solidarietà dovuta a queste persone. Ma dimostra anche quanto la postura delle altre nazioni di fronte all’immigrazione illegale sia ferma e determinata. Quello che non capiamo è in ragione di cosa l’Italia dovrebbe accettare di buon grado qualcosa che gli altri non sono disposti ad accettare”. Lo dice il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Che evidentemente non conosce i veri numeri dell’accoglienza altrui.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Alessandra Ziniti per repubblica.it il 12 novembre 2022.
Il governo Meloni agita quell'unico numero, 90.000, perché quella degli arrivi dei migranti via mare è l’unica classifica sui flussi migratori in cui l’Italia è decisamente prima: per l'esattezza, alla data dell'11 novembre, 90.297 sbarcati dall’inizio del 2022, a fronte, per intenderci, dei 26.341 della Spagna, dei 7.684 della Grecia e dei 13.474 della piccola Cipro, secondo i dati più aggiornati dell'Oim.
Ma se poi andiamo a guardare quanti dei migranti sbarcati in Italia decidono di restare, il numero delle richieste di asilo e ancor di più il numero di stranieri residenti in rapporto alla popolazione vedono l’Italia sempre dietro molti altri Paesi che non sono di primo approdo, segno che chi arriva in Italia cerca di proseguire per il nord Europa. E soprattutto che Germania e Francia, i due Paesi ai quali l'Italia chiede di condividere il peso degli sbarchi sono quelli che in Europa accolgono più di tutti.
I numeri, dunque, non supportano affatto l’immagine dell’Italia che prova a dare il governo Meloni, come quello del Paese europeo che sopporta il peso più grande dei flussi migratori.
Le richieste di asilo
Le richieste di asilo, innanzitutto. Secondo i dati consolidati Eurostat del 2021, l’Italia è solo quarta tra i Paesi destinatari di richieste d’asilo con 45.200 domande, meno della metà della Francia che ne ha ricevuto 103.800 ed è seconda solo alla Germania con 148.000. Anche la Spagna, con 65.295 domande, accoglie più dell'Italia. Dati che, aggiornati ai primi cinque mesi del 2022, confermano il trend in aumento (300.000 richieste, +85 %) e aumentano il divario tra Italia (53.640 domande) e Francia (120.685), mentre la Germania ha già ricevuto 190.545 richieste di asilo e la Spagna oltre 65.000.
Accoglienza, Italia solo quindicesima in rapporto alla popolazione
Se poi guardiamo alle richieste d’asilo in rapporto alla popolazione residente, l’Italia scivola addirittura al quindicesimo posto in Europa con un richiedente asilo ogni 1.308 abitanti, mentre la Germania ne conta uno ogni 561 abitanti, la Francia uno ogni 652. Di più: proprio dall'analisi del rapporto tra richieste di asilo e popolazione degli Stati viene fuori la totale infondatezza dell'Italia "invasa" dai migranti: piuttosto a chiedere a buon diritto la redistribuzione per essere sollevate dal peso dell'accoglienza dovrebbero essere Cipro, prima in classifica, con un richiedente asilo ogni 68 abitanti, e persino Malta (che notoriamente spicca per l'assenza nei soccorsi nella sua zona Sar), che comunque conta più immigrati di quanti ne ha l'Italia, uno ogni 432 cittadini.
I profughi ucraini
Nella valutazione dei pesi dell'accoglienza dei profughi tra i Paesi europei entra naturalmente anche quella relativa agli oltre 5 milioni di ucraini in fuga per cui l'Europa ha attivato la protezione internazionale automatica. La maggior parte, 1,5 milioni, ha trovato rifugio in Polonia, ma anche in questo caso è la Germania ad aprire le porte più di tutti gli altri Stati con oltre un milione di rifugiati ucraini, 455.000 sono rimasti in Repubblica Ceca, mentre l'Italia ne accoglie 171.000 e la Francia 118.000.
Rifugiati in Italia al di sotto della media
Un altro dato interessante che dimostra come l'Italia, nel saldo finale, sia più in debito che in credito, è quello sul numero dei rifugiati residenti in Italia. Dai dati consolidati dell'Unhcr, in Italia abitano 3 rifugiati ogni 1.000 abitanti, ben al di sotto della media. Complessivamente il numero degli stranieri residenti in Italia, come risulta dall'ultimo dossier Idos sull'immigrazione, è di 5,2 milioni, pari al 9% della popolazione. Ma - a dispetto della percezione dei cittadini - quasi la metà sono europei, il 22% asiatici, il 7,5% americani e solo il 22% africani. Le nazionalità più rappresentate sono infatti la Romania, seguita da Albania, Marocco, Cina e Ucraina, dunque nulla a che vedere con quelle delle persone che - nella maggior parte dei casi - scendono dalle navi umanitarie o dai barconi.
Il sistema di accoglienza italiano
Nei centri di accoglienza italiani, tra Cas e Sai (il sistema di accoglienza diffuso) ci sono 103.161 migranti, un numero che torna a superare le 100.000 unità dopo quattro anni di discesa dovuta anche ai tagli al sistema imposti da Salvini durante la sua gestione del Viminale. Cifre comunque assolutamente gestibili per un sistema che nel 2017 è arrivato ad accogliere più di 190.000 persone.
Tutte le balle della sinistra sull'accoglienza dei migranti. I fact-checker di Repubblica bacchettano il governo sull'accoglienza dei migranti. Ma si sbagliano sui numeri. Massimiliano Fiorin il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.
E lo chiamano fact-checking. La notizia è stata sparata il 12 novembre da un articolo di Repubblica.it che già nel titolo non ha usato mezzi termini: la “bugia” dell’Italia sui migranti. La tesi, firmata da Alessandra Ziniti, è perentoria, e si è proposta per l’appunto sulla base di una verifica dei dati di fatto che smentirebbero Giorgia Meloni.
Dunque, secondo i loro controlli, i Paesi europei che “accolgono” più migranti sarebbero Germania, Francia e persino Spagna. Tutti Paesi più generosi dell’Italia, nazione egoista e forse, per dirla con Jean-Luc Mélenchon, “barbara e governata da fascisti”.
La lettura politica dei pretesi dati statistici è semplice, e la sua faziosità non è sfuggita al web. Su questo, ci limitiamo a prendere a prestito un tweet a commento del fact-checking in esame subito messo in rete da Claudio Borghi, neosenatore della Lega, storico protagonista del côté euroscettico del suo partito: “Che bello dover governare un paese con venduti e collaborazionisti infiltrati ovunque, e con la stampa totalmente in mano a nemici della patria”. E fin qui la politica.
Ma se invece accettiamo la sfida, e parliamo solo dei dati numerici e delle statistiche ufficiali, come ha preteso di fare Repubblica, con il piglio del fact-checker che smonta le bugie mediatiche dei governanti, le cose stanno veramente così?
A ben vedere, già il sommario dell’articolo in esame comincia a rivelare l’inghippo: “Il nostro Paese primo solo per gli sbarchi, ma poi chi riesce scappa al nord”. Al nord, dove? E soprattutto in che modo? Difficile smentire la realtà del confine di Ventimiglia, dove si vede che raggiungere il nord, inteso come Francia, non è esattamente una passeggiata per chi vuole “scappare” – come ammette Repubblica – ma non ha i documenti in regola.
Ma è lo stesso prosieguo del sommario che rivela la matrice del trucco. Nel fact-checking che dovrebbe inchiodare la Meloni alle sue bugie, non si parla di migranti in fuga per ragioni economiche. Al contrario, si tratta di “richieste di asilo, rapporto tra immigrati e popolazione residente, strutture di accoglienza”. Sono questi i dati che vedrebbero l’Italia alle spalle di nazioni presumibilmente più evolute e umanitarie, quali la Francia – ormai patria d’elezione dei progressisti nostrani –, la Germania e persino la Spagna socialista. Quest’ultima tanto socialista che è da sempre nota per la ruvidezza con cui preserva i propri sottili confini con il nordafrica (ma forse si tratta solo di percezioni superficiali).
Repubblica deve ammettere che la classifica sui flussi migratori, alla quale ha fatto riferimento il presidente del consiglio nella sua ultima conferenza stampa, l’Italia è decisamente prima, con i novantamila ingressi di quest’anno. Per l'esattezza, alla data dell'11 novembre, 90.297 sbarcati dall’inizio del 2022, a fronte dei 26.341 della Spagna, dei 7.684 della Grecia e dei 13.474 della piccola Cipro.
Tuttavia, e sarebbe questo che inchioderebbe la Meloni alle sue bugie, secondo l’Eurostat l’Italia è solamente quarta tra le richieste d’asilo. Nel 2021 nel nostro Paese ci sarebbero state “solo” 45.200 domande, meno della metà della Francia che ne ha ricevute 103.800, e in Europa è seconda solo alla Germania con 148.000. Anche la Spagna, con 65.295 domande, secondo l’implacabile Repubblica.it, “accoglie” più dell'Italia. E se andiamo a guardare il rapporto tra le richieste e la popolazione residente, l’Italia scivola addirittura al quindicesimo posto in Europa, con un richiedente asilo ogni 1.308 abitanti, mentre la Germania ne conta uno ogni 561 abitanti, la Francia uno ogni 652.
Secondo Repubblica.it tanto basterebbe per concludere che quella dell’Italia “invasa dai migranti” è una bugia, e quindi, va da sé – anzi ça va sans dire, per usare la lingua d’elezione dei progressisti – che le indignate proteste del ministro dell’interno francese e di tutta l’illuminata élite continentale hanno ragione da vendere.
Dovrebbero vergognarsi, quindi, non solo i neofascisti del governo Meloni, ma anche quel popolo ignorante che ha votato per loro. Quelli che, invece di abbeverarsi ai fact-checking di Repubblica, si fanno ingannare dalle stupide percezioni di migranti che si vedono in ogni dove, anche negli angoli più sperduti del Bel Paese, a mendicare davanti ai bar e ai supermercati.
Colpa dell’ignoranza di chi non legge i giornaloni, dunque, o c’è dell’altro? In realtà. basterebbe guardare al concetto di “richieste di asilo” per capire dove sta il trucco. Infatti, chiedere asilo non vuol dire imbarcarsi per mare in attesa di una Ong che aiuti a completare la pericolosissima traversata. Vuol dire affidarsi al sistema di protezione internazionale, che registra il richiedente come profugo e valuta la fondatezza della sua domanda. Che potrebbe anche essere respinta. E spesso lo è.
Infatti, è vero che nei dieci anni tra il 2012 e il 2021, i migranti che hanno fatto per la prima volta una richiesta di asilo in Germania sono stati quasi 2,3 milioni, il dato più alto di tutta l’Ue. Al secondo posto c’è la Francia, con oltre 863 mila richiedenti, mentre l’Italia – che Repubblica vorrebbe relegare tra i Paesi egoisti o nella migliore ipotesi a un semplice territorio “di transito” – si piazza al terzo posto, con circa 592 mila richiedenti.
Ma per l’appunto, richiedere non vuol dire accogliere. Non si sta parlando di tutti i migranti, regolari o irregolari. Tant’è che, per esempio, si stima che in Italia ci siano oltre 500 mila immigrati presenti irregolarmente sul territorio nazionale, e secondo alcuni ormai sarebbero circa un milione. Su questo punto non è possibile fare un confronto a livello europeo, visto che mancano statistiche ufficiali. Ma al riguardo la sensazione non è certo sfavorevole alle ragioni dell’Italia, vista la mole di ingressi clandestini che negli ultimi anni ci sta aggredendo, in partenza dalla Tunisia e dai terminali della disperazione libici.
Se guardiamo ai dati Eurostat per il 2020, l’Unione europea nel suo complesso ha effettivamente concesso asilo a 281mila persone, il 5% in meno rispetto all'anno precedente. La Germania è il Paese che ha accordato più protezione ai richiedenti, dando esito positivo a 98mila richieste, pari al 35% delle domande complessivamente accolte in Ue. A seguire la Spagna (51,200 o 18%), Grecia (35,800 o 13%) e Francia (29,400 o 10%).
A dire il vero, nella classifica delle domande accolte, l’Italia non sfigura così tanto tra i Paesi dell’Ue, visto che ha dato asilo a 21,300 persone, pari all'8% a livello europeo delle complessive richieste di protezione con esito positivo. Specie se si considera che i cinque Stati membri appena citati rappresentano insieme oltre l'80% di tutte le domande di protezione concesse nel 2020. Poi, se si va a guardare il rapporto con la popolazione residente, la sproporzione che secondo le cifre sparate da Repubblica.it vedrebbe l’Italia solo quindicesima si riduce ulteriormente.
Piuttosto, però, andrebbe considerato che la questione delle “domande di asilo”, rispetto al problema che oggi tanto agita i sonni progressisti, cioè quello della disumanità melonian-salviniana verso dei migranti sulle rotte mediterranee, c’entra abbastanza poco. Non diciamo come i cavoli a merenda (i francesi e i lettori di Repubblica direbbero “avec le prix du thé à Shanghai”), ma quasi. Perché la questione della protezione internazionale riguarda per lo più flussi migratori che passano per ben altre rotte, e inoltre dipendono da diverse problematiche geopolitiche. Soprattutto, i richiedenti asilo non utilizzano sempre i barconi che salpano dalla Libia, dietro lauti compensi per gli scafisti.
Questi ultimi sono in gran parte affollati di disperati provenienti dall’Africa subsahariana e persino da Paesi come il Pakistan o il Bangladesh. Ma se andiamo a guardare il complesso delle domande di protezione internazionale, sempre secondo i dati ufficiali Eurostat, ancora nel 2020 è la Siria è il principale Paese di provenienza di chi ha ottenuto asilo in Ue. I siriani, infatti, costituiscono il 27% del totale dei migranti a cui è stata accordata protezione dagli Stati Ue. In particolare, dalla Germania che ha accolto il 60% delle loro richieste. Ma tra i gruppi più numerosi figurano anche venezuelani (17%) ed afghani (15%).
Soprattutto, andrebbe detto che si tratta pur sempre di domande di asilo che possono solo fondarsi su ragioni umanitarie o politiche. Tanto che, di tutte le richieste accolte, il 45% si è tradotto nel riconoscimento dello status di rifugiato, il 29% ha ricevuto lo status di protezione umanitaria e il 26% quella di protezione sussidiaria. Nel complesso, il 41% delle decisioni in primo grado in materia di asilo in Ue ha avuto esito positivo (e già questo denuncia la confusione volutamente fatta da Repubblica.it tra domande presentate e domande accolte). E a parte questo, andrebbe detto che, rispetto alla scottante questione dei migranti economici e della rotta del mediterraneo centrale, che nei fatti vede l’Italia come Paese più esposto, comunque si tratta di tutt’un altro paio di maniche (une tout autre histoire, per chi legge Repubblica).
Insomma, sembra che il fact-checking comparso sul quotidiano on-line del gruppo Gedi, in realtà, più che coi fatti abbia a che fare con la propaganda. Soprattutto, con quel magico mondo di narrazioni ireniche che con il fact-checking e il debunking che dovrebbe piacere tanto alla stampa progressista – che ognor ci insegna a diffidare delle notizie che girano per il web senza la loro opportuna intermediazione – ha davvero poco a che vedere. Tant’è che, c’è da scommetterci, per questo articolo tendenzioso sparato da Repubblica.it non si scomoderà nessuno dei fact-checkers istituzionali, né alcuno degli sbufalatori assortiti del loro giro.
Probabilmente, anche stavolta, lorsignori che sono tanto attenti a purificare la rete dalle false notizie gireranno la testa dall’altra parte. In un modo talmente elegante da fare invidia all’Unione europea.
I dem si mettono subito al servizio di Parigi. Calenda invece si smarca: "L'Eliseo è stonato". Francesco Boezi il 12 Novembre 2022 su Il Giornale.
Imbarazzo in Ue per le frasi del leader di Azione, che sta in Renew Europe
Il centrosinistra corre a solidarizzare con Emmanuel Macron in relazione alla polemica sulle navi Ong ma con qualche distinguo. Il più schiacciato sulla visione transalpina della vicenda, manco a dirlo, è il Pd, con Lia Quartapelle, responsabile Esteri della segreteria, che arriva ad accusare il nostro governo di danneggiare l'Italia. Giuseppe Provenzano, parte dell'ala più a sinistra della formazione guidata da Enrico Letta, incalza via La Stampa: «Avevamo capito fin da subito in quei giorni, nel porto di Catania, che si stava mettendo in campo un'operazione inutilmente crudele e dannosa che macchiava di infamia il nostro Paese di fronte alla comunità internazionale», dice. L'ex ministro per il Sud, che di Letta è il vice, fa parte di quei parlamentari che hanno scelto di salire a bordo della Humanity1 qualche giorno fa. La linea sulla gestione dei fenomeni migratori dei dem è uguale a se stessa da anni: accoglienza garantita a tutti e condanna ferma verso chi ritiene che il Belpaese non possa ospitare tutti coloro che cercano rifugio sulle nostre coste. Se poi a entrare in gioco è la Francia, il coro scandalizzato diventa anche più acuto. «Compromettere il rapporto con il Paese che negli ultimi mesi più ha fatto asse con noi è grave - tuona la capogruppo al Senato Simona Malpezzi - . La politica estera non si fa sui social, mettendo a rischio gli interessi nazionali». La Malpezzi lo scrive su Twitter, quindi via social.
Comunque le opposizioni non si dimostrano compatte sul punto. Emma Bonino, che certo non si è mai distinta per la linea dura in materia di gestione dei fenomeni migratori, fa una premessa ampia ma rammenta ai francesi qualche episodio. «Il governo Meloni - annota a Repubblica - sta semplicemente continuando la linea di Salvini. Il gioco brutale della politica sulla pelle degli altri, soprattutto dei più fragili, è spudorato, anche dal punto di vista della realpolitik». Poi la bordata alle politiche transalpine: «Chi è senza peccato tra gli Stati della Ue scagli però la prima pietra. La Francia si ricordi di Calais e Ventimiglia dove i militari francesi hanno superato il confine in almeno una occasione per intervenire sul territorio italiano e bloccare i migranti». È una precisione che pesa.
Carlo Calenda, che già in passato ha riservato qualche critica a Emmanuel Macron, è persino più diretto: «La cosa peggiore che potrebbe fare oggi l'opposizione, è salutare con entusiasmo il gesto sbagliato della Francia per indebolire Meloni. Da ogni punto di vista l'escalation dell'Eliseo appare stonata e esagerata. Esistono ragioni dell'Italia che prescindono dagli schieramenti». Una presa di posizione forte che, da quel che ci risulta, ha provocato pure qualche imbarazzo in Europa, specie per via dell'appartenenza di Azione al gruppo europeo di Renew Europe, che è lo stesso del presidente francese. Per farla breve: Calenda, neo-macroniano, contro Macron. Mentre nella minoranza, come succede sin da principio da legislatura, prosegue il tutto contro tutti, anche sulle Ong.
Il sondaggio zittisce i buonisti: pure chi vota Pd vuole la stretta sui migranti. Sui migranti, il governo ha l'appoggio anche dell'elettorato di sinistra: mediamente l'81% degli italiani vuole la linea dura. Francesca Galici il 15 Novembre 2022 su Il Giornale.
Gli italiani sono in larga parte d'accordo: il governo deve tenere la linea dura sui migranti. Ancora una volta, i politici di sinistra dimostrano di essere lontani dal mondo reale, portando avanti campagne ideologiche che non trovano sponda negli elettori. Infatti, a chiedere maggior rigore sulla gestione dei flussi sono anche gli elettori di sinistra, al contrario dei politici che continuano a portare avanti la favola dell'accoglienza indiscriminata. Ovviamente, tra gli elettori, quelli maggiormente convinti che il governo debba fare di più sono quelli di centrodestra, ma nel sondaggio riportato dal quotidiano Libero si evidenzia una tendenza di questo tipo anche negli elettori di sinistra.
E questa non è sicuramente una novità. Basta fare qualche passo indietro per capire che da sempre, il mondo reale, chiedere ai governi che si sono succeduti negli anni, di essere maggiormente attento sui flussi di irregolari. Due terzi degli italiani, secondo il quotidiano Libero, credono che "lo Stato Italiano, rispetto ad ora, dovrebbe comportarsi in modo più severo". Un dato emblematico è quello del 2013: in carica a Palazzo Chigi c'era Enrico Letta e il 76% degli italiani intervistati riteneva troppo lassista l'esecutivo in tema immigrazione.
Tutte le balle della sinistra sull'accoglienza dei migranti
Giorgia Meloni è in carica da meno di un mese, considerando il giorno del giuramento come inizio dell'attività dell'esecutivo e l'81% degli italiani intervistati offre il suo sostegno al premier nella questione migranti. Ovviamente, i più entusiasti per la linea dura intrapresa dall'esecutivo sono gli elettori di centrodestra, con l'eccezione di quelli di Forza Italia che si mostrano un po' più tiepidi ma, comunque, favorevoli. Ma non deve stupire che il 61% degli intervistati che votano Pd sia d'accordo con la linea di Giorgia Meloni. E nemmeno che lo sia il 55% degli elettori dei piccoli partiti della sinistra, i vari Verdi, Articolo 1 ecc., che sono seguaci della politica del "tutti dentro" senza eccezioni, compresi gli illegali.
Davanti al blocco navale i numeri cambiano ma non la sostanza, perché il 57% degli italiani è d'accordo su quanto teorizzato da Giorgia Meloni, che anche in campagna elettorale ha ben spiegato il concetto sul quale si basa questo strumento, che è di respiro europeo e ricalca le orme della missione Sophia. Ed è forse l'unico strumento valido per fermare gli scafisti e ridurre le morti in mare: creare degli hotspot in Africa per far partire, in sicurezza, chi ha realmente diritto di asilo in Europa. Questo disegno trova l'appoggio del 44% degli elettori del Pd e del 43% degli elettori della sinistra. Numeri sui quali l'opposizione dovrebbe fermarsi a riflettere, cosa che non avverrà mai per pura miopia ideologica.
Bruno Vespa per “il Resto del Carlino” l’11 novembre 2022.
Si fa molta confusione nel catalogare le persone che arrivano via mare dall'Africa e vogliono sbarcar in Italia. Per naufraghi si intendono persone che hanno avuto un infortunio durante la navigazione, la loro barca rischia l'affondamento e richiede quindi un immediato soccorso. L'Italia non si è mai sottratta al soccorso e spesso lo ha fatto anche fuori delle proprie acque territoriali.
Le persone più facoltose (o meno povere) pagano uno scafista di qualità che le accompagna quasi sempre senza rischi all'appuntamento prefissato con la nave di una Ong che li accoglie a bordo e li accompagna in Italia senza rischi né permessi. Le persone più povere si affidano a scafisti improvvisati che li imbarcano su navigli minori. Se non naufragano, arrivano per proprio conto sulle coste italiane. Vengono accolti e assistiti senza difficoltà.
Le persone che sbarcano in Italia si dividono a loro volta in migranti economici e rifugiati politici. Questi ultimi sono una percentuale ridottissima. La maggioranza arriva sperando di migliorare il tenore di vita. Esigenza comprensibile, ma incompatibile con una accoglienza generalizzata. La differenza tra Italia e Francia sta qui. Quest' anno, la polizia di frontiera francese ha identificato 63.404 persone, di cui il 98% ucraini. Doverosa accoglienza.
Nello stesso periodo, ogni giorno respinge alla frontiera di Ventimiglia 80 migranti economici. Nel 2021 la metà dei 108mila arrivati in Francia lo ha fatto per ricongiungimento familiare. Solo 8mila erano migranti economici e tra i profughi veri la maggioranza (12mila) era afghana.
I 90mila arrivati in Italia quest' anno sono quasi tutti mossi da ragioni economiche. Per questo la posizione francese è insostenibile. Continueremo ad assistere chi ne ha bisogno, ma nessuno può imporci di trasformarci nel terminal passivo di traffici oscuri rinunciando a qualunque parvenza di sovranità nazionale in favore di persone che non fuggono da guerre.
Migranti, sbarchi, Ong: la lezione di Cassese ai talebani dell'accoglienza. Cassese conferma la legittimità dei decreti di Piantedosi: "Bene il governo su dichiarazioni programmatiche". Francesca Galici il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.
Migranti, sbarchi e Organizzazioni non governative. Sabino Cassese appoggia quanto fatto sin qui dal governo Meloni e smonta le polemiche sollevate dalla sinistra. "I decreti Piantedosi sono atti amministrativi conformi ad una legge nazionale", ha dichiarato il giudice della Corte costituzionale in una intervista rilasciata all'Adnkronos. Allo stesso modo, secondo Cassese, è stata legittima anche la scelta di sbarcare solo una parte dei migranti a bordo delle navi Ong perché "sotto il profilo del diritto interno", il diritto d'asilo presuppone "una verifica uno per uno della situazione degli immigrati".
Promesse e patti. Ma le norme attuali sui migranti penalizzano l'Italia
Questa verifica, spiega Cassese, "come si evince anche dalle premesse dei decreti interministeriali" sarebbe spettata "allo Stato di cui ciascuna nave batte la bandiera" con "obbligo del comandante della nave di accertare a bordo se l'emigrante ha diritto di asilo". Per altro, come sottolinea il giudice, l'obbligo di verifica singolo "è imposto dal diritto internazionale, secondo il quale vi è un divieto di respingimento collettivo, divieto rafforzato dalle norme convenzionali sovranazionali". Pertanto, l'Italia si è comportata in punta di diritto, attuando uno schema è già stato messo in pratica: "Non è la prima la prima volta che nel mondo si cerca di operare sul concetto di frontiera per tenere sotto controllo l'immigrazione. Gli Stati Uniti d'America hanno la regola delle 100 miglia, all'interno delle quali un immigrato individuato non ha gli stessi diritti che sono assicurati sul territorio americano a tutte le persone".
Quanto riferito da Sabino Cassese è esattamente ciò che è stato a più riprese ribadito da Matteo Piantedosi e dal governo nel braccio di ferro con le Ong, davanti alle proteste della sinistra che, evidentemente, ancora una volta ha portato avanti polemiche pretestuose e senza fondamento. Il giudice della Corte costituzionale ha sottolineato che "fare la voce grossa non è nell'interesse nazionale" e che è fondamentale andare d'accordo con l'Unione europea. Tuttavia, secondo Cassese, "il governo ha cominciato bene con le dichiarazioni programmatiche, che insistevano sulla regolazione delle partenze, non degli arrivi, e con l'idea di un piano a favore dei Paesi africani, denominato piano Mattei". Per quanto riguarda lo scontro con la Francia, quindi, Cassese spiega "che l'Italia ha il massimo interesse a raffreddare lo stato di tensione".
Vittorio Feltri smaschera Repubblica: "Se la prendono col Duce. Ma...". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano l’11 novembre 2022
A volte quando leggo malvolentieri i giornali mi arrabbio, ma sbaglio, sfogliare certe pagine, in particolare di Repubblica, ci sarebbe solo da ridere. Ieri, per esempio, il quotidiano maneggevole fondato da Eugenio Scalfari ha pubblicato alcuni articoli spassosi riguardanti la giornata contro i totalitarismi dicendo che il governo, sospettato di fascismo, invece di prendersela col regime del Duce, pone l'accento sulla inaccettabilità del comunismo, come se questo tipo di regime fosse più pericoloso di quello del famigerato Ventennio.
In realtà di Mussolini, a parte uno sparuto gruppo che annualmente si raduna a Predappio per celebrare il defunto dittatore, non importa più nulla a nessuno perché, essendo morto ammazzato oltre 70 anni orsono, non è più in grado di incidere sulla politica odierna. I trapassati poveracci ormai occupano i cimiteri e non il Parlamento, quindi non possono agire né bene né male. Mentre i comunisti, anche dopo la caduta del muro di Berlino e del regime sovietico, sono ancora vivi e vegeti e costituiscono tuttora un pericolo, come si evince da quello che sta accadendo in Russia, dove la democrazia è attualmente latitante. E se la Repubblica si arrabbia perché i neri trapassati li considera una minaccia, mentre non teme i rossi in attività, c'è da riflettere se non da indignarsi. Questi sono concetti elementari che capisce anche un deficiente, quando Repubblica non riesce a digerirli e penso sia per questo motivo che ha perso prestigio, non dico i lettori che ormai fuggono da qualsiasi foglio stampato.
La gente purtroppo sta perdendo fiducia in tutta la stampa proprio perché insegue i fantasmi del passato e trascura i problemi in essere che non capisce oppure, peggio ancora, non vede e quindi non è capace di prenderli in considerazione, forse non li percepisce neppure. Basta leggere le pagine che essa dedica al dramma della immigrazione selvaggia. Sono molto numerosi gli articoli in favore degli sbarchi incontrollati di cui è vittima il nostro Paese che, secondo la sinistra, dovrebbero essere concessi per motivi di solidarietà umana. In realtà le cose stanno diversamente. È vero che la legge del Mare prevede che vengano soccorsi "senza se e senza ma" i naufraghi, e ci mancherebbe altro. Ma la questione è un'altra.
Non c'è gente che arranca a nuoto tra le onde, bensì uomini e donne che si imbarcano pagando cifre pazzesche a delinquenti che promettono loro mari e monti. Le imbarcazioni attraccano abusivamente in Italia, la più vicina (se si esclude Malta) al continente nero e all'Asia, e pretendono di essere soccorse in base a norme assurde. Le navi che battono bandiere straniere, invece di portare i poveracci a casa loro, li rifilano a noi che ce li dobbiamo tenere, male, visto che poi abbandoniamo gli sfigati e lasciamo che si sparpaglino lungo lo stivale, dove poi per sopravvivere malamente delinquono e fanno i loro bisogni nelle aiuole. Questo è il risultato della nostra solidarietà. Certamente occorre rivedere gli accordi internazionali, cioè europei, ma non si comprende perché non ci si affretti a provvedere.
Sinistra, Alessandro Sallusti: italiani contro l'Italia, roba da miserabili. Alessandro Sallusti Libero Quotidiano il 10 novembre 2022
«Quello che continua a stupirmi è che una intera parte d'Italia remi contro l'interesse nazionale italiano. Questa è una cosa alla quale non riuscirò mai ad abituarmi. La sinistra sembra felice di vedere l'Italia attaccata e possibilmente umiliata», ha detto ieri Giorgia Meloni riferendosi al tifo che la sinistra sta facendo a favore di chiunque attacchi l'Italia. Se ne faccia una ragione il premier, già Seneca aveva intuito che la prima arte che deve imparare chi aspira al potere è di essere capaci di sopportare l'odio e comunque meglio essere odiati per ciò che si è piuttosto che amati per ciò che non si è.
Ma filosofia a parte lo screditare il proprio paese dentro e fuori i confini se alla sua guida non c'è la sinistra è una vecchia storia che risale ai tempi della cosiddetta "Internazionale comunista", che nonostante sia passato un secolo non è mai stata davvero dismessa. Le regole di quell'associazione criminale - di cui ieri abbiamo ricordato la fine nell'anniversario della caduta del muro di Berlino - prevedevano appunto di portare avanti, tra l'altro, una "azione sovranazionale di propaganda sistematica, energica e capillare con ogni mezzo possibile".
Ancora oggi, insomma, se la sinistra italiana chiama quella francese risponde, quella tedesca si unisce al coro e così via creando un effetto eco che pare che tutto il mondo sia lì con i binocoli puntati su di noi in trepida attesa degli eventi. Cosa non vera, ovviamente, ma non per questo non pericolosa. Può essere infatti che in un mondo globalizzato qualche centrale finanziaria distratta prenda per buona la bufala vagante, si spaventi e inizi - semplifico - a dismettere investimenti o comunque a non puntare sulle possibilità di un paese descritto come una tirannia sull'orlo del baratro.
Ecco, questa è l'incoscienza della sinistra: muoia Sansone con tutti i filistei, perché per loro l'importante non è la crescita del benessere ma del partito. Partito che per altro fa acqua da tutte le parti, non soltanto non cresce ma è addirittura alla vigilia di una nuova, ennesima scissione. Screditare l'Italia per un italiano è come per un figlio parlare male dei genitori incolpandoli dei propri fallimenti. Cioè roba da miserabili.
Dagospia il 13 novembre 2022. Post di Enrico Mentana su Facebook:
Siamo strani noi europei. Combattiamo da più di due anni contro il Covid che solo in Italia ha fatto 180mila morti. Viviamo da nove mesi ai nostri confini una guerra con centinaia di migliaia di vittime militari e civili. Stiamo affrontando un'altra doppia sfida epocale, con i prezzi energetici più alti di sempre e l'inflazione ai massimi da trent'anni.
E però l'emergenza che ci fa litigare, che spacca l'Unione, che infiamma gli animi è quella attorno ai migranti. È una gigantesca prova di immaturità generale. Ne sono protagonisti governi che non avrebbero problemi immediati di consenso, che non devono assecondare gli umori e le pulsioni delle rispettive opinioni pubbliche, visto che si è votato un anno fa in Germania, cinque mesi fa in Francia, un mese fa in Italia, con risultati che hanno garantito solide maggioranze parlamentari per governare.
Eppure tutte le altre priorità, guerra, gas, covid e prezzi non contano più: ora l'imperativo categorico, a Parigi come a Roma come a Berlino sembra essere uno solo, fregare gli alleati, per non farsi fregare da loro...
Immigrazione? Se la sinistra scorda quando speronava gli albanesi. Renato Farina su Libero Quotidiano il 10 novembre 2022
Le due fotografie mostrano momenti diversi della nostra storia italiana, e ci riguardano entrambe. Abbiamo scelto di accostarle, raccogliendo la provocazione di Andrea Vianello, reiterata ieri da Enrico Letta, e - al suo seguito - da alti papaveri del Pd e della Sinistra di Fratoianni. Sono due navi. La prima è quella usata come strumento di offesa morale al centrodestra e in generale al popolo italiano da Vianello & Letta: la ressa dei migranti italiani per imbarcarsi verso l'America. Con questo commento: "Quando sulle navi c'eravamo noi". La seconda l'abbiamo ripescata noi: è una corvetta della Marina Italiana che, al tempo di Prodi, 23 marzo 1997, condusse una battaglia navale affondando una nave carica di albanesi in fuga. Idea di un Tweet? Ma sì. "Quando la sinistra affogava i migranti".
A una provocazione, una provocazione e mezzo. Qualche riflessione. Ma come si fa a fingere che il fenomeno migratorio dell'Ottocento e della prima metà del Novecento sia uguale a quello in corso attraverso il Mediterraneo? Sociologi progressisti quali Guido Bolaffi e Giuseppe Terranova hanno insegnato a distinguere l'immigrato dall'immigrazione. L'immigrato è una persona. Essere immigrato implica prima che considerazioni economiche, uno sguardo esistenziale. È giusto così. Gli italiani sanno bene di essere stati immigrati. E gli immigrati di ogni tempo e di ogni Paese hanno sempre quelle caratteristiche, siano stati ieri italiani e oggi polacchi o marocchini. Vogliono stare meglio. Confidano di trovare il modo di sostenere la famiglia. Altra cosa è l'immigrazione. Quella dei nostri connazionali in America, o negli anni '50 in Svizzera e in Germania non c'entra nulla, in nessun senso, con quella in cui ci troviamo a dover fare i conti in questo millennio.
L'America e l'Australia, l'Argentina e il Venezuela, Canada e Brasile chiamavano: la nostra immigrazione era figlia di una domanda di lavoro che proveniva da quei continenti. Si partiva pagando il biglietto. Avendo un riferimento. C'era molta miseria all'arrivo, e anche razzismo sfociato in linciaggi. Ma è una legge orrenda vigente da sempre: chi arriva è trattato come un invasore. I nostri emigranti erano stati però chiamati a viva voce. Questo ha determinato una differenza radicale: non era avvelenata dalla disperazione e organizzata da schiavisti per controllare la prostituzione e il mercato della droga in combutta con le nostre mafie.
ALTRE ONDATE
Oggi l'Italia è tornata ad essere un Paese da cui si emigra. Ma è una emigrazione da domanda, che si incrocia certo con una offerta. Dall'Africa no. Esiste certo anche in Italia una domanda di badanti, operai, infermieri, ingegneri, e sono benvenuti. Ma non può essere una sequenza di ondate, con le bande e una guardia costiera libica che regolano, in base ai pagamenti dei nostri servizi segreti, il flusso di povera gente ingannata e tenuta in campi spaventosi, profughi o migranti economici che siano, tutto questo esige un'altra risposta rispetto a quella fin qui data. Diciamocelo: oggi quando vogliono denaro, spediscono in Italia per avvertimento e ricatto, qualche migliaio di persone, che pur di finirla con torture e stupri, salterebbero anche nella lava, altro che barchini o barconi. L'Italia ha perduto la guerra di Libia del 2011. L'hanno vinta turchi e russo-egiziani. L'Europa, occorre l'Europa! Non si può frenare l'immigrazione foraggiando criminali.
LA CORDATA
Gli atti studiati dalla cordata Vianello-Letta-Fratoianni (Rai de sinistra + sinistra spappolata) hanno un senso chiaro. L'opposizione mediatica e politica non intende proporre soluzioni al traffico vergognoso di uomini, donne e bambini. Ma passa dall'identificazione di un nemico ("La Destra disumana") per ritrovare una qualche forma di unità e di visibilità. Il prezzo? Morti su morti, infelici su infelici. La tattica criminale dei negrieri include come momento preordinato il naufragio e l'annegamento di tanti sventurati migranti, insieme all'appuntamento con le navi Ong battenti bandiera nordica. Su questo non hanno speso una sola parola, niente da dire. Bensì abbiaSopra, l'immagine twittata dal direttore Rai, Andrea Vianello, e rilanciata ieri dal segretario Pd Enrico Letta: mostra la ressa dei migranti italiani per imbarcarsi verso l'America. Con questo commento: "Quando sulle navi c'eravamo noi".
Nella foto sotto, invece, c'è la nave albanese, carica di persone in fuga, affondata da una corvetta della Marina italiana al tempo del governo di Romano Prodi, 23 marzo 199. Per Vianello e Letta, la destra di oggi è disumana e scorda come eravamo noi. Ma noi rispondiamo ricordando loro quando affondavano i barconi albanesi mo assistito all'uso sciacallesco delle emozioni e della memoria patria per criminalizzare il governo Meloni. Neanche mezzo tweet è stato speso a sinistra per prendere in considerazione l'invito di papa Francesco di domenica scorsa: «Salvare i migranti, ma la Unione Europea non può lasciare sola l'Italia».
Nessuno come lui ha denunciato sin dall'inizio del suo Pontificato l'infamia di quanto sta accadendo nel Mediterraneo. Ed ecco che Bergoglio offre una palese apertura di credito all'esecutivo di destra-centro, che sulla carta non gli somiglia neanche un po' su questa tematica. Invece sì. Dà sostegno e lo suggerisce. C'è modo e modo di fare opposizione, su questioni che implicano la vita di tanti. Perché non seguirne l'indicazione che, prima ancora che politica, è morale, attinge ai valori costitutivi che sostanziano la nostra Repubblica? Le due immagini di prima pagina ci toccano profondamente. Abbiamo scelto di accostare all'icona della emigrazione dei nostri connazionali verso l'America la foto della corvetta Sibilla che il venerdì santo del 1997, 23 marzo, speronò e affondò nel Canale d'Otranto, in conseguenza delle disposizioni del governo Prodi-Bertinotti contro le migrazioni dall'Albania, la motovedetta Kater I Rades. Un blocco navale aggressivo: furono 108 i morti causati da quella politica francamente criminale. Silvio Berlusconi raggiunse il porto di Brindisi, non si mise ad accusare, soccorse i superstiti, aprì a loro la sua casa. Siamo stati incerti se usare un'immagine della "strage di Lampedusa" del 3 ottobre 2013, quando si consumò nel canale di Sicilia una delle tragedie marittime più gravi del terzo millennio: 368 persone persero la vita su un peschereccio salpato da Misurata (Libia) il 1° ottobre. I superstiti furono 155, di cui 41 minori (uno soltanto accompagnato dalla famiglia). Il premier allora era Enrico Letta. Che si fa? Mettiamo una foto di quei giorni e poi gli diciamo: «Guardati allo specchio, intona il mea culpa»? Non ci pensiamo neanche
Ong, il Pd si scandalizza ma le misure del governo erano già nel "codice" Minniti. Dario Martini su Il Tempo il 17 novembre 2022
La sinistra grida allo scandalo sulla gestione dell'emergenza migranti. La tesi è la seguente: le navi delle Ong devono poter entrare nei porti italiani senza ostacoli. E devono poter sbarcare tutti indiscriminatamente. Eppure, a varare per primo una stretta sulle imbarcazioni gestite dalle organizzazioni non governative è stato proprio il Pd. Era il 2017, quando l'allora ministro dell'Interno Marco Minniti (quello dell'accordo con la Libia che prevedeva anche finanziamenti alla guardia costiera di quel Paese) varò una serie di misure molto stringenti. Il «codice Minniti», appunto.
Il piano che il governo Meloni vuole portare sul tavolo del Consiglio europeo ricalca proprio quelle regole di condotta, che negli anni sono state puntualmente disattese. Le nuove norme studiate dal Viminale intendono introdurre una maggiore responsabilità per lo Stato di bandiera delle navi che trasportano i migranti e mirano ad evitare che le Ong si tramutino in "taxi del mare". Proprio ciò che si era proposto di fare l'allora ministro dell'Interno del governo Gentiloni. A sottolineare l'ipocrisia del Pd è il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, intervenuto ieri in Aula dopo l'informativa di Piantedosi: «Marco Minniti era una bella mente. Uno buono ne avevate a sinistra e lo avete messo da parte. È una cosa drammatica per il Paese».
Ma cosa prevedeva nel dettaglio il codice Minniti? Innanzitutto, la sottoscrizione era volontaria. Anche se l'ultima clausola suonava come un avvertimento: «La mancata sottoscrizione di questo codice di condotta o l'inosservanza degli impegni in esso previsti può comportare l'adozione di misure da parte delle autorità italiane nei confronti delle relative navi». All'inizio ci fu una levata di scudi. Le Ong non volevano piegarsi. Poi, con il passare dei mesi, aderirono quasi tutte. Solo Medici senza frontiere restò fuori.
Gli «impegni» da osservare erano tredici: 1) Non entrare nelle acque territoriali libiche. 2) Non spegnere i segnali che permettono di geolocalizzare le navi. 3) Non comunicare o inviare segnali luminosi alle barche che trasportano i migranti. 4) Comunicare al competente centro di coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc) l'«idoneità tecnica» (equipaggiamento e addestramento del personale) a prestare soccorso. 5) Contattare le autorità del Paese competente e lo Stato di bandiera della nave 6) Aggiornare costantemente il Mrcc sull'andamento delle operazioni. 7) Non trasferire i migranti soccorsi su altre navi. 8) Tenere costantemente informate le autorità dello Stato di bandiera. 9) Eseguire le istruzioni del centro di coordinamento marittimo. 10) Ricevere a bordo i funzionari di polizia giudiziaria. 11) Comunicare tutte le fonti di finanziamento. 12) Cooperare con l'autorità di pubblica sicurezza per il luogo di sbarco. 13) Una volta soccorsi i migranti, recuperare per quanto possibile i barconi o parti di essi. Intervenuto ieri a Tagadà, su La7, Minniti ha ricordato che il codice che portava il suo nome non era altro che un «patto volontario proposto dai 27 Paesi europei e firmato assieme alle Ong». L'ex ministro si è rivolto anche al governo: «Con le Ong non si può intervenire per decreto legge, proprio perché sono organizzazioni umanitarie. Bisogna dialogare». Nei prossimi giorni si vedrà se ci sarà disponibilità ad ascoltare.
Da repubblica.it il 12 novembre 2022.
Il meccanismo di riallocazione dei migranti? "Increscioso e deludente". Arriva di sabato pomeriggio la "controffensiva" congiunta di Italia, Grecia, Malta e Cipro. Una denuncia a quattro voci sganciata dai Paesi che affacciano sul Mediterraneo e che, per i migranti, rappresentano giocoforza il primo ingresso verso l'Europa.
Una dichiarazione condivisa, scritta dai ministri dell'Interno di Italia, Malta e Cipro e dal ministro della Migrazione e dell'asilo della Grecia dopo le polemiche e lo scontro tra Italia e Francia.
"Delusione su relocation migranti"
"In quanto Paesi di primo ingresso in Europa, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale ed orientale, si trovano a sostenere l'onere più gravoso della gestione dei flussi migratori nel mediterraneo, nel pieno rispetto di tutti gli obblighi internazionali e delle norme dell'Ue". Alla luce di ciò "purtroppo, il numero di impegni di relocation assunti dagli Stati membri partecipanti rappresenta solamente una frazione molto esigua del numero effettivo di arrivi irregolari che abbiamo ricevuto finora nel corso di questo anno", denunciano i quattro.
Inoltre, "a tutt'oggi il meccanismo si è dimostrato lento nel raggiungere il suo obiettivo dichiarato di alleviare quell'onere a cui tutti noi, come Stati membri di prima linea, siamo costantemente esposti, in quanto finora solo un esiguo numero di relocation è stato effettuato". Tutto ciò "è increscioso e deludente, soprattutto in questo momento in cui i nostri paesi devono affrontare sempre più frequentemente una pressione migratoria che sta mettendo a dura prova il nostro sistema di asilo e di accoglienza", si legge nella lettera congiunta.
"Non più possibile che noi unici punti di sbarco"
"In attesa di un accordo su un meccanismo di condivisione degli oneri che sia efficace, equo e permanente, non possiamo sottoscrivere l'idea che i Paesi di primo ingresso siano gli unici punti di sbarco europei possibili per gli immigrati illegali, soprattutto quando ciò avviene in modo non coordinato sulla base di una scelta fatta da navi private, che agiscono in totale autonomia rispetto alle autorità statali competenti".
Ong, Ocean Viking in mare con soldi francesi (ma Parigi la rifiuta). Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 10 novembre 2022
Oggi, il comune di Lione, guidato dal sindaco ecologista Grégory Doucet, voterà una sovvenzione di 14mila euro a favore dell'Ong francese Sos Méditerranée, proprietaria della Ocean Viking, ossia della nave che, con a bordo 234 migranti, sta cercando da alcuni giorni di attraccare in un porto europeo ed è al centro di uno scontro diplomatico tra Roma e Parigi. La cifra sbloccata dalla giunta della gauche lionese permetterà ai volontari dell'Ong di coprire le spese di una giornata in mare, per condurre operazioni di ricerca e salvataggio delle imbarcazioni di migranti provenienti dall'Africa. «È un dovere di umanità», affermano Doucet e i suoi fedelissimi, desiderosi di «diffondere una cultura dell'ospitalità nella popolazione». Non è la prima volta che Lione finanzia Sos Méditerranée. Già nel gennaio 2021, il comune, dopo aver aderito alla "piattaforma delle collettività solidali" dell'associazione, le aveva accordato una sovvenzione di 28mila euro. Fino al 2020, Sos Méditerranée, fondata nel 2015 dall'attivista francese Sophie Beau e dall'ex capitano della Marina mercantile tedesca Klaus Vogel, funzionava esclusivamente grazie a fondi privati. Poi, però, i due fondatori hanno lanciato un appello anche alle collettività territoriali francesi, comuni, dipartimenti e regioni, per aumentare le attività in mare. E alla richiesta d'aiuto hanno risposto in molti.
CONVENZIONE
Lione, infatti, è soltanto uno degli 83 enti locali che hanno contribuito alle operazioni di trasporto dei migranti verso l'Europa, secondo la lista presente sul sito di Sos Méditerranée. Il comune di Parigi, guidato dalla socialista Anne Hidalgo, figura in cima all'elenco. Hidalgo sostiene moralmente e ideologicamente tutte le operazioni della Ong francese fin dalla sua creazione. Ma dal 2019, le sostiene anche finanziariamente. La città di Parigi sblocca infatti ogni anno una sovvenzione di 100mila euro destinata all'associazione di salvataggio dei migranti, sovvenzione che verrà nuovamente votata in occasione del prossimo consiglio comunale previsto per il 15 novembre. Secondo quanto riportato dal sito Boulevard Voltaire, la prossima settimana, oltre alla nuova donazione, verrà anche firmata "una convenzione di sensibilizzazione del pubblico parigino alla situazione dei migranti".
Va ricordato che la Hidalgo, nel 2019, si era già fatta notare per aver premiato Carola Rackete, la capitana tedesca della Sea Watch 3, con la Médaille Grand Vermeil, il massimo riconoscimento del comune parigino (nel comunicato della giunta socialista, Carola Rackete era stata presentata come «perseguitata dalla giustizia italiana»). Strasburgo, Bordeaux e Grenoble, tutte guidate da sindaci progressisti, hanno anch'esse dato un contribuito a Sos Méditteranée. Ma oltre alle grandi città, la Ong francese ha potuto e potrà contare sul sostegno finanziario di ben nove dipartimenti, tra cui l'Ille-et-Vilaine (50mila euro nel 2020), l'Alta-Garonna (100mila euro nel 2020) e la Loira-Atlantica (200mila euro nel 2020). A questi si aggiungono le regioni: Bretagna (75mila euro nel 2020), Borgogna (50mila euro nel 2021), Centro-Valle della Loira (50mila euro nel 2021) e Occitania (75mila euro nel 2020). Infine, ha fatto la sua parte anche lo Stato centrale.
IL SONDAGGIO
Nel febbraio 2017, quando alla presidenza della Repubblica c'era ancora il socialista François Hollande, Sos Méditerranée ha ricevuto dall'allora primo ministro Bernard Cazeneuve il label "grande causa nazionale": fatto che gli ha permesso di trasmettere gratis le sue campagne di comunicazione sulle emittenti radiofoniche e sui canali televisivi pubblici. Come sottolineato da Boulevard Voltaire, che ha dedicato un approfondimento alla pioggia di soldi pubblici, dunque provenienti dalle tasche dei contribuenti, che aiutano Ocean Viking, «lungi dall'essere neutri, queste numerose sovvenzioni alimentano l'immigrazione clandestina (...). Le pattuglie regolari delle navi di Sos Méditerranée, a una cinquantina di chilometri dalle coste libiche, incitano numerosi migranti a lanciarsi a bordo di imbarcazioni di fortuna con la speranza di essere soccorsi da una delle navi dell'Ong francese».
Il tutto mentre la maggioranza dei francesi si dichiara favorevole a una forte riduzione dei flussi migratori. Secondo un sondaggio dell'Istituto Csa realizzato quest'estate, è il 71% dei cittadini francesi a reclamare un drastico calo dell'immigrazione nel loro Paese. Tra questi, anche il neopresidente del Rassemblement national, Jordan Bardella, d'accordo con la linea dura del governo italiano: «La signora Meloni dice a Macron: 'Visto che sei così accogliente, ora accogli anche queste persone'», ha dichiarato ieri Bardella, prima di aggiungere: «Penso che la signora Meloni abbia ragione a dar prova di fermezza. Ha ragione perché è ciò per cui è stata eletta».
"Meritano riconoscenza e appoggio". L'ambasciatore tedesco difende le Ong. Viktor Elbling invita a supportare le Organizzazioni non governative: "Loro salvano vite laddove l'aiuto da parte degli Stati manca". Luca Sablone il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.
Mentre Italia, Malta, Cipro e Grecia denunciano che spesso le navi private agiscono in totale autonomia rispetto alle autorità statali competenti, la Germania non si fa scrupolo alcuno nel confermare il totale sostegno alle Organizzazioni non governative che soccorrono i migranti in mare. E che spesso pretendono di attraccare nei porti del nostro Paese. Un dettaglio che forse è sfuggito all'ambasciatore tedesco in Italia, che sul proprio profilo Twitter ha difeso le Ong e ha supportato il loro operato.
La Germania sta con le Ong
Viktor Elbling ha sfoderato una serie di numeri come argomentazione alla propria tesi, con l'intenzione dunque di rimarcare che le attività delle Organizzazioni non governative in mare sarebbero da tutelare: "Nel 2022 sono già oltre 1300 le persone morte o disperse nel Mediterraneo. Un 12% dei sopravvissuti sono stati salvati dalle Ong". "Loro salvano vite laddove l'aiuto da parte degli Stati manca", ha aggiunto. Dunque a suo giudizio il loro impegno umanitario "merita la nostra riconoscenza e il nostro appoggio".
Nel 2022 sono già oltre 1300 le persone morte o disperse nel Mediterraneo. Un 12% dei sopravvissuti sono stati salvati dalle ONG. Loro salvano vite laddove l’aiuto da parte degli Stati manca. Il loro impegno umanitario merita la nostra riconoscenza e il nostro appoggio.
Pochi giorni fa l'ambasciatore tedesco ha riconosciuto che l'Italia fa tanto in termini di migrazione "ma non è da sola". Come a voler dire che la voce di protesta del nostro Paese non tiene conto anche della situazione degli altri Stati. In realtà i quattro Paesi del Mediterraneo non sono stati ancora del tutto alleviati dall'onere a cui sono esposti ormai in maniera costante e la pressione migratoria si fa progressivamente più frequente, mettendo "a dura prova" il sistema di asilo e di accoglienza.
L'asse dei Paesi del Mediterraneo
La presa di posizione di Viktor Elbling arriva all'indomani della nota congiunta dei ministri dell'Interno di Italia, Malta, Cipro e Grecia per denunciare che il meccanismo di relocation temporaneo e volontario sta presentando diversi inciampi in corso d'opera. I quattro Paesi infatti hanno annotato che il numero di impegni assunti dagli Stati membri partecipanti "rappresenta solamente una frazione molto esigua del numero effettivo di arrivi irregolari che abbiamo ricevuto finora nel corso di questo anno".
Nel comunicato di Italia, Malta, Cipro e Grecia ha trovato spazio anche un riferimento all'attività delle Organizzazioni non governative. È stato fatto notare che il modus operandi di queste navi private "non è in linea con lo spirito della cornice giuridica internazionale sulle operazioni di search and rescue, che dovrebbe essere rispettata".
Gli appelli sono due: da una parte quello per rispettare le convenzioni internazionali e le norme vigenti; dall'altro quello agli Stati di bandiera affinché "si assumano le loro responsabilità in conformità con i loro obblighi internazionali". Non a caso il governo italiano sta studiando un provvedimento anti-Ong: il pugno duro nelle acque territoriali italiane potrebbe trovare attuazione pratica in multe, sequestri e pattugliamenti.
A chiedere fermezza e severità contro le Organizzazioni non governative è anche Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, secondo cui sarebbe necessario ripristinare le norme che consentono il sequestro delle imbarcazioni: "Serve una inversione di tendenza. Senza subire lezioni da Paesi confinanti, richiamando alle proprie responsabilità gli Stati le cui bandiere sventolano sulle navi Ong che violano leggi e convenzioni".
La Germania foraggia l'invasione: pioggia di soldi sulla Sea Watch. Il Bundestag pronto ad approvare uno stanziamento triennale a favore delle Ong che gestiscono la nave Sea Watch 5. Mauro Indelicato il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.
L'immagine di una Germania che sostiene l'Italia nel braccio di ferro con Parigi è stata smentita nel giro di 48 ore. Se da un lato Berlino ha risposto picche all'invito della Francia di boicottare gli accordi presi in sede Ue lo scorso giugno e non farsi carico di 3.500 migranti da redistribuire, dall'altro però il parlamento tedesco è pronto a votare per l'erogazione di due milioni di euro all'anno a favore dell'Ong tedesca United4rescue.
Si tratta, per intenderci, dell'Ong che a breve porterà nel Mediterraneo centrale la Sea Watch 5, una delle più grandi navi per il soccorso di migranti. E che adesso potrà beneficiare dei contributi pubblici tedeschi.
I soldi stanziati a favore delle Ong
Anche a Berlino è tempo di finanziaria. È la prima per la coalizione semaforo, quella che vede alleati Spd, Verdi e Liberali a sostegno del cancelliere Olaf Scholz. Come sottolineato da Repubblica, nella commissione bilancio del Bundestag, la camera bassa del parlamento tedesco, la maggioranza ha deciso di inserire tra le spese anche un finanziamento di due milioni di Euro per i prossimi tre anni a United4rescue.
Dal 2023 al 2026 l'alleanza creata nel 2019 e che vede la Chiesa Evangelica di Germania quale capofila, potrà quindi beneficiare dei fondi messi a disposizione dalla nuova finanziaria. Appare infatti scontata l'approvazione dell'emendamento anche nella prossima seduta plenaria del Bundestag.
Le Ong ovviamente hanno già iniziato a esultare. Al pari dei loro principali sponsor. “È un segnale politico forte – hanno detto in una nota i responsabili di United4rescue – ed è una spinta importante in tempi difficili”.
Del resto, mantenere la Sea Watch 5 in mare non sarà in effetti molto semplice. La nave è costata parecchio e parecchio costerà anche l'ordinaria manutenzione. Un contributo pubblico era forse quello che il mondo delle Ong tedesche sperava da tempo.
Una questione politica
I due milioni di Euro che il parlamento di Berlino si appresta ad approvare, a ben vedere, non saranno nemmeno così decisivi per le attività di Sea Watch 5. Tra donazioni private e stanziamenti di altre associazioni, i bilanci delle Ong sforano vanno di gran lunga oltre i due milioni promessi dal Bundestag.
Il vero dato da sottolineare è quello politico. Stanziare fondi per le navi in attività nel Mediterraneo centrale vuol dire appoggiare politicamente, prima ancora che economicamente, le Ong. Un'immagine che stride pesantemente con quella di una Germania impegnata a dare solidarietà all'Italia e pronta a contribuire accogliendo i migranti redistribuiti.
"Rispettiamo i patti". Berlino risponde picche a Parigi: "Ma l'Italia non è sola"
Certo, dalle parti della maggioranza semaforo hanno tenuto a precisare che la tempistica del finanziamento non è collegata all'attuale braccio di ferro tra Roma e le Ong. A spiegarlo su Repubblica è Lars Castellucci, responsabile per le politiche migratorie dell'Spd. “Il tempismo non ha assolutamente nulla a che vedere – ha detto – con la situazione attuale in Italia”. E in effetti è vero: come detto, in Germania come nel Bel Paese è tempo di finanziaria ed è questo il momento per decidere come spendere i soldi.
C'è però un passaggio nelle dichiarazioni rilasciate da Lars Castellucci che ben può descrivere l'idea politica dell'attuale governo di Berlino sull'immigrazione. “Le missioni private – si legge nell'intervista – dovrebbero diventare superflue”. Vale a dire che il Bundestag sta riconoscendo alle operazioni delle Ong un valore importante, quello di sostituirsi provvisoriamente agli Stati e all'Europa. Il senso è chiaro: finanziare adesso le Ong in attesa di far tornare in mare nuovamente le navi militari.
Ma in che modo? “Attraverso una missione sostenuta e finanziata dalla Ue, che combatta allo stesso tempo i trafficanti, esattamente come avveniva ai tempi di Mare Nostrum”, ha aggiunto Lars Castellucci.
Ossia la stessa missione in cui, una volta soccorsi i migranti, poi le navi facevano rotta verso l'Italia. Comunque la si voglia vedere, appare evidente che la Germania non sembra intenzionata a discostarsi dall'attuale status quo: o con le navi private o con le missioni degli Stati, i migranti secondo Berlino devono sbarcare nei porti italiani.
Forse l'unico punto di convergenza tra l'attuale governo tedesco e l'attuale esecutivo italiano è dato da quel riferimento della stessa Castellucci alla “lotta ai trafficanti”. Lo stesso principio enunciato da Giorgia Meloni in parlamento nei giorni scorsi.
Da Open Arms a Geo Barents, chi è la "pasionaria" dell'accoglienza. Nota già dai tempi dello scontro tra Salvini e Open Arms, oggi la ragazza spagnola aspira a diventare simbolo del mondo buonista vicino alle Ong. Mauro Indelicato il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.
Ana Isabel Montes Mier è nota per essere uno dei personaggi di riferimento del mondo gravitante attorno le Ong. Nata a Oviedo nel 1987, dal 2015 è impegnata nelle operazioni di salvataggio in mare operate dall'Ong Open Arms. Ossia una delle organizzazioni di attivisti più impegnate nel portare in Italia migliaia di migranti nel giro di pochi anni.
Ecco chi ha riempito l'Italia di migranti
Sulla nave spagnola è protagonista della stagione di scontro, andata avanti soprattutto nell'estate del 2019, tra il governo italiano e le navi delle Ong. Oggi risulta capomissione a bordo della nave Geo Barents, dell'Ong Medici Senza Frontiere.
Il lavoro come bagnina e gli studi in filosofia
Montes Mier viene descritta in Spagna come una ragazza da sempre vicina al mondo acquatico. Da giovane infatti nella sua Oviedo frequenta la locale società di nuoto e, successivamente, presta servizio come volontaria della Croce Rossa, specializzandosi nel soccorso fluviale. Dopo le scuole dell'obbligo si iscrive nella facoltà di storia e filosofia, ma non termina gli studi.
Anche perché sul finire degli anni 2000 si trasferisce a Barcellona, dove lavora come bagnina. I media spagnoli, nel sottolineare l'attaccamento di Ana Isabel Montes Mier, soprannominata “Ani” dagli amici, fanno riferimento ai tanti tatuaggi recanti riferimenti al mondo marino e alla scelta di colorare di azzurro i capelli. Nella città catalana inizia a frequentare gli ambienti delle Ong e delle associazioni impegnate nelle attività di salvataggio nel Mediterraneo.
L'ingresso in Open Arms nel 2015
A Barcellona nel frattempo in quegli anni si fa strada l'Ong fondata da Oscar Camps, denominata Open Arms. Mier vi aderisce nel 2015, anno in cui il tema relativo all'immigrazione diventa preponderante in tutta Europa. E questo perché la rotta balcanica porta nel giro di pochi mesi migliaia di persone in fuga dall'Isis dilagante in Siria e in Iraq verso il Vecchio Continente.
Tutto quello che c'è da sapere sulla Ong che ha sfidato l'Italia
Epicentro della crisi migratoria è il Mediterraneo orientale. Ogni giorno nei mesi a cavallo tra il 2015 e il 2016 in migliaia prendono d'assalto le coste delle isole greche, sbarcando con mezzi salpati dalla Turchia.
Le prime missioni di Open Arms sono proprio nel Mar Egeo e, in particolar modo, nell'isola di Lesbo. Mier si forma in questo periodo, prendendo parte a bordo delle navi dell'Ong catalana a diverse operazioni. La situazione nei Paesi coinvolti dalla rotta balcanica precipita: il governo di Atene, già gravato dalla crisi del debito, fatica a dare ospitalità ai migranti sbarcati dalle Ong, mentre più a nord diversi Paesi chiudono le frontiere.
Su input di una Germania in cui sono entrati più di mezzo milione di richiedenti asilo siriani, l'Ue stipula con la Turchia un accordo economico con il quale Ankara si impegna a chiudere le frontiere e a sorvegliare i confini. Da quel momento il perno della crisi migratoria si sposta nel Mediterraneo centrale, lungo le rotte che interessano l'Italia. Anche Open Arms, con a bordo sempre Mier, intraprende molte operazioni davanti le coste libiche.
Lo sbarco di Open Arms a Lampedusa dell'agosto del 2019
Una di queste operazioni è quella del 15 marzo del 2018. La nave Open Arms dell'omonima Ong soccorre un'imbarcazione con diversi migranti a bordo partiti dalla Libia. Quel giorno Mier risulta essere già capo missione di Open Arms. Dopo aver imbarcato i migranti, la nave sbarca a Pozzallo. A seguito dell'approdo la procura di Catania e quella di Ragusa aprono un'inchiesta.
Sotto osservazione è un video in cui un membro di Open Arms, rivolgendosi ai migranti raggiunti con un gommone staccato dalla nave madre, dichiara “We Go Italy” pur essendo ancora lontano dalle acque italiane. I magistrati indagano quindi su un possibile favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a causa dell'atteggiamento dell'Ong. Vengono iscritti nel registro degli indagati il comandante Mark Reig Creus e, per l'appunto, la capo missione Ana Isabel Montes Mier.
La vera notorietà nel mondo Ong per la ragazza arriva però l'anno dopo. È ancora lei a comandare la missione a bordo di Open Arms nell'agosto del 2019, in occasione del discusso sbarco della nave a Lampedusa dopo il diniego da parte dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini.
Il 20 agosto, in particolare, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio sale a bordo di Open Arms e ordina lo sbarco dei migranti, sequestrando la nave. Il magistrato apre un fascicolo nei confronti di Salvini per un possibile reato di abuso di ufficio e sequestro di persona condotto dal titolare del Viminale. Da quell'inchiesta nasce il processo, ancora oggi in corso a Palermo, contro il segretario della Lega.
Caso Open Arms, processo al via: la mossa di Salvini
Mier, una volta arrivata a Lampedusa, inizia a essere descritta dal mondo delle Ong come la “pasionaria dell'accoglienza”. È passato appena un mese dallo speronamento, sempre a Lampedusa, di una nave della Guardia di Finanza a opera di Carola Rackete, al timone della Sea Watch 3.
Un episodio che porta la stessa Rackete a essere simbolo degli ambienti vicini alle Ong. E Forse anche per questo Montes Mier viene elevata a nuova icona dell'accoglienza, per l'appunto una nuova Carola Rackete portata al trionfo mediatico del mondo più vicino alle organizzazioni non governative.
La testimonianza contro Salvini nel processo di Palermo
Mier non metterà piede in un'aula di tribunale in Sicilia come imputata, visto che nel novembre 2020 l'inchiesta di Ragusa viene archiviata. Ma prenderà parte a un dibattimento come testimone. Nel maggio 2022 partecipa a una delle udienze del processo contro Salvini in qualità di testimone. Nel capoluogo siciliano, come evidenziato da Fausto Biloslavo su IlGiornale, la ragazza spagnola parla orgogliosamente per più di cinque ore.
Anche questo un segno di come Mier nel frattempo è diventata una delle figure più importanti per le Ong, tra quelle politicamente più schierate e mediaticamente più attive.
L'attività sulla Geo Barents nell'estate del 2022 e il nuovo scontro con il governo italiano
Forte dell'esperienza accumulata con Open Arms, nell'estate del 2022 è di nuovo a bordo di una nave Ong come capo missione. Partecipa infatti alle operazioni della nave Geo Barents, battente bandiera norvegese e usata dall'Ong francese Medici Senza Frontiere.
Diventa quindi protagonista nel novembre 2022 del nuovo braccio di ferro tra il governo italiano e il mondo dell'accoglienza. Con l'arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni infatti, Roma torna a imporre dinieghi all'approdo di navi Ong nei porti italiani e tra i mezzi fermati a pochi passi della Sicilia risulta proprio Geo Barents. La nave sbarcherà soltanto dopo diversi giorni dalla richiesta di porto sicuro alle autorità di Roma.
L'impressione è che gli attivisti vogliano sfruttare la fama e l'attivismo di Mier per dare vita a una nuova stagione di braccio di ferro con l'esecutivo italiano. Oggi il "nemico" non è più Matteo Salvini, bensì il nuovo ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi.
Chi c’è dietro la nave carica di migranti che ha forzato le acque territoriali. La nave ong Rise Above, battente bandiera tedesca, è entrata nelle acque territoriali italiane senza autorizzazione: due migranti sbarcati per motivi medici. Francesca Galici su Il Giornale il 05 novembre 2022
Continua il braccio di ferro tra Italia e Ong. Il ministro Matteo Piantedosi ha autorizzato l'ingresso in acque territoriali italiane di alcune delle navi che da giorni stazionano al largo della costa siciliana. In queste ore è arrivato il decreto per la Humanity 1, come nelle ore scorse era stato autorizzato l'ingresso della Geo Barents, entrambe per verifiche e per trovare protezione sotto costa. Ma nessuna delle due ha l'autorizzazione ad avvicinarsi ai porti o alle banchine. Diverso è il caso della nave Rise Above, entrata autonomamente in acque territoriali italiane segnalando una rivolta a bordo.
Lo sfondamento dei confini italiani
"In queste ore ci è stata segnalata un'altra nave entrata in acque territoriali italiane, per la quale non abbiamo ancora adottato un provvedimento. Si tratta di una nave più piccola, con 94 persone, ci è stato segnalato che c'era un tentativo di rivolta a bordo, con condizione di precarietà di navigazione, verso Siracusa", ha dichiarato Matteo Piantedosi durante la conferenza stampa di ieri. La nave a cui fa riferimento il ministro è la nave Rise Above, imbarcazione della ong Mission Lifeline che batte bandiera tedesca.
Chi è Mission Lifeline
Mission Lifeline è una ong tedesca fondata Axel Steier nel 2016 con sede a Dresda. Ha operato la scorsa estate in zona internazionale e Sar maltese con la Rise Above e negli ultimi giorni ha operato a sud della Sicilia, portando a bordo 94 persone. Da ieri, la nave ha invaso le acque territoriali italiane fin dal mattino di ieri all'altezza di Pozzallo. Ha attraversato i confini italiani e poi ha costeggiato il limite territoriale italiano estero fino a Siracusa, dove ha deciso di entrare all'interno delle acque italiane, forzando il confine senza l'autorizzazione delle autorità. Ha fatto rotta verso il porto di Siracusa, che non gli è stato aperto, per effettuare un trasbordo di migranti: le autorità italiane hanno preso in carico una coppia che necessitava di soccorso. In tarda serata, pur restando all'interno delle acque territoriali italiane, si è diretta verso nord, incrociando anche la Geo Barents, che è stata autorizzata alla rada per avverse condizioni meteo. Rise Above ha superato Catania e in questi minuti si trova a ridotto dello Stretto di Messina, con la prua rivolta verso la Sicilia in direzione orientativa di Taormina.
Un'ora fa, la ong ha pubblicato un breve video in cui ha comunicato lo sbarco di due persone per motivi medici: "La situazione a bordo del Rise Above è tesa. Il tempo detta il nostro corso. Durante la notte abbiamo potuto consegnare due persone dalla nave alle autorità italiane per motivi medici. Ora ci sono 93 persone a bordo". Ieri si è parlato di una rivolta a bordo che avrebbe coinvolto alcuni migranti.
Scalabrini, un santo per i migranti. GIAN ANTONIO STELLA Il Corriere della Sera il 5 Ottobre 2022.
Domenica 9 ottobre sarà canonizzato in San Pietro l’apostolo dei lavoratori costretti a lasciare la propria terra d’origine: Giovanni Battista Scalabrini, il vescovo che lottò contro miseria e sfruttamento
Giovanni Battista Scalabrini (al centro) nel 1904 sul fiume brasiliano Taquari, dove si era recato per incontrare gli emigrati e gli indios Guarany del Paranà
«Ho visitato popolose città e collettività nascenti, campi fecondati dal lavoro e immensi piani non tocchi dalla mano dell’uomo, ho conosciuto emigranti che avevano toccato il fastigio della ricchezza, altri che vivevano nell’agiatezza, e più l’oscura immensa falange dei miseri, che lottano per la vita contro i pericoli del deserto, le insidie dei climi malsani, contro la rapacità umana, soli in un supremo abbandono, nell’inopia di tutti i conforti religiosi e civili e di ogni cosa; ho sentito i cuori palpitare all’unisono col mio…».
Domenica mattina, 9 ottobre, a San Pietro, centodiciassette anni dopo avere inviato a Papa Pio X il suo straordinario «Memoriale per la costituzione di una commissione pontificia Pro emigratis catholicis» del 1905 col racconto di alcuni dei suoi viaggi tra gli italiani sparsi per il pianeta, Giovanni Battista Scalabrini diventerà santo. Giusto giusto ora che torna a infiammarsi il tema dell’immigrazione e del «blocco navale» invocato dalla destra? Sospetti insensati: la beatificazione del vescovo di Piacenza, noto nel mondo per aver fondato le congregazioni dei missionari «scalabriniani» ed esser stato forse il primo ad avere un’idea lucida e globale del fenomeno, fu celebrata nel 1997 da Papa Wojtyla e già da decenni «L’Osservatore Romano» dedicava all’«Apostolo degli Emigranti» pagine di ammirata devozione. Ma certo un figlio di emigrati come Papa Francesco proverà domenica un’emozione in più.
Il nuovo santo fu infatti tra i primi a teorizzare, come dimostra un passaggio nell’Antologia: una voce viva (scalabriniani.org/giovanni-battista-scalabrini-scritti), il «diritto naturale» degli uomini all’emigrazione. Una tesi cantata a fine Ottocento anche da anarchici come Francesco Bertelli («La casa è di chi l’abita/ è un vile chi lo ignora/ il tempo è dei filosofi/ la terrà a chi lavora»), ma forse mai riassunta con la profondità e la fede del vescovo emiliano.
Parlava dei «nostri» emigrati. Ce l’aveva con chi si metteva di traverso al sogno di «catàr fortuna» altrove come i poveri cristi affollati alla stazione di Milano: «Sulle loro facce abbronzate dal sole, solcate dalle rughe precoci che suole imprimervi la privazione, traspariva il tumulto degli affetti che agitavano in quel momento il loro cuore. Erano vecchi curvati dall’età e dalle fatiche, uomini nel fiore della virilità, donne che si traevano dietro o portavano in collo i loro bambini, fanciulli e giovanette tutti affratellati da un solo pensiero (...) e aspettavano con trepidazione che la vaporiera li portasse sulle sponde del Mediterraneo o di là nelle lontane Americhe». Ce l’aveva coi proprietari terrieri «impensieriti da questo repentino impoverimento di braccia, che si traduce in un adeguato aumento di mercedi per quelli che restano» e levavano «i loro lagni al governo» per ottenere provvedimenti «per sanare e circoscrivere questo morbo morale, questa diserzione, che spoglia il paese di braccia e di capitali fruttiferi».
Richieste inaccettabili, per lui. Bloccando l’emigrazione «si viola un sacro diritto umano» poiché «i diritti dell’uomo sono inalienabili e quindi l’uomo può andare a cercare il suo benessere ove più gli talenti». Non bastasse, sosteneva, «l’emigrazione, forza centrifuga, può diventare, quando sia ben diretta, una forza centripeta potentissima» capace di «immenso profitto». Tesi che nel 1901, due anni dopo il linciaggio di undici italiani a Tallulah, in Louisiana, aveva espresso anche a Theodore Roosevelt: l’immigrazione era una risorsa straordinaria, un vero dono per un Paese che stava crescendo come gli Usa.
Nato a Fino Mornasco nel 1839 in una famiglia molto cattolica, «candidato al sacerdozio» fin da giovanissimo, seminario frequentato negli anni del Risorgimento al punto di lasciare in lui qualche difficoltà, come scriverà lo storico Matteo Sanfilippo, nel «bilanciare appartenenza nazionale e appartenenza religiosa», sacerdote a 24 anni col «sogno di andare nelle Indie per evangelizzare gli infedeli» (copyright di Graziano Battistella nella biografia Scalabrini vescovo fondatore) ma trattenuto dal vescovo di Como con la nomina a professore e vicerettore (poi rettore), vescovo di Piacenza a 36, riuscì a farsi amare come pochi altri con gesti passati alla leggenda. Riassunti nel 1980 da Raimondo Manzini, sull’«Osservatore Romano», in poche righe: «Vendette la pariglia (allora si andava con i cavalli e non coi cavalli a motore) dicendo che il vescovo può benissimo andare a piedi; alienò il calice d’oro per sostituirlo con uno di stagno o di ottone, vendette le pietre della sua croce per riscattare alla povera gente i pegni del Monte di Pietà. “Se va avanti così morirà sulla paglia”, gli disse un familiare. “Sarebbe poco male”, rispose il vescovo, “dato che sulla paglia Cristo ha voluto nascere”».
Va da sé che nel mondo sofferente dell’emigrazione italiana riuscì a toccare il cuore di tutti. Certo, non fu l’unica figura di spicco tra i nostri missionari oltre oceano. Basti ricordare la lodigiana Francesca Cabrini, infaticabile fondatrice delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù e canonizzata nel 1946 come prima santa statunitense, patrona degli emigranti. O la mitica Maria Rosa Segale, portata in America quando aveva quattro anni, diventata celeberrima come suor Blandina nell’estremo Far West (i giornali dell’epoca le dedicarono indimenticabili ritratti) per avere fermato all’ingresso del paese di Trinidad, in Colorado, un Billy the Kid furioso e deciso a fare una strage. Forse nessuno però, con l’amico Geremia Bonomelli vescovo di Cremona, ha pesato tanto nella storia della nostra emigrazione. A partire dall’insistenza sulla necessità che lo Stato italiano, distratto se non indifferente (a parte l’imposizione del servizio di leva) si facesse carico del problema. E dalla battaglia nel 1888 contro una proposta di legge che, citiamo ancora Manzini, «sanciva la concessione ai cosiddetti “agenti di emigrazione” di fare arruolamenti, il che voleva dire legalizzare la piaga dei cosiddetti “procacciatori”, i quali ingaggiavano, facendo loro pagare tassi esosi ed esponendoli a condizioni miserevoli, a situazioni proibitive e a un insieme di pericoli, quei lavoratori agricoli e industriali, che cercavano il pane oltre i confini della Patria». Pane che, scrisse il vescovo piacentino citando Dante, sapeva di sale ed era «bagnato dalle lacrime».
La perse, Scalabrini, quella battaglia. Ma aveva ragione lui. E tredici anni dopo governo e Parlamento furono costretti a fare retromarcia ammettendo nella relazione a una nuova legge: «Errammo tutti nel 1888 e non abbiamo allora compreso che occorrevano provvedimenti in materia economica e sociale; non soltanto o principalmente di polizia: ciò che si deve cercare è l’inviolabilità della persona dell’emigrante, esposto a tante offese, a tanti patimenti; sinora e troppo spesso l’emigrante fu il mezzo o lo strumento per arricchire coloro che si trovavano accanto a lui col pretesto di rendergli un servizio».
Parole che sembrano scritte ieri mattina contro i trafficanti libici, gli affittacamere abusivi che ammucchiano immigrati in fetide topaie, gli immondi gangster del caporalato che approfittano di uomini e donne i quali, direbbe san Giovanni Battista Scalabrini, «tratti (quaggiù) da vane speranze o da false promesse, trovarono un’iliade di guai, l’abbandono, la fame, e non di rado la morte, ove credettero di trovare un paradiso».
Più musulmani, meno cristiani: i dati sui migranti in Italia. Gli stranieri musulmani in Italia rappresentano il 29,5% del totale, calano i cristiani. Dopo la sanatoria, boom di permessi di soggiorno: +159%. I dati di Fondazione Migrantes-Caritas. Marco Leardi l'8 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Regolari e non, i cittadini stranieri presenti in Italia sono tornati ad aumentare. Ormai il fenomeno è sistemico, all'apparenza inarrestabile: la forte presenza di migranti nel nostro Paese è un dato di fatto comprovato anche in termini numerici. Sotto l'influenza di tale circostanza, peraltro, l'Italia sembra destinata a subire cambiamenti sia nella composizione sociale, sia sul fronte culturale. Sul suolo tricolore sono infatti aumentati gli stranieri musulmani e sono invece diminuiti quelli di fede cristiana. La rappresentanza musulmana, nello specifico, rappresenta oltre il 29% dei cittadini provenienti da altri Paesi.
Aumentano i musulmani in Italia
Lo attesta il XXXI Rapporto immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, "Costruire il futuro con i migranti", del quale sono stati presentati i dettagli. Conteggiando l'appartenenza religiosa anche dei minorenni di qualsiasi età, le stime contenute nel report indicano i cittadini stranieri musulmani residenti in Italia (al 1° gennaio 2022) siano in 1,5 milioni, ovvero il 29,5% del totale tra gli stranieri. Il dato è peraltro in aumento rispetto allo scorso anno, quando i fedeli di Allah provenienti all'estero erano meno di 1,4 milioni (il 27,1% del totale). Si tratta soprattutto di cittadini marocchini, albanesi, bangladeshi, pakistani, senegalesi, egiziani e tunisini. Per contro sono invece scesi gli stranieri cristiani in Italia, oggi sotto i 2,8 milioni a fronte dei quasi 2,9 milioni dello scorso anno. Seppur in calo dal 56,2% al 53,0% del totale, i cristiani si confermano comunque la maggioranza assoluta della presenza straniera residente nel nostro Paese.
Nello specifico, tra i cristiani la componente ortodossa rappresenta il 28,9% del totale. Si tratta di cittadini in larga maggioranza originari della Romania. I cattolici rappresentano la seconda confessione più rilevante: in 892 mila persone stimate (17,2% dei cittadini stranieri sul territorio nazionale), contro i 866 mila di un anno fa. Si tratta per lo più di cittadini provenienti da Filippine, Albania, Polonia, Perù ed Ecuador.
La sanatoria sui permessi
Secondo il rapporto di Caritas e Fondazione Migrantes, nel nostro Paese sono aumentati cittadini stranieri regolari. I dati al 1 gennaio 2022 parlano di 5.193.669 cittadini stranieri regolarmente residenti, cifra che segna una ripresa dallo scorso anno. Nelle prime cinque regioni di residenza, il primato per presenze straniere appartiene alla Lombardia, seguita da Lazio, Emilia-Romagna e Veneto, mentre la Toscana sopravanza il Piemonte al 5° posto. Il quadro delle nazionalità rimane sostanzialmente inalterato: fra i residenti prevalgono i rumeni (circa 1.080.000 cittadini, il 20,8% del totale), seguiti, nell'ordine, da albanesi (8,4%), marocchini (8,3%), cinesi (6,4%) e ucraini (4,6%).
Anche per effetto di una scelta politica, sono aumentati i cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno (3,9 milioni nel gennaio 2022 a fronte dei 3,3 del 2021), così come i nuovi permessi di soggiorno rilasciati nell'anno, con un'impennata 159% rispetto al 2020. In particolare - registrano gli estensori del rapporto - l'aumento si è registrato per "motivi di lavoro", certamente come esito della procedura di sanatoria varata dal governo nel 2020.
Ritardo scolastico, allarme integrazione
Le rilevanze del rapporto sui migranti lasciano però trasparire un problema di integrazione ancora persistente, ravvisabile anche tra le giovani generazioni. Il ritardo scolastico è nello specifico ritenuto uno degli ostacoli all'integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema educativo italiano. Gli studenti stranieri continuano a rimanere quelli a più alto rischio di abbandono. L'incidenza percentuale degli alunni con cittadinanza non italiana sul totale della popolazione scolastica rimane inalterata (10,3%) perché è diminuito il numero totale degli alunni, ovvero sono diminuiti anche gli alunni di cittadinanza italiana.
Gli stranieri in carcere
Stando ai dati rilevati, è inoltre calata la presenza di stranieri carceri italiane. Ma di poco: solo dell'1%, a fronte però di aumento generale del numero dei detenuti (+1,4). Dall'Africa proviene più della metà dei detenuti stranieri (53,3%) e il Marocco è in assoluto la nazione straniera più rappresentata (19,6%). Seguono Romania (12,1%), Albania (10,8%), Tunisia (10,2%) e Nigeria (7,8%). Nelle sezioni femminili, su un totale di 722 recluse straniere, spiccano soprattutto le detenute provenienti da Romania (24,1%), Nigeria (17,7%) e Marocco (5,8%). Le statistiche relative alle tipologie di reato confermano il dato generale che vede i reati contro il patrimonio come la voce con il maggior numero di ristretti (8.510 stranieri imputati o condannati per tale fattispecie di reato, ovvero il 27% dei ristretti per il reato in questione e il 49,9% dei detenuti stranieri). Seguono i reati contro la persona (7.285) e quelli in materia di stupefacenti (5.958). Al contempo, si registra anche la presenza di stranieri vittime di reati, dalla spregevole tratta di esseri umani a reati a consumati a discapito di minori.
Quesiti linguistici. Che differenza c’è tra nazionalità e cittadinanza? Risponde la Crusca. Accademia della Crusca su L'Inkiesta il 18 Giugno 2022.
C’è una certa promiscuità di utilizzo sia nel linguaggio comune sia in quello burocratico e persino normativo, se non addirittura una vera e propria confusione. Meglio fare chiarezza
Tratto dall’Accademia della Crusca
Diversi lettori ci chiedono di fare chiarezza sui termini nazionalità e cittadinanza, anche in rapporto all’inglese nationality; uno di loro, in particolare, contesta l’uso di cittadinanza a tradurre nationality nell’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un altro lettore ci chiede se cittadinanza possa indicare la somma dei cittadini. Infine una lettrice domanda se cittadinanza di genere può essere usato come “insieme di tutti i diritti civili e sociali caratterizzanti in particolare il genere femminile”.
Risposta
I termini nazionalità e cittadinanza si presentano giuridicamente caratterizzati da una chiara diversità, pur indicando condizioni che per un medesimo soggetto possono coincidere. Si registra una certa promiscuità di utilizzo sia nel linguaggio comune sia in quello burocratico e persino normativo, se non addirittura una vera e propria confusione.
Da un punto di vista linguistico, solo il secondo ha il crisma della tecnicità: è un termine proprio del diritto, che lo definisce e lo configura. Nonostante non sia annoverabile fra quelli presenti nel solo vocabolario del giurista – come ad esempio abigeato, comodato, rescissione, ecc. – il diritto lo riconsegna alla lingua comune col tratto definitorio acquisito nel territorio di origine. Può anche presentare significati ulteriori: si pensi qui al senso lato del termine in espressioni come “ha diritto di cittadinanza, quanto qui sostenuto” o “dare cittadinanza a una parola o costumi stranieri”.
Diversamente la parola nazionalità non è annoverabile neppure fra i cosiddetti vocaboli tecnicizzati, che cioè il diritto utilizza estraendoli dal linguaggio comune per assegnare loro un significato specifico – per esempio prescrizione, comunione, attore, ecc. – ma viene semplicemente importato nel linguaggio giuridico che, pur utilizzandolo, non lo fa proprio ma lo riceve in dote senza connotarlo. Prova ne sia il fatto che le nostre principali enciclopedie giuridiche – la storica Enciclopedia del diritto, la più recente Enciclopedia giuridica italiana ed il Digesto delle Discipline pubblicistiche – non ci restituiscono un lemma specifico dedicato al termine in questione. È tuttavia sempre presente una voce riguardante la sua radice “Nazione”.
Ebbene, sia questa che il suo traslato nazionalità – che qui interessa più direttamente – tradiscono una chiara matrice dottrinaria, di ordine storico, sociologico e filosofico, per poi essere evocati – dalla Rivoluzione francese in poi – nei testi normativi, specie di natura costituzionale. Tale processo di progressiva normativizzazione non toglie al termine nazionalità una certa qual ambiguità semantica, verosimilmente legata alla genesi e allo sviluppo storico del relativo concetto (meritandogli, non a caso, l’appellativo di “falsa idea chiara”), la quale spesso riemerge quando lo si rinviene nel dettato normativo.
Nel suo significato più diffuso la nazionalità esprime l’appartenenza di un soggetto a una comunità, o più esattamente a un gruppo, i cui elementi di aggregazione vengono usualmente identificati in una serie di “fattori” o “indici”, che possono esistere congiuntamente o disgiuntamente, come quello religioso, quello linguistico, il fattore etnico, quello politico e, più in generale, quello storico-culturale. Se ne deduce che il concetto di nazione (e quindi di nazionalità) non comporta, né richiede di per sé un nesso di implicazione con lo Stato e il suo ordinamento – cui è invece inestricabilmente imbricato quello di cittadinanza, come si dirà fra un momento – potendo quest’ultimo storicamente inverarsi preventivamente, successivamente o parallelamente alla formazione di un’identità nazionale. Può utilmente ricordarsi, a questo riguardo, la celeberrima frase ascritta a Massimo D’Azeglio e pronunziata all’esito del processo di unificazione politica e territoriale del nostro paese che aveva portato nel 1861 alla nascita del Regno d’Italia: “fatta l’Italia, dobbiamo ora fare gli italiani”. Quasi a testimoniare la divaricazione esistente tra lo Stato-ordinamento e lo Stato-nazione.
A tale proposito, appaiono particolarmente emblematiche le vicende politiche delle federazioni, in cui sotto un’unica veste (quella dello stato federale) possono ritrovarsi accomunate più nazioni (stati-nazione), come ad esempio nel caso del Belgio (caratterizzato da uno spiccato plurilinguismo e multiculturalismo) ovvero in cui risulta difficilmente identificabile un fattore comune, come nel caso della Svizzera, della quale è “lecito dubitare se (…) sia veramente una nazione in senso specifico”.
In sostanza, quindi, la nazionalità esprime un concetto di appartenenza a un determinato gruppo che è pre-giuridico – che quindi il diritto statale, pur potendolo in vario modo utilizzare, né fonda, né forgia – accomunando i singoli individui sulla base di quello che comprensivamente potremmo definire un certo ethnos.
La cittadinanza, invece, indica la condizione (lo status) del “soggetto di fronte all’ordinamento giuridico o, se si vuole, allo Stato persona”, sia nel senso che essa definisce l’appartenenza al popolo quale elemento costitutivo dello Stato come ordinamento (demos), sia perché costituisce il presupposto, la condizione per l’attribuzione di un insieme di diritti e di doveri, di natura essenzialmente pubblicistica, il cui riconoscimento può in una certa qual misura (si pensi soprattutto ai cosiddetti diritti politici) segnalare una differenza di trattamento rispetto alla posizione nell’ordinamento propria dello straniero (id est: non cittadino). Differenza, a onor del vero, oggi significativamente ridotta dal processo di progressiva attribuzione anche allo straniero di una molteplicità di diritti, pur formalmente imputati al cittadino nelle disposizioni della Carta costituzionale, in forza dell’essere questi espressione di un patrimonio irretrattabile della persona umana.
Orbene, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano si rinvengono numerose indicazioni che consentono di riscontrare la diversità dei concetti di cittadinanza e nazionalità.
A livello costituzionale, pur non mancando utilizzi sovrapposti e inclinazione a una qualche promiscuità, vi sono diverse disposizioni che fanno emergere la consapevolezza dei nostri Costituenti circa la non coincidenza tra il piano culturale (ethnos) e quello giuridico (demos).
Innanzitutto, si deve far riferimento all’art. 6 della Costituzione italiana, per cui “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. In questo modo, il testo costituzionale sembra alludere alla possibilità dell’esistenza di cittadini italiani di nazionalità non italiana, giacché, se è vero che concettualmente minoranza linguistica e minoranza nazionale possono divergere, nondimeno la coincidenza appare come eventualità più frequente.
Interessante, poi, è la previsione dell’art. 51, comma 2, Cost., secondo cui “la legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”. Qui, infatti, è evidente che la Carta costituzionale presuppone certamente la non coincidenza tra cittadinanza e nazionalità, riferendosi a soggetti che pur non godendo della prima tuttavia possono rivendicare la seconda.
Peraltro, un’ulteriore conferma della possibilità di parlare di cittadinanza esclusivamente come di un rapporto giuridico derivante dall’ordinamento statale è costituita, infine, dall’art. 22 Cost., secondo cui “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.
Proprio quanto appena richiamato ribadisce il discrimine fra cittadinanza e nazionalità.
Soltanto per la prima, in forza della natura di rapporto giuridico che la sostanzia, si può parlare di acquisto e di perdita e di regolazione da parte dell’ordinamento statale delle rispettive vicende, che invece non sono riferibili alla seconda, stante il suo carattere di qualità fondata su ragioni etno-culturali. Ne consegue, come già accennato in precedenza, che proprio in ragione di tali vicende, cittadinanza e nazionalità possono separarsi.
Non solo, e per converso, la immunità di quest’ultima dalle vicende suddette rivela una natura tipicamente escludente a fronte della maggiore apertura della prima, in conseguenza del suo carattere mutevole e più dinamico, tale da poter portare ad una imputazione plurale, come ad esempio nelle ipotesi di doppia cittadinanza.
Va, tuttavia, qui incidentalmente rammentato che in ordine alla distinzione qui delineata o, meglio, alla sua portata effettiva un certo impatto vada riconosciuto alla logica di fondo cui ciascun ordinamento statale si ispira per delineare le modalità di acquisto della cittadinanza.
Qui il diritto può giocare un ruolo significativo. Nel senso, cioè, che laddove a prevalere siano le ragioni dello ius sanguinis – si comunica al nascituro la cittadinanza del proprio genitore – le distanze tendono evidentemente a raccorciarsi; mentre ove prevalgano criteri diversi come lo ius soli – si diviene cittadini per via del fatto di essere nati in un certo territorio – o, per stare ad una formula che ha animato di recente il nostro dibattito pubblico, lo ius culturae – si perviene ad acquisire la cittadinanza in ragione del compimento di un certo itinerario formativo-scolastico – le distanze invece si ampliano.
A rendere infine la distinzione tra cittadinanza e nazionalità direi “in modo plastico” e ancor più evidente è il diritto dell’Unione europea e, in specie, l’istituto della cittadinanza europea introdotto con il trattato di Maastricht. Secondo il diritto dell’Unione, infatti, questa viene conferita a ciascun cittadino di uno stato dell’Unione per il semplice fatto di esserlo. Si tratta perciò di una cittadinanza aggiuntiva, di “secondo grado” come si usa dire, conferita automaticamente e de relato, rispetto alla quale la distinzione “possibile” fra cittadinanza e nazionalità, di cui s’è detto, diviene stabile e inevitabile. Sin tanto che, almeno, una assorbente nazionalità europea non venga ad affermarsi nell’orizzonte della storia. Ma qui ovviamente si apre un discorso assai più ampio orizzonte che esula sicuramente dai compiti di questa risposta.
In definitiva, se ne può concludere che le nozioni di cittadinanza e nazionalità esprimono concettualmente due diverse realtà.
Alla luce di ciò, si può dire che l’utilizzo promiscuo o sinonimico che talora si riscontra nel linguaggio burocratico e persino normativo riflette, non di rado, un uso non vigilato dei termini e dei concetti che invece – come visto – non vanno confusi. Un classico esempio è rappresentato dall’indicazione Nazionalità in luogo di Cittadinanza sul passaporto.
Quanto sin qui detto per nazionalità e cittadinanza vale anche per le omologhe espressioni nationality e citizenship, presenti nel linguaggio e nella cultura anglosassone.
The term “nationality” also exists in the INA (i.e. Immigration and Nationality Act), but its historical unimportance in U.S. law has left its relationship to citizenship somewhat ambiguous. “Nationality” and “citizenship” are clearly not interchangeable, however. The INA defines “nationality” as the quality of “owing permanent allegiance to a state”. Thus it has always been clear that not all nationals are citizens. What is not clear is whether all citizens must be nationals. (Mark C. Fleming, The functionality of citizenship, IV. The Nationality of Citizenship).
Ne consegue che quanto si legge nell’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo costituisce un ennesimo esempio di erronea ibridazione del linguaggio normativo, con la sovrapposizione di nationality a citizenship che vi si registra, dovendosi decisamente propendere per un diritto e un divieto di arbitraria privazione da riferirsi alla cittadinanza piuttosto che alla nazionalità. Di modo che, in questo caso, la traduzione italiana, per cui “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza”, esprime più correttamente il contenuto della disposizione.
Sulla distinzione fra nazionalità e cittadinanza.
Diversi lettori ci chiedono di fare chiarezza sui termini nazionalità e cittadinanza, anche in rapporto all’inglese nationality; uno di loro, in particolare, contesta l’uso di cittadinanza a tradurre nationality nell’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un altro lettore ci chiede se cittadinanza possa indicare la somma dei cittadini. Infine una lettrice domanda se cittadinanza di genere può essere usato come “insieme di tutti i diritti civili e sociali caratterizzanti in particolare il genere femminile”.
Risposta
I termini nazionalità e cittadinanza si presentano giuridicamente caratterizzati da una chiara diversità, pur indicando condizioni che per un medesimo soggetto possono coincidere. Si registra una certa promiscuità di utilizzo sia nel linguaggio comune sia in quello burocratico e persino normativo, se non addirittura una vera e propria confusione.
Da un punto di vista linguistico, solo il secondo ha il crisma della tecnicità: è un termine proprio del diritto, che lo definisce e lo configura. Nonostante non sia annoverabile fra quelli presenti nel solo vocabolario del giurista – come ad esempio abigeato, comodato, rescissione, ecc. – il diritto lo riconsegna alla lingua comune col tratto definitorio acquisito nel territorio di origine. Può anche presentare significati ulteriori: si pensi qui al senso lato del termine in espressioni come “ha diritto di cittadinanza, quanto qui sostenuto” o “dare cittadinanza a una parola o costumi stranieri”.
Diversamente la parola nazionalità non è annoverabile neppure fra i cosiddetti vocaboli tecnicizzati, che cioè il diritto utilizza estraendoli dal linguaggio comune per assegnare loro un significato specifico – per esempio prescrizione, comunione, attore, ecc. – ma viene semplicemente importato nel linguaggio giuridico che, pur utilizzandolo, non lo fa proprio ma lo riceve in dote senza connotarlo. Prova ne sia il fatto che le nostre principali enciclopedie giuridiche – la storica Enciclopedia del diritto, la più recente Enciclopedia giuridica italiana ed il Digesto delle Discipline pubblicistiche – non ci restituiscono un lemma specifico dedicato al termine in questione. È tuttavia sempre presente una voce riguardante la sua radice “Nazione”.
Ebbene, sia questa che il suo traslato nazionalità – che qui interessa più direttamente – tradiscono una chiara matrice dottrinaria, di ordine storico, sociologico e filosofico, per poi essere evocati – dalla Rivoluzione francese in poi – nei testi normativi, specie di natura costituzionale. Tale processo di progressiva normativizzazione non toglie al termine nazionalità una certa qual ambiguità semantica, verosimilmente legata alla genesi e allo sviluppo storico del relativo concetto (meritandogli, non a caso, l’appellativo di “falsa idea chiara”), la quale spesso riemerge quando lo si rinviene nel dettato normativo.
Nel suo significato più diffuso la nazionalità esprime l’appartenenza di un soggetto a una comunità, o più esattamente a un gruppo, i cui elementi di aggregazione vengono usualmente identificati in una serie di “fattori” o “indici”, che possono esistere congiuntamente o disgiuntamente, come quello religioso, quello linguistico, il fattore etnico, quello politico e, più in generale, quello storico-culturale. Se ne deduce che il concetto di nazione (e quindi di nazionalità) non comporta, né richiede di per sé un nesso di implicazione con lo Stato e il suo ordinamento – cui è invece inestricabilmente imbricato quello di cittadinanza, come si dirà fra un momento – potendo quest’ultimo storicamente inverarsi preventivamente, successivamente o parallelamente alla formazione di un’identità nazionale. Può utilmente ricordarsi, a questo riguardo, la celeberrima frase ascritta a Massimo D’Azeglio e pronunziata all’esito del processo di unificazione politica e territoriale del nostro paese che aveva portato nel 1861 alla nascita del Regno d’Italia: “fatta l’Italia, dobbiamo ora fare gli italiani”. Quasi a testimoniare la divaricazione esistente tra lo Stato-ordinamento e lo Stato-nazione.
A tale proposito, appaiono particolarmente emblematiche le vicende politiche delle federazioni, in cui sotto un’unica veste (quella dello stato federale) possono ritrovarsi accomunate più nazioni (stati-nazione), come ad esempio nel caso del Belgio (caratterizzato da uno spiccato plurilinguismo e multiculturalismo) ovvero in cui risulta difficilmente identificabile un fattore comune, come nel caso della Svizzera, della quale è “lecito dubitare se (…) sia veramente una nazione in senso specifico”.
In sostanza, quindi, la nazionalità esprime un concetto di appartenenza a un determinato gruppo che è pre-giuridico – che quindi il diritto statale, pur potendolo in vario modo utilizzare, né fonda, né forgia – accomunando i singoli individui sulla base di quello che comprensivamente potremmo definire un certo ethnos.
La cittadinanza, invece, indica la condizione (lo status) del “soggetto di fronte all’ordinamento giuridico o, se si vuole, allo Stato persona”, sia nel senso che essa definisce l’appartenenza al popolo quale elemento costitutivo dello Stato come ordinamento (demos), sia perché costituisce il presupposto, la condizione per l’attribuzione di un insieme di diritti e di doveri, di natura essenzialmente pubblicistica, il cui riconoscimento può in una certa qual misura (si pensi soprattutto ai cosiddetti diritti politici) segnalare una differenza di trattamento rispetto alla posizione nell’ordinamento propria dello straniero (id est: non cittadino). Differenza, a onor del vero, oggi significativamente ridotta dal processo di progressiva attribuzione anche allo straniero di una molteplicità di diritti, pur formalmente imputati al cittadino nelle disposizioni della Carta costituzionale, in forza dell’essere questi espressione di un patrimonio irretrattabile della persona umana.
Orbene, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano si rinvengono numerose indicazioni che consentono di riscontrare la diversità dei concetti di cittadinanza e nazionalità.
A livello costituzionale, pur non mancando utilizzi sovrapposti e inclinazione a una qualche promiscuità, vi sono diverse disposizioni che fanno emergere la consapevolezza dei nostri Costituenti circa la non coincidenza tra il piano culturale (ethnos) e quello giuridico (demos).
Innanzitutto, si deve far riferimento all’art. 6 della Costituzione italiana, per cui “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. In questo modo, il testo costituzionale sembra alludere alla possibilità dell’esistenza di cittadini italiani di nazionalità non italiana, giacché, se è vero che concettualmente minoranza linguistica e minoranza nazionale possono divergere, nondimeno la coincidenza appare come eventualità più frequente.
Interessante, poi, è la previsione dell’art. 51, comma 2, Cost., secondo cui “la legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”. Qui, infatti, è evidente che la Carta costituzionale presuppone certamente la non coincidenza tra cittadinanza e nazionalità, riferendosi a soggetti che pur non godendo della prima tuttavia possono rivendicare la seconda.
Peraltro, un’ulteriore conferma della possibilità di parlare di cittadinanza esclusivamente come di un rapporto giuridico derivante dall’ordinamento statale è costituita, infine, dall’art. 22 Cost., secondo cui “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.
Proprio quanto appena richiamato ribadisce il discrimine fra cittadinanza e nazionalità.
Soltanto per la prima, in forza della natura di rapporto giuridico che la sostanzia, si può parlare di acquisto e di perdita e di regolazione da parte dell’ordinamento statale delle rispettive vicende, che invece non sono riferibili alla seconda, stante il suo carattere di qualità fondata su ragioni etno-culturali. Ne consegue, come già accennato in precedenza, che proprio in ragione di tali vicende, cittadinanza e nazionalità possono separarsi.
Non solo, e per converso, la immunità di quest’ultima dalle vicende suddette rivela una natura tipicamente escludente a fronte della maggiore apertura della prima, in conseguenza del suo carattere mutevole e più dinamico, tale da poter portare ad una imputazione plurale, come ad esempio nelle ipotesi di doppia cittadinanza.
Va, tuttavia, qui incidentalmente rammentato che in ordine alla distinzione qui delineata o, meglio, alla sua portata effettiva un certo impatto vada riconosciuto alla logica di fondo cui ciascun ordinamento statale si ispira per delineare le modalità di acquisto della cittadinanza.
Qui il diritto può giocare un ruolo significativo. Nel senso, cioè, che laddove a prevalere siano le ragioni dello ius sanguinis – si comunica al nascituro la cittadinanza del proprio genitore – le distanze tendono evidentemente a raccorciarsi; mentre ove prevalgano criteri diversi come lo ius soli – si diviene cittadini per via del fatto di essere nati in un certo territorio – o, per stare ad una formula che ha animato di recente il nostro dibattito pubblico, lo ius culturae – si perviene ad acquisire la cittadinanza in ragione del compimento di un certo itinerario formativo-scolastico – le distanze invece si ampliano.
A rendere infine la distinzione tra cittadinanza e nazionalità direi “in modo plastico” e ancor più evidente è il diritto dell’Unione europea e, in specie, l’istituto della cittadinanza europea introdotto con il trattato di Maastricht. Secondo il diritto dell’Unione, infatti, questa viene conferita a ciascun cittadino di uno stato dell’Unione per il semplice fatto di esserlo. Si tratta perciò di una cittadinanza aggiuntiva, di “secondo grado” come si usa dire, conferita automaticamente e de relato, rispetto alla quale la distinzione “possibile” fra cittadinanza e nazionalità, di cui s’è detto, diviene stabile e inevitabile. Sin tanto che, almeno, una assorbente nazionalità europea non venga ad affermarsi nell’orizzonte della storia. Ma qui ovviamente si apre un discorso assai più ampio orizzonte che esula sicuramente dai compiti di questa risposta.
In definitiva, se ne può concludere che le nozioni di cittadinanza e nazionalità esprimono concettualmente due diverse realtà.
Alla luce di ciò, si può dire che l’utilizzo promiscuo o sinonimico che talora si riscontra nel linguaggio burocratico e persino normativo riflette, non di rado, un uso non vigilato dei termini e dei concetti che invece – come visto – non vanno confusi. Un classico esempio è rappresentato dall’indicazione Nazionalità in luogo di Cittadinanza sul passaporto.
Quanto sin qui detto per nazionalità e cittadinanza vale anche per le omologhe espressioni nationality e citizenship, presenti nel linguaggio e nella cultura anglosassone.
The term “nationality” also exists in the INA (i.e. Immigration and Nationality Act), but its historical unimportance in U.S. law has left its relationship to citizenship somewhat ambiguous. “Nationality” and “citizenship” are clearly not interchangeable, however. The INA defines “nationality” as the quality of “owing permanent allegiance to a state”. Thus it has always been clear that not all nationals are citizens. What is not clear is whether all citizens must be nationals. (Mark C. Fleming, The functionality of citizenship, IV. The Nationality of Citizenship).
Ne consegue che quanto si legge nell’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo costituisce un ennesimo esempio di erronea ibridazione del linguaggio normativo, con la sovrapposizione di nationality a citizenship che vi si registra, dovendosi decisamente propendere per un diritto e un divieto di arbitraria privazione da riferirsi alla cittadinanza piuttosto che alla nazionalità. Di modo che, in questo caso, la traduzione italiana, per cui “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza”, esprime più correttamente il contenuto della disposizione.
Utilizzi, infine, del termine cittadinanza in luogo di popolazione urbana evidentemente riflettono la derivazione latina del termine, il quale fa riferimento al complesso dei cives che viene a identificare l’insieme degli abitanti della città nel momento in cui la parola civitas viene a soppiantare urbs nella definizione di aggregato urbano.
Del tutto allusiva e di matrice ideale è l’espressione “cittadinanza di genere” che riassume ed eleva a obiettivo generale e non settoriale dell’azione politica (ad oggi riferita in modo peculiare al livello regionale) la promozione e il consolidamento di una cultura di genere paritaria, la valorizzazione delle differenze ed il contrasto alle diseguaglianze fondate sulla identità sessuale.
È evidente che in queste due ultime accezioni il termine di cittadinanza non ha a che fare con l’istituto giuridico di cui abbiamo sin qui parlato.
Domenico Quirico per “la Stampa” il 3 ottobre 2022.
Ci sono parole che non possiamo più pronunciare con la stessa imparzialità di un tempo. Perché il fallimento, il mal fare degli uomini in ciò che esse indicano, ha attaccato la sua infezione alla lingua. E allora ogni tanto bisogna togliere qualche espressione, ripulirla prima di osare usarla di nuovo. Una di queste parole è accoglienza. A cui oggi si appiglia una di quelle sciagurate occasioni retoriche che dovrebbero, negli intendimenti esplicitamente ipocriti, rimpolpare, ovviamente, la inevitabile Memoria. Ma servono solamente a rialzare con qualche badilata di chiacchiere il tumulo sotto cui riposano i buoni proponimenti.
Un po' come un tempo a scuola si celebrava la «giornata degli alberi» costringendo legioni di ragazzi a scrivere banalità sulla bellezza della natura: mentre la si seppelliva impunemente fuori dalle finestre dell'aula con tonnellate di cemento. Nel 2013 al largo di Lampedusa (già, ecco un altro anniversario!) perirono 368 migranti tra cui 83 donne e 9 bambini. All'epoca legioni di giornalisti e di squadre della televisione furono inviati a raccontare la tragedia. Sì. Era una notizia. Oggi «i barconi» continuano ad affondare nelle «brevi» redazionali di poche righe o nella ventesima notizia del giornale radio. Non è colpa dei giornalisti. Le cause perse non interessano, sono cenere o segatura.
In mezzo ci sono venticinquemila morti che riposano in quel cimitero senza lapidi e nomi che è il Mediterraneo.
Quando giungiamo di fronte a uno scenario come questo ci accade che la parola accoglienza venga risucchiata in questi numeri. E senza la parola si è soli, soli con il proprio silenzio di fronte al silenzio di quei morti. È la più oscura crisi morale che l'Europa abbia conosciuto prima di quella che si impone oggi con la guerra e il rischio atomico, il tempo in cui la spaesatezza è diventata davvero un destino mondiale. Lo dobbiamo ammettere apertamente: l'Europa spirituale, democratica, umana ha capitolato. Capitolato per debolezza, per pigrizia, per indifferenza, per egoismo, per banale indegnità. Oggi se fossimo onesti con noi stessi e non arroccati dietro il più lercio dei peccati, l'ipocrisia, dovremmo celebrare il giorno del respingimento.
Chi ha cercato di raccontare con onestà i migranti vede il fumo degli articoli e dei libri bruciati salire al cielo, chi, eroica minoranza, ha cercato di restar fedele all'umile motto aiuta chi ha bisogno, ha allestito i corridoi umanitari, non ha fatto dei migranti pretesto, burocrazia o peggio buon affare, deve riconoscere che è stato battuto.
Suvvia facciamoci aiutare dalla ricorrenza, rendiamola per una volta utile. Dobbiamo compiere il dovere più nobile dei soldati sconfitti: riconoscere la disfatta.
Sì ci hanno battuti: ci hanno battuti (dopo venticinquemila morti!) i minuscoli Nelson del blocco navale, quelli del messianismo falso e bugiardo dell'aiutiamoli a casa loro, quelli, li pensavamo insospettabili, delle laute mance e delle strette di mano ai carcerieri della Sirte, quelli dell'astuto realismo del non possiamo ospitare tutta la disperazione del mondo. Nel Mediterraneo, senza cerimonie e discorsi, abbiamo seppellito anche i due principi che erano la forza e la ragione di esistere della creatività europea, la libertà e l'individuo. La libertà di cercare la propria condizione umana sfuggendo al destino della guerra, della povertà, della violenza, del fanatismo, dell'immobilità. E la sacralità dell'individuo perché in più di dieci anni la prima negazione è stata di mantenere i migranti massa, numeri, statistiche, indici grafici; e mai, appunto, individui. E con le masse i mestatori e i bugiardi del «prima noi!» sono sempre a loro agio. La vittoria degli xenofobi è nell'aver cancellato l'immagine dell'uomo creata dall'umanesimo del diciassettesimo e del diciottesimo secolo. Il Novecento, quello, era già oppresso dal buio.
Allora, in realtà, non abbiamo accolto nessuno. I migranti li abbiamo pesati, come facciamo per tutto: le guerre, quella da fare e quelle no, gli autocrati da omaggiare o da abbattere, le miserie da alleviare o da perpetuare. Questi ci servono e questi no. Semplicemente. Gli ucraini per esempio: accolti senza burocrazia, senza lungaggini, senza mugugni, senza problemi di palanche. Come è giusto. Sono europei, vittime di una guerra che combattiamo contro il Male di turno anche noi. Ci servono. Per ora. Come gli afgani: i centomila o poco più afgani «nostri», accolti perché hanno lavorato per noi nel dilapidato ventennio americano. E gli altri? Quelli che da vent' anni stavano nella giungla di Calais, quelli che arrivavano nascosti sotto i camion o risalivano le montagne balcaniche? Sono tornati nel nulla. Non servivano più. Dimenticati in un mese. E i siriani? Il milione dei prescelti dalla Merkel servivano. Gli altri no.
E c'è tutto il resto, quel macinato della Storia che scorre fuori dal setaccio, gli africani, gli inutili, gli eterni proletari incompatibili con lo scintillio della nuova rivoluzione industriale, quelli che per noi possono dare solo pane amaro? Quelli li abbiano regalati al respingimento, alle vedette libiche, al sottosuolo delle periferie, visibili sì ma inesistenti, anime morte. Abbiamo perso il diritto di scrivere, parlare, filmare i migranti. L'abbiamo perso per quello che abbiamo fatto e per quello che non abbiamo fatto in questi anni seguiti alla loro irruzione, nel 2011, nelle nostre vite.
I loro viaggi disperati e incredibili, odissee di anni segnate dai morti, erano una interrogazione incessante che disfaceva i nostri tranquilli punti di riferimento di mondo migliore. Nel 2011 mi imbarcai con i migranti e arrivai a Lampedusa. Oggi non avrei diritto di ripetere quel viaggio, non potrei salire sul barcone. L'ho perso quel diritto per l'inutilità di quel racconto. Oggi solo i migranti hanno il diritto di parlare di se stessi e di raccontarsi, se vogliono. A noi in questa parte del mondo resta solo la pena di tacere.
Il dramma migranti. Migranti peggio degli schiavi: nel Mediterraneo è strage di donne. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 7 Ottobre 2022
Prima dodici, poi il refresh delle agenzie dava tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette: tutte donne, tutte nere, tutte morte. Tutte affogate davanti a una costa europea, in un viaggio meno sorvegliato e sicuro rispetto a quello che un paio di secoli fa le avrebbe portate verso qualche piantagione schiavista. Non è sbagliato dire che questa gente nera vale anche meno di quella prescelta dal mercante che la destinava a un naviglio più affidabile, e quelli che vi morivano di stenti o di frusta pativano una sorte dopotutto più armonica in un mondo che non aveva sottoscritto nessuna dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Questi che abbordiamo quando capita, per salvarne pochi e per recuperare i resti dei sempre più numerosi che non ce la fanno, non hanno nemmeno lo status garantito allo schiavo dal diritto proprietario trasmesso all’acquirente dal negriero. Quelli erano cose appartenenti a qualcuno, un padrone che poteva anche avere interesse a curarne il poco di salute necessario a farli lavorare: questi di oggi sono cose e basta, buone a dar fiato ai comizi quando sopravvivono e inutili da conteggiare quando affogano perché non depauperano nessun patrimonio. Anzi, non bisogna neppure mantenerli.
Chissà come una giovane serva di una fattoria bianca, curva di giorno sul riso o sul tabacco e sottoposta la sera alla monta dei guardiani, chissà come guarderebbe queste sue sorelle di duecento anni dopo. Chissà che futuro diverso avrebbe voluto per loro. Iuri Maria Prado
L’orrore dei 368 morti nel mare di Lampedusa. Ottobre 2013, il barcone della vergogna. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 ottobre 2022.
Èil 4 ottobre 2013. La Gazzetta del Mezzogiorno racconta il più grande naufragio di migranti avvenuto nel Mediterraneo. «La tragedia inimmaginabile fino a pochi secondi prima divampa in un lampo come il fuoco che avvolge subito il ponte del barcone da dove centinaia di somali ed eritrei guardavano la costa vicinissima di Lampedusa, di fronte l’Isola dei Conigli, immaginando già di toccare terra»: inizia così la cronaca del disastro avvenuto il giorno prima.
Un peschereccio di circa 20 metri, con a bordo migranti di origine eritrea ed etiope, è salpato il 1º ottobre 2013 dal porto di Misurata, in Libia. Giunto a circa mezzo miglio dalle coste lampedusane, a poca distanza dall’Isola dei Conigli, i motori si sono bloccati.
Il fumo prodotto dallo straccio infuocato per segnalare la propria presenza alle altre navi scatena un’ondata di panico che ha probabilmente fatto rovesciare l’imbarcazione, che ha girato su se stessa tre volte prima di colare a picco. Solo alle 7 di mattina alcune imbarcazioni civili e pescherecci locali hanno notato i naufraghi e dato l’allarme alla Guardia costiera, caricando nel frattempo la maggior parte dei superstiti a bordo.
«I migranti volevano segnalare la propria posizione incendiando una coperta, ma le fiamme si sono propagate subito sul ponte dove giacevano 300, forse 500, persone».
Si conteranno, alla fine, 368 morti e 155 superstiti. «Due donne incinte sono state trasportate a Palermo. Tre migranti, invece, sono stati ricoverati al poliambulatorio di Lampedusa.
«Viene la parola vergogna: è una vergogna! Uniamo i nostri sforzi perché non si ripetano simili tragedie», ha detto papa Francesco. Per il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: «Bisogna reagire e agire. Non ci sono termini abbastanza forti per indicare anche il nostro sentimento di fronte a questa tragedia».
Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa e Linosa, ripete: «È un orrore, un orrore. Questi morti parlano a tutti».
Al cimitero, lancia l’allarme, non ci sono più loculi e il centro di accoglienza ha superato da tempo ogni limite di capienza. «Qui non abbiamo più posto né per i vivi né per i morti», afferma la Nicolini, e al presidente del Consiglio Enrico Letta rivolge un appello: «Venga a contare i morti con me».
In seguito al naufragio di Lampedusa, il governo italiano avvierà la missione militare e umanitaria denominata «Mare Nostrum». Due anni dopo verrà istituita la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, che si celebra ogni 3 ottobre.
"Il 64% degli aiuti agli stranieri". Così Sala favorisce gli immigrati. Continuano le agevolazioni della sinistra di Milano agli stranieri: su 7458 richieste accolte, 4744 sono di cittadini stranieri: "Italiani cittadini di serie B". Francesca Galici il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.
A Milano, il sindaco Beppe Sala e la sua amministrazione sembrano preferire i cittadini stranieri. O, almeno, questo è quello che si evince dai tasselli messi insieme sulla base dei benefit che vengono elargiti dal Comune. Dopo la prevalenza di borse di lavoro assegnate ai cittadini stranieri che, va ricordato, rappresentano circa il 20% della popolazione complessiva di Milano, e dopo la maggiore assegnazione di case popolari agli immigrati, ecco che da un'altra interrogazione di Silvia Sardone, consigliere comunale in forza alla Lega, emerge che anche sul fronte del sostegno agli affitti sono gli stranieri ad aver ottenuto maggiori agevolazioni.
Il welfare di Milano, ormai, sembra orientato per lo più a sostenere i cittadini non-italiani, piuttosto che quelli con cittadinanza italiana. Una sorta di discriminazione al contrario da parte della sinistra, che non si capisce cosa voglia ottenere. "Anche per quanto riguarda il contributo per il sostegno agli affitti la quota di immigrati beneficiari della misura è ben più alta di quella degli italiani: nel 2020, su 7458 richieste accolte dal Comune 4744 erano di famiglie straniere e appena 2714 di famiglie italiane", denuncia Silvia Sardone. Il 64,2% delle domande accettate. Possibile che, sul 20% della popolazione straniera residente, ci sia un'incidenza così elevata di famiglie, al contrario di quelle italiane che sono state, in numeri assoluti, quasi la metà rispetto alle straniere pur rappresentando l'80% circa della cittadinanza? Difficile credere che gli italiani siano tutti agiati economicamente, al punto che solo una minima percentuale abbia diritto all'accesso al contributo.
Le borse di lavoro? Agli stranieri. "Così a Milano si discriminano gli italiani"
"Se gli immigrati sono il 20% della popolazione milanese, quindi una netta minoranza in numeri assoluti, com’è possibile che usufruiscano sempre in misura maggiore dei contributi sociali? Bebè card, borse lavoro, sostegno al reddito, esenzione mense scolastica, ora anche il sostegno agli affitti su libero mercato o di alloggi dei Servizi abitativi sociali?", si chiede giustamente Silvia Sardone. Una domanda retorica, che è destinata a non trovare risposta dall'amministrazione. "I numeri non mentono mai e confermano ciò che da anni sappiamo benissimo: per la sinistra gli italiani sono cittadini di serie B. Per loro vengono prima gli stranieri e non fanno nulla per nasconderlo. Anzi, lo rivendicano con misure di welfare calibrate proprio sugli immigrati", conclude l'esponente della Lega.
A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste.
Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno abbiamo bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane.
E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS?
Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.
E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti.
Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.
I governanti sono esclusivamente economisti. Loro valutano il costo delle loro decisioni in termini economici, non misurano l’indispensabilità, quindi l’utilità delle loro scelte. Il popolo vuole pane e divertimento. La libertà, per la gleba, può andarsi a fare fottere. Ecco perché i governi scelgono di non far niente. E quel niente è importante che sia più utile che giusto. In questo modo cristallizzano lo status quo.
I Governi sono in balia degli umori del popolo.
I capitalisti non vogliono dare niente, i comunisti vogliono solo avere tutto.
I Governi, dettata l’agenda economica, non avendone la perizia, delegano l’aspetto pratico del governare agli apparati burocratici. I burocrati ed i magistrati legiferano e decretano a loro vantaggio, ammantando il loro potere fossilizzato da abuso ed impunità decennale.
Il popolo tapino subisce e tace, senza scrupolo di coscienza, perché chi non vuol dare, non dà; chi vuole avere, ha!
La liturgia della politica nel nome della democrazia, in fondo, è tutta una presa per il culo….
Perché non esiste politica; non esiste democrazia. Esiste solo l’economia e la finanza. L'utile ed il dilettevole.
I soldi governano il mondo. Non la democrazia o la dittatura, né tanto meno la fede.
Poveri stolti. “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano” (Matteo 6:19-20).
Vangelo di Matteo, 7, 1: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.”
Col giudizio con cui giudichi sarai giudicato… ma non da Dio – e difatti Gesù non dice minimamente una cosa del genere – ma da te stesso, perché tu sei il tuo unico giudice. La misura la decidi tu, e anche questo Gesù lo dice molto chiaramente, in un modo indubitabile per chiunque non abbia dei paraocchi davanti agli occhi.
Giudica, e sarai giudicato. Perdona, e sarai perdonato. Dai, e ti sarà dato. E sarai sempre tu a giudicarti, a perdonarti e a darti qualcosa, perché sei tu l’unico padrone delle tue energie interiori.
Matteo 7:
1 Non giudicate, per non essere giudicati;
2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.
3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave?
5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
7 Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;
8 perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?
10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe?
11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!
12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.
13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;
14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!
15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.
16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?
17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;
18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.
19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.
20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.
21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?
23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.
25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.
26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.
27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».
28 Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento:
29 egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.
Io, Antonio Giangrande, sono orgoglioso di essere diverso.
Faccio quello che si sento di fare e credo in quello che mi sento di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
A proposito di Islam
Fermo restando che ci sono tantissime persone di fede islamica che sono della brava gente, non posso che esprimere i miei più profondi dubbi sulla "buona fede" della religione musulmana. Ciò che più non capisco è come si possa denigrare la nostra cultura, quella occidentale, che ha portato l'uomo ad un successivo livello di evoluzione e difendere senza "se" e senza "ma" una cultura/società che, IN GRAN PARTE, è ferma al medioevo, in cui le donne sono sottomesse all'uomo e considerate di loro proprietà, i "miscredenti" e i peccatori vengono uccisi, la "Sharia" si basa sulla "legge del taglione", gli omosessuali perseguitati, la libertà religiosa un miraggio, i diritti più basilari sono ancora da conquistare, una civiltà che per secoli ci ha attaccato, invaso, depredato, tentato di conquistarci. E con le ondate di immigrazione proprio dal mondo arabo rischiamo di dover convivere IN CASA NOSTRA con tutte queste situazioni. Ma ciò che trovo più strano, però, è il fatto che coloro che difendono il mondo islamico sono proprio coloro che partecipano ai gay pride, sono attivisti per i diritti delle donne, ecc. Forse perché i voti alle elezioni valgono più di ogni tipo di coerenza.
P.S. Qualche migliaia di immigrati islamici su 60 milioni di abitanti di certo non sono un problema, ma se cominciano a diventare qualche milione la situazione cambia. Occhio...
Non mi sento italiano…ma per fortuna o purtroppo lo sono…
Paolo Carnevale 13 giugno 2022
Mattia Feltri per “la Stampa” il 29 luglio 2022.
Le immagini da Lampedusa - duemila migranti ricoverati dove se ne potrebbero ricoverare trecentocinquanta - sono un giudizio divino sul lavoro del nostro ministero dell'Interno.
Però adesso a mettere a posto le cose arrivano i sovranisti con le loro erculee dottrine: blocchi navali ed estrosi decreti sicurezza, necessari alla sensibilità patriottica, toccata dall'invasione di stranieri e dalla criminalità che si portano appresso.
E allora mi sono chiesto, come va questa famosa invasione? Come siamo messi con la sostituzione etnica? Eh, insomma. Attualmente in Italia risiedono cinque milioni e 193 mila stranieri. L'anno scorso erano cinque milioni e 171 mila. In un anno sono aumentati di ventiduemila.
Per essere una sostituzione etnica, per di più nel tempo del governo delle élite radical chic, non va alla grande. Sette anni fa, nel 2015, gli stranieri residenti erano 5 milioni e 14 mila. Poco più di cinque milioni erano e poco più di cinque milioni sono. L'invasione mi batte un po' la fiacca, ma c'è pur sempre l'emergenza criminalità.
Bene, a che punto siamo con l'emergenza criminalità di questi extracomunitari che non si integrano? Secondo il rapporto Antigone uscito ieri, la percentuale di stranieri fra i detenuti è del 31.3 per cento.
Alta, ma più bassa dell'anno scorso, che era del 32.3 e molto più bassa del 2019, quando era al 33.4. Allora, nel 2019, lo 0.40 per cento degli stranieri residenti in Italia era in prigione, due anni fa eravamo allo 0.35, l'anno scorso allo 0.34, quest' anno allo 0.33. Ecco, le cose vanno sempre meglio, dicono i numeri. Ma non dimentichiamolo, i numeri sono arabi.
Pozzallo: sei migranti morti di fame e sete su un barcone. Allarme ignorato per giorni. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022
La notizia data dall’Unhcr: erano con altre 20 persone alla deriva da giorni e sono stati soccorsi dalla Guardia Costiera. Il gruppo proveniva dalla Siria
Sei migranti tra cui tre bambini, sono stati trovati morti a bordo di un barcone assieme ad altre persone alla deriva su un barcone. Tutti sono arrivati oggi nel porto di Pozzallo, in Sicilia. Ne ha dato notizia l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei richiedenti asilo. Le vittime - tra cui tre piccoli di un anno, due anni e 12 anni - sono probabilmente morte di fame e di sete. Le alte tre vittime sono donne.
Il gruppo di naufraghi, 26 in tutto, di nazionalità siriana o afghana, è stato soccorso da una vedetta della Guardia Costiera a circa 70 miglia a sud delle coste siciliane di Portopalo: erano in mare da diversi giorni e molti di loro presentavano ustioni sul corpo. «L`UNHCR - si legge in un comunicato - esprime profondo rammarico per l’ultima perdita di vite umane in mare e chiede il ripristino di un meccanismo di ricerca e soccorso rapido ed efficiente. L’UNHCR si rammarica profondamente per la tragica morte di sei siriani, tra cui due bambini piccoli e una donna anziana, avvenuta durante un viaggio disperato in mare per cercare sicurezza in Europa».
Sei rifugiati siriani fra cui bambini, donne e adolescenti hanno perso la vita in mare. Sono morti di sete, fame e gravi ustioni. E? inaccettabile. Rafforzare il soccorso in mare è l'unico modo per evitare queste tragedie. @UNHCRItalia è a Pozzallo per aiutare i sopravvissuti.
Le operazioni di sbarco dei sopravvissuti sono state effettuate a Pozzallo con l'aiuto di autorità sanitarie, forse dell'ordine e organizzazioni umanitarie. Alcuni di loro hanno dovuto essere trasportate in ospedale perché in condizioni gravi dovute alla lunga permanenza in mare. L'operazione è stata condotta dalla motovedetta Cp 325 della Guardia Costiera: in precedenza gli occupanti del barcone alla deriva erano stati salvati dal mercantile Arizona. Due donne, proprio a causa delle loro precarie condizioni erano state sbarcate già ieri e portate in ospedale a Malta.
Il barcone era salpato circa due settimane fa dalle coste della Turchia: nel giro di pochi giorni sono finite le scarse dotazioni di cibo e poi anche quelle di acqua, tanto che alcuni naufraghi avrebbero poi bevuto quella del mare. Secondo le prime testimonianze raccolte a terra, il barcone avrebbe incrociato alcune navi, una di queste avrebbe lanciato una cassa di acqua ma i migranti non sono riusciti a recuperarla, nè la nave si preoccupò di portare a bordo i migranti in pericolo.
La disperata condizione in cui si trovavano il barcone e i suoi occupanti era dunque nota da giorni ma non sono partiti soccorsi tempestivi in seguito al Sos. Secondo l’agenzia Onu sono già 1.200 le persone morte o disperse nel 2022 mentre tentavano la traversata del Mediterraneo.
Altrettanto drammatica la testimonianza del sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna, che ha assistito all'arrivo dei naufraghi in porto: «L'immagine terribile era paragonabile a quella dei sopravvissuti nei lager nazisti» ha raccontato. «È impressionante - prosegue Ammatuna - lo stato di disidratazione e debolezza di tutti i migranti che faticavano a mantenere la stazione eretta. Oltre al grave stato di disidratazione, si evidenziava anche un'eccessiva desquamazione cutanea da probabile esposizione al vento, al sole e al mare».
Sempre questa mattina la nave italiana Diciotti ha salvato altri 350 immigrati, da una motopesca in difficoltà a 50 miglia dalle coste siciliane: a questa imbarcazione è stato assegnato il porto di Crotone.
Migranti, tre bambini e tre donne morti di sete su un barcone e gettati in mare. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 12 settembre 2022
Le vittime sono due piccoli di 1 e 2 anni, un dodicenne e tre donne, tra cui la mamma di due bambini ora rimasti da soli. Erano partiti dalla Turchia. Una neonata di tre mesi sarebbe morta su un altro barcone partito dal Libano e ancora alla deriva
Ancora bambini morti di sete su un barcone diretto verso l'Italia dove sei persone hanno perso la vita disidratate per la lunga permanenza in mare. Tra le vittime due piccoli di 1 e 2 anni, un 12enne e tre donne tra cui la madre di altri due bambini rimasti da soli. E all'orrore si aggiunge orrore. I loro corpi, ormai in stato di putrefazione, sono stati gettati in mare. E c'è allarme per un altro barcone con 250 persone a bordo, partito dal Libano una settimana fa e alla deriva in zona Sar maltese, su cui sarebbe morta una neonata di tre mesi. A darne notizia Alarm Phone in contatto con il padre della piccola.
I sei morti sul barchino partito dalla Turchia
Le sei vittime viaggiavano su una piccola imbarcazione, in mare da una decina di giorni, soccorsa prima da un mercantile e poi dalla Guardia costiera che li ha portati a Pozzallo. A confermare la notizia la rappresentante per l'Unhcr Chiara Cardoletti: " Sei rifugiati siriani, tra cui bambini, donne e adolescenti, hanno perso la vita in mare. Sono morti di sete, fame e gravi ustioni. Questo è inaccettabile. Rafforzare i soccorsi in mare è l'unico modo per prevenire queste tragedie".
A Pozzallo, ad assistere i sopravvissuti, c'è lo staff di Unhcr. Gravissime le condizioni dei 26 sopravvissuti tutti con profonde ustioni per la lunga permanenza al sole. Sembra che la piccola barca su cui viaggiavano, tanto piccola che a bordo non c'era alcun riparo, fosse partita dalla Turchia. A bordo siriani e afghani, 11 uomini, 8 donne e 7 bambini. Erano stati soccorsi dalla nave da carico Arizona sulla rotta tra Turchia, Malta e Italia. Poi il trasbordo sulla motovedetta Cp 325 della Guardia costiera a 67 miglia a sud est di Portopalo.
La ricostruzione del viaggio
Flavio Di Giacomo, portavoce dell'Oim così' ricostruisce la tragedia. "Erano partiti il 30 agosto in 32 dalla Turchia, afghani e siriani. Poi sono rimasti senza carburante e per giorni sono andati alla deriva trascinati fin verso la Libia orientale. Poi li ha soccorsi un mercantile, ma in sei erano già morti. stupisce che per tutti questi giorni siano passati inosservati e che ci sia voluto tanto tempo per essere soccorsi. E' evidente che, come diciamo da tempo, senza un sistema di pattugliamento rafforzato c'è il rischio che ci siano barconi che non sono soccorsi in tempo con il rischio di drammi come questo, o come quello della bambina morta qualche giorno fa, e che si trovava su un barcone partito dal Libano che era stato in mare per giorni senza che nessuno lo soccorresse.
"I sopravvissuti come nei lager nazisti"
"E' impressionante lo stato di disidratazione e debolezza di tutti i migranti che faticavano a mantenere la stazione eretta - dice il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna-. Oltre al grave stato di disidratazione, si evidenziava anche un'eccessiva desquamazione cutanea da probabile esposizione al vento, al sole e al mare". Una migrante è stata trasportata in ospedale, tutti gli altri sono stati immediatamente rifocillati. L'immagine terribile era paragonabile a quella dei sopravvissuti nei lager nazisti", conclude Ammatuna.
La tragica fine di Loujin
La nuova tragedia arriva pochi giorni dopo la morte di Loujin, la bimba, siriana anche lei morta di sete il 6 settembre, dopo che il barcone sul quale era salita insieme alla mamma, al papà e alla sorellina di un anno e mezzo, vagava da dieci giorni nel Mediterraneo senza che nessuno rispondesse alle richieste di aiuto
Il dramma che non interessa a nessuno. Strage migranti, tre bimbi e tre donne morti di sete e di ustioni su un barcone: “Lasciati per giorni in mare”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 2 Settembre 2022
Morti di sete. Morti per le ustioni riportate dopo giorni e giorni in mezzo al mare e sotto al sole cocente. Morti di fame. Morti nell’indifferenza dell’Europa. E’ la cronaca dell’ultima tragedia avvenuta in mare nelle scorse ore. I corpi senza vita di due bambini piccoli di uno e due anni, di un 12enne e di tre donne, tra cui una anziana, sono stati ritrovati su una barca ferma in mare da diversi giorni sulla rotta tra Turchia e Malta e soccorsa dalla Guardia Costiera e arrivata questa mattina, 12 settembre, nel porto siciliano di Pozzallo.
Le sei vittime sono tutte di nazionalità siriana. Tra loro anche la nonna e la madre di altri due bambini adesso rimasti orfani e soli in Italia. Erano su una barca piccola insieme ad altre 26 persone, tra siriani e afghani, soccorse dalla Guardia Costiera. Alcune di loro sono in condizioni gravi a causa delle profonde ustioni riportate. Dopo la tragedia della piccola Loujin (nella foto, ndr), la bimba siriana morta di sete a inizio settembre dopo dieci giorni vissuti su una barca nel Mediterranea senza che nessuno rispondesse alle richieste di soccorso, l’ennesima tragedia.
Dure le parole dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che in una nota “esprime profondo rammarico per l’ultima perdita di vite umane in mare e chiede il ripristino di un meccanismo di ricerca e soccorso rapido ed efficiente. L’UNHCR si rammarica profondamente per la tragica morte di sei siriani, tra cui due bambini piccoli e una donna anziana, avvenuta durante un viaggio disperato in mare per cercare sicurezza in Europa. L’UNHCR – sottolinea – esprime le proprie condoglianze ai parenti delle vittime, alcune delle quali sono sopravvissute ad un viaggio drammatico di diversi giorni e fanno parte di un gruppo di 26 persone che stanno sbarcando da una nave della Guardia Costiera italiana a Pozzallo. Due persone, una donna e sua figlia, sono state evacuate a Malta ieri sera per essere curate”.
“L’UNHCR è presente allo sbarco e sta lavorando con le organizzazioni non governative per garantire la necessaria assistenza ai sopravvissuti, incluso un supporto psicologico specializzato. Le vittime – ricorda la nota – sarebbero due bambini di 1 e 2 anni, un dodicenne e tre adulti, tra cui la nonna e la madre di bambini sopravvissuti. Si pensa che siano morti di fame e di sete. Molte delle persone sbarcate a Pozzallo presentano anche condizioni estremamente gravi, tra cui ustioni”.
Chiara Cardoletti, rappresentante dell’Unhcr in Italia, Santa Sede e San Marino, attacca: “Questa inaccettabile perdita di vite umane e il fatto che il gruppo abbia trascorso diversi giorni alla deriva prima di essere soccorso evidenziano ancora una volta l’urgente necessità di ripristinare un meccanismo di ricerca e soccorso tempestivo ed efficiente, guidato dagli stati nel Mediterraneo”.
“Il soccorso in mare è un imperativo umanitario saldamente radicato nel diritto internazionale. Allo stesso tempo, è necessario fare di più per ampliare i canali sicuri e regolari e crearne di nuovi per fare in modo che le persone in fuga da guerre e persecuzioni possano trovare sicurezza senza mettere ulteriormente a rischio le loro vite”. Quest’anno, oltre 1.200 persone sono morte o risultano disperse nel Mediterraneo.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Ventimiglia, la Lampedusa del Nord è una terra di nessuno. Tanta polizia ma nessuna assistenza, se non quella di Diocesi e ong. Il sindaco di centrodestra è stato sfiduciato, il comune commissariato. E la frontiera è diventata il far west dei trafficanti di uomini. Erica Manna su La Repubblica il 29 Agosto 2022.
Trascorrono la notte nel greto del fiume e lungo i binari della ferrovia, i migranti che tentano di oltrepassare la frontiera. La mattina si mettono in coda in via San Secondo, accanto alla stazione, davanti ai cancelli della sede di Caritas Intemelia dove i volontari distribuiscono la colazione e i vestiti. Spesso si lavano alle fontanelle dei giardini pubblici.
I migranti usati come armi: la strategia dietro l’aumento degli sbarchi in Italia. Bianca Senatore su La Repubblica il 29 Agosto 2022.
Cresce il sospetto di un piano dietro l’impennata di arrivi sulle nostre coste, con l’obiettivo di destabilizzare l’Italia e l’Europa generando allarmismo. E senza nessuna pietà per le vittime di questa tratta
Il telefono squilla. Dopo quasi due mesi e mezzo Rasim (nome di fantasia) ha riattivato la linea e ricompare anche su Telegram. L’ultima volta che lo abbiamo sentito era in Serbia, pronto a traghettare, per la modica cifra di 5mila euro alcuni siriani attraverso i confini europei. La sua attività non si è mai interrotta, anzi, è riuscito a entrare in un vero e proprio network di smugglers che in questi giorni sta lavorando tantissimo, dice.
Fdi diffonde falsità sull'immigrazione. Tutte le balle di Meloni sui migranti: ecco i veri dati sui profughi che inchiodano la propaganda della destra. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 24 Agosto 2022
Con la consueta aggressività che la contraddistingue, il 19 agosto, la signora Meloni si lasciava andare, in una intervista rilasciata a Fanpage, alle seguenti affermazioni: «Anche con una interpretazione molto generosa delle norme sui rifugiati che è stata applicata dall’Italia in questi anni solamente l’8% di chi è sbarcato illegalmente ha ottenuto il diritto ad asilo o protezione», aggiungendo subito dopo che «Gli altri, per la quasi totalità uomini soli adulti in età da lavoro, sono semplicemente immigrati illegali. Una situazione insostenibile, anche in termini di sicurezza, per l’Italia e per l’intera Europa».
Le opinioni in democrazia sono libere e ogni tesi può essere presentata al pubblico dibattito, ma il primo criterio per valutarla è capire su quali assunti essa poggi. Non c’è nulla di male nel sostenere, ad esempio, che la terra sia piatta; altro è però dimostrarlo. Secondo i dati ufficiali forniti dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo nel 2021 la protezione internazionale è stata riconosciuta, già in sede amministrativa, al 28% dei richiedenti (14% status di rifugiato e 14% status di protezione sussidiaria) al quale va aggiunto un ulteriore 14% di riconoscimenti di status di protezione speciale, la forma di asilo basata sul nostro diritto interno in attuazione dell’art.10 della Costituzione. Complessivamente dunque si arriva al 42%. Si tratta altresì di dati incompleti in quanto non comprendono gli esiti dei ricorsi giudiziari avverso i dinieghi; dati che la Commissione nazionale non rende pubblici, anche se pur dovrebbe.
Dunque per capire quale sia l’esito dei ricorsi è necessario ricorrere a degli studi scientifici; uno dei più accurati e recenti è senza dubbio uno studio di Monia Giovannetti pubblicato sulla rivista Questione Giustizia il 3.05.2021 con il titolo “La protezione internazionale nei procedimenti amministrativi e giudiziari”. Nel prendere in esame il decennio 2010-2020 l’autrice acutamente evidenzia come «anche l’analisi sugli esiti amministrativi positivi, evidenzia un andamento assai irregolare e significativamente condizionato dagli interventi normativi intercorsi negli ultimi anni» per successivamente esaminare gli esiti dei procedimenti conclusi presso i Tribunali ordinari dal 2016 fino al primo semestre 2020; manca dunque a questo studio un’analisi dell’ultimo anno, il 2021; tuttavia esso abbraccia un arco temporale molto ampio e dai dati consolidati emerge che sui 138mila procedimenti definiti il tasso di accoglimento è risultato del 37,5%. L’analisi prosegue poi sui procedimenti in appello (non più possibili dall’agosto 2017) e sul contenzioso in Cassazione che non esamino in questa sede perché esorbita dalle ristrette finalità di questo articolo.
Cosa ci dicono dunque i dati sull’esito del contenzioso? Adottando un atteggiamento il più prudente possibile è difficile non convenire con le valutazioni dell’autrice del saggio laddove, nelle conclusioni, analizzando la traiettoria dei contenziosi ancora pendenti, evidenzia come si possa «giungere a ipotizzare che coloro i quali giungeranno ad avere un titolo di soggiorno per protezione e dintorni, saranno il 59% (ovvero 6 su 10) anche all’esito delle relative impugnazioni giurisdizionali». Qualunque punto di vista si adotti dunque, anche il più restrittivo possibile, e persino volendo fingere che i ricorsi non esistano, l’affermazione che solo l’otto per cento di coloro che chiedono asilo in Italia ne hanno diritto non è una svista né una lettura riduttiva ma è solo una grossolana e volgare falsità. Perché Meloni lo ha fatto? La motivazione mi appare chiara: cercare, come fece il suo predecessore Salvini, di fingere che i ricorsi non esistano o ignorare i dati della protezione speciale sostenendo che si tratta di un “regalo”, non sarebbe servito a nulla perché se si accettano i dati di realtà ovvero che uno su tre o persino uno su due dei richiedenti asilo che giungono in Italia hanno diritto alla protezione sulla base del diritto internazionale ed europeo al quale l’Italia è vincolata, non si può poi più sostenere pubblicamente che gli stessi possono essere respinti alle frontiere e affondati in mare.
Ne deriverebbe la fine della proposta del blocco navale e di tante altre sciocchezze ad essa in qualche modo collegate, compresa quella degli hotspot in Africa, o quella della legittimità dei respingimenti e delle riammissioni e così avanti. Se la realtà si scontra con il proprio percorso di conquista di potere, dunque semplicemente va negata. La terra è rotonda, anche la Meloni lo sa; ma che diventi piatta se serve!
Potremmo chiudere qui l’analisi su questa pagina di consueta volgarità politica ma chiedo invece al lettore un ulteriore sforzo per riflettere sulla questione di coloro, che sono comunque molti, che, pur chiedendolo, non ottengono alcun diritto alla protezione. Essi vengono inquadrati dalla Meloni – ma anche da una lunga fila di altri politici e di variegati opinionisti – solo come falsi avventurieri, invasori e nemici. Facciamoci però la semplice domanda: chi sono queste persone e perché esse arrivano affrontando ogni sorta di rischio, attraversando i deserti e morendo in mare e nelle rotte via terra in numero così elevato come se fossero in guerra? Perché non sono venuti in modo legale, nello stesso tempo rispettando le regole e mettendo al riparo le loro vite? Sono dunque orde di pazzi criminali?
Le risposte ci sono anche se non le vogliamo vedere perché ci pongono di fronte a una realtà sgradevole: sono persone che vengono per cambiare la loro vita (come hanno fatto milioni di emigranti italiani) e lo fanno ricorrendo a vie estreme e pericolose non per loro folle scelta ma perché quei canali di ingresso regolare che tutti invocano di volere, persino a destra, semplicemente non esistono; non è infatti quasi possibile entrare regolarmente in Italia inseguendo l’obiettivo di quasi tutti i progetti migratori: il lavoro. Non esiste nel nostro ordinamento la possibilità per un cittadino straniero di fare ingresso regolare in Italia per ricerca di lavoro in presenza di precisi requisiti verificabili riferiti alle sue risorse economiche o a sponsorizzazioni di terzi e al possesso di documenti validi. Eppure la migrazione per ricerca lavoro legata all’esistenza di una catena di contatti è il modo consueto in cui avvengono, ovunque, le migrazioni, e spetta al legislatore non certo ignorare od ostacolare questa realtà ma solo regolarla in modo rigoroso per evitare distorsioni e soprattutto per far sì che le migrazioni non siano più organizzate e guidate dalle organizzazioni criminali, oggi veri padroni incontrastati della scena, ma da meccanismi trasparenti e da procedure legali.
Ovviamente tale approccio ha un senso se politicamente si accetta che le migrazioni sono una dimensione ineludibile che caratterizza la fase storica che viviamo e non qualcosa che si può rimuovere, negare o da cui si può fuggire. Improntata da sempre su un approccio iniquo e irrazionale, la normativa italiana ha invece previsto che il (quasi) unico canale di ingresso regolare in Italia per lavoro sia quello costituito da un incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro che dovrebbe avvenire prima dell’ingresso in Italia dello straniero nell’ambito di quote predeterminate attraverso i cosiddetti decreti flussi il cui numero è quasi sempre sottostimato e soggetto a procedure burocratiche estenuanti. Prevedere che il datore di lavoro assuma a distanza e con tempi indefiniti una persona che non ha mai incontrato rappresenta un approccio irrazionale che ha prodotto distorsioni profonde poiché la gran parte degli stranieri da più di vent’anni a questa parte sono stati e sono tuttora costretti a entrare in Italia in modo irregolare, o regolare per i fortunati che non hanno bisogno di visto, ma poi, entrambe le categorie, sono dovuti rimanere a soggiornare illegalmente e lavorare in nero quasi sempre in condizioni di grave sfruttamento.
Ciò perché, oltre a irrazionalmente non prevedere l’ingresso regolare per ricerca lavoro, la normativa vigente (mai modificata dalla sinistra quando pur avrebbe potuto) non prevede la possibilità di regolarizzare ex post la propria condizione di soggiorno in caso di una prospettiva concreta di inserimento sociale e lavorativo. Unica possibile finestra sono state le periodiche regolarizzazioni, o sanatorie che dir si voglia, attraverso le quali sono passate milioni di persone oggetto di altrui giochi: la sanatoria è infatti decisione arbitraria della congiuntura politica di un dato momento mentre la scelta se usarla o ignorarla non è dello straniero che vuole così emergere, bensì è appannaggio del datore di lavoro/padrone che tutto decide e dispone.
Emerge quindi una storia di lungo corso del sistema italiano di gestione delle migrazioni ben diversa e orrenda rispetto alla facile immagine dell’orda degli stranieri pazzi, avventurieri e criminali che invadono l’italico suolo e attentano alla nostra sicurezza, ovvero quella di milioni di persone costrette a scelte drammatiche per arrivare da noi salvo poi vivere qui con diritti dimezzati come lavoratori sfruttati stretti nella morsa della mancanza di permesso di soggiorno e del ricatto del lavoro nero. Dopo tanti anni dall’inizio della storia dell’Italia come paese non più solo di emigrazione ma anche di immigrazione, per gran parte della società italiana – non solo quella che vota a destra – lo straniero è purtroppo ancora una sorta di “non-persona”, utile per tutto, anche per la scalata al potere dei soggetti più spregiudicati, ma che non conta nulla, per riprendere una ancor valida nozione proposta più di vent’anni fa dal grande sociologo Alessandro Dal Lago recentemente scomparso. Gianfranco Schiavone
Il Pd vuole ancora più profughi: "Porti aperti e no ai respingimenti". Dario Martini su Il Tempo il 29 agosto 2022.
«Siamo stati, siamo e saremo sempre contro politiche di respingimenti, apparenti "chiusure dei nostri porti" o, addirittura, non meglio precisati "blocchi navali": vale il sacrosanto principio per cui chi è in pericolo in mare va soccorso e salvato sempre». È scritto nero su bianco a pagina 28 del programma elettorale del Partito democratico. È la politica in materia di immigrazione che Enrico Letta e compagni intendono portare avanti nel caso in cui dovessero uscire vincitori dalle urne il 25 settembre. Quindi, nessuna correzione dell’attuale linea portata avanti dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. I porti delle coste siciliane dovranno continuare a restare rigorosamente aperti. Non è un caso che anche ieri i vertici del Pd siano rimasti in silenzio di fronte al record di migranti sbarcati a Lampedusa, a Pantelleria e nelle altre isole del trapanese.
Il Pd riconosce che il fenomeno vada governato. Ma propone una ricetta opposta a quella di Matteo Salvini («Entra chi ha il permesso di entrare») e di Giorgia Meloni, con la leader di FdI che anche ieri ha ribadito la necessità di un «blocco navale», ritenuto «l’unico modo per fermare l’immigrazione clandestina». Perché «uno Stato serio controlla e difende i propri confini. Serve una missione europea in accordo con le autorità nordafricane - ha aggiunto Meloni - Solo in questo modo sarà possibile mettere fine alle partenze illegali verso l’Italia e alla tragedia delle morti in mare». Il partito di Letta ha idee diametralmente opposte. Per conoscerle bisogna far ricorso ancora al programma elettorale.
Il Pd intende dar vita a un’«Agenzia di Coordinamento delle politiche migratorie». Dovrebbe occuparsi del «monitoraggio» e del «rispetto dei criteri d’accoglienza e dell’efficacia delle politiche d’integrazione». Finora siamo nel campo dei diritti dei profughi. Per quanto riguarda invece gli ingressi in Italia, i dem promettono di «abolire la "Bossi-Fini" e approvare una nuova legge sull’immigrazione, che permetta l’ingresso legale per ragioni di lavoro, anche sulla base delle indicazioni che arrivano dal Terzo settore». La «Bossi-Fini», per inciso, è quella legge che prevede le espulsioni degli irregolari e lega il soggiorno in Italia ad un lavoro effettivo. Il Pd vuole cancellare anche i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) per sostituirli con «piccoli centri diffusi sul territorio». Infine, assicura che promuoverà «un’azione in sede europea che spinga al superamento del Regolamento di Dublino e la costruzione di una vera politica europea su migrazione e accoglienza». Un impegno ribadito all’inizio di ogni legislatura ma sempre rimasto sulla carta vista l’indisponibilità dei partner europei ad ospitare i migranti sbarcati in Italia.
Anche gli alleati del Pd condividono la politica dei porti aperti. Anzi, se vogliamo, sono ancora più accoglienti. Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni nel programma di Verdi e Sinistra italiana scrivono che «non esiste alcuna emergenza migrazione». E, oltre all’abolizione della Bossi-Fini, propongono di cancellare l’aggravante di clandestinità.
Battuto ogni record: 2000 migranti in un giorno, 11 sbarchi in una sola ora. Francesca Galici il 28 Agosto 2022 su Il Giornale.
Frantumato il precedente record di 36 sbarchi in 24 ore a Lampedusa: nelle ultime ore sono stati 50 gli eventi sull'isola. Hotspot in ginocchio
A Lampedusa e in Sicilia è di nuovo emergenza migranti. Dopo una tregua di alcuni giorni la più grande delle Pelagie è nuovamente al collasso. Negli ultimi giorni, gli sbarchi (ingenti) autonomi nel nostro Paese erano concentrati prevalentemente sulle coste calabresi e pugliesi. Era la rotta turca quella maggiormente attiva ma ieri Lampedusa ha battuto ogni record, così come Pantelleria e le isole del trapanese, anche queste sotto assedio. Dalla notte di venerdì a quella appena trascorsa, gli sbarchi a Lampedusa sono stati 50: quasi due ogni ora, con punte di 11 sbarchi in un'ora nell'ultima notte. Una situazione che non può essere sostenuta, che sta mettendo le forze dell'ordine e di soccorso a dura prova. E come se non bastassero gli sbarchi autonomi, sull'isola è stata fatta arrivare anche una ong. Gli arrivi in appena 24 ore superano abbondantemente il migliaio di unità, quasi 2000 se si considerano anche quelli di Marettimo e Pantelleria, oltre che Lampedusa.
Caos a Lampedusa
Durante la notte, prima dell'una, sono stati 200, con 11 diversi barconi, i migranti sbarcati in meno di un'ora a Lampedusa: un vero record. Successivamente, si sono verificati altri sbarchi, che hanno portato il numero di eventi a 50. È stato frantumento ogni record per quel che gli riguarda gli sbarchi si un singolo giorno sull'isola. Prima di ieri, il record era stato 36. Definire al collasso la struttura di cala Imbriacola è riduttivo: al suo interno ci sono oltre 1500 persone, esattamente 1517, quando il numero massimo di ospiti per il quale è stato omologato è di appena 350. Facile intuire quali siano le condizioni all'interno della struttura dove, fino a ieri, erano presenti 340 persone. Fortunatamente, nella mattinata di sabato è stato previsto il trasferimento di 300 persone, che ha in parte alleggerito la pressione all'interno dell'hotspot, dove però la situazione resta gravissima. E come se non fosse già emergenza a causa degli sbarchi autonomi e dei barconi scortati in porto dalle motovedette, è stato autorizzato lo sbarco a Lampedusa anche della nave ong Nadir, che ha attraccato poco dopo mezzanotte al porto commerciale dell'isola con 50 persone a bordo.
Collasso Pantelleria
Sono stati 20 nelle ultime 24 ore gli sbarchi a Pantelleria. Al momento sull'isola ci sono 392 migranti arrivati fino all'isola con i barchini. Alcuni di loro sono stati trovati in mare e portati a riva dalle forze dell'ordine che pattugliano la zona. "La situazione nell'isola al momento è pesante. Abbiamo alcuni moduli abitativi che possono ospitare al massimo cento migranti, ma nell'isola ce ne sono oltre 300", dice il sindaco Vincenzo Campo. Il sindaco ha poi concluso: "Chiedo, visto che si tratta di un'emergenza europea, una maggiore collaborazione con altri sindaci del Trapanese e siciliani per trovare una struttura che possa essere più idonea. Inoltre chiedo che i trasferimenti vengano eseguiti in modo più celere. Siamo in grande difficoltà e serve un intervento immediato". Oggi è previsto il trasferimento di 80 migranti a Trapani ma, se i numeri restano questi, la situazione sull'isola permane di assoluta gravità.
A questi, si aggiungono quelli sbarcati alle Egadi, 5 anche stanotte a Marettimo. Il sindaco di Favignana, Francesco Forgione, fa il conto degli arrivi nelle sue isole: "Un centinaio a Marettimo in questo ultimo mese, mentre una ventina a Favignana e circa una decina a Levanzo. In queste isole la rotta principale è quella di Marettimo. Qui i migranti arrivano e dopo le fasi di identificazione vengono portati a Trapani con le motovedette".
Sbarchi, è record di arrivi. E spuntano numeri choc sui reati sessuali. Francesca Galici il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.
Nelle carceri sovraffollate, il 30% dei detenuti è straniero, su una popolazione censita dell'8% del totale dei residenti nel nostro Paese. Sfondata quota 50mila migranti sbarcati in un anno
Dopo lo stupro di Piacenza, il tema della sicurezza è ancora più sentito. I dati dicono che nelle carceri italiane un detenuto su tre è straniero, ossia 17.246 su un totale 57.286 reclusi. Le nazionalità più rappresentate sono Marocco, Albania, Romania, Tunisia, Nigeria, Gambia, Egitto, Algeria, Senegal e Pakistan, di cui la maggior parte irregolari. Il Viminale tende a sottolineare come un reato su tre nel nostro Paese sia compiuto da persone straniere, al di là della distinzione tra regolari e irregolari ma evidenzia anche che il 39% dei crimini sessuali sono compiuti da cittadini non italiani. Sul computo assoluto si tratta di una minoranza, ma la percezione cambia se si prende in considerazione un altro dato, ossia che in Italia la popolazione straniera non supera l'8% del totale. Fare le proporzioni è semplice: gli stranieri compiono circa 5 volte più reati sessuali degli italiani. E i crimini sono anche in aumento nel nostro Paese.
Stupri, risse, reati "culturali": l'immigrazione criminale che spaventa l'Italia
Ma ad aumentare è anche il numero di sbarchi in Italia. Dal 1 gennaio sono arrivate in Italia più di 52mila persone e nell'ultima settimana sono sbarcati oltre 2400 migranti nel Sud Italia. Ieri in Calabria sono sbarcati 443 migranti su un peschereccio. Nelle ultime ore a Lampedusa sono arrivati oltre 400 migranti, per la maggior parte uomini, che sono stati tutti trasferiti tutti nell'hotspot di cala Imbriacola. Poi ci sono le centinaia di migranti a bordo delle navi delle Ong, alcune delle quali sono già state assegnate ai porti della Sicilia e della Calabria, il tutto andando a sovraccaricare di lavoro gli uomini delle forze dell'ordine e del soccorso.
Stabilire una stretta correlazione tra l'aumento dei reati e l'incremento del numero di sbarchi in Italia non è semplice. Tuttavia, i numeri riportati parlano chiaro. Considerando anche il sovraffollamento delle carceri italiane, appare evidente la necessità di pensare a interventi che possano in qualche modo migliorare questa situazione, sia dal punto di vista della protezione dei confini che della sicurezza interna. "Siamo pronti a gestire dignitosamente il fenomeno dell'immigrazione illegale", ha dichiarato Giorgia Meloni nel corso di un comizio ad Ancona. "Se torno al governo la prima cosa che farò è contrastare il traffico di esseri umani", ha dichiarato Matteo Salvini in diretta tv. "Siamo stati noi i soli, grazie a dei trattati con gli Stati africani nel Mediterraneo ad impedire la partenza dei migranti e ad azzerare gli sbarchi dei clandestini. Questo è avvenuto prima che la sinistra permettesse l'invasione incontrollata", ha detto Silvio Berlusconi nell'ultima pillola di programma.
Lancia sassi contro le auto. Panico in autostrada. Egiziano bloccato col taser. Matteo Basile il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.
Ferma il treno, poi le pietre dallo spartitraffico. Ferita la deputata leghista Gobbato: "Miracolati"
Col senno di poi, è andata bene così. Già perché quanto è successo ieri mattina sull'autostrada A1 nel tratto tra Lodi e Casalpusterlengo poteva davvero trasformarsi in tragedia. Per fortuna il bilancio dell'azione di uno squilibrato è «solo» di qualche ferito non grave e una trentina di auto danneggiate.
L'uomo, egiziano di 22 anni, è stato protagonista di un atto da film d'azione. Prima ha fermato con il freno d'emergenza l'intercity su cui viaggiava. Poi è saltato fuori, verso l'autostrada che costeggia la ferrovia. L'ha attraversata, occupando lo spartitraffico. Da qui ha iniziato a lanciare pietre e oggetti contro le auto che transitavano seminando il panico. Dopo alcuni minuti di grande tensione, la polizia, che ha bloccato il traffico, lo ha fermato soltanto grazie all'utilizzo del taser. L'egiziano, in evidente stato di alterazione, stava minacciando di togliersi la vita utilizzando un taglierino.
