Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
ANNO 2022
L’ACCOGLIENZA
DICIASSETTESIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
I Muri.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
Quei razzisti come i cechi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i serbi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i libici.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come gli ugandesi.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i sudafricani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i singalesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i filippini.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come gli australiani.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I LADRI DI NAZIONI.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
I SIMBOLI.
LE PROFEZIE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. PRIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SECONDO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TERZO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUARTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SESTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SETTIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. OTTAVO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. NONO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DECIMO MESE.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE MOTIVAZIONI.
NAZISTA…A CHI?
IL DONBASS DELI ALTRI.
L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
TUTTE LE COLPE DI…
LE TRATTATIVE.
ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.
LA RUSSIFICAZIONE.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.
IL FREDDO ED IL PANTANO.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE VITTIME.
I PATRIOTI.
LE DONNE.
LE FEMMINISTE.
GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.
LE SPIE.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.
LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.
LA GUERRA ENERGETICA.
LA GUERRA DEL LUSSO.
LA GUERRA FINANZIARIA.
LA GUERRA CIBERNETICA.
LE ARMI.
INDICE NONA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA DETERRENZA NUCLEARE.
DICHIARAZIONI DI STATO.
LE REAZIONI.
MINACCE ALL’ITALIA.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
IL COSTO.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
PSICOSI E SPECULAZIONI.
I CORRIDOI UMANITARI.
I PROFUGHI.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I PACIFISTI.
I GUERRAFONDAI.
RESA O CARNEFICINA?
LO SPORT.
LA MODA.
L’ARTE.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
PATRIA BIELORUSSIA.
PATRIA GEORGIA.
PATRIA UCRAINA.
VOLODYMYR ZELENSKY.
INDICE TREDICESIMA PARTE
La Guerra Calda.
L’ODIO.
I FIGLI DI PUTIN.
INDICE QUATTORDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’INFORMAZIONE.
TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA.
INDICE QUINDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA PROPAGANDA.
LA CENSURA.
LE FAKE NEWS.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
LA RUSSOFOBIA.
LA PATRIA RUSSIA.
IL NAZIONALISMO.
GLI OLIGARCHI.
LE GUERRE RUSSE.
INDICE DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CHI E’ PUTIN.
INDICE DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…le Foibe.
Lo sterminio comunista degli Ucraini.
L’Olocausto.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Il Caso dei Marò.
Che succede in Africa?
Che succede in Libia?
Che succede in Tunisia?
Cosa succede in Siria?
L’ACCOGLIENZA
DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La guerra ed i contemporanei.
Noi, ieri, abbiamo studiato la storia. Oggi la viviamo.
Per questo non bisogna guardare gli eventi bellici periodici con gli occhi di piccoli menti, ma annotare gli eventi per poterli raccontare in modo imparziale ai posteri.
Di personaggi come Putin è subissata la storia e solo loro sono ricordati.
La malvagia ambizione è insita negli esseri normali e di questo bisogna prenderne atto.
Domenico Quirico per “la Stampa” il 5 luglio 2022.
E se Putin, e la truce avventura in cui ci ha trascinato giorno dopo giorno, fosse colpa nostra? Intendo della mia generazione, di quella che aveva il potere negli anni in cui la Storia ha regalato un'occasione unica e forse irripetibile. Parlo degli Anni 90 del secolo scorso. Il mondo in cui da decenni sempre più stancamente ci tenevamo in piedi con il Nemico, l'Unione Sovietica, sorreggendoci l'un l'altro come due lottatori esausti che non crollano solo perché si avvinghiano per puntellarsi. Un soffio e il Nemico si era dissolto. Senza sparare un colpo, per eutanasia storica.
Conclusione memorabile e perfetta. Perché non era stato sconfitto in guerra, che porta con sé sempre la rancorosa voglia di una inevitabile rivincita. Ebbene: quella generazione non ha capito niente, ha sprecato tutto. Per questo dico che Putin lo riconosciamo in un album di famiglia. Noi lo abbiamo creato, accettato, lusingato perché eravamo consapevoli, fino a cinque mesi fa, che non ci era estraneo. Anzi. Pensavamo che al momento giusto, quando ha iniziato ad alzare la voce, avremmo saputo parlargli, addomesticarlo.
Aleggiava solo una vaga angoscia, parlavamo la stessa lingua e ci avrebbe ascoltato perché non poteva in fondo negare di assomigliarci. Altro che democrazie contro autocrazia. Ci disprezza ma solo perché è certo di averci superato in cinismo e brutalità.
Oggi tentiamo di cancellarlo, molto più freneticamente di quanto abbiamo fatto ad esempio con il totalitarismo islamico. E con grandi sacrifici (degli ucraini soprattutto).
Lo facciamo perché, dopo che ha scatenato la guerra e per il modo sistematicamente feroce e implacabile con cui la conduce, ci siamo visti riflessi nel suo specchio e abbiamo avuto orrore. Cerchiamo di mandare in frantumi lo specchio sperando che con l'immagine sparisca anche ogni traccia di quella somiglianza.
La vita non disillude, la vita ha una sola parola e la mantiene. Gli uomini, solo gli uomini deludono. Ricordo bene gli Anni 90, la loro morbosa tranquillità, sembravano una quieta insenatura dove ogni tempesta ormai si era risolta, la democrazia trionfava, i Muri cadevano, il libero mercato si estendeva a macchia d'olio e quindi rendeva sempre più inutili e anacronistiche le guerre. Erano invece quegli anni l'ultimo rifugio di una epoca morente.
Sì è vero. Conficcato come una lama insanguinata a metà del decennio c'era il Ruanda, il suo milione di morti, la sua parola maledetta e mille volte meritata: genocidio. Ma in fondo che cosa era quella tragedia? Un frammento staccato che nasceva da sommessa povertà e primitivo tribalismo. E poi che contava? Niente. Poiché laddove era stato per mezzo secolo il centro della sfida, la capitale dell'impero del male, Mosca, lì proprio lì la Storia ci aveva dato ragione.
Abbiamo passato quei dieci anni gustando una sorta di condizione perfetta in cui, tutti i nostri voti essendo esauditi, non avevamo più nulla da dirci, ci sentivamo, come cittadini dell'Occidente, puri, dritti, luminosi, dominati dal sentimento della certezza, di una certezza molto orgogliosa. Eravamo, noi non tutto il mondo, pienamente in pace, ben installati al riparo del disordine in una civiltà ricca e definitiva. Perfino le guerre che continuavano, il primo scontro con Saddam che aveva invaso il Kuwait ad esempio, ormai le combattevamo tutti insieme, il mondo degli ex nemici veniva a affollarsi, pieno di buona volontà, sotto le nostre bandiere. Il mondo era zeppo di autocrati e canaglie. Ma erano nostre, ci appartenevano, non avevano più nessuno con cui tradirci. Dovevano scimmiottarci e obbedire.
E il vecchio nemico, il russo, l'ormai ex sovietico? Sguazzava nella miseria, il proletario, si muoveva tra rovine ancor più stremanti e sfigurate perché apparentemente città e fabbriche erano intatte. Ma era dentro di loro che non c'era più nulla in piedi, la angoscia della tabula rasa, il niente che è peggio che sentirsi vinti, che aver piegato il ginocchio in segno di resa. Avevano bisogno di noi, di qualcuno che rispettasse quel loro pellegrinaggio di fuoco.
Erano stanchi di Muri, di ideologie, di modelli. Non volevano discolparsi, perorare, dar prova di sé. I russi son stati i migranti della storia della fine del Novecento. Accettavano di farsi interrogare ma come si interroga il viandante con il suo bisogno di esser riconosciuto, accolto per come è, non per come vien giudicato.
È il contrario di quello che abbiamo concesso non solo ai russi ma a tutto quello che era terzo mondo, e per noi era terzo modo tutto ciò che non ci assomigliava. Abbiamo vinto, non vi resta altro che copiarci in versioni più misere. Andavamo a guardarli come si va allo zoo a guardare i sopravvissuti di una specie estinta.
Orde di banditi si affollavano attorno alle casseforti spalancate della nuova Russia: libero mercato privatizzazioni urlavano i furbi mentre si spartivano il bottino. E noi ridevamo soddisfatti per gli eccessi grotteschi degli "oligarchi''. Beh! Che c'è di male, in fondo all'inizio del capitalismo c'è sempre un po' di talento da gangster.
E allora che è comparso Putin. Non a caso alla fine di quel decennio e al debutto del millennio nuovo. Aveva assorbito tutto quello che noi avevamo insegnato, intendeva sfruttare fino in fondo quello che avevamo permesso e la nostra avidità. Ci aveva osservato con attenzione: sapeva che per ingannarci bastava indossare le vesti di scena per lo spettacolo che ci convinceva.
Cercavamo complici servili, non democratici orgogliosi. Ecco qua la stagione di Putin, l'amico, l'alleato, l'ottavo Grande. Bastava la sua economia elementare portasse qualche pennellata di Mercato e oplà: gas e buoni affari, petrolio e contratti per fornire tecnologia. Come le vecchie care colonie di un tempo che fu.
Nel nostro bel mondo ordinato irrompevano dei disturbatori, gli islamisti. Nella lotta al terrorismo universale il caro Putin, che pure si rivelava sempre più simile a un dittatore senza freni, come era utile, faceva il lavoro sporco, in Cecenia, in Siria. A lamentarsi per la barbarie dei metodi erano le solite quattro comari intellettuali, i professionisti della misericordia. Noi lo abbiamo creato. Per sbarazzarcene dovremo innanzitutto cambiare noi stessi.
La megatruffa del Mercurio rosso e quel contrabbando gestito dal giovane Vladimir Putin. La fantomatica sostanza nucleare proveniente dagli arsenali dell’Unione sovietica in smantellamento ha alimentato un giro d’affari nei primi anni Novanta, coinvolgendo l’ex Kgb e l’attuale presidente russo. Sara Lucaroni su L'Espresso il 5 Settembre 2022.
Tra i tanti fantasmi che l’invasione russa in Ucraina ha resuscitato, c’è il balletto del terrore intorno alle centrali e l’uso di armi nucleari. Gli allarmi delle intelligence occidentali, alimentati dalla propaganda dei media russi sono appena mitigati dalle parole dello stesso Vladimir Putin in occasione della Decima conferenza del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. «Non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare e non dovrebbe mai essere scatenata», ha detto.
Antonio Polito per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2022.
«Un teppista, un prepotente, un assassino». Il senatore John McCain, candidato repubblicano sconfitto da Obama alle presidenziali, diceva questo di Vladimir Putin. Un pazzo, un folle, un dittatore, un uomo malato che ha fretta di lasciare un segno nella storia prima che arrivi la fine: diciamo spesso questo di Putin nei media occidentali, per spiegare quel rebus avvolto in un mistero dentro un enigma che è l'ultimo inquilino del Cremlino.
Un leader che vent' anni fa sembrava pragmatico e filo-occidentale, e che ha invece finito per trascinare il suo Paese in una guerra con l'Occidente che non vincerà, ma a un prezzo altissimo di vite umane e di benessere materiale.
La monumentale biografia scritta da Philip Short, l'ex corrispondente della Bbc che aveva già raccontato Mao e Pol Pot, ha invece l'indiscutibile pregio di rifiutare in partenza questi stereotipi. La «teoria del pazzo», elaborata da Richard Nixon, può perfino trasformarsi in una trappola, se la si usa per «sembrare talmente irrazionali e imprevedibili che l'avversario è costretto a esitare prima di mettere alla prova la tua determinazione».
Nelle sue mille informatissime pagine (il volume è edito da Marsilio), secondo la migliore tradizione della biografia anglosassone (quasi 250 sono di note), l'autore si concentra piuttosto su due chiavi interpretative cruciali per capire davvero un leader politico: la prima è la personalità, la sua storia per così dire intima, da dove viene, di chi è figlio, che faceva da ragazzo, e così via.
La seconda è il nesso indissolubile tra lui (o lei) e il Paese che guida, l'intreccio di storia, cultura e interessi che sempre muove un popolo, soprattutto quando è un grande popolo come quello russo, educato a sentirsi eccezionale almeno quanto quello americano.
Nel condurre questa operazione-verità, Short apre degli squarci di estrema utilità per comprendere il piglio imperiale dell'uomo. Ha ragione quando ci invita a tener presente che «i leader nazionali rispecchiano inevitabilmente la società da cui provengono».
Ma ha torto quando aggiunge: «Putin non è un'aberrazione in Russia più di quanto non lo sia Donald Trump in America, Boris Johnson nel Regno Unito o Emmanuel Macron in Francia». Questo difetto di equipollenza morale tra un'autocrazia in cui la leadership è a vita, gli oppositori vengono avvelenati, e a nove milioni di persone è stato vietato di candidarsi; e le democrazie in cui un presidente può essere indagato per l'uso che ha fatto del potere o un premier può essere spedito nel Pacifico da un voto dei suoi parlamentari, è il punto più criticabile, e più criticato, del libro.
Accettiamo però il «beneficio del dubbio» che l'autore concede a Putin. A partire dall'accurata contestazione della leggenda cospirativa secondo cui gli attentati attribuiti ai ceceni che sconvolsero la Russia nel 1999, e che giustificarono la più disumana delle repressioni militari, erano stati in realtà «fatti in casa» dai servizi di Mosca, per facilitare l'ascesa del nuovo uomo forte.
Nessuna prova è mai emersa a giustificare questa teoria, che pure ha ancora ampia circolazione; mentre molte ne sono le palesi contraddizioni, e Short le elenca con efficacia. Ciò nonostante la ferocia usata a Grozny, il massacro elevato a sanzione morale, quel «li annienteremo al cesso» con cui Putin inaugurò la sua storia al potere, restano il tratto distintivo di una leadership: quando pronunciò quella frase, a settembre, era accreditato nei sondaggi per le presidenziali di un misero 2% dei voti. A dicembre era arrivato al 40%.
In questa attitudine all'uso della forza gioca certamente un ruolo la storia del potere in Russia. Ma anche il carattere dell'uomo forgiatosi negli anni precedenti.
Ed è forse qui la parte migliore del libro, e anche la più ricca di fonti (da quando entra al Cremlino, il mistero che avvolge Putin si fa più fitto perfino per un biografo del valore di Short).
Figlio di un patriota comunista, che aveva combattuto da partigiano contro i tedeschi durante il terribile assedio di Leningrado, Volodja era stato un bambino turbolento, addirittura scartato per cattiva condotta alle elementari dagli «oktjabrjata», l'organizzazione dei «figli dell'Ottobre» fondata dalla moglie di Lenin, versione rossa dei boy scout di Baden-Powell. Da adolescente «si azzuffava con chiunque, non aveva paura di nulla.
Era come se fosse privo di qualsiasi istinto di autoconservazione. Non gli passava nemmeno per la testa che il suo rivale potesse essere più forte e dargliele di santa ragione», ha raccontato il miglior amico del tempo, Viktor Borisenko. Ma questa aggressività, che forse compendiava la statura bassa e il corpo «magro e non atletico», si accompagnava al buonsenso: «Era in grado di riflettere su ciò che faceva e di controllarsi».
I ragazzi di strada come lui, si dice ancora oggi, possono essere salvati solo dallo sport. E infatti Volodja, crescendo, si dedicò appassionatamente prima al «sambo», una tecnica di difesa personale senza armi, e poi al judo, disciplina nella quale eccelse a livello regionale.
Lui stesso ha poi raccontato: «Per conservare l'autorità che avevo, mi servivano tecnica e forza fisica. Sapevo che se non avessi cominciato a fare sport, non avrei più avuto la posizione cui ero abituato, né nel cortile né a scuola». In palestra imparò che se vuoi vincere devi mostrare al tuo avversario che sei disposto ad arrivare fino in fondo.
E nel Kgb, dove fu assunto nel 1975 dopo la laurea all'università di Leningrado, apprese un'altra lezione: non portare mai con te un'arma se non sei pronto ad usarla.
Il Kgb era stato per lui un sogno fin da ragazzo: «Serie televisive quali Lo scudo e la spada e Diciassette momenti di primavera raccontavano le imprese degli agenti sovietici nella Germania nazista durante la guerra»: eroi senza macchia, tipi alla James Bond. Putin volle fortissimamente imitarli.
Si iscrisse a Giurisprudenza perché gli dissero che era la via migliore per arrivare ai servizi segreti. Anche se poi la sua non fu una carriera da 007. È molto probabile, anche se ha sempre tentato di nasconderlo, che tra il '76 e il '79 abbia lavorato allo spionaggio e alla repressione dei dissidenti nel famigerato «Quinto direttorato». E anche quando finalmente ottenne una sede all'estero (ma a Dresda, non a Berlino come sperava), nei giorni fatali dell'89 finì per assistere con umiliazione al tracollo della Germania Est, nell'impotenza della superpotenza russa.
Un trauma che gli è rimasto sempre ben impresso nella mente . Altrettanto traumatici, e formativi della sua weltanschauung , furono i mesi caotici e terribili della caduta di Gorbaciov, del colpo di stato militare, della fine dell'Unione Sovietica, la patria in cui era tornato dopo la caduta del Muro.
A Leningrado, dove fungeva da vice del sindaco liberale Sobcak (secondo alcuni gli fu messo alle costole dal Kgb, secondo lui se n'era invece già dimesso) partecipò alla disperata richiesta di aiuti alimentari che una città stremata rivolse ai Paesi europei (senza ricevere molto, a dire il vero).
Fu persino accusato di aver avuto parte in uno scandalo, quando il programma «petrolio per cibo», vendita di materie prime russe in cambio di derrate occidentali, portò grandi arricchimenti ai mediatori, embrioni dei futuri oligarchi, ma poco pane alla città, ritornata nel frattempo all'antico nome di San Pietroburgo.
Un sentimento di rivalsa contro un Occidente accusato di aver tradito la Russia dopo averla illusa è forse ciò che più accomuna Putin al suo popolo, e che ne spiega la presa ancora forte. «I russi si sono sentiti presi in giro», scrive Short. Per lui, «lungi dall'essere bizzarra, la decisione di invadere l'Ucraina è in realtà perfettamente coerente con il modo in cui Putin si è sempre comportato, ogni volta che si è trovato di fronte a una scelta esistenziale tra inimicarsi l'Occidente e difendere il proprio potere e quello della Russia nel mondo».
Come da ragazzo, quando si lanciava nelle zuffe convinto di poterle vincere perché mostrava di volerle vincere. Ciò non giustifica il calcolo sbagliato che gli ha fatto credere di poter piegare l'Ucraina in pochi giorni. Né la violenza rabbiosa che le ha abbattuto addosso quando ha capito che non ce l'avrebbe fatta. E nemmeno la vendetta che sta tentando ora di prendersi sugli europei tenendoli al freddo quest' inverno. Ma in parte spiega perché il suo popolo non l'abbia (ancora?) abbandonato. «I russi - conclude l'autore - non soltanto sembrano europei, sono europei, e ci aspettiamo che si comportino come il resto della famiglia. Ma loro inspiegabilmente, ostinatamente, si rifiutano di farlo. E questa situazione non cambierà tanto in fretta». Forse neanche quando Putin non ci sarà più.
L’errore di Vladimir Putin, figlio di una clamorosa illusione. Bernardo Valli su L'Espresso il 27 Giugno 2022.
I russi hanno dovuto rinunciare all’idea di conquistare rapidamente l’intera Ucraina e il presidente russo ha perduto molto del suo potere. Perché l’intera operazione militare si basa su una valutazione sbagliata
Ci sono due Europe: una che va in vacanza e l’altra che resta in guerra. Anche quella che raggiunge in massa spiagge e montagna, intasando le autostrade e occupando gli alberghi e le pensioni, e che gode in pieno il privilegio della quiete democratica, è pervasa da una giustificata inquietudine. L’inseguono le immagini quotidiane dell’altra Europa, quella in guerra: case distrutte, città deserte, contabilità inarrestabile dei morti ammazzati, nel Donbass e in altre regioni dell’Ucraina invasa.
Le sanzioni promosse da Mosca in risposta a quelle imposte dagli Occidentali non creano soltanto fastidi nella vita quotidiana, e al pensiero di quelli più pesanti nella vita di domani, ma possono suscitare se non in tutti in molti occidentali un’intensa, spontanea solidarietà con l’altro popolo europeo investito dai rigori del conflitto.
Quelle sanzioni alimentano al tempo stesso anche il timore che i danni della guerra si estendano in concreto alle contrade limitrofe finora risparmiate. Le nostre. La riduzione drastica dell’esportazione di gas russo o di frumento ucraino è destinata a pesare sulle nostre prossime stagioni. Ed è solo un aspetto di quel che può provocare la vicina guerra. Il risultato elettorale francese, che ha ridotto drasticamente la maggioranza assoluta, detenuta dal presidente francese Macron, a una risicata maggioranza relativa rende difficile governare a Parigi. È un grave danno collaterale che ferisce il fronte occidentale.
L’Europa occidentale, tartassata come il resto del mondo dalla non ancora del tutto spenta pandemia sfuggita a lungo alla scienza, alla medicina, si trova adesso intrappolata in una guerra vecchio stampo, che sembrava superata nel continente appena uscito da un secolo con due conflitti mondiali e almeno quattro rivoluzioni fallite. Tutte convinte di essere destinate all’eternità e invece tragicamente sgonfiatesi in pochi decenni. Essendo i principali attori del momento dotati di armi nucleari, si pensava che potessero inoltrarsi in nuovi conflitti in cui sarebbe sorta la tentazione atomica. I dirigenti più spericolati l’hanno agitata soltanto. Penso ad alcuni tra i dirigenti russi. Più avventati che avventurosi perché l’uso del nucleare tra potenze che lo posseggono implica la risposta immediata. Ma a questo punto vado al di là del pensabile.
Una nebbia fitta avvolge l’intenzione dei dirigenti del Cremlino. Alcuni tra i più accreditati studiosi del potere russo, succeduto a quello sovietico estinto, hanno avanzato l’idea che il presidente Putin sia circondato da personalità militari che non solo lo guidano, lo influenzano, ma che addirittura decidono le sue azioni. Se è così si tratta di “falchi”. E non con una strategia unica. Non poche forze concorrenti si muovono nel Cremlino, dove è ancora dolorosa la ferita aperta dalla decomposizione dell’Unione Sovietica. E dove dominerebbe il desiderio, la volontà, di ricreare l’impero decaduto e frantumato. Se si scorre la cronaca bellica degli ultimi cento giorni ci si accorge che i giudizi iniziali degli strateghi di Mosca erano sbagliati. Avventati.
L’indisciplinata Ucraina, elemento importante e spesso tragico di quella che era l’Unione Sovietica, appariva pronta a reintegrare la nuova Russia amputata di tante repubbliche. Questa era l’immagine che dava. Meglio, quella che illudeva Putin e i suoi collaboratori moscoviti. Era l’illusione che nella Storia ha spesso condotto alla rovina gli uomini temporaneamente forti. L’interminabile fila di carri armati sulla strada di Kiev sembrava pronta a un assalto decisivo. Un’operazione militarmente facile. Tanti alleati, amici, simpatizzanti, l’attendevano. E invece la colonna blindata ha sbandato, si è ritirata, si è dispersa, puntando in altre direzioni giudicate più accessibili.
A chi imputare l’errore strategico iniziale? Ai politici? Ai militari? Ai servizi di informazione? Non pochi generali hanno perso il posto, non pochi anche la vita. Ma quel che è accaduto veramente al vertice del potere russo resta incerto. Secondo gli americani Vladimir Putin, pur restando presidente, ha perduto molto del suo potere. L’ambizioso progetto iniziale che sembrava abbracciare l’intera Ucraina si è ridotto al Donbass, regione importante, sia per la posizione geografica sia per le ricchezze minerarie e per la numerosa popolazione russa o filorussa. Comunque, soltanto una regione dell’ambita Ucraina. Ma la guerra è appena cominciata. Siamo soltanto al primo capitolo. E ancora in attesa di un vero e difficile negoziato.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 21 giugno 2022.
Una serie di società, palazzi, ville, yacht - in tutti questi anni di volta in volta offerti all'uso personale di Vladimir Putin da oligarchi o suoi amici d'infanzia - sono adesso collegati tra loro dall'utilizzo della stessa infrastruttura online, un dominio web (LLCInvest.ru) che non è disponibile sul mercato, quindi utilizzabile solo da parte di una organizzazione che vi ha accesso. Nel network i dirigenti di queste società e questi asset - molti dei quali riconducibili in ultima analisi a Bank Rossiya, la banca che il Tesoro americano definisce testualmente «la banca personale di Putin» - discutono di mosse comuni, coordinano operazioni fiscali e finanziarie, decidono insieme come gestire un mega yacht, in quale rimessaggio andare, o chi deve ristrutturare e come un palazzo.
È una delle nuove scoperte di un consorzio internazionale di numerosi giornalisti, Occrp in Europa e Meduza in lingua russa, che hanno avuto accesso ad alcune mail leakate da un'azienda di servizi internet, Moskomsvyaz, strettamente collegata a Bank Rossiya. L'azienda non opera per privati cittadini, ma lo studio di questa notevole tranche di mail ha connesso (almeno) 86 società e entità no profit che controllano un tesoro di (almeno) 4,5 miliardi di dollari.
Questo network è incaricato di gestire, e celare, proprietà rilevantissime. Alcune erano note, per esempio il celebre «Palazzo di Putin» sul Mar Nero, a Gelendzhik, ma non si sapeva che fossero collegate tra loro. Per esempio nel newtork c'è una villa a nord di San Pietroburgo, che sul luogo tutti chiamano «La Dacia di Putin», che era di proprietà di Oleg Rudnov, amico d'infanzia di Putin, ed ereditata dal figlio di lui Sergey, attraverso una società chiamata North. Rudnov utilizza gli indirizzi e-mail di LLCinvest.ru.
O come per esempio il resort sciistico Igora, nell'oblast di Leningrado, dove la figlia di Putin Katherina Tikhonova si sposò nel 2013 con Kirilll Shamalov, personaggi che abbiamo già incontrato e intestatari di pezzi del tesoro putiniano. Questo resort - progettato in mattoni da un grande architetto finlandese a inizio novecento - appartiene a una società russa, Ozon, di cui è maggior azionista Yuri Kovalchuk, appunto presidente di Bank Rossiya (e anche di CTC, il colosso dei media che impiega come co-presidente Alina Kabaeva, l'attuale compagna di Putin). La società madre di Ozon usa anch' essa l'account mail LLCInvest.ru. Che, ripetiamolo, non è disponibile sul mercato. La proprietà è ricondotta anche qui a Yuri Kovalchuk e suo figlio Boris.
Nel leaks c'è un affascinante edificio rivestito in legno a nord di Pietroburgo, noto come «La Capanna del pescatore»: viene fuori che tre società, collegate nel dominio LLCInvest.ru, possiedono i terreni circostanti, e una quarta ha gestito la costruzione della «Capanna». Questa società - di cui La Stampa vi raccontò in anteprima - si chiama Revival of Maritime Traditions, ed è una delle quattro società che il Tesoro americano ha direttamente collegato a Putin, ordinando il sequestro di alcuni yacht ritenuti riconducibili a lui. La «Revival», che oggi è sotto sanzioni americane, possiede due dei diversi yacht putiniani, lo Shellest e il Nega.
Il Dipartimento del Tesoro scrive che Putin utilizza lo yacht Nega per viaggiare nel nord della Russia, e invece lo Shellest si muove ciclicamente davanti a dove? Al «palazzo di Putin». Quello di Gelendzhik. Un terzo yacht, Aldoga, è nel network LLCIinvest ma risulta di una società (Pulse) di proprietà di Svetlana Krivonogikh, ritenuta l'ex amante di Putin, e azionista di minoranza di quale banca? Rossiya, ovviamente.
Gli yacht delle società LLCInvest trascorrono spesso l'inverno in un deposito per yacht vicino alla città finlandese di Kotka (la stessa dove è appena stato trovato il presunto yacht di Dmitry Medvedev, «Fotinia»). Il deposito è gestito da un altro amico di Putin, Dmitry Gorelov, che sarebbe connesso alla costruzione del Palazzo sul Mar Nero dall'inchiesta Navalny.
Se sono coincidenze, sono strabilianti e miracolose. Se ha ragione il vecchio whistleblower russo Sergey Kolesnikov, una vasta famiglia si trova collegata in un network online in cui tornano sempre gli stessi nomi. Per esempio Ghennady Timchenko e Petr Kolbin, amici di gioventù di Putin, entrambi oggi plurisanzionati, che gestiscono alcune società dotate di un po' di cash (700 milioni di dollari, per le prime necessità, forse). Tra le società che usano il dominio, una delle più pubbliche è Russair, che gestisce alcuni degli aerei Falcon su cui hanno volato persone legate all'entourage presidenziale.
Tra cui probabilmente Alina Kabaeva, la compagna del presidente russo. Il Cremlino nega e risponde che «il presidente della Federazione Russa non è collegato o affiliato in alcun modo con i beni e le organizzazioni menzionati». Bank Rossiya non risponde. Nessuno dei dirigenti nei leaks risponde alle domande inviate dal Consorzio di giornalisti. Tranne uno. Che spiega tutte queste coincidenze così: «Sono un dipendente umile e mi faccio gli affari miei. Io firmo solo documenti. Se la mia azienda facesse parte di una grande holding, non lo saprei». Parole sagge, visto cosa succede a certi dirigenti russi.
Alina Kabaeva, la fidanzata di Putin nel mirino: cosa le portano via. Libero Quotidiano il 03 agosto 2022
Anche Alina Kabaeva, ex ginnasta olimpica e presunta fidanzata di Vladimir Putin, è finita nel mirino delle sanzioni Usa. Sanzioni imposte a personaggi di spicco della società russa dopo l'invasione dell'Ucraina. Adesso, quindi, le proprietà che la donna detiene in America verranno bloccate. Lo ha fatto sapere il dipartimento del Tesoro, che parla dell’ex atleta Kabaeva, diventata poi deputata, come di una persona "in stretta relazione con il presidente Vladimir Putin".
In una nota, poi, il Tesoro Usa ha ricordato che Alina Kabaeva dirige il National Media Group, un gruppo pro-Cremlino di testate televisive, radio e di stampa. Il suo insomma non è un nome qualunque. E proprio il ruolo influente che esercita ha portato l'amministrazione americana a prendere questa importante decisione. Tra gli altri russi sanzionati dal Tesoro ci sono anche il miliardario Andrey Guryev, ex funzionario del Cremlino e fondatore dell’azienda chimica russa PhosAgro, e suo figlio.
Infine delle sanzioni sono state imposte pure al miliardario russo Viktor Rashnikov e alla società siderurgica russa di sua proprietà, MMK; e a Natalya Popova, primo vicedirettore della società tecnologica russa Innopraktika. “Il nostro Dipartimento utilizzerà ogni strumento a disposizione per assicurarsi che le élite russe e i sostenitori del Cremlino siano ritenuti responsabili della loro complicità in una guerra che è costata innumerevoli vite”, ha ribadito la segretaria al Tesoro, Janet Yellen.
«L’Europa ha perso la sua sovranità politica». Il discorso da San Pietroburgo dopo il ritardo dovuto a «massicci attacchi informatici». Il Dubbio il 17 giugno 2022.
«L’era dell’ordine mondiale unipolare è finita, nonostante tutti i tentativi di preservarla con qualsiasi mezzo». È cominciato così, con un duro attacco agli Stati Uniti, il discorso del presidente russo Vladimir Putin al Forum economico internazionale di San Pietroburgo, posticipato di un’ora a causa di «massicci attacchi informatici».
«Gli Usa pensano di essere l’unico centro del mondo», ha detto il presidente russo. Il quale sottolinea che quelle imposte nei confronti della Russia sono «sanzioni senza precedenti», ma «siamo persone forti e possiamo vincere tutte le sfide che ci vengono proposte. La storia del nostro Paese lo dimostra». Per Putin l’attuale situazione in Europa «porterà a un’ondata di radicalismo e, in prospettiva, a un cambio di èlite». «I reali interessi delle persone in Europa sono stati messi da parte. L’Europa ha perso la sua sovranità politica», ha aggiunto, riferendosi alla presunta influenza Usa sulle decisioni della Ue.
L’Occidente impone «rudemente e spudoratamente la propria etica, le opinioni sulla cultura e la comprensione della storia, e talvolta mettono in discussione la sovranità e l’integrità degli Stati, creano una minaccia alla loro esistenza», ha sostenuto Putin. Il capo dello Stato russo ha poi ricordato il destino della Jugoslavia e della Siria, della Libia e dell’Iraq, bombardate da coalizioni di Paesi occidentali. Il presidente russo ha anche osservato che se alcuni «ribelli» non possono essere «pacificati», si cerca di isolarli, cancellarli, «si usa di tutto, anche lo sport, il movimento olimpico, i divieti alla cultura, i capolavori d’arte, per il solo motivo che i loro autori sono di origine sbagliata».
Da San Pietroburgo Putin annuncia la fine del mondo unipolare e una nuova èra per la Russia. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 17 giugno 2022
Nel suo discorso dal Forum economico di San Pietroburgo il presidente russo attacca gli Stati Uniti e l’Unione europea, prospettando cambiamenti radicali che porteranno a una nuova élite politica
Dal Forum economico internazionale di San Pietroburgo il presidente Vladimir Putin è intervenuto con un discorso definito dal Cremlino «di straordinaria importanza». Tanti i temi toccati dal leader russo: dalla guerra in Ucraina al ruolo degli Stati Uniti nella politica internazionale. E ovviamente non mancano le sanzioni imposte dall’occidente contro la Russia.
Putin ha tenuto il suo discorso in presenza e senza mezzi termini ha accusato gli Stati Uniti di essere il «poliziotto del mondo». Secondo il presidente, «l’era del mondo unipolare è finita» e si tratta di un cambiamento che «non è riversibile» ma è «parte della storia». La Russia «sta entrando in una nuova era come paese potente e sovrano, e diventerà ancora più forte».
SULLE SANZIONI
La grande attesa per il suo intervento è stata prolungata di oltre un’ora. Secondo quanto riportato dal portavoce del Cremlino Dimitry Peskov i sistemi informatici del Forum economico sono stati presi di mira da alcuni attacchi hacker. Dopo i rallentamenti iniziali il presidente russo ha definito le sanzioni imposte dall’occidente come «folli e sconsiderate» e il cui «scopo è schiacciare l’economia della Federazione russa». Tuttavia, secondo lui, «non hanno funzionato». Per Putin «i politici europei hanno già causato con le loro stesse mani seri danni alla propria economia». L’aumento dell’inflazione e la crisi energetica sono i due risultati più eloquenti.
Il leader del Cremlino stima che i costi delle sanzioni sull’Ue si aggirano intorno ai 400 miliardi di euro l’anno. E avverte che la politica sanzionatoria «potrebbe colpire in futuro qualunque altro paese». Con l’appoggio militare e il sostegno economico all’Ucraina «l’Unione europea ha perso irreversibilmente la sovranità» e «le sue élite ballano con un’altra musica», ha detto Putin, prevedendo che la situazione attuale «porterà un’ondata di radicalismo e in prospettiva a un cambiamento di élite».
LA CRISI ALIMENTARE
Per sbloccare le 20 milioni di tonnellate di grano che sono ferme nei porti ucraini, Putin ha detto che «accoglie con favore l’invito dell’Onu per il dialogo sulla sicurezza alimentare» e al momento non sta ostacolando «la fornitura di grano ucraino al mercato mondiale». Ha respinto anche le accuse contro le sue truppe che avrebbero minato i porti affacciati sul mar Nero per impedire il trasporto delle merci.
Sull’andamento della guerra in corso non si è sbilanciato. Il presidente russo ha detto che «tutti gli obiettivi dell’operazione speciale in ucraina saranno realizzati». Inoltre, ha precisato che «l’operazione speciale della Russia in Ucraina è la decisione di uno stato sovrano basata sul diritto di garantire la sua sicurezza».
IL FORUM
Il presidente russo ha tenuto il suo discorso al noto Forum economico di San Pietroburgo, la kermesse economica, conosciuta anche come la Davos russa, che si tiene ogni anno a giugno e dove sono invitati personalità di spessore del mondo economico, politico e della comunicazione. Quest’anno sono diversi gli eventi che affrontano le relazioni bilaterali tra la Russia e altri stati, con interventi di ministri e personaggi politici, ma anche questioni relative al futuro economico e digitale della Russia. Quest’anno, però, per via della guerra diversi personaggi politici non hanno partecipato. In passato si ricorda la presenza dell’ex cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron.
Tuttavia, nel programma compaiono anche i nomi di alcuni italiani: tra tutti spiccano Alfredo Gozzi (direttore generale di Confindustria Russia) e Vincenzo Trani (presidente della Camera di commercio italiana in Russia). Sono presenti anche ministri e alti rappresentanti di paesi come Egitto, India, Cina, Indonesia, Filippine, Venezuela, Bielorussia e Iran. Alcuni di questi stati come la Cina, l’Egitto e l’India hanno mantenuto una posizione ambigua nei confronti di Mosca da quando è iniziata l’invasione mentre altri come la Bielorussia hanno espresso il loro totale sostegno alla guerra in Ucraina voluta da Vladimir Putin.
LA CINA
Non è mancato l’intervento video del presidente cinese Xi Jinping, dato che una nutrita delegazione di suoi ministri e rappresentati sono stati inseriti nel programma di vari eventi. «I crescenti rapporti commerciali tra Cina e Russia dimostrano che la cooperazione tra i due paesi è resistente alle fasi di tensione e ha potenziale», ha detto Xi ricevono il plauso di Putin.
Il presidente cinese è «un amico in tutti i sensi», ha detto il leader del Cremlino dopo aver specificato che gli scambi commerciali tra Russia e Cina toccheranno quest’anno livelli record.
YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.
Antonio Maria Costa: "Ho conosciuto Putin. Che cosa ha fatto mentre gli parlavo". Libero Quotidiano il 10 giugno 2022.
Antonio Maria Costa, ex vice segretario generale Onu, racconta i suoi incontri con il presidente russo Vladimir Putin a Tagadà, su La7, nella puntata del 10 giugno. "Ho conosciuto il presidente russo, l'ho incontrato diverse volte, anche con il suo braccio destro, il ministro degli Esteri Lavrov", premette. E spiega che lo zar è tutt'altro che irrazionale: "È razionale, estremamente freddo, calcolatore. Sa quello che vuole. Le ragioni che l'hanno spinto all'invasione dell'Ucraina risalgono alla sua frustrazione", aggiunge Costa. "La prima quando fu inviato in Germania e si trovò in un Paese meraviglioso mentre l'Unione sovietica stava implodendo e 25 anni dopo quando si trova a capo di uno Stato che è un popolo di straccioni. La Russia da allora è sparita e lui la vuole reintrodurre sullo scacchiere internazionale", spiega l'ex vicesegretario dell'Onu riferendosi alla guerra in Ucraina.
"L'aneddoto più interessante", rivela Costa, "è quando andai a parlargli dell'enorme problema della droga in Russia. Riferivo dei 15mila giovani russi che ogni anno la Russia perde per la droga che arriva dall'Afghanistan. Lui prendeva nota mentre parlavo e snocciolavo dati. L'ho trovato strano, non ho mai visto capi di Stato che prendevano appunti".
Parla l'ex dirigente comunista. Intervista a Gianni Cervetti: “Putin è figlio di Eltsin, con la storia comunista non c’entra nulla”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'8 Giugno 2022.
Nel suo libro Il compagno del secolo scorso, Gianni Cervetti, una storia nel Pci e del Pci, ha raccontato gli anni della sua formazione, assieme alla moglie Franchina, compagna di una vita recentemente scomparsa, di studente nella Russia di Chruščëv. «Cervetti – scrive Siegmund Ginzberg in un bel articolo su Il Foglio – è uno che di Unione Sovietica e di Russia ne sa qualcosa… È l’uomo che Enrico Berlinguer aveva incaricato di recidere ogni cordone ombelicale con l’Urss. Di mettere fine agli imbarazzanti finanziamenti, in qualsiasi forma. L’ha raccontato negli anni Novanta senza alcuna reticenza, per filo e per segno nel suo L’oro di Mosca». E nel riannodare i fili della storia che collegano il passato con un tragico presente, la guerra in Ucraina, Gianni Cervetti, storico segretario della Federazione milanese del Pci, regala a Il Riformista un aneddoto inedito nel centenario della nascita di Enrico Berlinguer.