Ora si trova in una cella sicurezza della questura di Lodi dove resterà fino al processo per direttissima di questa mattina. Secondo il procuratore della Repubblica Domenico Chiaro, si è trattato di un «gesto di una persona alterata e solo con ulteriori approfondimenti se ne potrà sapere di più». Aveva il permesso di soggiorno scaduto e qualche precedente penale per reati minori. Dovrà rispondere di attentato alla sicurezza dei trasporti, interruzione di pubblico servizio e resistenza a pubblico ufficiale. Paura e anche disagi notevoli al traffico. Quello autostradale è ripreso dopo quasi un'ora con inevitabili problemi e code. Quello ferroviario ha registrato ritardi fino a un'ora. Ma come detto, poteva andare molto, molto peggio.
«Siamo tutti scossi ma fortunatamente, a parte qualche taglio sul viso e la polvere di vetro negli occhi, stiamo tutti bene, poteva andare molto peggio per noi e per tutti gli altri». È il racconto della deputata della Lega Claudia Gobbato, che viaggiava con la famiglia sull'A1 proprio in quel momento e la sua auto è stata colpita da un sasso che ha rotto il parabrezza. Gobbato, seduta dal lato del passeggero, viaggiava con il marito che era alla guida e con i figli, di sei mesi e cinque anni. «Si è spaventato molto, anche perché ha visto del sangue sul mio viso» ha raccontato la deputata che ha riportato ferite superficiali al viso causati dai vetri per cui è stata medicata all'ospedale di Lodi. «Siamo miracolati. Non li lanciava a caso ma prendeva la mira, portava il braccio indietro e, prima di scagliarli, saltava pure, così da provocare un danno maggiore. Cose del genere non devono poter accadere», ha aggiunto la parlamentare. «Io non ho visto la scena perché stavo controllando il telefono ma mio marito e i miei figli hanno visto tutto. Io mi sono accorta di tutto quando ho sentito questa pioggia di vetri. Stavamo partendo per le vacanze, volevamo portare i bambini al mare qualche giorno, ora ci riorganizzeremo per partire. Intanto andremo a firmare la denuncia nei confronti di quell'uomo».
Un fatto comunque molto grave che ha acceso anche l'inevitabile polemica politica, con lo scontro per l'ennesimo episodio di cronaca ma soprattutto gli elogi per il taser. La pistola elettrica in dotazione agli agenti ha permesso infatti di immobilizzare e fermare l'egiziano evitando il peggio dopo il lancio di sassi. Perché, col senno di poi. poteva andare davvero molto, molto peggio.
"Il migrante è un violento? L'accoglienza non va tolta". Lodovica Bulian il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.
La Corte di Giustizia europea dà torto all'Italia "In ogni caso va garantita una vita dignitosa"
Anche se commettono atti di violenza, ai migranti non va revocata l'accoglienza. Anche se sono responsabili di reati, privarli della garanzia di un vitto e alloggio «costituisce sempre una sanzione sproporzionata, perché lesiva della dignità umana». Così la Corte di Giustizia europea sul caso di un senegalese 30enne che nel 2019 era stato espulso dal piano di accoglienza per decisione della prefettura di Firenze. L'uomo aveva aggredito un addetto di Trenitalia in una stazione mentre cercava di salire su un treno senza biglietto. Dopo la denuncia è stato aperto un procedimento penale a carico del senegalese che è tuttora in corso. Ma, come riporta il Tirreno, l'uomo aveva impugnato la decisione della prefettura davanti al Tar della Toscana, che gli aveva dato ragione.
Non era legittima, secondo i giudici amministrativi, la decisione del prefetto di escluderlo dal circuito di accoglienza per quell'aggressione. Contro questa linea l'avvocatura dello Stato a sua volta aveva fatto ricorso al Consiglio di Stato, che ha chiesto un parere alla Corte di Giustizia Ue. Parere arrivato pochi giorni fa e che conferma invece la decisione del Tar: revocare il piano di accoglienza che comprende vitto, alloggio, sussidio per le spese giornaliere e vestiario, a un richiedente asilo anche se questo sia macchiato di atti violenti e gravi, costituisce in ogni caso una lesione della sua dignità. I giudici europei richiamano una direttiva, la 33 del 2013, secondo cui «gli Stati membri dell'Unione assicurano in qualsiasi circostanza l'accesso all'assistenza sanitaria e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti». Per i magistrati la legge italiana, cioè il decreto accoglienza del 2015, «è in contrasto con la normativa europea perché tra le sanzioni per i migranti violenti comprende, appunto, la possibilità di revoca delle condizioni materiali di accoglienza». Il migrante verrebbe privato in questo modo di un «tenore di vita dignitoso».
Il tema immigrazione continua a infiammare la campagna elettorale. È di ieri l'ultimo bollettino di Frontex sui numeri: nei primi sette mesi del 2022 sono stati registrati 155.090 ingressi irregolari nell'Ue, con un aumento dell'86% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Solo a luglio gli Stati membri hanno registrato 34.570 attraversamenti irregolari, il 63% in più rispetto allo stesso mese del 2021. Sulla rotta del Mediterraneo centrale, Frontex conta 42.549 attraversamenti irregolari (il 44% in più rispetto ai primi sette mesi del 2021). E a luglio sono il 60% in più rispetto allo stesso mese del 2021. La pressione sulle coste italiane è confermata dall'Agenzia Ue: «Gli arrivi giornalieri che mettono a dura prova le capacità di accoglienza in Italia: Frontex supporta le autorità italiane con agenti per la registrazione e l'identificazione degli arrivi. Sebbene i tunisini (30%) siano stati la prima nazionalità registrata su questa rotta a luglio, nel complesso gli egiziani hanno superato leggermente i tunisini nel 2022 . Il numero di egiziani individuati su questa rotta è in aumento: partono principalmente dalla Libia e sono aiutati dal contrabbando criminale».
Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 13 agosto 2022.
Un'utilitaria grigio-metallizzata con il parabrezza sfondato, pare quasi che le abbiano sparato addosso. Così come a una berlina bianca. Il fischio dell'allarme di una macchina che suona. Un'ambulanza, un cartello scritto su un foglio di carta recuperato di tutta fretta: «Fuori servizio». Anche lì, il vetro sopra al lunotto anteriore è distrutto. E poi tre feriti (lievi) accompagnati all'ospedale di Lodi, una deputata leghista di 35 anni (Claudia Gobbato) tra di loro e 31 persone visitate per strada.
Casalpusterlengo, nel Lodigiano lombardo, sull'autostrada A1 (quella del Sole che collega Napoli a Milano), venerdì mattina intorno alle 9.30. Paralleli, da queste parti, scorrono i binari dell'Alta Velocità. È un attimo: il Frecciarossa 9300, partito qualche ora prima da Perugia e diretto a Torino sta per imboccare la direttiva per Milano, dove farà sosta. Ma un ragazzo egiziano di 22 anni, all'improvviso, tira il freno di emergenza e blocca il convoglio all'altezza di Borghetto Lodigiano. Silenzio. I passeggeri che si guardano in faccia stupiti: cosa-sta-succedendo?
Succede che lui scende dal treno, allunga una mano e afferra un sasso. Poi un altro, poi un altro ancora. E comincia a scagliarli con violenza contro le auto in transito dall'altra parte del guard-rail. È il panico.
Qualcuno accosta in una piazzola e prende il telefono: chiama la stradale, il 118, tutti quelli che possono intervenire perché, cribbio: «C'è questo pazzo, in piedi sui new jersey, che lancia roba a tutti», spiega concitato un testimone, «anche i cartelli stradali, quello che trova. Io l'ho visto e un secondo dopo mi è esploso il parabrezza».
La circolazione ferroviaria tra Milano e Bologna rallenta, ma i ritardi (fino a 50 minuti) sono il meno. Il più sono gli automobilisti coinvolti. Una donna con delle schegge di vetro, un signore che barcolla fino a raggiungere i paramedici, un ragazzo che chiede un sorso di acqua. Venti veicoli fermi e lui, il 22enne egiziano, che è ancora arrampicato sul ciglio della strada, pantaloni chiari e petto nudo, intento a lanciare la qualunque a chi gli si para davanti. Arrivano le forze dell'ordine.
Due volanti della polizia. Il ragazzo le vede, le punta, minaccia di tagliarsi la gola con un taglierino. È solo grazie al taser che viene fermato, immobilizzato, caricato su una seconda ambulanza (dopo che la prima ha fatto la fine che ha fatto) e scortato via. Prima al pronto soccorso, dove lo sedano e lo dimettono; poi in una cella di sicurezza della questura di Lodi dove resterà fino a questa mattina, quando ci sarà l'udienza per direttissima. È residente in provincia di Milano, ha qualche precedente penale per furti: robetta in confronto a quanto ha appena fatto.
Se la vedrà, infatti, con un fascicolo aperto per attentato alla sicurezza dei trasporti, interruzione di pubblico servizio e resistenza a pubblico ufficiale. Il suo è il «gesto di una persona alterata», si sbilancia il procuratore Domenico Chiaro, affrettandosi ad aggiungere che «solo con ulteriori approfondimenti se ne potrà sapere di più». Non sarà una passeggiata, però non lo è stata nemmeno quella degli automobilisti che sono incappati in lui, in una mattinata di metà agosto, col caldo e l'afa dell'estate.
«Siamo tutti scossi, ma fortunatamente, a parte qualche taglio sul viso e la polvere di vetro negli occhi, stiamo bene». Tra i tre feriti che arrivano in ospedale in codice verde (gli altri due sono un uomo di 65 anni e un ragazzo di 22), c'è Gobbato. Parlamentare del Carroccio, originaria di un paesino dell'hinterland milanese, in viaggio con tutta la famiglia (marito e figli) per concedersi qualche giorno di mare.
«Non ho visto la scena perché stavo controllando il telefono, mi sono accorta solo quando ho sentito questa pioggia di vetro». Il marito, invece, l'ha vista eccome (ha rimediato pure lui qualche ferita al braccio), e anche i bimbi seduti sul sedile posteriore. «Stavamo partendo per le vacanze, intanto andremo a firmare la denuncia. Ringrazio la polizia che è riuscita a bloccare questo delinquente con l'aiuto del taser, che per qualcuno era inutile e invece oggi, probabilmente, grazie a questo strumento, si è salvata qualche vita».
Da liberoquotidiano.it il 13 agosto 2022.
Ha tirato il freno a mano del treno alta velocità Reggio Calabria- Milano, ha iniziato a percorrere la strada che costeggia l'autostrada A1 all'altezza di Borghetto Lodigiano e poi ha iniziato a lanciare sassi contro le auto.
Trenta le auto colpite prima che si riuscisse a bloccare con il taser un 22enne egiziano, residente in provincia di Milano, che stamattina attorno alle 9,30 si è reso protagonista di un'azione che avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche.
Il giovane, in forte stato di alterazione, è stato portato in ambulanza e ricoverato nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Codogno dove resta piantonato dai poliziotti in attesa di essere sentito dall'autorità giudiziaria.
Tra le persone ferite dal suo lancio di oggetti c'è anche la deputata leghista Claudia Gobbato. "Ho una lieve ferita al viso e una scheggia di vetro mi è entrata nell'occhio ma poteva andare molto peggio, mi ritengo fortunata", ha raccontato all'AGI, in attesa di essere visitata al pronto soccorso di Lodi. Tutto è successo intorno alle 9.
"Siamo entrati nell'A1 da Lodi e dopo qualche chilometro io, mio marito e in bambini siamo stati sommersi da una pioggia di vetro", prosegue. "Mio marito ha accostato subito. L'uomo che lanciava le pietre era in mezzo al guardrail in piedi in evidente stato di alterazione. Ci siamo accorti che anche altre auto erano state colpite e anche un'ambulanza che era arrivata lì quando ancora continuava il lancio".
Gobbato riferisce di una "trentina di feriti lievi". Il marito ha riportato una escoriazione al dito provocata sempre dalle schegge di vetro. "L'uomo è stato bloccato col taser e per fortuna che c'è questo strumento", conclude la leghista. "Ha dimostrato tutta la sua utilità in questa occasione a dispetto di chi ne criticava l'introduzione".
I caduti di Marcinelle e quelli di oggi. Enrico Letta su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.
Italiani e belgi erano morti gli uni a fianco agli altri: una fine inaccettabile capace però di indicare anche un nuovo inizio, un destino comune, quello fissato nei Trattati di Roma che segnarono l’atto di nascita del processo di integrazione europea
Caro direttore, «ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione». Non sembri fuori luogo questa riflessione di Cesare Pavese sulla guerra di Resistenza nel giorno in cui ricordiamo la tragedia della miniera di Marcinelle, in Belgio, l’8 agosto di 66 anni fa.
All’indomani, del resto, proprio su queste pagine, Orio Vergani descrisse le 262 vittime, per oltre la metà italiane, come «soldati di uno dei tanti piccoli imperi non segnati sulle carte geografiche della politica: il tetro impero del carbone». Soldati arruolatisi per sopravvivere, quando a emigrare per sopravvivere eravamo noi. Italiani di cui andare orgogliosi, ed è per questo che giustamente il nostro Paese ha istituito per l’8 agosto la «Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo». Un sacrificio — a distanza di tanti anni possiamo dirlo — che non è stato vano, ma che deve continuare a stimolare le coscienze e l’azione politica.
Le catastrofi sono processi di accelerazione della storia che ci lasciano intravedere percorsi già in atto, che facciamo fatica a comprendere nell’immediato, ma sui quali siamo chiamati a spingerci. Su più fronti: economici, sociali, culturali, politici. Marcinelle e il carbone all’epoca rappresentavano la questione energetica per far ripartire l’Europa, e la tragedia, nella mancanza delle misure anche minime di sicurezza, avvenne proprio nel momento in cui le fonti energetiche si diversificavano e il carbone veniva progressivamente sostituito dal petrolio e dall’energia nucleare.
Dopo Marcinelle, il racconto della catastrofe è stato in grado di aprire un varco nella sensibilità delle persone. Italiani e belgi erano morti gli uni a fianco agli altri, senza alcuna distinzione: una fine inaccettabile capace però di indicare anche un nuovo inizio, un destino comune, quello fissato nei Trattati di Roma che l’anno successivo segnarono l’atto di nascita del processo di integrazione europea.
Integrazione resa viva dal contribuito delle italiane e degli italiani che, dal 1946 alla fine degli anni Settanta, in 14 milioni si sono trasferiti per periodi medio-lunghi nei vari Paesi europei. Spostamenti ripresi senza sosta dalla fine degli anni Novanta, con oltre centomila partenze l’anno. Emigrazione ieri, mobilità oggi: la comunità degli italiani globali, un patrimonio immateriale che rappresenta l’indispensabile capitale umano per il rilancio di un Paese che, proprio per onorare davvero di chi fu costretto a partire, deve saper fornire anche buoni motivi per attrarre e per convincere i suoi giovani a rimanere o tornare.
Credo che di questo, dalle viscere di Marcinelle, ci «chiedano ragione» i «caduti» di 66 anni fa. Per tutte queste ragioni sarò personalmente lì domani, nelle celebrazioni dell’anniversario del disastro. Per onorare quelle 262 vittime e anche, simbolicamente, tutti gli altri caduti, in altre viscere, a partire da quelle del Mediterraneo. Soldati, come loro, di una guerra per la sopravvivenza di fronte alla quale l’Europa e l’Italia non possono voltarsi dall’altra parte, se vogliamo che le nostre radici, che affondano anche nella terra di Marcinelle, non inaridiscano. Segretario del Pd
Marcinelle e i migranti, storie diverse. Giorgia Meloni su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.
In base a un protocollo del 1946, il Belgio si era impegnato a rifornirci di carbone in cambio di manovalanza per le miniere
Gentile direttore, ricorre oggi il sessantaseiesimo anniversario della tragedia di Marcinelle, nella quale persero la vita 262 minatori, 136 dei quali italiani. Ieri Enrico Letta ha annunciato da queste colonne la sua partecipazione alla commemorazione istituzionale che si svolge come ogni anno nella cittadina belga. Un gesto che apprezzo, sinceramente, e che a Marcinelle ha portato anche me in anni passati, perché quella tragedia è un tassello della nostra vicenda nazionale e di una necessaria memoria storica condivisa. È con questo spirito che nel 2001 un uomo orgogliosamente di destra come l’indimenticato Mirko Tremaglia, allora Ministro per gli Italiani nel mondo, propose di fare dell’8 agosto la Giornata del sacrifico del lavoro italiano nel mondo.
Da 21 anni quindi, nel commemorare i nostri connazionali caduti nel Bois du Cazier, ricordiamo i tanti altri italiani morti sul lavoro in ogni continente, simboli di un’emigrazione che ha visto milioni di figli d’Italia non soltanto cercare fortuna lontano da casa, ma contribuire, da italiani, al progresso economico, sociale e culturale delle nazioni che li hanno accolti. Anche quando questo non avveniva in condizioni ottimali, come fu per i nostri minatori in Vallonia.
L’Italia post-bellica aveva siglato nel 1946 un protocollo con il Belgio, che si impegnava a rifornirci di carbone in cambio di manovalanza per le loro miniere. I proprietari si impegnavano a garantire salari e condizioni di lavoro dignitose, ma una volta arrivati sul posto tanti dei nostri connazionali si ritrovarono a dormire nelle baracche destinate fino a qualche mese prima ai prigionieri di guerra tedeschi e a lavorare in condizioni ai limiti dell’umana sopportazione.
Ora, non credo sia difficile notare come il quadro fosse radicalmente diverso da quello dell’attuale situazione dell’immigrazione verso l’Italia. Qui e oggi, accanto all’immigrazione regolare, fatta di milioni di stranieri che si sono integrati positivamente nella nostra società e che meritano il nostro apprezzamento, da anni conosciamo ingenti flussi di immigrati irregolari che i governi di sinistra (o ai quali la sinistra ha partecipato) non hanno mai saputo né voluto arginare, alimentando così un traffico inumano e un business inaccettabile, sostenuto da certe Ong ideologizzate e ben remunerati professionisti dell’accoglienza. Una parte consistente di questi irregolari diventa manodopera per la criminalità organizzata, altri, certo, per caporali e pseudo-imprenditori senza scrupoli, che li utilizzano per rivedere al ribasso le condizioni sociali e salariali dei lavoratori italiani. Soltanto una minima parte è invece costituita da aventi diritto allo status di rifugiato, che naturalmente meritano la tutela prevista dalle Convenzioni internazionali. Di fronte a questo dramma quotidiano, è doveroso ristabilire il principio elementare che in Italia si può accedere e permanere soltanto rispettando le nostre leggi.
Ma la cosa più distante con la tragedia degli italiani che emigravano per lavorare nelle miniere belghe, è che molti degli immigrati irregolari di oggi, per lo più giovani maschi in età da lavoro, considerano l’accoglienza stessa come un diritto inalienabile da cui far discendere presunti diritti molto più materiali, che costano alle casse dello Stato italiano, per ogni straniero accolto, più di quanto ricevano di pensione molti nostri anziani.
Questa è la ragione per la quale ritengo che utilizzare la tragica ricorrenza di Marcinelle per comparazioni forzate e strumentali non sia un modo corretto né di ricordare gli italiani di ieri, né di affrontare il tema degli stranieri di oggi.
Di fronte alla tragedia di Marcinelle e di tutti gli italiani che oggi ricordiamo, caduti sul lavoro lontano dalla patria, chiniamo il capo rispettosamente impegnandoci a preservarne la memoria da una certa, interessata, retorica di parte. Presidente di Fratelli d’Italia
Le Ong esultano per una sentenza della Corte Ue (senza leggerla). Secondo i talebani del mare la decisione vieta ispezioni e controlli. In realtà non è così. Ma adesso per le navi trattenute bisogna fare i conti con le minacce di denunce e indennizzi. Fausto Biloslavo il 2 Agosto 2022 su Il giornale.
Le Ong del mare cantano vittoria per una sentenza della Corte di giustizia europea, che secondo loro affosserebbe le ispezioni ed i fermi della Guardia costiera. In realtà leggendo con attenzione le 36 pagine i giudici Ue sanciscono dei punti fissi, primo fra tutti che le ispezioni sono legittime e le Capitanerie possono intervenire, come fanno con tutte le navi, se riscontrano gravi deficienze di sicurezza e ambientali. L'intero impianto, però, pende dalla parte dei talebani dell'accoglienza. L'aspetto più grave è che la sentenza stabilisce, di fatto, che non sono necessarie per le navi delle Ong le certificazioni al soccorso. Uno dei nodi cruciali relativo alla stato di bandiera e alla classificazioni delle unità, spesso di trasporto o commerciali.
L'intricata vicenda ha origine nell'estate del 2020, quando Sea watch 3 e Sea watch 4, le navi dei talebani dell'accoglienza tedeschi, vengono ispezionate e fermate a Palermo e Porto Empedocle non solo per la mancata abilitazione al soccorso in mare, ma per una lunga lista di carenze in tema di sicurezza e ambientale. Gli avvocati della Ong oltranzista si sono rivolti al tribunale regionale ed il Tar ha chiesto chiarimenti alla Corte europea.
La sentenza di ieri avalla il recupero e sbarco senza regole dei migranti in nome del supremo dovere umanitario. Non solo: «Le persone che si trovano a bordo di una nave per causa di forza maggiore - si legge - o in conseguenza dell'obbligo imposto al comandante di trasportare naufraghi, o altre persone, non devono essere computate» per quanto riguarda la sicurezza anche se risultano in numero ben più elevato di quello autorizzato. In pratica i talebani dell'accoglienza possono imbarcare quanti migranti vogliono e ovviamente portarli in Italia.
Almeno la Corte sancisce che lo Stato di approdo, «può sottoporre a un'ispezione supplementare le navi che esercitano un'attività sistematica di ricerca e soccorso e che si trovano in uno dei suoi porti o in acque soggette alla sua giurisdizione». Però devono prima completare «tutte le operazioni di trasbordo o di sbarco delle persone alle quali i rispettivi comandanti hanno deciso di prestare soccorso». E le ispezioni sono sottoposte a delle Forche Caudine ovvero possono avvenire solo «in base di elementi giuridici e fattuali circostanziati, che esistevano indizi seri tali da dimostrare un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l'ambiente». Le Capitanerie già lo fanno ma la decisione dei giudici comunitari renderà ancora più arduo e delicato un fermo amministrativo.
Purtroppo l'Italia «non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione». In pratica anche se la nave è nata per fare altro, come un rimorchiatore d'alto mare, può recuperare i migranti e portarli a casa nostra.
Le Ong suonano la carica di facciata. In realtà puntavano a bollare come illegittime le ispezioni. «Per mesi - ricordano i talebani dell'accoglienza tedeschi - Sea Watch 3 e Sea Watch 4 sono state trattenute per controlli dello Stato di approdo con motivazioni assurde: certificazioni mancanti e troppe persone soccorse. Nella sentenza, la Corte di Giustizia Ue ha dichiarato che il salvataggio in mare è un dovere e i controlli dello Stato di approdo non devono essere usati in modo arbitrario per trattenere le navi e impedire loro di svolgere il proprio lavoro». Fulvio Vassallo Paleologo, esperto dei diritti umani all'Università di Palermo, è convinto che «andranno risarciti tutti i danni per l'ingiustificato fermo amministrativo, protratto anche per mesi, ai danni delle navi delle Ong».
"Operazione quasi clandestina". De Luca scopre il caos migranti. A Vincenzo De Luca non va giù l'approdo della nave ong: recrimina il mancato avviso e il mancato rispetto della quarantena a bordo a causa del focolaio Covid. Francesca Galici il 2 Agosto 2022 su Il giornale.
L'approdo della nave Ocean Viking a Salerno continua a essere fonte di polemiche. E di sassolini dalle scarpe da togliersi, Vincenzo De Luca sembra averne parecchi. Già nel comunicato di ieri, il governatore della Regione Campania non aveva nascosto la sua irritazione nel sottolineare che la nave della ong battente bandiera norvegese era "attraccata nel porto di Salerno senza nessuna comunicazione preventiva".
Su questo punto, il prefetto della città campana si è trincerato dietro un secco "non ho nulla da dire" durante la conferenza stampa con la quale è stata annunciata la fine delle operazioni di sbarco della nave, nonostante la richiesta di interruzione da parte del governatore per un focolaio Covid a bordo. E proprio su questo punto, a 24 ore di distanza, è tornato a parlare proprio Vincenzo De Luca, contrariato da quanto accaduto nella sua città d'origine. "La vicenda di Salerno è stata sgradevole, perché nessuno ha ritenuto di avvertire le istituzioni territoriali dell'arrivo di questa nave, è stata fatta un'operazione quasi clandestina, questo è intollerabile", ha ribattutto governatore, ribadendo quanto già dichiarato con la prima nota.
"Comiche finali". A Salerno i migranti liberi di ignorare ogni stop
"Credo che non sia accettabile nessuno sbarco né nel porto di Salerno né di Napoli, chiariamolo bene da subito. Mi dicono che non ci sono in previsione altri sbarchi, ma chiariamo che non li accetteremo", ha tuonato il presidente della Regione Campania. Lo sbarco della ong con circa 400 migranti a Salerno è stato anomalo per le dinamiche di assegnazione del pos ma, visto che le strutture di accoglienza di Sicilia e Calabria sono al collasso per l'ondata di sbarchi a Lampedusa, dal momento che le ong pretendono il porto in Italia, il Viminale ha deciso di usare Salerno che, però, non è attrezzata per questo genere di attività. A preoccupare Vincenzo De Luca è stato soprattutto il focolaio Covid a bordo della nave, dove sono stati conclamati 50 casi di positività. Il suo appello di blocco degli sbarchi è caduto nel vuoto perché, a detta del prefetto, quando è stata diramata la nota del governatore tutti i maggiorenni erano già stati sbarcati.
"Il Comune di Salerno si è fatto carico di bambini non accompagnati, questo lo abbiamo garantito anche se avevamo dei bambini contagiati. Non ho capito bene dove sono andati gli altri, anche positivi, perché è del tutto evidente che 50-60 positivi su una nave, che stanno assembrati per giornate intere, rappresentano un focolaio", ha sottolineato il governatore, che ha anche mosso un monito a chi si è occupato dello sbarco: "Voglio sperare che tutti quelli che sono stati ricollocati nei vari centri abbiano ricevuto i controlli sanitari necessari per essere tranquilli".
E pur rimarcando la linea del suo partito, il Pd, e sottolineando che "accogliere i migranti è un dovere di solidarietà", Vincenzo De Luca ha posto un punto fermo e determinato: "Dei doveri di solidarietà non fa parte l'obbligo di accettare i contagi. Questo non può essere chiesto da nessuno".
"Comiche finali". A Salerno i migranti liberi di ignorare ogni stop. È caos a Salerno per l'arrivo della nave ong con 50 migranti positivi al Covid: la richiesta di stop dello sbarco di De Luca cade nel vuoto. Il prefetto in conferenza spiega perché. Francesca Galici il 2 Agosto 2022 su Il giornale.
La decisione del Viminale di mandare a Salerno la nave Ocean Viking con quasi 400 migranti sta creando diversi fronti di polemica. Oltre al fatto di aver scelto il porto campano come pos per una nave che opera nel Mediterraneo centrale, vista la distanza dalla presunta area di salvataggio, ora è caos per il cortocircuito che si è creato ieri, quando sono stati individuati diversi casi Covid a bordo della nave. A fronte della richiesta del governatore della Campania, Vicenzo De Luca, di interrompere gli sbarchi per effettuare la quarantena a bordo, le operazioni sono proseguite regolarmente.
"Anche De Luca è razzista, ha bloccato la ong". Salvini punge il Pd
Al termine dello sbarco, sono stati complessivamente 50 i migranti risultati positivi al coronavirus: un vero focolaio che si è sviluppato all'interno della nave che ha destato preoccupazioni sia nel governatore che nel sindaco di Salerno che, infatti, si è accodato al presidente della regione Campania per chiedere il blocco dello sbarco. Eppure, tutti i migranti sono stati fatti scendere dalla nave. "Si ritiene indispensabile - con la sola eccezione dei minori non accompagnati - il blocco degli sbarchi e lo stato di quarantena a bordo per tutti gli occupanti della nave in attesa della verifica puntuale della situazione sanitaria da parte delle competenti autorità della sanità marittima", si legge nella nota diramata ieri da Vincenzo De Luca, che non ha avuto nessun seguito.
"Covid tra i migranti". De Luca blocca lo sbarco, loro scendono lo stesso
Molte le polemiche sulla decisione di non seguire le indicazioni di De Luca, alle quali ha risposto direttamente il prefetto di Salerno, Francesco Russo, responsabile delle operazioni: "Per ragioni organizzative abbiamo fatto scendere prima i maggiorenni per avviarli più rapidamente. Quando è giunta la dichiarazione del governatore, quindi, i maggiorenni erano già scesi". Il prefetto ha comunque assicurato che tutte le persone positive sono state isolate. Resta il fatto che l'indicazione di Vincenzo De Luca è caduta nel vuoto. "Siamo alle comiche finali", commenta il questore della Camera e deputato campano di Fratelli d'Italia, Edmondo Cirielli. L'onorevole di FdI, in merito alla conferenza in cui è stato comunicato il termine dello sbarco, ha dichiarato: "Un'indegna farsa che bene spiega il completo asservimento delle istituzioni italiane al superpotere delle Ong - costantemente sostenute dal Pd, partito del presidente della Regione Campania - che ogni giorno trasportano nei nostri porti centinaia di migranti senza titolo. E ora De Luca cosa dice?".
A luglio più sbarchi che in tutto il 2019". E le ong ora arrivano pure a Salerno. Oltre 13mila arrivi nel solo mese di giugno contro i complessivi 11mila di tutto il 2019: sono i numeri dell'emergenza migranti in Italia negata dalla sinistra. Francesca Galici l'1 Agosto 2022 su Il giornale.
Da ormai diverse settimane, le coste italiane sopportano una pressione enorme a causa dell'elevato flusso di migranti che preme contro i confini delle nostre acque territoriali. Negli ultimi giorni si stanno abbattendo tutti i record finora registrati e nonostante l'impiego di traghetti e navi militari, risulta impossibile liberare l'hotspot perché il flusso in ingresso è costantemente maggiore rispetto a quello in uscita. Il risultato è che nella struttura di Lampedusa, a fronte di 350 posti disponibili, continuano a essere presenti quasi 1700 migranti. Durante la notte le condizioni del mare non hanno permesso lo sbarco di ulteriori persone e ora è corsa contro il tempo per liberare l'hotspot: oggi altri 600 partiranno con la nave Diciotti.
E quelli di Lampedusa non sono gli unici sbarchi, perché eventi si verificano anche in altri porti della Sicilia, in Calabria e in Sardegna. E a dimostrazione del fatto che le coste sono al collasso, non trovando più disponibilità in nessuno dei soliti punti di approdo, il Viminale ha autorizzato lo sbarco di una ong con circa 400 migranti in Campania, a Salerno. "Nel luglio di quest'anno abbiamo superato gli sbarchi registrati in tutto il 2019. Non vediamo l'ora di tornare al governo per occuparci di lavoro, sicurezza, difesa dell'Italia. Alla faccia di una sinistra arrabbiata, che insulta e cavalca fake news", ha dichiarato Matteo Salvini durante il suo intervento alla festa della Lega Romagna a Cervia, nel ravennate. Poche ore prima, il leader della Lega aveva postato qualcosa di simile sui suoi profili social, aggiungendo: "Serve un ministro pronto a difendere i confini, lo si deve per rispetto degli italiani in difficoltà". A luglio nel nostro Paese ci sono stati oltre 13mila sbarchi contro gli 11 registrati in tutto l'anno nel 2019.
Oltre ai soliti sbarchi di Lampedusa, che anche ieri sono stati ingenti, 113 migranti sono stati fatti sbarcare a Portopalo di Capo Passero, in provincia di Siracusa, da una nave mercantile battente bandiera maltese. La nave cisterna navigava in direzione di Bengasi, in Libia, quando ha incrociato la carretta del mare con a bordo i migranti a circa 240 miglia nautiche da Portopalo e a circa 140 miglia da Bengasi. A quel punto ha invertito la rotta e ha puntato sull'Italia, fermandosi al largo del porto siracusano dove, con l'ausilio di una motovedetta, sono stati sbarcati. E sono già cinque, tra ieri e oggi, gli sbarchi di migranti nel siracusano. In circa 200 sono approdati a bordo di imbarcazioni di fortuna a Portopalo di Capo Passero, sulla punta estrema della Sicilia orientale. L'emergenza, però, non è affatto finita, in quanto le forze dell'ordine sono in attesa dell'arrivo, previsto nelle prossime ore, di altri barconi con migranti. La squadra mobile di Siracusa, insieme ai militari della sezione navale della guardia di finanza, ha fermato tre cittadini turchi di 23, 33 e 19 anni accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. I provvedimenti sono stati emessi dopo lo sbarco di 74 migranti di nazionalità iraniana ed irachena arrivati nelle acque italiane a bordo di una barca a vela battente bandiera statunitense intercettata al largo di punta Milocca.
A destare qualche perplessità è la decisione del Viminale di aprire il porto di Salerno, nel cuore del mar Tirreno, alla ong Ocean Viking con quasi 400 migranti. "Ogni vita è sacra e ogni sforzo deve essere messo in campo per salvare bambini, donne e uomini in difficoltà, restiamo però fortemente critici sul comportamento del Viminale che dà il via libera allo sbarco a Salerno di 387 clandestini a bordo della nave Ocean Viking. Salerno dista numerose miglia nautiche dal luogo del presunto naufragio e non si capisce in base a quale logica il porto più sicuro sia quello salernitano", si chiedono i consiglieri regionali della Lega Gianpiero Zinzi, Severino Nappi e Attilio Pierro.
I tre esponenti del partito di Salvini hanno aggiunto: "Non possiamo tollerare che la Campania diventi una seconda Lampedusa, non deve e non può essere un Hub per smistamenti indisturbati del Viminale. Con il solito silenzio, il sindaco Napoli e lo stesso Vincenzo De Luca, sono complici di una sinistra troppo impegnata a lavorare su nuove tasse, nuove ammucchiate elettorali, nuovi dossier farlocchi".
"Il peggiore dal 2015". La verità di Frontex sui numeri dei migranti. Francesca Galici su Il Giornale il 27 Luglio 2022.
Circa 3000 migranti sono stati individuati da Frontex solo nell'ultimo weekend ma c'è ancora chi nega che la situazione sia emergenziale.
Chi nega l'emergenza migranti delle ultime ore probabilmente non ha fatto bene i conti sugli sbarchi o, forse, non li ha fatti per niente. O, forse, è in mala fede. A stilare un report sugli arrivi è stato Frontex, i cui aerei, viene sottolineato, hanno rilevato circa 3mila migranti in pericolo in molteplici eventi, che hanno coinvolto piccoli gommoni e grandi pescherecci. Le motovedette e le navi militari hanno fatto la spola tra la costa e la zona Sar italiana per sbarcare nei porti i migranti recuperati dai barconi. In un solo evento, la macchina del soccorso italiano ha salvato quasi 700 migranti. Non si contano, poi, gli sbarchi autonomi su Lampedusa e gli altri che si sono verificati in Calabria e nelle altre zone della Sicilia, tanto che l'ultimo weekend, stando ai dati Frontex, è stato "uno dei più affollati dal 2015". Frontex, nel suo comunicato, spiega: "Abbiamo immediatamente informato tutti i centri di coordinamento dei soccorsi della zona e i passeggeri sono stati soccorsi da motovedette italiane e navi civili".
"Impossibile controllare i migranti". Ma le Ong: "Accoglienza dovuta"
E non è difficile crederlo, visto il tracollo di Lampedusa, che per la seconda volta in poche settimane si trova a gestire oltre 2mila migranti nel suo hotspot a fronte di un massimo di 350 posti disponibili. I trasferimenti non reggono il ritmo degli sbarchi a Lampedusa e seppure si cerchi di alleggerire l'hotspot, i nuovi arrivi continuano senza soluzione di continuità mentre quasi 1.200 i migranti a bordo di tre navi ong chiedono un porto sicuro all'Italia. Il cruscotto ufficiale del ministero dell'Interno, aggiornato a questa mattina in relazione agli sbarchi, indica che dal 1 gennaio sono arrivati nel nostro Paese 37.940 migranti a fronte dei 27.474 di un anno fa. Un aumento di oltre 10mila unità che è indicativo della situazione di disagio vissuta dalle coste meridionali del nostro Paese.
"A Lampedusa la situazione è letteralmente insostenibile, come era presumibile considerata la stagione estiva, e come continuiamo a denunciare da anni, inascoltati. La politica compie scelte a cui però non fa conseguire atti concreti necessari per sostenerle. Ne fanno le spese gli operatori delle Forze dell'ordine che lavorano per tentare di mantenere in equilibrio situazioni precarie, drammatiche, esplosive. Lo avremmo voluto dire al ministro nell'incontro di oggi che, però, è saltato", afferma Valter Mazzetti, Segretario Generale Fsp Polizia di Stato.
"Impossibile controllare i migranti". Ma le Ong alzano la voce: "Accoglienza dovuta". Le coste italiane sono in ginocchio per il flusso ininterrotto di migranti che sembra non arrestarsi: a Lampedusa è impossibile vuotare l'hotspot. Intanto le ong pretendono i porti in Italia. Francesca Galici su Il Giornale il 27 Luglio 2022.
Se Lampedusa non è al collasso, come può definirsi? Nonostante i trasferimenti tengano impegnate le navi militari come la Diciotti e la Foscari, utilizzate come taxi-boat da Lampedusa alla Sicilia, è impossibile alleggerire il carico sull'hotspot dell'isola: gli arrivi si susseguono a un ritmo superiore rispetto a quello delle partenze e le forze dell'ordine sono allo stremo. Nella giornata di ieri, 600 migranti sono stati fatti salire sulla nave Diciotti della guardia costiera con destinazione Porto Empedocle, 150 sono stati imbarcati sul traghetto di linea Sansovino e altrettanti sulla nave militare Foscari. Nel frattempo, però, a Lampedusa sono sbarcati 700 stranieri in un flusso ininterrotto di eventi che sta prosciugando le risorse dell'isola e le energie delle forze dell'ordine impiegate, che cercano di gestire una situazione esplosiva. Il tutto mentre dalle ong si continuano a pretendere i porti nel nostro Paese per sbarcare altre centinaia di migranti.
Il caos di Lampedusa
Il bilancio della giornata di ieri è, purtroppo, simile a quello dei giorni precedenti. A Lampedusa nella sola giornata di ieri sono sbarcati diciotto barconi con 622 migranti in 20 ore. Il risultato? Hotspot di nuovo in ginocchio. Impossibile non definire emergenza questo stato delle cose. Nella giornata di ieri, gli sbarchi si sono susseguiti fino a dopo mezzanotte e sono ripresi questa mattina alle prime luci dell'alba, quando sull'isola sono arrivati altri due barconi con a bordo 70 persone, sedicenti siriani, egiziani e sudanesi. Un gruppo di 43 si trovava già per la strada quando sono è stato intercettato dalle forze dell'ordine e ora nell'hotspot ci sono nuovamente stipate 1982 persone, a fronte di soli 350 posti. La situazione all'interno è invivibile, il caldo di questi giorni non è un alleato e le tensioni tra i migranti sono alle stelle, tenute sotto controllo dalle forze dell'ordine chiamate a un lavoro extra.
"Difficile svolgere l'attività di controllo nell'hotspot pieno"
"Il vero problema è che quando c'è il mare calmo, e non ci sono intese di governo affinché l'immigrazione non sia così copiosa come in questo momento, ci sarà il problema dell'hotspot che è pieno, il problema che è difficile svolgere l'attività di controllo di ogni singolo immigrato, sia di natura giuridica che sanitaria, perché tutto diventa più complesso", ha dichiarato a ilGiornale.it Antonino Alletto, segretario nazionale del sindacato Mp. Come sottolinea il sindacalista, "non penso che chi ci governa, dal ministro dell'Interno e via via a scendere, non sappia che il problema è questo". Il flusso di migranti in arrivo a Lampedusa è enorme e in queste ore di prevede l'arrivo di altri 7/8 sbarchi: "Cosa devono fare le forze dell'ordine? Cosa può fare il centro di accoglienza? Lo chiedo a chi di competenza. Noi non possiamo fare altro che cercare sempre e in prima fila di affrontare la tematica, con funzionari, agenti di polizia e associazioni".
Ma i problemi a Lampedusa sono soprattutto centrali e chi sta sull'isola non può fare di più: "È scaduto il contratto con i mediatori e noi dobbiamo utilizzare quelli dei centri. Questi hanno turni diversi dai nostri, questo rallenta le operazioni e di conseguenza il flusso di uscita dall'isola". Questo porta al collasso dell'hotspot, dove i disagi sono ben comprensibili in un luogo in cui a fronte di 350 posti vengono ospitate 2000 persone: "O ci attrezziamo diversamente, quindi i nostri uomini di governo che hanno intelletto da vendere ci diranno cosa deve fare l'organo esecutivo... Perché sembra sia diventato un problema di polizia, ma non lo è. È un problema di accordi governativi nella gestione di un fenomeno che da 30 anni si ripete".
Come giustamente sottolinea Antonino Alletto, "la tematica dell'immigrazione va affrontata a monte: nel momento in cui l'abbiamo in casa va gestito, non con leggi emergenti ma con mezzi urgenti. Faccio un esempio: le navi che riescono a smistare immediatamente, che si sappiano però quali siano i porti, perché è impensabile anche il fatto di fruire di una piccola cittadina come Porto Empedocle che dista 11 ore da Lampedusa in nave, 4 in aliscafo e un'ora da Palermo e Catania". Lampedusa è un'isoletta di facile approdo, "che se ne rendessero conto". Alletto, che conosce bene Lampedusa, spiega che "occorre intervenire o dai Paesi dove vengono o qua con uno smistamento veloce, che non eluda i controlli sia sanitari che giuridici. Perché altrimenti i risultati sono negativi".
Il flusso continuo di sbarchi rende complicato il lavoro delle forze dell'ordine sull'isola, anche perché "se nel meccanismo si interrompe una parte dell'anello si interrompe tutto e si rallenta. Gli uomini che operano in questo momento stanno facendo un surplus di lavoro ma se mancano i mediatori devono fermarsi, perché non risolvono questo problema? Perché non hanno fatto i contratti? È un problema politico". Da Antonino Alletto è arrivato un encomio ai suoi colleghi, "che da trent'anni svolgono questa attività con serietà e con amore verso il prossimo, perché non è facile gestire bambini, donne in gravidanza, uomini con handicap, perché sono esseri umani e qualcuno lo dimentica. Vanno trattati, nei limiti del possibile di una situazione di questo genere, nel migliore dei modi".
Intanto la procura di Agrigento ha aperto un'inchiesta sulla gestione dell'hotspot: un modello 45, ossia un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato.
"Stiamo per arenarci"
Dalla segreteria provinciale Italia Celere di Trapani lanciano l'allarme per quello che potrà succedere nei prossimi giorni: "Per stasera, con arrivo domani, è previsto un trasferimento di circa 40/50 stranieri da Pantelleria a Trapani, inoltre (come se l'ufficio immigrazione di Trapani non avesse già i suoi problemi) ci sarà un trasferimento da Lampedusa a Mazara del Vallo di circa 200 stranieri. Verrano poi trasferiti su gomma al Cpr di Trapani per la trattazione amministrativa". Dal sindacato spiegano che, ormai, "si naviga a vista senza rendersi conto che stiamo per arenarci, si pensa che le attività legate agli sbarchi si esauriscano con la fine del servizio di ordine pubblico, senza minimamente considerare tutta l'attività conseguente che si sta pericolosamente accumulando creando arretrato".
Traghetto in affitto per liberare l'isola
Il sindaco Filippo Mannino, a margine di un incontro con il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, ha annunciato che "il Viminale ha noleggiato un traghetto, il Pietro Novelli, che farà la spola, tre volte a settimana, per trasferire i migranti ospiti dell'hotspot" per i mesi di agosto e settembre, e dovrebbe imbarcare, per ogni viaggio, circa 500 persone. Il traghetto è già ormeggiato nel porto dell'isola.
Le ong alzano la voce
Come se la situazione in Italia non fosse abbastanza complessa per il flusso continuo di migranti con sbarchi autonomi, le ong pretendono di sbarcare nel nostro Paese anche i migranti che trasportano sulle loro navi. Sono oltre 1000, al momento, quelli sulle navi delle ong che premono sui confini italiani. "Quanto devono aspettare per scendere a terra e ricevere l'assistenza dovuta?", chiede Sea Watch 4, che ha a bordo 425 stranieri. Ovviamente, la pretesa è nei confronti dell'Italia, visto che si è già posizionata a circa 3 miglia dal confine italiano nei pressi di Pozzallo. Geo Barents si trova al largo delle coste libiche con 364 stranieri mentre Ocean Viking, con altri 387 migranti, al momento si trova tra Lampedusa e Malta. Sono oltre 1100 i migranti che, con ogni probabilità, verranno sbarcati nel nostro Paese dalle tre navi delle ong nei prossimi giorni.
Sbarchi, degrado e violenze: tutte le colpe della sinistra. L'ostilità della sinistra a considerare l'immigrazione clandestina un problema e la sicurezza una priorità genera problemi endemici da risolvere. Ma a Letta interessa solo lo ius scholae. Andrea Indini il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.
Oltre al sangue che gronda dal volto e si raccoglie in una pozza rossa vivida sul bianco piazzale antistante alla stazione centrale, quello che più fa impressione quando scorrono le immagini del brutale pestaggio di venerdì scorso a Milano sono i tonfi sordi prodotti dai calci del nordafricano contro il volto inerme del ragazzo a terra. Il video dura poco più di un minuto. Non ci sono il prima, la presumibile lite che ha dato il via alla furia, e il dopo, l'intervento delle forze dell'ordine e dei sanitari. È violenza. Violenza allo stato puro. E racconta il degrado e l'abbandono in cui la stazione, il quartiere che le cresce attorno e l'intera città sono stati lasciati dal sindaco Beppe Sala e dalla sua amministrazione. Non ci sono video a raccontare quello che è successo nelle ultime quarantotto ore, a circa mille chilometri di distanza, sulle coste del Sud Italia. Non ci sono ma non fatichiamo a immaginare che le condizioni dei 1.600 immigrati stipati nell'hotspot di Lampedusa, che ne dovrebbe accogliere solo 350, non siano tanto diverse da quelle raccontate dalle immagini che abbiamo pubblicato giorni fa: materassi buttati ovunque, corpi ammassati, condizioni igieniche precarie, degrado.
C'è un fil rouge che lega le violenze di Milano all'ennesimo fine settimana di sbarchi. Anche se i buonisti non lo ammetteranno mai e a scriverlo ci tireremo addosso gli strali degli ultrà dell'accoglienza, il secondo è conseguenza del primo ed entrambi sono figli dello stesso problema: l'ostilità della sinistra a considerare l'immigrazione clandestina un problema e la sicurezza una priorità. E dire che, almeno per quanto riguarda gli sbarchi, quando Marco Minniti (e non certo un pasdaran della Lega o di Fratelli d'Italia) sedeva al Viminale, aveva tracciato una linea per rimediare agli errori del predecessore (Angelino Alfano). Linea che gli aveva tirato addosso gli strali delle organizzazioni non governative e degli stessi compagni di partito, il Pd. Così, dopo la parentesi degli sbarchi zero di Matteo Salvini (in un anno appena 15mila ingressi), si è tornati all'andazzo di sempre. E l'ultima settimana è lì a testimoniarlo: oltre 2mila arrivi nel giro di quarantotto ore, più della metà sulla sola isola di Lampedusa, e centri di accoglienza al collasso.
Il 22 luglio, prima cioè dell'ultimo fine settimana, il Viminale aveva contato più di 34mila ingressi irregolari. Già molti di più rispetto ai 25.552 del 2021 e oltre il triplo rispetto al 2020. Numeri che ci portano a dire, senza paura di essere smentiti dai buonisti del Pd, che la gestione di Luciana Lamorgese è stata un disastro. Da quando si è insediata al Viminale non solo ha subito riaperto i porti che Salvini aveva chiuso ma ha anche chiuso gli occhi quando le Ong hanno ripreso a fare avanti e indietro dalle coste del Nord Africa al Sud Italia. Allo stesso modo, da quando guida il Comune di Milano, Sala si è completamente disinteressato del dossier sicurezza. E, nel giro di un quinquennio, l'emergenza è esplosa. Il pestaggio in stazione Centrale non è certo un caso isolato. Lì violenze, molestie e rapine sono all'ordine del giorno. E anche il resto della città non se la passa meglio. Nei giorni scorsi il prefetto Renato Saccone ha spiegato che "c’è una recrudescenza significativa dei reati negli spazi pubblici". Quelli che non sono più presidiati dalle forze dell'ordine.
La riapertura dei porti ha svelato in men che non si dica l'impossibilità a gestire il sempre più elevato numero di disperati che chiedono accoglienza al nostro Paese. La maggior parte di loro non ha il diritto a restare. Gli altri non vengono assorbiti dal sistema. Nasce così una schiera di fantasmi che vive di espedienti e che da un momento all'altro rischia di esplodere. E, se il territorio non è presidiato, la situazione non può che peggiorare. Le scene di degrado quotidiano ne sono la dimostrazione. Segno che l'emergenza è diventata endemica e andrebbe risolta al più presto. Non per il Pd, però, che col suo alfiere Enrico Letta continua a essere interessato solo allo ius scholae.
Così la Lamorgese ha ignorato l'allarme. Fausto Biloslavo il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.
L'ondata di migranti via mare, passata in secondo piano con la guerra in Ucraina, riemerge con sbarchi a ripetizione
L'ondata di migranti via mare, passata in secondo piano con la guerra in Ucraina, riemerge con sbarchi a ripetizione. Il far finta di niente, fino ad ora, del governo, della politica e soprattutto del Viminale ci ha portato a numeri d'altri tempi. Fino al 22 luglio sono sbarcati 34.013 migranti rispetto ai 25.552 dello scorso anno, quando a dicembre avevamo registrato l'arrivo di ben 67.040 clandestini. E rispetto allo stesso periodo del 2020 i numeri sono triplicati.
Le immagini degli ultimi giorni parlano chiaro: in stragrande maggioranza uomini, giovani e poche donne o bambini solitamente abbandonati a se stessi. A differenza della vera fuga dalla guerra in Ucraina dove abbiano visto arrivare le famiglie senza gli uomini rimasti a combattere contro i russi. La graduatoria della nazionalità via mare dimostra, ancora una volta, che i più numerosi sono i tunisini (6.209) seguiti dagli egiziani (5.991) e dai migranti del Bangladesh (5.860). Tre Paesi che non sono in guerra da dove si fugge per motivi economici nella speranza di una vita migliore senza rendersi conto che in Europa l'Eldorado è tramontato da tempo.
E con l'aumento delle partenze dalla Libia si riaffacciano le Ong del mare, arroganti come sempre, che se ne fregano dei limiti normativi in nome di un superiore diritto umanitario stabilito da loro. Ieri Sea Watch e Msf lanciavano i soliti moniti all'Italia per lo sbarco immediato dei carichi umani recuperati in mare. Al contrario nessuno accende i riflettori sul processone di Trapani alle stesse Ong partito in primavera con l'accusa chiara e netta di favoreggiamento, spesso aggravato, dell'immigrazione clandestina per la super ondata di migranti del 2017 quando gli «umanitari» se li facevano portare sotto bordo dai trafficanti.
La situazione sta precipitando a causa del disastroso caos libico. Da Tripoli gli addetti ai lavori fanno presente che il governo di Roma «ha quasi abbandonato la Libia. Nessun ministro viene più in visita e la Guardia costiera utilizza motovedette italiane obsolete». I turchi la fanno da padroni e nella capitale si è continuato a sparare negli ultimi giorni fra opposte fazioni di miliziani. I trafficanti in questo disastro ci sguazzano e attenti alle faccende di casa nostra approfitteranno del vuoto politico fino alle elezioni e dopo. Forse non è un caso che la caduta del governo Draghi sia coincisa con un'impennata degli sbarchi. E al ministero dell'Interno rimarrà fino ad autunno inoltrato, Luciana Lamorgese, che non ha brillato per attivismo e soprattutto soluzioni della crisi migratoria.
Oramai Lampedusa che scoppia non fa quasi più notizia. Avanti di questo passo supereremo i 60mila arrivi dello scorso anno perché non esiste più la differenza estate-inverno, basta che il mare sia calmo. La patata bollente passerà al nuovo governo, che se sarà di centrodestra ha sempre propagandato interventi muscolosi, come il blocco navale, ma non facili da applicare alla prova di fatti.
Il rapper Ghali compra una barca per la ong: così vuol portarci i migranti. Francesca Galici il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.
La donazione di una rescue boat per i migranti e l'apertura di una raccolta fondi: così Ghali finanzia la ong Mediterranea Saving Humans.
Anche il rapper Ghali entra nel campo delle ong che operano nel Mediterraneo e ha annunciato l'acquisto di un'imbarcazione da affiancare alla nave Mare Jonio della ong Mediterranea Saving Humans, attualmente l'unica battente bandiera italiana che opera nel bacino. Nato in Italia da genitori tunisini, Ghali si è sempre schierato politicamente verso i temi cari alla sinistra, tra i quali l'immigrazione, sulle quali però l'Italia sembra non avere nessuna politica precisa, se non l'accoglienza indiscriminata che, come si evince anche negli ultimi tempi, non porta benefici al Paese. Anzi. Le coste meridionali del Paese sono da anni prese d'assalto dai flussi migratori e la distribuzione negli altri Paesi europei, anche in quelli di bandiera battente delle navi che sbarcano i migranti sulle nostre coste, non sembra funzionare.
Nonostante le gravi situazioni che si evidenziano in Italia a causa dell'accoglienza indiscriminata, le ong alzano la voce e pretendono i porti solo dal nostro Paese, l'unico del Mediterraneo europeo sul quale viene fatta pressione, dall'interno e dall'esterno, per imporre l'apertura delle acque nazionali. Così come Bansky, ora anche Ghali ha deciso di esporsi in prima persona e di pagare per finanziare una nuova barca battente bandiera italiana: "Sono diventato grande e da oggi 'Bayna' non è più solo il titolo di una mia canzone ma anche quello di una nuova barca di salvataggio". La decisione è stata annunciata da Ghali con un post su Instagram: "Mi sono comprato una barca. Il rap è una musica che ha come centro la rivalsa che è un concetto prima individuale e poi collettivo. Per me questo è fare la cosa più rap che ci sia".
Sulla redistribuzione dei migranti per l'Italia arrivano solo insidie
Sull'onda del buonismo, quindi, il rapper ha aggiunto: "Ogni anno muoiono centinaia di persone in mare, si stima che siano morte circa 850 persone solo dallo scorso gennaio, e che circa 16mila siano stati illegalmente respinti in Libia. Questo è un tema di cui si parla poco nel nostro paese, per questo ho deciso di sostenere Mediterranea rescue donando un'imbarcazione che permetterà al team di proseguire le missioni di soccorso nei prossimi mesi, perché ogni nave di salvataggio in più in mare può fare la differenza tra la vita e la morte per migliaia di donne, uomini e bambini in viaggio".
Ghali ha aperto una raccolta fondi chiedendo anche ai suoi fan di fare la loro parte per finanziare le ong che portano i migranti in Italia: "Vi chiedo quindi, se potete, di partecipare alla raccolta fondi donando quello che si può, non importa quanto, sarà comunque tanto"
Sogni, paure, drammi: ora c’è un museo che ci ricorda quando eravamo noi a emigrare per mare. Un luogo in cui rivivere l’esperienza in diretta dei viaggi dei nostri connazionali, tra miseria, fatiche, discriminazioni e sfruttamento. E c’è anche il nonno di Papa Bergoglio a raccontare la storia di una famiglia approdata in Argentina. «Se Ellis Island è il santuario degli arrivi dei migranti in America, possiamo dire che questo è il santuario delle partenze». Roberto Orlando su L'Espresso l'11 luglio 2022.
Quando ad emigrare eravamo noi italiani poteva accadere di partire con tutta la famiglia dal Veneto, arrivare al porto di Genova con qualche valigia di cartone e i biglietti di sola andata in terza classe per il Brasile e scoprire che la nave era in ritardo.
Non di qualche ora, come a volte capita con il traghetto per le vacanze in Sardegna, ma di una settimana. E capitava anche che non ci fossero soldi per l’albergo e allora padre, madre e figli venivano accolti insieme con centinaia di altri passeggeri squattrinati in una stamberga sporca e con un solo bagno da condividere. Accadeva a fine Ottocento, per esempio. E quando, magari negli anni Cinquanta, eravamo sempre noi italiani a emigrare poteva capitare di andare a fare la vendemmia a Martigny, in Svizzera, per guadagnare 5 franchi al giorno, quando le giornate di lavoro duravano 13 o 14 ore. E quando ad emigrare negli anni Settanta eravamo sempre noi italiani poteva invece succedere a un operaio siciliano di essere licenziato dalla Volkswagen in crisi molti mesi prima di un suo collega tedesco. Insomma, in quel periodo il fatidico «prima gli italiani» era la norma in Germania. Ma a ruoli invertiti…
Ecco, a Genova dal 12 maggio scorso è aperto il museo che racconta questo “ruolo invertito”, così come è stato vissuto da milioni di italiani durante la lunghissima epoca delle migrazioni interne e verso l’estero. Si chiama Mei ed è il Museo nazionale dell’emigrazione italiana, nato da una sinergia tra il ministero della Cultura, la Regione Liguria e il Comune di Genova. Ha trovato spazio in un edificio che non solo è uno dei più antichi del capoluogo ligure, ma è anche quello simbolicamente più consono: è la Commenda di Prè, costruita dagli Spitalieri di San Giovanni (poi Cavalieri dell’Ordine di Malta) intorno al 1180 come ospedale e ostello per i pellegrini e i cavalieri diretti in Terra Santa all’epoca della terza crociata. E molti secoli dopo dalle banchine del porto, proprio qui fronte, sono partite tutte le ultime grandi ondate migratorie verso le Americhe, l’Asia, l’Africa e l’Australia…
Ma siccome per partire verso luoghi così lontani, sono necessari i documenti, prima di iniziare il nostro viaggio nel Museo dell’emigrazione è necessario procurarsi il passaporto, che è digitale e sotto forma di braccialetto con un sensore NFC. Le generalità possono anche essere inventate e non è necessario dichiarare il genere sessuale: per il Mei non c’è differenza. Ci sarà tempo durante il percorso per vedere altre differenze, discriminazioni e pregiudizi.
Passaporto al polso, si intraprende il viaggio attraverso le essenziali architetture romaniche della Commenda appena restaurata con mano delicata per scoprire un pezzo di storia importante del nostro Paese. «Se Ellis Island è il santuario degli arrivi dei migranti in America, possiamo dire che questo è il santuario delle partenze», spiega Pierangelo Campodonico, che oltre ad essere direttore del Museo del Mare che si trova quasi di fronte alla Commenda, è anche il regista degli allestimenti del Mei insieme con Giorgia Barzetti e Nicla Buonasorte.
Un santuario che oggi accoglie le storie di centinaia di migranti italiani di tutte le epoche, dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, i quali raccontano perché e come sono partiti; come sono stati accolti, come sono stati trattati e spesso maltrattati; come hanno fatto fortuna o perché non sono riusciti a realizzare i loro sogni.
Il viaggio, qui alla Commenda, è tutto multimediale e interattivo: non ci sono oggetti in mostra e nemmeno documenti originali. Eppure sembra tutto vero.
Si parte da una premessa che sgombera il campo da eventuali strumentalizzazioni: il primo totem al quale si presenta il passaporto-braccialetto spiega che la migrazione è una caratteristica tipica dell’umanità. L’homo sapiens è partito dal cuore dell’Africa per colonizzare tutto il pianeta. Insomma, la specie umana migra per sua natura e nessuno è mai riuscito a fermarla.
E gli italiani in particolare perché sono emigrati? Per tanti motivi e non soltanto legati a condizioni di necessità. Uno lo racconta all’inizio del percorso espositivo il nonno di Papa Bergoglio, che si anima in un video a tutta parete dopo un contatto NFC del braccialetto-passaporto e spiega, nell’interpretazione dell’attore Massimo Olcese, che lui è partito e tornato più volte, perché i soldi non bastavano mai e perché «in Italia i campi sono pochi e i padroni sono tanti, invece nelle pampas argentine la terra non finisce mai...». Ma si parte anche per rincorrere falsi miti nati sulla base di quelle che oggi chiameremmo fake news: «In America ci sono alberi sui quali nascono i dollari», dice l’attore del video che parte in una delle prime ambientazioni del Museo.
I veri motivi che spingono gli italiani a lasciare la loro terra sono spiegati più avanti. Per esempio nella sala successiva dove, seduti intorno a una tavola imbandita, basta sfiorare un sensore con il braccialetto perché sul fondo dei piatti compaiano le immagini dei cibi miseri di quell’Italia nemmeno così lontana. Di lato, su alcuni totem, scorrono altri personaggi con tutto il loro bagaglio di malanni e malattie da lasciarsi alle spalle per andare incontro a una vita diversa.
Non sempre migliore, anzi, a volte con un finale tragico. Per questo nel cortiletto della Commenda c’è il Memoriale delle sciagure che hanno costellato la storia delle nostre emigrazioni: dal massacro di Aigues Mortes, in cui persero la vita un numero imprecisato di lavoratori delle saline accusati ingiustamente di aver ucciso alcuni francesi; alla strage del 1913 nella miniera statunitense di Dawson e, mezzo secolo dopo, in quella belga di Marcinelle; dal linciaggio del 1891 di New Orleans in cui morirono undici siciliani, al naufragio nel 1940 della Arandora Star che costò la vita a 446 civili italiani. La memoria nel Museo è affidata a un totem multimediale e a una teoria di funi rosse come il sangue che sembrano scendere direttamente dal cielo per sorreggere il nome delle località in cui ebbero luogo le tragedie.
Siamo andati a milioni in tutti i Paesi e sempre qui al primo piano - dove il mondo è “apparecchiato” su grandi tavoli a forma di planisfero con i continenti in rilievo - si possono ascoltare e vedere le vite di successo di molti di noi: storie di sport e di cultura, di artigianato e di impresa, di musica e di cibo ricostruite in pillole grazie alla collaborazione di una miriade di enti pubblici, associazioni di emigrati, archivi storici, musei, club sportivi di tutto il mondo e di tutta Italia.
Il viaggio prosegue in salita, al secondo piano, dove è stato creato un labirinto verticale. Si raggiunge salendo, non per caso, alcune rampe di scale ed è composto da una serie di cubi sovrapposti dentro i quali si impatta, non senza disagio autentico, in una sorta di “test di accoglienza”. In ogni cubo si trova un totem sul cui monitor compare un attore o un’attrice di lingua madre (francese, inglese, tedesca, spagnola), un personaggio con il quale fare i conti per passare la frontiera, cercare lavoro, trovare casa. Intanto bisogna capire di che cosa questi personaggi stiano parlando e poi bisogna risolvere un quiz a risposta multipla, sperando di azzeccare quella giusta. Con conseguenze ovviamente diverse a seconda della risposta.
C’è il poliziotto di lingua inglese che considera gli italiani ignoranti e scansafatiche; l’agente di frontiera argentino che rispedisce in patria un italiano di 60 anni perché troppo avanti negli anni; il latifondista che parla uno spagnolo incomprensibile e che così ti convince a lavorare quasi gratis per lui. Situazioni a tratti umilianti, da cui eventualmente fuggire a tutta velocità infilandosi nel tubo arancione di un toboga che riporta alla base del labirinto.
È qui che si trova una delle installazioni più significative, quella dedicata al lavoro. Fa da scenario un incrocio di travi d’acciaio di quelle usate per costruire i grattacieli nelle metropoli americane e che con un gioco di specchi salgono all’infinito. Sui monitor scorrono altre storie, altri spunti di riflessione.
Nicoletta Viziano, presidente del Mei (e del Museo del Mare), tira un sospiro di sollievo perché l’impresa non è stata facile: «Non c’erano materiali, non c’erano precedenti. Ora l’obiettivo è quello di creare un database, consultabile anche online, con i contributi provenienti dalle nostre comunità all’estero per ricostruire altri pezzi di memoria e rinnovare di continuo i racconti del museo. Si è messo in moto un meccanismo che potrà avere anche importanti ricadute economiche. Per esempio la famiglia Pellerano, originaria di Santa Margherita Ligure, che ha fondato uno dei più antichi quotidiani di Santo Domingo (il Listin Diario, ndr), anche attraverso l’operazione museo ha avuto modo di manifestare il proprio interesse a tornare in Italia per investire».
A settembre si attendono molte scolaresche. Gli allievi scopriranno sul monitor della biglietteria che a partire dal 2000 il saldo tra italiani che rientrano e italiani che partono ha di nuovo invertito la tendenza. Se nel 1973, per la prima volta nella storia, sono stati più i rientri delle partenze ora la corsa verso l’estero è ripresa a ritmo sostenuto.
Andrea Ossino per roma.repubblica.it il 16 luglio 2022.
Infastiditi per essere stati fermati e irritati per il caldo patito nell’attesa che gli agenti verificassero il loro permesso di soggiorno, due ragazzi musulmani sono andati su tutte le furie quando hanno chiesto di poter mangiare qualcosa e gli è stato portato un panino con il prosciutto. Del resto il Corano lo spiega chiaramente, la carne di maiale, prosciutto incluso, è “haram”, proibita.
Quindi i due ragazzi, di 20 e 21 anni, devono avere mal interpretato la cortesia che i due poliziotti gli avevano appena fatto cercando di placare la loro fame. E hanno aggredito gli agenti danneggiando anche la stanza dell’ufficio immigrazione. È accaduto martedì scorso, quando i due egiziani sono stati fermati e accompagnati in questura per verificare la “regolarità della presenza in Italia”.
È una procedura che richiede del tempo. E i due ragazzi erano infastiditi dall’attesa. Nervosi anche a causa del forte caldo, hanno chiesto di poter bere e mangiare. E gli agenti li hanno accontentati. Alla vista del prosciutto però i due si sono innervositi e hanno aggredito i poliziotti. Ne è nata una colluttazione, durante la quale i ragazzi hanno anche devastato un ufficio spaccando lampade e oggetti vari. “Dopo una lunga colluttazione venivano finalmente bloccati e tentavano di morderli”, concludono gli atti inviati in procura.
Già, perché i due egiziani alla fine sono stati fermati e accompagnati in tribunale con le accuse di resistenza, lesioni e danneggiamento. L’arresto nei loro confronti è stato convalidato.
"Togliti il burqa". E scoppia la furia dell'islamica. Giovanni Fiorentino il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.
Una 28enne egiziana ha aggredito l'addetto alla portineria del collegio di Perugia in cui studiava, dopo che questi le aveva chiesto di mostrarle un documento di riconoscimento o di scoprirsi il volto coperto dal burqa per farsi riconoscere.
Le è stato chiesto di abbassarsi il burqa, per rendersi riconoscibile prima di entrare nello studentato. Per tutta risposta, lei ha iniziato a inveire verbalmente contro il portiere dell'edificio, insultandolo pesantemente sino all'arrivo della polizia. Protagonista della vicenda svoltasi pochi giorni fa a Perugia è una 28enne musulmana, originaria dell'Egitto. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, la giovane donna si sarebbe presentata all'ingresso di un collegio nel quale soggiornava indossando il velo islamico che copre l'intero volto delle donne, lasciando solo una fessura per gli occhi.
L'addetto alla portineria, non riconoscendola, le avrebbe chiesto inizialmente il tesserino di riconoscimento degli ospiti, o in alternativa un documento d'identità. Una doppia richiesta alla quale l'egiziana si sarebbe sottratta, asserendo di non avere con sé i documenti richiesti. L'uomo, a quel punto, le avrebbe chiesto di togliersi momentaneamente la parte del burqa che celava il viso, in modo che lui potesse essere certo che si trattasse davvero di una studentessa dell'istituto. Ma l'egiziana non avrebbe accolto positivamente quest'ultimo invito. Anzi, si sarebbe alterata ed avrebbe replicato prendendo a male parole l'interlocutore. La discussione sarebbe poi proseguita e solo l'intervento delle forze dell'ordine (allertate dalla stessa ragazza, evidentemente sicura di essere dalla parte della ragione) ha consentito di ristabilire l'ordine ed evitare che la lite degenerasse, riportando la giovane straniera alla calma.
Una volta giunti sul posto, gli agenti hanno ascoltato la versione di entrambe le persone, chiarendo così l'equivoco venutosi a creare. Si tratta del resto di un argomento piuttosto controverso ancora oggi: è vero che non esiste una legge che vieti espressamente l'utilizzo del burqa. Però è vero anche che per ragioni di sicurezza ci sono luoghi in cui deve essere possibile il riconoscimento, e quindi sarebbe preferibile non indossarlo. In passato anche in Italia sono state promosse azioni penali nei confronti di alcune donne che indossavano l'indumento in pubblico, facendo leva sull'articolo 5 della Legge 22 maggio 1975, numero 152, che punisce "l'utilizzo in luoghi pubblici o aperti al pubblico di qualunque mezzo idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, senza che vi sia un giustificato motivo". Una questione ancora aperta, tanto più che in Paesi come Francia e Belgio il burqa è da tempo stato vietato in pubblico. Nel 2017 la Lega aveva presentato un progetto di legge per un risultato legislativo analogo, approvato nel consiglio regionale del Veneto, che però sembrerebbe essersi fermato in una sorta di limbo.
Vergogna a Lampedusa, duemila migranti ammassati tra i rifiuti. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 9 Luglio 2022.
Il centro può contenerne 300 e per sole 48 ore. La rabbia dell’ex sindaca Giusi Nicolini. L'Oim: "Gestibili i numeri degli sbarchi, ma senza le Ong il 40% arriva sull’isola”. Oggi al via i primi 600 trasferimenti disposti dal Viminale.
I giovani medici che cercano di visitare almeno i bambini appena sbarcati schiacciano blatte a raffica. Fuori, a contendersi la rara ombra degli alberi, centinaia di persone cercano di riposare su distese di materassi gettati per terra. Erano rifiuti speciali, pieni di acari della scabbia in attesa di essere smaltiti. Ma qui, all’hotpost di Lampedusa, da giorni nessuno raccoglie i rifiuti.
La nuova rotta verso l'Italia: da dove arrivano i migranti. Mauro Indelicato l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.
Sempre più barconi salpati da un Libano in crisi appaiono diretti verso il nostro Paese: ecco cosa c'è alla base della nuova possibile rotta dell'immigrazione.
Da un Libano sempre più in crisi si scappa. Stanno fuggendo intere famiglie e singoli soggetti. Non sempre e non solo libanesi. Il Paese dei cedri da anni accoglie affollati campi profughi con al loro interno palestinesi e siriani. Sono tutti coinvolti dalla crisi finanziaria, economica, sociale che da almeno tre anni affligge la nazione e che sta riducendo a uno stato di povertà almeno i due terzi delle famiglie.
Nel dicembre scorso il centro di ricerca Information International, basato a Beirut, ha stimato che negli ultimi due anni sono partiti almeno 200mila persone da tutto il Libano. Dalla capitale fino alla Bekka, passando per il sud del Paese, si raggiungono le coste di Tripoli, la città settentrionale omonima della capitale libica, e da lì si parte verso l'Europa.
Fino a oggi Cipro era la meta più ricercata. Il perché è presto detto: la vicinanza geografica tra l'isola e le coste libanesi ha sempre permesso traversate più veloci rispetto ad altre tratte. Ma ora la situazione sta cambiando.
Media di Beirut, in particolare, hanno dato ampio risalto ad alcune testimonianze di profughi libanesi che volevano raggiungere l'Italia. E, sempre tra i media locali, sarebbero sempre di più le persone desiderose di allungare la navigazione e provare a sbarcare lungo le coste italiane.
I testimoni sentiti dai media libanesi hanno parlato di imbarcazioni dirette verso l'Italia, fatte però poi girare verso la Grecia “dalla guardia costiera europea”. Probabilmente il riferimento è a qualche nave dell'agenzia Frontex operativa tra il Mediterraneo centrale e quello orientale. Possibile che i militari abbiano intimato ai migranti di proseguire il viaggio verso l'Italia, invitandoli a cambiare rotta.
Possibile anche ipotizzare che i barconi siano stati dirottati verso la Grecia per via dei rapporti molto stretti tra le autorità elleniche e quelle cipriote. I migranti quindi potrebbero essere indirizzato verso l'isola, il cui governo, proprio per l'importante afflusso di libanesi negli ultimi anni, ha stretto accordi con Beirut per rimpatri più celeri.
Perché i migranti libanesi ora puntano sull'Italia
Ad ogni modo, le testimonianze riportate dai media libanesi, corredate anche da alcuni video, parlano di un'Italia sempre più gettonata. E non c'è da stupirsi. Visti gli accordi tra Cipro e Libano, i migranti difficilmente oggi possono avere intenzione di approdare su un'isola da cui è alto il rischio di essere subito rimpatriati.
Contestualmente, la rotta che dalle coste del Mediterraneo orientale porta verso l'Italia è già da anni trafficata. Lo è in quei tragitti che hanno nelle coste turche la propria base di partenza, ma ad ogni modo in Libano hanno avuto già modo di vedere che puntare dritto verso il nostro Paese non è impossibile.
Del resto, negli ultimi anni, centinaia di bengalesi, siriani e afghani sono sbarcati lungo la nostra penisola partendo dalla Turchia e “saltando” quindi la Grecia. Al momento dal Viminale non vengono segnalati numeri importanti dal Libano. Scorrendo l'elenco delle nazionalità più rappresentate dai migranti arrivati in Italia, tra i primi dieci manca quella libanese. Ma l'immigrazione da Beirut potrebbe essere solo all'inizio.
Lo confermano anche alcune operazioni della polizia libanese. Il 7 giugno le autorità locali hanno arrestato 64 persone pronte a imbarcarsi. Diversi di loro hanno indicato nell'Italia la meta da voler raggiungere se fossero riuscite a salpare.
Giuseppe Valditara Libero Quotidiano l'01 luglio 2022
«Le italiane non salgono». Così, ai primi di giugno, una gang di giovani immigrati nordafricani avrebbe minacciato alcune ragazze salite sul treno a Desenzano, di ritorno da Gardaland. Questa frase, pronunciata da giovani che verosimilmente vanno nelle nostre scuole e che certamente vivono nelle nostre città, è significativa. Alcuni sono probabilmente cittadini italiani di seconda generazione. È una frase che riecheggia sentimenti assai diffusi nelle periferie francesi, e più in generale nelle periferie di molte città d'Europa, e riguarda soprattutto giovani appartenenti a minoranze portatrici di culture fortemente identitarie e tendenzialmente oppositive. È una frase che dovrebbe far riflettere, proprio mentre alcune forze politiche rilanciano lo Ius Scholae come fonte di attribuzione automatica della cittadinanza.
DATI PREOCCUPANTI
Un sondaggio, condotto da Ifop per l'Istituto Montaigne, ha stimato che il 50% dei mussulmani francesi di età compresa fra i 15 e i 25 anni vorrebbe sostituire la sharia alla costituzione francese. Secondo un rapporto presentato nel 2018 dal saggista francese Hakim el Karoui, il 32% degli studenti mussulmani intervistati ha una visione assolutista della religione. Non va molto meglio nel Regno Unito dove, secondo un sondaggio compiuto da autorità statali nel 2018 e citato dalla Fondazione CDF, il 23% dei mussulmani inglesi ritiene che si debba applicare la sharia nelle loro comunità, mentre il 32% chiede la pena di morte per chi offenda Maometto. E veniamo all'Italia. Secondo una rilevazione Istat, nella fascia d'età fra i 14 e i 17 anni gli stranieri residenti sono appena il 9,6% della popolazione. A fronte di ciò il 65% degli scippi, il 50,2% dei furti, il 48,1% delle rapine, il 47,7% delle violenze sessuali, il 40,4% delle percosse è commesso da giovani immigrati.
Non va meglio nella fascia di età fra 18 e 24 anni. Qui gli stranieri sono l'11,2% della popolazione mentre l'89,7% dei reati che concernono lo sfruttamento della prostituzione, il 55,8% delle violenze sessuali, il 52,6% delle rapine, il 52,4% dei furti, il 43,6% delle lesioni dolose è commesso da immigrati. Questi dati non comprendono i reati commessi da italiani di seconda generazione. Sorprendentemente, l'incidenza della criminalità scende in particolare nella fascia di immigrati di età compresa fra i 45 e i 54 anni e nelle fasce successive. La percentuale di reati commessi da cinquantenni stranieri è pari al 16,7% a fronte di una percentuale sulla popolazione totale pari all'11,8%. La differenza si spiega probabilmente con una maggiore integrazione dopo anni di lavoro e di inserimento nella società italiana.
L'IMPORTANZA DEI VALORI
Questi dati dovrebbero insegnare che l'immigrazione, per non creare conflitti sociali e sacche di opposizione, deve presupporre una vera integrazione, che passa per la reale e vissuta assimilazione dei valori fondamentali di una repubblica. Nulla dunque di più sbagliato del dare ope legis lo status di cittadino a ogni giovane straniero che abbia fatto cinque anni di scuola nel nostro Paese, anche senza aver compiuto i 18 anni d'età. La cittadinanza va meritata e presuppone un percorso di "buona cittadinanza": zero reati, nessuna sanzione amministrativa, corretta condotta scolastica, conoscenza e condivisione dei principi cardine della nostra Costituzione. La deresponsabilizzazione dell'immigrato e l'accoglienza facile sono il presupposto della disgregazione della nostra società e di conflittualità future sempre più accentuate.
Ius scholae: quei giovani che aspettano di diventare italiani ma la legge ne salva solo 280 mila. Ilaria Venturi su La Repubblica il 9 Luglio 2022.
Diritti negati: secondo l'Istat i ragazzi stranieri sono 1,3 milioni e a scuola una minoranza di 32 su 100 è diventata italiana. I sogni sono gli stessi, tutele e garanzie no
Pensano come i compagni di banco italiani, hanno sogni in fondo simili, vogliono viaggiare, molti di loro vivere all'estero, tra Usa e Germania. E rispetto ai coetanei sono più impauriti dalla guerra, ma più affascinati dal futuro. Non sono nati in Italia, ma hanno studiato nelle nostre scuole: 280 mila ragazzi e ragazze che avrebbero diritto alla cittadinanza italiana secondo la proposta presentata in Parlamento sostenuta dal centrosinistra e cioè che hanno frequentato per almeno 5 anni uno o più cicli scolastici.
La destra ciabattona. I sovranisti e le demenziali prove di italianità per ottenere la cittadinanza. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'8 Luglio 2022.
Gli emendamenti allo Ius Scholae sfiorano il ridicolo. Un cittadino straniero che vuole diventare nostro concittadino non deve sapere l'Ave Maria o mostrare un curriculum di buona educazione gastronomica. Deve rispettare la legge, uguale per tutti
La bella trovata sovranista di subordinare la concessione della cittadinanza alla prova di erudizione sulle abitudini alimentari delle genti italiche e sul calendario delle sagre di paese sarebbe solo materia da barzelletta, e l’ennesima riprova del livello disperante di questa destra ciabattona, se non denunciasse una questione in realtà serissima e ben più implicante.
Dietro quella stupidaggine, infatti, lavora il pregiudizio diffuso per cui la concessione di un diritto presuppone uno scrutinio delle dotazioni di chi lo reclama: dalla conoscenza dell’Ave Maria sino, appunto, alla dichiarazione di fedeltà alle polpette al sugo e alla tradizione del capocollo al pepe.
L’idea che al cittadino – straniero come italiano – si debba solo chiedere il rispetto della legge uguale per tutti e che, al contrario, sia del tutto incongruo e profondamente illiberale richiedergli una qualsiasi prova di italianità, è evidentemente del tutto estranea a questi distributori di diritti a punti. Ai quali sfugge che la diffusione del cous cous in luogo delle penne all’arrabbiata può anche rattristare, ma non la fermi con la prova scritta sull’arte del soffritto.
E vale, il ragionamento, anche per le cose più significative, a cominciare (è sempre il solito discorso) dai simboli delle nostre presunte radici, tipo il crocifisso nelle scuole. Che andrebbe rimosso anche solo per ragioni profilattiche, e cioè per impedire che domani insorga la pretesa (come contestabile, a quel punto?) che nei luoghi popolati da maggioranze diverse si impongano i relativi e diversi simboli. È la presenza dello Stato laico e democratico a garantire i diritti di tutti, non quello che chiede il curriculum di buona educazione gastronomica.
Per un allocco di destra che oggi propone quelle fesserie, c’è domani il coglione di sinistra che pretende il giuramento antimafia e antifascista, l’uno e l’altro accomunati dal medesimo pregiudizio per cui i diritti si meritano: e così, secondo stagione e maggioranza, la concessione della benemerenza repubblicana previa professione di italianità misurata sull’adempimento catechistico, sul grado di venerazione del Dpcm anti-Covid, sulla documentazione della militanza anti-omotransfobica tramite dichiarazione che il ddl Zan è il punto di riferimento fortissimo di tutti i legislatori democratici, e via di questo passo sul percorso dell’identico nazionalismo illiberale che scambia il dovere di rispettare le regole e le pratiche comuni con il dovere di ritenerle giuste mandandone a memoria il ricettario.
Immigrazione e ius scholae: trent’anni tra paure, proposte e diritti. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022.
Oggi almeno ottocentomila ragazzi e bambini, compagni di banco dei nostri figli, si trovano incastrati da quella legge del 1992, che privilegia i vecchi principi dello ius sanguinis.
Alba dell’8 agosto 1991, porto di Bari: comincia allora, comincia lì, la paura che condizionerà tutta la nostra normativa sui migranti e sui loro figli. Con la sua sagoma da gigantesco formicaio del mare, la nave albanese Vlora si staglia quella mattina all’orizzonte: sta per scaricare sul Molo Carboni quasi ventimila disperati, in fuga dai postumi del comunismo paranoico di Enver Hoxa. Secondo lo storico Valerio De Cesaris, in quel momento diventiamo «consapevoli di vivere in un Paese di immigrazione».
Sarebbe ora. Due anni prima abbiamo trattato Jerry Masslo, scappato dal regime razzista sudafricano, come un marziano di cui disfarsi. La nuova consapevolezza conquistata non è però indolore. Per la prima volta gli italiani (facile essere «brava gente» in una terra senza immigrati) vedono profilarsi l’incubo dell’«invasione». In quel 1991 i profughi riempiono i nostri primi campi d’accoglienza e le nostre pagine di cronaca nera. Pochi opinionisti mantengono testa fredda e cuore caldo; tra loro, Giuliano Zincone sul Corriere: «La ricca Italia trema, di fronte al modesto abbordaggio dei nostri antichi sudditi albanesi». Molti, nella politica come nel giornalismo, cavalcano invece l’onda dell’emotività popolare. Sicché gli umori dell’opinione pubblica risultano assai peggiorati quando, a febbraio del 1992, si decide di riformare la legge sulla cittadinanza: i partiti, ovviamente assai sensibili, registrano il cambiamento e lo traducono in norme e codicilli.
La vecchia legge risale addirittura al 1912, pensata per il Paese di emigranti che fummo. Si tratterebbe adesso di cambiare punto di vista («Lamerica», per dirla con Amelio, siamo noi) e di guardare a un futuro in cui le nostre coste diventeranno polo d’attrazione per moltitudini. Non va così. La legge 91 del 1992, assai condizionata da quegli albanesi che stanno scalando le classifiche nere degli stranieri denunciati (arriveranno al 12%, col 72% di irregolari), nasce storta: assai favorevole ai discendenti degli italiani emigrati all’estero, molto restrittiva verso gli immigrati. Regaliamo la cittadinanza a persone che non hanno mai messo piede in Italia e neppure si esprimono nella nostra lingua (col senno di poi, si potrebbe ribattezzarla «legge cocumella», dal surreale esame di italiano sostenuto in tempi molto più recenti dall’uruguayano Luis Suarez, a caccia della nostra cittadinanza avendo sposato una nipote di emigranti friulani). Ma la neghiamo a ragazzi di seconda generazione nati qui o cresciuti tra noi, che parlano il nostro idioma meglio di molti deputati e senatori, eppure vengono sospinti in un limbo nel quale possono vedersi respinta l’istanza se, a diciotto anni, non sono in grado di dimostrare una residenza in Italia legale e ininterrotta. Sabrina Efionayi, scrittrice di ascendenza nigeriana nata e cresciuta a Castel Volturno, ricorda «ore e ore all’ufficio stranieri per rinnovare il permesso di soggiorno, sotto sole e pioggia, io bambina; all’università mi sono dovuta iscrivere come extracomunitaria! Incredibile, dopo tutta la vita nelle scuole italiane!». Oggi almeno ottocentomila ragazzi e bambini, compagni di banco dei nostri figli, si trovano in queste condizioni, incastrati da quella legge del 1992, che, nota ancora De Cesaris, «privilegia i vecchi principi dello ius sanguinis (il diritto del sangue, per trasmissione familiare) che richiamano concezioni romantiche e ottocentesche di nazione».
Passano gli anni. Cambiano le facce che ci fanno paura. Dopo gli albanesi, saranno i romeni (accolti però nell’Unione europea), poi i maghrebini, i centroafricani... Nel 2015, con Renzi a Palazzo Chigi, il centrosinistra tenta di sterzare verso lo ius soli, il diritto stabilito dal luogo di nascita, prevalente in varie formule in Europa, e presto tradotto da noi nella forma più temperata dello ius culturae, che lo collega anche a un percorso scolastico: rispondendo così alle critiche della destra, secondo cui si vuol fare dell’Italia «la sala parto dell’Africa». Non basta: ancora una volta la paura decide per noi. Un mese dopo il passaggio alla Camera della riforma, gli islamisti fanno strage al Bataclan. I flussi stanno esplodendo, inutile spiegare che la cittadinanza a ragazzi già inseriti tra noi da un pezzo c’entra ben poco con gli sbarchi che sommergono le nostre coste. Il Pd, con Gentiloni a Palazzo Chigi, abbandona la riforma al Senato, sperando invano di salvarsi alle elezioni. Il leghista Calderoli, col suo stile inconfondibile, celebra così: «Alla quarta fetta di polenta anche Gentiloni ha finalmente capito che lo ius soli non era un salame ma un uccello padulo per lui e per il suo governo».
Siamo all’oggi, nuovo giro, ius scholae. I sondaggi raccontano un’opinione pubblica meno spaventata (o forse solo distratta da incombenze più gravi). Pd e Cinque Stelle ci riprovano: dura che ci riescano. Anche se la cittadinanza ai ragazzi sarebbe un ponte prezioso verso la generazione dei genitori e una liberazione per molte donne prigioniere di subculture originate nel mondo islamico. E anche se, nel frattempo, dal nostro primo babau, gli albanesi, ci è venuta una bella lezione. Non solo si sono perfettamente integrati: agli inizi della pandemia che piagava soprattutto l’Italia, il loro premier, Edi Rama, è venuto a offrirci medici e infermieri. «Non abbandoniamo gli amici in difficoltà», ha detto: ricordando un tempo in cui noi, con le missioni Alba e Pellicano, abbiamo teso la mano al suo popolo. Come brava gente davvero.
Razionale semplificazione. Gli stranieri sono destinati a diventare sempre più italiani, con o senza Ius scholae. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 6 Luglio 2022.
Per quasi 500mila persone nate in Italia, il provvedimento si rivelerebbe solo una agevolazione burocratica: otterrebbero prima quanto comunque potrebbero conseguire al compimento dei 18 anni, semplificando la propria vita. Prima o poi quella pergamena e quella bandiera la otterrebbero lo stesso, solo con maggiori scartoffie e perdite di tempo.
Solo nel 2020 i nati in Italia da entrambi i genitori stranieri sono stati 59.792, ovvero il 14,8% dei 404.892 bambini venuti al mondo nell’anno della pandemia. Sono individui che in grandissima parte rimarranno nel nostro Paese nel corso della propria vita, che considereranno l’Italia la propria terra, anche se saranno costretti ad attendere i 18 anni per diventare cittadini. Questo numero si aggiunge ai 5 milioni di immigrati regolari presenti nel Belpaese, e che ormai fanno parte della vita quotidiana di ogni città, grande e piccola, e, almeno al Centro-Nord anche dei paesi di provincia, dove costituiscono la forza lavoro principale e indispensabile in molti settori.
È anche grazie a questi nuovi italiani se molte scuole hanno evitato la chiusura: secondo il ministero dell’Istruzione nell’anno scolastico nel 2019/20, sono stati 876.820 gli studenti di origine straniera. Parliamo del 10,3% del totale, con punte del 17,3% in Emilia Romagna e del 16% in Lombardia. Sono percentuali destinate ad aumentare considerando che tra i nati la proporzione di italiani con genitori stranieri è già più alta.
Sono tanti anche i giovanissimi immigrati under 12 arrivati in Italia solo dopo la nascita: 32mila nel 2020 e 41.616 nel 2019. Anche costoro rimarranno in Italia, considerando che solo poco più di 4mila bambini e pre-adolescenti emigrano mediamente ogni anno dal nostro Paese.
Il riferimento ai 12 anni non è casuale: è rivolto proprio a coloro che sono immigrati prima di questa età il disegno di legge chiamato “ius scholae”, che prevede che costoro e coloro che in Italia sono nati ma non hanno la cittadinanza italiana possano ottenerla dopo avere terminato un ciclo di studi di 5 anni.
La proposta è una versione moderata dello Ius Soli, ma sta comunque incontrando l’opposizione delle forze politiche che del contrasto dell’immigrazione fanno il proprio core business.
Tra il 2018 e il 2020 l’Italia è stato il Paese che ha concesso a più stranieri, 371.327, la cittadinanza, superando la Germania e tutti gli altri Paesi europei in cui pure la percentuale di migranti è da sempre superiore. Ma poco meno di 95mila di queste acquisizioni hanno riguardato chi aveva meno di 15 anni. Questi bambini e ragazzi sono diventati italiani principalmente grazie all’ottenimento della cittadinanza da parte dei genitori, e sono stati esclusi i coetanei che hanno fatto i loro stessi studi, ma che avevano padri e madri non ancora idonei.
Se consideriamo i 15-19enni e i 20-24enni l’Italia si conferma lo Stato Ue con il maggior numero di concessioni.
Non solo, ogni anno dal 2013 in poi mediamente la percentuale di stranieri che acquisisce la cittadinanza italiana è stata superiore al 2%, con un picco del 4% nel 2016. Una proporzione quasi sempre maggiore di quella che caratterizza Germania, Francia, Regno Unito e recentemente anche la Spagna. Solo nei Paesi Bassi e in Svezia si raggiungono cifre maggiori.
Non si tratta di politiche “buoniste”, ma della conseguenza della natura recente dell’immigrazione. Solo negli ultimi tempi un numero significativo di persone ha raggiunto i requisiti per la cittadinanza, che siano i 10 anni di permanenza continuativa, la presenza di un certo reddito, il compimento dei 18 anni per i nati nel nostro Paese. Parliamo di coloro che sono arrivati o venuti al mondo tra gli anni ‘90 e il primo decennio di questo secolo, al picco del fenomeno migratorio, in un periodo in cui altrove in Europa occidentale gli stranieri già facevano parte da tempo del tessuto sociale.
Ora è così anche nel nostro Paese, dove assieme agli immigrati sono cresciuti nel tempo quanti tra questi possiedono un titolo di studio. Nella maggior parte dei casi è stato ottenuto dopo 5 anni di frequenza continuativa, soprattutto se consideriamo i 316mila tra 15 e 24 anni che hanno finito le scuole medie, e quindi le elementari. Senza contare i 157mila con un diploma o una laurea.
Nel tempo tra coloro che hanno finito le medie, gli stranieri sono divenuti l’11,3%, mentre la loro proporzione è inferiore se ci riferiamo a chi ha finito le superiori e soprattutto l’università. Nessuno o quasi ne parla, ma forse è questo un problema più urgente da affrontare: la carenza di immigrati laureati, lo scarso livello delle loro competenze.
La polemica, invece, si concentra su quegli 876.801 bambini e ragazzi che, se non abbandonassero gli studi, potrebbero avere la cittadinanza nei prossimi 8 anni. Almeno 573.845 di loro sono persone nate in Italia e si tratterebbe di una agevolazione burocratica, otterrebbero prima quanto comunque potrebbero conseguire al compimento dei 18 anni, semplificando la propria vita.
Per poco più di 300mila si tratterebbe di una conquista di ancora maggior significato, ma anche per costoro sarebbe un anticipo. Prima o poi quella pergamena e quella bandiera la otterrebbero lo stesso, solo con maggiori scartoffie e perdite di tempo. I numeri sulle acquisizioni di cittadinanza sono chiari.
Probabilmente questo lo sanno anche la gran parte dei politici di Lega e Fratelli d’Italia, molti dei quali vivono in aree in cui marocchini, egiziani, nigeriani, pakistani, bengalesi sono una presenza stabile, in realtà accettata dalla popolazione. Vanno a scuola con i loro figli, sono i colleghi dei loro elettori.
Si tratta di qualcosa che si è già visto, è una battaglia di retroguardia per marcare il terreno, analoga a quella sui diritti Lgbt: un tempo l’opposizione era al mero riconoscimento dell’esistenza degli omosessuali, alla liceità dei rapporti tra persone dello stesso sesso, poi, una volta sconfitta, è passata alle unioni civili. Ora queste non sono più in discussione e l’obiettivo sono i figli delle coppie gay.
Così la presenza degli stranieri non è più di fatto contestata, e neanche quella di chi nasce in Italia, anche in questo caso la battaglia prosegue da posizioni arretrate, come chi continua a sparare ritirandosi solo per affermare di non essere sconfitto, di esserci ancora. Per ottenere vittorie momentanee, tattiche, destinate a ritardare l’inevitabile svolgimento degli eventi.
Salvo imprevisti, sempre possibili, sarà così anche per quanto riguarda l’immigrazione in Italia. Con lo stop o il forte rallentamento degli arrivi la percentuale di quanti, tra coloro che negli anni sono arrivati, avrà ottenuto la cittadinanza sarà sempre maggiore, qualsiasi sia la legge in vigore.
Che lo ius scholae venga riconosciuta per quello che è, una razionale semplificazione, o meno.
Ius scholae? No. Per Khaby Lame c'è lo "ius Tik tok". Khaby Lame diventa il tiktoker più seguito al mondo, la discussione sullo ius scholae si infiamma e dal ministero (via Twitter) gli comunicano che presto avrà la cittadinanza. Francesca Galici su Il Giornale il 4 luglio 2022.
Non solo ius soli, ius sanguinis e ius scholae, evoluzione dello ius culturae. Si dice sempre che l'Italia è retrograda, che non ha visione del futuro... E invece l'Italia pare sia il primo Paese al mondo a introdurre lo ius Tik tok. Curioso, no? Un ragazzetto di 19 anni di nome Khaby Lame, durante la pandemia viene licenziato (come tanti) dalla fabbrica in cui lavora come operaio e visto che non può cercare un altro lavoro, visto che l'Italia è in lockdown, decide di provare 'sto nuovo social di cui qualche mese prima parlavano tutti: Tik tok. Ha tempo da perdere e si ci mette. In pochi mesi diventa popolare, i suoi follower crescono a dismisura e diventa famoso? Il motivo? Chi lo sa. Lame prende semplicemente in giro i video del web ma le ragioni per le quali molti diventano noti sono imperscrutabili. Certo, lui ha un'espressività marcata ma la viralità dei contenuti spesso sfugge alla logica. E questo ne è un esempio.
Khabi Lame è nato a Dakar 22 anni fa ma da 21 vive in Italia. Ha trascorso la maggior parte della vita nel nostro Paese e ha frequentato qui le scuole. A 18 anni avrebbe potuto chiedere la cittadinanza italiana che, dopo l'iter burocratico necessario, non gli sarebbe stata negata. Non l'ha fatto ed è stato lui stesso a spiegarne i motivi appena un anno fa: "Io sono italiano, mi ci sono sempre sentito. Non lo dico solo io. Leggo: 'Khaby, l'italiano più seguito al mondo'. Allora mi dico: vedi, sono italiano, non mi serve un foglio di carta per saperlo". Così parlava il tiktoker in un'intervista rilasciata all'inserto Sette del Corriere della sera. Eppure, quelle parole ai buonisti non sono piaciute. Khaby Lame è stato criticato e sui social gli sono state fatte pressioni affinché prendesse una posizione più netta in favore dello ius soli.
"Sono italiano, non mi serve un foglio di carta". Khaby Lame zittisce i buonisti
Tutto è andato liscio fino a pochi giorni fa. La discussione sullo ius scholae si è infiammata e lui contemporaneamente è diventato il tiktoker più seguito al mondo. E in quel momento ecco che, come per magia, arriva un tweet di Carlo Sibilia, sottosegretario all'Interno: "Volevo tranquillizzarti sul fatto che il decreto di concessione della cittadinanza italiana è stato già emanato i primi di giugno dal ministero dell'Interno. A breve sarai contattato dalle istituzioni locali per la notifica e il giuramento. In bocca al lupo". Tralasciando il fatto che Khaby Lame non sembrava poi così preoccupato di non avere la cittadinanza italiana, a quanti altri giovani è il sottosegretario in persona a scrivere per comunicare la concessione della cittadinanza? che poi sui social sia stato tutto un "Khaby Lame deve essere italiano" o "È una vergogna che non sia ancora italiano", è un altro discorso. Anche perché, a dispetto dei soloni sinistrosi che vivono in un mondo parallelo, il tiktoker già si considerava italiano a prescindere dal passaporto.
A pensar male si fa peccato, ma raramente ci si sbaglia. E le tempistiche della comunicazione sembrerebbero essere dalla parte di chi sospetta che di Khaby Lame sia stato fatto un utilizzo strumentale. Lo ius Tik tok ha sfondato le porte del populismo italiano, vediamo quali altri mirabolanti escamotage verranno trovati nei prossimi giorni.
I dati che smontano lo ius scholae: "Perché la cittadinanza non serve". Francesca Galici il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.
Si infiamma la discussione sullo ius scholae ma al netto dell'ideologia rossa sul territorio crescono i problemi legati ai reati commessi da stranieri
La discussione sullo ius scholae sta infiammando il dibattito pubblico ma sta anche stressando la tenuta della maggioranza del governo Draghi. La sinistra ha forzato la mano sulla discussione e sta bloccando il parlamento per una battaglia ideologica che serve come bandierina da piantare in vista delle elezioni del 2023. Intanto, nel mondo reale, gang di giovani immigrati scatenano il panico in situazioni come quelle di Desenzano del Garda. Le baby gang sono diventate un fenomeno molto diffuso nelle nostre città, sono composte prevalentemente da giovanissimi di seconda o terza generazione che frequentano le scuole e per i quali non è certo una cittadinanza a cambiare il modus operandi. "La violenza giovanile con il problema delle baby gang la vediamo su tutti i territori, è dovuta anche alla partecipazione di persone di seconda e terza generazione", ha confermato il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese.
I più recenti dati Istat a disposizione, reperibili nel rapporto rilasciato lo scorso 21 ottobre 2021, indicano che in Italia ci sono 3.373.876 cittadini non comunitari regolarmente presenti nel nostro Paese e per la fascia di età tra i 14 e i 17 anni rappresentano il 9,6% dell'intera popolazione. Un numero tutto sommato risibile, che però commette, tra le altre cose, il 65% degli scippi e il 47,7% delle violenze sessuali. Molti operano in gang che si muovono agilmente sul territorio. Numeri che devono fa riflettere.
Il fenomeno delle baby gang
Come spiega a ilGiornale.it Pasquale Griesi, segretario regionale Lombardia del sindacato Fsp-Polizia di Stato: "Un fenomeno in crescita e molto preoccupante è quello dei giovani, spesso cittadini italiani di seconda generazione. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, istituito presso il ministero per la Famiglia, il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso atti vandalici, 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a una rissa". Milano è una delle città che soffre maggiormente il fenomeno: "Le violenze di piazza Duomo, le gang di San Siro... Sono quasi tutte formate da italiani di seconda generazione che evidentemente si sentono stranieri e mai si sono adattati alla cultura occidentale, problema che evidentemente non si è risolto con la cittadinanza italiana". Tutti giovani che, per legge, frequentano le nostre scuole.
Risulta difficile per le forze dell'ordine contenere il fenomeno, come sottolinea Pasquale Griesi: "Sono situazioni divenute incontrollabili e sulle quali la legge non produce gli effetti desiderati divenendo inefficace, attenuata anche dal fatto che vi è mancanza di uomini e mezzi delle forze dell'ordine. La sicurezza non sia solo battaglia di campagna elettorale ma diventi priorità". Per questa ragione, come sottolinea l'esponente sindacale, "prima della cittadinanza, sarebbe fondamentale insegnare ai nostri ragazzi a essere dei cittadini esemplari".
Quello dei reati commessi dagli stranieri è un fenomeno consolidato nel nostro Paese, perché "gli immigrati aumentano e delinquono, in proporzione, più" degli italiani ma a fronte di questo "i reati non crescono". Questo, sottolinea Griesi, "significa evidentemente che esiste un effetto di 'sostituzione', per cui alcuni 'lavori' in ambito criminale, ove cessano di essere svolti da italiani e vengono svolti da stranieri". Chi opera sul territorio quotidianamente conosce molto bene questo fenomeno, a differenza dei radical chic di Palazzo, e le forze di sicurezza del nostro Paese hanno la percezione "di quanto il sistema sia debole. Attualmente il problema è legislativo e organizzativo, potenzialmente se non ci fossero queste flotte di immigrati clandestini che per sostenersi devono purtroppo delinquere, oggi saremmo un Paese super sicuro".
Le procedure di ingresso in Italia dei "presunti" minori
Molti dei giovani stranieri che oggi vivono nelle nostre città arrivano dagli sbarchi o dalle navi ong che li portano in Italia. Molti di loro non sono accompagnati e, al netto degli ovvi casi di persone di minore età, non mancano quelli che tentano gli escamotage per ottenere i corridoi privilegiati riservati a chi ha meno di 18 anni. "Quando arrivano sulle coste italiane vengono fermati dalle forze di polizia e identificati. In quel momento comunicano di essere minorenni e vengono affidati alle comunità specifiche, che dovrebbero attivarsi per eseguire gli accertamenti multidisciplinari sulla minore età", spiega a ilGiornale.it Alberto Lieggio, segretario provinciale Trapani del sindacato Italia Celere.
"Ci sono quelli che all'atto dello sbarco si dichiarano maggiorenni, li trattiamo come tali, quindi viene emesso un provvedimento amministrativo che sia di espulsione o di respingimento, e a quel punto, se non ricevono l'ordine del questore a lasciare il territorio entro 7 giorni, vengono trattenuti nel cpr", spiega ancora il sindacalista. La procedura prevede che entro 48 ore i documenti vengano trasmessi gli atti al giudice di pace per convalidare il trattenimento e il tribunale ha altre 48 ore per fissare l'udienza.
Ma a quel punto, "spesso e volentieri in udienza soggetti che si erano dichiarati nati nel 2000, 2002, 1999 in sede di convalida si dichiarano nati nel 2005 in modo da risultare sotto i 18 anni. Quindi, il giudice di pace o non convalida il trattenimento o lo convalida, ma in ogni caso dispone gli accertamenti sull'età", spiega ancora Alberto Lieggio. Ma "spesso e volentieri non vengono eseguiti perché prima o durante gli accertamenti i fantomatici minori si allontanano dalla comunità". Ci sono anche casi estremi tra quelli portati come esempio dal sindacalista, come quelli di un recente sbarco che "all'atto dello sbarco si erano dichiarati nati nell'89 e nell'85 e in sede di convalida si sono dichiarati nati nel 2005" e il giudice ha dovuto disporre gli accertamenti.
"Basta ideologie". I vescovi a gamba tesa "votano" lo ius scholae. Francesca Galici il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.
Per monsignor Perego lo ius scholae è funzionale all'introduzione dello "strumento della cittadinanza" per il futuro dell'Italia.
Nell'acceso dibattito sullo ius scholae entra in gioco anche la Chiesa con una decisa posizione in favore del provvedimento fortemente sostenuto dalla sinistra di governo. "La riforma della cittadinanza con lo ius scholae va incontro alla realtà di un Paese che sta cambiando. Spero che le ragioni e la realtà prevalgano rispetto ai dibattiti ideologici per il bene non solo di chi aspetta questa legge ma anche dell'Italia che è uno dei Paesi più vecchi", ha dichiarato monsignor Gian Carlo Perego, che nella Cei è il presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e presidente della fondazione Migrantes.
Non una presa di posizione disinteressata, quindi, da parte di monsignor Gian Carlo Perego secondo il quale la legge sullo ius scholae "viene letta con parametri ideologici e non guardando invece alla realtà. Quella di un milione e quattrocentomila ragazzi, dei quali 900mila alunni delle nostre scuole e gli altri che hanno più di 18 anni, che aspettano di essere cittadini italiani". Ma la realtà, quella raccontata con i numeri e con i fatti, è che i figli di immigrati,o gli stranieri arrivati in minore età in Italia, che aspettano la cittadinanza italiana spesso non sono integrati nel tessuto sociale in cui vivono e la scuola, in questo senso, non si dimostra all'altezza. I piccoli crimini e le baby gang dimostrano che la frequentazione di un ciclo scolastico non basta.
I dati che smontano lo ius scholae: "Perché la cittadinanza non serve"
Secondo l'opinione di monsignor Perego, invece, "occorre leggere la situazione e utilizzare lo strumento della cittadinanza per rendere partecipi di questa trasformazione le persone che attendono ma anche gli italiani che sempre si sono dette favorevoli, nei sondaggi sono oltre il 70 per cento, a questo provvedimento". E dalla sua posizione, il monsignore entra anche nella discussione politica del nostro Paese, criticando chi, in questi giorni, ha mosso dubbi sulle modalità di applicazione. Per mons. Perego non si tratta di "mettere in contrapposizione lo ius scholae allo ius sanguinis che tutela soprattutto i nostri emigranti all'estero. Ma di tutelare e riconoscere una presenza e una risorsa importante sul piano scolastico e lavorativo, per costruire il futuro del Paese. Se le persone non partecipano alla vita delle città, se non vengono riconosciuti cittadini, rischiano di non sentirsi parte del Paese".
Ius scholae, il sospetto: "I genitori non potranno più essere espulsi"
Il caso delle Francia, delle sue banlieu e della bomba sociale che è esplosa negli ultimi anni sembra non aver insegnato nulla agli ideologi dell'accoglienza. "La Chiesa italiana continuerà a sostenere questo tipo di linea che legge una realtà che già c'è, la politica deve prenderne atto", ha concluso monsignor Perego.
Da trent’anni l’Italia sta facendo una guerra spietata ai figli degli immigrati. Corrado Giustiniani su L'Espresso il 21 Giugno 2022.
La legge sullo Ius scholae deve essere approvata subito. Perché solo nel nostro Paese vengono imposte delle regole così stringenti e burocratiche per ottenere la cittadinanza. Basta guardare gli altri Stati europei per rendersene conto.
Mai come stavolta rinviare vorrebbe dire rinunciare. Se la riforma del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati, che porta il nome di “Ius Scholae”, non venisse approvata prima della pausa estiva dall’aula della Camera, che la riceverà il prossimo 24 giugno, e se il Senato non darà il sì definitivo entro dicembre, non potremo certo aspettarci che vada in porto nella prossima legislatura, con il quadro politico che si preannuncia. Una riforma, abortita già due volte, nel 2015 e nel 2017, attesa da un milione di ragazzi, italiani di diritto e non di fatto, che ha appena ricevuto l’applauso dei nostri studenti: in un sondaggio condotto da “ScuolaZoo” su un campione di 22 mila di loro, di età compresa fra i 14 e i 19 anni, ben l’85 per cento ha risposto di essere favorevole. E a maggio è arrivato il totale consenso della Siped, la società che riunisce i docenti di pedagogia delle università italiane.
Ma prima di ricordare in cosa la nuova versione della riforma consista, è doveroso sottolineare come da trent’anni il nostro Paese abbia una delle leggi europee più spietate nei confronti dei minori stranieri che aspirino a diventare cittadini, la n.91 del 1992, approvata purtroppo all’unanimità dal Parlamento di allora. Ai ragazzi vengono imposti infatti 18 anni di residenza ininterrotta dalla nascita in Italia e, una volta maggiorenni, la cittadinanza non viene nemmeno recapitata a casa. No, debbono presentarne domanda, a pagamento, affrontando le incognite della nostra burocrazia.
I deputati prima, e poi i senatori che saranno chiamati a decidere, debbono essere coscienti di quanto il confronto con altre legislazioni ci riempia di vergogna. Il bimbo o la bimba nati in Spagna da una famiglia immigrata diventano cittadini iberici dopo appena un anno di residenza. In Germania dal 2000, con Angela Merkel al governo, i figli degli stranieri sono tedeschi alla nascita, se almeno uno dei genitori vi risieda legalmente da otto anni e abbia un permesso di lungo soggiorno. In Grecia basta che i genitori risiedano da cinque anni, perché il figlio ivi nato sia cittadino. Se invece vi è giunto da piccolo, diventerà cittadino dopo aver frequentato con successo sei anni di scuola. In Francia nel 1998 sono state introdotte tre diverse modalità: che un genitore possa reclamare la cittadinanza quando il minore nato sul suolo francese ha 13 anni, a condizione che ne abbia trascorsi cinque su quel territorio. O che sia il ragazzo a farne domanda, all’età di 16 anni, o infine lasciare che la cittadinanza arrivi in automatico a 18 anni, sempre col vincolo di averne trascorsi cinque in Francia, nemmeno consecutivi, dall’età di 11 anni in poi.
I trent’anni di questa guerra contro il processo di integrazione di ragazzi che studiano assieme ai nostri, si riconoscono nel tricolore e tifano per le nostre squadre di calcio, potrebbero finire se il testo unico sullo “Ius Scholae”, presentato dal presidente della Commissione Affari Costituzionali, il 5Stelle Giuseppe Brescia, venisse approvato.
Vi si prevede che un bimbo nato in Italia da genitori stranieri, che siano residenti regolari, possa divenire italiano dopo aver frequentato un ciclo quinquennale del sistema nazionale di istruzione, e ciò su richiesta di entrambi i genitori. Quindi, come minimo, alla fine della quinta elementare. Stessa possibilità per i bimbi non nati nel nostro Paese, ma giunti entro e non oltre i 12 anni d’età. Assieme al ciclo quinquennale, valgono anche percorsi triennali o quadriennali di formazione professionale.
Ma, tempi ristretti a parte, grava l’incognita di oltre 400 emendamenti, presentati dalla Lega e da Fratelli d’Italia, molti a solo scopo dilatorio. Serve un atto di responsabilità dei partiti. Sollecitato, magari, dal Capo dello Stato. Adesso, o riforma addio.
Che cos’è lo Ius Scholae, la legge sulla cittadinanza per bambini che sono nati o hanno studiato in Italia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Giugno 2022
Il testo del cosiddetto “Ius scholae” domani approda alla Camera dei deputati. Comincerà la discussione sulla legge che intende concedere la cittadinanza a bambini figli di extracomunitari che abbiano frequentato almeno un ciclo scolastico in Italia, senza che debbano aspettare il compimento dei 18 anni. Il testo è stato presentato dal deputato del Movimento 5 Stelle Giuseppe Brescia. Lo Ius Scholae prevede che possa fare richiesta per la cittadinanza chi sia arrivato in Italia prima di aver compiuto 12 anni e porti a termine un percorso scolastico di cinque anni.
Secondo i dati relativi all’anno scolastico 2019/2020 frequentano le scuole italiane più di 877mila alunni con cittadinanza non italiana, quasi 20mila in più rispetto all’anno scolastico precedente, il 10,3% del totale degli iscritti nelle scuole italiane. Come sottolinea Save the Children, il 57,4% si concentra nel primo ciclo. Negli ultimi quattro anni scolastici il numero di alunni con cittadinanza non italiana ha ripreso a crescere, mentre diminuiscono gli studenti italiani.
La proposta sembra avere un consenso trasversale: hanno votato a favore in commissione Affari Costituzionali Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Italia Viva e Forza Italia. “La cittadinanza è una cosa importante che va decisa quando si diventa maggiorenni, come la patente. Quando sei maturo, a 18 anni, decidi consapevolmente se il Paese che ti accoglie sarà il tuo Paese”, ha invece affermato il segretario della Lega Matteo Salvini. Contraria anche Fratelli d’Italia. I due alleati di centrodestra hanno presentato 700 emendamenti in commissione. Secondo un sondaggio di Youtrend/Quorum per Action Aid, sei italiani su dieci vogliono la riforma.
“Assicurare che si sentano pienamente cittadini della comunità in cui crescono è fondamentale per garantire ai bambini e alle bambine – oggi stranieri solo per le anagrafi – una piena condivisione dei diritti e delle opportunità dei loro coetanei. La discussione del disegno di legge di modifica alle norme sulla cittadinanza in Parlamento è una occasione che non può essere mancata”, ha detto Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-EU di Save the Children. L’Organizzazione sottolinea anche che, secondo i dati sono sempre meno le scuole non coinvolte nel fenomeno migratorio (il 17,9% del totale delle scuole italiane) e sempre più numerose quelle con il 30% e oltre di alunni con origine immigrata (+0,4% rispetto all’a.s. precedente).
Tra gli alunni con origine migratoria i nati in Italia sono aumentati di 20mila unità, raggiungendo il 65,4% di essi (570mila presenze). Le quote più alte si ritrovano tra i più piccoli, nelle scuole dell’infanzia, dove la percentuale sale all’82%. La maggioranza degli studenti con origine migratoria si concentra nelle regioni settentrionali (65,3%), seguono le regioni del Centro (22,2%) e del Mezzogiorno (12,5%). La Lombardia è, da sempre, la prima regione per numero di alunni stranieri con oltre 224mila presenze (25,6% delle presenze totali in Italia). La provincia italiana con il più alto numero di alunni stranieri è Milano (quasi 80mila), seguita da quelle di Roma (più di 64mila) e di Torino (quasi 40mila).
Stamattina in piazza Capranica, a pochi passi da Montecitorio, è stato organizzato dalla Rete per la riforma della cittadinanza, un flash mob. “Italia, promettimi che 877 mila studenti riceveranno la cittadinanza, che mi considererai uguale ai miei compagni, che potrò andare a votare per la prima volta, che potrò indossare la maglia degli azzurri e non dovrò più stare in panchina”, una delle rivendicazioni dei manifestanti. L’assessora alle Politiche Sociali e alla Salute di Roma Capitale, Barbara Funari, intervenendo alla manifestazione della Riforma della Cittadinanza, ha dichiarato che sono oltre il 13% i minori residenti in attesa della cittadinanza.
Al momento in Italia è in vigore lo ius sanguinis, introdotto con una legge del 1992, il quale prevede che un figlio è italiano solo se lo è almeno uno dei due genitori. Se un bambino nasce in Italia e cresce sempre in Italia, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e solo se fino a quel momento abbia risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”. La proposta di legge dello ius soli fu presentata nel 2015 e bocciata in Senato. Nessun riferimento nello ius scholae alla legge che conferirebbe la cittadinanza pe esser nati sul territorio italiano, a prescindere dalla cittadinanza dei genitori.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
"A Bologna ius soli per statuto". Esposto Fdi: "La cittadinanza non si regala". Alessandra Benignetti il 28 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il capogruppo di Fratelli d'Italia in consiglio comunale presenta un esposto contro la decisione del sindaco Matteo Lepore di inserire lo ius soli nello statuto di Bologna: "La cittadinanza è una cosa seria, non possiamo regalarla"
"Le modifiche allo statuto comunale volute dal sindaco Matteo Lepore non rappresentano soltanto un’operazione ideologica e strumentale ma contengono anche violazioni di carattere normativo, per questo abbiamo deciso di presentare un esposto al prefetto di Bologna". Il capogruppo di Fratelli d’Italia in consiglio comunale Francesco Sassone promette battaglia sulla decisione del primo cittadino bolognese di inserire nella "carta costituzionale" della città la "cittadinanza onoraria per tutti i minori stranieri residenti, nati in Italia da genitori stranieri regolarmente soggiornanti o nati all'estero" che abbiano "completato almeno un ciclo scolastico o un percorso di formazione professionale".
L’obiettivo, si legge nel testo della delibera approvata con un voto ad oltranza nella serata di lunedì, è quello di conferire a questi ragazzi una "speciale forma di riconoscimento del loro ruolo di coesione tra popoli e culture diversi e per affermare pienamente le libertà fondamentali delle persone". Fdi e Lega, però, non ci stanno. "Si tratta di una operazione puramente ideologica e propagandistica: la cittadinanza italiana è riconosciuta mediante una legge", tuona il consigliere del partito di Giorgia Meloni. "È molto grave – va avanti – che sia stata inserita nello statuto del comune una regola del genere senza un consenso generale".
Ma i problemi, secondo il rappresentante dell’opposizione, sono anche di ordine giuridico. Ed è il motivo per cui la questione è finita all’attenzione del prefetto, Attilio Visconti. "Innanzitutto, - spiega Sassone – il comune ha già un regolamento che conferisce la cittadinanza onoraria, ma la cosa più grave è che viene introdotto un principio che non esiste nell’ordinamento italiano vincolando anche chi verrà dopo a dover perseguire questo tipo di attività". Dall’opposizione sottolineano anche come per gli 11mila ragazzi che riceveranno la cittadinanza onoraria non cambierà nulla e cioè che il provvedimento di Lepore non avrà alcun effetto concreto.
"È un pezzo di carta che viene dato e, cosa più grave, non viene richiesto dai destinatari. – sottolinea il consigliere di Fratelli d’Italia – La cittadinanza per noi è una cosa seria, non si può regalare: è il punto di arrivo di un percorso, di una condivisione". "E poi – aggiunge - la legge che c’è oggi è tra quelle che a livello europeo ha meno vincoli". Troppo basso, per Sassone, anche il numero di anni scolastici considerato necessario per diventare "bolognesi": "In Italia l’obbligo scolastico è decennale ma per Lepore bastano cinque anni per diventare cittadini".
L’obiettivo del sindaco di centrosinistra, secondo il consigliere, è quello di "farsi pubblicità al livello nazionale" alla vigilia del dibattito parlamentare sullo Ius Scholae. "Il risultato, però – sottolinea – sarà solo una grande confusione per quei ragazzi che saranno convinti di diventare cittadini dall’oggi al domani". Sassone replica anche alle dichiarazioni del primo cittadino sul consenso attorno all’iniziativa: "Noi siamo il secondo partito in consiglio comunale e il primo in Italia, sondaggi alla mano, e chi ci appoggia non la pensa affatto come lui". "La verità – conclude – è che il sindaco ha strumentalizzato i bolognesi per fare gli interessi suoi e del Pd".
Sea Watch 4, l'ultima vergogna prima dello sbarco: cosa fanno gli immigrati. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano il 26 giugno 2022
La festa si scatena in barca, davanti alla videocamera del cellulare che riprenderà quei minuti di baldoria per postarli subito su twitter. Non è un tour di qualche isola greca né un party esclusivo tra giovani rampolli borghesi. E allora perché tanto entusiasmo? È la Sea Watch 4, ong battente bandiera tedesca, che sta traghettando decine di immigrati clandestini verso le coste dell'Europa. È l'account Migrant Rescue Watch, associazione che monitora le attività e i salvataggi in mare delle ong, a cinguettare il filmato. La didascalia è eloquente: «Un altro trafficante di esseri umani in Libia, "Abu Yassin" alias "Zouari"», conferma in un post su facebook la buona riuscita della consegna dei suoi "clienti" all'imbarcazione tedesca #SeaWatch4".
GRIDA SGUAIATE
Nel video si vedono immigrati stesi a terra, alcuni avvolti in coperte grigie e altri scoperti. Chi dorme, chi si riposa, chi è già sveglio. Altri camminano in gruppo e sono loro, all'improvviso, a far partire i festeggiamenti. Grida sguaiate, mani al cielo, salti di gioia, quasi a ritmo di musica. Anche chi è 47. sdraiato si alza in piedi, di colpo, per partecipare alle danze forsennate. Ogni corridoio della nave è occupato da profughi (o presunti tali). Sono tutti nordafricani, parlano in arabo, sono anche ben vestiti. E allora sorge spontanea una domanda molto semplice: se stanno scappando dalla guerra com' è possibile che siano così spensierati tanto da inscenare una festicciola in mezzo al Mediterraneo? E visto che al peggio non c'è mai fine, ecco il danno oltre la beffa. I migranti, infatti, come riportato da Migrant Rescue Watch, nonostante fossero a bordo della Sea Watch sono riusciti anche inviare messaggi dai loro telefonini «grazie al wi-fi gratuito fornito dalla ong».
SUI SOCIAL
Della serie: la prima preoccupazione per chi è in fuga da torture, stupri e violenze varie, può mai essere quella di compulsare sui tasti dei propri cellulari per informare il mondo della traversata? Come fosse un viaggio tra amici? O una gita tra compagni? Ma mica è finita qui. Nell'account twitter di Migrant Rescue, infatti, è stato postato il profilo facebook di Abu Yassin, il trafficante di esseri umani in questione. Nome scritto in arabo e foto della nave Sea Watch 4. E questo, secondo l'associazione che monitora le attività e i salvataggi in mare delle ong, sarebbe «implicazione di contatto diretto, garanzia e certezza dei servizi». La Sea Watch 4 si trova ora nei pressi del porto di Licata, con a bordo 312 persone soccorse nei Mediterraneo. L'ong ha chiesto a gran voce il soccorso di alcuni occupanti e stando a fonti interne alla capitaneria di porto la Guardia Costiere avrebbe dato il via libera per lo sbarco di otto persone per motivi medici: tra loro anche una donna incinta all'ottavo mese e due neonati di cinque e sette mesi. «Siamo fuori con tutte e due le motovedette», è il messaggio filtrato dalla capitaneria. Si sono attivate anche le associazioni Procivis, GCA e Croce rossa italiana per gli otto bisognosi di soccorso e cure. Era dal 20 giugno che la ong che batte bandiera tedesca chiedeva un porto sicuro per sbarcare i profughi in fuga dalla Libia.
ASSISTENZA
«La nostra nave non è un ospedale e non possiamo garantire l'assistenza necessaria alle persone a bordo per un periodo di tempo prolungato», ha sottolineato Alberto Mallardo, operatore di Sea Watch. «Per questo reiteriamo la nostra richiesta alle autorità competenti perché assegnino un porto sicuro alle persone che abbiamo soccorso». E non poteva mancare il dito puntato contro Italia e Malta. «Nei giorni scorsi a bordo della Sea Watch 4 siamo stati testimoni ancora una volta di drammatiche omissioni di soccorso da parte dell'Italia e di Malta», ha spiegato Mallardo. Intanto, a bordo, festeggiavano felici e addirittura postavano video in serenità. Mancava solo una bottiglia di champagne e un cesto pieno di ostriche...
Stupri, risse, reati "culturali": l'immigrazione criminale che spaventa l'Italia. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 17 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il lato violento dell'immigrazione tra reati sessuali e aggressioni delle forze dell'ordine: "In Italia una presenza stabile della compagine straniera".
Donne e ragazze molestate o violentate in mezzo alla strada. Agenti e carabinieri presi a pugni o minacciati con coltelli. E ragazzine maltrattate o uccise dai propri familiari perché rifiutavano le tradizioni della propria cultura e volevano vivere all’occidentale. Sono i delitti e le aggressioni che compaiono sulle pagine di cronaca e che coinvolgono criminali stranieri. È il fenomeno dell’immigrazione criminale, nato di pari passo con l’arrivo in Italia di gruppi sociali e culturali da diversi Paesi del mondo, fenomeno che dagli anni Settanta ha trasformato la Penisola in uno Stato di immigrazione. Ma come questa tendenza ha trasformato il panorama criminale?
"La presenza di gruppi sociali, etnici e culturali diversi comporta inevitabilmente una trasformazione delle fattispecie criminali - ha spiegato a ilGiornale.it la criminologa Francesca Capozza, autrice del libro Immigrazione criminale, che analizza il fenomeno, mostrando il volto della criminalità straniera in Italia - Si vede la presenza stabile della compagine straniera che prende la forma di criminalità organizzata, di quella comune, del terrorismo, nonché dei reati culturalmente motivati”.
I numeri della criminalità straniera
Immigrazione non è sinonimo di criminalità. E viceversa. A partire dagli anni Settanta però nel nostro Paese si è registrato un aumento dell’arrivo di persone da altre parti del mondo, con cultura e abitudini diverse. E alle persone che migrano regolarmente si sono aggiunte quelle irregolari. Questo nuovo movimento ha comportato un cambiamento della delinquenza, perché ai criminali italiani si è aggiunta la compagine straniera, che è andata a modificare il panorama generale della criminalità e della sicurezza.
I dati, riportati nel XIII rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, raccontano di una crescita del numero degli stranieri presenti nelle carceri italiane che, a partire dai primi anni ’90, ha subito un aumento “inarrestabile”. Ora, stando ai dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 maggio 2022, gli stranieri detenuti sono 17.136, su un totale di 57.067 persone in carcere: una percentuale che supera di poco il 30%, come conferma anche la criminologa Francesca Capozza, che parla di dati ufficiali “che non registrano quindi eventuali ulteriori coinvolgimenti non accertati”. Nelle grandi città, però, questa percentuale sale, tanto che, secondo quanto specificato a ilGiornale.it dall'assessore Riccardo De Corato, “a Milano oltre il 70% della popolazione carceraria di San Vittore è composta da immigrati”.
Bisogna precisare però che tra i detenuti stranieri la percentuale dei migranti irregolari, riportata dal rapporto di Antigone, si attesta “tra il 60 e l’80% a seconda del tipo di crimine”. Non solo. “Quasi tutti i migranti che commettono reati hanno dei precedenti - precisa l’assessore De Corato - Credo che molti dei clandestini presenti sul territorio italiano fuggano dal proprio Paese d'origine perché evidentemente hanno dei conti in sospeso con la Giustizia, probabilmente non possono neanche girare a piede libero o rischiano pene pesantissime. Altrimenti non si spiega il motivo per cui preferiscano pagare fior di soldi agli scafisti, rischiando la vita in mare, piuttosto che raggiungere l'Italia con altri mezzi. Non credo che tutti siano in fuga dalla guerra".
Queste percentuali fanno riferimento alla criminalità in generale. Ma l’attività della compagine straniera varia a seconda della tipologia di reati commessi. Il XIII Rapporto di Antigone del 2017 legava la presenza in carcere di criminali stranieri soprattutto ai reati contro il patrimonio, relativi alla droga e connessi alla prostituzione. “Le tipologie di reato maggiormente poste in essere da costoro - ha spiegato a ilGiornale.it la dottoressa Capozza - riguarda reati contro il patrimonio (nella misura del 27%, in particolare furti e rapine), contro la persona (il 31%, in particolare lesioni personali volontarie), violazione della legge stupefacenti (circa il 31%)”. Bassa invece la percentuale di stranieri detenuti per reati di stampo mafioso.
Stupri e molestie sessuali
Era da poco passata l'alba del 9 agosto 2021 quando una 26enne italo-sudamericana venne sorpresa di spalle, trascinata per un braccio e violentata nello scavo per le tubature idriche di un cantiere a Cascina Gobba, a due passi dall'ospedale San Raffaele, da un egiziano di 31 anni sprovvisto di regolare permesso di soggiorno. Lo scorso 6 dicembre invece una giovane pendolare è stata aggredita sul treno Milano-Varese da due ragazzi poco più che ventenni. Il primo, colui che avrebbe fatto da “palo”, è un italiano con problemi di tossicodipendenza; l'altro - l'esecutore materiale del tentato stupro – è un marocchino con precedenti di polizia e irregolare sul territorio italiano. E poi l'orrore della notte di San Silvestro: ben 9 ragazze sono molestate da una gang di stranieri a due passi dal Duomo di Milano durante i festeggiamenti per l'inizio del nuovo anno.
"Ti prego, fermati". Quel grido disperato, poi l'orrore del clandestino
“I dati Istat parlano chiaro: gli stranieri sono responsabili cinque volte in più rispetto agli italiani dei reati di violenza sessuale - precisa l'assessore Riccardo De Corato - Nonostante l'inasprimento delle pene, le molestie e gli stupri non diminuiscono. Le politiche a favore del rispetto delle donne sembrano non aver fatto presa su una parte della popolazione straniera - e l'episodio gravissimo avvenuto la notte di Capodanno in piazza Duomo lo conferma - che continua a considerare la donna come un oggetto, una proprietà di cui l'uomo può fare quel che vuole”.
Lo scorso 2 giugno, cinque adolescenti sono state importunate con molestie choc sul treno per Peschiera al rientro da una mattinata trascorsa sul Lago di Garda. I responsabili, non ancora tutti identificati, avrebbero rivolto insulti razzisti alle giovani vittime: “Siete bianche, qui (sul treno ndr) non dovete stare”. Un fenomeno preoccupante, che fa segnare un record negativo in Lombardia, quello relativo ai reati sessuali. “Nel nostro capoluogo (Milano ndr) il trend degli ultimi anni non ha mai visto un calo, purtroppo - aggiunge De Corato – Anzi è in leggera crescita visto che dai 273 casi del 2011 si è passati ai 285 del 2021. A parer mio la situazione è molto preoccupante”.
I reati "culturalmente motivati"
Non meno allarmante è la tendenza relativa ai cosiddetti “reati culturalmente motivati”, ovvero quei crimini che maturano in un contesto culturale contrastante con il sistema di norme e valori del Paese ospite. “Le teorie esplicative della criminalità straniera individuano una multifattorialità del comportamento delinquenziale in cui il conflitto interiore tra cultura d'origine e sistema di valori del paese ospitante - spiega la dottoressa Capozza - che produce una contrapposizione in una stessa persone di sistemi culturali e normativi diversi, può esitare in disagio, insicurezza, smarrimento con rischio di disadattamento, disturbo psichico e criminalità".
Vi sono poi altri fattori da prendere in considerazione quali, ad esempio, "le precarie condizioni economiche e sociali in cui gli immigrati versano - prosegue l'esperta - l'emarginazione sociale di cui spesso sono vittime con il conseguente rischio di 'etichettamento', l'assenza di gruppi sociali e familiari di riferimento possono favorire l'adozione di comportamenti delinquenziali".
L'integrazione che non c'è: "I casi come Saman in aumento"
Tra i reati culturalmente orientati sono in notevole aumento quelli connessi al fenomeno dei matrimoni forzati. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Viminale, due vittime su tre sono straniere con una forte incidenza delle donne di nazionalità pakistana. "Credo che ci sia, per lo meno da parte di alcuni, anche un grosso problema di sottovalutazione di alcuni fenomeni che vengono ignorati e 'archiviati' come usi e costumi di una cultura da rispettare - aggiunge De Corato - Mi riferisco per esempio al niqāb e alla mutilazione dei genitali femminili, pratica quest’ultima a cui vengono assoggettate molte bambine, figlie di extracomunitari anche nel nostro Paese".
Le stime relative all'infibulazione (Università Milano Bicocca, anno 2019), invece, contano 87.600 vittime in Italia. Tra queste, 7mila sono bambine e ragazze poco più che adolescenti. "C’è evidentemente ancora tanto da fare per diffondere la cultura del rispetto e della parità nei confronti delle donne – conclude l'assessore alla sicurezza della Regione Lombardia - Apriamo qualche volta gli occhi realizzando quanto sia ancora grave la condizione di segregazione culturale in cui vengono tenute le donne anche qui da noi quando accadono vicende come quelle di Saman. Poi tutto ricade nel dimenticatoio e si torna a far finta di non sapere che molti islamici considerano le donne antropologicamente inferiori e subalterne all’uomo".
Le aggressioni alle forze dell'ordine
Non solo stupri, furti e rapine o reati “culturalmente motivati”. L’immigrazione violenta colpisce anche le forze dell’ordine. L’ultima vicenda risale a pochi giorni fa, quando a Pisa un trentenne extracomunitario ha aggredito un poliziotto, colpendolo con un violento pugno. Non solo: durante il tragitto il giovane avrebbe distrutto il vetro della volante.
Nel maggio 2021 invece a essere aggrediti erano stati due poliziotti in servizio a Milano, quando una coppia di nordafricani irregolari aveva dato in escandescenze insultando i poliziotti. Poi la violenza: calci e pugni contro gli agenti, rimasti entrambi feriti, tanto da dover ricorrere alle cure del pronto soccorso. Uno dei due poliziotti aveva rimediato una frattura alla mano e una prognosi di 25 giorni, mentre all’altro era stata diagnosticata una contusione al gomito. Prima ancora, nel gennaio 2021, un gruppo di stranieri aveva accerchiato gli agenti di polizia, minacciandoli con una bottiglia di vetro rotta e dando diversi pugni.
La furia degli algerini: spezzano la mano al poliziotto
Secondo il report Sbirri Pikkiati del 2021, fornito dall’Asaps, l’Associazione a favore della sicurezza sulle strade, nel 2021 le aggressioni fisiche agli agenti sono state in totale 2.655, più di 7 al giorno. Di queste il 37% è stato causato da cittadini stranieri. Ma perché questo accanimento verso polizia e carabinieri, con il rischio di essere fermati? “Da una parte le difficoltà linguistiche e di conoscenza della cultura e delle norme rendono difficile per lo straniero poter comunicare e comprendere il sistema sociale e giuridico in cui è inserito”, ha spiegato la criminologa Francesca Capozza. Ma c’è dell’altro. Infatti, continua l’esperta, “dall'altra parte, le forze dell'ordine nella flagranza del reato rappresentano il limite e la legge da cui gli stessi rifuggono o che faticano a comprendere ed accettare, riversando pertanto su di essi l'emotività reattiva connessa”.
Il rischio di radicalizzazione
I dati relativi al fenomeno dell'immigrazione violenta, che chiaramente interessa solo le frange estremiste e radicali degli stranieri che giungono in Italia, profilano scenari poco rassicuranti per il futuro. Milano, dove la presenza di clandestini raggiunge quota 50mila, è tra le città italiane più a rischio. “È evidente che la scelta di riversare su Milano non sia casuale: ci sono soldi, benessere e lavoro. Ma la questione è un'altra. Il punto è che, ormai, molti quartieri della città sono appannaggio della compagine straniera - spiega De Corato - Le case popolari di San Siro, ad esempio, sono quasi tutte occupate da abusivi arabi. Lo stesso si dica per Corvetto dove c'è una forte presenza di stranieri dell'est Europa, rom e africani. Sono tutti luoghi dove lo Stato ha perso contatto con la realtà e dove, a parer mio, la situazione è irrecuperabile. Ed è ovvio poi che il rischio di una criminalità crescente e violenta sia elevato".
Per quanto le prospettive non siano incoraggianti e il processo di radicalizzazione sia una eventualità contemplabile, non siamo di fronte a una criticità irreversibile. "L'unica soluzione per garantire la sicurezza ai cittadini è la presenza di forze dell'ordine sul territorio. A Milano, ad esempio, fino a qualche tempo fa, c'erano i vigili di quartiere. Dove sono finiti? L'unico deterrente è la presenza capillare di uomini in divisa, appiedati, e il portierato sociale - conclude l'assessore lombardo - Ma allo stato attuale dei fatti, con interi quartieri popolari presi d'assalto dagli stranieri, è praticamente impossibile applicare soluzioni di questo tipo. Le persone hanno paura".
La Vlora al porto di Bari, il più grande sbarco dei profughi albanesi. La «Gazzetta» dell'8 agosto del 1991 racconta il dramma dei 600 clandestini in fuga dalla dittatura dal Paese delle Aquile. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Agosto 2022.
«Nuova ondata albanese» titola «La Gazzetta del Mezzogiorno» dell’8 agosto 1991. Mentre, di prima mattina, i lettori sfogliano l’edizione del giornale non possono sapere che in quegli stessi istanti sta avendo luogo, nel porto di Bari, il più grande, spettacolare e tragico sbarco di profughi mai verificatosi sulle coste adriatiche. È il giorno della Vlora. Il 7 agosto, però, 600 albanesi sono arrivati a San Foca, approdando tra sbalorditi bagnanti. Notizie drammatiche arrivano, attraverso canali diplomatici, dall’Albania: «Si parla di violenti scontri tra la polizia e migliaia di albanesi nel porto di Durazzo, durante ripetuti assalti alle navi con cui raggiungere il sogno italiano. Secondo informazioni non confermate – si legge in prima pagina – ci sarebbero stati dodici morti e due donne sarebbero annegate».
Una profonda crisi economica e sociale aveva generato la spinta all’esodo dal paese delle Aquile: in migliaia desideravano sfuggire ad un clima repressivo alla ricerca di condizioni di vita migliori dopo quarant’anni di regime comunista e di isolamento. Con il sostegno della diplomazia internazionale, un anno prima circa 5000 profughi avevano lasciato l’Albania e in Italia erano stati smistati poco più di 800 rifugiati. Nel marzo 1991 sulla costa meridionale della Puglia, da Monopoli ad Otranto, decine di migliaia di migranti albanesi, erano approdati con piccoli natanti e avevano ricevuto una prima accoglienza in scuole, camping, residence, alberghi. Si era registrata già in quell’occasione una generosa mobilitazione di associazioni di volontariato, ma anche di singole famiglie per l’accoglienza di queste persone.
Adesso a Tirana, scrive Carlo Bollino nelle pagine interne, c’è chi sospetta che la fuga di queste persone sia pilotata. Anche il governo italiano crede che il leader albanese Alia stia sfruttando il fenomeno per fare pressione sull’occidente affinché questo lo aiuti economicamente. Nessuno tenta di bloccare questo esodo, denuncia il portavoce del Partito democratico albanese: neppure la polizia interviene in questo scenario drammatico. «La gente sembra impazzita: nel porto di Durazzo sono in migliaia. Ho visto persino i soldati con i mitra in spalla lanciarsi in acqua per tentare di raggiungere le navi». Racconta l’inviato della Gazzetta: «Alcune centinaia di persone si sono riversate nei porti riuscendo a impossessarsi di due pescherecci e di due navi e, con quelle, a prendere il largo. Una terza nave, la Vlora, di 60 metri, la più grande di tutte, è invece rimasta ormeggiata con oltre 4000 persone a bordo. Pare ci fosse un guasto ai motori. Ma in nottata anche questa è riuscita a partire..».
«Vlora», Bari sgomenta di fronte ai diecimila, poi l’attracco e l’attesa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Agosto 2022
Con una impressionante foto di Vittorio Arcieri si apre «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 9 agosto 1991. «Una visione del quasi apocalittico spettacolo offerto ieri dal porto di Bari all’inizio dello sbarco dei profughi della motonave “Vlora”. Un gran numero di fuggiaschi si è buttato in mare ed ha poi guadagnato la riva come meglio ha potuto», spiega la didascalia.
Sono giornate storiche: «Diecimila disperati. Diecimila persone in cerca di libertà, di un tozzo di pane, di una nuova vita, disposte ad ogni cosa, che l’altra mattina hanno preso d’assalto nel porto albanese di Durazzo una motonave ed hanno tentato di realizzare il loro sogno: ottenere ospitalità nel nostro Paese. Hanno scelto Bari ma il loro sogno si è rivelato ben presto un nuovo incubo: da Roma è stato infatti negato il permesso di asilo ai profughi albanesi. Nella calca, a bordo, alla fine è stato recuperato anche un cadavere. Quella di ieri è stata una giornata densa di tensione per Bari.
Al porto si sono susseguite scene ancor più drammatiche di quelle vissute il 7 marzo scorso nello scalo di Brindisi quando dai boat people sbarcarono oltre 20 mila profughi. Che si trattasse di un nuovo esodo biblico nelle proporzioni lo si è capito subito», scrive Liborio Lojacono nelle pagine interne.
Alle 4 di notte dell’8 agosto 1991 da Brindisi è stato dato l’annuncio via radio che la «Vlora», nave commerciale battente bandiera albanese di circa 9mila tonnellate, era diretta verso Bari.
Allarme rosso in Capitaneria: da Roma arriva l’ordine di «fermare ad ogni costo la nave e di non farla entrare in porto». Inizia un fitto scambio di messaggi tra le autorità italiane e il comandante della motonave albanese, il quale non demorde, non inverte la rotta e implora: «Fateci entrare nel porto, per pietà. Non abbiamo medicine, non abbiamo niente. A bordo ci sono persone ferite, in gravi condizioni. Una bambina sta morendo».
Intorno alle 11.15, il mercantile ha forzato il blocco: «una nave la cui linea di galleggiamento coincideva con il pelo dell’acqua, stipata all’inverosimile; gente sull’orlo del collasso, aggrappata alle paratie, ai pennoni, stipata ovunque. Una umanità di disperati che alla vista della terra promessa hanno gridato “toca, toca” (terra, terra). Poiché l’ordine di attraccare non arrivava, prima uno, poi dieci, cento, e infine più di un migliaio di albanesi si sono tuffati in mare cercando di guadagnare la riva». Tutti sono stati recuperati dalle motovedette delle forze dell’ordine e in tarda mattinata un rimorchiatore ha finalmente agganciato la Vlora, che così ha potuto attraccare. Iniziava, dopo ore e ore di angosciosa navigazione, la lunga attesa sotto il sole cocente di agosto, a temperature insostenibili, di migliaia di albanesi che sognavano l’Italia.
Accoglienza e rivolte, dopo lo sbarco della Vlora esplode il caos totale. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Agosto 2022
«Qualcuno, prima o poi, lo dovrà fare. Bisognerà inserire un articolo nella Costituzione: l’Italia è una Repubblica fondata sul volontariato», scrive Gaetano Campione su «La Gazzetta del Mezzogiorno» denunciando le inefficienze della macchina burocratica statale, che non ha saputo far fronte all’emergenza profughi scatenatasi l’8 agosto 1991 a Bari. Poche ore dopo l’attracco della «Vlora» al porto del capoluogo pugliese, migliaia di albanesi sono stati trasportati allo stadio della Vittoria.
L’esercito della solidarietà ha avuto la meglio sulle istituzioni, commenta il giornalista.
La scelta di aprire i cancelli dello stadio è spiegata dal prefetto vicario Giuseppe Cisternino: «Abbiamo voluto evitare di ripetere a Bari l’esperienza di Brindisi quando i profughi vennero abbandonati sul molo. Lo stadio offre servizi igienici, spazi al coperto e possibilità per controllare meglio gli albanesi. Il rischio, infatti, è quello che tutti si allontanino, disperdendosi in città».
Nella notte, però, come si legge sulla prima pagina de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 10 agosto 1991, si è scatenata nel «della Vittoria» la rivolta: barricate, sassaiole, lacrimogeni e manganellate.
In tremila, però, sono rimasti fuori dallo stadio: radunati sulla banchina del porto, sono stati assistiti alla meno peggio. «Non hanno provveduto, però, a fornire un riparo, sia pure di emergenza, come insistentemente ha chiesto il sindaco di Bari, il prof. Enrico Dalfino, il quale pur avendo le mani legate perché il problema profughi è di stretta competenza del governo centrale, l’ha spuntata su un punto: l’intervento dell’esercito», si legge sul quotidiano.
«Due uomini piangono come bambini e stringono al petto un giovane di appena 18 anni: è il loro fratello minore. Quest’ultimo indossa un paio di pantaloni da soldato, i capelli tagliati a zero. È un disertore. Se torna in Albania lo attendono la corte marziale e almeno 20 anni di galera. I due fratelli, che lavorano a Mesagne, supplicano i funzionari di polizia di lasciarlo andare»: sarà rimpatriato sul traghetto «Tiziano». Parte, così, il primo contingente dell’ «esercito dei disperati approdato nel nostro porto»: «È stato costretto a lasciare la “terra promessa” il Paese del cosiddetto “benessere”, così come gli albanesi hanno imparato a conoscerlo dagli spot televisivi. I primi profughi stanchi, sfiduciati, delusi, coi volti emaciati dalla sofferenza di un’altra notte trascorsa stesi al suolo e privi di qualsiasi riparo e di un’altra intera mattinata sotto un sole cocente – ieri è stata una delle giornate più torride di questa estate barese – hanno ripreso la via di casa a bordo dei mezzi dell’Aeronautica militare».
L'Albania non riprende i profughi, alta tensione a Bari. E' l'11 agosto 1991: da tre giorni la città sta gestendo una straordinaria emergenza, l’arrivo della motonave Vlora. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Agosto 2022
È l’11 agosto 1991: da tre giorni la città di Bari sta gestendo una straordinaria emergenza, l’arrivo di più di diecimila profughi albanesi (non si conosce ancora il numero esatto) con la motonave Vlora, partita da Durazzo. Sintetizza «La Gazzetta del Mezzogiorno» in prima pagina: «Il governo albanese sta frenando il ponte aereo da Bari e da Brindisi, che ha riportato in patria 3900 profughi. È un inganno all’Italia: Tirana rallenta le operazioni di atterraggio ufficialmente per motivi burocratici. A Roma riunito d’urgenza un vertice interministeriale. Ribadita la linea dura, messaggio alla Cee e all’Onu: questo problema non è soltanto italiano».
Poche ore dopo l’approdo della Vlora, nonostante gli ostacoli posti dal governo centrale, si è deciso di sistemare i rifugiati nello stadio «della Vittoria».
«La lotta è contro il tempo. Più passano le ore più sale la tensione tra i circa quattromila profughi albanesi ammassati in parte nello stadio e in parte sul piazzale di fronte alla curva nord». Disordini e momenti di tensione - acuiti dal caldo e dalla mancanza di acqua e di cibo - hanno avuto luogo mentre si svolgevano le operazioni di trasferimento all’aeroporto di Palese. Molti non mangiavano da tre o quattro giorni, da quando erano a bordo della nave Vlora. Quando le forze dell’ordine hanno iniziato a distribuire panini si sono accese risse. Un gruppo di «irriducibili» ha dato fuoco all’autoparco della Croce Rossa, scrivono i cronisti Lojacono e Triggiani: si tratta di malviventi e disertori, ancora in divisa, che non intendono tornare in Albania perché andrebbero incontro a sanzioni molto dure. Affermano di essere disposti a morire pur di non tornare in patria.
Critica è, inoltre, la situazione nel porto, dove staziona ancora chi non è riuscito ad entrare nello stadio: «Lo spazio occupato dagli albanesi, circa un chilometro del molo, è off limits per tutti. Nessuno può penetrare nella muraglia umana e non si sa cosa stia accadendo e quale sia la reale situazione in quella specie di repubblica autonoma. Nessuno sa con precisione quanti siano i profughi albanesi stipati in quello spazio ridotto. Forse 3-4 mila persone. Certamente non di meno».
Il sindaco Enrico Dalfino sta strenuamente lottando per garantire un’assistenza dignitosa a questi uomini, donne, bambini: docente universitario di Diritto pubblico, democristiano, è stato eletto primo cittadino del capoluogo pugliese esattamente un anno prima. Senza indugio è salito su una motovedetta della Guardia di Finanza, si legge sulla «Gazzetta», per ispezionare il molo e tentare di aprire un dialogo con i profughi. Nei giorni successivi, in battaglia aperta contro il governo, sarà sempre più in prima linea nella gestione dell’emergenza.
A Bari non c’è pace: ancora scontri tra polizia e albanesi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 agosto 2022.
È il 12 agosto 1991. Continuano gli scontri violenti tra le forze dell’ordine e le migliaia di profughi albanesi sbarcati a Bari quattro giorni prima e non ancora adeguatamente accolti e assistiti.
Si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno»: «È stata la giornata degli irriducibili, di quei profughi, ormai esasperati da giorni di attesa sotto il sole cocente, a volte senza acqua e senza cibo, che hanno giocato la carta della violenza come ultimo, disperato tentativo di evitare il rimpatrio». I disordini si sono verificati sia allo stadio «della Vittoria», in cui è radunato il maggior numero di persone, sia al porto. Decine di feriti sono stati trasportati e medicati al vicino centro traumatologico ospedaliero, cinquanta dei quali poliziotti, carabinieri, finanzieri e soldati. Numerosi altri profughi hanno fatto ricorso alle cure dei medici, nei presidi di pronto soccorso allestiti, dove l’opera dei volontari si è dimostrata, per l’ennesima volta, preziosa ed insostituibile.
Mentre le violenze nel molo foraneo sembrano giungere al culmine, all’improvviso, dalla barricata di bidoni di nafta, copertoni di camion e travi di legno, creata dagli albanesi per impedire di essere rimpatriati, si alza una bandiera bianca. «Una delegazione di albanesi chiede di parlamentare. “Dove andremo? È vero che ci riportate a casa?”. Sono questi gli interrogativi ai quali gli irriducibili chiedono una risposta. In cambio offrono la tregua dopo due ore di battaglia. Accordo raggiunto».
L’arcivescovo di Bari Magrassi affida ai cronisti della «Gazzetta» il suo pensiero: «Si tratta di un dramma apocalittico. Forse si sarebbe potuto fare di più e meglio, ma nemmeno io saprei indicare in che modo».
«Stiamo assistendo ad un dramma le cui dimensioni sono circoscritte solo grazie alla concreta testimonianza delle forze dell’ordine, delle organizzazioni di volontariato e democratiche alle quali non è mancato il valido contributo di singoli cittadini e dei lavoratori: afferma un rappresentante delle Acli baresi: «Di contro ancora una volta, le Istituzioni centrali e chi li rappresenta, brillano per l’assenza».
Dello stesso avviso l’on. Sergio Garavini, coordinatore nazionale di Rifondazione comunista, il quale ammette: «il ministro delle Finanze Rino Formica è il primo rappresentante del Governo che si è fatto vedere!». Il giorno dopo arriverà, per un veloce e infuocato vertice, il presidente della Repubblica Cossiga: mai si presenterà per rendersi conto delle operazioni di assistenza ai profughi, invece, il capo del Governo Andreotti.
E il «Della Vittoria» fu «stadio lager». A Bari nel ‘91 lo sbarco dei primi albanesi. Annabella De Robertis La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Agosto 2022
«C’era una volta il “della Vittoria”», scrive Gianni Antonucci sulle pagine interne de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 13 agosto 1991: «quando il 6 settembre 1934 venne inaugurato da Mussolini il “della Vittoria”, fu subito battezzato “tempio della giovinezza”. Cinquantasette anni dopo, a 15 mesi di distanza dalla sua andata in pensione, è stato tristemente chiamato “stadio-lager”».
Il giornalista scrive a quattro giorni dall’arrivo a Bari della motonave Vlora, che trasportava quasi ventimila profughi albanesi in fuga da condizioni di vita drammatiche. Dopo averli radunati nel porto, lo stadio del capoluogo pugliese fu individuato come unico punto di accoglienza adatto a contenere un numero così elevato di persone.
«Ora è lì nell’antica zona Marisabella rovinato nelle strutture, distrutto negli impianti, ridotto quasi ad un vecchio rudere». Lo stadio, proprio in questi giorni oggetto di nuovi lavori, avrebbe dovuto accogliere in origine un monumento celebrativo della vittoria nel Primo conflitto mondiale, ma non accadde mai.
Scrive Antonucci: «Oltre ad aver offerto alle varie generazioni di tifosi momenti magici assieme ad altri di crepuscolari amarezze, ha avuto un’esistenza davvero burrascosa e non soltanto dal punto di vista sportivo. Se da un lato il vecchio stadio ha archiviato, in mezzo secolo, sei effettive invasioni o tentate invasioni di campo, dall’altro ha catalogato altre invasioni extracalcistiche: la prima nel 1940, dalle truppe italiane dirette in Albania per affrontare il grosso impegno bellico nel segno di “spezzeremo le reni alla Grecia”. La seconda nel 1943, dei carri armati del generale Montgomery».
Nel 1940, spiega meglio Antonucci, a pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, nel “della Vittoria” fu sistemato un reggimento di fanteria, dotato di muli, in attesa di essere imbarcato per Durazzo. «Una notte, la paglia che serviva per i muli prese fuoco e tutti i locali all’interno della struttura sportiva andarono completamente distrutti».
Tre anni dopo, invece, furono i tanks dell’VIII armata britannica a devastare lo stadio: gli alleati installarono anche un ring per incontri di pugilato. La notte del 2 dicembre 1943, durante il terribile raid aereo della Luftwaffe, che causò una grave strage di militari e civili, due bombe centrarono il campo da gioco. La prima partita del Bari, all’indomani della guerra, fu giocata però il 4 marzo 1945 nel campionato dell’Italia Libera: naturalmente si iniziò con un derby con il Lecce.
Commenta Angelo Albanese: «Se il della Vittoria potesse parlare, quanti episodi e fatti inediti verrebbero fuori! Su quel campo ed in quegli spogliatoi, c’è la storia di Bari squadra e di Bari città».
Bari, quell’ingiusta offesa a Dalfino. Nel ‘91 lo scontro fra Cossiga e il sindaco. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 agosto 2022.
«Non ringrazio il Comune di Bari. Né tanto meno ringrazio il Sindaco di Bari, le cui dichiarazioni sono semplicemente da irresponsabile. Mi dispiace che una città come Bari, generosa, abbia un siffatto Sindaco. Mi auguro che abbia la decenza di chiedere scusa all’autorità di Governo, altrimenti sarà mia cura, come Capo dello Stato, chiedere la sua sospensione dalle funzioni di ufficiale dello Stato».
Queste le durissime, ingiustificabili parole, riportate in prima pagina da «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 14 agosto 1991: sono state pronunciate dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga durante un incontro con i giornalisti tenutosi dopo un vertice in Prefettura a Bari, da cui il Sindaco stesso è stato escluso.
Quale sarebbe la grave colpa del prof. Enrico Dalfino, democristiano come Francesco Cossiga, eletto primo cittadino di Bari nel giugno 1990? Aver criticato, in un’intervista rilasciata il giorno prima al quotidiano «Il Manifesto», la linea adottata dal Governo per fronteggiare l’emergenza profughi scoppiata l’8 agosto con l’arrivo della nave «Vlora» nel porto pugliese.
Dalfino ha attaccato la scelta delle autorità statali di concentrare i primi immigrati irregolari albanesi arrivati sul suolo italiano in massa nello stadio e nel porto del capoluogo pugliese.
Il presidente Cossiga non risparmia neanche la «poco presidenziale definizione di “cretino”». Lo scontro istituzionale, insomma, è aperto. Non è, tra l’altro, l’unica preoccupazione del presidente della Repubblica, che nell’agosto 1991 sta affrontando anche le reazioni alla sua «scivolata» sul caso Renato Curcio: pochi giorni prima egli ha, infatti, proposto di concedere la grazia al fondatore delle Brigate rosse. Condizionare tale azione al riconoscimento da parte delle forze politiche, del Governo e del Parlamento, è un atto inusuale, che scatena un serratissimo dibattito nell’opinione pubblica.
Prima di arrivare a Bari, Cossiga è andato personalmente a Tirana per discutere dell’emergenza profughi: le autorità locali «hanno dato atto della grande umanità e della grande prudenza con cui ci eravamo comportati: altro che lager!», è la dichiarazione del presidente.
Stefano Boccardi riporta sulla «Gazzetta» la replica di Dalfino: «Quando saprò di cosa devo chiedere scusa, se questo mio comportamento sarà riprovevole sul piano etico o sul piano giuridico, certamente chiederò scusa». Il capo dello Stato rifiuta, in quell’occasione, un incontro di chiarimento con il Sindaco.
«Vlora», così finì il braccio di ferro. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 agosto 2022.
«Ma davvero restiamo in Italia?». Scoppia l’euforia nel porto di Bari. Finalmente, dopo sette giorni, si dichiara chiusa l’emergenza albanesi nel capoluogo pugliese. «La Gazzetta del Mezzogiorno» annuncia: «i duemila albanesi asserragliati allo stadio “della Vittoria” e al porto resteranno in Italia. L’ha deciso il governo. I profughi sono stati già trasferiti in nove regioni: oltre trecento restano in Puglia. Una commissione verificherà la loro condizione: chi non è in regola con la legge-Martelli, sarà rimpatriato, Milano è pronta ad accoglierli, purché a spese dello Stato. E Bossi: mandateli al Quirinale!».
Rientra anche il caso Dalfino: dopo le pesantissime accuse rivolte dal capo dello Stato al Sindaco di Bari, definito “irresponsabile” e “cretino”, il ministro dell’Interno Scotti, incaricato da Cossiga di valutare il provvedimento di sospensione o rimozione dall’ufficio, afferma: «la questione è chiusa in perfetta sintonia tra il Sindaco e me».
Il giorno prima i cronisti della «Gazzetta» sono riusciti a entrare nell’impenetrabile molo foraneo del porto di Bari, dove per quasi una settimana si sono asserragliati i cosiddetti “irriducibili”, quei profughi che con in ogni modo hanno cercato di evitare il rimpatrio. «Finora nessun italiano e tantomeno le forze di polizia erano riusciti a penetrare in questo braccio di terra, lungo più o meno cinquecento metri, una specie di zona franca. Erano le 14, il sole picchiava maledettamente impietoso. La temperatura sfiorava i 40 gradi. Gli albanesi erano distrutti. Le privazioni alle quali si stanno sottoponendo, li hanno debilitati nel fisico e nel morale. “Noi non siamo mendicanti. Non vogliamo l’elemosina. Il nostro destino è segnato. Se dobbiamo crepare, preferiamo morire qui”. “Tu sei giornalista? Scrivi il nostro dramma”, imploravano». Liborio Lojacono intervista un uomo di trent’anni, laureato in filosofia: parla benissimo l’italiano, che ha imparato a scuola e guardando la nostra tv di Stato. Cosa cercano in Italia?: «Il lavoro, la scuola, voglio vivere come esseri civili», risponde Iledim. A sua volta, egli domanda: «Perché la vostra frontiera è chiusa per noi? Quando finì la guerra, in Albania i soldati tedeschi sparavano sui militari italiani e noi li nascondemmo. Un popolo di 2 milioni di abitanti riuscì a salvare 50mila italiani, ed ora 60 milioni di persone non riescono a salvare 2.300 albanesi. È una vergogna». E implora: «Italiani, aiutateci. Non fateci partire»: un appello disperato che, in ultimo, dopo giorni durissimi trascorsi in condizioni disumane, sarà ascoltato.
Gli sbarchi in Puglia prima della «Vlora». Giugno ‘91: tra Eltsin e il nodo migranti. Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Giugno 2022.
È il 13 giugno 1991. Boris Eltsin è eletto presidente della Federazione russa: è questa la storica notizia riportata nelle pagine degli Esteri de La Gazzetta del Mezzogiorno. «Dopo quasi tre settimane di un’estenuante campagna elettorale all’occidentale, con rapidi spostamenti da una città all’altra, centinaia di incontri e migliaia di interviste, interventi televisivi e innumerevoli promesse da parte dei sei candidati, ieri si è votato nella Repubblica russa per le prime presidenziali della sua storia».
Segretario della sezione del Partito comunista sovietico di Mosca dal 1985, Eltsin ha lottato per accelerare il processo di riforma dell’Urss, accentuandone le spinte innovatrici e scontrandosi per questo con il leader Gorbaciov. Nel maggio ‘89 è stato eletto presidente della Repubblica federativa sovietica russa, ma nel luglio si è dimesso dal PCUS e ha chiesto, in seguito, le dimissioni del segretario generale del Partito, Gorbaciov. Questi, nel marzo di trentuno anni fa, indice un referendum nel tentativo di rafforzare la sua posizione sempre più debole e nella speranza che gli elettori dimostrino il loro appoggio per mantenere in vita l’Unione Sovietica.