Denazificare l’Ucraina. Un richiamo costante alla Grande Guerra Patriottica. Nella narrazione “putiniana” che accompagna la guerra in Ucraina questi riferimenti al passato ricorrono incessantemente. Cosa c’è dietro?
Il tentativo di attualizzare le cose quando non si possono attualizzare. Perché le condizioni della storia erano altre. Questa attualizzazione ha un significato chiaramente politico: il tentativo di dimostrare che nulla è cambiato in Ucraina e nel mondo. Un tentativo che mi pare molto difficile non solo da condividere ma che possa avere un vero successo.
Per restare sull’argomento. Un passo indietro nel tempo. Venticinque aprile 2005. Quel giorno, in un discorso passato alla storia, Putin afferma, cito testualmente: “La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX° secolo: un dramma per decine di milioni di connazionali abbandonati fuori dai confini della Russia”. La narrazione che fa da sfondo alla guerra in corso nasce dunque molto prima del 24 febbraio 2022…
Certo, nasce prima. Però è una narrazione che non tiene conto degli sviluppi della Storia. Mi pare una narrazione che serve a Putin per giustificare e legittimare, soprattutto sul piano interno, la decisione di muovere guerra all’Ucraina. E questa è un’operazione che nella Storia non si può né si deve fare.
Una Storia che lei ha vissuto in prima persona. E che rimanda anche al rapporto tra il Partito comunista italiano e l’Unione Sovietica. Il 26 maggio si è celebrato il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. In questa occasione molti hanno scritto facendo riferimento, tra l’altro, al Berlinguer dell’intervista a Pansa sulla Nato e al Berlinguer dello strappo con Mosca. Lei, che a Berlinguer è stato molto vicino, come declinerebbe questo racconto alla luce dell’oggi?
Quel racconto di Berlinguer, nei passaggi storici a cui lei fa riferimento, tocca il massimo del suo pensiero e della sua azione. Poi, più in generale della figura di Berlinguer si può discutere per altri versi. L’interpretazione che, per esempio, ne dà Tronti nell’intervista a Il Riformista, per quanto stimolante a me pare che dia di Berlinguer una visione riduttiva e al fondo sbagliata.
Perché?
Dell’intervista di Tronti mi ha colpito particolarmente un passaggio, quello in cui afferma che il famoso “strappo” rispetto all’Urss, comunemente considerato tardivo, in realtà avviene al limite ultimo, quando non se ne poteva più fare a meno. E questo perché Enrico sapeva, a differenza di autorevoli iscritti al Pci che diranno di non essere mai stati comunisti, che il suo popolo non voleva strappare…”. Mi ha colpito perché io ero a Mosca, con Berlinguer, nei giorni in cui deflagrò lo “strappo”. Io mi ricordo una piccola vicenda della sua vita e del suo pensiero di cui sono stato testimone diretto. Se vuole gliela racconto…
È un regalo che fa ai nostri lettori…
Eravamo a Mosca a preparare il discorso che Enrico Berlinguer avrebbe poi fatto al Congresso del Pcus. Un intervento che suscitò molte perplessità e persino un brusio nella sala. Un brusio molto strano per quel tipo di pubblico. A un certo punto, Berlinguer, e io con lui ci stancammo e uscimmo a fare quattro passi tra mucchi di neve, era il mese di febbraio. Parlammo liberamente. E io mi permisi di dirgli che dovevamo prendere le distanze da quella politica e anche da quel Paese che aveva avuto una chiara involuzione con Bréžnev. E lui mi fece un segno di assenso assolutamente soddisfatto.
Tornando alla Russia. Un Paese che lei ha conosciuto e amato molto, come emerge nel suo bel libro Il compagno del secolo scorso. Oggi che cosa è rimasto di quella Mosca, di quella Russia?
Senta, la Mosca di quei tempi, quelli che io vissi là, era una Mosca impersonata da Chruščëv, che pur con tutte le sue contraddizioni e oscillazioni fu certamente un innovatore, sia sul piano internazionale sia su quello interno. Si può dire tutto di Chruščëv ma non che fosse un fine teorico. Era un vecchio contadino che cercava di svolgere un lavoro di rottura rispetto a un certo passato. E con tutte le sue contraddizioni cercò di rompere vecchie incrostazioni.
Rimanendo dentro la Storia. Vladimir Vladimirovic Putin, ex ufficiale del Kgb, non è un prodotto di quella Storia?
Sì, lo è. Ma occorre essere più precisi e non eccedere in una generalizzazione che non aiuta a capire gli eventi della Storia e quelli della politica. Putin è stato una scelta di Eltsin che, è bene ricordarlo, fu colui che rifiutò quella Storia nella sua parte progressiva. Eltsin era avversario diretto di Gorbacëv il quale, anch’egli con limiti e contraddizioni, cercò comunque di innovare. Nella storia della Russia, prim’ancora che s’instaurasse l’Unione Sovietica, ci sono tre periodi nei quali le cose potevano svilupparsi in senso democratico…
Quali?
Il primo all’inizio del secolo scorso, quando Lenin stesso scrisse un libro alquanto ponderoso e meditato, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, giustificando con materiale addirittura statistico, la sua idea che in Russia potesse svilupparsi una rivoluzione democratica. Il secondo periodo è con Chruščëv che cerca di fare ciò a cui accennavo in precedenza, con un’opera di destalinizzazione e di riforme che fu stroncata con la sua destituzione. Il terzo periodo, è quello brevissimo di Gorbaciov, stroncato anch’esso con la sua defenestrazione, dovuta a un combinato disposto di motivazioni internazionali e ostacoli interni, quest’ultimi impersonati da Eltsin. Queste sono state le tre grandi occasioni mancate. Irripetibili.
Per restare nella Storia. Berlinguer nella celebre intervista a Giampaolo Pansa, pubblicata sul Corriere della Sera il 15 giugno 1976, afferma di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato. Che ricordi ha di quel passaggio d’epoca?
Beh, fu un fatto dirompente ma sostanzialmente positivo. Ci fu discussione all’interno della Direzione del Partito. Alcuni l’accettarono obtorto collo, ma la cosa passò. E fu un bene.
Anche alla luce dell’oggi? C’è chi vede con preoccupazione l’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia. Lei che ne pensa?
Penso che sia una scelta obbligata, conseguenza di ciò che è avvenuto e sta avvenendo in Ucraina. Uno stato di necessità. Una risposta difensiva, a questo punto necessaria, all’azione aggressiva della Russia.
Per concludere con Berlinguer. Pescando anche nei ricordi personali, c’era in lui una visione “europeista”?
Le rispondo con un ricordo personale che dice molto sull’europeismo di Berlinguer. Riguarda il suo via libera alla scelta che facemmo di candidare Altiero Spinelli alle elezioni politiche del 1976. La cosa suscitò qualche malumore da parte di alcuni. È una storia che ho raccontato nel libro che lei ha citato, Il compagno del secolo scorso. Quella decisione fu presa su suggerimento di Amendola. Mi telefonò una sera, a liste ormai chiuse, e mi disse: ho sentito dire da Pirani che se facessimo una proposta a Spinelli, non sarebbe alieno dal considerarla. Allora Pirani, che poi divenne una delle firme più prestigiose della Repubblica di Eugenio Scalfari, era segretario di Spinelli. E come faceva di solito Amendola, un po’ sbrigativamente, mi disse: vedi tu… Io telefonai a Pirani, e poi lascerei la parola a Spinelli che nel suo Diario scrive, tra l’altro “Trovo all’aeroporto, Monbelli, Pirani e Cervetti, responsabile della centrale comunista e un notaio. Firmo la mia accettazione per le Circoscrizioni di Roma e Milano per la Camera dei Deputati… Mezz’ora dopo, la moglie di Cervetti parte per Milano per portarla. Resto un po’ titubante rispetto a questa fretta che precede ogni accordo. Cervetti mi rassicura. Mi spiega che come indipendente sarò libero di dire quello che vorrò e di votare come vorrò. Accetto. Alle 20 Cervetti mi telefona: tutto è riuscito. Sono nelle liste di Milano e di Roma. M’informa che il Partito chiede la concentrazione delle preferenze su un gruppo di nomi, tra i quali il mio […]. Dieci minuti dopo, gli detto una mia dichiarazione […] Vado a letto pensando, con malinconia, che Ursula non può partecipare a questa mia vittoria politica…”. E la sua candidatura ed elezione fu anche una vittoria di Enrico Berlinguer. È solo un ricordo, un frammento politico, ma indicativo di un europeismo di Berlinguer che andava oltre l’orizzonte dell’eurocomunismo. Spinelli rappresentava il “sogno” federalista, gli Stati Uniti d’Europa. Nella realizzazione di quel sogno c’è il futuro dell’Europa.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Il vero volto di Putin, il padre fondatore della nuova Russia. Fausto Biloslavo il 31 Maggio 2022 su Il Giornale.
Putin e la Russia sono due realtà con cui l'Europa ha sempre avuto difficoltà a relazionarsi. I piani dello Zar erano chiari da tempo, bastava leggerne gli scritti e i discorsi. Ecco cosa non abbiamo capito del capo del Cremlino.
Per gentile concessione della casa editrice Giubilei Regnani, pubblichiamo l'introduzione de Nella testa dello Zar, saggio scritto da Emanuel Pietrobon che rientra nella collana I tornanti curata da Andrea Indini.
Nel lontano 1987, il giorno dopo il mio compleanno, venivo catturato dai filo sovietici in Afghanistan alla fine di un lungo reportage con i mujaheddin del leggendario comandante Ahmad Shah Massoud. Un sergente ucraino dei paracadustisti, a tappe forzate, mi raggiunse nel fortino afghano dove ero tenuto prigioniero con l’ordine alle guardie di farmi saltare in aria con un paio di granate se i mujaheddin avessero tentato di liberarmi con un assalto. Il sergente, che non credeva ai suoi occhi di trovarsi di fronte ad un giornalista italiano, chiamò i suoi paracadutisti di rinforzo con gli elicotteri che fecero tabula rasa del circondario per caricarmi a bordo a mezz’aria e portarmi via.
All’aeroporto di Jalalabad un tenente colonello del Kgb mi interrogò utilizzando il classico metodo del bastone e della carota. Neanche con una finta fucilazione riuscì a farsi firmare una confessione preconfezionata che ero un agente della Cia. Però, dal duro interrogatorio, ho capito che gli uomini del Kgb erano i migliori dell’impero sovietico, come Vladimir Putin, ex ufficiale del servizio segreto dell’Urss. Un silovik, scrive l’autore Emanuel Pietrobon, con la convinzione di avere nelle mani il destino messianico di far rinascere la madre Russia. Una certezza che ha portato il Cremlino a superare la linea rossa e aggredire l’Ucraina con un’inaccettabile invasione nel cuore dell’Europa. Nella testa dello Zar non è un semplice libro su Putin, ma la spiegazione di come fosse tutto già scritto con documenti firmati dal presidente russo, che avrebbero dovuto allarmarci da tempo.
Al contrario, fino a pochi anni fa, abbiamo considerato il nuovo Zar “come un liberal - conservatore che sognava di avvicinare la Russia all’Unione europea” scrive l’autore. Non solo a destra con Silvio Berlusconi, ma pure a sinistra con Enrico Letta, che lo accoglieva nel 2013 con il tappeto rosso a Trieste e oggi è l’alfiere della “guerra” contro i russi. Nel capoluogo giuliano, la mia città, è stata l’unica volta che ho visto Putin da vicino, in un incontro ristretto con la stampa. Già allora era un po’ gonfio, ma non per malattie vere o presunte, bensì per il probabile botulino che aveva eliminato le rughe. Dell’incontro a tu per tu mi colpì di più un dettaglio della sua squadra presidenziale di guardie del corpo. Sul bavero portavano tutti uno stemma di riconoscimento che ricordava lo scudo con il gladio, il vecchio simbolo del Kgb, reso più moderno dall’aquila imperiale.
Non avevamo capito nulla del nuovo Zar, ma Pietrobon basandosi su fonti originali in lingua russa dimostra come tutto fosse già annunciato a cominciare dal Manifesto del Millennio del 1999. Per la prima volta viene tradotto e pubblicato fedelmente cosa c’era, da tempo, nella testa di Putin. E chi spera negli oligarchi per un cambio di regime attenderà inutilmente. Uno dei punti è proprio il “guinzagliamento” di questi personaggi, che hanno segnato la recente storia della Federazione russa. L’analisi delle radici storiche del nuovo Zar con il grande paese dell’Est “intrappolato in un loop temporale, condannato a ripetere gli stessi errori e a rivivere le stesse tragedie ogni tot di tempo” è illuminante per capire la situazione attuale. La triade che ispira l’ex ufficiale del Kgb, “ortodossia, autocrazia, nazionalità”, come gli Zar del passato, spiega le apparenti contraddizioni del presente. Oggi, nelle città occupate, i russi alzano la bandiera sovietica della conquista di Berlino nel 1945. Al loro fianco combattono i ceceni che da tempo soni inquadrati nell’esercito. L’autore spiega che l’obiettivo di Putin è “trasformare tutti, cristiani e musulmani, in russi uniti dall'adesione alla bandiera e dalla fede nel conservatorismo”.
In Crimea durante l’annessione del 2014 ero stupito di vedere il mescolamento fra personaggi e simboli contrapposti, che in realtà facevano parte del pericoloso disegno di rinascita del Cremlino. Ufficiali che avevano combattuto in Afghanistan con l’Urss tiravano fuori la maglietta dei veterani a strisce bianche e blu e comandavano gruppi filo russi che prendevano il controllo dei palazzi governativi a Sinferopoli esponendo la vecchia bandiera con la falce e martello della Marina sovietica. Al contrario, a Sebastopoli, sede della flotta del Mar Nero, rispuntavano i cosacchi sventolando lo stendardo con il volto dell’ultimo Zar Nicola II Romanov. A Donetsk, alle prime scintille della guerra nel Donbass, sul palazzo del governatore occupato spiccava il faccione baffuto di Stalin ed i simboli cosacchi. Tutto amalgamato dalla grande Russia, che voleva spingersi verso Odessa. Un disegno che gli ucraini avevano bene o male fermato fino al 24 febbraio.
Da ilmessaggero.it il 15 giugno 2022.
Come sta Putin? Ipocondriaco o malato cronico? Il professor Michael Clarke, studioso di guerra del King's College di Londra, ha affermato che la materia è molto dibattuta: cosa ha il presidente? Contro quale tipo di patologia combatte? Una cosa è certa, ha detto, ed è che i suoi medici non gli stanno mai lontano.
L'analista parlando con Sky news ha citato anche il caso del botox usato «in modo massiccio». Le iniezioni di botox rilassano i muscoli del viso per attenuare le linee e le rughe, come le zampe di gallina e le rughe di espressione.
Le voci sul botox emersero per la prima volta dopo che Putin si presentò a un incontro a Kiev con un grosso livido intorno all'occhio. Il suo portavoce ha sempre negato l'uso del botulino. I commenti del Prof. Clarke giungono in un momento in cui le voci sullo stato di salute di Putin si fanno sempre più insistenti e molti suggeriscono che il 69enne sia malato.
La scorsa settimana è stato affermato che il leader russo ha ricevuto «assistenza medica urgente» per una malattia sconosciuta. Il canale Telegram dell'SVR generale, secondo quanto riferito da un insider del Cremlino, ha affermato che Putin è stato colpito da un «forte malessere, debolezza e vertigini». E al presidente russo sarebbe stato consigliato di non fare «lunghe» apparizioni in pubblico. I sintomi si sarebbero manifestati dopo che si era alzato dalla scrivania in seguito a una riunione virtuale di 90 minuti.
C'è un video recente in cui Vladimir Putin è apparso piuttosto malfermo sulle gambe mentre ascoltava il regista russo Nikita Mikhalkov ritirare un premio per il suo lavoro nelle arti.
Le riprese della cerimonia mostrano Putin in piedi appena fuori dal podio, con le braccia dritte lungo i fianchi. Sembra che faccia fatica a stare fermo, ondeggia avanti e indietro con un movimento ondulatorio.
"La scorta raccoglie le sue feci...": l'indiscrezione choc su Putin. Alessandro Ferro il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
Lo staff di Putin raccoglierebbe le sue feci e urine per non lasciare tracce quando il presidente russo si trova in visita all'estero: ecco la rivelazione choc di un settimanale francese.
I media internazionali parlano ormai della salute di Putin all'ordine del giorno. L'ultima incredibile indiscrezione l'ha pubblicata il giornale francese Paris Match: tra la scorta che accompagna lo Zar all'estero ci sarebbe una persona con il compito di raccogliere i suoi escrementi e portarli a Mosca. Quale sarebbe il motivo di questa pratica? Affinché non vengano lasciate tracce sulle sue vere, reali, condizioni fisiche. Un eccesso di prudenza ma il Cremlino, di questi tempi, non vuole correre il minimo rischio che possa trapelare nulla sull'eventuale tumore, Parkinson o altre patologie che possa avere Putin.
"Informazioni cruciali"
Sembra incredibile, ma i suoi dipendenti raccoglierebbero anche le urine che nasconderebbero "informazioni cruciali per il futuro del mondo" e tante tracce di possibili trattamenti in corso o che dovrebbe fare per guarire. Quanto riporta il settimanale, sicuramente, farà discutere e chissà se, almeno questa volta, Mosca batterà ciglio o farà finta di nulla. Tra l'altro, Paris Match afferma di aver già sentito parlare di questo "raccolto" nell'ottobre 2019, quando Putin visitò l'Arabia Saudita. Fosse vero, confermerebbe ancora una volta l'inizio di malattia ben prima dell'invasione in Ucraina e della pandemia Covid-19. Insomma. il suo staff farebbe di tutto per nascondere ogni traccia corporea del presidente russo.
"A Putin restano altri tre-sei mesi...". La soffiata dell'ex spia britannica
A cosa serve la valigia speciale
Fonti indirette in Medio Oriente, poi, hanno riferito ai francesi che la delicata missione viene svolta sotto il controllo del servizio di sicurezza russo (FSb). Un agente, secondo quanto viene riportato, avrebbe dovuto mettere gli escrementi di Putin nelle tasche predisposte a tale scopo così da non lasciare traccia e riportare tutto nel Paese in una valigia speciale. "Segretezza assoluta e pressioni intense per mettere a tacere il personale dell'ambasciata russa", scrive la stampa francese, che aggiunge come questa pratica si fosse già verificata anche durante la visita di Putin, in Francia, il 29 maggio 2017, il giorno in cui Emmanuel Macron lo ricevette a Versailles.
Insomma, se davvero fosse così la situazione sarebbe gravissima. Tra le voci di un'operazione imminente e un'operazione già avvenuta, come ci siamo occupati sul Giornale.it, la notizia del giorno era stata la rivelazione di un'ex spia britannica secondo la quale Putin potrà rimanere al potere non oltre tre-sei mesi per poi essere fatto fuori dai suoi fedelissimi sia per lo stato di salute ma anche per gli scarsi risultati ottenuti fin qui in Ucraina dal suo esercito. Se abbia i giorni contati o meno lo scopriremo, certamente però quanto appreso dai francesi lascia interdetti e sconcertati.
Putin ha un cancro, secondo l'intelligence degli Stati Uniti. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 2 giugno 2022.
Sarebbe malato di tumore, in fase avanzata, e sarebbe stato sottoposto lo scorso aprile a delle cure specifiche contro il cancro. A scriverlo — secondo quanto riportato in esclusiva da Newsweek, che cita tre fonti di alto livello con conoscenza diretta del dossier — sarebbe un report dell'intelligence statunitense. Nel report si darebbe anche conferma di un tentativo di assassinio cui il leader russo sarebbe sopravvissuto, lo scorso marzo. Del tentativo di omicidio aveva parlato alla fine di maggio Kyrylo Budanov, il capo dell'intelligence militare ucraina. Nell'articolo di Newsweek si spiega che la discussione nell'amministrazione Biden relativa alla salute di Putin si basa sul quarto «assessment» dedicato al tema dall'intelligence americana. Da tempo le voci su una presunta malattia di Putin si rincorrono, e ultimamente — con una mossa con pochi precedenti, vista la segretezza assoluta che circonda il tema — il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, aveva deciso di smentirle con una intervista alla televisione francese.
«Non credo che qualcuno che sia sano di mente possa vedere in questa persona (Putin) dei segni di malattia o di un disturbo qualsiasi», aveva detto Lavrov, sottolineando come il presidente russo, che compirà 70 anni a ottobre, appaia in pubblico «quotidianamente». «Potete vederlo in tv, leggere o ascoltare i suoi discorsi», aveva aggiunto. «Lascio coloro che diffondono simili voci risolvere la questione con la propria coscienza, nonostante le occasioni quotidiane che hanno di verificare ciò che è».
Nei mesi scorsi si era parlato, in particolare, di una «neoplasia al midollo spinale, la cui sintomatologia sarebbe compatibile con alcune difficoltà deambulatorie e certe irrequietezze posturali di Putin» ( qui l’articolo di Sandro Modeo). Nell'articolo di Newsweek non si specifica, in ogni caso, di che tipo di tumore si tratti, mentre le fonti di intelligence passano in rassegna tutte le apparizioni in video del presidente russo, che vengono regolarmente e accuratamente scandagliate alla ricerca di indizi sulla sua salute. Le fonti citate da Newsweek apparterrebbero a tre diverse agenzie di intelligence: «Una appartiene alla DNI, una è un ex ufficiale della Air Force, e una è della Defense Intelligence Agency», si legge. Secondo queste fonti, «l'isolamento del leader russo rende sempre più difficile capire in modo preciso le condizioni di salute del presidente russo», ma «al Cremlino, sentendo avvicinarsi la fine, la lotta di potere non è mai stata tanto intensa». Questo, a loro parere, rende «imprevedibile» il futuro riguardo allo svolgimento della guerra in Ucraina — ma rende meno probabile la prospettiva di una guerra atomica. «Putin è malato? Assolutamente sì. Ma non dobbiamo metterci in una posizione di attesa, e smettere di essere proattivi. Un eventuale vuoto di potere dopo Putin potrebbe essere estremamente pericoloso per il mondo», ha detto a Newsweek l'ex ufficiale dell'Air Force. E sulla stessa linea si muovono le affermazioni virgolettate al rappresentante della DIA: «Putin è senz'altro malato. Se sia destinato a morire presto, però, è materia di pura speculazione. Quel che è certo è che è ancora pericoloso, e che se dovesse morire si aprirebbe un periodo di caos. Dobbiamo concentrarci su questo, ed essere pronti».
Solo tre settimane fa, il capo degli 007 ucraini, Kyrylo Budanov, vicinissimo a Zelensky, durante un’intervista ha confermato che secondo fonti dell’intelligence Putin sarebbe gravemente malato di cancro: «È in corso un colpo di Stato che non si può più fermare, Putin è in condizioni psicologiche e fisiche pessime, è molto malato». Ci si era chiesti se fosse propaganda di Kiev, Budanov aveva risposto: «Sono il capo dell’intelligence, se non le so io queste cose chi dovrebbe saperlo?».
Il giornale americano Politic o, in un articolo dal titolo Che cosa sta succedendo a Vladimir Putin, ripercorre tutte le volte che negli ultimi anni la stampa (e non solo) ha messo in dubbio la salute fisica del presidente della Federazione russa. Si parla di Covid, di uscite di scena misteriose e di cancro. Quello che viene definito ogni volta «l’incidente», è messo a confronto con la risposta del Cremlino - che nega sempre. Difficile non notare il paragrafo dedicato al possibile tumore. Si legge: «Ad aprile, l’agenzia investigativa russa Proekt ha scoperto che un oncologo ha visitato Putin 35 volte in quattro anni, trascorrendo 166 giorni con lui, nella sua residenza».
Putin «ha un cancro in fase avanzata, curato ad aprile»: il report dell’intelligence Usa. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 3 giugno 2022.
La rivelazione sulla malattia di Putin contenuta in report classificato di cui dà notizia Newsweek: secondo le fonti la presa dello zar sul potere non sarebbe più assoluta, e le manovre intorno a lui sarebbero intense. Il presidente russo «scampato a un tentativo di omicidio a marzo»
Vladimir Putin «è gravemente malato». Tanto che «nel mese di aprile è stato sottoposto a un trattamento medico per una forma di cancro avanzato».
Newsweek rilancia le voci sulle condizioni di salute del presidente russo. Il settimanale americano cita tre «personalità» che avrebbero letto un rapporto riservato dei servizi segreti americani.
Nel dettaglio gli informatori di Newsweek sono: un funzionario della Direzione nazionale dell’Intelligence (Dni), la struttura che coordina le 17 agenzie dei servizi segreti; un componente dell’intelligence del Pentagono e, infine, un ex ufficiale dell’Aviazione militare.
Secondo queste fonti «la presa di Putin sul governo non è più assoluta. Le manovre all’interno del Cremlino non sono mai state così intense negli ultimi vent’ anni; tutti hanno la sensazione che la fine sia vicina».
Il report confermerebbe anche che Putin sarebbe sfuggito a un tentativo di assassinio in marzo.
La presunta malattia di Putin, 69 anni, tiene banco da mesi soprattutto sui social.
Si inseguono voci, indiscrezioni: «Ha il cancro»; «no, ha il Parkinson». Alcune rivelazioni si sono spinte fino al surreale. Giusto per citarne una: il Cremlino avrebbe un piano per sostituire Putin con un sosia in alcuni eventi pubblici.
Tuttavia i servizi segreti Usa stanno monitorando ormai da mesi le apparizioni di Putin, cercando di individuare i sintomi di una possibile patologia: il tremolio di una mano o di un piede, il gonfiore sospetto del viso.
L’agente della Dni, interpellato da Newsweek , osserva: «Quello che sappiamo è che questo è un iceberg, sebbene sia avvolto nella nebbia». È la stessa sensazione che il consigliere per la Sicurezza, Jake Sullivan, ha condiviso più volte con i reporter: l’intelligence americana ha una «visibilità limitata» su ciò che accade a Mosca. Anche il direttore della Cia, William Burns, ha avvertito il Congresso, in un paio di audizioni: attenzione perché abbiamo poche informazioni sugli equilibri all’interno della «nomenklatura» russa.
Putin si è isolato ancora di piu; ha ridotto drasticamente gli incontri con i capi di Stato stranieri. Di conseguenza anche il lavoro degli 007 americani è diventato più complesso. Inoltre l’esperienza, avverte questa volta, l’ex ufficiale dell’Air Force, consiglia prudenza: «Dobbiamo ricordarci delle lezioni del passato. I servizi segreti erano sicuri che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa e che Osama bin Laden fosse stato colpito da una grave disfunzione renale. Due errori di valutazione».
Ma se Putin fosse davvero gravemente malato, ci sarebbero meno rischi di un conflitto nucleare, perché un leader debole potrebbe avere più problemi a far passare una decisione così devastante.
In ogni caso, è la conclusione del report, il governo americano non dovrebbe fermarsi ad aspettare «la morte di Putin» e dovrebbe anche preoccuparsi di che cosa potrebbe accadere in caso di un pericoloso vuoto di potere al vertice della Russia.
Tutte queste speculazioni, probabilmente, stanno diventando un problema politico per Mosca. Tanto che lunedì scorso, quindi già prima della rivelazione di Newsweek, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov aveva dichiarato a una tv francese: «Una persona sana di mente non riuscirebbe a individuare i segni di una malattia nei comportamenti di Putin».
Domenico Quirico per “La Stampa” il 4 giugno 2022.
Dunque, Putin è malato, malatissimo. Anzi moribondo. I servizi segreti del Regno Unito, che sono sempre un po' più ottimisti della Cia americana e incalzano gli spioni di oltreoceano, garantiscono addirittura che è già morto. Ma come? E allora?
Semplice! Al Cremlino boiari astutissimi e affaccendati stanno regolando in santa pace i conti della successione, si esemplifica.
Tanto per non far intuire nulla al Nemico di come si chiamerà il suo prossimo guaio i perfidi diadochi applicano lo stratagemma pirandelliano di altre accorte pattuglie di despoti, da Saddam Hussein a Gheddafi, sempre alle prese con il rischio pugnali e veleno: il sosia che incontra reduci e bimbetti, da ordini a generali e gerarchi, insomma fa la sua parte incarnando con efficace perizia la parte del cattivo da outretombe che continua a demolire a cannonate la sventurata Ucraina.
Giunge, con le rivelazioni "fatte filtrare" dai servizi americani, a compimento un lungo percorso di retroscena avviato con metodi più artigianali e paesani da siti, sottositi, ciarloni online, contastorie in rete e non, diventate una sorta di storia parallela della guerra nell'Europa centrale.
Già novantanove giorni fa la notizia ti agguantava, certa scontata ultrasicura risolutiva, ogni mattina. Chi non è stato vessato da amici, conoscenti e consanguinei con una affermazione perentoria e intrisa di non troppo segreta soddisfazione: «Hai visto? Putin ha il cancro!»?
Insomma: inutile perder tempo a considerare le traiettorie presenti prossime e future di questo bozzolo di terza guerra mondiale a due ore da Trieste. Ha già risolto tutto l'Onnipotente, da par suo.
Se tentavi di avanzare qualche timido dubbio («...l'ho visto ieri in tv, Putin, parlava a notabili... camminava tra la folla... e non mi pareva quasi defunto»), per debellare i ridicoli dubbi dell'apostata ti azzannavano con i dettagli della diagnosi: «È gonfio... gli trema la gamba... si appoggia con la mano al tavolo... ha l'occhio fisso... è quasi cieco (la punizione di Tiresia ma senza il dono della preveggenza)...tiene una coperta sulle gambe durante la parata militare, la veterana centenaria accanto a lui è in maglietta... come lo spieghi...? Lo hanno operato ieri... è sparito da una settimana... vive in ospedale... l'amante è già scappata in Svizzera, che vuoi di più?».
Insomma una saga, una serie televisiva con l'ultima puntata già scritta obituariamente. Per frenare questa frivolezza un po' empia si prova a chiedere le date dell'immancabile decesso.
«Manca poco» rispondono gli approssimativi. «Tre anni» i realisti che hanno probabilmente letto le cartelle cliniche compilate da medici più o meni illustri a cui è stato chiesto di procedere a una visita televisiva, diciamo così, dello zar.
La malattia mediatico televisiva di Putin, ora sanzionata dalla verità "inconfutabile" dei servizi segreti occidentali, è rivelatrice delle pieghe della drammatica vicenda ucraina, svela molte cose dell'occidente e in fondo anche degli imbarazzi della politica nei confronti del grave problema russo.
I racconti popolari, e questo è la storia della malattia di Putin, non sono altro che storia magica. Come Mackie Messer e Mefisto, il nemico di Tex Willer, popolano i sogni della nostra fantasia dei fumi della polvere e di sanguinose vendette, di terrori infantili e di implacabili contrappassi.
Essi mettono di fronte la società alla verità di un fatto, la guerra ad esempio, la paura del conflitto atomico, la minaccia di una anarchia violenta che travolga il nostro presente tranquillo e ordinato. Nasce un verità che tutto risolve, e Oplà! Esclamiamo: tutto torna a posto. Il cattivo è spazzato via, i buoni cioè noi trionfano.
La morale della favola popolare è: non temete, il tiranno aggressore porta dentro di se la punizione che lo rode, sa di dover pagare. I guai che ci impone sono gli ultimi sussulti di un cadavere già vinto. Dissimula ciò che svela con la sua esagerazione , con la violenza dei colori, con la sua drammatica teatralità, con una sorta di magia da fiera: la nostra paura e la nostra impotenza.
In fondo da cento giorni le potenze dell'occidente non riescono a frenare l'aggressione del tiranno. Bombe in leasing e sanzioni planetarie, espulsioni dal salotto buono dei Grandi e anatemi filosofici. Niente. Lui distrugge, annette, avanza, affama mezzo pianeta, semina zizzania. Sembra inattaccabile.
Viviamo nella parte del mondo che considera il pensiero scientifico come il fulcro della propria civiltà universale. E la medicina ne è uno dei capisaldi. Abbiamo appena sconfitto la pandemia con i vaccini, annichilendo le bugie dei praticanti gli amuleti e la antiscienza. Tutto regolato dunque?
Appena si verifica un grande problema come la guerra ecco che ci rivolgiamo, per rassicurarci in qualche modo che tutto finirà bene, alla più antiscientifica, primitiva e magica delle concezioni, che la malattia sia non un problema di cellule malate ma una punizione divina, la manifestazione somatica della Colpa.
Nel pensiero primitivo la malattia non ha mai cause organiche, ma magiche, è conseguenza della maledizione che qualche nemico ti ha scagliato addosso o la punizione per un atto colpevole verso la natura o gli Spiriti sempre suscettibili. Per questo i capi di Stato africani, anche quelli che praticano formalmente la fede delle sette riformate, tengono sempre tra i collaboratori più ascoltati un feticheur, un esperto di malocchio. Non si sa mai. In fondo anche noi crediamo più ai morti che ai vivi.
Le mosse di Putin sembrano indecifrabili? Tutta colpa della malattia che lo ha reso paranoico, folle, vaga senza bussola verso il redde rationem. Punire Putin l'aggressore risulta politicamente e militarmente impervio? Ecco allora che affidiamo la faccenda al più implacabile dei giustizieri, non si sfugge alla grande livellatrice. E speriamo per il malvagio non la morte improvvisa, repentina quasi senza dolore e rimorso: no, la morte lenta, dolorosa che gioca con te e ti lascia tempo di espiare giorno dopo giorno le tue colpe. È tempo di Shakespeare al Cremlino.
“La smentita del mio scoop? Ridicola. Ecco cosa so davvero su Putin”. Martina Piumatti su Il Giornale il 4 giugno 2022.
Malato terminale, sfuggito a un attentato del suo cerchio magico, paranoico e isolato da tutti. Secondo fonti di primo livello dell’intelligence americana, Vladimir Putin avrebbe le ore contate. Verità o ennesima fake news buona per media e propaganda? “Quello che conta - ci dice William M. Arkin, il giornalista di Newsweek autore dello scoop su Putin - è che la guerra in Ucraina abbia avuto un impatto sull'élite al comando. I diplomatici e gli oligarchi hanno cominciato a parlare e i russi sembrano più aperti a negoziare e persino a un incontro tra Putin e Zelensky". E anche a Washington stanno attenti a "non provocare Mosca". Un cambio di rotta importante. "Ora dipende da Putin, da cosa vuole lui, da cosa vuole per la Russia”.
Come fa ad essere sicuro che le sue fonti dicano la verità?
“Mi fido delle mie fonti. In tre mesi di guerra le loro informazioni si sono sempre dimostrate attendibili. Poi, preferisco attenermi ai fatti piuttosto che credere alla posizione ufficiale degli Stati Uniti o della Russia. Putin è palesemente meno in salute di prima: isolato, paranoico riguardo al contatto con gli altri, rigido e gonfio. Dalla rivelazione dei massacri di Bucha fino a dopo la parata del "Giorno della Vittoria" del 9 maggio (circa un mese), Putin è scomparso dalla scena pubblica. Ed è stato il momento in cui i negoziati e i contatti con i leader stranieri si sono interrotti”.
Quindi Putin sta morendo?
“I rapporti dei servizi segreti possono solo dire ciò che sanno in base a diversi livelli di attendibilità: forse questo, forse quello. E poi c'è ciò che sa solo l'intelligence di primissimo piano: approfondimenti sulla salute di Putin e sullo stato della sua leadership, provenienti da fonti così sensibili che le informazioni filtrate arrivano solo al presidente Biden e ai suoi massimi consiglieri. Ci sono dei veri e propri analisti che seguono da vicino Putin, la sua salute e la sua psicologia. E le mie fonti hanno letto molti dei loro rapporti”.
Il National Security Council però ha smentito le sue fonti?
“Mi è già capitato che la Casa Bianca e la comunità dell'intelligence smentissero le mie inchieste. In questo caso stanno dicendo che le valutazioni che ho pubblicato non sono state redatte e che non sono state consegnate al presidente Biden notizie sulla salute di Putin. Quando, invece, ci sono analisti con il solo compito di monitorare lo zar. Entrambe le smentite sono ridicole. Ma le prendo come se dicessero che ho riferito che il rapporto su Putin ha 72 pagine e invece ne ha 71. In pratica, la loro non è una dichiarazione in merito alla sostanza del rapporto”.
E se l’attentato e la malattia di Putin fossero fake news diffuse dai servizi segreti russi per fuorviarci, come con Saddam o Bin Laden?
“Oggi se qualcuno rivela qualcosa di scomodo viene considerato automaticamente una fake news. Ma allora dovrebbe valere anche per i governi, che giocano alle fughe di notizie controllate quando qualcosa gli va bene e alle smentite ufficiali quando non gli va bene. I media possono anche svolgere un ruolo nella creazione o nell'amplificazione di determinati aspetti, ma la realtà è che nessuno ha la prospettiva perfetta sulla verità. Sono in contatto con le mie fonti da anni, francamente mi fido più di loro che dei portavoce ufficiali. E preferisco i fatti: o Putin è malato o non lo è. Si è verificato un tentativo di ucciderlo o non è successo”.
Ma il tentativo è fallito. Perché e chi è stato?
“Non so molto di più di quello che ho riferito, che conferma quanto affermato dall’intelligence ucraina sul tentato omicidio di Putin. Questo è sicuramente intrigante. Ma il punto centrale della storia è che c'è una lotta per il potere, che la guerra in Ucraina ha avuto un impatto tale sull'élite di comando a Mosca che i diplomatici e gli oligarchi russi stanno cominciando a parlare. Questi sono i fatti”.
Allora la leadership dello zar ha le ore contate?
“Quello che conta non è l’uscita di scena di Putin, ma se gli Stati Uniti (e la Nato) sono pronti a questa possibilità. L’intelligence non è sempre perfetta o affidabile. E sappiamo dalla nostra esperienza con Saddam Hussein che l’aspirazione di essere accolti come liberatori può spesso portare a decisioni avventate. Siamo già in un disastro. E qualsiasi cosa accadrà a Vladimir Putin ne provocherebbe un altro. Non sono certo che la fine di Putin avrebbe un impatto positivo. Per dirlo, prima serve sapere di più sull’élite al potere al Cremlino, sulla posizione dei vertici dell’esercito russo, sul reale impatto delle sanzioni e sulle prossime mosse di Mosca”.
Due importanti media americani hanno rivelato di un ruolo dell’intelligence usa nell’affondamento della Moskva e nell’uccisione di alcuni generali russi. È vero? Qual è il rapporto tra gli 007 americani e i servizi segreti di Kiev?
“Gli Stati Uniti (e la Nato) stanno aiutando l'Ucraina con informazioni di intelligence, ma non dovremmo essere così supponenti da pensare di sapere qualcosa che Kiev non sa. Combattono la Russia dal 2014, sono vicini, è il loro territorio e sono pur sempre ex membri dell'Unione Sovietica. La storia della Moskva è molto simile a quella sulla salute di Putin: Washington ha negato di aver passato a Kiev "dati specifici" per individuare l’obiettivo, ma non significa che non fornisca dati all'Ucraina. C’è però un elemento chiave che è molto diverso dalla notizie su Putin: l'intelligence statunitense ha qualcosa da guadagnare dal diffondere la narrativa che la ‘povera Ucraina’ ha affondato la nave russa solo con l'aiuto del ‘fratello maggiore’. Questo perché, quando la guerra sarà finita, verranno valutate le prestazioni delle varie agenzie di intelligence operative in Ucraina”.
Questo spiega anche l’interesse dei servizi per tutte le informazioni diffuse sullo stato di Putin.
“Esatto. Se lo zar morisse e l'intelligence statunitense non lo avesse previsto sarebbe un disastro (per gli agenti segreti che hanno toppato). Mentre se i media e i propagandisti fossero i soli responsabili della diffusione della notizia di una morte imminente di Putin, l'intelligence statunitense avrebbe comunque dovuto riferirlo a Biden. Ad ogni modo, non possono sbagliarsi”.