Eltsin, tuttavia, riesce a inserire un altro quesito sulla scheda elettorale sull’elezione diretta della carica di presidente russo. Nel giro di tre mesi, dunque, si tengono le prime elezioni libere del presidente della Repubblica sovietica russa: sei sono i candidati in corsa. «Boris Eltsin, il grande favorito delle elezioni, dichiarate valide nel tardo pomeriggio di ieri, essendosi presentati alle urne circa il 70 percento degli aventi diritto al voto – appariva già ieri sera come vincitore», si legge sulla Gazzetta.
A Leningrado, dove si è votato anche per restituire alla città il nome originario di San Pietroburgo, si è votato anche per eleggere il nuovo Sindaco: l’eltsiniano Sobchak ha la vittoria quasi assicurata.
Alla fine, Eltsin vincerà con il 57% dei voti: al contrario di Gorbaciov, potrà contare sulla legittimazione popolare.
In Puglia, però, sono altre le notizie che allertano l’opinione pubblica, sebbene collegate alla situazione internazionale venutasi a creare in seguito alla caduta del muro di Berlino e al dissolvimento del blocco sovietico.
«Zattere disperate dall’Albania sfidando la morte» è il titolo della prima pagina del quotidiano: la Puglia affronta una nuova emergenza di arrivi dopo lo sbarco di circa 25mila albanesi nei porti di Brindisi, Monopoli e di altre città della regione avvenuto pochi mesi prima. Seguiremo nelle prossime settimane l’evolversi delle vicende migratorie sulle nostre coste.
Serenella Bettin per “Libero quotidiano” l'8 luglio 2022.
A forza di tutelare e garantire chiunque entri in Italia senza i dovuti controlli, ci ritroviamo nel mezzo di un fenomeno che era prevedibile, ma che abbiamo preferito non vedere. Il razzismo al contrario. Ossia «se sei un'italiana del c....», hai diritto a essere picchiata.
Questo fenomeno l'abbiamo visto crescere, abbiamo lasciato che si gonfiasse, che ci travolgesse fino a farlo esplodere con i giovani di seconda e terza generazione che si picchiano con gli italiani. Era accaduto a Peschiera dove un gruppo di giovani nordafricani aveva molestato sei ragazzine sul treno che le riportava a Milano, dicendo loro: «Le bianche qui non possono entrare».
Non solo. Quel giorno era il 2 giugno scorso - a Peschiera del Garda era successo il finimondo. Il sindaco, Orietta Gaiulli, aveva parlato di «guerriglia urbana». Ragazzotti in preda a litri di alcol che ballonzolavano sopra le auto dei turisti in un vortice indecoroso di risse, pestaggi, violenze. «Peschiera come l'Africa» scrivevano su TikTok.
«Siamo venuti a riconquistarla». L'appuntamento viene dato nel social e da qui si lancia la sfida e si organizza il raduno al solo scopo di spaccare tutto. Prima regola: «Non sono ammessi italiani».
Ma passa qualche giorno e i giovanotti si accordano per invadere Riccione. «A Peschiera è stato solo un assaggio», scrive qualcuno. A scrivere poi sono sempre gli stessi e quindi non si capisce bene perché nessuno faccia niente. E veniamo a sabato sera scorso. A Riccione è in corso la "Notte Rosa" quando una ragazzina di 15 anni viene aggredita e rapinata da un gruppo di 5 coetanee. «Mi hanno pestata e derubata. Presa per i capelli e riempita di calci e pugni.
Erano ragazze molto giovani, sembrava si divertissero a picchiarmi. Nessuno dei presenti ha mosso un dito per difendermi. Qualcuno ha fatto un video, mentre un gruppo di ragazzini cantava "Riccione come Africa"».
A testimoniarlo infatti c'è un video ripreso dal leader della Lega Matteo Salvini dove si sente perfettamente qualcuno dire: "Italiana del c....". La malcapitata ha avuto sette giorni di prognosi per le botte e ha detto di aver presentato denuncia. E non è la sola. Lunedì scorso due minorenni di origine nordafricana sono stati sottoposti a fermo per una rapina ai danni di un ragazzino di Bologna.
La vittima ha raccontato ai carabinieri di essere stato accerchiato da un gruppo di giovanissimi nordafricani e sotto la minaccia di un coltello, di essere stato costretto a consegnare lo smartphone. Smartphone che li ha traditi, perché grazie all'applicazione di geolocalizzazione, i militari hanno tracciato il telefonino e nel punto individuato oltre a varie refurtive, hanno trovato tre ragazzini che bivaccavano allegramente. Uno è stato trovato in possesso di una mannaia da macellaio e denunciato a piede libero.
Gli altri due sono stati sottoposti a fermo e trasferiti al centro di prima accoglienza per minori. Perché hai voglia a dire che ci vuole lo ius scholae, se il 60% dei giovani identificati lungo la Riviera romagnola è di origine straniera. L'età media è compresa trai 16 e i 22 anni, e il 30% è anche recidivo. «Riccione? No. Maroccolandia», si legge su TikTok.
Qualche altro invece si diverte col monopattino tra le pompe di benzina scrivendo: «I marocchini stanno colonizzando l'Italia. Peschiera, fatto. Riccione anche». Ah. Ci sono anche i furbi che derubando un gruppo di turisti sono incappati negli allievi marescialli dei carabinieri della Scuola di Firenze. Bel colpo.
"Riccione? No, Maroccolandia". Cronache di una violenza annunciata. Marco Leardi l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.
Lo avevano promesso. E così è stato. Nella riviera romagnola boom di episodi violenti commessi da giovani gang di stranieri: allerta sulle ferie degli italiani.
Ancora risse, pestaggi, rapine. Violenze annunciate sui social, poi commesse e rivendicate con strafottenza. Talvolta, con la soddisfazione di esibire un insensato orgoglio su base etnica. A compiere le suddette scorribande sono infatti gruppi di stranieri giovanissimi, in genere di età compresa trai 16 e i 22 anni. Perlopiù nordafricani: ci tengono loro stessi a precisarlo, quasi a voler mettere una firma ai loro vandalismi. "I marocchini stanno colonizzando l'Italia. Peschiera, fatto. Riccione anche", si legge in uno dei messaggi postati in rete dagli stessi componenti di queste gang. Sì, perché la scia delle barbarie parte da lontano e arriva sino alla recentissima cronaca.
A far esplodere il fenomeno, per la verità già esistente ma da molti ignorato (chissà, forse anche per interesse politico), erano stati i disordini commessi il 2 giugno scorso sul Garda da alcune baby gang di stranieri. Avevano preso d'assalto la cittadina di Peschiera, poi sul treno di ritorno verso Milano avevano molestato diverse ragazze. "Era solo il riscaldamento, vedremo a Riccione come sarà", avevano giurato quei "bravi ragazzi" sui social, promettendo di prendere d'assalto la località romagnola in estate. E così è stato. Lo dimostra l'agghiacciante cronaca degli ultimi giorni, con un susseguirsi di episodi violenti commessi dagli stessi nordafricani con la medesima sfrontatezza. Con il medesimo e dichiarato disprezzo per gli italiani.
"Sei un'italiana del ca...", si sente nel video con cui è stato documentato il tremendo pestaggio contro una 15enne compiuto proprio a Riccione da una gang di ragazzine. Contro la vittima, calci, pugni e pedate con i tacchi. Intanto, quel ritornello ripetuto: "Riccione come Africa". Domenica scorsa, durante l'evento della Notte rosa, l'ulteriore episodio avvenuto sempre nella riviera romagnola: due minorenni di origine nordafricana sono stati fermati per una rapina ai danni di un giovane bolognese. Sotto la minaccia di un coltello, il ragazzo era stato costretto a consegnare il proprio smartphone, poi ritrovato dalle forze dell'ordine grazie alla geolocalizzazione. Il mattino successivo al furto, i militari hanno trovato i responsabili del reato che bivaccavano nella zona del lungomare. Uno di essi aveva con sé un coltello da macellaio.
"Riccione? No, Maroccolandia", si legge in uno dei video postati su TikTok nei quali si allude alle recenti scorribande estive. E ancora, altri episodi analoghi: a Rimini un giovane straniero si era avvicinato a un gruppo di italiani e con la "tecnica dell'abbraccio" li aveva derubati. Non sapeva, però, di aver scelto le vittime sbagliate: si trattava di un gruppo di allievi marescialli della Scuola dei carabinieri di Firenze, che stava trascorrendo un periodo di vacanza sulla riviera romagnola.
Ora l'attenzione e i timori sono già puntati sul prossimo weekend e in generale sulle prossime settimane, per tradizione quelle delle ferie degli italiani. Intanto, mentre nei palazzi della politica c'è chi parla di ius scholae, nella vita reale succedono cose che richiederebbero - prima ancora che una riflessione - un intervento immediato.
Fabio Amendolara per “La Verità” il 9 giugno 2022.
Il copione è sempre lo stesso: risse, pestaggi, violenza. E se sul Garda dopo i fatti del 2 giugno ormai è scattata la psicosi, con il sindaco di Castelnuovo che riceve preallarmi su una possibile e imminente nuova calata dell'orda da mucchio selvaggio, di località turistiche prese d'assalto ce ne sono diverse.
A Rimini l'altra notte ombrelloni e lettini si sono trasformati in oggetti atti a offendere. È finita con una lotta corpo a corpo, durante la quale un immigrato africano ha staccato con un morso la falange di un dito al contendente albanese e l'ha ingoiata. La rissa tra due albanesi e due nigeriani è scoppiata all'altezza del bagno 70. Alle 3 della notte tra lunedì e martedì è dovuta intervenire la polizia, allertata da un istituto di vigilanza. In tre sono stati arrestati con l'accusa di rissa aggravata, mentre il quarto è ricercato.
L'avanzata africana in Italia sembra inarrestabile: proprio come a Peschiera del Garda, solo due mesi fa anche a Riccione gli squilli di tromba sono arrivati via Tik tok, con un video che è subito diventato virale: due ragazzini scendono la scalinata del Palazzo dei Congressi e, a un certo punto, dicono «pure quest' estate Riccione sarà colonizzata».
Sullo schermo sventolano quattro bandiere: Tunisia, Marocco, Senegal e Albania. È stato così annunciato a residenti e turisti che sarà un'altra estate bollente. Come quella dello scorso anno, quando la Riviera si è trasformata nel campo di battaglia delle baby gang: bande composte da giovani nordafricani poco più che maggiorenni, dediti a furti, risse e rapine.
Per quelle avvenute il 16 e il 23 di agosto 2021 sono anche scattati degli arresti. Ma l'episodio simbolo resta quello del 21 agosto nelle strade di Riccione, quando la solita orda, arrivata in città per partecipare al concerto a Misano del trapper Baby Gang (poi annullato), si era scatenata con danneggiamenti a go go.
«Da oggi in poi tornerò a zanzare (ovvero a derubare, ndr) i turisti» aveva annunciato sul Web, come riporta il Resto del carlino, il cantante marocchino Zaccaria Mouhib, in carcere dallo scorso gennaio. Dichiarazioni che gli erano valse il foglio di via del questore. E con l'estate ormai alle porte e le minacce di nuove invasioni, gli operatori turistici non nascondono la loro preoccupazione.
Le agenzie di security confermano di aver raddoppiato il personale. E per le forze dell'ordine si preannuncia un gran bel da fare. Il sindaco di Riccione Renata Tosi, proprio come ha fatto anche la collega di Peschiera del Garda Maria Orietta Gaiulli, ha giocato d'anticipo, scrivendo al prefetto. E anche il questore Francesco De Cicco, nel suo messaggio di saluto alla festa della polizia, ha invitato a «non sottovalutare il fenomeno».
Di certo è una questione che non potrà che essere affrontata dal Comitato per l'ordine e la sicurezza. Proprio come a Verona, dove ieri i sindaci dell'area del Garda, Trenitalia e Trenord, si sono collegati in videoconferenza con il prefetto per verificare l'opportunità di continuare con i controlli rafforzati sulla spiaggia. Tra le altre cose, è stato chiesto di poter usare lo strumento del Daspo urbano.
Mentre le indagini della Squadra mobile veronese vanno avanti per identificare i facinorosi del 2 giugno. Le bocche sono cucite, ma gli investigatori sarebbero già riusciti a dare un nome a decine di africani. Poi scatteranno le denunce. Così come vanno avanti le indagini sulle molestie che le ragazzine di ritorno in treno da Gardaland hanno denunciato alla polizia. Con tanto di polemiche su chi ha permesso a centinaia di immigrati reduci dal rave di Peschiera di salire su quel regionale.
«Abbiamo all'ordine del giorno i mezzi di trasporto e la stazione di Peschiera, soprattutto dopo quanto accaduto il 2 giugno, e a questo riguardo ho coinvolto Trenord e Trenitalia perché si tratta di garantire un trasporto in condizioni di sicurezza. E questo vuol dire dover dotare i vagoni di videosorveglianza», ha detto al termine del vertice con i sindaci il prefetto di Verona Donato Carfagna.
E anche a Jesolo, in provincia di Venezia, le notti sul litorale si stanno facendo sempre più complicate da gestire: risse innescate dalle solite baby gang di immigrati, vandalismo, schiamazzi. Il sindaco Valerio Zoggia ha chiesto rinforzi al prefetto di Venezia, denunciando una situazione «già grave».
«Il periodo più difficile», ha spiegato, «è proprio l'inizio della stagione balneare. Sono situazioni che riguardano centinaia di ragazzi, non decine. Io stesso li ho visti arrivare con casse di superalcolici e poi partecipare alle risse. Controllare il territorio con questi numeri è impossibile». Il bilancio dello scorso fine settimana è di centinaia di interventi, soprattutto nella notte di sabato. Ma a Jesolo non è solo il litorale l'area presa di mira. C'è un problema di sicurezza anche nella centralissima piazza Mazzini, dove nelle ultime sere non sono mancate le risse tra giovani pieni d'alcol.
A Peschiera è far west. Ma i 5S rilanciano la cittadinanza agli immigrati. Daniele Dell'Orco il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
La maxi rissa tra gang con annesse molestie e devastazioni varie è servita come pretesto per riaccendere il dibattito sulla cittadinanza italiana. Ma ciò che manca davvero è la sicurezza.
Sinistra e grillini non hanno solo problemi di priorità ma anche di tempismo. Dopo la rissa tra due mega-gang di stranieri che hanno messo a ferro e fuoco Peschiera del Garda, anziché accendersi un dibattito, serio, sulla sicurezza, si è colta di nuovo la palla al balzo per riproporre le vecchie battaglie sull'elargizione della cittadinanza italiana.
Come se la criminalità fosse un fatto di passaporto, le scioccanti frasi pronunciate da alcuni dei ragazzi coinvolti nelle risse e nelle molestie sono state utilizzate dal mondo progressista per ribaltare la realtà: per loro, più crimini vuol dire più empatia. Immancabili allora le proposte sullo ius soli che, se dovesse riuscire prima o poi a passare, per sfinimento, non sarebbe certo utile a prevenire il fenomeno delle gang, bensì concederebbe solo lo status di cittadino non a chi lo merita e in fin dei conti nemmeno lo vuole, vista l'ostilità dimostrata nei confronti del nostro Paese.
Se un marziano all'oscuro di tutto leggesse Repubblica di oggi, infatti, non potrebbe non avere la sensazione che i fatti di Peschiera siano totalmente capovolti, con i facinorosi in realtà "vittime" di rabbia, isolamento sociale, emarginazione. Ecco allora, come rimedio, la riforma della cittadinanza, tornata tra le priorità assolute della sinistra, anche se nel dibattito lo ius soli sembra aver lasciato spazio allo ius scholae. Giuseppe Conte ha ribadito che si tratta di un caposaldo della loro agenda e, dopo che il 9 marzo la Commissione Affari Costituzionali alla Camera ha dato parere favorevole al testo presentato dal pentastellato Giuseppe Brescia, arriverà in discussione alla Camera il 24 giugno.
Lo ius scholae prevede che possa fare richiesta per la cittadinanza chi sia arrivato in Italia prima del compimento dei 12 anni di età e che porti a termine con successo un percorso scolastico di 5 anni. Una nuova proposta che per la verità raccoglie il favore anche di altri partiti e che sarebbe finalizzata a permettere a tanti bambini nati e cresciuti in Italia di ottenere la cittadinanza con più facilità rispetto all’attuale trafila burocratica. Il testo che arriverà in Parlamento (e che inizierà un iter lunghissimo che come visto col Ddl Zan potrebbe concludersi anche con un nulla di fatto) andrebbe a sostituire le leggi che attualmente regolano il diritto alla cittadinanza e che dipendono principalmente dal cosiddetto ius sanguinis. Se uno dei due genitori è già cittadino italiano, i loro figli possono acquisire il diritto alla cittadinanza se risiedono legalmente ed ininterrottamente fino ai 18 anni in Italia, a condizione che la richiesta venga presentata entro un anno dal compimento della maggiore età.
Più che il testo in sé, comunque, è il contesto a perplimere. Siamo certi che una riforma delle norme per ottenere la cittadinanza potrebbe impedire come per magia che non si ripetano scene da far west come quelle di Peschiera? Perché la sensazione è che le priorità siano ben altre.
L'invasione silenziosa. Nel 2022 già sbarcato il 28% di migranti in più. Valentina Raffa il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.
Con lo stop del grano dall'Ucraina mutano anche gli arrivi: più egiziani e bengalesi.
È record di arrivi. Il fenomeno dell'immigrazione fa registrare un'impennata del 28,5% rispetto all'anno scorso. Le premesse ci sono tutte per far presagire un'estate di sbarchi senza sosta, tra natanti intercettati in mare dalle forze dell'ordine, altri che approdano autonomamente e gli sbarchi autorizzati alle Ong. Ad oggi sono 17.690 i migranti giunti in Italia da gennaio, vale a dire, secondo i dati del Viminale, 3.925 in più rispetto al 2021 dello stesso periodo. È maggio a fare registrare un picco di 6.929 arrivi, l'82,7% dei quali concentrati tra l'11 e il 20. I minori non accompagnati, con dati aggiornati al 16 maggio, sono 1.552. Nel 2021 ne sono arrivati 10.053, ovvero più del doppio dell'anno precedente che ha fatto registrare 4.687 arrivi.
A favorire le partenze ci sono le buone condizioni meteo, ma gli arrivi sono condizionati anche dalla guerra in Ucraina, che ha portato al fermo delle esportazioni di cereali dai porti del Mar Nero. Basti guardare al cambiamento che si è registrato sulla nazionalità dei migranti che giungono in Italia. Fino a poco tempo fa i più numerosi erano tunisini, che adesso slittano in terza posizione con il 12% delle presenze, mentre gli egiziani rappresentano il 19% degli approdati, seguiti dai nati in Bangladesh (17%). La macchina dell'accoglienza è in moto ed è già sotto sforzo. L'hotspot di Lampedusa è pieno con 857 ospiti a fronte di una capienza massima di 250 persone.
Lampedusa resta una delle mete più gettonate. Fra la notte scorsa e ieri mattina sono approdati in 146. I primi tre gruppi, in tutto 43 persone, sono stati intercettati nella notte. È stata poi la volta di 72 migranti partiti dalla Libia, rintracciati dalle forze dell'ordine lungo la strada di Ponente. Il loro barcone di 10 metri ha preso fuoco, ma non è chiaro se è stato incendiato appositamente o il fuoco si è innescato in maniera accidentale. Altri 31 tunisini sono riusciti ad approdare autonomamente: un gruppo di 16 a Lampedusa dove sono stati rintracciati, e i restanti 15 a Cala Creta, piccola caletta rocciosa dell'isola. Gli sbarchi autonomi rappresentano un problema, visto che i migranti, una volta approdati, tentano di disperdersi per il territorio bypassando i controlli sanitari e identificativi. Dopo l'arrivo dei 146 migranti si sono registrati altri sbarchi sempre nella maggiore isola delle Pelagie: si tratta di 7 egiziani intercettati dalle Fiamme gialle a 20 miglia dall'isola, e 23 migranti partiti da Sfax, intercettati a 2 miglia da Capo di Ponente. Più sono i migranti che arrivano, maggiore è la probabilità che alcuni possano allontanarsi dai centri che li ospitano facendo perdere le proprie tracce. Gli ultimi ad avere scappati dalla comunità a cui erano affidati, ad Agrigento, sono 5 ragazzi tra i 16 e i 17 anni, provenienti dal Corno d'Africa, che sono stati rintracciati dalla polizia alla stazione pronti per imbarcarsi sul primo treno per Palermo. Da gennaio ad aprile 2022 in Sicilia la Polfer ha rintracciato 43 persone, di cui 34 minori, un numero in crescita del 34% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando erano state ritrovate 32 scomparsi, di cui 22 minori. I minori soprattutto sono stranieri.
«Mia madre nigeriana mi consegnò alla vicina quando avevo 11 giorni». Sabrina Efionayi, una storia italiana. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.
Un giorno del 1999 una donna nigeriana attraversò la strada, a Castel Volturno, e affidò la sua bimba di 11 giorni ad Antonietta. È una storia da romanzo. E lei è diventata una scrittrice: «Il razzismo - dice - bagna tutti, non solo i bianchi»
Sabrina Efionayi con la madre adottiva napoletana, Antonietta Orsino: la bambina le venne affidata quando aveva solo 11 giorni di vita da Gladys, nigeriana
La casa dalle persiane rosse è ancora lì di fronte: proprio dall’altro lato della strada. «E ogni volta che la guardo è un colpo, mi mette ansia, tristezza. Anche per questo me ne voglio andare a Napoli, per non vederla ogni giorno», sospira Sabrina, sbirciandola dal giardino. Ancora ci s’affacciano le ragazze nere di tanto in tanto. Ancora ci vanno gli uomini bianchi del posto, vecchi e giovani, a usare quelle ragazze come sfogo o come fantasia. «Laggiù c’erano le scale dove si sedeva mia madre, a respirare, quando le davano un momento di pace». Sua madre, Gladys, venuta dalla Nigeria gonfia di illusioni e subito finita a fare la schiava del sesso dietro quelle maledette finestre color sangue, era persino più giovane di lei adesso, quando, per salvarla dal proprio incubo, attraversò la strada, un budello in fondo a Castel Volturno, a pochi metri dalla Domiziana, in un giorno di caldo e paura a fine agosto 1999. La madame che la sfruttava l’aveva appena picchiata: la maternità era una colpa imperdonabile. Perciò lei bussò al cancello dei dirimpettai che conosceva a malapena e chiese aiuto, semplicemente.
Sabrina Efionayi sulla copertina di 7. Quando aveva soltanto a giorni fu data dalla madre nigeriana a una vicina di casa italiana, a Castel Volturno (Caserta), perché avesse un futuro migliore
Un fagottino di undici giorni
In braccio portava un fagottino di undici giorni: Sabrina, sua figlia. Ad Antonietta, la napoletana dal viso dolce che venne ad aprirle, disse solo: «Tienila, devi tenerla tu». «Tenerla, come? In che senso?», chiese quella, stupita. «Che la fate vivere a casa vostra», spiegò in lacrime Gladys: «La devo liberare». Così, sullo sfondo di una delle terre più devastate d’Italia, la Castel Volturno piagata da camorra, racket della prostituzione e spaccio, comincia una storia di dolore e riscatto che adesso, quasi ventitré anni dopo, ha il sorriso, gli occhi intensi e la pelle d’ebano di quel fagottino che s’è fatto donna proprio dirimpetto alle finestre rosse, in una casa semplice e tranquilla che ne è l’esatto opposto: una donna cresciuta dall’amore pulito di “mamma” Antonietta, del suo compagno Giovanni, di zio Nando e zia Maria, di nonna Anna; che s’è iscritta a Scienze politiche alla Federico II «dopo aver preso 97 su 100 alla maturità» e che, soprattutto, ha scritto per Einaudi Addio, a domani (in versione podcast, Storia del mio nome, per Chora Media). È un prezioso racconto autobiografico che, grazie all’intuito di un bravo editor e a una psicoterapeuta capace di lenire almeno le ferite dell’anima più dolorose, narra la vicenda straordinaria (per una volta l’aggettivo non appare abusato) di una ragazza con due madri, una biologica e l’altra affettiva, e con un centro di gravità sempre in bilico tra l’Italia e l’Africa, che le diventa infine motore narrativo e presto le farà da propellente politico: Sabrina Efionayi.
Due identità, due culture, due mondi. Quale prevale?
«Per tanto tempo ho pensato che la cosa migliore per me sarebbe stata essere italiana. Per sentirmi accettata. Sono nata in Italia, ho studiato qui, mi sento italiana al 100%. Però non mi bastava. Sono cresciuta in una famiglia bianca. Ma non mi sentivo mai alla pari dei miei familiari bianchi e dei miei amici bianchi. Sapevo di essere alla ricerca anche di un’altra identità, che mi completasse».
Cioè, la madre nigeriana che continuavi a vedere?
«Sì, sin da quando ero piccola l’ho sempre cercata in lei. Ma lei ogni volta mi faceva una colpa di non essere abbastanza nigeriana. Mi diceva persino: non farti tatuaggi, ché se li fanno gli italiani».
E tu?
«Adesso che ho pubblicato il libro me lo faccio per premio, il tattoo!». (Sabrina ride buttando un po’ indietro la testa, mentre Antonietta s’affaccia premurosa nel patio e il cane Fiocco cerca la sua attenzione saltellando a molla fra noi).
La copertina di «Addio, a domani» (Einaudi Stile Libero) il romanzo in cui Sabrina Efionayi racconta la propria storia di bambina con due madri
Anche se sei nata qui e sei cresciuta in una famiglia napoletana, parli un italiano senza ombra d’accento.
«Ma con mamma Antonietta e nonna Anna parlo dialetto stretto, giuro».
Con tua madre Gladys vi siete perse, così scrivi nel libro.
«Dai diciott’anni ho iniziato ad allontanarmi. Passavo con lei i tre mesi d’estate, nella sua nuova vita in Toscana o in quella di prima, in Nigeria, e tutte le volte avevo paura che lei non mi restituisse ad Antonietta. Se piangi non ti riporto a Napoli, mi disse un Natale».
«UN MIO AMICO DICEVA CHE SONO COME IL CIOCCOLATO BOUNTY: NERA FUORI, BIANCA DENTRO. PER LU I ERA UN COMPLIMENTO, PER ME NO»
Poteva?
«Nulla è mai stato formalizzato, non ho nessun rapporto legale con la mia famiglia italiana. Poteva, sì. E ne ero terrorizzata. Così con lei mettevo sempre una maschera, dovevo essere perfetta. Ma per la famiglia nigeriana ero sempre troppo italiana, per molti italiani troppo nigeriana, un mio amico diceva che sono un Bounty: nera fuori e bianca dentro. Per lui era un complimento, per me no».
Sembra un po’ una cosa da dissociati…
«Vero?» (ride ancora, comunica alle allegria ed energia). «Sicché a diciott’anni mi sono liberata. Non avevo più bisogno di fingere, non ce la facevo più a vederla, Gladys. Mi sono detta: mo’ basta! Poi ci ho lavorato su. Senza la psicoterapia questo libro non ci sarebbe». (Anche il titolo, Addio, a domani, è il suggello di un distacco con promessa di ritorno, «tornerò da te quando avrò capito chi sono»).
«GLADYS, LA MAMMA NATURALE, NON LA VEDO PIÙ: PASSAVO CON LEI TRE MESI IN ESTATE, AVEVO IL TERRORE CHE NON MI “RESTITUISSE”»
Sabrina Efionayi ha studiato Scienze politiche a Napoli. Il suo primo romanzo si intitola «Over» e ha avuto un grande successo: su Wattpad è stato letto da più di due milioni di persone e poi pubblicato da Rizzoli. Sabrina aveva 15 anni
Però scrivevi da prima.
«La scrittura ti salva. E prima ancora la lettura. Ho cominciato a leggere sotto la sdraio di mio nonno Salvatore, a mare. Lui non poteva fare il bagno, io non so nuotare, mi nascondevo lì, da bambina, coi miei fumetti».
Tu hai avuto una nonna di Lagos e una di Napoli. Scrivi che le «nonne di tutto il mondo sono uguali», racconti che ciascuna ti faceva il tuo piatto preferito, la zuppa ogbono in Africa, gli gnocchi al sugo in Italia… Le madri non sono tutte uguali, come le nonne?
«Le nonne sono puro amore, non portano il peso delle madri».
Cosa succede quando cresci e non puoi nasconderti più sotto la sdraio del nonno?
«Anche da ragazzina dormivo pochissimo, come adesso. Così continuavo a leggere tanto, tutto, di notte. Disegnavo. E scrivevo, su Wattpad, una piattaforma narrativa online, pseudonimo: Sabrynex ».
Tre romanzi, Over, Over 2 e #Tbt indietro non si torna, tre milioni di letture in due anni, un fenomeno giovanile.
«E, pensa un po’, neanche un nero tra i miei personaggi! Ero romantica, scrivevo storie d’amore, ma di bianchi. Fino ai sedici anni volevo essere bianca…».
Rizzoli pubblica quei primi tre libri.
«Mi chiama al telefono Michele Rossi. Mi aveva notato su Wattpad. Mi dice: ciao Sabrina ti sto leggendo, vieni a Milano. Pensavo a uno scherzo. Del resto, lui non sapeva nulla di me, nemmeno che fossi nera. Quando io gli ho detto che andavo da lui con le mie due mamme, ha pensato fossimo una famiglia arcobaleno. A Michele devo molto, mi ha spinto verso questo nuovo libro: “Scrivilo, lo leggo io”, mi ha detto».
Il libro ha anche un contenuto politico ineludibile: tu sembri una testimonial delle seconde generazioni, i ragazzi nati da noi ai quali facciamo penare la cittadinanza. Quanto siamo in ritardo?
«Per essere in ritardo bisognerebbe almeno partire. Io penso che lo ius soli sarebbe un punto di partenza. Non è solo un pezzo di carta. Ricordo le file umilianti con mia madre Gladys, ore e ore all’ufficio stranieri per rinnovare il permesso di soggiorno, sotto sole e pioggia, io bambina. All’università mi sono dovuta iscrivere come extracomunitaria! Incredibile, dopo tutta la vita nelle scuole italiane!».
Alla fine, è arrivato il pezzo di carta…
«Sì. E votare è stata una gioia enorme. La mia famiglia bianca non si rende conto del privilegio che ha, la possibilità di cambiare qualcosa col voto».
Il tuo impegno coincide con la morte di George Floyd e le manifestazioni di Black LivesMatter.
«Io non avevo un grosso legame con la comunità black di Castel Volturno, mi sentivo diversa da loro. Ma mi hanno chiesto di parlare alla manifestazione di Napoli, non pensavo di farlo. Invece…».
Gran discorso contro il razzismo, finito col pugno chiuso della protesta nera: un j’accuse per tutti noi bianchi, che conclude anche il libro…
«Vedi, ho l’impressione che i bianchi, alcuni, abbiano già aspettative precise nei confronti dei neri. Qualche tempo fa, ero all’ufficio delle entrate con il mio commercialista, lui seduto e io in piedi davanti all’impiegato. Avevo già la cittadinanza e la mia brava carta d’identità. L’impiegato insisteva a chiedermi il permesso di soggiorno. Non riusciva a non vedermi come un’immigrata, proprio non vedeva il mio documento».
«IO TRA 10 ANNI? NON SO SE SARÒ UNA SCRITTRICE. MAGARI POTREI FARE POLITICA. E IMPARARE A FARLA. DEVO STUDIARE, MOLTO»
Come ne usciamo?
«Il razzismo non è una cosa solo dei bianchi. Bagna tutti. Dobbiamo lavorarci, capirlo. Gli altri sono più simpatici, se finalmente riesci a vederli».
Lo dice Harper Lee…
«Sì, Il buio oltre la siepe. Mica si nasce razzisti, lo si diventa magari involontariamente, per pigrizia mentale. Essere bianchi non è una colpa. Lo diventa se non riconosci di avere un privilegio rispetto agli altri, se non vedi il pugno chiuso di protesta di quel nero che sta accanto a te».
Come ti immagini tra dieci anni?
«Qualche anno fa ti avrei detto: come una scrittrice. Io ho un rapporto forte con la scrittura. Ma essere una scrittrice è una cosa così personale da non poter quasi essere un lavoro. Mi interessa scrivere per me. Allora penso che il mio vero lavoro non esista ancora. Io voglio essere presente per le altre persone, dare sostegno agli altri».
Si chiama politica.
«Sì, magari potrei fare politica. E imparare a farlo. Devo studiare, molto». (Ci alziamo dal patio, usciamo in giardino, la casa dalle persiane rosse incombe nel sole del primo pomeriggio, ostile).
Joy, la madame che sfruttava mamma Gladys, dov’è finita?
«Non c’è più, forse è in Nigeria, forse è in galera. Ma lo sfruttamento dei corpi delle ragazze è lo stesso. Tutti lo vedono, la polizia non se ne interessa. E questi uomini qui fuori ancora mi fanno paura. Se esco da casa mia a piedi, in dieci minuti si fermano sei macchine, alcuni mi seguono fino al cancello anche se li mando al diavolo. Così esco sempre in automobile o chiedo a un amico o a mio cugino di aspettarmi».
Sul racket nigeriano a Castel Volturno è stato scritto molto. Qualche anno fa uscì il libro di una ex prostituta, Blessing Okoedion, che raccontò dal di dentro il suo calvario proprio in queste strade. Ma il tuo è il primo libro di una figlia, di una seconda generazione. Hai una grande responsabilità.
«Sì, da testimone più che da vittima. È una cosa che ho sempre tenuto dentro».
Avevi undici anni quando tua madre Gladys ti raccontò la sua storia.
«Ma io non l’ho mai raccontata a me stessa finché non ho scritto questo libro. Nemmeno i miei amici la sapevano. Come se la vergogna di mia madre la sentissi io. Ma ora penso che mia madre non dovesse vergognarsi, era una vittima. Penso che i nostri dolori, il suo e il mio, non abbiano le stesse radici. Pensavo che mia madre Gladys fosse cattiva. Magari anche io l’ho ferita, allontanandomi. Nella nostra storia non ci sono buoni e cattivi, c’è la vita. E forse è così in tutte le storie».
L'allarme di Frontex: "Mai così tanti migranti dal 2016". Mauro Indelicato il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.
Secondo l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, nel primo trimestre del 2022 si è avuto un aumento nel numero di migranti approdati irregolarmente in Europa pari a quello del 2016, l'anno della peggiore crisi migratoria.
Nel primo trimestre del 2022 gli ingressi irregolari lungo le frontiere dell'Unione Europea sono aumentati fino a lambire i numeri raggiunti con le crisi migratorie del 2016. Sembrerebbe un risultato scontato per via della guerra in Ucraina. E invece i dati resi noti nelle scorse ore da Frontex appaiono ancora più preoccupanti.
Perché l'impennata del numero di migranti irregolari arrivati in territorio comunitario si è avuta anche senza conteggiare i profughi ucraini entrati in Ue dallo scoppio del conflitto. Frontex infatti ha tenuto a specificare che il calcolo effettuato nel primo trimestre non ha tenuto conto dei cittadini scappati dalla guerra ucraina.
Numeri record che parlano di crisi
Andando a guardare le cifre fornite dall'Agenzia Europea per il controllo delle Frontiere, si nota come complessivamente dal primo gennaio 2022 al 31 marzo in Europa siano entrati 40.300 migranti irregolari. Il balzo rispetto allo stesso periodo del 2021 è del 57%.
Un aumento del genere non si verificava dal 2016, l'anno più difficile per la gestione dell'immigrazione in Europa e caratterizzato dall'enorme flusso di cittadini iracheni e siriani in fuga dall'Isis tramite la rotta balcanica.
Il 2016 è ancora considerato un riferimento quando si parla di crisi migratoria. Non a caso sul finire di quell'anno l'Europa ha accettato di pagare alla Turchia di Erdogan tre miliardi di Euro per trattenere i profughi all'interno del proprio territorio e chiudere le porte dei Balcani.
Per questo l'attuale aumento di ingressi irregolari, così vicino ai dati di sei anni fa, ha assunto l'aspetto di un vero e proprio campanello d'allarme. Lo spettro di una nuova grave crisi umanitaria, “concorrente” a quella già in corso con l'arrivo regolare di ucraini (per questo non conteggiati nel computo complessivo di Frontex), potrebbe avere delicate conseguenze politiche e sociali in tutto il Vecchio Continente.
Le rotte che fanno più paura
A preoccupare maggiormente è ancora una volta la rotta balcanica. Secondo Frontex, nel primo trimestre 2022 sono passati da qui 18.300 migranti, quasi la metà del totale complessivo. L'aumento rispetto allo stesso periodo del 2021 è stato addirittura del 115%. La rotta balcanica è stata percorsa principalmente da siriani e iracheni.
L'aumento più importante a livello percentuale si è avuto però lungo la rotta del Mediterraneo orientale, quella cioè che porta i migranti dalle coste turche a quelle delle isole greche. Rispetto al primo trimestre del 2021, il balzo è stato del 132%. Complessivamente Frontex ha conteggiato 7.000 migranti transitati dall'Egeo. In gran parte sono stati congolesi e nigeriani, una novità per la rotta orientale.
Sono aumentati del 70% invece gli sbarchi lungo la rotta del Mediterraneo occidentale, quella cioè che coinvolge maggiormente la Spagna. Si parla, in particolare, di 5.850 migranti approdati lungo le coste iberiche, in gran parte marocchini e guineani. Un importante aumento è stato registrato anche lungo il Canale della Manica. Dalla Francia si sono diretti verso il Regno Unito 8.900 migranti, in termini percentuali il balzo rispetto al 2021 è stato del 190%. C'è però una differenza in questo caso con le altre rotte: qui il flusso è in uscita dall'Unione Europea, visto che i migranti dal territorio transalpino vanno verso quello britannico.
Il Mediterraneo centrale
L'unica rotta che ha registrato un decremento è quella del Mediterraneo centrale, ossia la tratta che coinvolge principalmente l'Italia. Secondo Frontex, nel primo trimestre del 2022 i migranti che hanno attraversato questo tratto di mare sono stati 6.202, il 17% in meno rispetto allo stesso periodo del 2021.
Un dato confermato anche dal nostro ministero dell'Interno, il quale per la prima volta dal settembre 2019 ha iniziato a conteggiare numeri al ribasso negli sbarchi lungo le coste italiane. Al 15 aprile 2022 sono stati 8.441 i migranti arrivati contro gli 8.522 dello stesso periodo del 2021.
Migranti: nel 2020 in Puglia vivevano 135mila stranieri. I dati della Cgil: i cittadini stranieri provengono da 167 paesi diversi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.
Erano 135.356 i cittadini stranieri presenti in Puglia al 31 dicembre 2020. Il dato è contenuto nel rapporto sull'immigrazione 2021 presentato dalla Cgil Puglia. La provincia in cui vive il maggior numero di cittadini stranieri è Bari con 40.955, seguita da Foggia con 31.180, Lecce con 26.206, Taranto con 14.405, Brindisi con 11.707 e la Bat (Barletta-Andria-Trani) con 10.903.
Secondo il censimento della sigla sindacale, i cittadini stranieri provengono da 167 paesi diversi: il 54,8% è di origine europea di cui il 33,9% proviene da paesi aderenti all’Ue.
Il secondo continente di provenienza - si apprende dal report della Cgil - è l’Africa con il 23,7% delle presenze, seguito dall’Asia con il 18,1%. La pandemia da Covid - emerge - ha inciso notevolmente sulle dinamiche migratorie regionali. Diminuiti infatti gli spostamenti dall’estero verso la Puglia. Nel 2020 le iscrizioni anagrafiche dall’estero sono diminuite di 2564 unità (-27%) passando da 9501 dell’anno precedente alle 6937 del 2020; così come è calato il numero del rilascio dei permessi di soggiorno. Nel 2019 i permessi rilasciati per la prima volta erano 4909 mentre nel 2020 sono scesi a 3716 con una contrazione del 24%.
Lampedusa, sbarchi senza sosta: oltre 800 migranti sull'isola in 48 ore. Martello: "Situazione eccezionale, l'Ue intervenga". Sono 247 i migranti giunti nella notte, si aggiungono ai 454 arrivati ieri con 11 diversi sbarchi. E nel mar Mediterraneo prosegue senza sosta l'attività delle navi umanitarie, come la Sea Watch 3, giunta al quinto salvataggio nell'arco di 24 ore. La Repubblica il 10 Aprile 2022.
Sbarchi senza sosta a Lampedusa, dove, dopo due settimane di tregua dovuta alle cattive condizioni del mare, ieri sono ripresi gli approdi. Sono 247 i migranti giunti nella notte, si aggiungono ai 454 arrivati ieri con 11 diversi sbarchi, portando a 829 il numero complessivo delle persone sbarcate da venerdì scorso sulla più grande delle Pelagie.
In 55, tutti uomini ed egiziani, sono stati intercettati dagli uomini della Capitaneria di porto a 28 miglia dall'isola, dopo essere stati trasbordati intorno a mezzanotte sono sbarcati al molo Favaloro. Dove a distanza di mezz'ora circa, sempre una motovedetta della Guardia costiera ha condotto 87 persone, tra cui 3 minori. Provengono da Egitto, Siria, Bangladesh e sono stati rintracciati a 35 miglia dalle coste dell'isola a bordo di una barca di 12 metri lasciata alla deriva.
L'hotspot di contrada Imbriacola sta scoppiando. Appena 48 ore fa la struttura era praticamente vuota, con sole due persone. "Otto sbarchi in un solo giorno, è evidente che siamo di fronte a una situazione eccezionale - aveva detto ieri sera Totò Martello, sindaco di Lampedusa e Linosa - Voglio ringraziare quanti a Lampedusa si stanno impegnando nelle operazioni di soccorso e di accoglienza sia mare che qui sull'isola, e ritengo che lo stesso debbano fare l'Italia e l'Europa: quando predispongono misure di solidarietà internazionale e di accoglienza umanitaria, si ricordino di guardare a quello che avviene a Sud, nel cuore del Mediterraneo".
E nel mar Mediterraneo prosegue senza sosta l'attività delle navi umanitarie, come la Sea Watch 3, giunta al quinto salvataggio nell'arco di 24 ore. Ottantasette persone sono state tratte in salvo e si trovano adesso a bordo della nave. L'equipaggio dell'ong sta fornendo assistenza adesso a oltre 200 persone.
"In molti hanno bisogno di cure mediche urgenti" spiegano dall'ong che nelle ultime ore è stata testimone di un'altra tragedia nel Mediterraneo centrale. Trentaquattro migranti sono stati tratti in salvo dall'equipaggio della Sea Watch 3, ai soccorritori hanno riferito che sul barcone con cui hanno affrontato la traversata erano in 53 e che molti compagni di viaggio e familiari sono annegati. Quando il team è arrivato sul posto dopo aver ricevuto un mayday un gommone stava affondando e decine di persone erano in acqua.
Sì alla protezione temporanea. Bene l’accoglienza, ma profugo afghano vale meno di uno ucraino. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 4 Marzo 2022.
Ieri il Consiglio Europeo, su proposta della Commissione ha deciso di dare attuazione alla Direttiva 2001/55/CE al fine di garantire una “protezione temporanea” agli ucraini in fuga dalla guerra. Che cos’è questa protezione temporanea? Come indicato dalla stessa Direttiva si tratta della “procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine, una tutela immediata e temporanea” (art.2).
La Direttiva ha due scopi fondamentali. Il primo è di evitare che un enorme numero di persone nella medesima condizione (fuga dal conflitto) siano inutilmente sottoposte ad un esame individuale della loro richiesta di protezione creando una paralisi delle procedure amministrative anche nello stato dell’Unione meglio organizzato e, parallelamente, fare in modo che i profughi possano subito “godere di diritti armonizzati in tutta l’Unione che conferiscano un livello di protezione adeguato, comprendente titoli di soggiorno, la possibilità esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo e di essere adeguatamente alloggiati, la necessaria assistenza sociale, medica o di altro tipo e contributi al sostentamento”.
Il secondo, non meno rilevante, obiettivo della Direttiva, è fare in modo che gli Stati accolgano “con spirito di solidarietà comunitaria le persone ammissibili alla protezione temporanea [e che indichino] la loro capacità d’accoglienza in termini numerici o generali”. Sulle modalità con cui dare attuazione a questo principio di solidarietà la Direttiva rimane del tutto generica, precisando solo che le indicazioni sulla capacità di accoglienza date da ogni Stato “sono inserite nella decisione” con cui il Consiglio Europeo dichiara, a maggioranza qualificata, che ricorrono le condizioni per l’applicazione della Direttiva. L’attento lettore avrà forse pensato che l’indicazione dell’anno “2001” nel fare riferimento alla Direttiva sia frutto di un errore di battitura e che mi sto riferendo a una norma del 2011 o forse del 2021.
Invece confermo che l’anno di adozione della norma fu proprio il 2001 trattandosi di una Direttiva che, come ricorda la stessa Commissione UE nel proporne oggi l’applicazione, era stata “adottata all’indomani del conflitto nell’ex Jugoslavia, quando per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale l’Europa si era trovata di fronte a numeri massicci di sfollati [e che] era stata concepita specificamente per promuovere un equilibrio degli sforzi per gestire congiuntamente gli spostamenti massicci di sfollati all’interno dell’Europa”. Se consideriamo che la Direttiva 55/2001 si colloca nella primissima fase del processo di costruzione di un sistema unico di asilo in Europa, essa non va criticata per la sua vaghezza sul funzionamento delle procedure di solidarietà. Semmai va vista in essa una lungimiranza che negli ultimi anni nella Ue si è affievolita fino a spegnersi del tutto, lasciando spazio a una cupa situazione nella quale non solo il principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati nella gestione dei rifugiati non si è rafforzato, bensì gran parte degli Stati Ue (blocco di Visegrad ma non solo) ha fatto della contrarietà radicale alla solidarietà la propria bandiera politica e ha spinto l’intera Unione su posizioni di chiusura sempre più estreme che ho avuto modo di illustrare in diverse occasioni su queste pagine.
Fare stime di quanti sfollati provocherà il conflitto in Ucraina è impossibile perché ciò dipenderà dall’evolversi degli eventi, ma la Commissione Europea stima come “possibile una cifra compresa tra 2,5 e 6,5 milioni di sfollati a causa del conflitto armato, da 1,2 a 3,2 milioni dei quali potrebbero chiedere protezione internazionale”. L’attivazione della protezione temporanea e l’avvio quanto prima di un piano europeo di accoglienza che comprenda anche quote di ripartizione tra i vari stati è dunque una scelta non solo adeguata ma assolutamente necessaria. La protezione riguarda, come è ovvio, tutti i cittadini ucraini fuggiti dopo il 24 febbraio 2022 in conseguenza del conflitto e i loro famigliari, e viene estesa anche ai parenti stretti (cittadini ucraini o non) che vivevano insieme al nucleo famigliare al momento del conflitto e che erano “parzialmente o totalmente dipendenti” dallo stesso. La Commissione ha altresì proposto che la protezione temporanea sia estesa anche ai cittadini non ucraini ma di paesi terzi che soggiornavano legalmente in Ucraina e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel loro paese o regione di origine. Si tratta di proposte pienamente condivisibili e conformi alla ratio giuridica che è a fondamento della protezione temporanea quale misura provvisoria e di immediata attuazione finalizzata a coprire una vasta collettività.
In modo sorprendente (o forse non troppo) i paesi Ue del gruppo di Visegrad più l’Austria hanno contestato in sede di Consiglio l’estensione della protezione temporanea a cittadini non ucraini rendendo incerta fino all’ultimo minuto la procedura di attivazione stessa della Direttiva e comunque raggiungendo l’obiettivo di restringere la proposta iniziale della Commissione. Certo, a cittadini non ucraini che vivevano in Ucraina rimane comunque, inalienabile, il diritto di presentare una domanda di asilo alla frontiera esterna dell’Unione (in questo modo però l’effetto paradossale è che tutti gli stranieri finirebbero per concentrarsi nei primi paesi di ingresso) ma poco si comprende, su un piano razionale, quale oscuro timore sia stato alla base di questo ennesimo tentativo di chiusura così eticamente urticante. Forse che sia necessario agire valorosamente per impedire che gli stranieri che vivevano in Ucraina con perfida sagacia “approfittino” della guerra e della protezione temporanea per venire a insediarsi in massa nell’Unione europea?
Questa sorta di ossessione alla chiusura verso i non europei che non trova pace neppure in tempo di guerra mi porta all’ultima ma più importante considerazione: la Direttiva 2001/55/UE era considerata fino ad oggi, a ragione, una sorta di norma nata morta e destinata ad essere abrogata con il pacchetto di riforme presentato dalla Commissione in carica. Questa sua triste storia di norma mai applicata per ventun anni non dipende affatto dalla circostanza che in questi decenni non si sia mai verificato in Europa un “afflusso o imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine”. Al contrario, tale situazione si è verificata in più occasioni a seguito delle quali l’applicazione della Direttiva è stata incessantemente invocata da studiosi ed associazioni. Solo ultime in ordine di tempo vanno ricordate la crisi siriana della metà del decennio scorso e il tracollo dell’Afghanistan dell’estate 2021. Si potrebbe obbiettare che nel caso afgano (come in altri casi) questo afflusso massiccio diretto verso l’Europa non v’è stato.
Vero, ma ciò è avvenuto in ragione delle politiche di esternalizzazione dell’Europa che hanno bloccato e confinato un enorme numero di rifugiati in paesi terzi pagando un prezzo altissimo sia in termini strettamente economici e politici (compreso l’appoggio a regimi autoritari) che di compressione e persino negazione radicale dello stesso diritto d’asilo. Una pagina nera della storia europea che doveva e poteva essere evitata e, tal fine, sottolineo un’altra notevolissima caratteristica di questa Direttiva volutamente messa in un angolo e dimenticata: la nozione di afflusso massiccio vi viene così definita: “L’arrivo nella Comunità (oggi Unione ndr) di un numero considerevole di sfollati, provenienti da un paese determinato o da una zona geografica determinata, sia che il loro arrivo avvenga spontaneamente o sia agevolato, per esempio mediante un programma di evacuazione”. La Direttiva era stata concepita dunque non solo per rispondere a un arrivo diretto di sfollati, come è ora il caso ucraino, ma per gestire le crisi internazionali di rifugiati da affrontare anche attraverso programmi di evacuazione verso l’Europa connotati da alti numeri.
Perché tutto ciò non è stato mai attuato e si è sostenuto a lungo che alcune scelte fossero impossibili, quando invece erano e sono fattibili e già si disponeva di uno strumento giuridico, anche se imperfetto e un po’ desueto, per realizzarle? Tanti, troppi, hanno preferito non agire lasciando degenerare il sistema di asilo in Europa, accusando come ragione l’ondata nazionalista e xenofoba che ha cercato, spesso con successo, di bloccare tutto. Ma la realtà è che a questa ondata ci si è piegati culturalmente fino quasi a farne parte. L’attivazione della Direttiva sulla protezione temporanea – sua ultima eccellente ma sconosciuta caratteristica – non richiede affatto l’unanimità ma solo la cosiddetta maggioranza qualificata degli Stati membri. Un requisito non facile ma affatto impossibile da raggiungere, se si fosse voluto, in molte circostanze; però non si è voluto, così che la responsabilità della resa alla gestione delle crisi e alla difesa dei diritti umani non è attribuibile solo agli stati “cattivi” ma è molto più diffusa.
La triste storia della Direttiva 55, che forse rinasce proprio sul finire dei suoi giorni, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un’Europa che si è sempre più allontanata dai suoi valori fondanti. La sua tardiva applicazione, di cui, per ironia della storia usufruiranno proprio quei paesi dell’Europa dell’Est che più hanno messo in atto politiche estreme, deve rappresentare un segno di cambio di direzione rispetto alle proposte sbagliate avanzate dalla Commissione nel cosiddetto Patto per l’immigrazione del settembre 2020, per tornare a fondare il sistema comune di asilo su un effettivo rispetto del principio di solidarietà e di condivisione delle responsabilità. Gianfranco Schiavone
Da ansa.it il 2 marzo 2022.
Sono all'incirca 836mila i profughi che sono fuggiti dal conflitto in Ucraina: Lo rendono noto le Nazioni Unite. Ieri, secondo quanto riportato da cotidianul.ro, sono stati 16.000 i cittadini ucraini a varcare la frontiera romena (il 7% in meno rispetto al giorno precedente).
Dall'inizio della crisi, seguendo i dati ufficiali pubblicati dal quotidiano, sono stati 105.452 i rifugiati a varcare la frontiera del paese balcanico. Molti lo hanno già lasciato per raggiungere i propri familiari sparsi in vari Paesi dell'Europa occidentale, ma molti altri sono rimasti, ricevendo la straordinaria solidarietà della popolazione romena che, soprattutto nelle città in prossimità delle frontiere, sta garantendo in tutti i modi assistenza.
Il governo tedesco non fornisce invece previsioni sul flusso di profughi ucraini in arrivo in Germania dalla guerra. Secondo le prime stime sono oltre 5.000 i rifugiati già arrivati nel Paese e non dovranno fare richiesta di asilo, grazie alla semplificazione delle procedure stabilita nei giorni scorsi.
Ferdinando Camon per “la Stampa” il 5 marzo 2022.
La tragicità della guerra che l'Ucraina patisce sta tutta in una foto, che è insieme dolcissima e crudele. Mostra due adulti, marito e moglie, che vanno a piedi per una strada, spingendo un carrello a due ruote sul quale sta caricata una bara. Una bara grande, quindi non di un bambino ma di un adulto. Una bara sepolta da tempo e riscavata adesso, per la fuga.
I due adulti scappano dall'Ucraina, e portano con sé la cosa più preziosa che hanno in Ucraina, la più cara, quella per la quale gli è doloroso, anzi straziante, lasciare la loro patria, per la quale, evidentemente, eran tentati di restare. Ne avranno discusso a lungo, non con asprezza, i grandi dolori non danno asprezza, danno rassegnazione. I grandi dolori rendono più buoni. Penso che dentro la bara ci sia il corpo del padre o della madre di uno dei due fuggitivi.
Forse la madre, che vive più a lungo. Ne avranno parlato certamente, quando han deciso di partire: «Che facciamo con tua (o mia) madre, sepolta qui da anni?». Poi la decisione: la portiamo con noi. Son tutt' e due a portarla, spingendo il carrello. Cioè: basta uno solo a spingerlo, e quest' uno è lui, l'uomo, ma la moglie vuol partecipare alla spinta, perciò tiene la sinistra sulla bara, mentre con la mano destra si asciuga gli occhi. Sopra la bara è adagiata una lunga croce, una croce spoglia, senza il Cristo morto.
Il Cristo morto è sotto, dentro la bara. Siamo alla periferia di Kiev, Kiev è in fiamme, è caduta o sta per cadere. Questi abitanti di Kiev che fuggono dalla città che brucia e van via senza voltarsi indietro, portando con sé un congiunto che non vogliono lasciare in mano ai nemici che avanzano, mi fa venire in mente Enea che scappa da Troia incendiata portando con sé il padre Anchise. Ma Enea protegge e porta via il padre ancora vivo. Vecchio, ma vivo.
Questi due adulti che scappano da Kiev portano con sé un loro congiunto morto. Hanno un'idea di patria e di famiglia che comprende i viventi e i defunti, i defunti vivono con noi, in noi, tu devi stare dove stanno loro, se tu cambi terra, devi portarli con te nella nuova terra. La nuova terra potrà essere la tua terra solo se con te ci sono i tuoi antenati. Questa fuga degli ucraini da Kiev mi ricorda la fuga dei serbi dal Kossovo: partendo, i serbi caricavano sui carri tutte le masserizie che potevano, ma poi andavano al cimitero, dove c'eran le tombe di padre e madre, scavavano, portavano su le bare, e caricavano anche quelle.
In questo modo non trasferivano soltanto se stessi e i loro figli, cioè il loro presente e il loro futuro, trasferivano tutta la stirpe, anche il loro passato. Noi siamo quel che siamo perché i nostri padri erano quel che erano. I nostri padri sono in noi. Trasferendo anche loro, ci trasferiamo interamente. Non abbiamo più nessuna ragione per tornare qui. Questo luogo non ci riguarda. Non ci è caro, non più. Ovunque fossimo, avendo qui i nostri morti, avevamo qui le nostre radici. Adesso ci sradichiamo. Questa coppia che se ne va a piedi da Kiev, portando con sé una bara, sta dicendo alla patria: maledetta la terra da cui portiamo via i nostri morti.
Accogliere solo chi scappa dalla guerra, Meloni contro gli irregolari. Il Tempo il 05 marzo 2022.
La guerra in Ucraina provoca un'immensa ondata di profughi che cercano la salvezza nei Paesi europei. Anche l'Italia dovrà fare la sua parte nell'accoglienza dei profughi. Ma proprio per questo la leader di Fratelli d'Italia punta l'indica contro gli immigrati irregolari ancora presenti nel nostro Paese.
«Espellere gli irregolari che non hanno diritto di stare in Italia - scrive su Twitter la Meloni - e accogliere chi scappa realmente dalla guerra: questo farebbe uno Stato serio».
Cara Meloni, no, l’Ucraina non ci insegna chi sono i “profughi veri”. Lisa Pendezza il 02/03/2022 su Notizie.it.
I loro migranti non hanno più valore degli altri solo perché ci somigliano di più e la loro casa è vicina alla nostra.
Che esistano migranti di serie A e migranti di serie B è noto e risaputo. I primi molte volte siamo noi, anche se troppo spesso lo dimentichiamo. Sì, perché quando andiamo in un altro Paese – quando da ragazzi lasciamo il nido che mamma e papà hanno costruito per noi per andare a fare i camerieri a Londra o lavorare nelle farm in Australia o quando siamo parte del flusso della fuga di cervelli – è questo che siamo: migranti.
Anche quando ce lo dimentichiamo, perché abbiamo la fortuna di essere nati con il passaporto giusto, dalla parte giusta del mondo. La parte di mondo che, se da un giorno all’altro venisse attaccata e bombardata, riceverebbe l’aiuto internazionale e il riconoscimento, anche dai più oltranzisti tra i sovranisti, dello status di “rifugiato vero”, la stelletta che permette a chi è dall’altra parte di aprire braccia e porte (e porti).
“È ora di chiamare le cose con il loro nome. Riconoscere a chi scappa dall’Ucraina lo status di rifugiato” ha tuonato Giorgia Meloni nel suo intervento alla Camera. Aggiungendo che è ovvio che chi arriva da altre parti (leggi: chi ha un diverso colore della pelle, chi arriva sui barconi) non può essere un rifugiato vero perché si sa che gli uomini non fuggono dalla guerra.
Gli uomini veri, quelli forti e patrioti. Quando c’è un conflitto, “madri e bambini scappano mentre gli uomini restano a combattere“. Madri e bambini vengono accolti in un Paese dove esiste già “una comunità grande, con molte persone rispettose delle nostre regole, lavoratori onesti come gli ucraini che sono qui in Italia“.
(Sarebbe curioso andare a vedere quanto tempo fa la leader di Fratelli d’Italia ha attaccato qualcuno dell’Est Europa, magari per un furto o per uno stupro).
Cara Meloni, se c’è una cosa che la crisi ucraina ci ha insegnato è proprio il contrario. Non scegliamo noi quando finire sotto le bombe di una guerra, da qualsiasi parte del Mediterraneo viviamo. Qualsiasi sia il colore della nostra pelle. Qualsiasi sia la guerra che stiamo combattendo, chiunque sia il nostro nemico, interno o esterno. Qualsiasi sia il nostro genere – uomo o donna – perché anche gli uomini hanno il diritto di avere paura e fuggire così come le donne hanno quello di decidere di restare e resistere, con o senza un fucile in mano. Anche quando non hanno una comunità forte e affermata nel Paese di accoglienza.
Al netto dell'(ovvio) fatto che va fatto di tutto, tutto ciò che è umanamente possibile, per aiutare il popolo ucraino, i loro migranti non hanno più valore degli altri solo perché ci somigliano di più e la loro casa è vicina alla nostra.
Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 3 marzo 2022.
«Urlavano "Siete spazzatura" e "Tornate da dove siete venuti". La polizia ci ha raccomandato di stare attenti e di non uscire dalla stazione». Sono le 10,30 e Marwa Alhmadani, 25 anni, marocchina, studentessa di Medicina fuggita dall'Ucraina, cammina nel centro di Przemysl per andare a comprare qualcosa da mangiare con un amico del Kuwait.
Le nuvole sono basse e nell'aria vola qualche fiocco di neve che sembra polistirolo. Ma non è solo il meteo a essere peggiorato. Nella cittadina polacca di 70 mila abitanti che è diventata in pochi giorni il cuore dell'emergenza profughi, dove migliaia di volontari continuano ad arrivare da tutta la Polonia ma anche dal resto d'Europa per aiutare chi passa il confine, e dove i cittadini continuano ad aprire le loro case per ospitare chi non riesce a prendere un treno per allontanarsi, da martedì sera è comparso il tetro fantasma del razzismo.
Alcuni gruppi legati al tifo violento, scesi in piazza come ogni 1° marzo per celebrare i «cursed soldiers» (i movimenti anti-comunisti polacchi comparsi alla fine della Seconda Guerra Mondiale), la sera hanno marciato scandendo slogan volgari e insulti diretti verso i tantissimi stranieri (soprattutto studenti africani e asiatici) che si trovavano in Ucraina all'inizio del conflitto e che sono scappati assieme a donne e bambini ucraini.
Sui social network sono comparsi appelli a pattugliare le strade per «proteggere le nostre donne» e «tenere pulita la città». Si pensa che dietro possano esserci ambienti vicini a Konfederacja, il partito che riunisce varie sigle dell'estrema destra.
Intorno alla stazione ferroviaria ci sono più militari dei giorni precedenti e anche la polizia ha mandato rinforzi da altre città. «Siamo fuggiti dalle bombe per finire fra le grinfie di questa gentaglia?», si chiede incredulo Ismail Elfaith, un ventiduenne del Sudan, mentre cerca di raggiungere il treno che dopo due giorni di attesa lo porterà a Varsavia.
A complicare ulteriormente le cose ci sono stati alcuni episodi violenti sui quali le autorità stanno indagando. Un ragazzo marocchino lunedì è stato arrestato poco dopo aver oltrepassato la frontiera di Medyka: armato di un coltello, aveva tentato di rapinare un negozio.
Martedì sera, tre giovani indiani, arrivati dall'Ucraina, hanno denunciato di essere stati aggrediti nel centro di Przemyls da parte di quattro persone polacche. «È successo intorno alle 20 in Sportowa Ulica - conferma Malgorzta Czechowska, portavoce della polizia -. Uno dei tre è stato colpito a una mano e ha avuto bisogno di cure mediche, mentre gli altri due erano sotto choc ma non sono stati feriti. Stiamo visionando i filmati delle telecamere e cercando di capire chi sono gli aggressori».
Poche ore dopo anche altri tre ragazzi tedeschi di origine indiana, che fanno parte di un convoglio umanitario, hanno raccontato di essere stati aggrediti. L'ipotesi è che li abbiano scambiati per profughi.
Il sindaco, impegnato a coordinare l'accoglienza in stazione, ieri ha passato il confine per portare solidarietà alla città ucraina gemellata con Przemysl. In municipio c'è il suo portavoce Witold Wolczyk: «Dobbiamo cercare di stemperare la tensione - dice -. È normale che quando in una città così piccola arriva così tanta gente qualcuno possa preoccuparsi, ma questo non può giustificare comportamenti violenti o aggressivi. Vi prego di sottolineare soprattutto il grandissimo sforzo che stiamo mettendo in campo per aiutare i rifugiati».
Il concetto che la Polonia sta «facendo qualcosa di impressionante per l'accoglienza» viene ribadito con forza dai commissari europei Ylva Johansson (Affari interni) e Janez Lenarcic (Gestione delle crisi) che nel pomeriggio visitano di persona il valico di Medyca insieme al sottosegretario polacco agli Esteri Pawe Jablonski.
Tutti e tre, però, ripetono più volte anche che chiunque fugge dalla guerra deve essere accolto «indipendentemente dal colore della pelle, dal suo passaporto o dal suo status». «Se qualcuno ha raccontato di essere stato maltrattato o respinto mentre provava a salire su un treno in Ucraina, spero che tutti capiscano che in un contesto in cui muoiono civili innocenti è normale che ci siano tensioni e situazioni concitate - aggiunge il rappresentante del governo polacco -. Ma non aiutiamo Putin a diffondere la fake news di un'Ucraina razzista».
A chi chiede se fra le oltre 500 mila persone di 163 diverse nazionalità che hanno passato il confine polacco in questa settimana ci siano anche migranti siriani, libici e afghani provenienti dalla Bielorussia, Jablonski risponde con fermezza: «Siamo in una situazione di guerra. Ci sono persone con vari background, ma tutti sono accettati e trattati allo stesso modo».
Parole che non tutti, a Przemysl, vogliono ascoltare. Alle 19 davanti all'insegna al neon «Lody Tradicime» (gelato tradizionale), nella via che dal municipio porta dritta in stazione, si sono radunati una trentina di ragazzi vestiti di nero con berretti, sciarpe e maschere con il teschio a coprire i volti.
Altri arrivano dalle strade vicine mentre i primi poliziotti in borghese affrettano il passo nella loro direzione, infilando i manganelli nelle maniche della giacca. Come se la guerra vera che inizia a pochi chilometri di distanza non fosse già abbastanza.
Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 4 marzo 2022.
Il "nuovo" Salvini va a prendere i profughi e li porta in Italia. Il Capitano in versione pacifista «vuole fare qualcosa che aiuti» e decide di volare in Polonia. «Andrò lunedì », dice a chi lo accompagna fra le bare insepolte dei cimitero dei Rotoli, in un pomeriggio che mischia vecchie campagne locali e nuove sfide internazionali.
A Palermo il segretario della Lega prepara, fra mille difficoltà, una missione lanciata come "disarmata marcia per la pace" nei luoghi di guerra ma che ha presto cambiato volto. Salvini voleva promuovere una marcia senza colori di partito, guidata dal Papa, ma l'iniziativa non ha avuto grande successo.
Qualcuno gli ha fatto capire che non è possibile immaginare una manifestazione del genere in un teatro bellico, altri si sono subito tirati indietro. Non senza clamore: il presidente dell'Anpi ha fatto sapere che con Salvini non sfilerà mai: «Siamo troppo diversi. E poi lui ha i suoi scheletri nell'armadio. È l'amico di Savoini, aveva rapporti stretti con circoli vicini a Putin... troppe contraddizioni ».
«Dichiarazioni sciocche», ha risposto il senatore milanese, da più parti guardato con perplessità per questi suoi improvvisi appelli alla diplomazia, al dialogo, alla preghiera. Contro l'uso della armi. Così, nel replicare stizzito («Una follia dire che la pace, se chiesta dalla Lega, non va bene»), Salvini cambia il suo programma: scartata la contro-invasione pacifica dell'Ucraina, Salvini ha accarezzato l'idea di un blitz a Leopoli, appena oltre il confine.
Ma Pierfrancesco Zazo, l'ambasciatore italiano in fuga da Kiev che ieri ha sentito, l'ha invitato alla prudenza. Salvini partirà comunque, verso la Polonia, verso una meta non ancora definita, con una delegazione ristretta del suo partito: «Sono in contatto con diverse realtà per portare in Italia decine di bambini, vedove, orfani. Sto interloquendo con il premier polacco e l'ambasciatore italiano in Polonia. Se tutto è tranquillo, la prossima settimana penso di essere lì. Non mi interessa fare passeggiate».
Nel frattempo, il segretario degli ex lumbard non rinuncia a punzecchiare Draghi: «Mi piacerebbe che fosse in prima linea, magari lo è, ma noi non lo sappiamo». E continua a difendere la sua distinzione fra i profughi veri («Gli ucraini sono culturalmente e moralmente a noi vicini») e i migranti economici che vengono dall'Africa o dalla Siria.
Trovando proseliti nel territorio. Come Anna Cisint, sindaca leghista di Monfalcone, che in un post poi cancellato aveva dichiarato di voler aiutare solo i migranti veri, appunto, «non quelli che arrivano a gruppi di soli uomini. Non confondiamo la disponibilità con la stupidità». Cisint, poco dopo, si corregge: «Ho fatto solo comparazioni di buon senso. Comunque uomini soli che giungono dall'Ucraina per ora non ne ho visti».
"Orfani ucraini" e "migranti spacciatori". La distinzione di Salvini fa infuriare la Boschi. Il Tempo il 02 marzo 2022.
Matteo Salvini invita ad accogliere tutti i profughi provenienti dall'Ucraiana, senza alcuna distinzioni. Ma avverte: attenzione affinché questo non diventi il pretesto per accogliere indiscriminatamente tutti i migranti da ogni parte del mondo. "I numeri delle domande di accoglienza in Italia sono per la maggioranza respinte. Mentre qua c’è guerra vera. I profughi potrebbero essere mille, un milione: hanno diritto ad essere accolti - dice il leader della Lega - C’è invece altra gente che dice di scappare dalla guerra a cui il governo italiano nel 56% dei casi dice no. Sarebbe un torto per queste vedove o orfani" provenienti dall’Ucraina "confonderli con quelli che sbarcano per la sesta volta con il telefonino in mano e poi li troviamo in stazione Termini a spacciare".
Parole che non sono piaciute alla capogruppo dei deputati di Italia Viva Maria Elena Boschi: "Quello del popolo ucraino si prospetta come un esodo storico, con milioni di profughi. L’Unione Europea ha giustamente aperto le braccia per accoglierli e l’Italia ha assicurato economicamente il soccorso per queste persone in fuga dalla guerra. Ma siamo pronti a questa emergenza? Con oltre 100 mila arrivi al giorno, dobbiamo rafforzare la rete di accoglienza su ampia scala, in primis con i Comuni e le Regioni e con lo straordinario mondo del terzo settore che è già in prima linea. E se si è risvegliata la solidarietà di paesi come Polonia e Ungheria, che un tempo si rifiutavano di accogliere le persone provenienti dall’Africa, allora è arrivato il momento di cambiare le regole di Dublino. Per tutti. Accogliamo chi è in difficoltà e facciamolo in maniera organizzata, senza profughi di serie A o di serie B, senza lasciare indietro nessuno".
La dichiarazione del leader del Carroccio. “Migranti invasori come i russi”, l’ultima bestemmia di Salvini. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'1 Marzo 2022.
L’altro giorno, evocando il processo che lo riguarda, il senatore Matteo Salvini ha lamentato l’incoerenza di quelli che ieri assistevano senza far nulla alla violazione dei confini italiani, mentre lui stava lì a presidiarli, e oggi condannano l’invasione dell’Ucraina. Il fatto che il segretario leghista si sia esibito in simili dichiarazioni, per così dire, en passant (era ospite a una presentazione del libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara), racconta in modo non inedito ma ancora più stupefacente a quale grado di disinvoltura sia capace di abbandonarsi il personaggio.
È pur sempre quello che affida alla Vergine la propria sorte elettorale. È pur sempre quello che impugna il rosario reclamando la chiusura dei porti in nome di Gesù Cristo. È pur sempre quello del codice della ruspa contro le zingaracce. Ma accostare l’immagine del tank russo che punta e spara su Kiev a quella del barcone di derelitti che tenta di raggiungere una spiaggia italiana urta la decenza pubblica con un sovrappiù di improntitudine. Si può anche lasciar perdere il tratto abbastanza volgare dell’esponente politico che adopera la tragedia di un conflitto armato per il selfie con il proprio curriculum ministeriale: quel che ripugna davvero è la blasfemia di quell’accostamento, il suolo e l’umanità tormentati dai missili e i bagnanti ferragostani esposti alla minaccia di donne incinte e bambini disidratati, le gente nei rifugi sotterranei per sfuggire alle bombe e lo struscio domenicale molestato dai brutti ceffi con la pelle scura, le divisioni corazzate a forzare i confini laggiù e le file di disperati a mettere in pericolo l’identità nazionale qui da noi. C’è da sperare che il dio che lui in tal modo bestemmia lo perdoni. Iuri Maria Prado
Chi scappa e da cosa. Luigi Iannone il 2 marzo 2022 su Il Giornale.
Da qualunque parte stiate nella vicenda ucraino-russa una verità appare inoppugnabile: scappano dalla guerra mamme, bambini e nonni mentre i maschi adulti – messa in salvo la famiglia oltre il confine – tornano indietro per combattere.
Quando la prossima volta ci diranno che dall’Africa arrivano quelli che scappano dalla guerra (nella gran parte dei casi, maschi adulti senza donne, bambini e nonni) avremo un termine di paragone per mostrare loro la differenza tra la solidarietà umana e l’imbecillità buonista.
Quarta Repubblica, Daniele Capezzone sbotta: “Che vergogna l'Unione Europea, applausi alla Polonia”. Poi sbugiarda la sinistra. Il Tempo l'01 marzo 2022.
Daniele Capezzone affonda i politici europei nella puntata del 28 febbraio di Quarta Repubblica, talk show di Rete4 condotto da Nicola Porro. Il giornalista sottolinea con vigore l’impegno della Polonia nell’accogliere tutti quei cittadini che stanno fuggendo Kiev e dal resto dell’Ucraina dopo l’invasione della Russia di Vladimir Putin: “Che vergogna l’Unione Europea, ha passato un anno a criminalizzare Varsavia e la Polonia, ora che lezione di civiltà che dà la Polonia all’Unione europea, ai progressisti e ai politicamente corretti. Il problema erano le leggi della Polonia… Avete visto in questi giorni le carovane di profughi, con donne e bambini e gli uomini che poi tornano a combattere. Tenetelo alla mente, quante volte abbiamo visto immagini di immigrazione economica, in cui non arrivano per mare donne, ma uomini muscolosi. Vedete la differenza quando - fa notare il giornalista - si scappa da una guerra vera, con gli uomini che restano a combattere e donne e bambini che scappano. Una certa sinistra ci ha parlato dell’immigrazione e poi…”
“Chiunque abbia un cuore - continua Capezzone - è emozionato per la resistenza ucraina, invito i politici europei ad usare un linguaggio più cauto. Siamo davanti ad un chiaro errore di calcolo di Putin. Ripeto, i politici europei non usino toni incendiari, a pagare il conto sarebbero gli ucraini. Errori dell’Occidente? Giusto discuterne. Ma non si dimentichi il desiderio post 1989 di tanti popoli di avvicinarsi alla libertà”.
CartaBianca, Matteo Bassetti inquietante: "Non solo Covid, focolai di poliomielite". Il rischio dei profughi ucraini in Italia. Libero Quotidiano il 02 marzo 2022
L'ondata di profughi dall'Ucraina rappresenta anche un grave problema sanitario. Ne è convinto Matteo Bassetti, ospite di Bianca Berlinguer a CartaBianca su Rai3. "La situazione in Ucraina mi preoccupa moltissimo anche a livello sanitario e infettivologico - piega il direttore della Clinica di malattie infettive San Martino di Genova -. L'Ucraina è vaccinata al 35% per il Covid e avevano già focolai di poliomielite". Due fronti ovviamente sottovalutati, visto che la priorità assoluta, al momento, è mettere al sicuro donne e bambini e ricollocarli nei vari paesi dell'Unione europea e nelle tante comunità ucraine presenti, dopo il primo soccorso sul confine in Polonia e Ungheria.
L'orrore dell'attacco militare russo a Kiev, Kharkiv e Mariupol sta mettendo in secondo piano anche altre questioni che dovrebbero essere centrali per il futuro immediato dell'Europa e del mondo. Quella finanziaria, nell'immediato: "Il problema è la disuguaglianza di questi meccanismi - spiega Pier Luigi Bersani riguardo a sanzioni e relativi riflessi finanziari -: le Borse un giorno vanno su e un giorno vanno giù. Ma se la verza costa due euro invece di uno, la gente non mangia".
Problema tirato in ballo anche da Eleonora Evi di Europa Verde, direttamente da Strasburgo: "Le aziende petrolifere che distribuiscono gas in Italia, con la crisi energetica e mentre famiglie e imprese sono in ginocchio, hanno fatto extra profitti miliardari. Nel 2022 si parla di 14 miliardi di euro". Una situazione destinata a peggiorare dopo le sanzioni contro Mosca.
Il nodo energetico è l'altra, grande incognita per l'Italia e non solo: "Non è vero che in poco tempo diventeremo indipendenti dal gas russo - ricorda Luigi Scordamaglia presidente di Filiera Italia -. Non abbiamo fatto molte cose che si dovevano fare. Dobbiamo sapere che ci sarà da fare tanto scostamento di bilancio, aiutando famiglie e imprese. Serve un approccio da Europa vera". E il geologo Mario Tozzi si sbilancia in una profezia cupa: "La guerra può finire all’ultimo minuto, contro la pandemia abbiamo i vaccini ma contro il cambiamento climatico non facciamo nulla. Anzi stiamo tornando al carbone e alle trivelle. Purtroppo faremo solo cose leggere per adattarci al cambiamento climatico".
Boom di immigrati nel 2021. Quasi 90mila nuovi clandestini in Italia: l'allarme dei servizi segreti. Francesca Musacchio su Il Tempo l'01 marzo 2022.
Sessantasettemila persone via mare e altre 10mila via terra. Sono i numeri dell'immigrazione irregolare arrivata in Italia nel 2021 e analizzati nella Relazione dell'intelligence presentata ieri al Parlamento. Un flusso continuo, aumentato lo scorso anno soprattutto lungo la rotta dei Balcani. La rotta del Mediterraneo, però, si conferma quella più utilizzata per arrivare in Italia e quindi in Europa. In testa alla classifica delle nazionalità dichiarate al momento dello sbarco, ci sono i tunisini con 15.671 arrivi nel 2021. A seguire egiziani (8.532), Bangladesh (7.824) e iraniani (3.915). Secondo l'intelligence, «instabilità politica, conflitti armati, incremento demografico, cambiamento climatico, precarie condizioni socio-economiche ed effetti della crisi sanitaria da Covid-19 hanno inciso, quali fattori di innesco, sull'andamento dei flussi dell'immigrazione irregolare in direzione dell'Italia. Fenomeno che ha fatto registrare un trend incrementale per tutto il 2021 rispetto a quanto registrato nel 2020». Il covid, quindi, non ha fermato l'immigrazione che arriva sulle nostre coste. Gli 007 hanno tracciato le rotte del traffico di esseri umani e le organizzazioni criminali che lo gestiscono. Nel Mediterraneo centrale «si sviluppano prevalentemente i flussi di migranti in partenza dalle coste libiche e tunisine», spiega la Relazione.
In Libia, i servizi segreti hanno evidenziato l'esistenza di «sinergie operative tra network criminali libici, formazioni tunisine ed espressioni criminali dei Paesi di provenienza dei migranti, segnatamente, con trafficanti di nazionalità bangladese, etiope, eritrea, egiziana e sub-sahariana». E questi network gestiscono l'intera filiera del traffico, «dai Paesi di origine alle aree di imbarco, attestate principalmente nella zona costiera a Ovest di Tripoli e, segnatamente, nelle aree di Zawiyah, Zuwarah, Sabratah, Abu Kammash e Tripoli, fino a ricomprendere la porzione di territorio al confine tunisino». Dalla Libia partono in prevalenza bangladesi, egiziani, eritrei e marocchini. Mentre dalla Tunisia il flusso e autoctono e gestito da consorterie criminali indipendenti, «perlopiù composte da soggetti di nazionalità tunisina, specie per quanto attiene all'area di Sfax da cui è salpato un significativo numero di imbarcazioni dirette in territorio nazionale». I barconi che arrivano a Lampedusa partano prevalentemente da Sfax e Medenine, mentre le imbarcazioni che partono da Nabeul, Mahdia e Biserta raggiungono prevalentemente le coste della Sicilia sud-occidentale, con imbarcazioni di piccola dimensioni in grado di sfuggire al dispositivo di controllo nazionale e dando vita agli «sbarchi fantasma».
Nel mirino dell'intelligence anche i flussi lungo la rotte del Mediterraneo Orientale e quella balcanica terrestre, «soprattutto per il significativo bacino di migranti irregolari presenti in territorio turco». A fronte di un trend decrementale che riguarda i flussi via mare dalle coste della Grecia, la Turchia, si legge nella Relazione, «che in termini generali rappresenta il terzo Paese di partenza dei migranti, dopo Libia e Tunisia, ha fatto registrare il maggiore incremento percentuale degli sbarchi in territorio nazionale rispetto al 2020. Dalle coste turche, attraverso il Mediterraneo orientale, promanano infatti consistenti flussi di migranti dai quadranti mediorientale e asiatico, favoriti dall'adozione, da parte di Ankara, di procedure di ingresso semplificate nei confronti di taluni Paesi coinvolti dal fenomeno». Il 2021, in linea con il biennio precedente, ha fatto anche registrare un netto incremento di migranti provenienti da Iran, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Egitto e Bangladesh, i quali hanno utilizzato il corridoio marittimo del Mar Egeo per dirigersi verso le coste pugliesi, calabresi e siciliane. Connesso al tema dell'immigrazione, c'è quello del terrorismo internazionale e dei rischi per l'Europa e l'Italia. Soprattutto per quello che riguarda i Balcani occidentali ritenuti potenziale «incubatore» della minaccia terroristica verso l'Europa. Qui si sono concentrate le informative dei servizi «anche per i possibili rischi di emulazione da parte di estremisti islamici intranei alle comunità balcaniche in Europa occidentale».
Nel 2021, in Europa ci sono stati 6 attentati di matrice jihadista. L'attenzione dunque rimane alta, soprattutto sui foreign fighters, 144 compresi i 56 soggetti deceduti, «intenzionati a rientrare in territorio italiano, sia pure in stato di arresto o sotto falso nome, sfruttando anche circuiti criminali dediti all'immigrazione clandestina».
Fabio Albanese per lastampa.it il 22 febbraio 2022.
Nel mare Jonio, nella notte, la Guardia costiera italiana ha salvato quasi 600 migranti che erano su due vecchi e malandati barconi alla deriva. Su uno c’era anche un cadavere.
Il salvataggio, avvenuto 70 miglia al largo delle coste calabresi di Capo Spartivento, in acque di competenza Sar, di ricerca e soccorso, italiane, è avvenuto in condizioni meteo e del mare difficili e in peggioramento.
Ora tutti i 573 migranti recuperati, 59 sono minorenni molti dei quali non accompagnati, sono tutti su nave Diciotti che, al rientro dalla missione difronte alla Grecia per le operazioni di salvataggio del traghetto della Grimaldi lines che si è incendiato venerdì della scorsa settimana, sta ora facendo rotta per Augusta dove i migranti saranno sbarcati.
Le operazioni di soccorso, cominciate nel tardo pomeriggio di ieri, sono state lunghe e complesse anche perché il punto in cui si trovavano le due imbarcazioni era molto distante dalla terraferma. La Guardia costiera, come ha reso noto in mattinata, ha inviato sul posto oltre a nave Diciotti anche tre motovedette partite da Siracusa, Crotone e Reggio Calabria.
«I migranti in difficoltà si trovavano a bordo di due pescherecci sovraccarichi e lasciati in balia delle onde - ha spiegato la Guardia costiera - in presenza di condizioni meteo sfavorevoli e previste peggiorare sensibilmente nelle ore successive».
Di loro si sono presi cura i sanitari del Cisom, il Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, che ha proprio personale a bordo delle imbarcazioni della Guardia costiera. Uno dei migranti, che aveva necessità di cure più urgenti, con una motovedetta è stato trasferito a Roccella Jonica e ricoverato in ospedale.
Il migrante privo di vita è su nave Diciotti e verrà sbarcato ad Augusta. «Secondo quanto dichiarato dagli stessi migranti, sarebbe deceduto già da alcuni giorni», ha detto la Guardia costiera.
Quello della notte scorsa è il più imponente salvataggio di migranti da inizio anno. Dal primo gennaio a ieri, esclusi dunque i 573 che sbarcheranno nelle prossime ore in Sicilia, sono arrivati in Italia 4.701 migranti, 3.035 in gennaio e 1.666 in febbraio.
Numeri complessivi di poco superiori a quelli di un anno fa negli stessi primi due mesi, anche se l’anno scorso il mese di febbraio si chiuse poi con l’arrivo di quasi 4mila persone.
Il buonismo dai frutti avvelenati. Giannino della Frattina il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Sei accoltellati a Milano in sei diversi episodi, tra le 3 e le 5 del mattino. Due ragazzini di 14 anni rapinati di scarpe e casse in pieno centro da otto nordafricani diciottenni pregiudicati e le manette a un marocchino sospettato di aver ucciso a coltellate un uomo dopo una lite in discoteca. Non il normale mattinale di polizia di un fine settimana, ma la dimostrazione che a Milano la città è ormai fuori controllo. Impossibile minimizzare ancora, come hanno tentato di fare il centrosinistra e il suo sindaco Giuseppe Sala anche dopo i terribili episodi di Capodanno, il cui bilancio finale stilato da Repubblica e non da giornali avversi, parla di «cinque assalti, dieci ragazze violentate, due diversi branchi di extracomunitari e molti emulatori». La Caporetto di una sinistra purtroppo da troppi anni al timone della città e che come da Dna ha ignorato i problemi, declassando gli allarmi dei residenti a razzismo da campagna elettorale. E così il conto è arrivato e a pagarlo sono ragazzini rapinati, ragazze stuprate e cittadini indifesi di fronte a una criminalità di strada finita in mano a seconde generazioni di immigrati che spadroneggiano ormai senza nessun freno. Con arroganza, violenza e dispregio della legge e di qualunque norma sociale che li rendono ormai pericolosissimi. Ben altra cosa rispetto ai genitori che erano arrivati in cerca di un posto di lavoro e che nella maggior parte dei casi trovavano in un'educazione familiare, religiosa e anche delle nazioni da cui provenivano le regole per partecipare a una convivenza comunque civile nel Paese che li ospitava. A produrre un mix letale nei loro figli, sono stati invece i ghetti nei quali sono stati costretti a vivere, l'assenza di qualunque rispetto per la legge e il loro prossimo, il modello di una ricchezza solo materiale invidiata e loro negata fatta di auto di lusso, orologi d'oro, droga a disposizione e donne da trattare come oggetti di piacere. Il perfetto decalogo di rapper violenti che sono diventati non solo gli idoli, ma anche gli aggregatori di pericolose gang di violenti e stupratori. Nulla di diverso da quanto succedeva anni fa nelle banlieu di Parigi, Bruxelles o Stoccolma ostaggio delle seconde generazioni. Ma a sinistra non leggono la storia. E nemmeno i giornali. Giannino della Frattina
"Decalogo di buone maniere per i migranti". Bufera buonista sul consigliere del Carroccio. Valentina Raffa il 20 Febbraio 2022
su Il Giornale.
La richiesta tacciata di razzismo. La replica: "Favorisce l'integrazione".
I numeri da record degli arrivi dei migranti sulle nostre coste non scalfiscono il Viminale, che anche ieri ha concesso l'approdo al porto di Pozzallo, nel Ragusano, ai 247 stranieri irregolari della Ocean Viking, nave della Ong francese Sos Mediterranèe. Evidentemente non importa nemmeno che gli scafisti di ieri li si ritrovi oggi di nuovo al timone di una nuova carretta, come ha messo in luce un'indagine della Squadra mobile di Agrigento (a conferma di altre in passato) che ha portato all'arresto dell'egiziano 38enne che il 25 gennaio scorso ha condotto a Lampedusa 287 migranti, quasi tutti bengalesi, 7 dei quali morti per ipotermia date le condizioni disumane del viaggio. L'uomo deve rispondere di morte come conseguenza di altro delitto oltre che di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, reato di cui è un habitué visto che nel 2011 era al timone di un'altra imbarcazione che attraccò a Pozzallo. Per quest'ultimo reato è destinatario di una condanna definitiva, ma ciò non gli ha impedito di replicare la traversata. Il 38enne si trova ora nel carcere di Agrigento a disposizione dell'autorità giudiziaria per le convalide e l'accertamento delle responsabilità penali. Altri due arresti della Mobile di Agrigento hanno riguardato un tunisino condannato per violenza sessuale, atti persecutori e minacce e un altro condannato per falso contro la fede pubblica. Anche questi due soggetti sono stati ristretti in carcere per l'espiazione della pena definitiva, manco a dirlo in Italia a spese degli italiani. Intanto gli sbarchi proseguono incontrastati e ci troviamo ad accogliere chi si avventura in mare nella speranza di venire intercettato e condotto in uno dei porti italiani o, cosa pericolosa, nel tentativo di bypassare i controlli identificativi e sanitari e disperdersi per il territorio. Così, ai 4.263 migranti giunti sulle nostre coste, stando ai dati del Viminale aggiornati a venerdì, se ne dovranno aggiungere 94, asiatici, intercettati in mare dalla Capitaneria di Pozzallo mentre il veliero su cui viaggiavano era in difficoltà a 20 miglia dall'Isola delle Correnti, e i 247 della Ocean Viking che hanno ricevuto il benestare del Viminale per sbarcare a Pozzallo dove sono ospiti dell'hotspot. A bordo c'erano 54 minori che sono destinati alla struttura di contrada Cifali a Comiso. «Si rende necessario ha ribadito il sindaco della città, Roberto Ammatuna che venga inserito tra le priorità del governo nazionale il problema dell'immigrazione». Ci sono altri 43 migranti sbarcati a Crotone individuati in mare dalla Guardia di finanza mentre viaggiavano su uno sloop a vela e motore. Sono stati ospitati al Cpa per richiedenti asilo di Sant'Anna.
A coronare un fine settimana di sbarchi come ciliegina sulla torta si assesta una polemica scoppiata a Caltanissetta per la richiesta della Lega al sindaco di esporre in più punti in città un decalogo per i migranti finalizzato a indicare loro le regole basilari da seguire onde evitare di infrangere le leggi, anche alla luce del fatto che hanno una cultura diversa dalla nostra. Richiesta respinta dal primo cittadino: «Iniziativa vergognosa e razzista». E puntuali, insorgono i buonisti, che si interrogano su come mai un simile decalogo non venga richiesto anche per i nisseni. «Ma quale razzismo, non c'era alcun intento di discriminare gli extracomunitari, ma al contrario di favorirne l'integrazione», la replica di Oscar Aiello, consigliere comunale della Lega. Valentina Raffa
Segregata per sposare un nordafricano che voleva la cittadinanza: l'incubo di una 27enne italiana. Il Tempo il 18 febbraio 2022
Un matrimonio al solo scopo di far ottenere la cittadinanza italiana a un nordafricano si è trasformato in un incubo per una ragazza emiliana. Una storia che è emersa in maniera rocambolesca dalle indagini su un altro fatto, ossia su una frode informatica. I carabinieri hanno scoperto un giro di droga e l’odissea subita da una giovane donna, indotta al matrimonio e poi segregata per giorni in casa. Otto persone sono state denunciate dai carabinieri nella zona di Reggio Emilia.
Le indagini sono partite dalla denuncia di una ragazza, 29enne reggiana, che aveva smarrito il cellulare e, dopo aver bloccato e poi riattivato la sua utenza riconfigurando il nuovo smartphone, aveva visto che sulla sua mail erano intercorse comunicazioni di cui non sapeva nulla. Ignoti dal suo smartphone smarrito avevano utilizzato la mail per trasmettere e ricevere documenti sospetti, e così la giovane si è presentata ai carabinieri della stazione di Gattatico denunciando la frode informatica.
I militari, partendo dalle indagini su tale denuncia, sono risaliti a un giro di droga nonché a un’altra giovane donna, indotta al matrimonio con l’inganno. Le indagini puntano così sull’autore della frode, un 31enne nordafricano residente in provincia di Verona, che avrebbe utilizzato la documentazione ricevuta sulla mail della 29enne per indurre una 27enne, residente nel modenese, a sposarlo dietro la promessa di un compenso pari a 10.000 euro. Matrimonio da contrarre, secondo quanto emerso, ai soli fini di ottenere la cittadinanza italiana.
A questo punto per la 27enne è iniziata l’odissea: il 31enne l’ha privata dei documenti e del cellulare costringendola a restare, contro la sua volontà, prima nell’abitazione di alcuni complici, una coppia di albanesi che abita nel capoluogo reggiano, per poi costringerla in un’altra abitazione in provincia di Verona, questa volta di proprietà di un connazionale. Da qui la donna è riuscita a fuggire. Entrambi i luoghi di "prigionia", stando a quanto sarebbe emerso nel corso delle indagini dei carabinieri di Gattatico, costituivano anche due presunte basi di spaccio di stupefacenti che vedevano convolto sia il 31enne che altri stranieri. Per tanto il nordafricano altri soggetti sono accusati anche di istigazione allo spaccio di stupefacenti. In totale otto persone sono state denunciate in stato di libertà per concorso in sequestro di persona, spaccio di stupefacenti, frode informatica e induzione al matrimonio mediante inganno.
L'indagine dei carabinieri partita dalla denuncia per frode informatica. “10mila euro se mi sposi”, donna segregata nella casa dello spaccio. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
L’indagine era partita per una frode informatica, dopo la denuncia di una 29enne che aveva trovato nella sua mail comunicazioni, documenti e foto di persone a lei sconosciute. Ma è diventata un’inchiesta che ha portato a scoprire un traffico di droga, nonché un sequestro di persona.
I militari di Gattatico, nel Reggiano, sono riusciti a identificare i presunti responsabili e la Procura di Reggio Emilia ha aperto un’inchiesta con otto indagati a piede libero tra i 23 e i 43 anni, in prevalenza nordafricani e albanesi, residenti tra le province di Reggio Emilia, Torino e Verona.
La vicenda
Aveva smarrito lo smartphone e, dopo aver bloccato e poi riattivato la sua utenza, riconfigurando il nuovo cellulare, si era accorta che persone sconosciute avevano utilizzato la sua mail per trasmettere e ricevere documenti. La 29enne si è quindi presentata ai carabinieri denunciando la frode informatica. Le indagini sono partite nel mese di novembre 2020 e hanno portato a identificare l’autore del reato-un 31enne nordafricano residente in provincia di Verona- e alla scoperta di una vicenda risalente a qualche mese prima.
L’uomo aveva utilizzato la documentazione ricevuta sulla mail dell’ignara proprietaria con l’obiettivo di indurre una 27enne, residente nel modenese, a sposarlo, dietro la promessa di un compenso di 10mila euro. Matrimonio da contrarre, secondo quanto emerso, non certo per amore, ma solo per ottenere la cittadinanza italiana.
Il sequestro e lo spaccio di droghe
È a questo punto che inizia una vera e propria odissea per la ‘promessa sposa’. Il 31enne, dopo averla privata dei documenti e del cellulare, l’aveva infatti costretta a restare contro la sua volontà prima presso l’abitazione di alcuni complici, identificati in una coppia di cittadini albanesi abitanti nel capoluogo reggiano, e poi in un’altra casa in provincia di Verona, questa volta di proprietà di un connazionale. Ed è proprio da qui che la vittima, grazie ad alcune circostanze fortunate, proprio quando stava per perdere ogni speranza, è riuscita poi a fuggire.
Secondo quanto stabilito dalle indagini dei carabinieri, entrambi i luoghi in cui la ragazza è stata segregata erano anche due basi di spaccio di stupefacenti che vedevano coinvolti il 31enne insieme ad altre persone. Una circostanza confermata da alcuni testimoni e assuntori di stupefacenti, nonché clienti, ascoltati dalle forze dell’ordine. Ma non solo. Durante l’attività d’indagine sono emerse altre presunte responsabilità penali per varie ipotesi di reato, tra cui anche l’istigazione allo spaccio di stupefacenti.
I reati contestati alle otto persone individuate dai carabinieri sono concorso in sequestro di persona, spaccio di stupefacenti, frode informatica ed induzione al matrimonio mediante inganno. Mariangela Celiberti
Valentina Raffa per "il Giornale" il 14 febbraio 2022.
Mentre il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese è impegnata con progetti come «l'orchestra del mare» che sarà realizzata grazie a strumenti creati dai detenuti del carcere di Milano-Opera utilizzando il legno di 11 barconi attraccati a Lampedusa, l'emergenza immigrazione prosegue incontrastata.
Le partenze dalle coste libiche e tunisine si susseguono e, dunque, aumenta anche il numero di morti in mare. Questa volta non si è trattato di un naufragio, ma di uno speronamento involontario da parte di un peschereccio libico di un gommone con 21 migranti a bordo.
Tre dei cinque caduti in acqua sono dispersi, due sono riusciti ad aggrapparsi alla barca. Erano diretti a Lampedusa, dove ieri sono sbarcati 62 stranieri. Sulle nostre coste continuano ad arrivare migranti in maniera autonoma, intercettati in mare dalle nostre forze che li scortano fino al molo o, dopo averli trasbordati, fanno da taxisti conducendoli su terraferma, continuano gli sbarchi fantasma, che rappresentano un enorme pericolo visto che chi arriva bypassa i controlli sanitari e identificativi se non viene intercettato mentre tenta di dileguarsi, e continuano anche a sbarcare migranti dalle solite navi Ong, che per missione ciondolano al largo della Libia, prendono a bordo i migranti per poi far rotta in Italia.
Presto in uno dei porti che senza alcun dubbio sarà indicato dal Viminale giungeranno i 228 migranti che si trovano sulla Ocean Viking della Ong francese Sos Mediterranèe, tra cui 50 minori.
Sono stati recuperati al largo della Libia in 4 interventi. È stato un fine settimana di sbarchi: dopo i 357 stranieri approdati sulle nostre coste sabato, anche ieri, poco dopo l'alba, in 122 sono arrivati al porto di Roccella Jonica.
A causa del mare agitato, si è trattato di un'operazione articolata della Guardia di finanza ad alcune decine di miglia al largo di Riace per mettere in salvo il motopeschereccio di circa 20 metri carico di migranti con i motori in avaria.
Il trasbordo è avvenuto non senza difficoltà per via delle forti raffiche di vento e del mare mosso. Questi nuovi arrivati si vanno ad aggiungere ai 3.155 giunti dall'inizio dell'anno, stando ai dati del Viminale aggiornati all'11 febbraio.
In pratica il numero è decuplicato rispetto al 2019, quando, alla stessa data, gli stranieri arrivati erano soltanto 215. Il 2022 parte proprio male superando persino il 2021, anno di approdi da record, visto che all'11 febbraio ne erano sbarcati 2.233 e 1.777 nel 2020.
Dinanzi a questi numeri e di fronte a notizie come quella che nei giorni scorsi ha visto l'arresto, da parte della Squadra mobile di Agrigento, di 6 egiziani ospiti dell'hotspot di Lampedusa per omicidio e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, avendo trasportato lo scorso gennaio sull'isola 70 migranti, e averne massacrato di botte uno, più che pensare a una sinfonia con l'orchestra del mare ci sarebbe da mettersi ad escogitare un modo per bloccare le partenze tagliando linfa vitale ai trafficanti di vite umane.
Processo Open Arms contro Salvini, tra i testimoni i medici dei migranti. VANESSA RICCIARDI su Il Domani l'08 aprile 2022
Davanti ai giudici viene raccontato il terrore dei migranti bloccati dall’allora ministro Matteo Salvini: avrebbero fatto qualunque cosa per non tornare in Libia. Per la psicologa non erano in condizione di navigare ancora, per Salvini dovevano essere mandati in Spagna e a Malta
Davanti ai giudici viene raccontato il terrore dei migranti bloccati dall’allora ministro Matteo Salvini: avrebbero fatto qualunque cosa per non tornare in Libia. L’8 aprile si tiene a Palermo, presso l’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, la seconda udienza istruttoria del processo che vede imputato l’ex ministro degli Interni e leader della Lega, Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per i fatti relativi all’agosto del 2019, quando la Open Arms fu costretta ad attendere 20 giorni in mare con oltre 160 persone a bordo, prima di poter garantire loro un porto di sbarco sicuro.
L'udienza ha approfondito le condizioni fisiche e psicologiche dei naufraghi a bordo, e la situazione igienico-sanitaria della nave dopo 20 giorni di attesa in mare.
Oltre a chiarire lo stato dei migranti, attraverso la testimonianza del capitano della Open Arms, Marc Reig Creus, vengono ripercorse le varie fasi giuridiche e operative che caratterizzarono quella missione. Presenti il leader della Lega Matteo Salvini e il suo avvocato Giulia Bongiorno.
Insieme a Creus, presenti i testimoni richiesti dalla procura che, nel caso specifico Dario Caputo, prefetto di Agrigento; Rosa Maria Iraci, questore di Agrigento; Vincenzo Asaro, direttore sanitario ospedale Licata; Cristina Camilleri, responsabile CTA Dipartimento salute mentale di Agrigento; Alessandro Dibenedetto, psicologo Emergency; Katia Valeria Di Natale, medico in servizio presso lo staff Cisom.
LA TESTIMONIANZA
La dottoressa Camilleri ha raccontato dell’angoscia che provavano i naufraghi all’idea di dover tornare indietro, al punto che alcuni si erano gettati in acqua cercando di raggiungere Lampedusa a nuoto: «Per le esperienze che avevano avuto durante il viaggio avevano sviluppato il terrore di essere riportati in Libia. La Libia rappresentava la morte e per questo in diversi si erano buttati in mare, perché per loro, che non avevano alcuna fiducia nelle rassicurazioni dell'equipaggio, gettarsi in mare significava riuscire ad arrivare a Lampedusa e salvarsi».
La psicologa ha descritto in tribunale lo stato in cui trovò i migranti soccorsi nel Canale di Sicilia dalla nave della ong spagnola Open Arms. «Specie il gruppo degli uomini - ha raccontato - aveva deciso di non tornare in Libia . Per loro buttarsi era l'unica possibilità».
La pm Giorgia Righi ha chiesto alla testimone come i profughi avrebbero eventualmente vissuto la decisione di proseguire il viaggio per la Spagna e non fermarsi sull'isola delle Pelagie: «La situazione era di urgenza - ha spiegato - e si doveva evitare che l'urgenza si trasformasse in emergenza».
Camilleri ha anche raccontato in particolare di due donne incontrate a bordo della nave. Una era la sorella di uno dei profughi che si erano buttati in acqua. «Aveva avuto una reazione grave- ha raccontato - tanto che era stata curata con tranquillanti. I compagni di viaggio avevano interpretato il suo comportamento secondo i loro parametri culturali: l'avevano ritenuta posseduta da forze demoniache e le avevano fatto rituali con danze per liberarla . Dai compagni di viaggio era ritenuta una presenza negativa».
Un’altra donna non reagiva: «Era in stato catatonico, non mangiava, non rispondeva». La teste ha riferito che diversi profughi le raccontarono di aver subito torture e violenze sessuali.
LA REPLICA DI SALVINI
Salvini dopo aver salutato i suoi follower su Instagram dall’aula bunker, continua a dire di aver fatto il suo dovere. Nessun naufrago sulla Open Arms, sostiene la difesa, «era stato ricoverato una volta ricevuto il via libera allo sbarco in Sicilia, le loro condizioni erano infatti “discrete” tanto che non era possibile escludere l’eventualità di un ulteriore viaggio verso la Spagna» ha sottolineato Bongiorno dopo le testimonianze di Asaro, dirigente dell’Asp di Agrigento e di Camilleri. Asaro in realtà ha rilevato ben altro: «Vivevano situazioni molto al limite, erano tutti molto provati. Come si può dire che potessero stare ancora a bordo?».
Per Bongiorno era possibile inviare i migranti altrove senza soccorrerli immediatamente: «La Open Arms – si legge in una nota diramata dai portavoce di Salvini - aveva rifiutato di sbarcare 39 persone a Malta e i governi di Madrid e Roma avevano già dato disponibilità per mettere a disposizione navi alternative per facilitare la navigazione verso la Spagna».
MALTA E SPAGNA
Sulle possibilità degli sbarchi alternativi ha risposto il capitano Creus. Decidere di far sbarcare 39 migranti a Malta non era possibile ha spiegato ai giudici, e disse di no «per evitare disordini a bordo». I naufraghi, ha risposto alla pm Marzia Sabella «erano a bordo da 9 giorni, e se avessi consegnato i 39 profughi appena soccorsi avrebbe potuto creare disordini a bordo». Prevale sempre «il criterio del comandante che può fare valere a bordo l'autorità per la sicurezza della nave», e ha aggiunto che «non avrei saputo come spiegarlo». Prima di dirigersi in Spagna invece ha preferito attendere le risposte di Malta, Italia, Grecia e Francia.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Open Arms, Salvini in aula per 13 ore: “Trattenuto mentre fuori c’è la guerra”. Debora Faravelli il 09/04/2022 su Notizie.it.
Matteo Salvini si è lamentato per essere stato trattenuto 13 ore nell'aula bunker di Palermo per l'udienza del processo sul caso Open Arms.
Trattenuto per tredici ore in aula “per un processo politico” sul caso Open Arms, Matteo Salvini si è lamentato per aver dovuto passare una giornata in tribunale mentre fuori la pandemia, il caro bollette e la guerra incombono sui cittadini.
Salvini sul caso Open Arms
Imputato per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per avere lasciato 147 migranti, in attesa di un permesso di sbarco, sulla nave spagnola della ong, l’ex ministro dell’Interno si è così espresso al termine dell’udienza: “Con tutti i problemi che abbiamo, stare tutto il giorno nel tribunale in cui vengono processati i mafiosi (ndr l’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo) è vergognoso“.
Si è poi lamentato anche per non aver potuto rispondere ai messaggi della ministra della Giustizia Cartabia.
Nel pomeriggio era infatti previsto un vertice con lei che ha dovuto subire un rinvio proprio a causa dell’assenza della Lega. “Le ho scritto un sms per dirle che oggi non ho potuto partecipare al vertice sulla riforma del Csm, insieme con l’avvocata Giulia Bongiorno, perché siamo impegnati in udienza da questa mattina in aula“, aveva detto durante una breve pausa del processo.
A che punto è il processo
Durante l’udienza, i giudici hanno ascoltato il dirigente medico dell’Asp di Agrigento Vincenzo Asaro, la responsabile del CTA – Dipartimento di Salute Mentale dell’Asp di Agrigento Cristiana Camilleri, l’ex prefetto di Agrigento Dario Caputo e il capitano della Open Arms Marc Reig Creus (la cui testimonianza è durata sei ore).
Il legale Giulia Bongiorno ha affermato che, dalle parole di quest’ultimo, è emersa chiaramente “quella che è stata l’assoluta collaborazione da parte dell’Italia e il rifiuto reiterato da parte del comandante di redistribuire parte dei migranti a Malta, di andare in Spagna e di accettare l’aiuto di imbarcazioni italiane“.
Dato che l’accusa è di sequestro di persona, “credo che sia stata smontata dallo stesso comandante nel momento in cui ha preso atto che ci sono documenti da cui risulta che ha preso in autonomia delle scelte facendo restare i migranti sulla sua barca“.
Giovanni Bianconi per il corriere.it il 9 aprile 2022.
Sul banco dei testimoni sale il comandante della nave Open Arms, che ricorda i 20 giorni dell’agosto 2019 trascorsi con i migranti a bordo davanti alle acque italiane: «Io non ho mai forzato il divieto d’ingresso, aspettavamo a 24 miglia dalla costa la risposta alla richiesta di sbarco nel porto sicuro più vicino (il Pos, place of safety, ndr ), che non è mai arrivata. Ci dicevano che bisognava attendere la decisione delle autorità competenti».
Ad ascoltarlo, sul banco degli imputati, c’è l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, l’autorità competente dell’epoca che negava la risposta e aveva firmato lo stop all’imbarcazione spagnola, rimasto sulle stesse posizioni: «In un momento in cui si parla di difesa dei confini in altre parti del mondo, ribadisco di aver fatto quello che era un mio dovere».
Nell’aula-bunker dell’Ucciardone, da dove il leader leghista manda foto e post, va in scena il processo in cui è accusato di sequestro di persona nei confronti di 147 migranti, entrato nel vivo con le deposizioni dei protagonisti. Primo fra tutti Marco Creig Creus, responsabile della nave: «A me non interessano le multe previste dai divieti, a me interessa salvare vite».
Salvini ascolta il suo racconto, a tratti distratto dai messaggi letti e scritti sul telefonino. Nelle pause dell’udienza-fiume (circa 12 ore) ostenta noia, per batterla ha portato con sé l’ultimo libro dello scalatore-opinionista Mauro Corona. Questo dibattimento, autorizzato dal Senato dopo la rottura dell’alleanza di governo coi grillini, è il risvolto giudiziario della sua politica sull’immigrazione, che lui rivendica.
Ma la Procura di Palermo ravvisa un reato nella mancata concessione del Pos a una nave con i migranti recuperati in tre diverse operazioni ricostruite da Creus: «Ne abbiamo raccolti 55 il 1° agosto, altre 70 il 2 agosto e altri 39 il 9 agosto, mentre eravamo in attesa di ricevere il permesso di sbarcare a Lampedusa, visto che Malta aveva detto no».
Il controesame dell’avvocata-senatrice Giulia Bongiorno tende a dimostrare che la Open Arms andò alla ricerca di naufraghi con singolare tempismo rispetto ai naufragi, muovendosi due giorni prima con un’imbarcazione inadeguata a quel lavoro, portandosi dietro giornalisti e cameramen. Oltre all’attore Richard Gere fatto salire «nonostante la nave fosse già piena». Ma per il comandante era tutto coerente con la sua missione.
Prima di Creus è il turno del medico e della psichiatra che per conto della Procura di Agrigento verificarono le condizioni dei profughi sulla nave: un centinaio di persone stipate sul ponte della nave, «con 2 bagni alla turca e senza materassi, dormivano sul pavimento lamentando malattie varie: tosse, diarrea, vomito, nausea, anemia, scabbia».
Accusa e difesa vanno in cerca di definizioni utili alle rispettive cause: i legali di parte civile gli fanno dire che «c’era una situazione di assoluta precarietà, mancanza di tutto»; l’avvocata Bongiorno ottiene la conferma che i bagni erano «decorosi» e la condizione dei migranti «discreta», il dottore corregge in «mediocri».
La psichiatra invece sottolinea che la situazione a bordo rischiava di diventare pericolosa: «C’era un’urgenza che poteva tramutarsi in emergenza. Qualche naufrago s’era buttato in mare per raggiungere la terra, l’unica loro certezza era di non voler tornare in Libia, dove avevano subito violenze e torture. Non so dire se avrebbero potuto sopportare un viaggio verso la Spagna».
La «questione iberica» è centrale per la difesa di Salvini, che accusa il comandante di essersi impuntato a voler portare i migranti in Italia nonostante il divieto, datato 1 agosto, mentre la Spagna aveva messo a disposizione un porto sicuro. Ma lui ribatte che suo dovere è andare nel porto sicuro più vicino: rimase in attesa della risposta alla richiesta di Pos, che non arrivava, soccorrendo nel frattempo altre due imbarcazioni.
E dal 14 agosto, quando il Tar annullò il divieto, «avevamo un porto a 700 metri di distanza, le persone a bordo stavano male non c’erano le condizioni per riprendere la navigazione. Nemmeno per una sola ora». Prima dello sbarco, consentito solo dal sequestro della nave ordinato dalla Procura di Agrigento, trascorsero altri sei giorni.
"Tra Richard Gere e rifiuti...". Le contraddizioni che inchiodano Open Arms. Francesca Galici il 9 Aprile 2022 su Il Giornale.
La difesa di Matteo Salvini durante il processo a Palermo: "Potevano arrivare in Spagna in tre giorni invece di perderne venti".
Quello di Marc Reig Creus, comandante della Open Arms nel 2019, è stato un interrugatorio durato lunghe ore di carcere e concluso solo verso le 22, durante il quale l'ufficiale ha fatto confusione sulle date ma ha anche mostrato incoerenze continue rispetto alle dichiarazioni messe a verbale mesi fa, contraddizioni sul ruolo delle Autorità e sulle potenziali sanzioni che la Spagna avrebbe potuto infliggere a Open Arms. Il processo vede Matteo Salvini come unico imputato con l'accusa di sequestro di persona.
La difesa di Matteo Salvini, che all'epoca dei fatti era ministro dell'Interno, è rappresentata dall'avvocato Giulia Bongiorno, che ieri h avuto la possibilità di porre alcune domande al comandante durante la sua deposizione nell'aula bunker del carcere dell’Ucciardone. Durante la sua deposizione, è emerso che il 29 luglio 2019 Open Arms parte per Lampedusa, ma poi cancella dal diario di bordo la destinazione dirigendosi al largo della Libia senza annunciarlo alle autorità. "Perché?", gli ha domandato l'avvocato Bongiorno. "Perché così ci aveva ordinato l’armatore", ha replicato il comandante.
Il caso, poi, ha voluto che proprio poche ore dopo Open Arms abbia incrociato un barchino in difficoltà. La difesa sostiene possa essersi trattato di un appuntamento, il capitano ha parlato, invece, di una coincidenza favorita dalle buone condizioni meteorologiche. Il comandante ha assicurato di aver voluto seguire le regole, ma il 1 agosto 2019 il governo italiano gli aveva notificato un divieto di ingresso nelle acque territoriali. A quel punto Open Arms ha rifiutato di fare rotta verso la Libia, non ha chiesto un porto sicuro al suo stato di bandiera (la Spagna), ha ignorato l’invito di quest'ultima a rivolgersi alla vicina Tunisia e non ha accettato di far sbarcare i migranti a Malta, che si era resa disponibile ad accogliere i 39 recuperati nella sua zona Sar.
Ha preferito rimanere per 14 giorni nel Mediterraneo, quando avrebbe potuto fare rotta sulla Spagna, dove sarebbe potuta arrivare in circa 60 ore di navigazione. "Cercavamo il porto sicuro più vicino", ha insistito il comandante. Ma le norme sul soccorso in mare non prevedono che il porto sicuro sia quello più vicino, gli ha ricordato la difesa. In più, durante il lasso di tempo che Open Arms è rimasta nel Mediterraneo, il 9 agosto 2019, viene fatto salire a bordo anche Richard Gere, nonostante in quei giorni venivano lamentate situazioni di sovraffollamento.
Undici giorni in mare. Poi l'Ong sbarca ad Augusta
La difesa di Salvini, però, mette il focus sulle date. Il primo intervento della Open Arms è del 1 agosto in acque Sar libiche. La nave resterà nel Mediterraneo fino al 20 agosto. “Il comandante non può decidere la destinazione”, ha risposto Creus. Lo stesso giorno, Madrid ha suggerito di contattare la Tunisia. Open Arms non ha accettato.
Il 2 agosto Open Arms ha preso a bordo altre 69 persone al confine tra le acque Sar libiche e quelle maltesi, eppure ha chiesto il posto sicuro all'Italia, che già aveva espressamente vietato l'ingresso.
Dal 4 al 9 agosto resta in mare senza dirigersi verso la Spagna, quando è salito a bordo Richard Gere. Il 10 agosto Open Arms ha effettuato un altro intervento, prendendo a bordo ulteriori 39 migranti in zona Sar maltese. Malta si offre di accogliere questi ultimi, ma il comandante rifiuta di farli scendere per paura di scontri a bordo, quindi si avvicina a Lampedusa, dove rimane a oltranza. Nel frattempo Madrid stava maturando la decisione di dare un porto sicuro a Open Arms, ma in quei giorni è scattata l’accusa di sequestro di persona per Salvini. Lo sbarco avviene solo il 20 agosto in Italia.
Processo Open Arms contro Salvini. Il funzionario dell’Interno Mancini cambia versione. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 13 maggio 2022
Salvini è nell’aula bunker del tribunale di Palermo dove è imputato per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Mancini aveva già raccontato alla polizia l’operazione politica di Salvini: «Si prese atto che i numeri degli sbarchi erano calati, e l’orientamento politico era di considerare la gestione degli sbarchi un problema di immigrazione irregolare». Oggi ha ribadito che i flussi all’epoca si erano ridotti.
Nonostante passassero i giorni non arrivavano risposte. Oggi ha detto che era una situazione sospesa: «Questa è la procedura che si seguiva prima e che si è continuata a seguire anche dopo. Passavano anche settimane».
Nella prima versione dei fatti resa alla procura aveva detto che era «una risposta negativa» allo sbarco. Oltre a lui saranno sentiti come testimoni Anabel Montes, ex capomissione della ong Open Arms, e Katia Valeria Di Natale, medico dell’Ordine di Malta.
Cambiano le versioni di cosa accadde nell’estate del 2019. L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini è tornato oggi, 13 maggio, nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone di Palermo, per il processo Open Arms che lo vede accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per i fatti relativi all’agosto del 2019, quando la nave della Ong fu costretta ad attendere 20 giorni in mare con oltre 147 persone migranti a bordo prima di poter garantire loro un porto di sbarco sicuro.
Oggi viene ascoltato anche Fabrizio Mancini, all’epoca funzionario ministero Interno. Mancini, come riportato da Domani, raccontò ai carabinieri la chiara intenzione del leader della Lega Salvini di vietare lo sbarco ancora prima di definire la posizione giuridica dell’imbarcazione e l’operazione politica dietro ai blocchi delle navi, adesso parla di «situazione sospesa». Una nuova risposta che cambia in parte le versioni precedenti e che ha creato uno scontro tra accusa e difesa in Aula.
Oltre a lui saranno sentiti come testimoni Anabel Montes, ex capomissione della ong Open Arms, e Katia Valeria Di Natale, medico dell’Ordine di Malta.
I MESSAGGI
Il funzionario ha raccontato che le giornate di quell’agosto furono molto movimentate. Ricorda vari scambi con la vice capo di gabinetto Emanuela Garroni: a lei Mancini indicò come plausibile porto di sbarco Lampedusa. Nonostante passassero i giorni non arrivava il via libera. La mancata risposta, aveva riferito al Tribunale dei ministri, veniva interpretata «come esito negativo».
Adesso ha offerto una nuova versione: «Questa procedura non riguardava solo questo caso, è la procedura che si seguiva prima e che si è continuata a seguire anche dopo. Passavano anche settimane». Il pm, Gery Ferrara, ha sottolineato che la nuova versione cambia la precedente e l’avvocata di Matteo Salvini, Giulia Bongiorno, ha accusato il pubblico ministero di aver usato «toni aggressivi» col testimone, e la seduta è stata sospesa per alcuni minuti.
Alla ripresa ha Mancini ha proseguito ridimensionando la sua posizione sulla conoscenza dell’allora ministro Salvini della situazione. «È chiaro che le determinazioni del gabinetto arrivano dal ministro» aveva detto prima, oggi spiega che era «una considerazione personale, se il ministro non sapesse dovremmo preoccuparci no?», senza rispondere direttamente alla domanda se la decisione sul caso Open Arms provenisse dal ministro.
La linea del ministero era quella di non concedere il Pos? Gli è stato chiesto dagli avvocati della Difesa. Nel 2020 aveva detto di sì. Oggi dice di non ricordare quello che aveva dichiarato e «bisogna capire il contesto in cui è stato dichiarato. All’epoca ero ignaro, adesso sono un po’ più addentro».
«Non devo stare qui a difendere il senatore Salvini...» ha detto ancora, «all’epoca avevamo l’Isis, che all’interno si potessero trovare persone male intenzionate è una preoccupazione...». E ha attaccato: «Le Ong potevano indurre il potere politico a pensare che ci potessero essere situazioni diverse che si potevano attenzionare». Il pm ha commentato: «Mi sembra di sentire un comizio del testimone».
LA QUESTIONE
All'epoca delle vicende della Open Arms era in vigore un decreto interministeriale di interdizione delle acque italiane alla nave della ong spagnola. Dopo la pronuncia del Tar che sospese il decreto, il 14 agosto, si pose il problema del porto sicuro per i migranti. Il ministero stava pensando di fare in modo che la sospensiva non avesse valore: «Mi venne detto, da parte del Gabinetto del Viminale, che l'orientamento era procedere all'emissione di un nuovo decreto interministeriale che potesse bypassare la sospensiva del tribunale. Poi, però, il decreto non fu fatto». Dopo la pronuncia del Tar la Open Arms fece diverse richieste di porto sicuro (Pos), una il 14 agosto indirizzata anche al Gabinetto del ministero dell'Interno: «Tornai in ufficio il 16 agosto e chiesi se c'erano novità. Nella mattina del 16 arrivarono altre richieste di Pos, ce lo disse la Capitaneria di Porto». Garroni si limitò a segnalare che la sospensione «non imponeva l'obbligo di sbarco». Arrivò a quel punto un atto di diffida della Open Arms, inviato da Mancini a Garroni tramite whatsapp.
Il 17 mattina - ha aggiunto il dirigente - chiese alla questura di Agrigento se il tribunale dei minori aveva dato indicazioni sulla sorte dei 31 minori a bordo «e il questore mi scrisse che non avevano ancora ricevuto nulla». Alcuni migranti si erano buttati a mare per cercare di raggiungere Lampedusa.
LE DICHIARAZIONI
«Avevamo avuto un cambio di trend degli sbarchi», ha detto ancora oggi il funzionario. Formalmente la procedura degli sbarchi non era cambiata «ma praticamente sì». Mancini, direttore del Servizio immigrazione e della polizia di frontiera del ministero dell’Interno, già in passato ha dichiarato davanti ai vertici dei carabinieri del nucleo investigativo di Palermo che lo hanno interrogato: «Nel corso di tutte le interlocuzioni avute con il Gabinetto del ministro, non fu affrontata la questione della qualificazione giuridica di Open Arms, se evento Sar, ovvero mera immigrazione illegale».
Nonostante ciò, Mancini, tra i funzionari più in grado del Viminale, ha detto che «il Gabinetto del ministro non aveva intenzione di assegnare un Pos a Open Arms».
Mancini, con le sue parole, ha fornito elementi decisivi per comprendere come si può creare dal nulla un’emergenza solo per fini politici: «L’esigenza di modifica delle procedure nasceva a seguito delle decisioni prese a un comitato Nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, di fine 2018, in cui si prese atto che i numeri degli sbarchi erano calati, e l’orientamento politico era di considerare la gestione degli sbarchi un problema di immigrazione irregolare e sicurezza pubblica e non già un problema di ricerca e soccorso di vite umane in mare».
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Open arms, tensione al processo di Salvini: ecco cosa è successo. Mauro Indelicato il 13 Maggio 2022 su Il Giornale.
Momenti di tensione in aula tra il Pm e l'avvocato difensore di Matteo Salvini, seduta sospesa per alcuni minuti. L'accusa punta a dimostrare le responsabilità del leader della Lega.
È ripreso oggi il processo Open Arms che vede come imputato il leader della Lega Matteo Salvini. A Palermo, sede del procedimento, è presente lo stesso senatore assieme all'avvocato Giulia Bongiorno e, all'interno dell'aula bunker dove si sta svolgendo il dibattimento, non sono mancati momenti di tensione.
Poco dopo mezzogiorno, mentre era in corso la deposizione di Fabrizio Mancini, direttore del Servizio Immigrazione del ministero dell'Interno, il pm Gery Ferrara ha contestato al teste le dichiarazioni precedentemente rese davanti al tribunale dei ministri. È intervenuta la stessa Giulia Bongiorno, la quale ha accusato il pubblico ministero di aver usato “toni aggressivi”.
Tutto quello che c'è da sapere sulla Ong che ha sfidato l'Italia
Si è creato così un clima di tensione che ha costretto il presidente del tribunale del capoluogo siciliano, Roberto Murgia, a sospendere la seduta per almeno dieci minuti. Un episodio che ben testimonia come il processo Open Arms, rimasto un po' nel dimenticatoio dopo il clamore delle precedenti udienze, sia molto sentito dalle parti in causa.
Il perché della sospensione
Tutto è nato dalla dichiarazione resa da Fabrizio Mancini secondo cui non solo Open Arms ma, in generale, tutte le altre Ong spesso "operavano fuori dalla regole". A quel punto il Pm Ferrara ha accusato Mancini di "fare comizio a favore di Salvini". Da qui poi la reazione anche di Giulia Bongiorno, la quale a sua volta ha puntato il dito contro Ferrara accusandolo di usare toni aggressivi.
La testimonianza di Mancini era tra le più attese. In particolare, il teste ha dichiarato tra le altre cose di "non sapere se era Salvini a dare indicazioni di sbarco", in quanto era il gabinetto del Viminale a decidere il Pos. Inoltre, ed è da qui che poi si è innescato anche il dibattito che ha portato al botta e risposta tra accusa e difesa, Mancini ha fatto presente che non solo nel caso Open Arms ma anche in altri "si aspettavano dei giorni prima della richiesta del Pos", un'attesa di qualche giorno "per la redistribuzione europea".
"Rientra tra i compiti del ministro dell'Interno preoccuparsi dell'ordine e della sicurezza pubblica del suo Paese - ha poi proseguito Mancini, chiamato in aula dall'accusa - In quel periodo c'era l'Isis e la preoccupazione che all'interno della massa di persone che arrivavano potessero esserci male intenzionati non era strana, credo fosse una preoccupazione legittima. C'erano delle azioni poste in essere da alcune delle ong che procedevano fuori dalle regole e potevano indurre il ministro a ritenere che ci potessero essere situazioni da tenere sotto controllo".
Cosa vuol dire il processo per il mondo delle Ong
È bene ricordare che il procedimento parte da quello che forse è stato l'ultimo atto di Matteo Salvini come ministro dell'Interno. Nell'agosto del 2019, agli sgoccioli del governo gialloverde formato da Lega e M5S, l'allora titolare del Viminale ha negato lo sbarco alla nave dell'Ong spagnola Open Arms, stanziata non lontana da Lampedusa con 147 migranti a bordo.
Una mossa che, secondo la ricostruzione dei legali di Salvini, è di ordine politico e avrebbe seguito la linea politica del governo in quel momento in carica. Per le Ong invece, il leader della Lega con il suo comportamento avrebbe arrecato danni ai migranti e avrebbe messo in pericolo la loro vita. Nell'agosto del 2019 la situazione si è poi sbloccata con l'intervento dell'allora procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, salito a bordo di Open Arms il 20 agosto. Un intervento che ha portato al sequestro del mezzo e allo sbarco dei migranti. Poco dopo è stato lo stesso magistrato ad aprire un fascicolo nei confronti di Salvini, trasmesso poi per competenza al tribunale dei ministri di Palermo.
Dallo schiaffo di Trenta e Toninelli allo scontro Salvini-Conte: le tappe che hanno portato al processo Open Arms
Il processo per le Ong ha quindi tutta l'aria di una vera e propria “resa dei conti” politica con il leader della Lega. L'area vicina alle organizzazioni non governative che tra le estati del 2018 e del 2019 hanno più volte sfidato la linea di Salvini, sperano di portare in aula il braccio di ferro sorto allora.
Lo si intuisce dalla mobilitazione non solo di Open Arms ma anche di altre associazioni, costituitesi parte civile. Dal canto suo la procura di Palermo ha più volte espresso la propria posizione in linea con quanto visto già nelle fasi preliminari del processo. E cioè che, secondo i magistrati siciliani, Matteo Salvini ha illegittimamente bloccato lo sbarco di migranti, mettendone in pericolo l'incolumità.
La testimonianza di Katia Di Natale
Un impianto accusatorio che si regge quindi sulle responsabilità attribuite all'ex ministro dell'Interno. Oggi a testimoniare è stata anche la dottoressa Katia Di Natale, all'epoca dei fatti specializzanda in medicina. Il 15 agosto è salita a bordo di Open Arms e in aula ha parlato di situazioni difficili riscontrate. “I migranti soccorsi dalla Open Arms erano tutti sul ponte, non era possibile fare visite individuali – si legge nelle sue dichiarazioni – Il medico di bordo ci mostrò i dati che aveva raccolto e ci disse quali erano i pazienti più gravi. Abbiamo valutato solo alcuni casi: lesioni cutanee, parassitosi, infezioni. Il resto non abbiamo potuto valutarlo. Ricordo che c'erano dei segni di scabbia, una donna aveva ustioni pregresse, poi alcuni avevano delle ferite da arma da fuoco. Non abbiamo accertato casi di crisi depressive, siamo rimasti troppo poco a bordo. L’equipaggio era molto stanco, ma resisteva”.
Inoltre Katia Di Natale ha parlato della presenza di due bagni chimici e del fatto che i migranti usavano il ponte anche per espletare le proprie funzioni fisiologiche. Erano inoltre presenti, al 15 agosto 2019, anche 31 minori.
Open Arms, Salvini scagionato dal teste dell'accusa? Ma il pm... retroscena e scandalo: cosa è successo davvero in aula. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 15 maggio 2022.
Succede un po’ di tutto al processo di Matteo Salvini, quello che vede il leader della Lega imputato con l’accusa di sequestro di persona nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo. Black out elettrici. Liti tra pm e avvocati. Performance artistiche davanti al carcere. E un testimone chiamato dall'accusa che finisce per difendere l'operato dell'ex ministro dell'Interno. Venerdì mattina. Si celebra una nuova udienza del processo Open Arms, la nave spagnola con 147 migranti a bordo che, nell'agosto 2019, stazionò al largo di Lampedusa in attesa di chiarire quale fosse il porto dove sbarcare. Troppo tempo, secondo l'accusa, motivo per cui il Capitano è accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio. Salvini pubblica un selfie: «In quest'aula bunker si processano i mafiosi, oggi l'imputato sono io». Matteo non si pente: «Ho difeso i confini, l'onore e la sicurezza dell'Italia. Sono orgoglioso di averlo fatto e non vedo l'ora di tornare a farlo».
Nell'aula sono scintille tra accusa e difesa e l'udienza viene sospesa per alcuni minuti. Capita durante la testimonianza di Fabrizio Mancini. Il direttore del Servizio Immigrazione presso la Direzione Centrale dell'Immigrazione e della Polizia delle Frontiere del Viminale sta rispondendo alle domande del pm relative ai tempi dello sbarco, ma mentre riferisce che, sia prima sia dopo il caso Open Arms, c'erano stati episodi simili («La procedura prevedeva l'attesa di qualche giorno perla redistribuzione europea»), il pm lo interrompe. Con «toni aggressivi», lamenta l'avvocato Giulia Bongiorno. Che succede? Che il teste dell'accusa finisce per dare ragione a Salvini. O, comunque, dalle sue parole si capisce che le ong facevano un po' come volevano loro. Alcune di esse, riferisce Mancini, «andavano fuori dalle regole, avevano messo in piedi un sistema alternativo a quello ufficiale, molte volte non dandone nemmeno comunicazione alle autorità». Fino al 12 febbraio 2019, prosegue il testimone rispondendo alle domande dell'accusa, «era il Dipartimento per le libertà civili del Viminale a decidere quale porto assegnare alle imbarcazioni con a bordo i migranti. Dopo quella data la richiesta del Pos veniva veicolata anche direttamente al gabinetto del ministro dell'Interno».
Nel caso specifico di Open Arms, la decisione fu «della Direzione centrale immigrazione, o il mio direttore centrale, ma l'indicazione arrivava dal gabinetto del ministro dell'Interno». Un problema all'impianto elettrico porta a una nuova interruzione dell'udienza. Salta il sistema di amplificazione. Poi i lavori riprendono con altre testimonianze. Parla Anabel Montes, capo missione di Open Arms: «Dopo il secondo salvataggio del 2 agosto 2019, 69 persone che si aggiungevano ai 55 del giorno prima, Malta ha atteso prima di rispondere negativamente alla nostra richiesta di Pos. L'Italia ci comunicò che avrebbe trasmesso la comunicazione alle autorità competenti. Nel frattempo, stante il no di Malta, il porto più vicino era Lampedusa. Nel tragitto verso l'isola abbiamo ricevuto un decreto d'interdizione alle acque territoriali italiane, mai violato da parte nostra».
Secondo Matia Maria Di Natale, medico del Cisom, le condizioni dei migranti a bordo «erano precarie, erano ammassati», diversi presentavano ferite, «per armi da sparo, riferivano». Davanti all'aula bunker dell'Ucciardone va in scena una performance statica del movimento artistico-culturale Our Voice in cui l'ex ministro è rappresentato seduto su una sedia, mentre ai suoi piedi ci sono tre ragazzi seminudi, avvolti in un telo trasparente. Al termine dell'udienza Salvini rilascia dichiarazioni anche su altri temi. Sull'Ucraina («Spero che l'Europa sia promotrice di pace e non di invio di altre armi»), sul tema della denatalità («In Ungheria da qualche anno funziona la legge per la natalità, che si fonda su prestiti a tasso zero e mutui agevolati per chi si sposa e fa figli»), sui complicati rapporti all'interno della maggioranza: «Non mi interessano le beghe di M5s e Pd».
Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 10 Giugno 2022.
Altro processo per Matteo Salvini. Quello che lo vede imputato, a Milano, per diffamazione ai danni di Carola Rackete, capitana della Sea Watch. Bene, ma non benissimo. Visto che nell'udienza di ieri la pm ha definito «criminale» la politica dell'ex ministro dell'Interno, scatenando la reazione della difesa del leader della Lega.
Ma ripartiamo dai fatti. Estate 2019. La Sea Watch approda a Lampedusa per sbarcare un gruppo di naufraghi forzando il blocco imposto dalle autorità italiane. Salvini, che all'epoca siede al Viminale, attacca Rackete, che è al timone, con un post sui social. La definisce «complice di scafisti e trafficanti».
E ancora: «Sbruffoncella, criminale, ricca tedesca fuorilegge, delinquente, ricca e viziata comunista tedesca, zecca tedesca, comandante criminale». La capitana tedesca si è sentita offesa e denuncia il segretario della Lega, ottenendo l'attenzione dei giudici di Milano. Risultato: altro procedimento giudiziario.
Le espressioni usate da Salvini, secondo l'avvocato difensore Claudia Eccher, sono «accese», ma «in linea con il messaggio del governo», all'epoca guidato da Giuseppe Conte, e «tipiche del messaggio social». Carola Rackete in quel periodo era «nomen omen», un simbolo dell'attività di soccorso delle ong nel Mediterraneo che il governo voleva regolamentare. Sicché la difesa ha chiesto al giudice il proscioglimento per Salvini alla luce della norma che prevede l'insindacabilità delle opinioni dei parlamentari.
In subordine ha evidenziato l'improcedibilità nei confronti del leader della Lega perché Salvini, con quei post riferiti a Carola Rakete, aveva espresso la linea politica del governo sull'immigrazione e dunque un eventuale reato sarebbe da ritenere un reato ministeriale, commesso nell'esercizio delle sue funzioni: «Salvini, benché non sia più un ministro in carica, può essere sottoposto alla giustizia ordinaria solo dopo previa autorizzazione del Senato della Repubblica».
Istanze a cui si è opposta il pm Giancarla Serafini, che ha definito quelle di Salvini nei confronti di Rackete «parole molto forti e attacchi molto diretti alla persona, che nulla hanno a che vedere con la sua politica criminale di ministro degli Interni». Politica criminale: espressione contestata dalla difesa salviniana («Si tratta di un attacco politico»), poi corretta dalla toga.
Il pm Serafini, sia in udienza che fuori dell'aula, ha precisato che l'espressione faceva riferimento alle «politiche di contrasto della criminalità» messe in campo dall'allora ministro dell'Interno. E non conteneva un giudizio. Il pubblico ministero ha però sottolineato che le parole di Salvini hanno innescato «minacce violentissime» sui social mettendo a rischio Rackete.
Salvini non c'era, impegnato in campagna elettorale. Ma si dichiara tranquillo: «Non ho timore perché ho fatto semplicemente il mio dovere. Se uno sperona una motovedetta italiana con dei militari a bordo e a processo ci va il ministro, e non chi ha speronato, siamo alla curiosità».
Perché l’imputato Matteo Salvini rischia grosso nel processo Open Arms. Per l’accusa il no allo sbarco dei migranti della nave della Ong fu una scelta solitaria dell’allora ministro dell’Interno, che ignorò l’emergenza umanitaria. Ecco cosa emerge dai verbali. Lorenzo Tondo su L'Espresso il 12 settembre 2022
Il 17 aprile del 2021, Matteo Salvini è finito sotto processo con l’accusa di omissione di atti d’ufficio e sequestro di persona, per aver negato, due anni prima, lo sbarco a Lampedusa dei richiedenti asilo soccorsi da un’imbarcazione della Ong spagnola Open Arms. Sono passati più di tre anni e altrettanti governi, e, salvo colpi di scena alle elezioni del 25 settembre, il leader della Lega, dalle prossime udienze, potrebbe sedersi sul banco degli imputati da ministro dell’Interno, la stessa carica che ricopriva nel 2019.
Nemmeno il Salvini più ottimista avrebbe immaginato uno scenario del genere, quello di dimostrare ai giudici e all’opinione pubblica, a pochi giorni dal voto, che la strategia dei porti chiusi, osteggiata dalle leggi, gode del consenso degli italiani. Così, alla prossima udienza a Palermo, il 16 settembre, a nove giorni dal voto, l’aula bunker del capoluogo siciliano rischia di trasformarsi nell’ennesimo palco elettorale. Perché il Salvini che punta a ri-fare il ministro dell’Interno da mesi ha riproposto i ritornelli sulla spettrale «invasione di migranti», sulla necessità di chiudere i porti e la promessa di re-introdurre i suoi decreti sicurezza. Quale migliore occasione per ricordare agli italiani che, per la «difesa dei confini», Salvini viene processato e nella stessa aula dei mafiosi? Poco importa se la difesa dei confini c’entri poco o nulla con questo processo e che, a leggere bene le carte, Salvini, a differenza dei casi del divieto di sbarco imposto alle navi Gregoretti e Diciotti, qui, rischia davvero grosso.
Andiamo con ordine. La nave della Ong spagnola Open Arms, i primi di agosto del 2019, soccorre, in diverse operazioni, 164 richiedenti asilo, molti dei quali torturati in Libia. Dopo aver avuto notificato il consueto divieto d’ingresso nelle acque italiane (la prassi durante il governo in cui Salvini era il capo del Viminale), gli avvocati della Open Arms fanno ricorso al Tar del Lazio. Denunciano la grave situazione umanitaria, psicologica e sanitaria a bordo, con decine di persone stremate dal viaggio, dal caldo e dalla fatica. E, con buona sorpresa di molti, il Tar dà loro ragione.
Un tribunale amministrativo crea dunque un precedente importantissimo: un gruppo di richiedenti asilo in viaggio dalla Libia, a bordo di una nave umanitaria, non può rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale. Nessun decreto sicurezza o scelta personale può impedire loro, dunque, di sbarcare. A ribadire il concetto, arriva l’inchiesta della procura di Agrigento, guidata dal procuratore Luigi Patronaggio, che, volato d’urgenza in elicottero a Lampedusa con alcuni medici, parla di «situazione esplosiva».
L’inchiesta, per la natura dei reati ipotizzati, passa a Palermo. E si arriva all’udienza preliminare da cui è scaturito il processo incentrato sulla presunta responsabilità personale di Salvini nella scelta che non fu collegiale ma individuale, secondo la ricostruzione dell’accusa.
«La Open Arms aveva necessità, per la situazione in cui si trovava, di ottenere un luogo sicuro ed entro un tempo ragionevole da parte di una autorità?», si è chiesta davanti al gip la procuratrice reggente di Palermo Marzia Sabella. «La risposta non può che essere positiva. A bordo vi erano soggetti con varie patologie per i quali sono stati necessari diversi interventi di evacuazione medica», ha proseguito.
A differenza degli altri casi Gregoretti e Diciotti, secondo i pm del capolougo sicliano Marzia Sabella, Francesco Lo Voi, ex procuratore capo, poi nominato alla guida della Procura di Roma e Gery Ferrara, questa volta, la decisione di impedire ai migranti di sbarcare, non sarebbe il risultato di una scelta condivisa da tutto il governo, come l’ex ministro aveva sostenuto in precedenza, ma ascrivibile al solo ed unico Salvini.
«C’è un dato che è fuori discussione», ha detto il procuratore Lo Voi sempre in udienza preliminare: «Il rilascio del noto Pos (luogo sicuro di sbarco) compete esclusivamente ed unicamente al ministro dell’Interno. E le conclusioni a cui ci portano le testimonianze raccolte sono che non si tratti affatto di un atto politico».
Una decisione, dunque, di cui il solo Salvini porterebbe la responsabilità. Ne è convinto anche Michele Calantropo, legale di parte civile per conto dell’Arci Sicilia: «Credo che il Tribunale dei ministri abbia svolto un certosino lavoro di ricostruzione fattuale nell’elencare le ragioni che hanno determinato il rinvio a giudizio di Salvini. Se si leggono le deposizioni testimoniali, nessuno ha smentito che il divieto di sbarco dei migranti sia stato determinato dall’esclusiva, cosciente e volontaria azione dell’imputato».
All’udienza del prossimo 16 settembre, saranno chiamati a deporre gli ex ministri Elisabetta Trenta (Difesa) e Danilo Toninelli (Infrastrutture e Trasporti). Entrambi non avrebbero firmato il decreto di divieto allo sbarco che Salvini aveva chiesto loro di riproporre dopo la pronuncia del Tar. Tra i testimoni ammessi c’è anche la star di hollywood Richard Gere, che in quei giorni, colpito dalla vicenda, mentre si trovava in vacanza in Italia, decise di comprare scorte di cibo e acqua e di recarsi a bordo della Open Arms. Salvini ha invitato l’attore a ospitare i migranti nelle sue ville. Eppure, la testimonianza dell’attore, come sostiene l’accusa, non è una trovata mediatica, bensì il tentativo di avere dalla viva voce di un osservatore obiettivo, in grado di riferire sulle condizioni reali in cui versavano i richiedenti asilo, costretti a rimanere a bordo per 19 giorni prima di vedersi riconosciuto il diritto di sbarcare. Un diritto che, ha sottolineato il pm Ferrara, «lo Stato Italiano non può violare». Perché il nostro Paese «è vincolato ai principi di diritto internazionale universalmente riconosciuti tra cui quello che impone ad ogni Stato l’obbligo di salvare la vita di chi si trovi in pericolo in mare. E tale obbligo prevale su ogni altra norma nazionale o su ogni altro accordo tra Stati», ha concluso Ferrara.
Durante il processo, la comunicazione di Salvini ha provato a dirottare l’attenzione sulle inchieste aperte a carico delle Ong, contro le quali si è abbattuta una bufera giudiziaria che ha bloccato i salvataggi. Ma tutte le inchieste, eccetto una, sono state archiviate. L’unico caso pendente, ma il processo per presunti accordi tra trafficanti e volontari è sospeso a causa di errori procedurali, è il primo, risalente al 2017 e riguarda la controversa vicenda della nave Iuventa, della Ong Jugend Rettet. Dalle carte verrebbe fuori un’altra verità sui rapporti tra l’Italia e la Guarda costiera libica, foraggiata dalle intese strette con il nostro governo. Emblematica l’intercettazione in cui un ufficiale libico risponde a un sos di Roma: «Per me oggi è giorno libero».
Nel processo Salvini gli ex ministri grillini rinnegano loro stessi. Andrea Soglio su Panorama il 2 Dicembre 2022.
«Decideva lui da solo» hanno spiegato Trenta e Toninelli; mentre spunta il video di un sommergibile italiano presente nell'area dell'incontro tra la Open Arms ed i migranti.
Non è stata un’udienza come tutte le altre quella tenutasi oggi a Palermo contro Matteo Salvini nell’ambito del processo su quanto accaduto alla nave Open Arms con le pesantissime accuse di Omissioni d’atti d’ufficio e, soprattutto, sequestro di persona per aver proibito per giorni lo sbarco di 147 migranti.
Non è stata un’udienza come tutte le altre dato che ha regalato ai presenti una notizia politica ed una di cronaca. La notizia politica è la netta presa di distanza di Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli (ma quanto non ci manca…) dall’azione del Ministro dell’Interno. Insomma l’ex ministro della Difesa e l’ex titolare delle infrastrutture del Governo Conte I hanno dichiarato che quanto accaduto per la open Arms era solo farina del sacco dell’allora titolare del Viminale e della sua linea dei porti chiusi. Tutto prevedibile, visto l’andazzo politico di oggi, visto che Toninelli e la Trenta hanno da anni ripudiato la maggioranza gialloverde, come se non fosse cosa loro; come se nelle riunioni del Consiglio dei Ministri di migranti non se ne parlasse. Come se nemmeno l’approvazione dei famosi Decreti Sicurezza fosse cosa loro. Siamo al «non c’ero e se c’ero dormivo». Siamo quindi all’estremo tentativo dell’ormai vero partito comunista italiano e cioè il Movimento 5 Stelle, di cancellare il passato, nemmeno troppo lontano, per potersi presentare come unici difensori dei poveri, dei migranti, delle libertà degli ultimi. D’altronde difficile pensare diversamente da un Movimento che sceglie di manifestare contro il Governo Meloni partendo da Scampia. Ma c’è poi la notizia di cronaca, processuale, che ha scosso le fondamenta di questo già traballante processo: è infatti spuntato del materiale di cui la procura e non solo lei, era a conoscenza senza che però lo fossero i difensori di Salvini. Spunta infatti negli atti dell’inchiesta un video e diversi audio presi, registrati da un sommergibile italiano presenti proprio in quelle ore, in quelle zone. Il sommergibile «Venuti» infatti si trovava per le consuete attività di pattugliamento e sicurezza nel Mediterraneo avrebbe assistito al primo contatto tra la Open Arms ed il barchino di migranti poi trasferiti sulla nave. Ebbene; a parte la stranezza sulla misteriosa scomparsa negli atti di questo materiale da quanto messo a disposizione della difesa, sembrerebbe che le immagini e le parole registrate raccontano una verità diversa da quella da sempre propagandata dalla Ong. Il gommone con i migranti infatti non sarebbe stato in difficoltà ma la Open Arms si sarebbe avvicinata lo stesso imbarcando tutti i presenti. Politica e cronaca. Il processo è appena cominciato; se ne vedranno delle belle, questo è certo.
Un sommergibile seguiva Open Arms. Il giallo dei documenti spariti nel processo. Il Tempo il 03 dicembre 2022
«Nella valutazione dell'operato del ministro dell'Interno e dell'Ong è sempre mancato un tassello. Nel pesare le responsabilità è mancata l'analisi delle violazioni da parte dell'Ong che sono contenute in un'informativa che si sa esistere ma che ancora non è agli atti, un'informativa fantasma che noi vogliamo vedere». L'avvocato Giulia Bongiorno non usa mezzi termini a conclusione dell'udienza del processo Open Arms che si è celebrata nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo e che vede imputato per sequestro di persona l'ex ministro dell'Interno, oggi titolare del dicastero dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini.
«Questo materiale è stato finalmente acquisito al suo interno ci sono intercettazioni telefoniche fra un personaggio delle Ong e un altro personaggio "vicino", "in zona" che ci porta a pensare che sia veramente importante approfondire questo aspetto» ha ribadito l'avvocato Bongiorno. L'udienza si è aperta con la richiesta della difesa, accolta dal collegio presieduto da Roberto Murgia, di acquisire tutta la documentazione audio e video di un sottomarino italiano che, nell'agosto 2019, era nella zona dove la Ong stava effettuando un intervento su un barcone partito dalla Libia. Documenti fondamentali, secondo l'avvocato Bongiorno, che accenderebbero una nuova luce sulla vicenda e sulla condotta della Open Arms. Si tratta di materiale che mai era stato messo agli atti e che il Tar nel decidere sulla sospensione del divieto di sbarco, il Senato quando fu chiamato a esprimersi sull'eventuale processo a carico di Salvini e il gup nel rinvio a giudizio non avevano visionato. L'attuale vicepremier e Ministro si è detto «sconcertato».
A proposito di questa documentazione, la difesa di Salvini ha rilevato che era stata trasmessa per conoscenza a diverse procure siciliane tra cui Agrigento e Palermo. Dunque tutti sapevano dell'informativa fantasma tranne Salvini. Questa la tesi della difesa ieri in aula prima che iniziassero gli esami di due testimoni fondamentali, gli ex ministri Elisabetta Trenta (Difesa) e Danilo Toninelli (Infrastrutture) del governo Conte 1.
Entrambi hanno ribadito con chiarezza che il divieto di sbarco fu una decisione dell'allora capo del Viminale Salvini e che in quel periodo i rapporti all'interno del governo erano già talmente logori che il leader leghista non rispondeva nemmeno al telefono ai due colleghi dei 5Stelle. «Controfirmai il primo divieto di sbarco come era prassi fare, fidandomi del lavoro del ministro dell'Interno - ha detto in aula l'ex ministro Trenta - Ma dopo la sospensione del Tar non firmai il secondo perché a mio avviso non erano cambiate le condizioni per cui era stato sospeso il primo e anzi la situazione a bordo era peggiorata. Fu una notte lunghissima, ma alla fine decisi in autonomia di non controfirmarlo». Ma la ministra della Difesa ha ammesso di non essere neppure a conoscenza dell'attività di un sommergibile italiano in quella zona.
«Non ero a conoscenza di questi documenti sull'attività di un sommergibile della Marina militare. Ma io non ero nella linea di decisione rispetto alla opportunità di emettere il secondo decreto». «Un decreto di quel genere aveva bisogno di velocità- ha sottolineato- perché bisognava impedire a una nave di entrare: nel momento in cui il ministro dell'Interno Matteo Salvini avesse ritenuto che per motivi di sicurezza non fosse stato opportuno fare entrare una nave in porto, una verifica fatta da un altro ministro in un secondo momento avrebbe creato dei problemi. Quindi, non era proprio nelle mie competenze - ha ribadito - e comunque non era a conoscenza di questa attività». L'ex ministro Danilo Toninelli ha invece attaccato duramente Giulia Bongiorno. «Il consiglio dei ministri non ha affrontato l'argomento degli sbarchi e dei ricollocamenti. Falso quanto ha detto l'ex collega Bongiorno. All'ordine del giorno non fu mai posto il tema. Dura la replica di Matteo Salvini: «Sarebbe gravissimo se qualcuno avesse nascosto, omesso o dimenticato documenti rilevanti da parte di organi dello Stato. Se ci sono pezzi di Stato che dimenticano o nascondono interventi di altri pezzi di Stato, per danneggiare oggi Salvini domani chissà, vuol dire che c'è qualcosa che non funziona». G. D. C.
Un video di un sommergibile della Marina Militare "smaschera" la Ong Open Arms: gli scafisti erano a bordo ? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022
L'avvocato Giulia Bongiorno difensore del leader della Lega, aveva chiesto di acquisire tutta la documentazione ritenuta "fondamentale" in quanto potrebbe comprovare la presenza a bordo di scafisti.
Nell’udienza del processo Open Arms in corso questa mattina a Palermo nell’ aula bunker, con la presenza di Matteo Salvini, imputato accusato di avere illegittimamente vietato in quanto allora ministro degli Interni, l’approdo alla nave della ong spagnola e ai profughi presi a bordo, è arrivata oggi una nuova svolta. All’inizio dell’udienza, l’avvocatessa Giulia Bongiorno difensore dell’ex ministro è partita all’attacco: "C’è del materiale importante, adesso depositato dalla procura, che non è stato mai offerto alla valutazione dei giudici che si sono occupati di questo caso . Un video fatto dal sommergibile Venuti e alcuni file audio di intercettazioni che attestano un comportamento anomalo della Open Arms". Ed a quel punto il processo ha avuto toni particolarmente accesi. "Non siamo stati messi in condizione di difenderci – ha contestato l’avvocatessa Bongiorno – quella documentazione, del primo agosto 2019, risulta spedita alle procure di Roma, Palermo ed Agrigento, ma non venne mai depositata, neanche alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato". Il pubblico ministero Geri Ferrara si è difeso: "Siamo stati noi a depositare nei giorni scorsi il materiale quando ne abbiamo avuto cognizione".
Il collegio presieduto dal giudice Roberto Murgia dopo essersi ritirato in camera di consiglio ha deciso di acquisire l’attività integrativa d’indagine presentata dai pubblici ministeri Calogero Ferrara e Giorgia Righi. Si tratta di materiale fotografico, video e audio della nave Ong Open Arms realizzato da un sommergibile della Marina militare che riguarda le modalità di soccorso della nave della Ong. L’ avvocato Giulia Bongiorno difensore del leader della Lega, aveva chiesto di acquisire tutta la documentazione ritenuta "fondamentale" in quanto potrebbe comprovare la presenza a bordo di scafisti.
La data è quella dell’1 agosto 2019, con delle riprese effettuate nella zona dove la Ong stava effettuando un intervento su un barcone partito dalla Libia. Si tratta di materiale che non era mai stato messo agli atti e che perfino il Senato non aveva visionato quando fu chiamato a esprimersi sull’eventuale processo a carico di Salvini.
L’attuale vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti si è dichiarato "sconcertato". La difesa di Salvini in relazione a questa documentazione, ha rilevato che era stata trasmessa per conoscenza a diverse procure siciliane tra cui Agrigento e Palermo. Redazione CdG 1947
Open Arms, il sottomarino e l'informativa "sparita": gioco sporco contro Salvini? Libero Quotidiano il 02 dicembre 2022
All'udienza nel processo Open Arms contro Matteo Salvini, che si è tenuta oggi - venerdì 2 dicembre - nell'aula bunker dell'Ucciardone a Palermo, sono emersi dettagli sorprendenti relativi a un sottomarino italiano, dettagli già emersi in virtù delle dichiarazioni del dirigente del Viminale Fabrizio Mancini.
Mancini aveva confermato la presenza del sommergibile Venuti della Marina. Il primo agosto 2019 l’unità subacquea aveva ripreso, fotografato e registrato OpenArms e il barcone carico di 50 migranti. Parole - quelle di Mancini - che avevano fatto attivare la procura, con tanto di richiesta ufficiale alla Marina: esiste un’informativa? Se sì, perché non è stata trasmessa? Risposta: esiste ed è stata trasmessa.
E sul punto, ecco intervenire Giulia Bongiorno, legale di Salvini nel processo: "Sta emergendo un dato preoccupante. Esistono degli atti dai quali sembrerebbe che una serie di elementi portino a ipotizzare che in qualche modo ci furono delle condotte anomale da parte dalle ong, già documentati in una informativa. Quando ci sono dei sospetti di anomalie, questi devono entrare nel fascicolo in modo tale che i giudici possano farsi il proprio convincimento. Ebbene, nulla di tutto questo è stato mai depositato, e questo significa che nella giudizio dei due protagonisti, da una parte ministero dell'Interno dall'altra le Ong, è sempre mancata la valutazione di queste violazioni da parte delle Ong che sono contenute in una informativa che si sa che esiste ma che ancora non appare agli atti. Quindi una informativa fantasma che noi vogliamo vedere", ha affermato la Bongiorno conversando con i giornalisti a margine dell'udienza.
Il punto è che stando all'informativa citata da Mancini, in quell'agosto 2019 c'erano sospetti sulle attività delle ong, ma l'informazione non era arrivata prima sul tavolo del Tar, che successivamente avrebbe deciso di bocciare il provvedimento dell'allora ministro dell'Interno, Salvini, provvedimento che vietava l'ingresso della nave in acque territoriali italiane.
Fonti vicine al leghista fanno notare come "il tribunale amministrativo aveva ritenuto non ci fossero ombre sulla condotta della ong. Invece, l’informativa avrebbe potuto riscrivere la vicenda: emerge che due persone, di cui una "probabilmente a bordo" della OpenArms, parlavano in spagnolo e che verosimilmente si trovavano a poca distanza l’una dall’altra. Fatto sta, si legge nell’informativa, che dopo questo dialogo la OpenArms aveva cambiato rotta senza motivo apparente: guardacaso, si era avvicinata al punto esatto dove era presente un barchino con dei migranti".
Secondo Giulia Bongiorno, che aveva già parlato della vicenda prima dell'inizio dell'udienza, il materiale potrebbe provare la presenza di scafisti e soprattutto di comunicazioni rilevanti con le ong. Riprendono le fonti leghiste: "Il materiale è rimasto chiuso in qualche cassetto nonostante fosse stato segnalato (come è risultato da successivi approfondimenti) alle procure di Catania, Siracusa, Ragusa, Messina, Palermo, Agrigento, Sciacca e Roma". Eppure né il Tar né la Difesa, né il Parlamento - che poi mandò a processo Salvini -, né il Gup hanno potuto visionare un materiale così rilevante e che, concludono le fonti vicine a Salvini, "possono riscrivere la storia di un processo dove l'allora ministro dell'Interno rischia finoa 15 anni di carcere". Insomma, qualcosa proprio non torna.
"Io e il Senato vittime di un reato della magistratura". Gasparri all'attacco sul caso Open Arms. Il Tempo il 04 dicembre 2022
Maurizio Gasparri all'attacco sul caso Open Arms. Secondo alcune indiscrezioni qualcuno passò alla Ong la posizione dei migranti soccorsi in mare. Dall'informativa della Marina Militare, tenuta nascosta fino ad oggi persino ai legali di Matteo Salvini, emerge un dato chiaro: Open Arms non si imbattè per caso nei migranti ma ricevette una vera e propria "soffiata". Alla luce di questi nuovi dati comprovati, il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, va su tutte le furie poiché questa "soffiata" non è stata resa nota dalla magistratura neppure al Senato che doveva decidere se mandare a processo l'allora ministro dell'Interno. E alla fine decise di mandarlo davanti alla magistratura.
"Nel caso Open Arms temo che io e il Senato siamo stati vittime di un reato commesso dalla magistratura - dichiara il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri - Nella scorsa legislatura, ricoprendo il ruolo di Presidente della Giunta per le immunità, ho chiesto all'Aula del Senato di dare ragione a Salvini, all’epoca dei fatti Ministro dell’Interno, perché aveva agito nel rispetto della Costituzione e in base alle proprie funzioni di governo. Come prevede la legge. Ma l’aula volle, per scelta politica, mandare Salvini davanti alla magistratura. Che a Palermo lo sta infatti giudicando. Senza motivo a mio avviso. Ora, di fronte a notizie clamorose, chiederò spiegazione sui materiali non pervenuti a noi in Parlamento, dove eravamo chiamati a giudicare quei fatti. Se sono stati nascosti dei file con intercettazioni raccolte da un sommergibile della nostra Marina, con la prova di contatti tra Ong e protagonisti della tratta di persone, si sarebbe condizionato un "processo parlamentare", privandolo di una prova decisiva. In mancanza della quale è stato facilitato un giudizio negativo contro Salvini. Un vero attentato ad organi costituzionali, un inganno illegale, e io mi sento vittima, come relatore della vicenda nella mia qualità di presidente della giunta in quel momento, dell'inganno e della volontà di nascondere un fatto che dimostrava quello che ho sempre sostenuto: molti delle Ong agiscono in contatto con i trafficanti di esseri umani e fanno azioni di pull-factor e queste intercettazioni ne sarebbero l’ulteriore prova. Mi rivolgerò al vertice della magistratura, al ministro della Giustizia, alle Procure citate, perché si verifichi se siano stati commessi reati, come mi pare evidente, da parte di magistrati. E aver nascosto prove al Parlamento che stava giudicando quei fatti, giustificherebbe sanzioni drastiche per certe toghe".
Open Arms, Gasparri: "Sull'Ong hanno ingannato il Senato". Le carte segrete. Pietro De Leo su Il Tempo il 05 dicembre 2022
Attenzione, perché ora la questione Open Arms rischia di esondare sul campo istituzionale. Riassunto: nel corso dell'ultima udienza di Palermo è emersa la presenza di una relazione di servizio sull'attività di un sottomarino della nostra Marina Militare, il «Venuti». Che, il primo agosto del 2019, aveva dapprima rilevato la presenza della nave Ong a circa 150 km a largo di Lampedusa. Qualche ora dopo intercetta un dialogo su una frequenza commerciale, presumibilmente tra un componente dell'equipaggio della Open Arms ed un altro soggetto (non identificato), cui poi sarebbe seguito l'avvicinamento tra un barchino che trasportava migranti e la nave della Ong che poi li ha fatti salire a bordo. Potrebbe essere - con tutto il condizionale del mondo - la "smoking gun" dei contatti tra l'Open Arms e i trafficanti.