Se il suo scoop fosse vero quali sarebbero le conseguenze sull'evoluzione della guerra?
“I fatti sul campo ci dicono che la Russia è una tigre di carta. Brutale e distruttiva, ma fragile. Ora le truppe sono esauste, l’avanzata a terra va a rilento e, per la prima volta, penso che l'Ucraina sia in grado di vincere: un risultato che però potrebbe innescare un'escalation russa. La notizia sui missili a lungo raggio inviati in Ucraina e le rassicurazioni di Biden che non verranno usati da Kiev per colpire Mosca, rivelano che in questo momento l'obiettivo di Washington è non provocare Putin. Anche i russi sembrano più aperti a negoziare e persino a un incontro tra Putin e Zelensky. È un elemento nuovo. Ora dipende da Putin, da cosa vuole lui, da cosa vuole per la Russia. Dal suo essere malato, sfidato o morire a una possibile svolta: tutto ruota intorno allo zar. Questa è la guerra di Putin”.
Putin è malato? «Si cura con sangue di cervo, è sempre seguito da neurochirurghi». Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.
Mentre si rincorrono voci («È stato operato») smentite dagli incontro di oggi, la versione ufficiale del Cremlino resta sempre la stessa: il presidente della Russia è in piena forma. Ma i canali di giornalismo investigativo puntano l’attenzione su una serie di particolari che smentiscono questa versione.
Più che informazioni vere anche se riservatissime, le voci sulla salute di Vladimir Putin vengono descritte in Russia sempre di più come «speranze» dei suoi nemici.
E infatti la versione ufficiale è che tutte le dicerie sono assolutamente false e che il numero uno è in forma come sempre.
Viene liquidata così anche l’ultima voce, quella di una imminente operazione per curare un cancro, per la quale sarebbero pronti da giorni medici, infermieri e una sala operatoria in località segreta da utilizzare con brevissimo preavviso.
Canali Telegram riportano anche vari particolari, affermando che l’intervento, estremamente delicato, potrebbe essere effettuato da un giorno all’altro e nel cuore della notte, per destare meno sospetti possibili.
A sostegno della tesi sul cancro o su una leucemia galoppante, sono anche le rilevazioni fatte da giornalisti investigativi i quali hanno confrontato gli spostamenti del leader russo e quelli di noti sanitari russi.
In decine di casi sarebbe dimostrata la presenza di ematologi e di neurochirurghi nelle stesse località nelle quali si trovava Putin.
Infine, recentemente, un periodico americano ha detto di aver ricevuto la registrazione di una conversazione tra un oligarca russo e alcune controparti occidentali durante la quale l’oligarca avrebbe sostenuto che il presidente è gravemente malato.
A tutto questo si aggiungono le osservazioni di esperti che rilevano le presunte rigidità dei movimenti di Vladimir Vladimirovich, il suo aumento di peso e il gonfiore del volto, tutti segni compatibili con le malattie attribuitegli.
Ma spesso segnali in una direzione vengono poi smentiti da segnali contrari.
Il 9 maggio, ad esempio, Putin era l’unico degli alti papaveri seduti nella tribuna centrale durante la sfilata ad avere sulle gambe una copertina, nonostante a Mosca la temperatura fosse solo di nove gradi. Segno di infermità? Poco dopo però, il leader è sceso dalla tribuna e si è unito ad altri discendenti di soldati che parteciparono alla Seconda guerra mondiale per sfilare con il cosiddetto Reggimento degli immortali, tenendo in mano una foto di suo padre, nelle truppe speciali dell’NKVD.
Per quanto riguarda l’eventuale intervento chirurgico, certamente Putin non è stato operato in queste ore, come invece sostenuto da alcune fonti. Oggi, infatti, ha partecipato alla riunione dell’Organizzazione per la sicurezza collettiva della quale fanno parte i leader di paesi amici, dalla Bielorussia dell’immancabile Aleksandr Lukashenko, all’Armenia e al Kirgizistan.
Un sosia non potrebbe essere utilizzato in queste circostanze, con la presenza di numerosi leader di altri paesi che certamente non manterrebbero il segreto. Ma il cancro non è l’unica malattia attribuita al capo del Cremlino in questi tempi. Il suo modo di camminare muovendo avanti e indietro le braccia («alla cowboy», è stato detto) sarebbe dovuto ad altre affezioni, come il morbo di Parkinson o quello di Asperger; «Un disturbo autistico che influisce su tutte le sue decisioni», è stato scritto.
Una conferma del Parkinson è stata vista dai sostenitori di questa teoria in occasione del recente incontro con il ministro della Difesa Shoigu, durante il quale Putin si aggrappava al tavolo con la mano destra. Ma negli anni ogni sua assenza è stata imputata a gravi malattie: già nel 2015 e prima ancora nel 2012. In quel caso il portavoce Peskov affermò che le voci sulla salute del presidente erano «decisamente esagerate».
È quasi certo che Putin abbia subito un trauma alla schiena a seguito di una caduta da cavallo e che poi la cosa sia peggiorata con un infortunio sul campo da hockey. A un certo punto avrebbe subìto un intervento alla colonna vertebrale.
Sulla sua salute Putin ha sempre voluto tenere il massimo riserbo. Attraverso dichiarazioni del suo medico curante Mironov che risalgono a dieci anni fa, sappiamo che è un appassionato delle cure alternative, «metodi naturopatici».
Fonti riprese da media russi sostengono che ricorrerebbe spesso a impacchi di sangue di cervo che, secondo pseudo-esperti consultati, avrebbero «effetti miracolosi».
Da tgcom24.mediaset.it il 14 maggio 2022.
Il presidente russo Vladimir Putin è "gravemente malato di cancro". Lo ha sostenuto il capo degli 007 ucraini, il generale maggiore Kyrylo Budanov, in un'intervista a Sky News, senza però fornire alcun dettaglio o prova delle sue affermazioni. "In Russia - ha aggiunto Budanov - è già in corso un golpe per rimuovere Putin".
"Il golpe a Mosca è in corso e nessuno può fermarlo" - Il giovane generale Kyrylo Budanov, 36 anni, è uno dei funzionari più vicini a Zelensky e tra i gestori della tattica militare dell'esercito ucraino. All'emittente Sky News ha concesso un'intervista nella quale parla dell'attuale situazione sul campo di battaglia ma anche di quello che sta succedendo al Cremlino ed è molto fiducioso.
"E' in corso un colpo di Stato che non si può più fermare, Putin è in condizioni psicologiche e fisiche pessime, è molto malato". Budanov parla apertamenti di cancro e altre malattie per il leader russo e preconizza come la sconfitta di Mosca in Ucraina sarà la miccia che porterà alla rimozione di Putin e alla disintegrazione della Russia. Si tratta di un'azione di propaganda da parte di Kiev? Budanov si difende dietro una semplice risposta: "Sono il capo dell'intelligence, se non le so io queste cose chi dovrebbe saperlo?".
Dagonews il 23 maggio 2022.
Secondo il Daily Mail, le apparizioni pubbliche di Vladimir Putin della scorsa settimana, come anticipato venerdì da Dagospia, sono state «messe in scena». Video, messaggi preregistrati, e l’utilizzo della tecnologia Deepfake hanno aiutato i funzionari a nascondere l’assenza del presidente, sollevando nuove speculazioni sulla sua salute, secondo una fonte dell’opposizione.
Un vecchio filmato, dice il Daily Mail, è stato utilizzato in apparizioni video per diversi incontri. Il quotidiano inglese (come anche aveva scritto questo sito) sostiene che Nikolai Patrushev, l’ex capo dell’Fsb, ha ora il controllo del Cremlino ed è il destinatario di briefing di alto livello che normalmente sarebbero stati sottoposti a Putin.
Nel suo penultimo post, il canale - che rivendica informazioni privilegiate sul Cremlino - ha affermato che le figure chiave ritengono che Putin sia malato terminale, il che ha alterato la dinamica in Russia. La sua assenza «da martedì» non può essere verificata, ma il canale ha affermato che il suo staff «mostra video preregistrati dei suoi incontri».
Si dice che gli incontri faccia a faccia con il capo della Rostech Sergei Chemezov e il capo della Rosatom Alexey Likhachev si siano svolti mercoledì e giovedì, ma si dice anche che questi si siano svolti prima e siano stati salvati per dare l'impressione che Putin fosse attivo.
Ma c’è di più. Secondo l’ultimo post del canale “General SVR” di questa mattina, tutta questa messa in scena è servita proprio a coprire l’operazione di Vladimir Putin. Scrive il media, che per primo ha parlato della necessità del presidente di sottoporsi a un intervento chirurgico, che Mad Vlad è stato operato nella notte «tra lunedì 16 maggio e martedì 17 maggio. Secondo i medici coinvolti nel trattamento del presidente, l’operazione ha avuto successo».
Come anticipato dal canale, «Putin è stato personalmente assente dallo spazio informativo dal 17 al 19 maggio e non era disponibile nemmeno alla sua cerchia ristretta, ad eccezione di Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione russa».
Per coprire l’assenza del presidente, scrive, il canale, è stato pubblicato quello che chiamano “cibo in scatola”, ovvero «incontri e messaggi preregistrati», anche se Putin «ha tenuto personalmente due conversazioni telefoniche durante questo periodo».
«Il 20 maggio si è svolta secondo lo schema la riunione del Consiglio di sicurezza in videoconferenza, dove il discorso del presidente è stato registrato in anticipo e la partecipazione di Putin in formato video è stata supportata utilizzando la tecnologia Deepfake, come avvenuto la settimana prima».
«In realtà, il 20 maggio Putin era ancora troppo debole per partecipare a lunghe riunioni e aveva due brevi videochiamate. La sera del 20 maggio, la salute di Putin è peggiorata e si è stabilizzata solo la mattina di sabato 21 maggio. I medici curanti raccomandano che Putin si riposi nei prossimi giorni e gli consigliano vivamente di rifiutare la partecipazione personale alle riunioni».
Il canale chiude con una piccola parentesi su Alexander Lukashenko, «una delle poche persone che, sebbene senza molti dettagli, conosce il reale stato delle cose con la salute di Putin». Sarebbe stato chiamato «a fornire un altro servizio. Lukashenko ha già "aiutato" Putin in questo modo quando, durante i periodi di deterioramento dello stato di salute del presidente russo, hanno tenuto riunioni e "molte ore di trattative", che avrebbero dovuto indicare l'ottimo stato di salute di Putin e sfatare le informazioni sulle sue malattie».
«Quindi ora Lukashenka è stato trascinato a testimoniare al mondo intero che "il paziente è più vivo che morto" e», pur di ottenere «un nuovo "prestito" per il suo regime, l'Alce delle patate confermerà qualsiasi cosa. È possibile che Lukashenka possa persino giurare sulla tomba del proprio padre, che il mezzo cadavere Putin è completamente sano e ha conversazioni divertenti con lui mentre va in kayak lungo il più famoso "Bocharov Stream"».
Da ilmessaggero.it il 23 maggio 2022.
Stone ritratta, dichiarando apertamente che la Russia ha sbagliato, sta sbagliando e continuerà a sbagliare se non smetterà immediatamente questa invasione. Ecco le sue nuove parole: «Sebbene gli Stati Uniti abbiano molte guerre di aggressione sulla coscienza, non giustificano l'aggressione di Putin in Ucraina. Una dozzina di torti non fanno una ragione. La Russia ha sbagliato a invadere».
Stone si era infatti recato in Russia a intervistare lo zar per un documentario dal titolo The Putin Interviews. Il lungometraggio di genere documentaristico è andato in onda su Showtime nel 2017.
«Putin ha già avuto il cancro». Con queste parole Oliver Stone si inserisce nella lunghissima scia di speculazioni sulla salute del presidente russo che si sono intensificate da quando la Russia ha invaso l'Ucraina. Il regista premio Oscar, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense, ha però avuto un accesso assolutamente privilegiato alla vita privata del Capo del Cremlino. Stone si era infatti recato in Russia a intervistare lo zar per un documentario dal titolo The Putin Interviews. Il lungometraggio di genere documentaristico è andato in onda su Showtime nel 2017.
In un'intervista su Lex Fridman Podcast rilasciata all'inizio di questa settimana, Stone ha detto: «Putin ha avuto già il cancro e penso che sia guarito. Ma è stato anche isolato a causa del Covid». I commenti di Stone arrivano dopo che il magazine New Lines ha riferito all'inizio di questo mese che un oligarca russo, di cui non ha fatto il nome, era stato registrato mentre diceva che lo zar era «molto malato di tumore al sangue».
New Lines aveva citato l'investigatore di Bellingcat Christo Grozev, il quale aveva affermato che agli ufficiali del Servizio di sicurezza federale (FSB), la principale agenzia di sicurezza russa, era stato inviato un promemoria per dissipare le voci sulla salute del presidente. Durante una delle interviste per il documentario rilasciate al premio Oscar, Putin aveva confessato anche di essere nonno, un rararissimo commento pubblico sulla sua vita personale. Alla domanda sulle ragioni che hanno spinto lo zar ad invadere l'Ucraina, Stone ha detto al podcast: «Forse ha perso il contatto con la realtà, ma anche è soprattutto con le persone».
Tutt’ora il regista, veterano della guerra in Vietnam, incolpa per questo conflitto anche il proprio Paese, gli Stati Uniti. In una dichiarazione di febbraio aveva criticato aspramente la copertura mediatica che lui definitì “assetata di sangue”, affermando: «Non hanno prove che la Russia intenda invadere l'Ucraina; dubito che lo farebbero. Penso che la Russia si occupi solo della regione del Donbass».
Oggi, tuttavia, Stone ritratta, dichiarando apertamente che la Russia ha sbagliato, sta sbagliando e continuerà a sbagliare se non smetterà immediatamente questa invasione. Ecco le sue nuove parole: «Sebbene gli Stati Uniti abbiano molte guerre di aggressione sulla coscienza, non giustificano l'aggressione di Putin in Ucraina. Una dozzina di torti non fanno una ragione. La Russia ha sbagliato a invadere».
Da leggo.it il 23 maggio 2022.
Ha 88 anni. Si chiama Vera Dmitriyevna Gurevich. E' un ex insegnante russa. Un nome qualunque, un mestiere come tanti. Ma potrebbe essere lei la figura chiave per dare al mondo una speranza che la guerra in Ucraina finisca? Forse, dicono gli esperti. Perché Vera non è un'insegnante qualunque. E' stata la maestra di Vladimir Putin. Anzi, più di una maestra. Quasi una mamma acquisita, nella difficile infanzia dello Zar. Una "mamma" che Putin ha dato più volte negli anni dimostrazione di ascoltare. E che quindi potrebbe convincerlo a desistere?
Vera Dmitriyevna Gurevich ha avuto un'intensa relazione con il presidente russo durante i suoi anni a scuola, scrivono diversi media internazionali. È stata una figura materna per il giovane Putin alle prese con i traumi psicologici infantili. Lo ha guidato, come maestra-madre di allievo-figlio, lontano dalla povertà e verso l'istruzione e il successo.
I due fratelli maggiori di Putin morirono da ragazzini mentre la loro città natale Leningrado (l'odierna San Pietroburgo) era devastata dalla guerra. Negli stessi anni la madre di Putin, Mariya Ivanovna, quasi morì di fame. Svenuta per gli stenti, fu messa tra i cumuli di cadaveri lungo le strade dove rimase fino al suo risveglio, quando si trovò circondata dai corpi di uomini, donne e bambini morti. Ai tempi dell'infanzia del futuro presidente i suoi genitori vivevano in un freddo appartamento in un edificio infestato da parassiti.
Nel suo libro di memorie su Putin, Gurevich racconta come un gruppo di bambini-teppisti abbiano avuto una «cattiva influenza» sul giovane Vlad. La maestra ha rivelato che a scuola, il futuro Zar era «molto sveglio, irrequieto, con un'energia traboccante. Non riusciva a stare fermo». Ed era sempre pronto a fare a botte, se necessario.
Nel settembre 1964, la donna fece visita all'edificio dove Putin, allora 11enne viveva. Si rese conto che il ragazzino viveva abbandonato a se stesso, tutto il giorno senza la supervisione dei genitori. La maestra lo spronò: «Basta fare il vagabondo, datti da fare con la scuola». Putin rispose che avrebbe "potuto fare tutti i suoi compiti entro un'ora» se avesse voluto. Lì fu la svolta.
I genitori "putativi"
Gurevich, insieme all'istruttore di judo e mentore di Putin, Anatoliy Rakhlin, diventarono le due figure genitoriali di cui il ragazzino aveva bisogno. E diventato "grande" non avrebbe mai dimenticato quello che i due fecero per lui.
Putin, oggi 69enne, sembra deciso ad andare avanti a tutti i costi con i suoi propositi in Ucraina. Alcuni amici stanno implorando la sua presunta amante Alina Kabaeva di convincerlo a porre fine al conflitto, ma senza risultati. La sua ex insegnante e guida potrebbe essere la risposta che il mondo sta cercando?
Putin, sulla cui salute circolano voci sempre più preoccupanti, ha ammesso di sentire ancora la signora Gurevich per chiederle come se la passi. I due sono stati fotografati insieme nel corso degli anni, sempre in atteggiamento familiare, spesso salutandosi in uno stretto abbraccio. La forza del loro legame è innegabile, ma quanta influenza ha davvero la donna sul presidente?
L'ex spia del Kgb Karpichkov accusa Vladimir Putin: “Pazzo, ossessionato e paranoico”. Il retroscena sui traditori. Luca De Lellis su Il Tempo il 03 maggio 2022.
Boris Karpichkov, ex membro del KGB (il Comitato per la Sicurezza dello Stato russo), ha definito Vladimir Putin come un “pazzo” che è “ossessionato dalle sue idee paranoiche”. L’ex spia russa, nella sua forte intervista rilasciata al quotidiano The Sun, ha lasciato intendere che il leader del Cremlino non gode di uno stato di salute eccellente. Ma la malattia, secondo lui, verrebbe nascosta anche agli uomini più vicini allo Zar per non compromettere la sua potenza all’interno della dirigenza russa. Rincarando la dose, Karpichkov ha svelato altri retroscena: “Vede letteralmente tutti, compresi quelli all'interno dei servizi di sicurezza russi e anche all'interno della sua stretta cerchia ristretta, come traditori. È così sospettoso e così ossessionato dalle sue idee paranoiche che ora può essere paragonato a Stalin”.
Putin, ad eccezione di alcune smentite che giungono dal Cremlino, sembra essere malato. Qualcuno parla di un tumore all’addome, altri invece di Parkinson. Per il sessantaduenne russo Karpichkov si tratta con maggiori possibilità dei “primi segnali di demenza”. Sono tutte ipotesi finché non saranno pubblicati comunicati ufficiali, ma anche nel video che lo ritrae di fronte al ministro della Difesa Sergej Shoigu non è apparso in condizioni ottimali. Sembrava stare in piedi a stento, con le mani tremolanti e la voce spenta.Nulla è certo, ma il suo stato mentale descritto da più persone come “confusionale” e “paranoico” potrebbe essere dovuto proprio a qualche acciacco fisico. La guerra, poi, è estenuante per tutti. Forse anche per uno come Putin.
Dagotraduzione dal Sun il 3 maggio 2022.
Secondo un ex agente del Kgb, Vladimir Putin potrebbe soffrire del morbo di Parkinson o di demenza allo stadio iniziale. La salute del tiranno russo è stata a lungo fonte di speculazioni, e i servizi segreti occidentali hanno suggerito che abbia seri problemi di salute.
Anche se l'addetto stampa di Putin, Dmitry Peskov, ha insistito sul fatto che la sua salute è «eccellente», le sue recenti apparizioni pubbliche hanno suscitato voci sul suo stato fisico. Ma secondo l'ex spia russa Boris Karpichkov, 62 anni, neanche i membri della cerchia ristretta di Putin sono stati informati del suo stato di salute per proteggere la sua immagine di "uomo forte".
Il disertore russo, che ora vive nel Regno Unito, ha detto che il paranoico Putin vede tutti come «traditori» - e la sua salute è una «questione particolarmente delicata».
Karpichkov ha detto a The Sun Online: «È - o almeno agisce – pazzo e ossessionato da idee paranoiche. Vede tutti, compresi gli uomini all'interno dei servizi di sicurezza russi e anche all'interno della sua stretta cerchia ristretta, come “traditori”. È così sospettoso e così ossessionato dalle sue idee paranoiche che ora può essere paragonato al tiranno di Stalin».
Karpichkov ha affermato che è probabile che Mad Vlad soffra di "numerose" condizioni di salute, come le prime fasi della demenza e del Parkinson. «Non sono un medico... ma c'è una seria preoccupazione che Putin soffra di numerose condizioni di salute fisica, forse a causa degli infortuni sportivi durante la sua giovinezza. Questo si somma ad alcuni problemi che colpiscono le persone anziane, come la demenza nelle prime fasi». «Ma nella sua cerchia ristretta è famoso per essere una persona che “non dimentica nulla” e che ricorda i dettagli di molte persone che ha incontrato».
«A giudicare da come si muove potrebbe essere a uno stadio iniziale di Parkinson o di un altro grave disturbo causato da qualche forma di cancro, un tumore al cervello, per esempio». I funzionari del Cremlino hanno sempre negato che ci sia qualcosa di sbagliato nel loro leader, che compirà 70 anni ad ottobre.
Ma nel suo ultimo discorso Putin è apparso confuso e ansimante. Il presidente sembrava faticare a riprendere fiato e si è fermato più volte durante il discorso ai politici, inciampando nelle sue parole e apparendo esausto.
E la scorsa settimana, durante i colloqui con il suo ministro della Difesa Sergey Shoigu, l'anziano tiranno è stato filmato mentre si aggrappava al tavolo e si incurvava, suscitando ulteriori voci che potrebbe essere affetto dal Parkinson.
Il professor Erik Bucy, esperto di linguaggio del corpo della Texas Tech University, ha dichiarato a The Sun Online dopo aver visto il video: «È un Putin sorprendentemente indebolito rispetto all'uomo che abbiamo osservato anche pochi anni fa. Un presidente abile non avrebbe bisogno di tenersi in piedi con una mano tesa per fare leva e non si preoccuperebbe di tenere entrambi i piedi piantati per terra».
E le mani del leader russo hanno tremato violentemente in un video che lo mostra mentre saluta al Cremlino il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Il filmato mostra un Putin dall'aspetto fragile che tende la mano per salutare Lukashenko prima di ritrarsi e camminare per la stanza. Le sue ginocchia poi si piegano mentre cammina per abbracciare la sua controparte bielorussa.
Vladimir Putin non è cambiato: basta leggere quello che scriveva Anna Politkovskaja vent’anni fa. Bernardo Valli su L'Espresso il 2 Maggio 2022.
Nel libro della coraggiosa giornalista assassinata erano riportate con precisione le denunce della corruzione e delle malefatte in Cecenia. Anticipazioni di ciò che oggi accade in Ucraina.
È stata una decisione giusta e intelligente fare una nuova edizione italiana di “La Russia di Putin” dopo quella del 2005 (sempre edita da Adelphi). Anna Politkovskaja è assassinata appena due anni dopo la pubblicazione del suo libro, in cui lascia intravedere con largo anticipo e con la chiarezza di una grande e coraggiosa cronista quel che il regime di Mosca sarebbe stato capace di compiere.
Giuseppe Sarcina per corriere.it il 13 aprile 2022.
«Putin non è il superman che immaginiamo», si legge nel libro di Fiona Hill, «There is nothing for you here», da qualche settimana al centro del dibattito politico negli Stati Uniti. Hill, 56 anni, è tra le maggiori esperte della Russia putiniana.
È stata consigliera nelle amministrazioni di George W.Bush e di Barack Obama, prima di far parte del Consiglio di sicurezza nazionale con Donald Trump, dal 2017 al 2019. Il suo incarico: direttrice degli affari europei e della Russia.
È una figura nota al grande pubblico anche grazie alla testimonianza nel Congresso nella procedura di impeachment contro Trump, nel novembre del 2019. Joe Biden ha raccontato di aver tratto grande profitto dalla lettura del suo lavoro sul leader russo «Mr. Putin, un “operativo” al Cremlino» (2015).
Nel suo ultimo volume, Fiona Hill descrive anche dettagli inediti sulla personalità dello «zar» di Mosca. Ne ha parlato in alcune interviste televisive, come il «Late night show», condotto da Stephen Colbert. Ecco il suo racconto: «Ho avuto l’opportunità di osservare Putin da vicino diverse volte. Per esempio ricordo di essermi trovata a sedere non lontana da lui in un pranzo ufficiale. Mi ha colpito il fatto che non abbia bevuto niente. Non ha mai toccato la sua tazza che non so se contenesse dell’acqua o del tè».
Secondo l’ex consigliera, Putin sarebbe ossessionato dalla sua sicurezza, forse perché, ha aggiunto, «alcuni dei suoi oppositori sono stati avvelenati sciogliendo il polonio proprio nel tè». Il leader russo, comunque, non «è quel superman che la propaganda ci vuole fare credere». «Sempre in quell’occasione notai come avesse davanti un foglio di carta con appunti stampati in caratteri inusualmente grandi; Putin porta le lenti a contatto, ma non vuole che si sappia, probabilmente perché teme possa trasmettere una sensazione di debolezza all’opinione pubblica».
L’ex agente del Kgb, 69 anni, «vive in una bolla», circondato da un ristretto gruppo di collaboratori «che non sono gli oligarchi». «Questa è gente – conclude Fiona Hill — che non ha investimenti, non ha interessi fuori dalla Russia. Sono profondamente radicati nel loro Paese e tutti molto legati a Putin. Per questo è difficile immaginare dei cambiamenti nel potere a Mosca».
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 19 aprile 2022.
Ma quale yacht più grande del mondo, ma quali residenze da mille e una notte in Svizzera, sul Mar Nero o in qualunque località esotica. Il cittadino Vladimir Putin, ad esempio. Nel 2021 il presidente russo ha guadagnato appena 114 mila euro, dichiarando al fisco la proprietà di un appartamento di 77 metri quadri a Mosca, due auto di produzione locale, una utilitaria Volga e un fuoristrada Niva, più un carrello-rimorchio di quelli che si usano per le vacanze in campeggio.
Il suo primo ministro Mikhail Mishustin se la passa meglio, con un reddito da 18,3 milioni di rubli, qualcosa meno dell'anno precedente, che all'incerto cambio attuale fanno pur sempre 204 mila euro.
Per fortuna può contare su sua moglie Vladlena Mishustina, che pur senza avere alcuna attività imprenditoriale riconosciuta, come denunciò nel 2020 quel cattivone del dissidente Alexej Navalny, ha portato a casa 64,5 milioni di rubli, 721 mila euro, così il bilancio familiare è salvo. Che dire poi dell'ex presidente e premier Dmitry Medvedev, oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza, che guadagna soltanto 8,3 milioni di rubli, equivalenti a 94 mila morigerati euro, uno stipendio che passerebbe anche il vaglio dei 5 Stelle di una volta.
Le dichiarazioni E si potrebbe andare avanti all'infinito. Tutto il mondo è Paese, compresa la Russia. Fare le pulci alle dichiarazioni dei redditi degli uomini politici è un esercizio di stile non solo giornalistico diffuso ovunque. Lo era anche a Mosca, quando si poteva, anche se le inchieste sui guadagni di ministri e uomini di potere hanno sempre riguardato le loro proprietà all'estero. Ma sono mesi che i media di tutto il mondo inseguono le ricchezze delle persone colpite dalle sanzioni decise da Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea. E i primi nomi dei destinatari di questi provvedimenti sono quasi sempre gli stessi, a iniziare dai tre appena citati. Così, il contrasto tra l'entità complessiva delle loro presunte fortune nascoste all'estero e i guadagni dichiarati al fisco del proprio Paese, appare ancora più stridente, almeno a occhi occidentali.
Gli alti funzionari La bassa entità dei guadagni russi di Putin e dei suoi ministri non deve ingannare. I primi 32 alti funzionari del governo russo, quasi tutti deputati di Russia Unita, il partito del presidente, nel 2021 hanno comunque guadagnato oltre 65,7 milioni di rubli a testa, quasi 5,5 milioni di rubli al mese, che fanno 66 mila euro al mese al cambio odierno.
Questo in un Paese che ha uno dei redditi medi più bassi del mondo.
Lo stipendio di un cittadino russo oggi si aggira intorno ai 40 mila rubli mensili, 480 euro. La propensione dei vertici del Cremlino ad accumulare il proprio patrimonio all'estero crea un apparente paradosso. Fare il semplice peone di maggioranza al Parlamento russo sembra molto più conveniente che essere consigliere di Putin. I deputati guadagnano all'incirca 4,3 milioni di rubli, 110 volte lo stipendio medio di un russo, mentre i redditi dichiarati dai funzionari dello staff del Cremlino sono superiori di appena 28 volte.
Mogli e figli A fidarsi delle dichiarazioni ufficiali, il più ricco di tutti risulta essere Vladimir Medinsky, l'ex ministro della Cultura, fedelissimo di Putin nonché capo della delegazione russa ai negoziati con Kiev, che guadagna 107 milioni di rubli, quasi un milione e 290 mila euro, comunque un discreto balzo in avanti rispetto al 2020 quando aveva intascato solo 17,6 milioni di rubli, ovvero 196 mila euro. Ma le apparenze eccome se ingannano. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov dichiara 12,6 milioni di rubli, 141 mila euro, con un aumento di 2,5 milioni rispetto all'anno precedente, che difficilmente colmerà l'esborso del 2016, quando a Polina Kovaleva, figlia ventunenne della sua compagna era stato acquistato in contanti un appartamento da 4,4 milioni di sterline (5,3 milioni di euro) nel quartiere londinese di South Kensington.
Anche Dmitrij Peskov, portavoce di Putin, è sotto il tiro delle sanzioni, anche se in patria si accontenta di uno stipendio da 14,5 milioni di rubli (162 mila euro), molto inferiore ai guadagni di sua moglie, l'ex campionessa olimpica di pattinaggio Tatiana Navka, autentica architrave della famiglia Peskov con i suoi 218,5 milioni, pari a 2,4 milioni di euro. Alla faccia del patriarcato russo.
Raffaela Carretta per “Oggi” il 19 aprile 2022.
Che significano questi tatuaggi? Nicolai Lilin copre il dorso delle mani dove si allungano magnifiche arborescenze nere: «Parlarne sarebbe come mettersi a nudo». A 42 anni, 16 dei quali passati in Italia, il maestro tatuatore che ha scritto romanzi di culto come Educazione siberiana conserva un suo residuo esotico, un alone d'indecifrabile fissità nello sguardo, forse per le troppe cose viste da quando è nato in Transnistria, regione moldava un tempo parte dell'impero sovietico.
Con l'inizio della guerra in Ucraina è stato ripubblicato con una nuova prefazione Putin - L'ultimo zar (Piemme, 218 pagine, 13 euro), documentata biografia dell'uomo che l'ha scatenata: «Un enigma che qui fatichiamo a penetrare. Come una chiave che non s'incastra nella serratura».
Aggiustando la chiave qual è il dettaglio fondamentale?
«Non arriva dalla nomenklatura sovietica, i suoi bisnonni erano servi della gleba. Conosce le periferie del Paese dove vive il 70 per cento della popolazione. È cresciuto nel vicolo Baskov di Leningrado, lì dovevi lottare. Picchiare chi ti aveva offeso perché senno picchiava te».
L'apprendistato di tanti, perché per lui è così utile?
«Perché capisce meglio le regole: la lealtà verso il tuo gruppo, la freddezza, il silenzio di cui ha bisogno il potere. È più basso, non ha il fisico, deve aggiungere uno sforzo mentale, deve deciderlo: perché o è leader o non è nessuno. Infatti già da bambino sogna di entrare nel Kgb».
Che qualità inette in campo?
«Diventa curatore degli agenti esterni: uno che per allargare la rete delle spie recluta persone qualunque. Occorre essere un abile psicologo: devi capirne la struttura mentale, cogliere i punti deboli, rimodulare l'offerta. Putin lavora in Germania Est: coltiva rapporti con i terroristi dell'Ovest in lotta contro il capitalismo. E soprattutto, con la criminalità organizzata, due realtà strettamente connesse».
Che traccia rimane della spia nella sua attività politica?
«Il Putin pubblico esordisce nel 1991 quando l'Urss collassa. Di ritorno da Dresda, vive in una casa di 27 metri quadri, non ha soldi. Anatoly Sobchak, sindaco di San Pietroburgo, lo chiama per curare i rapporti con la nuova élite democratica: ovvero oligarchi e delinquenti.
Lo stesso lavoro nel Kgb. L'oligarca è chi sa il costo delle cose: materie prime e fabbriche, perché viene dalla struttura statale. La criminalità sa come venderle, magari in Occidente. Si spartiscono il Paese e diventano miliardari».
Ma la conquista delle masse?
«Va capita una cosa: l'apocalisse degli anni Novanta. Il sistema che per settant'anni ha dato sicurezza è liquefatto. La classe media è annichilita. Non esiste legalità. Putin è un reshala, si direbbe nel gergo criminale: uno che risolve problemi e riporta almeno l'illusione dell'ordine. Nel 1999 la sua minaccia ai terroristi ceceni fa furore: "Li ammazzeremo anche nel cesso"».
Solo ordine contro disordine?
«No, è uno che risponde di quello che fa. Le cito un episodio. Quando il 12 agosto del 2000 affonda il sottomarino nucleare Kursk e muoiono 107 marinai, lui decide di entrare nella gabbia dei leoni: incontra i familiari, inferociti col governo che non ha fatto abbastanza. Loro sono pronti a strapparne la carne a pezzi. E invece: li fissa negli occhi, uno a uno. Lo sguardo non vaga nell'aria, non si rifugia sul pavimento. Merita l'Oscar, esce tra gli applausi».
Punti deboli?
«I giovani che non hanno vissuto lo sfascio sovietico: non lo capiscono e lui non li capisce. Detesta internet, legge su carta, appartiene al passato».
Che idea si è fatto della sua sfera privata?
«Da scrittore preferisco immaginarla, perché si sa poco: la fIne del matrimonio con Ljudmila e le due figlie protette dal segreto, poi la storia con Mina Kabaeva, ex olimpionica di ginnastica, madre degli ultimi figli, che sta a Lugano. Credo che Putin sia un personaggio da tragedia greca. Una specie di Minotauro. Nel corso del tempo non riuscivano più a coesistergli dentro il pubblico e il privato, la bestia e l'umano. Uno dei due doveva prevalere: il Minotauro ha preso possesso. E ora si aggira nel suo labirinto».
La Russkiy Mir, la guerra in Ucraina e l’origine del putinismo. Federico Giuliani su Inside Over il 28 marzo 2022.
In merito al conflitto che sta scuotendo l’Ucraina, c’è chi sostiene che le mosse di Vladimir Putin possano essere dettate da una forma di irrazionalità derivante da una o più malattie. Questa lettura, che poggia su ben poche fondamenta e, al contrario, su troppe indiscrezioni non confermabili, appare esageratamente superficiale. Per chi intende andare oltre le voci di corridoio e non si accontenta neppure della più semplice lettura interpretativa (ovvero: “i russi hanno attaccato perché si sono sentiti minacciati dalla Nato”) esiste un terzo livello interpretativo, che può tuttavia essere collegato alla dimensione geopolitica.
Stiamo parlando del “Russkiy Mir”, secondo alcuni la vera e propria leva ideologica da collocare alla base del putinismo inteso come dottrina politica orchestrata da Putin in persona. Prima di avventurarci in questo territorio complesso e per certi versi ancora inesplorato – almeno in Occidente – è importante sottolineare come il capo del Cremlino sia letteralmente ossessionato dalla storia e attratto, in particolare, da personaggi del calibro di Konstantin Leontyev, monaco reazionario (eufemismo) risalente al XIX secolo fautore di monarchia e gerarchia.
Il retroterra culturale del putinismo
La Stampa ha ricordato un particolare interessante. Negli ultimi tempi, Putin si sarebbe intrattenuto molteplici volte con l’amico Yuri Kovalchuk, a cui fanno capo la Rossiya Bank, vari media e pure diverse idee degne di nota. Ebbene, il capo del Cremlino e questo insospettabile ideologo avrebbero parlato della missione di ripristinare l’unità tra Russia e Ucraina. Ma qual è l’ideologia propinata da Kovalchuk? Un mix di edonismo, teorie del complotto anti Usa e tanto misticismo cristiano ortodosso, sostengono alcuni giornalisti russi.
Unendo i punti, alcuni hanno subito pensato che Putin potesse non solo condividere ma anche sposare – e, perché no, magari pure mettere in atto – alcune delle idee di Kovalchuk. Le quali riprendono, e per certi versi si collegano a quelle di Aleksander Dugin, uno dei filosofi e politologi russi più chiacchierati di Russia. Sia chiaro: Dugin non è “l’ideologo di Putin” ma rappresenta senza ombra di dubbio uno dei pilastri culturali attorno al quale ruota, talvolta inconsciamente, il putinismo.
Non a caso, leggendo alcune recenti interviste, Dugin ha spiegato che la guerra in corso in Ucraina non è rivolta alla semplice denazificazione del Paese e alla protezione del Donbass, quanto ad una sorta di battaglia contro l’Occidente e il globalismo liberale, considerati alla stregua di Anticristi da cacciare negli inferi.
Il “mondo russo”
Nel luglio 2021, Putin ha pubblicato un articolo di 7.000 parole inerente all'”unità indissolubile di russi e ucraini”, sostenendo che il nazionalismo ucraino fosse frutto dei nemici della Russia. In altre circostanze, il presidente russo ha sostenuto che Lenin commise un errore imperdonabile quando, nel 1922, la Costituzione sovietica istituì una federazione di repubbliche che, di fatto, portò nel 1991 alla divisione dell’Urss in Stati indipendenti. Nel 1833, Sergei Uvarov, ministro dell’Istruzione dello zar Nicola, formulò la trinità imperiale russa – Ortodossia, autocrazia e nazione (pravoslaviye, samoderzhaviye e narodnost) – che ancora oggi trova grande spazio tra i corridoi del Cremlino.
Con Putin, la Russia ha assistito anche al ritorno dell’iconografia zarista – tanto che in uno dei suoi recenti discorsi televisivi, il presidente russo è apparso affiancato da una statua di Caterina la Grande, l’imperatrice russa che ha annesso la Crimea nel 1783 –, alla riabilitazione di filosofi del calibro di Ivan Ilyin e di teorici, appunto, come Aleksander Dugin, entrambi eredi del panslavismo ottocentesco che ha difeso l’unità spirituale dei popoli slavi. Arriviamo così al Russkiy Mir, alla lettera “mondo russo“, un concetto che secondo alcuni muoverebbe Putin e che consisterebbe in una comunità di civiltà e valori che includerebbe la Russia e tutti gli slavi di lingua russa che vivono all’estero. Bielorussi e ucraini compresi.
QUESTIONE D'ACCENTO. Putin, lo zar da Vicenza: una leggenda che non piace più. FRANCESCO GOTTARDI su Il Foglio il 9 marzo 2022.
Transiberiana, sosia presunti, omonimi infastiditi. “Un nostro ceppo emigrò in Russia secoli fa”, assicurano le famiglie venete che portano lo stesso cognome di Vladimir. Perfino Mosca conferma il nesso. Ma la guerra sfigura anche le fantasie
Tutto ebbe inizio più di vent’anni fa, quando il mondo era un altro. Avete presente quel lontano parente con contorni da romanzo? Ecco: Franco da Santorso (provincia di Vicenza) è il personaggio d’esordio. Imprenditore con affari in Russia, la convinzione di vantare un ramo di famiglia finito laggiù. E quel cognome, suggestione perfetta: Putin. Che però nell’entroterra veneto si pronuncia con l’accento sulla i. Vuol dire putèo, bambino. Altro che Vladimir da Leningrado. Franco sosteneva pure di assomigliargli, tanto da venir confuso per il fratello del presidente – accadde alla frontiera serba, pare: lo trattarono con i guanti. E insomma. La leggenda narra che l’ultimo erede degli zar affondi le radici nel vicentino. Mica è mitomania del singolo. “L’hanno rilanciata gli stessi russi, l’ultima volta nel 2016: cercavano indizi, sono venuti qui in ambasciata con una troupe di giornalisti e lanciarono un servizio”, su Ntv, Gazprom-Media. “Tutto molto cordiale, rilassato. Con quelle cinque lettere sul nostro campanello, non poteva essere altrimenti”.
Vladimir Putin e le presunte origini italiane: ecco come stanno realmente le cose. Insomma, per una delle biografie di Putin acquistabili in Italia, il presidente russo almeno fino al Settecento non sembra avere alcuna radice italiana, quindi vicentina. Ma da dove nasce l’ipotesi delle origini venete di Putin? Nelle ultime ore, tra i siti web italiani è sbucata nuovamente una notizia targata dicembre 2005 quando Putin villeggiava in Italia con Silvio Berlusconi. Davide Turrini su Il Fatto Quotidiano il 10 marzo 2022.
Vladimir Putin è davvero originario di Vicenza? Si fa un gran parlare sul web nelle ultime ore delle possibili origini venete del presidente russo. Chiaro, dalle parti del vicentino, visto il clima, saranno tutti pronti a negare chiudendosi frettolosamente l’uscio di casa alle spalle, ma abbiamo provato a capire quanto ci possa essere di vero in questa “notizia” ripresa da molti giornali italiani mentre ancora la guerra tra Russia e Ucraina non accenna a concludersi. Intanto le fonti ufficiali riguardo Putin ne indicano la nascita a San Pietroburgo il 7 ottobre del 1952. “In un piccolo monolocale situato al quinto e ultimo piano di una delle tante case comunali del vicolo Baskov”, scrive il romanziere Nicolai Lilin nella biografia da lui scritta su Putin, L’ultimo zar (Piemme). Sempre Lilin ci aiuta a capirne di più sulla famiglia di Vladimir Putin definendola una famiglia “di lavoratori”: padre fabbro alla catena di montaggio della fabbrica di Egorov dove costruivano vagoni ferroviari e la madre operaia dispensata dal lavoro dopo aver partorito Vladimir diventata “spazzina” ovvero uno di quei custodi che tiene in ordini palazzi e cortili. Lilin scrive ancora: “i suoi bisnonni erano servi della gleba”, poi specifica che il nonno paterno Spiridon quand’era ragazzo venne mandato dalle campagne a San Pietroburgo a fare il cuoco e una sera servì nientemeno che Rasputin. Qualche pagina più avanti Lilin scrive: “le radici familiari dei Putin sono state rintracciate grazie alla curiosità dei giornalisti e all’ausilio della chiesa del villaggio degli antenati del presidente. È nei registri della chiesa infatti che si sono conservate tracce di battesimi, matrimoni e funerali che riguardano la famiglia e che risalgono all’inizio del Settecento”. Insomma, per una delle biografie di Putin acquistabili in Italia, il presidente russo almeno fino al Settecento non sembra avere alcuna radice italiana, quindi vicentina. Ma da dove nasce l’ipotesi delle origini venete di Putin? Nelle ultime ore, tra i siti web italiani è sbucata nuovamente una notizia targata dicembre 2005 quando Putin villeggiava in Italia con Silvio Berlusconi. Insomma, per questa tesi storico anagrafica, l’attuale presidente russo discenderebbe da una famiglia di Costa Bissara, in provincia di Vicenza. A scoprire l’esplosivo “mistero del Cremlino” è stato il popolare quotidiano Moskovskij Komsomolets, che l’ha sparato ieri in prima pagina. Titolo: «Il segreto di famiglia». All’ interno, una pagina con le “prove”, scrisse Repubblica all’epoca. “Nel vicentino ci sono almeno 50 famiglie con il cognome Putin. Altre abitano a Venezia. Una piccola differenza: in Veneto il cognome si pronuncia con l’ accento sulla «i», e in dialetto significa bambino piccolo. Ma il giornale moscovita non si è perso d’ animo e ha spedito un inviato a scarpinare sui colli Euganei”. A rivelazione, nell’articolo, si aggiunge altra rivelazione cioè che a fine Ottocento un gruppo di Putìn si trasferì in Russia per costruire la Transiberiana e che altri parenti che facevano di cognome Putin raggiunsero l’antica capitale russa facendo gli ambulanti. Nel servizio del quotidiano russo di allora venne intervistato tal Franco Putin, produttore di caminetti che disse: “Io e Vladimir siamo due gocce d’ acqua. Stessi occhi, medesima espressione, identica andatura. Gemelli: solo che lui scia e fa judo, io niente. Lui è asciutto, io sovrappeso: ma è l’ unica differenza”. La presunta somiglianza di Franco (Putin) venne però smentita anche con un certo imbarazzo da diverse fotografie pubblicate all’epoca. C’è da aggiungere, tra l’altro, che ad oggi è impossibile recuperare l’articolo inchiesta del Moskovskij Komsomolets.
Putin, la leggenda delle origini italiane. «Viene da Vicenza, il cognome si pronuncia con l'accento sulla i». Per i russi, la fantomatica discendenza del presidente giustificherebbe la passione che ha più volte mostrato per il Paese, dalle vacanze in Sardegna all'amicizia con Berlusconi. Alessio Esposito su Il Messaggero Mercoledì 9 Marzo 2022.
La vita di Vladimir Putin è da sempre avvolta in una coltre di mistero. Il Kgb, le figlie, il judo, gli yacht. Ma c'è addirittura chi sostiene che la famiglia del presidente russo non sia originaria di Leningrado (l'odierna San Pietroburgo), ma dell'Italia. E precisamente di Costabissara, un paesino di 7mila anime in provincia di Vicenza. Una leggenda mai confermata dai fatti, ma che da 20 anni appassiona in tanti, sia in Italia che in Russia.
Putin e la leggenda delle origini italiane
Era il 2005 quando il Moskovskij Komsomolets, popolare quotidiano moscovita, spedì degli inviati in Veneto per indagare sulle presunte origini italiane dello zar. E quello che ne venne fuori fu una roboante inchiesta dal titolo: «Il segreto di famiglia». A Costabissara e dintorni, infatti, ci sono una cinquantina di famiglie che di cognome fanno Putin, con una differenza però: la parola si pronuncia con l'accento sulla lettera «i». Il termine «putìn» in veneto signfica qualcosa come «piccolo bambino» (diminutivo di «putèo») e questo caso di omonimia, secondo le dicerie locali, testimonierebbe l'appartenenza di Vladimir a una delle famiglie vicentine in questione. Per i russi, inoltre, le fantomatiche origini italiane del presidente giustificherebbero la passione che ha più volte mostrato per l'Italia, dalle vacanze in Sardegna all'amicizia con Berlusconi.
Le voci di paese, in ogni caso, sono numerose. C'è chi dice che una famiglia Putin nell'ottocento si trasferì proprio in Russia per costruire la Transiberiana. Altri raccontano che i Putin erano degli ambulanti che, girovagando per l'Europa, si fermarono a Leningrado. E poi c'è il signor Franco Putin, imprenditore vicentino, che per lavoro viaggia spesso nei paesi dell'est ed è genuinamente convinto di essere imparentato con Vladimir. O almeno lo era fino a qualche anno fa. In una vecchia intervista a La Repubblica l'uomo disse: «Siamo due gocce d'acqua. Stessi occhi, medesima espressione, identica andatura. Gemelli: solo che lui scia e fa judo, io niente. Lui è asciutto, io sovrappeso: ma è l'unica differenza».
Negli anni, raccontano da quelle parti, numerose troupe internazionali si sono spinte fino ai colli Euganei per raccogliere prove. Oggi la storia non fa più sorridere e, probabilmente, nessuno avrà più piacere a fantasticare sulla presunta discendenza italiana di Putin.
Putin, lo zar che venne da Vicenza. GIAMPAOLO VISETTI su La Repubblica il 07 dicembre 2005.
MOSCA - Vladimir Putin, ex spia del Kgb salita sul trono degli zar, custodisce un segreto: viene da Costa Bissara, provincia di Vicenza. Il presidente russo non l' avrebbe confessato nemmeno alla moglie Ljudmila, convinta di aver sposato uno di San Pietroburgo. Ma proprio da questo buco nel passato, dal richiamo della foresta nascosto, nascerebbe l' attrazione fatale di Vladimir Vladimirovic per l' Italia e per Silvio Berlusconi in particolare. A scoprire l' esplosivo "mistero del Cremlino" è stato il popolare quotidiano Moskovskij Komsomolets, che l' ha sparato ieri in prima pagina. Titolo: «Il segreto di famiglia». All' interno, una pagina con le prove. Nel vicentino ci sono almeno 50 famiglie con il cognome Putin. Altre abitano a Venezia. Una piccola differenza: in Veneto il cognome si pronuncia con l' accento sulla «i», e in dialetto significa bambino piccolo. Ma il giornale moscovita non si è perso d' animo e ha spedito un inviato a scarpinare sui colli Euganei. Altra rivelazione clamorosa: a fine Ottocento un gruppo di Putìn si trasferì in Russia per costruire la Transiberiana. E ai primi del Novecento altri incontenibili Putìn raggiunsero l' antica capitale russa girovagando per l' Europa come ambulanti. Vendeva paioli da polenta e apprezzava le donne baltiche, il trisnonno del presidente? I discendenti dei Putìn non hanno dubbi. «Io e Vladimir - ha giurato al Moskovskij tale Franco Putìn, produttore di caminetti - siamo due gocce d' acqua. Stessi occhi, medesima espressione, identica andatura. Gemelli: solo che lui scia e fa judo, io niente. Lui è asciutto, io sovrappeso: ma è l' unica differenza». L' imprenditore vicentino, indifferente all' impietosa smentita fotografica, segue il "cugino dell' ex Urss" da anni. Lo scruta alla tivù, cerca di imitarlo, ha scoperto di avere gli stessi due nei sulla guancia sinistra. è talmente convinto di aver un albero genealogico in comune che ha commissionato a un centro di ricerche parigino la storia del suo cognome. Parziale doccia fredda: un Putìn, anche in Francia con l' accento alla vicentina, discende nel Settecento dal capostipite Dominique Putiniér, suddito della prima repubblica. Ma una cosa è certa: il signore del Cremlino non ha un cognome russo, i suoi avi sono occidentali. «Pensi che da anni - ha raccontato una certa Maria Putin - a Costa Bissara mi chiamano "la zarina". I vicini sospettano una parentela, mi trattano con un certo riguardo. Io gli faccio coraggio: mi chiamo Putìn, dico, mica Rasputìn». Un tasto delicato, quello politico. La tesi del giornale di Mosca è che il punto debole del presidente, l' amore per l' Italia, abbia origine genetica. «Avete mai riflettuto - si chiede il giornalista - perché passi le ferie in Sardegna, perché mandi le figlie in una villa famosa a Porto Cervo, perché invii la moglie sul lago di Como, perché i rapporti con il premier Berlusconi vadano ben oltre il protocollo?» Questione di sangue e di carattere. «Per questo Silvio e Vladimir - la conclusione - quando si incontrano sembrano due vecchi compagni di scuola che l' hanno fatta grossa». «Imprenditori italiani e del Nord - è la sentenza di Silvio Putìn, figlio del cugino di Franco, proprietario di una cava di mattoni -. Anche in Russia comanda uno dei nostri: pensi che a me mi chiamano Vladimir Berlusconi». Per coerenza ha assunto una domestica ucraina. Si chiama Galina, e a Vicenza genera equivoci. Così il Putìn la chiama Lina.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 7 marzo 2022.
«Qualunque cosa succeda, voi fate paragoni con l'Unione Sovietica e tornate subito in modalità Guerra fredda». Più che un'intervista, è un corpo a corpo. A novantacinque anni compiuti, nella sua dacia appena fuori città, circondato dalle betulle e da quattordici gatti, Roj Medvedev, lo storico dello stalinismo, «enfant terrible» durante il regime sovietico, strenuo avversario della «americanizzazione» introdotta da Boris Eltsin, non assapora il privilegio del distacco.
L'anziano professore, piglio combattivo e testa ancora lucida, ancorché fornita di idee discutibili, si dichiara «idealmente connesso» con quella Russia profonda che costituisce la base del consenso di Vladimir Putin. «Non c'è nulla di male a voler ricreare una Russia che almeno come territorio si richiami ai confini dello zar Pietro il Grande».
Non le sembra che il progetto si stia rivelando tutt' altro che innocuo?
«Forse ne teme le conseguenze economiche, ma la maggioranza dei russi è d'accordo con quel che sta accadendo. Solo che a voi occidentali non piace ammetterlo. E così definite la Russia come un regime, ignorando che alla Duma le risoluzioni vengono prese all'unanimità, anche da quel poco di opposizione che, se non fosse così, avrebbe ogni convenienza al dissenso».
Anche perché chi dissente sembra avere qualche problema.
«Esistono tanti tipi di democrazia, non una sola. Riconosco che la nostra sia molto controllata. Ma con dieci anni appena di democrazia occidentale, negli anni di Eltsin, il Paese stava saltando per aria. E neppure questo a voi faceva piacere. A parte quel periodo, i russi non hanno mai provato la "vostra" democrazia. Non ci sono abituati».
Nella storia russa, quale sarà il posto di Putin?
«È una figura assolutamente particolare. Lui è ossessionato dal confronto con il passato, vuole essere ricordato, diventare una nostra icona. In questo senso, è spinto anche dall'ambizione personale. L'Ucraina è soprattutto il suo tentativo di riscrivere la Storia, deviandone il corso. Certo non è uno zar, figura che per lui assume connotazioni mitologiche. Di sicuro non somiglia a Lenin, ci mancherebbe. Ma neppure a Stalin, al quale spesso viene paragonato con malignità».
Quel che sta succedendo cambierà il suo giudizio?
«La definiscono come un'operazione speciale. Riconosco che è una definizione vaga, ma non si tratta certo di una guerra totale. I russi non la vivono così».
E le vittime a chi le intestiamo?
«Ce ne sono già tante, purtroppo. La guerra è il più crudele degli eventi storici. Noi russi ci siamo abituati».
Cosa ha davvero in testa Putin?
«In questo caso concordo con l'interpretazione occidentale. Vuole mettere la Russia tra le grandi potenze del mondo, indipendentemente dalle posizioni della Cina e degli Usa. Lui pensa quello che dice, e ci crede davvero. Il problema è sempre il solito. Per l'Europa la Russia sarà sempre troppo grande. Per la stragrande maggioranza dei russi, no».
Cosa sarà dell'Ucraina?
«Come sfera di influenza, tornerà geograficamente ai tempi di Gogol, nostro sommo scrittore che era nato in quello che oggi è territorio ucraino, ma tutti considerano russo. La storia non passa mai invano. Neppure Putin pensa di riprendersi l'intera Ucraina. Solo quella russofona. Quanto alla minaccia nucleare, nessuno ci pensa davvero. Sono solo parole».
Cosa le è successo, professor Medvedev?
«Invecchiando si perde la pazienza. Non ne posso più della retorica occidentale. Esistono modelli di società diversi da quello americano. I primi a capirlo avreste dovuto essere voi europei. Ma vi siete sempre rifiutati di riconoscere questo fatto così evidente. Il mondo non è più bipolare, e sta andando in un'altra direzione. Putin e la Russia vi hanno aspettato a lungo. E poi hanno deciso di fare da soli».
Articolo di Paul Krugman pubblicato da “la Stampa” - Traduzione di Anna Bissanti il 5 marzo 2022.
Il miracolo ucraino potrebbe non durare. Il tentativo di Vladimir Putin di vincere in fretta e con poca spesa, conquistando le città più importanti con forze relativamente leggere, ha dovuto far fronte a una considerevole resistenza, ma i carri armati e le armi pesanti stanno guadagnando terreno. E, malgrado l'incredibile eroismo del popolo ucraino, è ancora più plausibile che implausibile che, alla fine, tra le macerie di Kiev e di Kharviv sarà piantata la bandiera russa. Anche se ciò dovesse accadere, tuttavia, la Federazione Russa si ritroverebbe più fragile e più povera di prima dell'invasione. La conquista non paga.
Perché? Se si risale indietro nella Storia, ci si accorge di innumerevoli esempi di potenze arricchitesi con il valore militare. Di sicuro, i Romani trassero grandi benefici dalla conquista del mondo ellenistico, come fu poi per la Spagna con la conquista di Aztechi e Incas. Il mondo moderno, però, è diverso e per "moderno" mi riferisco quanto meno all'ultimo secolo e mezzo.
Nel 1909 l'autore britannico Norman Angell diede alle stampe il suo famoso saggio "La grande illusione" nel quale sosteneva che la guerra era diventata obsoleta. Il suo libro perlopiù fu frainteso: si pensò che dicesse che una guerra non poteva più scoppiare, dichiarazione rivelatasi tragicamente errata nelle due generazioni successive. Di fatto, Angell aveva scritto che nemmeno i vincitori di una guerra potevano più ricavare benefici dal loro successo militare.
Non ci sono dubbi: aveva pienamente ragione. Siamo tutti grati agli Alleati che hanno avuto la meglio nella Seconda guerra mondiale, ma la Gran Bretagna ne uscì come una potenza minore e soffrì anni di austerità cercando di superare la penuria di valuta estera. Perfino gli Stati Uniti ebbero un periodo di assestamento postbellico più difficile di quanto molti si siano resi conto, e dovettero far fronte a un picco di aumenti dei prezzi che per un certo periodo spinsero l'inflazione sopra al 20 per cento.
Viceversa, nemmeno una disfatta completa riuscì a impedire a Germania e Giappone di conseguire alla fine una prosperità senza precedenti. Perché e quando la conquista divenne non remunerativa? Angell sosteneva che tutto era cambiato con l'affermarsi di una «vitale interdipendenza tra le nazioni», che «superava trasversalmente le frontiere internazionali», e suggerì che quel fenomeno «fosse in buona parte l'esito degli ultimi quarant' anni», un processo iniziato dunque intorno al 1870.
Sembra una supposizione corretta: intorno al 1870, le reti ferroviarie, i battelli a vapore e il telegrafo resero possibile la creazione di quella che alcuni economisti chiamano la prima economia globale. In un'economia globale di questo tipo, è difficile conquistare un altro Paese senza estrometterlo a caro prezzo (ed estromettersi) dalla distribuzione
internazionale del lavoro, per non parlare del sistema finanziario internazionale.
Oggi questa è la dinamica in atto in Russia sotto i nostri occhi mentre ne parliamo. Angell puntualizzava anche i limiti delle espropriazioni in un'economia moderna: non è possibile impossessarsi di asset industriali come i conquistatori preindustriali fecero in un lontano passato con la terra, perché le espropriazioni arbitrarie annientano gli incentivi e il senso di sicurezza che una società avanzata ha bisogno che restino produttivi. Ancora una volta, la Storia rende giustizia alla sua analisi.
Per un certo periodo, la Germania nazista occupò altre nazioni dal prodotto interno lordo prebellico complessivo più o meno doppio rispetto al suo ma, nonostante uno sfruttamento spietato, sembra che i territori occupati abbiano ripagato le spese di guerra della Germania soltanto nella misura del 30 per cento circa, in parte perché molte economie che la Germania cercò di dissanguare a suo vantaggio crollarono sotto quel peso.
Piccola digressione: non è impressionante e orribile ritrovarci in una situazione in cui i fallimenti economici di Hitler ci insegnano qualcosa di utile riguardo le prospettive per il futuro? Tuttavia, è questo il punto in cui ci troviamo. Grazie, Putin. Vorrei aggiungere altri due motivi che spiegano perché le conquiste sono inutili. La prima è che la guerra moderna fa uso di una quantità inverosimile di risorse.
Gli eserciti premoderni usavano una quantità limitata di munizioni e potevano, in certa qual misura, vivere delle risorse della terra. Ancora nel 1864, il generale dell'Unione Army William Tecumseh Sherman poteva sganciarsi dalle linee dei rifornimenti e marciare attraverso la Georgia portandosi dietro razioni militari per soli venti giorni. Gli eserciti moderni, invece, richiedono enormi quantità di munizioni, di pezzi di ricambio e, soprattutto, di carburante per i loro veicoli.
In effetti, dalle ultime valutazioni del Ministro britannico della Difesa risulta che l'avanzata russa su Kiev si sia temporaneamente fermata «in conseguenza, probabilmente, di continue difficoltà logistiche». Ciò che questo implica per gli aspiranti conquistatori, qualora avessero poi la meglio, è un costo altissimo, con pochissime probabilità di essere pagato. In secondo luogo, oggi viviamo in un mondo di nazionalismo infervorato. Nell'antichità e nel Medioevo i contadini probabilmente non facevano caso più di tanto a chi li sfruttava. Gli operai di oggi sì.
Il tentativo di Putin di impossessarsi dell'Ucraina sembra basarsi non soltanto sul principio secondo cui una nazione ucraina non esiste, ma anche sul presupposto che gli stessi ucraini possano essere convinti a considerarsi russi. Sembra molto improbabile che una cosa del genere possa accadere.
Quindi, anche se Kiev e altre importanti città ucraine dovessero cadere, la Russia si troverebbe a cercare per anni e anni di tenere a freno una popolazione ostile. Una conquista, pertanto, è una prospettiva perdente. Ciò è vero da almeno un secolo e mezzo ed è ovvio a chiunque sia disposto a guardare ai fatti di più di un secolo. Peccato che vi siano ancora pazzi e fanatici che si rifiutano di crederci, e che alcuni di loro comandino nazioni ed eserciti.
Bill Browder, il cacciatore del tesoro di Putin: «Ha 200 miliardi di dollari, li custodiscono gli oligarchi». Luigi Ippolito, nostro corrispondente a Londra, su Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2022.
Il finanziere anglo-americano ha promosso il Magnitsky Act, la legge di Obama che sanziona la corruzione e le violazioni dei diritti umani in Russia: «Il presidente russo è l’uomo più ricco del mondo: mi dà la caccia da 10 anni»
Il finanziere anglo-americano Bill Browder
Sono anni che il Cremlino gli dà la caccia: Bill Browder è la bestia nera di Putin, il finanziere anglo-americano che è stato il promotore del Magnitsky Act, la legge voluta da Obama che sanziona la corruzione e le violazioni dei diritti umani in Russia. Sergej Magnitsky era l’avvocato e socio russo di Browder: venne fatto morire in carcere dopo che aveva portato alla luce una maxi-frode di Stato da 230 milioni di dollari. E una parte di quel malloppo, sostiene Browder nel suo libro Freezing Order, in uscita in questi giorni, finì direttamente nelle tasche di Putin.
È da allora che Browder si batte per rendere giustizia a Magnitsky e fare luce sul tesoro nascosto del leader russo. Mosca ha emesso un mandato di cattura contro di lui tramite l’Interpol e ha cercato più volte di farlo arrestare: ma il Cremlino, quando deve sbarazzarsi di personaggi scomodi, sa ricorrere a metodi ben più sinistri. Nonostante ciò, Browder non si nasconde: all’ingresso del suo ufficio, all’ultimo piano di un palazzo nel cuore della City di Londra, non ci sono misure di sicurezza né guardie del corpo. Ed è lui stesso, mano tesa e modi affabili, che viene incontro a ricevere il visitatore.
La carriere in Russia
Il finanziere 57enne ha fatto la sua fortuna nel Far West delle privatizzazioni nella Russia post-sovietica a cavallo del secolo: ed è già allora che aveva avuto a che fare con Putin. Il leader russo, racconta, «ha cominciato tutta la sua carriera come un tipo al quale piacciono i soldi: e nessuno entra nella carriera pubblica in Russia con altri obiettivi che non siano rubare quanti più soldi possibile». La Russia, spiega Browder, «è organizzata come i Soprano»: ossia un sistema di mafie che si spartisce i territori e manda il denaro al capo dei capi, ovvero Putin. In questo modo, lo zar del Cremlino «ha accumulato ben oltre 200 miliardi di dollari da quando è diventato presidente: cosa che ne fa l’uomo più ricco del mondo». Ma ovviamente non ci sarà mai un pezzo di carta in grado di dimostrarlo: «Putin è anche un agente del Kgb molto efficace : e ha passato tutta la sua vita corrompendo o ricattando la gente perché diventassero parte del suo sistema. Per cui sa che chiunque avesse un documento col suo nome sopra potrebbe ricattarlo: così non è mai nella posizione di essere formalmente il proprietario di qualche bene».
Prestanome e sodali
Il sistema escogitato è dunque quello di ricorrere a dei fiduciari, dei prestanome: che altri non sono che i famosi e famigerati oligarchi russi . «Quando vuoi scoprire dove Putin tiene i suoi soldi — sostiene Browder — devi partire dagli oligarchi: perché quella gente custodisce i soldi per lui. Stimo che il 50% delle ricchezze degli oligarchi sia in realtà di Putin. Chi sono? Nella lista di Forbes ci sono 118 miliardari in Russia: e 110 di loro sono fiduciari di Putin». La stessa cosa vale anche per i magnati che stanno a Londra, che in tanti casi proclamano di non aver nulla a che fare con lo zar del Cremlino: «Ma la realtà è che nessuno di loro sarebbe potuto diventare ricco o rimanerlo senza il beneplacito di Putin. Lui è quello che dà loro il permesso di essere ricchi: e il permesso è elargito in cambio della custodia di beni e della fornitura di ogni tipo di servizi finanziari che lui richieda».
È per questo che sanzionare gli oligarchi è l’unico modo di colpire Putin direttamente: mettere lui sulla lista delle sanzioni è un gesto simbolico, ma di nessun impatto, mentre colpire gli oligarchi devasta la capacità di Putin di accedere a capitali esteri. E tuttavia, avverte Browder, «bisogna sottolineare che gli oligarchi non sono attori politici: chiunque creda che in qualche modo gli oligarchi complotteranno per rovesciarlo resterà amaramente deluso, questo non accadrà mai». E lo stesso vale per gli uomini della cerchia ristretta che sta attorno a Putin, i «ministri della forza» e i capi dei servizi di sicurezza: «Neanche queste persone muoveranno contro di lui, perché Putin è un piccolo uomo paranoico che va alla ricerca della slealtà anche dove non esiste: non si fida di queste persone, ognuno è monitorato dagli altri, nessuno si fida di nessuno e se lui avvertisse il minimo segno di slealtà, queste persone sarebbero spedite in Siberia o uccise».
La sicurezza personale
Non è dunque per nulla ottimista, Browder: «Putin è un piccolo criminale paranoico, a capo di quella che è fondamentalmente una organizzazione criminale: non ci dobbiamo aspettare null’altro che miserie, perché alla fine non ha costrizioni da parte della storia o della morale. Sarebbe assolutamente capace di usare l’arma nucleare: l’Ucraina è solo l’inizio delle sue ambizioni». Una realtà che ha cambiato anche il calcolo di sicurezza del finanziere: non ha paura di essere ammazzato? «Putin mi dà la caccia da un decennio — sorride — dopo l’approvazione del Magnitksy Act. L’unica ragione per cui sto seduto qui è che lui ha tenuto sempre un piede nel mondo civilizzato e uno nel mondo criminale: da quest’ultimo lato arrivavano le minacce di morte contro di me, ma dall’altro lato gli piaceva apparire al G20 e ai summit internazionali. Questo è ciò che mi tenuto in vita: ma ora che ha messo tutti e due i piedi nel mondo criminale, c’è un rischio esponenziale di violenza nei miei confronti, perché lui non ha più nulla da perdere. Quindi sì, devo essere in uno stato di allerta diverso rispetto a prima».
Le "stanze segrete" di Putin: cosa accade qui. Federico Garau il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.
Gli attivisti di Navalny hanno definito la proprietà come un vero e proprio regno segreto, e affermano che tutto sarebbe stato ottenuto tramite corruzione e appropriazione di fondi pubblici.
Dall'inizio del conflitto fra Russia ed Ucraina gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulla figura del presidente russo Vladimir Putin, da alcuni considerato un apprezzato statista e stratega, da altri paragonato ad un dittatore.
Si stanno diffondendo in queste ultime ore certe indiscrezioni su una villa del presidente Putin, informazioni rilasciate dal gruppo di ricerca di Aleksej Navalny, attivista russo di origini ucraine e storico oppositore del leader russo. Stando a quanto riferito dal gruppo di Navalny, Vladimir Putin sarebbe in possesso un palazzo situato all'interno di una tenuta da 7.800 ettari sulle rive del Mar Nero. Un vero e proprio "regno segreto", secondo gli oppositori del presidente russo, che hanno diffuso sul web alcune immagini della presunta proprietà del presidente, situata nei pressi della cittadina di Gelendzhik. Basta collegarsi al sito internet palace.navalny.com per dare un'occhiata alle stanze ed alle sale della villa in questione, così come ai vasti terreni della tenuta. Non mancherebbe proprio nulla: si va da piscine e piste su ghiaccio, fino ad arrivare ad un anfiteatro, un porto, una chiesa, una pista d'atterraggio ed anche un casinò.
Il valore di tutto questo si aggirerebbe intorno a 100 miliardi di rubli, per un totale di circa 1,1 miliardi di euro. E gli attivisti di Navalny ci tengono a precisare che si trattarebbe di una sorta di"Stato separato all'interno della Russia, su cui vige una no-fly zone". Ma su cosa, effettivamente, punta il dito il gruppo del principale oppositore di Putin? A quanto pare il presidente non avrebbe mai confermato la proprietà della villa, che non figurebbe neppure nei documenti pubblici. Navalny non esita a definire tutto ciò come "la storia della tangente più grande". Il gruppo di attivisti anti-Putin, infatti, dichiara che la proprietà sarebbe stata acquistata attraverso corruzione e appropriazione di fondi pubblici.
Attualmente recluso in carcere, Aleksej Navalny è tornato a parlare in questi ultimi giorni per invitare il popolo russo a schierarsi contro la guerra. Dopo aver cominciato la propria carriera politica nel 2000 con il partito di opposizione Yabloko (partito poi abbandonato nel 2007 per divergenze), Navalny è poi divenuto famoso grazie al proprio blog, uno spazio sul web dedicato alla politica ed alla denuncia di fenomeni di corruzione. Numerosi gli attacchi contro Putin.
In Onda, Mario Monti e la rivelazione su Putin: "Virulento, quando l'ho incontrato dopo Berlusconi..." Libero Quotidiano il 05 marzo 2022
Ospite di In Onda nella puntata di sabato 5 marzo, Mario Monti. L'ex premier è stato chiamato nel programma di La7 da Concita De Gregorio e David Parenzo per parlare della guerra in Ucraina. E, soprattutto, di Vladimir Putin. Lui stesso l'ha conosciuto: "Sicuramente - esordisce - il mondo è cambiato. Quando ho avuto rapporti con lui, era ancora nel G8". Scendendo nel dettaglio Monti svela il suo vero obiettivo: "Nei confronti dell'Italia il mio compito era uno: lui era l'unico ad avere il rammarico per il fatto che non ci fosse più Berlusconi alla presidenza del Consiglio, però il rapporto con l'Italia, anche se io non ero un suo amico, doveva essere ugualmente eccellente".
E ancora, incalzato dai conduttori: "Oggi vedo Putin come un esponente virulento e nei guai". A detta dell'economista questa guerra in Ucraina, iniziata con l'invasione da parte russa, è da leggere attraverso tre aspetti: "Quello militare, quello delle sanzioni e quello della valutazione e della reputazione".
Monti ricorda infatti con tutti abbiano definito inaccettabile la reazione della Russia nei confronti del paese guidato da un capo eletto democraticamente: Volodymyr Zelensky. Infine, la stoccata a Matteo Salvini: "Con il primo governo Conte abbiamo visto due partiti populisti ripudiare l'Ue e legarsi alla Russia. Salvini oggi invece fa fatica a pronunciare il nome di Putin".
Lo "spreco" dei russi. Trent’anni di libertà per esaltare Stalin e la sete di impero. Roberto Fabbri il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.
Putin incarna i valori del popolo: nostalgia del passato sovietico, abitudine a mentire, ruolo di superpotenza con licenza di bullismo.
È diventato un mantra: non si può dire che abbiamo un problema con i russi. Al massimo con Vladimir Putin, ma con il suo popolo no. È russofobia! Ormai è difficile argomentare senza attirarsi addosso etichette dal sapore censorio. Eppure si dovrebbe sapere che questo termine esattamente come il suo parente «islamofobia» - è stato inventato con il preciso scopo di tappare la bocca a chi muove critiche scomode. Oggi più che mai, invece, criticare anche severamente certe caratteristiche del popolo russo deve rimanere un diritto, senza per questo generalizzare o, peggio, manifestare odio indiscriminato.
Prendiamo il caso di Svetlana Aleksievic. Ieri sul Corriere della Sera la scrittrice premio Nobel bielorussa (di madre ucraina) è tornata sul tema del suo capolavoro Tempo di seconda mano: esiste in Russia un sentimento profondo, diffusissimo soprattutto nelle sterminate campagne, di nostalgia per il passato sovietico. Una nostalgia fondata sul persistere delle due eredità peggiori di settant'anni di comunismo, l'abitudine perversa alla menzogna e al ruolo di superpotenza vissuto come licenza di bullismo. Decine di milioni di russi ricorda la scrittrice che da decenni scava nella società dell'ex Urss e ne restituisce il sentire autentico - provano da decenni un senso di umiliazione perché nel mondo nessuno ha più paura di loro, e ringraziano Putin che sta restituendo al loro Paese esattamente quel ruolo. Dirlo è offensivo? No davvero, spiega la Aleksievic. È, purtroppo, la verità: con la sua guerra d'aggressione basata su rozze falsificazioni storiche Putin vuol riportarci al Medioevo, e tantissimi suoi compatrioti non tutti, ma tantissimi - lo sostengono perché sono come lui.
Mezzo secolo prima della Aleksievic, un altro gigante della letteratura di lingua russa, Vassili Grossman, aveva denunciato l'aspetto peggiore dell'anima dell'Homo Sovieticus: il bisogno di obbedire a una figura autoritaria. In Tutto scorre... Grossman scrisse che «solo coloro che attentano al fondamento basilare della vecchia Russia alla sua anima schiava sono dei rivoluzionari». Ma ancor oggi, nel 2022, ci tocca assistere alla repressione da parte di Putin proprio di quei potenziali rivoluzionari, di quei giovani assetati di libertà che di nazional-imperialismi conditi di nostalgie staliniane non vogliono sentir parlare.
A proposito di certe nostalgie. Da anni ormai Putin ha recuperato la figura di Stalin, che in Russia era stata bandita già in epoca sovietica. «Baffone» non viene presentato come un eroe del comunismo, ma come il vincitore dei nazisti e soprattutto l'artefice della grandezza nazionale russa. Statue del dittatore terrorista che fece sterminare o languire nei gulag milioni di sovietici riappaiono soprattutto in provincia e non solo nessuno se ne scandalizza, ma vengono perseguitati e incarcerati i dirigenti di Memorial, l'organizzazione russa dedita al ricordo di quegli orrori. La propaganda nazionalista martella perfino gli scolari delle elementari, cui vengono propinati cartoni animati in cui si sostiene che i «fratelli minori ucraini» hanno preso una brutta strada perché sviati dai perfidi americani, ma vanno recuperati anche con la forza, nel comune interesse.
Abbiamo un problema con i russi, sissignore. In quel Paese trent'anni di libertà sono stati sprecati se vi si può glorificare un mostro come Stalin. In Germania e in Italia fare lo stesso con Hitler e Mussolini, prima che un reato, è considerato giustamente una vergogna. Chissà se i russi impareranno mai.
Dall’utopia alla distopia, Putin è il vero finale dell’Ottobre. RINO FORMICA EX MINISTRO su Il Domani il 05 marzo 2022
Putin ha dichiarato guerra alle democrazie e ha chiuso il ciclo storico del Novecento, secolo lungo anzi lunghissimo, perché ha sforato nel terzo millennio.
L’errore post ‘89: il mondo libero pensò che con l’esportazione del capitalismo si risolveva il problema dell’acquisizione alla democrazia dell’ex mondo comunista.
Questa è anche crisi di verità: il secolo segnato dalla Rivoluzione d'Ottobre si chiude con Putin, cioè con la sua negazione.
Putin ha dichiarato guerra alle democrazie e ha chiuso il ciclo storico del Novecento, secolo lungo anzi lunghissimo, perché ha sforato nel terzo millennio. Secolo di un evento che segnò la storia dei popoli.
Nell'ottobre ‘17 scoppia la cosiddetta Rivoluzione russa, guidata dalla lucidità spietata di Lenin e del suo gruppo dirigente che cerca di innestare una rivoluzione socialista in un paese povero, arretrato, fondato sulla schiavitù di massa del mondo rurale, un mondo maturo per una rivolta contadina non per una rivoluzione di una società ad alto grado di sviluppo. E infatti era contro la dottrina del socialismo europeo, secondo cui la rivoluzione socialista avviene nei paesi maturi.
Lenin compie una sintesi audace fra spiritualismo di matrice fondamentalista cristiana, com’era nelle masse rurali russe, con un materialismo brutale, stakanovistico. Dopo cinque anni di difficoltà, nel 1922, dà vita all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Nasce un “Super Stato”", il partito comunista sovietico, il cui vertice è all’interno comando unificato e all’esterno Stato guida della rete della rivoluzione anticapitalistica e contro le democrazie occidentali.
Con il controllo del Super Stato, l’utopia va trasformandosi in distopia, negazione dell'utopia. La prospettiva di liberazione dell'umanità si rovescia in soggezione schiavistica. L'utopia è la pace, la distopia è la guerra, il sacrificio dell'umanità.
La forza di liberazione si trasforma in autocrazia repressiva. Un processo interno; ma che all’esterno provoca compiacenze e complicità ampie di buona parte della cultura e degli intellettuali, e invade anche tutto un campo di interessi e convergenze con le destre europee. In Italia in particolare si è formata una coltura di compiacenze che ha trovato spazio in particolare nel mondo nel mondo cattolico, il catto-comunismo, nella borghesia salottiera e nelle élite.
Quando oggi Putin parla dei «nazisti dell’Ucraina» dimentica che c’è un solo momento in cui il nazismo siede allo stesso tavolo con il comunismo ed è il patto Ribbentrop-Molotov.
Nell’89 implode l’impero comunista. Il partito crolla nel ‘91 il e potere del Super Stato è sostituito dal potere della polizia segreta. C’è una continuità: Putin non interrompe l’involuzione, la polizia segreta diventa Super Guida della rete delle complicità.
Lasciamo stare il folklore fanciullesco di Berlusconi, per cui i rapporti internazionali si regolano con feste e champagne. C'è una destra che si collega al potere poliziesco russo. E l’alleanza Putin-destre viene da questa involuzione continua, sempre più reazionaria.
Ma l’imperialismo espansivo non regge, ha un punto di rottura che è la guerra, elemento chiarificatore, indica la fase finale in cui è entrato non il putinismo ma l’involuzione partita nel 1922.
C’è però oggi una grande vittoria del mondo socialista europeo. Non è un caso che il primo paese a intuire che la guerra di Putin è alla democrazia e al mondo libero è stata la Germania a guida socialdemocratica, e la Spagna a guida socialista, superando anche l’improvvisazione elettoralistica di Macron e le silenziose iniziali compiacenze italiane, le cui classi dirigenti sono influenzate dal catto-comunismo
Ci fu un errore nell’immediato post ‘89: il mondo libero pensò che con l’esportazione del capitalismo si risolveva il problema dell’acquisizione alla democrazia dell’ex mondo comunista. Non era così, doveva essere affrontate il problema della natura non socialista della rivoluzione d’Ottobre, e infatti il sistema potere dell’ex Urss è stato consegnato a un nuovo ceto imprenditoriale costituito dal vecchio apparato che con la rapina dei beni di stato diventava prosecutore di un regime autocratico sposata al capitalismo.
Il capitalismo regge sia in democrazia sia nelle dittature, è il socialismo che non può reggere senza democrazia. Torna la riflessione di una nuova ispirazione socialista nel mondo. Questa è anche crisi di verità: il secolo segnato dalla Rivoluzione d'Ottobre si chiude con Putin, cioè con la sua negazione.