Tutto da accertare, certo. Quel rapporto fu inviato a nove procure. Ma non arrivò mai alla Giunta per le Immunità su cui pendeva la richiesta di autorizzazione a procedere su Matteo Salvini che, da ministro dell'Interno, ingaggiò un braccio con la Ong sullo sbarco in Italia. Tema al centro del processo di Palermo, che vede l'attuale vice Presidente del Consiglio indagato per sequestro di persona e omissione d'atti d'ufficio. Un processo iniziato, appunto, previo via libera del Senato, che arrivò nella scorsa legislatura non dalla Giunta, ma dall'Aula.
La mancata consapevolezza di quell'informativa, però, ora costituisce un elemento importante. E lo sottolinea Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, che a quel tempo guidava la Giunta. «Temo che io e il Senato siamo stati vittime di un reato commesso dalla magistratura», spiega in una lunga nota. «Nella scorsa legislatura, ricoprendo il ruolo di presidente della Giunta per le immunità, ho chiesto all'Aula del Senato di dare ragione a Salvini, all'epoca dei fatti ministro dell'Interno, perché aveva agito nel rispetto della Costituzione ed in base alle proprie funzioni di governo. Come prevede la legge. Ma l'Aula volle, per scelta politica, mandare Salvini davanti alla magistratura. Che a Palermo lo sta infatti giudicando. Senza motivo a mio avviso».
Ma qui viene il punto della questione: «Ora, di fronte a notizie clamorose, chiederò spiegazione sui materiali non pervenuti a noi in Parlamento, dove eravamo chiamati a giudicare quei fatti». E ancora: «Se sono stati nascosti dei file con intercettazioni raccolte da un sommergibile della nostra Marina, con la prova di contatti tra Ong e protagonisti della tratta di persone, si sarebbe condizionato un "processo parlamentare", privandolo di una prova decisiva. In mancanza della quale è stato facilitato un giudizio negativo contro Salvini. Un vero attentato ad organi costituzionali». Dunque «mi rivolgerò al vertice della magistratura, al ministro della Giustizia, alle Procure citate, perché si verifichi se sono stati commessi reati, come mi pare evidente, da parte dei magistrati». Un'ombra sempre più oscura si va allungando su una vicenda che lascia perplessità sin dalla sua genesi: la messa sotto inchiesta di un ministro per aver assunto una iniziativa politica, peraltro corrispondente ad un obiettivo di campagna elettorale.
Giulia Bongiorno zittisce Toninelli in tribunale: "Andrai a processo". Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022
Processo Open Arms: arriva il giorno degli ex ministri grillini. Che scaricano la responsabilità su Matteo Salvini. Fu lui a fermare lo sbarco della nave ong. Non c'era una intesa collegiale del consiglio dei ministri. Anzi, il tema non è mai stato affrontato, neanche nel corso di riunioni informali. Nell'aula bunker dell'Ucciardone si assiste a una scena particolare. Si ritrova mezzo governo Conte I. Al banco dei testimoni sfilano Danilo Toninelli, ex ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ed Elisabetta Trenta, ex titolare della Difesa. Entrambi legati al Movimento 5 Stelle. Al tavolo della difesa c'è Giulia Bongiorno, che nel primo esecutivo Conte aveva la delega alla Pubblica Amministrazione. Alla sbarra, infine, c'è Matteo Salvini, a capo del Viminale.
Fu lui, il leader leghista, «a vietare l'ingresso della Open Arms in acque italiane», dicono i grillini. «Noi abbiamo solo firmato», aggiungono. Ribadendo con forza che si sono «rifiutati di firmare il secondo decreto di divieto di ingresso» per la ong spagnola, dopo la decisione del Tar del Lazio di annullare il decreto Salvini. Piccolo riepilogo dei fatti: il processo Open Arms ha un solo imputato, l'attuale ministro delle Infrastrutture, accusato di sequestro di persona e rifiuto di atto di ufficio, per avere lasciato per settimane 147 migranti sulla nave della ong davanti alle coste di Lampedusa.
CLIMA TESO
L'atmosfera si scalda quando Toninelli attacca Bongiorno, avvocato difensore di Salvini: «Mi spiace dirlo, ma lei, signora avvocato, ha detto una falsità. Non c'è mai stato un consiglio dei ministri con all'ordine del giorno la questione che trattasse il caso Open Arms o qualsiasi altro caso di sbarco di una ong», dice Toninelli rivolgendosi alla legale. E aggiunge: «Non è mai avvenuta nessuna riunione a latere dei consigli di ministri tra il presidente Conte, il sottoscritto, il ministro Salvini e il ministro Di Maio per gestire i ricollocamenti. È totalmente falso quello che l'avvocato Bongiorno, allora ministro, ha detto, ovvero che gli altri ministri attendevano ore queste riunioni informali nelle salette attigue». All'epoca della Open Arms, ricostruisce l'ex senatore pentastellato, «non esisteva già più un governo, esisteva una persona, Salvini, che andava in giro, era in campagna elettorale e parlava alla pancia delle persone. Non si facevano più consigli dei ministri e i ministri non operavano collegialmente. Siccome si sapeva che sarebbe stato sfiduciato il governo, si stava cercando di monetizzare stressando l'argomento immigrazione che era molto sentito».
LA QUERELA
Ma Giulia Bongiorno contrattacca e dice: «Capisco la sua acredine nei miei confronti». E viene fuori che la presidente della Commissione Giustizia ha querelato mesi fa l'ex ministro per una frase detta in una trasmissione ritenuta diffamatoria. «E per questo Toninelli andrà nella primavera del 2023 a giudizio davanti al Tribunale di Roma», spiega in seguito Bongiorno all'Adnkronos. Anche Elisabetta Trenta critica l'attuale vice premier: «Io da ministro dell'Interno non mi sarei comportata così. Le nostre battaglie giuste non devono ricadere sui fragili e ci sono diritti umani che vanno rispettati, secondo me seppur in presenza di minacce di terrorismo. I migranti si potevano far sbarcare e si potevano fare successivamente le verifiche relative alla presenza di eventuali terroristi a bordo della imbarcazione», dice. «Pittoresca...», commenta Salvini a margine. Mentre di Toninelli dice: «Sinceramente non ricordo se nelle riunioni del consiglio dei ministri in cui si parlava degli sbarchi c'era Toninelli, può essere che non ci fosse. Sicuramente nelle riunioni che facevamo c'erano Conte e Di Maio». E nella prossima udienza saranno proprio loro a essere ascoltati come testimoni. Loro e la ex ministra Lamorgese.
Open Arms, Elisabetta Trenta: "Io ricevetti il decreto solo da firmare..." Libero Quotidiano il 2 dicembre 2022
Una spiegazione discutibile quella offerta da Elisabetta Trenta. L'ex ministro della Difesa è stata ascoltata come testimone nel processo Open Arms dove è imputato per sequestro di persona il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Matteo Salvini all'epoca dei fatti titolare dell'Interno. E così, all'interno dell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, la Trenta mette le mani avanti: "La decisione del divieto di ingresso in acque italiane della nave Open Arms nell'agosto del 2019 fu presa dal ministro Salvini. Io ricevetti il decreto da firmare, ma era un decreto firmato dal ministro dell'Interno. Perché la competenza del mio ministero era quello di verificare che non si trattasse di una nave militare e questo era il mio ruolo. Non era un ruolo di decisione". Insomma, la Trenta sostiene di aver firmato quel decreto perché quella era la prassi. Come se la sua firma non valesse niente. Piuttosto discutibile, come detto in premessa. Anzi, lunare.
Il caso risale all'agosto 2019, quando l'allora titolare del Viminale fermò lo sbarco dei 107 migranti al largo di Lampedusa a bordo della nave della ong spagnola. In quei giorni la Trenta rifiutò sì di firmare un decreto, ma il secondo. Il motivo eccolo spiegato: "Dopo l'annullamento del decreto di divieto di ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane, io mi rifiutai di firmare il secondo decreto, analogo". E continua: "Mi rifiutai perché ritenni che valesse ancor di più la decisione del Tar visto che erano passati altri giorni e che comunque era una reiterazione di un provvedimento annullato senza sostanziali novità, anzi in presenza di una situazione peggiorata". Insomma, come già ricordato dall'avvocato del leader della Lega Giulia Bongiorno ("Il divieto di ingresso in acque italiane firmato dai ministri Salvini, Toninelli e Trenta. Ma qui è presente solo Salvini"), la Trenta non ha firmato solo il secondo divieto.
Ma non è finita qui, perché la Trenta di fronte alle domande della pm Giorgia Righi su eventuali terroristi a bordo, ribadisce: "Non ci risultava che a bordo della Open Arms ci fossero terroristi. In ogni caso, poteva essere di conoscenza del ministro dell'Interno. Non era detto che io dovessi saperlo". Eppure, solo due settimane dopo la Open Arms, sia la Trenta che Danilo Toninelli firmarono il divieto d’ingresso per nave Eleonore con 101 naufraghi. Memoria corta?
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 03 dicembre 2022
«La ringrazio per la domanda perché mi consente di chiarire che quanto affermato in passato dall'avvocata Bongiorno, all'epoca componente del governo come me, è totalmente falso», scandisce Danino Toninelli, già ministro pentastellato dei Trasporti e delle Infrastrutture, rispondendo a un difensore di parte civile.
«Ma Lei è laureato? La devo chiamare dottore o in quale altro modo?» gli si rivolge poco dopo la stessa Bongiorno, rivelando al presidente del tribunale: «Il signor Toninelli è già a giudizio su mia querela, quindi si comprende l'acredine». Al suo fianco, dal banco degli imputati, Matteo Salvini assiste divertito: lui è l'unico a essere ancora ministro in questa anomala rimpatriata fra ex colleghi del primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte, a maggioranza Lega-Cinque Stelle, riuniti nell'aula bunker dell'Ucciardone.
Oltre a Toninelli, Bongiorno e Salvini c'è pure l'ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta, testimone dei pubblici ministeri che accusano il leader leghista di sequestro di persona per aver negato lo sbarco a 147 migranti a bordo della nave spagnola Open Arms, fra il 14 e il 20 agosto 2019. Ai pm Calogero Ferrara e Giorgia Righi, Trenta ricorda che inizialmente firmò anche lei il divieto d'ingresso alla Open Arms in acque italiane, sulla base della «potenziale offensività» per la sicurezza nazionale certificata dall'allora ministro dell'Interno.
Poi però il Tar del Lazio sospese l'efficacia di quel decreto e a ferragosto Salvini gliene inviò un altro che reiterava il divieto: «Io non lo firmai perché mi pareva sbagliato riproporre una decisione già bocciata dal Tar, senza che ci fossero nuovi elementi e mentre la situazione a bordo della nave stava peggiorando. Combattere il traffico di migranti va bene, ma ho ritenuto che reiterare il divieto di sbarco violasse i diritti umani».
Quando arriva il suo turno, Bongiorno (responsabile della Pubblica amministrazione nel governo Conte I) svela quello che secondo la difesa è un colpo di scena: da un sottomarino della Marina che sorvegliava il Mediterraneo furono fatte registrazioni audio-video che dimostrerebbero anomalie nel comportamento della Open Arms; compresa una conversazione tra una persona a bordo della nave spagnola e un'altra nelle vicinanze.
Atti trasmessi all'epoca con un'informativa al ministero della Difesa, e in seguito agli uffici giudiziari siciliani, ma venuti alla luce solo ora con il deposito da parte della Procura di Palermo. «Vediamo se finalmente queste anomalie vengono alla luce, insieme all'informativa fantasma nascosta anche al Tar, al Senato e al gup», spiegherà poi l'avvocata.
Trenta dice di non averne saputo niente e ripete che le uniche informazioni sulla sicurezza provenivano dal Viminale: «Era Salvini a decidere sull'opportunità del blocco della nave, fosse dipeso da me mi sarei comportata diversamente». È il motivo per cui l'ex ministro dell'Interno è alla sbarra e lei no, come pure Toninelli che sale sul banco dei testimoni subito dopo.
L'ex titolare dei Trasporti (incarico ricoperto oggi da Salvini), che a Catania per la vicenda della nave Gregoretti (dove Salvini è stato prosciolto in udienza preliminare) aveva risposto con una serie di «non ricordo», mostra di ricordare tutto benissimo e riassume il cuore del problema: «Anch' io ero d'accordo a combattere l'immigrazione clandestina, e in quei giorni feci dichiarazioni contro la Open Arms, che non si era comportata correttamente, e l'Europa che doveva farsi carico del problema; su quel punto c'era una responsabilità politica collegiale del governo che però in quei giorni d'agosto già non esisteva più. La Lega aveva aperto la crisi e Salvini, pensando di essere già in campagna elettorale, parlava alla pancia dei cittadini».
Del resto, se non ci fosse stata la rottura tra Lega e 5 Stelle, è probabile che questo processo non sarebbe stato autorizzato dal Senato. Il reiterato divieto di sbarco, secondo Toninelli, era figlio della propaganda dell'ex-ministro, e la responsabilità fu solo sua: «L'avvocata Bongiorno ha detto che prima dei Consigli dei ministri lei e gli altri aspettavano ore perché io, Conte, Salvini e Di Maio stavamo chiusi a discutere di ricollocamenti dei migranti negli altri Paesi, ma non ha mai atteso un secondo perché non c'è mai stata una riunione».
Bongiorno ricontesta a Toninelli precedenti dichiarazioni su «scelte collegiali» in altri casi, facendo riemergere vecchie ruggini con l'ex collega che accusa: «Lei confonde le acque mettendo insieme le pere con le mele». Più tardi Salvini conferma che di riunioni con Conte e Di Maio ne ha fatte tante, «ma forse Toninelli non c'era, non so perché i suoi capi non lo chiamassero». E insiste, a proposito «dell'informativa fantasma», che «sarebbe gravissimo se qualche organo dello Stato avesse nascosto, omesso o dimenticato documenti rilevanti». Il 13 gennaio il duello tra ex alleati si replicherà con le testimonianze di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese.
Carola, l'eroina fuori dalla legge. Fausto Biloslavo il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Carola Rackete, l'eroina del mondo di sinistra e radical chic, rivela di essere stata ancora più talebana dell'accoglienza della Ong tedesca Sea Watch
Carola Rackete, l'eroina del mondo di sinistra e radical chic, rivela di essere stata ancora più talebana dell'accoglienza della Ong tedesca Sea Watch, che l'aveva messa ai comandi della nave carica di migranti che nel 2019 ha sfidato il governo italiano. Per non avere rispettato il blocco imposto dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini e schiacciato una motovedetta della Finanza sulla banchina, pur di sbarcare 40 migranti, la magistratura di Agrigento l'ha definitivamente graziata come regalo di Natale. Nell'illuminate intervista su Repubblica di ieri saltano fuori parecchie verità nascoste, che rendono ancora più paradossale la scabrosa vicenda. La capitana coraggiosa getta la maschera e ammette che la sua missione non era solo umanitaria, ma virando il timone sulla linea di collisione con il governo, voleva affondare il decreto sicurezza di Salvini. «Dopo due anni», grazie all'archiviazione dell'inchiesta a suo carico «è stato stabilito che il decreto sicurezza bis era una legge sbagliata» sostiene con Repubblica. E alla domanda se con la Sea Watch 3 al suo comando l'obiettivo era abbattere la normativa del cattivo leghista risponde candidamente di «Sì () mi sono convinta che dovevo avere il coraggio di sfidare il vostro governo proprio sul campo preparato da Salvini col suo decreto».
In pratica l'obiettivo era politico, sempre in nome della suprema legge umanitaria del salviamo tutti per sbarcarli in Italia. E per sottolinearlo ribadisce che nel duello con il «capitano» della Lega «alla fine Salvini ha perso».
La teutonica Carola rivela poi un inaspettato braccio di ferro con Sea watch, la sua Ong. «Sia quando sono entrata nelle acque territoriali italiane, sia quando ho forzato il blocco a Lampedusa, sono andata contro le raccomandazioni del back office» di Berlino. In pratica i talebani dell'accoglienza tedeschi erano più moderati e consigliavano prudenza fino al punto di non volere che Sea watch 3 sfidasse il divieto di entrare nelle nostre acque. L'intrepida Rackete non ha prestato ascolto facendo di testa sua, come se fosse l'eroina di un mondo alla rovescia dove si possono violare le leggi di uno Stato senza alcuna punizione. E trovando incredibilmente sponda nella magistratura di Agrigento, che prendeva per buone le sue dichiarazioni considerando porto insicuro non solo la Libia, ma pure la Tunisia, lo scalo più vicino dal punto di recupero in mare dei migranti.
Nonostante la strada spianata verso scarcerazioni e archiviazioni Carola, però, non si fida ancora della giustizia italiana. All'immancabile domanda sulla paura dopo l'arresto risponde: «La vicenda giudiziaria poteva andare in tutte le direzioni, anche le più imprevedibili. Visto ciò che è successo in seguito a Mimmo Lucano, e mi riferisco alla sua scioccante condanna, facevo bene a essere preoccupata». Il Rackete pensiero è semplice: se sostieni di fare del bene e violi le leggi sei innocente a prescindere, anche se un tribunale scopre di tutto e di più, come nel caso Lucano.
Per fortuna Carola è in Norvegia ad appoggiare una protesta locale «in difesa dell'ecosistema». L'ultima volta la polizia tedesca l'ha portata via vestita da pinguino avvinghiata ad un albero di una foresta che non si doveva abbattere. La capitana coraggiosa ammette che «non è necessario stare su una nave per combattere le ingiustizie» e che difficilmente si rifarà vedere nel Mediterraneo. L'unica parte dell'intervista che suona come una buona notizia.
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
Antonio Rossitto per “La Verità” il 4 febbraio 2022.
La speronatrice teutonica dai capelli rasta è pronta per un posticino da sottosegretaria? Dalla cerata gialla al tailleur grigio, è un attimo. Con una scoppiettante intervista a Repubblica, l'ex capitana Carola Rackete festeggia la seconda archiviazione. In una calda notte d'estate nel 2019, a bordo della Sea Watch 3 entrò nel porto di Lampedusa con 40 migranti, urtando una motovedetta della guardia di finanza.
Per i magistrati, niente di rilevante. Per lei, l'inizio di una promettente carriera da ardimentosa eroina. Difatti, ad atto giudiziario acquisito, informa ora che la smargiassata fu un atto politico. Una sfida al governo italiano e all'odiato Matteo Salvini, allora ministro degli Interni.
Capitana contro Capitano. «Alla fine lui ha perso» spiega a Repubblica. L'autostima non le difetta. Gesto epocale il suo, da studiare fin dalle elementari: «Io mi sentivo dalla parte giusta della storia» racconta.
«Il muro invisibile eretto in mare contraddiceva le leggi internazionali marittime e, per sbarazzarsene, qualcuno doveva avere la forza di abbatterlo». Siamo a un passo dalla leggenda.
«Sapevamo che il decreto era stato approvato, ma non ci aspettavamo di finire in un conflitto con l'Italia. Dopo il recupero dei naufraghi in mare, era chiaro che non ci sarebbe stata una soluzione politica: tutti ci stavano rifiutando il porto di sbarco. È lì che mi sono convinta che dovevo avere il coraggio di sfidare il vostro governo proprio sul campo preparato da Salvini col suo decreto».
Intrepida, eppur permalosetta. Il leader leghista, certo, non s'è risparmiato: «Perfino la zecca tedesca m'ha denunciato» disse una volta, seppur ironicamente. «Quel linguaggio» replica adesso Carola «dimostra come dal populismo si scivola facilmente verso l'autoritarismo. Il discorso pubblico è tossico contro le donne, contro i migranti, contro i giovani, contro l'ambiente».
Meglio di un comizio elettorale, appunto. «Se al timone della Sea Watch 3 ci fosse stato un maschio, Salvini non si sarebbe comportato così. E mi ha rincuorato sapere che dopo il mio arresto decine di persone hanno protestato contro il sessismo». Ecco, tra i perigliosi flutti, una spruzzata di neofemminismo mancava.
Anche se l'ex ministro non sembra mai aver mostrato predilezione per gli attivisti maschili. Nemmeno Carola, per la verità. La capitana rivela difatti un retroscena destinato a cambiare le sorti del ventunesimo secolo.
A dimostrazione della sua smania di protagonismo, l'azzuffata con Salvini era cercata. Il quartier generale della Sea Watch non era d'accordo. «Da una parte c'eravamo io, il capo missione Philipp e il capo medico di bordo, dall'altra il back office di Berlino» ricorda.
«Sia quando sono entrata nelle acque territoriali italiane, sia quando ho forzato il blocco a Lampedusa, sono andata contro le raccomandazioni del back office. Non avevamo un accordo stabilito o una strategia comune. Ho preso una decisione che trovava contraria una parte della Ong».
Ovverosia: quella notte Carola sfidò solitaria la legge, sognando di trasformarsi in salvatrice degli oppressi. L'inumano leghista era il nemico perfetto. Un luminoso futuro da paladina cominciava. Lei si sentiva «dalla parte giusta della storia».
A dispetto delle indicazioni dei suoi ipocriti capoccia: «In pubblico Sea Watch è stata dalla mia parte e mi ha aiutato ad affrontare l'indagine, ma avrei voluto consenso pure a Lampedusa».
Sola e temeraria. Pronta a forzare un blocco e speronare chicchessia. Lo rifarebbe, certo. Perfino meglio: «Entrerei in porto anche prima, senza perdere tempo». Il mare però ormai è lontano. «Non è necessario stare su una nave per combattere le ingiustizie». Adesso Carola duella per l'ambiente. Come ogni eroe contemporaneo degno di nota.
Erano indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: archiviata l’inchiesta contro chi condusse la nave Mare Jonio a Lampedusa nel 2019. Fabio Albanese su La Stampa su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.
La giudice per le indagini preliminari di Agrigento, Micaela Raimondo, ha archiviato l’inchiesta nella quale erano indagati per favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina Massimiliano Napolitano e Beppa Caccia, il primo comandante, il secondo capo missione e armatore della nave Mare Jonio della Ong italiana Mediterranea saving humans. Per quell’inchiesta fu a lungo posta sotto sequestro anche la nave. Secondo la gip, che ha accolto la richiesta di archiviazione che era stata avanzata nello scorso mese di ottobre dai pm Salvatore Vella e Cecilia Baravelli della stessa procura di Agrigento, «non emergono elementi suscettibili di sorreggere l’ipotesi accusatoria» perché entrambi avevano agito «in una situazione di stato di necessità dovuto alle condizioni fatsicenti dell’imbarcazione soccorsa, al sovraccarico dei passeggeri a bordo e all’assenza di adeguati dispositivi di sicurezza individuale». Non solo, per la gip di Agrigento «non refluisce negativamente sulla sussistenza dello stato di necessità il fatto che la situazione di imminente e non altrimenti evitabile pericolo di vita, sia artatamente cagionata dai trafficanti libici i quali, come è noto, si servono di imbarcazioni fatiscenti a bordo delle quali i migranti vengono lasciati in balia di se stessi in modo da creare i presupposti per far scattare l’obbligo di soccorso». Il 9 maggio del 2019 la Mare Jonio andò in soccorso di un gommone con il motore rotto e che imbarcava acqua e con a bordo 30 persone, tra cui donne incinte, due bambini e numerosi minori non accompagnati. Il salvataggio avvenne 35 miglia a nord della città di Zuwara, nell’area Sar libica. Alla nave arrivò l’ordine di dirigere verso Tripoli, considerata dalle autorità che coordinavano il soccorso quale «Pos», port of safety. Ma comandante e capo missione si rifiutarono di riportare in Libia i migranti. Il giorno dopo, la Mare Jonio arrivò a Lampedusa dove sbarcò i naufraghi. Subito dopo la nave fu posta sotto sequestro e comandante e capo missione furono indagati dalla procura di Agrigento, sia per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sia per violazioni del Codice della navigazione, non avendo preso in considerazione la diffida delle autorità italiane «a svolgere in maniera pianificata e organizzata attività di ricerca e soccorso con una nave priva delle necessarie certificazioni». Nel suo decreto di archiviazione, la gip Raimondo sottolinea che Tripoli non si poteva considerare «port of safety», «come anche sottolineato dall’Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati» e che «dall’attività di indagine è emerso che il rimorchiatore (la Mare Jonio, ndr) era stabilmente attrezzato per svolgere, ove necessario, attività di salvataggio di vite umane in mare e il suo personale era stato adeguatamente formato». La gip, infine, scrive che «non è prevista nell’ordinamento italiano una certificazione Sar per le imbarcazioni civili impegnate nello svolgimento dell’attività di salvataggio in mare». Insomma, il decreto di archiviazione spazza via in appena due pagine buona parte delle argomentazioni con cui in questi ultimi anni le autorità italiane hanno cercato di rallentare e se possibile fermare l’attività in mare delle Ong impegnate nel salvataggio dei migranti. La stessa gip Raimondo, alla fine di ottobre 2021, aveva archiviato un’altra clamorosa inchiesta sulle navi umanitarie delle Ong: quella che riguardava la Sea Watch3 e l’allora comandante della nave Artuto Centore che, dopo aver recuperato nella Sar libica 47 migranti in quello stesso maggio 2019, con un provvedimento simile a quello depositato in queste ore per la Mare Jonio, scrisse che Centore rifiutandosi di portare i migranti in Tunisia e sbarcandoli invece a Lampedusa aveva agito correttamente perché «aveva l'obbligo di prestare soccorso e assistenza alle persone presenti a bordo del gommone e di provvedere al successivo trasporto in luogo sicuro di sbarco, alla luce di quanto sancito dalle disposizioni normative nazionali e internazionali». Soddisfatta dell’archiviazione dell’inchiesta sulla Mare Jonio l’organizzazione Mediterranea saving humans che in una nota ha sottolineato come «ancora una volta, dopo accurate investigazioni e non sulla base di fantasiosi e strumentali teoremi, un Tribunale italiano si pronuncia in modo inequivocabile: salvare vite umane in mare non è un crimine, ma un obbligo per tutti, civili e militari».
Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 26 gennaio 2022.
Loro continuano a partire. E spesso a morire. Anche di freddo, sferzati dal gelo, nella notte buia di un Mediterraneo che inghiotte la vita di innocenti soffocati da cenci inzuppati, come in una morsa di ghiaccio. È questa la fine di sette ragazzi giunti in Libia e, dopo mesi di prigionia, salpati dalla costa di Abu Kammash verso la speranza di una vita nuova con altri 280 disperati provenienti da Egitto, Sudan, Mali. Il solito carico di braccia umane. Sulla solita carretta del mare che imbarca acqua e alla vista di Malta fa scattare l'SOS raccolto da «Alarm phone» da dove echeggia l'appello: «Non ritardate i soccorsi».
I primi a cercarli, dicono, sono i tunisini. Ma senza individuarli. Poi un velivolo Frontex avvista una bolla animata, ma è già buio da un pezzo quando le motovedette salpano da Lampedusa dove frattanto il barcone alla deriva sembra avvicinarsi. Stavolta li trovano. Passano ore per affiancare il barcone dove alle 3 e mezzo del mattino, fra i piedi di una folla disperata, giacciono già tre bengalesi senza vita. Uccisi dal freddo.
Come accade anche ad altri quattro naufraghi nonostante finanzieri e uomini della Guardia costiera riescano a tirarli a bordo, affidandoli ai medici del Cisom. Tentano in ogni modo di strapparli alla morte, ma si spengono accanto ai sopravvissuti avvolti nelle coperte termiche, le flebo per idratarli, il te caldo, i biscotti, una parola di conforto. Abbandonato il relitto legnoso, rientrano le motovedette prima dell'alba con un carico di vivi e di morti, com'è successo tante altre volte.
Con le telecamere che inquadrano i sette sacchi bianchi con i corpi senza vita, adagiati sul molo di Lampedusa accanto ai 280 incolonnati in una processione che ha per posta obbligata l'ambulatorio dell'isola e quel centro di accoglienza incapace di accoglierli tutti, perché 250 brande non bastano per il triplo degli ospiti.
Non mancano le polemiche di Mediterranea Saving Humans, la Ong che lamenta «un ritardo di sei ore», dopo l'appello e l'arrivo nell'area della nave soccorso Aita Mari. Protesta il capomissione Luca Casarini parlando con Adnkronos: «Cambiano i governi, i presidenti della Repubblica, ma questo orrore da anni non cambia... occorre un impegno serio e concreto perché queste morti non si ripetano».
Mentre la Procura di Agrigento apre, secondo prassi, una inchiesta per «morte o lesioni come conseguenza di altro delitto legato a favoreggiamento di immigrazione clandestina» e mentre si avviano le indagini per identificare scafisti ed organizzatori, tuonano indignati in tanti per il replay della tragedia. Ma, nonostante l'orrore, la notizia stenta a far breccia fra candidature e schede bianche, Covid, Putin ed Ucraina. E al mondo distratto, all'Europa assente si rivolgono sia il sindaco della piccola Lampedusa, Totò Martello, sia Leoluca Orlando, il sindaco di Palermo, il capoluogo che con Potsdam, Parigi, Barcellona, Atene, Marsiglia, fa parte dell'«Alleanza internazionale dei porti sicuri» istituita proprio nel capoluogo siciliano lo scorso giugno in occasione del convegno «From Sea To The City».
Solo parole vuote per Martello: «governo italiano ed Europa sembrano avere dimenticato l'isola». E Orlando rivolto alla nuova presidente del parlamento europeo, Roberta Metsola: «Urgente istituire il Rescue european civil service, un organismo che si faccia carico del salvataggio delle vite in mare». Tema rilanciato da Sea Watch con la presidente della sezione italiana Claudia Lodesani, che continua a invocare «un porto sicuro» per Geo Barents, la nave lasciata in alto mare con a bordo 439 naufraghi, salvati nei giorni scorsi, senza una risposta nemmeno da Malta e Italia.
Un atteggiamento indirettamente biasimato da Papa Francesco all'Angelus di domenica quando ha rivolto un pensiero a quei naufraghi. E non sapeva allora che un altro barcone ci avrebbe consegnato sette nuovi martiri.
Lo stupratore di Segrate? Ha commesso anche 10 rapine brutali. Francesca Galici il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Ha diversi alias lo stupratore di Segrate, già in carcere per la violenza sessuale. A suo carico ora anche l'accusa per 10 rapine a Monza.
Lo stupratore di Segrate, già in carcere, è anche destinatario di un provvedimento di fermo per aver commesso, con due complici, 10 rapine tra Monza e Sesto San Giovanni, dal 29 dicembre al 10 gennaio scorso. L'uomo è stato individuato con un lungo lavoro di indagine ed è emerso che sia proprietario di diversi alias. Per la violenza sessuale ai danni della 44enne di Segrate, l'uomo è stato identificato in Hamza Sara, 31 anni e originario della Libia. Per le rapine di Monza, invece, la magistratura lo ha indivuato come Atoub Garrad, 27 anni e nato in Marocco. L'uomo per altro, è stato destinario di un provvedimento di espulsione alcuno tempo fa, provvedimento mai attuato. Il filo conduttore dello stupro e delle rapine è la violenza con la quale l'uomo ha agito.
Le rapine di Monza e Sesto San Giovanni sono state compiute tra il 29 dicembre al 10 gennaio scorso. L'ultima, quindi, due giorni prima dello stupro. Il gip Roberto Crepaldi, ha convalidato il fermo e disposto la misura cautelare per lo stupro. Nel suo provvedimento, il gip ha sottolineato la sua "inclinazione a fare uso della violenza per raggiungere un minimo, o comunque del tutto sproporzionato alla sua brutalità, lucro personale". Proprio per questo motivo il pm di Monza Michela Versinni, il 17 gennaio, ha firmato un decreto di fermo nei confronti dell'uomo senza sapere, per via del nome diverso, che era già in cella. Dopo alcune verifiche, il provvedimento è stato consegnato all'uomo a San Vittore.
Le rapine delle quali è accusato l'uomo, che poi sono state ricostruite dagli inquirenti, sono di una violenza non comune. Le accuse, per altro, non sono solo per rapina ma anche per lesioni e sequestro di persona. Tra i diversi episodi che gli vengono contestati, uno dei più brutali è avvenuto lo scorso 29 dicembre, quando lui e i suoi complici hanno trascinato fuori da un'auto due ragazze. E non le hanno solo rapinate delle borse e dei cellulari, ma hanno anche rubato la loro automobile.
Il 10 gennaio, invece, per rapinare un uomo e portargli via anche l'auto, lo hanno violentemente colpito alla testa con il calcio della pistola e, non paghi, gli hanno anche sferrato un violento calcio sul fianco destro. Ma quello stesso giorno, si sono resi responsabili di una ulteriore rapina, stavolta compiuta ai danni di un settantenne presso distributore di carburante. Gli hanno rubato tutto, compresa l'automobile. Lo hanno minacciato con l'arma ma lo hanno anche costretto a mettersi al volante perché nessuno dei tre era in grado di guidare la vettura per via del cambio automatico.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Claudia Osmetti per "Libero quotidiano" il 20 gennaio 2022.
C'è (per modo di dire) l'Europa. E poi ci siamo noi. Il nodo sull'immigrazione o lo si sbroglia tutti assieme, mettendoci non solo la faccia ma anche le risorse (che vuol dire strutture, centri, redistribuzione) o restiamo punto e a capo: con gli sbarchi a Lampedusa che in un anno, il 2021, sono raddoppiati e i rimpatri che, nello stesso periodo, invece si sono dimezzati. «Le cronache nazionali sono piene di episodi di violenza commessi da cittadini irregolari che in Italia non ci dovevano neanche stare», racconta l'assessore alla Sicurezza di Regione Lombardia, Riccardo De Corato (Fratelli d'Italia), «oppure peggio, fatti da persone che dovevano essere rimandate indietro, nei loro Paesi d'origine, ma che non siamo riusciti a metterle su un aereo».
L'ultimo caso è quello del libico finito (adesso) al carcere di San Vittore per lo stupro, la rapina, l'aggressione e la minaccia di morte ai danni di una donna di quarant' anni di Segrate, nell'hinterland di Milano. Quando l'hanno pizzicato, gli uomini della procura meneghina, si sono accorti che Hamza Sara (è il suo nome), 31 anni, nordafricano, aveva una sfilza di reati sulla sua fedina penale che la metà bastavano a procurargli quel foglio di via con su stampato l'ordine di abbandonare l'Italia che pure aveva in tasca. E diciamocelo subito, generalizzare è sempre sbagliato. Son mica tutti delinquenti quelli che provano a sfidare il Mediterraneo su un gommone improvvisato. Anzi, in massima parte son solo disperati. Però non c'è solo Sara.
C'è il ghanese Adam Kabobo, che ora, da noi, ci resterà per forza, almeno fino al 2033 quando finirà di scontare la pena di circa 23 anni di reclusione per aver ammazzato a picconate tre poveri cristi nei quali è incappato, per caso, in una mattina di maggio del 2013 a Milano. C'è il tunisino Ridha Mahmoudi, anche lui ospite delle patrie galere da quando, a metà settembre del 2020, ha accoltellato a morte il parroco don Roberto Malgesini, a Como, davanti alla chiesa di San Rocco dove gli aveva dato appuntamento col pretesto di chiedergli aiuto.
C'è il nigeriano che a giugno è entrato nella casa di un'anziana a Lomazzo, ancora in provincia di Como, con l'intento di rubare e non ha avuto pietà nemmeno per i suoi 90 anni, l'ha colpita e l'ha persino violentata. C'è l'algerino che ha fatto lo stesso, 'sta volta con una ragazza di appena vent'anni, a Milano, in pieno centro, corso Buenos Aires, una manciata di mesi fa: l'ha seguita fino all'androne del suo palazzo e le ha messo le mani addosso. C'è il marocchino che a Torino ha ucciso la piccola Fatima, 3 anni. Anche lui era irregolare.
Tutti questi episodi hanno un filo conduttore: i loro autori dovevano essere rimpatriati, non avevano diritto di stare qui. Epperò ci stavano. Da irregolari, senza un lavoro, senza una casa, in mezzo alla delinquenza. «Gente pericolosa», aggiunge De Corato, «e la beffa è che lo sappiamo, perché hanno precedenti non solo in Italia ma anche da dove vengono. Per questo, molti di loro, i tunisini, gli egiziani, i marocchini, scelgono di venire attraverso le rotte del mare. Perché se venissero qui a bordo di un aereo, cosa per loro possibile a differenza, per esempio, degli afghani, dovrebbero mettere piede in dogana e spiegare troppe cose». La beffa, oltre al danno. «Non si riesce a rimpatriarli perché adesso han trovato la scusa del covid».
Mettiamola così: i rimpatri si fanno con gli aerei, ma nell'epoca della pandemia per salire su un aereo serve un tampone negativo: «Ultimamente questi signori han capito che basta rifiutarsi di sottoporsi al test. D'altronde non è un obbligo, è un dato necessario. Serve quello per imbarcarsi. Chi non lo fa resta a terra. E a terra, cioè nei Cpr (i Centri di permanenza per il rimpatrio, ndr), possono rimanerci per 90 giorni, terminati quelli non li puoi neanche trattenere», chiosa l'esponente di Fdi. Il risultato è che siamo in mezzo a una morsa: da una parte l'Ue che si sgola (giustamente) sul rispetto dei diritti umani e alla prova dei fatti (un po' meno giustamente) fa quel che le conviene, con la Slovenia che scarica i migranti oltre il confine di Gorizia, l'Austria che idem, la Francia che non ne parliamo.
E dall'altra parte i numeri, i nostri numeri: nel 2019 abbiamo rimpatriato 9.862 persone, nel 2020 4.408, l'anno scorso 2.226. E per fortuna che, a fine dicembre, persino il premier Mario Draghi l'aveva messa giù dura: prima del Consiglio europeo ha ricordato che «le già sporadiche redistribuzioni tra i Paesi europei dei migranti sbarcati in Italia si sono interrotte con l'introduzione delle restrizioni pandemiche» e che serve «una gestione condivisa, rapida ed efficace dei rimpatri».
I numeri choc che mostrano "l'invasione" dei migranti. Mauro Indelicato il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.
I dati di Frontex parlano chiaro: la rotta che nel 2021 ha subito il maggior incremento nel numero degli sbarchi è quella del Mediterraneo centrale.
Sono in aumento gli arrivi irregolari di migranti. A certificarlo non è soltanto il Viminale, bensì anche Frontex, ossia l'agenzia europea preposta al controllo delle frontiere del territorio comunitario. I dati del 2021 non lasciano spazio a dubbi: in Europa sono arrivati nell'anno appena trascorso 196.034 migranti, un aumento del 57% rispetto al 2020.
Lo spettro del 2017
Quando si parla di immigrazione, c'è una data che funge da vero e proprio spartiacque. Si tratta del 2017, anno in cui viene ritenuta conclusa la fase emergenziale cominciata dopo l'avvento delle primavere arabe. Dal 2011 in poi, da quando cioè nell'altra parte del Mediterraneo sono esplose le rivolte popolari che in alcuni casi hanno portato a ulteriore instabilità, si è assistito a un progressivo aumento di ingressi irregolari di migranti.
L'apice si è avuto tra il 2015 e il 2017. Duplice il motivo. In Italia il ritmo di sbarchi in quel periodo ha raggiunto picchi molto elevati, in estate in un solo mese potevano arrivare in quegli anni anche quasi 30.000 migranti. Dall'altro lato del Vecchio Continente, a fare paura è stata la cosiddetta rotta balcanica.
L'avvento dell'Isis tra Siria e Iraq ha spinto migliaia di persone verso la Turchia e da qui poi intere carovane hanno attraversato i Balcani per giungere in Germania e nel nord Europa. Poi su spinta tedesca l'Ue ha pagato ad Erdogan almeno tre miliardi di Euro, mentre dal canto suo l'Italia ha pagato i libici per trattenere quanti più barconi possibili e, da allora, l'emergenza ha iniziato ad attenuarsi.
Per questo nel presentare gli ultimi dati Frontex ha usato il 2017 come metro di paragone. Il numero di arrivi nel 2021 è stato il più alto dal 2017 in poi. È ben lontano dalle cifre record di quel periodo ma, allo stesso tempo, il trend degli ultimi 12 mesi non fa certamente ben sperare. E, soprattutto, fa temere ulteriori ondate di arrivi nell'anno appena iniziato.
Se l'aumento del 57% rispetto al 2020 può dire relativamente poco, visto che il paragone è con un'annata contraddistinta dalla pandemia e dalle misure che hanno limitato la mobilità a livello globale, è significativo l'aumento rispetto all'era pre Covid. Nel 2021 la cifra di 196.034 persone arrivate illegalmente è più alta del 36% rispetto al 2019.
Boom di sbarchi nel Mediterraneo Centrale
Nel valutare l'andamento migratorio, Frontex studia da vicino la situazione nelle diverse rotte che coinvolgono l'Europa. Il Mediterraneo è il fronte che preoccupa maggiormente. Soprattutto perché la rotta riguardante l'Italia, ossia quella del Mediterraneo centrale, è quella che ha fatto registrare il maggior incremento.
Un anno di sbarchi: così è ripartito l'assedio alle nostre coste
In particolare, la tratta usata dai trafficanti libici e tunisini ha subito un incremento dell'83% rispetto al 2021. In totale, questa rotta è stata percorsa da 65.362 migranti. Vuol dire dunque che è stata l'Italia a subire il principale incremento dei flussi. Un dato che conferma del resto quanto già visto a livello interno a dicembre, dove era apparso chiaro dai dati del ministero dell'Interno l'importante aumento del numero degli sbarchi.
Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le
I fantasmi di piazza Duomo. Almeno cinque assalti, dieci ragazze sottoposte a violenze, due "branchi" distinti e molti emulatori. L'ultimo Capodanno, nel pieno centro di Milano, ha ferito tante vite e ha cambiato la percezione della sicurezza in città. Cinquanta giorni dopo abbiamo ricostruito che cosa è successo in quella notte fuori controllo e perché
di Ilaria Carra, Luca De Vito, Massimo Pisa, Paola Cipriani su La Repubblica il 19 Febbraio 2022.
Due gruppi, forse tre. Uno in arrivo dalla periferia di Torino, ragazzi adulti e non nuovi alle aggressioni in centro che, per San Silvestro, si sono concessi un raid fuori porta. Gli altri giovanissimi, quasi tutti minorenni: vivono ai margini di Milano da pochi mesi dopo essere passati per il deserto libico, i barconi, il Mediterraneo, i fotosegnalamenti nei porti.
Milano, i 50 secondi di terrore della 19enne molestata in piazza Duomo: «Gridavo, ma non mi lasciavano». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022.
Il racconto della ragazza aggredita: «Ho pensato volessero rapinarmi e ho dato la borsa. Erano violenti, mi sono spaventata e ho iniziato a urlare». Spuntano altri episodi: due straniere fra le vittime. Si allarga l’indagine della Procura.
È da poco passata l’una e mezza. In piazza Duomo vanno in scena gli ultimi strascichi del secondo Capodanno milanese dell’era Covid. Alle spalle del monumento a Vittorio Emanuele II, gli scudi degli agenti in tenuta antisommossa hanno appena strappato una ragazza dal groviglio di braccia e mani che l’aveva intrappolata e travolta. È sconvolta, in lacrime. La giovane è una studentessa fuori sede di 19 anni. Ha il piumino rosso, il maglione è strappato sotto l’ascella.
Ragazza di 19 anni aggredita dal branco in piazza Duomo a Milano
Prova a levarsi la paura e il disgusto di quelle mani che ha sentito addosso, e ripercorre quei cinquanta secondi di terrore documentati anche da un video sui social rilanciato dalla pagina «Milanobelladadio»: «Sembrava scherzassero — racconterà più tardi ancora tra i singhiozzi —. Ma poi qualcuno mi ha strattonato con forza. Si sono fatti violenti. Ho pensato volessero rapinarmi e gli ho dato la borsa. Ma non mi lasciavano. Mi sono spaventata e ho iniziato a urlare». Un’amica l’abbraccia, prova a tranquillizzarla. Erano venute a festeggiare con gli amici. Sono state risucchiate nella calca insieme, in un momento in cui si erano allontanate dal loro gruppo per andare alla toilette. Almeno una trentina di ragazzini, molti stranieri. Una delle due ragazze è riuscita a uscirne grazie all’intervento di un amico che s’è fatto largo a forza nel muro di corpi. La 19enne non è stata altrettanto fortunata. Nel video la si vede sballottata dal gruppo degli aggressori, che ondeggiano, la strattonano, le mettono le mani addosso. Lei teme di essere trascinata via, prova a divincolarsi, urla, chiede aiuto.
Il sospetto di altri due abusi
Sull’aggressione, la Procura di Milano ha aperto un fascicolo per violenza sessuale di gruppo. Gli uomini della squadra Mobile, guidati da Marco Calì, stanno passando al setaccio i filmati delle telecamere per identificare i componenti del gruppo. Il pool «fasce deboli», coordinato dall’aggiunto Letizia Mannella, ascolterà di nuovo la 19enne nei prossimi giorni. Intanto le indagini si allargano anche ad altri presunti abusi che sarebbero avvenuti con le stesse modalità. Si starebbero valutando un paio di denunce, oltre al caso documentato giovedì dal video di Alanews, che mostra prima della mezzanotte due ragazze straniere accerchiate da numerosi giovani. Sono spaventate, in lacrime, schiacciate contro le transenne, provano a tenerli a distanza, invocano aiuto. Alcuni secondi di paura prima che un ragazzo intervenga e le porti fuori dalla folla.
Da salotto a saloon
La violenza sulla 19enne è l’episodio più grave di una notte di eccessi, con raffiche di botti nonostante l’ordinanza, e una manciata di rapine e risse, come quella, poco distante dalla piazza, che ha visto un 18enne ferito alla testa da una bottigliata. Mentre le famiglie passeggiavano tra le vetrine della Galleria, tanti giovani si sono dati appuntamento in piazza. Molti sono arrivati da fuori, già su di giri prima del countdown della mezzanotte. Sono ragazzini tra i 15 e i 20 anni, che ogni sabato gravitano alle spalle della Loggia dei Mercanti, a pochi metri dal luogo della violenza. Sono spesso giovani nati in Italia da famiglie di immigrati, le seconde generazioni, che dai quartieri periferici e dall’hinterland si riversano tra i tavolini all’aperto dei fast food. Uno scorcio di «salotto» che in questa lunga parentesi di convivenza con il virus si è a volte trasformato in «saloon»: risse fra decine di giovanissimi, con sedie e bottiglie che volano fra i turisti. L’allarme è già risuonato più volte. Il presidio delle forze dell’ordine è costante. Il Comune, insieme all’Anpi, aveva scommesso sulla riqualificazione della Loggia, ma la situazione fatica a migliorare.
Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 26 gennaio 2022.
Dopo le violenze di Capodanno era stato subito chiaro che i gruppi che hanno aggredito le ragazze con abusi sessuali pesanti si erano mossi in piazza Duomo con la medesima tecnica a caccia delle «prede», ma ora tra gli inquirenti matura la convinzione che ci fosse altro, che si trattasse di un preciso rituale con cui ridurre le vittime al livello di oggetti.
Anche per trovare conferme a questa tesi agghiacciante, ieri la polizia ha perquisito cinque giovani torinesi residenti nel quartiere periferico Barca, amici di Abdallah Bouguedra, il 21enne arrestato due settimane fa, con Mahmoud Ibrahim, il 18enne domiciliato a Milano.
Tre di loro (due italiani di seconda generazione di 18 e 23 anni e un marocchino di 23) sono indagati per le prime due aggressioni, a due amiche 19enni e a quattro ragazze arrivate dalla Toscana.
Gli altri due (un italiano e un marocchino) sono invece coinvolti, ma non indagati, nelle violenze alle due amiche tedesche schiacciate contro le transenne e abusate. Salgono così a una quindicina gli indagati, tra maggiorenni e minori, per i cinque episodi di violenza ad undici le vittime, ma il numero degli identificati cresce di ora in ora.
Nelle perquisizioni sono stati trovati «elementi importanti», dicono gli investigatori, sul coinvolgimento degli indagati. I racconti fatti dalle vittime al pm Alessia Menegazzo, all'aggiunto Letizia Mannella e al capo della Mobile Marco Calì sono sovrapponibili.
Una parla di un primo gruppo di 4/5 ragazzi che, dopo averle importunate, «hanno provato a trattenermi tirandomi la borsa» poi «hanno iniziato a seguirci, anche cingendoci le spalle, in un modo inizialmente gentile».
Improvvisamente il gruppo si ingrossa fino a «40-50 persone». Dichiara ancora la ragazza a verbale: «Hanno iniziato ad avvicinarsi sempre di più fino a quando non ci hanno stretto () cercavamo di uscire dal cerchio e ci spingevano sui lati, ci impedivano di allontanarci tenendosi serrati».
Un muro di corpi che faceva da schermo alle violenze che altri giovani perpetravano all'interno del cerchio. «Gridavano "Passamela a me, quella dalla a me"», ricorda una delle ragazze abusata.
Nelle case dei perquisiti sono stati sequestrati i vestiti che indossavano a Capodanno per confrontarli con quelli degli aggressori ripresi dalle telecamere di sorveglianza e nei video amatoriali girati durante le violenze. Al vaglio degli investigatori, oltre ai «20 minuti di terrore» subiti dalle due turiste tedesche, altre due denunce di ragazze ventenni.
Claudia Guasco per “il Messaggero” l'8 gennaio 2022. Il terrore, la sensazione di impotenza, l'angoscia di sentirsi braccate. Le giovani vittime della folle notte di Capodanno in piazza del Duomo raccontano, nei verbali di denuncia, quei minuti che sembravano un'eternità: molestie e abusi sessuali definiti «orribili» e subiti da ragazzi che si sono mossi con modalità da branco.
Ricordano le lacrime, le disperate richieste di aiuto che si sono perse nel frastuono dei botti e nell'allegria dei brindisi. Sono almeno cinque, ma potrebbero aumentare, i casi di aggressioni sessuali ai danni di altrettante ragazze avvenuti il 31 dicembre in centro a Milano.
La Procura sta indagando con l'ipotesi di violenza sessuale di gruppo, le modalità sono molto simili a ciò che avvenne nel 2016 in Germania, a Colonia, sempre durante i festeggiamenti di inizio anno, quando centinaia di giovani stranieri, agendo in piccoli gruppi, abusarono di decine di donne, anche con l'obiettivo di rapinarle.
Gli abusi di mezzanotte potrebbero essere riconducibili al fenomeno della «Taharrush gamea», che in lingua araba significa molestia collettiva. Come si evince dai racconti delle vittime. «Abbiamo provato a respingerli, la mia amica li ha colpiti e ha dato schiaffi ma loro ridevano e hanno continuato a molestarci, avevo quindici mani addosso», è ancora scossa una delle due ragazze tedesche aggredite.
Sono studentesse, hanno vent' anni e ieri hanno presentato denuncia a Manneheim, dove vivono. Il video che le riprende mentre chiedono aiuto «è solo la parte finale di un incubo che è durato dieci minuti». Le due giovani erano arrivate a Milano il 31 dicembre per brindare all'anno nuovo e come molti altri turisti sono andate in piazza Duomo.
«A un certo punto la mia amica mi ha detto che qualcuno l'aveva toccata e ok, c'era tanta gente e poteva anche essere stato per sbaglio. Ci siamo però guardate attorno e abbiamo capito che era meglio andare via. Ci siamo prese per mano, ma all'improvviso eravamo circondate da una trentina di uomini».
Non c'era via di fuga. «Hanno iniziato a spingerci e a toccarci ovunque - prosegue la giovane - Ci venivano addosso e io sono caduta, erano tutti stranieri tra i 20 e i 30 anni e nessuno parlava italiano. La mia amica mi ha aiutato ad alzarmi ma non potevamo scappare, ce li avevamo tutti attorno e avevo le loro mani anche sotto la gonna. Piangevamo e urlavamo, ma nessuno ci ha aiutate».
Forze dell'ordine comprese, è l'accusa: «Non hanno fatto niente, è stato davvero scioccante. Eppure gli agenti erano vicini, erano a pochi metri e non possono non averci viste. Hanno notato che ci spingevano e che stavamo urlando ma sono rimasti fermi».
Quando finalmente sono riuscite a liberarsi si sono rivolte ad agenti della polizia, «ma non ci capivano. L'unico che ci ha aiutate è stato un fotografo che ha fatto da traduttore dall'inglese, ci hanno detto che potevamo andare a fare denuncia ma eravamo sconvolte e siamo andate via». Lasciando la piazza, hanno però riconosciuto uno dei loro aggressori «e lo abbiamo fotografato, era uno di loro e infatti è scappato via appena ha visto che lo stavamo inquadrando».
Materiale che finirà nell'inchiesta aperta dalla procura di Milano sulla notte che ha segnato le due ragazze: «Ci siamo fatte aiutare qui a casa anche dal punto di vista psicologico, ma la mia amica non riesce ancora a dormire». E non sono le uniche vittime di un Capodanno senza limiti.
La squadra mobile milanese sta indagando anche sull'aggressione a una diciannovenne avvenuta verso l'1,30 da parte di una trentina di ragazzi, soprattutto di origine straniera, mentre la studentessa che era con lei sarebbe riuscita a evitare la violenza grazie all'intervento di un amico.
Accertamenti sono in corso sugli abusi nei confronti di due giovani straniere (anche questi ripresi in un video), rimaste in balia di un altro gruppo, spaventate e in lacrime, nella piazza che quella sera era presidiata dalle forze dell'ordine. E si sta indagando anche su un presunto caso di violenza ai danni di un'altra giovane.
Gli investigatori stanno esaminando tutte le immagini delle telecamere della zona e i filmati amatoriali: potrebbero esserci episodi simili, perciò vengono recuperate tutte le denunce su furti e rapine commesse quella notte attorno al Duomo, perché potrebbero nascondere fatti di violenza sessuale non denunciati.
Gli investigatori stanno inoltre lavorando per mettersi in contatto con tutte le presunte vittime, alcune delle quali erano arrivate da fuori Milano per festeggiare il Capodanno in piazza. «Quelli di Milano sono fatti gravissimi - dichiara il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese - Le Forze di polizia sono impegnate quotidianamente a garantire la sicurezza delle nostre città. Lo sforzo dovrà essere massimo per evitare che possano ripetersi analoghi deprecabili comportamenti».
Intanto, sulle pagine social del sito che ha pubblicato il primo video due giorni fa, spuntano altri racconti: «È successa praticamente la stessa cosa con me - ha scritto una ragazza - fortunatamente mi hanno solo toccata e spinta a terra».
Immigrati, violenze sessuali, rapine: Capodanno folle a Milano. NOTTE DI ORDINARIA FOLLIA A MILANO. UNA DIVISA: “GRUPPI DI STRANIERI HANNO CREATO IL CAOS”. Redazione Nicolaporro.it il 2 Gennaio 2022.
Il racconto lo fa un uomo in divisa che la notte di San Silvestro l’ha passata vestito in tenuta antisommossa a sedare le violenze di piazza Duomo a Milano. “Da mezzanotte alle 4.30 eravamo tutti bardati con caschi e scudi ad allontanare le persone che erano lì assembrate”. Il bollettino è drammatico: rapine a non finire, risse, persone che insultano i passanti solo per uno sguardo di troppo. L’inferno a Milano lo hanno messo in scena “decine e decine di immigrati”, magari di seconda generazione, che hanno messo in seria difficoltà le forze dell’ordine. “Ne spostavamo 100 o 200 alla volta”, rivela una fonte. “C’era talmente tanta gente che non riuscivamo neppure a contenerle. Ci sono state rapine a ripetizione. Una marea”. E poi feriti, 500 interventi della polizia, risse e due accoltellamenti.
Cronaca di una notte di follia, che però non ha conquistato più di tanto le cronache dei grandi giornali e dei tg nazionali. Eppure di “carne al fuoco” ce n’era. Il Giorno, per dire, ha raccontato di una aggressione a sfondo sessuale ai danni di una ragazza di 19 anni che sarebbe stata accerchiata e aggredita. “Nel disastro del bollettino di guerra dei festeggiamenti di questa notte a Milano c’è una notizia terribile. Una ragazza di 19 anni è stata accerchiata e molestata sessualmente da una trentina di giovani, probabilmente stranieri, due passi dal Duomo intorno all’1 e 30 – ha detto Riccardo De Corato, assessore regionale alla Sicurezza – Soltanto l’arrivo della Polizia, alla quale va il mio ringraziamento, ha messo in fuga il branco che sarebbe andato avanti nei suoi propositi con conseguenze ancora più gravi per la ragazza”. La nostra fonte sostiene di ricordare una giovane in lacrime accerchiata da un gruppo di stranieri. Quel che è certo è che di scene di ordinaria follia ne sono successe a iosa. Deborah Dell’Acqua, consigliera al Municipio 7 per Fratelli d’Italia, ha mostrato la foto del figlio tornato dai festeggiamenti con evidenti ferite. “In zona Brera – ha scritto su Fb – è stato aggredito e derubato di giacca e scarpe, tornando a casa col labbro tumefatto”.
“La notte di Capodanno ha generato un bollettino di guerra che non ha bisogno di commenti – ha aggiunto l’assessore De Corato – una ragazza accerchiata e aggredita sessualmente da 30 giovani, un 18enne accoltellato al collo sempre in via Mazzini, altri due ragazzi colpiti a bottigliate e altri feriti meno gravi per risse”. A nicolaporro.it un poliziotto rivela: “A creare il caos, ieri notte, erano quasi tutti immigrati o figli di immigrati”. Domanda: anziché insistere sul numero di contagi, i giornaloni non potevano dare risalto a questo? O hanno paura di essere accusati di razzismo?
“No, lasciateci!”. Ragazzine molestate dagli immigrati, spunta un altro video. Sardone: “Milano come Colonia”. Marta Lima venerdì 7 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.
“No, no, lasciateci…”. Voci arabe, forse nordafricane in sottofondo, nelle immagini si intravedono due ragazzine che scappano da chi prova a mettergli le mani addosso, a palpeggiarle. E’ il secondo video della folle notte di violenza e suprusi consumatasi a Milano a Capodanno, in stile Colonia 2016, quando in piazza si scatenatorono bande di immigrati, soprattutto siriani, che presero di mira donne e ragazze del posto. Quel nuovo video, che pubblichiamo in basso, sarebbe ora al vaglio degli inquirenti insieme con quello di Alanews , che mostra prima della mezzanotte due ragazze straniere accerchiate da numerosi giovani. Spaventate, in lacrime, schiacciate contro le transenne, provano a tenerli a distanza, invocano aiuto.
“Il nuovo video su quanto successo la notte di Capodanno in Piazza Duomo apre scenari sempre più inquietanti e drammatici. La scena di due povere ragazze costrette agli abusi di decine di ragazzi si somma alla denuncia di violenza già inviata da un’altra giovane e alle segnalazioni di altre molestie e rapine. Ci sono state quindi violenze sessuali di gruppo e diverse ragazze sono state abusate e picchiate. Si può a questo punto dire che quanto accaduto a Milano la notte di Capodanno sia molto simile a quanto avvenuto a Colonia la notte di Capodanno del 2016 quando furono centinaia le aggressioni a danni di donne da parte di giovani immigrati”, afferma in una nota Silvia Sardone, eurodeputata e consigliere comunale a Milano in quota Lega.
“Anche in questo caso – rimarca Sardone – come si evince dai video e dalle testimonianze, i protagonisti sono giovani stranieri visto che si sente chiaramente che parlano non in italiano. Nulla che sorprenda, l’idea della ‘donna sottomessa’ è una costante in molte comunità islamiche non moderate. Se non ci fossero stati gli interventi delle forze dell’ordine presenti in piazza saremmo qui a parlare di decine di violenze. A questo punto vogliamo la verità: cosa è successo in Piazza Duomo? Quanti sono i casi simili? Come mai si è permessa questa situazione? E’ ormai evidente che ci fossero branchi di stranieri pronti a reati e a violenze sulle donne. Tra l’altro mi chiedo dove siano le femministe di fronte a chiari abusi verso le donne. Forse sono più interessate alla questione del linguaggio di genere”.
Conclude Sardone: “In questo contesto ricordo che l’assessore alla sicurezza del Comune di Milano disse ‘tanta gente, tanti botti, nessun problema’ su quanto avvenuto in piazza. Una sottovalutazione incredibile a cui si aggiungono il silenzio del sindaco e della sinistra. Evidentemente a loro non interessa se nella principale piazza di Milano, in un giorno di festa, diverse giovani donne siano abusate, tra pianti e urla, da decine di delinquenti”.
"Violenza sessuale di gruppo": scatta l'inchiesta sulla notte di Milano. Valentina Dardari il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale.
La Procura sta indagando con l’ipotesi di violenza sessuale di gruppo. Gli aggressori hanno usato modalità da branco. Al momento sarebbero almeno 5, ma gli investigatori non escludono possano essere anche un numero maggiore, i casi di aggressioni sessuali ai danni di altrettante ragazze che si sono verificati la notte di Capodanno a Milano. Non solo in piazza Duomo sono avvenute le aggressioni ma anche nelle vie limitrofe alla piazza principale della città meneghina. Su molteplici episodi la Procura si Milano sta indagando con l'ipotesi di violenza sessuale di gruppo. Infatti gli eventi sono stati commessi da giovani che hanno agito con modalità da "branco". Questa modalità, secondo quanto riportato da Ansa, ricorda molto quanto avvenuto a Colonia nel 2016, sempre in occasione dei festeggiamenti di inizio anno. Quella volta erano state centinaia le persone che avevano agito in piccoli gruppi e avevano poi abusato, con l’intento anche di rapinarle, di decine di donne. Chi sta indagando sui fatti avvenuti a Milano li ha definiti "gravissimi".
L'inchiesta della Procura di Milano
Da quanto si è venuto a sapere, al centro dell’inchiesta della Squadra mobile milanese, coordinata dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dal pubblico ministero Alessia Menegazzo, c’è l'episodio che ha visto come vittima una 19enne studentessa fuori sede che è stata circondata, verso l'una e mezza di notte, da circa una trentina di ragazzi, soprattutto di origine straniera. Nell’indagine si indaga anche su quanto accaduto a un’amica della ragazza che era con lei quella notte, ma che sarebbe riuscita a scappare e a evitare un’aggressione più violenta grazie all'intervento di un amico che l’ha trascinata via dal branco.
Il racconto della notte da incubo: "Cosa mi hanno fatto in piazza Duomo"
Inoltre sono in atto accertamenti sugli abusi nei confronti di due giovani straniere, anche in questo caso c’è un video pubblicato on-line in questi giorni, circondate e spinte contro le transenne da un altro gruppo. Le ragazze, spaventate, sono esplose in un pianto a dirotto una volta che si sono trovate davanti agli agenti in tenuta antisommossa che stavano presidiando la piazza. Infine, si starebbe anche indagando su un altro presunto caso di violenza ai danni di un'altra giovanissima.
Al vaglio anche denunce per rapina
Comunque gli inquirenti e gli investigatori in queste ore stanno guardando e riguardando tutte le immagini riprese dalle telecamere della zona e i vari filmati, anche quelli amatoriali, perché potrebbero saltare fuori altri episodi simili. Stanno inoltre concentrandosi su varie denunce per rapina pervenute da ragazze, per capire se ci sono state anche violenze fisiche. In queste ore gli investigatori stanno raccogliendo a verbale le testimonianze delle giovani e in Procura viene ribadito che quanto avvenuto la notte di Capodanno attorno al Duomo di Milano è "un fatto gravissimo e senza precedenti". Le indagini sono rivolte a identificare e punire tutti i responsabili, decine di giovani, delle violenze sessuali di gruppo avvenute la notte di Capodanno a Milano.
Orribili abusi
Come detto precedentemente gli inquirenti milanesi stanno scandagliando tutte le denunce pervenute da giovani donne riguardanti episodi violenti come anche furti e rapine avvenuti in centro a Milano la notte di San Silvestro, in cerca di altri possibili casi di aggressione sessuale rispetto ai cinque già emersi e sotto indagine. Secondo quanto emerso, al momento sono solo tre le ragazze che hanno sporto denuncia formale, ovvero la 19enne lombarda insieme a una sua amica, e un'altra ragazza che non conosce le altre due vittime. Quest'ultimo elemento, il fatto che le tre ragazze non si conoscano, rende ancora più credibili i loro racconti che sono molto simili per quanto riguarda le modalità degli 'orribili abusi' subìti. Tutti sono iniziati con l'accerchiamento della vittima prescelta, sono proseguiti con il suo isolamento e terminati con le violenze sotto forma di palpeggiamenti e strattonamenti.
Il racconto della notte da incubo: "Cosa mi hanno fatto in piazza Duomo". Valentina Dardari il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale. Parla la 19enne palpeggiata da una trentina di ragazzi mentre festeggiavano il Capodanno in centro a Milano. La Sardone: "Come Colonia, ostaggio di branchi di delinquenti stranieri".
A Milano la notte di Capodanno non è stata solo festeggiamento e scambio di auguri per il nuovo anno. In piazza Duomo una ragazza di 19 anni, studentessa fuori sede, è stata salvata dagli agenti in tenuta antisommossa dopo che era stata bloccata e palpeggiata in mezzo alla folla. Quando è stata liberata da quell’intreccio di braccia era sconvolta e in lacrime. Sopra un piumino rosso per proteggerla dal freddo, e sotto un maglione strappato sotto l’ascella, uno strappo dovuto verosimilmente a quelle mani che l’avevano strattonata, tirata e avvolta impedendole di scappare.
La notte di terrore a Milano
Cinquanta secondi di terrore puro, in cui la giovane non sapeva come riuscire a liberarsi, non vedeva una via d’uscita, una salvezza. Un video postato sui social e reso pubblico sul profilo ‘MilanoBellaDaDio’ ha immortalato quegli attimi ed è stato condiviso anche dalla pagina Facebook ‘Noi poliziotti per sempre’, accompagnato dal commento: “Il grave episodio è accaduto la notte di capodanno durante i festeggiamenti in piazza Duomo ed è stato filmato da alcuni passanti che lo hanno poi postato su Instagram. Nel filmato, reso pubblico sul profilo MilanoBellaDaDio, è chiaramente visibile la vittima circondata da almeno una trentina di ragazzi che la spintonano e la molestano. Il filmato ritrae decine di ragazzi attorno a una giovane durante i festeggiamenti a Milano per Capodanno”.
Come riportato dal Corriere, la vittima ha poi raccontato piangendo: “Sembrava scherzassero. Ma poi qualcuno mi ha strattonato con forza. Si sono fatti violenti. Ho pensato volessero rapinarmi e gli ho dato la borsa. Ma non mi lasciavano. Mi sono spaventata e ho iniziato a urlare”. Si trovava insieme a un’amica, erano arrivate nella piazza principale del capoluogo lombardo per festeggiare insieme ad alcuni amici. Ma quella folla urlante le ha inglobate, proprio nel momento in cui si erano allontanate dal gruppo per cercare un bagno. Una trentina di giovani, dei quali molti erano stranieri, le hanno circondate. L’altra ragazza è riuscita a scappare grazie all’intervento di un amico. Ma per la 19enne non vi è stata la stessa sorte ed è stata invece risucchiata, strattonata, palpeggiata da mani sconosciute. Può solo urlare e provare a divincolarsi. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo per violenza sessuale di gruppo. Al lavoro ci sono gli uomini della squadra Mobile, guidati da Marco Calì, che stanno guardando più volte tutti i video, amatoriali e non, per cercare di identificare gli aggressori. Nei prossimi giorni la 19enne verrà ascoltata ancora dal pool ‘fasce deboli’, coordinato dall'aggiunto Letizia Mannella.
Capodanno violento in Duomo, altre due ragazze in lacrime dopo gli abusi: i video choc
"Milano come Colonia"
Ma quella notte a Milano ci sono state anche altre aggressioni. Un nuovo video, pubblicato dal sito Alanews.it, mostra un altro episodio di presunte violenze, avvenute sempre la notte di Capodanno in centro a Milano, e sempre nella medesima piazza. Come si vede nel filmato, poco prima della mezzanotte due ragazze straniere sono state accerchiate da alcuni giovani che le hanno schiacciate contro le transenne. Nelle ultime immagini si vedono le due salvate dagli uomini in divisa che si lasciano andare in un pianto a dirotto, spaventate da quanto appena subito. Sono quindi due le aggressioni ai danni di ragazze avvenute quella notte da incubo a Milano. Così come due sono i video che hanno immortalato quanto avvenuto nei due episodi. Il primo riguarda la 19enne con il piumino rosso, mentre il secondo le due ragazze straniere spinte contro le transenne. La gang ad aver messo in scena i due assalti sembra essere la stessa.
Ma anche rapine e risse in quella notte milanese che avrebbe dovuto essere solo di festa. Un 18enne è stato ferito alla testa da una bottigliata. Tanti i ragazzi, tra i 15 e i 20 anni, che si erano dati appuntamento in centro, come fanno spesso, molti dei quali nati in Italia ma figli di immigrati, che vivono in periferia ma vengono nella grande città per trovarsi e chiacchierare al tavolo di un fast-food. Spesso litigano e arrivano alla rissa, con conseguenze a volte molto spiacevoli.
Sulla sua pagina Facebook la leghista Silvia Sardone ha commentato i video postati sui social che immortalano una notte di violenza: “Il nuovo video su quanto successo la notte di Capodanno in Piazza Duomo apre scenari sempre più inquietanti e drammatici. La scena di due povere ragazze costrette agli abusi di decine di ragazzi si somma alla denuncia di violenza già inviata da un’altra giovane e alle segnalazioni di altre molestie e rapine. Ci sono state quindi violenze sessuali di gruppo e diverse ragazze sono state abusate e picchiate”.
Chi sono gli aggressori
Una vicenda che riporta alla mente quanto accaduto a Colonia qualche anno fa. "Anche in questo caso, come si evince dai video e dalle testimonianze, i protagonisti sono giovani stranieri visto che si sente chiaramente che parlano non in italiano.", fa notare infatti la eurodeputata e consigliere comunale a Milano, “Nulla che sorprenda, l'idea della "donna sottomessa" è una costante in molte comunità islamiche non moderate. Se non ci fossero stati gli interventi delle forze dell’ordine presenti in piazza saremmo qui a parlare di decine di violenze. A questo punto vogliamo la verità: cosa è successo in Piazza Duomo? Quanti sono i casi simili? Come mai si è permessa questa situazione? È ormai evidente che ci fossero branchi di stranieri pronti a reati e a violenze sulle donne. Tra l’altro mi chiedo dove siano le femministe di fronte a chiari abusi verso le donne. Forse sono più interessate alla questione del linguaggio di genere”. La Sardone ha ricordato poi le parole dell’assessore alla sicurezza del Comune di Milano che “disse ‘tanta gente, tanti botti, nessun problema’ su quanto avvenuto in piazza. Una sottovalutazione incredibile a cui si aggiungono il silenzio del Sindaco e della sinistra. Evidentemente a loro non interessa se nella principale piazza di Milano, in un giorno di festa, diverse giovani donne siano abusate, tra pianti e urla, da decine di delinquenti”.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
"Io urlavo e loro ridevano" Caccia alla gang di Milano. Paola Fucilieri il 9 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Quattro le vittime del branco filmato dai telefoni "Immagini poco leggibili". Lo sfogo delle ragazze.
Gli investigatori della squadra mobile diretti dal dirigente Marco Calì, fanno chiarezza sull'inchiesta di Capodanno, sull'esatto numero dei filmati analizzati durante le indagini in corso e, in particolare, su quante sono state in realtà, secondo gli accertamenti svolti finora, le ragazze vittime delle aggressioni in piazza Duomo durante i festeggiamenti per l'arrivo del 2022.
«Finora ci sono tre episodi accaduti il 31 dicembre tra mezzanotte e mezza e l'una e mezza e quattro vittime per cui, in accordo con la Procura e l'aggiunto Letizia Mannella, procediamo per il reato di violenza sessuale di gruppo - spiegano in questura -. Del primo episodio di violenza la questura ha parlato da subito, facendo i bilanci della notte di San Silvestro, il primo dell'anno. Si tratta della ragazza di 19 anni assalita e molestata in via Mazzini. La giovane - ovvero l'ormai arcinota ragazza con il piumino rosso vernice - era con un'amica che però non ha sporto denuncia. Quindi c'è stata un'altra ragazza rapinata del cellulare dal branco di giovani che popolavano piazza Duomo in quel momento e che durante lo scippo è stata anche toccata; infine indaghiamo sul caso delle due tedesche delle cui denunce sporte a Mannheim, una volta tornate in Germania e di cui siamo venuti a conoscenza solo l'altro ieri, dopo sette giorni dai fatti di Capodanno».
«I filmati amatoriali che stiamo analizzando sono due, uno apparso sulla pagina Facenook Milanobelladadio e un altro su Askanews - conclude la polizia -. Identificare i ragazzi coinvolti nelle violenze non sarà facile perché si tratta di immagine che hanno una pessima risoluzione e che dovremo incrociare con le molte riprese delle telecamere».
Intanto l'agenzia di stampa Ansa registra dichiarazioni che pesano come macigni. Sensazioni devastanti, che non se ne vanno nel giro di qualche giorno o poche settimane, ma destinate a lasciare un'eco profonda, scioccante nell'interiorità di una giovane donna che da poco si è affacciata alla vita. Sono quelle di una delle due studentesse tedesche molestate in piazza Duomo.
«Sono ancora sotto choc, non riesco a realizzare quello che è successo. Il mio cervello cerca solo di dimenticare tutto. Non riesco ancora a dormire, mi sveglio nel mezzo della notte tremando, per colpa degli incubi che mi stanno perseguitando».
La giovane, che ha 20 anni, spiega di aver provato a reagire colpendo uno dei suoi aggressori: «L'ho preso in faccia ma mi guardava ridendo, mi guardava con uno sguardo che diceva fai quello che vuoi, tanto io continuo».
Ma ecco il racconto dettagliato delle molestie. «Ci stavamo guardando in giro, c'erano i fuochi d'artificio e la musica - prosegue la ragazza -. Ho capito che mi stavano toccando e volevamo scappare ma c'era troppa gente, non potevano andarcene. La mia amica è caduta, continuavano a spingerci in modo molto aggressivo e a un certo punto ho sentito mani dappertutto, anche dentro il reggiseno che mi è stato praticamente strappato».
«La polizia non ha fatto nulla» ha concluso la giovane, che però ha detto di non riuscire a ricordare ogni particolare.
«È successo tutto così in fretta - prosegue la giovane tedesca -. All'improvviso c'erano decine di persone addosso a noi e non capivo esattamente chi stesse facendo che cosa. So solo che a un certo punto eravamo vicine alle transenne e abbiamo iniziato a urlare, perché abbiamo visto che la polizia era lì. Ci hanno sicuramente viste, chiedevamo aiuto ma non hanno fatto nulla».
«Volevamo solo andarcene ma non ci aiutava nessuno - conclude la ragazza - ha affermato ancora la ventenne tedesca -. Quando finalmente siamo riuscite ad arrivare dalla polizia, non ci capivano perché nessuno parlava inglese. Solo un fotografo parlava inglese e ha provato a calmarci ma eravamo sconvolte». Paola Fucilieri
"Piazza Duomo? Voglio solo dimenticare". Ora la vittima si sfoga. Francesca Galici l'8 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Spintonate, aggredite e toccate ovunque: il racconto delle molestie di capodanno subite dalle turiste tedesche a Milano è agghiacciante.
L'aggressione subita a Milano da parte delle due turiste tedesche nella notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio sta facendo molto discutere. Le giovani studentesse, arrivate in città nel giorno di san Silvestro per trascorrere una serata di divertimento nel capoluogo lombardo sono state accerchiate e molestate da un branco di circa 30 uomini stranieri. Dalle loro dichiarazioni è emerso che tutti i componenti del gruppo parlassero arabo e, stando ad alcuni messaggi pubblicati sui social, pare che il branco fosse formato da uomini di nazionalità prevalentemente egiziana, ben noti in zona Duomo per il loro comportamento aggressivo.
Le due studentesse hanno fatto ritorno in Germania nei giorni successivi all'aggressione e hanno sporto denuncia per violenza sessuale nella città di Manneheim, dove risiedono. Raggiunte dall'Ansa, entrambe le ragazze hanno raccontato l'incubo vissuto in quei dieci minuti in piazza del Duomo. "Sono ancora sotto choc, non riesco ancora a realizzare quello che è successo. Il mio cervello cerca solo di dimenticare tutto", ha spiegato una delle due vittime. Il trauma vissuto è stato grande, la sua amica ha raccontato che il branco cercava di toccarle in ogni modo mentre loro provavano a difendersi dall'aggressione, pensando inizialmente che si trattasse di un tentativo di rapina.
Ci vorrà del tempo per elaborare il trauma: "Non riesco ancora a dormire, mi sveglio nel mezzo della notte tremando". A nulla è valso il loro tentativo di difendersi davanti alla furia del branco, che non sembrava temere niente in quel momento. Una delle giovani ricorda anche di aver colpito uno dei suoi aggressori: "L'ho preso in faccia ma mi guardava ridendo, mi guardava con uno sguardo che diceva 'fai quello che vuoi, tanto io continuo'".
Il suo racconto di quei minuti è agghiacciante: "Ci stavamo guardando in giro, c'erano i fuochi d'artificio e la musica. Ho capito che mi stavano toccando e volevamo scappare ma c'era troppa gente, non potevano andarcene. La mia amica è caduta, continuavano a spingerci in modo molto aggressivo e a un certo punto ho sentito mani dappertutto, anche dentro il reggiseno che mi è stato praticamente strappato".
I ricordi di quel momento non sono lucidi e sono frammentari: "Volevamo solo andarcene ma non ci aiutava nessuno e quando finalmente siamo riuscite ad arrivare dalla polizia, non ci capivano perchè nessuno parlava inglese. Solo un fotografo parlava inglese e ha provato a calmarci ma eravano sconvolte, siamo ancora sconvolte, mi sveglio ancora con gli incubi".
La rabbia è tanta anche tra gli uomini delle forze dell'ordine, come ci spiega Pasquale Alessandro Griesi, segretario provinciale Fsp Polizia Milano: "La cosa grave che dovrebbe fare pensare tutti, soprattutto la politica garantista, è che queste aggressioni sono avvenute fregandosene delle tante forze dell'ordine presenti sul territorio. Ormai si pensa che tutto sia possibile, tutto sia fattibile. Questo è un Paese che non punisce chi sbaglia".
Sul mancato intervento della polizia in quella specifica occasione, il segretario spiega che "c'era gran caos, sono stati fatti interventi per risse, rapine, accoltellamenti, violenze... Può esserci stata una svista nella confusione? Con i caschi indossati, scudi, protezioni, il caos che c'era tutto è probabile, ma dire che hanno visto e non sono intervenuti non sono d'accordo. Sono intervenuti per migliaia di interventi perché non farlo anche qui? ". Ovviamente la solidarietà per le vittime è massima: "Mi spiace per le ragazze, ma questi uomini in uniforme hanno salvato da altri uomini molte donne. Lo avrebbero fatto anche con queste ragazze, come hanno fatto quando si sono accorti di quello che stava accadendo...".
L'amarezza tra gli uomini in divisa è tanta, soprattutto per le polemiche che spesso sorgono in caso di intervento: "Milano conta il più alto numero di indagati tra le forze dell'ordine, solo per aver fatto il proprio lavoro. Quindi ci facessero sapere cosa vogliono, poliziotti o uomini che portano a passeggio l'uniforme? Ci vuole certezza della pena. La nostra squadra mobile li prenderà tutti, abbiamo i migliori investigatori. Il problema è che dopo tre giorni saranno tutti fuori..."
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
"Le ragazze aggredite mentre l'assessore faceva i selfie coi vigili". Paola Fucilieri il 9 Gennaio 2022 su Il Giornale. L'ex vicesindaco ha denunciato la violenza di Capodanno: la sinistra non se n'è accorta.
«E meno male che c'è un magistrato del calibro di Letizia Mannella...».
Ci spieghi.
«Se anche stavolta, con 5 ragazze aggredite a Capodanno nella piazza principale di una città come Milano, avesse prevalso la tendenza del Centrosinistra a mettere sempre sotto il tappeto la questione degli stranieri, soprattutto questa miriade di nordafricani pluri pregiudicati che affollano Milano, e qualcuno anche in Procura avesse tentato di minimizzare, beh, sarebbe stato davvero scandaloso».
E invece?
«Invece, com'è giusto il fascicolo aperto è per violenza sessuale di gruppo».
Non ha bisogno di presentazioni Riccardo De Corato. Classe 1951, attuale assessore alla Sicurezza di Regione Lombardia e consigliere comunale di Fdi, nella sua lunga carriera politica è stato, tra l'altro, senatore e deputato di An, vice sindaco per il Centrodestra durante le giunte Albertini e Moratti, più volte assessore e consigliere a Palazzo Marino; alle elezioni politiche del 2008 è stato rieletto alla Camera nella lista del Popolo Della Libertà, ma nel gennaio 2013 ha partecipato alla presentazione dei deputati che hanno aderito al movimento politico Fratelli d'Italia - Centrodestra Nazionale.
Qualcuno sostiene che lei intervenga anche troppo sui temi della sicurezza. Eppure anche stavolta è stato il primo a condannare con determinazione quel che è accaduto in piazza Duomo a Capodanno. Mentre il sindaco...
«Per sette giorni Beppe Sala non ha detto nulla. Quindi venerdì ha fatto dichiarazioni del tipo: Fatto gravissimo non degno della nostra città, piena vicinanza alle vittime, senza mai accennare a soluzioni concrete. Chissà se il sindaco si è chiesto cosa è contato annullare il concerto di Capodanno se poi è successo quel che è successo? Mah! Senza contare l'esilarante Granelli...».
Perché critica l'assessore comunale alla Sicurezza?
«A Capodanno Marco Granelli si fa un selfie che posta sui social dicendo di trovarsi nella centrale operativa della polizia locale in piazza Beccaria, con il comandante dei vigili e in collegamento con il questore e scrive: tanti botti ma nessun problema. Era a cento metri da piazza Duomo. Perché non si è fatto una passeggiata a piedi con il comandante dei vigili e gli agenti, di persona? Così avrebbe potuto constatare, stando in prima linea, che non era poi tutto così tranquillo come si ostinava a dichiarare lui...».
Dopo i fatti di piazza Duomo, a Milano c'è o no un allarme sicurezza?
«I fatti parlano da soli. Questi ragazzini scrivono sui social come fossero i padroni di piazza Duomo, ci sono delle chat in merito a questo argomento sulla pagina Facebook Milanobelladadio che mettono i brividi. E, ripeto, quelli che hanno aggredito quelle povere ragazze in piazza Duomo a Capodanno, sono tutti stranieri di seconda generazione, ma di origine marocchina, tunisina ed egiziana. Sala ha un bel da organizzare pic nic e cortei pro immigrati se poi il governo impedisce alla polizia di fare quel che deve davanti a questi ragazzi che in Duomo deridono gli agenti e gli fumano le canne in faccia».
Con i No Vax il problema è stato risolto con sfilze di denunce e allontanamenti.
«Ma certo! Anche quando erano arrivati a una quarantina in piazza i manifestanti No pass continuavano a sfidare la polizia. Poi il ministro dell'Interno Lamorgese ha mandato le sue direttive e grazie alle identificazioni in questura, alle denunce, agli allontanamenti, alle perquisizioni a casa e anche a provvedimenti provvisori come la chiusura della Galleria, il problema si è risolto. Segno che servono decisioni a livello politico. E che quando si vuole si fa. Lamorgese, che è stata prefetto qui a Milano, non può permettere che la nostra città dia un'immagine tanto negativa di sé». Paola Fucilieri
"Parlavano tutti in arabo". Spuntano le chat dell'incubo. Francesca Galici l'8 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Le vittime ricordano le frasi in arabo ma dai social emergono altri dettagli: gli aggressori sarebbero tutti egiziani e abituali frequentatori della zona.
Continuano ad emergere nuovi dettagli sulle molestie di Milano nella notte di capodanno. Il racconto più dettagliato l'ha fatto all'Ansa una delle due ragazze tedesche aggredita in piazza del Duomo: "Abbiamo provato a respingerli, la mia amica li ha colpiti e dato schiaffi ma loro ridevano e hanno continuato a molestarci, avevo 15 mani addosso". Le due studentesse hanno presentato denuncia nel commissariato di Manneheim, la città tedesca in cui vivono, e non hanno lesinato accuse alle forze dell'ordine italiane: "La polizia ci vedeva e non ha fatto nulla. Non so dire perchè, è stato scioccante perchè non possono non averci viste".
Le due giovani studentesse erano arrivate a Milano lo stesso 31 dicembre. Avevano scelto Milano per trascorrere il capodanno, senza immaginare che sarebbero finite in un incubo come questo. Sul web circola una clip di pochi secondi relativa a quell'episodio che, come specifica una delle ragazze, "è solo la parte finale di un'aggressione che è durata 10 minuti". Le forze dell'ordine stanno ricostruendo i fatti tramite i video delle telecamere di sicurezza, quelli amatoriali e le testimonianze di chi, in quel momento, si trovava in quella parte di piazza del Duomo.
Ma sono i racconti delle vittime quelli dai quali al momento emergono maggiori dettagli: "Siamo state circondate da un gruppo di persone. Parlavano tutti in arabo e ci spingevano, a un certo punto sono caduta per terra e continuavano a metterci le mani addosso". Le studentesse hanno provato a scappare e a librarsi dalla morsa del branco, ma, spiegano, "non potevamo scappare, eravamo bloccate. Piangevamo e urlavamo aiuto ma nessuno ci ha aiutate. Avevamo 30 persone attorno che ci toccavano dappertutto, nessuno parlava italiano e purtroppo nessuno parlava inglese quando siamo riuscite a uscire da lì".
Comune e istituzioni dovranno delle spiegazioni convincenti per quanto accaduto nella piazza più impotante della città, simbolo di Milano nel mondo. Intanto nelle pagine dedicate alla città, quelle in cui vengono raccontati i fatti local di Milano, arrivano svariate testimonianze. C'è chi ha subito la stessa aggressione denunciata dalle ragazze tedesche e c'è chi, invece, asserisce di sapere chi siano gli aggressori di capodanno.
"Ho parlato con un mio amico tunisino. Ha riferito che sono la maggior parte egiziani nel video, non siamo riusciti a riconoscere bene i volti, abbiamo sfruttato anche le foto Telegram, però sono persone che possono essere trovate in piazza Mercanti e zona Duomo. Un tempo uscivano alle scale, quelle del Museo del 900", si legge in un messaggio molto dettagliato. Lo stesso, poi, fornisce ulteriori informazioni: "Bazzicano sempre in zona Duomo comunque, anche sui muretti della cattedrale, ma principalmente piazza Mercanti. Loro sono quasi sempre lì, di solito il pomeriggio e specialmente nei weekend. Importunano tutte le ragazze che passano, seguono, commentano. E se provi a rispondere ti accerchiano e, se possibile, ti attaccano".
Chi ha scritto quel messaggio sembra conoscerli, dice che sono "quasi sempre armati di coltellini" e, siccome bevono, "hanno sempre la bottiglia pronta da spaccare". Se certe notizie sono note a quelli che sembrano semplici cittadini di Milano o frequentatori della città, dovrebbero essere noti anche alle istituzioni. E, invece, queste persone sono libere di continuare a delinquere e di sporcare l'immagine della città. Peccato che da Palazzo Marino si siano accorti solo ora che Milano non è una città sicura, perché forse si sarebbe potuto intervenire per prevenire certi episodi.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
"Per fortuna avevo i pantaloncini...". Il racconto della ragazza molestata da un gruppo di stranieri in Duomo. Francesca Galici il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Una delle due studentesse molestate a Milano ha raccontato cos'ha vissuto in quei momenti, accerchiata dal branco di stranieri insieme all'amica.
Ospite di Quarta Repubblica, una delle ragazze vittime delle molestie di capodanno ha raccontato la sua versione dei fatti, quello che ha vissuto in quegli attimi in piazza del Duomo. "Quando sono caduta a terra è stato tutto così veloce, ho pensato ‘mio Dio stanno per stuprarmi’. Vedevano che piangevo, li supplicavo di fermarsi ma non si fermavano, ridevano. Quelle mani erano così aggressive, con forza le infilavano tra le gambe. Non posso immaginare cosa sarebbe accaduto, se non avessimo avuto i pantaloncini", ha raccontato la ragazza.
Le studentesse tedesche erano arrivate a Milano il 31 dicembre per festeggiare il capodanno ma quella che nelle loro intenzioni sarebbe stata una festa, si è trasformato in un incubo. "Eravamo a Milano per due giorni io e la mia amica. Siamo venute dalla Germania per capodanno, abbiamo pensato di andare in piazza Duomo a vedere i festeggiamenti. C’erano tante persone, la musica, i fuochi d’artificio. Era prima di mezzanotte. A un certo punto, ci siamo trovate in mezzo alla folla e la mia amica mi ha detto 'qualcuno mi ha toccato'", ha detto la ragazza raggiunta telefonicamente.
Poi ha aggiunto: "Abbiamo cercato di spostarci, ma poi qualcuno ha toccato anche a me, il sedere, e all’improvviso ci hanno spinto il mezzo il gruppo. Sono caduta a terra, hanno iniziato a toccarmi in tanti, tenendomi ferma. Mi hanno aperto la giacca, mi hanno alzato la gonna, hanno cominciato a mettere le dita tra le mie gambe. Grazie a Dio che per il freddo avevo messo dei pantaloncini sotto la gonna. Ricordo che giravo la testa velocemente e vedevo una mano, poi l’altra, così tante mani sul mio corpo, sul mio seno, tra le gambe, sul sedere. Non so quante mani avevo addosso, ma erano tante. Penso fossero 30 uomini, non lo so forse 50, non si fermavano e mi hanno strappato via il reggiseno e mi toccavano il seno. Ero nuda, ero nel panico, ho cercato di proteggere il mio corpo da tutte quelle mani".
Alla specifica domanda su cosa dicessero e in che lingua parlassero, la ragazza ha detto: "Parlavano tra loro. Non ricordo bene, ma ho sentito che parlavano in arabo. Non so se tutti, ma sentivo una lingua araba. Non so come ho trovato la forza di alzarmi da terra. Solo alla fine, solo dopo almeno 10 minuti credo, siamo riuscite a scappare verso le transenne. È quella la parte che si vede nel video che è stato pubblicato, ma le cose peggiori erano accadute prima. Quando eravamo a terra in mezzo a quella folla, abbiamo sempre cercato di stare unite tenendoci la mano".
In merito alla polemica sul presunto mancato intervento della polizia italiana, la ragazza tedesca ha dichiarato: "Abbiamo cercato di spiegare cosa era successo, ma nessuno parlava inglese. I poliziotti italiani non sono intervenuti. Quando ci siamo divincolate, abbiamo raggiunto le transenne, ci spingevano contro, c’erano almeno 5 poliziotti che vedevano. Non so perché non sono intervenuti, non so se hanno cosa stava succedendo, forse no".
Quindi, la studentessa ha aggiunto: "Non potevano vederci quando eravamo a terra in mezzo al gruppo, ma poi quando eravamo alle transenne, sì. Chiedevano aiuto, urlavamo stavamo, guardando verso di loro: 'Aiutateci! Aiutateci!'. La cosa scioccante, quando siamo uscite dalla calca, è che ci hanno detto solo: 'Mettetevi la mascherina'. Noi stavamo piangendo, loro ci hanno detto solo questo: 'Mettetevi la mascherina'".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
"C'è una regia di occupazione del territorio". Alberto Giannoni il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale. La leghista: "La sinistra non capisce che i veri xenofobi sono questi immigrati".
Souad Sbai, già deputata, oggi è responsabile del dipartimento integrazione e comunità straniere della Lega, e soprattutto ha una grande esperienza in materia di immigrazione. Ha fondato l'associazione Donne marocchine in Italia e ha fatto parte della Consulta per l'islam italiano. Che impressione le hanno fatto le molestie di Capodanno in piazza Duomo, a Milano?
«Sono angosciata. Quello che ho visto è inquietante, eppure è un deja vu, lo abbiamo già visto a Colonia e in piazza Tahrir, pensavamo forse di essere lontani e al riparo da queste cose, ma non è così. Io sono molto preoccupata».
Ma, soprattutto all'inizio, questi fatti sono stati sottovalutati.
«Non ne vogliono parlare. Molti hanno perso la bussola, qualcuno ha la coscienza sporca, ma gli immigrati non sono intoccabili per definizione, lo dico io che vengo dal mondo arabo, non sono certo svedese. Continuo a sentir dire che si deve capire i problemi sociali, la marginalità. Ma se una parte, cosiddetta democratica, finisce per giustificare tutto, si va nella direzione sbagliata. Prevale l'ambiguità, l'omertà. Quali problemi sociali? Mezzo mondo li ha, non per questo vanno a stuprare o molestare. È un atto gravissimo».
Un atto non casuale?
«Quando vedi 30-35 persone che vanno non a festeggiare, ma con un obiettivo specifico, è chiaro: 35 persone che agiscono così non si mettono d'accordo all'ultimo. E non è una novità. C'è qualcuno dietro, che gestisce questi branchi. Bisogna capire chi sta dietro l'angolo e ci lavora su quel disagio. Oramai le moschee c'entrano fino a un certo punto con certi fenomeni, ma il web è vasto. Questi rifiutano l'identità italiana. Hanno una nuova identità, o la cercano».
C'entra la religione, o meglio una versione perversa della religione?
«Una visione perversa della religione sì. Guardi, i ragazzi del Bataclan erano piccoli spacciatori, facevano piccoli furti, e sono finiti a fare i terroristi, in un episodio di guerriglia. L'estremismo che è minoranza, ma importante, gode di finanziamenti e sostegni e ha un progetto, tanto che anche il mondo arabo si è svegliato e lo sta contrastando adesso».
Vede questo come parte di un progetto di «conquista»?
«Di occupazione del territorio. Una ragazza che non porta il velo viene aggredita o insultata. Bisogna occuparsi di queste cose come di un movimento, qualcosa che ha a che fare con un pensiero e che si sta creando nelle seconde generazioni, magari anche con cittadinanza italiana».
Non è cosa facile da governare.
«No ma servono regole. Il problema è che non c'è un'identità italiana in queste frange. Non vanno a scuola, non fanno il servizio militare, col lockdown si sono ancor più isolati dal resto, ma continuano ad arrivare. Ma vogliamo o no capire chi sono, da dove vengono e cosa pensano? Se non lo faremo, andremo incontro a un fallimento enorme sull'integrazione».
Macron parla di separatismo.
«Quello che non ha capito la sinistra è che il vero xenofobo è quello che vive in un Paese, aiutato, con la scuola pubblica, la sanità e poi non lo riconosce. Io non dico che tutti debbano assimilarsi ma accettare i principi, la libertà religiosa e delle donne. Non puoi stare col piede in Italia e il cervello in Afghanistan, questo è inaccettabile, si finisce per arrivare ai quartieri sharitici, poi magari ai coltelli per strada, e poi vengono giustificati anche quelli: È un pazzo, si dice. La loro ideologia è chiara, altroché. E anche metterli in galera è un pericolo perché fanno proselitismo. La Francia se ne sta occupando ma anche loro hanno iniziato in ritardo».
L'Europa...
«Gli europei sono complici involontari con la loro incomprensione. Considerano la misoginia come aspetto culturale, o multiculturale. E le donne intanto vengono aggredite o obbligate a coprire i loro corpi. Anche qualche italiano lo fa? Può darsi, ma gli italiani sono 60milioni. E poi, se anche qui avessimo questi problemi, non per questo dovremmo aumentarli. C'è un progetto, a lungo termine ma c'è. Ed è un progetto di conquista. Dobbiamo solo vederlo. Non si scherza». Alberto Giannoni
Claudia Guasco per "il Messaggero" il 13 gennaio 2022.
Le mani che frugano, strappano, gettano a terra, toccano le parti intime. La strategia del branco che chiude qualsiasi via di fuga alla sua preda: i ragazzi agiscono in quaranta, cinquanta alla volta. Le loro vittime sono come pupazzi, usate e poi lasciate in lacrime, piene di lividi e con i vestiti laceri. «Posso dire che tutto intorno era uno schifo, c'erano molti giovani e chiunque passasse si prendeva la libertà di mettere le mani addosso», racconta una delle ragazze aggredite la notte di Capodanno in piazza del Duomo.
I verbali con le loro deposizioni sono un concentrato di violenza, soprusi e impunità. La forza del gruppo è data dal numero, la loro azione è una coreografia collaudata. Prima un paio di giovani avvicina le loro vittime, poi arrivano gli altri che fanno da schermo, infine gli assalitori. B. racconta di essere stata accerchiata da una cinquantina di uomini, tutti tra i venti e i trent' anni.
«Mi spintonano e mi trattengono mentre cerco di allontanarmi. Iniziano a strapparmi i vestiti, la maglietta, il reggiseno e palpeggiarmi il seno. Grido in cerca di aiuto e lancio la mia borsetta agli aggressori, sperando che ciò basti per farli desistere». B. viene sollevata da sei ragazzi, «la furia del gruppo non si arresta», si legge nella deposizione.
C'è chi incita al grido: «La ragazza, la ragazza». Così, mentre lei viene «tenuta distesa a pancia in su, altri la toccano nelle zone intime, le strappano i vestiti di dosso denudandola completamente nella parte superiore del corpo e abbassandole i pantaloni e gli slip fino alle caviglie».
V. tenta invano di salvarla dalla furia degli assalitori: «Ho urlato cercando la mia amica, sono anche salita su un muretto per individuarla ma l'ho persa di vista. Nel mentre sono arrivate le forze dell'ordine con scudi e manganelli. La massa di aggressori si è dileguata, B. era lì che cercava di coprirsi con il giubbino stretto sul petto, non aveva più indumenti addosso, era senza reggiseno, senza slip, rannicchiata per terra piena di lividi, i pantaloni abbassati alle caviglie, è stata soccorsa da un operatore delle forze dell'ordine che l'ha aiutata a rialzarsi». Pochi metri più là, lo schema è lo stesso.
Ecco il verbale di L.: «Sono stata letteralmente travolta alle spalle da un'ondata di uomini che mi hanno palpeggiata violentemente nelle parti intime al punto da rompermi i collant, di cui conservo una foto, e farmi cadere a terra».
Le amiche superano la folla e non si accorgono di nulla, mentre lei e M. sono sdraiate sull'asfalto. V. è paralizzata dal terrore: «Ricordo di aver sentito M. urlare, io sono rimasta pietrificata dalla paura e non sono riuscita a dire nulla». E poi il panico di un'altra ragazza di essere «calpestata», davanti a sé «solo l'immagine di tantissime gambe che mi circondavano e così ho iniziato a urlare».
Ciò che fa altrettanto male, è l'umiliazione di fronte al tentativo di difesa di una delle vittime. Grida a uno dei molestatori: «Che c.... fai?», e lui si mette a ridere «in compagnia del suo amico». I due fermati, riflette il gip, hanno «utilizzato» le vittime «a loro piacimento, per soddisfare le proprie pulsioni e in spregio a ogni forma di rispetto della persona».
Decine di denunce. Nei verbali tutto l'orrore. Luca Fazzo il 14 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Caccia al capo del branco: un 45enne che guidava gli assalti. Scarcerazione dei fermati, oggi si decide.
Racconti in presa diretta di uno stupro di massa: con la crudezza, a volte indigeribile, che gli atti giudiziari sono costretti ad avere. Nel provvedimento di fermo di Abdallah Bouguedra e Abdel Ibrahim, i due giovani di origine maghrebina fermati per le violenze di Capodanno a Milano, sono riportati fotogrammi che vanno aldilà di quanto emerso finora: e che condizioneranno inevitabilmente la decisione, attesa per oggi, sulla scarcerazione chiesta dai due.
Una testimone racconta di avere visto una vittima accerchiata da una folla di uomini sul lato est di piazza Duomo tra cui «un uomo con giubbotto rosso che urlava la ragazza, la ragazza intento a strapparle i vestiti e a strattonarla». Quando finalmente arriva la polizia il branco si allontana, «lasciando la ragazza a terra, denudata nella parte inferiore del corpo e con i pantaloni abbassati fino ai piedi». È la vittima cui alla clinica Mangiagali «i medici hanno riscontrato evidenti escoriazioni su entrambe le mammelle e sui genitali, e anche sangue nonché tumefazioni su varie parti del corpo». La vittima, interrogata alle 3.55 del mattino, racconta che «il gruppo riusciva ad abbassarle i pantaloni per poi toccarle la vagina, anche infilando le dita all'interno della stessa».
Questa furia maniacale verso le parti più intime delle vittime sembra un modus operandi costante del branco. A farne le spese è poco dopo una ragazza che si trova all'ingresso della Galleria Vittorio Emanuele (il «Salotto buono» di Milano....): e che il giorno dopo racconta «di essere stata letteralmente travolta alle spalle da un'ondata di uomini che l'avevano palpeggiata violentemente nelle parti intime, mettendole le mani sul fondoschiena, sull'ano, sulla vagina al punto da rompere i collant». Un'altra ragazza spiega che «quella sera indossava un vestitino e ricordava di aver sentito delle mani che dietro le sue spalla le afferravano le calze all'altezza della vagina e dei glutei».
Insieme all'ossessione del branco per il corpo femminile, dai verbali riportati nel decreto di fermo firmato dal pm Alessia Menegazzo emergono numerosi altri dettagli che confermano come i due arresti siano solo l'inizio della caccia ai responsabili. Le testimonianze delle vittime e dei loro amici descrivono con chiarezza altri protagonisti delle aggressioni: compreso quello che alcuni indicano come il «capo». «Un uomo di circa 45 anni, calvo, con occhi chiari e carnagione chiara, con una camicia nera con decorazioni gialle tipo Versace»: parlava italiano, ma con lo stesso accento dei ragazzi del branco. E mentre cresce il numero dei potenziali indagati cresce purtroppo anche il numero delle vittime: sugli uffici della Procura e della Mobile continuano ad arrivare segnalazioni e denunce di ragazze che hanno dovuto subire le violenze del branco. Le denunce arrivano da diverse parti d'Italia perchè la sera di San Silvestro erano arrivati a Milano ragazzi e ragazze anche da lontano, convinti di poter festeggiare serenamente il nuovo anno nel cuore di una città sicura. Si sbagliavano.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Andrea Siravo per “la Stampa” il 9 gennaio 2022.
I primi arrivano alle tre del pomeriggio. Si salutano con abbracci e baci sulla guancia. Fumano e chiacchierano in un misto di arabo e italiano mentre in sottofondo le casse portatili sparano ad alto volume musica trap. Sono una cinquantina di ragazzini e ragazzine. I loro volti sono quasi sempre liberi dalla mascherina che portano sotto il mento o al braccio. Alcuni sono nati qui, altri sono arrivati in Italia insieme ai genitori da Egitto, Tunisia e Marocco.
E come ogni sabato pomeriggio arrivano dai quartieri popolari della città e anche da altre province lombarde. «Ci troviamo qui per incontrarci e stare insieme. Io abito a Milano ma i miei amici arrivano da Varese», dice il diciassettenne Youssuf all'uscita della fermata della metro. Ma quello di ieri è un sabato diverso dal solito. «Oggi siamo pochi, di solito c'è molta più gente e mancano i gruppi con i più grandi», racconta Ahmed, sedicenne italiano con i genitori egiziani.
Sono i «ragazzi della Loggia», quelli che tutti i giorni stazionano davanti al McDonald's di piazza dei Mercanti, nel cuore di Milano. Gli occhi di tutta la città sono puntati su di loro dopo le violenze in piazza Duomo durante i festeggiamenti per la notte di San Silvestro. E questo perché nei video divenuti virali con gli abusi alla studentessa universitaria diciannovenne con il giubbotto rosso e alle due ventenni tedesche c'erano anche loro: ragazzi, maggiorenni o poco più, molti dei quali di probabile origine araba ma nati in Italia.
A loro guardano anche i funzionari dell'ordine pubblico che alle cinque mobilitano gli agenti del reparto mobile della questura. Prima liberano la loggia con i giovani sparsi tra le installazioni in ricordo delle vittime della Resistenza e poi li invitano a disperdersi verso piazza Duomo. Un addetto della security e un'inserviente del vicino fast food, dove per tutto il pomeriggio i giovani sono entrati e usciti con panini, patatine e bibite, approvano l'azione.
Non è la prima volta che gli agenti delle squadre di pronto intervento si vedono in quest' area. Già la scorsa primavera intorno alla loggia si erano registrate più episodi violenti come risse con tanto di lancio di sedie dei dehors. Chi resta, quasi a volere sfidare la mossa polizia, e sceglie di parlare, seppur diffidente, dice non sapere nulla su quanto accaduto la notte di Capodanno; «Abbiamo visto i video sui social, ma noi la sera di capodanno eravamo in una casa a Lodi», racconta Ahdam, diciassettenne tunisino, mentre gli altri cinque amici intorno a lui annuiscono.
Delle violenze, finite al centro di un'inchiesta della procura e della squadra mobile di Milano e diventate un caso politico con l'intervento del sindaco Giuseppe Sala e del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, è totalmente all'oscuro Omar, egiziano prossimo ai diciotto anni e arrivato in Italia a inizio 2021 come minore non accompagnato. Sono i suoi «compaesani» come li chiama lui ai piedi del monumento di Vittorio Emanuele II a spiegargli in arabo cosa è successo una settimana fa.
Proprio qui, contro le transenne su cui ora siede, sono state spinte e braccate da un gruppo le due ventenni tedesche al centro di un secondo filmato pubblicato nei giorni scorsi. Mohammed, un suo conoscente, si avvicina e dice di essere stato in Duomo quella sera ma precisa più volte di «non centrare niente» e punta il dito contro i gruppi dei ragazzi più grandi: «Da qualche giorno sono spariti, chissà perché».
Estratto dell'articolo di Ilaria Carra per “la Repubblica” il 14 gennaio 2022.
«Sembrava una rissa come altre, sai quando i ragazzi si danno un po' contro. E così mi sono messa a fare un video. Ma non pensavo in quel momento a cose brutte. Solo dopo ho capito che la ragazza sballottata nel mezzo non era con loro, e che qualcosa non andava». Chiara Corapi ha 19 anni, studia servizi sanitari in Romagna e la notte di Capodanno è venuta a festeggiare in piazza Duomo in compagnia di alcuni amici.
È lei la testimone che a 00,57 schiaccia on sullo schermo e gira il video delle molestie e delle violenze in atto, 46 secondi preziosi per le indagini della Squadra mobile (in particolare per il secondo episodio, all'angolo con via Mazzini davanti al Mc Donald's, ndr), ed è lei che per prima si avvicina e salva una delle vittime dalla presa del branco.
Cosa vedeva mentre girava il video?
«C'era una trentina di ragazzi, dai 15 ai 30 anni più o meno, tante lingue, stranieri e italiani. Si muovevano come un branco, si spingevano. E si palleggiavano soprattutto una ragazza, da una parte all'altra, come fosse un giocattolo. Sembrava esserci come una calamita in mezzo a questa folla, che attirava i ragazzi che si avvicinavano e poi si allontanavano a ripetizione».
Come ha capito che c'era qualcosa di strano e che la calamita era una vittima?
«Perché a un certo punto ho visto una delle ragazze che non aveva più la maglia né il reggiseno. Sono stata attirata dalle sue urla, chiedeva aiuto. Era per terra, aveva solo il giubbino sulle spalle e i pantaloni erano rovesciati giù fino alle caviglie. Era spaventata e urlava».
Cos'ha fatto allora?
«Mi sono buttata in mezzo, ho aperto le braccia, sono alta, ho cercato di spingere via il più possibile la gente intorno, per farle scudo. Ma facevo fatica, sono riuscita ad avvicinarmi quando la folla si è dispersa alla voce dell'arrivo della polizia. Dopo una ventina di secondi difatti sono arrivati i poliziotti e hanno preso la ragazza, l'hanno spostata verso il masso di cemento che impedisce alle auto di entrare nella piazza per farla sedere. E hanno attivato i soccorsi».
Cos'ha provato?
«Lo schifo più totale, sono abituata alle risse, quelle di paese, ma una cosa così è terribile. Non è possibile che un essere umano arrivi a fare questo, in branco, tutti contro una, accerchiata, senza scampo. Non cambio idea su Milano, penso che sarebbe potuto accadere ovunque, ma sono schifata che si possa degenerare così».
M. Ser. per "La Stampa" il 13 gennaio 2022.
Un giubbotto di colore verde scuro, una felpa giallo fluo e un paio di jeans chiari. Li indossava in piazza Duomo Abdelrahman Ahmed Mahmoud Ibrahim, il diciottenne di origini egiziane, da due anni a Milano, che ieri è stato fermato dai poliziotti della Squadra mobile, con l'accusa di aver preso parte alle violente aggressioni della notte di Capodanno.
Ibrahim è stato notato per caso da alcuni agenti mentre passeggiava vicino alla Questura. Subito è stato identificato e accompagnato negli uffici. Nell'appartamento in cui vive, sembrerebbe col padre e con altri connazionali, vicino a via Imbonati, nella zona nord di Milano, non era stato trovato.
C'erano i suoi vestiti, riconosciuti dalle ragazze sentite dagli investigatori diretti da Marco Calì. Ibrahim è arrivato in Italia nell'agosto del 2019 per raggiungere il padre ed è in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno.
Nei mesi scorsi, per un controllo di routine, era già stato identificato in piazza Duomo. Il suo avvocato, Jacopo Viola, che ieri lo ha difeso nel corso dell'interrogatorio davanti al gip Raffaella Mascarino, dice che «lavora come manovale nell'edilizia».
I magistrati lo hanno fermato perché c'è il rischio che scappi via: «non ha fornito l'indirizzo di casa e si è presentato sprovvisto dei documenti». Per di più, «è pienamente a conoscenza delle indagini contro di lui».
Ma anche perché potrebbe rifarlo, potrebbe violentare altre ragazze. Non c'è dubbio, per i magistrati, che abbia partecipato alle «aggressioni sfociate in violenze sessuali di gruppo» in cui il branco «ha agito con la consapevolezza di poter approfittare dei festeggiamenti per il Capodanno per garantirsi l'impunità».
E ancora: «La particolare efferatezza e brutalità delle condotte paiono sufficienti per ritenere che Ibrahim se non soggetto a misura restrittiva, potrebbe compiere altri gravi delitti della stessa indole, approfittando nuovamente della forza intimidatrice del branco».
Peraltro, secondo gli investigatori, «la spiccata pericolosità dell'indagato emerge anche dal fatto a pochi minuti di distanza, si è reso responsabile di due diversi episodi di violenza». Quello vicino alla Loggia dei Mercanti e l'altro, in galleria Vittorio Emanuele.
In quest'ultimo caso - ricostruiscono gli inquirenti - era stato lui ad avvicinare le vittime per primo. E, «davanti al rifiuto delle ragazze, ha incitato un gruppo di uomini, ad accerchiarle e ad aggredirle».
C'è infine il rischio, per i pm, che con gli amici Ibrahim possa ora «intimidire le persone offese e costringerle a ritirare le accuse». Il diciottenne ha negato tutto: «È vero ero in piazza per festeggiare con gli amici. Ho visto la ressa, una ragazza che sputava in faccia a uno, ma io non l'ho toccata», avrebbe spiegato al giudice che ora dovrà decidere se convalidare il suo fermo. Nel frattempo il difensore ha chiesto che venga fatto uscire dal carcere di San Vittore, per tornare a casa, ai domiciliari.
Monica Serra per "la Stampa" il 13 gennaio 2022.
«Quando sono arrivate le forze dell'ordine con scudi e manganelli, la massa di aggressori si è dileguata. Barbara era lì che cercava di coprirsi con il giubbino stretto sul petto. Non aveva più i vestiti addosso. Era nuda, rannicchiata per terra, piena di lividi, i pantaloni abbassati alle caviglie. È stata soccorsa da un operatore che l'ha aiutata a rialzarsi». Barbara (nome di fantasia), 19 anni, è una delle nove vittime del branco che, la notte di Capodanno, ha seminato il panico in piazza Duomo.
«Posso dire che tutto intorno era uno schifo, c'erano molti ragazzi e chiunque passasse si prendeva la libertà di mettere le mani addosso. Io e Barbara abbiamo chiesto di essere lasciate in pace, ci siamo dirette dai nostri amici per cercare protezione e aiuto. Infatti, una volta raggiunti anche loro sono intervenuti per allontanare i ragazzi molesti che continuavano a trattenerci per le spalle, come per accompagnarci contro il nostro volere».
Non è servito, non è bastato. Perché il branco - quaranta, cinquanta ragazzi tra i 16 e i 25 anni - le «toccavano ovunque sul corpo, spintonandole e passandole da uno all'altro», si legge nel provvedimento con cui ieri sono stati fermati due dei presunti aggressori accusati a vario titolo di violenza sessuale di gruppo, rapina e lesioni: Abdallah Bouguedra, 21 anni, che vive a Torino e Abdelrahman Ahmed Mahmoud Ibrahim, 18 anni, da due a Milano. Il primo è accusato della pesantissima aggressione vicino alla Loggia dei Mercanti, nei confronti di Barbara e della sua amica.
Il secondo anche di quella vicino alla galleria Vittorio Emanuele, ai danni di quattro ragazze palpeggiate, strattonate, spinte a terra, derubate. I due indagati - scrivono l'aggiunto Letizia Mannella e il pm Alessia Menegazzo - hanno aggredito le giovani vittime «utilizzandole a proprio piacimento e per soddisfare le proprie pulsioni, in spregio a ogni forma di rispetto della persona». Barbara e la sua amica avevano raggiunto piazza Duomo per festeggiare con alcuni conoscenti la mezzanotte. Mancavano dieci minuti all'una quando insieme si sono staccate dal gruppo per cercare un bagno. Il primo ad avvicinarle sarebbe stato Bouguedra. Ha puntato Barbara. Voleva a tutti i costi il suo numero di cellulare. «Col braccio le cingeva le spalle, insisteva».
Alla fine la diciannovenne, nella speranza di levarselo di torno, gli ha dato il suo contatto Instagram. E proprio grazie al social, la polizia è riuscita poi a risalire all'identità dell'aggressore.
Le ragazze hanno avuto paura, si sono dirette verso gli amici che intanto avevano notato qualcosa di strano e si stavano avvicinando. Non hanno fatto in tempo. Presto le due vittime sono state assalite dal branco, che continuava a spingerle, a toccarle. Hanno provato a restare vicine, a proteggersi l'un l'altra, ma non ci sono riuscite. Una di loro è stata soccorsa da un'amica che è riuscita a spingerla fuori dalla «massa di uomini».
Barbara, no. È stata trascinata via, si è persa al centro del gruppo di ragazzi che la stava violentando. Racconta l'amica: «Ho urlato, provavo a cercarla, sono salita su un muretto per individuarla ma l'ho persa di vista». Anche una passante, che col suo cellulare ha filmato tutto, ha provato a farsi spazio nella folla, ad aiutarla. Ma non è riuscita a raggiungerla fino all'arrivo della polizia.
E così altri due amici che sono stati «sopraffatti da un numeroso gruppo composto da trenta, quaranta ragazzi» mentre altri cinque erano riusciti ad afferrare Barbara, a portarla via. L'hanno sollevata da terra tenendola per le braccia e le gambe. Le hanno strappato i vestiti di dosso. Le hanno messo le mani ovunque, mentre lei piangeva e si disperava e gli amici assistevano impotenti. Uno di loro si è anche rotto un dito per provare a difenderla. Un altro è corso a chiamare la polizia per provare a chiedere aiuto. E all'arrivo degli agenti il gruppo di aggressori si è dileguato lasciando la diciannovenne a terra, in lacrime. «Non sapevamo come aiutarla. L'abbiamo coperta con un cappotto fino all'arrivo dei soccorsi».
È finita alla Mangiagalli con lividi, graffi, tumefazioni su tutto il corpo. Poco prima che Barbara finisse a terra, a mezzanotte e mezza, un centinaio di metri più in là, vicino alla galleria Vittorio Emanuele, altre quattro ragazze erano state accerchiate. Tra i primi ad avvicinarle questa volta c'era Ibrahim, il 18enne fermato a Milano. Ha insistito, ci ha provato, poi è andato a chiamare il resto del branco. Il modus operandi era sempre lo stesso.
Le ragazze sono state spinte, strattonate, derubate una del cellulare, un'altra della borsetta. Toccate, palpeggiate. «La violenza era tale - scrivono i pm - che si sono ritrovate per terra con i collant strappati, la gonna sollevata. Due di loro sono riuscite a divincolarsi dalla ressa. Le altre due sono finite sull'asfalto. «La mia amica urlava, io ero pietrificata dalla paura e non riuscivo a dire nulla». E ancora, racconta la vittima: «Avevo il terrore di essere calpestata» mentre il branco continuava a toccarla. Lei, distesa, piangeva, si dimenava, chiedeva aiuto.
Massimiliano Peggio per "La Stampa" il 13 gennaio 2022.
Muscoli e selfie. Abdallah Bouguedra, 21 anni, la notte di Capodanno ha scelto di stare dalla parte degli stupratori, mettendosi spontaneamente a capo di un branco improvvisato. Dopo aver sollevato come un bilanciere da palestra una delle ragazze inseguite e acciuffate tra la folla di piazza Duomo, aver partecipato a spogliarla urlando in un misto di esaltazione e follia, ha picchiato un diciottenne che aveva cercato di fermare da solo quella ferocia collettiva, cercando di difendere la giovane, sua amica.
Non conta nulla che tutt'e due siano nati in Italia da genitori di origini nordafricane. E che tutt'e due siano cresciuti in palazzi di periferia. Quella sera hanno scelto da che parte stare. Il primo andando a caccia di un trofeo di violenza, il secondo rimediando la frattura di un dito e scegliendo il coraggio dell'umanità.
«Abdallah ha l'aria del bravo ragazzo, non può essere stato lui a fare quelle cose. Non è possibile, vi sbagliate» commenta l'amico commerciante che gestisce un kebab a due passi da casa sua.
Eppure l'altra mattina gli investigatori della Squadra Mobile sono venuta qui, si sono presentati all'alba con un decreto di perquisizione e il preciso obiettivo di rovistare nel suo armadio.
Alla ricerca di un giubbotto rosso «Blauer» e un paio di jeans strappati «DSquared2». E li hanno trovati. Gli indumenti trovati sono identici a quelli filmati in piazza e descritti dalle vittime.
Abdallah, raccontano per lui le fotografie che pubblica sui social, ama le boutique del centro e i negozi degli outlet. Magliette glamour, bei vestiti. E ne sfoggia parecchi. «È un bel ragazzo e sa di esserlo. Ma ha una bella famiglia alle spalle» dice un amica.
Il 12 settembre dello scorso anno si è scattato una foto in giacca e cravatta di fronte al Duomo di Milano. Ha tre sorelle e un fratellino piccolo. Pochi giorni fa Abdallah era nel cortile del suo palazzo a registrare un buffo video su Tik Tok. Mostra il suo ciuffo ribelle e i capelli biondi tinti, barbetta incolta.
Nel 2019 ha dato la maturità. C'è un breve video di quell'anno. Fa le flessioni in classe: le mani sul banco e i piedi incollati alla parete, mentre una compagna fa finta di sorreggerlo e un altro lo stuzzica colpendolo con un piede.
Dopo il diploma ha fatto un anno di Università, senza troppa convinzione poi si è preso una pausa. «Ora sta facendo lavoretti saltuari, di recente anche a Milano». Nel suo profilo Instagram ha quasi mille follower. Un viaggio in treno, al tavolo di un bar per un aperitivo, in camicia con una birra in mano. Ma soprattutto c'è la sua passione per il fisico.
Lui in palestra. Lui di fronte allo specchio che si scatta un selfie. Lui che mostra i bicipiti. Lui che solleva i pesi e gioca sulle sue origini: «50 sbavature di marocchino». Anche quelle immagini sono servite alla polizia per rintracciarlo. Frequenta la palestra Mcfit alle spalle di Porta Palazzo.
«Troppo spesso bro» scrive un suo fan. «Talmente enormi da non stare nella foto» commenta Abdallah mostrandosi con un amico di palestra. In un altra pagina, ancora immagini di muscoli. «Innamorato di me e me narciso» dice la canzone Ca$hmere di Marracash e Gue, postata con una delle sue storie.
Ma ci sono anche cuori e dediche. Per la mamma: «La prima a credere in me prima ancora di me stesso». Come può essere lo stesso ragazzo? «Andate via altrimenti chiamiamo i carabinieri» dicono al citofono di casa, per allontanare i giornalisti.
Abdallah è partito da qui per raggiungere Milano, la notte di Capodanno. Da un palazzo grigio, isolato, che nemmeno il parco attorno riesce a renderlo bello. Estrema periferia Nord, quartiere Barca, si trova persino più a Nord di Barriera di Milano, il quartiere di Torino che si è conquistato suo malgrado l'accostamento alle banlieue.
Quella notte ha pubblicato una foto scattata in Galleria Vittorio Emanuele, di fronte all'albero di Natale gigante. Indossava il giubbotto rosso e jeans strappati. La firma della sua violenza.
Massimo Massenzio per corriere.it il 13 gennaio 2022.
Prima dell’aggressione alle due 19enni in piazza Duomo a Milano nella notte di Capodanno Abdallah B., 21enne di Torino, aveva chiesto e ottenuto il contatto Instagram di una delle due vittime.
Proprio grazie alle fotografie e alle storie contenute nel suo profilo gli investigatori della squadra Mobile sono riusciti a identificarlo e, dopo aver trovato nella sua casa nel quartiere Barca, il giubbotto rosso e i jeans strappati indossati la notte di Capodanno, è scattato il provvedimento di fermo emesso dalla Procura di Milano.
Assieme a lui è stato fermato anche un 18enne di origini egiziane, residente a Milano, mentre altri 16 ragazzi, italiani e stranieri, sono indagati. Abdallah - o «Abdul» come lo chiamano gli amici – è nato a Torino da genitori marocchini.
È il quarto di cinque fratelli e fa parte di una famiglia perfettamente integrata. Nessuno dei suoi parenti, fra cui ci sono stimati professionisti, si sarebbe mai immaginato un suo coinvolgimento nelle rapine e nelle aggressioni a sfondo sessuale di piazza Duomo. Il giovane è accusato di concorso in violenza sessuale di gruppo, rapina e lesioni aggravate.
Le vittime e diversi testimoni lo hanno riconosciuto e una delle vittime lo ha descritto agli inquirenti come «il ragazzo che teneva le braccia intorno alle mie spalle, che ha detto essere di Torino, capelli biondo tinto corti col ciuffo, indossava qualcosa di rosso ma non ricordo se la felpa o pantaloni. Ricordo bene il suo volto saprei riconoscerlo se lo rivedessi. Ho notato la sua presenza nel gruppo che ci ha aggredite ma non so dire che ruolo abbia avuto».
Nel passato di Abdallah c’è solo una denuncia dell’estate 2020 per disturbo del riposo o delle occupazioni delle persone. Secondo i residenti della zona è un ragazzo tranquillo, tutto casa e muscoli, che allena in una palestra del quartiere Aurora.
In base alle prime ricostruzioni non è chiaro se Abdallah abbia compiuto materialmente i terribili atti di violenza contro le due ragazze, una delle quali è stata sollevata da terra da un gruppo di 40 e 50 ragazzi, denudata e palpeggiata in tutto il corpo e nelle parti intime fino ad essere violentata. Secondo la Procura, comunque, «ha dimostrato una chiara e consapevole adesione al progetto criminoso del gruppo di uomini che ha assalito» le due vittime «inserendosi inequivocabilmente quale compartecipe attivo della condotta di violenza sessuale di gruppo».
Un soggetto che il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il pm Alessia Menegazzo hanno definito «di spiccata pericolosità» e la sua presenza fra le 40 o 50 persone che hanno accerchiato le vittime, «ha senz’altro contribuito a rafforzare gli intenti delittuosi». Alla base del provvedimento di fermo, secondo gli inquirenti, ci sarebbero oltre ai gravi indizi di colpevolezza anche il pericolo di fuga e di reiterazione del reato: «Se lasciato in libertà, potrebbe compiere altri delitti della stessa indole, anche sfruttando la forza di intimidazione del violento gruppo di cui fa parte».
Dalla palestra alle violenze in Duomo: chi sono Abdallah e Ibrahim. Francesca Galici il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Hanno 21 e 18 anni, provengono entrambi dalle periferie e vengono definiti "bravi ragazzi" da amici e conoscenti, ma gli inquirenti dicono altro.
Le forze dell'ordine hanno svolto un lavoro complesso e certosino per individuare gli aggressori di piazza del Duomo della notte di capodanno. Il branco, composto in prevalenza da ragazzi stranieri e di seconda generazione, ha agito compatto per molestare le 9 ragazze finora individuate, che hanno denunciato o che sono state individuate tramite le telecamere di sicurezza. Prima sono state avvicinate da uno del branco, che con qualche scusa le ha importunate. Poi, improvvisamente, sono state travolte da un'orda di persone, spintonate, immobilizzate, passate da un ragazzo all'altro, buttate a terra, spogliate, palpeggiate ovunque, graffiate e pure rapinate. Questa è la dinamica ricostruita dagli inquirenti per almeno 6 delle 9 vittime. Per le aggressioni di capodanno due ragazzi sono già finiti in carcere.
Si tratta del 21enne Abdallah Bouguedra e del 18enne Mahmoud Ibrahim, provenienti entrambi dalle periferie. Pare che non abbiano mai avuto contatti prima di quella maledetta notte di capodanno e che si siano incrociati casualmente nei pressi della piazza durante i festeggiamenti per il capodanno. Entrambi, ora, si dicono innocenti.
Chi è Abdallah Bouguedra
Abdallah Bouguedra è nato a Torino da genitori marocchini, che ora lo difendono e lo definiscono un "bravo ragazzo". Ma le immagini amatoriali e delle videocamere di sorveglianza della zona del Duomo direbbero altro. Avrebbe afferrato una delle due ragazze tedesche, dopo che il branco le aveva inseguite e accerchiate, e avrebbe partecipato alla sua denudazione. Non pago, avrebbe anche picchiato un giovane, anche lui nordafricano, che stoicamente si era intromesso per difendere quelle due ragazze. Lo difende chi lo conosce da tempo, lo difendono i parenti e gli amici. Ma la polizia che qualche mattina fa ha effettuato la perquisizione nella sua casa è andata a colpo sicuro: cercava un giubbotto rosso e un paio di jeans strappati. E li ha trovati.
Fondamentali le testimonianze di chi era in quel momento in piazza, le immagini delle videocamere di sicurezza ma anche i social, dove Abdallah Bouguedra non lesina foto e commenti. Si mostra spesso impegnato nel suo passatempo preferito, l'allenamento in palestra. Quasi un'ossessione per lui quella del fisico perfetto, scolpito e muscoloso. Sui social fa sfoggio dei bicipiti, si fotografa davanti allo specchio in pose plastiche per mettere in evidenza il corpo tornito. Una passione forte quasi quanto quella per gli abiti di marca e le boutique di lusso, che amava frequentare prima di rientrare nella sua casa della periferia torinese.
Chi è Mahmoud Ibrahim
Voleva festeggiare il capodanno a Milano ed è partito da quartiere Barra di Torino, estrema periferia settentrionale della città caratterizzata dai palazzoni popolari, che Abdallah Bouguedra è partito per raggiungere il Duomo. Qui avrebbe incontrato per la prima volta Mahmoud Ibrahim che, invece, a Milano ci vive. In diversi frame dei filmati di videosorveglianza sono vicini. Mahmoud Ibrahim indossa una giacca invernale dalla quale spunta un cappuccio verde fluorescente e anche quest abiti sono stati ritrovati dalla polizia durante la perquisizione nella sua abituazione nella periferia di Milano. Secondo l'accusa, lui avrebbe partecipato anche a una seconda aggressione, avvenuta circa mezz'ora prima nei pressi della Galleria con le stesse modalità. Lui non è nato in Italia, è arrivato qui da solo due anni fa dall'Egitto. Il padre, presso l'abitazione del quale è stato rintracciato, si dice sicuro della sua innocenza. Ma le ricostruzioni degli inquirenti, al momento, dicono ben altro.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
"Donna è colei che ti ama col cuore": chi è uno degli aggressori di Milano. Francesca Galici il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Si fotografa in palestra, mostra i muscoli e sui social pubblica frasi romantiche di cantanti: chi è Abdallah Bouguedra, fermato per le molestie in Duomo.
Abdallah Bouguedra è uno dei due giovani arrestati dalla polizia per le molestie di piazza del Duomo a Milano nella notte di capodanno. Ha 21 anni e vive nel quartiere Barca di Torino, estrema periferia nord della metropoli sabauda. Dista ancora di più dal centro rispetto al quartiere Barriera di Milano, considerato la banlieue di Torino. Da queste parti i palazzoni grigi popolari si stagliano all'orizzonte senza soluzione di continuità. È qui che vive Abdallah Bouguedra, nato a Torino e figlio di genitori marocchini.
Nella sua zona viene descritto come un "bravo ragazzo" appassionato, a tratti ossessionato, dalla forma fisica e dagli allenamenti, che pratica con costanza in una palestra di un quartiere vicino. Scorrendo i suoi social non è difficile trovare foto che lo ritraggono in pose da duro, mentre fa sfoggio del fisico allenato e temprato dalle ore di training. Si piace e mostra una spiccata vanità nelle pose plastiche delle fotografie che condivide su Instagram. Ma è proprio tramite le istantanee che ha condiviso sui suoi profili social che la polizia è riuscito a rintracciarlo, individuando l'indumento rosso descritto dalle vittime e i jeans strappati indossati durante le aggressioni di piazza del Duomo.
Abdallah mostra i muscoli su Instagram ma condivide anche frasi di canzoni romantiche. Scrive che la donna è "colei che aspetta la sera il tuo messaggio, e se non arriva si preoccupa per te, che ti ama con il cuore" e condivide video in cui viene ripreso mentre esegue esercizi di culturismo per potenziare la massa muscolare. Le foto in palestra sono alternate a quelle in città, a Torino e a Milano, in cui posa quasi come se fosse un consumato modello. Nulla di diversi rispetto ai suoi coetanei, come loro anche lui ama i capi firmati con il brand in vista e si fa fotografare con gli occhiali da sole, in posa plastica per mettere in risalto il fisico, con i capelli scuri col ciuffo tinti di biondo. Come riporta il sito Primatorino.it, il giovane avrebbe chiesto il contatto Instagram di una delle vittime di piazza del Duomo.
Nel frattempo la polizia sta continuano ad acquisire informazioni su quei minuti concitati delle aggressioni, sia tramite le testimonianze, sia tramite i video delle telecamere di sorveglianza che tramite quelli amatoriali che le forze dell'ordine sta analizzando. In uno pubblicato dal sito de laRepubblica.it si vede l'aggressione da un altro punto di vista. Si sentono urla di ragazze in sottofondo che gridano "basta", rumore di vetri rotti e qualcuno che grida "no, no, no", mentre qualcun altro dice "lascia stare la ragazza", il tutto mischiato a frasi in una lingua straniera.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
L’INCHIESTA SULLE AGGRESSIONI. Cosa è successo a Milano la notte di Capodanno. Il Domani il 12 gennaio 2022.
Almeno nove ragazze sono state aggredite e molestate da diversi gruppi di ragazzi in tre diversi momenti. La polizia sta lavorando per identificare tutti gli aggressori: per ora ci sono 12 indagati e due fermati
Proseguono le indagini sulle aggressioni e le molestie sessuali avvenute la notte di Capodanno a Milano nei confronti di almeno nove ragazze. Mercoledì mattina la procura di Milano ha disposto il fermo per due persone che, secondo il procuratore milanese facente funzione Riccardo Targetti, avrebbero compiuto «pesanti violenze sessuali, quasi complete, accompagnate da rapine di cellulari e borsette».
COSA È SUCCESSO LA SERA DEL 31 DICEMBRE
La sera di Capodanno a Milano almeno nove ragazze sono state aggredite in piazza Duomo poco dopo la mezzanotte, da diversi gruppi di ragazzi che hanno iniziato ad accerchiarle e molestarle. Prima un gruppo di cinque amiche, poi una studentessa di 19 anni assieme a un’amica, infine due ragazze tedesche.
Le ragazze venivano circondate e strattonate, poi trascinate nella calca, dove subivano violenze senza che il resto della piazza potesse rendersi conto di cosa stava succedendo. Alcune sono state derubate, tutte molestate, ad alcune sono stati strappati o tolti i vestiti, e molte presentavano escoriazioni o lesioni al termine dell’aggressione.
La polizia sta lavorando per ricostruire la dinamica delle aggressioni, ma per ora sembra che non ci fosse un disegno premeditato concordato dai diversi gruppi di ragazzi che hanno compiuto le violenze.
LE TESTIMONIANZE E LE DENUNCE
Tutte le ragazze che hanno testimoniato negli scorsi giorni hanno parlato di esperienze simili: «era uno schifo», «non so dire quante mani avessi addosso», «urlavo, colpivo, e loro ridevano».
La prima a denunciare è stata la studentessa di 19 anni, salvata dall’intervento degli agenti in tenuta anti sommossa che hanno disperso gli aggressori.
«Siamo state travolte da 40, 50 ragazzi – ha raccontato l’amica che era con lei – ci hanno toccate, ci spingevano e ci passavano da un ragazzo all’altro». Un terzo amico si è rotto un dito nel tentativo di difenderle, riuscendo a tirare fuori dalla calca solo una delle due. L’altra è stata sollevata da terra e portata all’interno dell’enorme gruppo di ragazzi.
«Ho urlato cercando la mia amica – ha spiegato l’altra giovane – sono salita su un muretto per individuarla ma l’ho persa di vista». Quando sono arrivate le forze dell’ordine, ha detto, lei «era lì che cercava di coprirsi con il giubbino, non aveva più indumenti addosso. Era rannicchiata per terra piena di lividi, i pantaloni abbassati alle caviglie».
Hanno denunciato – a Mannheim, in Germania – anche le due ragazze tedesche che un video mostra in preda al panico mentre la folla di aggressori le pressa sulle transenne della piazza.
«Vedevano che piangevo, li supplicavo di fermarsi ma non si fermavano, ridevano –ha raccontato una di loro –. Ho pensato “mio Dio stanno per stuprarmi”».
«Non riesco ancora a dormire – ha spiegato l’amica –. Mi sveglio nel mezzo della notte tremando. È successo così in fretta... All’improvviso c’erano decine di persone addosso a noi e non capivo chi stesse facendo che cosa. Volevamo scappare, ma c’era troppa gente. A un certo punto ho sentito mani dappertutto, anche dentro il reggiseno che mi è stato praticamente strappato».
GLI INDAGATI E I PERQUISITI
Per ora la polizia ha identificato 18 giovani come presunti autori delle molestie, residenti tra Milano e Torino. Due sono ospiti di una comunità per minorenni, nove residenti a Torino in zona Barriera di Milano, uno a Rozzano e uno nella Bergamasca. Sono ragazzi tra i 15 e i 21 anni, 15 maggiorenni e tre minorenni, tutti di origine straniera.
Sono stati rintracciati attraverso software di riconoscimento facciale, incrociando video delle telecamere di sicurezza e immagini postate sui social con il database della polizia che cataloga chi ha precedenti penali.
Nella mattina di martedì la squadra mobile ha perquisito tutti i 18 ragazzi, indagandone 12. I reati contestati loro sono violenza sessuale di gruppo, rapina e lesioni aggravate. Per quanto riguarda i due giovani fermati mercoledì mattina, uno a Milano e uno a Torino, hanno rispettivamente 21 e 18 anni.
Il primo, Abdallah Bouguedra, è nato a Torino, mentre il secondo, Mahmoud Ibrahim, è nato in Egitto e vive a Milano col padre. I due sarebbero coinvolti in almeno due aggressioni.
Sono stati riconosciuti nei video raccolti dalla polizia grazie agli indumenti che indossavano: Ibrahim aveva un giubbotto verde e la felpa con il cappuccio giallo, mentre Bouguedra ha i capelli tinti di biondo e portava un giubbotto rosso.
Secondo la procura, i due giovani hanno agito ingannando le vittime, attirandole con la scusa di fare apprezzamenti non richiesti o di chiedere loro un contatto, e poi le hanno aggredite. Ora si trovano entrambi in carcere, uno a San Vittore e uno a Torino, ma entrambi si proclamano innocenti. I genitori li definiscono come dei «bravi ragazzi».
Mentre proseguono le indagini, il comune di Milano ha annunciato che si costituirà parte civile in un eventuale processo. Inoltre, il sindaco Beppe Sala ha chiesto scusa alle ragazze a nome della città.
«Porterò in giunta nei prossimi giorni una delibera per assumere 500 vigili. Serve più gente sul territorio», ha detto Sala. «La tecnologia che abbiamo ci ha aiutato a individuare i colpevoli, ma serve qualcosa che al momento, non retroattivamente, faccia in modo che certi episodi non avvengano più».
(ANSA il 14 gennaio 2022) - Deve rimanere in carcere Mahmoud Ibrahim, il 18enne fermato due giorni fa, assieme ad un 21enne torinese, nell'inchiesta milanese sulle aggressioni sessuali in piazza del Duomo nella notte di Capodanno.
Lo ha deciso il gip di Milano Raffaella Mascarino che ha convalidato il fermo e disposto la misura cautelare per il giovane accusato di violenza sessuale di gruppo, rapina e lesioni nelle indagini della Squadra mobile, coordinate dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo.
Da quanto si è saputo, il gip ha disposto il carcere, convalidando anche il fermo, per il 18enne per l'episodio di violenza sessuale di gruppo su quattro ragazze vicino alla Galleria Vittorio Emanuele II, mentre non ha riconosciuto i gravi indizi a suo carico per il caso, che veniva sempre a lui contestato dalla Procura in concorso anche con il 21enne torinese, dell'aggressione a due vittime all'angolo con via Mazzini.
Quest'ultimo episodio era quello il cui video, realizzato da una testimone, era circolato sul web nei giorni scorsi e diventato virale.
(ANSA il 14 gennaio 2022) - Mahmoud Ibrahim ha dimostrato "una chiara e consapevole adesione al progetto criminoso del gruppo di uomini che ha assalito" le vittime "con una carica di violenza così brutale che solo grazie all'intervento fortuito di alcuni soccorritori non è sfociato in conseguenze ulteriori e più gravi".
Lo scrive il gip Mascarino nell'ordinanza di custodia in carcere per il 18enne fermato due giorni fa nell'inchiesta sulle aggressioni di Capodanno a Milano. Per il giudice il giovane, che ha una "spiccata pericolosità", ha agito "con modalità da 'branco'" per soddisfare "le proprie pulsioni, in spregio a ogni forma di rispetto della persona".
Il gip contestata a Ibrahim "il pericolo di reiterazione del reato", perché "sono stati raccolti gravi indizi di colpevolezza circa la aggressione violenta nei confronti di giovani ragazze, sfociata in violenza sessuale di gruppo in cui" il branco ha "agito con la consapevolezza di poter approfittare dei festeggiamenti per il Capodanno per garantirsi l'impunità".
La presenza "di Ibrahim - si legge - unitamente a quella degli altri componenti del gruppo di 40/50 persone che ha accerchiato le persone offese, ha senz'altro contribuito non solo a rafforzare gli intenti delittuosi dei concorrenti e ad agevolarne la condotta aggressiva, ma anche ad intimidire le giovani ragazze e, in particolare, a vanificare i tentativi di difesa e di respingimento posti in essere dalle stesse". Il 18enne ha dimostrato "pervicacia" nelle violenze.
La "mancanza di consapevolezza della gravità di quanto compiuto, dimostrata dal fatto di aver agito in un luogo pubblico, gremito di folla e confermata nel corso dell'interrogatorio - si legge ancora - è indice di spiccata pericolosità del soggetto, che, se lasciato in libertà, potrebbe compiere altri delitti della stessa indole, anche sfruttando la forza di intimidazione del violento gruppo di cui fa parte, o anche approfittando di singole situazioni concrete in cui mischiarsi ad altri assalitori per dare libero sfogo ai propri istinti violenti ed alle proprie pulsioni sessuali".
Le vittime sono state da lui e gli altri usate "a proprio piacimento". C'è anche "il pericolo che" il giovane "possa fattivamente 'inquinare' le fonti di prova, ostacolare il normale corso delle indagini e il successivo svolgimento dell'iter processuale, potendo il medesimo se lasciato in libertà, concordare con gli altri partecipi alle violenze delle versioni di comodo da fornire agli inquirenti idonee a depistare le indagini". E sussiste "il concreto pericolo di fuga".
(ANSA il 14 gennaio 2022) - Si è avvalso della facoltà di non rispondere Abdallah Bouguedra, il 21enne di Torino fermato dalla polizia nel quadro delle indagini sulle aggressioni in piazza del Duomo a Milano durante i festeggiamenti del Capodanno.
L'udienza di convalida è stata svolta stamattina nel palazzo di giustizia del capoluogo piemontese dal gip Lucia Minutella. Il giovane era in collegamento dal carcere di Ivrea. Gli avvocati difensori Stefano Comellini e Giorgio Papotti, senza entrare nel merito delle accuse, hanno chiesto di non convalidare il fermo affermando che non sussiste il pericolo di fuga e nemmeno quello di inquinamento delle prove.
La procura di Torino ha chiesto l'emissione di un ordine di custodia cautelare in carcere: in caso di accoglimento la difesa ha proposto gli arresti domiciliari.
(ANSA il 14 gennaio 2022) - "Siamo state (...) travolte da quest'orda. Venivamo spinte da dietro, e sbattevamo contro quelli davanti che ci respingevano. Siamo così cascate, e mi sono ritrovata per terra, senza riuscire a rialzarmi e sentendomi soffocare, ho iniziato a pensare di morire. Ero atterrita dalla paura, mentre la mia amica strillava. Io non riuscivo, ero stravolta dalla situazione e mi mancava il fiato".
Lo ha messo a verbale, come si legge nell'ordinanza a carico del 18enne fermato per le violenze sessuali di Capodanno a Milano, una delle quattro ragazze aggredite nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele II.
Nell'ordinanza di 19 pagine del gip vengono riportati i verbali delle ragazze, in parte già emersi, e nei quali viene ricostruita anche la modalità con cui il branco selezionava, agganciava, circondava e violentava le giovani.
"Tra la fermata della metro e l'albero di Natale - ha raccontato una delle vittime - un ragazzo nordafricano ha iniziato a importunare" una delle quattro amiche nei pressi della Galleria vicino al Duomo.
"Le si parava spesso davanti, cercando di impedirle di camminare - ha spiegato -. Era basso, capelli scuri probabilmente ricci, di carnagione mulatta, con un giacchetto verde, l'età era presumibilmente compresa tra i 20 e i 25 anni".
La ragazza "gli ha risposto a tono, allo scopo di allontanarlo. In quel momento il ragazzo era solo, tant'è che ho avuto la sensazione che, una volta che la mia amica lo aveva allontanato, fosse andato a chiamare i suoi amici".
Poco dopo, ha aggiunto la giovane, "siamo state aggredite da un'orda di persone (...) All'improvviso, ho sentito questa folla di persone: specifico che intendo dire che ho iniziato a sentire molte mani che mi toccavano (...) Presto siamo state accerchiate, e ci siamo trovate attorniate da persone nordafricane. In particolare, mi sentivo toccare da quelli dietro di me, mentre altri, posizionati davanti a me, mi davano le spalle e urlavano".
Violenze di Capodanno a Milano, altre due denunce: «Ero a terra, soffocavo. Pensavo di morire». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.
Decisivi video e testimonianze delle ragazze aggredite in piazza Duomo a Milano. Le vittime salite a undici, cinque gli abusi: «Circondata da 40-50 persone, mi hanno strappato i vestiti». Esposti da Genova e Vicenza. A breve gli inquirenti potrebbero chiudere il cerchio intorno ad altri presunti violentatori.
Come il trofeo di una oscena battuta di caccia da esibire, per lunghi, interminabili momenti il branco di piazza Duomo ha innalzato in aria il corpo seminudo della preda in un trionfo di sopraffazione e violenza mentre intorno una folla distratta festeggiava il nuovo anno incurante delle limitazioni anti Covid. «Cercavo di allontanare la gente che mi tratteneva, ma la presa era troppo forte», racconta la 19enne lombarda agli inquirenti in un drammatico verbale depositato agli atti dell’inchiesta che ha portato all’arresto per violenza sessuale di gruppo, lesioni e rapina di un 18enne egiziano che vive a Milano e di un 21enne di Torino originario del Marocco.
(qui l’intervista al questore Giuseppe Petronzi: «Vittime avvolte in una nuvola. Cambieremo la gestione della piazza», qui i verbali delle ragazze: «Orda in piazza Duomo, un incubo»).
Undici le vittime del branco
A dieci giorni dalla violenza, la giovane donna è ancora scossa quando testimonia di fronte al pm Alessia Menegazzo, all’aggiunto Letizia Mannella e al capo della mobile della polizia Marco Calì. Intanto, salgano a undici le vittime e a cinque gli abusi: nelle ultime ore altre due ragazze — una di Genova e l’altra di Vicenza — hanno presentato denuncia. Dopo la ventina di giovani già identificati (tra cui i due arrestati e tre minorenni), a breve gli inquirenti potrebbero chiudere il cerchio intorno ad altri presunti violentatori. La ragazza si trova sul lato della piazza di fronte al Duomo. Nella calca qualcuno allunga pesantemente le mani, poi una massa di «40/50 persone», quasi tutti nordafricani, la circonda. «Gente che mi tirava per le braccia e per le gambe», le mani degli assalitori che le strappano i vestiti lasciandola seminuda «mentre ero sollevata in aria, distesa a pancia in su. Cercavo di allontanare da me la gente che mi tratteneva, ma la presa era troppo forte». E poi: «Mi sono trovata per terra, senza niente addosso», aggiunge ricordando che un poliziotto immediatamente la soccorre chiamato dall’amica che l’aveva accompagnata e che ora la copre con un giubbino.
Abdallah e Abdelrahman
Per gli inquirenti nel gruppo di aggressori c’era Abdallah Bouguedra, il giovane originario del Marocco individuato attraverso le immagini delle telecamere di sorveglianza, i video girati nella piazza e le testimonianze che hanno permesso di identificarlo anche dai vestiti che indossava e che sono stati trovati nella casa in cui vive con i genitori. Ieri il gip di Torino Lucia Minutella, pur non convalidando il fermo, ha emesso nei suoi confronti una misura cautelare in carcere per la gravità degli indizi. Convalidato invece a Milano dal gip Raffaella Mascarino il fermo dell’egiziano Abdelrahman Ibrahim accusato della prima violenza e di quella subita da altre quattro ragazze, anche loro assaltate in gruppo.
«Pensavo di morire»
Se per il primo episodio il giudice non ritiene ci siano elementi sufficienti sulla sua partecipazione — «Non ho mai fatto cose del genere (...). Non ho toccato le ragazze, sono bravo», ha detto nell’interrogatorio — gli elementi raccolti dalla polizia «convergono pesantemente nell’identificare» il giovane come uno dei principali responsabili delle violenze. Se lasciato libero, scrive il gip, potrebbe anche fuggire, inquinare le prove o ripetere aggressioni dello stesso tipo. Come quella subita da una delle quattro vittime. «Ci siamo trovate attorniate da persone nordafricane. In particolare, mi sentivo toccare da quelli dietro di me, mentre altri, posizionati davanti a me, mi davano le spalle, urlavano e mi respingevano», dichiara nelle testimonianza interrotta ogni qual volta scoppia a piangere. Improvvisamente «mi sono ritrovata per terra, senza riuscire a rialzarmi e sentendomi soffocare, ho iniziato a pensare di morire. Ero atterrita dalla paura», «non riuscivo ad urlare, ero stravolta dalla situazione e mi mancava il fiato».
La rapina, poi la violenza in branco in Duomo: presi due egiziani. Valentina Dardari il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.
I due giovani fermati hanno 16 e 17 anni: si muovevano in branco "con abilità criminale". Sarebbero i responsabili delle violenze a due turiste tedesche nella notti di Capodanno.
Nella mattinata di oggi, lunedì 7 febbraio, la polizia sta eseguendo una ordinanza di custodia cautelare nei confronti di due minorenni che risultano gravemente indiziati della commissione di alcune delle violenze sessuali e rapine avvenute nella notte dello scorso 31 dicembre in piazza Duomo e zone limitrofe. Il provvedimento è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i Minorenni di Milano su attività coordinata dal procuratore Ciro Cascone.
La rapina, poi le violenze in branco
L’attività d'indagine è stata condotta dalla Sezione omicidi della Squadra Mobile di Milano e dal Commissariato Centro. Secondo quanto reso noto i due fermati sono due ragazzi minorenni, stranieri di origini egiziane, uno di 16 e l’altro di 17 anni. Dei due stranieri uno risulta regolarmente soggiornante, e l’altro minorenne non accompagnato. Il 16enne sarebbe anche colpevole di una violenta rapina avvenuta alle 2.15 in via Torino ai danni di una coppia di giovani a cui ha rubato i cellulari.
Gli agenti sono arrivati alla loro identificazione grazie alla analisi dei filmati registrati dalle telecamere di sorveglianza presenti nella zona, oltre che alle testimonianze di presenti e delle stesse vittime. Importante ai fini delle indagini anche l’utilizzo di software per il riconoscimento facciale da parte della Polizia Scientifica. I due minorenni fermati sono ritenuti responsabili delle violenze a sfondo sessuale commesse ai danni di due turiste tedesche.
Il branco agiva "con abilità criminale"
Le due vittime erano state riprese in un video che in poche ore aveva fatto il giro del web. Ma, almeno per uno dei due stranieri, non si tratterebbe solo di violenza sessuale. Come detto precedentemente, il 16enne sarebbe anche il responsabile di una rapina effettuata quella stessa notte verso le 2.15 in via Torino. Il ragazzo, componente di un nutrito gruppo che "si muoveva subdolamente con abilità criminale", avrebbe accerchiato una coppia di ragazzi che stava camminando insieme ad altri amici e li avrebbe aggrediti violentemente, rapinandoli dei propri telefoni cellulari. Il ragazzo vittima della rapina era poi dovuto ricorrere alle cure mediche e aveva ricevuto dal personale medico una prognosi di 5 giorni. Un'altra giovane vittima, che aveva cercato di allertare i soccorsi, era stata invece minacciata da uno degli aggressori con un coltello.
Una delle due ragazze tedesche molestate in piazza Duomo la notte di Capodanno aveva raccontato di aver provato a reagire colpendo in faccia uno dei suoi aggressori, ma che questo l'aveva guardata ridendo e avvertendola che tanto avrebbe continuato comunque.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
(ANSA il 7 febbraio 2022) - I due minorenni arrestati nell'inchiesta milanese sugli abusi sessuali di Capodanno non hanno desistito "nemmeno di fronte all'evidente sofferenza patita dalle due giovani ragazze" tedesche.
Lo scrive il gip del Tribunale per i minorenni di Milano Paola Ghezzi nell'ordinanza nella quale parla anche di "gravissime e radicate lacune educative, sfociate in un atteggiamento di assoluta spregiudicatezza e indifferenza alle regole più elementari della civile convivenza" e di "mancato rispetto della dignità e della libertà personale di giovani donne in una serata di festeggiamenti nel centro della metropoli milanese".
La personalità dei due ragazzi, scrive il gip, è "desumibile dalla commissione" dei fatti "gravissimi e indicatori di una completa mancanza di qualsivoglia presidio di legalità che direzioni le loro condotte e dalla pervicacia dimostrata nel voler portare a termine la propria azione violenta, non desistendo nemmeno di fronte all'evidente sofferenza" delle due ventenni.
Per entrambi gli arrestati sussiste, secondo il giudice, il pericolo "di recidiva" e l'unica misura idonea è quindi la "custodia cautelare" in un istituto di pena minorile. I due, tra l'altro, entrambi egiziani (uno ha il permesso di soggiorno, l'altro è un minore straniero non accompagnato), per il gip sono "inseriti in contesti ad altissimo rischio di devianza" e sembrano "non poter fare riferimento ad alcun ambiente familiare o educativo in grado di contenerli e di fornire positivi modelli educativi".
Per loro sono indispensabili anzi "esigenze rieducative particolarmente serie e stringenti, attesa la condizione di devianza in cui versano" con "incapacità di autodisciplina".
È anche "necessario", per il giudice, "fornire ai giovani" arrestati "il senso di una risposta adeguata alle gravi violazioni commesse" per fare in modo che intraprendano poi un "percorso di crescita morale".
Manila Alfano per "il Giornale" l'8 febbraio 2022.
Ordinaria follia o un segnale mafioso senegalese? Domenica sera a Torino una volante della polizia è stata accerchiata, presa a calci e costrette ad allontanarsi da decine di tifosi del Senegal durante i festeggiamenti per la vittoria della Coppa d'Africa. È accaduto in corso Palermo, nel quartiere Barriera di Milano da settimane al centro dell'attenzione per l'allarme sicurezza, al fischio finale della partita finita ai rigori contro l'Egitto.
L'episodio, filmato da alcuni residenti, sta diventando virale sui social e mostra immagini davvero preoccupanti. Intervenuti con altri reparti, la polizia dopo un'ora ha riportato la calma e ora è al lavoro per identificare i responsabili dell'assalto. Sulla volante presa d'assalto, la parlamentare torinese di Fratelli d'Italia, Augusta Montaruli, presenterà una interrogazione al ministro Lamorgese.
«Il ministro deve dirci come sia possibile arrivare a situazioni come questa», afferma Montaruli che, in una nota congiunta con l'assessore regionale Maurizio Marrone, ringrazia «la questura per il cambio di passo avvenuto nelle ultime settimane e le forze dell'ordine a cui va la nostra solidarietà: chiediamo di andare avanti a maggior ragione senza timori»
«Mentre Lo Russo dorme, Torino ormai sta diventando una banlieue in cui le strade vengono devastate per festeggiare la vittoria del Senegal alla finale di Coppa d'Africa - sostengono Montaruli e Marrone -. Anni di governo Pd e M5S e questo è il risultato. I video parlano chiaro - proseguono Marrone e Montaruli -, bande di immigrati africani che aggrediscono le volanti della polizia nel quartiere, costringendole alla fuga, e poi generano il caos in strada. Di sicuro per loro lo psicologo da strada proposto dal sindaco è una barzelletta. Serve che anche l'amministrazione comunale si impegni più seriamente. Da tempo denunciamo come Torino nord si stia trasformando in un maxi ghetto in cui imperversano gli spacciatori della Mafia africana».
Eppure c'è chi vede dell'altro dietro a questo episodio di violenza. «Questo attacco non è casuale, non è un festeggiamento per una vittoria. È un rigurgito mafioso di spacciatori che finalmente stanno temendo di perdere il controllo della zona. È il segnale che l'impegno delle forze dell'ordine sta dando i suoi frutti» ha commentato il presidente della Circoscrizione 6 di Torino, Valerio Lomanto, sull'assalto alla volante della polizia durante i festeggiamenti per la vittoria della Coppa d'Africa da parte del Senegal.
«Il cambio di passo in Barriera è evidente - rivendica Lomanto in un post su Facebook -. Questore e prefetto hanno fatto seguire alle parole i fatti, con azioni muscolari sul territorio. Per questo motivo, oggi più che mai - sollecita - la politica e i cittadini devono stare vicino alle forze dell'ordine, sostenerle e ringraziarle per quanto fino a qui è stato fatto».
E in una nota Domenico Pianese, segretario del sindacato di Polizia Coisp si è augurato che «l'assalto criminale a una volante della Polizia nel quartiere torinese Barriera di Milano, oltre a circolare sui social, arrivi anche all'attenzione di chi ha responsabilità istituzionali e di quanti sono sempre pronti a criticare l'operato delle forze dell'ordine».
"La sinistra finge di non vedere le violenze di matrice straniera". Francesca Galici l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.
La sinistra nega che il problema sicurezza di Milano sia legato all'immigrazione incontrollata. Silvia Sardone smaschera il solito racconto buonista.
A Milano la sicurezza è un problema e la totale assenza di strategie d'accoglienza ne è parte. Questo è un dato di fatto che viene però ignorato dalla sinistra, la quale preferisce raccontare altre verità pur di non ammettere il fallimento dell'ideologia buonista dell'accoglienza a tutti i costi.
Il ministro Lamorgese, al termine del vertice in prefettura con il sindaco di Milano, relativamente alle violenze di capodanno, ha detto che "coloro che hanno usato violenza sono ragazzi, cittadini italiani di seconda generazione, quindi non unirei il discorso immigrazione con le violenze che purtroppo avvengono anche da parte di cittadini italiani".
Ma il ministro dell'Interno ha detto una mezza verità, essendo già tre gli stranieri in carcere per quei fatti. Gli ultimi sono stati arrestati nelle scorse ore. Silvia Sardone, consigliere in forza alla Lega al Comune di Milano, da prima che l'emergenza sicurezza raggiungesse il livello massimo d'allerta, cerca di accendere i riflettori sul tema ma la sinistra è sempre stata sorda da quell'orecchio. L'abbiamo raggiunta subito dopo il termine del vertice in prefettura tra il sindaco, il ministro, il capo della polizia e il prefetto.
Qual è l’incidenza della matrice straniera sui reati sessuali a Milano?
"Dai dati in nostro possesso, riportati nell’ultima classifica nazionale sui reati del Sole 24 Ore che vede Milano capitale italiana del crimine, sappiamo che le denunce contro stranieri sono il 57%: un dato allarmante se consideriamo che gli stranieri regolari rappresentano circa il 20% della popolazione milanese. Per quanto riguarda le violenze sessuali, è sotto gli occhi di tutti, tranne della sinistra che fa finta di non vedere, la maggiore propensione da parte degli stranieri, specialmente nordafricani come ci insegnano gli episodi vergognosi di capodanno e di Cascina Gobba, a molestare e aggredire donne di qualsiasi età. Quasi nella metà dei casi i responsabili non sono italiani. A San Vittore il 75% dei detenuti è straniero: qualcosa vorranno pur di dire questi numeri...".
Eppure, sembra che Sala si sia accorto solo ora dell’emergenza sicurezza. Quante sono state le denunce per molestie a Milano nell’ultimo anno?
"Parliamo di circa 15 denunce all’anno ogni 100.000 abitanti a Milano, numeri importanti che fotografano un vero e proprie dramma. Dietro ogni violenza c’è una mamma, una moglie, una figlia, donne che vengono molestate, aggredite, violentate e umiliate da balordi senza scrupoli che spesso non hanno alcun diritto a stare nel nostro Paese. Clandestini che la sinistra ha accolto nella nostra città per poi abbandonarli al loro destino. Le responsabilità dell’amministrazione comunale sono tante".
Perché non destinare più forze dell’ordine al controllo del territorio?
"Il vertice di ieri in prefettura col ministro Lamorgese non ha prodotto i risultati sperati perché 255 uomini poliziotti che verranno assegnati a Milano, tra l’altro non tutti fin da subito, non bastano. E non posso non far notare che il sindaco Sala si sia accorto di questa problematica ora, eppure è stato proprio lui a mettere in smart working la polizia locale anziché impiegarla sul territorio per la prevenzione e il contrasto dei reati. Sala è il sindaco del giorno dopo e sulla sicurezza è assolutamente inesistente. Lo dimostra il fatto che come assessore alla partita abbia scelto Granelli, colui che la notte di capodanno via social aveva spiegato che stava andando tutto per il meglio… È irrispettoso ridurre un allarme sentito e percepito all’emotività da social".