RINO FORMICA EX MINISTRO. Politico. Fu varie volte ministro, spesso a capo di dicasteri importanti. Fu un membro di rilievo del Partito socialista italiano durante la segreteria di Bettino Craxi.
Il morso velenoso del serpente russo. Eugenio Scalfari su La Repubblica il 6 Marzo 2022.
Arrivato alla mia età, non avrei mai immaginato di poter assistere ancora a un conflitto nel cuore dell'Europa.
L'Europa ha una ferita nel cuore, si chiama Russia, che ha a sua volta un'altra ferita ancora più grande, si chiama Ucraina. L'indicibile orrore delle immagini che arrivano in queste ore da Kiev e dalle città distrutte, mi lasciano sgomento. Arrivato alla mia età, non avrei mai immaginato di poter assistere ancora a un conflitto nel cuore dell'Europa. Pensavo che il Novecento, con tutti i suoi tumulti e con i segni delle ferite che ancora ci portiamo addosso, fosse stato archiviato nei libri di storia, invece gli orrori sono riemersi e questa è sicuramente la più grave crisi dopo la Seconda guerra mondiale.
Putin, come lo avevo definito tempo fa, è un serpente a sonagli che circonda i suoi avversari, non sempre il serpente a sonagli morde velenoso. Spesso, specie se viene accarezzato, circonda con disinvoltura il corpo di chi lo sopporta, ma può colpire di sorpresa e mordere con morsi velenosi e quindi uccidere.
E così è accaduto, il serpente con il suo morso velenoso ha colpito, l'aggressione militare all'Ucraina è stata ed è ancora in queste ore di una violenza inaudita.
Le città bombardate e l'esodo di quel popolo inerme in fuga, ci fanno precipitare nei giorni più bui della nostra storia europea. Il presidente russo ha fatto della repressione prima in Cecenia poi in Siria e anche contro il dissenso delle sue piazze, una delle motivazioni di fondo per la conquista e il consolidamento del potere. Ha scelto di usare la forza delle armi per poter ridisegnare la sua idea di Europa, stracciando la mappa degli accordi di Yalta e cercando di farsi largo per ricostituire il blocco sovietico, la grande Russia, a scapito della Nato, della Ue e mettendo in discussione i valori delle democrazie. I suoi carri armati hanno travolto il confine e la sovranità degli stati e con essi la libertà di un popolo, quello ucraino di poter scegliere il proprio destino, di potersi inserire a pieno titolo nella comunità europea.
Kiev, capitale dell'Ucraina, è stata da sempre, come ricordava Ezio Mauro nei giorni scorsi - una capitale di guerra, sangue, conquiste e battaglie - la sua leggenda è parte della nostra storia, è stata l'anima dell'antica Rus', una realtà storica da più di 1200 anni, quando Mosca e San Pietroburgo non esistevano nemmeno. L'Ucraina, con il suo miscuglio di popoli e con la sua forte identità, è sempre stata per la storia una "Piccola Russia" decantata nelle bellissime pagine giovanili di Gogol e nei racconti del grande Michail Bulgakov.
Ma la Russia pero ha avuto una società civile, la sua cultura è al tempo stesso profondamente russa ed europea come lo dimostrano la letteratura dell'Ottocento, dei Puskin, dei Turgenev, dei Gogol, dei Cechov e di Dostoevskij e Tolstoj. Ce l'ha soprattutto dalla rivoluzione della primavera del 1917, che proclamò la Repubblica, guidata dai menscevichi e dal partito socialista-rivoluzionario. Lì nacquero i soviet che furono, all'inizio, l'espressione d'una società civile formata da intellettuali, borghesi e operai.
Certo non fu mai una società numerosa e capillarmente diffusa, mancava una classe borghese capace di sostenere i suoi valori liberali. Era una società civile gracile e fu quella gracilità che indusse Marx a vaticinare la rivoluzione proletaria in Germania e in Inghilterra ma non certo in Russia e indusse Trotzkij a predicare la rivoluzione mondiale avversando il socialismo in un solo Paese adottato da Stalin il sanguinario, dal quale forse Puntin ha preso ispirazione.
Ma il nuovo Zar ha calpestato tutto questo, ha riscritto con delle menzogne la storia del suo Paese, piegandola ideologicamente al servizio della sua guerra, ha negato l'esistenza storica dell'Ucraina in nome della grande Russia, dimenticando che tutto era iniziato da lì, in quell'ampio territorio che si estendeva dal mar Nero al mar Baltico.
Perfino Mikhail Gorbaciov l'ultimo presidente dell'Urss ha sollecitato il mondo a fermare la minaccia del Cremlino. Ricordo ancora il mio viaggio a Mosca e l'intervista che gli feci insieme a Fiammetta Cucurnia. Avevo molta simpatia per quel leader che si batteva per instaurare il "comunismo dal volto umano" e la sua perestrojka che portò alla caduta nel 1989 del Muro di Berlino.
Ora il prezzo di sangue che sta pagando il popolo ucraino con la sua resistenza instancabile ed eroica contro gli invasori, deve acuire l'intelligenza politica dei governi e delle pubbliche opinioni. L'unità Occidentale dimostrata nella convergenza di posizioni fra America e Unione Europea, nell'adottare le sanzioni economiche ma anche nel linguaggio politico per difendere i valori della libertà e della democrazia, deve diplomaticamente disinnescare al più presto questa situazione per evitare sviluppi ancora più drammatici, l'Occidente nato da Yalta dobbiamo prenderne atto, non esiste più.
C'è infine un altro personaggio che è fondamentale per superare questa tragica situazione: papa Francesco. Non c'è mai stato un Papa come lui. Dico di più: un Pastore, un Profeta, un rivoluzionario: in nome della sua fede e in circa due miliardi di cristiani che abitano il Pianeta, dislocati in quasi tutti i continenti.
Francesco si appella al Dio unico misericordioso. "Chi fa la guerra non guarda alla vita concreta delle persone, mette davanti a tutto - ha detto - gli interessi di potere, si affida alla logica diabolica e perversa delle armi che è la più lontana dalla volontà di Dio e si distanzia dalla gente comune che vuole la pace e che, in ogni conflitto, è la vera vittima che paga, sulla propria pelle, le follie della guerra".
Noi non possiamo restare indifferenti in un mondo che ha un'ardente sete di pace. Ora in Ucraina ma anche in molti Paesi si soffre per guerre spesso dimenticate ma sempre causa di sofferenze e di povertà. Penso a famiglie che nella vita non hanno conosciuto altro che violenza, ad anziani costretti a lasciare le loro terre come oggi accade al popolo ucraino. Non vogliamo che queste tragedie cadano nell'oblio. Noi desideriamo dar voce a quanti soffrono, a quelli senza voce e senza ascolto. Essi sanno bene, spesso meglio dei potenti, che non c'è nessun domani nella guerra e che la violenza delle armi distrugge la gioia della vita.
I 22 anni di Putin al potere: i suoi risultati, dall’economia alla politica estera. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 05 marzo 2022.
Vladimir Putin e la Russia sono i nuovi protagonisti della scena globale. Ma lo sono per una ragione sbagliata: che riporta l’Europa alle ore più buie della sua Storia e rischia di materializzare scenari catastrofici, non ultimo quello di una guerra nucleare. Qualunque fosse la fondatezza di una situazione geopolitica che alimenta l’insicurezza di Mosca, lo zar del Cremlino si è bruciato dietro gli ultimi ponti della ragionevolezza e della responsabilità, scatenando un conflitto dal quale non si vedono al momento vie d’uscita. Ma Putin è riuscito anche a produrre un miracolo, non voluto e non previsto: le sue azioni hanno ridato un’identità all’Occidente, ricompattando la Nato, riportando gli Usa in Europa e restituendo all’Ue unità e coscienza. Abbiamo provato a stilare una prima pagella del leader russo.
Economia, voto 4
Vladimir Putin non ha mai lanciato una vera modernizzazione dell’economia russa, massacrata dalla fine dell’Urss e dal Far West degli anni di Eltsin, che avrebbe comportato apertura della società, convinta lotta alla corruzione, fine dei privilegi degli oligarchi che lo sostenevano. Le prime riforme furono confuse: tagliò le tasse ma rinazionalizzò molti settori strategici. Furono i prezzi crescenti dell’energia in realtà a sostenere il miracolo economico degli anni 1999-2006, quando il potere d’acquisto reale dei russi raddoppiò e il tasso di crescita annuale alla fine del suo primo mandato fu del 7%. La crisi finanziaria globale e il calo dei prezzi del petrolio posero fine al ruggito della «tigre russa». Il sistema Putin non ha mai contemplato economia diversificata, classe imprenditoriale vibrante, contesto per gli affari stabile, quadro legale trasparente. L’annessione della Crimea e le prime sanzioni, nel 2014, segnarono una svolta. Di fronte alla scelta occidentale di colpire le imprese statali e strategiche russe, Putin reagì con una linea economica autarchica e restrittiva. In parte ha funzionato, ma pagando stagnazione e peggioramento delle condizioni di vita. Ora Putin è alla resa dei conti: le misure punitive senza precedenti varate dall’Occidente stanno già mettendo l’economia russa in ginocchio, con il crollo della borsa e del rublo. I risparmi degli anni scorsi non possono essere usati. Lo Zar è letteralmente appeso ai tubi del gas. Voto: 4
Democrazia, voto 0
«Un democratico senza pecche», lo definì l’allora cancelliere tedesco, Gerhard Schröder, suo futuro lobbysta. Giudizio azzardato. Sin dagli esordi, una dose di autoritarismo è stata nel Dna del sistema Putin. Il quale ha usato diverse narrazioni per costruire e mantenere il consenso, fossero la crescita o il patriottismo. Con buoni risultati, visto l’alto sostegno popolare di cui ha goduto in molte fasi. Ma quando ognuno di questi racconti esauriva la propria spinta propulsiva, l’ex agente del Kgb fattosi Zar è sempre tornato alla grammatica di default: repressione, restringimento progressivo di ogni spazio di libertà, «verticale del potere», mano dura verso gli oppositori. Ombre pesanti, come gli assassinii senza colpevoli di Anna Politovskaja e Boris Nemtsov, ucciso sotto le mura del Cremlino. Fatti provati, come la persecuzione di Aleksej Navalny, il primo dei dissidenti, il cui fallito avvelenamento da parte dei servizi russi nel 2020 ha segnato l’inizio della fase più cupa. Da quel momento, l’eliminazione di ogni attività non in linea con le finalità del Cremlino non ha avuto limiti: organizzazioni umanitarie, accademici, istituzioni come Memorial, il centro che studiava i crimini dello stalinismo, nessuno è sfuggito alla bulimia repressiva di Putin. Un crescendo che ora raggiunge lo zenith con la chiusura degli ultimi giornali e radio indipendenti. D’altronde, è lui stesso ad aver definito «fallita» la democrazia liberale. Voto: 0
Politica estera, voto 4
C’è un prima e un dopo nella politica estera di Putin. C’è il leader filoccidentale vero o presunto dei primi anni, che dichiara al Bundestag di voler avviare un’era di cooperazione con l’Europa, offre agli Usa l’uso delle basi russe per la missione in Afghanistan dopo l’11 settembre, firma a Pratica di Mare l’intesa Nato-Russia, arrivando a teorizzare che un giorno Mosca avrebbe potuto far parte dell’Alleanza. E poi c’è il Putin che nel 2007 alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco attacca l’Occidente, denunciando l’ordine creato dopo la Guerra Fredda, l’uso del potere militare americano in Iraq e soprattutto l’espansione della Nato fino ai confini della Russia. Da quel momento il leader del Cremlino si avvita in una spirale sempre più autoritaria, nazionalista e aggressiva complice lo shock delle primavere arabe dove lui vede un pericoloso esempio di ribellione, rivendicazioni democratiche, caos. Nel 2014 annette la Crimea e viene messo fuori dal G8. Convince i russi che il Paese è accerchiato. Si getta nelle braccia della superpotenza cinese. Lancia una grande campagna di riarmo. Si insinua nelle pieghe del ritiro strategico degli Usa: in Siria e in Libia. Sembra saper calcolare i rischi, scommettere e vincere. Ma il suo cruccio rimane il posto alla tavola dei grandi, il rispetto dovuto ai russi. Biden sembra concederglielo a Ginevra, ma a Putin non basta. Isolato nella bolla imposta dalla pandemia, lo Zar comincia confondere la politica estera con la missione che si è dato. Voto: 4
Politica di potenza, voto 8 e 2
Quando arriva al Cremlino, per prima cosa ripristina l’Inno sovietico, non per il comunismo ma perché evoca la potenza russa, offrendo al popolo un simbolo collettivo forte. Putin vuole rimettere in piedi la Russia, annichilita dalla fine dell’Urss e umiliata dalla colonizzazione degli Anni Novanta. Investe buona parte del reddito nazionale negli armamenti, memore dell’insegnamento di Alessandro III: «La Russia ha due soli alleati: l’esercito e la flotta». Li usa inaugurando una politica di potenza, che vede Mosca tornare a svolgere un ruolo di primo piano in Medio Oriente. Si è dato una missione: unificare il Russkij Mir, il mondo russo separato dalla «più grande tragedia geopolitica del XX secolo». La Crimea è il prologo. Putin vuole ricreare le zone di influenza, con Mosca dominus dello spazio ex sovietico. Ma la richiesta di garanzie di sicurezza, fondata sul piano geopolitico, si scontra con la pretesa di negare a una nazione la libertà di scegliersi la collocazione nel mondo. Putin applica al XXI secolo categorie del Diciannovesimo, quelle del Congresso di Vienna. Sbaglia secolo, insomma. Quando decide, contro i dubbi dei suoi stessi consiglieri, di invadere l’Ucraina, pensa che la Grande Magia sia a portata di mano. Ora rischia di finire come l’apprendista stregone. Eppure, un risultato lo ottiene: è al centro del mondo. Ma è un successo che può essergli fatale. Voto doppio: 8 per essersi fatto ascoltare, 2 per il prezzo che fa pagare al suo Paese.
La storia si ripete. Massimo M. Veronese su Il Giornale il 3 marzo 2022.
Ha minacciato «conseguenze mai sperimentate» per chi si mette in mezzo, ma non è vero. Non è una guerra nuova quella che Putin ha promesso, ma un conflitto antico, il passato che ritorna sulla torretta dello stesso carrarmato. Kiev 2022 è Budapest 1956. Stessa rivolta, stesse scene, stessi invasori. Allora Imre Nagy, il capo della rivoluzione libertaria antisovietica, fu attirato dai russi in un tranello e impiccato. È la fine, dichiarata, che gli eredi dell'Armata Rossa vogliono fare a Volodymyr Zelenskyi, 66 anni dopo.
Le immagini parlano da sole. E raccontano l'angoscia, il dolore, il terrore di quei terribili e interminabili giorni in cui cinquemila carri armati sovietici invasero Budapest e soffocarono nel sangue, quasi tremila morti, la rivolta contro il regime comunista: a combattere anche allora c'erano studenti, operai, donne, intellettuali, sportivi. Sono identiche le ragazze in mimetica dagli occhi grandi, poco più che bambine, che consegnano la vita alla trincea, la gioventù che si sposa alla libertà finchè morte non vi separi; identici i carri armati arrivati da Mosca; identici i palazzi sventrati dalle cannonate; identici i civili che cercano riparo nei bunker con le poche cose rimaste.
Dicono che Putin sia il nuovo Hitler, ma anche questo non è vero. Putin è il nuovo Stalin: è alla sua scuola, non solo filosofica, che l'ultimo tiranno è cresciuto. É il ritratto di Stalin che gli ungheresi bruciano nelle piazze del '56, è il ritratto di Putin quello che oggi viene consegnato alle fiamme. L'Ungheria come l'Ucraina e la Cecoslovacchia del '68, quella di Jan Palach e dei «ragazzi torcia», Josef Hlavaty, Jan Zajíc, Even Plocek, Ryszard Siwiec, fratelli delle 13 guardie di frontiera dell'Isola dei Serpenti e di Vitaly Skakun Volodymyrovych, kamikaze per la Patria. Anche allora l'Occidente restò a guardare.
Indro Montanelli, inviato in Ungheria, trasformò quella rivolta in manifesto: «La Storia non va avanti a forza di saggezza, in nome della quale nessuno ha mai trovato il coraggio di morire. Quel che muove è la pazzia, e mai pazzia fu più sublime di quella degli studenti di Budapest. Nessuna vita d'uomo, per quanto longevo, sarà stata così ricca e piena come quella, spezzata a venti anni, dei ragazzi di Budapest che la lanciarono contro le corazze dei carri armati». Non tutto però resta uguale. Nel centro di Praga non c'è più Piazza Armata Rossa. Adesso quella Piazza si chiama Jan Palach.
Guerra in Ucraina, lo psichiatra: "Putin non si fermerà. Si sente il salvatore della patria". Valeria Pini su La Repubblica il 2 Marzo 2022.
Viaggio nella mente di un dittatore. A pochi giorni dall'inizio del conflitto si moltiplicano i paragoni fra il presidente russo e Adolf Hitler. Ma quali sono i pensieri di un leader abituato a ricevere solo dei 'Sì'?
Da giorni gli sguardi del mondo sono su di lui: Vladimir Putin. Il 'dittatore' russo che ha attaccato l'Ucraina, scatenando un conflitto che provoca morte e disperazione. Si moltiplicano i paragoni con Adolf Hitler o Benito Mussolini. Ma che cosa accade nella mente di un despota? Di un leader abituato a decidere in autonomia ignorando le regole della democrazia? "Chi vive il potere da tempo come lui, mano a mano inizia a pensare che ogni sua azione sia 'giusta' in quanto confermata dal consenso della popolazione.
L'invasione dell'Ucraina. “Putin è paranoico, impazzito e imprevedibile”: le analisi degli 007 sullo stato mentale del Presidente russo. Vito Califano su Il Riformista il 5 Marzo 2022.
Putin non più soltanto il “nuovo Zar”, la spia o il teppistello cresciuto in strada a Leningrando, non più il nostalgico dell’Unione Sovietica. Putin anche irrazionale, paranoico, perfino impazzito animato da un comportamento sospetto. Le intelligence dei Paesi occidentali da giorni si stanno sforzando di valutare lo stato di salute mentale del Presidente della Russia che ormai da nove giorni ha lanciato la sua operazione per “smilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina. La guerra impazza, gli scontri si fanno sempre più duri mentre in negoziati non hanno portato a sostanziali passi avanti. Anche perché Putin non accetta alcun compromesso sulle sue condizioni: riconoscimento della Crimea, neutralità di Kiev fuori dalla Nato, demilitarizzazione dell’Ucraina. Solo ieri ha ribadito che ulteriori sanzioni da parte dell’Occidente non potranno che “esacerbare” la situazione.
Capirci di più, in questa vicenda, è diventata una priorità degli 007 occidentali per prevedere e replicare alle mosse dello “Zar” di Mosca. Si scrive da giorni sui media di come si parli, nelle cancellerie di tutto il mondo, della salute mentale del Presidente russo dopo l’annuncio dell’invasione. Esperti dell’intelligence americana, secondo la CNN, avevano osservato come il comportamento del presidente sia diventato di recente “sempre più imprevedibile, erratico e irrazionale”. Dopo 90 minuti di colloqui con il Presidente della Francia Emmanuel Macron, l’Eliseo ha descritto un Putin molto “determinato” e anticipato che nella guerra in Ucraina “il peggio deve ancora venire”. Al ritorno dalla sua visita a Mosca – quella della fotografia del lunghissimo tavolo cui erano seduti i due presidenti – prima dell’invasione, Macron avrebbe trovato un Putin “più rigido, più isolato” secondo quanto trapelato dalla missione diplomatica.
“Tanti analisti pensano che durante il periodo covid non sia stato circondato da molte persone – il commento di Shane Harris del Washington Post – Sembra anche animato da tanti rancori nei confronti degli Stati Uniti e dell’Ucraina e da una forma di paranoia. Pensano anche che si trovi in una posizione che possa scatenarlo e portarlo ad agire più ferocemente con il suo esercito. Questo nel momento in cui dovesse sentirsi all’angolo e a corto di opzioni”. Secondo il reporter Putin sarebbe al momento circondato da un piccolissimo, strettissimo circolo di consiglieri. Quelli che ascolta di più. “Ogni volta che un leader è circondato da ‘yes man’, l’ambiente può diventare davvero pericoloso”. Prima dell’invasione, gli analisti delle intelligence degli Stati Uniti e del Regno Unito avevano valutato che i consiglieri più alti vicini a Putin non fossero onesti abbastanza su quanto difficile sarebbe stato invadere e conquistare l’Ucraina. “Oggi vediamo queste analisi nei fatti. È molto importante per i decision maker capire quale potrà essere il prossimo passo di Putin in maniera da ribattere alle sue mosse o prepararsi alle stesse”.
“Personalmente penso sia instabile, sono preoccupato per la sua lucidità mentale e il suo equilibrio”, ha osservato l’ex capo della National Intelligence James Clapper. Per l’ex ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca Michael McFaul sarebbe invece “completamente disconnesso dalla realtà. L’ho ascoltato, è sempre più folle nel modo in cui parla“. Per l’ex professore ed ex capo dipartimento del Moscow State Institute of International Relations (Mgimo) Valery Solovei, intervistato dal Daily Mail, Putin potrebbe soffrire di patologie mediche tenute nascoste all’opinione pubblica e che avrebbe nascosto la sua famiglia in un bunker antinucleare di lusso in Siberia. Vladimir Ashurkov, uno dei collaboratori di Alexei Navalny, attualmente detenuto in una colonia penale, ha fatto sapere che pensa che il presidente viva “in una versione di realtà autoindotta, molto revanscista, basata sul passato e sul trauma della dissoluzione dell’Unione sovietica”.
A pensare ai riferimenti alle misure di deterrenza messe in allerta da Mosca per ordine di Putin non può che aggiungersi terrore all’ansia di questi giorni. È però pur vero che Putin aveva già in passato espresso le sue idee sull’Ucraina, sui due popoli come un popolo solo, sulla sostanziale inesistente indipendenza di Kiev. E l’ultima volta l’anno scorso in un saggio pubblicato in estate. È forse che l’Occidente, a prescindere dalle analisi psicologiche a distanza, di Putin – uno dei leader più potenti al mondo, che dopo il referendum dell’anno scorso potrebbe rimanere al potere fino al 2036 – ci ha sempre capito poco. Tanti analisti americani valutano infatti la possibilità che Putin voglia mostrarsi instabile in modo da spingere Stati Uniti e alleati a dargli quello che vuole nel timore che possa fare anche qualcosa di peggio. È la strategia del “madman theory”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Massimo Ammaniti per corriere.it il 2 marzo 2022.
Nel grande salone dell’Ordine di Santa Caterina nel Cremlino, progettato e realizzato dagli Zar per celebrare le glorie dell’Impero Russo, Putin ha riunito qualche giorno fa i capi della sicurezza per riconoscere le nuove Repubbliche ucraine.
È uno scenario agghiacciante, nel grande salone tondo, completamente bianco, ornato di grandi colonne Putin è seduto al centro e intorno a fargli da corona i suoi sottoposti seduti, ognuno distante dall’altro. L‘immagine è irreale, potrebbe quasi ricordare le scene del film muto di Fritz Lang «Metropolis», in cui si rappresentava un mondo assoggettato ad una dittatura del futuro, che si sarebbe imposta nell’anno 2026 non molto lontano dall’oggi.
E come tutti abbiamo visto i suoi funzionari della sicurezza erano seduti cercando di assecondare il monarca, come poi è avvenuto al capo dei servizi segreti Sergei Naryshkin che si dibatteva imbarazzato per cercare di non contraddire quello che il padrone intendeva rivolgendogli degli sguardi tra l’imperativo e l’ironico. E ad un certo punto Putin si è rivolto a loro con una domanda che non richiedeva risposte:«Ci sono punti di vista diversi?».
Colpisce in questo scenario la glacialità dell’incontro, che vorrebbe trasmettere agli spettatori russi, che hanno seguito in televisione le fasi dell’incontro, il senso autocratico di Putin che domina incontrastato la Grande Madre Russia, assoggettata al suo potere.
È un’immagine potente e grandiosa che ai miei occhi di psichiatra rievoca quello che scrisse parecchi decenni fa il sociologo americano Norman Cameron sulle pseudo comunità paranoidi, che vengono immaginate e costruite nella mente di quanti sono affetti dalla paranoia.
Sono mondi mentali abitati dai persecutori che devono essere assoggettati e annichiliti per non rappresentare più una minaccia. Più che stretti collaboratori i capi dei servizi di sicurezza sembrano piuttosto dei «competitor» pericolosi che anche loro devono essere annullati per non contrastare il potere del monarca.
Non è la prima volta che succede nel mondo russo, più volte si è parlato della paranoia di Stalin, che era stata addirittura diagnosticata nel 1927 dal grande neurologo di Pietroburgo Vladimir Bechterev che l’aveva visitato al Cremlino e che poi pagò con la sua vita quella che fu la sua ultima diagnosi.
Non credo che Putin sia mai stato visitato da uno psichiatra, ma colpisce ad esempio il suo atteggiamento freddo e distante nell’intervista rilasciata al regista americano Oliver Stone, anche quando risponde alla domanda che gli viene fatta sulla sua adolescenza, periodo nel quale era un ragazzo di strada in un quartiere degradato.
Lì aveva forgiato il suo carattere calloso e privo di emozioni che viene descritto nei trattati di psichiatria, apprendendo nelle lotte quotidiane le strategie di una cultura antisociale e violenta. Più volte si è espresso con queste parole: «Bisogna colpire per primo», per evitare di dover subire le aggressioni degli altri che ai suoi occhi sono sempre nemici.
Sicuramente nelle strade di Leningrado aveva imparato ben presto a diffidare dei compagni di strada, sempre pronti a tradirti per un pezzo di pane in più. È la stessa strategia che Putin segue ancora oggi nella sua guerra sciagurata in Ucraina, colpire i paesi dell’Occidente prima che possano reagire. Ma aldilà della sua arroganza si coglie in lui una paura profonda e un dubbio che lo tormenta: «Non so se sia vero ma basandomi sul semplice sospetto agirò come se fosse sicuro», parole che Otello continua a ripetere a sé stesso nella tragedia di Shakespeare.
Al Cremlino dal 2000. Chi è Vladimir Putin, la storia della vita del Presidente della Russia che ha invaso l’Ucraina. Vito Califano su Il Riformista il 3 Marzo 2022.
Il Presidente della Russia Vladimir Putin punta a prendere tutta l’Ucraina. Lo ha detto Emmanuel Macron, Presidente della Francia, dopo una telefonata di 90 minuti con il suo omologo russo sul conflitto in corso. “L’operazione speciale è condotta in accordo con i nostri programmi. Stiamo raggiungendo gli obiettivi e avendo successo”, ha detto il Presidente in un messaggio alla televisione russa . Ha assicurato corridoi umanitari, onorato i militari caduti e accusato nazionalisti e mercenari stranieri di utilizzare i civili ucraini come scudi umani. Putin ha lanciato l’operazione per “smilitarizzare” e “denazificare” il Paese una settimana fa. Dallo scorso autunno la Russia aveva spostato circa 200mila uomini a circondare l’Ucraina. Il Presidente ha ordinato di “preparare le forze di deterrenza nucleare dell’esercito russo a un regime speciale di servizio di combattimento”.
La storia è a un bivio, il mondo non è più quello di una settimana fa, scrivono gli osservatori internazionali: potrebbe essere la trasformazione di Putin in un paria internazionale o lo scivolamento del mondo verso posizioni sempre più autoritarie. O entrambe le cose. Putin è tra i leader e i personaggi pubblici più rilevanti e influenti e longevi al mondo. Da decenni ormai. Sulla sua figura sono stati scritti migliaia di libri e girati migliaia di documentari. È puntualmente descritto, sulla base della sua biografia, come un leader autoritario che esercita il suo potere grazie al suo passato da spia, da teppista di strada, da judoka, da politico, da Comandante in Capo, da politico navigato, da funzionario sovietico. Putin è tutto questo, tutto questo insieme, e ancora altro che l’Occidente non è riuscito ancora a cogliere.
La storia di Putin
Di origini modeste, era nato nel 1952 e cresciuto nell’allora Leningrado in una kommunalka(abitazione tipica dell’Unione Sovietica in cui più nuclei familiari condividevano spazi in comune). Il nonno aveva lavorato come cuoco in una dacia per Lenin e Stalin. La madre era operaia e il padre sommergibilista nella marina militare e arruolato in un gruppo di sabotatori. Comunista modello. “Se la rissa è inevitabile, colpisci per primo”, l’insegnamento che apprese da quegli anni crescendo e vivendo per strada. È sempre stato un grande appassionato di sport, judoka di livello.
Si laureò in legge nella stessa San Pietroburgo ed entrò nel KGB. Per i servizi segreti lavorò dal 1985 al 1989, nella Repubblica Democratica Tedesca. Al ritorno in Russia si schierò con l’ala favorevole alla Perestrojka (il complesso di riforme politico-sociali ed economiche nell’URSS a metà degli anni ottanta) e ricoprì diversi incarichi nell’amministrazione municipale di San Pietroburgo retta dal riformista Sobcak. Dal 1996 si trasferì a Mosca ed entrò nello staff del Presidente Boris Eltsin. Dopo essere stato a capo del Consiglio di Sicurezza Federale (ex KGB) e a capo del Consiglio di Sicurezza Russo, assunse la carica di primo ministro nell’agosto del 1999. Divenne ad interim capo dello Stato dopo le dimissioni a sorpresa di Eltsin nella notte di Capodanno.
Alle elezioni del marzo 2000 fu confermato alla guida del Paese con il 53% dei consensi. Puntò al risanamento economico tramite la privatizzazione di importanti imprese statali: ha attuato riforme nell’ambito pensionistico, bancario e fiscale. La sua campagna contro la corruzione ampliò il suo consenso e colpì oligarchi come Berezovskij, Gusinskij e Chodorkovskij. Da un punto di vista geopolitico puntò a riconquistare la posizione di leadership nell’area asiatica ed eurasiatica della Russia. È grazie alla guerra che Putin conquistò il potere. Già da primo ministro aveva dato via libera ai militari di mettere a ferro e fuoco la Cecenia. La sua promessa: “Stanare i terroristi fin nelle latrine”. E così fece, fino a instaurare un regime fantoccio nel Paese, guidato da Ramzan Kadyrov – accusato più volte di torture e omicidi, soprattutto nei confronti di oppositori e omosessuali. Le reazioni agli attentati della scuola di Beslan e del teatro Dubrovka furono furiose. Grozny fu assediata e rasa praticamente al suolo. Le operazioni in Cecenia sono state dichiarate concluse nel 2009: fine della Seconda Guerra cecena.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti da parte dei fondamentalisti islamici Putin sostenne George W. Bush nella lotta al terrorismo internazionale. Si oppose però all’intervento armato della coalizione angloamericana in Iraq contro il regime del dittatore Saddam Hussein – così come alle operazioni contro Muhammar Gheddafi in Libia durante le Primavere Arabe. Alle elezioni del 2004 venne rieletto con il 71,2% delle preferenze sebza una vera opposizione. La sua campagna elettorale puntò sulla lotta al terrorismo e sulla ripresa economica. Divenne il primo presidente russo a recarsi in visita nello stato di Israele nel 2005. Contemporaneamente si dedicò a ricucire i rapporti con gli stati riuniti nella CSI (la Comunità degli Stati Indipendenti erede mai compiuta dell’Unione Sovietica), soprattutto dopo il progressivo allargarsi dell’Unione Europea e della NATO ai Paesi ex socialisti. Quando l’Alleanza annunciò la promessa di voler aprire una strada per l’adesione della Georgia, Putin inviaò truppe in Ossezia e in Abcasia, e riconobbe de repubbliche separatiste.
Alle elezioni del 2008 l’avvicendamento con Dmitrij Medvedev alla guida del Paese. Putin ricoprì la carica di primo ministro pur continuando ad avere un ruolo di primo piano in particolare nella politica estera. Alle presidenziali del 2012 tornò a essere eletto presidente con il 60% delle preferenze come a quelle del 2018. A metà strada, nel 2014, l’esplosione della questione Ucraina. Dopo il progressivo avvicinamento di Kiev all’Occidente (Nato e Unione Europea), la rivoluzione arancione del 2004, le proteste di Euromaidan del 2013 contro la decisione del presidente Viktor Yanukovich di rifiutare un importante patto commerciale con l’Ue – a favore di un prestito russo di 15 miliardi di dollari, la repressione violenta e la fuga del presidente in Russia; Mosca agì militarmente occupando la penisola di Crimea. Contestualmente si mobilitarono i combattenti filorussi nel Donbass che autoproclamarono due sedicenti Repubbliche popolari: quella di Donetsk e quella di Luhansk. Mosca ha sempre negato, nonostante l’evidenza, un intervento diretto nella Regione, come aveva fatto in un primo momento anche in Crimea.
Con l’approvazione tramite referendum del 2020 delle riforme costituzionali è stato annullato il vincolo del secondo mandato presidenziale consecutivo: Putin potrebbe ricandidarsi per altri due mandati e rimanere al potere fino al 2036. L’Occidente accusa Putin di aver esercitato un potere ininterrotto, formato una cosiddetta “democratura”, azzerato le opposizioni, perseguitato le voci di dissenso, avvelenato oppositori, provato a destabilizzare le democrazie occidentali tramite gli apparati informatici – le elezioni del 2016 negli Stati Uniti con la vittoria di Donald Trump restano l’esempio più plastico. La Russia in questi anni è entrata in diversi scenari di guerra, risultando spesso decisiva e ribaltando la sentenza di “potenza regionale” affibbiata da Barack Obama: è successo in Siria, in Libia, in Repubblica Centrafricana, in Mali. Con l’esercito o con la divisione di mercenari Wagner.
La sua ideologia è stata definita imperialista e panslavista. Putin nell’estate del 2021 ha pubblicato un saggio sulla sua idea del legame tra Russia e Ucraina, ovvero della seconda sostanzialmente come parte della prima, un Paese non indipendente, “creato da Lenin” come detto nel messaggio televisivo nel quale ha annunciato il riconoscimento delle autoproclamate e sedicenti Repubbliche separatiste e filo-russe del Donbass. Ai negoziati la Russia chiede la smilitarizzazione e la “denazificazione” dell’Ucraina, la neutralità di Kiev e il riconoscimento della Crimea come parte della Russia. La Russia è stata colpita da pesanti sanzioni da parte dell’Occidente.
La vita priva di Putin
Sulla vita privata di Putin vige una spessa coltre di riservatezza e di mistero. Il Presidente russo ha sposato nel 1983 Ljudmila Skrebneva con cui ha avuto due figlie, Maria Putina e Katerina Putina. Dall’annuncio ufficiale nel 2013 della fine del rapporto con la moglie, gli scoop sul gossip sono stati più unici che rari. Secondo alcuni media locali il Presidente avrebbe avuto una relazione con l’ex ginnasta Alina Kabaeva. La coppia, secondo una notizia lanciata dal giornalista Sergej Kanaeev e mai confermata, avrebbe avuto due gemelli. Putin è anche nonno, i nipoti sono nati nel 2018. Si è molto avvicinato alla Chiesa Ortodossa Russa dopo un incidente che nel 1993 coinvolse la moglie e dopo un incendio che colpì la sua dacia.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Vladimir Putin, l’ex signor nessuno e la lunga guerra contro l’Occidente. Jonathan Littell su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2022.
Tutto iniziò nel 1999 con la Cecenia quando un tale Putin, sconosciuto, venne nominato primo ministro. Poi toccò a Georgia, Crimea, Siria. L’Ucraina rappresenta il momento in cui lo zar ha scoperto tutte le carte.
Ventidue anni or sono, una guerra feroce segnò l’ascesa al potere di Vladimir Putin. Da allora, la guerra è rimasta uno dei suoi principali strumenti, di cui si è servito senza esitazione sin dall’inizio del suo regno. Putin deve la sua esistenza alla guerra; se sopravvive e prospera ancora oggi, lo deve alla guerra. Ma adesso una guerra, ce lo auguriamo, servirà finalmente ad annientarlo.
Nell’agosto del 1999, uno sconosciuto, tale Vladimir Putin, venne nominato primo ministro, quando il suo predecessore si era rifiutato di autorizzare una nuova invasione su vasta scala in Cecenia. Putin, invece, era pronto a farlo, e in cambio dell’appoggio incondizionato dei militari, concesse loro il via libera per mettere a ferro e fuoco il Paese, vendicando così l’umiliante sconfitta subìta nel 1996. La notte del 31 dicembre 1999, un Boris Yeltsin ormai invecchiato e vacillante annunciò le dimissioni, consegnando di fatto la presidenza come un pacco regalo al nuovo arrivato. Nel marzo 2000, con la celebre promessa di «stanare i terroristi fin nelle latrine», Putin fu eletto presidente in pompa magna. E da allora, a parte i quattro anni trascorsi in veste di primo ministro (2008-2012), Putin è rimasto ininterrottamente al timone della Russia.
Tornai in Cecenia come operatore umanitario allo scoppio del secondo conflitto. Nel febbraio del 2000, trascorsi una serata in quella regione in compagnia di Sergey Kovalev, il grande paladino russo dei diritti umani, e gli rivolsi la domanda che era sulle labbra di tutti: chi era questo nuovo presidente sconosciuto? Chi era Putin? Ricordo ancora, a memoria, la risposta di Kovalev: «Giovanotto, vuoi sapere chi è Vladimir Putin? Vladimir Putin è un tenente colonnello del Kgb. E sai chi è un tenente colonnello del Kgb? Un signor nessuno». Kovalev intendeva dire che un uomo fino ad allora incapace di scalare i ranghi dei servizi di sicurezza, e mai approdato al grado di colonnello, doveva essere un agente assai mediocre, incapace di pensiero strategico e di gettare lo sguardo al di là della prima mossa. E mentre Putin, nel corso dei suoi 22 anni al potere, è cresciuto enormemente in esperienza e prestigio, sono tuttora convinto che lo scomparso Kovalev aveva visto giusto.
Sotto il profilo tattico, tuttavia, Putin si è dimostrato da subito assai scaltro, specie quando si tratta di sfruttare le debolezze e le divisioni dell’Occidente. Gli ci sono voluti anni per sconfiggere i ceceni e insediare un regime fantoccio nel Paese, ma ci è riuscito. Nel 2008, quattro mesi dopo l’annuncio della Nato che prometteva di voler aprire una via per l’adesione dell’Ucraina e della Georgia, Putin chiamò a raccolta i suoi eserciti per compiere «manovre» sul confine georgiano e nel giro di cinque giorni invase il Paese, riconoscendo l’indipendenza di due «repubbliche» separatiste. Le democrazie occidentali in quell’occasione si limitarono a brontolare, accennarono qualche protesta e non mossero un dito.
Nel 2014, quando l’Ucraina, dopo una lunga e sanguinosa rivoluzione, riuscì finalmente a rovesciare un presidente filorusso che aveva girato le spalle all’Europa per allinearsi in tutto e per tutto con Mosca, Putin non si lasciò sfuggire l’occasione e con mossa fulminea invase la Crimea, in quella che fu la prima annessione territoriale in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Quando i nostri leader, disorientati e scioccati, reagirono con l’imposizione di sanzioni, Putin alzò la posta in gioco, provocando sommosse e ribellioni nel Donbass, una regione dell’Ucraina a maggioranza etnica russa, servendosi delle sue forze armate per annientare un debole esercito ucraino e ritagliarsi due nuove «repubbliche» separatiste, che da allora sono tormentate da una guerra costante, seppur di bassa intensità.
Così Putin ha dato inizio a quello che i francesi chiamano la sua fuite en avant . Passo dopo passo, l’Occidente lo ha condannato e si è dato da fare per imporre le sue punizioni, adottando misure assai blande e scarsamente efficaci, nella vana speranza di scoraggiarlo. E passo dopo passo, Putin ha rincarato la dose, spingendosi sempre più in avanti.
Fisicamente, Putin è un uomo di bassa statura e certamente gli anni dell’infanzia, trascorsa nella Leningrado post bellica, devono essere stati molto duri per lui. Sicuramente gli hanno insegnato questa lezione: se sei piccolo di statura, colpisci per primo, colpisci forte e continua a colpire. I ragazzi più grandi e grossi impareranno a temerti, e saranno loro a fare un passo indietro. È una lezione che ha imparato a memoria. La spesa militare degli Usa nel 2021 è stata di circa 750 miliardi di dollari, quella complessiva di tutti i paesi europei non è arrivata ai 200 miliardi, e quella della Russia si è attestata intorno ai 65 miliardi di dollari. Eppure, Putin riesce a spaventarci molto di più di quanto non riusciamo a spaventarlo noi. Ha dalla sua il vantaggio di lottare come un topo spinto nell’angolo, non come i nostri ragazzi grassocci e indolenti, allevati a Coca-Cola, Instagram e 80 anni di pace in Europa.
Putin dev’essersi congratulato con se stesso quando Stati Uniti ed Europa, ansiosi di congelare il conflitto che continua ad ardere sotto la cenere nel Donbass, hanno preferito tacere sulla Crimea, sfilandola dai dossier in trattativa e concedendo così alla Russia, a tutti gli effetti, l’annessione illegale della Crimea. Putin ha capito che le sanzioni occidentali, pur causando disagi al suo Paese, non lo colpivano nel vivo, e gli lasciavano lo spazio necessario per rafforzare la sua macchina di guerra e allargare i suoi poteri. Putin ha avuto modo di constatare che la Germania, la prima potenza economica in Europa, era riluttante a rinunciare al gas russo e ai mercati russi per le sue automobili.
Ha capito che poteva comprare i politici europei, compresi due ex primi ministri, uno francese e uno tedesco, per piazzarli nei consigli di amministrazione delle sue società controllate dallo stato. Ha visto che persino le nazioni che alzano la voce per condannarlo si limitano a ripetere il mantra del «reset», della «diplomazia», della «necessità di normalizzare le relazioni». Ha toccato con mano come ogniqualvolta si spingeva oltre, l’Occidente si piegava, per poi ripresentarsi, ossequioso e servile, con la speranza di siglare con la Russia un «accordo» sempre più sfuggente: Barack Obama, Emmanuel Macron, Donald Trump, la lista è lunga.
Putin ha poi cominciato a far fuori i suoi oppositori, in patria e all’estero. Quando è accaduto qui da noi, abbiamo strillato per lo sdegno, ma è finito tutto lì. Quando Obama, nel 2013, ha preferito ignorare cinicamente la «linea rossa» da lui stesso tracciata in Siria, rifiutandosi di intervenire anche dopo che Al-Assad aveva sterminato con i gas tossici gli abitanti di un rione di Damasco, Putin non si è lasciato sfuggire nessun particolare. Nel 2015, ha inviato le sue forze militari in Siria, rafforzato la sua base navale a Tartous e insediato una nuova base aerea a Hmeimin. Nei sette anni successivi, ha usato la Siria come terreno di prova del suo esercito, facendo in modo che i suoi ufficiali accumulassero preziose esperienze sul campo, affinando le tattiche, sviluppando il coordinamento e gli equipaggiamenti, il tutto sulla pelle di migliaia di siriani, bombardati e massacrati senza pietà. Così facendo, ha permesso ad Al-Assad di riprendere il controllo su vasti settori del suo territorio.
Nel gennaio del 2018, Putin ha cominciato a scontrarsi direttamente con le potenze occidentali nella Repubblica Centrafricana, inviando le divisioni Wagner di mercenari. La stessa cosa sta accadendo nel Mali, dove la giunta militare, con il sostegno dei russi, ha estromesso dal paese la missione francese che combatte l’Isis. La Russia è inoltre attivamente coinvolta in Libia, vanificando i tentativi occidentali di riportare la pace in quel paese e schierando le sue forze lungo il perimetro meridionale del Mediterraneo, in posizione ideale per minacciare direttamente gli interessi europei. E ogni volta abbiamo protestato, ci siamo agitati, e non abbiamo fatto nulla. E a ogni nuova occasione, Putin ha diligentemente preso atto dell’accaduto.
L’Ucraina rappresenta il momento in cui Putin ha deciso finalmente di scoprire tutte le sue carte. È chiaramente convinto di essere forte abbastanza per sfidare apertamente l’Occidente, lanciando la prima campagna di invasione di uno stato sovrano in Europa, dal 1945 a oggi. E senza nessuna provocazione. Ed è convinto di avere la vittoria in tasca perché tutto quello che abbiamo fatto, o non abbiamo fatto, negli ultimi 22 anni, gli ha insegnato che siamo deboli.
Sarà pure un genio tattico, Vladimir Putin, ma è incapace di pensare strategicamente. I nostri leader non si sono affatto sforzati di capirlo. Né lui ha mai dimostrato alcuna volontà di capire noi. Completamente isolato negli ultimi due anni a causa della pandemia, Putin appare sempre più ossessionato dalle sue paranoie e intriso della sua ideologia ortodossa, neo imperialista e panslavista, una concezione in origine del tutto artificiosa, sbandierata per stendere un velo di legittimità sul suo regime corrotto.
Putin sembra addirittura credere alla sua stessa propaganda, quando si tratta dell’Ucraina. Credeva davvero che gli ucraini avrebbero accolto i «liberatori» russi a braccia aperte? Che si sarebbero arresi senza colpo ferire? Se così stavano le cose, si è sbagliato di grosso. Gli ucraini combattono, e benché inferiori per numero e armi, combattono con tutta l’anima. Insegnanti, impiegati, casalinghe, artisti, studenti, dj e drag queen, tutti imbracciano i fucili e sparano ai soldati russi, molti dei quali sono semplici ragazzi che non hanno la minima idea di che cosa sono andati a fare in quel posto. L
’Ucraina non cede un centimetro di terreno e ormai pare chiaro che Putin non riuscirà a conquistare le città ucraine senza averle prima rase al suolo, come un tempo non si fece scrupolo di ridurre a un cumulo di macerie Groznyi e Aleppo. Ma non pensate che solo perché Kyiv è una citta «europea», Putin rinuncerà a distruggerla. I bombardamenti sono già in corso.
Dopo lo shock iniziale, le democrazie occidentali — finalmente! — sembrano aver compreso la portata della minaccia esistenziale che Putin rappresenta all’ordine mondiale post bellico, all’Europa, e al nostro «stile di vita», che lui tanto disprezza. Sono state emanate sanzioni devastanti, senza badare al prezzo elevato che le nostre economie dovranno pagare. Armi e munizioni affluiscono nel Paese.
Dalla sera alla mattina, la Germania sembra aver capito di non poter più fare affidamento sulla generosità altrui quando si tratta della propria sicurezza, e che ha bisogno di forze armate proprie, un esercito vero e funzionale. La Russia si ritrova massicciamente isolata a livello internazionale, e la sua economia e le sue potenzialità ne risulteranno pesantemente penalizzate. Ma questo non basta. Fintanto che resterà al potere, Putin continuerà ad accanirsi, a spingersi oltre, e a seminare distruzione e morte sulla sua strada. Perché odia l’Occidente e perché il suo potere si fonda interamente sulla violenza: non sulla semplice minaccia, bensì sull’impiego sistematico della forza. È l’unico comportamento che conosce. Crediamo davvero che la sua minaccia nucleare sia un bluff? Possiamo permettercelo? Fintanto che Putin sarà al timone della Russia, nessuno sarà al sicuro. Nessuno.
L’unico modo per uscire da questa crisi è rendere il fallimento di Putin in Ucraina talmente devastante per la Russia e per i suoi legittimi interessi che la sua stessa élite non avrà altra scelta che quella di sbarazzarsi di lui. A questo scopo, resta ancora molto da fare. I nostri governi si stanno affannando a individuare e colpire gli oligarchi russi, ma non dimentichiamo che Putin non prova altro che disprezzo nei loro confronti e non si cura né della loro opinione né delle loro ricchezze. Ai suoi occhi, gli oligarchi non sono altro che vacche da mungere, a seconda delle sue esigenze. Le sanzioni occidentali devono andare a colpire quelle figure che avallano le sue azioni, vale a dire l’intero apparato amministrativo e di sicurezza.
Non solo quelle poche decine di persone già nel mirino, ma le migliaia di funzionari secondari dell’amministrazione presidenziale, i militari e i servizi di sicurezza. Non si tratta di miliardari, bensì di multi milionari che, questi sì, hanno molto da perdere. Roviniamo la vita di queste poche migliaia di persone, e che giudichino loro con chi prendersela. Confischiamo le ville in Inghilterra e in Spagna, vietiamo le vacanze a Courchevel e in Sardegna, cacciamo via a calci nel sedere e senza tante cerimonie i loro rampolli dalle università di Harvard, Yale e Oxford, e che se ne stiano in Russia, senza poter uscire dal paese e senza poter spendere i loro soldi, frutto di traffici illeciti, per comprare beni di lusso importati. Andiamo a colpirli nel punto più sensibile, dove duole di più, e vediamo se continueranno a credere che vale ancora la pena mantenere sul trono uno zar squilibrato e assetato di potere. Che siano loro stessi a decidere se vogliono seguirlo nel baratro.
Negli ultimi 22 anni la Russia è stata ostaggio di un regime pazzo, corrotto e totalitario, che per molti versi è stato facilitato da noi occidentali. Ma la Russia è un grande Paese, un Paese che ho amato profondamente e che ha prodotto uomini e donne meravigliosi, giusti e ricchi di umanità. È un Paese che merita molto di più di una manica di ladri che ha razziato le sue ricchezze per inseguire fatue illusioni di glorie imperiali, mentre devastava le nazioni confinanti per mantenere la presa sul potere assoluto.
La Russia merita la libertà, la stessa libertà che l’Ucraina ha saputo conquistarsi dolorosamente negli ultimi decenni. Un cessate il fuoco in Ucraina rappresenta il primo passo vitale e urgente, e il secondo sarà il ritiro completo delle truppe russe. Ma subito dopo, sarà Putin ad andarsene.
I GRECI CI PARLANO DI VLADIMIR PUTIN. Dai greci a Putin, quella pulsione esistenziale che ci porta alla guerra sempre. BRUNO GIURATO su Il Domani il 02 marzo 2022
«La guerra è finita», dice Primo Levi ne La tregua. «Guerra è sempre», risponde il mercante ebreo di Salonicco, Mordo Nahum.
«Guerra è sempre», anche se in Europa per decenni ci si è illusi che non fosse più. I conflitti che hanno bordeggiato il subcontinente erano percepiti come periferici, sia che lo fossero davvero, come le guerre nel vicino oriente, sia che non lo fossero affatto, come il conflitto nella ex Jugoslavia.
Con l’aggressione di Putin all’Ucraina partecipiamo a un terribile ritorno della storia. Ares, il dio greco della violenza, è al lavoro quando l’inumano della guerra è al suo culmine, quando il sangue dei combattenti si fa terra.
BRUNO GIURATO. Laurea in estetica. Ha scritto per Il Foglio, Il Giornale, Vanity Fair e altri. Ha lavorato a Linkiesta.it e al giornaleoff.it. Ha realizzato trasmissioni di cultura e geopolitica per La7 e Raidue. È anche musicista (chitarrista) e produttore di alcuni dischi di world music.
"Putin perso in un labirinto di provocazioni". Angelo Allegri il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il docente di storia militare: "Neanche gli ufficiali Nato capiscono cosa voglia fare". «C'è una cosa che mi inquieta. Ho appena parlato con due alti ufficiali della Nato e nemmeno loro si raccapezzano. Ho chiesto: secondo voi che cosa vuole davvero Putin? Nemmeno loro ne hanno un'idea precisa e realistica». Gastone Breccia, è docente di storia militare antica all'Università di Pavia e ha scritto libri come il recente «Missione fallita. La sconfitta dell'Occidente in Afghanistan» (il Mulino). «Non entrare nella testa del tuo avversario è un problema», dice. «Ma la realtà è che lo zar stesso si è perso nel suo labirinto di provocazioni e aggressioni».
A proposito di obiettivi. Lei che idea si è fatta?
«Si possono fare delle ipotesi. La prima: i russi si fermano al Dniepr, lasciano l'Ucraina occidentale a un governo Zelenski in ritirata a Leopoli, prendono la costa e la parte orientale e la affidano a un governo fantoccio. La seconda: si prendono tutto il Paese. La spartizione sembra più probabile, visto che un'avanzata a Ovest finirebbe per provocare da parte della Nato la proclamazione di una «no fly zone» nella zona occidentale per proteggere i profughi, che a quel punto aumenterebbero ancora. La situazione diventerebbe caldissima con i polacchi che difficilmente accetterebbero l'avvicinamento di truppe russe e con le unità ucraine rimaste attive che potrebbero ricompattarsi all'Ovest».
E delle operazioni militari in corso cosa dice?
«Da parte russa c'è stata evidentemente una sottovalutazione iniziale. Pensavano che la popolazione non reagisse, governo ed esercito si squagliassero. Forse per questo hanno inviato truppe non di punta e hanno usato una tattica che in inglese si definisce «thunder-run», letteralmente corsa di tuono: raid veloci in profondità con lo scopo di destabilizzare la resistenza nemica pensando che questa si sfaldi. E invece non è successo. Non hanno usato la loro grande potenza di fuoco perchè pensavano di non averne bisogno e volevano presentarsi come, liberatori e non invasori. Adesso, però, sono guai.
In che senso?
«Quando ci si trova di fronte a un centro abitato presidiato e difeso la dottrina di impiego russa prevede di raderlo al suolo usando l'artiglieria in un modo che può rivelarsi devastante. Le avvisaglie si vedono già».
Negli ultimi anni si era parlato molto della modernizzazione dell'esercito russo, che però non sembra aver dato una grande prova.
«È da vedere se questa impressione dipende da cattiva organizzazione o da cattivo impiego tattico. Anche la migliore legione romana se impiegata male non rendeva».
In pratica?
«Un esempio: le prime colonne russe sono state mandate avanti a piccoli gruppi, a livello di compagnia non di battaglione. Ma una compagnia ha possibilità operative scarse se trova resistenza organizzata. L'intera struttura logistica era tarata su questo approccio e per questo si sono trovati in difficoltà. Un carro armato consuma una data quantità di carburante se procede su un tranquillo percorso stradale, tutt'altra quantità se deve manovrare durante combattimenti duri. Moltiplichi il singolo problema per 100 o mille e vede le difficoltà».
E l'esercito ucraino?
«La maggior preparazione rispetto a un tempo si è vista. Hanno pesato due fattori esterni. Il primo: la Nato sta fornendo agli ucraini una serie di informazioni fondamentali come gli spostamenti delle truppe russe tenute d'occhio grazie ai satelliti spia. Non si può dire ufficialmente ma è così. In più negli ultimi anni gli ucraini hanno acquistato armi migliori e hanno utilizzato la guerra nel Donbass come campo d'addestramento per far acquisire alle truppe esperienza di combattimento».
LA TESTIMONIANZA. «Io, georgiana, ho vissuto sulla mia pelle la brutalità della guerra scatenata dalla Russia di Putin». Chiara Sgreccia su L'Espresso il 28 febbraio 2022.
Nina viveva in Ossezia quando c’è stata l’invasione armata. «Prima dicevano non ci sarebbe stata alcuna guerra. E poi nessuno ci ha aiutato davanti ai soldati russi. Erano come bestie».
Era notte quando Nina ha sentito un rumore assordante e ha visto il cielo brillare. Era in vacanza con la figlia e alcuni amici, nella casa in campagna di famiglia, nei dintorni di Gori, la città di Stalin, a meno di cinquanta chilometri da Tskhinvali, la capitale non riconosciuta della Repubblica dell’Ossezia del Sud. La regione nel Caucaso che si è autoproclamata indipendente dalla Georgia nel 1991 ma di cui nè le Nazioni Unite, nè l’Unione europea riconoscono la sovranità. La Russia sì.
«“È scoppiata la guerra”. A quel tempo mia sorella lavorava per il primo canale georgiano, 1TV, mi ha telefonato immediatamente. Ci siamo nascosti in cantina, accanto alle bottiglie di vino. Era buio, ero terrorizzata, stringevo mia figlia che aveva solo due anni. Mio padre è arrivato poche ore dopo con un grande furgone. Conosceva tutti e ha caricato anche gli altri bambini e le donne che vivevano nei dintorni. Ci siamo diretti a Tbilisi (la capitale della Giorgia ndr). Qualche ora dopo, la strada che avevamo percorso non esisteva più. Bombardata». Nina non riusciva a credere a quello che stava succedendo. Racconta che all’improvviso è passata dal vivere una vita normale, come quella che fa adesso in Italia tutti i giorni, al sentirsi la protagonista di un film terrificante. Temeva che i russi avrebbero raggiunto anche la capitale. Non c’era più un luogo che potesse essere considerato sicuro.
«Ci dicevano tutti che la guerra non sarebbe scoppiata, la tv, i giornali. Gli Stati Uniti e l’Unione europea sostenevano di essere dalla nostra parte, che ci avrebbero aiutati, invece è stato un massacro». Nella notte tra il 7 e l’8 agosto del 2008 le forze armate della Federazione russa, che erano già entrate in Georgia, hanno attaccato l’esercito nazionale che si trovava in Ossezia del Sud per fermare l’offensiva dei separatisti. Così è iniziata quella che viene definita la prima guerra europea del ventunesimo secolo.
Emblematica, secondo molti, della strategia della Russia per mantenere il controllo sulle repubbliche ex sovietiche dopo la dissoluzione dell’Urss. Che consiste nell’abbracciare le istanze separatiste e sostenerle a livello sia militare sia economico per destabilizzare la politica interna e accrescere l’influenza. È successo così quando nel 2014, dopo tre mesi di tensione, i russi sono entrati nella penisola di Crimea per annetterla alla Federazione di Vladimir Putin, presidente dal 2012, oggi al suo quarto mandato. Ed è quello che sta succedendo adesso: l’invasione dell’Ucraina è iniziata subito dopo il riconoscimento da parte del leader russo dell’indipendenza delle repubbliche separatiste del Donbass, Lugansk e Donetsk. Anche se da mesi il suo esercito assediava i confini dello stato del presiedente Zelensky, pochi prevedevano che la guerra sarebbe scoppiata davvero.
«Mio padre ci ha lasciati a Tbilisi ed è subito ripartito per Tskhinvali, per fermare i russi. - continua a raccontare Nina- Aveva già combattuto nella guerra in Abkhazia (la guerra georgiano- abcasa è un conflitto che si è svolto in Georgia tra il 1991 e il 1993, seguito alla autoproclamazione della Repubblica dell’Abkhazia sostenuta dai russi, ndr). Per mesi l’avevamo creduto disperso, finché un giorno, senza preavviso, è rientrato a casa. Avevo avuto così tanta paura quella volta che non volevo ripartisse più. Ma non ho potuto fargli cambiare idea». Come il padre di Nina sono stati tantissimi gli uomini chiamati alle armi per difendere la Georgia dall’invasione. «Svegliati in piena notte e invitati a partire. Dicevano loro di prendere un'arma e combattere ma chi veniva trovato armato dai russi era il primo a morire». Nina non riesce a cancellare l’immagine della disperazione di una cara amica della madre. E le sue urla. Il figlio, di appena vent’anni, era stato chiamato a combattere. Neanche mezza giornata dopo è arrivata la notizia della sua morte.
La guerra del 2008 si è conclusa con il riconoscimento da parte della Russia dell’indipendenza dell’Ossezia del Sud e quella dell’Abkhazia, un’area ricca di risorse minerarie situata in Georgia, sul Mar Nero. E con l’occupazione di circa un quinto del territorio nazionale georgiano da parte delle truppe russe. Da allora, nonostante la Georgia possa ancora essere considerato un fragile baluardo di democrazia nell’area del Caucaso, le sue ambizioni filoccidentali ed europeiste, e le speranze di aderire alla Nato, si sono affievolite. Mentre sono cresciuti i contatti con la Federazione russa che stanno destabilizzando la politica interna e che nel 2021 hanno portato all’arresto di Nika Melia, l’unico oppositore del partito “Sogno Georgiano” che è al potere dal 2012 ed è stato fondato dall’ex primo ministro Boris “Bidzina” Ivanishvili, imprenditore accusato di perseguire gli interessi di Mosca. Melia a maggio 2021 è tornato libero grazie all’intervento dell’Unione europea.
«Appena ho sentito la notizia dell’invasione russa dell’Ucraina ho perso il fiato. È tornato tutto il dolore. La memoria della violenza. I soldati russi quella volta si sono comportati come bestie» racconta ancora Nina. Non smette di parlare anche se ha la voce flebile, provata dai ricordi. «Sono morte tantissime persone. E nessuno ci ha aiutati, la Georgia è stata abbandonata. Se non fosse stato per il coraggio di mio padre che è venuto a prendermi, probabilmente sarei morta anche io. Non riesco a credere che ancora oggi non ci sia nessuno in grado di fermare Putin».
L’eco della guerra del 2008 oggi risuona forte nei ricordi di tanti. Anche degli ucraini. Che si sentono abbandonati da un Occidente che aveva promesso loro garanzie di sicurezza mentre tentavano di costruire uno stato democratico, europeo. Forse, «se l'Occidente avesse risposto con una reazione molto forte contro la Russia che invadeva la Georgia nel 2008, non avremmo avuto l'altra invasione dell'Ucraina nel 2014, e quello che sta accadendo oggi non si sarebbe mai verificato» ha dichiarato la deputata ucraina Lisa Yasko al Washington Post, dopo essersi svegliata, lo scorso giovedì mattina, con il rumore delle esplosioni che devastavano Kiev.
Tremate, tremate. Le streghe son tornate su Instagram per fare l’incantesimo a Putin. Guia Soncini su Linkiesta il 2 Marzo 2022.
Sofia Righetti, 40mila follower, prepara pozioni magiche e rituali per maledire il boss del Cremlino, fermare la guerra e salvare l’Ucraina.
Vi farà piacere sapere che le elezioni americane del 2020 sono state una formalità. Non perché qualcuno l’abbia sconfitta andando a votare, infatti, è finita la presidenza Trump, ma per stregoneria. Non nel senso lato di «avvenimento inspiegabile», ma proprio in quello letterale: «centinaia di streghe» (qualunque cosa esse siano: vale ancora la definizione di tizia che se la butti in acqua non affoga?) «in tutto il mondo hanno compiuto il rituale per fermare Trump dalla sua ascesa razzista, omofoba, sessista, abilista e misogina».
Apprendo questo incontrovertibile dato di realtà dall’archivio dell’Instagram di Sofia Righetti, biondina trentaquattrenne con anello al naso (non nel senso lato di «intellettualmente inadeguata»: ha proprio un anello a una narice, lo so che a voi giovani pare normale ma io ho la mia età).
La ragione per cui sono andata sull’Instagram di questa giovane signora sta nei filmati che ha pubblicato lunedì sera, ormai sono scaduti ma li ho trascritti acciocché non ve li perdiate.
Procediamo.
«Ciao a tutti»: Righetti non pronuncia le finali, vuole includervi nella soluzione del conflitto ucraino quale che sia lo stato – fluido, gassoso, solido – in cui vi percepite.
«Sarò brevissima: sto scrivendo e traducendo dei rituali per l’Ucraina e per maledire Putin». Era da Cloris Brosca che la stregoneria non entrava nella mia quotidianità. Se non sapete cosa sia la luna nera, siete troppo giovani per leggere qui – ma probabilmente abbastanza giovani per sentirvi rappresentati da Righetti.
I rituali sono da fare oggi, mercoledì, con la luna nuova (mentre voi perdete tempo a leggere qui, invece che a fare incantesimi). Righetti ci spiega che il rituale l’ha concepito tal Michael Hughes, e qui l’affare si fa misterioso. Il MH che linka lei mi pare proprio un uomo (può un uomo essere strega?) e ha mille miseri follower: che stregone sei se neanche racimoli cuoricini?
Google mi dà due Michael Hughes, entrambi promettenti: un serial killer, e uno morto due anni fa nello schianto d’un razzo da lui stesso progettato.
Comunque Righetti vi dice di usare il rituale di Hughes se non avete soldi; se invece lo volete sempre tradotto da lei, sta sul suo Patreon (un sito di raccolta fondi) a un euro. Una volta i «che c’hai un euro» servivano a comprarsi la droga, adesso a giocare alla piccola strega antiputiniana.
«Cosa importante: non serve essere streghe, per agire in questo momento, per canalizzare le energie, per proteggere la popolazione ucraina e per fare qualcosa per fermare quel – non so neanche come definirlo – di Putin. Quindi, qualsiasi sia la vostra fede religiosa, la vostra spiritualità eccetera eccetera: fa lo stesso». We are the world, we are the incantesimi, we are Amelia la strega che ammalia.
«Quello che possiamo fare da qua: o donazioni per l’Ucraina, o dirigere i nostri intenti e le nostre energie per fermare quella che potrebbe essere la terza guerra mondiale». Si inizia coi «se vuoi, puoi» dei manuali di autoaiuto, e si finisce così: che, se ti concentri moltissimo, Putin si congela come lui fosse Merlino, e tu Maga Magò.
Nelle ore successive, Righetti apre un box domande con cui si generosamente offre di spiegarci la stregoneria e come essa porterà la pace. La domanda in grafica è: «Domande su Incantesimi per l’Ucraina e contro Putin» (incantesimi maiuscolo nell’originale). Le chiedono se ci si può fare il rituale a casa propria (vi prego di notare la mia continenza nel non schiacciare battute facilissime sull’onanismo stregonesco), e lei risponde «Puoi farlo assolutamente da sol», sempre eliminando le finali in nome dell’inclusione. «Puoi farlo in qualunque giorno della settimana, quando te la senti: l’importante è l’intento». La stregoneria come l’asilo montessoriano.
Ieri, Righetti elimina il box domande e anche le risposte che aveva dato, comunicandoci attonita che gente brutta e cattiva le ha scritto orrendità quali «Ma ti pare normale?». Tu offri della stregoneria a prezzi politici, e ’sti ingrati ti sbeffeggiano.
Se vi chiedete chi sia Sofia Righetti, perché più di quarantamila persone la seguano su Instagram, e cosa c’entri il ragionamento di ieri sulla gestazione per altri, la risposta è: identitarismo.
A un certo punto s’è deciso che quel che eri contava più di quel che sapevi, che potevi parlare d’aborto solo se avevi un utero, non se avevi studiato bioetica e altre amenità (Righetti in bio è «filosofa», come ogni laureato in filosofia che non abbia minimamente influito sulla storia del pensiero: quelli che vanno al fronte a raccontar la guerra fanno lo stesso lavoro di quelli che intervistano gli attori, perché mai quelli che insegnano Platone ai vostri figli non dovrebbero essere filosofi tanto quanto Hegel?).
E quindi di disabilità puoi parlare non se hai delle cose intelligenti da dire, ma se non ti funzionano le gambe. Sfiga in nome della quale Righetti è acclamata pensatrice di riferimento di quel settore.
L’anno scorso s’indignò alla scoperta che esistono installazioni artistiche permanenti inagibili per i disabili. Pretendeva che un’installazione – in doppiaggese: un’opera site specific – fosse messa a norma, come fosse l’ingresso a un ministero. L’artista, Niki de Saint Phalle, è morta lasciando disposizioni di non toccare l’opera, ma che cosa sono le disposizioni testamentarie d’un’artista di fronti ai cuoricini che può prendere Righetti su Instagram.
Naturalmente è complicato dire a una disabile che vuole visitare un’opera che la sua è una richiesta cretina e arrogante: ci vergogniamo tutti della nostra fortuna e delle molte cose che diamo per scontate, di fronte alla vita di una cui non funzionano le gambe. Bisognerebbe chiedersi se proprio non esista una modalità intermedia tra il rifiutarsi di ascoltarla e il piegarsi al nostro senso di colpa e fingere di trovare intelligenti richieste sceme.
Bisognerebbe fare molte cose che non faremmo, tra cui fermare la guerra con un sim salabim. Ma una cosa piccola possiamo farla: ricordare che l’installazione in cui voleva entrare Righetti si chiama “Il giardino dei tarocchi”. La vita è sceneggiatrice. E ora scusate: ho una pozione da preparare, Putin trema.
(ANSA l'1 marzo 2022) - L'intelligence americana ritiene una priorità valutare lo 'stato mentale' di Vladimir Putin per capire come potrebbe influenzarlo nelle sue decisioni per l'Ucraina. Secondo quanto riportato da Cnn, gli esperti hanno osservato come il comportamento del presidente sia diventato di recente "sempre più imprevedibile, erratico e irrazionale". Da qui gli sforzi dell'intelligence americana nel cercare di raccogliere più informazioni per capire come ha reagito alla dura risposta dell'Occidente.
Da leggo.it l'1 marzo 2022.
Vladimir Putin avrebbe perso il contatto con la realtà, e la colpa potrebbe essere degli effetti collaterali da Long Covid. È l'incredibile ipotesi su cui stanno ragionando le principali agenzie di intelligence degli Stati Uniti.
Vladimir Putin, tutte le mosse insensate
Le motivazioni che porterebbero a questa ipotesi, al momento un po' azzardata e senza conferme, sono sotto gli occhi di tutto il mondo. Vladimir Putin, infatti, da giorni (se non da settimane) ha scelto la linea dura anche oltre ogni ragionevolezza.
Prima le minacce continue all'Occidente (definito poche ore fa «una fabbrica di menzogne» e «impero delle bugie»), poi la messa in stato di allerta della forza di dissuasione russa che include anche le armi nucleari, ma anche le dichiarazioni sull'Ucraina «paese da denazificare» e addirittura il rimprovero ufficiale a Sergey Naryshkin, direttore dell'intelligence estera di Mosca, che aveva sostenuto la strada del dialogo. Per la Nato, così come per gli Stati Uniti e per l'Europa, Vladimir Putin avrebbe perso la lucidità che lo ha sempre contraddistinto.
Vladimir Putin, l'ipotesi della nebbia mentale da Long Covid
Come scrive Michela Allegri per Il Messaggero, c'è chi imputa le ultime, folli scelte di Putin alla pandemia. Il presidente russo è stato a lungo in isolamento dopo la positività di alcuni stretti collaboratori, per timore di essere contagiato, e questo potrebbe aver influenzato il suo senso della realtà.
C'è però chi va oltre, come la giornalista scientifica Laurie Garrett (vincitrice del Pulitzer): «Vladimir Putin è chiaramente affetto da un delirio d'onnipotenza, è incapace di ragionare e di soppesare i rischi di ogni azione, potrebbero essere gli effetti del Long Covid».
L'impatto del Covid potrebbe aver debilitato la salute fisica e mentale di Putin e le ultime decisioni, troppo avventate rispetto a quelle prese sin da quando era sceso in politica, potrebbero essere influenzate dalla 'nebbia mentale' che ne avrebbe compromesso le funzioni cognitive.
Laurie Garrett, che fa parte del Council on Foreign Relations, è considerata una voce autorevolissima e per questo l'ipotesi non viene scartata dagli 007 Usa. Dalla Russia, molti hanno riferito che negli ultimi mesi Vladimir Putin è apparso «spento e sfasato» nei comportamenti e nelle dichiarazioni.
Vladimir Putin, l'altra ipotesi: la teoria del pazzo
C'è però poi un'altra ipotesi, di segno completamente opposto: l'intelligence degli Stati Uniti teme che il comportamento a tratti incomprensibile di Vladimir Putin possa essere un bluff per confondere e sconcertare l'Occidente.
Si tratterebbe della cosiddetta 'teoria del pazzo', dinamica di politica estera che consiste nello spaventare i nemici sostenendo di essere pronti ad attaccarli con condotte scellerate.
«Non sarebbe la prima volta che, nelle relazioni internazionali, qualcuno cerchi di apparire intenzionalmente irrazionale, in modo da costringere l'avversario alla cautela. Se questo è ciò che sta facendo Putin, allora è spaventosamente bravo a farlo», spiega Michael A. Horowitz, analista della sicurezza presso il Beck Institute.
Una cosa è certa: che siano intenzionali o no, le mosse di Vladimir Putin hanno già spiazzato l'Occidente. La maggior parte degli analisti occidentali riteneva infatti che il presidente russo stesse bluffando con la minaccia dell'invasione dell'Ucraina. Una tesi drammaticamente sbagliata.
DiMartedì, Evelina Christillin e la rivelazione su Putin: "Cosa disse a me e all'avvocato Agnelli. Ero intimidita. Libero Quotidiano il 02 marzo 2022.
"Il presidente Putin mi disse: io riesco sempre". Evelina Christillin, dirigente italiana della Fifa e protagonista della diplomazia sportiva italiana, in collegamento con Giovanni Floris a DiMartedì su La7 interrompe l'ambasciatore Giampiero Massolo per rivelare un aneddoto su Vladimir Putin che spiega in maniera illuminante, e inquietante, la "psicologia" che ha portato la Russia in guerra in Ucraina e il mondo sull'orlo del precipizio nucleare.
"Nel 2001 ero a Sankt Anton per i mondiali di sci, organizzavamo le Olimpiadi invernali di Torino ed eravamo già in fase di comitato organizzatore. Pirmin Zurbriggen, ex sciatore svizzero e mio grande amico, mi disse. 'Ci sarebbe un signore che domani vorrebbe venire a sciare con noi e Toni Sailer'". Quel signore era proprio Putin: "Voleva parlare con me per capire come agire per candidare Sochi e la Russia alle Olimpiadi invernali del 2014. Io ero emozionata da una parte e consapevole che non dovevo dire stupidaggini".
La Christillin prosegue: "Pochi mesi dopo l'avvocato Agnelli venne a Mosca per il passaggio di consegne alla presidenza del Cio e Putin invitò l'avvocato, la sottoscritta e altri dirigenti del Comitato olimpico internazionale al Cremlino. Il presidente si ricordò di quella sciata e mi disse: 'Io ce la farò'. Poi quando l'ho incontrato nel 2018 a Mosca per i Mondiali di calcio si ricordava ancora di quella storia e mi disse: 'In qualche modo ci riesco sempre'. Io ero un po', insomma... intimidita". E le facce di Floris e di Massolo dicono molto del senso di terrore che circonda le manovre militari di Putin.
(ANSA il 10 agosto 2022) - La ex moglie di Vladimir Putin, Lyudmila, e suo marito Artur Otscheretny, di 20 anni più giovane, viaggerebbero nel lusso in tutta Europa evitando qualsiasi sanzione. Lo scrive la tedesca Bild, citando le ricerche dell'attivista Maria Pevchikh, collaboratrice del dissidente russo Alex Navalny.
Il giornale presenta un elenco delle proprietà di lusso della coppia: appartamenti e ville milionarie a Biarritz, Davos e Marbella. Tutti i possedimenti sarebbero a nome di Otscheretny e il sospetto è che possa averli ricevuti dall'ex moglie di Putin per evitare di incorrere in potenziali sanzioni. Al momento la donna è solo sulla lista delle sanzioni nel Regno Unito. Bild cita quindi l'appello di Pevchikh: "congelate immediatamente le proprietà della famiglia Otscheretny e indagate sull'origine del denaro!"
Il politologo a valanga su Putin: le figlie nascoste nel bunker, la malattia e i riti con sacrifici. Interrogato per 7 ore. Il Tempo il 02 marzo 2022.
Il presidente russo Vladimir Putin avrebbe "nascosto la sua famiglia in un bunker di lusso in Siberia". La rivelazione riportata dal Daily Mail è attribuita a Valery Solovey, ex professore del Moscow State Institute of International Relations (Mgimo), considerato da Mosca "un imbroglione" e in realtà con una reputazione controversa anche fuori dalla Russia. Seppur la settimana scorsa è stato interrogato per sette ore dalle autorità russe circa le sue affermazioni sulle condizioni dello Zar che secondo l'ex docente soffrirebbe di patologie mediche tenute nascoste all'opinione pubblica e rivelando che parteciperebbe a rituali sciamanici - con sacrifici animali, di un lupo nero per la precisione - assieme al ministro della Difesa, Sergey Shoigu.
“Un violentatore”, l'invasione dell'Ucraina un'erezione per Putin. L'accusa choc: l'Europa ha fatto finta di non vedere
Il nascondiglio dove Putin avrebbe nascosto la famiglia - due le figlie note, avute dal matrimonio con Lyudmila, morta nel 2013: Maria Vorontsova, genetista di 36 anni e la 35enne Katerina Tikhonova, ex ballerina acrobatica di 35 anni - sarebbe in una sorta di città sotterranea super-tecnologica nelle montagne dell'Altaj. Le speculazioni sulle affermazioni di Solovey si sprecano, nella zona d'ombra tra potenziali fake news difficilmente verificabili, propaganda e messaggi subliminali rivolti all'Occidente sulla concretezza della minaccia nucleare del Cremlino.
Oltre alle due "ufficiali", ci sarebbero altri figli segreti dello Zar secondo i gossip del ventennio al potere dell'ex capo del Kgb. La più "famosa" si chiama Luiza Rozova, 18 anni, nota anche col nome di Elizaveta Krivonogikh e nata da una precedente relazione tra Putin e una donna delle pulizie.
Alessio Esposito da ilmessaggero.it il 24 marzo 2022.
Maria Vorontsova è la prima figlia di Vladimir Putin. Nata nel 1985 - quando l'attuale presidente russo era una spia del Kgb - di professione fa il medico, endocrinologa pediatrica, ed è impegnata nell'ambito delle malattie genetiche nei bambini.
Da alcuni anni è sposata con l'imprenditore olandese Jorrit Faassen, con cui vive una vita extra-lusso fra Amsterdam e Mosca. Tutto questo fino allo scoppio della guerra in Ucraina.
Secondo Sergey Kanev, giornalista investigativo russo in esilio, Maria Vorontsova e Jorrit Faassen starebbero per divorziare. Un rapporto finito proprio in concomitanza del conflitto in terra ucraina e, guarda caso, delle sanzioni occidentali nei confronti della Russia.
Ma a naufragare non sarebbe stato solo il matrimonio, bensì anche l'ambizioso progetto della coppia: quello di aprire una clinica di lusso per milionari stranieri a Mosca.
«Il piano era quello di attirare pazienti dall'Europa e ricchi sceicchi dai paesi del Golfo Persico. E ora, dopo l'attacco all'Ucraina, che tipo di europei e sceicchi verranno?», ha detto il giornalista russo sui social. Non è chiaro, tuttavia, se la separazione fra i due sia avvenuta prima o dopo lo scoppio della guerra.
Chi è Maria Vorontsova
La prima figlia di Putin si chiama Maria Vladimirovna Putina, ma è conosciuta anche come Maria Faassen e Maria Vontsova (cognome della nonna). Ha 36 anni ed è nata dal primo matrimonio dello "Zar" con Lyudmila Putina.
Ha trascorso l'infanzia nella Germania Est e l'adolescenza a Mosca. Dopo una prima laurea in biologia all'Università statale di San Pietroburgo, Maria Vorontsova si laurea in medicina a Mosca, diventando un endocrinologo pediatrico. Attualmente è considerata uno dei massimi esperti russi di malattie genetiche rare infantili.
Putin, ecco la figlia segreta avuta con l'ex colf: la foto, una somiglianza pazzesca. Libero Quotidiano l'08 marzo 2022
Oltre le due figlie nate dal matrimonio con Lyudmila Putina, Vladimir Putin avrebbe altre discendenti. Una di queste però non è stata riconosciuta. Si tratta di Luiza Rozova, influencer russa di 18 anni. Per molti la ragazza sarebbe figlia dello zar e di Svetlana Krivonogikh. La signora, oggi 45enne, è stata per anni donna delle pulizie prima di diventare multimilionaria. Attualmente Svetlana è co-proprietaria di un'importante banca russa e una delle donne più ricche del paese.
Putin ha sempre negato un'eventuale relazione, mentre Svetlana non ha mai commentato i numerosi rumors. La stessa Luiza, intervistata da una testata russa, aveva ammesso di assomigliare al presidente da giovane. Nonostante gli 84.000 follower su Instagram, Luiza 5 mesi fa ha deciso di smettere di pubblicare contenuti.