Come può migliorare la percezione di sicurezza a Milano?
"Innanzitutto con la consapevolezza da parte della sinistra di aver fallito completamente su questo tema. Fino a quando chi amministra la città non riconoscerà le sue mancanze difficilmente la situazione potrà cambiare. In concreto, la polizia locale deve essere messa nelle condizioni di tornare a essere il grande corpo che tutta Italia ci invidiava come modello: più che perseguire i commercianti per il tavolino fuori posto di due centimetri o vessare gli automobilisti con le zone 30, perché la sinistra non impone un cambio di marcia ripristinando i vigili di quartieri e creando dei presidi mobili nelle periferie più calde? I cittadini, per strada, devono notare le divise per sentirsi più sicuri e protetti. Il Comune deve farsi parte attiva, sgomberando gli abusivi delle case popolari, chiudendo i centri sociali e mettendo in sicurezza le decine di immobili abbandonati e occupati da sbandati, spacciatori e clandestini. Non solo: va implementata la videosorveglianza, istituite le pattuglie miste sui mezzi pubblici, incrementata la presenza dell’esercito nei luoghi più sensibili della città".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Lamorgese nega l'evidenza: "Le violenze? Non unirle agli stranieri". Francesca Galici il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Gli arrestati sono tutti di origine straniera. Ma per il ministro le violenze di Capodanno sono a opera di "cittadini di seconda generazione".
Al termine del vertice in prefettura con il sindaco Sala per fare il punto sulla questione sicurezza a Milano, il ministro Luciana Lamorgese si è presentato in conferenza stampa, dove è proseguita la solita narrazione sull'immigrazione promossa dalla sinistra. L'accoglienza indiscriminata e senza regole dei migranti nel nostro Paese, infatti, per il ministro dell'Interno non è correlata con i gravi problemi di sicurezza delle metropoli e, in particolare, di Milano.
"Se guardiamo i fatti di capodanno, dove abbiamo avuto denunce e fatti gravi di violenza nei confronti di ragazze, abbiamo esaminato l'escalation di violenza e la tecnica utilizzata. Coloro che hanno usato violenza sono ragazzi, cittadini di seconda generazione, italiani anche di nascita quindi non unirei il discorso immigrazione con le violenze, che purtroppo avvengono anche da parte dei cittadini italiani", ha detto Luciana Lamorgese. I fatti, però, smentiscono il ministro.
La rapina, poi la violenza in branco in Duomo: presi due egiziani
È notizia di oggi l'arresto di altri due ragazzi per le violenze di Capodanno. Si tratta di due cittadini egiziani minorenni, uno regolarmente soggiornante e uno non accompagnato, giunto da poco in Italia. Si aggiungono agli altri due arrestati il mese scorso, tra i quali risulta esserci Mahmoud Ibrahim, 19 anni tra un mese, arrivato in Italia nell'agosto del 2019, sempre dall'Egitto. Ci sono, poi, gli indagati e anche tra loro risulta esserci almeno un altro ragazzo straniero, proveniente dal Marocco.
Appare evidente che il discorso del ministro fa acqua da tutte le parti e per capirlo basterebbe dare uno sguardo oltre i nostri confini, per esempio in Francia, dove nelle banlieue la criminalità da parte dei cittadini francesi di seconda generazione è un grave problema di sicurezza. Le periferie delle città italiane sono sempre più simili alle banlieue francesi ma la sinistra sembra non rendersene conto. Le violenze di capodanno in Duomo, ma non solo quelle, sono state perpetrate da branchi di giovani e giovanissimi stranieri e italiani di seconda generazione e negare l'evidenza è un esercizio di narrazione che può diventare pericoloso. Luciana Lamorgese, benché riconoscendo la gravità dei fatti, parla di "una situazione di disagio sociale da parte dei ragazzi".
Anche il tentativo di Beppe Sala di spostare l'attenzione dal problema, accusando l'opposizione politica di voler strumentalizzare un'emergenza che, a suo dire, non avrebbe contorni così gravi, non può essere accettato: "C'è sempre un gap tra la realtà e quello che la politica in modo strumentale vuole fare apparire. Dal '96 a oggi c'è stato un declino forte degli omicidi volontari. La destra enfatizza questi fenomeni solo per obiettivi elettorali, ma nel picco di omicidi volontari governavano loro".
Beppe Sala ha ribadito questo dato, come già fatto in passato, per nascondere l'evidenza del problema. "Come hanno giustamente detto i sindacati di Polizia citare, come ha fatto Sala, il dato sugli omicidi è un errore. Quel riferimento può cambiare di anno in anno e spesso non c’entra niente con la sicurezza. I dati da analizzare sono altri, come i furti, le rapine, le aggressioni. E questi numeri, come dicono i sindacati delle forze dell’ordine, sono in aumento", ha dichiarato Silvia Sardone al termine del vertice.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Il silenzio delle istituzioni. Violenze di gruppo a Capodanno, cosa è successo in Piazza Duomo a Milano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.
Sarebbe bello poter applicare la “cura Cartabia” per Milano, la città italiana più europea e da sempre con l’orgoglio da prima della classe, ancora stressata e sconvolta per la ferita di capodanno in piazza Duomo. Sarebbe bello poter applicare da subito la giustizia riparativa, e far prevalere la concordia sul conflitto, la conciliazione sulla vendetta. Sarebbe bello, ma per ora impossibile. Perché nove donne aggredite e violate dal branco nella notte dei divertimenti e della speranza di un futuro immediato migliore, con le forze di polizia ammutolite, distratte e impotenti sono una ferita difficile da sanare. Perché è successo nel centro di Milano, come nella notte che separava il 2015 dal 2016 a Colonia e poi più volte a Parigi, e sembrava roba che non ci riguardasse, problemi da banlieu con i suoi francesi immigrati di seconda e terza generazione.
Milano si è svegliata con problemi giganteschi, se il sindaco Beppe Sala ha atteso ben undici giorni prima di prenderne atto e mettere la faccia nei nostri televisori per chiedere scusa e annunciare la costituzione di parte civile del Comune nei futuri eventuali processi. Ma questo è il futuro, mentre il presente è che per dieci giorni, dal sindaco al prefetto al questore, tutti sembravano ammutoliti, impotenti. A queste ragazze è successo qualcosa di spaventoso: accerchiate da gruppi di giovinastri sovreccitati e violenti, strattonate, quasi spogliate nonostante il freddo e i piumini, palpeggiate, le loro lacrime, le loro grida irrise. E non si può neanche suggerire loro, la prossima volta, di non avventurarsi la notte nelle strade deserte. Il tutto è successo in mezzo a una folla persino eccessiva, in tempi di pandemia, nella città in cui la giunta di sinistra ha sempre fatto vanto di essere prima nell’accoglienza e tradizionalmente nella politica sociale. E proprio qui nel milanese, a Vimodrone, due giorni fa è arrivata la ministra Marta Cartabia.
Con ancora nelle orecchie l’eco di quel che era successo, è venuta ad ascoltare una storia bella, edificante, quella di Daniel Zaccaro, ex ragazzo di Quarto Oggiaro, adolescenza segnata dal carcere, uno di “quelli lì”, un po’ come quelli delle violenze di piazza Duomo. Daniel è diventato il protagonista di un libro, scritto da Andrea Franzoso, dal titolo Era un bullo. Uno di quelli che l’hanno salvato –ma sono in tanti, dagli educatori agli agenti di polizia penitenziaria- è don Claudio Burgio, uno che ha fatto esperienza come cappellano a San Vittore e al minorile Beccaria, e che l’ha seguito per sette anni. Sette anni difficili e a volte turbolenti. Ma ce l’hanno fatta. Ce l’ha fatta. Oggi Daniel è un educatore e aiuta gli altri a superare lo stereotipo del quartiere-ghetto, ragazzi spesso rassegnati a un destino che pare segnare non solo quelli appena arrivati dai Paesi del nord Africa, ma anche quelli di seconda generazione. In piazza Duomo c’erano gli uni e gli altri . E sarebbe una bella sconfitta politica dover ammettere che l’accoglienza non si è trasformata in integrazione.
La “cura Cartabia” ha al centro l’articolo 27 della Costituzione, e non è un paradosso, piuttosto una sfida ricordarlo proprio ora, nel momento in cui in consiglio comunale a Milano le opposizioni chiedono le dimissioni dell’assessore alla sicurezza e tanti cittadini si fanno vivi anche con il sindaco per chiedere un intervento più energico anche della polizia locale, in centro come nei quartieri. Ci sono problemi di uso e abuso di alcool e di sostanze psicotrope, ma anche di tanti ragazzi che ciondolano dalla mattina alla sera davanti ai bar e quando passa una ragazza si comportano subito da branco. C’è un autobus che fa un percorso circolare, la 90-91, dove nessuna donna si avventurerebbe mai da sola. E il timore oggi è che lo choc di capodanno possa sfociare in intolleranza se non in razzismo. Anche per questo adesso la magistratura sta correndo ai ripari, e lunedì notte, dopo aver visionato una serie di immagini postate sui social, la procura ha firmato il decreto che ha portato alle diciotto perquisizioni, all’individuazione di alcuni partecipanti al branco e infine ieri al fermo di due di loro.
I reati di cui saranno accusati sono gravissimi, e vanno dallo stupro di gruppo alla rapina. Ed è qui che dovrebbe venire in soccorso la “cura Cartabia”. Perché il loro destino sarà segnato dal carcere, e non sarà una detenzione facile, vista la tipologia dei reati di cui dovranno rispondere. Per i minorenni si apriranno percorsi rieducativi, e si spera anche per i giovani adulti. È difficile dirlo oggi, con la ferita ancora aperta, ma proprio dieci giorni fa, mentre accoglieva a Venezia le delegazioni straniere convenute alla prima Conferenza dei ministri di giustizia del Consiglio d’Europa, la guardasigilli aveva parlato di “giustizia riparativa”. Non come “strumento di clemenza”, ma come “giustizia che aiuta il trasgressore ad assumersi la sua responsabilità nei confronti della vittima e nei confronti della comunità, attraverso l’incontro e il dialogo”. Chiediamo pure più polizia e maggiore sicurezza a Milano, adesso. Ma se non sapremo ricucire dopo, ci saranno tante violenze “di capodanno”, temiamo.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Milano, territorio di conquista dell'islam. Alberto Giannoni il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.
La notte delle molestie è solo l'ultimo episodio. "Attacco alle donne? Ideologia perversa".
Milano. Piazze da occupare, pezzi di città da strappare e sottoporre alla propria autorità. Dietro l'orribile notte delle molestie sessuali collettive in piazza Duomo c'è anche un'idea di conquista del territorio e Milano - città europea - è terreno privilegiato di quest'azione, in cui i gesti illegali o criminali non vengono compiuti di nascosto ma esaltati nello spazio pubblico con questa folle ambizione simbolica.
La conquista di Milano è in atto. Di un'azione di «occupazione del territorio» parla Souad Sbai, fondatrice dell'associazione Donne marocchine in Italia, e suggerisce una lettura degli abusi di Capodanno e dei precedenti europei (vedi Colonia): occorre vederli - avverte - come un movimento, «qualcosa che ha a che fare con un pensiero che si sta creando nelle seconde generazioni» e ha che fare con una «versione perversa della religione». Insomma, un fatto ideologico. «Il messaggio che ci inviano è questo: noi siamo padroni del territorio e vi consideriamo qualcosa di estraneo - così Maryan Ismail, prima imam donna nel nostro Paese - Mi pare che si comportino come se con il corpo di un'infedele, non vestita secondo i canoni, potessero trastullarsi a piacimento: I vostri corpi di infedeli, kafir, non significano niente per noi».
Lorenzo Vidino, milanese e massimo esperto di radicalismo islamico, vede tracce di «una sottocultura che sposa, spesso in maniera confusa, identità arabo-islamica, mitizzazione della criminalità e machismo». L'anno scorso in piazza Selinunte a San Siro, candidata a diventare la prima banlieu italiana, sfidando i divieti anti-Covid circa 300 giovani si radunarono per girare il video di un giovanissimo rapper maghrebino, e partì una guerriglia contro la polizia, con lanci di bottiglie e sassi, al grido di «Fuori di qui!». Vidino lo ha notato, su «Repubblica» citandolo come esempio di questo impasto identitario che porta al rifiuto del Paese ospitante anche da parte delle seconde generazioni.
Anche le gang sudamericane imperversano, ma non hanno gli stessi riferimenti fanatici. È il «separatismo» religioso il nemico dichiarato del presidente Emmanuel Macron in Francia. In Europa si tollerano enclavi, con enti giuridici e assistenziali propri, in cui non viene riconosciuto lo Stato e il suo legittimo uso della forza sul territorio. La sfida alle istituzioni prolifera in quartieri poveri e disagiati, ma in occasioni particolari sfocia con incursioni in spazi simbolici.
Inevitabile notare come, 13 anni fa, la stessa piazza Duomo, come San Petronio a Bologna, fu teatro di una sorta di provocazione, o «profanazione», cercata o non evitata: la famosa «preghiera» sul sagrato che - dopo un rogo di bandiere americane e israeliane - fu condotta all'imbrunire da un imam già condannato per terrorismo. «C'è preoccupazione per questo uso violento della religione - disse allora al Giornale il direttore dell'Osservatore Romano Gian Maria Vian - sono rimasto impressionato». Quell'imam guidava la moschea di viale Jenner, che in anni precedenti era considerata una sorta di base jihadista, almeno dagli americani, e riversava i fedeli per strada, in «preghiere» che avevano lo scopo di creare, o sollevare politicamente, il tema-moschee.
Da allora i centri religiosi hanno perso centralità, soppiantati dal web. Ma nel dicembre 2017, fu piazza Cavour a essere occupata da un'altra confusa manifestazione politico-religiosa, contro Trump e contro Israele, in cui furono scanditi slogan antisemiti e jihadisti. L'episodio spinse la Procura ad aprire un fascicolo in cui si ipotizzava l'accusa di istigazione all'odio razziale.
Tutti fatti diversi uno dall'altro. Ma fra gli eventi politico-«religiosi» di allora e i misfatti politico-criminali di oggi si scorge un filo, che tiene tutto. Alberto Giannoni
Tarrush gamea. Il silenzio della politica sulla violenza sessuale di gruppo a Milano. Carlo Panella su L'Inkiesta il 13 Gennaio 2022. Nessuno ha condannato con forza i tentati stupri da parte di alcuni giovani italiani di origine araba su una decina di ragazze durante il capodanno a piazza Duomo. Eppure bisognerebbe fare una profonda riflessione sulla discriminazione delle donne musulmane in Italia e l’incompatibilità della sharia con le nostre leggi.
Passi il silenzio del movimento delle donne, e altrettanto dei media tanto politically correct, che quando si tratta di violenza arabo-islamica si distraggono sempre, ma è tutto il mondo politico che oggi perde una grossa occasione, quantomeno di riflessione, sul gravissimo episodio delle violenze e dei tentati stupri di un gruppo di giovani di origine araba su una decina di ragazze durante il capodanno a piazza Duomo a Milano.
Le indagini confermano che erano tutti italiani figli di immigrati arabi i componenti del gruppo di giovani che ha assalito con violenza una decina di ragazze per palparle ovunque per poi essere fermati prima che facessero altro. Esattamente come a Colonia e in altre città europee nel capodanno del 2015. Allora, almeno, vi fu un po’ di scandalo in Italia. Oggi nulla. Eppure, è l’ennesimo episodio che ci impone, o meglio ci imporrebbe, di prendere atto che l’immigrazione arabo islamica pone dei problemi gravi e specifici riguardo alla violenza sulle donne. E non solo.
Problemi gravi perché non si tratta di comportamenti e di violenze che fino a pochi decenni fa erano presenti anche in Italia, branco incluso. Il punto è che il sopruso sulla donna non è solo parte di una ancestrale cultura machista, che è stata anche nostra. Il dato scabroso è che per gli islamici il sopruso sulla donna è codificato nella legge religiosa a chiare lettere. Non nella morale religiosa praticata, come fu per ebrei e cristiani sino a pochi decenni fa, ma proprio nelle norme specifiche e attuali della sharia.
La minorità della donna rispetto all’uomo parte dall’obbligo del cosiddetto velo, perché non è capace, non sarebbe in grado di gestire i segnali sessuali ed erotici che emana il suo corpo, che passa al divieto della musulmana (ma non per il musulmano) di sposare il cristiano o l’ebreo perché la sua minorità morale e intellettuale la porterebbe di sicuro alla conversione, all’apostasia (peccato più grave rispetto all’omicidio per la sharia), norma alla base di vari femminicidi in Italia, che continua col ripudio del maschio, ma che è impossibile per la donna, che si sviluppa con il valore dimezzato che ha la sua testimonianza in tribunale rispetto a quello dell’uomo. Questo si predica e si impone in alcune moschee in Italia e si pratica in molte, troppe famiglie islamiche nel nostro paese.
In questo contesto arriva oggi l’assalto sessuale del branco a una decina di giovani donne che in arabo ha un suo nome preciso: tarrush gamea, molestia collettiva. Un fenomeno codificato e recente, nato e cresciuto nei paesi islamici pochi decenni fa come palese reazione alla emancipazione in atto delle donne musulmane.
Dunque, un gravissimo problema, non di costumi ancestrali e arretrati, che evolveranno, come sono evoluti in Italia, ma di una legge religiosa, la sharia, che codifica nettamente e chiaramente l’inferiorità della donna per due milioni e mezzo di musulmani immigrati in Italia. Una inferiorità che può generare la cultura del branco stupratore.
In Francia questo problema è tanto chiaro che due anni fa fu il liberale e progressista Emmanuel Macron ad aprire la campagna per le presidenziali mettendolo al centro della sua denuncia. Di conseguenza a Parigi è stata varata una legge contro il separatismo e per il rispetto delle norme costituzionali contro alcune norme shariatiche, sono state chiuse per via amministrativa e non della magistratura decine di moschee dalla predicazione fondamentalista ed è stata avviata una complessa trattativa con le organizzazioni islamiche per arrivare a un inquadramento controllato degli Imam e, infine, sono stati messi fuori legge comportamenti sociali islamici di discriminazione delle donne.
La stessa candidatura con carature xenofobiche di Eric Zemmour ha origine in un disagio diffuso, anche tra i giovani, sul tema della identità nazionale messa in discussione dallo choc della immigrazione e delle tante prevaricazioni shariatiche registrate dalle cronache francesi.
Nulla, assolutamente nulla si è invece mosso, neanche un dibattito, in una Italia nella quale si finge che i due milioni e mezzo di islamici si siano perfettamente integrati.
Ma qui è il punto: integrazione non vuole dire nulla, o quasi. Il punto vero e dolente è l’assimilazione. Mi spiego: la famiglia islamica di Saman Abbas, la giovane pakistana uccisa a Pordenone perché aveva rifiutato un matrimonio combinato, era ed è perfettamente integrata. Così le famiglie di Hina Saleh e Sana’a Dafani, uccise dal padre perché fidanzate con un italiano. Così le decine di ragazze musulmane in Europa vittime di femminicidi shariatici, come attestano lo Spiegel e il Consiglio Europeo. Tutte queste famiglie avevano e hanno regolari permessi di soggiorno, pagavano e pagano le tasse, mandavano e mandano le figlie nelle scuole. Integrate dunque. Sicuramente sono perfettamente integrate anche le famiglie islamiche dei ragazzi del branco violento di Milano e loro stessi lo sono, cursus scolastico regolare incluso. Ma integrazione non vuol dire per nulla assimilazione, condivisione di principi fondamentali fondanti delle nostre società.
Per essere chiari: assimilazione piena è quella delle comunità ebraiche, che rispettano e praticano non solo la propria fede, ma anche la propria legge religiosa che dal 1600 in poi è stata reinterpretata dal diffuso movimento illuminista e razionalista della Haskalah e armonizzata in pieno con i principi fondanti delle democrazie piene, diritti delle donne in primis. Col che il Levitico, il testo biblico delle norme e prescrizioni non dissimili in certe parti dalla legge shariatica, è stato scomposto, attualizzato, superato.
Questa razionalizzazione e modernizzazione non ha toccato, se non marginalmente, la sharia e l’Islam. Solo in Tunisia e in Marocco ci si è avviati, con prudenza e resistenze, su questo cammino, in un processo che però coinvolge solo gli strati sociali più alti della popolazione.
Dunque, se si vuole impedire che questa estraneità e conflittualità con i principi democratici della sharia praticata inneschino in Italia fenomeni di rifiuto, di razzismo e di xenofobia c’è una sola strada: aprire a tutti i livelli una stagione di dibattito sulla assimilazione degli immigrati e sulla prevalenza dei principi e delle norme della Repubblica sulle norme shariatiche. Esattamente come si fa con vigore in Francia. Un dibattito sulla cittadinanza, insomma, sul suo significato reale e pieno. Ben prima che sugli automatismi meccanici dello ius soli. Senza dimenticare che buona parte dei ragazzi del branco del capodanno al Duomo di Milano sono cittadini italiani di seconda, addirittura terza generazione. Di nuovo, cittadinanza non vuol dire assimilazione.
Milano, l'errore del Pd che mescola violenze e "cultura patriarcale". Giannino della Frattina il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il leghista Morelli replica alla dem Roggiani: "Migliaia di sbarchi, ma la colpa è della società..."
Premessa, antefatto e fatto. Un indice di quanto seguirà quantomai necessario, data la pericolosa scivolosità dell'argomento e la tentazione sempre più diffusa di stravolgere le parole per farne randelli.
La premessa è che nel tentare di sbrogliare questa intricata matassa non c'è nessuna intenzione di difendere violenti, misogini, anticomunisti viscerali, pseudoleghisti con la bava alla bocca e nemmeno i vili che dietro l'anonimato dei social si lasciano andare ad espressioni inqualificabili. Va invece difeso il diritto di chiunque, fosse anche un politico della Lega, di criticare un'affermazione non condivisa, fosse anche espressa dalla segretaria milanese del Pd.
«Ogni notte rivivo quell'incubo». L'antefatto. La violenza sessuale messa di una trentina di extracomunitari, egiziani o marocchini, nei dintorni di piazza Duomo a Milano e di cui inizialmente sembrava essere stata vittima una sola giovanissima. E che invece, aumentando le denunce, è chiaro essere toccata a più ragazze. Una vergogna a maggior ragione di quella che si vanta di essere la più europea delle città italiane e, da anni governata da giunte di centrosinistra, si vanta di essere all'avanguardia nella difesa dei diritti, a cominciare da quelli delle donne. Ebbene ancora una volta solo parole, visto che episodi simili erano già accaduti nei capodanni precedenti e che questi branchi di extracomunitari agiscono da tempo indisturbati oltre che nelle periferie, adesso anche in centro.
E quindi il fatto, perché la segretaria metropolitana del Pd Silvia Roggiani dopo giorni di giuste accuse alla giunta Sala, ha sentenziato che quelle viste «sono immagini strazianti che raccontano ancora una volta situazioni inaccettabili che troppo spesso le donne si trovano a subire. Violenze e comportamenti figli di una cultura patriarcale della nostra società in cui un gruppo di ragazzi si sente in diritto di poter fare quello che vuole nei confronti delle ragazze». Di qui la reazione del viceministro della Lega Alessandro Morelli che su Facebook replica che «fanno arrivare qui decine di migliaia di persone senza alcun controllo né preoccupazioni su come possano integrarsi, poi però se succede qualcosa è colpa della nostra società e del patriarcato». Una replica difficile da contestare, ma che ha scatenato la suddetta orda di violenti da tastiera che nei commenti hanno aggredito la Roggiani e quindi innescato un diluvio di prese di posizione di big del Pd, a partire dal segretario Letta («comportamento inaccettabile»), che hanno chiesto non solo la censura, ma le dimissioni di Morelli da governo. Ora che la violenza anche verbale sia da condannare è richiesta incontestabile, ma che si possa anzi si debba dire che le parole della Roggiani sono assolutamente fuori luogo e confondano una pretesa «nostra» cultura patriarcale con una gang di extracomunitari assetati di sesso è violenza, è cosa ancor più vera. E proprio perché le vittime degli stupri sono proprio quelle donne che il Pd si vanta di difendere.
«Assurdi e da condannare gli insulti via social all'indirizzo di Silvia Roggiani comparsi sotto un mio post Facebook e prontamente rimossi - dice in serata lo stesso Morelli - Parole vigliacche e deprecabili che io non definirei mai figlie di una cultura patriarcale per non sminuirne la gravità. Per questo lavorerò con i colleghi, anche del Pd, affinché simili condotte vengano perseguite come meritano in tutti gli ambiti. Mi sarebbe però piaciuto vedere la stessa indignazione anche nei confronti delle violenze di cui numerose ragazze sono state fisicamente vittime, in una città ormai fuori controllo». Giannino della Frattina
La sinistra elitaria cieca sui crimini degli immigrati. Andrea Indini l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Da Pamela a Desirée, da Saman ai fatti di Milano: quando a commettere violenze contro le donne sono immigrati, la sinistra perde la voce e volta lo sguardo dall'altra parte.
Per ora il numero dei casi, il numero delle ragazze molestate in piazza Duomo l'ultimo dell'anno, è salito a nove. Per ora gli indagati per quelle barbare violenze, frutto di una cultura che teorizza le incursioni sessuali contro le donne, sono dodici. Tutti ragazzi piuttosto giovani. Le età vanno dai quindici ai ventun anni. Almeno tre del branco che ha preso di mira le giovani in piazza a far festa sono minorenni. Tutti (nessuno escluso!) sono stranieri o comunque italiani di origine nordafricana. Il ché non cambia il succo. Perché, esattamente come a Colonia nel 2016, hanno messo in pratica una "spedizione punitiva" rituale, il taharrush gamea (letteralmente dall'arabo "aggredire e molestare le donne in strada"), che anni fa ha iniziato ad essere praticata in Egitto in concomitanza con la festività di Id al-fitr. Eppure, nonostante tutto questo, non aspettatevi di vedere, con il passare delle ore, progressisti, femministe e ultrà dell'immigrazione denunciare un'integrazione impossibile (o perlomeno mancata) o anche solo inginocchiarsi per le vittime.
È un vero e proprio cliché. Da Pamela Mastropietro, la 19enne di Macerata ammazzata, mutilata, infilata in una valigia e sbattuta sul ciglio di una strada, a Desirée Mariottini, la sedicenne uccisa in uno stabile abbandonato nel quartiere di San Lorenzo a Roma. Da Saman Abbas, la 18enne scomparsa a Novellara l'anno scorso e mai più ritrovata, alle brutali molestie dell'ultimo dell'anno a Milano. I casi di cronaca nera non sono più campanelli d'allarme isolati e, sebbene molto diversi l'uno dall'altro, hanno un drammatico comun denominatore: l'imbarazzante silenzio della sinistra nostrana incapace di fare i conti con le violenze commesse dagli immigrati. Sempre in fila a denunciare i femminicidi o più in generale i soprusi contro le donne (vi ricordate il caso di Greta Beccaglia?), quando a commetterli è uno straniero, inspiegabilmente perdono tutti quanti la voce. Ne avevamo già parlato proprio nei giorni in cui si cercava in lungo e in largo il corpo di Saman, sparito dopo che questa era entrata in contrasto con la famiglia per il suo stile di vita troppo occidentale. Al tempo, in una interessantissima intervista alla Nazione, il sociologo Luca Ricolfi aveva spiegato che le ragioni di questo silenzio colpevole andavano ricercate nell'"occhio di riguardo" che i progressisti riservano all'islam. "La sinistra - spiegava - teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati".
Ricolfi non è l'unico a pensarla così. All'interno del Partito democratico bisogna andare fino a Reggio Emilia per trovare qualcuno che sollevi il problema. Proprio parlando della povera Saman, il consigliere dem Marwa Mahmoud aveva ammesso che al Nazareno "c'è timore a intervenire su questi temi. Negli ultimi vent'anni c'è stata sottovalutazione". Una sottovalutazione (o, meglio ancora, un calcolo politico) che ha spinto i vari segretari che si sono avvicendati ai vertici del Pd a voltare lo sguardo dall'altra parte e i big del partito a non denunciare certi crimini quando non fanno il loro "gioco" politico. Un'incapacità a leggere la realtà che nei giorni scorsi ha spinto la segretaria metropolitana del Pd Silvia Roggiani a dire che le violenze di piazza Duomo sono "comportamenti figli di una cultura patriarcale" insita nella nostra società. Una mostruosità smentita dai fatti ma che Enrico Letta si è sentito in dovere di difendere quando il viceministro leghista Alessandro Morelli ha ricordato ai dem l'imprescindibile legame tra quanto accaduto a Milano e la mancata integrazione frutto di un'immigrazione senza controllo. Non a caso gli inquirenti hanno trovato inquietanti similitudini con le cosiddette "bande fluide" che la sera del 3 luglio 2017, durante la proiezione della finale di Champions Juventus-Real Madrid, avevano scatenato il panico in centro a Torino. Una violenza che cova nelle banlieue del Nord Italia, ormai abbandonate da una sinistra sempre più elitaria.
Prima di Saman Abbas c'è stato il brutale omicidio di Sana Cheema. E prima ancora c'è stato quello di Hina Saleem. Casi fotocopia. Lo stesso vale per le molestie dell'ultimo dell'anno. Il precedente di Colonia aveva fatto tanto parlare, sei anni fa, anche qui in Italia. Forse anche di più di quanto non stia facendo parlare quanto accaduto a Milano. Che fine hanno fatto le femministe? E gli ultrà del politicamente corretto? E i talebani dell'integrazione? Perché nessuno si inginocchia in parlamento? Perché nessuno sfila per queste giovani? Perché nessuno dice che questa cultura che fa scempio del corpo delle donne non deve trovar spazio nel nostro Paese e che, se a commettere certi crimini sono gli immigrati di seconda generazione (quelli con la carta d'identità italiana nel portafogli), allora vuol dire che la tanta decantata integrazione è solo un miraggio a cui solo la sinistra può ancora credere?
Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.
"Tecniche precise". Capuozzo e gli abusi: cosa c'entra l'islam. Federico Garau l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il giornalista Toni Capuozzo fa luce su quanto accaduto il 31 dicembre a Milano. C'è un termine arabo per definire questo genere di violenze. Una tradizione con delle tecniche ben precise.
Il caso della 19enne aggredita e molestata da un gruppo di stranieri in piazza del Duomo a Milano durante la notte di Capodanno continua a far discutere. Nel corso dell'ultima puntata di Quarta Repubblica, trasmissione in onda su Rete 4, il giornalista Toni Capuozzo ha spiegato quanto il terribile episodio sia in realtà connesso con certe tradizioni. Tradizioni che avrebbero addirittura delle vere e proprie tecniche da applicare.
"È una tradizione con delle sue tecniche. Succede che nel gruppo si dividono i compiti", ha raccontato Capuozzo durante la diretta condotta da Nicola Porro. "C'è un gruppetto che isola le ragazze, un gruppo che fa cerchio per evitare che qualcuno le difenda e c'è un gruppo che fa finta di stare dalla parte delle vittime", ha precisato.
Insomma, quello di Milano non sarebbe stato un episodio casuale. Si parla di tecniche, di uno schema da seguire. Addirittura, secondo Capuozzo, ci sarebbe un termine in arabo per definire le violenze di gruppo. Fenomeni di questo tipo avvengono frequentemente in certe zone del mondo, ha aggiunto il giornalista. Aggressioni di questo tipo, "sono avvenute più volte anche al Cairo. Succede anche in India dove c'è una larga maggioranza musulmana".
Ragazza aggredita da stranieri: il video choc
L'episodio di piazza del Duomo, in sostanza, non deve essere sottovalutato. Toni Capuozzo, infatti, lancia un avvertimento: "Ci troviamo di fronte a un fatto nuovo: questo non è uno stupro fuori dalla discoteca, qui parliamo di violenza perpetrata in un luogo pubblico in presenza di molte persone. Il che rende ancora più difficile l'intervento delle forze dell'ordine".
Nel corso della trasmissione c'è stato anche chi ha cercato di concentrare l'attenzione solo sul fatto che ad aggredire la giovane sia stato un gruppo di uomini, a prescindere dalla nazionalità, puntando tutto, dunque, sulla violenza perpetrata ai danni di una donna. Secondo Capuozzo, tuttavia, il fatto di Capodanno deve far riflettere, specie per la tecnica utilizzata. Ben nove casi di abuso di sono verificati a Milano nella notte del 31 dicembre 2021, e gli autori delle violenze facevano parte di un branco di giovani, molti dei quali di nazionalità nordafricana.
Sul caso stanno naturalmente indagando le forze dell'ordine locali. Proprio in queste ultime ore, la Polizia sta effettuando delle perquisizioni nei confronti di 18 giovani, rintracciati tra Milano e Torino. Al momento sono stati identificati 15 ragazzi maggiorenni e 3 minorenni, di età compresa tra i 15 e i 21 anni, sia stranieri che italiani di origini nordafricane.
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.
Le femministe e i loro silenzi indecenti. Fiamma Nirenstein il 9 Gennaio 2022 su Il Giornale.
È più che fastidioso l'imbarazzo con cui si discute dell'aggressione sessuale, disgustosa e feroce, di cui sono state oggetto quattro ragazze, di cui due di diciassette anni. Le abbiamo viste terrorizzate, piangenti, da una folla di mani e di urla minacciose che le sospingevano nei tempi e nel ruolo della donna delle caverne, aggredita e vilipesa. Si percepisce nella cautela dei politici, dei movimenti femministi, della magistratura, qualcosa che somiglia alla paura. Non si vorrà mica dire, sembra suggerire la cautela, poichè quei violenti aggressori urlanti almeno in parte, secondo i video e i testimoni, parlano arabo, che si è islamofobici? che non si tiene in considerazione che la violenza contro le donne è una malattia universale, proprio anche della nostra storia? No, non è affatto così.
Ma non ci può essere selettività concettuale nel condannare la violenza contro le donne, il nostro movimento femminista non è affatto richiesto di dimenticare la violenza del maschio occidentale quando affronta quello delle masse immigrate, specie di seconda generazione. Lo sappiamo: viviamo in una società talmente sessista e violenta che solo nel 1981 il delitto d'onore veniva parificato agli altri, mentre le sue motivazioni garantivano a un italiano una pena di soli 2-3 anni. Ma la cronaca preme, Colonia è accaduta l'altro ieri, Saman Abbas la povera ragazza pakistana uccisa dallo zio a luglio, incombe sulla nostra memoria, come la Primavera Araba al Cairo, quando la giornalista del Cbs Lara Lagan fu violentata in piazza da una turba. Sarà una sconfitta storica per il femminismo se non si concentrerà su come finalmente affrontare la novità ormai immanente geograficamente della misoginia islamica, di cui si occupano Fouad Ajami, il grande storico libanese, Bernard Lewis, il maggiore storico dell'Islam, Ayan Hirsi Ali, che quasi fu uccisa con Theo Van Gogh nel 2004 quando lavorava a un film su questo tema. Il tema è nobile e importante, e non si fa certo un regalo a quei ragazzi scatenati in piazza se li si lascia liberi di colpire ancora.
Oggi Ayan, musulmana, è la leader di un movimento coraggioso che indaga come combattere la questione fondamentale di ragazzi che vengono da un mondo poligamico, separatista, dove la donna è ancora in parte sconosciuta come essere umano, e vista come oggetto sessuale, sposata a 12 anni, battuta e violentata dal marito, reclusa. Qui, il silenzio è assordante, ed è una ferita che non siano le donne per prime a dire che si deve affrontare con determinazione e con le leggi alla mano il fatto che in un mondo globalizzato giungano in grandi numeri da noi culture per cui la condizione della donna è inferiore, a volte perseguitata e vituperata come in Afghanistan o a Gaza, o in Iran. Secondo statistiche degli uffici arabi dell'Onu il 37 per cento è sottoposta a violenze, 4 su 10 vengono uccise in famiglia. La donna è sottoposta, in tribunale vale la metà, il suo abbigliamento è codificato per nascondere il corpo, l'obbedienza è il suo destino. Ma qui, la difesa della donna, della nostra donna emancipata e femminista, deve essere d'acciaio. Fiamma Nirenstein
Milano, 19enne molestata da stranieri e benpensanti muti: che errore fingere non sia un problema. Giuseppe Valditara su Libero Quotidiano il 07 gennaio 2022.
Milano, notte di Capodanno, una trentina di "ragazzi stranieri", così almeno si legge nelle scarne cronache uscite sui media, circonda una ragazza di 19 anni in piazza del Duomo, la molesta sessualmente, ripetutamente. La ragazza finisce a terra travolta. La notizia è di quelle che in una società sana dovrebbe scatenare la indignazione collettiva e indurre a farci molte domande. Richiama alla mente le scene vissute a Colonia e in altre città tedesche la notte di Capodanno 2016. Anche allora le cronache riferirono che 70 su 73 aggressori, identificati come autori di gravi molestie sessuali avvenute nella città renana, erano stranieri.
Ciò che è accaduto pochi giorni fa nel pieno centro di una metropoli fra le più avanzate d'Italia, fa parte di un fenomeno in realtà più ampio le cui avvisaglie si sono già avute nei mesi scorsi quando bande di giovani, per lo più immigrati, sono state protagoniste di risse, aggressioni e atti di teppismo nelle vie e nelle piazze centrali sempre a Milano. La risposta non può consistere ovviamente in politiche che prendano di mira l'immigrazione, non distinguendo il loglio dal grano, ma non può consistere nemmeno in un silenzio ipocrita, come se il problema non esistesse, nel timore codardo e complice di non essere politicamente corretti.
In verità accogliamo chiunque dando molti apparenti diritti, senza imporre in cambio doveri chiari e fatti rispettare. Siamo sempre pronti a rinnegare il nostro passato, colpevolizzandoci oltre misura, senza ricordare a chi arriva che ci sono valori indiscutibili, frutto di secolari conquiste, che vanno rispettati da chi vuole vivere insieme con noi, pena la esclusione dalla nostra società. E poi, ancora una volta, appare carente nelle grandi città la politica dell'ordine pubblico, troppo presa da nuove emergenze e poco attenta ad un presidio efficace del territorio. Il fatto avvenuto a Milano è grave, è indice di una mancata volontà di integrazione. Ancora più grave sarebbe lasciarlo passare nella indifferenza senza iniziare a predisporre efficaci contromisure.
Quella strategia dei "tre cerchi" un orrore che arriva dall'Egitto. Maryan Ismail il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Così come ci siamo giustamente allarmate e indignate per la pacca sul sedere in diretta alla giornalista Greta Beccaglia, altrettanta e ancor più forte preoccupazione desta quello che è accaduto in piazza del Duomo nella notte di Capodanno. Guardando i video che girano sul web si evince che si trattavano di vere Taharrush Jama'i (assalti e aggressioni sessuali). Le vittime sarebbero almeno nove e i presunti aggressori indagati sono giovani e giovanissimi ragazzi stranieri e italiani con i genitori di origine nordafricana. Non è un caso che i video girino sui social di lingua araba. Qualora fossero riconosciuti responsabili, non dovranno avere attenuanti culturali, ma essere giudicati per violenza sessuale di gruppo.
Per comprendere che si è trattato di Taharrush Jam'i bisogna sapere come si svolgono le aggressioni. Le vittime, come in altri casi precedenti, sono state isolate e assalite con azioni precise, che prevede la formazione di tre cerchi stretti di uomini e/o ragazzi. Il primo è quello che violenta fisicamente la ragazza. Il secondo cerchio filma, fotografa e si gode lo spettacolo, infine il terzo cerchio distrae la folla vicina con urla e rumori per non far comprendere cosa accade. Il compito più odioso è svolto da uno o due maschi del primo cerchio che si fingono «protettori e salvatori» e che rassicurano la vittima convincendola che sono lì per aiutarla (nel video con le ragazze tedesche si notano due giovani che «cercano» di spingerle fuori dalle transenne), ma che poi partecipano essi stessi attivamente alla violenza di gruppo. La tecnica di protezione ha lo scopo di disorientare la ragazza e di spezzarne la resistenza perché non sa più di chi fidarsi. Patisce così anche un ulteriore e drammatico supplizio di tipo psicologico. È bene sapere che la vittima subisce palpeggiamenti, svestimenti, percosse, morsi, penetrazioni digitali o di corpi estranei e, se ci sono condizioni di tempo, violenza sessuale vera e propria.
Il fenomeno è esploso in Egitto nel 2011 durante la caduta di Mubarak ed è stato ben documentato dalla giornalista della Cbs Lara Logan, vittima di un assalto in Piazza Tahrir mentre svolgeva un servizio televisivo. Da allora, anche se con molta difficoltà, sono state raccolte altre testimonianze di vittime e si sono messe in atto una serie di precauzioni e di tutela per le donne che possono essere esposte a violenza di gruppo in circostanze di eventi pubblici, raduni, concerti o feste religiose. Nessuna è al sicuro. Vengono assalite donne con o senza il velo, di qualsiasi religione o provenienza e di tutte le età (dai sette ai settant'anni).
Nel mondo arabo islamico il problema viene affrontato a tutti i livelli, senza nascondere che è specificamente culturale. Trattasi di ulteriori forme di devianza misogina, patriarcale e maschilista. Il senso di questa specifica violenza di genere è il dominio e il controllo sulle donne, Sono aspetti che non si nascondono o si giustificano.
Ora questo terribile fenomeno sbarca in Europa e non solo (si sono registrati casi in India, Pakistan, Indonesia ecc). Lo abbiamo visto accadere a Colonia e all'inizio dell'anno ha sfregiato anche la nostra Milano e le sue cittadine.
Affrontare questa nuova forma di violenza senza sminuirne l'importanza e la specificità per paura di passare per islamofobici o razzisti è urgente e necessario per la sicurezza di noi tutte. Sarà utile mettere da parte le ideologie del caso e lavorare tutti insieme. Forze dell'ordine, istituzioni e famiglie. Non vi è bisogno di assumere vigili, esercito o poliziotti in più (quanto altro tempo dobbiamo attendere?), ma di mettere in atto un urgente e serio programma d'intervento nelle periferie, scuole, parrocchie, consultori, ambulatori, stadi e centri di aggregazione. In altri termini ripensare al controllo del territorio con una visione di prevenzione e tutela ex ante/ex post.
Donne, ragazze, giovani, coesione sociale, integrazione, cittadinanza positiva e dialogo tra comunità o tra le religioni sono in serio pericolo. Ed è bene non far finta di nulla sperando che passato il momento tutto ritorni come prima. Non è così e ormai i campanelli d'allarme sono parecchi.
Esprimo infine la mia solidarietà alla segretaria metropolitana del Pd Silvia Roggiani, insultata sul web per aver espresso le proprie idee, e alla consigliera comunale della Lega Deborah Giovanati, sminuita e sbeffeggiata nel suo esercizio di critica politica. Sono due donne che militano in partiti opposti, ma solo perché «donne» sono finite oggetto di derisione e violenza verbale, che al netto delle diversità culturali e dalla forza bruta messa in campo, non sono dissimili dalla mentalità maschilista che cerchiamo tutte e tutti di superare. Maryan Ismail
Taharrush Jama’i. Perché non bisogna nascondere le radici culturali delle violenze di Capodanno. L'Inkiesta il 22 Gennaio 2022.
Come spiega l’antropologa Maryan Ismail a Nuove Radici World, la aggressione collettiva perpetrata a Milano non è un classico caso di molestia sessuale, ma una strategia di violenza ben collaudata e riconducibile a un fenomeno nato nel 2011 in Egitto
Taharrush Jama’i, che tradotto dall’arabo suona un po’ come aggressione collettiva. Sarebbe questa, secondo l’antropologa, docente e mediatrice culturale Maryan Ismail, la spiegazione di quanto avvenuto a Milano la notte di Capodanno, dove (almeno) nove ragazze sono state accerchiate da branchi organizzati di ragazzi italiani e stranieri in una violenza sessuale di gruppo.
Secondo Maryan Ismail, che ne ha scritto in un post su Facebook che ha fatto molto discutere, non saremmo di fronte a un classico caso di molestia sessuale, ma ad una strategia di violenza ben collaudata, nata probabilmente in Egitto e diffusasi in tutti i Paesi musulmani.
Continua a leggere su Nuove Radici: Maryan Ismail: «Non nascondiamo le radici culturali delle violenze di Capodanno». Se nel mondo arabo islamico il problema viene affrontato ammettendo che è specificamente culturale, così dovremmo fare anche in Italia, spiega Maryan Ismail a NRW. Michela Fantozzi il 21 Gennaio 2022.
Taharrush Jama’i, che tradotto dall’arabo suona un po’ come aggressione collettiva. Sarebbe questa, secondo l’antropologa, docente e mediatrice culturale Maryan Ismail, la spiegazione di quanto avvenuto a Milano la notte di Capodanno, dove (almeno) nove ragazze sono state accerchiate da branchi organizzati di ragazzi italiani e stranieri in una violenza sessuale di gruppo.
Secondo Maryan Ismail, che ne ha scritto in un post su Facebook che ha fatto molto discutere, non saremmo di fronte a un classico caso di molestia sessuale, ma ad una strategia di violenza ben collaudata, nata probabilmente in Egitto e diffusasi in tutti i Paesi musulmani.
Spiega l’antropologa: Nel mondo arabo islamico il problema viene affrontato a tutti i livelli, senza nascondere che è specificamente culturale. Trattasi di ulteriori forme di devianza misogina, patriarcale e maschilista. Il senso di questa specifica violenza di genere è il dominio e il controllo sulle donne
Maryan Ismail, che cosa è successo a Milano la notte di Capodanno?
«La stessa cosa che è accaduta in altri Paesi come l’Egitto, dove nel 2011 è esploso il fenomeno. Guardando i video diffusi sulle violenze di Capodanno ho notato che gli aggressori erano organizzati e dato che i ragazzi nei video parlavano arabo, sono andata a fare una ricerca del fenomeno sui siti di informazione arabi. Ho scoperto che il metodo utilizzato da questi aggressori è ben conosciuto».
Si svolge secondo uno schema preciso?
«Consiste nel formare tre cerchi di assalitori attorno alla vittima, dove il primo cerchio è quello che provoca la violenza, il secondo filma e si gode lo spettacolo e il terzo cerchio serve a fare confusione in modo che i passanti non si rendano conto di quanto accade. In più nel primo cerchio, ci sono uno o due persone preposte a tranquillizzare la vittima, dicono che vogliono proteggerla e quindi di affidarsi a loro. In realtà sono essi stessi partecipi alla violenza e questo ha lo scopo di creare sfiducia nella persona aggredita che a quel punto non sa più di chi fidarsi. Dopo si arriva a una violenza vera e propria, dove la ragazza viene palpeggiata, spogliata, si ritrova mille mani addosso, viene penetrata con le dita e se si ha tempo e l’occasione arriva lo stupro».
Che origini ha questa forma di stupro di gruppo?
«Sappiamo che è dal 2011 che le donne denunciano questa pratica. Da allora è diventata un dibattito nazionale e internazionale, perché questa tecnica è stata usata anche in Pakistan, Malesia, Indonesia. E quindi si è capito che il problema era trasversale al mondo islamico.
Varie associazioni femminili hanno fatto pressione e manifestato ai governi e molti stati islamici sono arrivati a prevedere pene severe per chi partecipa ad assalti organizzati di questo tipo. Non si è nascosto la radice culturale ed etnica, si è denunciato anche il tentativo di alcuni Imam di giustificare questi giovani, dicendo che è solo un modo di sfogarsi. In realtà, in maniera sorprendente, queste aggressioni hanno avuto una risposta diversa da parte delle famiglie, da parte dei padri, dei politici e dall’opinione pubblica in generale che hanno condannato fermamente il fenomeno
Nelle violenze di Capodanno sono coinvolti anche ragazzi italiani, quanto conta allora la religione? Non siamo di fronte a una terribile moda social che non ha nulla a che vedere con l’islam?
Certo che la violenza sulle donne è trasversale a tutte le culture e su questo non ci piove. Qui però c’è la predominanza egiziana, sebbene ci fossero anche ragazzi italiani. Infatti, nel video si sente molto bene parlare in dialetto egiziano. Possono essere stati coinvolti anche ragazzi italiani, ma l’idea nasce da quell’esperienza e comunque ignorare il precedente secondo me diminuisce l’efficacia di un intervento e di un cambiamento culturale
«Qui c’è una specificità importate e quindi forse bisogna parlare con le famiglie e dire, bene, il problema è arrivato, ne parliamo? Vogliamo coinvolgere i genitori, i ragazzi le guide religiose? Perché solo in maniera corale si possono trovare degli strumenti, come quelli già adottati da altri Paesi che hanno già avuto esiti positivi. Quindi chiunque voglia affrontare questo tema dal punto di vista politico e amministrativo deve avere la nozione di come è nato il fenomeno e di come si è affrontato, che può essere utile per dare delle risposte sia per gli italiani che per i ragazzi arabi».
Si è parlato molto della provenienza di questi ragazzi. In uno dei tre gruppi che hanno compiuto le violenze, c’erano 12 ragazzi, di cui dieci italiani e solo cinque di loro avevano origini arabe. Quando si finisce di essere stranieri?
Potrebbe sembrare limitato parlare delle sole origini arabe dei ragazzi, ma in realtà fare questo tipo di riflessione va a focalizzarsi su una cultura di dominazione che è dentro le famiglie musulmane. Con questo non voglio stigmatizzare un’etnia, assolutamente. Quando io ho parlato dicendo che non dobbiamo avere paura dell’islamofobia piuttosto che del razzismo, intendo questo, cioè prendere coscienza di un problema culturale interno
«Mi sono occupata per anni di mutilazioni genitali femminili, che è un problema di alcune culture africane. Dal 2006 il rischio che delle bambine possano subire la mutilazione genitale femminile in Italia è davvero diminuito, perché abbiamo istruito le madri sulle leggi che sono oggi promosse nei nostri Paesi. C’è il protocollo di Mobutu che è un protocollo africano, interstatale, trasversale ai Paesi africani dove si ribadisce che il corpo della donna è intangibile. Quindi abbiamo adottato un approccio che non mette in discussione il valore di una cultura a livello personale, ma che fa comunque progredire la posizione di queste donne e di queste famiglie della società».
Secondo lei quindi quali sarebbero le soluzioni da introdurre per arginare queste forme di violenze sessuali di gruppo?
L’educazione e il dialogo interculturale. Se l’espressione degenerata della violenza proveniente da un determinato contesto culturale si manifesta, è giusto ribadire il concetto che le donne sono per ruolo e natura, delle cittadine e quindi sono delle persone rispettabili e devono essere rispettate.
«Perché ci sono delle comunità musulmane che sfuggono al dialogo e al confronto, lo vediamo noi come mediatrici culturali, lo vediamo nelle relazioni tra i servizi sanitari e le donne arabe che ancora adesso vengono accompagnate dai mariti in ospedale quando hanno bisogno di una visita, fanno fatica a parlare l’italiano e sono generalmente madri e mogli. Questo è un limite per l’emancipazione della figura materna, che deve essere matura e costruttiva nell’educazione dei ragazzi. Quindi bisogna lavorare con le madri e i padri per avviare un cambiamento culturale profondo. Altrimenti, se non c’è questo passaggio, c’è un pericolo politico verso l’integrazione, la coesione sociale e verso tutto quello che noi abbiamo messo sul campo per far parlare e dialogare le comunità in maniera serena».
Punire gli aggressori, non barricarsi. I fatti di Capodanno e la buona integrazione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2022.
In cinquanta contro alcune ragazze terrorizzate. Dobbiamo ripartire dalle cose in cui l’Italia è brava: associazioni, volontariato, oratori, sport.
Un titolo del Corriere racconta tutto in sette parole: «Erano in cinquanta. Ci toccavano, ci spogliavano». Provate a immaginare cos’hanno provate le ragazze che la notte di Capodanno, nella calca di Piazza Duomo a Milano, si sono trovate ad affrontare un’esperienza simile, e quanto ci metteranno a cancellarne il ricordo. Forse non ci riusciranno mai. Parlate con chi ha subito un’aggressione sessuale: di quel momento ha una memoria indelebile. Basta un’immagine o una situazione per innescarla: una strada buia, un pianerottolo, un androne, un sentiero di campagna, una stanza isolata. Di questa angoscia, purtroppo, gli aggressori non si rendono conto. Qualcuno è in carcere, qualcuno potrebbe finirci, per quelli che verranno riconosciuti - ci sono testimonianze e filmati - è in arrivo il processo.
È EVIDENTE CHE I COLPEVOLI DELLE AGGRESSIONI DI CAPODANNO VANNO PUNITI; MA È CHIARO CHE QUALCOSA VA FATTO PER EVITARE CHE LE FRANGE DELLE CITTÀ ITALIANE DIVENTINO NAZIONI PARALLELE, DIVERSE E ARRABBIATE. COME E’ ACCADUTO IN FRANCIA
Sono molto giovani, e quasi tutti di famiglia nordafricana. Vorrei farvi notare subito un particolare: i media — anche il Corriere , anche il sottoscritto nella videorubrica Fotosintesi — hanno indicato questo particolare. Dieci/quindici anni fa non sarebbe accaduto: il timore era di incitare gli idioti razzisti. Oggi la diffusione delle immagini via social ha spazzato via questa cautela. Che diciamolo: rischiava di trasformarsi in una ipocrisia. Il Nordafrica ha portato in Italia una ventata di gioventù, di energie e di idee. Ero in giuria a Sanremo nel 2019 e ho votato con convinzione Mahmood, un ragazzo di Milano, quartiere Gratosoglio: la sua canzone, la sua voce, il suo coraggio. Soldi racconta di un padre egiziano, assente e inaffidabile; ma Alessandro Mahmoud ha avuto la mamma, la musica e gli amici cui appoggiarsi. Il suo caso è istruttivo, e non è isolato.
Tutti conosciamo storie di buona integrazione, in ogni campo (ascoltate I figli di Enea su Radio24 e leggete il martedì Buone Notizie ). Ma per arrivare al successo - un successo di tutti, nazionale - occorre guardare le realtà con occhi asciutti. Le isterie di certa destra e i piagnucolamenti di parte della sinistra non servono. È evidente che i colpevoli delle aggressioni di Capodanno vanno puniti; ma è chiaro che qualcosa va fatto per evitare che le frange delle città italiane diventino nazioni parallele, diverse e arrabbiate. In Francia è accaduto, e le conseguenze sono drammatiche. I segnali non sono buoni. Troppe famiglie immigrate in Italia rinunciano a insegnare ai figli maschi il rispetto per le donne; alcune, purtroppo, non sono in grado di farlo. La scuola? Ci provano gli insegnanti eroici, gli altri rinunciano. La pandemia ha fatto il resto: la didattica a distanza, in certe condizioni familiari e sociali, è una patetica illusione.
Le gang, non i genitori o i professori, sono il punto di riferimento. Arrendersi, quindi? Barricarsi nelle nostre vie ordinate? Sciocchezze. Una nazione sana non è una grande ZTL; e la divisione - oltre che blasfema - è impossibile, come dimostrano le vicende di Capodanno. Da dove ripartire? Dalle cose in cui l’Italia è brava: le associazioni, il volontariato, le attività scolastiche al pomeriggio, gli oratori, lo sport. Luoghi dove trovarsi, ragazzi e ragazze insieme, conoscersi, passare il tempo, imparare a vicenda: qui bisogna spendere, investire, in strutture e personale. Se qualcuno pensa che siano soluzioni ingenue, e solo la repressione serva, auguri: lo aspettano anni cupi.
Il "sospetto" di Nordio sulle violenze choc di piazza Duomo. Francesco Boezi il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.
L'ex magistrato Carlo Nordio ventila un sospetto sulla violenza di gruppo che ha avuto luogo a Milano nella notte di capodanno: "Riluttanza a intervenire per paura di essere accusati di discriminazione razziale..."
I fatti di Milano hanno sconvolto l'opinione pubblica ed anche l'ex magistrato Carlo Nordio ha preso posizione su quanto avvenuto nel capoluogo meneghino durante la notte di capodanno, ventilando un'ipotesi - lui lo chiama "sospetto" - su un fattore che potrebbe aver influito sulle tempistiche e sulla modalità della reazione degli organi preposti.
Nordio, attraverso un articolo pubblicato da Il Messaggero, parla di "riluttanza a intervenire per paura di essere accusati di discriminazione razziale, autoritarismo poliziesco o repressione fascista". E questo potrebbe essere vero - afferma il noto ex procuratore - anche "vista l'etnia degli aggressori".
Insomma, per comprendere qualche "perché" sulla vicenda che ha interessato Milano il 31 dicembre scorso, con l'aggressione sessuale subita da alcune ragazze - la stessa che potrebbe aver coinvolto una trentina di aggressori - , potrebbe essere necessario interrogarsi sulle motivazioni celate dietro il mancato intervento.
Ma Carlo Nordio non disdegna di specificare in maniera ancora più dettagliata il suo punto di vista, aggiungendo che sarebbe "doveroso domandarsi cosa sarebbe avvenuto se un branco di teste rasate avesse fatto altrettanto con una dozzina di extracomunitarie". Nel frattempo, alcuni dei presunti responsabili degli sconvolgenti fatti avvenuti in prossimità di piazza Duomo sono stati tratti in arresto ma, al netto del proseguimento giudiziario del caso, rimane in sospeso pure un quesito che riguarda un altro ritardo: quello fatto registrare dalle luci dei riflettori su una violenza di gruppo che, in alcuni contesti mediatici, fatica tuttora a trovare lo spazio che meriterebbe per via della gravità.
Le accuse di "lassismo" riguardano pure la politica che per Nordio è tutta impegnata nel confrontarsi per il giro di boa del Quirinale e non solo: "Quanto alla politica, ci auguriamo che dopo la discesa della curva dei contagi e l’ascesa al Colle del nuovo Presidente, essa riprenda la benemerita opera di tutela delle donne, e più in generale dell’ordine pubblico, che a Milano ci è sembrato, a dir poco, trascurato", ha chiosato l'ex magistrato.
Tornando sul ragionamento relativo al "sospetto", Nordio ha sottolineato pure come quest'ultimo sia "avvalorato dalla ormai radicata consuetudine a chiudere un occhio nei confronti di gruppi di nordafricani che spacciano stupefacenti nelle strade e nei giardini, e dalla circostanza che, a detta degli stessi inquirenti, alcuni di questi malviventi erano frequentatori della piazza noti per la loro aggressività".
Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju".
"Vietato criticare l'immigrazione". Così post sui social fa scattare i controlli. Roberto Vivaldelli il 5 Gennaio 2022 su Il Giornale. Criticare l'immigrazione in Norvegia sui social network può costare una visita della polizia o una convocazione in questura. Rivolta dei giuristi contro la liberticida legge del 2015.
Qual è il confine fra una critica legittima e un'espressione che incita all'odio e alla violenza? Spesso stabilirlo non è così facile come sembra e introdurre leggi che contrastano l'odio in rete può portare a una seria minaccia alla libertà di espressione e di pensiero a causa di interpretazioni nebulose. Caso emblematico quello della Norvegia, dove criticare apertamente l'immigrazione sui social network può costare una convocazione in questura o addirittura la visita a casa degli agenti di polizia. Come spiega Libero, l’applicazione da parte delle autorità dell’articolo 185 del codice penale sulle "espressioni discriminatorie e di odio", adottato nel 2008 ed entrato in vigore nel 2015, ha fatto sì che in Norvegia venga violato l’articolo 100 della Costituzione che sancisce e tutela il diritto alla libertà di espressione. Di fatto, secondo alcuni giuristi, la legge contro l'odio è diventata a sua vola uno strumento di repressione del pensiero.
Norvegia, la legge liberticida sui crimini d'odio
Criticare l'immigrazione di massa diventa dunque uno "psicoreato", proprio come nel romanzo distopico di George Orwell, 1984. Anche se in quel caso chi lo compie viene arrestato dalla Psicopolizia e portato nel ministero dell'Amore, ricevere a casa una visita delle forze dell'ordine per un post su Facebook non è proprio il massimo. Anche perché il rischio concreto è che si criminalizzino le opinioni per pura partigianeria politica, come hanno peraltro sottolineato alcuni giornalisti e giuristi norvegesi sul quotidiano nazionale più noto, l'Aftenposten. Replicando a tali osservazioni, come riportato da Libero, il direttore del Dipartimento nazionale di polizia, Bjørn Vandvik, ha assicurato che è stato svolto un lavoro per mettere a punto delle linee guida, nelle quali fosse reso chiaro qual è il limite entro il quale gli agenti potranno e dovranno muoversi in futuro. E in passato? Vandvik tuttavia ammette di non poter escludere che "in passato si siano verificati casi in cui la polizia ha commesso errori in tale materia".
L'integrazione nel Paese scandinavo
Le critiche all'immigrazione e al multiculturalismo non sono certo campate per aria. Dal 1993 in poi la Norvegia è diventata una società molto più eterogenea etnicamente e culturalmente rispetto a prima. Nel 1993, riporta l'Aftenposten, c'era poco più di un decimo dei comuni in cui, secondo la Statistics Norway (SSB), non c'erano immigrati o figli di immigrati dall'Africa, dall'Asia o dall'America Latina. La quota maggiore in un singolo comune (Oslo) con il 9%. Dal 2015 non esistono più comuni senza immigrati. A Oslo la percentuale è salita al 20 per cento e in alcuni distretti ha superato il 40. Oltre a polacchi, lituani e svedesi, in Norvegia vi sono migliaia di immigrati somali, iracheni, siriani, pakistani ed eritrei. E non sempre la convivenza fra norvegesi e immigrati è stata idilliaca. Anzi.
Nel 2014, secondo un rapporto della direzione norvegese per l'immigrazione, i richiedenti asilo e gli immigrati clandestini erano accusati di compiere un numero doppio di reati rispetto ai cittadini norvegesi. Un altro rapporto, questa volta del 2019, confermava che il 70 per cento dei condannati per crimini violenti a Oslo sono immigrati. Insomma, qualche problema d'integrazione nel Paese c'è. E forse era meglio cercare di risolverlo piuttosto che introdurre controverse leggi sui crimini d'odio.
Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al
Cristina Cattaneo: «Lotto per dare un nome a chi è morto in mare». Susanna Turco su L'Espresso il 20 dicembre 2021. La più famosa tra i medici legali d’Italia dal 2013 è impegnata sul fronte dei migranti (fu lei a raccontare la storia del ragazzo con la pagella) e si batte per creare una banca dati europea degli scomparsi: «Si può fare, basta volerlo». Per restituire identità e dignità. E mandare avanti la vita dei vivi. «Non hanno ancora capito che quei morti in mare o in fondo ai barconi siamo noi». La donna che riannoda la vita e la morte, l’anonimato e l’identità, il mare e la terra, non lascia mai stare né sé né chi l’ascolta. Cristina Cattaneo, 57 anni la più celebre tra i medici legali d’Italia, impegnata anche sul fronte dei migranti da quando si occupò del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, chiama i suoi successi «cocciutaggine».
Il Natale degli sbarchi: record a quota 65mila. Valentina Raffa il 27 Dicembre 2021 su Il Giornale. Dalla Calabria alla Sicilia, flusso continuo di navi Ong. Libia, 28 corpi trovati in spiaggia. La quota di 64.632 migranti arrivati sulle nostre coste, con dati del Viminale aggiornati alle 8 del 24 dicembre, è solo un brutto ricordo, un record negativo superato con un Natale e un Santo Stefano di sbarchi a raffica. La macchina dell'accoglienza non si è fermata. «Buon Natale un piffero» aveva commentato al Giornale nei giorni scorsi un poliziotto guardando alle 4 navi Ong (Ocean Viking, Geo Barents, Rise Above e Sea Eye 4) che ciondolavano davanti alle coste libiche in attesa di prendere a bordo migranti proprio mentre il leader della Lega, Matteo Salvini, entrava in aula bunker a Palermo per il processo Open Arms dove è imputato per non avere concesso un approdo. Come da previsione le feste sono trascorse per gli uomini in divisa dietro agli sbarchi che non hanno conosciuto sosta dalla vigilia di Natale quando a Pozzallo, nel Ragusano, sono sbarcati dalla Sea Eye4 214 migranti, tra cui uno con sospetta tubercolosi e uno con la scabbia. «Un doveroso regalo di Natale della città a chi soffre e rischia la vita» ha commentato il sindaco, Roberto Ammatuna, innescando la polemica di quanti, invece, sono stanchi di vedere sempre lo stesso film. Altro approdo del 24 a Santa Maria di Leuca di 152 migranti su uno yacht e a Natale 60. Sempre il 25 la Ocean Viking è approdata a Palermo con 114 migranti. La Sea Watch 3 ha recuperato 446 migranti in 5 interventi in 3 giorni, l'ultimo ieri con il soccorso di 96 persone. Presto punteranno verso l'Italia. Sempre ieri sono giunti a Crotone 90 migranti su un veliero e 400 sul mercantile di bandiera russa «Mekhanik Herokin». Con questi due, gli sbarchi salgono a 5 in 24 ore a Crotone, dove a Natale sono arrivati in 289. E in serata si sono registrati due sbarchi autonomi nel Reggino a Capo Spartivento e a Bianco: sono in tutto 71 migranti. La Mezzaluna tunisina ha soccorso 48 migranti provenienti dalla Libia. Sulla nave Geo Barents di Medici senza frontiere ci sono 558 migranti recuperati in 8 operazioni. La nave resta in attesa di vedersi assegnata un porto sicuro come da copione dall'Italia. Al boom di partenze dei giorni scorsi è corrisposto, come ovvio, un numero maggiore di morti in mare. Da mercoledì si sono registrati 4 naufragi. Dell'ultimo ha dato notizia ieri la Mezzaluna rossa libica che ha recuperato 28 morti trasportati dalle onde su una spiaggia di Khoms. Ci sono 3 superstiti. Altri 27 migranti sono annegati davanti alle coste greche. Le autorità elleniche hanno messo in salvo 63 persone mentre la loro barca, con in tutto 80 passeggeri, stava affondando vicino all'isola di Paros. Altro incidente si è registrato giovedì, quando un barcone si è arenato su un isolotto nel sud della Grecia. Sono 11 i corpi recuperati, mentre 90 persone sono state messe in salvo. «Arriviamo vicini a 70mila sbarchi clandestini ha commentato Salvini - Che in periodo di Covid, di super green pass ci siano sbarchi clandestini senza regole e controlli non è rispetto nei confronti degli italiani che stanno facendo sacrifici». Valentina Raffa
Caos migranti. Migranti, tam tam in Libia: "Con la Meloni non si sbarca". Le confessioni dei giovani migranti mostrano il contratto tra navi Ong e trafficanti: "Più sicuro tornare a casa, che stare con scafisti". Nicolaporro.it il 2 Dicembre 2022.
"Ho pensato di attraversare il mare, ma ho sentito che questa donna appena eletta presidente in Italia non accetterà più i migranti. Sono confuso. Voglio andare". È una delle tante intercettazioni, riportate oggi dal quotidiano Libero, dei migranti africani, che arrivati in Libia sperano di raggiungere le coste del nostro Paese. Un messaggio che è arrivato direttamente a Michelangelo Severgnini, autore del docu-film L’Urlo, schiavi in cambio di petrolio.
Severgnini è un uomo di sinistra, ma non della sinistra progressista di oggi: "Non ho nulla a che vedere con questa sinistra parlamentare, e comunque sono un professionista indipendente", ha specificato Severgnini. Tra gli audio che ha raccolto c’è anche quello di un ragazzo nigeriano (K., di 21 anni): "Non è una buona idea per me pensare di attraversare il mare, perché il gommone potrebbe affondare e i libici potrebbero catturarmi. Per questo ho bisogno di tornare in Nigeria con un aereo, ma non ho soldi con me, gli Asma boys (giovani criminali libici) mi hanno picchiato e derubato". Severgnini commenta: "Con questo messaggio abbiamo la conferma che l’elezione di Giorgia Meloni ha raggiunto subito anche i migranti. In questo caso, ci troviamo di fronte a un giovane che vuole tornare in patria, mentre c’è un’altra testimonianza di L. (18 anni del Sud Sudan) che non può tornare indietro. È uno dei 44mila rifugiati già censiti in Libia". Ed anche per un 19enne marocchino sarebbe "più sicuro tornare a casa, che mettersi in mano agli scafisti".
Una situazione che va avanti ormai da anni, dove migliaia di giovani vengono attratti dalle promesse dei scafisti, vengono fatti arrivare fino alla Libia e poi lasciati nelle mani di loro stessi, in mare o all’interno di veri e propri campi di concentramento. La politica di restrizioni del governo Meloni, finalizzata anche a contenere le azioni delle navi Ong, serve proprio a questo: evitare che ragazzi africani finiscano nella rete della tratta di esseri umani.
Marco Bruna per corriere.it il 30 novembre 2022.
Erano disposti a tutto pur di scappare dal loro Paese d’origine e trovare asilo in Europa. Anche viaggiare 11 giorni e 11 notti - un percorso di oltre 2.700 miglia nautiche - aggrappati al timone di un’enorme petroliera, in mare aperto, rischiando di annegare.
Quando il Servizio di soccorso marittimo spagnolo li ha salvati, i tre uomini, probabilmente di origine senegalese, erano disidratati e indeboliti. Sono stati trasferiti negli ospedali di Las Palmas, sull’isola di Gran Canaria, per ricevere assistenza medica.
Secondo il sito web MarineTraffic, la nave battente bandiera maltese che li ha portati in Europa, la Alithini II, è partita da Lagos, in Nigeria, il 17 novembre ed è arrivata a Las Palmas lunedì.
I tre uomini si sono nascosti in un piccolo spazio sotto la poppa, proprio dove il timone si inserisce nella nave, e dove in caso di mare grosso non ci sarebbe stato scampo. L’immagine di loro tre seduti sul timone sotto la poppa, con i piedi a meno di mezzo metro dall’acqua, scattata dai marinai di Salvamar Nunki, ha fatto il giro del mondo.
Come ha dichiarato la responsabile del centro di soccorso marittimo di Las Palmas, si tratta di un luogo «inadatto a ospitare persone in mare aperto. I migranti hanno corso il rischio di morire per disidratazione, annegamento o ipotermia».
La nave ha viaggiato fino a Las Palmas senza scali. I tre uomini verranno rispediti nel Paese di origine: verranno reimbarcati sulla stessa nave che batte bandiera maltese e non potranno sbarcare finché non saranno nuovamente sulle coste nigeriane.
Non è la prima volta che gruppi di migranti in condizioni disperate vengono salvati nel porto di Las Palmas: nel novembre 2020 altre tre persone erano state trovate aggrappate al timone della Ocean Princess II. Un mese prima, altri tre si trovavano sulla petroliera norvegese Champion Pula. Entrambe le imbarcazioni arrivavano da Lagos.
Recensioni indipendenti: Human Flow (documentario). Federico Mels Colloredo su L'Indipendente il 27 novembre 2022.
Un documentario del 2017 della durata di 130 minuti, diretto del poliedrico artista cinese di fama mondiale Ai Weiwei che si è messo dietro la macchina da presa per raccontare migranti, profughi e rifugiati di tutto il mondo. Oltre 65 milioni di persone in tutto il pianeta sono state costrette a lasciare le proprie case per sfuggire a carestie, cambiamenti climatici e guerre nel più grande spostamento umano dalla Seconda Guerra Mondiale. Un viaggio attraverso una quarantina di campi profughi in 23 paesi, girato nel corso di un anno ricco di eventi, una catena di storie umane che si estende come una valanga in tutto il mondo, in paesi come Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Ungheria, Iraq, Israele, Italia, Giordania, Kenya, Libano, Macedonia, Malesia, Messico, Pakistan, Palestina, Serbia, Svizzera, Siria, Thailandia e Turchia. Il documentario spiega sia la scala sbalorditiva della crisi dei rifugiati sia il suo enorme impatto sociale e umano.
Human Flow è testimonianza dei suoi soggetti e della loro disperata ricerca di sicurezza, riparo e giustizia, dagli affollati campi profughi ai pericolosi oceani fino ai confini sempre di più delineati da muri e filo spinato. Un inarrestabile flusso di uomini, donne e bambini, scappati dalla loro casa con poche cose nei sacchetti di plastica, negli zaini, i migranti nelle coperte isotermiche, nei giubbotti arancioni degli sbarchi, lunghissime e sfiancanti camminate, interminabili attese con il richiamo ossessionante delle vite lasciate e la speranza di trovare aiuto. Un documentario che ha il pregio di non lasciarsi mai andare alla compassione e di mantenere un immersivo sguardo ad altezza d’umano, tecnicamente strutturato su poche parole, musica e una ricerca estetica delle immagini di alto livello con inquadrature dal forte impatto visivo, soffermandosi spesso sui volti smarriti e sulle azioni di vite disperate. In questo epico, intenso e commovente documentario, riuscito sia a livello artistico che di contenuti.
L’artista dissidente cinese Ai Weiwei mette la sua arte e il suo attivismo a servizio della causa come aveva già fatto a Firenze nel 2016, per richiamare l’attenzione sulla crisi umanitaria in atto, con una suggestiva istallazione di forte impatto politico, rivestì con gommoni rossi la facciata di Palazzo Strozzi, nello stesso anno tappezzò le colonne del Konzerthaus di Berlino con 14.000 giubbotti di salvataggio presi nell’isola di Lesbo. Come ha dichiarato lo stesso artista, «Il film è realizzato con profonde convinzioni in merito al valore dei diritti umani. In questo momento di incertezza, abbiamo bisogno di più tolleranza, compassione e fiducia per l’altro. In caso contrario, l’umanità dovrà affrontare una crisi ancora più grande». Un film notevole, forte e di ampio raggio, che fa riflettere sulla natura dell’uomo in un pianeta in grande movimento e in continua mutazione, che preannuncia un immediato futuro ancora più catastrofico. Il documentario è disponibile su RaiPlay. [di Federico Mels Colloredo]
Quelle rivelazioni degli 007 dietro il libro choc sulle violenze degli immigrati. Redazione il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.
In arrivo, il prossimo 6 dicembre, il volume di Guerriglia. Il tempo dei barbari (Signs Publishing) di Laurent Obertone, che racconta il futuro di una Francia in balìa di immigrati e gang criminali. Per scrivere questo volume, il secondo della trilogia, l'autore si è basato su ipotesi di lavoro dei servizi di intelligence, delle forze speciali e di testimonianze dirette di vittime di guerre civili. Pubblichiamo un estratto per gentile concessione dell'editore
In tutto il Paese la terza notte fu di gran lunga la più violenta. Non vi era più un poliziotto nelle strade. In mancanza di fazioni distinte non si parlava ancora di guerra civile ma di “disordini interni”. A causa dei saccheggi e degli incendi, gli incidenti si spostavano dalle banlieue verso i centri delle città e le zone commerciali. Il primo giorno, a Vélizy 2, la situazione restò normale, con migliaia di consumatori istupiditi che vi transitavano come ogni giorno, senza accorgersi l’uno dell’altro. Il secondo giorno, quando il presidente fu ammazzato, ci andò meno gente. Era rimasta a casa, per informarsi. La mattina del terzo giorno, alcuni uomini in nero, armati e senza insegne, incappucciati e muniti di casco, provenienti da Villacoublay, confiscarono quasi tutti gli alimenti. La sera stessa, vi furono molti feriti gravi prima dell’arrivo della polizia.
Si pretendevano delle distribuzioni. Si assaltarono dei negozi, poi si lanciarono dei sassi contro i poliziotti. Un agente della Sicurezza fu pugnalato. Un impiegato del centro aveva coperto il sangue con della sabbia e, nella notte, la polizia se n’era andata e la folla ritornata. Scoppiò il caos. In quel dedalo di insegne e di negozi, ciascuno s’impossessava di quel che poteva. La razzia interessò tutti i piani. Nel grande atrio del primo, una ragazza continuava a suonare il violoncello, senza molta convinzione, in mezzo agli spintoni e alle urla, alle risse per un televisore, alle spedizioni di bande e di attivisti. I giovani indigenisti, condizionati dalla smania di “riparazione” prendevano d’assalto i negozi. Il centro commerciale “più inclusivo dell’Île–de–France” viveva il suo grande corto circuito.
Una specie di crociera in pieno naufragio, con i ponti lussuosi che continuavano a luccicare, anche se per poco tempo ancora. Un gruppo di ivoriani armati di sbarre di ferro assaltavano una macchina distributrice di dolci e l’adiacente cabina per fototessere che continuava a sparare flash sulle ragazzette che stavano all’interno, tutte allegre, moltiplicando le loro pose grottesche, applaudite da un uomo dall’apparenza rispettabile che passava di là, pronto a mettersi dalla parte dei più forti.
Alcuni studenti di buona famiglia, partigiani sfaccendati del caos, protestavano contro le “disuguaglianze climatiche” saccheggiando le grandi marche. Alcuni di loro filmavano, con il sorriso alle labbra, riprendendosi a vicenda. Alcuni pannelli pubblicitari etnicizzati venivano rovesciati per terra da militanti indigenisti che vi vedevano una nuova forma di tratta schiavistica, l’eterno sfruttamento dell’uomo nero.
Le grandi imprese, comunque sempre attente alla comunicazione cittadina, stentavano a seguire le evoluzioni della giustizia sociale. Nella galleria superiore ci si accaniva contro un negozio di videogiochi, settore da lungo tempo preso di mira dagli attivisti della intersezionalità e, in particolare, contro gli articoli dell’azienda Nintendo: Mario, stereotipo binario e misogino, Wario, simbolo omofobo dell’“inversione” asseritamente malefica, Doley Kong, caricatura razzializzante facilmente riconoscibile della forza primitiva, i Pokemons, gioco ultra–specista che riduce gli animali alle loro caratteristiche particolari. Senza parlare dei mascheramenti Cosplay, associati al travestimento ricreativo, accusato di liberare il pensiero contro le persone transgender.
In compenso, nessuno aveva toccato il vicino locale associativo, una casa di risveglio alla fede coranica, sostenuta dall’ente regionale. “Contro l’islamofobia, educatevi, educateli!” proclamava il manifesto di una campagna per il “Burqa solidale”, i cui benefici erano versati all’edificazione di luoghi di culto e diretta inoltre a “smontare il mito degli attacchi con il coltello”.
Terminata la loro operazione di sensibilizzazione, gli attivisti anti–Nintendo si erano dispersi, lasciando la commessa in lacrime, prostrata, coi vestiti strappati, coperta di spruzzi di sangue finto. Una ragazza dai capelli blu, indignata per questo slut–shaming cercava di confortarla ma un’altra militante le fece notare che era paternalistico e misogino sovra–vittimizzarla. Un militante del collettivo “No–Offense”, a torso nudo, fisico scheletrico senza un muscolo, con un colorito pallido dalla testa ai fianchi, schiena curva intagliata dalle vertebre, scapole alate, si contorceva per uscire attraverso la vetrina fatta a pezzi, quando uno spigolo di vetro si piantò nella sua schiena, spezzandosi e lasciandoci una scheggia. Convinto anti–maschilista, rivendicando la sua fragilità in ogni occasione, lanciò un urlo da bambino e crollò in posizione fetale, ripiegando davanti a sé le sue lunghe membra senza carne, come un ragno sotto attacco che finge la morte.
I suoi compagni s’inginocchiarono sopra di lui e cercarono di calmarlo. Uno di loro appoggiò una t–shirt sotto la ferita da cui spuntava la scheggia di vetro per asciugare il sangue. Una banda di saccheggiatori che passavano accanto li sbeffeggiarono. Una eco–femminista che mostrava i suoi seni si mise a gridare quando un gruppo tentò di palpeggiarla. Una ragazzina, che piangeva a dirotto in mezzo alla galleria, fu portata via da uno sconosciuto. Famiglie smarrite cercavano di fuggire e, per scommessa dei ragazzini di quattordici anni, si misero ad aggredire dei passanti. C’erano verso i feriti dei gesti di solidarietà e di compassione, soprattutto da parte di donne, ma altri sputavano loro addosso ridendo e i testimoni lo trovavano quasi del tutto normale, tanto erano abituati alle estreme dissonanze del vivere–insieme–solidale–e–collettivo.
Bloccati in mare dal governo italiano. Meloni terrificante: il governo è dominato dai fascisti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Novembre 2022
Nel giorno in cui è scattata la proroga dell’accordo tra Italia e Libia per il finanziamento della marina di Tripoli (e dei lager dove concentrare ed eventualmente torturare i migranti che arrivano dall’Africa e dall’Asia, impedendo loro di imbarcarsi per l’Europa), proprio nello stesso giorno il governo tedesco è intervenuto per chiedere all’Italia di muoversi per mettere in salvo i naufraghi che si trovano su una nave di soccorso che batte bandiera tedesca e che si trova al largo di Catania. In questa nave, la Humanity 1, ci sono circa 170 persone tra le quali oltre 100 ragazzini.
Uno psicologo che è salito a bordo ha raccontato che i ragazzi, ma anche gli adulti, sono in condizioni di estrema disperazione. Hanno subìto violenze e torture nei lager libici dai quali sono fuggiti, e poi hanno visto amici e parenti morire affogati durante il naufragio dei gommoni, prima che arrivassero i soccorsi della Ong tedesca. Ora sono lì, al largo, abbandonati, perché le autorità italiane non vogliono soccorrerli né autorizzare la Humanity 1 a entrare in porto. Stessa sorte per altri 234 naufraghi salvati dalla Ocean Viking, che batte bandiera norvegese, e per altri 572 a bordo della Geo Barents, anche lei imbarcazione norvegese.
L’Italia come ha risposto agli appelli dei tedeschi e anche della portavoce della Commissione europea? Con vari pretesti burocratici per non intervenire e poi con la frase agghiacciante della premier Meloni: “Per noi le navi delle Ong straniere sono navi pirata”. Capito? Chi soccorre è un pirata, chi abbandona i naufraghi un patriota. Da molti mesi tanti amici, politici, giornalisti, intellettuali, ci ripetono ogni giorno: “Prima di giudicare questo governo, aspettate che agisca”. Abbiamo dato loro ragione. Abbiamo aspettato. Dopo questa dichiarazione di Giorgia Meloni, terrificante, possiamo finalmente giudicare. E dire che purtroppo avevano ragioni tutti quelli (che noi abbiamo accusato di estremismo e di pregiudizi) i quali dicevano che ci trovavamo di fronte a un esecutivo dominato dai fascisti.
“Sono Giorgia, sono cristiana, sono madre, sono donna, sono italiana”, ha ripetuto tante volte Giorgia Meloni. Almeno una di queste affermazioni è in contrasto clamoroso e aperto con i suoi atti. Sono cristiana? In cosa consiste la sua cultura cristiana? Nel sostenere che chi soccorre i naufraghi è un pirata? Io personalmente penso che la modernità sia solidarietà ma anche libertà. E dunque ho sempre creduto che la libertà di opinione deve essere assoluta. I fascisti, per me, devono essere pienamente liberi di esprimersi e se vincono le elezioni anche di governare (se trovano alleati che glielo permettono). Non capisco però perché dobbiamo sfumare le parole. Se sono fascisti è giusto dirlo. In quel grido (“sono Giorgia…”) sarebbe stato ragionevole e onesto sostituire la parola “cristiana” con la parola fascista.
L’Italia è in pericolo? Il governo ha il dovere di difendere le frontiere come fece il maresciallo Diaz nel 1917? Difenderle dalla minaccia di 140 ragazzini soli e affamati? Non riesco a trovare le parole per fare polemica, perché non avrei mai immaginato di potermi trovare nella condizione assurda di dover scovare qualche elemento a sostegno dell’ipotesi che salvare della gente dispersa in mare, e disperata, e povera, e affamata, e assetata, sia non solo una cosa buona e bella, ma un dovere assoluto delle persone e degli Stati. Pensavo che fosse lapalissiano.
Patriottismo, patriottismo. Io per fortuna non sono mai stato patriottico, e credo che mai lo sarò (da ragazzo litigavo sempre con mia nonna, un po’ monarchica, su questo tema…), ma se fossi patriottico oggi mi indignerei, perché l’Italia è guardata con discreto sdegno dall’Europa e dagli altri paesi (scusate: “Nazioni…”) per il cinismo e l’orrore del suo atteggiamento verso i naufraghi, i profughi e le Ong. Come si fa a dire che non hanno ragione i tedeschi a richiamarci ai nostri doveri?
Che si può fare di fronte a questo muro “nero” che mette a repentaglio la vita di quasi 1000 persone e di 150 ragazzini? L’unica ricetta è quella che 60 anni fa ci dava don Milani (qualcuno ricorda ancora il nome di questo sacerdote trascinato a processo e condannato per vilipendio alle forze armate, e che diede l’anima per contrastare la scuola meritocratica e affermare l’uguaglianza come valore essenziale per l’istruzione?). Cosa ci disse don Milani? “Disobbedire è una virtù”. In molte circostanze è così. È così in questa circostanza. L’atteggiamento giusto è quello che un paio d’anni fa assunse Carola Rackete che forzò il blocco e salvò molti naufraghi. I fascisti, se vincono le elezioni, hanno il diritto di governare. Noi abbiamo diritto di dire loro che sono fascisti e di disobbedire.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Berlino se ne frega. Siamo tornati al 2018? Vedremo rispuntare la "Capitana" Carola? Per gli dei, no. Marco Gervasoni il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.
Siamo tornati al 2018? Vedremo rispuntare la «Capitana» Carola? Per gli dei, no. Posto che la politica di non far sbarcare le navi delle ong è una brutale contesa sulle spalle di donne e bambini e che nulla risolve, perché, comunque, da quando c'è il nuovo governo, sono già sbarcati 9000 migranti, bisogna pur dire che il sovranismo di alcuni grandi Stati della Ue è non poco irritante. Primo fra tutti, la Germania, il cui nazionalismo si è talmente spinto in avanti da provocare una crisi con il suo alleato storico (della storia recente ovvio), la Francia. Non crediamo perciò che, nella nota dell'ambasciata tedesca a Roma contro il governo italiano sulla nave Humanity, vi fosse lo zampino di Letta. Non ve n'era bisogno. La situazione anzi è peggiore che nel 2018.
Allora la Germania temeva la crisi migratoria, oggi questo dossier pare pacificato. A Berlino c'era Merkel, fautrice della Unione Europea alimentata a gas russo - storicamente, più putinista di lei vi è stato solo il suo predecessore Schröder. Era una Germania all'apogeo, che aveva risolto il suo amletico, atavico, dubbio, se essere occidente o oriente, facendo incontrare entrambi. Era una Germania che non poteva permettersi di essere nazionalista, anche perché a Washington stava Trump. Era, quindi, pronta a farsi carico anche delle crisi migratorie. Oggi lo scenario è del tutto diverso. A Berlino vi è una figura scialba e priva di carisma, spinta dalla Francia e dagli Usa a sostenere Kiev, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Di fronte al dubbio se essere occidente o oriente, non riuscendo più a tenere assieme entrambi, la Germania ha deciso di ripiegare su se stessa: sulla politica degli armamenti rompe con Parigi, mentre su quella economica, non potendo più contare sul gas russo, Scholz vola a Pechino con il gotha dell'industria tedesca. Senza dire che Berlino frena qualsiasi intervento sul gas perché può permettersi di condurre una politica di autosufficienza, non energetica, ma di spesa, a sostegno delle imprese e delle famiglie. La Germania del governo di sinistra rappresenta quindi un doppio monito. Ai sovranisti, mostra cosa significhi davvero, concretamente, una politica sovranista: un guaio per noi. Agli ultrà dell'europeismo, Berlino rompe il sogno della fratellanza europea e li obbliga a un brusco risveglio alla realtà: quella che ci dice quanto nella Ue contino ancora i nudi rapporti di forza tra nazioni.
Migranti, schiaffo norvegese: "L'accoglienza tocca all'Italia". Solo la Francia ci tende la mano. Duro braccio di ferro Parigi: pronti ad aiutarvi. Il paradosso: due navi battono bandiera dello Stato scandinavo. Domenico Di Sanzo il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.
In Italia cambiano i governi ma in Europa non cambia la musica sugli immigrati. Tocca a Roma farsi carico dello sbarco delle quattro navi di Ong a ridosso delle coste siciliane, poi si vedrà. L'unica apertura sull'accoglienza di parte delle persone che in questo momento si trovano in mezzo al mare arriva dalla Francia. «Abbiamo detto all'Italia, e lo diciamo insieme alla Germania, che se quella nave umanitaria (la Ocean Viking, ndr) verrà accolta in Italia, anche noi accoglieremo una parte dei migranti, delle donne e dei bambini, affinché l'Italia non si debba prendere carico da sola del fardello di questo arrivo di migranti», dice il ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin. «Siamo pronti ad accogliere i migranti, come ogni Paese», dichiara il ministro della solidarietà della Francia Jean Christophe Combe. A patto, però, che il governo italiano faccia sbarcare subito in uno dei suoi porti la nave Ong battente bandiera norvegese. «Sono certo che l'Italia rispetterà il diritto internazionale e accoglierà in uno dei suoi porti la nave umanitaria Ocean Viking della Ong Sos Méditerranée, bloccata in mare con 234 migranti a bordo - prosegue Darmanin - il diritto internazionale è molto chiaro: quando una barca chiede di accostare con dei naufraghi a bordo, è il porto più sicuro e più vicino che deve accoglierla». Che poi è lo stesso concetto ribadito negli scorsi giorni dalla Germania per quanto riguarda la nave Humanity 1, imbarcazione battente bandiera tedesca.
Un'interpretazione diversa rispetto a quella del governo italiano, che invece chiede nuovi meccanismi di accoglienza, basati sulla richiesta di asilo da parte dei migranti da sottoscrivere direttamente a bordo della nave. Richieste di protezione che, in questo caso, passerebbero al vaglio dei Paesi di cui le Ong battono bandiera. Sul punto, è arrivato già il no della Germania alla proposta del Viminale. Una chiusura a cui si aggiunge quella della Norvegia, relativa alla Ocean Viking, imbarcazione della Ong Sos Mediteranée battente bandiera norvegese. Berlino, però, stando a quanto affermato dal governo francese, potrebbe farsi carico di una parte dei migranti una volta sbarcati in Italia.
«La responsabilità primaria nel coordinamento dei lavori per garantire un porto sicuro alle persone in difficoltà in mare è di competenza dello Stato responsabile dell'area di ricerca e salvataggio in cui è stata prestata tale assistenza», si legge in una nota di Oslo. I norvegesi, insomma, se ne lavano le mani, senza nessun accenno di apertura. «La Norvegia non ha alcuna responsabilità ai sensi delle convenzioni sui diritti umani o del diritto del mare per le persone imbarcate a bordo di navi private battenti bandiera norvegese nel Mediterraneo», scrivono dal governo del Paese scandinavo. Un no che vale per la Ocean Viking, ma anche per la Geo Barents di Medici Senza Frontiere, un'altra nave attualmente in mare con 572 migranti, anch'essa battente bandiera norvegese. Le imbarcazioni in attesa nel Mediterraneo sono attualmente quattro: la Humanity 1, la Rise Above (battenti bandiera tedesca), la Ocean Viking e la Geo Barents (battenti bandiera norvegese). Gli immigrati in cerca di un porto di sbarco sono in totale 1057, con le condizioni più difficili a bordo della Humanity 1 e della Ocean Viking, dove stanno cominciando a esaurirsi le scorte di cibo e medicinali.
Un'altra apertura alle richieste italiane arriva dalla Ong Sos Mediterranée. «Sulla questione migranti da anni sosteniamo che gli Stati dell'Europa centrale si debbano fare carico di alleviare la pressione degli arrivi sull'Italia e su Malta», sottolineano dall'organizzazione che da giorni è al largo della Sicilia sulla Ocean Viking. Meno morbida la posizione della Ong Sos Humanity, in mare con Humanity 1, che si accoda alla Norvegia: «La bandiera non ha nulla a che fare con i diritti o i doveri di asilo».
Fabrizio Caccia per corriere.it il 26 ottobre 2022.
La prima mossa del governo Meloni sul fronte migranti è un altolà posto ieri a due navi Ong impegnate nel Mediterraneo — la Ocean Viking e l’Humanity One — e porta la firma del neoministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, d’intesa con la Farnesina, guidata ora dal ministro Antonio Tajani.
Piantedosi, in qualità di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, ha inviato una direttiva ai vertici delle Forze di polizia e della Capitaneria di porto, per informarli delle note verbali già trasmesse dal nostro ministero degli Esteri alle due ambasciate degli Stati di bandiera di Ocean Viking (Norvegia) e Humanity One (Germania), secondo cui le condotte delle due navi in navigazione nel Mediterraneo, con un totale di 326 migranti a bordo già soccorsi, non sono «in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale».
Pertanto, sulla base dell’articolo 19 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sul diritto del mare, si sta valutando ora di imporre loro il divieto d’ingresso nelle acque territoriali.
«Le operazioni di soccorso - fanno sapere dal Viminale - sono state svolte in piena autonomia e in modo sistematico in area Sar senza ricevere indicazioni dalle Autorità statali responsabili, ovvero Libia e Malta, che sono state informate solo a operazioni avvenute. Così come l’Italia».
La Convenzione dell’Onu, a cui fa riferimento la direttiva, afferma che «le navi di tutti gli Stati godono del diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale». Ed il passaggio è inoffensivo «fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero».
Queste ultime condizioni si verificano se la nave è impegnata in alcune attività, tra cui «il carico o lo scarico di persone, in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero».
La nuova direttiva rispecchia quella emanata nel marzo 2019 dall’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, quando Piantedosi era capo di gabinetto. Lunedì scorso, lo stesso Salvini, neo ministro delle Infrastrutture, aveva convocato il comandante della Guardia costiera, l’ammiraglio Nicola Carlone, per farsi illustrare la situazione nel Canale di Sicilia, dove si trovano ora Ocean Viking e Humanity One. E ieri Salvini ha plaudito all’iniziativa di Piantedosi: «Come promesso, questo governo intende far rispettare regole e confini».
Torneranno i «porti chiusi»? «Vedremo», ha tagliato corto ieri Piantedosi, che al Giornale Radio Rai ha però aggiunto: «La salvezza delle persone e l’approccio umanitario vengono prima di tutto».
Le due navi Ong non hanno ancora ricevuto comunicazioni dirette dalle autorità italiane: «Noi osserviamo la legge internazionale del mare, salvando persone in difficoltà», si difende Sos Humanity, la ong tedesca che gestisce Humanity One. E così pure la ong Sos Méditerranée, responsabile di Ocean Viking, assicura di «aver sempre operato nel rispetto della legge».
Ci risiamo. Piantedosi dice che se i migranti sono su navi straniere si può vietare lo sbarco in Italia. L'Inkiesta il 26 Ottobre 2022
«Noi non possiamo accettare il principio che uno Stato non controlli i flussi di chi entra», dice il ministro dell’Interno che ha emanato una direttiva per fermare le due navi Ocean Viking e Humanity 1, nel Mediterraneo con oltre 300 migranti a bordo. «Fin tanto che quei poverini sono sulle navi, tutti si commuovono. Appena a terra, guardano tutti da un’altra parte. Ho visto a Roma gente che era sbarcata 2-3-4 anni fa, ha fatto richiesta di asilo, e adesso sta gettata in strada senza speranza. Chi parla di integrazione, di ruolo dei Comuni e dello Stato, non sa di che parla»
(La Presse)
Primo giorno da ministro dell’Interno. E prima clamorosa decisione di Matteo Piantedosi: le due navi umanitarie che hanno salvato oltre 300 migranti nel mare tra Libia e Malta, la «Ocean Viking» battente bandiera tedesca e la «Humanity 1» con bandiera norvegese, per il nuovo titolare del Viminale devono essere fermate. In una direttiva spiega che sono fuorilegge, «non in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale». Ecco perché sta valutando di emettere un «divieto» di ingresso nelle acque territoriali italiane. «Le operazioni di soccorso sono state svolte in modo sistematico in area Sar di Libia e Malta, informate solo a operazioni avvenute», si legge.
Il governo tramite la Farnesina ha coinvolto le ambasciate di Germania e Norvegia. E il neo ministro degli Esteri, Antonio Tajani, conferma: «Richiamiamo tutti al rispetto delle regole. Quello è territorio tedesco e norvegese».
«Non intendo abbandonarmi alla rassegnazione», dice Piantedosi in un colloquio con La Stampa. «Ho voluto battere un colpo per riaffermare un principio: la responsabilità degli Stati di bandiera di una nave. Ero vicecapo di gabinetto ai tempi di Maroni e fummo condannati dalla Corte di Strasburgo per illecito respingimento. Il famoso caso Hirsi. L’intera sentenza ruotava attorno al principio che se un migrante sale su una nave in acque internazionali, tutto il resto è responsabilità del Paese di bandiera. Questo principio vale solo per l’Italia e non per Germania e Norvegia?» .
Piuttosto che rimettere mano ai decreti Salvini, Piantedosi riparte quindi dalla Convenzione del mare e quel passaggio sulla libertà di movimento di una nave «fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero».
Si ricomincia, insomma. Ci provò già il governo Conte uno con Matteo Salvini al Viminale, che ha subito applaudito la mossa di Piantedosi. Ora ritenta il governo Meloni. Il neo ministro non si illude di vincerla alla prima mossa. «Peraltro gli sbarchi non dipendono solo dalle Ong», dice. «Però è anche vero, pur se negano, che queste navi umanitarie sono un fattore di attrazione per i migranti, il cosiddetto “pull factor”. In Europa lo sanno tutti; se ne parlava apertamente quando andavo alle riunioni di Bruxelles da vicecapo della polizia».
Piantedosi sa che la partita sarà lunga e complessa. Giorgia Meloni alla Camera ha spiegato che vuole arrivare al fatidico blocco navale da organizzare con l’intera Europa, anche se ora lo chiama Operazione Sophia, rimandando all’operazione europea di contrasto al traffico illecito di esseri umani conclusa a marzo 2020. E nel suo manifesto ha ipotizzato la creazione di hot-spot direttamente in Nord Africa. Ma il nuovo governo guarda soprattutto alla Libia. «E infatti», dice Piantedosi, «già in settimana faremo un Comitato per la sicurezza con le agenzie di intelligence. Voglio capire la reale situazione in Libia e che cosa si può fare».
Il punto – insiste – è «che noi non possiamo accettare il principio che uno Stato non controlli i flussi di chi entra. Io credo molto nei corridoi umanitari di Sant’Egidio. Frenare le partenze significa anche limitare le morti in mare, che mi ripugnano e che vedo ormai quasi non fanno più notizia». E aggiunge: «Fin tanto che quei poverini sono sulle navi, tutti si commuovono. Appena a terra, guardano tutti da un’altra parte. Ho visto a Roma gente che era sbarcata 2-3-4 anni fa, ha fatto richiesta di asilo, e adesso sta gettata in strada senza speranza. Chi parla di integrazione, di ruolo dei Comuni e dello Stato, non sa di che parla. Come? Chi? Con quali soldi?» . Conclusione: «Nella discussione si tende a contrapporre gli aspetti umanitari con il governo dei flussi e il rispetto delle regole: in realtà, le due cose si fondono».
La legge del mare. Perché è sbagliata la dottrina Piantedosi sull’accoglienza delle navi ong. Alessandro Balbo su L'Inkiesta il 27 Ottobre 2022
Il neo ministro dell’Interno vorrebbe vietare l'ingresso nelle acque territoriali italiane a due navi di organizzazioni umanitarie con a bordo oltre 320 persone perché sarebbero fuorilegge. Ma così violerebbe la normativa internazionale
«Ho voluto battere un colpo per riaffermare un principio: la responsabilità degli stati di bandiera di una nave». In quale fonte del diritto internazionale il neo-ministro dell’Interno Matteo Piantedosi abbia trovato questo principio, non è dato sapere. Sta di fatto, però, che tale convinzione è bastata all’ex capo di gabinetto di Matteo Salvini per valutare di impedire a due navi di organizzazioni umanitarie, con a bordo centinaia di persone in difficoltà soccorse nel Mediterraneo, l’ingresso nelle acque territoriali italiane. Una decisione che potrebbe portare Piantedosi in tribunale, esattamente come accaduto a Salvini (che è ancora sotto processo per il caso Open Arms).
Facciamo un passo indietro. Nei giorni scorsi, le navi umanitarie Ocean Viking e Humanity 1 hanno effettuato una serie di soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo Centrale, recuperando in totale più di 320 persone. Il ministro dell’Interno Piantedosi, intenzionato a prevenirne lo sbarco nei porti italiani, ha successivamente emanato una direttiva ai vertici delle forze di polizia e della Capitaneria di porto «perché informino le articolazioni operative che il ministero degli Affari esteri, con note verbali alle due ambasciate degli Stati di bandiera (Norvegia e Germania), ha rilevato che le condotte delle due navi Ocean Viking e della Humanity 1 attualmente in navigazione nel Mediterraneo non sono «in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale».
Lasciando da parte gli interrogativi su quale «spirito» abbiano le norme a cui si riferisce Piantedosi, per comprendere la sua decisione possono risultare utili le giuridicamente discutibili dichiarazioni riportate su La Stampa: secondo il ministro le due navi sarebbero fuorilegge poiché «le operazioni di soccorso sono state svolte in modo sistematico in area Sar di Libia e Malta, informate solo a operazioni avvenute», cosa ripetutasi con l’Italia. Le ambasciate di Germania e Norvegia sarebbero state coinvolte in quanto, dato che le due imbarcazioni battono le bandiere dei due Paesi, questi avrebbero dovrebbero consentire lo sbarco nei propri porti.
Piantedosi fa riferimento alla sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Hirsi, che secondo il ministro «ruotava attorno al principio che se un migrante sale su una nave in acque internazionali, tutto il resto è responsabilità del Paese di bandiera» (ma che in realtà ribadisce il contrario, ovvero che il Regolamento di Dublino non è applicabile a bordo delle navi). Le condotte saranno valutate sulla base dell’art.19 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (Unclos, detta anche “Convenzione di Montego Bay”), che considera il passaggio di una nave come «inoffensivo» fintanto che «non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero».
Sono molteplici gli aspetti secondo cui l’impostazione di Piantedosi, che ricalca la dottrina dei porti chiusi tanto cara a Matteo Salvini, sarebbe contraria alla normativa internazionale.
L’articolo addotto dal ministro come base giuridica per la valutazione è già stato considerato inapplicabile dalla dottrina nei casi di soccorso umanitario, e che al centro della normativa internazionale sul soccorso in mare c’è, appunto, il soccorso: la tutela della vita umana, sopra tutto e prima di tutto. E quindi il salvataggio, che può avvenire, contrariamente a quanto sostenuto dal ministro, anche senza notifica alle centrali di coordinamento dei vari Paesi. Questo perché ogni eventuale ritardo da parte delle istituzioni, sia esso involontario o volontario, potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza delle persone in pericolo di vita.
Si tratta di un principio ribadito proprio dall’art.98 della suddetta Convenzione Unclos, la cui menzione consente anche di trattare il tema della responsabilità in capo allo Stato di bandiera: «ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: 1) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa».
Una responsabilità c’è, dunque, ma solo per quanto riguarda l’assicurarsi che il soccorso avvenga, e avvenga più velocemente possibile. La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) obbliga il comandante della nave a «procedere con tutta rapidità» nel soccorso, «se possibile informando» i servizi di ricerca e soccorso «del fatto che la nave sta effettuando tale operazione» (Capitolo V, Regola 33). Anche l’affermazione di Piantedosi sulla mancata notifica come causa di illegittimità, perciò, è smentita.
La normativa internazionale, da questo momento, prevede che il coordinamento sia appannaggio degli stati costieri interessati. E qui occorre spiegare i concetti di Sar e Pos. Le zone Search and rescue (Sar) sono aree marittime di ricerca e soccorso, non per forza coincidenti con le acque territoriali di un determinato Paese, disciplinate dalla Convenzione internazionale di Amburgo (“Convenzione Sar”) del 1979. Secondo quanto scritto finora, per configurare la necessità di soccorso deve esserci situazione di pericolo. La convenzione Sar lo identifica con la nozione di distress, una «situazione in cui vi è la ragionevole certezza che una persona, nave o altra imbarcazione è minacciata da un pericolo grave e imminente e necessita di assistenza immediata». In teoria, il coordinamento del soccorso è da attribuirsi allo Stato titolare della zona Sar in cui è avvenuto. Tuttavia, alla luce di quanto affermato sin qui, va da sé che venga assegnato de facto al centro di coordinamento che per primo risponde alla richiesta.
A questo punto, la Convenzione prevede, in capo all’autorità nazionale che ha assunto il coordinamento, di individuare il più vicino Place of safety, ovvero il luogo sicuro dove sbarcare le persone soccorse, e in cui cessano gli obblighi che il diritto internazionale prevede per lo Stato. Non quindi il porto più vicino, come spesso si sente dire motivando l’intenzione di respingere le navi in Libia o in Tunisia, e nemmeno un generico porto sicuro, ma un luogo fisico ritenuto sicuro dal punto di vista fisico e che consenta la presentazione di domanda di asilo.
È per questo che, sebbene il primo porto sicuro non sia necessariamente nello Stato che ha effettuato il coordinamento, spesso la scelta ricade sull’Italia: né la Libia (la cui zona Sar è stata istituita ma presenta numerose criticità per la sua situazione politica interna e per le condizioni dei migranti nei centri di detenzione), né la Tunisia (in cui manca una legislazione sul diritto d’asilo), né Malta (strutturalmente inadatta a gestire grandi flussi di migranti e già complice di violazioni) soddisfano i requisiti sopra elencati.
Ed è sempre per questo che il rifiuto di indicare un porto sicuro, come sta avvenendo in queste ore con le navi Ocean Viking e Humanitas 1, è considerato illegittimo, così come l’eventuale espulsione o sbarco in luogo non sicuro viola il principio del diritto internazionale di non respingimento. Come ricordato in un altro articolo, i respingimenti alla frontiera sono illegali: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, all’art.14, stabilisce il «diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni», mentre la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951 sancisce il principio di non-refoulement, ossia di non respingimento, affermando all’art.33 che «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
Ultimo ma non ultimo è il rango del diritto internazionale nell’ordinamento italiano. Sì, perché le norme sopra citate hanno, in Italia, valenza costituzionale, e quindi superiore alle leggi ordinarie. L’art.10 assegna rango costituzionale alle consuetudini internazionali e agli accordi relativi alla condizione dello straniero, mentre l’art.11 lo estende al diritto comunitario. Dall’introduzione dell’art.117, godono di forza costituzionale anche i trattati internazionali.
In conclusione, la dottrina Piantedosi sembra essere solo l’ultima di una serie di azioni – portate avanti sia dalla destra che dalla sinistra, nel corso degli anni – volte a disincentivare la salvaguardia della vita in mare da parte delle organizzazioni non governative, ed eliminare così gli sguardi indiscreti su possibili violazioni dei diritti umani.
(ANSA il 4 ottobre 2022) - In Svizzera permane un "razzismo sistemico" da parte delle forze dell'ordine e del sistema giudiziario nei confronti delle persone di origine africana che si traduce in una routine fatta di fermi di polizia, perquisizioni invasive, insulti razzisti, violenze e aspettativa di impunità. E' quanto hanno denunciato esperti delle Nazioni Unite della task force per la situazione dei diritti umani, dopo una visita nel paese europeo.
Catherine Namakula, presidente del gruppo ha dichiarato che "le operazioni di polizia includono arresti brutali, trattamento degradante e rafforzamento degli stereotipi negativi". Inoltre "le vittime sono dissuase con la violenza dallo sporgere denuncia, il tutto supportato dai sistemi giudiziari", ha insistito la presidente del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, secondo cui la significativa discriminazione razziale strutturale e il razzismo anti africano, in Svizzera "causa gravi impatti sui diritti economici, sociali, culturali, civili e politici".
Il rapporto stilato dalla task force Onu mostra anche che nel Paese il razzismo anti africano è ancora sottovalutato o attribuito alla suscettibilità delle vittime e che le persone di origine africana vengono "raffigurate come trafficanti di droga, parassiti sociali o richiedenti asilo indesiderati".
"Queste immagini sono rafforzate da campagne politiche, profilazione razziale e abuso di autorità. Dunque gli esperti raccomandano siano avviate indagini su tutti i decessi avvenuti in carcere o nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e l'adozione di misure antirazzismo.
Comincia la caccia ai migranti: bloccata la Sea Watch per “eccesso di salvataggio”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Settembre 2022
Le autorità italiane hanno bloccato la Sea Watch. Una delle navi di soccorso che salvano vite nel Mediterraneo, svolgendo un lavoro preziosissimo. La Sea-Watch batte bandiera tedesca. Le autorità italiane l’hanno bloccata con un pretesto paradossale: aveva salvato troppe vite. Hanno disposto quello che si chiama fermo amministrativo. Tra qualche riga vi spieghiamo come funziona questo paradosso. Prima non possiamo non fare una osservazione. Difficile immaginare che la decisione di fermare una nave dei soccorsi, proprio nel momento in cui più c’è bisogno di soccorso in mare, non sia presa sulla spinta di un input politico. L’autorità che è responsabile della decisione è il ministero dei trasporti (Giovannini è il ministro, peraltro persona, almeno apparentemente, ragionevole e pacifica) ma l’impressione è che l’indicazione di incattivire la guerra ai profughi sia una indicazione politica.
Che nasce in un clima di campagna elettorale molto acceso, nel quale, ancora ieri, sono intervenuti con toni molto oltranzisti sia Matteo Salvini sia, soprattutto, Carlo Calenda. Salvini si è limitato a ripetere quello che dice da tanto tempo: “Non vedo l’ora di ricominciare il lavoro che si era interrotto al Papeete e bloccare le barche dei clandestini”. Salvini i profughi li chiama così: clandestini. E al suo lessico l’altra sera si è associato pienamente Carlo Calenda, che pare abbia deciso di scavalcarlo, addirittura, nella furia anti-profughi. Non solo ha chiesto massimo rigore “nell’interrompere le rotte dei clandestini” (come si interrompono queste rotte? Affondandoli? No, ha spiegato Calenda: costringendoli nelle mani delle guardie libiche, che poi li porteranno nei campi di concentramento); ma dopo aver chiesto rigore ha spiegato che gli immigrati noi dobbiamo sceglierceli. Come si faceva nel Settecento e nell’Ottocento, in America, con gli schiavi neri. Venivano portati al mercato di Charleston, in Carolina, e battuti all’asta.
I migliori fruttavano molti soldini ai loro proprietari, i più scadenti venivano rispediti indietro e di solito morivano nel viaggio di ritorno. Del resto Calenda ha spiegato che così fan tutti. E probabilmente non ha torto: il progetto di settori abbastanza importanti dell’establishment italiano e di alcuni paesi europei è quello: usare l’immigrazione in modo razionale e funzionale alle economie occidentali. Cioè non considerare la fuga dai paesi poveri e dalle guerre un’emergenza da gestire con saggezza e solidarietà, ma come un’occasione per reclutare forza lavoro (della quale c’è assoluta carenza in Occidente) riducendone al massimo i costi. Per fare questo bisogna sbarrare le rotte dei disperati. Perché i disperati non ammettono selezione se non a norma di legge. E la legge, si sa, spesso è molto fastidiosa.
Ragionando così si capiscono molte cose anche della decisione di ieri delle autorità italiane, che peraltro fa strame di una recentissima sentenza della Corte di Giustizia europea, la quale – su richiesta di alcune associazioni di soccorso e poi del Tar di Palermo – aveva spiegato che il salvataggio in mare è un dovere e che i controlli possono esserci ma non devono essere il pretesto per fermare le navi. Invece proprio questo è successo. Controllo alla Sea Watch nel porto di Reggio Calabria, durato addirittura 13 ore e mezzo, perché evidentemente l’ordine era di trovare qualcosa che non andava. Però non è stato trovato niente. E allora si è deciso di sanzionare l’eccesso di salvataggio. Cioè, la tesi delle autorità italiane è che il numero delle persone salvate nell’ultimo intervento in mare era così alto da mettere in pericolo la sicurezza della nave. La quale però, guidata dal suo equipaggio, era giunta tranquillamente in porto. Immaginando che non si tratti di semplice pretesto, cosa bisognerebbe pensare? Che il ministero dei trasporti chiede ai soccorritori di contare ogni volta il numero degli aventi bisogno al salvataggio, prima di salvarli, e se questo numero dovesse risultare superiore ai criteri stabiliti dal ministero, procedere all’abbandono degli esuberi che in questo modo affogheranno senza violare le direttive del governo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
E' solo sensazionalismo. Regina cattiva e bimba buona, titolo populista del Riformista: retorico paragonare Elisabetta alla piccola migrante. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Settembre 2022
Caro direttore, ti scrivo questa lettera di rispettoso dissenso sul titolo di apertura e testo (di Luca Casarini) della prima pagina del Riformista di sabato 10 settembre. Non intendo dissentire dal testo di Casarini che esprime le sue opinioni, ma del combinato disposto tra titolo e testo che compongono un poco accettabile effetto speciale. Il titolo era: “Mamma, ho sete… Poi è morta. Ora parlateci della regina”.
La regina in questione è Elisabetta, morta e al centro dell’attenzione mondiale. Ora, va bene che, come avrebbe detto Giovan Battista Marino, “è del giornalista il fin la meraviglia”, che parlava di poeti, i media dei suoi tempi. E ho pensato: eccolallà, abbiamo sparigliato: è lo spariglio fra banalità e sorpresa che è l’arte del nostro mestiere. Anche essere faziosi e asimmetrici, per carità, va benissimo. Poi ho letto il pezzo. Poi di nuovo il titolo. E come molti lettori amici mi sono chiesto e chiedo anche a te, gentile (e tollerante) direttore, se fossero davvero il coraggio e la verità a suggerire quell’ingenua, troppo ingenua e anche populista accoppiata della regina cattiva e della bambina buona, unite nella data della morte ma separate dai ruoli di vittima e di persecutrice.
È davvero possibile che se tira le regali cuoia una donna di 96 anni che si è ritrovata sul gobbo senza averlo chiesto il mestiere di capo dello Stato, noi la mettiamo in simmetrica opposizione con la morte di una bambina di quattro anni su uno dei barconi che partono dall’Africa in cerca di approdi insicuri? Di che cosa sia morta la piccola Loujin messa dai genitori sulla barca della fortuna o della morte, non si sa. Ma certamente si tratta di sofferenze atroci perché le autorità di Malta non consentono approdi a chi tenta la sorte nel Mediterraneo.
Ma che c’entra la regina Elisabetta? Lo spiega l’autore: “Avanti, parlatemi della Regina. Del suo Castello, dei suoi amati cavalli. Dei suoi cani. Delle 700 stanze di Buckingham Palace”. All’indignata invettiva segue una breve storia dell’universo in cui si caricano sulle spalle della defunta i massacri in Irlanda, la morte di Diana, il colonialismo, i rapporti col dittatore Pinochet e l’insignificanza del fatto che Elisabetta si oppose, senza averne il potere, a Margaret Thatcher, suo primo ministro che tifava per il regime sudafricano mentre Elisabetta era schierata con Nelson Mandela.
Mi è tornata in mente la canzone di Jannacci Ho visto un re che diceva: “Ho visto un re che piangeva tante lacrime seduto sulla sella che bagnava anche il cavallo”. Il coro commentava: “Povero re. E povero anche il cavallo”. Era una ballata degli anni Sessanta sui potenti e le teste coronate, che dominavano un mondo abitato da poveri villani cui era vietato piangere: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re. Fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam”. In Italia i re ci hanno fatto piangere molte volte: da Umberto Primo che autorizzò il generale Bava Beccaris a cannoneggiare gli affamati, a Vittorio Emanuele che tradì i suoi cittadini firmando leggi che condannavano all’apartheid gli italiani ebrei.
Figurati quanto ce ne frega a noi tutti di re, regine, duchi e arciduchi: probabilmente tanto quanto a Luca Casarini importi degli stucchi dorati di Vladimir Putin e della sua corte di arciduchi oligarchi e di tutte le nomenclature cinesi, coreane, o venezuelane. Certo, i re e le regine (siamo finalmente informati) non sono stinchi di santi e di sante e anzi sono discendenti dei peggiori assassini e mascalzoni e tiranni. È verissimo, ma penso che sia anche la nostra stessa sorte: ciascuno di noi viventi è discendente di chi è sopravvissuto e non di chi ha perso. Così, caro direttore, ti ho scritto un messaggio in cui ti esprimevo la mia sorpresa per un uso semplificato della retorica, quanto basta per offendere memoria e storia. E tu mi hai risposto: “Ma perché la retorica è consentita e la controretorica no? Anzi, la controretorica indigna? E poi dichiamo la verità: la regina è un personaggetto buffo e insignificante. Ricordi una sua decisione, un suo discorso, un suo grido?”.
Ti rispondo, caro Direttore che hai ragione: una bambina sequestrata per diventare capo di Stato perché suo zio ha mollato il trono per correre con la moglie ad abbracciare Hitler a Berlino, è un personaggetto di nessuna statura, una piccola controfigura della storia. Tuttavia, un discorso di questa piccola insignificante persona lo ricordo: era ancora una ragazzina e con sua sorella Margaret parlava ai microfoni della Bbc a tutti i bambini costretti a fuggire nelle campagne mentre Londra era bombardata dai nazisti padroni d’Europa e che assediavano l’Inghilterra. Quell’Inghilterra della piccola bambina e del suo primo ministro Winston Churchill che prometteva lacrime e sangue. Lei, l’esserino banale e insignificante, incitava i suoi coetanei a resistere al nazismo e ad accettare i sacrifici della resistenza, in controtendenza rispetto a Giuseppe Stalin che, a nome dell’intera umanità comunista (i telegrammi sono sulla Pravda) si congratulava con Hitler per le sue vittorie. Erano piccoli discorsi, pronunciati con voci ancora infantili, ma erano e restano l’orgoglio non soltanto degli inglesi. Non so quanto orgoglio si potesse misurare dall’altra parte dove non era ancora chiara la differenza fra nazionalsocialisti e comunisti sovietici. Desidero esprimerti la mia gratitudine e penso anche di qualche lettore per avermi dato come è tua abitudine la possibilità di esprimere delle perplessità che non credo siano soltanto mie. Grazie di cuore.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Dei profughi non frega un fico secco. La morte della regina Elisabetta e quella della bimba migrante: due esempi di cattivo giornalismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Settembre 2022
Guzzanti ha idee lontanissime dalle mie. Però, quando lo leggo – sarà per l’agilità e la grazia della sua scrittura, sarà per la semplicità del ragionamento, sarà per la ricchezza degli argomenti – finisce sempre, almeno un po’, per convincermi. Salvo rarissime eccezioni. Beh, questa è una di quelle eccezioni molto rare. Non mi ha convinto neppure un po’. Cosa c’entra Elisabetta con quella bambina (intanto le bambine sono diventate quattro, perché altre tre son state lasciate morire in mezzo al Mediterraneo, da noi italiani, dai maltesi, da due navi di passaggio, da una grande massa di persone per bene alle quali, in fondo, dei profughi non frega un fico secco)?
Elisabetta – personaggio a mio giudizio assolutamente minore della storia politica europea del Dopoguerra – non c’entra niente. C’entriamo noi giornalisti. Lascio stare gli svolazzi umanistici e uso solo l’aritmetica. Il giorno nel quale si è saputo di Loujin e della sua morte terribile e infinitamente commovente, i dieci più importanti giornali italiani hanno dedicato (sommando tutto) una cinquantina di righe a questo episodio. Titoli piccoli piccoli e in pagine interne e internissime. Nello stesso giorno hanno dedicato complessivamente 67 pagine alla morte della regina d’Inghilterra, 96 anni.
A Luca Casarini, che conosco da molti anni, e che da molti anni si dedica a queste battaglie, la cosa è sembrata orribilmente ingiusta. Luca – lo conosco un po’ – è un tipo molto razionale ma ha una ossessione per le ingiustizie. Non le sopporta, lo fanno adirare. Io no. Sono vecchio come te, Paolo – o quasi… – non sono più emotivo. A me quella sproporzione non pare ingiusta, né mi sembra semplicemente la prova della subalternità del giornalismo italiano ai borghesi, o ai nobili, o ai potenti: a me sembra il frutto di scelte assolutamente illogiche. Che contrastano con l’idea alta del giornalismo – da Dumas ad oggi – e sono semplicemente fi glie dei fi gli dei figli del peggior conformismo.
La morte della regina Elisabetta a noi non dice niente. C’è chi si emoziona per quel vecchietto che ho visto l’altro giorno in Tv con uno strano cappello di spugna rossa che gridava hip hip hurrà!, e chi invece se ne strafrega. Non è un problema. E non c’è niente e nessuno da biasimare. Resta il fatto, però, che quella morte, quella della regina, non ci dice niente, non ci chiede niente, non ci interroga. La morte della bambina, e ora delle quattro bambine e delle tre madri, ci dice molte cose, ci dice che noi dobbiamo intervenire, che dobbiamo portar loro da bere, da mangiare, che dobbiamo accogliere, curare, trattare i migranti come essere umani, come lo siamo noi, che non saremo né re, né regine, né principi ereditari, ma siamo esseri viventi pieni di sentimenti, di dolori, di gioie e di emozioni. Per questo non mi hai convinto, Paolo. E oggi ripeto l’errore che tu mi rimproveri, reiterando il titolo di prima pagina. Chissà, magari stavolta sarò io a convincere te.
P.S. Scusa eh, ma se per trovare un discorso importante di Elisabetta bisogna tornare a quello che gli scrisse la professoressa di lettere
quando aveva dodici anni…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Sbarchi migranti, ipocrisia sinistra: porti aperti in Italia e pugno duro all'estero. Pietro De Leo su Il Tempo il 12 agosto 2022
Il racconto dell'incolpazione di politici e commentatori progressisti in tema immigrazione prevede uno schema preciso: Salvini e Meloni sono cattivi non solo perché vogliono controllare i flussi e contrastare la clandestinità, ma anche perché sono alleati della Le Pen, Vox, Orban, i conservatori polacchi eccetera eccetera, forze ed esponenti additati per via della loro intransigenza negli arrivi. Visione limitante che non tiene conto di un dato oggettivo, ossia che gli alleati e i punti di riferimento del mondo progressista e sedicente liberale italiano non è che abbiano brillato di magnanimità, ma si sono spesso resi responsabili di politiche dai modi spicci e prese di posizione che supererebbero «a destra» gli intendimenti di Lega e Fratelli d'Italia.
Prendiamo, per esempio, la Danimarca, guidata dalla giovane Primo Ministro socialdemocratica Mette Frederiksen. Ha stretto un accordo con il Kosovo, per ospitare, dietro corrispettivo in denaro, nelle carceri locali, i detenuti stranieri condannati in Danimarca e destinati, dopo l'espiazione della pena, all'espulsione. E ha in animo, il governo danese, di stringere un accordo in Rwanda per collocare laggiù una quota di richiedenti asilo in attesa di verificarne la titolarità allo status di rifugiato. Un po' come voleva fare il premier inglese uscente Boris Johnson.
Per quanto l'Inghilterra non faccia parte dell'Unione Europea, la linea dell'inquilino di Downing Street ha riscosso gli strali un po' ovunque. Quella della Danimarca, al contrario, è passata pressoché in sordina. Così come, a sinistra, non ci si è mai troppo strappati i capelli per certe sgrammaticature di Emmanuel Macron, al contrario assai carezzato, quando, ai tempi di Salvini al Viminale, attaccava la sua politica migratoria. Proprio in quei mesi, un report di Amnesty International certificava «violazioni sistematiche» da parte della gendarmeria transaplina al confine con l'Italia. Cosa accadeva? Espulsioni di stranieri, che avevano già passato la frontiera, riaccompagnati sul territorio italiano, «senza esame individuale della loro situazione né la possibilità di chiedere asilo».
In gergo ciò si chiama «espulsione a caldo», una pratica molto in voga nell'enclave spagnola di Ceuta e Melilla, con governi di vari colori, dunque anche quello socialista. Uno degli Esecutivi socialisti, guidato da Zapatero, nel 2005 peraltro pensò bene di rinforzare il reticolato che segna il confine spagnolo con delle lame, per scoraggiare i tentativi di passaggio.
Purtroppo, però, un immigrato provò il tutto per tutto, e fece una morte orribile, dissanguato. A seguito di quel fatto, le lame furono smontate. Ma sempre a quegli anni risale un altro, drammatico fatto di cronaca: cinquecento disperati provarono l'assalto al confine, quattro caddero morti, uccisi da pallottole vere (di solito vengono sparati lacrimogeni o proiettili di gomma). Polizia marocchina e Guardia Civil spagnola si accusarono reciprocamente. Tuttavia, questi fatti dimostrano che i compagni di viaggio della sinistra italiana non sono così virtuosi come loro vogliono far credere.
La violenza degli europei contro i migranti ai confini con la Turchia. Francesca Ghirardelli, Edirne (Turchia) su Avvenire l'11 agosto 2022.
Quaranta chilometri di cammino solo con i calzini ai piedi, senza le scarpe, sottratte oltrefrontiera durante il respingimento. Nessuno le ha più ridate a Yassine, cittadino tunisino di 49 anni, né agli altri che con lui avevano tentato di attraversare illegalmente il confine turco per entrare in Bulgaria. Intercettati e ricacciati indietro, hanno patito dalla polizia bulgara il trattamento che da anni i richiedenti asilo vanno descrivendo.
Da aprile Yassine ci ha provato tre volte. In tutte e tre è stato picchiato. Ora negli occhi ha l’espressione di chi non si spiega tanta violenza, incredulo che quella sia l’Europa. «Potrebbero dirci che siamo illegali e che perciò non ci fanno passare, ma che bisogno c’è di picchiare la gente? Perché farla spogliare, derubarla di tutto, anche delle scarpe?».
L’appuntamento con lui è all’ombra del porticato della Eski Cami, la moschea vecchia della città di Edirne, punta estrema della Turchia nord occidentale, a un passo dal confine con Grecia e Bulgaria, da anni tappa obbligata di chi percorre la rotta migratoria orientale cercando di entrare in Europa via terra. Da questa placida cittadina passano afghani, siriani, nordafricani, subsahariani. Quelli giunti in Grecia, dopo innumerevoli tentativi, sono 3.200 da gennaio. Erano stati 4.800 nel 2021, ma 14.800 nel 2019. I respingimenti, agli occhi di chi li compie, devono apparire efficaci.
«Eccole le nostre storie» ci dicono ragazzi di varie nazionalità, fuori da una tavola calda di Edirne. Si sollevano gli orli di pantaloni e magliette per mostrare i segni dei morsi dei cani della polizia bulgara, le manganellate di quella greca. «Nell’ultimo tentativo mi hanno preso lo zaino, i soldi e la giacca. È qualcosa che fa male, no? Poi avevano i cani. Non erano solo bulgari, tra gli agenti c’era chi parlava tedesco e polacco. Ci hanno picchiato senza ragione, alcuni ridevano. L’Unione Europea troverà una soluzione? La sentite la sofferenza delle persone?», riprende con le domande incalzanti Yassine.
Sul versante greco, stessi rischi, uguale pericolo. Questa è la frontiera in cui a febbraio 19 uomini semisvestiti sono stati trovati morti congelati. La Turchia ha accusato Atene di averli respinti lasciandoli senza abiti, ma per i greci è solo «falsa propaganda». Dei respingimenti verso la Turchia riferiscono da anni Ong e stampa.
Il 30 giugno la commissaria Ue agli Affari Interni Ylva Johansson ha avvertito la Grecia che le «deportazioni violente e illegali» devono cessare. Già a ottobre era intervenuta in una plenaria della Commissione: «La violenza ai nostri confini non è mai accettabile. Soprattutto se è strutturale e organizzata». Peccato che le parole non bastino, e i respingimenti continuino. A fine luglio, per giunta, sono emersi i dettagli di un rapporto “riservato” dell’Olaf, l’ufficio antifrode dell’Unione, in cui si documenta il coinvolgimento dell’agenzia europea Frontex nelle attività illegali della guardia costiera greca.
Ci raggiunge alla moschea anche Firas, siriano di Deraa, che oltre il confine non è mai arrivato. «La polizia turca mi ha catturato prima, e mi ha trattenuto in un campo per 65 giorni. Gli agenti turchi non si prendono soldi né vestiti, ma sono duri durante le detenzioni». All’ingresso della pensione dove alloggia incontriamo Amredka, un giovane somalo con un occhio gonfio e un taglio sopra lo zigomo. «È stata la polizia di frontiera», sussurra. «Sono qui da un anno e mezzo e non so più quante volte ci ho provato. Almeno nove, senza trafficanti. Quelli vogliono soldi, noi non li abbiamo. Perché dev’essere così difficile?».
Chi ha denaro si affida a contrabbandieri che da Istanbul garantiscono il trasporto a bordo di van. È l’esperienza di Wassim, afghano di Herat. Dopo cinque anni in Turchia, ne ha abbastanza di pregiudizi e vessazioni. «Se lavori vieni pagato la metà dei locali. A volte non sei considerato nemmeno un essere umano». Il 13 luglio ha raggiunto altre 35 persone in un cimitero di un sobborgo di Istanbul, punto d’incontro con il trafficante. 1.800 euro per arrivare oltreconfine, 3.500 per un posto sicuro in Grecia. Con 10 o 12mila euro (per le bustarelle ad agenti corrotti) ci si imbarca su navi dirette in Italia. Wassim, però, non possiede tanto denaro. «Alle 3 del mattino eravamo a Edirne. Una guida a piedi ci ha condotti al fiume (Evros, il confine, ndr). Lì abbiamo atteso le barche, piccole, a remi. Ci hanno trasportato a due a due».
Una volta di là, i trafficanti hanno indicato il punto della boscaglia da cui passare, fino a una radura. «Ma messo piede allo scoperto si è acceso un faro, e la polizia greca è venuta fuori. Abbiamo fatto marcia indietro, ma alle nostre spalle sono comparsi altri poliziotti. È stata un’imboscata». Agenti «con la bandiera greca sulle spalline e i passamontagna» hanno iniziato il pestaggio.
«Con i manganelli, il calcio dei fucili, gli stivali. È rimasto coinvolto anche un bambino di 7 anni» prosegue Wassim. «Poi, hanno fatto spogliare nudi gli uomini, senza biancheria. Hanno lasciato vestite le donne, ma per perquisirle infilavano le mani dappertutto». Via i soldi, i gioielli, ciò che aveva valore. «Siccome alcuni cuciono il denaro all’interno degli indumenti, i poliziotti hanno tagliato i tessuti con un coltello. Ci hanno persino detto di aprire la bocca, e hanno guardato dentro».
Gaia Terzulli per open.online il 10 agosto 2022.
«Mi dispiace che i sardi si siano offesi. Non ho nulla contro la Barbagia. Ma le reazioni alla mia proposta di mettere i clandestini in una zona sotto abitata dimostrano comunque che i clandestini non li vuole nessuno». Così ha parlato all’Ansa il sindaco di Como Alessandro Rapinese, tentando di ricalibrare il tiro di un’affermazione che gli è costata una valanga di critiche: «Se io fossi il legislatore – aveva detto – non consentirei la libera circolazione a chi non ha i documenti in regola. E mentre si attende che vengano rimpatriati, ci sono ampie zone deserte della Barbagia che potrebbero ospitarli».
Il putiferio non aveva tardato a scatenarsi, con una sfilza di strigliate pervenute, per la maggior parte, da deputati, consiglieri e sindaci sardi. Ma quella incautamente utilizzata da Rapinese sarebbe stata solo «un’iperbole per far capire che, nelle zone densamente abitate, queste persone (i clandestini, ndr) fanno disastri», ha spiegato il sindaco.
La difesa del sindaco
Che non ha però rinunciato a lamentare la mala gestione di un problema non solo italiano, l’immigrazione. «Va controllata e gestita, il parlamento ne prenda atto – ha esortato – il mio territorio ha pagato prezzi altissimi, essendo terra di frontiera. Qui da noi sono noti i fatti, la cronaca purtroppo racconta spesso episodi di estrema violenza. Ci ricordiamo tutti cosa è successo con don Roberto Malgesini», ucciso da un immigrato a cui forniva aiuto a Como nel 2020.
«Il mio Comune non ne può più, spendiamo quattro milioni e mezzo per l’accoglienza dei minori non accompagnati – ha proseguito il sindaco, eletto alle ultime Comunali con una lista civica contro l’avversaria di centrosinistra – nessuno paga quanto Como. Siamo massacrati dalla gestione allegra dell’immigrazione: lo capiscano a Roma. Sono tutti a bravi a parlare di accoglienza», ma il Comune di Como «dovrà reperire altri soldi per coprire un fenomeno sul quale Roma fa finta di niente». Poi, la stoccata finale: «La prossima volta proporrò di trasferirli su qualche vetta di montagna a tremila metri. O a Capalbio, località dove saranno accolti con tutti gli onori».
Il cavallo di battaglia di Fratelli d'Italia. Cos’è il blocco navale, la proposta di Giorgia Meloni contro l’immigrazione: “Subito!”. Redazione su Il Riformista il 6 Agosto 2022
“La soluzione è sempre la stessa: blocco navale subito!”. Fratelli d’Italia rispolvera un grande classico della sua visione sulle partenze e le rotte e gli sbarchi di migranti che dalle coste africane arrivano sulle coste italiane. Il partito di Giorgia Meloni supera anche in questo il segretario della Lega Matteo Salvini in questi giorni in Lampedusa e con un solo tweet ha riaperto la discussione e richiamato l’attenzione sul tema: Fdi e Meloni sono in candidati più forti e dati in netto vantaggio nei sondaggi a vincere contro gli avversari del centrosinistra e a trainare la coalizione del centrodestra.
Il blocco navale che con un governo Meloni potrebbe diventare un punto al centro di un programma di governo è un’azione militare finalizzata a impedire l’accesso e l’uscita di navi militari e mercantili dai porti di un Paese. A regolare la disciplina nell’ambito del diritto internazionale è l’articolo 42 dello statuto delle Nazioni Unite. La misura riguarda le navi di qualsiasi nazionalità e tipo, dunque, con l’unica eccezione dei beni di prima necessità e degli aiuti umanitari, e comporta che tutti i natanti che dovessero forzare il blocco siano condotti in un porto del Paese che ha imposto il blocco stesso così come i passeggeri dovrebbero essere fatti sbarcare nel Paese che mette in atto il blocco – e già questo punto è paradossale. considerate le posizioni delle destre italiane.
Il blocco non è stato concepito per intercettare micro-natanti, barchini e gommoni che tra l’altro possono sfuggire ai radar di bordo. Non può essere attivato inoltre unilateralmente se non in casi specifici come legittima difesa, aggressione o guerra. L’Italia lo ha adottato con il governo Prodi nel 1997. L’Operazione “Bandiere Bianche” fu avviata di concerto con le autorità albanesi, fu aspramente criticata dalle Nazioni Unite sebbene si trattasse più propriamente di un’operazione di interdizione marittima (Mio), che si concluse con il tragico affondamento della nave Katër i Radës e la perdita di decine di vite umane.
Come spiegava l’ammiraglio Fabio Caffio nel suo Glossario di diritto del mare il blocco navale è “una classica misura di guerra volta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di un belligerante”, come definita anche dall’art. 3 della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 3314 del 14 dicembre 1974. I criteri per attuarlo sono stabiliti dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e 1977 sui conflitti armati via mare. Per attivare il blocco si devono comunicare alle nazioni terze non belligeranti in quali aree geografiche si attua la misura che deve essere imparziale nei confronti delle nazioni non belligeranti. Il blocco permette di catturare qualsiasi imbarcazione mercantile che violi il blocco e il suo deferimento a un apposito tribunale delle prede e consente di attaccare qualsiasi imbarcazione mercantile nemica che opponga resistenza al blocco navale.
Senza un’adeguata copertura legale sarebbe difficile per la Marina Militare arrivare un blocco navale. Come sosteneva formiche.net, in caso di un incidente mortale, come quello del 1997, ogni stato di provenienza delle vittime avrebbe il diritto di denunciare l’Italia alle autorità internazionali e non basterebbe un eventuale accordo bilaterale con i soli Paesi di partenza. Dal caso potrebbero nascere tantissimi casi di tensioni e scontri diplomatici. Senza contare lo sforzo immane che comporterebbe monitorare tutte le coste italiane.
Sul tema, dopo l’esplosione del dibattito è comunque tornata Giorgia Meloni con un altro tweet che citava un articolo de L’Unità del 2017: “Così titolava l’Unità il 26 gennaio 2017 per sintetizzare proposte Commissione europea per ‘fermare i flussi migratori’. Il BloccoNavale europeo in accordo con le autorità del nord Africa che propone FDI è l’attuazione di quanto proposto dall’UE già nel 2017 e ribadito più volte”. Il tema potrebbe diventare centrale nella campagna elettorale balneare in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre.
A destra scontro sull'immigrazione. Riproposte idee bocciate dai giudici. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 7 Agosto 2022.
Meloni promette il blocco navale, salvo poi fare marcia indietro: ma è contrario al diritto internazionale in mare. Salvini la insegue rilanciando i decreti Sicurezza, smontati da sentenze in sede civile, penale e amministrativa
Roma. Se andrà al governo e vorrà davvero provare a fermare i flussi migratori verso l’Italia, il centrodestra dovrà inventarsi qualcosa di nuovo. Perchè, a parte il fatto che in Italia i porti non sono mai stati chiusi neanche in tempo di vigenza dei decreti sicurezza e che non una sola nave umanitaria o barcone è stato mai respinto, entrambe le “idee” lanciate da Giorgia Meloni e Matteo Salvini (già abbastanza nervosi per le reciproche fughe in avanti sul tema all’interno della coalizione) sono improponibili. Bocciate da una valanga di norme del diritto internazionale e da provvedimenti dei giudici.
Meloni corregge il tiro sul blocco navale
Il blocco navale nel Mediterraneo auspicato dalla Meloni è contrario al diritto internazionale che lo considera «un atto di guerra unilaterale, tanto che ieri la stessa leader di Fratelli d’Italia ha provato a tirarsi d’impiccio chiarendo che «fermare le partenze dei barconi, in accordo con le autorità nordafricane, è l’unica strada per ripristinare il rispetto delle regole e fermare le morti in mare». Dunque, il blocco navale altro non sarebbe che un accordo con i Paesi di origine dei migranti con i quali è sostanzialmente impossibile persino firmare accordi di rimpatrio, figurarsi impedire le partenze. A eseguire il blocco, per altro, dovrebbero essere le navi della Marina militare italiana che, secondo il diritto internazionale e le convenzioni che il nostro Paese ha firmato, devono invece osservare l’obbligo di soccorso in mare e il divieto di respingimento.
I decreti sicurezza già smontati dai giudici
Anche la partita dei decreti Sicurezza che Matteo Salvini promette di voler «riproporre identici tra due mesi» è persa in partenza. Nella sua bulimia di annunci, il leader della Lega (che a costo di far innervosire gli alleati, Forza Italia compresa, parla già come se fosse di nuovo al Viminale) dimentica che i suoi due decreti Sicurezza sono stati smontati pezzo per pezzo da provvedimenti della magistratura, civile, penale e amministrativa che hanno sancito l’obbligo di salvare i naufraghi (e di portarli a terra nel porto più vicino), l’illegittimità del divieto di ingresso in acque italiane alle navi Ong, l’irretroattività dell’abolizione della protezione umanitaria, il diritto di tutti i richiedenti asilo di iscriversi alle anagrafi dei Comuni italiani. Diritto sancito dalla Consulta con la sentenza del luglio 2020 che ha definito «incostituzionale, per la violazione dell’articolo 3, irragionevole e controproducente» il divieto di iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo che dunque hanno diritto a una carta di identità, all’accesso ai servizi sociali, alle cure mediche, ad aprire un conto in banca, al lavoro. E su questo non si torna indietro.
Illegittimo il divieto di ingresso per le Ong
Così come non si potrà ignorare, nella stesura di eventuali nuovi decreti sicurezza, la sentenza del Tar del Lazio di agosto 2019 che annullò il divieto di accesso in acque italiane firmato da Salvini e dagli allora ministri Trenta e Toninelli nei confronti della Open Arms. «Eccesso di potere per travisamento dei fatti e violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso», le motivazioni del provvedimento. Sullo stesso binario del pronunciamento del gip di Agrigento Vella che annullò l’ordine di arresto della comandante della Sea Watch Carola Rackete riconoscendo come prioritario l’obbligo di salvare i naufraghi e portarli a terra.
Il no di Mattarella alle multe milionarie per le navi umanitarie
Persino il ricorso all’elemento di dissuasione delle multe milionare per le navi Ong per la violazione del il divieto di accesso in acque italiane non potrà essere riproposto. Nel firmare il decreto sicurezza bis, ad agosto 2019, il presidente Mattarella espresse «rilevanti perplessità» su quelle sanzioni che definì «irragionevoli» e che infatti poi il Parlamento ridusse ai minimi. E l’inquilino del Quirinale è ancora lo stesso.
Quei pregiudizi sulla proposta della Meloni. Come Omero, anche un costituzionalista di valore come Gustavo Zagrebelsky a volte si appisola. Paolo Armaroli l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.
Come Omero, anche un costituzionalista di valore come Gustavo Zagrebelsky a volte si appisola. E anziché esprimere giudizi sulla proposta di legge costituzionale Meloni sul semipresidenzialismo bocciata dalla Camera e riproposta da tutto il centrodestra, mette in bella vista i suoi pregiudizi. Se ci si abbarbica al quieta non movere, non c'è nulla di meglio che invocare il «Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799» di Vincenzo Cuoco o le «Memorie» di Giovanni Giolitti. I quali sostenevano che se un Paese ha la gobba, il sarto deve tener conto della malformazione.
Del resto, nel redigere lo Statuto i ministri di Carlo Alberto sostennero che occorreva adeguarsi alle specificità del caso italiano. Salvo poi ricalcare la Carta francese del 1830 proprio nel momento in cui la consorella latina dava vita alla Costituzione del 1848, un prototipo della Costituzione gollista imperniata sul semipresidenzialismo. E nell'elaborare la Costituzione italiana del 1948 i suoi padri furono condizionati dal complesso del tiranno. Perciò si è insistito nel parlamentarismo, senza tuttavia quei congegni che ci avrebbero risparmiato le degenerazioni dell'assemblearismo.
Anche la Francia affonda le radici nel parlamentarismo. Pur tuttavia De Gaulle nel 1958 puntò sul semipresidenzialismo. Come oggi Zagrebelsky, allora le sinistre insorsero. Per amore di polemica, Zagrebelsky sostiene che il presidenzialismo è una forma di estremismo perché c'è uno che vince e uno che perde. Vedi caso, è quello che avviene nel Regno Unito, nella culla di una forma di governo parlamentare che si fonda sul sostanziale bipartitismo. Adesso, grazie a Zagrebelsky, scopriamo che la perfida Albione si regge su un regime che fa dell'estremismo la propria bandiera. E poi Zagrebelsky demonizza il passaggio dalla democrazia «interloquente» alla democrazia «decidente». Ma quest'ultima espressione è cara a uomini di sinistra, a cominciare da Luciano Violante. Non ha senso criticare la democrazia d'investitura, nella quale si comanda a turno: la maggioranza uscita dalle urne e domani l'opposizione se vincerà le elezioni.
Su due cose Zagrebelsky ha ragione. Nei regimi semipresidenziali il capo dello Stato è organo governante. Perciò non è più garante come la Corte costituzionale. E la sfiducia costruttiva è tipica dell'assemblearismo. Tuttavia il semipresidenzialismo sarebbe compensato da più forti autonomie. Resta il fatto che il semipresidenzialismo favorisce il bipolarismo, mentre il regime parlamentare si adagia sul sistema dei partiti e ne è influenzato. Di qui l'alternativa: l'Italia o si divide con raziocinio in due o va in mille pezzi.
Assalto alla Meloni per il blocco navale, ma il primo a farlo fu Prodi. Francesca Galici il 6 Agosto 2022 su Il Giornale. La sinistra che oggi lapida Giorgia Meloni per l'attuazione della proposta di blocco per fermare i migranti, ma scorda la bozza del 2017 e quello nel canale d'Otranto nel 1997
La solita ipocrisia di sinistra, che oggi si indigna per la proposta di Giorgia Meloni di organizzare un blocco navale per frenare l'immigrazione illegale sulle coste italiane meridionale, probabilmente ha la memoria molto corta e ha scordato quanto fatto dal governo Prodi con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Su Twitter, la proposta di blocco navale avanzata da Giorgia Meloni è oggetto di feroci critiche, tanto che l'argomento è uno dei trend topic di giornata. Il buonismo spicciolo della sinistra, che non tiene conto dei problemi di un'immigrazione incontrollata per il tessuto sociale ed economico del nostro Paese, è la leva per insultare e attaccare Giorgia Meloni, il cui concetto di blocco navale non è una novità per il nostro Paese e per l'Unione europea.
Proposta di blocco navale europeo del 2017
Infatti, come la stessa Giorgia Meloni ha fatto notare, un progetto simile era già sul tavolo nel 2017, ben 5 anni fa, quando in Italia vigeva il governo di Paolo Gentiloni (Pd). "'UE: blocco navale in Libia contro le morti in mare'. Questo il titolo scelto dall'Unità il 26 gennaio 2017 per sintetizzare le proposte della Commissione europea per 'fermare i flussi migratori'. Il blocco navale europeo in accordo con le autorità del nord Africa che da anni propone Fratelli d'Italia altro non è che l'attuazione di quanto proposto dall'Unione europea già nel 2017", ha scritto Giorgia Meloni su Facebook, spiegando in maniera molto semplice quello che da sinistra faticano a capire. E aggiunge: "Chi oggi blatera che 'il blocco navale non si può fare perché è un atto di guerra' dimostra la sua totale ignoranza sul tema immigrazione".
Il blocco navale italiano del 1997
Tanto più che nel 1997 il governo di Romano Prodi attuò un vero e proprio blocco navale nell'Adriatico contro i flussi migratori dall'Albania. In cabina di regia sedevano: lo stesso Romano Prodi, il ministro degli Esteri Lamberto Dini e il ministro della difesa Beniamino Adreatta. Era il 19 marzo 1997 e l'Italia approvò il decreto per la regolamentazione dei respingimenti nel canale d'Otranto. In più, in quello stesso anno, l'Italia strinse un accordo con l'Albania per autorizzare le motovedette italiane ai pattugliamenti nelle acque territoriali albanesi. Ufficialmente, venne presentato come un pattugliamento per "invitare" i barconi a cambiare rotta, di fatto era un vero e proprio blocco navale strutturato con tre fasce di navi: la prima operava davanti alle coste albanesi, la seconda utilizzava le navi d'altura, la terza impiegava imbarcazioni adatte ad attuare i respingimenti per quelle imbarcazioni che riuscivano a bucare i precedenti schieramenti.
(ANSA il 5 Luglio 2022. ) - "La gestione dell'immigrazione deve essere umana, equa ed efficace. Noi cerchiamo di salvare vite umane. Ma occorre anche capire che un paese che accoglie non ce la fa più.
E' un problema che il ministro Lamorgese ha posto in Europa, lo ha detto qui e lo diremo alla Grecia quando la incontreremo. Forse noi siamo il paese meno discriminante e aperto, ma anche noi abbiamo limiti e ora ci siamo arrivati". Lo ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi rispondendo ad una domanda sull'immigrazione al termine del vertice intergovernativo con la Turchia.
Le rotte degli altri. La discutibile accoglienza dei migranti di Spagna e Grecia. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 6 Luglio 2022.
Il governo di Madrid è stato criticato per le morti al confine di Melilla, quello di Atene per i respingimenti illegali nell’Egeo. Il Parlamento europeo invoca indagini, la Commissione minaccia di tagliare i fondi
Entrambe affacciate sul Mediterraneo, entrambe interessate da flussi migratori in aumento, entrambe alle prese con rinnovate proteste per le proprie politiche sul tema. Spagna e Grecia stanno ricevendo negli ultimi giorni una serie di critiche e richieste: da parte nelle istituzioni dell’Unione europea, in molti contestano violazioni al diritto comunitario.
Il governo di Madrid è al centro delle polemiche per la morte di decine di migranti al confine dell’enclave spagnola di Melilla, situata nel territorio del Marocco nord-orientale. Almeno 37 decessi e 76 feriti, secondo le informazioni delle Ong che operano sul campo, durante un tentativo di attraversamento di massa lo scorso 24 giugno, che ha provocato il ferimento anche di oltre cento agenti di polizia.
L’Alto commissario delle Nazioni Unite Ravina Shamdasani ha chiesto di chiarire le responsabilità, così come decine di deputati dei gruppi di sinistra del Parlamento europeo, in una lettera rivolta alla Commissione per sollecitare un’indagine a livello comunitario.
Le autorità spagnole non sono direttamente responsabili delle azioni che provocano la morte dei migranti, ma l’intera dinamica è frutto di «un accordo informale tra Spagna e Marocco che fornisce la base per la deportazione di migranti irregolari da Ceuta e Melilla», denuncia la lettera.
In pratica è la polizia marocchina a fermare coloro che provano a scavalcare le recinzioni ed entrare nelle due enclavi, in alcuni casi pure «sconfinando» in territorio spagnolo. In questo modo, anche i migranti che riescono a passare i confini vengono respinti, pur avendo teoricamente diritto a presentare una regolare richiesta d’asilo e permanere in territorio europeo mentre la domanda viene analizzata.
I modi degli agenti marocchini sono spesso violenti: calci, spintoni, manganellate e persino lanci di pietre denuncia l’Onu. Quando l’afflusso è massiccio e la situazione degenera, come nell’ultimo episodio, è facile che alcune persone ci rimettano la vita. Secondo il resoconto della Commissione europea, alcuni sono rimasti schiacciati dalla folla, altri precipitati per sei metri dal muro di recinzione
«Perdere la vita ai confini dell’Europa è inaccettabile. La violenza ai nostri confini è inaccettabile», ha detto la commissaria europea agli agli Affari Interni Ylva Johansson, in un dibattito molto teso sul tema al Parlamento europeo. Pur affermando la necessità di un’indagine approfondita sui fatti, Johansson si è soffermata soprattutto sul ruolo dei trafficanti di esseri umani che spingono migranti subsahariani ad attraversare illegalmente le frontiere delle enclavi.
La commissaria non ha criticato le autorità spagnole, con cui anzi vanta una «buona cooperazione» né quelle marocchine: con il governo di Rabat esiste del resto un piano di supporto europeo da oltre 300 milioni di euro che include il controllo delle frontiere.
Lo hanno fatto, invece, parecchi eurodeputati, pur con intenti e angolazioni diverse. «Non può mai considerarsi un “problema risolto” la morte di decine di persone», ha attaccato il popolare spagnolo Juan Ignacio Zoido Álvarez, in polemica con il governo socialista del suo Paese e una dichiarazione avventata del suo presidente Pedro Sánchez. Il liberale Jordi Cañas, invece, ha puntato il dito contro il governo del Marocco, reo di una gestione delle frontiere che è «un mix tra negligenza, incompetenza e indecente utilizzo politico dei migranti per fare pressione sulla Spagna».
C’è pure chi se la prende con le stesse istituzioni europee: la destra di Vox, rappresentata da Hermann Tertsch, per una presunta volontà di accoglienza indiscriminata e Sira Rego di Izquierda Unida, al contrario, per una politica migratoria «razzista» che apre le porte agli ucraini e le chiude agli africani, visto che lungo il confine di Melilla «non esiste un solo punto dove chiedere asilo legalmente».
La complessità del dibattito è evidenziata dall’imbarazzo dei socialisti spagnoli, chiamati a difendere l’operato dell’esecutivo di Pedro Sánchez e la cooperazione con il Marocco. Proprio loro che di solito denunciano all’Eurocamera le politiche di esternalizzazione delle frontiere e violazione dei diritti dei migranti attuate da governi di destra.
Accuse respinte
Lo hanno fatto, ad esempio, nei confronti della Grecia, che violerebbe il diritto comunitario non permettendo spesso alle persone in arrivo sul suo territorio di inoltrare regolare richiesta di asilo, respingendole indietro di nascosto: un atteggiamento tipico di quella che viene definita la strategia della «Fortezza Europa».
L’accusa, lanciata a più riprese da organizzazioni internazionali e giornalisti investigativi, non è nuova, ma ha ripreso vigore di recente. Proprio un socialista spagnolo, il presidente della commissione per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo (Libe), Juan Fernando López Aguilar ha scritto alla Commissione europea esprimendo preoccupazione e chiedendo chiarimenti, in particolare per ciò che succede al confine greco-turco segnato dal fiume Evros.
«Alla luce delle numerose segnalazioni allarmanti dei media e della società civile, la Commissione dovrebbe condannare qualsiasi uso della violenza e adottare tutte le misure necessarie al fine di garantire che lo Stato di diritto sia rispettato», si legge nella lettera. Il governo greco ha reagito negando i respingimenti e sostenendo che le accuse si basano sostanzialmente su informazioni fornite dalla Turchia.
In realtà anche l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, riporta almeno 540 «episodi di rimpatri informali» effettuati dalle autorità greche, dall’inizio del 2020. Se sulla terraferma questo si traduce in spostamenti forzati delle persone oltreconfine, in mare significa lasciare alla deriva gommoni o persino gettare le persone in acqua.
Il confronto è culminato con un dibattito tra il ministro dell’Interno greco Notis Mitarákis e i parlamentari della commissione Libe a fine giugno. La commissaria Johansson ha poi incontrato altri rappresentanti del governo di Atene, portando loro un messaggio netto e una minaccia velata: «Le deportazioni violente e illegali devono terminare subito. I fondi per le politiche migratorie sono legati alla corretta applicazione dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
Il supporto economico non è una leva trascurabile: la Grecia riceverà in totale un miliardo di euro entro il 2027 per sviluppare la sua rete di accoglienza. Johansson avrebbe ottenuto la promessa di un nuovo sistema per garantire il diritto d’asilo nel Paese, che sarà operativo dal primo settembre.
Intanto vari eurodeputati hanno battuto sull’argomento nell’ultima sessione plenaria del Parlamento europeo, che ospitava il Primo ministro Kyriákos Mitsotákis. «Respingere i migranti non è una risposta europea», le parole dell’esponente dei verdi olandesi Tineke Strik, che ha evidenziato altri aspetti della gestione greca: l’affollamento e le condizioni degli hotspot dove sono alloggiati i migranti, le lunghe procedure in cui incorre chi riesce a fare richiesta d’asilo e l’azione repressiva nei confronti di quegli attivisti che denunciano irregolarità e trattamenti disumani.
Mitsotákis però ha rivendicato il salvataggio di seimila naufraghi nelle acque greche e sottolineato l’enorme pressione esercitata dalla Turchia, che a suo dire utilizza i migranti come un’arma, esattamente come la Bielorussia di Lukashenko ha fatto nei confronti di Polonia e Lituania. «Voi parlate di pushback, ma noi assistiamo a dei pushforward: quando dalle coste della Turchia salpa un’imbarcazione con 200 persone a bordo è impossibile che le autorità non ne siano al corrente», ha affermato il primo ministro, chiedendo agli eurodeputati di «non credere alla propaganda turca» sul tema.
Oltre ad annunciare il miglioramento delle condizioni di accoglienza rispetto al precedente governo di sinistra, Mitsotákis ha voluto ribadire in maniera chiara il diritto di ogni Stato membro a «difendere i propri confini».
Melilla: «Migranti morti sono 37». Sanchez: «In azione le mafie». Il Corriere della Sera il 25 giugno 2022.
Circa 400 persone hanno tentato di superare le barriere dell’enclave europea in Africa, ingaggiando scontri con la polizia. Il confine era stato riaperto un mese fa dopo oltre due anni di stop.
Sarebbe di 37 migranti morti il bilancio dell’assalto alle reti di confine avvenuto venerdì a Melilla, l’enclave spagnola in territorio marocchino. Sono le vittime della spaventosa calca creatasi dopo che circa 2.000 persone - in gran parte sudanesi - hanno tentato di sfondare il confine tra i due Stati. Il nuovo bilancio è stato fornito dalla ong spagnola «Cam. «Le cifre non sono definitive, possono aumentare ancora» ha detto la portavoce Helena Maleno.
il premier spagnolo Pedro Sanchez ha definito la tragedia un «assalto violento e organizzato da parte delle mafie dedite alla tratta di esseri umani, contro una città che è territorio spagnolo». «Pertanto -ha aggiunto durante una conferenza stampa a Madrid -è stato un attacco all’integrità territoriale del nostro Paese».
La tragedia si è verificata quando circa 400 migranti hanno tentato di superare il confine: sono scoppiati tafferugli con la polizia e circa 130 assalitori sono riusciti a entrare in territorio europeo: la loro posizione è in queste ore al vaglio delle autorità. Le vittime sono morte per soffocamento o schiacciamento, alcune sono precipitate mentre tentavano di scavalcare le reti di confine. Nell’assalto hanno riportato contusioni anche una cinquantina di agenti di polizia della Spagna.
Già nella serata di giovedì la polizia spagnola era stata allertata per un possibile tentativo di sfondamento: sul confine erano stati schierati 1.500 agenti. Quando è partito l’assalto dei migranti le forze dell’ordine hanno risposto sparando lacrimogeni e a quel punto è scoppiato il caos costato la vita a 18 persone.
La frontiera terrestre tra Marocco e Spagna in corrispondenza delle due «enclavi» di Ceuta e Melilla era stata riaperta il 17 maggio scorso dopo oltre due anni di stop. Il passaggio era stato interrotto per via del Covid ma anche per un braccio di ferro tra i governi di Madrid e Rabat, quando la polizia marocchina aveva allentato i controlli sui migranti che si presentavano al confine.
Il 22 marzo scorso si era verificato un episodio simile: quel giorno circa 2.500 migranti avevano tentato di forzare i blocchi, 900 di loro erano riuscite ad arrivare in territorio spagnolo.
Diffusi i video delle violenze, cadaveri ammassati e pestaggi gratuiti. La carneficina di Melilla, decine di migranti morti dopo scontri con polizia: “Sangue, pelle strappata, piedi rotti…” Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Giugno 2022
C’è chi parla di almeno 23 vittime, chi fa salire il bilancio provvisorio a 37, chi ancora arriva a 49, compresi quattro poliziotti. E’ la conta, destinata ad aumentare, dell’ultima strage di migranti africani, uccisi di botte o addirittura schiacciati mentre tentavano di entrare nell’enclave spagnola di Melilla in Marocco. Alcuni testimoni dell’assalto alla recinzione di Melilla hanno riferito che “tutto era sangue, pelle strappata, piedi rotti, mani rotte...”.
Venerdì scorso, 24 giugno, quasi duemila migranti sono arrivati alla frontiera di Melilla e almeno 500 sarebbero riusciti a superare il posto di blocco della polizia, entrando nel territorio spagnolo. Per gli altri è stata carneficina: negli scontri con gli agenti, sia spagnoli che marocchini, sono decine le vittime e centinaia i feriti. Le immagini diffuse dalla Moroccan Association for Human Rights (AMDH) sono inequivocabili e mostrano scene raccapriccianti con persone ammassate per terra sotto la sorveglianza di guardie marocchine, alcune inermi e probabilmente già cadaveri, altre colpite gratuitamente con calci e bastonate. Le immagini trasmesse mostrano una reazione sproporzionata da parte della polizia marocchina. I migranti arrestati sono stati ammucchiati a terra uno sopra l’altro.