Non solo, perché il suo profilo è stato chiuso di punto in bianco la scorsa settimana, dopo che la ragazza è stata presa di mira sui social. "Sei figlia di un assassino, criminale di guerra, psicopatico e drogato" sono stati solo alcuni dei commenti piovuto sotto il profilo della studentessa di San Pietroburgo. In molti le hanno anche chiesto di prendere posizione contro l'invasione russa in Ucraina, ma Luiza ha preferito evitare di commentare.
Da lastampa.it il 6 aprile 2022.
L’Unione europea pensa anche alle figlie di Vladimir Putin che potrebbero finire nella prossima lista di sanzionati, il quinto pacchetto di misure previsto dall’Ue. Motivo: una reazione ai crimini di guerra commessi a Bucha.
Katerina Tikhonova, 35 anni, e Mariya Vorontsova, 36 anni, sono infatti nell'ultima bozza dell'elenco di obiettivi dell'Ue, tra i quali ci sono oligarchi, politici e alcuni tra coloro che sono nell'entourage di Putin. A scriverlo e ad anticiparlo è il Wsj.
Si sa molto poco delle vite personali di Tikhonova e Vorontosva, frutto del matrimonio del capo del Cremlino con Lyudmila Shkrebneva. Secondo quanto riportato dal tabloid statunitense una volta arrivato il via libera degli ambasciatori Ue, «le due donne dovrebbero essere soggetti a congelamento dei beni e divieti di viaggio in tutto il continente». L'elenco, tuttavia, non è definitivo e potrebbe ancora cambiare prima di entrare in vigore.
Il Wall Street Journal cita come fonti diplomatici a conoscenza del dossier. Secondo i diplomatici – scrive il WJS - che avrebbero visionato il dossier questa si tratterebbe di «una mossa che aggiungerebbe i familiari più stretti del leader russo a un elenco crescente di persone sanzionate in risposta all'invasione russa dell'Ucraina».
Non solo. Sempre dalle colonne del quotidiano economico Usa emerge che «Putin non parla mai pubblicamente della sua famiglia. Ha due figlie con la sua ex moglie, Lyudmila Putina, secondo il Cremlino. Non è noto se il leader russo abbia altri figli e non è chiaro se le figlie prese di mira nelle sanzioni dell'UE siano quelle che ha pubblicamente riconosciuto» scrivono Laurence Norman e Ann M. Simmon.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 7 aprile 2022.
«Quelle donne». Vladimir Putin le chiama così, quando parla di loro in pubblico, e lo fa per negare la loro esistenza. Sono il suo segreto più nascosto, e il Cremlino ufficialmente «non conferma né smentisce» che Maria Vorontsova e Katerina Tikhonova siano le figlie del presidente russo. In compenso, la loro vera identità appare ben nota a Washington e a Bruxelles, che si stanno preparando ad aggiungerle alla lista dei vip russi finiti sotto sanzioni internazionali. Un gesto simbolico, fino a un certo punto: a 36 e 35 anni, rispettivamente, le due giovani donne bionde occupano anche un posto di rilievo nella gerarchia politica ed economica del regime costruito dal loro ipotetico padre.
Katerina è vicerettore dell'Università di Mosca, presidente di fondazioni e associazioni che si occupano di intelligenza artificiale e "sviluppo intellettuale", e la sua società Innopraktika è finita nel mirino delle indagini della Fondazione anticorruzione di Alexey Navalny per aver vinto appalti milionari offerti dalle maggiori società statali, come Gazprom e Rosneft. Maria, un'endocrinologa pediatrica, è stata - su ammissione dello stesso presidente, che ha insistito comunque a non menzionarla per nome - tra le prime a sperimentare il vaccino Sputnik, ed è la coproprietaria della società Nomeko, titolare di quello che i media definiscono «il più grande progetto di investimento privato nella sanità russa», finanziato ovviamente da imprese amiche del Cremlino.
Due principesse nascoste, di cui non esistono praticamente fotografie: erano ancora delle adolescenti quando Putin divenne presidente, e scelse di tutelarle con una segretezza assoluta. Hanno studiato alla scuola dell'ambasciata tedesca a Mosca e prima, secondo alcune fonti, anche in Germania, dove il padre le avrebbe portate, al sicuro dalle guerre di cosche mafiose nella Pietroburgo degli anni Novanta. Il padre - sempre senza menzionarle per nome - dice che gli hanno regalato diversi nipoti, e che parlano numerose lingue. In effetti, Maria è sposata con un olandese che lavora per Gazprom, e ha abitato nei Paesi Bassi, in un lussuoso attico a Voorshoten. Katerina è laureata in studi orientalistici ed è un'appassionata del Giappone: le inchieste di giornalisti indipendenti (quando ancora esistevano in Russia) hanno svelato una sua corrispondenza nella quale discute con il marito Kirill Shamalov l'acquisto di mobili da giardino italiani da 53 mila euro, insieme a libri in giapponese per 7 mila euro. Il nido d'amore a Usovo, uno dei villaggi sulla Rubliovka, la prestigiosa strada dei vip russi a ovest di Mosca, è costato, secondo i giornalisti di Vazhnye Istorii, circa 9 milioni di euro.
Ma in quel momento Kirill poteva permetterselo: figlio di un amico e socio di Putin dai tempi di Pietroburgo, dopo aver sposato nel 2013 Katerina è diventato all'improvviso il più giovane miliardario russo, grazie a un pacchetto di azioni di società petrolchimiche cedutogli da uno degli oligarchi putiniani, Gennady Timchenko.
La dote è stata ritirata dopo il divorzio della coppia, cinque anni dopo, ma Kirill è rimasto proprietario del castello a Biarritz che aveva arredato insieme alla ex moglie, accanto alla villa di un altro russo, Artyom Ocheretny, il nuovo marito della ex first lady russa, Lyudmila Shkrebneba-Putina.
Difficile che il presidente russo pensasse alla propria famiglia quando si è scagliato, qualche giorno fa, contro la "quinta colonna" di russi che «abitano sulla Riviera francese e mangiano ostriche e fois gras».
Anche perché le parentele di Putin sembrano molto più ramificate. I collaboratori di Navalny hanno già chiesto di inserire nella lista delle sanzioni anche la ginnasta Alina Kabaeva, che avrebbe avuto almeno due figli dal presidente russo, e che alcuni oppositori russi sostengono si nasconda in uno chalet vicino a Lugano. Kabaeva non è soltanto una campionessa olimpica: dirige il National Media Group, un colosso di TV e giornali, dove il pacchetto di controllo appartiene alla banca Rossiya, ritenuta la "cassa di Putin".
Ma altre relazioni potrebbero portare anche a Montecarlo, nell'appartamento da 4 milioni di euro che la 18enne Luiza Rozova - una esile bionda che assomiglia moltissimo al presidente russo - aveva postato qualche mese fa sul suo account Instagram. La madre di Luiza, Svetlana Krivonogikh, è un'ex donna delle pulizie che oggi possiede yacht, appartamenti e azioni (tra cui quelle della banca Rossiya) per diversi milioni, e Navalny nella sua inchiesta sulla corruzione del capo del Cremlino sostiene che la sua improvvisa ricchezza sia merito di un suo rapporto speciale con Putin ai tempi di Pietroburgo.
(ANSA il 25 agosto 2022) - Una delle figlie di Vladimir Putin ha frequentato per anni la Germania, con numerosi soggiorni in Baviera, passati a lungo inosservati dalle forze dell'ordine e dai servizi segreti tedeschi. È quello che rivela oggi Der Spiegel, secondo il quale la donna avrebbe usato talvolta anche un visto europeo di origine italiana.
Dalle ricerche del magazine tedesco e della piattaforma investigativa russa IStories, Katerina Tikhonova dal 2015 sarebbe stata oltre 20 volte in Germania, dove veniva a trovare il suo compagno, l'artista russo Igor Zelensky, che fino all'aprile di quest'anno dirigeva il Bayrische Staatsballet. I due avrebbero anche una bambina di quattro anni. Tichonova, che non ha mai viaggiato sotto falso nome, sarebbe stata accompagnata nei viaggi da un agente armato della guardia presidenziale russa FSO.
E avrebbe utilizzato a volte il visto europeo di matrice italiana dal numero ITA031963667. I servizi di sicurezza hanno notato l'ingresso della donna soltanto nel 2019, e in modo casuale. Dei viaggi della donna - in Germania per principio non si registrano gli ingressi e i servizi non sono addetti a registrare spostamenti dei figli dei despoti stranieri, rileva fra l'altro Spiegel - è emerso dalla ricostruzione di documenti di prenotazione, copie di passaporti e dati di passeggeri filtrati clandestinamente dall'apparato della sicurezza russa.
La rivelazione ha sollecitato le critiche di un esponente dell'Spd, Sebastian Fiedler, parlamentare ed esperto di affari interni. "Il caso è un esempio illustre del fatto che nei decenni scorsi non abbiamo sviluppato alcuna strategia per contrastare gli agenti russi e le loro attività. E non possiamo andare avanti così", afferma. Secondo Fiedler, le forze dell'ordine tedesche devono poter essere più operative nei confronti di un regime che ha scatenato una guerra in Europa.
La figlia di Putin 20 volte in Germania con visto italiano: 007 tedeschi all’oscuro. La Stampa il 25 agosto 2022.
Una delle figlie di Vladimir Putin, Katerina Tichonova, a partire dal 2015 ha visitato molto spesso la Germania - dove veniva a trovare il suo compagno, l'artista russo Igor Selensky, che fino all'aprile di quest'anno dirigeva il Bayrische Staatsballet - anche grazie a un visto Schengen emesso dall'Italia. Oltre 20 volte. E fin qui nulla d'illegale, dato che Tichonova è stata aggiunta alla lista nera dell'Ue solo lo scorso aprile. Stando però a quanto ricostruito da Der Spiegel insieme alla testata investigativa russa IStories, i servizi di sicurezza tedeschi hanno notato l'ingresso della donna soltanto nel 2019, per giunta in modo casuale. In Germania, evidenzia il settimanale, per principio non si registrano gli ingressi e i servizi non sono tenuti ad annotare gli spostamenti dei figli dei despoti stranieri. Una circostanza che ha sollecitato le critiche di un esponente dell'Spd, Sebastian Fiedler, parlamentare ed esperto di affari interni. «Il caso è un esempio illustre del fatto che nei decenni scorsi non abbiamo sviluppato alcuna strategia per contrastare gli agenti russi e le loro attività: non possiamo andare avanti così». La circostanza rischia di rafforzare la mano negoziale al gruppo di Paesi che sta lottando perché s'introduca a livello Ue un divieto d'ingresso ai turisti russi (i Baltici, la Polonia e la Finlandia, con il sostegno della Repubblica Ceca, presidente di turno). «È una questione di credibilità e di chiarezza morale dell'Ue mentre crimini di guerra e forse un genocidio si stanno svolgendo ai nostri confini», ha ribadito la premier estone Kaja Kallas. «Fermare questo afflusso non è solo un dovere morale ma anche di sicurezza pubblica e nazionale, nonché di attuazione delle sanzioni», ha aggiunto Kallas. Tra i Paesi contrari la Grecia e Cipro, oltre che la stessa Germania. Ma non solo. Pure l'alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, si è detto scettico poiché «ci sono molti russi che vogliono fuggire dal loro Paese». Al contrario, il capogruppo del Partito Popolare Europeo, il tedesco Manfred Weber, si è espresso in favore del divieto. Un'apertura importante. Il blocco nord-orientale non vuole ad ogni modo sentire ragioni e sostiene di essere pronto a varare «misure comuni regionali». Che sarebbero però molto meno efficaci. L'Estonia, per esempio, ha già bloccato l'ingresso ai turisti russi in possesso di un visto Schengen emesso dal Paese ma non quelli rilasciati da altri Stati membri. Il sistema prevede infatti che chi è in possesso di un permesso di viaggio europeo non è obbligato a entrare nel territorio Ue dal Paese che ha rilasciato il visto. Ebbene. Dal 24 febbraio circa un milione di cittadini russi ha attraversato le frontiere Ue e la maggioranza, oltre il 60%, lo ha fatto via terra attraverso le frontiere di Finlandia, Estonia e Lettonia. Il parcheggio dell'aeroporto di Helsinki si è non a caso riempito di macchine di lusso con targa russa, dato che da lì i turisti possono poi raggiungere i resort del Mediterraneo. Ha destato infine scalpore il video circolato sui social che immortala la moglie di Dmitry Peskov, portavoce (sanzionato) del Cremlino, mentre si gode una vacanza apparentemente in Grecia. Ecco, all'interno dell'Ue lei non ci avrebbe dovuto mettere piede. Il gruppo dei falchi ribadisce di non volere chiudere del tutto la porta, dato che i visti per ragioni umanitarie (a giornalisti, attivisti, oppositori) saranno sempre permessi, così come le visite ai familiari. La politica degli ingressi ai russi a livello comunitario resta ad ogni modo a macchia di leopardo: non tutti i Paesi, nonostante le raccomandazioni della Commissione, hanno ad esempio sospeso ai russi i regimi preferenziali (in cambio d'investimenti, di solito) per ottenere permessi di soggiorno, e dunque di movimento, all'interno delle frontiere Schengen. «Le discussioni sono in corso», fa sapere la Commissione.
Chi sono Maria e Katerina, le figlie semisegrete di Putin. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.
Portano nuovi cognomi, ma entrambe hanno mantenuto il patronimico Vladimirovna. Sono nella lista «americana».
Dopo più di vent’anni di impegno per tenere la famiglia lontana dai riflettori a qualsiasi costo, Vladimir Putin sta assistendo in queste ore all’ascesa forzata alla ribalta delle sue due figlie maggiori finite nella nuova lista dei russi sottoposti a sanzioni. Hanno usato per anni cognomi diversi da quelli del padre e hanno sempre negato qualsiasi legame con il presidente russo, anche se poi, un po’ ingenuamente, hanno mantenuto il patronimico Vladimirovna che contribuisce a identificarle. Maria Vorontsova, 37 anni, ricercatrice endocrinologa e Katerina Tikhonova, 35 anni, specialista in intelligenza artificiale, sono finite in tv e sui giornali solo negli ultimi anni, ma unicamente per i loro successi professionali che, ovviamente, non hanno avuto nulla a che fare con il presunto padre.
Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina
Maria lavora a un centro di ricerca legato all’Alfa Bank che è di uno dei grandi oligarchi, Mikhail Fridman. Secondo la Bbc, è co-proprietaria della compagnia Nomeko impegnata in un grande centro sanitario con i soldi di Sogaz assicurazioni, controllata da Gazprom, il gigante statale del gas. Katerina è diventata direttore del fondo di ricerche tecnologiche Innopraktika nel cui consiglio sono rappresentate alcune delle maggiori società statali russe, Rosneft (petrolio), Gazprombank, Transneft (oleodotti).
L’ultima volta che le due ragazze sono state viste in pubblico con il loro vero nome risale al 1999 quando frequentavano la scuola tedesca di Mosca. Non appena il padre venne nominato primo ministro, furono ritirate e iniziarono a studiare privatamente. Poi sono ricomparse con i nuovi cognomi, probabilmente inventati di sana pianta. Entrambe sono state sposate. Nel 2015 la Reuters scrisse che Katerina possedeva assieme al marito dal quale ha poi divorziato, una villa a Biarritz in Francia, dal valore di 3,7 milioni di dollari. All’epoca la donna e il marito avevano un patrimonio stimato in due miliardi di dollari. Non sappiamo se oggi Katerina abbia ancora asset di qualche tipo fuori dalla Russia. Secondo il sito The Insider, le due donne viaggiavano spesso all’estero, soprattutto in Europa. Per il Capodanno 2020, secondo un’analisi dei dati pubblici sui voli, erano assieme in Germania. Userebbero sempre jet privati dal costo di decine di migliaia di euro.
Putin avrebbe avuto altri tre o quattro figli dall’ex ginnasta Alina Kabayeva, ancora piccoli. Ci sarebbe invece una ragazza diciannovenne, Liza, che usa sempre il patronimico Vladimirovna, frutto di una relazione tra il presidente e Svetlana Krivonogikh, conosciuta negli anni Novanta a San Pietroburgo. Krivonogikh, secondo Proekt, sarebbe divenuta azionista della banca Rossiya, legata a oligarchi vicini a Putin. La donna avrebbe un patrimonio di circa cento milioni di dollari. Kabayeva è stata scelta come presidente di un gruppo che gestisce giornali e tv ed è di proprietà delle solite aziende «amiche», Banca Rossiya, Sogaz, eccetera.
Le figlie di Putin nella black list: chi sono e cosa fanno. Anche le due figlie di Putin colpite dalle sanzioni per la guerra in Ucraina, ma potrebbero esserci altri figli. Today il 7 aprile 2022.
Anche le due figlie del presidente russo Vladimir Putin sono state colpite dalle sanzioni per la guerra in Ucraina. Il governo degli Stati Uniti ha annunciato che le due figlie di Putin saranno escluse dal sistema finanziario statunitense insieme ad altri parenti e alti funzionari russi. "Questi individui si sono arricchiti a spese del popolo russo" si legge nella nota della Casda Bianca -. Alcuni di loro sono responsabili di fornire il supporto necessario per sostenere la guerra di Putin contro l'Ucraina. Questa azione li esclude dal sistema finanziario statunitense e congela tutti i beni che detengono negli Stati Uniti". La Casa Bianca non ha fatto nomi, ma un funzionario del Cremlino ha confermato che le destinatarie delle sanzioni erano anche le due figlie di Putin, Katerina Tikhonovna e Maria Vorontsova. Potrebbe però anche esserci un'altra figlia, su cui ci sono poche informazioni.
Chi sono le figlie di Putin
Katerina Tikhonovna e Maria Vorontsova sono le figlie di Putin e della sua ex moglie, Ludmila Putina. Raramente il presidente russo ne ha parlato in pubblico ed esistono poche informazioni sulle loro vite. Maria è nata a Leningrado nel 1985 e Katerina è nata in Germania nel 1986, quando la famiglia viveva lì durante l'incarico al KGB di Putin. Entrambe le ragazze prendono il nome dalle loro nonne. Il soprannome di Maria è Masha e il soprannome di Katerina è Katya. Quando tutta la famiglia si trasferì a Mosca nel 1996, le ragazze frequentarono una scuola di lingua tedesca. Secondo quanto riferito, i bambini sono stati rimossi dalla scuola quando Putin è diventato presidente, continuando gli studi grazie a degli insegnanti casalinghi. Successivamente, Maria ha studiato biologia e ha frequentato la facoltà di medicina a Mosca, mentre Katerina si è laureata in studi asiatici. Entrambe le ragazze hanno frequentato l'università sotto falsa identità. Maria, oggi 36enne, è una ricercatrice medica e vive a Mosca con il marito olandese, Jorrit Faassen. Secondo quanto riferito, Maria e Faassen hanno un figlio, come detto dallo stesso Putin al regista Oliver Stone nel 2017 in cui si definiva un nonno.
Non è chiaro quali proprietà abbiano le due figlie al di fuori della Russia. Tikhonova ha sposato il miliardario Kirill Shamalov, figlio di un amico del presidente, in un'unione dal valore economico di circa 2 miliardi di dollari, secondo quanto riportato da Reuters nel 2015. Le loro proprietà includevano un appartamento vista mare da 3,7 milioni di dollari a Biarritz, in Francia. Dopo che la Russia ha invaso l'Ucraina, degli gli attivisti hanno fatto irruzione nella villa - registrata a nome di Shamalov - per ospitare lì i rifugiati ucraini. I due si sono poi separati nel 2018. Vorontsova è invece comproprietaria della società di investimento sanitaria privata russa chiamata "Nomenko". Ha lasciato la sua casa nei Paesi Bassi nel 2014 dopo l'abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines, in cui persero la vita dei cittadini e su cui sono forti i sospetti di un coinvolgimento russo.
Il mistero sugli altri figli di Putin
Secondo alcune indiscrezioni pubblicate da alcuni media negli anni Putin avrebbe avuto altre relazioni, tra cui una con l'ex campionessa olimpica di ginnastica ed ex deputata Alina Kabaieva, 38 anni, che avrebbe partorito altri figli, ma gli interessati hanno sempre negato. Si pensa anche che l'influencer 18enne Luiza Rozova, invece, sarebbe nata dalla relazione con Svetlana Krivonogikh, 45 anni, ex donna delle pulizie ora tra le persone più ricche della Russia. Nel 2015, il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha smentito le voci secondo cui Putin avrebbe avuto un altro figlio con Alina Kabayeva, la sua amante dichiarata, secondo Forbes Russia. Com'è noto, Putin non parla pubblicamente della sua famiglia. Soltante le due figlie, Katerina Tikhonovna e Maria Vorontsova, sonos state riconosciute, ma non si sa ufficialmente se il presidente russo abbia altri figli.
Le vite delle due sorelle sono avvolte nel mistero. Chi sono le figlie di Putin, Maria e Katerina: una biologa l’altra matematica colpite dalle sanzioni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Aprile 2022.
Le sanzioni per la guerra in Ucraina continuano a colpire con maggiore durezza l’elite di Putin. Questa volta tra i bersagli delle sanzioni ci sarebbero le due figlie maggiori di Putin, Maria Vorontsova, 36 anni, e Katerina Tikhonova, 35 anni. Sono le figlie che Vladimir Putin ha avuto dalla ex moglie, Lyudmila Shkrebneva, sposata nel 1983 e dalla quale ha divorziato ufficialmente il 6 giugno 2013.
Di loro due si sa pochissimo perché l’ex moglie e le due figlie sono scomparse dalla scena ufficiale dal 1999. Indiscrezioni mai confermate hanno riportato che per ragioni di privacy le figlie del presidente avrebbero scelto da tempo di cambiare identità assumendo nuovi cognomi: Tikhonova e Vorontsova. Le loro foto sono pochissime, a volte non confermate.
Putin e Lyudmila si sposarono nel 1983. Quando l’ex agente del Kgb divenne primo ministro le due figlie furono ritirate dalla scuola tedesca di Mosca e continuarono a studiare in maniera privata. Non si è mai parlato di loro ufficialmente, se non in rarissime occasioni. Si sa che sono poliglotte, che parlano correntemente diverse lingue, e che vivono in Russia: e questo lo ha argomentato proprio il padre. Nella nebulosa di informazioni non confermate, si è scritto che Maria aveva sposato un imprenditore olandese e che Katerina con l’amico intimo di Putin Nikolaj Shamalov.
Le due avrebbero reso Putin nonno di due nipoti. Da tempo, e neanche questa notizia è confermata, si chiacchiera della relazione del Presidente con Alina Kabaeva, ex ginnasta (campionessa, oro olimpico) e politica, parlamentare per il partito Russia Unita, che si starebbe nascondendo in Svizzera con i figli avuti con il Presidente. Quattro figli. Kabaeva oggi è a capo di una holding che controlla delle televisioni. Circa 72mila persone sono arrivate a firmare una petizione su Change.org per espellere la donna dalla Svizzera. L’ex moglie del Presidente invece avrebbe sposato un imprenditore più giovane di vent’anni e vivrebbe in una specie di castello a Biarritz, in Francia. Ma è tutto un mistero.
Putin avrebbe tenuto le due figlie sempre lontano dai riflettori. Solo in due casi ha parlato delle sue figlie, senza nominarle. In una conferenza stampa del 2015, quando ha spiegato che “hanno studiato solo in università russe, ma parlano tre perfettamente tre lingue europee”, poi, nel 2017, quando la Reuters riportò: “Le mie figlie sono coinvolte nella scienza e nell’educazione. Non interferiscono in nulla, compresa la politica. Vivono normalmente”.
Maria Vorontsova è la primogenita di Putin. Nata a San Pietroburgo nel 1985, ha studiato biologia e poi si è specializzata in endocrinologia pediatrica. Dal 2019 è azionista e senior manager della società medica Nomeko, con sede vicino a San Pietroburgo, che fa ricerca sul cancro. Sarebbe conosciuta anche come Maria Faassen, dal cognome del marito, l’uomo d’affari olandese Jorrit Faassen, dal quale ha avrebbe avuto due figli (di cui però non vi sono conferme ufficiali). Per alcuni la famiglia risiederebbe ufficialmente nell’Olanda meridionale, ma dove viva realmente è top secret.
La secondogenita, Katerina Tikhonova, nata Yekaterina Vladimirovna Putina (Tikhonova è il cognome della nonna) nel 1983 a Dresda, nell’allora Germania dell’Est, è laureata in fisica e matematica, ma alla scienza ha preferito una carriera da donna d’affari, gestendo progetti finanziati con i fondi pubblici all’Università Statale di Mosca. Ma sarebbe nota per la sua passione per la danza. Nel 2013 è arrivata quinta ai campionati mondiali di rock acrobatico. In quello stesso anno, Katerina ha sposato Kirill Shamalov, figlio di Nikolai Shamalov, amico d’infanzia di Putin e comproprietario della Rossiya Bank. Il matrimonio è stato celebrato nella stazione sciistica di Igora (di proprietà di Yuri Kovalchuk, uno stretto collaboratore di Putin). Secondo la Reuters, la coppia ha una fortuna stimata oltre due miliardi di dollari, ma i rumors parlano di un divorzio avvenuto nel 2018.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Putin, la figlia "genio" Maria Faassen: cresciuta a casa Merkel, chi è suo marito. Un intreccio internazionale. Libero Quotidiano l'08 marzo 2022
Sono due le figlie di Vladimir Putin avute da Lyudmila Putina. Il presidente russo e l'ex moglie, già primo ministro della Russia, si sono separati nel 2013. Nella loro lunga relazione sono nate Maria Faassen ed Ekaterina Putina. La prima, 36enne, il cui nome di battesimo è Maria Vladimirovna Putina e oggi conosciuta anche come Maria Vorontsova prende il nome dalla madre del presidente russo, Maria Ivanovna Shelomova.
La donna ha trascorso l'infanzia nella Germania Est e l'adolescenza a Mosca e sin da bambina si è distinta per la sua passione per la scienza. Dopo una prima laurea in biologia all'Università statale di San Pietroburgo, ne è seguita un'altra in medicina a Mosca. Studi che hanno permesso a Maria di diventare un endocrinologo pediatrico e uno dei massimi esperti russi di nanismo.
Maria è sposata con l'uomo d'affari olandese Jorrit Faassen da cui ha avuto un figlio. Lo zar ha sempre mantenuto il massimo riserbo sulle figlie, dichiarando che loro "non sono mai state ragazze-star e non hanno mai amato essere alla ribalta" né "voglio che crescano come delle principesse". E così è stato. D'altronde la vita privata di Putin è un tabù: nessuno ne può parlare.
C’è metodo e strategia nella follia (presunta) di Putin. È al colloquio con Macron che occorre guardare se si vuol capire cosa c’è nella testa dell’autocrate di Mosca: togliere l’Ucraina dall’influenza “occidentale”. Antonella Rampino su Il Dubbio il 2 marzo 2022.
A che punto è la notte, a che punto è la guerra in Ucraina? Una prima notizia positiva, nel disastro del conflitto, è che la reazione dell’Occidente avrà effetti. Le sanzioni varate, assai più incisive di quelle che colpirono Mosca dopo l’annessione della Crimea, funzionano. Non solo il rublo ha perso il 14% sul dollaro (da sommare al 60% perso dal 2014 ad oggi), costringendo la banca centrale russa ad alzare i tassi di interesse al 20% con l’inevitabile effetto collaterale di mandare al galoppo l’inflazione. Soprattutto, Mosca non potrà reagire attingendo alle sue riserve, a quei circa 630 miliardi di dollari appositamente accantonati perché quei fondi appartenenti a uno stato sovrano -ma depositati presso banche estere- sono stati bloccati domenica scorsa per decisione comune di Stati Uniti, Francia, Germania, Italia, Inghilterra e Canada. Non era mai accaduto prima, come non era mai accaduto prima che ad alzare barriere finanziarie contro la Russia ci fosse anche la Svizzera, uscita dalla sua tradizionale neutralità.
L’altro spiraglio di luce nel disastro della guerra è che si susseguono, per quanto violentemente represse, le manifestazioni spontanee di cittadini russi contro l’aggressione all’Ucraina. Hanno riguardato una cinquantina di città, e rappresentano il fattore centrale di uno dei possibili scenari di lungo, forse lunghissimo periodo: l’inizio di un logoramento di Vladimir Putin. Cui certo potrebbero contribuire non poco le sanzioni, che colpiscono al momento 680 persone fisiche e 53 imprese, ma che avranno ripercussioni dolorose anzitutto sulla vita quotidiana dei cittadini russi. La popolazione russa, in maggioranza anziana, è però sempre stata disposta a tutto, anche a patire la fame per “la madre Russia”. Ed è a loro che Putin parla, quando cita la “denazificazione dell’Ucraina”, quando dice “dobbiamo riprenderci un territorio che è russo”. E va notato che per settimane anzitutto a Kiev non si dava credito ai report dell’intelligence americana, e a Joe Biden, che avvertivano di preparativi in corso per l’invasione, con motivi speculari: Putin non aggredirà mai una nazione ex sovietica. Una nazione nella quale proprio Zelensky ha a suo tempo sgombrato il campo dal facile nazionalismo, rendendo a tutti gli ucraini la possibilità di parlare anche il russo, facendo di quella lingua di fatto una lingua nazionale quanto l’ucraino.
Quegli argomenti Putin non li ha invece nemmeno accennati nel colloquio che ha avuto col presidente francese Macron. È a quel colloquio che occorre guardare se si vuol capire cosa c’è nella testa dell’autocrate di Mosca. Anzitutto perché, sia pure sfrondando da manipolazioni e bugie col quale il leader di Mosca infittisce da sempre i suoi discorsi, occorre analizzare con attenzione quello che dice, perché c’è stata – purtroppo – sinora una certa linearità di comportamento. Prima di aggredire l’Ucraina, Putin aveva pubblicamente avvertito che occorreva “risolvere” la questione del Donbass, e accantonare l’idea di adesione dell’Ucraina alla NATO, e che occorreva “risolvere adesso”: una chiara minaccia, avendo già schierato mezzi militari e 140mila uomini ai confini. A Macron pare abbia detto quel che nel frattempo rimbalzava al tavolo dì trattativa, proposto dai russi: il riconoscimento dell’annessione della Crimea avvenuta di fatto nel 2014, la garanzia che l’Ucraina non entrerà nella NATO, e invece la sua “finlandizzazione”, ovvero la sua neutralità. E , in più, la sua smilitarizzazione, per quanto gravissimo e provocatorio (ha provocato infatti una certa rabbia in Macron) possa essere chiedere la smilitarizzazione di un Paese che si è appena aggredito.
La risposta occidentale è stata, concretamente e anche da parte dell’Italia, l’invio di aiuti e mezzi militari per un controvalore complessivo, da parte di tutti i Paesi europei, che alla fine arriverà a toccare il mezzo miliardo di euro. La sola Ursula Von Der Leyen ha reagito chiedendo di aprire le porte della Ue a Kiev, con Zelensky che al Parlamento Europeo ieri ha chiesto una “procedura d’urgenza”. Essa in realtà non esiste, né sulla carta né nei fatti, perché per aderire alla Ue occorre soddisfare un’infinità di requisiti e completare un’infinità di passaggi, l’ultimo dei quali consiste nel voto unanime dei 27 capi di Stato e di governo. E si sa già della contrarierà quantomeno di Francia e Olanda, che credono occorra stringere i bulloni dell’Unione prima di ulteriori allargamenti. D’altro canto, fu proprio quando l’Ucraina nel 2013 strinse con la Ue un accordo di cooperazione che cominciarono le proteste di piazza, la famosa rivolta di piazza Maidan, perché l’allora presidente Yanuchovich fu costretto da Mosca a rinunciare a firmare quell’accordo.
Dunque, sapendo che ancor meno possibile è l’adesione di Kiev alla NATO, poiché mancano del tutto i prerequisiti, quello che Putin vuole è evidente: togliere l’Ucraina dall’influenza “occidentale”. Stroncare i principi di democrazia liberale di quella nazione. E per questo, forse, pare che Macron abbia commentato che “sarà lunga”. Quanto alle ipotesi che circolano, Putin è paranoide, vive isolato, sconfessa in pubblico chi non lo asseconda (lo ha fatto col capo dell’intelligence in diretta televisiva), forse non contengono alcuna indicazione o prospettiva: non sono forse i tratti salienti comuni a tutti gli autocrati, a ogni latitudine? Né si può sperare, come purtroppo si è potuto leggere anche su media autorevoli, nella “fine dell’era Lavrov”, in un’uscita di scena del più stretto collaboratore di Putin, un ministro degli Esteri che tra l’altro campeggia sulla scena internazionale da due decadi. Perché Lavrov è la parte razionale di Putin, e soprattutto perché non è affatto uscito di scena. Per fortuna. Ieri, bloccato a Mosca dalla chiusura ai russi di ogni spazio aereo occidentale, ha partecipato in video a un meeting dell’Onu a Ginevra, e ha mandato due messaggi che possono aiutare a capire le richieste di Putin. “L’Ucraina ha il nucleare sovietico, e questo per noi è un rischio”, ha detto aggiungendo una velata minaccia, “dato anche che siamo fedeli alla non proliferazione…”. E “l’Ucraina dimostri reale indipendenza negoziale”. Perché mentre le città ucraine sono sotto assedio e si bombarda Kiev, riprenderanno presto i negoziati russo-ucraini, stavolta in una località al confine tra Polonia e Bielorussia. Negoziati avvolti dal più fitto mistero, ogni volta a sessioni di cinque ore l’una, e interrotti solo per riferire ai rispettivi presidenti. Tutti segnali che indicano che si tratta sul serio, anche se è evidente che Putin punta a prendere Kiev, a mettersi in una posizione di forza, prima di far entrare le trattative nel vivo. Mentre intanto la guerra, e la notte, continuano.
Vladimir Putin il barbaro: un pazzo e "nuovo Hitler" oppure un genio? Il ritratto psicologico dello zar: chi è davvero. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022.
Ha ragione Donald Trump: Vladimir Putin è un genio (del male, ovvio) pieno di fascino e orgoglio e amore per la propria gente. Non è dato sapere se l'ex presidente americano abbia ragione quando si vanta del fatto che, con lui alla Casa Bianca, il capo del Cremlino non si sarebbe mai azzardato a invadere l'Ucraina; e ciononostante la bestia nera (anzi fulva) dei liberal mondiali ha confezionato in poche parole un saggio di psicologia politica tanto elementare quanto inaccessibile alla turba della sinistra antiputiniana. L'inclinazione prevalente è in effetti quella di "patologizzare" la figura del nemico russo, bene che vada i suoi movimenti strategici sono qualificati come deliri d'onnipotenza imperialistici, nostalgie sovietizzanti, segnali d'una sopraggiunta follia da parte di un ex torturatore sanguinario del Kgb animato da fredda crudeltà. Prevale poi il meccanismo (pavloviano, per restare in zona) dell'analogia con il mussolinismo o meglio della cosiddetta reductio ad hitlerum. Il presidente americano, Joe Biden, l'ha sbrigativamente definito «abbastanza matto» da imbarcarsi in una guerra ma pure «abbastanza intelligente da non farlo».
LO PSICORITRATTO - Nel frattempo plotoni d'improvvisati opinionisti-psicologi studiano movenze e fattezze putiniane cercando d'indovinarne il livello di compromissione cerebrale, il grado di maniacale egolatria, l'influenza della sua statura non eccelsa sul senso di rivalsa che lo contraddistingue, la quantità di botox o altre più inquietanti sostanze delle quali è materiato il nemico numero uno dell'Occidente. Una sorta di body shaming per decreto da legge marziale, ma più raffinato, che rinvia alla vignettistica di propaganda diffusa dappertutto in tempo di guerra. C'è naturalmente del vero, in questo campionario ossessivo distillato a beneficio del nostro sottofondo irrazionale bisognoso di replicare lo schema dell'orco cattivo che incombe su di noi da un mondo selvatico mai abbastanza lontano dalla civiltà in pericolo, in omaggio a un modello codificato peraltro dal russo Vladimir Propp nella sua Morfologia della fiaba. Illuminanti, a tale riguardo, sono le immagini esibite in un post dell'ambasciata statunitense a Kiev, in cui una serie di quattro chiese ucraine erette dall'anno 996 di questa èra fino al 1108 viene confrontata con altrettante istantanee raffiguranti Mosca sempre allo stesso modo: un bosco incolto. Come a dire: quando gli ucraini già decoravano sontuosamente absidi e cupole, voi russi ancora abitavate sugli alberi. Quel che invece si stenta a cogliere in Putin è il carattere profondo e l'impersonalità che lo rendono il veicolo di un'anima collettiva. Qualcosa che ha a che vedere senz' altro con l'antico spirito dell'orda barbarica (altro incubo prototipico dell'Occidente) ma al tempo stesso trova riscontri sia nel mondo delle arti marziali sia nel modulo bellico della Grande Russia pre e post zarista. In breve: tutti sanno superficialmente che Putin è un maestro di judo e ci tiene a mostrarlo; ma pochi riconoscono nel suo agire il principio orientale in base al quale è necessario sbilanciare l'avversario facendolo prima avanzare, e quindi avvalersi della sua stessa forza per atterrarlo e vincerlo. E' una filosofia del contrattacco che si fonda su una disciplina della mente e del corpo, su di un controllo morbido del movimento e delle articolazioni che ha raggiunto la forma apicale nel "Systema", la micidiale arte difensiva praticata dall'élite dell'Armata rossa (Spetsnaz) non senza un enigmatico rapporto con alcune tecniche di respirazione tipiche dell'esicasmo, lo yoga cristiano-ortodosso, e poi diffusasi globalmente dopo la caduta dell'Unione sovietica.
L'ORSO AVANZA - Se guardiamo a come la Russia ha (quasi) sempre vinto le guerre nelle quali il suo territorio è stato invaso, ritroviamo il medesimo paradigma. Dagli Svedesi nel Settecento ai Tedeschi nel Novecento passando naturalmente per Napoleone nell'Ottocento, per citare gli ultimi esempi, l'orso russo agisce così: lascia avanzare gli invasori, dando loro la percezione di un grande spazio di conquista a disposizione; ma poi, ecco che all'improvviso li sbilancia in avanti per poi avvolgerli e soffocarli in una tenaglia letale. In fondo non si tratta d'altro se non della proiezione su larga scala d'un modo di esistere da plantigrado, lento nel procedere e fulmineo nell'agguato. Anche adesso che si ripropone di tornare protagonista nelle foreste e nelle città dei suoi ex Stati satelliti finiti nell'orbita Nato. Non è scontato che Putin sia consapevole in ogni sua fibra di tale meccanica, ma di certo porta su di sé il peso di una coscienza imperiale millenaria (il mito della Terza Roma, l'aquila bicipite, lo scudo di San Giorgio) e la interpreta con un'energia "geniale" - e il genio è appunto lo spirito custode di persone, genti, luoghi e lignaggi- che esige di essere affrontata con pari consapevolezza. L'ha capito perfino Trump.
Il vero Putin ora ha contro ben due popoli. Roberto Fabbri l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.
Con notevole ritardo, e magari a denti stretti, sono finalmente in tanti a prendere atto che nella mente di Vladimir Putin albergano dei pensieri poco equilibrati e anche dei brutti piani ai nostri danni.
Con notevole ritardo, e magari a denti stretti, sono finalmente in tanti a prendere atto che nella mente di Vladimir Putin albergano dei pensieri poco equilibrati e anche dei brutti piani ai nostri danni, magari anche sostenuti da un atteggiamento disinvolto rispetto all'impiego di un arsenale atomico. E chi l'avrebbe mai detto...
Un grande inganno a proposito della figura di Putin, basato su una serie di pregiudizi tanto assurdi quanto duri a morire, sta finalmente venendo smontato. E c'è voluta una guerra d'aggressione feroce e ingiustificabile contro un popolo europeo, ma anche la coraggiosa reazione di tanti cittadini russi contro un atto violento che non sentono loro, per toglierci le fette di salame dagli occhi. Oggi Putin combatte non contro un popolo solo, ma contro due: quello ucraino e il suo stesso popolo russo. Al primo manda addosso l'esercito, al secondo la polizia antisommossa. E in entrambi i casi, l'esito finale potrebbe essere diverso da quanto desiderato: gli ucraini resistono in armi, i russi senza. Ma entrambi sono stati rafforzati nella loro ostilità dalle stesse azioni prevaricatrici di un presunto grande stratega reso paranoico da due anni di autoreclusione e forse da troppi farmaci strani.