Secondo un bilancio delle autorità marocchine, i morti sono almeno 18. I feriti tra i migranti sarebbero 63 mentre tra gli agenti oltre 140. Diverse Ong sostengono che le vittime siano in realtà molte di più: almeno 37, secondo la nota attivista spagnola Helena Maleno, portavoce di Caminando Fronteras.
Per il premier spagnolo Pedro Sánchez a Melilla è andato in scena “un assalto violento e organizzato”, un “attacco all’integrità territoriale” della Spagna, dietro al quale ci sarebbero “mafie che trafficano con esseri umani”. Un argomento condiviso anche da Rni, il partito del capo del governo marocchino Aziz Ajanuch.
Sanchez ha anche rivendicato “lo straordinario lavoro” degli agenti spagnoli impegnati sul confine con il Marocco, ricordando che “la Gendarmeria marocchina ha collaborato per respingere questo assalto cosi’ violento”. L’Algeria ha invece condannato fermamente quella che ha definito una “carneficina di migranti a Melilla“, di cui il Marocco è responsabile, chiedendo l’apertura di un’indagine indipendente. Per Ammar Bellani, inviato speciale del Ministero degli Esteri algerino per il Maghreb e il Sahara occidentale, “le immagini di questa carneficina sono estremamente scioccanti”, esse “forniscono informazioni sull’estrema brutalità e sull’uso sproporzionato della forza che sono simili, date le circostanze, a vere e proprie esecuzioni sommarie”.
“Gli organismi internazionali e in particolare l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati devono condurre indagini indipendenti e trasparenti per determinare le responsabilità e fare luce su questi tragici eventi”, ha concluso Bellani.
Gli incidenti sono iniziati venerdì quando oltre 1500 persone, alcune delle quali con bastoni e zaini pieni di sassi, si sono avvicinate a Melilla, dove sono riuscite a sfondare con una cesoia le porte chiuse del valico di frontiera per entrare a frotte lungo il pendio che scende verso il versante spagnolo e dove sono rimaste intrappolate, circondato da una manovra a tenaglia delle forze marocchine schierate alle loro spalle.
Organizzazioni come la Missione diocesana per la migrazione (gesuiti) e l’Associazione marocchina per i diritti umani hanno denunciato che, per tutto venerdì, è stato vietato l’accesso all’ospedale Hassani di Nador (a circa 15 chilometri dal confine), dove sono stati trasferiti morti e feriti. Nel pomeriggio, e fino al tramonto, le forze di sicurezza marocchine hanno tenuto chiuso l’ingresso di Chinatown vicino al confine. Almeno 15 autobus erano stati sistemati lì, dove decine di detenuti erano rimasti bloccati per tutto il giorno.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Francesco Rodella per “la Stampa” il 26 giugno 2022.
Si fanno ora dopo ora più angoscianti gli aggiornamenti in arrivo sull'ultima tragedia avvenuta al confine tra Marocco e Spagna. Una strage nel corso di un caotico tentativo di sfondare o saltare la barriera che protegge l'enclave iberica di Melilla. Le ong attive sul posto avvertono che le vittime potrebbero essere almeno 37, secondo la nota attivista spagnola Helena Maleno.
E mentre si contano a decine i feriti - sia tra i giovani disperati in cerca di una chance in Europa, sia tra i poliziotti schierati da Rabat e Madrid -, il premier spagnolo Pedro Sánchez afferma: «Se c'è un responsabile di quello che è avvenuto, sono le mafie che trafficano con esseri umani».
Le poche informazioni provenienti dalle autorità locali complicano la ricostruzione precisa di quanto avvenuto nel territorio di Nador, l'ultima città marocchina prima del confine. Nei video diffusi dall'Associazione Marocchina dei Diritti Umani si vedono decine di migranti ammassati per terra, sotto la sorveglianza di guardie marocchine, alcuni immobili e forse già morti.
Circa 1.500 persone, secondo Madrid, sono riuscite ad arrivare in gruppo alla barriera frontaliera. «C'è chi è caduto dall'alto, altri potrebbero essere rimasti schiacciati», afferma Maleno in un messaggio vocale: «Sono stati lasciati lì senza aiuto, agonizzanti».
«È stato un attacco all'integrità territoriale del nostro Paese», ha continuato Sánchez, parlando di «assalto violento e organizzato». Anche l'Rni, partito marocchino di governo, ha condiviso la sua tesi secondo cui dietro i fatti ci sarebbero «reti di trafficanti». Gruppi umanitari denunciano invece un uso «sistematico» della forza sui migranti.
Situazione che aumenta il loro grado di «disperazione» e che si è aggravata quando a marzo Madrid e Rabat hanno dato il via a un nuovo rapporto di cooperazione bilaterale, dopo mesi di tensioni diplomatiche per la spinosa questione del Sahara occidentale.
«La Francia respinge donne e bambini». La denuncia di Medu. Il team di Medici per i diritti umani ha redatto un nuovo report in cui certifica come le autorità francesi vìolino costantemente il Trattato di Schengen, rifiutando l’ingresso anche ai minori non accompagnati. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 giugno 2022.
Arrivano traumatizzati dalle guerre, con arti amputati e, anche alcuni minori, vittime di violenze sessuali. Molti di loro vengono reclusi in container senza nessuna garanzia per il rispetto dei loro diritti, altri vengono respinti e non mancano le morti. Parliamo dei respingimenti dei migranti che avvengono al confine tra Italia e Francia. Nei primi quattro mesi dell’anno, il team di Medici per i diritti umani (Medu) a Oulx ha registrato 1814 arrivi al rifugio Fraternità Massi, tra cui 66 famiglie e 132 minori stranieri non accompagnati.
Parliamo di un nuovo report redatto da Medu dopo aver avviato, dall’inizio dell’anno, nella cittadina di Oulx, in Alta Val di Susa, il progetto Frontiere Solidali per fornire assistenza medica alle migliaia di persone che ogni anno attraversano la frontiera alpina nord- occidentale per raggiungere la Francia.
La militarizzazione della frontiera francese e il timore dei transitanti di rimanere intrappolati a causa della difficoltà degli spostamenti continuano a causare tragedie durante l’attraversamento: l’anno 2022 è iniziato con due incidenti mortali sulle Alpi, entrambi nel mese di gennaio: Fathallah Blafhail, 32 anni di origine marocchina, annegato nella diga del Freney nei pressi di Modane e Ullah Rezwan Sheyzad, 15 anni di origine afghana, stritolato sotto le rotaie del treno.
Nei primi quattro mesi di intervento ( gennaio- aprile 2022) il team multidisciplinare di Medu ha operato quattro giorni a settimana presso un ambulatorio messo a disposizione dall’associazione Rainbow for Africa all’interno del Rifugio Fraternità Massi, gestito dalla cooperativa Talità Kum. Nei quattro mesi presi in considerazione dal report, si sono registrati 1814 arrivi – tra cui 66 famiglie e 132 minori stranieri non accompagnati (Msna). Sono state 1.079 le persone che hanno avuto accesso ad uno screening sanitario e di queste 320 sono state visitate in maniera più approfondita dal team di Medu.
Le principali criticità sono le violazioni dei diritti sulla frontiera italo – francese. A livello europeo, il diritto alla circolazione è sancito dal Codice frontiere Schengen (Cfs), in particolare nel suo articolo 22: “Le frontiere interne possono essere attraversate in qualsiasi luogo senza che siano effettuati controlli di frontiera sulle persone, qualunque sia la loro nazionalità”. Il ripristino dei controlli alle frontiere interne è consentito solo in circostanze eccezionali e, ad ogni modo, per una durata inferiore ai 2 anni. In Francia i controlli persistono da quasi sette anni. A partire dal 2015, in occasione della Cop21, le autorità francesi hanno ripristinato i controlli alle frontiere giustificandone poi l’estensione per la lotta al terrorismo e infine per questioni legate alla pandemia.
Come emerge dai dati ricavati da Medu relativi ai passaggi e ai respingimenti sul confine, è evidente che i refus d’entrée ( respingimenti) da parte della Francia avvengano in maniera sistematica, nonostante la non ammissibilità sia prevista solo nel caso in cui la persona non soddisfi le condizioni per l’ingresso nel territorio Schengen e/ o francese. Solo in questo caso può essere notificato un refus d’entrée, fatta comunque eccezione per il caso in cui la persona chieda asilo alla Francia. Pertanto, qualsiasi rifiuto di ingresso di una persona richiedente asilo costituisce una violazione al diritto di asilo e di libera circolazione. Queste violazioni invece vengono commesse senza distinzione alcuna, al punto che, negli ultimi mesi, a seguito del conflitto in Ucraina, sono stati respinti dalla Francia anche alcuni stranieri che soggiornavano nel Paese con un regolare visto di studio.
Per quanto riguarda invece i minorenni, poiché l’obbligo di possedere un visto è richiesto solo per “qualsiasi straniero di età superiore ai diciotto anni che desideri soggiornare in Francia per un periodo superiore a tre mesi” (art. L. 312- 5 del Code de l’Entrée et du Séjour des Étrangers et du Droit de Asile – Ceseda), nessuno di loro può essere considerato “irregolare” e la polizia di frontiera francese dovrebbe garantire loro protezione e tutela.
Anche in questo caso però le violazioni sono molto frequenti e, se trovati lungo i sentieri, anche i minori non accompagnati vengono respinti, esattamente come gli adulti. Se si presentano direttamente in frontiera, la Paf (Police aux frontieres) non sempre raccoglie le loro dichiarazioni di minore età e si limita a rimandarli indietro.
Il team di Medu ha raccolto diverse testimonianze di respingimenti in cui, in assenza di documenti identificativi, non è stata presa in considerazione la dichiarazione di minore età espressa dal minore e sul refus d’entrée è stata apposta una diversa data di nascita che lo identificava come maggiorenne.
Le altre criticità che emergono dal rapporto Medu sono la presenza di numerose famiglie, di neonati, di persone anziane, di minori non accompagnati e di uomini e donne vulnerati nel corpo e nella mente rappresenta un ulteriore elemento di criticità (oltre che di offesa umanità), soprattutto se si pensa che il loro unico e inderogabile obiettivo è quello di attraversare il confine. Non sono poi mancati casi di bambini che hanno subito incidenti o sono rimasti traumatizzati per le violenze subite.
Secondo il rapporto di Medu, tra i minori vi sono poi casi di violenza sessuale sofferta: non è facile documentarla, ma sulla base di testimonianze raccolte in Bosnia e Serbia sembra sia un fenomeno ricorrente. La presenza di donne incinta è una costante, nel solo mese di aprile ne sono arrivate sei e diverse altre con altri figli da accudire. Nonostante la gravidanza, non v’è impedimento che induca a desistere dalle partenze. Tuttavia, mantenendo uno spazio medico di ascolto femminile, Medu ha potuto compiere diagnosi, limitare i rischi, ricorrere a terapie temporanee ma utili per affrontare il cammino in montagna.
Per molti il degrado esistenziale, le condizioni di promiscuità e mancanza di igiene comportano anche parassitosi, infezioni alla pelle e scabbia. Altrettanti denunciano con pudore e rabbia le violenze subite: il taglio delle dita in Afghanistan, la perdita di una mano, fratture non ricomposte per le percosse in Turchia, dolori al busto per i maltrattamenti in Bielorussia, difficoltà nella deambulazione per la violenza della polizia croata, piaghe, cicatrici e ustioni per gli abusi in Libia. Si tratta di casi documentati nei primi mesi del 2022 e di cui, per ovvi motivi, Medu mantiene l’anonimato nel report.
Caserta, salva due bimbi dall'annegamento e muore? Il gesto-choc dei genitori del piccolo. Libero Quotidiano l'8 giugno 2022.
Ha perso la vita per salvare due bambini dall'annegamento. Rahhal Amarri, bagnino di origini marocchine, è ora un eroe. E non solo per Castel Volturno, nel casertano, dove da anni prestava servizio. Eppure non è arrivato alcun ringraziamento per lui da parte delle famiglie dei piccoli. Proprio così, dopo che Rahhal ha portato a riva i bambini e un malore lo ha colpito non lasciandogli scampo, i genitori si sono dileguati. Di loro e dei bambini non si hanno notizie.
La tragedia è avvenuta nella mattinata di martedì 7 giugno quando Amarri, che gestiva lo stabilimento Lido dei Gabbiani, ha visto due bambini in difficoltà. La corrente li stava trascinando al largo e così si è subito buttato in acqua. Prima ha salvato uno dei due piccoli e lo ha portato sulla terraferma, poi si è rituffato per salvare l'altro riuscendo anche questa volta nell'impresa. Proprio la fatica però non gli ha lasciato scampo: Amarri poco dopo ha perso i sensi e a nulla sono serviti i soccorsi e il defibrillatore.
A rendere omaggio a Rahhal Roberto Fico. "Il gesto dell'immigrato marocchino che ieri ha salvato due bimbi in mare ed è poi morto, è stato assolutamente generosissimo, straordinario, commovente e quando ho letto la notizia sono rimasto estremamente colpito anche perché Castel Volturno è un luogo difficile dove c'è tantissima umanità". Come il presidente della Camera dei deputati, sono in tanti a lasciare messaggi di ringraziamento al 42enne. Tutti tranne chi ad Amarri dovrebbe la propria vita, i genitori dei bambini da lui salvati.
Fulvio Bufi per il corriere.it l'8 giugno 2022.
Tragedia sul litorale domiziano. Nel tratto di mare antistante il Lido dei Gabbiani a Castel Volturno, in provincia di Caserta, il gestore dello stabilimento è morto a causa di un malore dopo essersi tuffato in acqua per salvare dei bambini che non riuscivano a tornare a riva.
Stamattina intorno a mezzogiorno Rahhal Amarri, origini marocchine, 42 anni e da circa venti residente nel Casertano, è stato il primo ad accorgersi delle grida di aiuto che provenivano da un gruppo di bambini chiaramente in difficoltà tra le onde, oggi piuttosto alte. Si è immediatamente tuffato per soccorrerli, mentre il bagnino attivava la procedura prevista in questi casi, mettendo in mare l’imbarcazione di salvataggio.
Due i piccoli bagnanti incapaci di opporsi alla corrente che continuava a trascinarli a largo. L’uomo ne ha raggiunto uno e lo ha trascinato fino a riva, mentre a salvare l’altro bambino è arrivato un pescatore che lo ha provvidenzialmente tirato sulla sua barca. Ma in quei momenti concitati Rahhal Amarri ha pensato che ci fossero ancora persone che rischiavano di annegare e ha provato quindi a raggiungere nuovamente il largo. Ma non ce l’ha fatta.
Colpito da un malore causato con tutta evidenza dall’eccessiva fatica alla quale si era sottoposto per compiere il primo salvataggio, ha perso conoscenza. È stato il bagnino, aiutato a sua volta da altre persone presenti in spiaggia a portarlo sul bagnasciuga e a tentare di rianimarlo. Inutilmente.
All’arrivo del 118 l’uomo era già morto. Al Lido dei Gabbiani è intervenuta la Capitaneria di Porto che sta ricostruendo nei dettagli la dinamica della tragedia per poi riferirne alla magistratura. Non è escluso che il pubblico ministero decida di disporre l’autopsia.
Umanità a due facce. Report Rai PUNTATA DEL 30/05/2022 di Claudia Di Pasquale. Collaborazione di Cecilia Bacci
Dall'inizio della guerra in Ucraina, circa 3 milioni e mezzo di profughi ucraini hanno attraversato il confine con la Polonia.
Tanti sono poi andati in altri paesi europei ma circa 2 milioni di ucraini sono rimasti. La Polonia sta compiendo enormi sforzi per accoglierli. Qui vengono di fatto equiparati ai polacchi, hanno accesso libero all'assistenza sanitaria, al lavoro, alla scuola. Ma dove vivono? Tutti riescono poi a lavorare o a studiare nelle scuole polacche? La Polonia può farcela a gestire da sola questa emergenza umanitaria? E l'Europa in che modo la sta aiutando?
UMANITÀ A DUE FACCE di Claudia Di Pasquale collaborazione di Cecilia Bacci immagini di Dario D'India ricerche immagini di Paola Gottardi montaggio di Vincenzo Gioitta e Andrea Masella
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ad un'ora da Varsavia, a Lesznowola, isolato in mezzo al bosco, si trova questo centro di detenzione per migranti. La struttura è interamente circondata da questo muro. Dentro ci sono i siriani, gli afgani, gli iracheni che hanno provato ad attraversare il confine con la Bielorussia. Abbiamo chiesto ufficialmente di visitarlo ma non ci hanno mai risposto.
MARIA KSIĄŻAK - MEMBRO MECCANISMO NAZIONALE PREVENZIONE TORTURE Questi centri sono delle vere e proprie prigioni. Le condizioni di detenzione sono disumane. Proprio oggi, in qualità di psicologa, sarei dovuta entrare al centro di Lesznowola ma alla fine non mi hanno dato il permesso.
CLAUDIA DI PASQUALE Al centro di Lesznowola sappiamo che ci sono cinque siriani che proprio in queste ore stanno facendo da più di una settimana lo sciopero della fame.
MARIA KSIĄŻAK - MEMBRO MECCANISMO NAZIONALE PREVENZIONE TORTURE Sì, io so bene che sono stati vittime di violenze e torture. È orribile che stiano chiusi lì dentro. L'unico reato che avrebbero commesso è stato quello di attraversare il confine polacco nel tentativo di chiedere protezione.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è la lettera con cui i cinque siriani hanno annunciato l'inizio dello sciopero della fame: "Siamo stanchi di essere trattati come criminali. Abbiamo più volte scritto a tutte le autorità senza avere una risposta. Vogliamo essere trasferiti in un centro di accoglienza aperto".
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In segno di solidarietà un attivista ha iniziato lo sciopero della fame insieme ai siriani.
ATTIVISTA In questi centri di detenzione dovrebbe starci solo chi ha commesso dei reati.
CLAUDIA DI PASQUALE Per quale motivo ti copri il volto?
ATTIVISTA Perché non voglio che la mia faccia diventi il volto di questa protesta. Sono loro che stanno chiusi lì dentro.
MIGRANTI Freedom, freedom, freedom
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questi sono i profughi detenuti al centro di Lesznowola.
MIGRANTI Questo posto è per animali, non per le persone. Tre milioni di ucraini sono entrati e nessun problema! Noi cento siamo il problema! Razzisti! Vogliamo la libertà! Basta razzismo!
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO 400 profughi ucraini celebrano insieme la Pasqua ortodossa in un albergo a quattro stelle di Varsavia. Dopo la cerimonia viene offerto un ricco buffet. A organizzare l'evento è stata la Caritas insieme a una società di alberghi a capitale pubblico.
CLAUDIA DI PASQUALE Gli albergatori ricevono dei sussidi per accogliere i rifugiati nelle loro strutture?
GHEORGHE MARIAN CRISTESCU – PRESIDENTE POLSKI HOLDING HOTELOWY Sì, il governo ci dà 15 euro a notte a persona.
CLAUDIA DI PASQUALE Riuscite a coprire le spese con questa cifra?
GHEORGHE MARIAN CRISTESCU – PRESIDENTE POLSKI HOLDING HOTELOWY Ci riusciamo ospitando tre, quattro persone a camera. Ma siamo onesti, ora in Polonia sta per iniziare la stagione estiva, quella del business.
CLAUDIA DI PASQUALE Quindi?
GHEORGHE MARIAN CRISTESCU – PRESIDENTE POLSKI HOLDING HOTELOWY Dobbiamo capire come gestire questa situazione. Veniamo da due anni di Covid.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dall'inizio della guerra in Ucraina tre milioni e mezzo di profughi hanno attraversato il confine con la Polonia. Al loro arrivo sono stati accolti a braccia aperte. Molti sono poi andati in altri paesi europei ma ben due milioni sono rimasti. È così che oggi la Polonia è il Paese dell'Unione Europea con il più alto numero di rifugiati ucraini.
ALDONA MACHNOWSKA-GÓRA – VICESINDACO VARSAVIA Noi del Comune ci siamo ritrovati a dover gestire questa situazione senza nessun coordinamento esterno.
CLAUDIA DI PASQUALE I profughi ucraini sono stati di fatto equiparati ai polacchi, no?
ALDONA MACHNOWSKA-GÓRA – VICESINDACO VARSAVIA Esatto. All'arrivo ricevono una somma di benvenuto di circa 65 euro e subito possono chiedere il pesel, cioè una sorta di codice fiscale che garantisce l'accesso libero all'assistenza sanitaria, alla scuola e al mercato del lavoro. Grazie al pesel possono anche chiedere un sussidio di circa 100 euro al mese per ogni figlio dopo il primo.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Appena fuori Varsavia si trova uno dei più grandi centri di accoglienza per profughi ucraini di tutta la Polonia. È stato allestito nei padiglioni della fiera. All'ingresso le persone fanno la fila per chiedere il pesel. Dentro è una distesa di brandine. Fino ad oggi ha ospitato 75mila persone. Quando ci entriamo ce ne sono 5.000. Dovrebbero restare qui solo tre, quattro giorni.
DONNA Provengo dalla zona di Kiev e vivo qui dentro ormai da un mese.
CLAUDIA DI PASQUALE Ha figli?
DONNA Sì, qui con me ci sono mia figlia di 27 anni e mio figlio di dodici. Quello maggiore invece è rimasto in Ucraina insieme a mio marito e a mio padre.
CLAUDIA DI PASQUALE Cosa fa durante il giorno?
DONNA Niente.
ANZIANA Eravamo tre famiglie, 13 persone. Siamo scappati con due auto.
DONNA 2 Una volta arrivati qui ci siamo subito iscritti ad un programma per andare in Austria ma ad oggi non abbiamo avuto ancora una risposta e ormai dormiamo qui da due settimane.
DONNA 2 Mio marito e mia suocera, che è invalida, sono rimasti in Ucraina. La mia casa è stata bombardata. Vedi, questo è il palazzo dove vivevo.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è invece un centro di accoglienza per rifugiati ucraini gestito dal Comune di Varsavia. Qui la Comunità di Sant'Egidio ha organizzato una festa per bambini.
MAGDA WOLNIK – RESPONSABILE COMUNITÀ SANT’EGIDIO – VARSAVIA Ci sono più di 300.000 persone che abitano adesso, ucraini, che abitano adesso fra di noi.
CLAUDIA DI PASQUALE Anche le associazioni ricevono un aiuto, un sussidio per accogliere?
MAGDA WOLNIK – RESPONSABILE COMUNITÀ SANT’EGIDIO – VARSAVIA No, per ora no. Non abbiamo neanche, neanche chiesto perché riusciamo per ora.
CLAUDIA DI PASQUALE A resistere.
MAGDA WOLNIK – RESPONSABILE COMUNITÀ SANT’EGIDIO – VARSAVIA A resistere da soli.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo centro di accoglienza oggi ospita circa 400 rifugiati ucraini, quasi la metà sono bambini. Dove oggi ci sono le stanze da letto, prima c'erano degli uffici.
FUAD MAMMADOV – COORDINATORE CENTRO WOŁOSKA 7 Questa è una delle stanze del centro. Come potete vedere ci sono 4, 5 letti. Di solito ogni camera ospita un nucleo familiare.
CLAUDIA DI PASQUALE Queste persone lavorano?
FUAD MAMMADOV – COORDINATORE CENTRO WOŁOSKA 7 Purtroppo, sono poche quelle che lavorano. La maggior parte è ancora alla ricerca di un'occupazione.
ALDONA MACHNOWSKA-GÓRA – VICESINDACO VARSAVIA Il Comune di Varsavia ora punta tantissimo all'integrazione dei rifugiati ucraini. Possono iscriversi all'ufficio di collocamento e frequentare corsi di lingua polacca.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è il più grande liceo di Varsavia. Non appena è scoppiata la guerra, ha subito accolto 50 ragazzi ucraini.
ANDRZEJ JAN WYROZEMBSKI - PRESIDE LICEO "B. LIMANOWSKI" – VARSAVIA Abbiamo elaborato un programma specifico che comprende polacco, ucraino, matematica e fisica. E in più abbiamo assunto quattro insegnanti ucraine che parlano polacco e che possono fare da interprete durante le lezioni degli altri docenti.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è una delle classi con gli studenti ucraini e Maryana è una delle loro insegnanti.
MARYANA DRUCHEK – PROFESSORESSA LICEO "B. LIMANOWSKI" Io sono Ucraina, vengo da Leopoli. Quando è scoppiata la guerra sono scappata subito insieme ai miei tre figli e a due nipoti.
CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha avuto la possibilità di essere assunta in questa scuola, di poter continuare il suo lavoro, di insegnare.
MARYANA DRUCHEK – PROFESSORESSA LICEO "B. LIMANOWSKI" Sì, sono stata davvero fortunata.
AMELIA KOLODZIEJ – STUDENTESSA LICEO "B. LIMANOWSKI" Ad ogni studente ucraino è stato assegnato uno studente polacco con il compito di fargli visitare la scuola e aiutarlo a integrarsi.
CLAUDIA DI PASQUALE Tutti i ragazzi riescono e i bambini ad andare a scuola, nelle scuole polacche?
ANDRZEJ JAN WYROZEMBSKI - PRESIDE LICEO "B. LIMANOWSKI" – VARSAVIA No, il sistema scolastico polacco non ha né gli spazi né gli insegnanti per accogliere tutti. Ricordiamo che in un solo mese sono arrivate due milioni di persone. La Polonia da sola non può farcela. Ha bisogno dell'Europa.
HANNA MACHIŃSKA – VICECOMMISSARIA PER I DIRITTI UMANI POLONIA Le ultime stime ci dicono che in Polonia sono arrivati ben 700.000 minori ucraini. Solo una piccola percentuale si è iscritta nelle nostre scuole. 540.000 continuano a fare la DAD con i loro docenti ucraini.
CLAUDIA DI PASQUALE C'è il rischio che molti bambini rimangano senza la possibilità di andare a scuola, soprattutto a settembre?
HANNA MACHIŃSKA – VICECOMMISSARIA PER I DIRITTI UMANI POLONIA Spero che non si arrivi a questo. Certo è che ultimamente ci hanno segnalato la mancanza di libri per insegnare la lingua polacca a questi bambini.
CLAUDIA DI PASQUALE Cosa pensa invece del fatto che oggi, appunto, la Polonia si dimostri così accogliente verso gli ucraini che scappano dalla guerra?
MARIA KSIĄŻAK - MEMBRO MECCANISMO NAZIONALE PREVENZIONE TORTURE La Polonia è grandiosa nell’accogliere gli ucraini ma c’è un contrasto troppo forte con il trattamento che riserva agli altri profughi. È inconcepibile: tu sei un vero rifugiato e tu sei da mandare via? Perché, per il colore della pelle, per la religione?
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Al confine con la Bielorussia la Polonia sta costruendo questo muro lungo 186 chilometri proprio per bloccare la rotta dei migranti.
HANNA MACHIŃSKA – VICECOMMISSARIA PER I DIRITTI UMANI POLONIA Le guardie della frontiera bielorussa spingono i profughi al confine con la Polonia dopo averli torturati. I bielorussi usano anche i paralizzatori.
CLAUDIA DI PASQUALE Oggi la Polonia sta accogliendo i profughi ucraini. Qual è la differenza proprio di trattamento tra i vari rifugiati, tra i vari profughi?
HANNA MACHIŃSKA – VICECOMMISSARIA PER I DIRITTI UMANI POLONIA Al confine con la Bielorussia i profughi vengono respinti dai polacchi nella foresta. Lì abbiamo incontrato una famiglia respinta ben 30 volte. La tendenza dei tribunali è poi quella di mandare queste persone nei centri di detenzione. Abbiamo quindi scritto a 22 tribunali circondariali per informarli del fatto che in questi centri vengono violati i diritti umani e per chiedere di non mandare più lì le famiglie con i bambini.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A febbraio ha fatto scalpore un'altra lettera, quella di una ragazzina irachena di 14 anni di nome Tiba, arrivata in Polonia dalla Bielorussia. "Siamo scappati dall'Iraq. Avevamo sempre sentito parlare dell'Europa come di un posto bellissimo. È stato davvero scioccante quando abbiamo incontrato le guardie della frontiera bielorussa. Hanno picchiato mio padre e tutti gli altri uomini che erano con noi nella foresta. Hanno preso tutto: acqua, soldi, cibo. Piangevamo e correvamo. I cani ci inseguivano. I soldati ridevano e scherzavano. Hanno puntato una pistola a mio padre. Dopo ci hanno spinto in Polonia. Le guardie polacche fanno lo stesso. Ci hanno urlato: "Tornate da dove siete venuti". Siamo rimasti nella foresta per un mese. Sapevamo che dovevamo andare in questo campo chiuso. Quando ho visto quell'edificio ho capito che stavamo andando in prigione. Non era un campo profughi. Per me è stato l'inizio di un altro orrore”.
HANNA MACHIŃSKA – VICECOMMISSARIA PER I DIRITTI UMANI POLONIA Tiba ha fatto lo sciopero della fame per 28 giorni, poi l'hanno portata in un ospedale psichiatrico e lì il medico ha accertato che era in pericolo di vita. Solo allora è stata portata in un luogo sicuro, insieme alla sua famiglia. È stato traumatico.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La doppia faccia di un’umanità. Questa era la lettera di una bambina di 14 anni irachena. Ora, da una parte c’è la Polonia che tiene al freddo e al gelo i bambini e le famiglie, costringendoli in condizioni fisiche e psicologiche di estrema fragilità, in una foresta. Poi li rinchiude in un centro di detenzione per migranti. La loro unica colpa è quella di aver cercato di passare il confine con la Bielorussia. Si tratta di afgani, siriani, palestinesi. Insomma, di coloro che scappano da altre guerre. La Polonia è nella comunità europea e, tuttavia, sta costruendo un muro lungo 186 chilometri per bloccare la rotta dei migranti. Poi c’è l’altra faccia, quella della Polonia che a braccia aperte accoglie tre milioni di profughi dell’Ucraina. Due sono rimasti. Ma come li sta accogliendo? Bentornati. Allora, siamo andati in Polonia per vedere come funziona la macchina dell’accoglienza. Sono entrati tre milioni di profughi provenienti dall’Ucraina. Due sono rimasti. Insomma, un’umanità a due facce perché l’accoglienza è diversa rispetto agli altri profughi siriani, afgani, iracheni che scappano da altre zone di guerra. Tuttavia, anche in questa accoglienza che ha dedicato agli ucraini c’è qualche contraddizione. La nostra Claudia Di Pasquale.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Appena fuori Varsavia si trova questo skatepark, adibito per l'occasione ad ostello. Ha 70 posti letto e ospita famiglie e studenti scappati dalla guerra in Ucraina ma che sono originari di altri Paesi.
STUDENTE TURKMENO Io vengo dal Turkmenistan ma da quattro anni vivevo a Kiev. Lì studiavo architettura all'università.
CLAUDIA DI PASQUALE Può usufruire di sussidi del governo, del Comune? STUDENTE TURKMENO No, niente.
MARIANNA OSSOLIŃSKA – RESPONSABILE OSTELLO – CLUB INTELLIGHENZIA CATTOLICA Questo posto è stato creato per dare un alloggio alle persone che scappano dalla guerra ma che non sono ucraine. La legge polacca, infatti, non le tutela come gli altri profughi.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, che differenza c'è di trattamento per queste persone qua in Polonia?
MARIANNA OSSOLIŃSKA – RESPONSABILE OSTELLO – CLUB INTELLIGHENZIA CATTOLICA I profughi ucraini hanno di fatto gli stessi diritti dei polacchi: possono lavorare, studiare e hanno tutta una serie di benefit. Le persone che invece vivevano in Ucraina, ma erano originarie di altri Paesi, possono restare in Polonia solo per 15 giorni. Hanno quindi un tempo molto breve per trovare una soluzione.
CLAUDIA DI PASQUALE Voi ricevete qualche forma di aiuto da parte del governo polacco?
MARIANNA OSSOLIŃSKA – RESPONSABILE OSTELLO – CLUB INTELLIGHENZIA CATTOLICA No, il governo ha previsto un sussidio solo per chi accoglie profughi ucraini con cittadinanza ucraina. E infatti qui ci sono degli studenti buttati fuori casa dai polacchi non appena hanno scoperto che non avevano diritto ad alcun sostegno economico.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Jerzy ha settant'anni anni, vive a Varsavia e a casa sua ospita ben 18 rifugiati ucraini, di cui 14 sono bambini o adolescenti.
JERZY WOŁK-ŁANIEWSKI Al piano di sotto ospito tre donne ucraine con cinque bambini. Sono persone splendide. Queste donne mi hanno aiutato a sistemare le camerette e a organizzare tutto. Poi ho conosciuto dei volontari che su Facebook hanno raccontato la mia storia. E allora sono iniziati ad arrivare aiuti da tutta la Polonia.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Al piano di sopra vive invece Olga con i suoi nove bambini.
OLGA Due sono miei figli, gli altri sette li ho in affido, sono la loro tutrice. Siamo arrivati in Polonia il 10 aprile. Dove abitavo le sirene si sentivano in continuazione. Mio fratello ha 32 anni e sta combattendo.
CLAUDIA DI PASQUALE Lei riceve qualche forma di sussidio, di aiuto da parte del Comune o del governo per poter accogliere queste persone?
JERZY WOŁK-ŁANIEWSKI Ancora no ma ho fatto la richiesta: sono circa 8 euro al giorno a persona per 60 giorni. Ora il governo ha concesso una proroga ma le spese per il gas e l'acqua sono alte e i miei risparmi non sono sufficienti per ospitare tutte queste persone per un lungo periodo. A differenza mia altri polacchi hanno già dato una data agli ucraini per andarsene di casa.
ANNA DĄBROWSKA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE HOMO FABER Oggi la maggior parte degli ucraini viene ospitata dalle famiglie polacche. Ci risulta però che qualcuno inizi a chiedere a queste donne di fare dei lavori gratis in casa - le pulizie, la badante, la baby-sitter – e che loro si sentano obbligate a farli, per ringraziare.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anna Dąbrowska è la presidente dell'associazione Homo Faber che ha sede a Lublino e che da anni si occupa di tratta di esseri umani.
ANNA DĄBROWSKA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE HOMO FABER Nelle prime settimane la situazione al confine era agghiacciante: c'erano questi grossi flussi di profughi, soprattutto donne, e tanti uomini si offrivano per accompagnarle nelle varie città, Varsavia, Cracovia, senza nessun controllo. E infatti ci sono stati casi di stupro. I nostri volontari hanno poi osservato strani personaggi che offrivano a queste ragazze lavori ben pagati e case di lusso con piscina. CLAUDIA DI PASQUALE Ma i controlli della polizia polacca funzionano?
ANNA DĄBROWSKA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE HOMO FABER Non credo ma spero di sbagliarmi. Un tempo organizzavamo degli incontri con le forze dell’ordine sul tema della tratta degli esseri umani. Dal 2015, da quando c'è il nuovo governo, questi incontri non si sono più svolti.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dopo lo scoppio della guerra centinaia di pullman e volontari si sono precipitati in Polonia, al confine, per soccorrere i profughi. In mezzo a loro si sono infiltrati anche i malintenzionati. Lo sa bene Gianni Cicchetti Marchegiani che a Przemyśl coordinava questo centro di accoglienza.
GIOVAN BATTISTA CICCHETTI MARCHEGIANI – PRESIDENTE R.O.E - PROTEZIONE CIVILE In quei primi giorni lì era terra di nessuno.
CLAUDIA DI PASQUALE E questo lei l'ha visto coi suoi occhi.
GIOVAN BATTISTA CICCHETTI MARCHEGIANI – PRESIDENTE R.O.E - PROTEZIONE CIVILE Questo l'abbiamo visto con i nostri occhi che sono arrivati lì, nel nostro centro. Sono arrivate persone che avevano fedine penali non pulite.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma erano italiani?
GIOVAN BATTISTA CICCHETTI MARCHEGIANI – PRESIDENTE R.O.E - PROTEZIONE CIVILE Sì, sì, erano italiani.
CLAUDIA DI PASQUALE E da dove arrivavano?
GIOVAN BATTISTA CICCHETTI MARCHEGIANI – PRESIDENTE R.O.E - PROTEZIONE CIVILE Zona dell'Adriatico, avevano precedenti, lo sfruttamento della prostituzione. Proprio volevano scegliere donne. Addirittura, come se fossimo a un mercato.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma era possibile arginare e controllare questo sistema?
GIOVAN BATTISTA CICCHETTI MARCHEGIANI – PRESIDENTE R.O.E - PROTEZIONE CIVILE Abbiamo fatto questa domanda alle autorità polacche. Ci hanno risposto che non avevano uomini a sufficienza per controllare tutto questo flusso.
CLAUDIA DI PASQUALE Qual è il rischio per i minori?
GIOVAN BATTISTA CICCHETTI MARCHEGIANI – PRESIDENTE R.O.E - PROTEZIONE CIVILE Il traffico dei minori perché ci sono tantissimi bambini piccolissimi, abbandonati, dispersi, ok?
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In Ucraina ci sono circa 600 orfanotrofi e case-famiglia. Allo scoppio della guerra l'associazione polacca Happy Kids è riuscita a far evacuare 1.500 minori.
AGNIESZKA ZYCH-GRZELAK - COORDINATRICE FONDAZIONE HAPPY KIDS Questi bambini oggi vivono in Polonia dislocati in dieci strutture diverse. La più piccola ne ospita otto. La più grande, 500.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è una delle strutture gestite da Happy Kids. Si trova a Łódź ed è un ex orfanotrofio. Oggi ospita 41 minori. Queste sono le stanze da letto mentre questi sono i bagni.
TETIANA FAMENKO – PSICOLOGA FONDAZIONE HAPPY KIDS Questi bambini hanno magari vissuto nei bunker, hanno sentito le sirene. Come psicologa cerco di aiutarli a cancellare i segni lasciati dalla guerra. Anch'io, infatti, sono ucraina e profuga, come loro.
CLAUDIA DI PASQUALE Qual è l'età dei bambini?
AGNIESZKA ZYCH-GRZELAK - COORDINATRICE FONDAZIONE HAPPY KIDS Qui il bambino più piccolo ha tre anni, il più grande 17. In altre strutture gestite da noi ci sono invece anche bambini di pochi giorni.
CLAUDIA DI PASQUALE Qual è la loro condizione?
AGNIESZKA ZYCH-GRZELAK - COORDINATRICE FONDAZIONE HAPPY KIDS Sono orfani oppure sono minori in affido perché i genitori hanno perso la responsabilità genitoriale.
CLAUDIA DI PASQUALE Sarebbe possibile adottare questi bambini che, oltre ad essere magari senza genitori, sono anche rifugiati?
AGNIESZKA ZYCH-GRZELAK - COORDINATRICE FONDAZIONE HAPPY KIDS Che io sappia, da quando è scoppiata la guerra il governo ucraino ha vietato le adozioni e anche le procedure di adozione precedenti risultano bloccate o rallentate.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Altri 500 minori sono stati portati dagli orfanotrofi ucraini in questo grande albergo che fa capo a un importante gruppo polacco di telecomunicazioni. La struttura si trova a Rawa Mazowiecka, in una zona un po’ isolata, ed è immensa. Conta 522 camere. Intanto i minori sono stati sistemati così.
CLAUDIA DI PASQUALE 500 non sono troppi, tutti insieme, di età diverse?
AGNIESZKA ZYCH-GRZELAK - COORDINATRICE HAPPY KIDS Anche noi pensiamo che sarebbe meglio ospitarli in strutture più piccole ma il governo ucraino vuole che stiano lì tutti e 500 insieme e non ci ha mai dato il consenso per separare questi bambini.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto la Polonia batte cassa all'Unione Europea e chiede 2 miliardi e 200 milioni di euro per aver accolto 2 milioni di profughi ucraini.
PATRYK JAKI - EUROPARLAMENTARE POLACCO PARLAMENTO EUROPEO 06/04/2022 A Erdogan sono stati dati otto miliardi di euro per tenere le persone dentro tende indecenti. Adesso che la Polonia accoglie gli ucraini nelle proprie case, e non nelle tende, non volete pagare nulla. Mi chiedo: i profughi alla frontiera turca hanno un valore diverso rispetto a quelli accolti nelle case polacche? La vostra ipocrisia ormai è leggendaria.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In questi mesi la Commissione Europea ha bloccato i fondi alla Polonia perché non ha mai pagato le sanzioni comminate dalla Corte di giustizia europea per l'inquinamento causato dalla miniera di Turów e per avere introdotto la cosiddetta camera disciplinare, un organo che colpisce l'indipendenza dei giudici.
IGOR TULEYA – MAGISTRATO SOSPESO Nel 2020 questa camera disciplinare mi ha sospeso e mi ha tolto anche l'immunità che mi spetta come giudice. La mia colpa era quella di avere emesso nel 2017 una sentenza che non era piaciuta al nostro governo e che riguardava una votazione parlamentare il cui risultato, a mio avviso, era stato truccato. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il giudice Igor Tuleya è ancora oggi sospeso. Alla nostra intervista si presenta con una maglietta con su scritto “L'uomo in rivolta” di Albert Camus.
CLAUDIA DI PASQUALE Qualche politico è stato poi indagato per non avere rispettato a pieno le procedure di votazione? IGOR TULEYA – MAGISTRATO SOSPESO Ovviamente no. In Polonia non c'è una magistratura indipendente. Considerate che il ministro della giustizia è allo stesso tempo il procuratore generale e anche il leader di uno dei partiti della coalizione di governo.
JACEK PAŁASIŃSKI - GIORNALISTA Questo è un governo di estrema destra. Un governo che appoggiava fortemente Trump. Un governo che pochi giorni, nel secondo turno delle elezioni in Francia, aveva apertamente criticato Macron e appoggiato Le Pen.
CLAUDIA DI PASQUALE Prima della guerra in Ucraina com’erano i rapporti tra l'Unione europea e la Polonia?
JACEK PAŁASIŃSKI - GIORNALISTA Erano gelidi, gelidi. Praticamente non c'erano.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La guerra in Ucraina ha però cambiato le carte in tavola. I primi di marzo il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, è andato al confine insieme al premier polacco Mateusz Morawiecki. Solo pochi giorni fa i due si sono di nuovo incontrati. E alla fine la Commissione Europea, nonostante le sanzioni, ha assegnato alla Polonia 562 milioni di euro per accogliere i profughi ucraini.
JACEK PAŁASIŃSKI - GIORNALISTA Questo posto, Varsavia, è diventata un crocevia di tutti. Un governo fino a pochi mesi fa completamente emarginato che è diventato un centro del lavorio diplomatico che si sta svolgendo attorno all'Ucraina.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La Polonia è in una condizione particolare: è un avamposto della Nato e poi al centro della crisi tra Russia e Ucraina. Dalla Polonia partono le armi per l’Ucraina, arrivano i profughi. Il governo è in mano al PiS, un partito di destra, Diritto e Giustizia. Solo che la parola giustizia è un po’ un ossimoro per l’Europa. E infatti la Corte di giustizia europea ha sanzionato per un milione di euro al giorno perché con la sua riforma della giustizia ha minato l’indipendenza della magistratura e viola lo stato di diritto. Poi è stata anche sanzionata per 500 mila euro al giorno per la mancata chiusura della miniera di Turów per questioni ambientali. Ecco, siccome la Polonia non ha sganciato un euro fino a questo momento, l’Europa ha sbloccato il recovery fund per un equivalente di circa 36 miliardi di euro. Questo con la destra. Poi, con la sinistra però ha stanziato 562 milioni alla Polonia per l’accoglienza dei profughi, altri 328 sono previsti e sono provenienti dai fondi dell’Unione Europea per gli affari interni e poi ne prevede anche 144,6 milioni. Ecco, insomma, senza ipocrisie però, è un bene che l’Europa ci sia perché ci troviamo di fronte a una catastrofe umanitaria. Abbiamo sentito il responsabile della protezione civile lanciare un allarme: ha visto con i propri occhi delinquenti provenienti dalla riviera adriatica andare al confine con l’Ucraina e scegliere indisturbati, perché la Polonia non ha forze dell’ordine a sufficienza per controllare il fenomeno, scegliere le donne da avviare alla prostituzione. E gli viene anche facile poter scegliere tra chi ha perso tutto perché è facile che chi ha perso tutto possa perdere anche se stesso.
Vite sospese. Tra i confini e le barriere che bloccano la strada (e la vita) ai migranti. Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja su L'Inkiesta il 27 maggio 2022.
Gli scrittori Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja hanno raccolto i loro reportage dalle frontiere europee e italiane, tra tendopoli, miseria e il gioco (lo chiamano the game) con cui gruppi di persone cercano di arrivare in Europa.
EDOARDO: La Serbia è un Paese che confina con altri otto. Attraverso le piatte distese della Vojvodina, stiamo arrivando alla triplice frontiera con Ungheria e Romania. Un paesaggio inospitale. Villaggi perlopiù abbandonati, le finestre sfondate o con le serrande chiuse, i tetti ondulati per il cedimento delle travi. Questa parte della Serbia si sta spopolando, se ne vanno all’estero o a Belgrado.
FRANCESCA: Majdan. Già dal nome la località evoca ricordi sinistri, basta aggiungere “ek” finali per comporre l’orrendo Majdanek, il campo di concentramento polacco.
L’assonanza non è solo fonetica, purtroppo. Ci arriviamo dopo tre ore di auto e chilometri di paesaggi nebbiosi come in un film di Tarkovskij, casolari in rovina, piccole fattorie dimenticate. È a una di queste costruzioni, una stalla diroccata, che siamo diretti. Si staglia in mezzo al nulla, circondata da pozzanghere e sterpaglie. Di fronte a quello che fatico a definire ingresso, c’è un gruppo di uomini che battono i piedi per il freddo (la temperatura è scesa sotto lo zero): la prima cosa che salta agli occhi sono le loro scarpe, perlopiù sneakers in tela. Ma l’abbigliamento non è meno incongruo: tute acetate, giacche a vento che sarebbero inadatte pure a Palermo, pochissimi indossano i guanti, quasi tutti un berretto in pile. Ci stavano aspettando.
Alle loro spalle una lamiera funge da protezione all’accesso del ricovero che ci apprestiamo a varcare con la reticenza di chi prevede che, oltre la soglia, lo aspetti un girone infernale. E tale è.
Una struttura rettangolare lungo il cui perimetro grandi aperture lasciano entrare un vento gelido. Sul pavimento è disseminata una cinquantina di minuscole tende sudice e lacere, con intorno un tappeto di lerciume. C’è un odore aspro, sprigionato dai materiali utilizzati per accendere fuochi di fortuna: pneumatici, cartoni e poca legna, perlopiù umida e quasi inservibile. Si fa avanti un ragazzo, fradicio, è appena tornato dopo l’ennesimo tentativo di traversare il confine rumeno, il famigerato game. I poliziotti lo hanno minacciato con la pistola seguendo l’ottuso rituale del pushback. E lui: «Perché mi punti addosso la pistola? Non sono un animale pericoloso!»
«We are no animals, we are no criminals», sono le frasi che ripetono insistentemente anche a me. Vorrei rispondere che, se anche lo fossero, non meriterebbero un trattamento del genere, e che il termine «criminale» andrebbe semmai rivolto a quelli che li respingono in maniera più o meno brutale. Siamo in Europa, santiddio. C’è anche un bambino, avrà otto anni, si chiama Ahmed. Non lascia mai la mano del padre, ed è l’unico, in quell’inferno, a regalarmi un sorriso. Ingoio una bestemmia insieme alle lacrime che faccio fatica a controllare. Penso alla notte che si avvicina, ai telefoni scarichi (il loro vero e unico tesoro), alle temperature implacabili, a me, che fra qualche giorno tornerò nel Paese che sognano. Ci hanno messo tre mesi per arrivare qui dalla Siria, attraversando Turchia, Grecia e Kosovo.
EDOARDO: Molti di loro hanno ai piedi nudi un paio di Croc semisbriciolate. Mostrano le loro piaghe e cicatrici, frutto della guerra o dei maltrattamenti polizieschi. A parte le randellate e le ustioni di sigaretta e ferro da stiro, la violenza più odiosa l’ha subita un siriano a cui i gendarmi si sono limitati, sadicamente, a rompere gli occhiali. Quando li intercettano, gli fregano i soldi, gli spaccano i cellulari, affinché non ci provino più, eppure loro continuano a provarci. Nel gergo della rotta balcanica, si chiama game, il tentativo ripetuto di scavalcare le frontiere, dieci volte, venti o trenta volte: una specie di lotteria, o di roulette, la cui posta è la vita. Uno di loro è andato stamattina al confine, ha provato ad attraversare, ha preso la sua razione di legnate ed è tornato alla stalla tutto pesto. Ci riproverà.
«Vedi, la migrazione è come l’acqua. Blocchi un punto e comincerà a gocciolare da un’altra parte».
da “Vite in sospeso Migranti e rifugiati alle frontiere d’Europa”, di Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja, 2022 Baldini + Castoldi s.r.l – Milano, pagine 128, euro 15
Da invececoncita.blogautore.repubblica.it il 25 aprile 2022.
Conosco Andrea Costa, presidente dell’associazione Baobab, solo attraverso il suo lavoro: da anni, dal 2015, coordina una rete di volontari che offrono assistenza alle persone migranti che transitano dal nostro Paese. Sottolineo transito.
La missione specifica di Baobab è quella di dare primo soccorso a chi approda in Italia diretto altrove: un pasto, un posto dove dormire, una informazione di massima sulle leggi del nostro paese e dunque su diritti e doveri. Toglierle le persone dalla strada, accompagnarle dove sono dirette.
Nel 2016 Costa ha raccolto con una colletta 250 euro per comprare i biglietti del pullman a nove persone provenienti dal Sudan e dal Ciad (per le condizioni dei loro paesi d’origine avrebbero dovuto avere lo status di rifugiati) e dirette al campo della Croce Rossa di Ventimiglia dove una volontaria dell’associazione li ha accompagnati dopo lo sgombero – piuttosto violento – del campo di via Cupa, a Roma. Rischia ora per quei biglietti di autobus una condanna da sei a diciotto anni di carcere con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.
La sentenza il 3 maggio. Appena rientrato dall’Ucraina ha raccontato in conferenza stampa, insieme all’avvocato Francesco Romeo e ad altri associati del Baobab, come si sia svolta l’inchiesta, in principio affidata alla Dia con l’ipotesi di associazione a delinquere.
Pedinamenti, migliaia di ore di intercettazioni, accesso ai conti bancari. Non trovano nulla, l’indagine passa alla magistratura ordinaria a cui restano in mano, alla fine, i nove biglietti del bus. Se fossimo Salvini ci chiederemmo quanto è costata allo Stato un’indagine durata sei anni a fronte di quei 250 euro. Ma non siamo Salvini, e questo aiuta.
Carlo Tarallo per “La Verità” il 19 aprile 2022.
«Non conosco i dettagli dell'accordo tra Ruanda e Regno Unito, ma in base all'annuncio pubblico sembra essere un buon passo avanti»: è il commento del ministro per l'Immigrazione e l'integrazione della Danimarca, Mattias Tesfaye, in riferimento al piano del governo britannico per contrastare l'immigrazione illegale, che prevede, fra l'altro, che alcuni dei richiedenti asilo sbarcati sulle coste inglesi siano trasferiti in Ruanda per la gestione dell'iter burocratico relativo alle loro richieste. Le parole di Tesfaye sono destinate a far venire il mal di testa ai sedicenti progressisti di tutta Europa, e in particolare ai paladini della immigrazione senza regole.
Tesfaye, infatti, non è un politico di destra, ma l'esatto contrario: il babbo, Tesfaye Momo, è un rifugiato etiope, mentre il ministro, prima di aderire al Partito Socialdemocratico della premier Mette Frederiksen, è stato un esponente di primo piano del Partito Popolare Socialista e prima ancora dell'Alleanza Rosso-Verde e dell'ormai disciolto Partito Comunista Marxista-Leninista della Danimarca.
Dunque, siamo di fronte a un politico di sinistra radicale, che però non ha alcun problema a definire interessante il piano di Boris Johnson per contrastare l'immigrazione clandestina: «Spero», ha aggiunto Mattias Tesfaye, a quanto riferisce il Guardian, «che più Paesi europei nel prossimo futuro sosterranno la visione di affrontare la migrazione irregolare attraverso partenariati impegnati con Paesi extraeuropei".
Il piano di Boris Johnson, la cui realizzazione pratica è affidata al ministro dell'Interno britannico Priti Patel, prevede che venga sottoscritto col governo del Ruanda un accordo da 120 milioni di sterline che prevede in alcuni casi rimpatri rapidi per i richiedenti asilo arrivati nel Regno Unito e la gestione dell'intero processo burocratico nel Paese africano.
Johnson nei giorni scorsi ha sottolineato che la situazione degli sbarchi clandestini è diventata insostenibile per la Gran Bretagna: arrivano anche 600 persone al giorno su gommoni e piccole imbarcazioni che attraversano il canale della Manica, e il totale dall'inizio dell'anno supera le 5.000 persone.
Johnson ha accusato i trafficanti di esseri umani, sottolineando che Londra non può tollerare queste azioni illegali: «La nostra compassione può essere infinita», ha commentato il primo ministro inglese, «ma la nostra capacità di aiutare le persone non lo è».
In sintesi, il piano di Johnson prevede che ogni immigrato clandestino che verrà pizzicato mentre tenta di sbarcare sulle coste britanniche o che è entrato in maniera irregolare sul territorio dall'inizio dell'anno verrà imbarcato su un aereo e trasferito in Ruanda, stato dell'Africa orientale con poco più di 11 milioni di abitanti. Ottenuto l'asilo, i rifugiati saranno accolti in ostelli e sostenuti per cinque anni dal governo locale, con fondi inviati appositamente da Londra, per costruirsi una vita e trovare una attività lavorativa: sono stati già stanziati 140 milioni di euro. Il piano prevede anche il dispiegamento della Royal Navy, la Marina militare, per intercettare, identificare e bloccare i barconi degli scafisti.
Il ministro Patel, nei giorni scorsi, è volata a Kigali per sottoscrivere il patto tra Gran Bretagna e Ruanda: «Si tratta di un Paese», ha evidenziato Johnson, «che ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».
Da corriere.it il 14 aprile 2022.
Il governo britannico guidato da Boris Johnson ha lanciato un controverso piano per contrastare l'immigrazione illegale. Il progetto dell'esecutivo conservatore prevede che alcuni dei richiedenti asilo entrati illegalmente in Gran Bretagna possano essere mandati in Ruanda per la gestione delle loro richieste — senza alcuna certezza di poter tornare indietro.
Non ci sono limiti numerici al piano, ha detto il governo di Londra, che quindi potrebbe riguardare migliaia di persone che hanno attraversato la Manica per entrare in Gran Bretagna.
Il piano è stato formalizzato oggi dopo la sigla, a Kigali, di un'intesa con il Ruanda chiamata «Partnership per lo sviluppo economico».
Secondo Londra, la situazione migratoria è diventata «insostenibile»: oltre 600 persone sono arrivate solo ieri dopo aver attraversato su barchini e gommoni il Canale della Manica, portando il totale a oltre 5.000 quest'anno.
Lo scorso anno le persone entrate in territorio britannico attraverso la Manica su imbarcazioni di fortuna sono state almeno 28000 (contro le 8.500 nel 2020). Decine i morti: l'incidente più grave fu registrato nel mese di novembre, e a morirono furono 27 migranti.
L'intenzione dichiarata da Johnson è quella di porre fine al traffico di esseri umani. «Chi cercherà di saltare la coda (per entrare nel Paese) o prendersi gioco del nostro sistema» sarà «rapidamente, e in modo dignitoso, mandato in un Paese terzo sicuro» (cioè il Ruanda) o «nel loro Paese d'origine».
Le ong hanno fortemente criticato il piano, definendolo «crudele»; l'opposizione laburista l'ha bollato come «impraticabile e immorale». Il piano — per ammissione dello stesso Johnson — sarà probabilmente contestato legalmente, e non entrerà in vigore subito.
«Noi siamo convinti che il nostro piano rispetti appieno i nostri obblighi internazionali ma nonostante questo ci aspettiamo dei ricorsi legali - ha riconosciuto Johnson - e se questo Paese è considerato debole verso l'immigrazione illegale da alcuni nostri partner è a causa di una schiera di avvocati politicizzati che per anni fatto affari ostacolando le deportazioni e limitando l'azione del governo».
Il piano annunciato oggi da Londra prevede anche che sia la Royal Navy — la marina militare britannica — a pattugliare il canale della Manica per frenare l'impennata di sbarchi di immigrati illegali.
Il Ruanda è lo stato più densamente popolato del continente africano; le tensioni etniche e politiche hanno scatenato, nel 1994, un genocidio tra le etnie Hutu e Tutsi.
Il piano choc di Johnson: gli immigrati clandestini deportati in Ruanda. Erica Orsini il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.
Intesa Londra-Kingali sui richiedenti asilo. Critiche al premier: "Una scelta immorale".
Londra. Un biglietto di sola andata per il Ruanda.
È quello che intende regalare il governo di Boris Johnson ai migranti clandestini che hanno attraversato la Manica cercando rifugio e una nuova patria nel Regno Unito. La decisione, annunciata ieri in una conferenza stampa dallo stesso Primo Ministro britannico rientra nell'ambito del pacchetto di nuove politiche sull'immigrazione che già aveva suscitato reazioni polemiche nel mondo politico.
«Questo tipo di schema si è reso necessario per mettere fine ai mezzi usati nel traffico di esseri umani, così sarà possibile salvare innumerevoli vite» ha spiegato Johnson nella conferenza svoltasi in Kent.
Il Premier ha spiegato di aver raggiunto un accordo con quello ruandese che accoglierà un numero ancora non fissato di clandestini, attualmente detenuti nel Regno. Il ministro degli Interno, Priti Patel, si è infatti recata a Kigali per sottoscrivere il patto tra i due Paesi nell'ambito delle collaborazioni di sviluppo economico. L'idea dell'Home Office è infatti di portare gli immigrati in Runanda, «incoraggiandoli» a rimanere e a rifarsi una nuova vita lì. «Quel Paese - ha proseguito Johnson - ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».
Ai giornalisti che gli hanno fatto presente il triste record di violazioni dei diritti umani perpetrate in quei territori e le numerose torture alle quali vengono sottoposti i detenuti il Primo Ministro ha risposto: «Il Ruanda ha subito una trasformazione completa e negli ultimi decenni è diventato un Paese diverso da quello che era». Nel costo totale dell'operazione sarà compreso un iniziale pagamento di 120 milioni di sterline, una cifra già contestata dall'opposizione che ha definito l'intero sistema «non fattibile e non etico». «L'attuale sistema di accoglienza che prevede la sistemazione negli alberghi ci costa già un miliardo e mezzo ogni anno - si è difeso Johnson - la permanenza negli hotel si aggira intorno ai 5 milioni quotidiani ed è destinata ad incrementare». I migranti che arriveranno in Ruanda verranno prima sistemati in un ostello del quartiere Gasabo di Kigali che al momento funge da albergo per turisti e che il governo africano intende acquistare in leasing dall'attuale proprietario. Al momento non è ancora chiaro se verranno spediti in Africa soltanto uomini, se laggiù sarà possibile ricorrere in appello e se il sistema sarà destinato ai soli migranti «economici». Johnson ha anche dichiarato che dalla prossima settimana la Royal Navy assumerà il comando operativo nel Canale per assicurare che «nessun barcone arrivi clandestinamente nel Regno Unito». Lo scorso anno hanno attraversato la Manica in imbarcazioni di fortuna 28,526 persone secondo i dati ufficiali, ma il numero potrebbe essere molto più alto. Decine hanno perso la vita tentando di raggiungere le coste inglesi.
Il ministro Patel aveva dichiarato in Parlamento che «il 70% degli immigrati clandestini che arrivano a bordo dei barconi sono migranti economici» ma i dati ottenuti dal Guardian dallo stesso Home Office evidenziano che il 61% degli immigrati arrivati via mare hanno poi ricevuto il permesso di rimanere come rifugiati.
Cuore di tenebra. Il modello Brexit dell’immigrazione? Appaltare l’accoglienza dei rifugiati al Ruanda. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.
Il premier Johnson ha deciso di spedire a Kigali i migranti maschi single che arrivano nel Regno Unito. I primi trasferimenti partiranno a maggio. Londra pagherà i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza, spendendo tra le 20mila e 30mila sterline a persona.
Aiutiamoli a casa loro. Anche se non è casa loro. Basta che non sia casa nostra. In una riga, è questo il piano del governo inglese per spedire – e quindi deportare, accusano opposizione e ong – in Ruanda i migranti illegali. Inizialmente verranno respinti così solo i maschi adulti senza figli, a prescindere dalla nazionalità: chi scappa dall’Afghanistan potrebbe trovarsi su un volo per Kigali. Più di esternalizzare l’accoglienza, si tratta di pagare per lavarsi la coscienza. Da Londra, il Ruanda riceverà subito 120 milioni di sterline. Benché più avanzata di altri Stati africani, la repubblica guidata da Paul Kagame è criticata per come reprime il dissenso.
Il primo ministro Boris Johnson combatte l’immigrazione, anche quella regolare, da quando è a Downing Street. Ha reso più difficile ottenere un visto per gli europei, con un sistema a punti. Ha pagato la Francia per pattugliare le coste normanne. Ha varato una legge, il Nationality and Borders Bill, che prevede il carcere per chi arriva illegalmente. Sono aumentati gli sbarchi via mare: 28 mila persone nel 2021, ventimila più del 2020. I numeri di quest’anno, con più di 5mila ingressi, hanno convinto i conservatori all’ennesima stretta. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza, in Italia l’anno scorso sono approdate 67mila persone.
Chi cerca salvezza nel nostro Paese proviene soprattutto da altre nazioni del Mediterraneo, in testa Tunisia ed Egitto. La maggior parte dei profughi diretti verso l’Inghilterra, invece, arriva da più lontano. Iran, Iraq, Eritrea, Siria, Vietnam, Afghanistan. È prevalente il Medio Oriente, non l’Africa, eppure è qui che i richiedenti asilo verranno mandati.
Il criterio per il trasferimento in Ruanda, risparmiato a donne e bambini, è che i maschi single siano prima transitati dalla Francia o da altri «Paesi sicuri». Difficile non passarci per salpare su un barchino di fortuna o rischiare la vita nascosti nel retro di un camion.
Johnson ha promesso che i primi transfert saranno a maggio. Verranno imbarcati i migranti arrivati da inizio gennaio. Downing Street si aspetta di riuscirne a rilocare – la terminologia dei Tories si addice più alle merci che agli esseri umani – «decine di migliaia» nei prossimi anni. Sarà il governo a pagare i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza in Ruanda, dove si potrà chiedere asilo a patto di rinunciare alla domanda nel Regno Unito. Il Times ha stimato che la spesa oscillerà dalle 20 alle 30mila sterline a persona.
Cosa succede dopo? A Londra non interessa troppo, non lo ritiene più un suo problema. I tre mesi coperti dai fondi britannici sono quelli in cui, in teoria, la repubblica africana esaminerà le domande d’asilo. In caso positivo, verrà concesso un permesso di soggiorno di cinque anni. In caso di diniego, per esempio per precedenti penali, di fatto scatta il rimpatrio nel Paese d’origine. Se la trafila burocratica si ingolfasse, questa triangolazione rischia di trasformare il Ruanda nell’ultima fermata del viaggio della speranza.
Il Regno Unito non solo esternalizza l’accoglienza, come ha fatto l’Unione europea con la Turchia, ma paga un Paese terzo per accollarsi le responsabilità. Una specie di export di disperati. Ci sono gravi storture: un profugo partito dall’Afghanistan o dall’Iraq, per l’attuale normativa, può chiedere asilo solo dal suolo britannico, ma raggiungere l’isola, in base ai nuovi criteri, equivale a rendere inammissibile la domanda. È un vicolo cieco. In linea d’aria, Londra dista da Kigali 6,591 chilometri: mille più di Kabul, duemila più di Teheran e il doppio di Aleppo.
Perché proprio il Ruanda, allora? La risposta più semplice è che è l’unico Paese ad aver accettato. Ha negoziato il patto Priti Patel, ministra dell’Home Office dell’ala destra dei conservatori. La repubblica è entrata nel 2009 nel Commonwealth, di cui ospiterà il summit a giugno, e può darsi voglia compiacere Londra. Ma le ragioni sono soprattutto economiche. Kigali conta sull’afflusso di denaro stabile da una superpotenza finanziaria. Le cifre non sono ancora pubbliche, ma saranno legate al numero di trasferimenti e c’è già un fondo da 120 milioni di sterline per progetti educativi.
«Il Ruanda somiglia alla Svizzera dell’Africa, ma è un posto estremamente repressivo e spaventoso», ha detto alla BBC Michela Wrong, autrice di un libro sul Paese. C’è il W-iFi, una copertura vaccinale della popolazione al 60% e un parlamento a maggioranza femminile, è vero, ma vengono pure messi in galera gli Youtuber che criticano il presidente Kagame, al potere dal 2000, fine della guerra civile. Con percentuali plebiscitarie, ha modificato la costituzione per candidarsi dopo il secondo mandato, scaduto nel 2017, ed è stato regolarmente rieletto.
I sostenitori di Kagame spiegano i risultati con l’ascendente popolare di uno «statista», ma gli analisti sollevano dubbi sul funzionamento della democrazia ruandese. «Nel corso degli scorsi decenni – ha scritto per esempio Amnesty International – lo spazio politico e il processo elettorale in Ruanda sono stati caratterizzati da restrizioni delle libertà di associazione e assemblea, attacchi mirati contro i leader dell’opposizione, omicidi, sparizioni e processi politici che hanno indebolito la società e i media».
Una delle figure più note del Paese è Paul Rusesabagina, che ha salvato più di mille persone negli anni del genocidio dei Tutsi. Hollywood nel 2004 gli ha dedicato un film, Hotel Rwanda, con diverse nomination agli Oscar. Nel 2020, secondo quanto denuncia la sua famiglia, Rusesabagina è stato rapito da Dubai e portato in Ruanda, dove è stato condannato a 25 anni di carcere per il presunto sostegno a un gruppo ribelle. «Il Ruanda è una dittatura, non c’è libertà di parola, non c’è democrazia», ha detto alla Bbc sua figlia, Carine Kanimba.
«Siamo un posto sicuro, teniamo al rispetto dei diritti umani come ogni altra nazione» ha assicurato ai media inglesi il portavoce di Kigali. Il Paese africano più densamente popolato, per ora, ha solo 50 stanze per chi atterrerà dal Regno Unito. Possono accogliere al massimo cento persone. Un nuovo complesso di palazzine dovrebbe triplicare questa (scarsa) capacità ricettiva. Il paradosso è che proprio l’anno scorso il governo inglese ha espresso le sue preoccupazioni davanti all’Onu per «le continue limitazioni ai diritti civili e politici e alla libertà di stampa», testuale, nel paese dove ora intende spedire i migranti.
Il Regno Unito non è il solo, né il primo, a varare strategie simili. Ci ha provato anche la Danimarca, proprio con il Ruanda. «Tentativi xenofobi e inaccettabili» li ha definiti l’Unione africana. Ha protestato anche la commissione europea. Così il memorandum firmato dal ministro socialdemocratico Matthias Tesfaye è rimasto lettera morta: finora, zero trasferimenti in Africa. La Danimarca, in compenso, ha revocato il permesso di soggiorno a migliaia di siriani, sostenendo che possano tornare a Damasco, mentre si prepara ad accogliere centomila profughi ucraini.
Tra respingimenti e centri di detenzione, l’Australia ha fatto scuola negli ultimi vent’anni. Queste politiche sono costate, solo nel 2021, 460 milioni di sterline a Camberra, ma sono state spostate solo 239 persone. Una spesa media di quasi due milioni ciascuna. Anche Israele ha un accordo con due paesi: i nomi sono secretati, ma secondo i media si tratta proprio di Ruanda e Uganda. Chi viene respinto da Tel Aviv può scegliere se tornare a casa o accettare un pagamento di 3,500 dollari e un biglietto aereo per l’Africa.
Secondo un sondaggio di YouGov, il provvedimento di Johnson piace solo al 35% degli elettori ed è avversato dal 43% di loro. Anche l’esecutivo si è spaccato, se per farlo passare Patel ha dovuto usare un meccanismo che scavalcasse l’opposizione dei funzionari dell’Home Office. I conservatori potranno anche stanziare 50 milioni di sterline per armare la marina e intercettare i barchini sulla Manica, ma – secondo una proiezione in esclusiva del Telegraph – il partito crollerà alle elezioni locali di maggio, perdendo più di ottocento seggi a favore dei laburisti.
La guerra ai migranti. Profughi deportati in Ruanda, la barbarie di Boris Johnson. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Aprile 2022.
Ho letto tre volte la nota di agenzia. Perché non ci credevo, ero convinto che ci fosse un errore o di non aver capito io. Invece è proprio così. Boris Johnson, il premier britannico, ha annunciato che schiererà la marina militare inglese – storicamente la più potente marina del mondo – per impedire gli sbarchi di profughi. La Royal Navy, una volta catturati i nemici, li stiperà in alcuni aerei messi a disposizione dall’aeronautica militare e con un volo di poche ore li trasporterà in Ruanda. Qui saranno accolti e sistemati, si immagina, in appositi campi di concentramento. Poi, del loro destino non si saprà più nulla.
Al Ruanda sono destinati non solo tutti i profughi che verranno catturati da oggi in poi. La caccia è aperta. Ma anche tutti quelli sbarcati in Gran Bretagna dal primo gennaio. Insieme alla marina, spalla a spalla, lavorerà la polizia. Sarà una deportazione di massa. Come quella che gli europei qualche secolo fa realizzarono con il percorso inverso. Allora andavano a prendere gli africani e li portavano in America. Li vendevano come schiavi al mercato di Charleston. Ora invece prendono i profughi e li portano in Africa. Anzi, per essere precisi, li portano in uno dei paesi più poveri dell’Africa. Il Ruanda è uno stato piccolissimo, molto popoloso, governato da una dittatura. Ha un reddito medio inferiore ai due dollari al giorno. Medio: vuol dire che ci sono alcuni milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno o forse un po’ meno. Nelle classifiche ufficiali del Pil pro-capite il Ruanda sta intorno al 175° posto su 190. I poveri sono la maggioranza della popolazione, e muoiono letteralmente di fame. Il regime è dominato da un signore che si chiama Paul Kagame.
Governa dal 2003 e le previsioni (dopo una serie di ben studiate riforme costituzionali) dicono che governerà fino al 2034. Le ultime elezioni le ha vinte ottenendo il 99 per cento dei voti. Una percentuale leggermente superiore a quella ottenuta da Kim Jong Un nella Corea del Nord. Agli oppositori è stato proibito di presentarsi alle elezioni, per evitare confusione. Il Ruanda è il paese del quale si parlò molto negli anni novanta per lo sterminio di una delle due etnie, i Tutsi, che erano una etnia di minoranza e furono annientati dagli Hutu. Il problema razziale fu risolto in quel modo. Si trattò, effettivamente in quel caso, di genocidio. Magari va segnalato a Biden. Boris Johnson ha pensato che il luogo migliore dove mandare i migranti che non vuole più fosse proprio il Ruanda. E ha sborsato circa 120 milioni di sterline per realizzare questa operazione. Più o meno il prezzo che la Juventus ha pagato qualche anno fa per comprare Cristiano Ronaldo già a fine carriera.
Non sappiamo a cosa serviranno questi dollari. Probabilmente a blindare il potere di Kagame. Ma Londra non era nemica delle dittature? Si, si, è vero, ma non stiamo lì a fare troppe polemiche, in fondo questo Kagame è stato eletto dal popolo, no? Non sappiamo a cosa serviranno i soldi inglesi ma sappiamo cosa, con baldanza e tranquillità, ha dichiarato Johnson nell’annunciare questa operazione inglese. Ha detto che “la compassione degli inglesi non ha limiti ma la possibilità di accogliere migranti invece ne ha”. Il ragionamento del primo ministro del Regno Unito è abbastanza semplice. In questi giorni in Gran Bretagna ci sono stati 600 sbarchi al giorno. Siamo oltre i limiti della possibile accoglienza. L’Inghilterra è un paese abbastanza ricco, è vero, è tra i cinque o sei paesi più ricchi del mondo, ma anche la ricchezza ha un limite, no? Molto meglio mandare i migranti in un paese poverissimo, dove in fondo è quasi impossibile aumentare la povertà. In Ruanda ci sono 11 milioni di persone (circa un sesto degli abitanti dell’Inghilterra) e come dicevamo un reddito medio di circa 600 euro all’anno a testa: non sarà un gran problema se a un esercito di morti di fame si aggiunge qualche altro migliaio o centinaio di migliaia di persone.
Infatti Johnson ha parlato esplicitamente di “approccio innovativo, guidato dal nostro condiviso impulso umanitario”. Si, Johnson ha detto proprio così. Non dovete pensare che sio sia impazzito o sia travolto dal mio ben conosciuto spirito anti-inglese. Johnson ha usato esattamente queste parole: innovativo, umanitario, impulso.
Tutto questo succede in un periodo un po’ particolare nella storia dell’Europa e dell’Occidente. E cioè nei giorni nei quali tutti, i grandi giornali in testa, e i politici, e gli intellettuali più lucidi, ci spiegano che noi siamo gente che può rinunciare a tutto, ma non ai propri valori occidentali. I nostri valori occidentali sono superiori a tutti gli altri valori. Indipendenza, libertà, giustizia.
Ci hanno anche chiesto di rinunciare ai condizionatori per difendere la nostra libertà. E noi abbiamo battuto le mani: si, si, siamo gente di tempra idealista. Chissà se Johnson ha chiesto anche ai cittadini del Ruanda di rinunciare ai condizionatori. È probabile – credo – che loro accettino senza fiatare. Per fortuna i laburisti inglesi hanno protestato un po’. E hanno protestato un po’ più vigorosamente le organizzazioni umanitarie che ancora esistono, anche se governi e magistratura stanno tentando di annientarle, magari solo perché hanno l’impressione che queste organizzazioni non conoscano bene i valori occidentali. Io però mi chiedo: ma se l’Occidente è questa roba qui, se i suoi valori sono questi, se i suoi leader ragionano come Boris Johnson, vale la pena difendere a spada tratta questa follia?
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La vera accoglienza resta tabù. Quanti migranti sono morti annegati nel 2021 per raggiungere l’Italia? Una strage senza fine. Federica Graziani su Il Riformista il 13 Aprile 2022.
“Dopo tanti anni di confuse agitazioni, e di fumose «elucubrazioni», il Paese era veramente in attesa. Riusciranno – certi nostri amici – a produrre qualche valore concreto per la società, un’impresa culturale valida per qualche tempo, una iniziativa politica o economica con esiti favorevoli per la gente comune? Saranno capaci, dopo decenni di comizi e cortei, di far funzionare un po’ meglio una scuola, un asilo, una università, un ospedale, un ambulatorio, una ferrovia, un tribunale?”, eccetera eccetera, si chiedeva Alberto Arbasino nel non così lontano 1998 in Paesaggi italiani con zombi.
La risposta, venticinque anni dopo e in barba all’umore collettivo che scalpita per accasciarsi in un lugubre no, è invece sì. Qualcuno capace di produrre quell’impresa culturale valida e insieme di far funzionare un po’ meglio il sistema di accesso ai diritti esiste. È – uno fra altri – il Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati-JRS, da 40 anni impegnato in attività e servizi che hanno l’obiettivo di accompagnare, servire e difendere i diritti di chi arriva in Italia in fuga da guerre, violenze, torture. Non solo. Una volta l’anno il Centro produce un Rapporto che descrive la condizione di richiedenti asilo e rifugiati che usufruiscono dei servizi di prima e seconda accoglienza che l’organizzazione offre, e ne raccoglie le storie.
Nella gara fra fenomeni collettivi per emergere alla soglia dello shock e quindi dell’attenzione pubblica, leggere questa ricerca permette di avvicinare il fenomeno delle migrazioni forti di dati che possono essere ignorati o contestati solo se si è in malafede. Qualche esempio. Nel corso del 2021 i migranti arrivati in Italia via mare sono stati 67.040, quasi il doppio rispetto ai 34.154 dell’anno precedente. I minori stranieri non accompagnati sono stati 9.478, a fronte dei 4.687 del 2020. E i morti o i dispersi nel Mediterraneo Centrale sono stati 1.496 – dal 2013 se ne contano 23.507, secondo i dati dell’Unhcr. Corredo classico di queste cifre, le grida all’invasione, alla minaccia per la sicurezza, ai falsi rifugiati, alle morti colpa dei buonisti. Nei primi tre mesi e pochi giorni di aprile di quest’anno, invece, i profughi ucraini arrivati in Italia sono quasi 90mila. Ben più di tutti i migranti e richiedenti asilo sbarcati durante il 2021. Le impressioni pubbliche sono state qui concordi nel reclamare accoglienza incondizionata: chi confermando vecchi adagi, e ripetuti, chi scoprendo nuove cariche per l’umanità che scappa, dal “profugo vero” alle “persone di buona volontà”. La chiosa del Centro Astalli è adamantina: «Le migrazioni spariscono dai media ma non cessano gli abusi in Libia, le morti in mare e i respingimenti indiscriminati alle frontiere».
E ancora. Come non era difficile prevedere, nel rapporto si legge che «gli effetti socio-economici della pandemia hanno acuito le vulnerabilità dei rifugiati e la marginalità sociale». In particolare, nonostante siano stati superati da due anni i decreti sicurezza, «non si riesce a uscire dalla logica dell’emergenza». Ancora oggi circa due migranti su tre sono ospitati nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria pensati per far fronte all’arrivo di grandi numeri. Il sistema dell’accoglienza diffusa (Sai), con piccoli numeri e progetti d’integrazione più mirati ai loro ospiti, accoglie solo 25.000 persone delle 76.000 presenti nelle strutture convenzionate. L’indicazione della ricerca è chiara: che si potenzi la rete Sai così da farla diventare al più presto l’unico sistema di accoglienza per richiedenti e titolari di protezione internazionale, affinché a tutti possa essere garantito un efficace supporto all’integrazione, secondo standard uniformi. Ma la chiarezza né basta né avanza alla politica e infatti nel 2021 non si sono registrate novità significative rispetto alla programmazione nazionale di un piano per l’integrazione dei titolari di protezione internazionale.
Si moltiplicano le sperimentazioni positive del privato sociale, ma la questione dell’inserimento nel mondo del lavoro e dell’effettiva esigibilità dei diritti, specialmente nel primo periodo di permanenza in Italia, non può essere risolta soltanto dal Terzo Settore. Dei tanti ostacoli che impediscono a richiedenti e titolari di protezione internazionale di fruire pienamente di diritti che dovrebbero essere loro garantiti per legge, tra burocrazie infernali e precarietà sociale, si può almeno non aggiungere quello di non leggere il Grande Balzo Avanti che è il dossier del Centro Astalli. O, peggio, di fargli seguire i soliti Grossi Zompi Indietro. Federica Graziani
Il dramma dei migranti dalle rotte balcaniche. Lorena Fornasir, la psicologa che cura i piedi ai profughi sbranati dai cani o torturati con scosse elettriche. Angela Nocioni su Il Riformista il 30 Marzo 2022.
La voce leggera e squillante quando dice «sono persone sbranate dai cani, io non posso che togliere il pus dai loro piedi e rendermi testimone delle loro vite». Lei è una donna molto bella. Ma potrebbe essere un’altra cosa: un volo di farfalla, un tintinnio, una mattina di primavera. Ha occhi grigi senza una goccia di commiserazione. E mani leggere da infermiera. Si chiama Lorena Fornasir, 67 anni, psicologa. Tutti i pomeriggi finché c’è luce va con suo marito Gian Andrea, 84 anni, professore di filosofia in pensione, nel piazzale davanti alla stazione di Trieste. Finiscono lì, tra le aiuole vicino alla ferrovia, gli immigrati che arrivano da est, dalle rotte balcaniche.
«C’era una fontanella, sa? Oltre alla statua della principessa Sissi qui c’era anche una fontanella. Gliel’hanno chiusa con la scusa della pandemia di Covid. Arrivano a volte dieci persone, a volte nessuno, a volte cinquanta. Sono affamati, assetati, spaventati. Hanno bevuto dalle pozzanghere. Vagato per i boschi. Spesso non dormono da giorni. Hanno scarpe rotte, segni di torture e piedi sempre feriti. Sono afgani, siriani, iracheni, kurdi, qualche yemenita». «Facciamo un gesto semplice. Scendiamo in strada, gli domandiamo chi sei, come ti chiami. Non sempre rispondono, a volte non hanno voglia di parlare. Si vergognano. Lavo i loro piedi, medico le ferite, metto le garze, do calze pulite». Perché lo fa? «Guardi, non ho fatto mai volontariato in vita mia. E non mi piace supplire allo Stato che dovrebbe assisterli. Arrivano qui stremati se soppravvivono al Game. Lo chiamano così il viaggio in cui puoi farcela e vincere, o essere un fallito e tornare indietro. O morire. In Bulgaria gli aizzano i cani d’assalto. In Croazia li rinchiudono nei container per due o tre giorni, tra i loro escrementi. Spesso li torturano, poi li rimbalzano indietro». Gli tolgono i vestiti, le scarpe. Quindicenni ricacciati con le scosse elettriche. Li inseguono nei boschi con i droni, con gli strumenti che rilevano il calore. «Li trovano e li bastonano».
Una cascata di parole, quasi senza respirare, come se dovesse buttarle fuori da dentro con urgenza, come se bruciassero. «Una mattina Trieste ha iniziato la giornata con il cadavere di un ventunenne al molo 6. Dove attraccano i mercantili, era afgano, è stato schiacciato tra due container. È morto stritolato. A Natale una ragazzina di dodici anni che tentava di arrivare qui è affogata in due metri d’acqua mentre attraversava un fiume in Croazia. Impossibile risalire al suo nome. Di là dal confine la polizia quando li trova in gruppo li accerchia. Ne prende uno e lo massacra di botte. Quelli che ce la fanno hanno addosso i segni di torture anche psicologiche profonde, sono ragazzi minacciati di morte, hanno visto amici cadere e sparire. Se scendi in strada, se li vedi, come puoi tornare a casa tua?». Le rotte balcaniche principali sono due. Una va dalla Grecia in Macedonia e in Serbia settentrionale passando da nord. Ora è la meno usata. Vanno in Bosnia, attraversano il fiume o camminano lungo i ponti della ferrovia. Oppure passano da sotto, verso il mare. Dalla Grecia verso l’Albania e poi in Montenegro e da lì in Bosnia. La rotta negli ultimi due mesi è scesa più in basso, lungo la costa e il flusso è rallentato.
«Fino al 18 dicembre del 2021, arrivati in Italia venivano respinti senza foglio d’espulsione, senza nulla. La polizia li prendeva e li sbatteva indietro. Impossibile appellarsi a una norma se non hai un documento che attesti l’espulsione. L’Italia li rispediva di fatto alla Croazia gonfiata di soldi europei per proteggere i nostri confini. Dopo un ricorso vinto dall’avvocata Caterina Bove le deportazioni che non lasciano traccia dovrebbero essere impedite». Come si comporta con voi la polizia? «Ci lasciano fare, fanno finta di non vederci finché gli togliamo le castagne dal fuoco. Gli immigrati della rotta balcanica sono qui di passaggio, Vogliono salire sul treno per Milano, per Torino Val di Susa. Vogliono andare in Francia, in Germania». Alla stazione con lei chi c’è? «All’inizio e per tanto tempo siamo stati solo io e Andrea, Trieste è una città fascista. Ci ignora quando non è ostile. C’era un centro di primo soccorso. Hanno chiuso anche quello. Chi non parte subito va a dormire in una struttura fatiscente del vecchio porto austriaco. Scavalcano la recinzione e si rifugiano lì dentro. Ogni tanto ci sono degli sgomberi». «Io che non avevo mai usato facebook in vita mia, ho dovuto cercare aiuto con i social durante l’ondata della prima rotta balcanica, chiedevo: dove sono le organizzazioni umanitarie? Sono arrivate persone piano piano. Abbiamo dovuto formare un’organizzazione di volontariato (lineadombra.org una volta al mese vanno in Bosnia, portano ai migranti vestiti, calze, scarpe ndr). A volte siamo ormai una quindicina davanti alla stazione di Trieste, Ricercatori universitari. Studenti. Persone che vengono da fuori».
Lorena Fornasir, che lavorava come psicologa clinica alla Asl di Pordenone, era giudice onorario per le adozioni al Tribunale di Trieste. Era. Perché l’anno scorso un sostituto procuratore di Trieste – un collega – ha accusato lei e suo marito per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a scopo di lucro. Una nota della questura che dava allora la notizia precisava: “l’attività investigativa è stata condotta dalla Digos di Trieste, supportata dal Servizio per il Contrasto all’estremismo e al terrorismo esterno”. Il fatto: avevano ospitato in casa per una notte una famiglia kurda con due bambini piccoli. Il fascicolo era stato mandato alla procura di Bologna, non potendo Lorena Fornasir essere giudicata nello stesso tribunale in cui prestava servizio. Il giudice per le indagini preliminari di Bologna ha disposto l’archiviazione su richiesta del pm perché non esistevano “elementi in grado di consentire la sostenibilità dibattimentale dell’accusa”. Lorena Fornasir, che nel frattempo era sospesa dalla funzione, ha mollato.
Dall’Ucraina stanno arrivando profughi? Lei parla d’altro. Suo marito racconta: «L’altro giorno siamo arrivati al confine Fernetti. Sul Carso, dodici chilometri dal centro di Trieste. C’erano cinquecento persone. Mi ha colpito la differenza nell’accoglienza. C’era la Croce rossa, c’erano attivisti di varie organizzazioni. Profughi accolti come profughi. Gli altri invece devono nascondersi dietro ai cespugli come cani. Eppure vengono da luoghi in cui nemmeno le forme più elementari di sopravvivenza sono possibili. Io ho ottantaquattro anni, vedo la loro speranza e sinceramente non vedo per loro un futuro decente, per dare un senso alla mia vita e alla mia morte io sento che devo aiutare queste persone».
Lorena Fornasir è figlia di partigiani. Di sua madre dice: «Borghese, cattolica, antifascista, mi ha lasciato un’eredità sottile. Aveva studiato in Convitto. Sapeva di medicina. È stata un’agente di Tito. Drogava i gerarchi fascisti, ha salvato molte persone. In Slovenia fino all’8 settembre aveva il nome di battaglia di Natasha. Poi fu fatta passare nelle file partigiane italiane con il nome di Anna. Lì conobbe mio padre. Nome di battaglia: Ario. Era il comandante della Ippolito Nievo B a Gorizia». Pausa. «Quando curo i piedi di questi ragazzi, dal basso posso guardare i loro occhi. Si vergognano molto a farsi curare i piedi, mi dicono “scusa mamma, scusa mamma”. Mi prendono le garze per pulirsi da soli, sono piedi che puzzano come pannolini. Loro mi riconoscono come persona e io li riconosco. Con un gesto semplice si crea una grande intimità con uno sconosciuto. La loro energia è una sorgente. È un dono reciproco che ci facciamo. Vedendo loro, come possiamo sopportare le nostre vite?» Angela Nocioni
L’Italia è al quarto posto nel mondo per il livello di avversione ai migranti. ENZO RISSO su Il Domani il 15 Gennaio 2022.
L’avversione verso i migranti ha una netta connotazione di classe, con il ceto medio leggermente più aperturista e i ceti popolari più serranti.
La completa chiusura delle frontiere trova schierati il 59 per cento dei ceti popolari contro il 44 per cento del ceto medio.
Complessivamente le politiche primatiste sono condivise dal 66 per cento dell’opinione pubblica, con punte del 71 per cento nei ceti popolari, nei baby boomer e nel nord ovest dell’Italia.
ENZO RISSO. Analista delle dinamiche valoriali, politiche, sociali e comunicative nel nostro Paese; spin doctor per campagne elettorali e esperto in costruzione di storytelling e sviluppo delle politiche di governance e partecipazione.
Confine italo-francese: un muro invisibile di violazioni e morte per i migranti. L’Italia e la Francia, si rendono complici di un’emergenza in termini umanitari e sanitari. Solo di recente sono morti tre migranti, tra i quali un minore. Secondo le organizzazioni umanitarie, sono effetti collaterali di precise scelte politiche che vanno cambiate radicalmente. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 febbraio 2022.
Uno lo hanno trovato carbonizzato, nei primi di febbraio, semi disintegrato su una linea ferroviaria alla frontiera italo francese. Non sono riusciti ad identificarlo. Un altro ancora è stato ritrovato il 26 gennaio a Salbertrand, in alta Val di Susa, vicino ai binari della Torino-Modane. Quest’ultimo lo hanno identificato grazie alle impronte digitali: aveva 15 anni e fuggiva dall’Afghanistan. Sono tragedie che riguardano i migranti che tentano di varcare la frontiera tra Italia e Francia. Un muro invisibile, ma dove si consumano violazioni dei diritti fondamentali. Come denunciano diverse associazioni dei diritti umani come l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e Medu (Medici per i diritti umani), alle frontiere vengono lesi il diritto di asilo, anche di minori e soggetti vulnerabili, e altri diritti fondamentali quali il diritto alla salute e quello a poter avere accesso ad una anche minima forma di accoglienza così da evitare gravi forme di emarginazione. Viene inoltre leso il diritto alla verità nel momento in cui le persone decedute rimangono senza identità.
Le associazioni umanitarie: modificare le politiche di gestione delle frontiere
Per questo motivo, un numero consistente di organizzazioni umanitarie, hanno lanciato un appello alle autorità italiane e francesi di modificare le politiche relative alla gestione delle frontiere interne, con particolare riferimento alle modalità con le quali i controlli di polizia e di frontiera vengono svolti, garantendo il pieno rispetto dei diritti fondamentali e dei principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché degli obblighi in materia di protezione internazionale e di non respingimento; così come chiedono alle autorità locali di predisporre servizi adeguati a rispondere alle esigenze e al bisogno di protezione dei migranti presenti nei luoghi di frontiera garantendo in primo luogo accoglienza anche alle persone in transito.
Valle di Susa: lo snodo principale di due cammini transfrontalieri
Uno dei corridoi principali di passaggio verso la Francia è l’Alta Valle di Susa. Più nello specifico Oulx è snodo nell’Alta Valle di due cammini transfrontalieri: in direzione di Bardonecchia (Frejus e Colle della Scala) e verso Claviere, Monginevro e Briançon. A partire dal 2017 l’ Alta Valle di Susa, e in particolare Bardonecchia, ha iniziato ad essere attraversata da un flusso consistente di migranti di provenienza sub sahariana, uomini molto giovani che cercavano un valico alternativo a Ventimiglia. A partire dal 2018 i flussi hanno continuato a crescere e progressivamente si sono spostati verso il valico del Monginevro. Durante la stagione estiva questi percorsi, seppur faticosi, non presentano particolari difficoltà, in inverno, al contrario, mettono a rischio la vita per le condizioni estreme e per le criticità delle alte quote innevate. Il rischio di perdersi e di ipotermie è estremamente alto per persone che non conoscono questo habitat.
Dal 2017 ad agosto del 2020 circa 10.000 migranti hanno attraversato le Alpi
Secondo una stima redatta da Medu (medici per i diritti umani), dal 2017 ad agosto del 2020 è probabile che circa 10.000 persone abbiano attraversato le Alpi passando dalla Valle di Susa. Le stime divergono anche perché non tutti coloro che passano si fermano negli stessi rifugi. Nel 2019 gli sbarchi dalla rotta del Mediterraneo centrale hanno cominciato a diminuire sensibilmente; nel 2020, il periodo di lockdown ha di fatto determinato un assottigliarsi dei flussi, ma non li ha interrotti. In seguito, però, a partire dalla fine della quarantena, si è di nuovo assistito ad un incremento massiccio. Nei mesi di luglio e agosto scorso, circa 570 persone hanno transitato da Oulx e sono arrivate al “Refuge Solidaire” di Briançon. Il trend ha continuato a poi crescere, in cui si può ipotizzare più del raddoppio dei numeri proposti.
Fratture non ricomposte, infezioni, neonati con dissenteria
La maggior parte dei migranti, attualmente provengono dalla rotta balcanica. Sono afghani, iraniani, mediorientali, molti curdi, ma anche magrebini che hanno scelto di non passare dalla Libia o attraversare il mare. Non solo uomini soli, ma soprattutto famiglie con numerosi figli anche in tenera età o nati lungo il cammino. Ma per rendere bene l’idea, bisogna partire dai dati certi, anche se non recenti. Nell’estate del 2020 – secondo il rapporto Medu – sono stati contati 130 tra bambini ed adolescenti e 45 famiglie che hanno soggiornato temporaneamente a Oulx. La presenza di neonati, di donne gravide o puerpere ridefinisce l’emergenza e rende necessarie attenzioni mediche, ginecologiche e pediatriche, che sono del tutto carenti. Coloro che arrivano hanno alle spalle viaggi che vanno dai due ai quattro anni (a volte sei) e l’attraversamento della Croazia con le sofferenze dovute ai lunghi cammini (a volte più di 15 giorni a piedi e molteplici tentativi di violenze della polizia e delle milizie), arrivano stremati, in condizioni di salute assai problematiche, con l’urgenza di ripartire a causa dei debiti accumulati nel viaggio e della disponibilità di denaro ormai in esaurimento. La maggioranza denuncia traumi, infezioni, fratture non ricomposte agli arti inferiori e spesso piaghe ai piedi e infezioni dovute a rovi e spine, che si sono infettate. Sempre più arrivano neonati, bambini con patologie gravi: Medu racconta di un neonato con sindrome down, un altro, di 7 mesi, con tosse e dissenteria protratta per più di un mese. Senza parlare delle donne che hanno appena partorito o che hanno patito aborti, minori che hanno perso i contatti con i genitori nei Balcani. Medu rivela due casi di donne gravide con diabete. Sono proprio le donne che presentano maggiori fragilità e segni di sofferenza anche psichica: soprattutto depressione, attacchi di panico, angoscia.
L’accoglienza del rifugio Massi in Val di Susa
Fino al 21 marzo del 2021, a Oulx i migranti di passaggio in alta Valle di Susa potevano contare anche sulla casa cantoniera occupata dai militanti No Tav. Dopo lo sgombero ordinato dalla prefettura, il flusso si è addensato tutto intorno al centro di accoglienza “Rifugio Fraternità Massi”, vicino alla stazione ferroviaria italiana. La struttura dispone di camere con bagno su tre piani, di locali cucina e refettorio adeguati al volume degli ospiti in transito e di un ampio spazio esterno. Il centro è funzionante ogni giorno h24. Gli ospiti possono usufruire di un pasto caldo, una doccia, un posto letto e la colazione. Il “Rifugio Fraternità Massi” è nato con lo scopo di far fronte all’emergenza migranti esclusivamente dal punto di vista umanitario, un servizio di accoglienza libero e anonimo e un punto di riferimento per queste persone che sfidano il freddo e la montagna. Il centro è divenuto anche uno spazio aperto al volontariato di valle e un osservatorio delle dinamiche migratorie che interessano il territorio. Nato come punto di accoglienza libero ed anonimo, è divenuto presto un riferimento per i migranti che sfidano il freddo e la montagna per proseguire il proprio cammino verso altri paesi europei. Sempre se riescono ad attraversare il muro invisibile eretto nel 2015, quando la Francia, con una decisione improvvisa e unilaterale, ripristinò i controlli al confine con l’Italia per bloccare il passaggio dei migranti decisi a raggiungere altri Paesi del continente. E alcuni di loro muoiono.
Quei 2mila italiani dimenticati all'estero. In prigione tra anomalie e diritti negati. Fausto Biloslavo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Da Marco Zennaro, detenuto in Sudan, a Enrico Forti, 20 anni di carcere negli Usa. Connazionali nei guai e senza solidarietà.
Politici, non solo di sinistra, grandi organizzazioni in difesa dei diritti umani, università e riflettori sempre accesi dei media. Bello e soprattutto politicamente corretto battersi per Patrick Zaki, pur sempre, però, cittadino egiziano che studiava a Bologna. Peccato che sia molto minore la mobilitazione per i casi di cittadini italiani incastrati dietro le sbarre all'estero, pure in paesi golpisti. Battaglie evidentemente meno alla moda e radical chic per connazionali «prigionieri» di serie B.
Il veneziano Marco Zennaro non ha bisogno di cittadinanze onorarie o richieste a gran voce in Parlamento, come nel caso di Zaki, per venir tirato fuori dal Sudan in mano ai golpisti. Il 23 gennaio l'imprenditore bloccato a Khartoum, dopo un brutto periodo passato in carcere per una controversia commerciale, spera di vedere la luce nell'udienza stabilita dal tribunale. Purtroppo il fascicolo viene trasferito alla Corte di Appello di Khartoum, come in un sadico gioco dell'oca, e l'udienza cancellata. Zennaro non può lasciare il Sudan dal primo aprile dello scorso anno e rischia di rimanere bloccato ancora a lungo. L'accusa di truffa non è nobile come quella di Zaki di avere protestato contro il generale Al Sisi, ma in Sudan comandano i golpisti. E come denuncia Cristiano, il padre di Zennaro, il miliziano che accusa il figlio è lo zio di un generale sudanese a capo delle forze irregolari che appoggiano la giunta militare dopo il colpo di stato del 25 ottobre.
Il prigioniero più noto, che avrebbe già dovuto tornare in Italia, è Enrico Forti, detto Chico. L'italiano è da 22 anni in carcere negli Stati Uniti, condannato all'ergastolo fino alla morte. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, aveva annunciato l'imminente soluzione del caso con il trasferimento in patria e la pena da scontare nel nostro paese. Forti si proclama da sempre innocente, ma i riflettori sono accesi a intermittenza e non fa notizia come Zaki. Il 19 gennaio in Parlamento, il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, dichiara che il caso «è complesso, non so quando potrà avere una soluzione. Siamo in attesa di risposte che continuiamo a sollecitare». Le risposte sulla pagina facebook degli amici del prigioniero oltreoceano sono inviperite: «Ma andateci voi in galera vergogna!!!! Per la Baraldini che era veramente colpevole siete andati con l'aereo di stato. Buffoni!!». Il riferimento è all'estremista di sinistra riportata in patria dopo la condanna negli Stati Uniti. Gianni Forti, lo zio di Chico, aveva esultato per la liberazione di Zaki: «È una iniezione di speranza, ma sono 22 anni che stiamo aspettando. Decenni di battaglie che ancora sono valse a nulla. La nostra famiglia è distrutta».
Dietro le sbarre nel mondo ci sono 2.024 italiani in attesa di giustizia, la maggior parte nell'Unione europea (1.489). «Prigionieri dimenticati, italiani detenuti all'estero tra anomalie e diritti negati» è il titolo del libro di Katia Anedda, che racconta 13 storie drammatiche di chi non si chiamava Zaki. Simone Renda, il bancario leccese ucciso sotto tortura in un carcere messicano, Claudio Castagnetta morto in circostanze misteriose in una prigione canadese, il videomaker Carmine S. che si è fatto oltre un anno dietro le sbarre a Bali perché «lavorava senza permesso», secondo la polizia.
Federico Cenci, autore di un altro libro-denuncia con Fabio Polese sui connazionali detenuti all'estero, osserva: «Zaki ha avuto un'eco mediatica che può aver influito sulla sua recente scarcerazione. Ma non per tutti è così».
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982.
Maria Strada per Il Corriere della Sera il 18 aprile 2022.
Patrick Zaki, lo studente dell’università di Bologna e attivista egiziano per i diritti civili, non ha mai fatto mistero della sua passione per il calcio nemmeno durante i 22 mesi di carcere seguiti all’arresto al Cairo, il 7 febbraio 2020. Di più: a 7, il magazine del Corriere, ha spiegato come il calcio lo abbia salvato.
Come noto, è tifoso della squadra città dove ha vissuto per anni — Bologna. Così, sabato sera, ha seguito la sfida tra i rossoblù e la Juventus, che ha visto i bianconeri riacciuffare all’ultimo secondo il pareggio contro un Bologna ridotto in 9.
E, da tifoso, ha voluto commentare la doppia espulsione arrivata all’80’, con la sua squadra in vantaggio: l’arbitro Sacchi ha allontanato dal campo Soumaoro per un fallo da ultimo uomo su Morata e, subito dopo, Medel per proteste. Quindici minuti dopo è arrivato il gol del pareggio di Vlahovic (e le molte critiche, anche autorevoli, ad Allegri).
Le critiche di Zaki suonano come un'accusa alla Juventus: «Due cartellini rossi, stanno ancora pagando».
Molti tifosi, sui social, non hanno gradito. Fortunatamente la maggior parte si limita a sfottò goliardici o a inviti a ripassare il regolamento.
Ma alcuni hanno risposto mischiando cioè che non è nemmeno paragonabile: l'arresto e la detenzione di Zaki e il calcio.
«Hai ragione. Se vieni incolpato di qualcosa, evidentemente è vero. Giusto o no, Zaki?», scrive con sarcasmo un utente. E c'è persino chi, parlando di soldi, rinfaccia all'attivista: «Chissà quanto sei costato alla Farnesina, serviranno più rate che per Locatelli»
Da ultimo, come se davvero le due storie fossero avvicinabili, non manca chi invita Zaki a rispettare gli avversari perché dovrebbe ricordarsi «che ci sono anche tifosi della Juve tra quelli che hanno fatto il tifo per te contro il regime di al Sisi».
Il processo social a Zaki, tifo juventino scatenato. Il calcio "oscura" i diritti. Elia Pagnoni il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.
Reazioni pesanti a un tweet sul pareggio contro il Bologna: "Come potrò dire la mia?"
Cosa volete che siano ventidue mesi di detenzione nelle carceri egiziane di Al Sisi, passando anche per qualche tortura, in attesa di un processo ancora in svolgimento per minacce alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di false notizie, propaganda terroristica? Da domenica il vero, improrogabile processo a cui è sottoposto Patrik Zaki è quello mediatico suscitato da un suo tweet legato al pareggio in extremis della Juve a Bologna, dopo la doppia espulsione dei rossoblù Soumaoro e Medel. Già, perché in Italia tutti possono stare dalla tua parte se finisci nelle grinfie della «giustizia» egiziana apparentemente senza motivo, ma non ti si perdona niente se ti lasci scappare una battuta fuori luogo al bar dei social. Dove chiunque può scrivere tutto e il contrario di tutto, ma chi è personaggio pubblico e famoso (anche suo malgrado) non può permettersi il minimo passo falso. Anche perché in Italia, si sa, puoi scherzare con i fanti e magari anche con i santi, ma non con la sacralità del calcio.
Sta di fatto che un banale quanto maldestro tweet riferito alla Juve dopo la partita di sabato («Due cartellini rossi, stanno ancora pagando»), ma riconducibile ai trascorsi bianconeri dei tempi di Calciopoli, ha scatenato reazioni pesanti da parte di chi si è sentito colpito nel proprio amor pallonaro. E qualcuno ha addirittura esagerato, rinfacciando al ricercatore egiziano dell'università di Bologna (da cui il tifo per i rossoblù) il fatto che l'Italia si è mobilitata per farlo uscire dal carcere del Cairo. E qualcuno, per restare in tema calcistico, ha pensato addirittura di fare dei paralleli allucinanti, del tipo: «Chissà quanto sei costato alla Farnesina, serviranno più rate che per pagare Locatelli!».
Insomma, caro Zaki, se la prenda pure con il regime egiziano e con i suoi giudici e carcerieri, ma lasci stare il calcio italiano. Anche perché la cosa, oltre che ai tifosi juventini, non è passata inosservata a sociologi e opinionisti che hanno bacchettato il ragazzo, reo di aver comunque accusato la squadra torinese di corruzione e quindi processabile in Italia per diffamazione, come se non gli bastassero i guai col tribunale del Cairo. Ma, se i social in tanti casi sono la versione moderna delle osterie, bisognerebbe anche fare una tara a quello che si legge.
A rendere più seria la situazione, però, ha contribuito lo stesso Zaki che, anziché invitare a riderci sopra come sarebbe logico per gli sfottò che accompagnano il calcio da quando è nato, ha risposto su facebook con un mezzo trattato, in cui rivendica il diritto fondamentale di esprimere la propria opinione su una partita. «Se non posso dire la mia opinione sul calcio senza essere attaccato ha puntualizzato Patrik - non sono sicuro di come dovrei recuperare la mia voce in questioni più importanti». Certo, se il primo a prendersi sul serio è proprio lui, allora ha ragione chi lo accusa di aver diffamato la Juventus in un tweet che avranno scritto, come lui, altre migliaia di tifosi.
Caro Zaki, la prossima volta faccia ironia sul derby d'Egitto tra Al Ahly e Zamalek: le costerà molto meno.
Io, salvato dal calcio»: il racconto di Patrick Zaki, domani su 7. Manuela Croci su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.
L’attivista egiziano ricorda in esclusiva la caccia a una radiolina durante i 22 mesi di carcere. I videosaluti di artisti e sportivi per il suo debutto.
Patrick Zaki, 30 anni, ritratto da Mattia Crocetti sul terrazzo della sua casa al Cairo. Sullo sfondo si scorgono i palazzi della capitale egiziana (foto Mattia Crocetti)
«Sono cresciuto in una casa di tifosi sfegatati – fanatici di calcio in generale e in particolare della squadra egiziana dello Zamalek». Comincia così il primo racconto scritto da Patrick Zaki, pubblicato integralmente e in esclusiva su 7 in edicola venerdì 1 aprile con il Corriere della Sera. Trent’anni, attivista per i diritti civili e studente dell’Università di Bologna, è stato arrestato il 7 febbraio 2020 al rientro al Cairo. In carcere è stato 22 mesi. Ricorda i giorni della prigionia e li lega alla sua grande passione, quella per il calcio, nata quando era bambino tra le mura domestiche («Ero in cella con un uomo irritato dalla mia presenza ma che aveva una radiolina da cui ascoltare le partite»). Il padre lo faceva uscire da scuola prima per andare a vedere le partite del Mansoura; la madre usava il pallone come compromesso: «Prima delle partite di calcio importanti io avrei ripetuto un certo numero di capitoli di una materia qualsiasi e in cambio avrei potuto guardare metà incontro».
L’incontro via Skype
Dall’8 dicembre 22021, Zaki è in libertà provvisoria. Qualche giorno fa l’ha incontrato – via Skype – Marta Serafini. La video-intervista è disponibile su Corriere.it (la trovate anche qui sotto) e sui nostri account social (@Corriere e @7Corriere). «Quel che ho scritto per voi è un mix tra politica, sport e umanità. Per resistere è importante cercare di avere una vita normale, pensare alla routine che avevi fuori, individuare cose da fare per ricordare i bei momenti che ti fan sentire al di fuori della cella».
La nuova udienza il 5 aprile
Ora è in attesa di una nuova udienza che si terrà il 5 aprile. «Probabilmente non sarà l’ultima», spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. «Da subito abbiamo lavorato per la liberazione di Patrick, negli ultimi decenni è stata la più grande campagna per un prigioniero. Il nostro obiettivo è averlo libero per il 16 giugno 2022, giorno del suo 31° compleanno. Il suo posto è Bologna». E in città lo aspettano tutti, compresi i giocatori rossoblu. Anche loro, come artisti, scrittori, sportivi, attori hanno affidato a un video il ricordo più forte legato al calcio rispondendo a «Come il calcio ti ha salvato la vita?». Li trovate – da domani – sul web e sui nostri account social. Su 7 di carta, infine, tre riflessioni: Stefania Andreoli sulla maternità, Umberto Ambrosoli sul coraggio e Lilian Thuram sul razzismo.
Martina Zambon per il Corriere della Sera il 13 marzo 2022.
Finalmente ha messo piede in Italia l'ingegnere e imprenditore veneziano Marco Zennaro. Imprigionato per mesi in Sudan a causa di una disputa commerciale su una fornitura di trasformatori elettrici al Paese africano, è atterrato ieri mattina a Roma. Intricata la vicenda giudiziaria (in molti parlano di vera e propria estorsione nei suoi confronti), estenuante l'altalena di rinvii in tribunale.
Le accuse sono tutte cadute, resta in piedi solo una causa civile. Ma persino il viaggio di ritorno è stato un'odissea, funestato da una tempesta di sabbia su Khartoum e da una bufera di neve su Istanbul. Ogni tanto la voce pacata si spezza, ma poi riprende vigore e mentre sale sul treno che lo riporterà a Venezia, Zennaro anticipa la domanda di rito: «Come sto? Sono astrattamente felice, provo la gioia che esprimono i santi negli affreschi delle chiese, ha presente?».
La sua città, Venezia, è stata animata da instancabili iniziative in suo supporto. Che eco arriva mentre si è prigionieri in una cella sudanese?
«Devo essere sincero sì, ha fatto la differenza. Quando stavo proprio male, imprigionato a 55 gradi e non si vedeva la fine di quest'incubo, la manifestazione sull'acqua con le remiere, il Venezia Rugby, i ragazzi mi hanno fatto rinascere».
Una volta scarcerato e accolto in ambasciata a Khartoum è andata meglio?
«Le rispondo così. Io devo ringraziare mille persone, sul serio. Ma in cima alla lista metto due dottoresse: Anna Paola Borsa e Lucia Ceschin, psicologa e psichiatra dell'associazione per l'Emdr (metodo per trattare i disturbi post traumatici, ndr) che pazientemente, con professionalità, mi hanno fornito quel supporto psicologico necessario a superare alcuni momenti di difficoltà assoluta».
L'immagine del suo profilo social è il capitano Achab, come mai?
«Il Capitano Achab è un altro che mi ha salvato. Durante le giornate di estrema solitudine, chiuso in ambasciata, mentre fuori sparavano (nei mesi scorsi in Sudan c'è stato un colpo di stato, ndr), ho trovato un cd con la storia di Moby Dick. Senza internet, senza telefono, l'ambasciata semi deserta, fuori gli scontri, la solitudine assoluta di certe giornate è difficile da immaginare. Così mi sono detto: devi trovarti uno scopo. E allora ho iniziato a imparare a memoria le parti del romanzo, a partire dai monologhi del capitano Achab».
Che altro l'ha aiutata a superare lo stallo che l'ha tenuto bloccato in Sudan per quasi un anno? «Sergio, Emilio e Nino, i tre carabinieri dell'ambasciata che mi hanno veramente trattato come fossi un fratello aiutandomi a superare i giorni più duri, come il Natale. Ma anche in quei giorni in cui, nella completa solitudine, il cervello soffoca i movimenti del corpo perché la mente si autoprotegge. Sono arrivato a una condizione post traumatica un po' particolare: cercavo di scuotermi dall'apatia che mi teneva inchiodato su una poltrona o a letto per delle ore facendomi del male da solo».
Ha già sentito sua moglie Carlotta e i suoi tre bimbi Leonardo, Carolina e Tullia?
«Certo e sono molto entusiasti ma, purtroppo, due settimane fa sono risultati positivi al Covid e quindi stanno finendo la quarantena. Così, per assurdo oggi (ieri, ndr) torno a casa ma li vedrò dalla terrazza... non importa, li abbraccerò nei prossimi giorni... Ormai sono tornato».
Per lei si è mobilitata la città ma anche le associazioni imprenditoriali che hanno raccolto 200 mila euro...
«Gliel'ho detto, devo ringraziare mille persone: il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro (ha versato 50 mila euro, ndr), Luca Zaia, il professor Giorgio Orsoni, che con il dottor Vignali della Farnesina sono stati in contatto quotidiano per seguire la mia situazione».
Come si spiega ciò che le è accaduto?
«È stata una vicenda molto complicata perché la controparte laggiù è molto potente. Parliamo di un Paese in cui c'è crisi sociale, crisi economica e dove conta solo chi sei e quanti soldi hai. In base a questi due fattori decidi tu cosa fare della legge, dei giudici...».
Suo padre, anche oggi (ieri, ndr) ha criticato la Farnesina...
«Siamo in un Paese libero. Io, però, non la vedo come la vede mio padre, io non mi sono mai sentito abbandonato. Avrei voluto che le cose si svolgessero in maniera diversa ma non si può chiedere ciò che non si può avere».
Zennaro in Italia dopo un anno in Sudan "Tre volte assolto, è la fine di un incubo". Redazione il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.
L'imprenditore era accusato di aver venduto dei macchinari difettati.
È tornato in Italia dopo quasi un anno e ha avuto subito la gioia di andare all'Olimpico per vedere la partita del sei Nazioni tra Italia e Scozia. Gli azzurri hanno perso, ma siamo sicuri che questo non ha rovinato la gioia di Marco Zennaro, il 47enne imprenditore veneto che ha trascorso quasi un anno bloccato in Sudan, compresi due mesi e mezzo di prigione. «Si conclude un incubo», dice comprensibilmente sollevato. L'uomo, che ha dovuto anche ritardare di un giorno la sua partenza a causa di una tempesta di sabbia che ha bloccato l'aeroporto di Khartoum, è atterrato a Fiumicino dopo uno scalo a Istanbul, ed è stato subito portato in tribuna d'onore all'Olimpico, visto che Zennaro è stato rugbista del Venezia Mestre dove ad allenarlo c'era l'attuale presidente della Fir, Marzio Innocenti, che lo ha voluto suo ospite. Dopo la partita, il trasferimento finale in treno fino al Lido di Venezia, a casa.
La vicenda di Zennaro è complessa e non è ancora del tutto conclusa. L'imprenditore ha subito ben tre processi penali in Sudan, da cui è sempre stato assolto ma ha ancora pendente l'appello per una causa civile in cui è accusato aver consegnato una partita di trasformatori difettati ad alcuni suoi clienti del paese africano. La sua famiglia ha facilitato il suo rimpatrio anche grazie ai 200mila euro raccolti da Unioncamere Veneto, a cui ha contribuito a titolo personale anche il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. A occuparsi direttamente della vicenda è stato il direttore generale per gli Italiani all'estero della Farnesina, Luigi Maria Vignali, che in Sudan ha seguito i momenti finali della controversia processuale fino alla rimozione del divieto di ripartire per Zennaro, che ha parlato di «un grande lavoro di squadra» con Vignali e la Farnesina, con gli avvocati sul posto e «tutte le realtà» che lo hanno «supportato economicamente». Il primo ringraziamento è andato a sua moglie, perché, ha spiegato, «in tutto questo tempo ha tenuto saldi i valori più importanti che ho nella vita che sono rappresentati dalla famiglia e dai figli». Tra i primi a rallegrarsi il presidente del Veneto, Luca Zaia. «Festeggiamo la liberazione di Marco, lui invio il più caloroso benvenuto mio e di tutti i veneti». Zennaro ha ricevuto anche una telefonata del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, in missione in Congo, che gli ha augurato il bentornato.
Da adnkronos.com il 12 marzo 2022.
«Confermo la partenza di Marco dal Sudan», aveva detto all’Adnkronos il papà Cristiano anticipando le news ufficiali. «Dopo 361 giorni finalmente l’incubo è finito – ha detto – Ringrazio mio figlio per essere sopravvissuto a quei 75 terribili e infernali giorni di detenzione. Ringrazio la famiglia per aver trovato in tempi brevi le risorse finanziarie per far cessare la detenzione».
Zennaro esprime un ringraziamento anche nei confronti dei dipendenti dell’azienda «per aver portato avanti l’attività con grande senso di responsabilità pur in assenza del loro titolare. Il mio pensiero – ha aggiunto – va a quelle 50mila persone che hanno fatto sentire a Marco con manifestazioni sempre pacifiche l’affetto della comunità veneziana».
Riguardo alla Farnesina aveva sottolineato: «Devo purtroppo denunciare il totale fallimento dell’istituzione italiana che incomprensibilmente non ha voluto risolvere un palese sequestro di persona a scopo di estorsione. Mi auguro che la Farnesina abbia il pudore di non rilasciare retorici comunicati perché se Marco è uscito da quell’inferno lo deve solo ed esclusivamente a sé stesso». E al denaro raccolto da Unioncamere Veneto per pagare la cifra richiesta dal tribunale sudanese.
LA FARNESINA - Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in missione in queste ore nella Repubblica del Congo, a quanto si apprende ha sentito telefonicamente Marco Zennaro. «Bentornato in Italia», ha detto Di Maio a Zennaro.
Insieme al connazionale atterrato a Roma c'è anche il direttore generale per gli Italiani all'estero della Farnesina, Luigi Vignali, recatosi in questi giorni in Sudan.
A seguito della rimozione del divieto di espatrio deciso nei giorni scorsi dalle autorità sudanesi, dopo il superamento dell'imprevisto rinvio dei voli per il rientro, Marco Zennaro è in arrivo oggi in Italia con un volo da Khartoum che ha effettuato scalo a Istanbul, aveva comunicato la Farnesina.
Il connazionale, ospitato a partire dal 15 agosto scorso nella foresteria dell’Ambasciata a Khartoum, è accompagnato dal direttore generale per gli Italiani all'estero della Farnesina Luigi Maria Vignali che, su indicazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, si è recato nuovamente a Khartoum in questi giorni per seguire personalmente gli sviluppi finali della delicata controversia processuale.
L'ambasciatore a Khartoum, Gianluigi Vassallo, ha seguito fin dall’inizio la vicenda, assistendo costantemente il connazionale, anche attraverso una continua azione di sensibilizzazione sulle Autorità sudanesi, e mantenendo uno stretto contatto con la sua famiglia.
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 24 febbraio 2022.
Spiaggia di Dubai, primo giorno di primavera. Stefania saluta il compagno Andrea che ha un appuntamento di lavoro e inizia a pranzare con la loro bambina, tre anni. «Si avvicina il portiere dell'hotel dov'eravamo e dice che mio marito deve dirmi qualcosa nella hall. E già lì mi è venuta l'angoscia. Perché se Andrea ha qualcosa da dirmi mi chiama o mi scrive».
Nella hall Stefania trova un capannello di uomini e, al centro, lui: Andrea Giuseppe Costantino, 49 anni, trader milanese del petrolio e del gas ed ex vicesindaco di Arese.
«Saranno stati una decina, vestiti con tuniche bianche, alcuni forse in divisa. La bambina gli è saltata in braccio: "Mi portano ad Abu Dhabi, ti giuro che non so perché"». Era il 21 marzo del 2021.
Da allora Costantino è chiuso in una cella del carcere di Al Wathba, famoso per non essere tenero con i detenuti, e non sa ancora esattamente perché. Né lo sa il suo avvocato arabo, che pure è un principe del foro, e neppure l'ambasciata italiana e la Farnesina: «Non è stato possibile appurare i capi d'imputazione».
Per Stefania Giudice, che non l'ha più rivisto, un dramma senza fine. Ora è a Milano e qui, in questo appartamento del centro dove il vuoto è palpabile, combatte la sua lunga, logorante, surreale battaglia: «A distanza di un anno non abbiamo una carta, un mandato, un'accusa da cui difenderci... con un rinvio a giudizio e pure un processo in corso».
L'ultima udienza è di ieri. «Hanno sentito un paio di testimoni tecnici che hanno anche deposto a suo favore, è stato tutto rinviato al 9 marzo ma non posso ancora vedere il fascicolo e incontrare Andrea», ragguaglia l'avvocato Abdel Kadir Ismail che difende Costantino.
E quindi? «Quindi è sempre lo stesso giro di fumo», sospira lei. Quarantaduenne titolare di una società che commercia prodotti elettromedicali, Giudice si è fatta un'idea precisa sulla vicenda: «Per capire cosa sta succedendo non si può prescindere dai retroscena politici che vedono i rapporti fra Italia ed Emirati Arabi ridotti ai minimi storici.
L'embargo imposto dal nostro governo ha di colpo cancellato ordini e commesse in corso e la cosa è stata accolta molto male dal principe ereditario che comanda negli Emirati. Il blocco di una fornitura di parti di ricambio degli aerei della flotta dimostrativa emiratina è stato vissuto come un insulto alla bandiera, poi gli investimenti di Piaggio, Alitalia».
Costantino lavora da dieci anni negli Emirati. Sembrava che l'accusa avesse puntato i riflettori su un paio di sue forniture di gasolio allo Yemen del 2015-2016, quando infiammava la guerra civile nella quale intervenne anche Abu Dhabi.
Si era adombrato un problema di sicurezza nazionale e l'ipotesi che lui potesse aver favorito il terrorismo. «Ma quale terrorismo? Non c'è nulla di più distante da Andrea. Lui è uno di quelli che paga in anticipo anche le multe per divieto di sosta. Figuriamoci se va a favorire il terrorismo. Sempre che sia questa l'accusa. Quanto alle forniture, tutto documentato, tutto autorizzato, tutto regolare, ho trovato i documenti e li ho dati al legale».
Stefania non si dà pace, scuote la testa, telefona, compulsa. «Bisogna fare qualcosa perché Andrea ha già perso trenta chili. Ho chiesto che gli diano più cibo... più che un arresto è stato un sequestro di persona».
Si sentono un paio di volte alla settimana: «Due minuti a chiamata, poi una vocina in arabo ti avverte che il tempo è scaduto». Il suo lavoro è ormai questo: contattare avvocati, consolato, ambasciata, Farnesina: «Loro fanno, e li ringrazio. Ma il problema è che non si vedono risultati. Dico io: ma possibile che l'Italia non riesca a farsi spiegare i motivi per i quali un suo cittadino si trova in carcere da un anno? Supplico i politici di fare qualcosa».
Il suo mondo, chiude, sta andando a rotoli. «Mi strazia vedere la bambina senza il papà. E mi strazia pensare a lui in un buco negli Emirati, senza di lei e contro ogni umanità».
Riccardo Pelliccetti per “il Giornale” l'1 febbraio 2022.
Sono serviti dieci lunghi anni per mettere la parola fine alla scandalosa vicenda dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Una vera e propria odissea che vede finalmente il suo epilogo con l'archiviazione dell'indagine decisa ieri dal Gip di Roma.
D'altronde, la stessa Procura il 9 dicembre scorso aveva chiesto al giudice di far cadere le accuse contro i due militari perché gli elementi di prova non erano sufficienti per istituire un processo. Il caso dei due marò è rimbalzato a lungo su tutti i media, aprendo anche un conflitto diplomatico con l'India, dopo che furono accusati dalle autorità di Delhi di aver ucciso due pescatori, il 15 febbraio 2012 al largo del Kerala, scambiando il loro peschereccio per un'imbarcazione pirata. Latorre e Girone erano a bordo della nave Enrica Lexie in servizio antipirateria con altri commilitoni.
Il governo indiano costrinse la nave italiana a tornare in porto e fece arrestare i due fucilieri. Le relazioni tra Italia e India furono messe a dura prova, tanto da aprire una controversia internazionale a cui si aggiunsero notevoli tensioni politiche interne, che spinsero l'allora ministro degli Esteri Giulio Terzi a dimettersi perché sconfessò la politica del governo Monti, il quale aveva deciso di «abbandonare» i due marò in attesa di un pronunciamento internazionale.
Dopo il carcere e il lungo confino in India, Latorre rientrò in Italia nel 2015, mentre Girone l'anno successivo, dopo che il loro caso era sbarcato alla Corte permanente di arbitrato. Le udienze si sono protratte fino al 2020, quando i giudici internazionali stabilirono che i due fucilieri di Marina dovevano godere dell'immunità funzionale, poiché erano impegnati in una missione per conto dello Stato italiano. In sintesi, l'India non aveva alcuna giurisdizione: per le accuse mosse contro i nostri due militari era competente esclusivamente la giustizia italiana.
Le autorità indiane chiusero così tutti i procedimenti dopo che il nostro Paese garantì un risarcimento di 1,1 milioni di euro alle famiglie dei due pescatori. Dopo essere stati ascoltati dai magistrati italiani, che avevano disposto anche alcune perizie, è stata chiesta per loro l'archiviazione al termine di tutti gli accertamenti. «Sono felice per l'archiviazione», ha commentato Latorre senza aggiungere altro.
«C'è sollievo da parte della nostra famiglia - ha spiegato la moglie Paola Moschetti -. Attendiamo però di conoscere nel dettaglio le motivazioni del provvedimento, sperando che ci restituiscano la serenità sottratta in questi anni di sofferenze». «Sono soddisfatto, ma anche curioso di leggere il decreto con cui il Gip ha archiviato questa indagine - ha affermato l'avvocato Fabio Anselmo, difensore di Latorre -. Mi auguro che restituisca giustizia e verità per Massimiliano Latorre dopo dieci lunghissimi anni».
«È stato un autentico calvario, sopportato con dignità e fierezza da Salvatore Girone, che hanno reso onore all'Italia intera - spiegano i legali Fabio Federico e Michele Cinquepalmi -. Ciò significa che non c'era nulla alla base delle accuse nei loro confronti».
Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” il 3 novembre 2022.
Potrebbe diventare molto imbarazzante per il governo di Giorgia Meloni la vicenda dei due marò, i fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per anni e fino all'altroieri cavallo di battaglia della destra contro i governi che non li avrebbero protetti abbastanza.
La storia è nota: arrestati per aver ucciso due pescatori indiani durante una missione a bordo della petroliera italiana Enrica Lexie nel 2012, Latorre e Girone furono detenuti in India per 106 giorni, poi rimandati in Italia e di nuovo rispediti nel Kerala e infine archiviati, lo scorso giugno, dal giudice di Roma, dopo un complesso arbitrato internazionale all'Aja, che aveva consentito di processarli nel nostro Paese.
[…] Ora il luogotenente Latorre, impiegato allo Stato maggiore, chiede milioni di euro di danni al governo italiano: perché lo rimandò in India dove rischiava la pena di morte ed ebbe anche un gravissimo ictus; perché un decennio di processi gli ha impedito di fare carriera, di mettere su famiglia e per diversi altri motivi.
[…] L'Avvocatura dello Stato, che rappresenta il governo chiamato in causa, sembra assai poco conciliante, anche perché l'Italia ha pagato diversi milioni di euro al pool internazionale di legali che si occupò del caso e oltre un milione di danni alle famiglie dei pescatori indiani. Anche il sergente Salvatore Girone, 44 anni e tuttora in Marina, potrebbe agire legalmente […]
La posizione dell'Avvocatura di Stato cambierà ora che la destra è al governo? La tesi di Latorre e Girone, infatti, è sostanzialmente quella di Fratelli d'Italia. […] Giorgia Meloni stessa lo scorso 15 giugno, dopo l'archiviazione del procedimento disposta dal giudice Alfonso Sabella come richiesto dalla Procura di Roma, aveva festeggiato i due fucilieri […]
Marò, il pugliese Latorre fa causa allo Stato e chiede un maxi-risarcimento. Per il momento è in corso all’Ordine degli avvocati di Roma la mediazione che precede obbligatoriamente le cause civili. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Novembre 2022
Il marò Massimiliano Latorre fa causa allo Stato chiedendo un maxi-risarcimento milionario per averlo fatto tornare in India dove rischiava la pena di morte. Il luogotenente - rimasto in carcere nel Kerala per 106 giorni insieme con il collega Salvatore Girone - chiede un risarcimento per non aver potuto fare carriera, mettere su famiglia e per diversi altri motivi.
A difendere il militare, tuttora in Marina, sono gli avvocati Fabio Anselmo, già legale della famiglia Cucchi, e Silvia Galeone. Per il momento, rivela il Fatto Quotidiano, è in corso all’Ordine degli avvocati di Roma la mediazione che precede obbligatoriamente le cause civili. Ma presto potrebbe arrivare anche un’altra causa, da parte dell’altro marò Girone. "Abbiamo scritto una lettera alla Marina chiedendo di riparare al sacrificio patito da Girone, con toni amichevoli - spiega il suo avvocato, Enrico Loasses -, ma è arrivata una risposta negativa di una sola riga. Ora stiamo valutando».
L’azione legale per la richiesta di risarcimento danni allo Stato da parte del fuciliere di Marina Massimiliano Latorre è stata promossa nei confronti «del precedente governo. Credo sia una cosa che non sconvolge e che anche l’altro militare, Salvatore Girone, ne abbia una in cantiere uguale. E’ chiaro che quello che hanno sofferto i due militari merita considerazione da parte dello Stato. La gestione della vicenda da parte del governo italiano non è stata soddisfacente e in linea con il rispetto delle loro situazioni personali, umane e familiari». Lo dice all’ANSA l’avvocato Fabio Anselmo, legale del fuciliere Massimiliano Latorre che ha richiesto un risarcimento danni allo Stato per la gestione della vicenda che lo ha visto coinvolto dal 2012, quando con il commilitone Girone fu accusato di aver ucciso due pescatori indiani scambiandoli per pirati, fino al 2021 quando il gip di Roma ha archiviato le accuse nei loro confronti.
«Penso - sottolinea il legale - si confidi anche sul fatto che l'attuale governo, i cui esponenti politici sono sempre sembrati particolarmente sensibili nei confronti dei due militari, si faccia carico di ciò che deve essere loro riconosciuto».
La richiesta di risarcimento, ha spiegato il legale, è nella fase che precede la causa vera e propria, ovvero una mediazione in cui si tenta di comporre in maniera "amichevole" la lite giudiziaria. Nella richiesta «vengono rappresentate - evidenzia l'avvocato Anselmo - le sofferenze patite per tutta la gestione che viene criticata ivi compreso il ritorno in India con la pena di morte». Quanto all’ammontare della richiesta di risarcimento, il legale non entra nel dettaglio ma spiega che «è chiaro che hanno passato circa dieci anni un calvario molto pesante, personale, giudiziario e non solo».
L'ALTRO MARO'
«Insieme al pool di avvocati che mi segue, composto da internazionalisti, civilisti e penalisti, stiamo studiando la situazione. Abbiamo inviato una lettera conciliativa ai dicasteri più importanti, a Palazzo Chigi, agli Esteri e alla Marina. Chiedevamo un dialogo, ma non abbiamo avuto la risposta dialogante che cercavamo». Così commenta il marò Salvatore Girone la notizia dell’avvio della causa contro lo Stato del suo commilitone Massimiliano Latorre, per la lunga contesa internazionale con Nuova Delhi legata all’incidente avvenuto nel 2012 nelle acque del Kerala.
«La nostra situazione è paradossale: l’Italia - spiega Girone - ha cercato a lungo un dialogo con l’India. Invano. Stavolta abbiamo chiesto noi un dialogo al nostro Stato e siamo stati messi in difficoltà. Senza dare colpe a nessuno, ho solo chiesto di discutere un riconoscimento alla mia famiglia e a me per compensare il sacrificio a cui siamo stati sottoposti per quello che è accaduto ingiustamente».
«Sono deluso - aggiunge - e ho un malcontento dentro perché ho faticato tantissimo a vedere la mia famiglia soffrire per lunghi anni. Sono scontento da uomo dello Stato perché ci tengo alla Marina militare: cose come quelle accadute a me non devono accadere. Abbiamo avuto una risposta totale di chiusura che ci lascia spiazzati. Ho difeso con l’immagine e la dignità la nostra nazione». Poi un appello al ministro della Difesa Guido Crosetto, che domani sarà a Bari per il 4 novembre. «Da barese mi vien da dire 'benvenuto ministrò. Gli chiedo di prestare molta attenzione a noi militari, ci mettiamo l’anima. E poi gli gli chiedo di trovare tempo per dedicarsi alla nostra vicenda», conclude Girone.
Il marò Massimiliano Latorre chiede un maxi-risarcimento allo Stato “per il ritorno in India”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Novembre 2022.
La richiesta di risarcimento ammonterebbe a milioni di euro per le vicissitudini subite. A cominciare dal fatto che il marò è stato costretto a ritornare in India, dove è stato colpito anche da un'ischemia
La vicenda dei due marò che in realtà sono due fucilieri della Marina militare italiana, apre un nuovo capitolo con la causa civile allo Stato intentata da Massimiliano Latorre con la richiesta di un maxi-risarcimento milionario per averlo fatto rientrare in India, dove aveva trascorso 106 giorni in carcere ed avrebbe rischiato la pena di morte, lamentandosi di non aver potuto fare carriera e metter su famiglia. Latorre, era stato colpito tra l’altro da un’ischemia proprio durante la reclusione in India. Dopo la lunga vicenda giudiziaria durata dieci anni, i due marò chiedono il conto attraverso le azioni legali avviate dagli avvocati. Analoga azione infatti potrebbe essere intentata anche dall’altro marò, Salvatore Girone.
La posizione dei due marò sembrava essere conclusa definitivamente a febbraio 2022, quando il gip Alfonso Sabella del Tribunale di Roma, aveva archiviato le accuse nei confronti dei due fucilieri pugliesi della Marina, dopo l’uccisione di due pescatori al largo delle coste indiane del Kerala nel febbraio del 2012. “È chiarissimo come, più che legittimamente Latorre e Girone si trovassero in una situazione tale da far pensare a un attacco di pirati alla Enrica Lexie” si legge nelle motivazioni del Gip Sabella “ragion per cui nessuna perplessità potrebbe giammai residuare sul fatto che i due militari abbiano agito in stato di legittima difesa, almeno putativa“. E anche qualora, scrive ancora il Gip “residuasse nella loro condotta un qualche profilo colposo, ovviamente tutto da accertare, il relativo reato di omicidio colposo sarebbe definitivamente prescritto”.
il fuciliere della Marina militare italiana Massimiliano Latorre
Gli avvocati del fuciliere Latorre, Silvia Galeone e Fabio Anselmo quest’ultimo diventato noto per aver patrocinato le cause di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, conclusesi con le condanne dei responsabili di quei delitti, a dare slancio all’iter giudiziario sono già invece in fase più avanzata: attualmente è in corso, all’Ordine degli avvocati di Roma, la mediazione che precede obbligatoriamente le cause civili. “L’azione è stata promossa nei confronti del precedente Governo – dichiara l’ avv. Anselmo – Credo sia una cosa che non sconvolge e che anche l’altro militare, Salvatore Girone, ne abbia una in cantiere uguale. È chiaro che quello che hanno sofferto meriti considerazione da parte dello Stato. La gestione della vicenda da parte del Governo italiano non è stata soddisfacente e in linea con il rispetto delle loro situazioni personali, umane e familiari”.
All’Ansa l’avvocato Fabio Anselmo rivela dettagli sulla richiesta di risarcimento danni allo Stato: “Penso – sottolinea il legale – si confidi anche sul fatto che l’attuale governo, i cui esponenti politici sono sempre sembrati particolarmente sensibili nei confronti dei due militari, si faccia carico di ciò che deve essere loro riconosciuto“. Nella richiesta “vengono rappresentate – aggiunge l’avvocato Anselmo – le sofferenze patite per tutta la gestione che viene criticata ivi compreso il ritorno in India con la pena di morte“. Sull’ammontare della richiesta di risarcimento, il legale preferisce non entrare nel dettaglio spiegando che “è chiaro che hanno passato circa dieci anni un calvario molto pesante, personale, giudiziario e non solo“.
il fuciliere della Marina militare italiana Salvatore Girone
“Abbiamo inviato insieme al pool di avvocati che mi segue – commenta il marò Salvatore Girone – composto da internazionalisti, civilisti e penalisti, stiamo studiando la situazione. na lettera conciliativa ai dicasteri più importanti, a Palazzo Chigi, agli Esteri e alla Marina. Chiedevamo un dialogo, ma non abbiamo avuto la risposta dialogante che cercavamo“. “La nostra situazione è paradossale: l’Italia – aggiunge Girone – ha cercato a lungo un dialogo con l’India. Invano. Stavolta abbiamo chiesto noi un dialogo al nostro Stato e siamo stati messi in difficoltà. Senza dare colpe a nessuno, ho solo chiesto di discutere un riconoscimento alla mia famiglia e a me per compensare il sacrificio a cui siamo stati sottoposti per quello che è accaduto ingiustamente“.
“Sono deluso e ho un malcontento dentro perché ho faticato tantissimo a vedere la mia famiglia soffrire per lunghi anni – prosegue Girone – Sono scontento da uomo dello Stato perché ci tengo alla Marina militare: cose come quelle accadute a me non devono accadere. Abbiamo avuto una risposta totale di chiusura che ci lascia spiazzati. Ho difeso con l’immagine e la dignità la nostra nazione” lanciando un appello al ministro della Difesa Guido Crosetto, che domani per il 4 novembre sarà a Bari: “Da barese mi vien da dire ‘benvenuto ministrò’. Gli chiedo di prestare molta attenzione a noi militari, ci mettiamo l’anima. E poi gli gli chiedo di trovare tempo per dedicarsi alla nostra vicenda” .
L’Italia con il governo Monti quando l’ammiraglio Giampaolo Di Paola era ministro della Difesa raggiunse un accordo con le famiglie dei pescatori e con il proprietario del peschereccio: vennero pagati circa 142 mila euro a testa per permettere che le famiglie e l’amatore si ritirassero dal processo agevolando il rientro dei due fucilieri in Italia. L’Avvocatura dello Stato al momento sembrerebbe poco conciliante anche perché l’Italia ha pagato diversi milioni di euro al pool internazionale di legali che si occupò del caso e oltre un milione di danni alle famiglie dei pescatori indiani. Redazione CdG 1947
I marò Girone e Latorre a Cuorgné, ma l’amministrazione si divide. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.
Davide Pieruccini, consigliere di minoranza è critico: «Nella Domenica delle Palme si dovrebbe parlare di pace». La sindaca Giovanna Cresto: «Evento culturale».
«Se una situazione dove sono morti due poveri pescatori è una iniziativa di richiamo culturale per i cittadini di Cuorgnè mi chiedo cosa sia davvero per l’Amministrazione comunale un evento culturale. Ma soprattutto perché è stata scelta la data della domenica delle Palme per l’incontro con i Marò. Una giornata in cui si dovrebbe parlare di pace. È tutto senza senso». Commenta così in modo lapidario il consigliere comunale di minoranza di Cuorgnè, Davide Pieruccini la presenza dei Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ospiti di un incontro a Cuorgnè.
Non tanto per il loro arrivo, organizzato dall’Associazione Paracadutisti del Canavese per il prossimo 10 aprile nella sala conferenze di via Ivrea 100. Ma perché proprio quell’evento, patrocinato dal Comune di Cuorgnè e dal Consiglio Regionale del Piemonte, è stato definito come «culturale». Una classificazione che ha subito innescato la polemica per il «taglio» dato all’iniziativa. Alla minoranza ma anche a tanti cittadini l’accostamento tra la presenza dei due Marò e il senso culturale dell’incontro sfugge proprio.
La decisione sta facendo discutere l’intero: è paese diviso tra chi considera la partecipazione dei due Marò un incontro a cui non si può mancare per ascoltare dal vivo il racconto della loro vicenda e invece chi non vuole definire quella occasione d’incontro come un momento culturale.
È così che la pensa la minoranza che — proprio in Pieruccini — ha trovato modo di esporre il suo essere contraria alla scelta. «Mi chiedo ancora quale scopo abbia organizzare un evento che tratta un tema del genere mentre l’Europa è ad un passo dalla guerra totale. E poi prevedere questa iniziativa proprio nel giorno della domenica delle Palme? — dice il consigliere comunale —. Ribadisco che per me questo non è un evento di richiamo culturale. Anzi, se proprio devo pensare a qualcosa, mi sento di fare i complimenti alla giunta per il tempismo».
Il discorso secondo il consigliere è semplice: la giunta ha deciso di sostenere l’ iniziativa con il patrocino, il costo di affitto della sala, le attrezzature e l’eventuale utilizzo di personale comunale come scritto nel verbale Delibera di Giunta numero 22 del 23 febbraio. «Questo perché — spiega Pieruccini — tra i compiti istituzionali dell’ente rientrano anche quelli di promuovere e organizzare iniziative di richiamo culturale per la popolazione residente. Ma sono dell’idea che ogni associazione legalmente riconosciuta possa organizzare eventi come questo in modo autonomo e seguendo il regolamento per l’utilizzo dei locali comunali, ma a mio parere il comportamento della giunta è assolutamente fuori luogo».
Smorza molto i toni e parla al contrario di polemica inutile la sindaca Giovanna Cresto. «Aiutiamo tutte le associazioni del territorio — spiega la prima cittadina —. Tutto ciò che può essere considerato come culturale deve essere assecondato. Poi ognuno può ovviamente avere un’opinione personale contraria. Ma noi abbiamo ritenuto fosse importante sostenere questa iniziativa. Così come facciamo con tutte quelle che abbiamo sul territorio. Questo è solo uno dei primi eventi che saranno organizzati a Cuorgnè. Noi andiamo avanti. Non saranno le polemiche a fermarci».
Il dieci aprile i presenti potranno ascoltare il racconto dei due Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone arrestati e poi assolti dall’accusa di omicidio in India. Era il 15 febbraio 2012 quando due pescatori indiani, Valentine Jelastine e Ajeesh Pink, furono uccisi nelle acque al largo dell’India. Secondo la polizia indiana i proiettili che li colpirono furono sparati dalla nave italiana Enrica Lexie. Quest’ultima fu fatta attraccare dalle forze dell’ordine locali che poi arrestarono i due fucilieri della Marina italiana. Seguirno giorni tormentati per i due Marò e le loro famiglie oltre, naturalmente, ad una mobilitazione generale nel nostro Paese che coinvolse ministeri e fonti diplomatiche: tutti in campo per venire a capo di una situazione che — intanto — costava giorni di prigionia e la minaccia della pena capitale. La Torre e Girone si sono sempre dichiarati innocenti rispetto ai fatti contestati dalle autorità indiane e sono rimasti a lungo prigionieri. Proprio nei giorni scorsi il Comune di Rocca Canavese ha conferito loro la cittadinanza onoraria.
Parla il Marò Latorre: "La paura della condanna a morte, le umiliazioni e l'ictus. Ma ora rinasco". Andrea Ossino su La Repubblica il 15 Febbraio 2022.
Salvatore Girone (a sinistra) e Massimiliano Latorre, i due marò al centro di una battaglia diplomatica e giudiziaria durata quasi dieci anni.
Ha affrontato il carcere in India e un'accusa per cui è prevista la pena di morte. È stato al centro di un delicato caso internazionale e di un'inchiesta italiana appena terminata. Adesso può lasciarsi tutto alle spalle. Il caso è stato archiviato.
"So di non avere le capacità fisiche di una volta, ma dietro una scrivania mi sento come un leone in gabbia". Un calvario giudiziario lungo dieci anni non ha scalfito lo spirito di Massimiliano Latorre. Ha affrontato il carcere in India e un'accusa per cui è prevista la pena di morte. È stato al centro di un delicato caso internazionale e di un'inchiesta italiana appena terminata.
"Un'odissea di dieci anni. In divisa anche in cella con l'incubo della forca". Fausto Biloslavo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il marò accusato dall'India per la morte di due pescatori: "L'archiviazione ci restituisce l'onore".
Massimiliano Latorre è in divisa, impeccabile, da marò, orgoglioso delle medaglie e mostrine di tante missioni dalla liberazione del Kuwait, al Kosovo fino all'Afghanistan. Il tribunale di Roma ha chiuso con l'archiviazione l'inchiesta sulla morte di due pescatori indiani in alto mare, dieci anni fa, quando Latorre e l'altro fuciliere di marina, Salvatore Girone, difendevano la nave italiana Enrica Lexie dai pirati.
Come descriveresti questi 3.683 giorni?
«È stata un'Odissea psicologica e umana».
Avete ottenuto la definitiva archiviazione delle accuse.
«Sul primo momento ho sentito al telefono Salvatore e non ci credevamo entrambi. Si vive nell'ombra dei traumi di questi dieci anni, ma finalmente è stata riconosciuta la nostra innocenza. Il motivo per cui ho sofferto tanti anni con dignità e in silenzio. Era una questione d'onore come uomo e militare. Siamo stati scagionati da qualsiasi reato ed è riconosciuto che abbiamo rispettato appieno le regole d'ingaggio».
Cosa è successo quel giorno di dieci anni fa in alto mare?
«È tutto scritto negli atti. Abbiamo visto che un'imbarcazione di avvicinava e sono state adottate le regole d'ingaggio in caso di attacco dei pirati. Abbiamo sparato solo colpi di avvertimento oltre ad avere utilizzato le altre misure previste come flash e sirene. L'archiviazione corrisponde a una piena assoluzione».
Perché siete tornati indietro nel Kerala?
«Ripeto che è tutto scritto negli atti. Gli indiani sostenevano che dovevamo identificare gli equipaggi che avevano fermato. Noi non abbiamo mai visto i due pescatori morti, non abbiamo nulla a che vedere con loro».
Alle loro famiglie vorresti dire qualcosa?
«Mi sento vicino, ma adesso, come allora, non sono responsabile della perdita dei loro cari. Umanamente mi dispiace, ma non sono io la causa del dolore».
Gli indiani che sono venuti a prendervi a bordo vi hanno trattato da criminali?
«Quando ci hanno portato a terra volevano farci scendere incappucciati. Non lo accettavamo perché indossavamo la divisa, che non abbiamo mai abbandonato neppure in carcere. Il console Giampaolo Cutillo si è battuto per evitare che incappucciassero due militari italiani».
Se non violenza avete subito pressioni dagli indiani?
«Pressioni sì, ma abbiamo sempre preteso rispetto reciproco. Qualche volta è venuto a mancare».
Qual è stato il momento più difficile?
«All'arresto e quando siamo rientrati per due volte in India con la pena di morte che gravava sulle nostre teste. C'era stato un accanimento giudiziario nei nostri confronti che avvertivamo a pelle. La pena capitale era un pericolo non tanto lontano».
Volevano a tutti i costi un colpevole?
«Assolutamente sì. Volevano un colpevole a prescindere. Eravamo sotto processo con delle norme che non solo prevedevano la pena di morte, ma l'inversione dell'onere della prova. Insomma il dado era tratto. Mi sono immaginato sulla forca con la consapevolezza di essere innocente».
Vi siete sentiti abbandonati?
«Sì, quando la nostra vicenda ha perso di interesse nell'opinione pubblica. Siamo stati lasciati un po' al nostro destino. Ho stretto i denti per continuare ad andare avanti in silenzio ingoiando tanti bocconi amari».
Ed è arrivato anche l'ictus.
«Un'aspra battaglia, ma non ti nascondo che sono vivo grazie a mia moglie Paola che era presente e si è accorta di tutto chiedendo un medico. Se non ci fosse stata non saremo qui a parlarne. Mi ha salvato la vita. Purtroppo l'ictus me l'ha stavolta perché non posso fare più il lavoro operativo di marò, che mi manca tanto. Nella vita di ogni giorno ho delle carenze con le quali convivo. Però metto anche questo nello zaino: carico e vado avanti con dignità».
La gente ti ferma ancora per strada?
«Sì, le attestazioni di affetto ancora oggi sono numerose. Voglio ringraziare tutti a cominciare dalle associazioni d'arma e pure i media che ci sono stati vicini nei momenti più bui. Non dimenticherò mai la gente comune che ci mandava il gadget, il pensierino, il disegno del bambino sul marò, di tutto. Adesso che sono un uomo libero vorrei andare a trovare chi ha creduto in noi, uno ad uno».
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
Nicola Pinna per "il Messaggero" l'1 febbraio 2022.
Nel lungo viaggio in treno tra Trento e Roma, Massimiliano Latorre ha il tempo di ripensare a tutto. A ognuno dei 3638 giorni che ci sono voluti per sentirsi dire da un giudice di essere innocente.
«Di non essere un criminale, anzi un terrorista, visto che l'India aveva associato la nostra vicenda ai reati che prevedono anche la pena di morte». Dal 15 febbraio 2012 il marò di Taranto ha sempre declinato gli inviti per le interviste. Niente tv e niente foto in prima pagina.
Oggi rompe le righe e racconta: la consegna del silenzio è finita, il Gip di Roma ha scritto su una sentenza che lui e il collega Salvatore Girone non dovranno essere processati. Perché i due marinai italiani, accusati di aver ucciso due pescatori indiani, in realtà non hanno commesso alcun reato. Caso chiuso e indagine archiviata.
Scusi ma perché proprio oggi se n'è andato fino a Trento?
«Non sapevo che oggi sarebbe arrivata la decisione, ero andato a fare un corso, ero fuori da alcuni giorni. Ma appena è arrivata la telefonata sono ripartito».
Cosa ha pensato?
«Non ci ho creduto subito, perché in questi anni tante volte sono arrivate notizie che poi sono state smentite».
L'archiviazione a 10 anni esatti: quanto è stata dura?
«Durissima, in tutto questo tempo la mia vita è cambiata. E di mezzo c'è stato pure il momento terribile dell'ictus. L'archiviazione dopo 10 anni, comunque, non è l'unica coincidenza di questa vicenda, quando siamo usciti dal primo carcere indiano era il giorno del mio compleanno, il 25 maggio».
È questo il momento più bello?
«Uno dei tre più importanti. Il primo è quando il direttore del carcere ci ha comunicato che saremmo usciti, il secondo quando ho riabbracciato Paola, mia moglie: grazie a lei ho avuto la forza di resistere fino a oggi. Non mi aspettavo che la magistratura italiana fosse così celere e per questo ringrazio i magistrati che hanno seguito il caso».
Cosa è successo quel giorno al largo delle coste indiane?
«I dettagli dell'inchiesta verranno fuori con la motivazione della sentenza. Io e Girone facevamo da scorta alla petroliera Enrica Lexie che trasportava combustibile, eravamo partiti in Sri Lanka e non mi ricordo neanche dove fossimo diretti.
Mentre costeggiavamo l'India la nave viene avvicinata da un natante, io e il collega siamo stati chiamati a intervenire per respingere questo attacco e lo abbiamo fatto seguendo tutte le procedure. La petroliera riesce quasi subito ad allontanarsi dalla barca e dopo un certo lasso di tempo viene poi contattata dalla capitaneria di porto indiana, che chiede di entrare in porto per riconoscere gli equipaggi che erano stati appena fermati».
E i due pescatori morti?
«Io vengo da una città di mare e per loro umanamente ho sempre provato grande dispiacere. Ma a loro non è successo nulla con noi. Noi non li abbiamo mai visti».
Quando è scattato l'arresto?
«Il giorno dopo alcuni uomini della Capitaneria di porto indiana salgono a bordo e chiedono al comandante di attraccare in porto. Erano armati fino ai denti e ci costringono a scendere a terra. Volevano portarci incappucciati, seguendo la procedura di arresto locale.
Ma noi eravamo in divisa e non potevamo accettare questa umiliazione e per questo è stato fondamentale l'intervento immediato del nostro console. Per fortuna siamo scesi senza manette ma subito ci hanno tolto il passaporto».
Poi che è successo?
«Da lì siamo stati in una casetta che loro chiamavano guest house, una specie di pre-carcere, con tutte le restrizioni della detenzione».
Dopo dove vi siete ritrovati?
«Siamo usciti il 3 giugno e siamo stati trasferiti in diversi hotel e ogni mattina avevamo l'obbligo di firma in un commissariato di polizia. Dopo abbiamo cambiato città siamo andati a vivere in ambasciata. Questo è durato fino a febbraio 2013».
Avete mai subito violenza?
«Hanno tentato in ogni modo di umiliarci, ma violenza vera no. Noi non ci siamo mai tolti la divisa della Marina e abbiamo fatto in modo che non venisse offesa».
Vi siete mai sentiti abbandonati?
«Per noi è stato molto importante sapere che nel nostro Paese erano iniziate le campagne per la nostra liberazione. Questo, insieme alla certezza di essere innocenti, mi ha consentito di essere fiducioso e di mantenere la dignità. Quando siamo usciti dal carcere mi sono portato via un sacco pieno di cartoline spedite da tutto il mondo».
A un certo punto rischiavate la pena di morte. Che sensazione si prova?
«Mi sono immaginato sulla forca, sì, perché per come era l'accanimento nei nostri confronti mi faceva pensare che nei nostri confronti la condanna fosse già stata scritta».
Poi è arrivato l'ictus: ha rischiato la vita ma è stata anche la salvezza?
«Certo non è stata la salvezza, perché 10 anni sono stati durissimi, ma quella disavventura ha accelerato il rientro in Italia».
Oggi ha cambiato lavoro: ma si considera ancora un marò?
«Certo, lo sarò per sempre».
Come sono i rapporti con Salvatore Girone?
«Da quando siamo arrivati lo scorso anno abbiamo avuto il divieto di sentirci: faceva parte di un accordo tra Italia e India. Quando c'è stata la sentenza della Corte dell'Aja, che assegnava all'Italia la giurisdizione sul caso, abbiamo riallacciato i nodi della nostra amicizia».
Gli italiani non sapevamo cosa fossero i marò. Siete diventati meme nei social e vi hanno dedicato persino due canzoni. La gente vi riconosce in strada?
«Sì, è bello che ancora tante persone si avvicinano per stringerci la mano e per esprimere solidarietà e apprezzamento».
Da leggo.it il 9 dicembre 2021. La Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta sui due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, accusati dell'omicidio di due pescatori, uccisi a largo delle coste del Kerala, nell'India sud occidentale a colpi di arma da fuoco. L'episodio risale al febbraio del 2012 e lo scorso ottobre il Tribunale arbitrale dell'Aja aveva chiuso ufficialmente il caso dopo che l'Italia ha assicurato all'India che il processo giudiziario sarebbe andato avanti nel nostro Paese. Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Erminio Amelio hanno chiesto al gip di fare cadere le accuse nei confronti dei due fucilieri di Marina in quanto il quadro degli elementi di prova raccolti in questi anni non è sufficiente a garantire l'instaurazione di un processo. I due fucilieri erano stati interrogati in Procura lo scorso luglio. Latorre e Girone furono già ascoltati dai pm di Roma il 3 gennaio del 2013 e nello stesso anno i pm capitolini disposero una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie, la nave su cui erano in servizio Latorre e Girone.
Marò, Corte India: «Caso si chiude con risarcimento da un milione». Secondo i media indiani, le famiglie dei pescatori accettano la proposta d'indennizzo dall'Italia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Aprile 2021. Mancava ancora un ultimo passo per chiudere del tutto il contenzioso con l’India sul caso dei due marò, dopo la sentenza di luglio scorso dell’arbitrato internazionale: il risarcimento dovuto dall’Italia per la perdita di vite umane, i danni morali e materiali. Ora, dopo l'accordo sull'ammontare di 100 milioni di rupie (pari a 1,1 milioni di euro), la Corte Suprema di New Delhi si è detta pronta ad archiviare il dossier non appena lo Stato italiano avrà versato la somma su un conto corrente del ministero degli Esteri di Delhi. Resta poi da definire la vicenda processuale italiana: la procura di Roma, competente a indagare, ha aperto un fascicolo per omicidio che dovrà essere ora definito. Secondo i media locali, dopo una settimana dal deposito, il caso tornerà davanti all’Alta Corte per essere definitivamente chiuso, probabilmente il 19 aprile. A quel punto decadranno anche le ultime restrizioni cui Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono sottoposti dal loro rientro in Italia, sempre per decisione della Corte indiana. Sarà poi la stessa Corte Suprema a distribuire i soldi versati alle vittime che hanno accettato la proposta di indennizzo: le famiglie dei due pescatori uccisi, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, riceveranno 40 milioni di rupie ciascuna, mentre i restanti 20 milioni andranno a Freddy Bosco, l’armatore del peschereccio Saint Antony su cui navigavano le vittime, rimasto a sua volta ferito nella sparatoria di 9 anni fa al largo del Kerala. Il risarcimento pattuito si somma ai 245 mila euro già versati in passato dall’Italia ai familiari. Il 15 febbraio 2012 i due fucilieri di Marina stavano prestando servizio antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie: all’avvicinarsi del peschereccio, temendo un attacco di pirati non insolito in quel tratto dell’Oceano Indiano, aprirono il fuoco sparando, come raccontarono, colpi di avvertimento in acqua. Ma a bordo del Saint Antony morirono i due pescatori. La vicenda scatenò un’aspra crisi diplomatica tra l’Italia e l'India - con Latorre e Girone prima fermati in Kerala, poi costretti per anni a risiedere nell’ambasciata italiana di Delhi - e un estenuante contenzioso su chi dovesse processare i due militari italiani. Quando tutte le strade intraprese si erano dimostrate senza uscita, nel 2016 il governo italiano decise di ricorrere all’arbitrato internazionale, conclusosi con una sentenza inappellabile dalle due parti nel luglio 2020: la giurisdizione del caso è di competenza italiana perché al momento dei fatti i due fucilieri godevano dell’"immunità funzionale», ma al tempo stesso l’Italia avrebbe dovuto risarcire «la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony». Conclusa la vicenda internazionale, a 9 anni dall’accaduto, tocca quindi alla magistratura italiana entrare nel merito della vicenda. Sin dal 2012, la procura di Roma ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, affidato al sostituto procuratore Erminio Amelio. Latorre e Girone furono ascoltati dai pm capitolini il 3 gennaio del 2013, quando fecero ritorno in Italia per alcuni giorni. E sempre nel 2013 su incarico della Procura fu eseguita una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie. I magistrati di piazzale Clodio stanno ora analizzando gli atti inviati dal Tribunale arbitrale per poi procedere a una definizione del fascicolo.
Marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre devono pagare: quanti soldi andranno ai familiari dei pescatori indiani, cosa non torna. Libero Quotidiano il 10 aprile 2021. Il caso internazionale dei due marò italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre si chiuderà dopo 9 anni, pagando. Secondo Asia News, i giudici di Nuova Delhi avrebbero accettato di porre fine al dossier giudiziario relativo alla morte di due pescatori indiani avvenuta il 15 febbraio 2012 a causa, sostiene l'accusa, dei colpi partiti dai due fucilieri della marina in servizio sulla nave mercantile italiana Enrica Lexie. In cambio, però, le famiglie delle due vittime del peschereccio, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, dovranno ricevere un bonifico di 100 milioni di rupie, circa 1,1 milioni di euro, come risarcimento per la perdita di vite umani, danni morali e materiali. Girone e Latorre, una settimana dopo il pagamento della somma (che si aggiunge ai 245mila euro già versati in passato dal governo italiano) torneranno in piena libertà. Dopo un lunghissimo contenzioso, con l'India che ha tenuto bloccati i due marò nell'ambasciata italiana a Nuova Delhi, di fatto prigionieri. intenzionata a processarli, solo nel luglio 2020 l'arbitrato internazionale ha stabilito che la giurisdizione del caso fosse italiano in quanto i due militari godevano dell'immunità funzionale. Restano comunque, come ricorda anche il Messaggero, ancora molti dubbi sulla responsabilità dei due italiani, su cui sta indagando la procura di Roma che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario. A gravare sul conto di Girone e Latorre sono sostanzialmente le testimonianze degli altri pescatori presenti sulla St. Antony. La perizia balistica ha poi stabilito come i proiettili che hanno ucciso i due pescatori siano gli stessi in dotazione ai militari, ma l'autopsia assicura al contrario che i proiettili sarebbero di un altro tipo, e peraltro diversi tra loro e collegati ad armi con numero di matricola differente rispetto a quelle dei due marò.
Marò, la soddisfazione di Giorgia Meloni: "Fratelli d'Italia, i primi a battersi per la giurisdizione italiana". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Il Tribunale arbitrale internazionale aiuta i Marò e dà ragione all'Italia: "Avevano l'immunità" in India. Una svolta importante sulla giurisdizione dei due fucilieri della Marina, una vittoria importante per il nostro Paese che da anni si batte per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per poterli affidare ai tribunali italiani. E la decisione viene commentata con enorme soddisfazione da Giorgia Meloni, su Twitter, dove cinguetta: "Il Tribunale arbitrale internazionale ha deciso che la giurisdizione sul caso dei nostri Marò Latorre e Girone spetterà alla nostra Nazione", premette. Dunque, la Meloni sottolinea che "Fratelli d'Italia è stato il primo partito a chiedere venisse riconosciuta la giurisdizione italiana. Oggi come ieri siamo al loro fianco", conclude la Meloni.
"Otto anni di infamia targata Mario Monti". Marò, una Maglie definitiva: "Assassini?", lo schifo di una sinistra a senso unico. Maria Giovanna Maglie sui Marò: "Otto anni di infamia targata Monti. E la sinistra li bollò come assassini". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. “Otto anni di infamia targata governo Monti, tolto il ministro degli Esteri che si dimise per protesta”. Maria Giovanna Maglie esulta per l’esito dell’arbitrato internazionale sul caso dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Accolta la tesi dell’Italia nella controversia con l’India: è stato stabilito che i due fucilieri di marina godono dell’immunità in relazione all’incidente del 15 febbraio 2012 e quindi all’India viene precluso l’esercizio della propria giurisdizione nei loro confronti. “La sinistra li bollò come assassini - sottolinea la Maglie - ma l’arbitro dà ragione all’Italia, i marò erano nell’esercizio delle loro funzioni”. La sentenza ripaga anche il gesto nobile di Giulio Terzi di Sant’Agata, che si dimise dal ministro in aperta polemica con il governo presieduto da Mario Monti.
Giu. Sca. per “il Messaggero” il 10 aprile 2021. Si sta per chiudere anche davanti alla Corte suprema indiana il caso dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, dopo la sentenza di luglio scorso emessa nell' ambito dell' arbitrato internazionale. Secondo Asia news, i giudici di New Delhi hanno stabilito che il dossier sarà chiuso quando lo Stato italiano avrà versato su un conto del ministero degli Esteri di Delhi 100 milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) come risarcimento per la perdita di vite umane, i danni morali e materiali. Le famiglie dei pescatori hanno infatti accettato l' indennizzo e la somma di denaro si aggiunge a quella già versata in passato dall' Italia: circa 245mila euro. A distanza di una settimana dal deposito, il caso tornerà davanti all' Alta Corte per essere definitivamente chiuso, probabilmente il 19 aprile. A quel punto decadranno anche le ultime restrizioni cui Girone e Latorre sono sottoposti dal loro rientro in Italia. In realtà, il caso è tutt'altro che chiaro: ci sono molte incongruenze sulle responsabilità dei due fucilieri italiani. A fare chiarezza dovrebbe pensarci la procura di Roma, che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, affidato al pm Erminio Amelio. I fatti sono del 15 febbraio 2012. I due fucilieri della Marina sono in servizio antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie. Quando si avvicina un peschereccio, temendo un attacco, sparano alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo dell' imbarcazione ci sono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, che perdono la vita. È l' inizio di una grave crisi diplomatica tra Italia e India: Latorre e Girone vengono fermati in Kerala, poi costretti per anni a risiedere nell' ambasciata italiana di Delhi, mentre si consuma un lunghissimo contenzioso su chi li debba processare. Nel 2016 il governo italiano decide di ricorrere all' arbitrato internazionale, che si chiude nel luglio 2020: la giurisdizione del caso è di competenza italiana visto che, al momento dei fatti, i due marò godevano dell' immunità funzionale - erano funzionari dello Stato italiano, impegnati nello svolgimento della loro missione, cioè difendere un mercantile da eventuali abbordaggi di pirati -, ma l' Italia viene chiamata a risarcire i danni. A 9 anni dai fatti, scende in campo la magistratura italiana. Girone e Latorre sono già stati ascoltati dal pm Amelio nel 2013 e nello stesso anno è stata anche eseguita una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie. Adesso i magistrati di piazzale Clodio stanno analizzando gli atti inviati dal Tribunale arbitrale per poi procedere a una definizione del fascicolo. Ma ecco le incongruenze. La tesi dell' accusa in India si basa principalmente sulle testimonianze dei pescatori della St. Antony: hanno tutti quanti riconosciuto nella petroliera italiana il punto di partenza degli spari. Bisogna però sottolineare che l' equipaggio della Lexie è stato riconosciuto soltanto dopo che da giorni si parlava della vicenda ed erano state diffuse le immagini dell' imbarcazione, con il nome della nave visibile. Poi c' è la perizia balistica: secondo il consulente i proiettili estratti dai corpi delle vittime provengono dalle armi in dotazione ai militari. Ma questa conclusione è stata smentita dall' autopsia, secondo la quale le misure dei proiettili sarebbero diverse da quelli delle armi dei fucilieri. Un altro dettaglio importante: i due proiettili che hanno colpito a morte i pescatori sarebbero diversi tra loro, mentre armi e munizioni in dotazione ai militari italiani sono uniformi. Una circostanza emersa da una perquisizione sulla nave mercantile. In una relazione allegata alla perizia balistica, inoltre, è emerso che i proiettili rinvenuti nei cadaveri sarebbero collegati ad armi con numero di matricola differente rispetto a quelle dei due marò. I fucili di Latorre e Girone, però, avevano il caricatore vuoto, visto che, come hanno raccontato, i due avevano sparato i colpi di avvertimento in acqua. I periti balistici, inoltre, non riusciti a ricondurre i frammenti di proiettili ritrovati sul peschereccio a nessuna delle armi in dotazione ai fucilieri.
La calunnia indiana sui marò. Alle istanze di risarcimento avanzate dai parenti dei pescatori uccisi dai marò si sono aggiunte quelle promosse da altri undici soggetti. Gerry Freda, Lunedì 25/01/2021 su Il Giornale. L’Italia sarebbe pronta a versare un risarcimento milionario per chiudere la vertenza con l’India relativa al caso giudiziario dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La stampa indiana ha infatti ultimamente rilanciato la notizia che Roma avrebbe proposto un ristoro finanziario ai familiari di Valentine Jalastin e di Ajesh Pink, ossia i due pescatori uccisi dai marò citati in quanto erano stati scambiati per pirati da questi ultimi. La bufera giudiziaria abbattutasi nel subcontinente su Latorre e Girone risale al febbraio del 2012, quando i due fucilieri, ufficialmente in servizio con funzioni anti-pirateria a bordo della petroliera italiana Enrica Lexie, spararono e uccisero, al largo della costa dello Stato indiano sudoccidentale del Kerala, quei pescatori, il 44enne Valentine e il 20enne Ajesh, nella convinzione di respingere un assalto di predoni diretto contro la medesima petroliera. I due fucilieri pugliesi finirono così in un carcere locale, con conseguente inizio di una battaglia legale e diplomatica tra Roma e Nuova Delhi, dato che entrambe rivendicavano il diritto di giudicare i due militari. Tale controversia si è conclusa di recente con un verdetto della Corte permanente di arbitrato internazionale, che ha riconosciuto l'immunità funzionale ai due italiani, rilevando come gli stessi fossero impegnati in una missione navale per conto dello Stato di appartenenza. Contestualmente, l'Italia è stata condannata dal medesimo tribunale internazionale a erogare un equo risarcimento per la morte dei due pescatori e per i danni morali subiti dai marittimi del peschereccio oggetto degli spari effettuati da Latorre e Girone. Proprio per dare applicazione alla decisione della Corte e al proprio obbligo di indennizzo, le autorità italiane, ha riferito in questi giorni la versione inglese del Mathrubhumi, ossia uno dei giornali più letti del Kerala, avrebbero offerto come ristoro “10 crore di Rs”, pari a 100 milioni di rupie, ovvero 1.125.733 euro. In merito al risarcimento milionario che Roma avrebbe offerto di pagare, il giornale indiano afferma infatti: “Il Governo italiano ha fatto la sua mossa con il governo centrale (di Delhi) e statale (del Kerala) per chiudere il caso”. L’Italia, prosegue la testata indiana, avrebbe offerto la somma in questione dopo che i familiari dei pescatori uccisi avevano avanzato nei riguardi di Roma richieste di ristori pari almeno a 150 milioni di rupie. In precedenza, puntualizza l’organo di stampa del Kerala, sarebbero stati in realtà già versati dal Belpaese alle famiglie delle vittime risarcimenti per 20 milioni di rupie. Nel dettaglio, i 100 milioni di rupie, precisa il quotidiano, verrebbero erogati da Roma suddividendoli in “40 milioni di rupie ciascuno ai familiari dei due pescatori deceduti. Gli altri 20 milioni di rupie saranno dati a Freddy, il proprietario del peschereccio, per i danni”. Tale Freddy è stato uno dei più accaniti oppositori della scarcerazione e del rientro in Italia dei marò pugliesi. A dimostrazione dell’ostilità di quest’ultimo verso l’ipotesi di un rientro in patria dei due soldati è il fatto che lo stesso, quando Latorre è tornato in Italia per curarsi, aveva sollecitato le autorità indiane a bloccare la “fuga” del militare italiano in nome della necessità di effettuare ulteriori accertamenti medici sulle reali condizioni di salute dello stesso Latorre. La proposta italiana di un risarcimento milionario alle vittime del caso-Enrica Lexie potrebbe però non essere l’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria, dato che, alle richieste di indennizzo avanzate dai parenti di Valentine e di Ajesh, si sono aggiunte in questi anni quelle presentate dai colleghi di lavoro dei due deceduti, ossia dagli undici membri dell'equipaggio in servizio sul peschereccio al momento degli spari esplosi dai due marò. Ci sono di conseguenza delle istanze indiane di risarcimento che attendono ancora di essere accolte dalle autorità di Roma.
(ANSA il 15 giugno 2021) - La Corte Suprema indiana ha ordinato la chiusura di tutti i procedimenti giudiziari nel Paese a carico di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due Marò coinvolti nella morte di due pescatori indiani nel 2012. Lo riporta il giornale indiano in lingua inglese The Hindu. La Corte Suprema indiana aveva rinviato la chiusura del caso lo scorso 19 aprile perchè l'indennizzo di cento milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) che l'Italia doveva versare alle famiglie delle vittime non era stato ancora depositato. Nel corso dell'udienza del 19 aprile, che era stata presieduta dallo stesso presidente della Corte - Sharad Arvind Bobde - il procuratore generale dello Stato, Tushar Mehta, aveva dichiarato che "l'Italia ha avviato il trasferimento di denaro", aggiungendo però che la somma non era ancora disponibile. Il nove aprile scorso la Corte aveva deciso che il caso sarebbe stato chiuso solo dopo il deposito del risarcimento pattuito. I due militari erano accusati di aver ucciso nel 2012 due pescatori indiani, al largo delle coste del Kerala: i fucilieri, che erano impegnati in una missione antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie, videro avvicinarsi il peschereccio Saint Antony e, temendo un attacco di pirati, spararono alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo della piccola imbarcazione, però, morirono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, e rimase ferito l'armatore del peschereccio, Freddy Bosco. Dopo un lungo contenzioso, nel luglio del 2020 il tribunale internazionale dell'Aja, che aveva riconosciuto "l'immunità funzionale" ai fucilieri, aveva stabilito che la giurisdizione sul caso spettava all'Italia e aveva disposto il risarcimento alle famiglie delle vittime.
Girone Latorre: Corte Suprema indiana chiude il caso. Il commissario Ue Gentiloni: «Successo della diplomazia italiana». La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Giugno 2021. La Corte Suprema indiana ha ordinato la chiusura di tutti i procedimenti giudiziari nel Paese a carico di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due Marò coinvolti nella morte di due pescatori indiani nel 2012. Lo riporta il giornale indiano in lingua inglese The Hindu. «Si chiude il caso con l’India. Un successo della diplomazia italiana», twitta il commissario Ue, Paolo Gentiloni, che nel 2015, da ministro degli Esteri, decise di ricorrere all’arbitrato internazionale sul caso dei due fucilieri di Marina. La Corte Suprema indiana aveva rinviato la chiusura del caso lo scorso 19 aprile perché l'indennizzo di cento milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) che l’Italia doveva versare alle famiglie delle vittime non era stato ancora depositato. Nel corso dell’udienza del 19 aprile, che era stata presieduta dallo stesso presidente della Corte - Sharad Arvind Bobde - il procuratore generale dello Stato, Tushar Mehta, aveva dichiarato che «l'Italia ha avviato il trasferimento di denaro», aggiungendo però che la somma non era ancora disponibile. Il 9 aprile scorso la Corte aveva deciso che il caso sarebbe stato chiuso solo dopo il deposito del risarcimento pattuito. I due militari erano accusati di aver ucciso nel 2012 due pescatori indiani, al largo delle coste del Kerala: i fucilieri, che erano impegnati in una missione antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie, videro avvicinarsi il peschereccio Saint Antony e, temendo un attacco di pirati, spararono alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo della piccola imbarcazione, però, morirono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, e rimase ferito l’armatore del peschereccio, Freddy Bosco. Dopo un lungo contenzioso, nel luglio del 2020 il tribunale internazionale dell’Aja, che aveva riconosciuto «l'immunità funzionale» ai fucilieri, aveva stabilito che la giurisdizione sul caso spettava all’Italia e aveva disposto il risarcimento alle famiglie delle vittime.
LA MOGLIE DI LATORRE - «Da 9 anni sono costretta a parlare a nome di mio marito. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. Non può nemmeno partecipare a qualsiasi manifestazione pubblica. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma». Così Paola Moschetti, moglie di Latorre.
L'INCHIESTA DELLA PROCURA DI ROMA - Girone e Latorre verranno ascoltati nelle prossime settimane in Procura, a Roma. Per l'omicidio dei due pescatori indiani, i pm romani hanno aperto un fascicolo di indagine fin dal 2012. Il pm Erminio Amelio in questi mesi ha analizzato gli atti inviati dal Tribunale internazionale dell’Aja - che nel luglio del 2020 ha deciso in favore dell’Italia la competenza giurisdizionale - per poi procedere alla conclusione delle indagini che potrebbe arrivare in estate. «A chiusura della lunga e dolorosa parentesi indiana mi resta un dubbio - dice ancora la moglie di Latorre - considerato che sarà la procura di Roma a stabilire se vi sono prove sufficienti a portare a processo Massimiliano, sarà la Magistratura italiana a stabilire se è colpevole oppure innocente. Quel che mi chiedo ora è questo: se mio marito è innocente così come il suo compagno di sventura Girone, e saranno entrambi riconosciuti tali, come è giusto che sia, cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?». Una dichiarazione riportata da Paola Moschetti su Facebook a proposito del risarcimento danni di 1,1 milioni di euro alle famiglie dei pescatori indiani morti.
Marò, l'India li perdona ma l'Italia no: l'ultimo sfregio (di Stato) ai nostri militari. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. La buona notizia, accompagnata dal suono delle fanfare politiche, è che la Corte suprema dell'India ha chiuso tutti i procedimenti ancora aperti contro i marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di avere ucciso due pescatori del Kerala nel 2012. La cattiva - mentre le forze politiche esulta- no - è che l'accusa di omicidio volontario resta aperta presso la procura di Roma, cui spetta giudicare i due fucilieri dopo la pronuncia del Tribunale del mare di Amburgo, che ha riconosciuto la competenza giurisdizionale italiana. Per questo le famiglie di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non si uniscono al coro di chi, in queste ore, si lancia in dichiarazioni trionfalistiche. «Per la politica italiana siamo stati carne da macello», si sfoga Paola Moschetti, moglie di Latorre. La donna, costretta a parlare a nome del marito da nove anni (i militari sono vincolati al silenzio, ndr), ha affidato a Facebook i suoi pensieri. «Mi resta un dubbio», premette. E il «dubbio» è: visto che l'Italia ha versato alle famiglie dei due pescatori indiani circa 1,1 milioni di euro come indennizzo, «se mio marito è innocente così come il suo compagno di sventura Girone e saranno entrambi riconosciuti tali come è giusto che sia, cosa ha pagato lo Stato italiano all'India?». La signora Paola, raggiunta telefonicamente da Libero, preferisce non aggiungere altro: «A chi ha seguito la vicenda, credo sia evidente a chi mi riferisca...».
NODI DA SCIOGLIERE. Molto più loquace l'avvocato Fabio Anselmo, il legale che assiste Latorre a piazzale Clodio nell'ambito del procedimento aperto nel 2012 e affidato al sostituto procuratore En rico Amelio. «È lo sfogo comprensibile di una donna e di una famiglia che nove anni fa hanno avuto la loro vita distrutta. Va bene la vittoria diplomatica, ma qui stiamo parlando di persone. Massimiliano continua a portare sulle spalle il peso di un'accusa di omicidio». E il caso - purtroppo - ancora non è chiuso: «A breve sarà ascoltato dai magistrati romani. E lì non ci sarà alcun segreto militare che tenga. Massimiliano ci tiene a dire perché è innocente, ha voglia di raccontare quello che ha dovuto subire e che non dimenticherà mai». Insomma, mentre l'arco parlamentare si congratula con se stesso- «tutti si fanno i complimenti...», nota Anselmo - la famiglia Latorre guarda già al prossimo step giudiziario: «Queste esultanze ci lasciano molto freddi. Adesso, come avvocato di Massimiliano, mi aspetto di vedere quali prove ci sono a suo carico». E qui si torna alle parole di Paola su Facebook: sei due fucilieri sono innocenti, «cosa ha pagato lo Stato italiano all'India?». «Adesso vediamo che prove ci sono», insiste il penalista: «La procura di Uno dei primi ad esultare è stato Luigi Di Maio, ministro degli Esteri: «Grazie a chi ha lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico». Parole che stavolta provocano la reazione di Vania Ardito, moglie di Salvatore Girone: «Interessante leggere i ringraziamenti del ministro nei confronti di chi ha lavorato sodo. Ma prima di tutto è importante ringraziare i due soldati che si sono sacrificati alla sottomissione indiana per tanti anni, che non gli saranno più restituiti. Auspichiamo una rapida soluzione del caso anche in Italia». Nel frattempo, i due militari resteranno in silenzio. «Avevamo chiesto l'autorizzazione a poter fare dichiarazioni, ma ci è stata negata. In tutti questi anni Massimiliano e Salvatore non hanno potuto dire la loro», è l'ennesima coda velenosa che l'avvocato Anselmo mette su una storia ancora da chiudere.
Silenzi e ammissione di colpa. Le domande aperte sui marò. Riccardo Pelliccetti il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. I due fucilieri di Marina hanno sempre negato di aver sparato, ma da 9 anni non possono esporre la loro versione. Ci sono voluti nove anni per chiudere il contenzioso con l'India sul caso dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, coinvolti nella morte di due pescatori del Kerala nel 2012. Ma la vicenda non è conclusa, anzi. In primo luogo, perché c'è ancora l'inchiesta aperta in Italia dalla Procura di Roma, ma soprattutto perché manca una risposta a molti interrogativi. Hanno poco da gongolare i nostri politici, con Luigi Di Maio in prima fila. «Chiusi tutti i procedimenti giudiziari in India ha scritto su twitter il nostro ministro degli Esteri. Grazie a chi lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico. Si mette definitivamente un punto a questa vicenda». A parte il fatto che non è vero che ci sia un punto definitivo sulla questione, ma qualcuno crede veramente che sia tutto chiarito? L'Italia ha pagato 1,1 milioni di risarcimento, di fatto un'ammissione di responsabilità, eppure Latorre e Girone hanno sempre negato di aver sparato contro il peschereccio. I due fucilieri del San Marco hanno mentito per nove anni? E perché viene severamente proibito di esporre pubblicamente la loro versione dei fatti? La stessa moglie di Latorre, ieri, non ha trattenuto l'indignazione. «Da 9 anni sono costretta a parlare a nome di mio marito ha detto Paola Moschetti -. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. Non può nemmeno partecipare a qualsiasi manifestazione pubblica. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma». Già, perché le autorità militari impongono il segreto? C'è qualcosa di scomodo che l'opinione pubblica è meglio non sappia? Anche la moglie di Girone non risparmia critiche. «Interessante leggere i ringraziamenti del ministro Di Maio nei confronti di chi ha lavorato sodo ha detto Vania Ardito -, ma prima di tutti è importante ringraziare i due soldati che si sono sacrificati alla sottomissione indiana per tanti anni che mai più gli saranno restituiti». Non occorre riepilogare l'intera la vicenda, molti ricordano bene il gioco allo scaricabarile della politica, che ha portato addirittura alle dimissioni del ministro degli Esteri Giulio Terzi, nel 2013. Ma il tempo passa, i ricordi si affievoliscono e quello che è stato il più grande schiaffo diplomatico (non dimentichiamo che l'India trattenne come «ostaggio» il nostro ambasciatore a New Delhi affinché l'Italia rispedisse laggiù i due marò, che godevano di un permesso in patria) ora viene dipinto come un grande successo. Certo, il Tribunale internazionale di Amburgo nel 2020 ha riconosciuto l'immunità funzionale dei nostri militari, ma allo stesso tempo non ha ammesso la giurisdizione italiana e ha stabilito che l'incidente andava sanato con un risarcimento alle famiglie delle vittime, all'armatore del peschereccio indiano e agli altri membri dell'equipaggio. Di fatto, ha affermato che i nostri due marò sono responsabili delle morti anche se non possono essere giudicati in India. E i nostri politici si sono accodati, senza andare a fondo nel caso, senza ravvisare alcuna necessità di portare alla luce quello che è realmente accaduto. Sul caso Regeni, l'Italia è stata come un mastino con l'osso. Ma l'Egitto non è l'India. E nessuno affigge manifesti per chiedere «verità per i due marò». Speriamo lo faccia la Procura di Roma. Riccardo Pelliccetti
Marò, parla la moglie di Latorre: «L’ictus di mio marito, le ingiustizie e il tempo che ci hanno rubato» . Carlo Vulpio su Il Corriere della Sera il 15/6/2021. Paola Moschetti, la moglie di uno dei due marò: lui e Girone sono stati esemplari.
Signora Paola Moschetti, per suo marito Massimiliano Latorre e per il collega Salvatore Girone è finito un incubo.
«Lo spero. Voglio crederlo. Ma ne dubito».
Non le è tornata un po’ di fiducia dopo questi anni difficili?
«No. È troppo presto per la fiducia. La speranza non mi ha mai abbandonato, questo sì, anche nei momenti più bui. Ma la fiducia è un’altra cosa, e io ancora non ne ho».
«Perché dopo nove anni e mezzo di tribolazioni mi sento come una bambina che deve imparare a camminare e ha paura di cadere. Se per me è così, figuriamoci per Massimiliano. Per lui è ancora peggio, le sue ferite sono ancora più profonde e tutt’ora aperte».
Teme che non possano rimarginarsi, anche se l’esito giudiziario di questa vicenda fosse favorevole?
«Sì, ho questo timore. Anche perché da quando Massimiliano è stato colpito da un ictus, nel 2014, non ha potuto opporre la stessa resistenza psicofisica a una situazione assurda che ci ha travolti e stremati».
Lei, subito dopo la notizia della chiusura del caso davanti alla Corte suprema indiana, ha detto: «Per la politica italiana siamo stati carne da macello». Cosa intende dire?
«Mi pare chiaro, c’è ben poco da aggiungere. Basta guardare le facce di bronzo che presentano questo esito come un successo della politica e della diplomazia italiana»
Sul suo profilo Facebook ha anche scritto: «Se mio marito è innocente, così come il suo compagno di sventura Girone, e saranno entrambi riconosciuti tali come è giusto che sia, che cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?».
«Le rispondo riproponendo la domanda: che cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?».
«Non lo so. Lo sta dicendo lei. Se è questo ciò che le viene in mente, forse è questa la risposta esatta».
A ogni modo, oggi è un bel giorno per i sottufficiali della Marina italiana, Latorre e Girone, possiamo dirlo?
Uno Stato irriconoscente?
«Dico solo che è lo stesso Stato che, con la giustificazione del segreto militare, adesso impone a Latorre e a Girone di tacere e addirittura di non partecipare nemmeno a manifestazioni pubbliche».
Se si guarda indietro, cosa pensa vi abbia aiutato di più ad andare avanti?
«L’affetto, il calore e il sostegno della gente comune. Anche degli sconosciuti. In tutto questo tempo ci hanno scritto e ci sono stati davvero vicino in tanti. Una solidarietà commovente».
Quali sono stati invece i momenti più neri?
«Quelli in cui avvertivamo la distanza o addirittura il senso di fastidio di chi doveva darsi da fare per risolvere questa vicenda. Sembrava volessero dirci: ancora con questa storia dei due marò? In quei momenti, ci guardavamo negli occhi e ci sentivamo sconfitti. Pensavamo di non doverne più venir fuori».
Si offende se le chiedo quanti anni ha?
«No. Perché ne intuisco il motivo. Ho 50 anni. Dieci anni fa quindi ne avevo 40. Ci hanno rubato quasi dieci anni. E quali anni...».
La guerra in Etiopia (e gli strani tweet di Tedros Ghebreyesus). Il conflitto dimenticato in Etiopia, tra accuse di genocidio, tensioni belliche e narrazioni dei media locali. Francesca Ronchin, 5 novembre 2022 su Nicola Porro.it il 5 Novembre 2022.
Fino all’ultimo, il Direttore Generale dell’Oms ha brandito lo spettro del genocidio in Tigray. Fino a poche ore prima dello storico accordo di pace siglato il 2 novembre a Pretoria, tra la Repubblica Democratica Federale dell’Etiopia e il Tplf, (il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray). Un accordo firmato sotto l’egida dell’Unione Africana, degli ispettori Onu e degli Stati Uniti i quali, se di genocidio si fosse trattato, difficilmente avrebbero approvato un accordo dal quale il governo etiope esce a dir poco vincente.
La guerra dimenticata
Il Tigray, regione nel Nord dell’Etiopia da due anni al centro di un complicato conflitto, torna infatti sotto il pieno controllo del governo etiope e il Tplf, il partito che l’ha controllato fino ieri, è ora costretto al disarmo totale. Eppure da giorni, nonostante la guerra fosse ormai agli sgoccioli e il Tigray già quasi del tutto sotto il controllo dell’esercito federale, il numero uno della sanità mondiale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, etiope di etnia tigrina, ha twittato quasi quotidianamente sul tema tirando in ballo persino il Museo americano dell’Olocausto.
Un’accusa, quella di genocidio, mediaticamente potente, ma ad oggi, mai confermata da nessuna commissione indipendente (crimini e violazioni dei diritti umani quelli sì e da entrambe le parti in guerra). Lo scenario evocato però ricorda un triste deja vu. Il 4 novembre esattamente di due anni fa, quando tutto ebbe inizio, quando il Tplf decise di accendere la miccia del conflitto e attaccare il comando militare nel nord della regione, prima ancora che l’esercito federale avesse il tempo di rispondere e quindi di mettere in atto un possibile genocidio. L’hashtag #tigraygenocide era già diventato virale grazie all’amplificazione di simpatizzanti e attivisti vicini alle istanze del Tplf, molti di questi residenti all’estero.
La forza dei media
Nello stesso modo, da giorni, si stava assistendo on line ad un simile tentativo di amplificazione grazie ad una serie di esperti d’Africa notoriamente vicini al Tplf (Martin Plaut, David De Wall, Kjetil Tronvoll tra gli altri) e al recupero da parte di International Crisis Group, Foreign Policy, Economist della narrativa secondo cui il TPLF sarebbe stato vittima di un’offensiva portata avanti dal governo federale. Narrativa sconfessata fin da subito in una tv etiope locale dagli stessi dirigenti del Tplf che avrebbero parlato di “attacco preventivo”. Dunque un vero e proprio tentativo di colpo di stato mediaticamente trasformato in una guerra difensiva.
Tra i principali alfieri di questa narrativa, da due anni, proprio il Dr. Tedros, come viene comunemente chiamato nonostante sia il primo numero uno della sanità a non avere una laurea in Medicina. Un pensiero fisso, il Tigray, che da mesi gli sta talmente a cuore da dichiarare apertamente in più occasioni che la questione “lo tocca personalmente”, da inserirlo nel corso di conferenze stampa dedicate all’Ucraina, da ricorrere persino al tema del razzismo pur di dirottare l’attenzione mediatica sulla regione. Una preoccupazione la sua che potrebbe essere legittima se il ruolo che ricopre non imponesse assoluta imparzialità. Il codice deontologico dell’organizzazione mondiale della sanità infatti impone ai propri dipendenti totale imparzialità, di astenersi dall’esprimere le proprie opinioni nonché dal prendere parte ad azioni politiche in grado di interferire con le politiche e gli affari di governo (sezione 5.8, parte 94, p.33-34).
“Fame come arma di guerra”
Le dichiarazioni del Dr. Tedros infatti non solo semplici appelli umanitari perché per timing e terminologia, seguono una traiettoria ben precisa. “Blocco agli aiuti”, “fame come arma di guerra”, “regione sotto assedio”. Esattamente le stesse accuse che da due anni a questa parte sono state lanciate contro il governo etiope dal Tplf. Peraltro spostando l’asticella sempre un po’ più in là. Dopo che per mesi il focus era la mancanza di cibo in Tigray, quando i report del World Food Program sugli invii di aiuti alla regione si sono intensificati (150 mila le tonnellate di cibo entrate nella regione da novembre 2020 grazie all’agenzia ONU) il problema è diventato la mancanza di corrente elettrica e servizi nella regione. Man mano però che nelle ultime settimane le forze federali entravano nelle aree controllate dal Tplf insieme alle forze speciali Amhara e alle milizie Fano, dunque ripristinando corrente elettrica e servizi essenziali, il problema è diventato il “possibile genocidio”.
Non solo. Dopo aver gridato al mondo di essere vittima di pulizia etnica e di una crisi umanitaria, curiosamente il Tplf ha trovato le risorse e le energie per attaccare le regioni circostanti Amhara e Afar provocando migliaia di morti e milioni di sfollati interni. Le dichiarazioni delle agenzie Onu inoltre hanno confermato il sospetto che i primi responsabili della crisi umanitaria in Tigray fossero proprio le presunte vittime. Il responsabile di Usaid in Etiopia Sean Jones lo aveva ammesso già a settembre 2021, interi magazzini di aiuti umanitari destinati ai civili erano stati saccheggiati dai ribelli del Tplf e lo scorso agosto, il portavoce Onu Stephane Dujarric aveva accusato sempre il Tplf di aver rubato 570 mila litri di carburante essenziale per le operazioni umanitarie del World Food Program proprio in Tigray. Di questo però sui media internazionali non si è praticamente parlato. Così come nessuna. Francesca Ronchin, 5 novembre 2022
Due parti inconciliabili. Somalia terra di vendetta, quella del bene contro il male. Sergio D'Elia su Il Riformista il 4 Novembre 2022
L’eterna lotta tra il bene e il male, la catena perpetua di azioni terribili e reazioni uguali e contrarie, la storia infinita di Caino e Abele hanno trovato nel Paese più povero, disgraziato e spietato del continente nero la rappresentazione più attuale. Nel Corno d’Africa dove nel secolo scorso l’Italia aveva trovato un posto al sole, della culla del diritto, di Cesare Beccaria, della moratoria italiana e universale della pena di morte, non è giunta la minima eco.
Il quinto comandamento, “non uccidere”, radicalmente nonviolento e illimitato finanche dalla legittima difesa, non è mai stato insegnato dai coloni che con la croce hanno portato anche la forca. Neanche la “legge del taglione”, concepita per pareggiare delitto e castigo, non ha conosciuto limite e moderazione. La pratica è andata oltre una vita per una vita, un occhio per un occhio, un dente per un dente, una mano per una mano, un piede per un piede. La Somalia è il Paese più assistito, protetto e armato dalla comunità internazionale, ma è quello più abbandonato da Dio e dagli uomini, più insicuro e violento dell’Africa. È il teatro dell’assurdo ciclo della vendetta del bene contro il male, dove il bene e il male non si distinguono, si confondono, gli attori in scena si specchiano gli uni nella violenza degli altri.
Da una parte ci sono i “cattivi”, gli Al-Shabaab, dall’altra ci sono i “buoni”, i militari somali che li combattono. Le parti sono inconciliabili. Solo la morte le concilia. Il delirio della “morte agli infedeli” dei terroristi islamici è omologato dal ricorso alla pena di morte degli anti-terroristi somali. In una settimana, a Mogadiscio, sono stati violati tutti i comandamenti, sono state infrante tutte le leggi. Il “non uccidere” scolpito su tavole di pietra è stato cancellato dal cuore degli uomini. L’occhio e il cuore non hanno avuto compassione: vite, occhi, denti, mani, piedi sono stati presi, cavati, amputati. Il 26 ottobre, due uomini – Aden Mohamed Ali Mohamud e Mohamed Ali Mohamed Farah – che avevano fatto strage di civili e funzionari governativi sono finiti davanti a un plotone di esecuzione presso l’Accademia di polizia Generale Kahiye a Mogadiscio.
La rappresaglia degli Al-Shabaab non si è fatta attendere. Il 29 ottobre, due autobombe sono esplose davanti al Ministero dell’Istruzione. Almeno 120 persone sono state massacrate, altre 300 sono rimaste ferite. La prima esplosione ha colpito un mercato affollato vicino a uno degli incroci più trafficati della capitale. La seconda è scoppiata pochi minuti dopo, quando sono arrivate le ambulanze e molte persone si erano radunate per aiutare le vittime. Il gruppo islamista ha rivendicato la strage davanti al Ministero dell’Istruzione, “centro operativo di una guerra delle menti che insegna ai bambini somali a usare programmi di ispirazione cristiana”. Nel giro di tre giorni, in un trasversale regolamento dei conti, il tribunale militare ha fatto fucilare sei miliziani responsabili di orribili attentati compiuti anche in altri tempi e in tutt’altri luoghi. Di solito, i tribunali militari danno spazio e tempo per fare appelli. In questo caso hanno fatto molto in fretta, tanta era la sete di vendetta per la strage degli innocenti consumata al mercato il giorno prima. Hassan Ali Moallim Barre, Nur Ibrahim Mahad-Alle e Isaak Keerow Adan sono stati legati stretti come salami a dei pali conficcati nella sabbia, e fucilati. Il giorno dopo, Jirau Abdullahi Ali, è stato giustiziato sulla pubblica piazza a Galkayo, lontano dalla capitale.
Ieri, alle prime luci dell’alba, altri due agenti Al-Shabaab sono stati messi al palo a Mogadiscio. Il numero di fucilati dal tribunale militare solo nelle ultime due settimane è salito a 10. “Il governo è deciso a ripagare i militanti di Al-Shabaab nella propria valuta di violenza”, è stato comunicato. Occhio per occhio, alla fine, la Somalia è diventata un Paese accecato dall’odio, paralizzato dalla paura, desertificato dalla violenza. Una terra dove abita solo Caino che come un Giano bifronte mostra da un lato la faccia feroce di Al-Shabaab e dall’altro il volto spietato dello Stato. I mezzi prefigurano sempre i fini. Non può esistere un “mondo buono” nel quale si risponde al male arrecando altro male, si costruisce la pace facendo la guerra, si edifica il “paradiso” pensando l’inferno. In Somalia, la vita di Abele, anche se fedele ad Allah, finisce nel “cimitero degli infedeli”. Quella di Caino, seguace dell’Islam e della Sharia, non genera figli costruttori di città.
Eppure esiste nella religione di Maometto un sentiero spirituale come quello dei Sufi votati a una fede priva di eccessi e a un insegnamento fondato sull’amore e la tolleranza. In un racconto Sufi, un maestro spiegò al discepolo cos’è la nonviolenza e cos’è il perdono ponendo un sasso al centro della discussione. Il violento lo userebbe come arma per fare del male, il nonviolento ne farebbe un mattone su cui edificare una cattedrale. Con il perdono l’uomo sceglie di trasformare i sassi della vita in amore. In ogni caso, afferma il maestro, la differenza non la fa il sasso, ma l’uomo.
Una catena infinita di vendette. Cosa sta succedendo in Somalia e perché da 10 anni si combatte senza sosta. Sergio D'Elia su Il Riformista il 2 Luglio 2021
La Somalia è la terra africana dove la storia millenaria di Caino e Abele continua a rappresentare una tragica attualità. I nemici dello Stato si chiamano Al-Shabaab. Lo Stato che li combatte è diviso in altrettanti Stati, tutti gelosi della loro indipendenza, uniti solo nella lotta senza quartiere al terrorismo islamico. Da oltre dieci anni gli uni, i “buoni”, si confrontano con gli altri, i “cattivi”. Si combattono senza sosta e si somigliano nella sostanza. La catena infinita dell’odio e della vendetta è un gioco di specchi delle parti in causa nel quale il bene e il male si confondono, il giusto e lo sbagliato si annullano.
La stessa legge, quella del taglione, ispira gli uni e gli altri, gli islamisti e gli anti-islamisti. L’amalgama di sistemi giuridici, di tradizioni e diritto consuetudinario, un tempo, disegnava un codice molto più civile della legge della Sharia che la Somalia a un certo punto ha introdotto nel tentativo di placare l’ira degli Al-Shabaab. Alla mossa politica “pacifista” del governo, gli estremisti islamici hanno corrisposto con una ferocia ulteriore e un integralismo religioso rafforzato. Gli Al-Shabaab hanno decapitato o fucilato centinaia di persone: cristiani o apostati dell’Islam, ladri, adulteri e maghi, spie al servizio del governo somalo, della forza militare dell’Unione Africana, della CIA e dell’MI6 inglese. La scena è sempre la stessa: un sedicente giudice coranico emette la condanna a morte davanti a centinaia di residenti convocati con gli altoparlanti al centro della città e costretti ad assistere all’esecuzione dei malcapitati legati a un palo. Dopo l’esecuzione, gli Al-Shabaab seppelliscono le vittime in luoghi chiamati “cimiteri degli infedeli”.
Il governo somalo risponde in automatico, e con una violenza uguale e contraria. Processi da giustizia sommaria sono celebrati da tribunali militari che operano ad ampio spettro e non vanno molto per il sottile. Non solo processano soldati accusati di reati militari, ma anche soldati, poliziotti, combattenti di Al-Shabaab e civili accusati di reati comuni. La velocità con cui le condanne a morte sono eseguite impedisce agli imputati di presentare ricorso e al Presidente di esaminare il caso per una possibile grazia o commutazione della pena. Anche le Nazioni Unite hanno espresso la propria preoccupazione per il “frettoloso” procedimento giudiziario che ha portato a decine di esecuzioni.
Domenica scorsa, nell’arco di una sola giornata, la Somalia ha vissuto una sequenza impressionante di azioni e reazioni, di cause ed effetti, di delitti e vendette. Al mattino, cento islamisti hanno attaccato Wisil, una piccola città nello stato di Galmudug. Al-Shabaab ha rivendicato l’azione che avrebbe causato 34 vittime tra le forze di sicurezza. Circa due ore dopo l’attacco a Wisil, le autorità dello stato del Puntland hanno giustiziato 21 uomini accusati di appartenere ad Al-Shabaab. Il giorno prima, il ministro della sicurezza del Puntland era sfuggito a un attentato dinamitardo di Al-Shabaab che avevano preso di mira il suo corteo di auto.
I 21 giustiziati per vendetta erano stati condannati in processi separati per una serie di omicidi e attacchi terroristici che sono costati la vita a leader regionali e comunitari, agenti di sicurezza e giornalisti. Diciotto di loro sono stati allineati vicino a una collina di sabbia fuori dalla città di Galkayo. Il plotone di esecuzione ha aperto il fuoco, giustiziandoli. Nelle stesse ore, altri tre uomini sono stati fucilati a Garowe e nella città di Qardho. È stata la più grande esecuzione singola di militanti di Al-Shabaab in Somalia. Domenica pomeriggio, un altro plotone d’esecuzione, stavolta di Al-Shabaab, ha giustiziato in pubblico sei persone, tra cui una donna di 36 anni, Fartun Omar Abkow. Erano accusate di spionaggio per conto della CIA e sono state fucilate in una piazza nella città di Sakow, nella regione del Medio Jubba. È stata la vendetta degli Al-Shabaab per l’esecuzione dei suoi militanti nel Puntland.
A New York, al Palazzo di Vetro, la Somalia ha sempre votato a favore della moratoria sulla pena di morte. A Mogadiscio, non hai mai smesso di praticarla presso l’Accademia di polizia del generale Kahiye. In questi anni, la comunità internazionale non gli ha mai chiesto conto di questa doppiezza. Anzi, ha continuato ad assistere la Somalia nel peggiore dei modi. Con il paternalismo della cooperazione allo sviluppo ha speso molto in “aiuto umanitario” e investito poco in Stato di Diritto. Con il militarismo nella lotta al terrorismo ha affidato la giustizia ai plotoni d’esecuzione dell’esercito somalo e ha praticato in proprio quella segreta e più sbrigativa delle uccisioni coi missili sparati dai droni. Occhio per occhio, la Somalia è diventata oggi un Paese accecato dall’odio, paralizzato dalla paura, desertificato dalla violenza. Una terra dove abita solo Caino. Sperando contro ogni speranza, scriviamo ora un’altra storia, in cui a emergere siano il diritto e la coscienza, grazia e giustizia. Sergio D'Elia
La ricostruzione. Chi sono gli al-Shabaab, gli estremisti islamici che hanno rapito Silvia Romano. Redazione su Il Riformista l’11 Maggio 2020
Il nome degli al-Shabaab è tornato alla ribalta con il rapimento della volontaria italiana Silvia Romano, rilasciata venerdì 8 maggio dopo 18 mesi di prigionia. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Roma e dai carabinieri del Ros, la 25enne è stata tenuta prigioniera in Somalia da uomini vicini al gruppo jihadista di al-Shabaab. Emersi nel 2006 dopo la sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte del Governo Federale di Transizione, gli al-Shabaab, dal 2008 sono nella lista delle organizzazioni terroristiche degli Usa e nel 2012 hanno giurato fedeltà ad al-Qaeda. Sono stati protagonisti e firmatari di sanguinosi attentati, tra cui quello al centro commerciale Westgate a Nairobi che nel settembre del 2013 costò la vita a 67 persone. Due anni dopo, nel 2015 fecero una strage contro un campus universitario in Kenya, con un bilancio di almeno 147 morti, e nel dicembre 2018 un attentato con autobomba a Mogadiscio che ha contato almeno 85 morti. E’ dello scorso settembre invece l’attacco degli al-Shabaab contro la base americana all’aeroporto militare di Baledogle, nello stesso giorno in cui a Mogadiscio una bomba è esplosa al passaggio di un convoglio di mezzi militari italiani.
GLI AL-SHABAAB – Definiti come la peste del Corno d’Africa in quanto identificati come uno dei più violenti gruppi di guerriglieri somali, gli al-Shabaab, in italiano “i giovani”, sono un movimento di resistenza popolare nella terra delle due migrazioni. La loro nascita è dovuta ad uno scopo preciso: quello di rovesciare il governo di Mogadiscio, utilizzando regolarmente attentatori suicidi contro il governo, i militari ed i civili. Di stampo islamico, il gruppo è opposto al TFG, Governo Federale Transitorio della Somalia, e a tutto ciò che non rientra nei canoni islamisti, oltre che essere alleato di al-Qaeda. Il gruppo dei ‘giovani’ inizia ad allinearsi ad al Qaeda sia nell’ideologia che nella tattica e ad avere come obiettivi i civili con attacchi suicida molto più frequenti. Infatti al-Shabaab fa leva sulla sua relazione con al Qaeda per attrarre combattenti stranieri, i cosiddetti foreign fighters e donazioni in denaro dai sostenitori della cellula jihadista.
Anche se i loro efferati attentati sono stati commessi in maniera ricorrente dal 2008, quando sono stati dichiarati terroristi dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, la loro esistenza risale al 2006 formando l’Unione dei Tribunali Islamici (ICU) che governavano la Somalia prima di essere cacciati da Mogadiscio con l’intervento delle truppe etiopiche. L’obiettivo principale del gruppo è quello di riconquistare tutte le terre storicamente “islamiche” ora in mano ai non credenti imponendo la stretta osservanza della Sharia Law o comunemente conosciuta come legge di Maometto. Questa formazione islamista è presente nelle regioni del sud della Somalia e mantiene vari campi di addestramento nei pressi di Chisimaio. Alcuni finanziamenti per al-Shabaab provengono dalle attività dei pirati somali, anche se per quanto riguarda le armi il loro principale rifornitore è l’Eritrea, da sempre nemico dell’Etiopia. L’attuale leader degli al-Shabaab è Ahmed Umar, nominato dopo che nel 2014 l’allora leader degli al-Shabaab, Ahmed Abdi Godane, è stato ucciso in un raid di un drone americano. Dal 2016 gli Stati Uniti, infatti, hanno intensificato i raid aerei, gli attacchi con droni e le operazioni contro il gruppo in Somalia.
Perché sempre più migranti scappano da Egitto e Tunisia. Alessandro Scipione il 28 ottobre 2022 su Inside Over.
La maggior parte dei migranti sbarcati illegalmente in Italia nel 2022 proviene da Egitto e Tunisia, due Paesi di cui il nuovo governo di Giorgia Meloni farebbe bene a occuparsi quanto prima. L’aumento dei flussi migratori, previsto da InsideOver, è il sintomo di una crisi economica e sociale che viene da lontano e che potrebbe avere gravi conseguenze non solo nel nostro Paese, ma in tutto il Mediterraneo. La nazione del presidente-generale Abdel Fattah al Sisi, ad esempio, vende gas naturale all’Europa ma non ha soldi per acquistare mangimi: gli allevatori sono costretti ad abbattere migliaia di pulcini e presto la carne potrebbe cominciare a mancare nei mercati.
Secondo l’agenzia di statistiche nazionale Capmas, il tasso di povertà nel Paese arabo più popoloso al mondo, con i suoi oltre 100 milioni di abitanti, è del 29,7%, mentre l’inflazione è salita al 16 per cento: circa 30 milioni di persone potrebbero presto non avere più denaro per sfamarsi. Ma la Tunisia è messa peggio. La gente si azzuffa per accaparrarsi panetti di zucchero, gli scaffali sono vuoti e i panettieri che non ricevono aiuti statali da 14 mesi minacciano di chiudere bottega. Ma la cosa più preoccupante è che a fuggire dal Paese nordafricano più vicino alle coste dell’Italia sono sempre più tunisini dei ceti medio-alti.
Flussi in aumento
Secondo i dati del Viminale, almeno 16.275 egiziani sono arrivati sulle coste italiane dall’inizio dell’anno fino alla mattina del 25 ottobre, in aumento del 214 per cento rispetto ai 5.182 sbarchi dello stesso periodo del 2021. Nell’anno in corso si è andata consolidando la cosiddetta rotta della Libia orientale, che vede gli egiziani salpare non solo dalle coste della Tripolitania ma anche della Cirenaica dominata dal generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica noto in Italia per aver sequestrato per 108 giorni i 18 pescatori di Mazara del Vallo.
I tunisini arrivati sulle nostre coste sono 16.130, ovvero 2.000 in più (+14,15 per cento) rispetto allo stesso periodo del 2021. Tra questi anche tanti minori non accompagnati, incluso il clamoroso caso della bimba tunisina di quattro anni sbarcata sola a Lampedusa a bordo di una carretta del mare insieme ad altri migranti. Flavio Di Giacomo, portavoce a Roma dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), ha detto all’Agenzia Nova che i flussi migratori irregolari dalla Tunisia verso l’Italia “stanno cambiando”. Non sbarcano più solo ragazzi disoccupati, ma anche professionisti della borghesia tunisina. “Questo vuol dire che la situazione in Tunisia, economica e non solo, è diventata così grave che anche i ceti medio-alti cominciano a partire”.
Il salvataggio del Fondo monetario
Una boccata di ossigeno per le vuote casse dei due Paesi arabi potrebbe arrivare dal Fondo monetario internazionale. Sabato 15 ottobre, l’Fmi le autorità della Tunisia hanno raggiunto un accordo preliminare per un programma di finanziamento di 1,9 miliardi di dollari: è la metà di quanto speravano i tunisini, ma dovrebbe bastare per mettere una toppa. Ma i primi fondi dovrebbero arrivare non prima di gennaio 2023 e nel frattempo i tunisini saranno costretti a tirare la cinghia.
Presto il Fondo potrebbe erogare un nuovo prestito anche all‘Egitto, il cui tracollo è stato finora evitato grazie al gas scoperto dall’Eni e ai petrodollari forniti dai Paesi arabi del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e recentemente anche i rivali del Qatar. Soldi in cambio di cosa? Probabilmente privatizzazioni, fluttuazioni delle monete nazionali, graduale rimozione dei sussidi statali: tutte misure giuste dal punto della sostenibilità macroeconomica dei due Stati, ma che potrebbero avere un forte impatto sociale sulle popolazioni.
La storia si ripete
Per decenni, l’accesso delle popolazioni ai generi alimentari sovvenzionati (pane, farina, zucchero ma anche carburanti) ha fatto la differenza tra la stabilità autoritaria e il caos in Medio Oriente. Nel 1977, il tentativo (fallito) del presidente egiziano Anwar Sadat di tagliare i sussidi per il pane fomentò rivolte popolari che provocarono 171 morti e centinaia di feriti.
Nel 1983-84 fu il presidente tunisino Habib Bourguiba ad affrontare rivolte per il pane dopo aver eliminato i sussidi su grano e semola. L’aumento dei prezzi delle materie prime (causato all’epoca da Stati Uniti e Canada) contribuì allo scoppio delle proteste in Tunisia nel 2008-2009 e al rovesciamento del presidente Zine El Abidine Ben Ali nel 2011.
Un decennio dopo, nel 2018-19, la rimozione dei sussidi per il pane in Sudan contribuì a far ripartire la rivolta popolare che portò alla deposizione del presidente Omar al Bashir. Ora la storia sembra ripetersi. Ecco perché l’Italia dovrebbe prestare particolare attenzione a una nuova, possibile ondata migratoria non solo da est, ma anche da sud.
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Dalla povertà in Sud Sudan alla povertà in Sudan. Il controesodo dei rifugiati. Matteo Fraschini Koffi su Avvenire
Una grave crisi sta colpendo i sudsudanesi che hanno lasciato il loro Paese per tornare a nord, in Sudan. Dopo anni di conflitto e un’economia allo stremo, i rifugiati sono costretti ad affidarsi agli aiuti umanitari per poter sopravvivere nei campi allestiti alla periferia della capitale sudanese, Khartum.
Sono oltre 800mila i profughi sudsudanesi arrivati o tornati in Sudan. “La vita è molto difficile, peggio di prima – ha commentato alla stampa Toka Ayman Agok, rifugiata sudsudanese e madre di nove figli –. Non sappiamo cosa dovremmo fare, qui in Sudan o giù in Sud Sudan”.
Quest’ultimo ha conquistato l’indipendenza nel 2011 dal Sudan dopo decenni di violenze per ottenere la tanto desiderata separazione dal nord. Ma in meno di due anni tutte le speranze sono svanite quando i focolai della guerra civile sono scoppiati nel 2013 nella capitale sudsudanese, Juba, e in numerose altre località del Paese.
Il disaccordo tra l’attuale presidente, Salva Kiir, e il suo vice, Riek Machar, continua a provocare sofferenze tanto che papa Francesco, nell’aprile del 2019, si era inginocchiato per baciare i piedi dei due leader sudsudanesi in visita in Vaticano.
“Mi sono ammalato e la mia vita in Sud Sudan era diventata troppo complicata – spiega Alissa Deng, un altro profugo arrivato in Sud Sudan dopo l’indipendenza –. Non riuscendo a trovare medicine o ospedali, ho deciso di tornare a Khartum”.
Anche la situazione politica in Sudan resta fragile dopo il golpe che ha spodestato l’ex presidente, Omar el Bashir, nel 2019. Il governo di transizione militare sta cercando di mantenere il potere nonostante le continue proteste facciano appello per la nomina di un governo civile.
La tratta di esseri umani è ancora un’emergenza umanitaria. LUCA ATTANASIO su Il Domani il 26 luglio 2022
Questo è un nuovo numero di Afriche, la newsletter decolonizzata di Domani che racconta l’Africa al plurale, a cura di Luca Attanasio e in arrivo ogni martedì pomeriggio. Per iscriverti clicca qui.
Care lettrici, cari lettori, il 30 luglio è la Giornata mondiale contro il traffico di esseri umani, una delle piaghe dell’umanità, un’emergenza assoluta che coinvolge milioni di individui in tutto il mondo, molti dei quali bambini, anche in tenera età. Questo numero è interamente dedicato a questo fenomeno.
A conclusione del numero di Afriche, le consuete news dal continente.
C’è il traffico di lavoro forzato (compravendita di esseri umani a scopo lavorativo), il traffico di migranti, lo sfruttamento del lavoro (domestico, agricolo, alberghiero, minerario e/o manifatturiero etc), il traffico sessuale, il traffico di bambini (venduti o forzati al matrimonio), l’utilizzo di minori nei conflitti (bambini soldato, usati come scudi umani, suicide bombers, schiavi/e sessuali delle truppe etc), lo sfruttamento di bambini per l’accattonaggio, il traffico di organi e di feti.
La lista delle schiavitù moderne, dell’utilizzo di esseri umani per scopi meramente commerciali, dello sfruttamento grave dell’uomo sull’uomo, si aggiorna e allunga di anno in anno. Con una creatività diabolica, si aggiungono “mansioni” e categorie che rendono un numero sempre maggiore di persone schiave in ogni latitudine del mondo.
La tratta di esseri umani è il processo attraverso il quale le persone sono forzate, attirate da false prospettive, reclutate e trasferite in un altro luogo, e costrette a lavorare e vivere in condizioni di sfruttamento o di abuso. Un fenomeno ramificato e complesso che coinvolge milioni di persone e che trova sempre nuove forme di perpetuazione e collaborazione, in alcuni casi anche da parte degli stati che hanno leggi non sufficienti a prevenirle.
25 milioni di vittime, 1/3 dei quali bambini
Le statistiche attorno al traffico degli esseri umani sono quanto mai aleatorie, è un fenomeno che si allarga e restringe a seconda delle aree, che vive nel sommerso e che gode di una profonda refrattarietà all’emersione anche da parte delle stesse vittime, terrorizzate per la propria vita e quella dei propri cari.
Gli ultimi dati confermano un aumento a livello mondiale e si calcola che le vittime di tratta siano circa 25 milioni, 1/3 dei quali sono bambini. A questo quadro drammatico si aggiunge il rapporto Unicef 2020, in cui si denuncia che un bambino su dieci nel mondo, in questo momento, è impiegato in un lavoro di sfruttamento. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) stima, inoltre, che il traffico di persone valga più di 150 miliardi di dollari l’anno, di cui oltre 50 provengono dallo sfruttamento del lavoro. Il 46 per cento degli individui sono donne, il 20 per cento uomini, il 19 per cento bambine e il 15 per cento bambini.
Nel 2013, con la Risoluzione A/RES/68/192, l’Assemblea generale ha istituito il 30 luglio quale Giornata mondiale contro la tratta di persone al fine di sensibilizzare la comunità internazionale sulla situazione delle vittime e promuovere la difesa dei loro diritti. Il tema di quest’anno è “Uso e abuso della tecnologia” e mira a evidenziare come la tecnologia sia uno strumento perfettamente ambivalente, che può favorire oppure ostacolare la tratta di esseri umani.
L’esigenza di riflettere su quest’ultimo aspetto deriva dall’espansione globale dell’uso della tecnologia, amplificato anche dalla pandemia e dall’irrompere globale nella nostra vita quotidiana delle piattaforme online. Il crimine dello human trafficking ha conquistato il cyber-spazio e il web offre ai trafficanti sempre più strumenti per reclutare, sfruttare e controllare le vittime, organizzarne il trasporto e l’alloggio e raggiungere sempre più potenziali clienti. Si aggiunga a tutto questo anche la progressiva capacità di eludere l’individuazione con facilità.
Allo stesso tempo, l’uso della tecnologia offre anche grandi opportunità, e il successo nella lotta alla tratta di esseri umani passa attraverso le modalità con cui le forze dell’ordine, i sistemi di giustizia penale e altri soggetti potranno sfruttare la tecnologia, come, peraltro, sta già ampiamente avvenendo.
Tra le realtà internazionali più attive nel contrasto alla tratta, che oltre a fare un lavoro capillare sul campo, dalle strade fino ai grandi hub di concentramento di schiavi nel mondo, svolge attività di lobby politica e opera in coordinamento con forze di polizia, di giustizia locali e internazionali, c’è Talitha Kum, il network di donne consacrate completamente dedicato al fenomeno.
Talitha Kum è presente in 92 paesi, con 55 reti nazionali e 6.039 persone coinvolte attivamente in azioni anti-tratta in tutti i continenti. 336.958 persone sono state raggiunte dal network in tutto il mondo nel 2021, mentre 258.549 persone hanno beneficiato di attività di prevenzione e sensibilizzazione in scuole, università, gruppi sociali e religiosi; 19.993 sono le vittime e i sopravvissuti accompagnati dalla rete a guarire dal trauma subito e a usufruire di un sostegno per evitare di essere nuovamente trafficate. Chi viene raggiunto dalla rete, ottiene formazione scolastica o professionale per il reinserimento sociale e professionale e molti degli operatori o operatrici sul campo, sono ex vittime riabilitate.
«Il perdurare della difficile situazione sanitaria globale causata dal Covid-19», spiega Suor Yvonne Clémence Bambara, referente di Talitha Kum per l’Africa, «ha limitato i nostri spostamenti ma siamo riuscite ugualmente a svolgere un’azione capillare. Per quanto riguarda l’Africa, 1.002 membri attivi di Talitha Kum, appartenenti a 12 reti che comprendono 132 congregazioni religiose e attivi in 21 paesi, hanno potuto collaborare con 46 organizzazioni cattoliche, 39 agenzie governative e 39 organizzazioni internazionali. L’azione di prevenzione e informazione ha raggiunto 147.406 scolari di scuole primarie e secondarie oltre che centri nodali per il contrasto come i media e le strutture ecclesiastiche. In Africa oltre 4mila vittime e sopravvissute alla tratta hanno ricevuto assistenza e protezione in strutture di accoglienza o in famiglie ospitanti, abbiamo inoltre accompagnato le vittime nei processi, facilitando l’accesso alla giustizia».
Le suore, in alcuni paesi, sono assurte a vero e proprio ruolo politico e svolgono attività di advocacy e, nel corso del 2021, hanno organizzato seminari di formazione in tutto il mondo per garantire i diritti delle persone trafficate e assicurare alla giustizia i trafficanti.
Il traffico di esseri umani sotto casa
L’Africa, l’Asia sud orientale e l’America Latina sono luoghi da cui si origina in buona parte il fenomeno e sono i luoghi che esportano nuovi schiavi in tutto il mondo. Ma se il traffico di esseri umani prospera e aumenta lo si deve alla crescita della domanda, anche sotto casa nostra.
«In provincia di Latina, per citare un esempio, migliaia di indiani impiegati come braccianti nelle relative campagne arrivano mediante trafficanti indiani in combutta con imprenditori locali, avvocati e anche leader della relativa comunità», spiega Marco Omizzolo, sociologo Eurispes, docente dell’Università La Sapienza, presidente di Tempi Moderni, «per un giro d’affari di diversi milioni di euro l’anno. Forze dell’ordine e procura, insieme ad alcune associazioni, sono fortemente impegnate contro questo crimine, ma senza una radicale revisione delle normativa sulle migrazioni, a partire dalla vigente Bossi-Fini, questo sistema di violazione dei diritti umani e del lavoro non terminerà. Non bisogna dimenticare, poi, che la denuncia è importante ma non basta, quello che chiedono le vittime è giustizia e un percorso di riconoscimento e tutela degno di un paese civile. È l’unico modo per evitare di continuare ad avere vittime di tratta internazionale e grave sfruttamento nella nostra società e nel nostro mercato del lavoro, alle dirette dipendenze di criminali e mafiosi».
“SUE”, UN FILM DI ELISABETTA LAROSA
Tra i contributi interessanti che affrontano il delicato tema del traffico di esseri umani, c’è Sue, un film documentario di Elisabetta Larosa, prodotto e distribuito dalla Movie Factory, con Joy Ezekiel, Rita Aghoghovwia e Isoke Aikpitanyi che interpretano loro stesse.
Il lavoro parte dalla storia vera di tre donne uscite dallo stato di schiavitù che «osano una speranza» restituendosi la dignità depredata. Il film documentario esplora i sentimenti di tre donne profondamente ferite che hanno avuto la forza, il coraggio di ricominciare a essere felici. Singolare nel suo genere, si scosta dai reportage sulle violenze, sul disagio, sulla solitudine, sui diversi tipi di sfruttamento, puntando a far emergere la rinascita, la gioia, l’affermazione della propria indipendenza, le fragilità, i sogni e le aspettative future.
Joy, 28 anni, Rita 36 e Isoke, 40, tutte in viaggio dalla Nigeria, rappresentano tre generazioni e tre vite diverse, tutte, però, accomunate dalla volontà di riscatto, frustrata e umiliata dagli schiavisti moderni. Tutte troveranno una via originale di libertà, si occuperanno di altre donne schiave, dimostreranno al mondo che al di là della violenza, del dramma e del dolore, ci sono la bellezza, la cultura, la passione.
Sue è il primo film tra quelli riconosciuti dal ministero della Cultura come film d’essai per valore artistico. È visibile sulla piattaforma Chili.
BURKINA FASO
Il presidente della Guinea-Bissau e attuale presidente dell’Ecowas (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) Umaro Sissoco Embalo, è volato a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, per discutere i tempi della transizione al governo civile del paese. A fine gennaio, il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba ha rovesciato il presidente Roch Marc Christian Kaboré, accusato di non essere stato in grado di contenere la violenza jihadista, e ha fatto del ripristino della sicurezza la sua “priorità”. Durante la visita, il presidente dell’Ecowas ha elogiato i progressi compiuti sulla sicurezza. Dopo la recente cancellazione delle sanzioni imposte al Mali dall’Ecowas, anch’esso governato da una giunta golpista, giunge quindi la notizia di una apertura dell’organismo dell’Africa occidentale verso un altro paese finito nel mirino delle misure sanzionatorie.
EGITTO
Secondo quanto riporta un’approfondita inchiesta del New York Times, gli oppositori politici di Abdel Fattah el-Sisi in Egitto sarebbero stati incarcerati su vasta scala e tenuti in detenzione preventiva. Da settembre 2020 a febbraio 2021, secondo le stime del quotidiano americano, circa 4.500 persone sono rimaste in stato di detenzione preventiva. Almeno un detenuto su quattro ha trascorso più di un anno in questo stato e i casi sono stati prolungati senza processo più e più volte.
RUSSIA/AFRICA e FRANCIA/AFRICA
Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha visitato la Repubblica del Congo, seconda tappa di un tour africano volto a rafforzare i legami di Mosca con un continente che ha rifiutato di unirsi alla condanna e alle sanzioni occidentali per l’invasione russa dell’Ucraina. Lavrov ha fatto visita all’Egitto e si recherà anche in Uganda e in Etiopia. Continua quindi la corte serrata di Mosca al continente africano dove è sempre più presente sia a livello commerciale che militare. Allo stesso tempo, il presidente francese Macron riprende rapidamente i suoi contatti con l’Africa e vola a Yaoundè, Camerun, nella sua prima visita ufficiale da quando è stato rieletto, per poi passare per Guinea Bissau e Benin.
LUCA ATTANASIO. Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017; Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni, settembre 2018.
Per combattere l’inflazione lo Zimbabwe si è inventato una nuova moneta d’oro. STEFANO CHIANESE su Il Domani il 25 luglio 2022
Il paese dell’Africa meridionale ha ufficialmente lanciato una nuova moneta legale in oro da vendere al pubblico nel tentativo di fermare l’inflazione in continua crescita nel paese. Gli analisti però sono dubbiosi sull’effettiva utilità della misura
Lo Zimbabwe ha ufficialmente lanciato una nuova moneta legale in oro da vendere al pubblico nel tentativo di fermare l’inflazione in continua crescita nel paese. La decisione, già in parte anticipata nei mesi scorsi, è stata annunciata lunedì dalla Reserve Bank of Zimbabwe. L’obiettivo della banca di stato è quello di generare una maggiore sicurezza nei mercati internazionali e cercare di stabilizzare la situazione economica del paese, che era in costante peggioramento.
Nelle settimane scorse, la Reserve Bank aveva alzato i tassi d’interesse dall’80 per cento al 200 per cento, il livello più alto al mondo. D’altra parte, l’inflazione è esplosa a quasi il 162 per cento, sostenuta dal collasso del cambio. La moneta locale reintrodotta nel 2019 ha perso in tre anni contro il dollaro degli Stati Uniti il 99 per cento del valore.
In questo contesto è avvenuta la scelta di introdurre questa nuova moneta in oro, per cercare di agganciarla al valore dell’oro a livello internazionale e stabilizzare l’economia del paese. Intanto con l’annuncio della Banca centrale sono state immesse le prime 2mila monete nelle banche commerciali. Il governatore della Reserve Bank of Zimbabwe, John Mangudya ha dichiarato come il primo lotto di monete è stato coniato fuori dal paese, ma l’obiettivo è che in poco tempo siano prodotte localmente. Ha inoltre aggiunto che le monete potranno essere usate per usi commerciali nei negozi.
Secondo l’economista dello Zimbabwe Prosper Chitambara, «il governo sta cercando di moderare l'elevata domanda di dollari statunitensi dal momento che a questa elevata domanda non corrisponde un’adeguata offerta».
LA SITUAZIONE ECONOMICA DEL PAESE
Lo Zimbabwe aveva già vissuto un periodo di terribile crisi economica e spirale iperinflazionistica nel 2008. Le scelte del governo di questi mesi rispondono anche ai timori dell’esperienza vissuta. Alla fine del 2008, infatti, i prezzi al consumo risultarono cresciuti del 250.000.000 per cento su base annua.
Poco dopo, la Reserve Bank of Zimbabwe fu costretta ad arrivare a stampare banconote da mille miliardi di dollari locali. Dovette poi smettere di stampare moneta, decidendo di usare valute straniere per gli scambi interni e con l’estero. Le principali valute utilizzate da quel momento sono i dollari statunitensi, i rand sudafricani, l’euro, le sterline e le rupie indiane.
LE ASPETTATIVE DELLA MISURA
Sempre stando all’economista dello Zimbabwe, Chitambara, intervistato da Associated Press, «questa misura non darà vantaggi all'uomo comune. Soprattutto perché non è probabile che abbia contanti in eccesso. Molte persone non hanno i soldi per il pane, figuriamoci dei risparmi». Ha però sottolineato come potrebbero esserci dei benefici per la popolazione in maniera indiretta, principalmente attraverso la moderazione dei prezzi dei beni di consumo. La moneta infatti potrà essere usata da aziende con liquidità in eccesso come riserva di valore e per avere asset da investire. Però, secondo l’economista, è probabile che le aziende continueranno a preferire l’utilizzo del dollaro.
Anche Steve Hanke, professore di economia presso la Johns Hopkins University degli Stati Uniti, si è detto scettico rispetto alla misura. L’economista statunitense ritiene che questa situazione di crisi economica poteva essere corretta solo con la piena adozione del dollaro americano.
IL CONTRABBANDO DELL’ORO
Diversi analisti poi sottolineano come con l’introduzione di questa nuova moneta potrebbe aumentare il contrabbando d’oro, fenomeno già molto presente nel paese. Il fatto che la banca centrale dello Zimbabwe debba acquistare l'oro dai minatori, anche minatori artigianali informali, potrebbe presentare delle problematiche da questo punto di vista.
La società di intermediazione mobiliare Morgan & Co, in un rapporto di market intelligence, ha scritto che: «Le consegne di oro in Zimbabwe si sono notevolmente riprese grazie ai favorevoli pagamenti in dollari Usa offerti ai minatori artigianali».
Il contrabbando di oro nel paese è un fenomeno dilagante. Si stima che il paese stia perdendo circa 100 milioni di dollari in oro al mese a causa del contrabbando, ha affermato il ministro degli interni Kazembe Kazembe.
Il contrabbando costa al paese circa 36 tonnellate d'oro all'anno, secondo un rapporto pubblicato questo mese dal Center for Natural Resource Governance, un organismo locale di controllo delle risorse naturali. Legalmente tutto l'oro estratto in Zimbabwe dovrebbe essere venduto alla banca centrale, ma molti produttori preferiscono contrabbandare l'oro fuori dal paese per ottenere il pagamento in dollari Usa. STEFANO CHIANESE
In Mozambico, tra gli sfollati di Cabo Delgado: un popolo in fuga dalla jihad. Ricco di risorse naturali, il nord del paese è attaccato dai fondamentalisti. Le ong sono a rischio, e i colossi dell’energia devono fermare gli impianti. Marco Benedettelli su L'Espresso l'11 luglio 2022. Non c’è ombra nel campo per sfollati. Manghi e baobab che di solito coi loro rami proteggono i villaggi africani sono assenti. È sotto il sole, nella sua kaya, lo spazio abitativo formato da capanna e cortile, che Modesta torna sul suo recente passato: «Sono arrivati di notte, urlavano in tante lingue, in kiswahili, in kimwani, in kimacua e in portoghese, sembravano diavoli dalla furia che avevano.
Marino Niola per “la Repubblica” il 17 luglio 2022.
A far regali c'è sempre da guadagnare. In gratitudine ma soprattutto in profit e benefit. Perché il dono è il migliore degli investimenti a lungo termine. A insegnarcelo non è stato un guru dell'economia, ma gli aborigeni delle isole Trobriand, in Melanesia, che del dare a piene mani hanno fatto il fondamento della loro società. La ragione del loro essere e del loro avere.
A far conoscere al mondo i segreti di questa economia regalistica è stato il celebre antropologo polacco Bronislaw Malinowski, in uno dei libri chiave della storia dell'antropologia, Argonauti del Pacifico occidentale, uscito un secolo fa.
In quel momento Malinowski è professore alla London School of Economics. Anche se in realtà l'incontro rivelatore con i trobriandesi è avvenuto otto anni prima, mentre il giovane ricercatore di Cracovia si trova nei Mari del Sud per studiare le popolazioni della Nuova Guinea, allora sotto amministrazione australiana.
Lo scoppio della Prima guerra mondiale lo mette nelle condizioni di essere un cittadino di un paese nemico, in quanto suddito dell'impero austroungarico e perciò gli toccherebbe l'internamento in un campo di prigionia.
Ma l'intraprendente Bronislaw riesce a convincere le autorità di Canberra a confinarlo nell'arcipelago delle Trobriand, oggi isole Kiriwina. Da lì infatti non può scappare, ma in compenso può continuare le sue ricerche sugli usi e costumi delle tribù di quegli atolli corallini che si distendono tra la Nuova Guinea e le isole Salomone.
Il 1915 è un annus horribilis per l'Europa, ma è un anno fortunato per l'antropologia. Perché appena messo piede su quelle spiagge, dove il vento mormora tra le palme, Malinowski viene subito colpito da un'usanza che ai suoi occhi di occidentale, nutrito di economia politica, sembra priva di qualsiasi logica.
Gli indigeni affrontano le onde dell'oceano a bordo delle loro leggerissime piroghe per portare doni agli abitanti di isole lontane. Una generosità incomprensibile sul piano del rapporto costi-benefici, visto che le imbarcazioni lanciate su quelle acque tempestose e infestate di squali trasportano collane di conchiglia rossa e braccialetti di conchiglia bianca. Chincaglieria senza valore, non certo beni di prima necessità.
E come se non bastasse, questi monili da poveri vengono regolarmente sbolognati da coloro che li hanno ricevuti agli abitanti dell'isola più vicina. Che a loro volta li indossano un po' di tempo per farsi belli e poi prendono a loro volta il mare per andare ad offrirli ai popoli di altre terre.
A complicare il tutto c'è il fatto che le collane (soulava) viaggiano in senso orario mentre i braccialetti (mwali) in quello antiorario. Il risultato è un ampio circuito di scambi che nella lingua locale si chiama kula. Apparentemente un circolo vizioso per cui il cadeau finisce per tornare nelle mani del primo donatore dopo un giro di qualche anno.
Un po' come certi nostri regali che, a furia di essere riciclati, tornano al mittente come un boomerang. Ma per i trobriandesi questa sorta di sbolognamento sistematico è un valore aggiunto. Perché ogni passaggio di mano carica l'oggetto di pregio. Che sta in buona parte in un plusvalore relazionale.
Lo strano scambio viene raccontato in questo capolavoro con grande acume e con una prosa avvincente da Malinowski. E in più l'introduzione al volume è di un'autorità come James George Frazer, autore de Il ramo d'oro, la bibbia dell'antropologia d'antan, che ispira il Freud di Totem e tabù e il Conrad di Cuore di tenebra.
Argonauti diventa subito un bestseller perché il pubblico ne coglie la novità. Che consiste nella narrazione in presa diretta, frutto dei quattro anni di full immersion dell'autore nella vita degli isolani, di cui apprende usi e costumi, lingua e religione, ethos e pathos. Per la prima volta, l'antropologo smette di essere un semplice osservatore, ma partecipa alla vita delle persone e impara a vedere il mondo con i loro occhi.
Di fatto con questo libro nasce la nostra idea di ricerca sul campo, che da allora diventa il rituale di iniziazione al mestiere di antropologo e che da allora va sotto il nome di "osservazione partecipante".
Al tempo stesso lo scambio kula diventa un rompicapo per gli economisti occidentali che non riescono a trovare il senso di un comportamento tanto irrazionale. E concludono che si tratta di un classico esempio di irrazionalità economica, roba da primitivi che, incapaci di calcolare costi e benefici, sprecano il tempo a scambiarsi oggetti, per di più senza guadagnarci un soldo.
Ma l'imperturbabile polacco risponde colpo su colpo, sbattendo in faccia agli scettici la soluzione del rebus, l'algoritmo segreto che governa quella strana usanza. In realtà secondo Malinowski la ragione di quella impresa, apparentemente inutile, non sta nel valore d'uso degli oggetti, bensì nel loro valore di scambio. Che si fonda soprattutto sulle alleanze, le partnership e le joint venture prodotte da quel circuito di reciprocità.
Il dono insomma funziona come un contratto sociale e fa di tante popolazioni straniere, lontane e potenzialmente nemiche, una sorta di confederazione. Che usa lo scambio di braccialetti contro collanine per fare uscire le isole dal loro isolamento e farne un solo grande arcipelago.
Fra l'altro con questo libro Malinowski ispira anche le teorie contemporanee del convivialismo e dell'antiutilitarismo, perché fa scoprire al lettore che il dono è l'origine stessa del legame sociale, il gesto primario che fa uscire l'individuo da sé stesso e lo lega agli altri in una rete che assicura protezione, solidarietà, reciprocità. E di conseguenza anche guadagno. Insomma, Argonauti ci svela l'origine dell'homo oeconomicus.
Rifugiati, voci che gridano (nel deserto). Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il Riformista il 20 Giugno 2022
C’è un popolo la cui voce grida nel deserto e che si muove spesso nell’indifferenza della grande politica e dei suoi grandi interessi: sono i rifugiati che secondo l’UNHCR è giunto al suo numero più alto negli ultimi cinquant’anni: quasi 100 milioni le persone. Persone e storie di abbandono del proprio paese in guerra, a causa di violenza e discriminazioni. Parliamo quindi di popolo che fugge (e cerca rifugio altrove) per povertà e carestia causate dai cambiamenti climatici, la cui tragedia interpella le coscienze di tutti, soprattutto noi figli di quel mare mediterraneo che aveva sentito come urgente e umanizzante quella filoxenia (di matrice greca e poi ebraico-cristiana) che è capacità di accogliere e integrare le diversità e farne un equilibrato e armonico sviluppo sociale.
Pochi passi avanti ma intermittenti e indolenti se vogliamo – dichiara il presidente della fondazione Migrantes Gian Carlo Perego – e se da una parte ” è apprezzabile la proposta europea che finalmente impegna ogni Paese, seppur in forma diversa, diretta o volontaria, alla solidarietà nei confronti di richiedenti asilo e rifugiati, dall’altra non si può non denunciare il ritorno alle deportazioni di ucraini in Russia e di migranti, per lo più asiatici, dall’Inghilterra in Rwanda, nonostante le condanne della Corte europea dei Diritti umani. Così come va negativamente segnalato l’aumento del numero dei morti nel Mediterraneo, sebbene siano diminuiti gli arrivi o la diversa attenzione prestata a richiedenti asilo e rifugiati di diversi Paesi; e – non ultimo – la crescita di violenze nei campi profughi di Libia, Sud Sudan, Ciad.
L’UNHCR celebrerà la Giornata Mondiale del Rifugiati il 20 giugno con una tavola rotonda dal titolo Rifugiati, dall’asilo all’integrazione: partnership e soluzioni innovative per una crisi senza precedenti Rappresentanti istituzionali, del settore privato e della società civile si confronteranno sulla condivisione delle responsabilità nel trovare soluzioni durevoli che permettano ai rifugiati non solo di accedere all’asilo, ma anche di costruire un futuro migliore per sé e per le comunità che li accolgono.
I PROFUGHI DIMENTICATI. Le dieci crisi umanitarie in Africa che il mondo ignora. LUCA ATTANASIO su Il Domani il 06 giugno 2022
È la denuncia del report annuale del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc), Il dato evidenzia l’allargamento delle crisi umanitarie nel continente africano e denuncia il pressoché totale disinteresse del mondo a contenerle.
Sono, nell’ordine, Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Sebbene lontano migliaia di chilometri, il conflitto ucraino arriva a far sentire i propri effetti anche in Africa.
Oltre all’aiuto diretto un fondamentale passo per cominciare ad affrontare in modo serio le tante crisi dimenticate sarebbe quello di immaginare un’accoglienza di parte dei profughi legale e organizzata.
Questo è un nuovo numero di Afriche, la newsletter decolonizzata di Domani che racconta l’Africa al plurale, a cura di Luca Attanasio e in arrivo ogni martedì pomeriggio.
Lettrici e lettori di Afriche, ciao a voi. In questo nuovo numero, un articolo sul recente rapporto del Consiglio norvegese per i rifugiati evidenzia che le dieci crisi di profughi più neglette al mondo, sono in Africa. Una nuova testimonianza, se ce ne fosse ancora bisogno, di come il pianeta si disinteressi, se non per sfruttarlo, del continente. A seguire un contributo di Lorenzo Barraco, un giovane studioso di Global South, che segnala come il panafricanismo stia tornando di moda. Prima delle consuete news dal continente una recensione di un libro sul cardinal di Bangui, in Repubblica Centrafricana, il più giovane al mondo, noto per la sua opera di pace e dialogo in un paese dilaniato dal conflitto. Buona lettura.
L’AFRICA SEMPRE PIÙ NEGLETTA
Secondo l’autorevole report annuale del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc), le dieci crisi di profughi più neglette sono – per la prima volta – tutte in Africa. Il dato è doppiamente allarmante, da un lato infatti evidenzia l’allargamento delle crisi umanitarie nel continente, dall’altra denuncia il pressoché totale disinteresse del mondo a contenerle.
Il Nrc pubblica ogni anno una lista delle dieci crisi più dimenticate dalla comunità internazionale tenendo conto di tre criteri: la carenza di copertura mediatica, la mancanza di volontà politica a trovare soluzioni e, conseguenza ovvia, la penuria di finanziamenti per le emergenze. I paesi con le crisi più trascurate secondo il Nrc sono, nell’ordine: Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia.
Sebbene lontano migliaia di chilometri, il conflitto ucraino arriva a far sentire i propri effetti mefitici anche in Africa. Alla cronica indifferenza verso il “continente nero”, infatti, si aggiunge lo spostamento massiccio di interesse del mondo occidentale verso la guerra che si combatte nell’est europeo. «Diversi paesi donatori», sostiene il segretario generale di Nrc Jan Egeland «stanno decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa per reindirizzare i fondi all’accoglienza di ucraini».
Lo studio riporta ancora una volta come attuale la questione del’europocentricità e del vuoto di informazione nel vecchio continente – particolarmente in Italia – attorno all’Africa e l’elevato tasso di retoriche fuorvianti. Nei primi tre mesi di guerra in Ucraina, sottolinea il Nrc riprendendo Meltwater, sono stati scritti in media 85mila articoli al giorno in inglese sulla crisi. In tutto il 2021, invece, solo per citare un esempio, gli articoli in inglese sulla questione degli sfollati in Burkina Faso, sono stati in totale 27mila. In Italia, il dato scende a livelli irrisori.
Se pensiamo al rapporto che lega l’Europa all’Africa, lo vediamo ancora pieno zeppo di stereotipi e pensiero colonialista. La scarsa presenza nei nostri media nel continente africano, così come il sostanziale disinteresse per le sue sorti, e la deuropizzazione in atto, sono anche il frutto di narrazioni devianti. Un caso clamoroso è la retorica delle migrazioni: l’Europa crede di essere cinta d’assedio da una massa informe di profughi africani che stanno per invaderci. La percezione, del tutto erronea, è da decenni alla base di strategie politiche che stanno rendendo il vecchio continente sempre più simile a una fortezza inaccessibile.
La prova più fisica e lampante di questo discorso sono i 1.000 km di sbarramenti illegali eretti all’interno dell’Ue, in alcuni casi anche in area Schengen, tutti in funzione antimigrante, dalla caduta del muro di Berlino a oggi: una muraglia sei volte più lunga di quella costruita nel 1961, che si snoda per tutto il continente. A completare l’opera di sterilizzazione europea, ci sono gli accordi dell’Italia con la Libia per contenere e intercettare i barconi di migranti che, dopo mesi o anni di concentrazione nei lager, tentano il disperato arrocco all’Europa, quelli della Ue con la Turchia che “accoglie” 3,7 milioni di migranti provenienti da oriente in cambio di sei miliardi di euro e le strategie di controllo di Frontex, la polizia di frontiera europea, alla ribalta della cronaca per possibili abusi.
L’80 PER CENTO DEGLI SFOLLATI INTERNI SONO AFRICANI CHE RESTANO IN AFRICA
Il risultato raggiunto riguardo al numero decisamente ridotto di ingressi di migranti forzati in Ue – 200mila nel 2021 (dati Frontex), di cui circa 50mila in Italia – è considerato da molti un successo. In realtà è il frutto di una politica che prima che dall’umanità, è lontana dalla realtà.
Come evidenziano centinaia di rapporti sul campo, ultimo in ordine di tempo quello di Nrc, la stragrande maggioranza dei profughi africani non pensa neanche lontanamente all’Europa come meta, ma a salvarsi la vita approdando in un luogo appena più sicuro del proprio, nel più breve e meno dispendioso metodo possibile.
Dei circa 60 milioni di sfollati interni registrati nel 2021 nel mondo, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, l’80 per cento sono africani che restano in Africa. Molti di quelli che sconfinano, vanno in paesi limitrofi.
Oltre all’aiuto diretto, quindi, un fondamentale passo per cominciare ad affrontare in modo serio le tante crisi dimenticate nel mondo sarebbe quello di immaginare un’accoglienza di parte dei profughi legale e organizzata. Non è impossibile né difficile, e la risposta ammirevole dell’Ue nel caso della guerra in Ucraina e il decreto del 4 marzo di attuazione alla direttiva sulla protezione temporanea agli sfollati (almeno un anno estendibile a tre, ndr) firmato in poche ore all’unanimità sono lì a testimoniarcelo.
«La guerra in Ucraina», riprende Egeland, «ha dimostrato l’immenso divario tra ciò che è possibile fare quando la comunità internazionale si unisce e la realtà quotidiana di milioni di persone che soffrono in silenzio nel continente africano, che il mondo ha scelto di ignorare».
GLI STATI UNITI D’AFRICA TRA GOVERNI E SOCIETÀ CIVILE: NKRUMAH TORNA ATTUALE
(contributo di Lorenzo Barraco, studioso di Africa sub-sahariana e Global South)
Lo scorso 25 maggio si è celebrato l’Africa Day, l’anniversario della nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), avvenuta nel 1963. Il think tank Timbuktu Institute ha dedicato l’intera settimana al tema del panafricanismo e il suo direttore, Bakary Sambe, ha sottolineato come la società civile africana sembri percepire maggiormente l’esigenza di una unità panafricana rispetto ai leader politici.
L’intervista al direttore è apparsa sulla piattaforma AfricTivistes, un blog di giovani attivisti digitali che promuovono la democrazia nel continente con un approccio panafricanista. Nonostante gli innumerevoli ostacoli che si frappongono tra gli attori in gioco, anche le élite politiche africane sembrano tuttavia aver intravisto nel panafricanismo il giusto motore per portare avanti le ambiziose aspirazioni dell’Agenda 2063, adottata ufficialmente dall’Unione Africana (UA) nel 2015.
Fonte di ispirazione di questo documento, nonché delle giovani generazioni di attivisti panafricanisti, è la figura di Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente. Nel 1963 Nkrumah pubblicò un breve saggio dal titolo Africa must unite, nel quale enunciava i princìpi alla base di quelli che sarebbero dovuti diventare gli Stati Uniti d’Africa. Questa nuova entità sovranazionale, fondata sull’unione politica ed economica del continente, avrebbe permesso all’Africa di svincolarsi dai paradigmi eurocentrici, sconvolgendo i confini di derivazione coloniale e superando la balcanizzazione imposta al continente. Così facendo, l’Africa si sarebbe posta nel panorama internazionale forte della sua personalità decolonizzata, grazie a una riesumazione dei valori tradizionali brutalmente sfregiati dal colonialismo. Solo la realizzazione degli Stati Uniti d’Africa avrebbe potuto permettere una reale indipendenza economica e culturale ed eliminato totalmente le insidie del neocolonialismo.
La visionaria prospettiva di Nkrumah non ottenne all’epoca il consenso sperato, ma il suo progetto resta ad oggi di grande rilevanza. Non è un caso, infatti, che l’Agenda 2063 si prefiguri anche la realizzazione di una confederazione di stati e di un passaporto comune a tutti gli africani. La fragilità in cui versa oggi l’UA sembra d’altronde dimostrare l’esigenza di un’integrazione più coordinata e radicale, così da fornire all’organizzazione gli strumenti idonei ad affrontare le complesse sfide che il nostro secolo riserva al continente.
Lo “nkrumaismo” rappresenta ancora oggi un motore che può alimentare una completa decolonizzazione, implementando soluzioni vicine alle reali esigenze dei popoli africani. Secoli di dominazione straniera non possono essere cancellati in un sessantennio, ma tentare di comprendere sfide e soluzioni afrocentriche – come il panafricanismo di Nkrumah – risulta fondamentale, anche per un osservatore europeo, per cominciare a guadare all’Africa con occhi nuovi e decolonizzati.
LA MIA LOTTA PER LA PACE. CENTRAFRICA, UN CARDINALE PER IL DIALOGO
Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, classe 1967, è il cardinale più giovane al mondo. Ma la fama, più che dall’anagrafica, gli deriva dall’impegno speso per la pace nel suo paese tormentato da una guerra sanguinosa, e dalla lotta per il dialogo avviato tra varie fedi al fine di ristabilire la calma e smentire chi soffia sull’odio etnico e religioso.
Nel dicembre 2013, all’apice del conflitto, quando le milizie anti-Balaka lanciarono una spaventosa campagna militare contro i musulmani, il cardinal Nzapalainga accolse nella sua residenza l’Imam Omar Layama, presidente della Central African Islamic Community, e la sua famiglia. Ergendosi a modello di convivenza e amicizia al di là delle differenze, il porporato e il leader islamico lanciarono un messaggio al proprio paese e al mondo intero dilaniato da conflitti legati a religioni e culture, e si guadagnarono il significativo titolo di “gemelli di Dio”.
Mentre i villaggi vengono saccheggiati, esplodono rivalse e si perpetuano stragi, Nzapalainga inizia, insieme all’imam e al presidente dell’Alleanza evangelica, a percorrere il paese per scongiurare la gente a non farsi vendetta, per difendere gli inermi dai violenti e bandire la guerra. Invitando tutti, con la parola e l’esempio, a non tirare in ballo la religione per giustificare la malvagità dell’odio. Più volte minacciato di morte, rimasto al proprio posto quando avrebbe potuto fuggire, il cardinale di Bangui, assieme a leader religiosi e società civile, sta scrivendo una nuova pagina di Vangelo dimostrando che la fraternità universale non è un diversivo per anime belle.
In Nigeria
Drammatico attentato domenica 5 giugno nella chiesa cattolica di San Francesco, stato di Ondo, nel sud-ovest del paese. Alcuni uomini armati hanno aperto il fuoco sui fedeli nel corso della messa causando decine di morti, tra cui bambini, e molti feriti. Alcuni astanti, tra cui il sacerdote che presiedeva, sono stati rapiti. Secondo i primi drammatici conteggi, i morti sarebbero almeno 50 ma c’è chi parla di cifre più alte. Appena la notizia è stata battuta, il pensiero è andato alle famigerate milizie di Boko Haram o dell’Iswap (Islamic State West Africa Province). In realtà, non sembrano esserci elementi che colleghino l’atto alla matrice islamica né al conflitto tra i fulani (pastori semi-nomadi, in gran parte musulmani) e agricoltori (di maggioranza cristiana). L’attentato, il peggiore della storia recente, resta quindi avvolto al momento nel mistero e getta il grande paese africano, sospeso tra sviluppo ed enormi problemi di sicurezza e povertà, nello sconcerto generale.
In Mali, Guinea e Burkina Faso
I capi di stato del blocco regionale di 15 nazioni, noto come Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), hanno per il momento congelato ulteriori sanzioni contro i governi golpisti di Mali, Guinea e Burkina Faso, i cui leader continuano a insistere sul fatto che ci vorranno anni prima che si possano tenere nuove elezioni (precondizione richiesta dall’Ecowas per ristabilire i contatti con i tre stati attualmente sospesi dall’Ua e allentare le durissime sanzioni). L’incontro di sabato 4 giugno ha segnato l’ultimo tentativo del blocco regionale di fare pressione sui leader militari dei tre paesi africani per ripristinare l’ordine costituzionale e indire elezioni democratiche. Il 3 luglio, nuova riunione per discutere se accettare proroghe o insistere sulle sanzioni e sull’isolamento, condizioni che aggraverebbero una situazione umanitaria già al collasso, oltre che per la sicurezza, per l’impatto della pessima stagione delle piogge e della guerra russo-ucraina.
In Repubblica Democratica del Congo/Belgio
Il re Filippo del Belgio ha iniziato oggi martedì 7 giugno una storica visita nella Repubblica Democratica del Congo, in quella regione crudelmente sfruttata dai suoi antenati, mentre le tensioni, uno dei tanti lasciti avvelenati dalla monarchia belga, aggravato da sfruttamenti e neocolonialismi, aumentano specie nelle regioni del Kivu e dell’Ituri, a est del paese.
Il viaggio di sei giorni, su invito del presidente Felix Tshisekedi, ha un forte significato simbolico, in quanto arriva due anni dopo che il re aveva espresso al leader congolese il suo «profondo rammarico» per le «ferite» della colonizzazione. La visita, la prima del monarca da quando è salito al trono nel 2013, è stata annunciata come un’occasione di riconciliazione dopo le atrocità e gli abusi commessi sotto il dominio coloniale belga. Si calcola che in quello che era stato nominato Congo belga, milioni di persone siano state brutalmente uccise, mutilate o siano morte di malattia mentre lavoravano nelle piantagioni di caucciù di Leopoldo II, monarca del Belgio dal 1865 al 1909, fratello del bisnonno di Filippo e noto per essere stato uno dei più crudeli esponenti dell’Europa colonialista, criticato addirittura da altre potenze come Inghilterra o Francia proprio per la sua spietatezza.
LUCA ATTANASIO. Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017; Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni, settembre 2018.
Da leggo.it il 21 maggio 2022.
«Abbiamo paura perché sappiamo che chi ha preso i nostri familiari è molto pericoloso»: Vito Langone, raggiunto dall'Ansa, ha espresso così tutta la sua preoccupazione per il fratello Rocco, la moglie Donata e il loro figlio Giovanni rapiti in Mali. «Chiedo allo Stato italiano che li faccia tornare a casa al più presto» ha aggiunto spiegando che l'altro figlio di Rocco, Daniele, «dovrebbe essere partito stamattina per la Farnesina».
La sorella: era felicissimo
«Era felicissimo, si era trasferito in Mali perché lì si viveva bene e anche il clima, con il caldo asciutto, era favorevole»: così Anna Maria Langone - sorella di Rocco, rapito in Mali insieme alla moglie e al figlio - ha risposto al Giornale Radio Rai della Basilicata che l'ha raggiunta nella sua casa di Ruoti (Potenza).
I tre sequestrati nel Paese africano sono Rocco Langone, di 64 anni, la moglie, Maria Donata Caivano (conosciuta come Donatella), di 63, residenti da anni a Triuggio (Monza Brianza), e il loro figlio, Giovanni Langone, di 42, residente a Lissone (Monza Brianza). Anna Maria Langone ha raccontato alla giornalista Manuela Mele di aver sentito telefonicamente il fratello «una quindicina di giorni fa. Era felicissimo», ha aggiunto. «L'altro mio fratello lo aveva sentito per telefono la sera prima del sequestro ed era tranquillissimo, ma i rapitori era già dietro la sua porta».
Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 21 maggio 2022.
Sono andati a prenderli a casa, nel cuore della notte. Pare fossero in quattro, a bordo di una Toyota. Armati, ma non hanno dovuto sparare un colpo. Hanno prelevato il 64enne Rocco Langone, la moglie Donatella, 62 anni, e il figlio Giovanni, 43, tutti originari di Potenza ma residenti da anni nel Milanese. Con loro hanno caricato in auto anche un altro uomo, un cittadino del Togo.
Poi sono scappati nel deserto. Nel villaggio poco fuori la cittadina di Koutiala, a 270 chilometri da Bamako, capitale del Mali, nessuno ha visto niente. O, almeno, è stato difficile trovare testimoni.
La famiglia italiana vive lì da diversi anni, all'interno di una comunità di Testimoni di Geova: perfettamente integrati, tanto da scegliere di usare nomi locali e il cognome Koulibaly. In ogni caso, non sono registrati all'Aire, l'anagrafe degli italiani residenti all'estero. Secondo fonti maliane, si sarebbero trasferiti in quell'angolo di Africa per aprire una chiesa, o meglio una «sala del Regno».
Ma, se fosse vero, non si tratta di un progetto avviato dalla Congregazione cristiana dei testimoni di Geova in Italia, che ha fatto sapere di non avere «missionari inviati in quel Paese» e che i tre sono in Mali «per motivi personali».
Del resto, la zona dove è avvenuto il rapimento, vicina al confine con il Burkina Faso, è ritenuta molto pericolosa, con una fortissima presenza di miliziani jihadisti. E la situazione è diventata ancora più complicata dopo il ridimensionamento dell'operazione antiterrorismo «Barkhane», portata avanti dalle forze armate francesi nel Sahel.
Il primo sospettato del blitz dell'altro ieri sera è il Jnim (Jama' at Nasr al-Islam wal Muslimin) o Gsim, Gruppo di supporto per l'Islam e i musulmani, organizzazione paramilitare di ideologia salafita considerata il ramo ufficiale di al-Qaeda in Mali. Sono stati loro a rapire, ormai più di un anno fa, il giornalista francese Olivier Dubois, collaboratore di Liberation, tuttora prigioniero.
Lo scorso 13 marzo è apparso sui social network un video in cui l'uomo si rivolge ai suoi parenti e al governo di Parigi, affinché si impegnino per la sua liberazione. In passato, però, anche altri italiani sono stati vittime di rapimenti nella regione. I precedenti italiani Nel settembre 2018 toccò a padre Pier Luigi Maccalli, sacerdote cremonese della Società delle Missioni Africane: sequestrato mentre si trovava in Niger, ma poi rilasciato proprio in Mali ben due anni dopo, nell'ottobre 2020. Insieme a un altro italiano, Nicola Chiacchio, che era stato invece rapito in Mali nel febbraio 2019, mentre viaggiava in bicicletta.
I due hanno raccontato di essere stati tenuti prigionieri sia nelle aree desertiche del Mali che nella zona rocciosa a nord, da tre diversi gruppi jihadisti, legati comunque alla galassia di al-Qaeda. Con loro, per un certo periodo ci sono stati il padovano Luca Tacchetto e la fidanzata canadese Edith Blais. Sequestrati nel dicembre 2018 in Burkina Faso, erano poi riusciti a fuggire nel marzo 2020. La speranza è che si arrivi presto a un epilogo positivo anche per la famiglia Langone.
La Farnesina fatto sapere che «l'Unità di Crisi del ministero degli Esteri sta compiendo le dovute verifiche e accertamenti» e che «il ministro Di Maio sta seguendo in prima persona l'evolversi della vicenda». Certo, i rapporti con le autorità maliane non sono semplici, visto che il Paese africano è governato da una giunta militare, dopo ben due colpi di Stato, nel 2020 e nel 2021.
Da una decina di anni è una sorta di buco nero del terrorismo islamico ed è ormai entrato nell'orbita della Russia, tanto che le autorità di Bamako hanno chiesto e ottenuto il supporto dei mercenari russi dell'armata «Wagner» per frenare l'avanzata jihadista. Il caso vuole che proprio ieri il ministro degli Esteri del Mali, Abdoulaye Diop, fosse a Mosca per incontrare l'omologo russo Serghei Lavrov, il quale non ha mancato di sottolineare come in Mali «la situazione della sicurezza rimane estremamente difficile».
Il fratello Vito: «Ho paura per loro, intervenga lo Stato, sappiamo che chi li ha rapiti è molto pericoloso». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Maggio 2022
«Era felicissimo, si era trasferito in Mali perché lì si viveva bene e anche il clima, con il caldo asciutto, era favorevole»: così Anna Maria Langone, sorella di Rocco, rapito in Mali insieme alla moglie e al figlio, ha risposto al Giornale Radio Rai della Basilicata che l'ha raggiunta nella sua casa di Ruoti (Potenza).
La famiglia sequestrata nel Paese africano è composta da Rocco Langone, di 64 anni, la moglie, Maria Donata Caivano (conosciuta come Donatella), di 63, residenti da anni a Triuggio (Monza Brianza), e il loro figlio, Giovanni Langone, di 42, residente a Lissone (Monza Brianza).
Anna Maria Langone ha raccontato di aver sentito telefonicamente il fratello «una quindicina di giorni fa. Era felicissimo», ha aggiunto. «L'altro mio fratello lo aveva sentito per telefono la sera prima del sequestro ed era tranquillissimo, ma i rapitori era già dietro la sua porta».
«Siamo in attesa. Fino ad ora non ci hanno fatto sapere ancora niente» conferma Vito Langone, l'altro fratello, raccontando che Rocco, operaio, si è trasferito in Mali dopo essere andato in pensione.
«Abbiamo paura perché sappiamo che chi ha preso i nostri familiari è molto pericoloso - continua Vito - chiedo allo Stato italiano che li faccia tornare a casa al più presto» ha aggiunto spiegando che l’altro figlio di Rocco, Daniele, «dovrebbe essere partito stamattina per la Farnesina».
La casa di famiglia di Rocco e Donata a Triuggio, paese di circa 9mila abitanti in Brianza, non è abitata da tempo e ha finestre sbarrate, erba alta e ragnatele.
Intanto il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, ha «sentito nuovamente» il Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Sottolineata la necessità di «massimo riserbo» sulla vicenda.
LE REAZIONI
«Sono giorni di grande apprensione per la vicenda della famiglia Langone, rapita in Mali. Rivolgo un pensiero ai loro cari in questo delicato momento e confido che le autorità italiane stiano già facendo il possibile per rintracciare i nostri connazionali. Pretendano massima collaborazione dalle istituzioni locali». Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
La migrazione interna all’Africa che nessuno racconta. FEDERICO SODA (OIM-LIBIA), CORRADO FUMAGALLI (UNIVERSITÀ DI GENOVA), CLAUDIA NATALI (OIM-LIBIA) su Il Domani il 13 febbraio 2022
Nella notte tra il 24 e il 25 gennaio sono sbarcati 280 migranti a Lampedusa. Tra il 27 e il 28 gennaio si sono registrati almeno 200 arrivi sulle coste dell’isola siciliana.
Buona parte delle energie intellettuali ed economiche rimangono nel perimetro delle politiche dedicate alla sicurezza e alla gestione dei confini.
La maggioranza dei migranti dall’Africa subsahariana si ferma in Algeria, Libia, Marocco e Tunisia. Dati OIM attestano che una percentuale molto bassa (attorno al cinque per cento) dei migranti totali prova ad attraversare il Mediterraneo.
Che cos’è il Fronte del Polisario. Mauro Indelicato su Inside Over l'1 febbraio 2022.
Il Fronte Polisario è un movimento nato nella regione del Sahara Occidentale, per la quale i suoi appartenenti rivendicano l’indipendenza. Il termine Polisario sta per Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro. Questi ultimi sono i nomi delle due province coloniali spagnole che si estendevano nell’attuale Sahara Occidentale. Il Polisario è noto soprattutto per la guerra ancora oggi mandata avanti contro il Marocco e per la gestione dei campi profughi di Tindouf, città algerina nel sud del paese dove il movimento ha fissato la sua sede.
La fondazione del Fronte Polisario
La questione relativa allo status del Sahara Occidentale nasce nel secondo dopoguerra. La regione in quel momento è in mano a Madrid. Ma due Paesi ne rivendicano l’annessione: Marocco da un lato e Mauritania dall’altro. Negli anni ’60 nascono però movimenti a favore dell’indipendenza. Tra questi spicca il Movimento di Liberazione del Sahara, il quale attua spesso tecniche di guerriglia contro la Spagna.
Il piano di ritiro spagnolo però accelera le velleità indipendentistiche dei gruppi della regione. E così dal Movimento di Liberazione del Sahara nasce nel 1973 il Fronte Polisario. La fondazione avviene ad El Aaiun, capoluogo della regione. Tra i promotori vi è El Ouali Mustapha Sayed, un ex membro del Partito Comunista marocchino. È lui il primo a guidare il Polisario contro gli spagnoli.
La guerra contro il Marocco
Nel 1975 vi è la fine dell’era coloniale della Spagna. Il territorio viene assegnato in parte al Marocco e in parte alla Mauritania. Il Polisario scatena quindi una guerriglia contro la presenza di Rabat, accettata da Madrid dopo la cosiddetta “marcia verde” del novembre di quell’anno, e dell’esercito mauritano. A quest’ultimo va un terzo del territorio del Sahara Occidentale, al Marocco invece due terzi.
La guerriglia attuata dal Polisario è aiutata dal sostegno ottenuto dall’Algeria e dalla Libia di Muammar Gheddafi. Ma è soprattutto da Algeri che arrivano gli aiuti principali. La sede del movimento viene spostata a Tindouf, città algerina in cui vanno a risiedere anche almeno 50.000 profughi provenienti dal Sahara Occidentale.
Viene scelta la tattica della guerriglia a tutto campo contro gli eserciti rivali. Diverse le vittime sia tra i marocchini che tra i membri del Polisario. A rimetterci però il più delle volte sono spesso i civili, come del resto capita in ogni conflitto.
La fondazione della Repubblica Araba Democratica del Saharawi
Il Polisario nei primi anni di guerra si muove anche sotto il profilo politico. Nel 1976 viene fondata a Tindouf la Repubblica Araba Democratica del Saharawi. Si tratta di un’istituzione con all’interno enti e governi dominati dal Polisario. L’intento è quello di ricevere un certo riconoscimento politico internazionale, pur non controllando di fatto alcun territorio.
La Repubblica del Saharawi viene riconosciuta da 76 Paesi, in gran parte dell’allora blocco sovietico, ed è membro dell’Unione Africana. Non è però interna alla Lega Araba e alle Nazioni Unite. Di fatto la Repubblica del Saharawi è una trasposizione in chiave politica del Polisario, il quale come movimento continua la sua lotta armata contro il Marocco.
La pace tra Polisario e Mauritania del 1979
Una svolta si ha il 5 agosto 1979, quando al termine di trattative segrete un accordo sancisce la fine delle dispute tra il governo mauritano e il Fronte del Polisario. Nell’intesa che di fatto accorda la pace tra le due parti, la Mauritania si impegna a ritirare le proprie truppe dal Sahara Occidentale e a cedere alla Repubblica del Saharawi, e dunque al Polisario, la porzione di territorio fino ad allora controllata.
L’accordo di pace non viene riconosciuto dal Marocco. Da Rabat si decide per la linea dura: vengono inviati soldati nella zona dove i militari mauritani si stanno disimpegnando, evitando quindi di concedere terreno agli avversari del Polisario.
Il cessate il fuoco con Rabat del 1991
La guerra con il Marocco prosegue per diversi anni. Le truppe di Rabat riescono a controllare due terzi del Sahara Occidentale, il Polisario invece rimane confinato in una fascia pressoché disabitata che corrisponde a circa un terzo delle dimensioni della regione. Il Fronte ha come unico vero avamposto il campo profughi di Tindouf, il quale si trova però in territorio algerino.
Con la mediazione delle Nazioni Unite, si giunge nel 1991 a un accordo di cessate il fuoco. L’intesa tra il Marocco e il Polisario prevede lo stop ai combattimenti e il dispiegamento di una missione Onu, la missione Minurso. Quest’ultima ha il compito non solo di vigilare sul mantenimento della tregua, ma anche di porre in essere tutte le questioni organizzative per arrivare quanto prima a un referendum. Una consultazione dove, in base agli accordi, gli abitanti del Sahara Occidentale hanno la possibilità di scegliere tra l’indipendenza totale dal Marocco oppure l’integrazione definitiva a Rabat in cambio dell’autonomia.
Il referendum da allora però non si è mai organizzato. A mancare sono gli accordi politici e le condizioni di sicurezza necessarie all’apertura dei seggi. Nel 2007 il Marocco decide così di prendere l’iniziativa politica, presentando alle Nazioni Unite la cosiddetta “proposta sull’autonomia”. Si tratta del riconoscimento ufficiale a livello internazionale della sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, regione però che, nelle intenzioni della proposta marocchina, dovrebbe essere dotata di ampia autonomia dal governo centrale.
Ad oggi quella marocchina è l’unica proposta politicamente discussa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Gli Stati Uniti, con l’allora presidente Donald Trump, nel novembre 2020 decidono di dare rilevanza politica alla proposta e riconoscere ufficialmente il Sahara Occidentale quale territorio marocchino. Il tutto nell’ambito di accordi che portano, tra le altre cose, alla normalizzazione dei rapporti tra Marocco e Israele. La mossa di Washington genera l’irritazione del Polisario. Sul finire del 2020 il cessate il fuoco viene meno, anche se la guerra non riprende su larga scala.
Il Fronte del Polisario oggi
Il movimento non ha mai rinunciato all’indipendentismo. Ma deve affrontare non pochi problemi relativi alle sue fonti di finanziamento e alle sue alleanze internazionali. L’Algeria, ad oggi, è il principale alleato del Fronte ma non è in grado di fornire mezzi e soldi necessari per impensierire le forze marocchine. La necessità di avere introiti per mantenere in vita non solo l’organizzazione del Polisario ma anche le istituzioni della Repubblica del Saharawi, fanno accendere i sospetti circa fonti di finanziamento illecito. Fonti che possono riguardare il commercio della droga che passa tramite le carovane del deserto oppure l’illecito trattenimento di somme destinate ufficialmente ai profughi di Tindouf.
C’è poi un altro elemento che ad oggi getta ombra sul Polisario e riguarda il terrorismo. Nel Sahara e nel Sahel gli ultimi decenni sono contrassegnati dall’espansione dell’islamismo. Secondo fonti di intelligence sia marocchina che di altri Paesi, la piaga del jihadismo è penetrata anche a Tindouf. A dimostrarlo è, tra gli altri, la figura di Abu Walid Al Sahrawi, leader del gruppo dell’Isis del Grande Sahara, principale costola jihadista della regione. Cresciuto nei campi di Tindouf e organico al Polisario per diversi anni, il suo nome è legato alla crescita del terrorismo nel Sahara. La sua uccisione, avvenuta nel settembre 2021, viene ritenuta come uno dei principali colpi assestati al terrorismo africano.
Le controversie legate al leader Brahim Ghali
Dopo la morte di Sayed nel 1976, il leader più importante del Polisario è Mohamed Abdelaziz. Quest’ultimo guida il movimento e la Repubblica del Saharawi dal 1976 fino alla sua morte avvenuta nel maggio 2016. Quarant’anni ininterrotti di leadership che imprimono un forte segno nel Polisario. A succedergli viene chiamato Brahim Ghali, fino a quel momento una sorta di ministro della Difesa del Fronte.
Il suo nome balza agli onori delle cronache nel maggio 2021, quando il Marocco accusa la Spagna di ospitare Ghali in una clinica di Saragozza a seguito di complicazioni dovute al Covid-19. In particolare, Gali riesce ad entrare in territorio spagnolo grazie a un passaporto falso algerino. Ne nasce una disputa diplomatica tra Rabat e Madrid, mentre a livello interno l’opinione pubblica spagnola punta il dito contro il governo per l’ospitalità concessa. Infatti, secondo diverse associazioni umanitarie, Ghali è ricercato dalla giustizia iberica per gravi reati, quali ad esempio l’omicidio di diversi cittadini della Canarie, soprattutto pescatori, negli anni ’80 a seguito di azioni di guerra portate avanti dal futuro leader del Polisario.
Emergono anche testimonianze di presunti abusi sessuali perpetuati da Ghali. Sui social viene diffuso il video di Khadijatou Mahmoud, ragazza saharawi che denuncia il capo del Polisario per violenze sessuali avvenute nel 2010 ad Algeri. E non sarebbe l’unico episodio del genere. Tuttavia a giugno i giudici spagnoli dichiarano di non aver prove a sufficienza per incriminare Ghali e di non dover ricorrere contro di lui. Anche perché in Spagna il leader del Fronte sarebbe entrato con i suoi veri documenti.
In Africa dilagano i colpi di Stato, ecco cosa sta accadendo. Mauro Indelicato su Inside Over l'1 febbraio 2022.
Forse ai più le immagini di gente in piazza con le bandiere e il rumore di alcuni colpi di arma da fuoco sono sembrati la prosecuzione dei festeggiamenti per la vittoria in Coppa d’Africa. Lo scorso 23 gennaio infatti il Burkina Faso ha superato il Gabon ai rigori e si è qualificato per i quarti di finale. Un evento molto sentito da queste parti. Ma in realtà calcio e politica nelle strade della capitale Ouagadougou si sono incredibilmente mescolati. E la gente, già per strada con i vessilli nazionali, dai festeggiamenti per la nazionale è passata a quelli per un nuovo golpe. Il secondo in otto anni. Ma il sesto riuscito in appena due anni tra il Sahel e l’Africa occidentale. Qualcosa in quest’area evidentemente non va. Equilibri instabili, avanzata del terrorismo, alta percezione della corruzione e blocco delle economie si stanno rivelando miscele esplosive destinate a fare in futuro ancora più clamore.
Dal Mali la miccia che ha innescato tutto
Era il 22 marzo 2012. L’area del Sahel appariva, in quel momento, tutto sommato pacifica. Ma in Mali da settimane la gente scendeva in piazza per protestare contro il governo del presidente Touré. Corruzione e stagnazione economica le cause delle manifestazioni. Questo ha attivato una catena di conseguenze difficile poi da scardinare. Nel nord del Paese infatti c’erano i cittadini di origine Tuareg, armati negli anni precedenti da Muammar Gheddafi e forse in quella fase addestrati da ex generali del rais ucciso nel 2011, che hanno approfittato della situazione per chiedere l’indipendenza. In quel 22 marzo allora l’esercito ha deciso di rompere gli indugi. I militari hanno circondato il palazzo presidenziale di Bamako mettendo a segno un colpo di Stato. Da allora non è cambiata soltanto la storia del Mali, ma anche quella dell’intera area circostante. Molti analisti, come sottolineato in un recente articolo del New York Times, lo avevano previsto: caduta all’epoca Bamako, sarebbe stata solo questione di tempo prima che il Sahel convivesse con continui tentativi di golpe. In effetti due anni più tardi è toccato al Burkina Faso, dove i soldati hanno posto fine all’esperienza pluridecennale di Blaise Compaoré.
Pochi anni dopo si è ripetuta la stessa storia. Nell’agosto del 2020 è stato ancora una volta il Mali ad aprire la serie, con un golpe attuato dal generale Assimi Goita capace di rovesciare il presidente Keita. Dopo la caduta di Bamako, ben presto è toccato ad altre capitali assistere alla presa di potere da parte dei militari. Nell’aprile 2021 a N’Djamena il presidente del Ciad Idris Deby è rimasto vittima di un tentativo di assalto della capitale da parte dei ribelli del Fact. Nel mese successivo un altro colpo di Stato ha interessato lo stesso Mali, con Goita nuovamente leader militare di transizione. Poche settimane prima in Niger i soldati hanno provato un ammutinamento, questa volta però non andato a buon fine. A settembre le immagini di carri armati per strada e di truppe schierate attorno al palazzo presidenziale sono arrivate da Conakry, capitale della Guinea. Il mese successivo nella capitale del Sudan, Khartoum, i militari hanno interrotto la fase di transizione pacifica inaugurata con la deposizione nel 2019 dell’ex presidente Omar Bashir. Adesso la nuova azione dei soldati in Burkina Faso, a chiudere un elenco molto ampio di Stati africani coinvolti nei vari colpi di Stato.
I golpe come un “contagio” inarrestabile in Africa
Cosa sta succedendo dunque in questa zona nevralgica del continente africano? E perché negli ultimi anni la “stagione dei golpe” è partita dal Mali? “C’è la convinzione che gli uomini forti possano affrontare meglio i rischi per la sicurezza – ha spiegato Anna Schmauder, del think tank Clingendael, sul New York Times – specialmente nei paesi del Sahel dove la violenza sta crescendo vertiginosamente”. Indubbiamente esiste un’insofferenza di fondo che accomuna l’intera area subsahariana. Proprio in Burkina Faso ad esempio, a novembre un attacco dei terroristi islamici ha ucciso più di 50 soldati. Una mattanza che ha destato forte impressione nell’opinione pubblica. In Mali, così come nel Niger, l’avanzata dei gruppi legati all’Isis e ad Al Qaeda sta generando sfollati e profughi. Se all’insofferenza per la mancata percezione di sicurezza si aggiunge quella per economie sempre più allo stremo, ecco quindi che l’intero Sahel è in preda a una forte instabilità. E in un contesto del genere, basta una singola goccia per far traboccare il vaso. I golpe in Mali hanno poi alimentato quelli successivi.
Una sorta di vero e proprio contagio in grado di estendersi in tutta l’area nel giro di pochi mesi. Anche perché i colpi di Stato a Bamako non sono stati ben gestiti dalla comunità internazionale, a partire da quella africana. CEDEAO , l’organizzazione che raggruppa i Paesi dell’Africa occidentale, e Unione Africana hanno condannato le varie azioni militari ma sono riuscite nell’impresa di legittimarle agli occhi della popolazione. Contro il Mali ad esempio sono state approvate sanzioni che hanno dato modo ai militari di soffiare sul malcontento e individuare negli attori internazionali la causa dei problemi irrisolti. L’ex potenza coloniale francese dal canto suo sembra progressivamente perdere presa. Anzi, la retorica anti Parigi e anti coloniale è stata spesso presente tra i militari appena arrivati al potere. Si tratta di un altro degli elementi che accomuna i Paesi del Sahel e alimenta il contagio golpista.
Le possibili conseguenze
La più visibile delle conseguenze riguarda l’instabilità. A sua volta poi, questa instabilità rischia di far naufragare gli sforzi per il contenimento del terrorismo poiché governi deboli e Stati fragili sono un guaio per la lotta ai gruppi jihadisti. Gli uomini forti al potere, rigorosamente in divisa, difficilmente in futuro saranno in grado di far meglio contro Isis ed Al-Qaeda. Del resto i golpe recenti hanno avuto successo proprio per via della debolezza delle istituzioni e quindi anche degli stessi eserciti. É la classica situazione di un cane che si morde la coda. C’è poi un’altra conseguenza che riguarda direttamente l’occidente. La deposizione di governi vicini a Parigi hanno, nel corso dell’ultimo decennio, aperto brecce nel Sahel per l’inserimento di diversi attori internazionali. A partire dalla Russia. Uno dei primi atti della nuova giunta militare del Mali l’anno scorso è stato rappresentato dall’invito alla collaborazione con l’agenzia di contractors Wagner, strettamente legata al Cremlino. A Bamako, così come in altre capitali della regione, il sentimento antifrancese e antioccidentale è sempre più diffuso tra gli stessi cittadini assieme a una convinzione: meglio avere dei militari al potere piuttosto che fragili democrazie. Non sono da escludere nuovi golpe in altri Paesi africani già nei prossimi mesi. Ne sanno qualcosa in Guinea Bissau: il primo febbraio un gruppo di soldati ha provato a detronizzare il presidente Umaro Embalo, il quale però è riuscito a mantenere il suo posto. Il golpe qui sarebbe fallito, ma la tensione è molto alta e dimostra come il contagio militare in Africa non ha raggiunto ancora il suo picco.
Gian Micalessin per "il Giornale" il 18 febbraio 2022.
Il fiasco del Sahel e la fuga della Francia dal Mali passeranno alla storia come l'Afghanistan di Emmanuel Macron. Ma Joe Biden poteva rinfacciare a Donald Trump l'errore di aver trattato con i talebani. Il presidente francese, invece, ha fatto tutto da solo.
Gli insuccessi militari e le tensioni con il governo di Bamako sono all'origine del ritiro dal Mali di 2600 soldati francesi annunciato mercoledì sera. Un ritiro che coinvolge anche la Task Force Takuba, la missione militare europea avviata solo un anno fa per sopperire alle difficoltà francesi e costretta ora a seguire il ridispiegamento in Niger dei 2600 soldati di Parigi sfrattati dalle basi maliane di Gossi, Menaka e Gao.
Un ritiro annunciato nella cornice unitaria, e apparentemente consenziente, garantita a Macron da Mario Draghi e altri leader europei convocati a Parigi mercoledì sera per presenziare all'annuncio.
Ma è evidente che le responsabilità della fuga dal Mali spettano soltanto ad una Francia incapace d'impedire il riaffermarsi dell'egemonia jihadista nelle regioni settentrionali del paese.
Una Francia che nonostante un contingente di oltre 2600 uomini non ha saputo bloccare due colpi di stato successivi e la caduta di Bamako nelle mani dei militari. E, tantomeno, ad impedire l'arrivo di 800 mercenari russi del gruppo Wagner pronti a rimpiazzare i soldati francesi.
Ma l'aspetto più surreale è il forzato ritiro di un contingente europeo arrivato nel Mali per affiancare una Francia ormai incapace di sostenere la pressione delle milizie di Al Qaida e dell'Isis pronte ad avanzare dal Sahel alle coste del Mediterraneo.
L'Italia, tra l'altro, aveva risposto all'appello francese mettendo a disposizione duecento incursori delle Forze Speciali e otto elicotteri per un costo stimato di quasi 50 milioni di euro l'anno.
Una generosità non proprio obbligata visto che nel 2017 Macron aveva fatto il possibile per ostacolare una nostra missione in Niger. Per non parlare della diffidenza con cui la Francia ha accolto le trattative con cui l'Ong italiana Ara Pacis ha formalizzato, ai primi di febbraio, un accordo di riconciliazione tra alcuni gruppi islamisti del nord del Mali e il governo di Bamako.
Il rifiuto di qualsiasi negoziato con i gruppi coinvolti nell'insurrezione islamista, richiesto da molti governi dal Sahel è, tra l'altro, una delle ragioni che complicato la presenza francese. Una posizione spiegabile con l'orgoglio di un Eliseo convinto di poter resuscitare l'antica grandeur, ma che mal si sposa con la voglia di ritiro di un Macron preoccupato, in vista delle presidenziali, da nuove possibili perdite su un fronte dove già conta 53 caduti.
Intransigenze e contraddizioni che sono anche all'origine dello scontro con le autorità del Mali. Uno scontro venuto alla luce lo scorso giugno quando Parigi scaricò sul governo di Bamako le responsabilità per gli insuccessi inanellati nel nord del Paese. «Garantire la sicurezza in zone già a pezzi diventa impossibile se gli stati - disse Macron - non si assumono le proprie responsabilità».
Parole seguite a settembre dal durissimo intervento alle Nazioni Unite del premier maliano Choguel Kokalla Maiga pronto rinfacciare a Macron di aver abbandonato il «suo paese a metà del volo».
Uno scontro verbale diventato rottura definitiva a fine gennaio quando il ministro degli esteri francese Jean-Yves Le Drian definisce «illegittima» la giunta del Mali e l'accusa di aver aperto le porte ai mercenari russi pronti a «depredare» il Paese.
Parole che innescano a fine gennaio l'espulsione dell'ambasciatore francese costringendo Parigi al ritiro. Ma il fiasco di Macron, oltre a segnare la fine dell'influenza francese nell'Africa Occidentale, rischia anche di rendere ancor più incontrollabili i flussi migratori e avvicinare la minaccia terroristica all'Italia e all'Europa.
1909, nasce (malvolentieri) il Congo Belga. Inside Over il 13 febbraio 2022.
Morto Leopoldo e ricevuto in “dono” l’intero Congo, il governo belga all’indomani della poco gradita acquisizione si ritrovò impegnato in una serie di spinose problematiche. La più seria riguardava la legittimità stessa dell’Etat Indipéndent du Congo (EIC) e, quindi, del subentro di Bruxelles in Africa equatoriale. Per le potenze coloniali, come ricorda suo denso saggio Guy Vanthemsche (“La Belgique et le Congo”, Editions Complexe, Bruxelles 2007), le conclusioni della Conferenza di Berlino divennero solo una “presa d’atto” dell’esistenza dello Stato leopoldino non una sua legittimazione.
Il pericolo maggiore era rappresentato dal Regno Unito che, interpretando a suo piacimento gli atti berlinesi — e preoccupata dalle voci di una vendita del Congo al Reich germanico —, minacciò più volte la convocazione di un consesso internazionale che giudicasse le “qualità morali” e le “capacità civilizzatrici” e finanziarie degli eredi del grand Roi. I belgi smentirono ogni ipotesi di cessione e presto l’ipotesi tedesca svanì, ma Londra non demorse: a più riprese, durante tutto il periodo coloniale, la Gran Bretagna cercò d’approfittare della vulnerabilità belga — dopo il passaggio di poteri, durante i due conflitti mondiali, nel 1945 e persino nel 1959 — ed esercitò, condizionando spesso la politica estera del regno, una pressione continua su Bruxelles.
Contro ogni previsione, i poteri politici e finanziari belgi, consci della precarietà degli equilibri internazionali — e sempre più convinti, dopo la scoperta dei giacimenti katanghesi, delle enormi potenzialità della colonia —, tennero duro e decisero d’investire risorse finanziarie e umane nell’avventura d’oltremare; con metodo, l’ala modernizzatrice del ristretto ceto dirigente s’impegnò nella costruzione di un impero con l’ambizione de faire mieux que les autres. Fu l’inizio di una nuova fase, meno romanzesca della precedente, ma finalmente accettabile e razionale.
Nel 1909, per segnare una netta discontinuità con il passato, il Parlamento pose risolutamente termine all’assolutismo leopoldino e approvò la Charte coloniale, un documento fondamentale che fissò per oltre mezzo secolo le regole — e i limiti sociali, culturali e militari — della presenza belga in Africa. Nel loro ordinamento i legislatori avocarono ogni decisione al governo centrale — ovvero al ministero delle colonie — e imposero una separazione rigorosa tra le finanze della madrepatria e quelle congolesi. L’amministrazione della colonia fu affidata a un governatore generale (dai poteri limitati), a sua volta, appoggiato da una rete di commissari e amministratori; a livello più basso vi erano le chefferies indigènes, affidate ai capo tribù lealisti. L’ordine pubblico e la sicurezza interna furono affidati a truppe locali inquadrate da quadri nazionali — la Force pubblique —, sollevando, così, l’esercito nazionale da ogni responsabilità e dovere verso la colonia. Inoltre la Charte escludeva ogni forma di rappresentatività elettorale e negava ai belgi residenti — e, ovviamente, ai nativi — diritti politici fondamentali come la libertà d’associazione e di stampa. Frattanto il regime di lavoro forzato fu abolito e autorizzato il libero commercio.
Nel 1919, superata la Grande guerra e la temperie del separatismo fiammingo, chi contava a Bruxelles decise di dimostrare — confondendo spesso sogni e realtà — la capacità del regno di realizzare, senza aiuti e senza ingerenze straniere, une colonie modèle. Per re Alberto, il ceto politico e la Société générale de Belgique, il Congo — ingrandito, nel 1919, dall’acquisizione dei territori ex germanici del Ruanda e dell’Urundi — divenne un momento d’onore e dignità nazionale; Louis Franck, allora ministro delle Colonie, con enfasi, dichiarò, “noi piccola nazione in Europa, siamo oggi diventati una grande potenza in Africa. Grazie al Congo, ora abbiamo finalmente un posto nel consesso dei popoli”. Un intreccio di fierezza nazionale, fedeltà alla dinastia, protagonismo internazionale e solidi interessi economici si saldava ad un progetto a tratti innovativo, assolutamente selettivo e, soprattutto, esclusivamente belga.
Nel primo dopoguerra, decisi a superare l’opaca esperienza dell’EIC e ad inserire l’immenso territorio nell’economia mondiale, i colonizzatori impostarono un gigantesco piano infrastrutturale che prevedeva la realizzazione di ferrovie, porti, strade, città: uno sforzo titanico, prodromico alla valorizzazione e lo sfruttamento delle enormi risorse congolesi e, nel contempo, un investimento sinergico alla modernizzazione dell’economia nazionale. Qualche esempio: con l’appoggio dello Stato e della SgB, nel 1921, la Société anonyme belge d’exploitation de la navigation aèrienne (poi Sabena) aprì la prima linea aerea commerciale africana; nel 1925 l’aviatore Edmon Thieffry volava da Bruxelles a Leopodville e nel 1935 fu inaugurata la rotta tra le due capitali. E ancora, i moderni bastimenti della Compagnie Maritime Belge (un satellite dell’onnipresente SgB) collegarono Anversa al porto di Matadi e offrirono al Belgio (e ai suoi cantieri navali) una nuova dimensione marittima.
In sintesi, il progetto di une colonie modèle prese forma e sostanza. L’impetuosa crescita economica della colonia — in meno di un decennio il Congo divenne uno dei principali produttori mondiali di stagno, rame, carbone, ferro, cobalto, diamanti, uranio — rasserenò e arricchì la lontana madrepatria e, di riflesso, permise un miglioramento parziale delle condizioni di vita degli indigeni. Nel segno del paternalismo e della stabilizzazione, il governo impose alle società minerarie le prime misure di protezione sociale per gli operai neri e sviluppò, in sinergia con le missioni cattoliche, un piano sanitario e educativo limitato, però, alle scuole elementari poiché il governo coloniale — fedele al motto “pas d’èlites, pas d’ennuis” — ritenne prematuro (e pericoloso) offrire agli africani livelli d’istruzione elevati. Un calcolo miope che, al momento dell’indipendenza, avrà conseguenze disastrose.
Il Congo delle banche belghe: tanti soldi, pochi coloni. Inside Over il 14 febbraio 2022.
Tra le due guerre curiosamente (almeno all’apparenza) l’inattesa prosperità del neonato “impero belga” e le importanti ricadute sull’economia nazionale — nel 1936 nella sola Anversa circa 125mila persone lavoravano, direttamente o indirettamente, nell’industria diamantifera — lasciarono abbastanza indifferente l’opinione pubblica nazionale. Impermeabile alla propaganda dei circoli colonialisti o delle suggestioni dei mass media — si pensi al grande successo di Tin Tin au Congo di Hergè —, gran parte dei sudditi fiamminghi e valloni di re Alberto rimase per lo più scettica sulle sorti del remoto possedimento. Per la maggioranza dei belgi — abbastanza soddisfatti del loro benessere e interessati solo alle beghe linguistiche o/e allo scontro tra poteri cattolici e poteri laici — il Congo era “un affare della dinastia, delle banche, dei trust” e il sogno di pochi eccentrici, dunque un problema secondario, un lusso superfluo. Talvolta un fastidio.
Non è certamente questa la sede per un’analisi delle tante fragilità e innumerevoli contraddizioni del regno, tuttavia riteniamo che l’esperienza coloniale sia paradigmatica della complessità della società belga. Al momento della terribile crisi del 1960, la radicata freddezza per ogni ipotesi vagamente “avventurosa” o imperialista, l’estraneità e la distanza verso la “grande politica” del Belgio profondo consentì al governo di Bruxelles — senza troppi timori e alcun rimorso — scelte affrettate quanto devastanti.
Nel suo reportage sulla tragedia africana, Giovanni Giovannini (“Congo nel cuore delle tenebre”, Mursia 1966) segnalò, con stupefazione, l’esiguità della presenza bianca sul territorio al momento dell’indipendenza: appena l’uno per cento della popolazione totale del paese, una “colonia per milionari”. Sebbene distante da nostalgie fasciste, il giornalista era intriso, come tutta la sua generazione, da visioni post risorgimentali e nazionali e riteneva questi dati inconcepibili “per gente che, come noi italiani, ha sempre giustificato le sue imprese coloniali con la ricerca di terre, dove riversare l’eccesso della sua popolazione, e che ha dilapidato oro, sudore, sangue per trasformare in vigneti le sabbie del deserto”.
Per quanto, negli anni Sessanta del secolo scorso, potessero sembrare strampalate agli occhi di un italiano, le linee del governo coloniale avevano una loro logica. Preoccupate dall’ingordigia delle potenze maggiori, consce della fragilità del dominio e attente alla stabilità interna, le autorità brussellesi impedirono scientemente la formazione di una minoranza bianca numerosa e coesa, magari capace di imporsi sulla metropoli e guidare — utilizzando gli schemi dell’apartheid dei dominions anglosassoni o, ancor peggio, nel segno della multietnicità lusitana — una maggioranza nera ancora priva di diritti politici. Convinti così di esorcizzare conflitti razziali e di bloccare ogni spinta centrifuga o autonomista dei “bianchi d’Africa”, i poteri centrali ostacolarono ogni ipotesi di migrazione europea, centellinarono gli ingressi e scoraggiarono ogni installazione. In Congo, a differenza del Sud Africa, della Rhodesia, dell’Africa francese, portoghese e italiana, non vi era posto per turbolenti poor withes, per fastidiosi petit blancs in cerca di terre e futuro.
Come ricordava sempre Giovannini, la politica anti-popolamento venne attuata in maniera ferrea: “Contro chi intende trasferirsi in colonia una prima selezione è realizzata con il deposito di una cauzione relativamente cospicua e deve dimostrare un livello di vita onorevole; sono, così, considerati indesiderabili non solo coloro che per mancanza d’istruzione non sanno leggere o scrivere correntemente una lingua europea, ma anche quelli che non dispongono di mezzi sufficienti d’esistenza; e anche chi ha subito procedimenti giudiziari o condanne. Il candidato colono deve, quindi, presentare un minimo di garanzie provate da un certificato medico, un certificato giudiziario, una cauzione di cinquantamila franchi per il capo famiglia e per ciascun figlio con più di 18 anni e 25mila franchi per la moglie e ciascun figlio tra i 14 e i 18 anni”.
Il risultato fu, come analizza Guy Vanthemsche, una presenza bianca minima, quasi irrilevante: “Durante il periodo dell’EIC il numero dei belgi in Congo era estremamente ridotto, al massimo 1500 persone. Dopo l’annessione, la popolazione crebbe e nel 1930 raggiunse le 17mila unità. Conclusa la Seconda guerra mondiale, la presenza aumentò: 24mila nel 1947 e 89mila nel 1959. Ricordiamo che nel 1910 il Belgio contava 7,4 milioni d’abitanti e 9,1 nel 1961″. Interessante, a proposito, il quadro sociale della piccola comunità belga alla vigilia dell’indipendenza: quasi la metà della popolazione era costituita da impiegati delle imprese private (i grandi trust minerari e le società collegate), il 20% da funzionari coloniali (in gran parte valloni), il quindici da missionari (soprattutto fiamminghi), e solo il restante venti da residenti. In quest’ultimo segmento, il meno amato dall’amministrazione, dobbiamo comprendere i liberi professionisti, i commercianti, gli artigiani e i piantatori. Insomma, i coloni per scelta non ammontavano a nemmeno 24mila unità. Nulla.
A complicare ulteriormente il quadro (e indebolire la già irrisoria componente bianca) vi fu la progressiva chiusura — a fronte della limitata crescita della componente belga — degli accesi e dei permessi per gli altri europei. Nel 1957, in tutto il Congo erano rimasti solo 5000 portoghesi, 3639 italiani (per lo più piemontesi e abruzzesi), 2800 greci (in gran parte israeliti rodioti) e qualche centinaio di francesi e britannici. Insomma, il Congo non era, volutamente, un paese per bianchi.
La storia segreta del triangolo Usa-Belgio-Congo che portò alla prima bomba atomica. Inside Over il 16 febbraio 2022.
Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale il Congo divenne un’arma politica ed economica fondamentale per il governo belga in esilio a Londra: nel 1940, l’allineamento, obtorto collo, del governatore Pierre Ryckmans ai ministri fuggiaschi — ambiguamente il nuovo sovrano Leopoldo III, certo della vittoria dell’Asse, era rimasto in patria —, consentì l’inserimento delle immense risorse coloniali (gomma, rame, tungsteno, stagno, zinco, olio di palma) nell’economia bellica angloamericana e permise alla debolissima entità di assumere una parvenza di legittimità a fronte degli invasivi alleati. Non solo.
Fu il Congo belga a fornire, accanto alle indispensabili materie prime, l’uranio necessario al progetto atomico statunitense “Manhattan” e alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki. Una storia complessa e, in parte, ancora sepolta negli archivi americani, belgi e britannici.
Tutto iniziò nel 1915 quando a Shinkolobwe, nella regione del Katanga, venne scoperto il più grande giacimento d’uranio del mondo. Al tempo nessuno vi fece molto caso poiché allora il minerale interessava soltanto l’industria della ceramica che vi ricavava vernice luminescente e nulla più. Poi accadde l’imprevedibile. Nel dicembre 1938 due scienziati tedeschi, Otto Hahn e Fritz Strassman, scoprirono che da un atomo di uranio si poteva sprigionare una reazione a catena. Era la fissione nucleare, un processo da cui si poteva produrre energia ma anche un’arma terribile: la bomba atomica.
Un segreto tremendo riservato a pochissimi. Tra questi Edgar Sengier, il direttore dell’Union Minière. Come racconta David Van Reybrouck nel suo libro Congo (Feltrinelli, 2014) “alla vigilia del conflitto fece imbarcare 1250 tonnellate di uranio, la produzione di tre anni, dal Katanga per New York e poi allagare la miniera. Quando partì il progetto “Manhattan” nel 1942, i ricercatori americani che armeggiavano con la bomba atomica si misero in cerca di uranio di alta qualità. Il minerale canadese che usavano era in effetti molto debole. Con loro sorpresa, si scoprì che una gigantesca riserva era stoccata nell’Archer Daniels Midland Warehouses, un magazzino nel porto di New York. Ne conseguirono trattative molto animate con il Belgio, che ricavò dall’operazione 2,5 miliardi di dollari sonanti”. Un ottimo affare che permise, terminato il conflitto, la formidabile ripresa economica post bellica del regno.
La cessione agli Usa dello strategico minerale e la riattivazione di Shinkolobwe furono coperti dal massimo riserbo. La miniera venne cancellata dalle mappe e gli Stati Uniti iniziarono un’opera di intelligence nella regione per deviare i sospetti e diffondere false informazioni sulle estrazioni. Durante tutta la Guerra fredda e le mille traversie del Congo indipendente, Shinkolobwe è rimasta attiva (sotto un discreto quanto ferreo controllo americano) ed è stata ufficialmente chiusa nel 2004, dopo il crollo di un passaggio sotterraneo in cui morirono otto persone. Ma attorno ai vecchi impianti continuano, in condizioni precarie e senza protezioni contro le radiazioni, gli scavi illegali che alimentano il contrabbando di uranio.
Torniamo al 1945. Nonostante gli accordi segreti tra i due governi, i rapporti belgo-americani gradualmente si modificarono: una volta acquisiti i materiali e le concessioni, Washington lesinò i promessi aiuti per la creazione di un’industria nucleare belga e iniziò, sempre più apertamente, a criticare la presenza coloniale del piccolo alleato europeo.
Replicando lo schema del 1919, i governanti belgi — incalzati dagli statunitensi e contestati sempre più violentemente dall’appena sorta Organizzazione delle Nazioni Unite — lanciarono un ambizioso “piano decennale per lo sviluppo economico del Congo”. Un progetto di modernizzazione che, secondo Bruxelles, doveva rabbonire le correnti anticolonialiste dell’amministrazione americana, zittire le proteste dell’ONU — sinergiche alla galassia terzomondista e al blocco sovietico (ma sempre funzionali agli interessi statunitensi) — e permettere un inserimento “dolce” e lento, lentissimo della regione in un’ipotetica quanto futuribile “comunità belgo-congolese”. Un’illusione crudele.
Come re Leopoldo del Belgio s’inventò il Congo. Inside Over l'1 febbraio 2022.
“Che orrore, che orrore!”. Con queste poche, terribili parole Joseph Conrad ne Cuore di tenebra bollò l’esperienza leopoldina nell’Africa equatoriale. Al netto delle enfasi letterarie e delle (poco) disinteressate relazioni dei filantropi angloamericani, la conquista del Congo e la creazione de l’État Indipéndent du Congo fu una delle pagine più crude quanto incredibili dell’espansione coloniale in Africa.
Tutto iniziò negli anni Settanta dell’Ottocento. Nonostante lo scetticismo o l’ostilità dei suoi sudditi verso qualsiasi progetto coloniale, Leopoldo II del Belgio — un personaggio degno della penna di Verne: uomo di pessimo carattere, crudele e pragmatico ma anche coraggioso, imperioso e capace di grandi visioni e lucide follie — ritenne indispensabile per il prestigio (e le casse) del piccolo regno e della dinastia l’acquisizione di territori oltremare. Cocciutamente, dal suo palazzo di Laeken, il barbuto sovrano scrutò per anni i mappamondi nell’attesa dell’occasione propizia, la bonne affaire; nel tempo lo sguardo dell’irrequieto Saxe Cobourg Gotha si posò prima sulle Filippine, allora spagnole, poi su Taiwan, il Tonchino, Creta, Cipro, il Borneo, il Marocco, l’Angola, il Mozambico, le isole dell’Oceania e persino l’Etiopia. Tante ipotesi che però si rivelarono irrealistiche o troppo onerose; dopo i ripetuti smacchi, solo pochi, in patria e all’estero, presero sul serio gli “stravaganti” sogni di potenza del re. Uno sbaglio.
Indifferente alle ironie e ai lazzi, il sovrano non demorse. L’occasione tanto attesa finalmente arrivò e, per uno di susseguirsi di circostanze inattese quanto improbabili, Leopoldo riuscì ad inserirsi in una straordinaria window of opportunities e a costruire infine il suo personale impero coloniale.
Andiamo per ordine. Nel 1876, approfittando delle grandi esplorazioni nel cuore del “continente nero” e dell’onda emotiva suscitata nell’opinione pubblica dalle epopee di Livingtone e Stanley, il re convocò a Bruxelles una Conferenza geografica internazionale; in quella sede confortevole, tra proclami umanitari, richiami religiosi e obiettivi scientifici, fu creata l’Association Internationale Africaine, una struttura che dipendeva esclusivamente da Leopoldo. Uno stratagemma geniale che consentiva finalmente al monarca d’intervenire — in nome e per conto del “movimento civilizzatore” e senza coinvolgere lo Stato belga e i suoi pedanti ministri — nell’Africa equatoriale. Il passo successivo fu, nel 1877, il coinvolgimento nell’impresa di Henry Morton Stanley. Sfruttando i risentimenti dell’uomo, fresco reduce di una perigliosa spedizione transafricana, verso l’ingrata madre patria — allora impegnata nella normalizzazione dell’India e per nulla interessata ad una ulteriore espansione — Leopoldo si assicurò i suoi preziosi servigi. Il prezzo fu alto, ma ne valeva la pena.
Nel 1879 Stanley, convinto come il suo mecenate che il grande fiume Congo fosse l’asse portante per la conquista della regione, tornò in Africa. Per conto del monarca e nel nome dell’Associazione risalì la via d’acqua, stabilendo dei solidi punti d’appoggio, e convinse, con metodi che il friulano Pietro Savorgnan di Brazzà — un grande esploratore e un vero idealista — definì ributtanti, i vari capi tribù a firmare trattati e concessioni. In poco tempo, grazie a piccoli doni e tante mitragliate, il salvatore di Livingstone assicurò il bacino del Congo all’Associazione brussellese. Ma l’attivismo per conto della Francia di Brazzà e le preoccupazioni della Gran Bretagna e del Portogallo inquietarono Leopoldo: le grandi e piccole potenze coloniali non gradivano la presenza del coronato intruso in un’area misteriosa, inesplorata e già ambita dalle cancellerie di mezza Europa. Da qui le polemiche, le denunce e qualche velata minaccia militare.
Al tempo Leopoldo era debolissimo, isolato e soprattutto senza soldi. L’avventura congolese, interamente finanziata dal sovrano, aveva ormai svuotato i suoi già capienti forzieri e persino l’argenteria di famiglia fu impegnata. Insofferenti del protagonismo leopoldino, gli avari politici belgi presero da subito le distanze dal loro sovrano mentre le banche e gli usurai iniziarono a bussare insistentemente al portone di Laeken. Una catastrofe.
Ma nel 1884 il monarca salvò il suo trono e i domini equatoriali: sorprendendo con un colpo di genio i suoi mediocri ministri e i concorrenti stranieri, Leopoldo volse lo sguardo oltreoceano. Un grande giornalista del dopoguerra, Giovanni Giovannini, nel suo bel libro dedicato alla tragedia congolese (Congo nel cuore delle tenebre, Mursia 1966), scrisse: “Al termine di una sua magistrale opera diplomatica, il 10 aprile 1884 gli Stati Uniti riconobbero la bandiera dell’Associazione come quella di uno stato amico. Leopoldo riuscì a convincere Washington degli scopi umanitari e generosi del singolare organismo, che, oltre a gestire gli interessi degli Stati liberi indigeni, doveva aprire l’immensa regione al libero commercio di tutti senza distinzione di nazionalità”. Un impegno solenne che, una volta asciugato l’inchiostro delle firme dei trattati, il callido sovrano si guarderà bene dal rispettare, come non rispettò gli analoghi accordi presi con Germania e la Francia.
Nel febbraio del 1885, Otto von Bismark organizzò a Berlino la Conferenza internazionale sull’Africa, ovvero la spartizione del Continente Nero. Fu il capolavoro del cancelliere prussiano: in nome della real politik e degli equilibri, Bismark riuscì a dirimere ogni contrasto coloniale, rabbonire la Francia, tranquillizzare la Gran Bretagna e legittimare il neo colonialismo germanico. Da subito, forte dei suoi accordi con gli Stati Uniti e del suo zelo “civilizzatore”, Leopoldo s’insinuò nel concilio e ottenne dai “grandi” — con molto charme, tanti denari e innumerevoli promesse — il permesso per il consolidamento della sua rocambolesca impresa congolese. Un successo pieno che umiliava rivali temibili come Cecile Rhodes, il campione dell’imperialismo anglosassone nell’Africa meridionale. A Berlino, la Gran Bretagna, distratta dai troppi impegni in Asia e in Egitto, si fece turlupinare dai poderosi quanto confusi dossier di Leopoldo. Per di più il terribile re, approfittando della distrazione degli azzimati diplomatici del Foreign Office, con un semplice tratto di penna sulla carta incorporò l’intero Katanga nei suoi domini. Gli inglesi protestarono, ma alla fine fecero buon viso alla cattiva sorte. Al Portogallo, junior partner d’Albione, non rimase che abbozzare. Significativamente, il governo belga sottoscrisse gli accordi berlinesi con molto ritardo.
In ogni caso, in quel lontano 1885 la più stramba entità statuale dell’Ottocento prese forma. Sorse l’État Indipéndent du Congo, un assurdo geografico di due milioni e 354mila chilometri quadrati, un territorio pari ad un quarto dell’Europa, grande settantasei volte l’ipotetica “madrepatria”. Il Re aveva finalmente il suo impero. Un impero tutto suo.
Qual è il crocevia del mondo di domani?
Il Congo di Leopoldo II: fiumi di sangue e tanti denari. Inside Over il 6 febbraio 2022.
Acquisito fortunosamente il suo impero africano, re Leopoldo II si mise subito all’opera e una cortina di mistero avvolse da subito l’État Indipéndent du Congo. Il ferreo controllo sui traffici e la severa selezione dei quadri coloniali — con l’eccezione dei suoi fedelissimi, Leopoldo preferì utilizzare una coorte multinazionale di contabili, tecnici (tra cui s’arruolò anche lo scrittore anglo-polacco Joseph Conrad) e tanti soldati disoccupati —, infastidirono la tranquilla borghesia belga e i suoi terminali politici. Per di più, nonostante l’enfasi dei circoli colonialisti di Bruxelles e Anversa, la precarietà economica del regno leopoldino inquietò una volta di più imprenditori, banche, azionisti. I creditori del re. Non a torto.
Come annota Henri Wesseling, i primi anni dell’EIC furono difficili: “I problemi finanziari erano enormi. Leopoldo dovette nuovamente intervenire personalmente e ipotecò le sue onorificenze estere e le livree dei suoi lacchè e, non sapendo più a che santo votarsi, ridusse i propri pranzi a una sola portata. Ma non bastava. Il Belgio organizzò una lotteria. Non fu ancora sufficiente. Lo Stato belga dovette prestare denaro a Leopoldo. Il problema non si risolse neppure in quel modo. La gomma, infine, salvò lo Stato Libero. L’aumento della richiesta di gomma fece salire vertiginosamente i listini. La caccia alla red rubber nel Congo fornì finalmente i mezzi economici necessari. Ma questo capitolo portò a tali eccessi da diventare uno scandalo di dimensioni inaudite, uno dei maggiori scandali della storia coloniale moderna: le atrocità perpetrate nel Congo”.
La bonne affaire di Leopoldo ebbe un costo umano intollerabile. L’EIC chiuse ermeticamente le frontiere e incorporò tutte le terre non coltivate — circa il 95 per cento dell’immenso territorio — incamerandone tutte le risorse e le ricchezze naturali e i diritti di commercializzazione. Chiunque osasse (bianco o nero, poco importava) intraprendere una qualsiasi attività mercantile senza il consenso dei gabellieri governativi era considerato un ladro o un ricettatore. Allo stesso tempo, per valorizzare al massimo la colonia, gli agenti leopoldini instaurarono un durissimo regime di lavoro forzato — alla popolazione venne imposta una impot de cueillette, una tassa sul raccolto, fissata in denaro ma pagabile in natura — che trasformò presto l’État Indipéndent du Congo in uno spietato sistema concentrazionario. L’impero del silenzio.
Nel suo libro dedicato al colonialismo ottocentesco, Raymond F. Betts nota: “I risultati del lavoro coatto furono magnifici sul piano finanziario, poiché alla fine il re recuperò il denaro che aveva investito nel Congo come privata speculazione e ricavò inoltre ulteriori capitali per permettergli di soddisfare il suo gusto per le attrezzature turistiche sia in Riviera sia nella città di Ostende. I guadagni ottenuti da Leopoldo furono in proporzione inversa al benessere del popolo congolese: il numero di coloro che persero la vita è incalcolabile”.
Tra le conseguenze più agghiaccianti della rapace politica coloniale, — da sommare alle conseguenze delle campagne militari (le mantien de l’ordre), le epidemie, la malnutrizione e le carestie — vi fu infatti un impressionante calo demografico della popolazione indigena. Come annota Guy Vanthemsche: “Nei primi quattro decenni della presenza belga in Congo, il numero dei congolesi declina in modo spettacolare. Alcune regioni si spopolano. Ma qual’è il bilancio totale del fenomeno? Di certo, centinaia di migliaia, forse milioni di persone persero la vita dopo l’intrusione dei bianchi. Sfortunatamente non è possibile essere più esatti e la polemica attorno al numero “preciso” è inutile, poiché nessuno storico serio, belga o straniero, mette ormai in dubbio l’essenziale, ovvero l’orrore del regime di lavoro leopoldino”.
All’inizio del Novecento le ragioni dell’EIC iniziarono a vacillare. Una pesante campagna internazionale, promossa dalla stampa anglo-americana, mise sotto scacco l’intera costruzione congolese. I crudi reportages dell’americano George Williams e del britannico Edmund Morel, supportati dai rapporti del console inglese Roger Casement, scandalizzarono i lettori londinesi e statunitensi e, di conseguenza, le opinioni pubbliche europee. Leopoldo cercò di negare, controbattere; dietro alle inchieste giornalistiche e le campagne umanitarie, il sovrano intravedeva, non del tutto a torto, manovre albioniche e intrighi internazionali tesi a scardinare il suo, ormai troppo ambito, possedimento. Nel 1904, il re fu costretto ad aprire le porte del suo possedimento privato e istituire una commissione d’inchiesta internazionale. Un passo obbligato ma fatale. Al loro rientro i commissari confermarono, in termini prudenti ma inoppugnabili, gran parte degli abusi e degli orrori de l’Etat Indipéndent du Congo. Subitamente, il “padre padrone” del Congo divenne per ogni corte, governo, ambasciata e banca un personaggio indesiderato, impresentabile. I centri finanziari brussellesi sussultarono e la monarchia divenne nuovamente impopolare.
Con un ultimo guizzo di lucidità, l’ormai vecchio Leopoldo si convinse che l’unico modo per salvare il suo grande sogno era donarlo al piccolo Belgio: da qui la decisione di scaricare sui suoi poco amati sudditi l’ormai troppo pesante fardello africano. Il 18 dicembre 1908 — dopo un’estenuante trattativa che garantiva un lascito importante ai suoi eredi e certo che le caldaie di Laeken avessero inghiottito tutti i documenti dell’archivio dell’EIC — Sua Maestà donava allo Stato belga il suo lontano dominio. Il tempo di Lepoldo era finito. Un anno dopo, il 19 dicembre, il monarca si spense. Nell’agonia trovò la forza per sussurrare minaccioso al suo primo ministro: “Se mai cederete a chicchessia un pollice di terra congolese, il vostro re si leverà dalla tomba”. In tutta la sua lunga vita non aveva mai visto nemmeno un lembo del suo regno africano.
Il jihad nel cuore dell’Africa: l’evoluzione terroristica dell’Adf. Mauro Indelicato su Inside Over 2022.
“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
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Beni è una delle più importanti città del North Kivu. Qui convogliano le strade N2 e N4: la prima scende verso il capoluogo Goma, la seconda risale invece nell’Ituri e lungo le sponde del lago Albert. Ma soprattutto qui si è a una manciata di chilometri dal confine con l’Uganda. Gli abitanti di Beni e dei villaggi vicini sono forse i principali testimoni della brutalità e della pericolosità di un gruppo da anni consolidato nella regione, quello cioè dell’Adf, acronimo di Allied Democratic Force. Un nome che, per l’intera regione dei Grandi Laghi, è sinonimo di estremismo e terrorismo islamico.
Dall’Uganda al Congo
Il 16 novembre una serie di attacchi hanno sconvolto Kampala, la capitale dell’Uganda. La matrice, secondo il presidente ugandese Museveni, è chiara: gli attentati sono opera dell’Adf. Un “ritorno alle origini” per la formazione criminale. I miliziani da circa due decenni costituiscono una delle (tante) minacce alla sicurezza nella martoriata regione congolese del North Kivu. Ma il gruppo è nato ben prima al di là del confine. Nel 1995 in Uganda è stata annunciata la formazione dell’Allied Democratic Force, milizia da subito antagonista al governo di Museveni. All’inizio si parlava di “semplice” ideologia islamista. A fondare l’Adf è stato infatti Jamil Mukulu. Lui, cattolico convertito all’Islam, ha da sempre avuto fama di leader carismatico in grado di fare ampio proselitismo soprattutto nelle campagne occidentali dell’Uganda. Tanto da riuscire, dopo un’ampia opera politica e diplomatica, a unire le forze di più gruppi per dar vita all’Adf. Hanno appoggiato la sua causa infatti i membri dell’Esercito nazionale per la liberazione dell’Uganda, dell’Esercito di liberazione musulmano dell’Uganda, nonché alcune centinaia di militanti ugandesi del movimento Tablighi Jamaat. Mukulu è sempre stato fautore dell’instaurazione di un califfato ugandese retto dalla Sharia, la legge islamica.
Era però ben consapevole che operare nel suo Paese sarebbe stato molto difficile. Museveni ha scagliato contro i miliziani l’esercito e ha sempre promesso una lotta senza quartiere all’Adf. Per questo Mukulu ha stabilito la sua base nelle province occidentali dell’Uganda. Qui la natura rurale del territorio ha giocato un ruolo a vantaggio dell’Adf. Anche se è stato soprattutto un altro fattore a rivelarsi decisivo per Mukulu: la vicinanza con un confine congolese esistente di fatto solo sulla carta. Quando da Kampala è partito l’ordine, sul finire degli anni ’90, di stanare il movimento, lo stesso Mukulu e i suoi più stretti seguaci si sono spostati nel North Kivu. Qui, tra le foreste del Virunga, hanno potuto impiantare nuovamente le proprie basi.
Ad accorgersene sono stati in special modo gli abitanti di Beni. Per finanziarsi il movimento islamista è dovuto ricorrere a rapine e razzie di ogni tipo, compiute a danno della popolazione civile. Le incursioni nelle città e nei villaggi vicini al confine sono state una costante soprattutto a partire dal 2011. Una guerriglia avviata non tanto in nome del califfato e né in nome dell’Islam ma, al contrario, con lo specifico intento di terrorizzare la popolazione e derubare quante più risorse possibili. Le aree settentrionali del Nord Kivu, già martoriate da anni di guerra, hanno dovuto fare i conti anche con l’Adf. Centinaia sono stati i saccheggi e le stragi compiute contro i civili, con l’esercito di Kinshasa ben lontano dal sapere ristabilire le più basilari condizioni di sicurezza.
La nuova cellula dell’Isis nella regione dei Grandi Laghi
Una svolta si è arrivata nel 2015. In Tanzania è stato arrestato dopo anni di latitanza proprio Mukulu. Una cattura che ha comportato subito dopo l’estrazione in Uganda, dove dal carcere adesso il terrorista sta pagando i conti con la giustizia. Da dietro le sbarre però il fondatore dell’Adf ha provato a continuare a influenzare le scelte del movimento. Tuttavia le redini sul campo sono state prese da un suo ex “delfino”, Musa Baluku. Quest’ultimo, oltre a proseguire con la strategia delle violenze nella regione, ha iniziato a far avvicinare il gruppo all’Isis. Una piega diversa rispetto a quella voluta dal fondatore. Mukulu ha sempre propagandato la nascita di uno Stato Islamico in Uganda, mai invece è sembrato favorevole al progetto di un unico grande califfato islamico. Da questo momento in poi l’Adf ha iniziato un graduale processo di frammentazione. Una parte ha aderito all’Isis assieme a Baluku, un’altra invece è rimasta fedele a Mukulu. La scissione non ha però indebolito le varie cellule del gruppo.
Al contrario, soprattutto dal 2017 in poi l’Adf si è presentato più radicalizzato e meno controllabile proprio per via delle tante scissioni interne. Nel 2019 Baluku ha giurato pubblicamente fedeltà all’Isis, dichiarando il gruppo ugandese organico al cosiddetto Stato Islamico dell’Africa centrale. Tuttavia quando si parla di seguaci del califfato in Congo e in Uganda si fa sempre riferimento alla sigla Adf, non a caso inserita sempre nel 2019 dal dipartimento di Stato Usa nella lista delle organizzazioni terroristiche. Come spiegato dagli esperti dell’International Crisis Group, la fazione più pericolosa dell’Adf è quella legata a Baluku e all’Isis. Le cellule scissioniste sono divise a loro volta in tanti gruppi attivi nel Virunga. Le minacce arrivano comunque da entrambi i fronti. Lo sa bene il governo di Kampala che, nella regione di Beni, ha inviato in accordo con il governo congolese un contingente di militari contro l’Adf dopo gli attacchi del 16 novembre. Qual è il crocevia del mondo di domani?
L’altra verità su Libia e ONG del mare: intervista a Michelangelo Severgnini. Andrea Legni su L'Indipendente il 9 dicembre 2022.
In un eterno dibattito tra porti chiusi e aperti, diritto ad essere salvati e difesa dei confini la prospettiva su un tema complesso come quello delle migrazioni si riduce a tifo da stadio, lasciando fuori dal discorso non solo le cause dei fenomeni, ma anche tutta una serie di altri effetti sul campo che, numeri alla mano, dovrebbero riempire il dibattito pubblico e interessare chiunque abbia a cuore i diritti umani. È il caso della Libia, Paese uscito devastato dall’aggressione militare guidata da USA e Francia nel 2011 e divenuto prigione a cielo aperto per centinaia di migliaia di disperati. Una fenomeno del quale noi vediamo solo quella punta dell’iceberg composta dai pochi che riescono a imbarcarsi per attraversare il Mediterraneo. Michelangelo Severgnini, regista e scrittore, è tra i pochi che hanno cercato di vedere al di sotto della superficie. Lo ha fatto in prima persona, battendo ogni angolo di Libia attraverso contatti in rete e raccogliendo informazioni e testimonianze di prima mano. E poi l’ha raccontata e analizzata con spunti critici che chiamano in causo non solo il Governo e le istituzioni internazionali, ma anche le ONG che operano in mare. In particolare con un libro (L’Urlo) e un documentario omonimo, la cui proiezione nei giorni scorsi è stata interrotta e censurata durante il “Festival dei Diritti Umani” di Napoli, a causa delle proteste di alcuni invitati. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per una chiacchierata sulla realtà libica.
Partiamo appunto da quanto accaduto a Napoli, cosa è successo?
Che dopo appena 20 minuti di proiezione i responsabili di alcune ONG, seduti in prima fila, si sono alzati in piedi e uno di questi è andato alla consolle imponendo di sospendere la proiezione. Poi hanno presso il microfono iniziando ad accusare il mio lavoro e me come professionista, senza permettermi di ribattere e senza permettere a nessuno dei presenti di continuare a vedere il documentario sino alla fine e farsi un’idea con la propria testa.
Cosa li ha indispettiti di quanto hanno visto?
Nel mio lavoro sono presenti interviste a migranti che si trovano in Libia che smontano una certa narrazione. In Libia ci sono centinaia di migliaia di africani intrappolati, usati come schiavi. Sono arrivati lì pensando fosse un modo semplice per arrivare in Europa a cercare una vita migliore, poi la verità gli è come esplosa in faccia, sono prigionieri, la maggior parte sono lì da anni. Nel mio documentario ho dato loro voce, senza filtri. Uno di loro dice, testuali parole: «Molti qui vogliono solo tornare a casa ma voi europei piuttosto ci volete spingere ancora una volta a rischiare la vita in mare». Nel momento in cui lui dice “spinge” in realtà cosa vuol dire? Che lui come tanti altri seguono online le pagine delle ONG e ne subiscono di fatto la comunicazione che di fatto li spinge a imbarcarsi rischiando la vita. Si tratta di spunti che andrebbero dibattuti, invece proprio in una proiezione dove erano presenti i responsabili di alcune importanti ONG si è dimostrato che non c’è possibilità di confronto su questi argomenti, si è aperto un fuoco di fila nei miei confronti e non un dibattito.
Ho visto il documentario quando già ero a conoscenza di quanto avvenuto al Festival dei Diritti Umani e ammetto di essermi approcciato ad esso influenzato dal polverone sollevato, pensando fosse un lavoro che nega il valore dei diritti umani. Invece ho trovato un lavoro dal quale traspare non solo un grande interesse giornalistico per quanto accade in Libia, ma anche una sincera empatia con i ragazzi africani, ai quali dai voce. Trasmetti il fatto di preoccuparti realmente per loro e per la loro salvezza, perché trovi che il lavoro delle navi ONG che cercano di trarli in salvo non sia da difendere?
Parlando per 4 anni con centinaia di migranti in Libia, questi mi hanno insegnato che si tratta di un sistema fallace e nocivo per i migranti stessi. La traversata del Mediterraneo è la rotta più pericolosa al mondo, le possibilità di annegare sono altissime, ma i migranti intrappolati in Libia sono talmente disperati da affrontarla. I ragazzi africani hanno lo smartphone, per loro è un bene di prima necessità assoluta per comunicare, e sanno quando sono presenti le navi ONG al largo e sono spinti a mettersi in mare nelle mani dei trafficanti. Molti di loro annegano prima di essere recuperati. Quindi molti di loro riferiscono che la presenza delle navi ONG sia dannosa. Inoltre c’è un altro aspetto che è quello mediatico. Credere che la cosa più importante sia concentrarsi sul salvataggio dei ragazzi in mare così come ci hanno raccontato le ONG è una forma di distrazione di massa. In Libia ci sono circa 700.000 esseri umani intrappolati e schiavizzati, chiedono solo di poterne uscire, la maggior parte vorrebbe tornare a casa ma non può perché c’è il deserto da attraversare e i trafficanti e le mafie non offrono il servizio a ritroso. Solo un migrante che si trova in Libia su 18 riesce ad arrivare in Europa, ovvero chi ha i soldi per pagare i trafficanti, gli altri sono intrappolati e noi non li vediamo. Molti di loro vivono come schiavi da anni. Le ONG pensano a salvare le persone in mare, come se questo fosse un fenomeno slegato da tutto il resto, quando invece è la conseguenza di cause e politiche ben precise che loro con questa narrazione del salvataggio contribuiscono a non affrontare.
Qual è il percorso di un migrante che arriva in Libia?
Quando arrivano in Libia, e parlo della Tripolitania, quella del governo fantoccio sostenuto dai Paesi occidentali, Italia inclusa, i migranti si trovano di fatto in quella che, con il supporto internazionale, è divenuta una zona franca internazionale di libero sfruttamento del nero africano. Significa che chiunque in Tripolitania è legittimato a ridurre in schiavitù chiunque abbia la pelle nera e a fargli qualsiasi cosa perché è niente meno che quello che fanno le milizie governative, di conseguenza anche i liberi cittadini fanno le stesse cose senza timore che nessuna autorità gliene chieda conto. I migranti sono sottoposti frequentemente a torture a scopo di estorsione, quando la vittima è disperata e urla supplicandoli di smettere telefonano alla famiglia dicendogli: «O ci mandate soldi o lo uccidiamo». La famiglia ovviamente fa di tutto per salvarlo, trova i soldi, li invia tramite le mafie delle loro città che sono in affari con i libici. A quel punto la vittima viene liberata e lasciata per la strada col rischio di essere arrestato o messo sotto tortura da un nuovo carnefice. A ogni migrante in Libia vengono estorti più volte i soldi, attraverso questo sistema o attraverso la Guardia Costiera libica, un’associazione criminale che opera anche con i soldi dello stato italiano. Il migrante paga per partire sognando di arrivare in Europa, la Guardia Costiera intercetta il gommone e lo riporta indietro, i soldi sono persi e il migrante si trova di nuovo all’inferno. Questa è la situazione e questi sono i motivi per cui le mafie li spingono a partire, non perché servono i soldi del passaggio ma perché sanno che una volta riportati in Libia probabilmente intascheranno parte dei soldi del riscatto per salvarli dalla tortura.
Nel tuo lavoro fai anche una accusa dettagliata, affermando che l’Europa, Italia inclusa, sostiene il governo di Tripoli rendendosi di fatto complice del sistema che hai descritto, perché in cambio ottiene petrolio di contrabbando…
È così, non lo affermo io ma documenti ufficiali che ho potuto consultare. Il governo di Tripoli, che anche l’Italia sostiene, controlla appena il 20% del territorio e nemmeno un pozzo di petrolio. Usa i fondi europei per alimentare le milizie che derubano il petrolio nel territorio governato dal governo rivale che ha sede a Bengasi. Sappiamo che ogni anno il 40% del petrolio libico viene trafugato dalle milizie di Tripoli e che almeno parte di esso è inviato verso l’Italia, il resto verso Malta, Grecia e Turchia. Questa è l’unica storia che c’è da raccontare e sulla quale serve chiarezza, tutto il resto è una conseguenza.
Insomma, ai Paesi occidentali torna comodo che la Libia sia uno stato fallito?
Lo scorso dicembre, un anno fa, si sarebbero dovute tenere finalmente le nuove elezioni in Libia, ma sono state annullate una settimana prima dalle solite milizie, probabilmente su input degli Stati Uniti o della Turchia perché Saif Gheddafi (figlio dell’ex rais, ndr.) era dato a più del 60% quindi con ogni probabilità sarebbe diventato presidente. Se fosse accaduto tutto questo cumulo di potere concentrato a Tripoli sarebbe saltato per aria e sarebbero stati archiviati dieci anni di politiche coloniali della NATO sulla Libia. L’emissario USA per la missione delle Nazioni Unite in Libia in quei giorni dichiarò che nel Paese la stabilità è più importante della democrazia. Questi sono i metodi con cui l’Occidente ha trattato la Libia negli ultimi anni. Ma l’interesse è quello di raccontare tutta un’altra storia: farci credere che in Libia sono tutti uno contro l’altro, reiterando il mito del mediorientale litigioso di cui parlava Edward Said nel suo libro Orientalismo, e quindi l’unica cosa che possiamo fare noi europei è quella di buttarci in mare e salvare questi poveri cristi che scappano. Non è così. Il 80% del territorio libico è sovrano e in pace, il caos lo stiamo facendo noi continuando a finanziare le milizie di Tripoli allo scopo del saccheggio di petrolio.
E incastrati in questo inferno che chiamano “stabilità” ci sono appunto 700mila schiavi, cosa bisognerebbe fare per loro, secondo te, se non salvarli in mare?
44 mila tra loro hanno già ottenuto lo status di rifugiati o richiedenti asilo, questi dovrebbero essere semplicemente caricati su un aereo e portati in Europa, non costretti a rischiare attraversando il mare con un gommone sgonfio. Ne abbiamo accolti in Italia più di 100mila in pochi mesi dall’Ucraina. Qui c’erano 44 mila persone da distribuire tra i Paesi europei negli ultimi 5 o 6 anni e non siamo riusciti a farlo. Agli altri, quelli che non sono arrivati in Libia scappando da persecuzioni, ma perché sono stati convinti a credere nel sogno dell’emigrazione per migliorare la propria condizione economica, dovrebbe essere offerto un piano di ritorno a casa assistito. La maggioranza di chi si trova in Libia vorrebbe tornare a casa perché nessuno ha intenzione di fermarsi una settimana in più in quell’inferno. Il problema è che sono in trappola.
In tutto questo il dibattito in Italia è tutto sulla questione dei porti aperti o chiusi, una sorta di inganno che finisce per dividere su come affrontare gli effetti di una crisi e non le cause, parlando di barche anziché di neocolonialismo. Tu nel tuo lavoro affermi che siamo vittime di una narrazione fiabesca, anche chi si batte per i diritti dei migranti lo è a tuo avviso?
Esattamente, bisogna distinguere tra gli attivisti sul territorio e sulle navi, che sono spinti dalle migliori intenzioni, e i responsabili. Quello che questi ultimi stanno facendo è cercare di impedire che i loro sostenitori vengano a conoscenza del reale quadro della questione. Per questo hanno reagito con tanta rabbia impedendo la proiezione del mio documentario. Devono proteggere una narrazione fiabesca dalla verità dei fatti, mentre io semplicemente do voce agli schiavi libici.
Cosa dovrebbe fare l’informazione per riportare una narrazione corretta?
Per prima cosa bisogna prendere coscienza di cosa sia in realtà il cosiddetto governo che stiamo sostenendo contro gli interessi nostri e degli stessi migranti. Il governo di Tripoli è una banda di predoni che ruba il petrolio e ha introdotto un sistema di schiavitù sugli africani utilizzando lo spauracchio delle migrazioni per ricattarci. A Bengasi, invece, dove io sono stato anche la settimana scorsa, esiste un governo che noi consideriamo illegittimo. Il governo di Bengasi è l’unico che ha la fiducia del parlamento eletto dai Libici nelle elezioni del 2014. Questo stesso parlamento ha istituito l’Esercito Nazionale Libico il cui regolare comandante è Haftar. Questi viene tutt’oggi definito come un signore della guerra sui media. Ma la situazione è decisamente migliore, anche dal punto di vista dei diritti dei migranti, che non vengono schiavizzati o torturati. A Bengasi un litro di benzina costa tre centesimi di euro proprio perché loro hanno i pozzi di petrolio ma non possono venderlo all’estero. Stanno aspettando a braccia aperte le compagnie italiane. L’Italia non sta perseguendo i propri interessi né quelli dei diritti umani.
Quindi perché a tuo avviso i governi italiani continuano ad appoggiare un governo apparentemente contro i propri interessi e che schiavizza i migranti?
Quando l’Italia ha deciso di bombardare la Libia, benché noi in quegli anni stessimo facendo degli affari d’oro con Gheddafi, molto probabilmente il ragionamento che è stato fatto dal governo di allora, guidato dal centro-destra fu: perché aspettate che Gheddafi venga ad investire in Italia con i proventi del petrolio quando potremmo andare a metterci le mani direttamente su questo petrolio?
Un ragionamento tipicamente coloniale, di depredazione…
Esatto. Tanto è vero che nel gennaio 2012 uno dei primi provvedimenti del governo Monti appena insediato fu quello di liberalizzare il mercato di idrocarburi e da allora sono nate una miriade di compagnie discount incaricate della vendita del petrolio libico rubato. C’è stata un’indagine della procura di Catania nel 2018 che ha portato all’arresto di alcuni esponenti della mafia che trafficavano petrolio illegale dalla Tripolitania, ma poi è stata fermata. Questo modello predatorio si è inceppato quando i libici hanno ricostituito il proprio esercito nazionale che era stato disciolto nel 2011. È nato come un gruppo di resistenti, hanno sconfitto i terroristi dell’Isis che agivano in combutta con la Turchia. Oggi è un vero esercito, istituito formalmente con voto del parlamento libico nel 2015. Sono passati sette anni ma in Europa continuiamo a definirlo la milizia di Haftar, come se si trattasse di una banda di predoni. Progressivamente hanno riconquistato tutti i pozzi di petrolio, ma non possono esportare ed anzi tengono a freno la produzione per evitare che venga saccheggiato dalle milizie comandate da Tripoli. Oggi possiamo dire senza dubbio che il modello costruito e sostenuto dall’Italia dopo la deposizione di Gheddafi è stato un fallimento. Non solo ha portato ad un impoverimento nostro e dei libici, ma di fatto ha creato questo scempio dei gommoni su cui muoiono i migranti, la schiavitù, la tortura, tutto questo. Questo modello deve saltare.
[di Andrea Legni]
Caso lager libici. Perché Salvini e Minniti sono stati denunciati per crimini contro l’umanità, cosa rischiano. Piero Sansonetti su Il Riformista l’1 Dicembre 2022
Una Ong europea, con sede a Berlino (si chiama "Centro europeo per i diritti umani e costituzionali") ha denunciato gli ex ministri di diversi paesi europei, ma soprattutto italiani, alla Corte penale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità.
L’accusa è di avere favorito il respingimento di migranti in fuga dai lager libici e di avere restituito queste persone alla guardia costiera libica. E anche di avere finanziato e favorito la guardia costiera libica e quindi anche i campi di concentramento dove i fuggitivi vengono maltrattati, spesso torturati, talvolta uccisi.
Tra gli ex ministri denunciati ci sono Marco Minniti, Matteo Salvini e Federica Mogherini. La Ong sostiene di disporre di montagne di prove e di poter dimostrare che le autorità europee hanno favorito in molti modi l’opera sistematica dei militari libici. C’è molto da discutere sullo strumento scelto dalla Ong. La denuncia penale, la richiesta ai magistrati di sostituirsi alla politica è sempre una scelta perdente. Il problema però è sul tappeto – è evidente – e la Ong ha fatto molto bene a sollevarlo.
Possibile che non esista una via politica alla rivolta contro i comportamenti delle autorità europee di vera e propria vessazione nei confronti dei migranti? Possibile che né nei partiti di destra né in quelli di sinistra esploda l’indignazione, e si costringa il potere a cambiare i propri orientamenti e a rientrare nel recinto della civiltà, abbandonato da molti anni?
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Denunciati all’Aja anche politici italiani e Ue per accordi con la Libia. Storia di Nello Scavo su Avvenire il 30 novembre 2022.
Ci sono anche esponenti politici italiani ed europei tra i soggetti su cui la Corte penale internazionale potrebbe avviare un’inchiesta per "crimini internazionali", commessi durante le operazioni di intercettazione nel Mediterraneo centrale e nei campi di prigionia in Libia.
Integrando una denuncia che era stata presentata un anno fa alla Corte penale, il Centro europeo per i diritti Umani e Costituzionali (European Center for Constitutional and Human Rights, Ecchr) ha fornito agli investigatori nuovi elementi per ricostruire la filiera degli «atroci crimini commessi contro migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel contesto libico».
Alcune settimane fa proprio da Tripoli il procuratore internazionale Karim Khan aveva annunciato la richiesta di mandati di cattura internazionali nei confronti di soggetti accusati di crimini di guerra e contro i diritti umani. La nuova denuncia estende la portata della precedente comunicazione alla Corte penale (Cpi) giudicata del novembre del 2021 e firmata da Ecchr insieme alla Federazione Internazionale dei Diritti Umani (Fidh), dall’organizzazione libica degli "Avvocati per la giustizia" (Lfjl). Venivano ricostruite «le responsabilità per presunti crimini contro l'umanità commessi nei confronti dei migranti nei vari campi di detenzione in territorio libico e il loro sfruttamento sistematico», spiega Chantal Meloni, docente associato di Diritto penale internazionale all’Università Statale di Milano e consigliere legale senior di Ecchr.
Il centro europeo per i diritti umani e costituzionali chiede di indagare sulla responsabilità penale individuale «di funzionari di alto livello degli Stati membri dell'Ue e delle agenzie dell'Ue in merito a molteplici e gravi privazioni della libertà personale». Tra i presunti coautori figurano esponenti politici ed ex ministri, come «gli ex ministri dell'Interno italiani, Marco Minniti e Matteo Salvini, l'attuale e l'ex primo ministro di Malta, Robert Abela e Joseph Muscat, l'ex Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, l'ex direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, nonché membri dei Centri di Coordinamento del Soccorso Marittimo italiano e maltese e funzionari di Eunavfor Med e del Servizio europeo per l'azione esterna (Seae)». Secondo l’esposto le condotte contestate potrebbero venire qualificate dalla procura internazionale sotto vari profili, compreso il reato di favoreggiamento nelle attività volte a intercettare migranti e rifugiati in mare per poi riportarli in Libia.
Commentando la notizia con il Guardian che aveva anticipato il deposito dell’esposto, Marco Minniti ha detto: "Non so della denuncia. La valuterò, come gli altri ministri dell’Interno dal 2017 ad oggi. All’epoca, l’accordo era stato firmato dal presidente del Consiglio italiano, Gentiloni, e dal suo omologo, al-Sarraj. Quindi, da tutti i registri, sembra che io non sia il firmatario".
Nelle 180 pagine consegnate all’Aja vengono introdotti ulteriori «elementi fattuali e giuridici sulle operazioni con cui migranti e rifugiati vengono intercettati in mare e riportati in Libia. La denuncia - chiarisce la professoressa Meloni - giunge alla conclusione che le operazioni con le quali i migranti vengono intercettati nel Mediterraneo e riportati in Libia, spesso dalla cosiddetta. Guardia Costiera Libica con il coordinamento di attori europei, costituiscono di per sé crimini contro l'umanità».
In altre parole, quelle svolte in mare non sono operazioni di soccorso, ma «crimini contro l'umanità sotto forma di grave privazione della libertà personale» secondo lo Statuto di Roma, l’atto fondativo della Corte penale dell’Aja.
Vengono esaminati 12 casi di intercettazione in mare e successiva reclusione nei campi di prigionia libici dal 2018 al 2021. In tutti gli episodi esaminati emerge anche da documenti ufficiali la la cooperazione tra le agenzie dell'Unione europea (in particolare la Commissione europea, Eunavformed e Frontex) e gli Stati membri (tra cui Italia e Malta) con gli attori libici, sia a livello politico che operativo, nella piena consapevolezza che le persone verranno poi ricondotte contro la loro volontà in strutture di reclusione nelle quali vengono commessi quelli che le Nazioni Unite più volte hanno definito «orrori indicibili».
Dal 2016 le agenzie dell'Ue e gli Stati membri hanno potenziato lo sviluppo delle capacità e le attività di supporto alle varie agenzie libiche «fornendo finanziamenti, motovedette, attrezzature e formazione, nonché partecipando direttamente a singole operazioni di intercettazione in mare, ad esempio fornendo informazioni sulla posizione delle imbarcazioni in pericolo», si legge nell’esposto.
«Il trattamento disumano e le condizioni di detenzione di migranti e rifugiati in Libia sono ben noti da molti anni. La Libia non è un luogo sicuro per migranti e rifugiati. Il diritto marittimo internazionale prevede che le persone soccorse in mare debbano essere sbarcate in un luogo sicuro. Nessuno dovrebbe essere riportato in Libia», afferma Andreas Schueller, direttore del programma sui crimini internazionali di Ecchr.
Oltre ad ottenere documentazione ufficiale, il Centro europeo per i diritti umani e costituzionali ha esaminato le informazioni provenienti da svariate altre fonti, tra cui Initiative Watch the Med - Alarm Phone, Open Arms, Border Forensics, Frag den Staat e Human Rights Watch, «oltre a diversi giornalisti d’inchiesta che hanno fornito informazioni cruciali sulla collaborazione tra gli attori libici e i funzionari delle agenzie dell'Ue e degli Stati membri e sulla complessa rete di attori coinvolti congiuntamente negli aspetti relativi alla gestione delle frontiere». Ulteriori informazioni sono state raccolte e analizzate «da rapporti pubblici attendibili e da dati pubblicamente accessibili».
Tra le figure segnalate alla procura vi sono anche «l'ex primo ministro del Governo di accordo nazionale libico (Gna), il ministro degli Esteri, il ministro degli Interni, il vice primo Ministro, l'ex e l'attuale ministro della Difesa, l'ex e l'attuale Capo della direzione per la lotta alla migrazione illegale (Dcim)», oltre membri di milizie e gruppi armati che operano formalmente sotto le autorità libiche, e l'equipaggio delle navi mercantili libiche coinvolte nelle intercettazioni illegali.
Da repubblica.it l’11 Dicembre 2022.
Il cittadino libico accusato di aver fabbricato la bomba che distrusse il volo Pan Am 103 nei cieli di Lockerbie in Scozia 34 anni fa è nelle mani delle autorità americane.
Gli Usa ricercavano Abu Agila Masud da due anni, sostenendo che avesse avuto un ruolo chiave nell'attentato del 21 dicembre 1988. Lo riporta la Bbc.
Il mese scorso era emerso che Masud era stato rapito da miliziani in Libia, e si ipotizzò che sarebbe stato consegnato alle autorità americane per essere processato.
L'esplosione a bordo del volo Boeing 747 da Londra a New York provocò la morte di 270 persone. Per l'attentato era stato condannato all'ergastolo un altro cittadino libico, Abdul Basset al Megrahi, da un tribunale scozzese istituito all'Aja, ma rilasciato nel 2009 perché malato di cancro e rimandato in Libia, dove è morto nel 2012.
Lockerbie, catturato il libico che fabbricò la bomba. L'annuncio: "Gli Usa hanno preso in custodia Abu Agila Masud. Prima udienza a Washington". Valeria Robecco il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.
A 34 anni dall'attentato che fece esplodere un aereo della Pan Am mentre sorvolava l'area di Lockerbie, in Scozia, l'uomo sospettato di aver fabbricato la bomba che provocò la morte di 270 persone è nelle mani delle autorità americane. L'annuncio è arrivato dalla Scozia, ma a stretto giro anche il dipartimento di Giustizia Usa ha confermato la notizia: «Gli Stati Uniti hanno preso in custodia il presunto fabbricante di bombe del volo Pan Am 103, Abu Agila Mohammad Masud Kheir Al-Marimi», ha detto un portavoce, precisando che il cittadino libico dovrebbe «fare la prima apparizione presso il tribunale federale per il distretto di Columbia, a Washington».
Circa due anni fa gli Usa hanno accusato Abu Agila Masud per il suo presunto coinvolgimento nell'attentato del 21 dicembre 1988 sul Boeing 747, distrutto mentre era in volo da Londra a New York (189 vittime erano cittadini americani): il mese scorso è emerso che era stato rapito da dei miliziani in Libia, e si ipotizzò che sarebbe stato consegnato alle autorità americane per essere processato. L'esplosione dell'aereo, che precipitò sul villaggio di Lockerbie, provocò la morte di tutte le 259 persone a bordo - passeggeri e membri dell'equipaggio - mentre altre 11 persone furono uccise dai rottami del jumbo che caddero sulle loro case. Rimane l'attacco terroristico più mortale che abbia mai avuto luogo sul suolo britannico. Il libico Abdelbaset Ali Mohmed al Megrahi è stato accusato insieme ad Al Amin Khalifah Fhimah di aver collocato esplosivi in una cassetta portatile e in un lettore radio che si trovava all'interno di una valigia sull'aereo. Nel 2001 al Megrahi fu condannato all'ergastolo come ideatore dell'attentato, dopo un processo in un tribunale scozzese convocato nei Paesi Bassi, per garantire campo neutro come chiesto dal governo di Muammar Gheddafi, che negava ogni coinvolgimento. Fu rilasciato (tra le polemiche) per motivi umanitari da Edimburgo nel 2009 dopo la diagnosi di cancro alla prostata, venne accolto come un eroe in patria e visse molto rispetto a diagnosi che lo davano in fin di vita. Morì in Libia nel 2012 a 60 anni. Fhimah, invece, è stato assolto. Un portavoce della procura reale scozzese ha fatto sapere che «pm e polizia scozzesi, in collaborazione con il governo del Regno Unito e i colleghi americani, continueranno a portare avanti l'indagine, con l'unico scopo di consegnare alla giustizia chi ha agito insieme ad Al Megrahi».
Libia, chi vuole riaprire il caso Lockerbie? Alessandro Scipione il 28 Novembre 2022 su Inside Over.
Qualcuno il Libia vuole riaprire il caso Lockerbie, l’attentato del 1988 al volo Pan Am 103 che uccise in Scozia 270 persone, per lo più cittadini statunitensi. Ignoti hanno rapito a Tripoli Abu Agila Mohammad Masud, ex agente dell’intelligence sospettato di aver costruito la bomba usata nell’attacco terroristico. Ad annunciarlo è stata la famiglia dell’ex ufficiale libico, denunciando il “silenzio” delle autorità che, in effetti, non hanno rivelato alcun dettaglio. Chi e perché ha rapito Masud, che oltretutto risultava essere in custodia non più di un anno fa?
Un dossier chiuso, anzi no
Il caso risale al 1988 quando una bomba esplose a bordo dell’aereo di linea statunitense, che si schiantò sul villaggio scozzese di Lockerbie uccidendo tutti i 259 passeggeri e 11 residenti locale. Il dossier venne chiuso nel 2008, quanto l’allora Jamahiriyya del colonello M’uammar Gheddafi ammise la responsabilità e pagò un maxi-risarcimento alle famiglie delle vittime. Ma dodici anni più tardi, il dipartimento di Giustizia Usa ha sporto una denuncia penale contro Masud, sospettato di aver assemblato il dispositivo che ha fatto saltare in aria il volo Pan Am 103. Non solo. Secondo la giustizia Usa, Masud sarebbe anche coinvolto nell’attentato del 1986 alla discoteca LaBelle di Berlino, nella Germania occidentale, che ha ucciso due militari americani e una cittadina turca. Nel novembre 2021, la ministra degli Esteri del Governo di unità nazionale (Gun), Najla el Mangoush, ha ammesso in un’intervista all’emittente televisiva britannica Bbc che la Libia potrebbe estradare Masud negli Stati Uniti. In concomitanza con l’intervista di Mangoush, il primo ministro libico Abdulhamid Dbeibah ha chiesto che il fascicolo fosse riaperto e che le persone coinvolte nel “caso che ha causato tante sofferenze” fossero ritenute responsabili.
Il rapimento i sospetti sulle milizie
Secondo una dichiarazione attribuita ai familiari di Masud, persone armate non identificate hanno fatto irruzione nella casa della famiglia nella zona di Abu Salim in piena notte, portando l’ex agente dell’intelligence ricercato dagli Stati Uniti verso una destinazione sconosciuta a bordo di due veicoli fuoristrada. L’area in questione è territorio della milizia Ghaniwa, che fa capo a Abdelghani al Kikli, tra i miliziani più potenti e noti in circolazione, già capo della Forza di sicurezza centrale di Abu Salim, ex milizia formata dopo il 2011 in uno dei più popolosi quartieri della capitale. Oggi la milizia Ghaniwa è inquadrata nell’Autorità di supporto alla stabilità (Ass), apparato di sicurezza creato nel gennaio 2021 e che è considerato la “longa manus” del premier Dabaiba.
Cui protest?
Il ministero della Giustizia del Governo di unità nazionale della Libia ha affermato in un comunicato stampa che il caso dell’attentato di Lockerbie del 1988 è “completamente chiuso dal punto di vista politico e giuridico, in conformità con l’accordo concluso tra Libia e Stati Uniti nel 2008”. E la Camera dei rappresentanti nell’est della Libia dominata dal generale Khalifa Haftar ha annunciato il “rifiuto categorico” dei tentativi di riaprire il dossier e di consegnare Masoud agli Stati Uniti. Tutti smentiscono, ma allora chi è responsabile di questo ennesimo arresto extra-giudiziale in Libia? Abdel Moneim al Arfi, membro della Camera dei rappresentanti libica della città di Al Marj (Libia orientale), ha dichiarato all’Agenzia Nova che “chi sta cercando di riaprire il caso Lockerbie, che sia parti libiche o straniere, vuole ricattare lo Stato libico”. A ben vedere, l’ipotesi più accredita resta quella che Masud sia stato rapito qualcuno che vuole acquistare benemerenze con l’occidente, e in particolare con gli Stati Uniti.
Da “La Verità” il 22 novembre 2022.
Fino a due giorni fa, a leggere Repubblica, c'era un governo populista che fabbricava paure costruendo emergenze. I numeri smentivano qualunque allarme in Italia, tutto serviva al governo come arma di distrazione. Poi, di colpo, ieri uno prendeva lo stesso quotidiano e scopriva in apertura di testata il «boom di sbarchi» dalla Libia. Pagina 2: «Mille sbarchi al giorno». Pagina 3: «Divisa e fuori controllo, la Libia è una polveriera». Pagina 4, intervista a Soumahoro. L'inchiesta? No, per quella basta un rigo. Titolo: «Bisogna coinvolgere l'Africa». E oggi? «Aiutiamoli a casa loro?».
Estratto dell'articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 22 novembre 2022.
C'è un numero, 15.374, quello degli sbarchi nelle ultime tre settimane in assoluta assenza di Ong nel Mediterraneo, due su tre con grandi pescherecci partiti dalla Libia orientale, che imbarazza il governo perché rischia di demolire il senso della crociata contro la flotta umanitaria.
E ce n'è un altro, 50.000, quello degli arrivi complessivi dalla Libia, che preoccupa perché è la cartina di tornasole di quanto, a fronte degli appena rinnovati accordi e finanziamenti al governo di Tripoli, l'Italia non abbia più da tempo interlocutori affidabili dall'altra parte del Mediterraneo. Un terzo numero, 19.113, quello degli egiziani approdati in Italia (che superano i tunisini da anni in testa alle nazionalità di chi riesce ad arrivare), conferma i timori che ormai si fanno strada da mesi: è dalla Cirenaica, dalle spiagge al confine tra Libia ed Egitto, che i trafficanti di uomini fanno partire a ritmo sempre più intenso grandi barconi con 5-600 persone a volta che riescono ad arrivare fino alla zona Sar italiana assicurandosi poi il soccorso della guardia costiera italiana e lo sbarco nei porti siciliani o calabresi.
Perché questa pressione crescente sull'Italia? Ad ottobre gli sbarchi sono stati praticamente il doppio del 2021, a novembre nonostante il maltempo non c'è stato un solo giorno senza arrivi. Scenari e numeri a fronte dei quali l'ambizione del governo Meloni di «governare e non subire i flussi», come dice il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, non è supportata da alcuna strategia se non quella di bloccare le Ong. Che - vale ricordarlo - nel 2022 hanno portato in Italia solo 10.276 persone delle 93.629 sbarcate. […]
Nord Africa fuori controllo?
Prima di mettere nero su bianco le proposte che venerdì Piantedosi porterà ai ministri dell'Interno europei convocati dalla Commissione in seduta straordinaria, è ai responsabili dei Servizi che la Meloni ha chiesto una previsione concreta di quello che l'Italia deve attendersi per i prossimi mesi. La prospettiva di chiudere l'anno superando quota 100.000 sbarchi ( come non avveniva dal 2017) sembra ormai certa.
E del tutto evidente è che non basta sventolare il vessillo del ritorno della politica dei porti chiusi alle Ong per frenare i flussi. Che, a dispetto del fantomatico rapporto di Frontex che nessuno ha mai visto, non risentono della presenza in mare delle navi umanitarie e sono invece decisamente mossi dalle sempre più difficili condizioni di vita nei Paesi di origine dei migranti e dall'instabilità dei governi di un Nord Africa che appare sempre più fuori controllo. Dalla Libia, alla Tunisia, all'Egitto, l'Italia fa evidentemente fatica a trovare interlocutori affidabili a cui chiedere di fermare le partenze ormai sempre più spostate verso la Cirenaica.
L'idea del governo di un Piano Mattei per l'Africa è al momento niente di più che una nebulosa. Difficile dunque presentarsi in Europa pretendendo rigore contro le Ong e responsabilità degli Stati di bandiera in assenza di qualsiasi strategia immediata per affrontare il vero nocciolo della questione. […]
I nuovi arrivi dall'Ucraina
E poi c'è l'inverno ormai arrivato in Ucraina e il timore che la prospettiva di una guerra ancora lunga in condizioni di vita sempre più proibitive possano muovere un'altra ondata di profughi verso quei Paesi che già adesso sostengono il peso maggiore dell'accoglienza, Polonia e Germania su tutti ma anche l'Italia che ha già superato la quota di 150.000 rifugiati prevista dal governo Draghi.
Movimenti di decine di migliaia di persone sullo scacchiere europeo che rischiano di condurre la trattativa tra i 27 Stati Ue al solito impasse. Soprattutto se i numeri dimostrano che l'Italia non è alle prese con nessuna emergenza immigrazione.
Bengasi, l’altra Libia. Domenico Pecile su L’Identità il 22 Novembre 2022
In via dell’Indipendenza, la principale arteria nel centro della città veccia, l’edificio del Consolato d’Italia è ridotto a un grumo di macerie. Ma tutta Bengasi è un susseguirsi di palazzi crivellati da colpi di mortaio, di case fatiscenti, di strade piene di macerie. Uno spettacolo che soprattutto la notte diventa spettrale. Una ex città tra le più floride della Libia devastata dalla furia omicida dell’Isis. Una città rasa al suolo. Una città e una regione, la Cirenaica, abbandonate da Europa e America a favore di Tripoli, la cui giunta militare e il governo fantoccio godono della protezione delle milizie “guidate da un criminale” e “finanziate anche con buona parte dei fondi che sarebbero destinati alla gestione del problema immigrazione”. Eccola, l’altra Libia. Quella di Bengasi. Quella dimenticata, oscurata, censurata, misconosciuta, abiurata. Eppure, la Cirenaica è la parte più prospera, più ricca di petrolio e di materie prime della Libia. Eppure lì, il Parlamento è stato eletto dal popolo. Eppure è lì che il terrorismo dell’Isis si è accanito con maggiore virulenza grazie alle armi “dei Paesi che come la Turchia e l’America appoggiano Tripoli”.
A raccontare una storia altra da quella “ufficiale” sono Vito Petrocelli, ex senatore dei 5 Stelle, Emanuele Dessi, membro del Partito comunista e Michelangelo Severgnini regista e scrittore, autore tra l’altro del libro e del film “L’Urlo” ed esperto di Libia. In questi giorni sono a Bengasi a toccare con mano “quello che non ci dicono”, a parlare con la gente, a visitare i centri dove arrivano gli immigrati, a confrontarsi con esponenti del Governo. La loro visita è una sorta di corollario dei quattro anni di ricerca e di studio con centinaia e centinaia di interviste sul campo che Severgnini ha realizzato sia a Bengasi che a Tripoli.
L’altro ieri sono stati accolti da Abdullah Al-Thani, ex premier che era assieme all’ex ministro degli Esteri, Abdul Hadi Al-Huweej, mentre ieri hanno incontrato, nelle rispettive sedi, il ministro della Difesa Ahmid Mouma e quello dell’Interno, Buzariba Issam. Più tardi hanno avuto un colloquio con il capo della polizia e il colonnello che gestisce i due centri di prima accoglienza. Hanno trovato una situazione – riferisce Dessi – sul modello di Lampedusa, ragazzi giovanissimi accampati in questi stanzoni che non capiscono nemmeno dove sono. Probabilmente alla partenza gli hanno promesso un mondo diverso, facili guadagni e il miraggio di un benessere più millantato che reale. E invece di una facile traversata del Mediterraneo si ritrovano in un Paese – con tutte le terribili conseguenze che ne derivano dai tentativi di fuga, alle violenze, dalla disperazione alle torture – che per legge riconosce come delinquenti chi entra nel suo territorio senza documenti. Storie, drammi, follia umana.
“Bengasi e la Cirenaica – racconta Dessi – fermano questi ragazzi e cercano perlomeno di favorire il loro rimpatrio, mentre a Tripoli il governo coloniale con i finanziamenti che ottiene per tutt’altri scopi paga le proprie milizie. Bisogna fare capire che se una guerra c’è stata è perché l’abbiamo voluta noi, armando le fazioni, aizzando il popolo e i Paesi vicini anche con le rivoluzioni farlocche Sì, siamo noi i veri responsabili di quanto è accaduto e accade”. Negli ultimi 20 anni l’Italia giocava un ruolo importante, fondamentale nello scacchiere geopolitico del Mediterraneo. Quella peculiarità è stata abbandonata prima a favore delle Francia e poi della Turchia, che soltanto pochi lustri fa contava poco o nulla. E Francia, Turchia, Europa e America – è il parere che va per la maggiore in Cirenaica – non anno nessuna intenzione di dare una mano a Bengasi per aiutarla nella ricostruzione. La Cirenaica non ha fondi, non si può autofinanziare. Pare condannata sine die a vivere tra le macerie, come fosse una maledizione e non un castigo voluto. “L’ex ministro degli esteri – riferisce Dessi – ci ha raccontato episodi drammatici della guerra contro l’Isis. Suo figlio di 9 anni è stato torturato. Eppure si dice pronto al perdono in nome di una Libia unita, pacificata e disarmata. L’obiettivo è anche quello di riallacciare i rapporti con diversi Paesi, in primis l’Italia, dalla quale però si sentono totalmente abbandonati, scaricati, dimenticati. Si chiedono con rabbia perché i soldi finiscano soltanto a Tripoli. Si, dimenticati e usati soltanto per fermare i ragazzi disgraziati che vogliono raggiungere l’Europa sui barconi della morte”.
Già, due Libie per un’unica polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro con conseguenze imprevedibili, complici il caro vita e i continui blackout elettrici. Un paradosso micidiale, quasi incomprensibile, se si pensa che il Paese ospita i maggiori giacimenti di greggio del continente. Manifestazioni si sono ripetute in diverse città come Tripoli, Misurata, la stessa Bengasi allo slogan di “vogliamo la luce”. Tra le richieste dei rivoltosi, che per lo più sono giovani, anche quella di abbassare il prezzo del pane.
Ma l’Occidente fa finta o non vuole vedere. Come si dimostra cieco – è il parere della delegazione – nei confronti della Cirenaica che politicamente e amministrativamente è di certo più vicina al modello occidentale rispetto alla “tirannide di Tripoli”. Tripoli e Bengasi, dunque. Due Libie, soprattutto dal punto di vista politico e amministrativo. Quella “rappresentativa” che è quella di Tripoli appoggiata e foraggiata dalla Nato e della Turchia e l’altra, che racchiude la gran parte del Paese e che oltre ad avere il petrolio ha anche l’acqua che è un’altra immensa ricchezza. Non solo, ma è sostenuta da un parlamento legittimato frutto di elezioni democratiche e da un governo eletto dallo stesso parlamento che non nessuna intenzione di inasprire i rapporti con Tripoli. “Il principale obiettivi politico del partito che ci ospita e che si chiama Movimento per il futuro della Libia – sostiene sempre Dessi – è quello di creare una Libia unita e quindi la Cirenaica ha tutto l’interesse a ritrovare l dialogo anche con quanti l’hanno abbandonata”. La soluzione non è dietro l’angolo. La Cirenaica sostiene che dopi gli accordi del 2008 tra Berlusconi e Gheddafi la situazione è drammaticamente peggiorata. Anzi, adesso l’Italia usa il nostro esercito – dicono a Bengasi – come una sua polizia sul posto per fermare i migranti. Dovremmo avere un sostegno concreto. Da noi – hanno riferito i rappresentanti del governo – si è verificata una vera carneficina nel totale silenzio dell’Occidente. Siamo stati costretti – aggiungono – a fare tutto da soli, ci siamo procurati le armi nei pochi magazzini a disposizione oppure rubandole all’Isis. Ciò non ha impedito al nemico di radere al suolo intere città. Qui è stata dimenticato ogni sacrificio umano, qui c’è da ricominciare quasi da zero, qui bisogna rimettere mattone su mattone. “E l’appoggio internazionale – insistono i membri della delegazione – ovviamente non c’è perché viene invece preferito il governo fantoccio di Tripoli”. Dessi, Severgnini e Petrocelli si dicono comunque certi che prima o poi la Liberazione ci sarà. Certo, sarà necessario però che l’Occidente accetti libere elezioni, dopodiché dovrà rendersi conto che il vincitore sarà la parte a lui sgradita, ma forse capirà che questa parte garantirà una Libia unita e più democratica. Bengasi ha già pronto anche il nome del futuro presidente: Saif Gheddafi, figlio dell’ex Rais.
Quello che abbiamo notato – riferiscono ancora – è la ripetuta, grandissima volontà di uscire dall’isolamento, di riallacciare rapporti con diversi Paesi, volontà che rimbalza ancora contro il muro di gomma dell’ostracismo occidentale. “E pensare che i governi italiani degli ultimi anni – chiosano – hanno progressivamente ridotto a un quarto i rapporti commerciali miliardari. Un paradosso, se si pensa alla nostra dipendenza energetica”.
Domenico Quirico per “La Stampa” il 31 ottobre 2022.
Cerco un ragazzo di 17 anni, con i capelli crespi e scuri, gli occhi sono dilatati dal dolore. Si può guardare attraverso quegli occhi come se non finissero mai. È magro e sottile come la sua gente. Conosco il luogo in cui è nato, i luoghi della sua infanzia e adolescenza: il Tigrai con le ambe e le valli dove il verde si rannicchia succhiando la vita. So anche il suo nome: Abdul Razaq. Lo immagino camminare attraverso montagne e deserti, lo vedo coperto di polvere su pick up che corrono su piste segnate dall'usura dell'uomo. È uno di coloro per cui non c'è nulla che li aspetti, in nessun luogo, che devono portare tutto con sé, che sono dispersi come le perline di una catenella che si sia sfilata. Migranti.
La distanza tra il Tigrai un piccolo pezzo di mondo calpestato dall'odio e dalla fame, è di alcune migliaia di chilometri. Non so quanto tempo un ragazzo di 17 anni impieghi a percorrere questo abisso. Mesi? Forse anni? Vogliano concedergli mesi per cercare i soldi con cui pagare le tappe successive del viaggio o soltanto per riposare un po'. Non so quanto arrivare in Libia gli sia costato. I prezzi della tratta variano dipende alla domanda e dalla offerta. È il capitalismo signori, il libero mercato: droga uomini merci che differenza fa? Forse mille euro, forse di più. Non lo so.
So che il suo cammino è terminato, in un posto che si chiama Janzur, Libia. No. Abdul Razaq non ha compiuto l'ultimo balzo con il gommone o la barca, il dettaglio che lo fa diventare per noi qualcosa. Da respingere o da salvare. In questo caso lo avrei trovato a Lampedusa o sulla nave di qualche organizzazione umanitaria che incrocia sulla rotta della morte.
Bandiere scolorite dei diritti dell'uomo, la svendita di un continente, marea montante del fango, da dieci anni, popoli respinti lentamente al macello. Un burocratico, mediocre avvilente crepuscolo degli dei. In fondo Abdul non è nemmeno un migrante, si è fermato prima, è niente. È finito nel setaccio che abbiamo preparato per quelli come lui, oggetti senza valore in sé ma che si possono far fruttare. Sta sperimentando la soluzione che abbiamo inventata dall'altra parte del mare per risolvere il problema della migrazione, quella che ci dà fastidio, perché arriva da quell'insopportabile, puzzolente Sud del mondo.
Mi piacerebbe parlare con lui: che cosa pensa, che cosa sente, che cosa sa, cosa confessa a se stesso e cosa non vuole rivelare per pudore e per dolore a sé e agli altri. Invece mi devo accontentare di un video: disumano o semplicemente troppo umano? Vi compare solo un ragazzo tigrino che viene torturato lungamente, implacabilmente in una luce pallida, malata, gialliccia da mani senza volto con scariche elettriche al collo al petto in tutto il corpo.
Vogliono soldi dalla sua famiglia, da chiunque, diecimila dollari per liberarlo o forse solo per non torturarlo più. Non so se basteranno per far sì che salga su un barcone diretto in Italia. Speri febbrilmente che il video finisca e ti prende la paura, aspra, inspiegabile, come se quando la sequenza si chiude dovessi trovare sfasciato il mondo.
Conosco i luoghi, le prigioni per i migranti, gli uomini feroci a cui noi, noi persone civili che amiamo la pace e odiamo l'ingiustizia diamine!, li abbiamo consegnati da anni. Avrei molte cose da raccontare, posso immaginare molte cose ma non voglio ricordi. Da anni ho deciso di non scriver più di migranti perché per raccontare gli esseri umani, le loro tragedie e non fare letteratura bisogna meritarselo: e io, noi che abbiamo fatto per meritarcelo?
Violo la mia promessa per Abdul Razaq: voglio guardarlo negli occhi, sentire la sua voce che non sia quel lamento di bestia torturata. Ma so che la pietà è una cosa da tempi tranquilli. Guarderemo il video. Si farà il possibile, se si può... seppelliamo i morti e divoriamo la vita. Ne avremo, noi, ancora bisogno
Arriva la bomba profughi dalla Libia. Fausto Biloslavo il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.
In una settimana 2.400 sbarchi. Le rotte dalla Cirenaica di Haftar, l'uomo di Putin
I barconi con centinaia di migranti in partenza dalla Cirenaica stanno aumentando fino al punto che solo nell'ultima settimana sono sbarcati in Italia 1.657 persone provenienti dalla Libia orientale feudo del generale Khalifa Haftar, che gode della protezione di Mosca. Non siamo all'esagerata notizia dell'operazione dei paramilitari russi di Wagner per influenzare il voto in Italia tirata fuori da Repubblica a fine luglio. Però potrebbe trattarsi di una «rappresaglia» contro di noi di Haftar, in un momento delicato di campagna elettorale, dopo che nave Grecale ha fermato un bastimento carico di armi destinato a Bengasi con il beneplacito di Mosca.
«Un campanello d'allarme. Un segnale dalla Cirenaica che ci mettono poco ad aprire un flusso importante anche dall'Est della Libia e non solo in Tripolitania da dove parte il grosso dei migranti (25.394 fino al 15 agosto nda)», spiega una fonte del Giornale che monitorizza il traffico di esseri umani.
Dal 16 al 24 agosto sono sbarcati in Sicilia e Calabria 2400 migranti provenienti dal Mediterraneo orientale con partenze dalla Turchia, dal Libano e dalla Cirenaica. Quasi il 70%, 1.657, si sono imbarcati a Tobruk o Derna nella Libia orientale. «I trafficanti usano vecchi pescherecci che stracaricano con 300-500 persone alla volta - spiega una fonte in prima linea sul mare - In 4-5 giorni di navigazione arrivano in Italia. Il fenomeno è in crescita nelle ultime settimane». Ieri a Catanzaro sono sbarcati 443, tutti uomini, che hanno navigato su un grosso peschereccio blu.
In risposta all'esagerato allarme russo lanciato da Repubblica, il sottosegretario leghista all'Interno, Nicola Molteni, aveva dichiarato che dalla Cirenaica erano arrivati circa 4mila migranti «con un lieve incremento nell'ultimo anno». In agosto il flusso è ulteriormente aumentato come se fosse un segnale da parte di Haftar e probabilmente dei suoi padrini a Mosca. Il generale controlla in maniera ferrea i porti e ha evidentemente dato via libera ai trafficanti. Fonti qualificate sospettano che il motivo sia un'operazione di nave Grecale schierata nella missione europea Irini per il controllo dell'embargo delle armi alla Libia. Il 18 luglio i marinai italiani intercettano la Victory Roro, una motonave diretta a Bengasi, «capitale» della Cirenaica, che batte bandiera della Guinea equatoriale amica della Russia. A bordo scoprono decine di veicoli progettati o modificati per uso militare diretti ad Haftar. E scortano la nave prima in Italia e poi a Marsiglia. Il generale ed i suo alleati russi non devono averla presa bene. E cominciano ad aumentare le partenze dei migranti dalla Cirenaica.
Per ora ancora in numero non determinante rispetto al totale di 52.632 arrivi fino al 25 agosto, ma fastidioso soprattutto se fosse mantenuto il flusso di 1.657 migranti dell'ultima settimana. «Basta poco a colpi di 400 persone al colpo su grossi barconi. Haftar chiude un occhio, ma non ci sono evidenze di ingerenza russa» spiega la fonte qualificata del Giornale.
La recente relazione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, però, conferma che «l'accelerazione delle partenze dei profughi dalla Cirenaica, in una regione in cui la Russia coltiva le proprie ambizioni attraverso la presenza dei gruppi mercenari della Brigata Wagner, espone in modo particolare il nostro Paese che è un naturale crocevia di rotte e flussi».
Le previsioni di intelligence sugli arrivi stimavano per fine anno 38mila dalla Libia e si siamo già al 15 di agosto, 18mila dal Mediterraneo orientale, compresa la Cirenaica se non esplode, 20mila dalla Tunisia e mille dall'Algeria. Un totale di 77mila sbarchi per difetto: 10mila in più rispetto allo scorso anno, oltre il doppio del 2020 e sei volte tanto il 2019.
Il generale Haftar condannato per crimini di guerra. Alessandro Scipione il 14 agosto 2022 su Inside Over.
Il generale libico Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica noto in Italia per aver sequestrato per 108 giorni i 18 pescatori di Mazara del Vallo, è stato giudicato responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante la seconda guerra civile libica del 2019-2020. La sentenza è stata emessa in contumacia da un tribunale distrettuale della Virginia, negli Stati Uniti, dopo la denuncia di alcune famiglie libiche che avrebbero subito torture e uccisioni extragiudiziali da parte dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna). Il caso civile è destinato ad avere uno scarso impatto al livello giudiziario, perché la difesa del “feldmaresciallo” libico ha evitato di entrare nel merito delle accuse, ritenute politicizzate, preferendo subire una condanna di default, cioè automatica. Ma al livello politico potrebbero esserci conseguenze per Haftar e per la discesa in campo dei suoi due figli, Saddam e Belgacer. E al livello economico il generale potrebbe essere costretto a sborsare un maxi-risarcimento da 50 milioni di dollari.
L’ombra delle fosse comuni
“Il diritto internazionale vieta o proibisce di trattare o avere rapporti con i signori della guerra, in altre parole con i criminali di guerra”, ha detto a Insideover una fonte diplomatica libica. Vale la pena ricordare che meno di quattro anni fa, nel dicembre 2018, il generale libico era stato accolto alla Conferenza per la Libia di Palermo come una stella del cinema. La fotografia della stretta di mano tra un sorridente Haftar e il primo ministro del Governo libico di accordo nazionale, Fayez al-Sarraj, aveva fatto il giro mondo con grande soddisfazione dell’allora premier Giuseppe Conte. “Non si cambia cavallo mentre si attraversa il fiume”, aveva assicurato l’uomo forte della Libia orientale, aprendo a un compromesso con Tripoli. Cinque mesi dopo, il generale si era tolto la cravatta Talarico regalatagli da Conte per indossare la divisa militare e marciare sulla capitale libica con l’ausilio dei mercenari russi del gruppo Wagner. La guerra si è poi conclusa 18 mesi più tardi con l’intervento della Turchia e la ritirata di Haftar. Eppure, come riferisce l’Agenzia Nova, le fosse comuni di quel conflitto continuano a spuntare ancora oggi.
Imbarazzo Usa
Commentando la sentenza, il dipartimento di Stato Usa ha fatto sapere che “gli Stati Uniti rimangono fortemente preoccupati in merito alle presunte violazioni dei diritti umani commesse dalle parti coinvolte nel conflitto in Libia”, ribadendo “la necessità di fare sì che i responsabili di abusi e violazioni del diritto internazionale umanitario rispondano delle loro azioni”. Una risposta da cui traspare un certo imbarazzo per i trascorsi di Haftar negli Stati Uniti e i presunti legami del “feldmaresciallo” con la Cia. “Questo verdetto avrà scarsi effetti sulla situazione libica. La famiglia Haftar è già pronta a perdere diversi beni negli Stati Uniti. I diplomatici statunitensi evitano già di apparire pubblicamente con il comandante ribelle”, ha dichiarato a Insideover Jalel Harchaoui, ricercatore specializzato in Libia.
Quale impatto?
Nonostante la sentenza, secondo Harchaoui, Haftar continuerà a ricevere un forte sostegno da diverse nazioni, come ad esempio dall’Egitto del presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi. “Nulla di tutto ciò cambierà a seguito della causa civile in Virginia. L’effetto netto è prossimo allo zero”. Esam Omeish, presidente della Libyan American Alliance, gruppo di pressione che sostiene le famiglie querelanti, è invece convinto che la sentenza danneggerà Haftar sia in patria che all’estero. “All’interno della Libia, è un campanello d’allarme per molte persone che stanno cercando di collaborare con lui. (…) Non puoi avere a che fare con un criminale che è deciso a instaurare una dittatura con la forza”, ha detto Omeish al sito web Middle East Eye. Sulla scena internazionale, sempre secondo Omeish, Haftar potrebbe avere problemi soprattutto per quanto riguarda le relazioni della Libia con Washington. Senza contare che avere ancora oggi i mercenari russi della Wagner sul libro paga non è esattamente il miglior lasciapassare per entrare alla Casa Bianca.
E l’Italia?
Per il momento, come suggerito da Harchaoui, la sentenza non sembra aver avuto alcuna conseguenza sulle relazioni di Haftar al livello internazionale. L’Italia ha ancora un consolato a Bengasi, capoluogo della Cirenaica e roccaforte del feldmaresciallo, e dovrebbe inviare un nuovo console a breve. Va inoltre segnalato il preoccupante aumento degli sbarchi dei migranti in Italia dall’est della Libia: un fenomeno relativamente recente, per il momento contenuto, ma che sarebbe un errore sottovalutare. Chi parte dalla Cirenaica, infatti, sale a bordo di grandi imbarcazioni in grado di trasportare fino a 500-600 persone alla volta, aumentando il rischio dell’ennesima strage nel Mediterraneo Centrale.
L’arma dei migranti. Il sospetto che ci siano i mercenari russi del gruppo Wagner dietro l’aumento di sbarchi dalla Libia. L'Inkiesta il 29 Luglio 2022.
Repubblica racconta che dalle coste della Cirenaica dove sono presenti i mercenari russi stanno partendo molte più imbarcazioni rispetto agli ultimi due anni. «L’immigrazione è l’arma più potente per chi ha interesse a destabilizzare e, dunque, a interferire sul voto di settembre», spiegano dai servizi. E a beneficiarne sarà chi cerca il consenso sventolando di fronte lo spauracchio dell’invasione: in primis, Matteo Salvini
Il quotidiano Repubblica racconta che dalle coste della Libia sotto il controllo delle milizie del generale Haftar, supportate dai mercenari russi del Gruppo Wagner, stanno partendo molti più migranti rispetto agli ultimi due anni. Salpano da due zone in particolare, i litorali nei pressi dei porti di Derna e di Tobruk, che erano “dormienti”. E, invece, come riportano i profughi a chi li soccorre in mare, sono tornati a essere hub per i trafficanti.
La Libia, spiega al quotidiano una fonte qualificata dei nostri apparati di sicurezza, «è un cannone puntato sulla campagna elettorale: l’immigrazione è forse l’arma più potente per chi ha interesse a destabilizzare e, dunque, a interferire sul voto di settembre».
I nostri servizi di intelligence avevano lanciato il primo alert già poche settimane dopo l’inizio della guerra in Ucraina: il Cremlino può utilizzare la sua influenza in Cirenaica per aumentare le partenze dei richiedenti asilo. A giugno un nuovo alert. Negli ultimi giorni, in concomitanza con la crisi del governo Draghi, i segnali raccolti dal terreno non avrebbero lasciato più dubbi. E a beneficiare dell’aumento degli sbarchi sarà chi cerca il consenso sventolando di fronte agli elettori lo spauracchio dell’invasione dei migranti: in primis, Matteo Salvini.
Dalla Cirenaica, la regione orientale del Paese nordafricano, hanno ricominciato a partire vecchi pescherecci di legno caricati con cinquecento-seicento persone alla volta. Gli sbarchi in Italia dall’inizio dell’anno sono 38.778, contro i 27.771 di tutto il 2021 e i 12.999 del 2020 in piena pandemia. Dopo i dati in ribasso di febbraio e marzo scorsi, l’impennata sospetta ad aprile e maggio, proseguita a giugno e luglio.
Ma «a fare rotta verso le coste siciliane non è soltanto la disperazione di chi fugge da conflitti, fame e persecuzioni, ma anche la volontà politica di chi, attraverso quei barconi, intende mettere sotto pressione l’Italia e l’Europa», si legge su Repubblica. Come la Russia di Putin. Con almeno duemila mercenari (secondo alcune fonti non ufficiali, gli uomini della Wagner in Libia sono cinquemila) presidia quattro basi militari nel territorio del governo non riconosciuto di Tobruk (Brak al Shati, Jufrah, Qardabiyah e Al-Khadim) e consente ad Haftar di rimanere saldo al potere.
A Lampedusa, tra domenica e martedì sono arrivati 72 gommoni dalla Libia e dalla Tunisia. E sulla rotta est, dalla Turchia, si contano sinora diecimila ingressi.
A complicare la situazione sul terreno libico sono anche i giacimenti di petrolio tra i più ricchi al mondo. Insieme con l’Egitto, nell’ultimo biennio la Russia ha potuto garantire, complice il Covid, flussi migratori ridotti in uscita dalle zone orientali. La crisi in Ucraina, tuttavia, ha cambiato le carte in tavola. Dopo mesi di muro contro muro, per la prima volta c’è stato l’avvicinamento tra il primo ministro insediato a Tripoli, Abdul Hamid Dbeibah, e il generale Haftar, propiziato dalla convenienza a gestire insieme la National Oil Corporation (Noc), la società che possiede i pozzi.
Da un lato una parte dei miliziani di Haftar vede l’avvicinamento con le autorità di Tripoli come fumo negli occhi e ha reagito allentando la stretta sui porti di partenza dei migranti. Dall’altro, c’è chi negli apparati di sicurezza libici non ha preso bene le ultime mosse del Partito democratico. In Parlamento, mercoledì, il Pd ha votato contro il rinnovo dei finanziamenti per il monitoraggio dei confini marittimi. Una notizia che ha avuto grande eco in Libia, soprattutto tra chi fa affidamento su quel denaro.
In sostanza, spiega Repubblica: un governo di destra in Italia, oggi, fa comodo non solo al Cremlino, ma anche al nuovo assetto di potere che si sta costruendo in Libia. Dove la partita la stanno giocando la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, l’Egitto di Sisi e, in sordina, la Francia di Macron.
Rabbia e proteste in Libia: assalto al parlamento. Mauro Indelicato l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.
Manifestazioni in tutte le principali città del Paese nordafricano. A Tobruck alcuni cittadini hanno appiccato le fiamme alla sede del parlamento.
Era stato pronosticato un “venerdì di rabbia” in Libia e così è stato. Questa volta il Paese nordafricano è apparso unito e senza divisioni, ma nella protesta. Non c'è stata infatti grande città o regione risparmiata da manifestazioni spesso sfociate anche in episodi di difficile gestione per chi controlla il territorio.
Da Tobruck a Tripoli, i libici invadono le piazze
L'episodio più significativo si è avuto forse a Tobruck, la città della Cirenaica dove ha sede il parlamento eletto nel 2014 ed ancora oggi principale organo legislativo della Libia. Si tratta infatti della Camera che ha dato il via libera, nello scorso mese di febbraio, al nuovo governo di Fathi Bashaga.
Un esecutivo però riconosciuto solo a Tobruck, visto che a Tripoli formalmente a governare è ancora Abdul Hamid Ddedeiba, il premier scelto nel marzo 2021 dal forum di dialogo sulla Libia. Ma a prescindere dagli ultimi atti approvati dalla Camera e dal governo a cui i deputati stanno dando appoggio, il quartier generale del parlamento di Tobruck è diventato un simbolo del frastagliato e inconsistente potere libico.
E così i cittadini scesi in piazza in questo venerdì lo hanno letteralmente preso d'assalto. Fonti locali e fonti citate da Al Arabiya hanno parlato di centinaia di manifestanti che sono riusciti a entrare all'interno della struttura e a dare fuoco ad alcuni documenti. La situazione si sarebbe fatta subito tesa anche perché, nella piazza antistante il parlamento di Tobruck, alcuni cittadini hanno creato un cordone di pneumatici in fiamme. Un contesto che assomiglia da vicino a una vera e propria rivolta.
Ma se nell'est sta prendendo piede la guerriglia urbana, nell'ovest la situazione non appare affatto migliore. Anche nella capitale Tripoli decine di manifestanti sono scesi in strada per protestare contro i due governi che si contendono il potere in Libia. L'elemento in comune tra est e ovest del Paese nordafricano è dato proprio dalla rabbia e dall'insofferenza contro l'intera classe politica libica. Non sembrano esserci in tal senso divisioni in fazioni o in gruppi: chi è sceso in piazza oggi ha chiesto l'azzeramento totale di ogni ente o istituzione presente in Libia.
A Tripoli i manifestanti hanno preso di mira anche il governatore della Banca Centrale, Siddiq Al Kabir, ritenuto tra i principali responsabili dello sfacelo economico e sociale del Paese. Epicentro delle proteste è stata Piazza dei Martiri, famosa come Piazza Verde ai tempi di Gheddafi, dove il rais ha tenuto alcuni dei più importanti comizi durante i suoi 42 anni di potere.
Manifestazioni e scontri anche a Bengasi, la città più grande dell'est della Libia e quartier generale dell'esercito del generale Khalifa Haftar, e a Misurata, città natale dei due premier che si contendono il governo, nonché sede delle milizie più importanti che controllano la Tripolitania.
Il perché delle proteste
Il venerdì di rabbia era nell'aria in tutta la Libia. Su AgenziaNova lo aveva anticipato Claudia Gazzini, analista senior dell'International Crisis Group (Icg) e profonda conoscitrice della realtà libica.
Nel paese manca di tutto. Non c'è elettricità per almeno 12 ore al giorno nelle grandi città, con situazioni ancora più critiche nelle regioni più remote. L'economia è ferma e i prezzi dei generi di prima necessità sono in aumento. Inizia a scarseggiare anche la farina dopo il blocco delle esportazioni del grano ucraino dovuto all'attuale guerra in corso.
Questa volta i libici hanno deciso di non essere molto pazienti come un tempo. Negli ultimi 11 anni, dopo la fine dell'era Gheddafi, il Paese è stato spesso attraversato da tensioni e faide interne. Ma l'economia ha tutto sommato retto. Adesso invece, con una situazione allo stremo, i libici pretendono la fine delle divisioni e l'innesto di un sistema capace di portare almeno alla stabilità.
A peggiorare il quadro è anche il blocco delle esportazioni di petrolio. Diversi stabilimenti da settimane sono chiusi. Un po' per altre manifestazioni, un po' anche per le sfide tra i vari gruppi che sostengono l'uno o l'altro governo in carica. Con una produzione giornaliera di greggio ridotta al minimo, la Libia rischia di avere meno introiti e quindi meno soldi con cui programmare anche l'ordinaria amministrazione. Un Paese già nel caos quindi sta seriamente, sotto i nostri occhi, rischiando di implodere.
Necessario l'intervento della Marina Militare. Far West nel Mediterraneo, pescherecci italiani di nuovo sotto attacco: “Spari da motovedetta libica”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Giugno 2022.
La Marina Militare italiana fa sapere di una nuova aggressione nelle acque del Mediterraneo a due pescherecci italiani da parte di una motovedetta libica. I colpi esplosi non avrebbero provocato danni alle imbarcazioni né agli equipaggi secondo quanto riporta l’Ansa. L’episodio ha comunque reso necessario l’intervento della fregata Grecale della Marina Militare. L’incubo da scongiurare, in questi casi, resta quello dei 18 pescatori di due imbarcazioni di Mazara sequestrati nel settembre 2020 dai libici e liberati tre mesi dopo solo dopo un viaggio a Bengasi dell’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
I colpi di avvertimento sono stati esplosi nella tarda serata di ieri. I pescherecci erano il “Salvatore Mercurio” e il “Luigi Primo”, entrambi iscritti al compartimento marittimo di Catania. Si trovavano in acque internazionali a nord di Bengasi, nel Canale di Sicilia dove si pratica la pesca di tonni e pesci spada. Le due imbarcazioni sono state avvicinate dalla motovedetta, a detta dei libici perché avevano violato le zone di pesca del paese nordafricano. A quel punto, secondo i racconti dell’equipaggio del Mercurio, i libici hanno esploso una serie di colpi di avvertimento.
Dai pescherecci è partita così la richiesta di intervento ricevuta dalla fregata Grecale della Marina, in questo periodo impegnata in attività operative nell’area centromeridionale del Mediterraneo. Dalla fregata è stata contattata la motovedetta: ai libici è stato comunicato che i pescherecci erano in acque internazionali e quindi fuori dai limiti della Zona di protezione della pesca (Zpp) dichiarata dalla Libia. Gli stessi sono stati invitati a desistere dall’azione in corso.
La motovedetta si era allontanata dall’area quando la fregata è arrivata sul posto. A bordo dei pescherecci sono saliti un team sanitario e uomini della Brigata Marina San Marco per garantire la sicurezza. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini è stato costantemente informato della situazione.
Come accennato precedentemente, il peschereccio Salvatore Mercurio fa parte della marineria di Catania, una delle poche che non sta aderendo all’agitazione dei pescherecci che va avanti da una decina di giorni – il blocco causato dalle proteste contro il caro gasolio che costringe i pescatori a lavorare in perdita: da giorni proprietari di imbarcazioni non escono in mare e in alcuni casi bloccano uscite ed entrate nei porti.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Andrea Sereni per corriere.it il 10 aprile 2022.
Ha lasciato il lussuoso Suv nel parcheggio dell’hotel. Poi, finiti i soldi, è scappato via. Sono passati quindici anni dal giorno in cui Al Saadi Gheddafi, uno dei figli dell’ex leader libico, ha preso i bagagli e se ne è andato da Rapallo, dove soggiornava nel periodo in cui giocava con la Sampdoria. O meglio, si allenava con il club genovese, terza tappa di una dimenticabile carriera da calciatore che lo ha visto protagonista in Italia anche a Perugia e Udine.
È stato arrestato, detenuto in una prigione a Tripoli dal 2014, scarcerato a settembre. Oggi, 48 anni, pare si sposti tra Turchia e Mauritius. Intanto il suo Suv è sempre rimasto all’Hotel Excelsior . Nessuno lo ha mai toccato. È divenuto una sorta di reliquia, impolverato, decaduto, strano ma intrigante per gli ospiti dell’albergo, che scattano foto ricordo accanto al macchinone del figlio del Rais. Che ora è tornato a farsi sentire. Vuole indietro la sua macchina.
Ecco, la storia è più complicata. Nel suo anno in Liguria Saadi ogni tanto va al centro sportivo della Sampdoria, gioca un paio di amichevoli. Si fa notare per quel grosso Suv, un Cadillac Escalade ESV 6.2, con cui gira tra feste e locali, voli privati, mare e champagne in Riviera. All’Excelsior Palace lui e il suo staff occupano decine di suite e camere di lusso. Quando va via firma un’accettazione, che però nessuno onora. Gli erano stati tagliati i fondi, il conto degli ultimi 30-40 giorni da 360 mila euro non viene pagato. La direzione dell’albergo aspetta un po’, poi gli fa causa al tribunale di Chiavari e la vince: Gheddafi è obbligato a pagare i debiti e spese legali di cinquemila euro. Non lo ha mai fatto.
«L’altro giorno mi è arrivata una telefonata da Mauritius: Gheddafi jr ha incaricato un’agenzia di recuperare il Suv. Prima saldi i suoi debiti, poi se lo riprenderà», racconta Aldo Werdin, direttore e amministratore delegato dell’Excelsior Palace Hotel di Rapallo. Che aggiunge: «Il curatore del bene sono diventato io, da quando Al Saadi ha fatto ritorno in Libia dopo che il padre gli tagliò i viveri. Ci è stato detto che ormai il veicolo è di nostra proprietà, non essendo più sotto custodia e non essendoci stato pagato il conto dell’ultimo mese in cui Gheddafi jr soggiornò qui, pari a 360 mila euro — spiega Werdin alla Gazzetta dello Sport —. Avevamo cercato di farci risarcire anche tramite l’ambasciata libica di Roma, ma non abbiamo mai visto i soldi. Il Suv, peraltro, è senza libretto originale e di conseguenza in Italia non può circolare. Lo teniamo lì, per la curiosità dei nostri clienti».
Werdin ricorda ancora Al Saadi («sbarazzino, soprattutto senza la moglie. Lo venivano a trovare dei ragazzini da Tripoli e delle donne da Londra. Serate rumorose, suonavano i tamburi sul terrazzo e cucinavano l’agnello in orari strani»), che intanto è sparito di nuovo: «Non si è più fatto sentire neanche attraverso l’agenzia che ha nominato: solo un paio di telefonate». Il Suv, come fosse un risarcimento, resta ancora lì, nel parcheggio dell’hotel: «Qualcuno si è fatto avanti, collezionisti di autovetture appartenenti a re, principi, nobili. Noi però non abbiamo fretta di venderlo: si è mantenuto in ottime condizioni, ha una carrozzeria stupenda e nonostante piogge e polveri sembra sempre pulito». Come un trofeo, fotografia del lusso perduto del principe decaduto.
Gheddafi, i debiti e il tesoro della Libia pignorato a Roma (dopo 40 anni). Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022.
In una banca romana sono stati svuotati i conti dell’ambasciata libica senza commettere reati. Giovedì mattina in via Quintino Sella, nella sede di Banca Ubae, 30 metri dal ministero dell’Economia, due ufficiali giudiziari si sono presentati intorno alle 10.30 per pignorare beni dello. E cioè la liquidità depositata dall’Ambasciata di Libia sui conti correnti presso Ubae.
Il blitz
Problema: è «aggredibile» il patrimonio di una rappresentanza diplomatica? I precedenti sono pochi e in effetti è questa l’obiezione mossa dalla parte libica fin dall’inizio delle operazioni. I due pubblici ufficiali, però, appena arrivati hanno esibito un provvedimento del Tribunale civile di Roma, firmato dal giudice Giulia Messina, che autorizza il pignoramento a favore di due «antichi» creditori della Libia di : il consorzio Co.Fa e l’Immobiliare Sacco. I funzionari pubblici, scortati dai legali dell’ambasciata (studio legale internazionale «Curtis, Mallet-Prevost, Colt & Mosle» di New York), e da quelli dei creditori, sono usciti dopo diverse ore — secondo quanto ricostruito — con quasi 100 assegni circolari da circa 50 mila euro ciascuno.
Le origini
Qual è l’origine dell’azione esecutiva? Salto indietro di 40 anni. Un ingegnere piemontese, Remo Sacco, ex patron dell’Alessandria calcio, con la sua azienda vinse un bando del governo libico per ristrutturare l’Università di Bengasi. Ma non ricevette mai il compenso per i lavori effettuati. Decise di fare causa alla Libia. Il suo avvocato, Giuseppe Cignitti, da anni è a caccia dei beni di Tripoli all’estero per soddisfare i crediti: immobili, quote societarie, auto, navi, aerei, liquidità. Un groviglio di intestazioni fiduciarie, un ginepraio di leggi e Corti di giustizia. Finché non sono state individuate «prede» vulnerabili: 13 conti dell’ambasciata in Banca Ubae. Ma, appunto, si possono attaccare i beni di una struttura diplomatica o sono impignorabili? E se questi beni (per esempio liquidità in banca) eccedono le esigenze di gestione, quel plus è vulnerabile?
Il valore
La partita resta aperta. Ma intanto il giudice dell’Esecuzione ha assegnato in pagamento, a parziale copertura del credito, 1,8 milioni al Co.Fa Consorzio Fabbricanti e 3,6 milioni (su 10 dovuti) all’Immobiliare Sacco. I 100 assegni circolari per adesso sono intestati, e in custodia, al Tribunale. Non sono ancora incassabili dai creditori; ma nemmeno più nella disponibilità dei libici. Nel frattempo Remo Sacco è morto e l’immobiliare di famiglia, gestita dal figlio, è in liquidazione.
I debiti di Gheddafi
I debiti lasciati da Gheddafi occupano le Corti di giustizia di mezza Europa e coinvolgono decine di creditori, compreso il principe Laurent, fratello del re del Belgio. Un’associazione no profit legata al principe chiede 50 milioni di dollari per un progetto di rimboschimento del deserto libico. Il Belgio sarebbe pronto a sequestrare gli asset nel Paese del fondo sovrano libico Libyan Investment Authority (Lia) e il 20 gennaio scorso l’ufficio del pubblico ministero a Bruxelles ha confermato l’emissione di un mandato di cattura internazionale per il presidente del Lia, Ali Mahmoud Hassan.
Il recupero «coattivo»
Banca Ubae, interpellata sul pignoramento di giovedì, fa sapere di essere un «soggetto terzo presso il quale alcune Rappresentanze Diplomatiche, ritenute ascrivibili allo Stato della Libia, intrattengono rapporti di conto corrente». L’istituto è controllato all’80% dalla Libyan Foreign Bank, la banca offshore specializzata in esportazioni di petrolio dalla Libia; tra i soci di minoranza vi sono anche Unicredit, Eni ed Mps. Il «recupero coattivo» del credito è stato avviato — secondo Ubae — «nelle more delle iniziative processuali intraprese dallo Stato della Libia a tutela dei propri diritti ed interessi» per «comprovare l’impignorabilità dei conti». L’avvocato Cignitti sostiene invece che la banca «non ha ottemperato nei termini all’ordine del giudice e dunque ora il debito è giuridicamente in capo ad essa». Silenzio dall’ambasciata libica.
Da nova.news l'8 febbraio 2022.
Trentacinque chilogrammi di hashish suddivisi in decine di panetti con l’immagine del presidente russo, Vladimir Putin: è questo il curioso sequestro avvenuto nella città di Al Marj, vicino Bengasi, il capoluogo della Cirenaica, la regione storica della Libia orientale. A renderlo noto è il Dipartimento investigativo criminale di Al Marj in un post su Facebook. Gli stupefacenti sono strati trovati nell’area di Tokra da due cittadini libici, che hanno allertato le forze dell’ordine.
Sul posto si sono recati gli agenti dell’Ufficio dell’intelligence generale, che insieme alla polizia hanno realizzato il sequestrato. Al momento non sono disponibili ulteriori dettagli sulla vicenda. Alcuni organi di stampa libici hanno preso spunto dal sequestro per accendere i riflettori sul ruolo della Russia in Libia, in particolare nell’est e nel sud del Paese dove – secondo il Comando Usa per l’Africa (Africom) – sono attivi i mercenari del gruppo russo Wagner.
Libia, lotta salire al potere a Tripoli. Alessandro Scipione su Inside Over il 7 febbraio 2002.
L’inverno è arrivato in Libia e insieme alla neve nell’antica Cirene ha portato una nuova, decisiva data per salire al potere nell’ex Jamahiriya di Muammar Gheddafi. Martedì 8 febbraio la Camera dei rappresentanti di Tobruk, il parlamento con sede nell’est del Paese, sceglierà infatti un nuovo primo ministro incaricato di formare l’ennesimo governo. Peccato che Tripoli sia ancora saldamente in mano al premier Abdulhamid Dbeibah, ricco imprenditore di Misurata a capo di una facoltosa famiglia di faccendieri, il quale non ha alcuna intenzione di cedere il passo. La posta in palio è alta: le maggiori riserve di petrolio dell’Africa; potenziali giacimenti di gas naturale sotto le acque del Mediterraneo centrale, dove Bp e Eni hanno già prenotato nuove esplorazioni; un gasdotto, il Greenstream, che fornisce un accesso diretto ai mercati di Italia e d’Europa; senza dimenticare il maxi-fondo Libya Investment Authority, ultimo lascito del tesoro di Gheddafi ancora bloccato dalle Nazioni Unite.
Faida intestina a Misurata
La lotta per guidare il prossimo governo della Libia è una faida tutta interna a Misurata, la città-Stato dell’ovest sede delle milizie più agguerrite del Paese. Misurata che nel 2016 sconfisse lo Stato islamico a Sirte con il sacrifico di 800 uomini, le bombe degli Stati Uniti e il supporto logistico (e non solo) dell’Italia. La stessa Misurata che oggi – con lo zampino della Turchia del presidente-sultano Recep Tayyip Erdogan – vorrebbe cacciare i militari italiani della missione Miasit. Il principale sfidante del premier Dbeibah è l’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha, ex pilota d’aerei, imprenditore e politico con buone entrature non solo ad Ankara ma anche in Europa occidentale e soprattutto a Parigi. Come riporta l’Agenzia Nova, infatti, poco prima di essere sostituito Bashagha promise ai francesi di Airbus (concorrenti dell’italiana Leonardo) l’acquisto di almeno dieci elicotteri. Un altro contendente per il “trono” di Tripoli è l’ex vicepremier e membro del Consiglio presidenziale Ahmed Maiteeq. Nipote dell’ex presidente dell’Alto Consiglio di Stato Abdulrahman Shweili, politico e imprenditore, Maiteeq parla fluentemente italiano ed è l’artefice del controverso (ma efficace) accordo che ha sbloccato i pozzi di petrolio nel 2020.
L’erede di Gheddafi
Il jolly che potrebbe far saltare il banco è Saif al Islam Gheddafi, secondogenito del defunto leader libico ed ex candidato alle mai organizzate elezioni presidenziali libiche del 24 dicembre scorso. Redivivo dopo anni di misteriosa quanto emblematica assenza, condannato a morte, amnistiato e infine candidato alle presidenziali, i sondaggi lo davano favorito insieme a Dbeibah, ma su di lui pesa il mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte penale internazionale e il veto degli irriducibili di Misurata. Nessuno sa dove si trovi il figlio del rais: secondo alcuni gode della protezioni della Russia tra le dune del Sahara, ma sono solo voci. Recentemente, la “Spada dell’Islam” (questo significa il suo nome) ha annunciato una nuova iniziativa per risolvere l’impasse politica nel Paese: prima si vota per rinnovare il Parlamento e poi per il presidente. Ma bisogna farlo subito, altrimenti il rischio è quello di vedere due nuovi governi paralleli.
L’ombra del generale Haftar
Il grande architetto del tentativo di “spallata” contro Dbeibah è il presidente del parlamento di Tobruk Aguilah Saleh, vecchia volpe della politica libica sopravvissuto a ben cinque inviati delle Nazioni Unite su sette. Più defilato appare al momento il generale Khalifa Haftar. L’uomo forte della Cirenaica, noto in Italia per aver sequestrato i pescatori di Mazara del Vallo e umiliato l’ex premier italiano Giuseppe Conte, è tornato al comando del suo autoproclamato Esercito nazionale dopo tre mesi da candidato alle elezioni presidenziali (che non si sono tenute). Un rientro dal duplice scopo: da un lato aprire la strada alla carriera politica di Saddam (nomen omen?) Haftar, figlio prediletto del “feldmaresciallo”; dall’altro inviare un messaggio vagamente minaccioso all’ovest in vista del voto in aula dell’8 febbraio. Vale la pena ricordare che l’Esercito di Haftar aveva tentato – senza successo – di conquistare Tripoli nell’aprile del 2019: il golpe avrebbe dovuto durare tre giorni, ma si è tramutato in una lunga guerra a bassa intensità persa dopo l’intervento muscolare della Turchia. Haftar non ha mai riconosciuto Dbeibah come capo del governo e ha persino impedito all’aereo di atterrare a Bengasi, la seconda città della Libia.
Cosa farà Dbeibah?
La coalizione militare di Haftar, spalleggiata da sponsor stranieri come il gruppo russo Wagner, controlla buona parte dei pozzi e dei terminal di esportazione di petrolio. Ma a far girare i soldi è la Banca centrale libica: e il suo potente governatore, Al Saik al Kabir, è amico personale di Dbeibah. Il premier in carica gode inoltre dell’appoggio delle milizie di Tripoli e in particolare dell’Autorità di supporto alla stabilità, il “mostro a tre teste” creato nel gennaio 2021 dal premier dell’ex governo di accordo nazionale libico (Gna) Fayez Sarraj per proteggersi proprio dalle crescenti ambizioni di Bashagha. Forte anche del credito internazionale accumulato durante i mesi di governo, il premier uscente ha detto pubblicamente che non ha alcuna intenzione di dimettersi e che i tentativi di tagliarlo fuori sono destinati a fallire. A prescindere dall’esito di questo scontro, le elezioni in Libia restano una chimera, con buona pace dei milioni di libici stanchi dello strapotere di milizie e mercenari.
Mauro Zanon per "Libero Quotidiano" il 25 gennaio 2022.
È il 19 marzo 2011 quando l'allora presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, consigliato da un filosofo in camicia bianca amato dai salotti della gauche, Bernard-Henri Lévy, lancia l'operazione Harmattan: ossia il nome in codice della scellerata guerra in Libia con la quale Parigi voleva non solo sbarazzarsi del rais Muammar Gheddafi ma anche soffocare l'Eni, il gigante petrolifero italiano, per favorire la francese Total.
A Roma, gli alti ufficiali dell'esercito e i vertici dei servizi segreti sobbalzano dalla sedia. «Non bombardate vero? Ci tenete informati sullo svolgimento delle operazioni?», chiede al telefono un ufficiale italiano al suo omologo francese. Risposta laconica: «È una questione che si tratta a livello diplomatico».
Come andò a finire lo sappiamo tutti, ma lo raccontano con nuovi e saporiti retroscena Georges Malbrunot e Christian Chesnot, due cavalli di razza del giornalismo francese, in un capitolo del loro ultimo libro: Le déclassement français. Elysée, Quai d'Orsay, Dgse, les secrets d'une guerre d'influence stratégique (Michel Lafon).
Il capitolo è intitolato Cacophonie française e mette in fila le pugnalate alle spalle e gli sgambetti di Sarkozy e di Macron all'Italia sul dossier libico, dai colpi bassi per mettere fuori gioco l'Eni e le altre aziende italiane all'intesa con il generale Khalifa Haftar, nemico dell'ex premier Fayez al-Sarraj, alleato di Roma e sostenuto dall'Onu: il tutto con l'aiuto della Dgse, i servizi segreti esterni.
«Questo libro mostra il modo in cui la Dgse, in Libia, ha condotto una funesta guerra segreta contro il nostro alleato italiano», spiegano i due autori. E sfogliando le pagine del capitolo che più interessa ai noi italiani, si capisce presto perché.
«Sarkozy voleva piantare bandiere francesi ovunque», ha raccontato un imprenditore del settore della difesa ai due giornalisti. «Ci hanno chiamato per andare a vendere armi di ogni tipo con un unico argomento: ora che sono liberi grazie a noi, i libici compreranno francese!».
Nel 2016, si insedia il Governo di Accordo Nazionale di al-Sarraj. «Avevamo degli agenti della Dgse con il generale Haftar e forze del Commando delle operazioni speciali del ministero della Difesa con al-Sarraj. L'azione clandestina era con un governo non riconosciuto, l'azione ufficiale con quello riconosciuto dall'Onu. C'era una forma di schizofrenia», ha ammesso una fonte di sicurezza francese.
Un agente dei servizi transalpini ha confermato che la Francia «aveva il culo su due sedie»: «Sul campo, avevo l'impressione che Parigi tenesse due discorsi completamente antagonisti sulla questione libica. Per me era complicato».
La massima tensione tra servizi francesi e italiani viene raggiunta quando il governo di Roma, per arginare l'ondata migratoria proveniente dalla Libia in seguito al caos generato dalla guerra firmata Sarkozy-Bhl, stringe degli accordi coi guardiacoste libici, anche con metodi borderline. «Quelle pratiche di corruzione - così le definisce una fonte dei servizi francese - ci hanno dato molto fastidio. Pagando, gli italiani hanno messo le mani su alcune fonti che ci interessavano. Ciò ha creato tensioni tra i servizi a tal punto che ci era stato vietato di condividere con loro alcune informazioni sulla Libia. Questi conflitti sono iniziati verso il 2015-2016».
Un'altra fonte sentita da Malbrunot e Chesnot ha rivelato che la Francia aveva persino deciso di essere più "offensiva" nei confronti degli italiani: «Ero profondamente imbarazzato dal fatto di dover lavorare su un servizio di sicurezza europeo alleato, insomma, di doverli sorvegliare! Era una situazione malsana».
Nella primavera del 2019, il generale Haftar prova a conquistare Tripoli. Invano. «Macron sperava che il generale Haftar vincesse», ha riferito una fonte dell'esercito francese ai due giornalisti. Insomma, l'attuale inquilino dell'Eliseo ha fatto di tutto per ostacolare l'Italia in Libia, conducendo una guerra diplomatica clandestina contro un alleato europeo.
Accordo Italia-Libia, cinque anni senza fermare abusi e torture. PAOLO PEZZATIO, xfam Italia, su Il Domani il 31 gennaio 2022.
Dopo cinque anni dalla firma dell’accordo Italia-Libia e quattro governi, niente è cambiato. Si continua a morire nel Mediterraneo.
L’accordo fondato sull’esternalizzazione delle frontiere che sancì la dottrina Gentiloni-Minniti non solo non ha fermato le stragi in mare, ma ha consentito all’industria del contrabbando e della detenzione di esseri umani di diventare sempre più fiorente.
L’Italia in questi anni ha provato in tutti i modi a superare l’ineluttabilità geografica e giuridica dell’essere il paese europeo principalmente coinvolto, ma l’ha fatto nel modo peggiore possibile, senza valori, senza umanità, senza diritti, oltre tutto senza una vera e comune visione europea, ispirata ai principi fondamentali dell’Unione.
Dopo cinque anni dalla firma dell’accordo Italia-Libia e quattro governi, niente è cambiato. Si continua a morire nel Mediterraneo, migliaia di migranti vengono riportati nei lager libici tra abusi, torture e violenza, l’industria del traffico di esseri umani incrementa il suo spietato fatturato, mentre l’Europa continua a far finta di non vedere.
Firmato a Roma il 2 febbraio del 2017, il Memorandum di intesa fondato sull’esternalizzazione delle frontiere, sancì la dottrina Gentiloni-Minniti, misurando la bontà del proprio assunto su nient’altro che il numero degli intercettati o il calo degli arrivi via mare.
Un assunto che deve però ritenersi fallimentare, perché in cinque anni non solo non ha fermato le stragi in mare, con oltre 8.000 morti lunga la rotta del Mediterraneo, ma ha consentito all’industria del contrabbando e della detenzione di esseri umani di diventare sempre più fiorente, riciclando e reinvestendo, grazie anche a ruoli di responsabilità ricoperti da propri uomini nella cosiddetta Guardia costiera o in altre istituzioni libiche.
CENTRI DI DETENZIONE E RICATTI
Sarebbe ipocrita nasconderselo, ma il business dei centri di detenzione e l’odiosa pratica dei riscatti estorti alle famiglie di chi arriva in Libia, per raggiungere l’Italia e l’Europa, altro non sono che la conseguenza dell’aumento delle persone riportate in Libia dalla Guardia costiera negli anni: oltre 80.000 dal 2017, di cui 32.000 solo nel 2021. Non solo: dei 32.000 deportati del 2021, è rimasta traccia solo di 12.000, registrati in centri ufficiali, mentre i restanti 20.000 sono diventati dei fantasmi, senza esiti o destini, stritolati probabilmente nella morsa di aguzzini e trafficanti.
La difesa dei diritti umani è stata affrontata ancora una volta come una variabile “esogena”, una componente che nei fatti non ha influenzato nel tempo le scelte politiche dei leader italiani ed europei, sia nell’approccio strategico complessivo, quanto nella scelta degli interlocutori libici specifici, che di volta in volta si sono susseguiti. È stata semplicemente sacrificata all’altare di una apparentemente ineluttabile realpolitik.
IL RAPPORTO CON L’ITALIA
L’accordo Italia-Libia costituisce di fatto l’inizio di un vero e proprio “scacco ai diritti umani”, nonostante nel tempo si sia voluto accreditare la Libia come un paese sicuro, e che restituirle i migranti intercettati provenienti dalle sue coste fosse tra le opzioni plausibili. Per allestire tutta questa finzione si è formata e addestrata la Guardia Costiera libica con fondi italiani (al costo di 32,6 milioni di euro in 5 anni) ed europei, la si è dotata di mezzi e le si è dato supporto nella richiesta di riconoscimento di una propria zona SaR da parte dell’International Maritime Organization.
L’Italia in questi anni ha provato in tutti i modi a superare l’ineluttabilità geografica e giuridica dell’essere il paese europeo principalmente coinvolto dagli sbarchi provenienti dalla rotta del Mediterraneo centrale. Ma l’ha fatto nel modo peggiore possibile, senza valori, senza umanità, senza diritti, oltre tutto senza una vera e comune visione europea, ispirata ai principi fondamentali dell’Unione. La strada resta sempre la stessa: superare i limiti imposti dal Trattato di Dublino, seguendo un approccio solidale, portando finalmente acqua e vita a una missione europea in grado di attuare ricerca e soccorso nel Mediterraneo e ampliando le vie legali di ingresso.
PAOLO PEZZATIO, xfam Italia. Policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia
(ANSA il 7 Dicembre 2022) Secondo un rapporto della Banca mondiale sul "panorama dell'occupazione in Tunisia" la metà della popolazione attiva nel Paese nordafricano lavora in nero nel settore informale, e dei 2,8 milioni di persone impiegate nel settore privato, 1,55 milioni lavorano nel settore informale, un tasso di quasi il 43% rispetto al 9% delle statistiche del 2019.
Il rapporto, anticipato dall'agenzia Tap, rileva anche che metà della popolazione attiva non ha lavoro, poiché solo il 47% della popolazione attiva di età superiore ai 15 anni, stimata a 8,7 milioni di persone, è attiva nel mercato del lavoro, mentre il resto, ovvero il 53% (4,6 milioni di persone) non lavora e/o non cerca lavoro.
La Banca Mondiale stima tuttavia che il tasso di partecipazione al mercato del lavoro in Tunisia rimanga elevato rispetto alla regione del Medio Oriente e del Nord Africa, con una stima del 43,2% nel 2017, senza tener conto del reddito dei paesi, ma più basso rispetto ai paesi a reddito medio nel mondo (64,9% nel 2017). Per quanto riguarda la percentuale di partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Tunisia, il rapporto rivela che è bassa, non superiore al 26,5%, rispetto al 41,8% degli uomini. Il tasso di partecipazione delle donne che non frequentano la scuola è molto basso e non supera l'8,7% (2017), rispetto al 14,2% del 2014.
Stupri, violenze e razzismo nell’inferno nascosto della Tunisia «Qui ti uccidono e nessuno se ne accorge». Nel 2021 sono arrivate oltre 20mila persone di origine subsahariana. E il deserto al confine con la Libia è l’area in cui accadono le violazioni più gravi. Che le agenzie internazionali non riescono in alcun modo a contrastare. Matteo Garavoglia su L'Espresso il 31 gennaio 2022.
Un inferno nascosto». Bastano tre parole per descrivere la Tunisia oggi, almeno la regione compresa tra Zarzis, Médenine e Ben Gardane, città del sud del Paese tra le più interessate dal fenomeno migratorio al di là del Mediterraneo. A parlare è Afoua, viene dalla Costa d’Avorio e da mesi vive con altre compagne e i rispettivi figli all’interno del centro dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a Médenine, capoluogo dell’omonimo governatorato.
Tunisia, la nuova Costituzione è legge ma ha votato poco più del 27 per cento dei tunisini. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 26 luglio 2022
Oppositori politici e i partiti hanno scelto la via del boicottaggio per delegittimare il voto. Ma non era previsto alcun quorum e la riforma costituzionale varata dal presidente Saied diventerà legge
Con oltre il 92 per cento dei voti favorevoli, il referendum sulla nuova Costituzione tunisina voluto dal presidente Kais Saied è stato approvato. Non c’erano grandi dubbi sul risultato finale del voto, anche per via del grande astensionismo: di fatto chi era rassegnato dall’attuale scenario politico ed economico del paese ha deciso di non andare a votare. Oppositori politici e i partiti hanno scelto la via del boicottaggio per delegittimare il voto. L’affluenza finale si è attestata intorno al 27 per cento, ma siccome non era previsto un quorum minimo da raggiungere, ora la nuova costituzione sarà legge e il paese intraprende il cammino verso il presidenzialismo.
«La Tunisia è entrata in una nuova fase», ha detto il presidente Saied, ex avvocato costituzionalista e primo promotore della riforma.
Ieri sera dopo la pubblicazione della notizia della vittoria, alcune centinaia di persone si sono radunate in Avenue Bourghiba e con bandiere della Tunisia in mano hanno accolto con soddisfazione l’esito del voto. Ma non tutti sono d’accordo e la società civile è seriamente preoccupata per la tenuta democratica del paese. Ora i prossimi passi prevedono nuove elezioni legislative per il 17 dicembre, giorno in cui quest’anno ricorrerà il 12esimo anniversario dall’immolazione di Mohamed Bouaziz, il venditore ambulante che si diede fuoco a Sidi Bouzid dando vita a un movimento di protesta che ha portato alla Rivoluzione dei Gelsomini e alla cacciata del regime autoritario di Ben Ali.
LE PROTESTE
Nella giornata di ieri il sindacato nazionale dei giornalisti tunisini ha denunciato diversi casi di molestie e violenze contro i giornalisti. Ad alcuni reporter è stato impedito di coprire il voto all’interno di alcuni seggi, mentre ad altri sono stati negati i dati dello scrutinio.
L’Associazione tunisina per l’integrità e la democrazia delle elezioni (Atide), ha dichiarato che ad alcuni osservatori è stato impedito di svolgere il loro lavoro in libertà. In totale sono stati più di cinquemila gli osservatori locali impiegati e 120 quelli internazionali.
YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.
Cosa resta dell’inferno siriano Mauro Indelicato l’1 Dicembre 2022 su Inside Over.
Per diversi anni il mondo ha visto quasi in diretta in che modo la Siria si è progressivamente trasformata in un autentico inferno. Le prime immagini delle città distrutte nel 2012, la crisi dei profughi del 2015, l’avvento dell’Isis e del califfato hanno fatto percepire la distruzione di un intero Paese, considerato stabile fino al 2010, causata dalla guerra. Oggi di Siria si parla molto poco. L’inferno però è rimasto. In primis perché la guerra non è finita. E poi perché lì dove non si spara più e lì dove terroristi e islamisti sono stati allontanati, è ancora impossibile ricostruire. Ci sono infatti altre bombe, di natura politica, che rendono la Siria un Paese infernale. Dalle sanzioni fino alla “partita a scacchi” ancora in corso tra le grandi potenze straniere impegnate sul campo. Tutti elementi che, a distanza di 11 anni dall’inizio del conflitto, contribuiscono giorno per giorno ad allontanare la normalità da Damasco, Aleppo, Homs e da tutte le altre città siriane.
Quelle “sanzioni dimenticate” che uccidono più delle bombe
C’è stato un tempo in cui in Europa, oltre a parlare delle operazioni militari, si potevano leggere articoli sugli effetti deleteri delle sanzioni. Misure imposte subito dopo l’inizio delle ostilità in particolar modo dagli Stati Uniti dall’Unione Europea e rinnovate, con cadenza annuale, dal 2013 in poi. L’intento ufficiale è sempre stato quello di procurare danni al governo siriano e a quell’apparato di potere guidato dal presidente Bashar Al Assad accusato, a torto o a ragione, di reprimere il suo stesso popolo. A prescindere da ogni valutazione relativa al capo dello Stato siriano, la cui permanenza è comunque stata legittimata dalle avanzate dell’esercito di Damasco coadiuvato dalla Russia a partire dal 2015, le sanzioni stanno danneggiando unicamente la popolazione.
In piena pandemia nel 2020 alcune associazioni umanitarie hanno lanciato petizioni per la rimozione delle misure contro Damasco. Tra queste anche il gruppo cattolico New Humanity, la cui istanza ha destato clamore anche per la firma, tra gli altri, dell’ex presidente della commissione Ue Romano Prodi. Le sanzioni però anche quell’anno sono state rinnovate, così come anche nel 2021 e nel 2022. Il tutto nel silenzio acuito dall’impopolarità del conflitto, spinto dalla guerra in Ucraina nelle pagine di rincalzo di giornali e telegiornali. Forse in pochi oggi ricordano che le sanzioni stanno continuando a colpire in modo pesante il popolo siriano.
Spenti i riflettori, rimangono milioni di poveri bisognosi di cure sempre meno possibili e di generi di prima necessità sempre più carenti. A mancare è anche la possibilità di investimenti, da queste parti più che mai importanti per avviare la ricostruzione. A Damasco, così come in tutti i capoluoghi di provincia siriani, eccezion fatta per Idlib, la guerra non c’è più. Ma la gente continua a scappare perché impossibilitata a ricostruire casa, ad avere lavoro e reddito per tornare a una vita serena.
Una normalità lontana da raggiungere
C’è stato un momento in cui passeggiare per Aleppo era impossibile. La città dal 2012 fino al dicembre 2016 è stata divisa in due: una parte controllata dal governo, l’altra in mano a gruppi di opposizione legati soprattutto all’ex fronte al Nusra e a movimenti jihadisti. Uscire di casa nelle zone governative voleva significare rischiare di beccarsi missili artigianali, ordigni di ogni tipo, a volte fabbricati anche con l’uso di bombole a gas, sparati dall’altra parte del fronte. Al tempo stesso, provare anche solo ad andare a fare la spesa nei quartieri controllati dagli islamisti esponeva le persone ai bombardamenti dell’aviazione russa e siriana. Oggi tutto questo non c’è più. La battaglia di Aleppo si è conclusa nel dicembre del 2016 con la riconquista da parte dell’esercito di Damasco dell’intero territorio. Adesso è possibile passeggiare e girare per strada senza lo spettro di un ordigno che piova alla gente sulla testa. Ma non si può parlare di normalità.
Aleppo è solo un esempio. Analogo discorso è possibile farlo per Damasco, dove anche l’Isis a un certo punto ha fatto la sua comparsa, per Homs, per Deir Ezzor, per Raqqa, per Dara’a e tutte le principali località del Paese. Le varie avanzate governative hanno confinato gli scontri in poche enclavi del territorio siriano, ma questo non ha coinciso con il ritorno alla normalità. “Sì, si costruisce, qui ad Aleppo ci sono isolati dove l’aspetto cambia giorno dopo giorno – commenta al telefono Fadi, un ragazzo aleppino per lungo tempo in Italia – ma ad esempio lì dove la mia famiglia aveva il suo negozio di saponi e dove sono cresciuto è un cumulo di macerie. Ci passo ogni giorno e dico a me stesso che forse è questa la nuova normalità della Siria”. Parole e toni che sanno quasi di rassegnazione oppure di abitudine a una guerra che non è più “emergenza”, andando avanti da 11 anni.
Da Homs arrivano i racconti di un macabro mercato della prostituzione minorile indotto da una povertà dilagante in grado di inghiottire nell’imbuto della storia decine di ragazze. Guerra dimenticata vuol dire anche questo: spegnere i riflettori da un territorio impossibilitato a ripartire e condannarlo a un silenzio che infligge alla società più danni delle granate.
Una partita a scacchi lontana dai riflettori
La Siria vive un paradosso destinato forse a bloccarla per molto tempo ancora. Da un lato c’è un vincitore, ossia l’esercito regolare aiutato dai russi e dagli iraniani, dall’altro però c’è un conflitto non ancora chiuso del tutto e che viene alimentato dalla sfida tra le potenze internazionali impegnate nel Paese. Il territorio siriano è diviso in almeno tre sfere di influenza. C’è quella russa per l’appunto, estesa nella parte occidentale lì dove le truppe di Damasco aiutate da Mosca hanno ripreso il controllo delle principali città. C’è poi quella Usa, con le forze di Washington presenti ancora nell’area delle riserve di petrolio a est dell’Eufrate, lì dove sono arrivate durante gli anni della guerra all’Isis e del sostegno all’Sdf, ossia la milizia filocurda che controlla buona parte della Siria orientale. C’è infine l’influenza turca a nord, nelle zone dove Ankara ha piazzato, in ottica anticurda, le proprie milizie e dove c’è ancora la presenza, specialmente nella provincia di Idlib, dei gruppi legati all’ex Fronte Al Nusra.
Un delicato equilibrio politico e militare, rinnovato di volta in volta dagli accordi tra le parti e dalle mediazioni di tutte le potenze chiamate in causa. Ma che, al tempo stesso, impedisce alla Siria di uscire realmente e definitivamente dalla guerra. Con l’attenzione svanita e con il silenzio mediatico sempre più assordante, il Paese scivola così in una posizione sempre più lontana dalla pace.
La Siria tornerà come un tempo?
Difficile oggi dire se e quando la Siria si lascerà alle spalle il suo inferno dimenticato. Non ci sono solo città distrutte ed economie ferme a causa delle sanzioni. Così come non ci sono soltanto giochi tra potenze a pesare sul futuro dei siriani. Il problema è anche di natura sociale. Nelle città ancora ridotte in macerie dovranno convincere vincitori e vinti della guerra, perseguitati e perseguitanti, genitori che hanno perso i figli nelle battaglie e sostenitori di chi, negli anni più bui, sgozzava le teste ai soldati. Ricomporre il puzzle siriano richiederà lavoro e tempo. Ma soprattutto richiederà l’effettiva fine della guerra. Un conflitto dimenticato il cui lascito potrebbe essere tra i più pesanti di sempre.
La guerra segreta di Israele in Siria. Davide Bartoccini il 7 Dicembre 2022 su Inside Over.
Sembra uno stupido gioco di parole, ma non è un caso né un segreto che Israele stia conducendo da oltre quarant’anni una guerra segreta in Medio Oriente. Una guerra che, in virtù della dura linea politica che Tel Aviv ha sempre mantenuto nei confronti dei suoi nemici, ha coinvolto e continuerà a coinvolgere la vicina Siria già martirizzata da un’interminabile guerra civile.
Questa guerra segreta – mai confermata né smentita – è stata basata su frequenti raid aerei, eliminazioni mirate, schieramenti tattici nelle contese alture del Golan, e, ovviamente, sull’infiltrazione di spie; le quali, in perenne contatto con l’intelligence di Gerusalemme, hanno raccolto tutte le informazioni utili per colpire i target con ogni arma a disposizione. Si trattasse di bombe intelligenti, missili da crociera, o sabotaggi pianificate ad arte.
Non è un segreto infatti che negli ultimi anni la Forza aerea israeliana abbia violato in continuazione lo spazio aereo siriano (come e quello giordano e quello libanese, ndr), mostrando la sua consueta spregiudicatezza nel perseguire l’ “obiettivo” che i leader politici e i vertici militari israeliani non hanno mai tenuto nascosto: distruggere ogni linea di approvvigionamento e ogni cellula di Hezbollah che potesse rappresentare una seria minaccia per Israele. È altrettanto noto infatti, che l’organizzazione paramilitare islamista sia proliferata in tutta la “mezzaluna sciita”. Quanto che riceva armi, denaro e suggerimenti da Teheran per condurre la loro battaglia al sionismo.
Alleato fondamentale di Bashar al-Assad nel corso della guerra civile siriana, il “Partito di Dio” da sempre nemico giurato di Israele, ha proliferato nel territorio controllato da Damasco innescando la reazione di Tel Aviv che non ha mai smesso di eliminare le falangi fedeli all’Iran in tutto il Medio Oriente. Si tratti di quelle che operano all’interno della striscia di Gaza, o di quelle che sono al di là della zona cuscinetto che segna il confine siriano con quello israeliano attraverso una zona demilitarizzata (in teoria) che si trova sulle alture del Golan. Tale zona – conquistata da Israele nel 1967 e annessa nel 1981 – è sempre rimasta tra le mire dei miliziani di Hezbollah quale postazione perfetta per il lancio di droni armati o razzi su obiettivi israeliani.
L’incremento dei raid, che prima si concentravano sulle linee di rifornimento sciite che attraversano la cosiddetta “terra di nessuno” – una zona di confine dell’ aera sud-orientale del paese che viene usata “corridoio terrestre” dall’Iran per rifornire le sue cellule e i suoi affiliati in tutta la regione – negli ultimi anni si starebbero concentrati su un nuovo obiettivo che rappresenta – almeno secondo le informazioni accumulate dal Mossad – una vecchia minaccia mai sopita: l’arsenale chimico di cui sarebbe ancora in possesso l’Esercito regolare siriano.
Un arsenale considerato un tempo molto vasto, ed originariamente destinato a essere impiegato in quella che sarebbe stata una “futura guerra” contro Israele. Secondo alcuni funzionari dei servizi israeliani – informazioni riportate dal Washington Post che meritano come sempre il beneficio del dubbio – la Siria avrebbe tentando a più riprese di riavviare un programma per la produzione di agenti nervini mortali come il VX. Armi con cui potrebbe armare missili tattici a corto raggio del tipo Scud. Trovando una sorta di “deterrenza” su scala ridotta. Una minaccia questa, che Israele non potrebbe mai tollerare. E che non poteva fare altro se non finire del mirino dei cacciabombardieri che portano la Stella di davide sulle ali.
Per tale motivo i piloti dell’IAF dall’estate del 2020 in poi, hanno portato a termine una serie di raid chirurgici su siti localizzati nell’area alla periferia di Damasco e di Homs. Eliminando, tra gli altri, il profilo di alto livello che era stato messo a capo di un fatidico “laboratorio militare” siriano top-secret nel quale avrebbero operato – secondo fonti dei servizi segreti francesi – elementi dell’unità nota come Branch 450: superstiti del programma che sarebbe dovuto essere smantellato già nel 2014.
Israele ha sempre tenuto a precisare, in passato come nel presente, che l’obiettivo non è mai stata la Siria, bensì le cellule sciite addestrate e rifornite dall’Iran che trovano terreno fertile in Siria e nel resto di quella che il re di Giordania Abd Allāh ha battezzato nel 2004 come la “mezzaluna sciita“.
Come è vero che Teheran è stata in grado di sfruttare ovunque potesse quello che è a tutti gli effetti un arcipelago di comunità sciite radicate del Medio Oriente, fagocitando i suoi adepti sono schierati per contro il sionismo e l’imperialismo come fossero delle cellule armate, non può essere dubbio che lo Stato ebraico – é dunque plausibile che Israele stia continuando ad arginare – ovunque e comunque – questo fenomeno. Combattendo, oggi come in passato, un guerra “segreta” nello svolgimento delle sue operazioni, ma assolutamente “chiare” negli intenti. Che mirano a sfoltire le fila dei suoi nemici. Che essi trovino asilo in Libano, in Iraq o in Siria. Per i vertici militari di Gerusalemme, la posizione di un nemico di Israele non ha mai rappresentato alcuna differenza. Del resto il motto del Mossad è sempre stato “Per mezzo dell’inganno faremo la Guerra”. Il tentativo di “ingannare” il mondo che non ci sia “nessuna” guerra in corso potrebbe essere parte di questo approccio.
L’ultima partita di Russia e Stati Uniti in Siria. Paolo Mauri l’8 Dicembre 2022 su Inside Over.
La guerra in Ucraina ha relegato nel dimenticatoio un conflitto che si protrae da più di un decennio: quello in Siria. Quel teatro ha visto e vede la presenza diretta di alcuni giocatori internazionali (Russia, Stati Uniti, Turchia, Iran) che combattono il terrorismo internazionale rappresentato dallo Stati Islamico e si contrappongono reciprocamente per perseguire i propri interessi politici.
Tralasciando Ankara e Teheran, Mosca e Washington hanno finalità contrapposte che però collimano quando si tratta di neutralizzare la minaccia rappresentata dall’Is: potremmo quindi definire i rapporti tra Usa e Russia in Siria come caratterizzati da una “collaborazione competitiva“.
Per il Cremlino la Siria della famiglia Assad rappresenta un fondamentale alleato per continuare ad avere una presenza stabile nel bacino del Mediterraneo: la Russia possiede infrastrutture aeronavali (il porto di Tartus e la base aerea di Hmeimim) che le servono per avere proiezione strategica in uno di quei “mari caldi” sui quali storicamente ha cercato di avere uno sbocco sin dai tempi degli zar.
La parte nord del porto siriano di Tartus, infatti, è occupata dalla Russia sin dai tempi dell’Unione Sovietica. Un accordo del 1971 tra Mosca e Damasco ha consentito alle unità navali della Flotta Rossa di avere una base stabile nel Mediterraneo Orientale. La presenza di unità navali sovietiche a Tartus è stata più o meno una costante durante tutto l’arco della Guerra Fredda, se escludiamo una breve crisi con Damasco nel 1977 dovuta all’intervento siriano in Libano dell’anno prima condannato dal Cremlino, e anche al termine della contrapposizione in blocchi, nonostante la crisi profonda del sistema militare di Mosca, il porto russo di Tartus, benché in lento declino, restò centrale nella politica della Federazione.
La svolta, oltre ad essere attribuibile al cambiamento di postura del Cremlino avvenuto nell’ultimo decennio che intende ridare impulso alla sua presenza negli oceani, è avvenuta in concomitanza con l’intervento russo nel conflitto siriano. Il 18 gennaio del 2017 Mosca e Damasco hanno siglato un nuovo accordo per l’espansione e la modernizzazione della parte russa del porto di Tartus contestualmente al rinnovo del contratto di locazione per 49 anni, che sarà automaticamente rinnovato ogni 25 anni a meno che una delle due parti non notifichi, con un anno di preavviso, la volontà di rescinderlo attraverso canali diplomatici e in forma scritta. Secondo l’accordo la Russia ha a tutti gli effetti autorità legale sulle strutture del porto che le competono e le può utilizzare senza oneri economici.
Uno dei compensi, insieme all’utilizzo permanente della base aerea di Hmeimim e alla possibilità di costruirne una nuova nel nord-est del Paese, a Qamishli, per le enormi spese sostenute da Mosca durante il conflitto in Siria.
La presenza russa a Hmeimim è parimenti destinata a perdurare: recentemente, a fine 2020, Mosca ha svolto lavori di allungamento della pista di atterraggio della base e di miglioramento delle sue infrastrutture difensive, a indicare la volontà di poterla usare per i propri velivoli di più grosse dimensioni, come i bombardieri strategici Tu-95, Tu-22, i pattugliatori oceanici Tu-142 o semplicemente per usare al meglio i velivoli da trasporto pesante come gli An-124. In effetti i Tu-22M3 si sono già visti in Siria: a maggio dell’anno scorso tre di questi bombardieri strategici hanno effettuato voli di pattugliamento nel Mediterraneo Orientale armati di missili da crociera antinave Kh-32.
Mosca è quindi intervenuta ufficialmente nel conflitto intestino in Siria a settembre del 2015 sia per tutelare i propri interessi strettamente legati alla presenza di un governo amico a Damasco, fattore messo a repentaglio sia dalla presenza dello Stato Islamico, sia dall’attività della fazioni armate ostili ad Assad che hanno cercato di rovesciarlo manu militari per instaurare un “regime democratico”, volontà che Mosca riteneva e ritiene essere stata eterodiretta da non meglio definite “potenze esterne”. La presenza del terrorismo di matrice islamica nel Levante, per Mosca, avrebbe inoltre rappresentato un fattore di rischio interno dato dalla possibilità – risultata poi evidente – che i foreign fighter dell’Is potessero operare in Russia o nel suo estero vicino, destabilizzando così un’area perimetrale della Federazione (il Caucaso e l’Asia Centrale ex sovietica) già a rischio.
Il ruolo anti Assad degli Usa
Gli Stati Uniti, già impegnati militarmente nel vicino Iraq dal 2003, hanno sfruttato la debolezza del regime di Assad per poter cercare di sovvertirlo sostenendo le milizie del Fsa (Free Syrian Army) e quelle curde, impegnate in una doppia lotta contro l’Is e le forze regolari di Damasco. Il cambio di regime in Siria avrebbe messo in grado Washington di instaurare un governo democratico controllato/sostenuto dagli Stati Uniti che avrebbe permesso di limitare/eliminare la presenza russa e iraniana in Siria e nel contempo avrebbe dato la possibilità di combattere lo Stato Islamico più efficacemente, levandogli l’accesso alle importanti risorse petrolifere nella regione che utilizza per finanziarsi illegalmente. Non è infatti un caso che, oggi, le truppe Usa in Siria siano concentrate anche a difesa di alcuni campi petroliferi nonostante la riduzione numerica voluta dalla passata amministrazione Trump.
Questa strategia statunitense non è cambiata: è notizia recente (11 novembre) che nel nord-est siriano, ovvero dove operano le forze della coalizione a guida statunitense, siano arrivati rinforzi che, a detta del Cremlino, servirebbero per aprire una nuova base militare.
Dal 2014, gli Stati Uniti hanno condotto attacchi aerei periodici e mantenuto centinaia di truppe in Siria come parte di più ampi sforzi antiterrorismo contro l’autoproclamato Stato islamico (Is) e al-Qaeda. La giustificazione legale di queste guerre antiterrorismo, che fin dall’inizio poggiava su basi instabili, è diventata più tenue man mano che i conflitti si sono spostati, con la sconfitta territoriale dell’Is sia in Siria che in Iraq e nuovi attori che sono entrati nella mischia. In particolare, il conflitto si è esteso fino a coinvolgere le milizie sostenute dall’Iran – schierate con Damasco – che vengono colpite quasi costantemente da Israele. Il sostegno statunitense alle operazioni belliche in Siria si sviluppa direttamente e indirettamente, formando, addestrando ed equipaggiando le milizie locali, che comunque hanno avuto successi limitati, avendo come obiettivo l’attività di counterterrorism e quella anti-Assad per “stabilire le condizioni per una soluzione negoziata alla guerra civile siriana”.
La campagna statunitense siriana è dapprima cominciata utilizzando solo lo strumento aereo, successivamente, nel 2015, gli Stati Uniti hanno inviato un piccolo contingente di truppe di terra per addestrare, consigliare e assistere i gruppi curdi locali in quelle che sono diventate note come le forze democratiche siriane (Sdf) nella lotta contro l’Is.
Dal 2016, gli Stati Uniti hanno deliberatamente (ma ancora come autodifesa) e inavvertitamente preso di mira una serie di altri attori in Siria comprese le forze governative siriane, gruppi di milizie sostenute dall’Iran come Kait’ib Hezbollah e Kait’ib Sayyid al-Shuhada e contractor russi.
Il 6 aprile 2017, gli Stati Uniti hanno condotto un attacco missilistico sulla base aerea di Shayrat in risposta al presunto uso di armi chimiche da parte di Assad, rappresentando la prima volta che Washington ha deliberatamente attaccato le forze governative siriane. Quasi un anno dopo, nell’aprile 2018 , Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno condotto un secondo attacco in risposta a un ulteriore supposto utilizzo di armi chimiche da parte di Damasco. Quell’attacco ha segnato l’inizio di un atteggiamento più conflittuale tra gli Usa e il governo siriano affiancato dai suoi sostenitori.
A giugno 2017, c’erano stati una serie di scontri tra le forze statunitensi e quelle del regime, inclusi combattimenti che hanno coinvolto aerei russi e forze paramilitari iraniane vicino alla zona di deconflitto stabilita tra Stati Uniti e Russia nel 2016 intorno all’avamposto statunitense di al-Tanf, un’area nel sud-est della Siria situata strategicamente lungo l’autostrada Damasco-Baghdad. Avamposto più volte colpito anche dalle restanti milizie islamiche.
Se recentemente, anche per il crescente intervento iraniano, i rapporti tra la Coalizione e il comando russo/siriano sono andati deteriorandosi, ci sono stati dei casi in cui le forze russe, in particolare l’aviazione, sono intervenute a sostegno del Fsa, ovvero dei “ribelli” armati e addestrati dagli Usa: questo si spiega pensando che la strategia del Cremlino è duplice, ovvero non solo sostenere il regime di Damasco ma eliminare la presenza di Is e al-Qaeda. Al momento l’approccio dell’amministrazione Biden in Siria non sembra essere molto diverso da quello dei suoi predecessori.
I quattro obiettivi di Washington
Dopo aver concluso una lunga revisione politica, Washington ha indicato che l’amministrazione ha quattro obiettivi: ridurre la violenza, mantenere la pressione sull’Is attraverso la presenza militare nella Siria orientale, affrontare la crisi umanitaria e sostenere il diritto di Israele a difendersi (riferendosi quindi alla presenza iraniana). Questo sostegno a Tel Aviv si è più volte esplicitato in modo diretto: ad agosto di quest’anno l’aviazione statunitense ha bombardato posizioni ritenute essere del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (o pasdaran) nel nord-est del Paese.
Da non sottovalutare nemmeno che la presenza di truppe statunitensi in quel particolare settore, previene la possibilità che le forze turche mettano in atto operazioni più incisive contro i curdi.
Sebbene Stati Uniti e Russia siano avversari localmente, e globalmente, abbiamo affermato che la loro sia una “collaborazione competitiva” in quanto entrambi, in Siria, hanno l’obiettivo di eliminare la presenza delle milizie estremiste islamiche: ci sono state, infatti, le occasioni di fraternizzazione tra soldati delle opposte fazioni e, in ogni caso, Mosca e Washington mantengono contatti regolari a livello militare in Siria, anche in questa particolare fase di scontro determinata dal conflitto in Ucraina, nel quadro di controllo dell’escalation.
Conflitto che ha intaccato, almeno in parte, la presenza russa nel Paese: sappiamo che i contractor del Gruppo Wagner hanno ridimensionato la loro presenza in Siria e che Mosca ha ritirato una batteria di S-300 insieme a un contingente di truppe regolari che ammonta a circa 1200 uomini, come riferiscono i servizi di intelligence israeliani.
Il nord della Siria. L’obiettivo mai rimosso dai piani di Erdogan. Lorenzo Vita il 9 Dicembre 2022 su Inside Over.
Per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan la Siria è stata e resta una partita cruciale. Il leader turco aveva ottimi rapporti con il siriano Bashar al Assad. Poi, dopo le prime avvisaglie delle rivolte, le cose sono drasticamente cambiate: Erdogan non ha solo voltato le spalle al leader di Damasco, ma ha anche apertamente sfruttato la guerra per capitalizzare la sua strategia di espansione della propria influenza sulla regione. Una scelta che si è concretizzata sia sul piano territoriale, a nord, con diverse operazioni militari che hanno di fatto ampliato l’autorità su turca su diverse aree a sud del confine turco in larga parte popolate da curdi; sul piano diplomatico, specialmente attraverso la svolta di condominio e convivenza con la Russia e l’Iran cementata nella piattaforma di Astana; e infine sul piano della gestione del flussi migratori dalla Siria, elemento fondamentale sia sul piano interno e regionale, sia sotto quello esterno nei riguardi dell’Europa.
Tutto questo si è realizzato nonostante (o forse proprio attraverso) i cambiamenti strategici che hanno caratterizzato la politica del Sultano degli ultimi anni. Nei diversi cambi di rotta di Ankara, specialmente nei rapporti con i rivali e partner regionali e internazionali, l’impressione è infatti che la Siria non sia mai stata persa di vista. La Turchia ha cambiato metodo, idee o anche le stesse partnership, ma non ha mai abdicato al suo ruolo di potenza all’interno del difficile e complesso teatro siriano. E questo lo si vede anche oggi, anche quando tutto il mondo è certamente più concentrato sull’Ucraina, la Russia o il fronte indo-pacifico, e sempre meno attento alle tragedie che hanno funestato il Medio Oriente. Mentre tutti guardavano a Erdogan come un leader focalizzato sullo scacchiere del Mar Nero, le trattative tra Kiev e Mosca e il fragile accordo per il grano, l’attentato di Istanbul ha di nuovo cambiato la narrazione del presidente turco.
Nelle ultime ore, Erdogan ha annunciato che “presto, se Dio vuole” inizierà una nuova operazione terrestre in Siria. Queste dichiarazioni giungono a poca distanza da una fiammata di attacchi con droni e aerei nei confronti di quelle che per Ankara sono postazioni terroristiche in territorio siriano legate ai curdi del Pkk e alle milizie Ypg. “Se Dio vuole li elimineremo presto con i nostri soldati, i nostri cannoni e i nostri carri armati”, ha continuato il presidente turco. Nel frattempo, Agenzia Nova riporta che l’Osservatorio siriano dei diritti umani – ben noto durante la guerra – ha raccontato che l’artiglieria turca ha bombardato il villaggio di Qarmouj e Jishan, non lontano da Kobane, mentre gli aerei militari di Ankara avrebbero colpito le postazioni delle Sdf, la coalizione arabo-curda sostenuta da Washington, nei pressi di Al Hasakah.
I tre assist globali per Erdogan
Per Erdogan, si tratta del completamente di un’operazione iniziata ormai da diversi anni e che è stata frenata dal fatto che le superpotenze coinvolte nel conflitto in particolare Russia e Stati Uniti, hanno cercato di frenare le ambizioni del Sultano. Washington come vertice della Nato e Mosca come potenza fondamentale dopo l’intervento per salvare Assad e desiderosa di evitare un nuovo fronte che mettesse in pericolo anche la stabilità dell’influenza dell’Iran, hanno evitato che la Turchia mettesse in piedi una campagna militare che può infrangere questo equilibrio. In questo momento, però, Ankara sa di avere sostanzialmente mano libera, e di poterlo fare per almeno tre ragioni. Gli Stati Uniti stanno rafforzando il fronte orientale della Nato e quello dell’Indo-Pacifico, distraendosi dal Medio Oriente. La Russia ha invaso l’Ucraina e Vladimir Putin non può certo concentrare eventuali sforzi diplomatici o bellici per gestire il riottoso partner turco. Inoltre, Erdogan ha da tempo fatto capire che nel do ut des per Mar Nero e Ucraina è fondamentale un qualche via libera in Siria. L’Iran è in preda alle rivolte interne e fin troppo debole sul piano economico e della sua rete internazionale. Israele sta riallacciando i rapporti con la Turchia e, anche per ricostruire un Mediterraneo orientale stabile, non sembra intenzionato a riaccendere un fronte diplomatico con Ankara.
Le potenze europee, invece, appaiono ormai completamente distanti dal disastro siriano. Infine, il veto minacciato dalla Turchia all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato proprio per il loro sostegno ai curdi è un’arma che resta in mano a Erdogan: ancora più importante dopo l’attentato che ha sconvolto il centro di Istanbul. In tutto questo, le elezioni nel 2023 e la crisi economica che attanaglia la Turchia rappresentano anche motivi di politica interna per sostenere un impegno militare nella regione, e questo ha ancora più senso proprio dopo quella tragedia.
L’obiettivo strategico di Erdogan, al netto del profilo politico, sembra essere di nuovo quello di rafforzare quel cuscinetto terrestre di circa trenta chilometri tra la Turchia e la Siria fino a raggiungere la frontiera dell’Iraq. I piani di attacco continuano ad avere al centro Tal Rifat, Manbij e Kobane, ma in molti ritengono possibile che le operazioni, quantomeno quelle aeree, continuino anche nel Kurdistan iracheno. Per i turchi è essenziale non solo rompere qualsiasi legame terrestre tra le aree controllate dai curdi, ma anche provare ad ampliare il controllo su quelle regioni. Kobane e Manbij così come Afrin e sono da sempre nel mirino del Sultano, e non c’è solo il tentativo di minare definitivamente le milizie curdo-siriane. In diverse regioni si può parlare ormai di gestione di fatto da parte di Ankara, con territori dell’estremo nord della Siria sostanzialmente turchi. In tutto questo, rimane il grande nodo di Idlib: sacca di miliziani, jihadisti, rifugiati e caos dove la Turchia può avere un’autorità sempre più pervasiva. Il 2022, in attesa delle fondamentali elezioni del 2023, può essere un anno fondamentale anche per il destino di questi luoghi. Erdogan sa di avere in mano una finestra di opportunità che non può perdere: in questo momento può realizzare un piano che va avanti da anni e che unirebbe il suo nuovo corso con il passato della “profondità strategica”.
Del resto, oggi lo stesso Assad, che non può certo imporre la propria forza contro l’esercito turco e contro le volontà russe, potrebbe in realtà accettare un’avanzata che colpisca i nemici di Damasco sostenuti dalla coalizione internazionale: quelli che avevano combattuto per l’Occidente contro l’Isis ma che rappresentano una spina nel fianco per il completamento della sua riconquista della Siria. Come spiegava su Limes Lorenzo Trombetta, Putin aveva da tempo chiesto un riavvicinamento tra i due leader mediorientali. E forse questa avanzata terrestre confermerà la complessità dei rapporti di quella regione, dove tutto può apparire in un modo ed essere qualcos’altro.
Tra Isis e Al Qaeda la Siria resta un porto sicuro per il terrorismo. Alberto Bellotto il 10 Dicembre 2022 su Inside Over.
L’ombra nel del jihad non ha mai abbandonato la Siria. Il decennale conflitto che insanguina il Paese del Levante continua a nutrire la galassia del terrore, anche se oggi, rispetto agli anni del Califfato, i movimenti del terrore avvengono sotto traccia, tra aree “paradiso” e le sabbie desertiche che si perdono fra Siria e Iraq.
Ancora oggi, alla vigilia del 2023, la minaccia passa per le due formazioni che si contendono lo scettro della jihad globale Stato Islamico e Al Qaeda. E la Siria pare essere uno degli snodi in cui si gioca questa partita. L’ultima notizia in ordine di tempo, la morte dell’ennesimo leader dell’Isis, ha riacceso i riflettori sul pericolo delle bandiere nere, ma anche sul fatto che nel Paese la lotta al terrore non è mai finita, e che anzi ci sono ancora fazzoletti del territorio siriano che non possono dirsi liberi dal pericolo islamista.
L’Isis e l’esercito dormiente
A fine novembre le agenzie hanno battuto la notizia che il leader dell’Isis, Abu al-Hasan al-Hashimi al-Qurashi è stato ucciso in combattimento. Secondo gli Usa Abu al-Hasan sarebbe morto a metà ottobre inseguito a uno scontro tra membri dello Stato islamico e ribelli del Free Syrian Army nella zona di Daraa, un centro nel Sud del Paese nel territorio di confine tra Siria e Giordania.
La morte del leader islamista è avvenuta in concomitanza con l’annuncio di una vasta operazione anti Isis che le forze regolari di Damasco hanno lanciato nel Sud del Paese insieme a ex elementi ribelli dell’Fsa. Quasi in contemporanea canali dello Stato islamico hanno confermato la morte del leader. Per il gruppo si tratta del terzo leader ucciso nel Paese. In origine era toccato ad Abu Bakr al-Baghdadi, morto nell’ottobre 2019, poi a febbraio di quest’anno era toccato al successore Abu Ibrahim al-Qurashi. Entrambi uccisi nella provincia di Idlib, l’unica ancora fuori dal controllo delle forze di Damasco.
La guida dei taglia gole sarebbe passata ora a Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi, un nom de guerre dietro al quale ci sarebbe uno degli ultimi veterani del gruppo. Tra il 2017 e 2019 la formazione ha perso via via il controllo del grande Califfato edificato tra Siria e Iraq, ma non per questo ha smesso di essere una minaccia.
Secondo l’Annual Threat Assessment realizzato dalla United States Intelligence Community, l’entità che racchiude le 17 agenzie del governo federale che si occupano della sicurezza e che viene guidata dal Direttore dell’Intelligence nazionale, i leader dell’Isis continuano a portare avanti il progetto di creare un Califfato tra Siria e Iraq e che soprattutto negli ultimi anni stiano lavorando per ricostruire le proprie capacità, al momento logorando gli avversari e controllando porzioni di territorio limitate.
La strategia è quella di dare priorità ad attacchi contro obiettivi militari e civili così da fiaccare le forze di sicurezza di Damasco e Baghdad ma anche continuare a mantenere una certa rilevanza tra i sostenitori globali del gruppo. Questo risponderebbe a due finalità: tenere alta la tensione etnico-settaria in questi due Paesi e soprattutto resistere al ritorno di Al Qaeda sul fronte dell’attrazione di nuovi miliziani.
Uno degli strumenti attraverso cui l’Isis spera e pensa di poter tornare a contare all’interno della galassia jihadista è quello del “capitale umano”. Il crollo del Califfato non ha infatti risolto il problema degli uomini fedeli all’ideale delle bandiere nere. Ad oggi almeno 10 mila combattenti sono detenuti nei territori delle forze curde appoggiate degli americani. Di questi 5 mila sono siriani, 3 mila iracheni e altri 2 mila foreign fighters.
Questo “esercito in attesa”, come l’ha definito il generale Michael E. Kurilla, comandante dello USCENTCOM, è “sparpagliato” lungo una serie di carceri in tutto il Nord della Siria, in quello che è stato definito come la “più grande concentrazione di terroristi del mondo”. Questo esercito rappresenta solo una parte del problema.
A luglio un dossier delle Nazioni Unite ha messo nero su bianco come al momento la struttura decentrata del gruppo lasci margine per condurre attacchi sanguinosi, ma soprattutto che, al di là della massa di detenuti, ci sia ancora una grossa fetta delle energie jihadiste libere di muoversi attraverso il confine poroso tra Siria e Iraq. Secondo le stime ci sarebbero tra i 6mila e 10mila combattenti concentrati nelle aree rurali tra i due Paesi.
Il nuovo volto di Al Qaeda
Il complesso caos siriano ha rappresentato anche un’occasione d’oro per un’altra formazione jihadista, Al Qaeda. L’organizzazione creata da Osama Bin Laden oltre una trentina di anni fa, negli anni post-11 settembre ha cambiato pelle molte volte e oggi ha tanti volti quanti sono quelli delle sue formazioni decentrate.
Una di queste è quella che oggi controlla una porzione di territorio siriano, il gruppo Hayat Tahrir al Sham (HTS), una formazione che tiene in pugno quasi tutta la regione di Idlib. Nata dalla fusione di gruppi minori insieme all’ex fronte al Nustra, secondo stime dell’Onu è in grado di gestire la regione grazie a un esercito composto da oltre 10 mila miliziani, molti siriani, ma tra i quali militano anche dei combattenti stranieri.
Il gruppo negli ultimi mesi ha mostrato una certa forza, ma soprattutto una capacità di proiettarsi al di fuori della zona sotto il suo controllo. Per un breve periodo ad ottobre Hayat Tahrir al Sham è è stata in grado di entrare nella città di Afrin, nel nord del Paese, mettendo in seria difficoltà tutto il cappello delle opposizioni al regime di Damasco che controlla l’area dopo l’intervento militare turco nel 2018. Alla fine l’occupazione della città è durata poco anche grazie a un ultimatum arrivato direttamente da Ankara, ma è stato la dimostrazione di un gruppo in salute.
Accanto alle capacità militari che ne fanno uno dei gruppi più tenuti di tutto il nord della Siria, HTS da tempo ha lavorato a un forte rebranding per mostrarsi come una forza di opposizione a Damasco credibile cercando in ogni modo di edulcorare il passato qaedista. Anche per questo ha preso di mira un’altra formazione terroristica che opera nel nord della Siria, Hurras al-Din (HAD).
Considerata un’emanazione di Al Qaeda, HAD è nata nel 2018 da una costola dell’ex fronte Al Nusra; è guidata da Abu Humam al-Shami (noto anche con il nome di Faruq al-Suri), tra i fondatori del fronte e storico esponente di Al Qaeda. Secondo le stime Hurras al Din conta ha poche migliaia di affiliati e colpisce raramente, anche se le intelligence dei Paesi occidentali ritengono che al suo interno esista un sottogruppo formato solo da combattenti stranieri e che operi per effettuare attentati fuori dal Paese.
Sempre stando al dossier Onu la leadership di Al Qaeda avrebbe dato l’odine di lasciare la Siria per spostarsi in Afghanistan ma al momento nessun miliziano ha lasciato il Paese. A conferma della pericolosità del gruppo anche il fatto che tra il 2020 e 2021 al-Shami è entrato a far parte del comitato Hittin, un organo interno ad al Qaeda che si occupa della gestione delle leadership globale del gruppo.
Negli ultimi tre anni Hurras al-Din è stata bersagliata con una serie di campagne aeree mirate in particolare dagli Stati Uniti, ultimo raid in ordine di tempo quello compiuto a giugno contro uno dei leader del gruppo nella regione di Idlib.
Il Pentagono considera quelle formazioni come un’emendazione diretta di Al Qaeda e sottolinea come queste stiano usando quella porzione di Siria come un porto sicuro all’interno del quale i miliziani riescono a coordinarsi con affiliati esterni per pianificare operazioni fuori dalla stessa Siria. La prova che oltre all’Afganistan talebano anche la Siria rimane un porto sicuro per il terrore.
La guerra dimenticata: in Siria adesso si rischia la fame. Mauro Indelicato su Inside Over il 23 marzo 2022.
La guerra in Ucraina non ha “cancellato” quella in Siria. Lo sanno bene i milioni di profughi presenti in uno dei tanti campi all’interno del territorio siriano. E lo sanno bene a Damasco, ad Aleppo, a Homs, dove la morsa delle sanzioni occidentali sta impedendo l’avvio di un serio piano di ricostruzione dopo la riconquista dell’esercito siriano, supportato dai russi, di queste città. Lo sanno inoltre in quei territori ancora al di fuori del controllo governativo. Come a Idlib, in mano da anni a milizie islamiste soprattutto filoturche. Oppure nelle regioni al di là dell’Eufrate, controllate dai curdi e dove in parte ancora si trovano gli americani portati qui da Obama all’epoca della guerra all’Isis. La guerra ancora c’è e non è detto che il conflitto in Ucraina non abbia conseguenze o influenze anche da queste parti.
Qual è la situazione a livello militare
La guerra in Siria viene oramai considerata a “bassa intensità”. Ma questo non vuol dire che sia finita. Al contrario, il Paese sta ancora vivendo le più gravi conseguenze del conflitto. Certo, la situazione è diversa rispetto ad alcuni anni fa. Quando i russi qui nel settembre 2015 sono intervenuti a sostegno del presidente Assad, Damasco era assediata, l’Isis aveva raggiunto Palmyra e Aleppo divisa tra quartieri governativi assediati e zone ancora in mano ai ribelli. Questi ultimi nella città siriana erano rappresentati soprattutto da forze islamiste, alcune delle quali legate al Fronte Al Nusra, costola locale di Al Qaeda. Vivere in questi territori era impossibile. Uscendo di casa, sia che ci si ritrovava dalla parte sotto controllo governativo o in quella sotto controllo ribelle, si correva il rischio di cadere per mano dei continui raid. Oggi è un po’ diverso. Nelle principali città siriane la vita scorre normalmente, seppur tra mille difficoltà economiche. Sono pochi i problemi di sicurezza, negli ultimi due anni è possibile spostarsi anche tra una provincia e un’altra, specialmente nella Siria tornata sotto il controllo di Damasco.
I fronti più caldi rimangono quelli settentrionali. Qui vige un cessate il fuoco mediato nel gennaio 2020 da Russia e Turchia. In quel mese Putin ed Erdogan in persona hanno concordato a Sochi un’intesa per far cessare gli scontri in atto tra l’esercito siriano e i miliziani filoturchi. Truppe di Mosca e truppe di Ankara pattugliano da allora costantemente la linea di contatto tracciata poco lontano dalla città di Idlib, l’ultimo capoluogo siriano non ancora ripreso da Assad. Negli ultimi due anni si è sparato poco. A questo forse ha contribuito anche il Covid, con la pandemia che ha implicitamente “consigliato” alle parti di congelare il conflitto. C’è poi un altro fronte caldo a nord di Aleppo. Riguarda i territori del cantone di Afrin. Un tempo a maggioranza curda, dal 2018 la zona è controllata dai miliziani filoturchi. Ma i curdi stanno continuando a sparare e ogni settimana si registrano scontri e tensioni.
Infine c’è il settore orientale della Siria. Al di là dell’Eufrate sono i filocurdi dell’Sdf a controllare le province, fatto salvo per alcune eccezioni dove le città sono pattugliate congiuntamente con russi ed esercito siriano. Lo status di queste regioni è il vero perno politico che attualmente impedisce ogni soluzione. I curdi controllano zone un tempo a maggioranza araba, dunque anche l’idea di rendere autonoma questa vasta porzione di Siria non va a genio né a Damasco e né alla popolazione locale. In più c’è, nella zona non lontana dal confine iracheno, la presenza dei soldati Usa che Assad ritiene illegale. A nord invece Erdogan preme per la costituzione di una fascia di sicurezza, minacciando a più riprese nuovi interventi armati da parte dei miliziani da lui controllati. Una polveriera solo parzialmente domata, è questa l’immagine della Siria di oggi mentre il mondo, già distratto a fasi alterne, oggi guarda unicamente alle vicende in Ucraina.
Il rischio di un disastro umanitario
Fin qui la situazione sul campo. A preoccupare di più, prima ancora che una ripresa su larga scala dei combattimenti, è il fronte umanitario. Da questo punto di vista la Siria è unita: a prescindere se si è sotto l’occupazione islamista oppure nei territori curdi o in mano al governo, non c’è famiglia siriana che non patisca fame e miseria. Una situazione già al limite prima della guerra in Ucraina. La pandemia ha azzerato ogni timida ripresa economica, in più le sanzioni continuamente rinnovate dall’Europa e dagli Usa non stanno permettendo lì dove la guerra è passata di iniziare la ricostruzione. Il conflitto in corso lungo le sponde del Mar Nero potrebbe peggiorare ancora di più i problemi. Anche la già stremata Siria si rifornisce del grano ucraino. Con il blocco delle esportazioni navali, a Damasco arriva sempre meno cibo. Vale sia per le città che per i campi profughi. Sacchi di farina e generi di prima necessità stanno iniziando a diventare merce sempre più rara. Lo spettro di una crisi alimentare è dietro l’angolo.
Ai siriani è mancato il lavoro ed è mancata la pace in questi anni, adesso potrebbe mancare seriamente anche da mangiare. Da ogni angolo del Paese la gente invoca repentine soluzioni per evitare il disastro. Se la guerra in Ucraina è in grado di mettere in difficoltà nell’approvvigionamento l’Europa, la logorata Siria potrebbe vivere fasi ancora più dure di quelle che il conflitto stesso le ha fatto patire. L’impressione è che la stessa ricostruzione del Paese oggi deve andare in secondo piano. Per adesso l’essenziale da queste parti è sopravvivere. In attesa che il mondo si ricordi di una guerra iniziata nel 2011 e mai conclusa.
Il capo dell’Isis è stato ucciso così: la dritta, la casa, i commando, l’elicottero in avaria. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2022.
La ricostruzione dell’operazione che ha portato alla fine di Al Quraishi: due mesi di preparativi, due ore di blitz. Il plastico della palazzina, come avvenne per Bin Laden
Un’operazione studiata per quasi due mesi e conclusa con un assalto durato un paio di ore. Questa è la prima ricostruzione sull’eliminazione del leader dello Stato Islamico Abu Ibrahim Hashemi al Quraishi. Ne avremo ancora. Il racconto delle fonti ricalca quello di altri «inseguimenti» di terroristi. Tutto inizia – e non potrebbe essere diversamente – da una dritta arrivata all’intelligence circa tre mesi fa. Parla di una famiglia che vive in una casa di tre piani a Atmeh, regione siriana di Idlib, vicino al confine con la Turchia.
In affitto
Il nucleo è composto da un uomo sulla quarantina e dai suoi congiunti, donne e bambini. Lui dice di essere scappato da Aleppo a causa della guerra, ha affittato il piano superiore mentre sotto vivono altri. E’ discreto, riceve ogni tanto la visita di qualche amico. Si tratta di corrieri usati per comunicare con i suoi sottoposti. Gli americani partono con una sorveglianza più attiva. Un esperto su twitter nota come ai primi di novembre un aereo per la guerra elettronica RC 135, dotato di apparati sofisticati, compia voli quotidiani nel settore: il velivolo parte dal Qatar, raggiunge il nord ovest della Siria e «pettina» lo spazio, quindi rientra. Una manovra ripetuta per settimane. Ieri, guarda caso, è tornato negli Stati Uniti. C’entra con quanto è avvenuto dopo? Insieme agli occhi dal cielo Washington mobilita le fonti sul terreno sfruttando la conoscenza e le alleanze in questo quadrante.
Le talpe
Interessante il «quartiere», visto che a poche centinaia di metri dal rifugio ci sono due postazioni filo-turche e una dell’HTS, gli ex qaedisti di al Nusra. Inoltre gli Stati Uniti hanno colpito spesso con i droni grazie alle informazioni fornite da talpe, ben inserite in questo santuario dell’estremismo. Piano piano si forma il quadro, si valutano i rischi, si cerca di capire meglio lo scenario. Il 20 dicembre il presidente riceve un briefing più dettagliato sulla localizzazione di al Quraishi, seguono incontri ripetuti per studiare quale opzione scegliere. Torna il dibattito vissuto dallo stesso Biden all’epoca del raid contro Osama, allora lui fu l’unico a esprimere un parere negativo in quanto temeva i rischi.
Il plastico
Anche questa volta i militari portano un piccolo plastico della palazzina per illustrare il possibile target, esattamente come avvenne per bin Laden. L’intenzione iniziale era quella di catturare il nuovo Califfo vivo ma era chiaro che avrebbe opposto resistenza e dunque l’epilogo poteva essere drammatico. Dopo settimane di analisi Biden ha rotto gli indugi dando la luce verde. Una decisione in mezzo ad una tempesta diplomatica a causa della crisi ucraina e dello scontro con i russi. Alle 17 di mercoledì il presidente si chiude nella Situation Room insieme ai collaboratori più stretti, compresa la vice Kamala Harris, e segue in diretta video il raid affidato alla Delta Force. Nel frattempo il Pentagono ha comunicato a Mosca che vi sarebbe stata un’operazione di un certo livello, avviso per evitare incidenti.
Droni ed elicotteri
I commando — circa una ventina — sono trasferiti in elicottero nelle vicinanze del villaggio, i movimenti sono coperti da caccia, droni e Apaches. Circondano la casa, intimano la resa ma ricevono come risposta salve di proiettili, i militari reagiscono. Video usciti sui social mostrano le raffiche di mitragliatrice degli elicotteri. L’assedio termina due ore dopo con una grande esplosione causata, secondo i portavoce, dallo stesso al Quraishi. Non si è arreso ma ha preferito attivare una carica provocando la morte di donne e bambini, moglie e figli. Una versione che tende a escludere una responsabilità statunitense ma che ha bisogno di conferme indipendenti. I soldati della Delta riescono a verificare l’identità del bersaglio — è sempre la narrazione ufficiale — usando le impronte digitali e un kit rapido per il DNA, quindi abbandonano il cadavere tra le rovine. All’esterno ci sono altri corpi, tra cui quelli di due guerriglieri della fazione HTS che si sono avvicinati per capire.
L’avaria
Non è finita. Uno degli elicotteri — un MH 60 del 160th Soar, altra unità d’elite — ha un’avaria, è costretto ad atterrare in un campo e i commando sono costretti a farlo saltare per aria. Restano però molti rottami e, stando ad alcuni osservatori, non è detto che la deflagrazione abbia cancellato del tutto componenti interessanti. Ricorsi. E’ avvenuta la stessa cosa nel blitz per eliminare Osama ad Abbottabad, con un altro MH60 abbandonato e distrutto parzialmente (dicono che i cinesi siano riusciti ad esaminarlo). Il team rientra alla base, la Casa Bianca festeggia il successo raggiunto senza perdere un uomo, non mancano le critiche per le vittime civili, Joe Biden parla alla nazione dicendo che oggi il mondo è più sicuro. Frasi e mosse di rito. Una vittoria in una lunga campagna: è morto il capo, lo Stato Islamico è vivo.
Biden: «Il capo dell'Isis al Quraishi è morto durante un raid Usa in Siria». Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 2022.
L'annuncio del presidente degli Stati Uniti: ucciso Abu Ibrahim al Quraishi. Il leader dello Stato Islamico si sarebbe fatto saltare in aria, uccidendo la moglie e i due figli. Biden: «Abbiamo reso il mondo più sicuro»
Gli Stati Uniti hanno annunciato la morte, avvenuta in un raid notturno in Siria, del leader dello Stato Islamico, Abu Ibrahim al Quraishi. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha detto che tutti i membri delle Forze speciali impegnate nel raid sono in salvo.
Biden — in una nota — ha spiegato di aver dato il via libera all'attacco per «proteggere il popolo americano e i nostri alleati — e per rendere il mondo più sicuro. Grazie al coraggio e alle capacità delle nostre Forze Armate, abbiamo tolto il capo dall'Isis dal campo di battaglia».
Secondo il presidente Usa, il leader del Califfato — 45 anni, figura misteriosa del terrorismo internazionale — si sarebbe fatto saltare in aria, uccidendo tre membri della sua famiglia: la moglie e i due figli.
«In un ultimo atto di disperata vigliaccheria», ha detto Biden, al Quraishi «ha preferito questa fine senza alcun riguardo nei confronti dei suoi familiari o di altre persone presenti nell'edificio». Fonti ufficiali statunitensi hanno poi specificato di aver eseguito un test del Dna che ha confermato l’identità del terrorista, precisazione che risponde in parte ai dubbi che hanno sempre accompagnato sul ruolo esatto del jihadista e su chi fosse il vero capo. Altro aspetto: il cadavere è rimasto tra le rovine della casa.
Nelle scorse ore si era diffusa la notizia di una incursione delle forze speciali Usa nel nord della Siria: un’operazione massiccia che ha portato alla morte di 13 persone, tra cui sei minori e quattro donne.
L’assalto è scattato nella notte con un impiego di un elicottero d'assalto con una ventina di uomini delle forze speciali, supportati da elicotteri da combattimento, droni Reaper armati e jet d'attacco, e assomiglia al raid Usa del 2019 che portò alla morte dell'allora leader del califfato Abu Bakr al-Baghdadi, anche lui fattosi esplodere, secondo quanto riferisce il New York Times.
I commandos statunitensi hanno circondato un’abitazione nella località di Atmeh, regione di Idlib, nota per la presenza di jihadisti.
Chi era al Quraishi, il leader dell'Isis? E cosa cambia con la sua morte?
I militari hanno invitato alla resa le persone asserragliate in una casa ma, dopo un paio d’ore, chi era all’interno avrebbe aperto il fuoco usando fucili e lanciagranate. La battaglia è proseguita intensa e si è conclusa con un’esplosione che ha devastato l’edificio. Sono state fasi concitate, con un elicottero costretto ad un atterraggio d’emergenza. Il velivolo – secondo il New York Times – ha avuto un’avaria e sono stati costretti a distruggerlo al suolo. Narrazione che potrebbe però nascondere un’altra tesi, quella di danni subiti per i tiri del nemico.
Inizialmente si era pensato che il bersaglio fosse un esponente qaedista ma successivamente è emerso il nome di al Quraishi, figura defilata che ha aveva preso il posto di Abu Bakr al Baghadi il 31 ottobre 2019, anche lui liquidato da un’incursione in un villaggio ad una trentina di chilometri di distanza.
In passato nella zona ci sono state altre operazioni aeree con il ricorso ad armi speciali — come i missili ninja — per ridurre i «danni collaterali» e nel mirino c’erano gli uomini di Osama.
L’alto numero di civili uccisi - compresi dei bimbi - riporta alla memoria quanto avvenuto a Kabul dopo la strage dell’aeroporto compiuta dallo Stato Islamico. Un raid americano ha annientato una famiglia afghana, un errore tragico: pensavano di aver individuato la cellula terroristica coinvolta nell’attentato e invece erano dei semplici abitanti. Il prezzo alto di ogni conflitto.
Il movimento perde dunque la sua guida nei giorni successivi ad un’offensiva spettacolare in Siria (dieci giorni di assalto a una prigione) e ai segnali di grande rilancio in Iraq. Una conferma della sua resistenza e della capacità di superare fasi difficili. I seguaci del Califfato continuano a rappresentare una minaccia su molti fronti, dal Sahel all’Afghanistan.
LA MISSIONE MILITARE. Isis, l’operazione che ha ucciso il capo al-Qurayshi in Siria. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 03 febbraio 2022.
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato che le forze armate americane hanno ucciso il capo dell’Isis, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi, in un raid nel nord-est della Siria.
Secondo il New York Times al Quraishi è morto poco dopo l’inizio dell’operazione militare facendo esplodere una bomba che ha ucciso anche i membri della sua famiglia e chi si trovava nell’abitazione.
Barack Obama vanta l’operazione che nel 2011 ad Abbottabad ha ucciso Osama bin Laden, Donald Trump l’uccisione del proclamatore dello stato islamico Abu Bakr al Baghdadi. A Joe Biden è toccato al-Qurayshi, in attesa del prossimo leader del terrore islamista. Perché lo sanno tutti che la morte di un leader non equivale alla morte del jihad.
YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.
Siria, raid Usa contro l'Isis e il capo si fa esplodere. Biden: ora tutti più sicuri. Fausto Biloslavo il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Al Qurayshi circondato si uccide: tra i 13 morti la moglie e 2 figli. Sterminò gli yazidi nel 2014
«Chi fa parte della guerra santa esca subito. Vi garantiamo l'incolumità se vi arrendete. Chi rimane dentro morirà». È l'ultimatum in arabo lanciato con i megafoni dalle squadre di commandos americani che hanno circondato prima dell'alba una palazzina piatta su tre piani nel nord ovest della Siria, a un passo dal confine turco. L'obiettivo è il nuovo Califfo dello Stato islamico, Abu Ibrahim al Hashemi al Qurayshi. Due dozzine di uomini dei corpi speciali americani sono sbarcati dagli elicotteri con i rotori silenziati come quelli usati nel raid contro Osama bin Laden. In alta quota volteggiano i droni Reaper, il Mietitore, armati di missili Hellfire, «fuoco d'inferno».
Cacciabombardieri Usa sono pronti a intervenire e un velivolo speciale per comunicazioni e intercettazioni vola a debita distanza grazie ad un accordo segreto con i russi che hanno lasciato libero lo spazio aereo.
I Rambo americani fanno sloggiare i vicini per prendere posizione a casa loro e sono annidati fra gli ulivi attorno all'abitazione con il dito sul grilletto. Poco dopo l'avvertimento via megafono una devastante esplosione sconquassa il terzo piano, l'ultimo della palazzina e il tetto piatto crolla sulle stanze. Al Qurayshi si è fatto saltare in aria, piuttosto che arrendersi, uccidendo la sua famiglia, la moglie e due figli. Il presidente americano, Joe Biden conferma che «in un atto finale di vigliaccheria» il Califfo ha innescato «un giubbotto esplosivo che ha fatto esplodere l'intero terzo piano senza nessun riguardo per la vita dei suoi familiari».
Al secondo piano è ancora asserragliato il luogotenente del Califfo con la famiglia, che non si arrende e apre il fuoco. I corpi speciali penetrano nell'edificio e il braccio destro di Al Qurayshi viene eliminato assieme alla moglie. Sul terreno si contano 13 morti compresi 6 bambini. La Casa Bianca ha dato il via libera martedì a un ardito e pericoloso raid dei corpi speciali, al posto di un più sicuro attacco aereo, proprio per evitare il più possibile vittime civili.
Dopo tre ore di missione i commandos, tutti incolumi, vengono esfiltrati dagli elicotteri, ma uno ha un problema meccanico. Alcuni miliziani jihadisti avevano sparato contro l'elicottero, che viene abbandonato e distrutto da un caccia bombardiere. L'intera operazione è molto simile al raid contro il covo del califfo Al Baghdadi nel 2019 avvenuto poco distante, che pure si era fatto esplodere. Il successore si nascondeva nella stessa sacca jihadista di Idlib, l'ultima nel nord ovest della Siria fuori controllo governativo, nella cittadina di frontiera e di contrabbando di Atmeh. L'area è sotto una specie di protettorato turco. Omar Halabi, un vicino, racconta: «Vedevamo solo la moglie che andava a comprare la verdura. Lui l'ho visto una volta, era calmo e umile». Il Califfo aveva affittato la palazzina 11 mesi fa, ma non sarebbe stato riconosciuto.
Sulla sua testa c'era una taglia Usa di 10 milioni di dollari. Il vero nome era Muhammad Said Abdel-Rahman al-Mawla ed era nato nel 1976 nella città irachena di Tal Afar, roccaforte turcomanna in Irak. Fino all'invasione del 2003 è un fedelissimo del partito Baath di Saddam Hussein. Poi passa con Al Qaida e viene catturato dagli americani che lo tengono prigioniero nel famoso camp Bucca dove conosce Abu Bakr al Baghdadi, il futuro Califfo. Al Qurayshi è lo stratega della conquista di Mosul, capitale dello Stato islamico ed emette le fatwe per lo sterminio degli yazidi, la vendita delle loro donne come schiave e la cacciata dei cristiani dalla piana di Ninive. Cinque giorni dopo l'eliminazione di al Baghdadi viene nominato Califfo dalla Shura dello Stato islamico, che sta rialzando la testa. L'intelligence americana arriva al suo nascondiglio lo scorso anno, intercettando i corrieri dell'Isis. Al Qurayshi, che non esce quasi mai di casa, viene riconosciuto grazie ai droni quando prende aria sul terrazzo del terzo piano. Per lui inizia il conto alla rovescia. Dopo il raid Biden dichiara: «Era una grande minaccia per il mondo e le forze militari americane l'hanno rimossa con successo».
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
Alberto Simoni per “la Stampa” il 5 Febbraio 2022.
Al Qurayshi si era presentato ad Atmeh come un mercante siriano fuggito da Aleppo; pagava 160 dollari al mese di affitto per l'appartamento al terzo piano della palazzina dove si è ucciso; e i suoi figli giocavano con i bambini dell'appartamento del primo piano, quelli salvati dalle forze speciali Usa. Nessuno sospettava che quello che la moglie aveva spacciato per il signor Abu Ahmed, fosse il capo dell'Isis. All'indomani del blitz emergono alcuni dettagli sul terrorista uccisosi con la famiglia.
La moglie - ha raccontato alla Reuters la donna che vive al primo piano - «indossava sempre un vestito scuro, si vedeva che era molto conservatrice». Talvolta avevano bevuto il tè insieme ma lei non aveva mai avuto sospetti su chi si nascondeva nell'edificio. A tradirlo, secondo fonti americane, sarebbe stata l'accresciuta attività nelle ultime settimane: Al-Qurayshi aveva intensificato le comunicazioni con i suoi uomini e diretto le operazioni per l'assalto alla prigione di Hasakah finita in una carneficina e che ha visto l'intervento di 200 dei 900 soldati americani schierati nella regione.
A quel punto gli americani hanno deciso di agire. Il colpo assestato allo Stato islamico è molto importante, ma è ben lungi dall'assestare un colpo letale per i miliziani. L'Isis avrebbe ancora in «portafoglio» fondi per 50 milioni di dollari (25 secondo le stime più prudenti), nettamente inferiori ai 200 milioni del 2020. Abbastanza, comunque per finanziare operazioni a bassa intensità e attacchi su più vasta scala. Le attenzioni sono rivolte su chi potrebbe prendere il posto di Al-Qurayshi.
Su questo l'intelligence è divisa: ci sono tante brigate attive o dormienti in Siria, Iraq in Afghanistan che si muovono con un relativo grado di autonomia. «La macchina dell'Isis può funzionare senza un leader», ha spiegato Aaron Zelin, del Washington Institute che ha sottolineato che il gruppo si «fonda sulle idee più che su una leadership carismatica». È uno schema con cui si confronta l'intelligence sul campo e che rende fondamentale avere contatti con le forze locali. Come accaduto nel blitz contro Al Qurayshi facilitato dalle informazioni giunte agli Usa dalle antenne delle Forze di difesa siriane.
Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 5 Febbraio 2022.
Un uomo tranquillo, fin troppo. Stiamo parlando del presunto capo dello Stato Islamico, Abu Ibrahim Hashimi al Quraishi, eliminato da un'operazione Usa nel nord ovest della Siria. Le testimonianze raccolte dai media nella località di Atmeh non sono sempre precise, a volte le descrizioni mescolano il profilo del capo con quello del corriere, una persona che abitava al primo piano della palazzina.
Il terrorista sarebbe arrivato quasi un anno fa, con al seguito la moglie, 3 figli, e la sorella, un trasferimento, avrebbe detto da Aleppo un commerciante siriano in fuga dalle bombe. Aveva preso in affitto un paio di appartamenti, 130 dollari al mese di canone mensile, una bella somma per gli standard del posto. Ora qui i racconti si sdoppiano. Secondo alcuni al Quraishi, sistematosi al secondo piano, non dava confidenza, era molto riservato. Simile il comportamento dei bimbi, a parte qualche ora di gioco in strada.
La moglie (o una delle mogli) indossava abiti scuri tradizionali e solo in un paio d'occasioni aveva invitato una donna a prendere il thè. Un locale intervistato dal New York Times ha precisato che il secondo individuo, anche lui sposato, residente nell'abitazione, svolgeva il ruolo di emissario usando come copertura la professione di autista. Ma qui c'è una variante nella narrazione.
Media sostengono che fosse il leader stesso a fare il tassista, c'è chi ha sottolineato come lo avessero visto uscire spesso a bordo di un mezzo. Abbigliamento semplice, kefiah in testa, poi jeans e maglietta. Era sempre rasato, ha aggiunto, una scelta particolare in un'area dove in tanti portano la barba come segno religioso. Sembra però strano che un personaggio così importante, ricercato, potesse andare in giro.
È invece in linea con il predecessore, al Baghdadi, la scelta nella regione di Idlib. Molti rifugiati, tanti «forestieri», territorio frazionato, presenza di un'infinità di gruppi: un ambiente misto dove nascondersi restando nella penombra di una palazzina, auto-segregato, in stile Osama. L'epilogo però è stato letale: tutti fatti fuori.
Gli Usa avrebbero ricevuto una soffiata fin dai primi giorni di novembre e hanno capito attorno al 20 dicembre di aver trovato l'alto dirigente. Il Wall Street Journal ha scritto che dettagli decisivi sarebbero emersi negli ultimi giorni dopo che al Quraishi si era messo in contatto con i combattenti coinvolti nell'attacco alla prigione di Hasaka, nella parte nord orientale della Siria.
Al solito le vittorie hanno tanti padri. Di sicuro è un successo temporaneo per Biden che ha valutato per settimane cosa fare. L'intelligence e il Pentagono gli hanno sottoposto delle opzioni, gli hanno mostrato un modellino della casa, hanno offerto i pro e i contro. Una prima soluzione era quella di un bombardamento aereo ma è stata scartata perché - è la giustificazione - c'erano rischi per i civili.
Dunque la missione è stata affidata alla Delta Force: solo che le conseguenze sono state identiche. Insieme al ricercato sono stati spazzati via donne e minori vittime - è la tesi ufficiale - di una carica esplosiva innescata da al Quraishi. Restano le ombre, le circostanze da chiarire su quel finale, l'attesa di una possibile reazione da parte del Califfato .
Qurayshi è morto ma l’occidente farebbe bene a non sottovalutare la minaccia dell’Isis. MATTEO PUGLIESE su Il Domani il 04 febbraio 2022.
Chiunque sarà il nuovo leader dell’Isis, l’organizzazione lancerà una campagna affinché le filiali sparse per il mondo rinnovino il giuramento di fedeltà, un segno di solidità e propaganda nonostante la perdita subita.
La morte del capo dello Stato Islamico e successore del califfo al Baghdadi, al Qurayshi, è arrivata prima di quanto pensassero molti addetti ai lavori.
Non sappiamo se il successore di Qurayshi avrà lo stesso background o verrà da altre esperienze. Possiamo affermare che sarà quasi sicuramente iracheno o siriano, perché la spina dorsale dell’organizzazione resta in Mesopotamia.
La lotta contro il terrorismo dell’Isis è dunque tutt’altro che finita, ma il raid statunitense ha certamente assestato un duro colpo alla mente dell’organizzazione.
MATTEO PUGLIESE. Ricercatore associato all'ISPI di Milano. Esperto di sicurezza internazionale ed estremismo. Svolge un dottorato di ricerca all'Università di Barcellona su intelligence e antiterrorismo. All’Osce si è occupato di prevenzione della radicalizzazione giovanile.
RISCATTO DOPO IL FALLIMENTO AFGHANO. Il “califfo” eliminato quando il gruppo aveva ripreso forza. FRANCESCO MARONE su Il Domani il 03 febbraio 2022.
La leadership di Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi è stata breve e per molti versi enigmatica. La sua nomina venne ufficialmente annunciata il 31 ottobre 2019, pochi giorni dopo la morte di al Baghdadi.
Dopo la laurea a Mosul e il servizio militare, il futuro “califfo” si unì alla causa jihadista e divenne un membro del gruppo armato che nel 2014 sarebbe diventato lo Stato islamico.
Al momento lo Stato islamico non ha ancora riconosciuto ufficialmente la morte del suo leader né ha prospettato il percorso per la sua successione.
FRANCESCO MARONE. È docente di Relazioni internazionali presso l'Università di Pavia e presso l'Università della Valle d'Aosta. È inoltre Fellow del Program on Extremism at George Washington University di Washington, Associate Fellow dell'International Center for Counter-Terrorism (ICCT) dell'Aja e Associate Research Fellow dell'ISPI di Milano.