La lista dei pregiudizi oggi traballanti dei putiniani d'Italia è lunga. Il più spesso ripetuto è anche il più inverosimile: la vecchia favola della povera Russia minacciata di accerchiamento e quindi giustificata ad aggredire i suoi vicini e a violentarne la libertà di scelta per garantirsi una zona cuscinetto. E sì che basterebbe consultare un atlante per capire che l'immensa Russia non è accerchiabile e tantomeno conquistabile. Il secondo è il prodotto della diffusa e crassa ignoranza della storia dell'Europa orientale, ancor oggi da troppi immaginata come il legittimo cortile di casa di Mosca: andatelo a dire non solo agli ucraini (che secondo Putin non avrebbero nemmeno il diritto di definirsi un popolo), ma a tutte le altre nazioni già asservite all'Urss che si sono da tempo riscoperte libere ed europee. Il terzo sono i tenaci cascami dell'antiamericanismo all'italiana, declinato nei suoi format comunista, neofascista e perfino cattolico: il primo imperversa da mezzo secolo nelle nostre scuole, dove ci si sente ripetere che l'Urss mirava al bene dell'umanità sbagliando i metodi, e quindi non era una società da incubo come quella della Germania nazista. Quarto e non ultimo, i begli affaroni miliardari che si possono fare naturalmente nell'interesse nazionale - con i serial killer del Cremlino. E che sarebbe più decente fare con una nuova Russia, finalmente libera dallo zar Stranamore.
I dubbi sullo Zar. Il tesoro di Putin, il patrimonio misterioso e a prova di sanzione dello Zar che potrebbe valere 200 miliardi di dollari. Fabio Calcagni su Il Riformista il 28 Febbraio 2022.
I ministri degli Esteri riuniti a Bruxelles nei giorni scorsi hanno deciso, tra le sanzioni da adottare contro la Russia per l’invasione delle truppe di Mosca in Ucraina, una serie di sanzioni tra cui il congelamento dei beni in Europa di proprietà del presidente russo Vladimir Putin e del suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov.
Una mossa dal sapore simbolico, dato che i due politici russi non sono di fatto titolari di beni a loro direttamente riconducibili nei paesi dell’Unione europea, ma che segna in ogni caso una decisa svolta nel rapporto tra Bruxelles e il Cremlino.
Una decisione che ha rilanciato un tema che ormai da decenni è di dibattito in particolare sui media occidentali: a quanto ammonta la ricchezza personale di Vladimir Putin? Lo Zar russo, che guida il Paese di fatto dal 1999 (dal 2008 al 2012 è stato primo ministro del suo fedelissimo Dmitrij Medvedev), negli anni avrebbe accumulato in modo ‘opaco’ ricchezze immense.
Le proprietà nascoste
Ufficialmente Putin guadagna circa 140mila dollari l’anno come presidente della Federazione russa, mentre dalle sue dichiarazioni ufficiali viene evidenziato il possesso di un appartamento, tre auto e una roulotte. Tutto qui? Non proprio.
A mettere in fila le sue proprietà ‘ufficiose’ è il New York Times, che evidenzia come Putin sia di fatto il proprietario di una immensa tenuta sul Mar Nero dal valore stimato in circa un miliardo di euro, un palazzo principesco da oltre 14mila metri quadri la cui esistenza è stata svelata dall’oppositore dello Zar Aleksej Navalny. Putin sarebbe inoltre proprietario di un appartamento da 4,1 milioni di dollari a Monaco, acquistato tramite una società offshore da una donna che si dice sia la sua amante, oltre a possedere una villa nel sud della Francia legata all’ex moglie. Inoltre fino al periodo precedente allo scoppiare della guerra in Ucraina, nel porto di Amburgo, in Germania, era ‘parcheggiato’ il suo yacht di lusso da 100 milioni di dollari.
Il patrimonio da 200 miliardi
I conti in tasca a Putin li ha fatti Forbes, la rivista americana di economia e finanza, con il Forbes Wealth Team che tracciato le origini della ricchezza del presidente russo attraverso un vero e proprio metodo.
Il riferimento è all’oligarca russo Mikhail Khodorkovsky, ex numero uno della compagnia petrolifera Yukos, acquistata dal magnate della banca Menatep grazie agli agganci con l’allora presidente russo Boris Eltsin dopo che la compagnia venne messa all’asta nell’ambito del programma di privatizzazioni che farà ricchi decine di oligarchi.
I rapporti con Putin sono ben diversi: il nuovo presidente infatti ritiene i burocrati e gli imprenditori che hanno prosperato grazie alla protezione di Eltsin siano un ostacolo al suo potere ed è di fatto lo stesso Putin a farlo arrestare nel 2003 per frode fiscale. Khodorkovsky resterà in carcere fino al 2013, quando uscirà grazie all’amnistia approvata dalla Duma, scappando immediatamente dal Paese per rifugiarsi prima in Germania e poi a Londra.
Tornando a Putin, secondo Bill Browder, finanziere americano esperto delle leggi Magnitsky che consentono ai governi di imporre sanzioni mirate ai trasgressori dei diritti umani congelando i loro beni, lo Zar avrebbe accumulato ricchezze immense stingendo accordi con gli oligarchi tanto odiati. “L’accordo era: ‘Dammi il 50% della tua ricchezza e ti lascerò tenere l’altro 50%’”, dice Browder.
In caso contrario il trattamento sarebbe stato lo stesso ricevuto da Khodorkovsky. Così, secondo Browder, nel 2017 Putin era stato in grado di accumulare un patrimonio personale di circa 200 miliardi di dollari, tale da renderlo all’epoca la persona più ricca sul pianeta.
Per l’economista svedese Anders Aslund invece il patrimonio di Putin è in una forbice tra i 100 e 130 miliardi e sarebbe stato accumulato dal leader di Mosca grazie a un sistema di tangenti e partecipazione nascoste in società russe. La fortuna di Putin arriverebbe dunque da una cerchia di ‘amici’ che hanno accumulato enormi ricchezze grazie a contratti col governo, con i soldi che poi tornerebbe in parte allo stesso Zar del Cremlino.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Con Panorama la voce delle eminenze grigie, gli aiutanti del potere. Lorenzo Castellani su Panorama il 27 Febbraio 2022.
C’è sempre una via che conduce al potere, ma questa via non è sempre illuminata. Di fronte o dietro ogni trono, c’è un corridoio da percorrere, una porta da aprire, un’anticamera in cui sostare. E’ in questi cunicoli che spesso i più vitali gangli del potere politico si snodano e connettono. Nella storia c’è ciò che si vede - re, dittatori, condottieri, leader politici - e ciò che non si vede - consiglieri, burocrati, banchieri, diplomatici, scienziati, santoni e spin doctor. E’ di questo potere invisibile che nel podcast ci occuperemo, con un lungo viaggio nella storia. Lontani dai riflettori, misteriosi, riservati questi personaggi si muovono con disinvoltura nei corridoi semi bui dei palazzi, delle corti, delle istituzioni. Se i loro capi sono potenti, questi uomini sono influenti. E spesso le loro decisioni, i loro consigli, i loro calcoli sono stati più importanti per la storia di quelli dei grandi protagonisti che tutti conoscono. All’ombra del potere si muovono figure che spesso sono l’emblema dell’enigma che circonda il potere stesso e che si nutrono di mistero, inaccessibilità, cinismo, spregiudicatezza. A volte sono personaggi eccentrici ed eccessivi; altre uomini frugali ed invisibili; tra di essi ci sono degli intellettuali e dei tecnici, ma anche uomini pragmatici e brutali; in alcuni casi sono amati dal popolo e in molti altri detestati; a volte sono parte ufficiale della macchina statale mentre altre agiscono come confidenti o confessori del potente. Come in un’opera teatrale, il potere può assumere mille volti e sfumature. Si può materializzare e smaterializzare. La complessità estrema del carattere di questi personaggi - spesso difficili da analizzare psicologicamente e ancor più da giudicare sul piano morale - sono forse l’oggetto di studio più interessante per chi si appassiona con la storia e la politica. Perché ciò che c’è dietro, che non si vede affatto o si vede sfocato, è sempre più interessante di ciò che c’è davanti. Si tratti di antichi regni, democrazie nascenti, stati liberali, vecchi totalitarismi, nuovi regimi autoritari c’è sempre una eminenza grigia pronta a consigliare e indirizzare i vertici del potere. Ma chi sia davvero il capo e chi sia lo strumento del potere è spesso una distinzione sfumata e complessa quando si affronta il caso delle eminenze grigie.
Molto si è riflettuto sulla leadership e sulla comunicazione negli ultimi anni, ma molto meno si è guardato agli “aiutanti” del potere politico. Una mancanza grave in un tempo come quello che viviamo, caratterizzato da istituzioni multilivello che intrecciano rappresentanza, economia e amministrazione. Le carriere di questi grandi suggeritori sono state molto diverse tra loro, a volte fatte di ascese rapide e fulminee, altre di costanza e di gradualità; alcune sono finite in gloria, altre in tragedia, altre ancora nell’anonimato. Ci sono stati uomini che hanno lavorato per una sola patria, altri per più d’una e infine ci sono quelli che si sono mossi sul piano globale. Più in generale, questo podcast vuole mostrare come il potere politico sia tutt’altro che verticale, sistema in cui decide uno soltanto oppure l’autorità ufficiale. Esso è piuttosto concepibile come una grande rete al cui centro stanno dei punti nodali che contano più di altri e che si connettono con vaste ramificazioni. È in questa posizione che vivono, prosperano e decidono le eminenze grigie.
Articolo di Forbes Wealth Team, pubblicato per “La Stampa” il 27 Febbraio 2022.
Le sanzioni di Unione Europea e Stati Uniti minacciano anche le proprietà dichiarate da Vladimir Putin. Ma quanto è grande la sua fortuna? E in che modo, in qualità di funzionario pubblico, l'ha accumulata?
Capire il patrimonio netto di Putin è un enigma più difficile di quello relativo agli eredi, ad altri capi di Stato e persino di quello dei signori della droga. L'editore fondatore di Forbes Russia, Paul Klebnikov, ha rischiato la vita per questa causa, fucilato per le strade di Mosca nel 2004 per le indagini sui primi oligarchi della Russia.
Per capire a quanto ammonta la ricchezza che Biden e l'Ue minacciano di sanzionare per l'invasione russa in Ucraina, basandosi su fonti e competenze, abbiamo sviluppato alcune teorie.
Il modello Khodorkovsky
Il viaggio di Forbes è iniziato con una ricerca sui miliardari russi, iniziata nel 1997 e pubblicata nel 2002, con il focus sull'oligarca russo in ascesa di nome Mikhail Khodorkovsky.
La sua compagnia, la Yukos, rappresentava il 17% della produzione petrolifera russa. E la sua influenza era significativa al Cremlino. Il suo patrimonio valeva 3,7 miliardi di dollari ed era l'uomo più ricco della Russia. La fortuna di Khodorkovsky raddoppiò nel corso dell'anno successivo, complici i legami con Putin. Nell'ottobre 2003, invece, era finito in carcere, condannato per frode ed evasione fiscale (che ha negato).
Non c'erano dubbi sul fatto che ci fosse Putin dietro il suo arresto: il destino di Khodorkovsky fu una potente lezione per gli altri oligarchi russi. Eppure la domanda rimane: quanta della fortuna di Khodorkovsky Putin ha fatto sua?
Bill Browder, un finanziere americano esperto delle leggi Magnitsky che consentono ai governi di imporre sanzioni mirate ai trasgressori dei diritti umani congelando i loro beni, insiste sul fatto che Putin, dopo l'arresto di Khodorkovsky, abbia stretto un accordo con i principali oligarchi del Paese: «L'accordo era: "Dammi il 50% della tua ricchezza e ti lascerò tenere l'altro 50%"», afferma Browder.
«Se non lo fai, prenderà il 100% della tua ricchezza e ti getterà in prigione». Sulla base di questa matematica, Browder ha calcolato nel 2017 che il patrimonio di Putin valesse 200 miliardi di dollari. Cifra che lo avrebbe reso la persona più ricca del mondo in quel momento. Il calcolo di Browder era semplice: sommava i patrimoni netti di tutti gli oligarchi russi e li divideva per due.
Il "modello Mafia”
Un altro scenario è che la fortuna di Putin derivi dal fatto di aiutare la sua cerchia ristretta di amici e familiari a diventare ricca, assegnando loro contratti governativi o proprietà di imprese.
In cambio, secondo questa teoria, riceverebbe tangenti in contanti o partecipazioni nelle società. In un certo senso, suona come una struttura mafiosa, per cui soldati e capi (in questo caso miliardari) sono in perenne debito con il capo (Putin).
Loro fanno il lavoro sporco, lui prende la sua percentuale. L'economista svedese Anders Aslund stima che ogni persona possegga tra 500 milioni e 2 miliardi di dollari e che il suo patrimonio netto sia compreso tra i 100 e 130 miliardi.
Tra gli amici di Putin che sono diventati estremamente ricchi c'è il suo ex sparring partner di judo, Arkady Rotenberg, che ha ricevuto più di 7 miliardi di dollari in vari contratti statali in vista delle Olimpiadi di Sochi.
Più recentemente, Rotenberg si è definito il proprietario di un enorme complesso di edifici sulla costa del Mar Nero, che il leader dell'opposizione russa Alexei Navalny ha chiamato «Il palazzo di Putin».
Poi c'è Kirill Shamalov, l'ex genero di Putin. Il figlio dell'amico di lunga data di Putin avrebbe, secondo quanto riferito, sposato la figlia dello Zar in un matrimonio segreto - anche se le persone sono riluttanti a confermare questo fatto.
Subito dopo, Shamalov ha acquistato una partecipazione del 17% in Sibur, dopo aver preso in prestito i fondi dalla Gazprombank, un'istituzione che secondo Aslund è responsabile di due terzi della ricchezza di Putin.
Divenne miliardario all'età di 34 anni, tre anni dopo il matrimonio. Il matrimonio, tuttavia, è stato sciolto nel 2016 o nel 2017 e, secondo quanto riferito, Shamalov è stato privato della sua ricchezza e costretto a vendere le sue quote Sibur.
Uno degli amici più cari di Putin, un violoncellista di nome Sergei Roldugin, è stato citato nell'indagine dei Panama Papers del 2016 a causa dei suoi legami con una rete di società con flussi di cassa fino a 2 miliardi di dollari e un rapporto secondo cui risultava il proprietario di 100 milioni di dollari di asset.
Roldugin ha detto al The Guardian che i soldi provenivano da donazioni di ricchi uomini d'affari per acquistare strumenti musicali per studenti poveri. «Più diventi ricco, più diventi dipendente», dice Aslund. La ricchezza non ti dà la libertà, almeno in Russia.
Il modello Bluster
In breve, data la mancanza di prove contrarie, è possibile che Putin abbia pochi soldi. E che voglia farlo pensare per trasmettere un messaggio di potere. E questa teoria sarebbe anche vera, almeno sulla carta. La divulgazione finanziaria ufficiale di Putin, pubblicata ogni anno dal Cremlino, elenca il suo reddito del 2020 a circa 140mila dollari.
Gli unici beni che rivendica sono la proprietà di tre auto, una roulotte, un appartamento di 800 metri quadrati e un garage di 200 mq, più l'uso di un appartamento di 1.600 mq e due posti auto.
Nessuna menzione della sua considerevole collezione di orologi da polso di lusso, o del "Palazzo di Putin" che presumibilmente possiede, per non parlare del portafoglio di palazzi, yacht e aerei che usa in qualità di leader della Russia.
Alcuni osservatori citano quei sontuosi "ornamenti" del potere statale come motivazioni per le quali Putin non abbia bisogno di ricchezza personale. «Ha l'intero Paese a sua completa disposizione», ha scritto Leonid Bershidsky, editorialista di Bloomberg Opinion nel 2013.
«È sufficiente che Putin schiocchi le dita e le società statali cederanno beni ai suoi amici a prezzi stracciati. Un suo sussurro e ricchi uomini d'affari privati interverranno per la sontuosa ristrutturazione di una residenza presidenziale. Alla fine Putin potrebbe non aver bisogno di soldi, purché dia l'apparenza di averli».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 Febbraio 2022.
È uno degli amici nominati di Vladimir Putin che questa settimana sono stati colpiti con sanzioni progettate per infliggere "il dolore massimo e duraturo" alla Russia.
Ma poco è stato condiviso sull'ex genero del presidente russo, che è stato condannato dall'Occidente per aver riportato la guerra sul teatro europeo.
Il magnate degli affari, avvocato e magnate petrolchimico Kirill Shamalov, 39 anni, era già stato soggetto a sanzioni sostenute dagli Stati Uniti nel 2018 dopo essere stato pubblicamente nominato coniuge della figlia più giovane di Putin.
Le fotografie dei tre giorni di nozze di Shamalov e Katerina nella località sciistica di Igora in Russia nel 2013 hanno infranto il tabù di Putin sul non rivelare mai i dettagli della sua vita familiare.
Kirill e Katerina si sono anche dilettati a comprare proprietà straniere, tra cui una villa sul mare di quattro piani da 4 milioni di sterline a Biarritz, sulla costa sud-occidentale della Francia, che secondo quanto riferito occupa un posto speciale nel cuore di Putin.
Come marito e moglie, si ritiene che la coppia abbia accumulato un enorme portafoglio di ricchezza aziendale che ha superato i 2 miliardi di dollari (1,4 miliardi di sterline), prima della loro divisione nel 2018.
Di seguito, MailOnline descrive in dettaglio i profondi legami che la famiglia Shamalov ha con il regime di Putin e approfondisce la vita di lusso guidata da uno dei più giovani miliardari russi di sempre.
Gli stretti legami della famiglia Shamalov con Putin
Kirill, che ora ha 39 anni, e Katerina, 35 anni, fanno parte di una nuova generazione di russi che godono di privilegi da aristocratici, ottengono posizioni di potere e accumulano enormi ricchezze personali dalle loro famiglie ben collegate.
Prima ancora di laurearsi all'università, Kirill è stato nominato Chief Legal Counsel di Gazprom per le attività economiche estere nel 2002. All'epoca aveva solo 20 anni.
Tre anni dopo, è diventato "Chief Legal Counsel" presso Gazprombank, allora ancora una sussidiaria di Gazprom prima di entrare a far parte di Sibur, la più grande azienda petrolchimica del paese come vicepresidente nel 2008.
Suo padre Nikolai, un caro amico del regime di Putin, rimane un vicepresidente nel consiglio di amministrazione dell'azienda ed è azionista della Banca Rossiya, che i funzionari dell'intelligence hanno precedentemente chiamato la "banca personale" per l'élite russa e che ora è stata colpita con sanzioni.
Mentre Kirill è cresciuto negli anni '90, suo padre ha co-fondato The Ozero Cooperative, uno sviluppo di "dacie" vicino a San Pietroburgo, con Putin. Vari membri dello sviluppo di Ozero sono andati alla ribalta nella Russia di Putin.
Le fortune di Kirill hanno cominciato a salire alle stelle subito dopo il suo matrimonio con la figlia del presidente, una ballerina acrobatica competitiva che ha contribuito a supervisionare un'espansione di 1,7 miliardi di dollari dell'Università statale di Mosca.
Entro 18 mesi dalla loro cerimonia e a soli 26 anni, Shamalov è stato catapultato nella lista di Forbes delle persone più ricche del mondo ed è stato tra i più giovani miliardari russi in assoluto dopo aver acquisito una partecipazione del 17% in Sibur dall'oligarca Gennady Timchenko, un altro alleato di Putin che è stato colpito con recenti sanzioni.
L'accordo ha sollevato sospetti tra gli osservatori globali quando è stato successivamente rivelato che Shamalov avrebbe pagato solo 100 dollari per azioni che avevano un valore di mercato stimato superiore a 380 milioni di dollari.
Alexei Navalny, attivista anticorruzione e leader dell'opposizione russa, ha affermato che all'epoca la transazione era un "regalo di nozze di 380 milioni di dollari" diretto da Putin.
Shamalov ha precedentemente negato di aver acquistato le azioni per soli 100 dollari.
Un matrimonio 'segreto' con la figlia di Putin
Nel febbraio 2013, Kirill e Katerina si sono sposati con una cerimonia presso la stazione sciistica di Igora, incastonata tra le colline innevate che si trovano a un tiro di schioppo a nord di San Pietroburgo.
Nessuna spesa è stata risparmiata per la celebrazione e la coppia felice è andata in giro all'interno di una tradizionale slitta russa trainata da tre cavalli bianchi. La sposa indossava un lungo abito da sposa color perla, lo sposo indossava un soprabito scuro. Gli ospiti hanno indossato sciarpe bianche ricamate con le lettere "K&K" in filo rosso.
Ma tutti e 100 i presenti hanno giurato di mantenere il segreto e hanno dovuto lasciare i loro telefoni a casa. Le guardie erano appostate in ogni angolo del resort. E nessuno che abbia mai parlato di quel giorno ha dato pubblicamente il proprio nome.
«Le guardie erano dietro ogni angolo, (loro) non hanno permesso a nessuno di avvicinarsi alla celebrazione», ha detto un membro dello staff del resort, che è immerso in un bosco con un pittoresco lago e dispone di un lussuoso complesso termale.
«Ma sapevamo che erano Kirill e Katerina, la figlia di Putin, a celebrare il matrimonio».
La stazione sciistica di Igora si trova a meno di 20 miglia dalla cooperativa dacia Ozero. Il resort e gli appezzamenti di terreno circostanti sono di proprietà di società con legami passati o presenti con Shamalov, Timchenko e altri alleati di Putin.
Lo stesso Putin è stato conosciuto come un assiduo frequentatore della zona, sebbene sia sempre rimasto discretamente in un complesso vicino dietro un'alta recinzione.
L'intrattenimento includeva uno spettacolo di pattinaggio sul ghiaccio al coperto, luci laser e un villaggio russo simulato con artisti e mostre culturali, secondo una persona che ha partecipato. Gli organizzatori del matrimonio non volevano che le fotografie trapelassero sui social media e i VIP sono stati protetti dal personale regolare del resort. È stata rilasciata solo un'immagine verificata, in bianco e nero, della loro celebrazione.
A un certo punto, sulla neve è stato proiettato un emblema, che mostrava i nomi Kirill e Katerina, ha detto un altro lavoratore parlando in condizione di anonimato nel 2015.
Ma l'operaio ha aggiunto: «Non ci è permesso parlare di questo. Posso essere licenziato, sai di chi era la figlia».
Ma la coppia felice ha preso strade separate nel 2018 dopo che Shamalov avrebbe iniziato a frequentare la socialite londinese Zhanna Volkova, appena cinque anni dopo essersi sposato con la famiglia più potente della Russia.
Zhanna e Kirill si sarebbero sposati e avrebbero girato il mondo insieme come una famiglia, visitando Londra, Grecia, Italia, Svizzera e Francia.
Ma sono stati coinvolti in una scissione di alto profilo nel 2020 e parlando con la rivista Tatler, la signora Volkova ha affermato che Kirill «non sa come porre fine a una relazione con dignità e non vuole nemmeno spiegarsi a una donna con cui è stato insieme per molti anni».
Ha aggiunto: «Credo che esistano i veri uomini. Ma, sfortunatamente, in Russia, il sentimento di impunità corrompe enormemente gli uomini che si vantano di mecenati influenti».
La signora Volkova, che vive a Londra con la sorella gemella e i figli, è stata contattata per fornire un commento.
Una doppia vita di lusso in Russia e sulla costa francese
Kirill è noto per condurre una vita di lusso sia in patria che all'estero e lui e la sua allora moglie, Katerina, avevano programmato di vivere una vita lussuosa insieme in Russia e Francia.
Secondo quanto riferito, la coppia ha speso milioni di dollari per arredare immobili vicino alla residenza di Putin e nella località balneare francese di Biarritz. Hanno speso quasi 60.000 dollari per un tappeto e più di 6.000 dollari solo per i libri giapponesi.
Zhanna Volkova, la sua ex moglie, avrebbe poi affermato che Kirill era sempre interessato a «ragazze ricche, sicure di sé e senza problemi materiali».
La RBC, una società di notizie indipendente, ha anche affermato che Shamalov è apparso in una cabina VIP al Gran Premio di Formula 1 2015 a Sochi, vinto da Lewis Hamilton. Fonti affermano che la famiglia Shamalov ama le automobili.
Si dice che Kirill e suo fratello maggiore, Yuri, partecipino regolarmente ai raduni di Mosca e che siano stati visti arrivare a uno di questi eventi in una rara Mercedes degli anni '30.
I fratelli Shamalov sono noti per avere profondi legami con altri membri dell'élite Putin che hanno rimodellato l'economia russa negli anni 2000 e hanno fatto fortune personali in questo modo.
Uno è Gennady Timchenko, che è diventato azionista della Banca Rossiya insieme al padre, Nikolai Shamalov. Timchenko conosce Putin da più di 20 anni.
Negli anni '90, ha iniziato il commercio di petrolio da San Pietroburgo, quando Putin era un politico emergente lì, e ha continuato a co-fondare Gunvor, una società che è cresciuta fino a diventare uno dei maggiori commercianti di petrolio russo.
L'anno scorso, il governo degli Stati Uniti ha affermato che Putin aveva una partecipazione personale in Gunvor, sebbene non offrisse alcuna prova di ciò. Gunvor ha negato l'accusa.
Timchenko è stato un contatto importante per Kirill Shamalov dopo che il magnate del commercio petrolifero è diventato in seguito un grande azionista di Sibur.
Si dice anche che Kirill si sia avventurato nel mercato immobiliare estero dopo aver acquistato un'elegante casa di 300 metri quadrati nella località balneare di Biarritz, nota per essere un'attraente destinazione turistica per i ricchi russi.
La diplomazia è influenzata dall’aspetto militare sul campo.
Rai. Tg2 Post del 25 febbraio 2022. Gennaro Sangiuliano: il Politologo Boden diceva: alla fine di tutto c’è la spada. Gennaro Sangiuliano su Vladimir Putin: "Perché non si fermerà all'Ucraina", i prossimi obiettivi dello zar. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022.
Per ben comprendere le strategie geopolitiche di Putin sarebbe opportuno leggere il libro del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar (Mondadori), pubblicato per la prima volta nel 2015 e quanto mai profetico e perciò attualissimo.
Sangiuliano, se vogliamo capire Putin dobbiamo tornare a 10 anni prima della sua nascita, quando il padre restò ferito e la madre rischiò di morire per denutrizione durante l’assedio di Leningrado (dal 1941 al 1944)?
«Sì, lui è un figlio dell’Urss e dell’assedio di Leningrado, dove i russi persero 700mila vite umane e Putin subì danni diretti a livello familiare. Tra l’altro in quell’occasione morì il fratello di soli 7 anni, Viktor, che lui non conobbe mai. Tutta la sua psicologia è generata dalla sindrome dell’assedio, ossia dall’idea che la Russia venga assediata e abbia necessità di difendersi dalle minacce esterne. A questo trauma si somma quello della dissoluzione dell’Unione Sovietica: a quell’epoca Putin era il capostazione del Kgb a Dresda. Dopo il crollo dell’Urss lui tornò a vivere a Leningrado. Il suo unico bene era un’automobile Volga, a un certo punto ipotizzò addirittura di mettersi a fare il tassista, non sapendo più come poter sostentare se stesso e la sua famiglia. Tutta questa sua psicologia contorta non giustifica quello che sta facendo ora ma ci aiuta a capirlo».
Quanto la sua esperienza nel Kgb gli ha permesso di maturare abilità strategiche e diplomatiche che ha messo a frutto in questi giorni?
«Quando crollò l’Urss, il Kgb fu l’unico apparato che restò in piedi e funzionante, essendo un’élite della società russa, uno Stato nello Stato. Il Putin di oggi è ancora il tenente colonnello del Kgb. Lo si era visto già anni fa, con l’intervento in Cecenia, prova generale dell’Ucraina. Putin fu di un’estrema durezza ai limiti della forza bruta»,
Nel suo mito di una Grande Russia, Putin si rifà più all’Impero zarista o all’Unione Sovietica?
«Quando cadde l’Urss, e tutti quanti toglievano i quadri di Marx, Lenin e Stalin dalle stanze, Putin li sostituì con il quadro di Pietro Il Grande, una chiara evocazione della Russia zarista. Il presidente russo ha anche detto però che non si può non rimpiangere l’Unione Sovietica. È singolare a proposito ciò che accade nella parata di maggio per celebrare la vittoria sul nazifascismo: vedi sfilare le unità della Marina cui è stato ridato il simbolo di falce e martello, e altre unità che portano invece il nastrino giallo e nero, i colori dello zar. I riferimenti di Putin sono un miscuglio tra zarismo e comunismo, forze antitetiche sul piano della storia: lui ha cercato di sintetizzare nello spirito russo questi due tratti».
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Il Putin di oggi è più uno strenuo nazionalista o un imperialista?
«È un imperialista che utilizza contro l’Ucraina l’armamentario antinazista, visto che una parte degli ucraini durante la Seconda Guerra Mondiale si schierò con Hitler. La sua filosofia geopolitica di riferimento è il panslavismo: lui desidera un’area di influenza geopolitica che coincida con la vecchia Urss, e quindi comprenda le repubbliche baltiche, la Moldova e le repubbliche dell’Asia centrale e del Caucaso».
Quanto conta in questa missione putiniana il tema dell’identità nazionale?
«Indubbiamente Putin ha ridato orgoglio al suo popolo. Ma, secondo un sondaggio di ieri, “solo” il 53 per cento dei russi condivide la sua iniziativa militare. È sì una maggioranza, ma non schiacciante. La verità è che la società russa si è evoluta, i russi hanno cominciato a viaggiare e ad apprezzare i valori di libertà e democrazia. E in questo momento storico Putin è un personaggio isolato, che vive all’interno della sua cerchia, chiuso nel suo castello, circondato da persone che gli danno una falsa rappresentazione della realtà. Questo isolamento alla lunga può portare alla paranoia».
Questa guerra di Putin si spiega più con l’economia, la geopolitica o l’ideologia?
«Il fattore prevalente è quello geopolitico. Ma le sue mosse si spiegano anche con una sorta di logoramento del potere. Sono passati più di vent’anni da quando Putin è diventato per la prima volta premier e poi presidente. Il suo potere si è via via logorato, e ora lui prova a ridargli smalto lanciando una guerra patriottica».
L’azione di Putin può essere paragonata alla “guerra di Stalin” all’Ucraina di 90 anni fa che causò la Grande Carestia?
«In questa vicenda ci sono tutte le stigmate della storia. Da una parte gli ucraini ricordano lo sterminio che Stalin fece ai loro danni con la Grande Carestia. A loro volta i russi ricordano come gli ucraini diedero uomini e forze alle Waffen SS».
C’è chi sui giornali italiani ha scritto di “fascismo rosso” a proposito di Putin e c’è chi paragona la sua invasione dell’Ucraina a quella di Hitler della Polonia. Sono paragoni destituiti di senso?
«Sì, non dimentichiamo che Putin era un membro del Partito comunista dell’Urss».
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Hanno sbagliato i sovranisti europei a elevarlo a loro punto di riferimento?
«Non parlerei di errore. Sbaglia chi esalta Putin, dimenticandosi che noi dobbiamo essere atlantisti. Ma sbagliano anche i liberal che non vogliono comprendere la profondità di certi processi storici. Anche Solzenicyn sosteneva che la Russia non sarebbe mai potuta diventare come gli Usa. E lo stesso Sergej Brin, russo cofondatore di Google, nota come la Russia vada rispettata nella sua peculiarità storica».
Quanto al sogno putiniano di una grande Russia contribuisce la debolezza di Europa e Usa, private di figure di spessore Trump e Merkel?
«Innanzitutto dobbiamo ricordare che Putin preparava questa mossa da mesi. Non organizzi un’invasione su così larga scala in poche settimane. L’Occidente da 3-4 anni è distratto rispetto alle vicende ucraine, mostrando la sua fragilità. Biden poi non è all’altezza di Obama, Clinton o George W. Bush, non è un leader di statura. Mancano infine figure come Berlusconi, che fece un grande lavoro a Pratica di Mare, consentendo di evitare scene come quelle a cui stiamo assistendo oggi».
Nel suo saggio lei cita il libro Lo scudo e la spada, avidamente letto da Putin, e i libri di spionaggio di John le Carrè, come utili strumenti per comprendere la psicologia del presidente russo. Putin è un personaggio letterario?
«Lui dà l’impressione di confondere letteratura e realtà. Una certa megalomania del personaggio va letta indubbiamente in questa direzione».
Il pugile Putin capace sempre di venire fuori dall’angolino. Redazione qelsi.it il 16 Novembre 2015.
Personaggio controverso, come tutti coloro che sono destinati a lasciare un segno, Vladimir Putin è indubbiamente un protagonista del nostro tempo. Anzi, le ultime vicende di politica internazionale ne hanno rilanciato il ruolo nello scacchiere geopolitico globale. Eppure, della sua vita, come delle sue più intime convinzioni, di quei dettagli capaci di tratteggiare compiutamente una personalità, si sa poco. La convinzione comune è quella che la sua vita sia avvolta da un alone di mistero, alimentato soprattutto dal suo passato di ufficiale del temibile KGB, il servizio segreto dell’era sovietica e, probabilmente, l’unico apparato veramente efficiente nella lunga era comunista.
Ricostruirne la biografia, oltre i luoghi comuni e le tante leggende mai verificate, significa non solo raccontare un protagonista del nostro tempo ma penetrarne idee, convinzioni e magari prospettarne le mosse future. Questo partendo da un punto chiave: la vicenda individuale di Vladimir Vladimirovič Putin deve essere narrata nel contesto della storia russa con cui si intreccia e di cui è un figlio a tutto tondo.
Quando nel 1952 Vladimir Putin nasce a Leningrado, l’odierna San Pietroburgo è ancora un cumulo di macerie. È la città che ha subito il più orrendo assedio della Seconda guerra mondiale, novecento giorni di morte in cui hanno perso la vita un milione di cittadini. I genitori di Putin erano due sopravvissuti all’assedio. Il padre era stato gravemente ferito in battaglia, la madre aveva rischiato di morire per denutrizione. Entrambe riportano danni fisici permanenti ma la ferita più grave è la morte di Viktor, il loro figlio di nove anni, fratello che Vladimir non ha mai conosciuto.
Volodja – così lo chiama affettuosamente la madre – è un personaggio enigmatico e complesso, criticabile per manifestazioni di autocrazia, la cui vita reale appare degna di un romanzo di John le Carrè, dove fitti misteri si fondono con elementi d’introspezione psicologica.
Piccolo di statura, gracile, biondiccio ma dotato di grande determinazione nel carattere, oltre che di intelligenza, a dodici anni Vladimir legge Lo scudo e la spada, best seller che racconta le avventure di una spia sovietica, diventato poi una popolare serie televisiva. Da queste suggestioni adolescenziali sarebbe scaturita la convinzione di arruolarsi nel KGB, l’onnipotente servizio segreto sovietico. L’aspirazione di un ragazzo diventerà realtà anni dopo, successivamente a una brillante laurea in giurisprudenza. Come lui stesso ammetterà da adolescente è un «teppista», un indisciplinato che non partecipa alle ordinate attività della gioventù comunista. È spesso in strada dove picchia duro nelle risse tra ragazzi, pratica le arti marziali. Ma è anche uno studioso che apprende subito il tedesco e l’inglese, che ottiene a scuola risultati eccellenti, che divora libri. Non è un figlio della nomenklatura ma riesce lo stesso per meriti ad accedere all’ambita facoltà di legge dell’Università di Leningrado.
Entrare nel KGB significa accedere a uno Stato all’interno dello Stato sovietico, l’apparato più organizzato e coeso, una élite. Tuttavia, proprio il servizio segreto, in maniera solo apparentemente inspiegabile, ci sono anche le maggiori consapevolezze del fallimento del sistema socialista sovietico e una fronda che afferma la necessità di aprirsi alle riforme e alla democrazia.
Vladimir Putin è forgiato da questa esperienza, ne resterà impregnato per tutta la vita ma è anche l’ambito in cui matura una diversa sensibilità, aperture e conoscenze del mondo esterno, a cominciare dalla superiorità dell’economia di mercato.
La narrazione giornalistica del leader russo ha spesso risentito di stereotipi, di valutazioni superficiali, prive di riscontri sul piano storiografico. Il personaggio Putin, invece, non può essere disgiunto dalla storia passata e recente della Russia, dai settant’anni di comunismo sovietico, dalla caotica fase di dissoluzione dell’impero, dai gravi pericoli che lo sfaldamento dello Stato genererà con il riemergere di antichi nazionalismi etnici.
La Russia non è stata solo il comunismo e non è oggi solo una terra di autocrati. È la patria di immensi romanzieri, di una delle più importanti letterature, di matematici, di fisici, di economisti, di una profonda spiritualità religiosa. Capire il personaggio Putin, penetrarne la vicenda umana e politica, raccontarne dettagli poco noti, significa fare i conti con una delle dimensioni fondamentali del nostro tempo.
Putin è stato agente operativo del KGB a Dresda, nella Germania di Erich Honecker e della Stasi, assistente del rettore dell’Università di Leningrado, vicesindaco dell’antica capitale, capo dell’amministrazione presidenziale a Cremlino, capo dell’FSB (il servizio segreto post KGB), primo ministro di Eltsin, dunque presidente.
Col tempo è diventato lo zar della nuova Russia. In quindici anni di potere gli sono stati ascritti alcuni significativi successi: la crescita economica, la nascita di un ceto medio diffuso, la lotta alla povertà e all’alcolismo, la sconfitta della mafia, la modernizzazione dello Stato, la riappropriazione delle risorse energetiche e la liquidazione di voraci oligarchi. Egon Bahr, ex ministro tedesco socialdemocratico, artefice della «Ostpolitik» di Willy Brandt, ha affermato: «Putin e popolare per il fatto di aver restituito alla Russia la fiducia in sé stessa dopo l’epoca Eltsin».
Più volte nel corso dell’ormai lungo regno politico lo zar Putin è stato messo nell’angolo e puntualmente ha saputo uscirne più forte di prima. È stato così all’epoca della guerra alla Cecenia, dell’incidente del sommergibile Kursk, della strage del teatro di Dubrovka e di quella di Beslan, lo è stato tra il 2011 e il 2012, quando a Mosca e nelle altre grandi città subì manifestazioni di aspra contestazione.
Ora dopo la dura reprimenda occidentale per l’annessione della Crimea ancora una volta lo zar ne può uscire perché si offre di fare il lavoro sporco in Siria contro l’Isis, quello che un occidente non sembra in grado di fare.
Solo la prospettiva distante della storia ci dirà chi è stato davvero Putin. Per lo scrittore e filosofo Aleksandr Zinov’ev rappresenta il «primo serio tentativo della Russia di resistere all’americanizzazione e alla globalizzazione», per il liberale Sergej Kovalëv «un’alternativa alla restaurazione comunista e all’incompetenza dei democratici».
Aleksandr Isaevič Solženicyn, gigante della letteratura mondiale che con la sua vita ha testimoniato il valore della libertà, ebbe ad affermare: «Quando dicono che da noi è minacciata la libertà di stampa, io manifesto tutto il mio dissenso».
L’intellettualità occidentale appare sospettosa verso la prassi e la sostanza politica del leader russo ma molti giudizi affrettati non tengono conto del contesto storico: la Russia una nazione dove, fino ad un secolo e mezzo fa, c’è stata una forma di vera e propria schiavitù legale di donne e uomini, la famigerata servitù della gleba, abolita solo nel 1861 dallo zar riformatore Alessandro II. Una nazione passata dall’autoritarismo zarista a quello bolscevico, che ha fatto milioni di morti in nome del comunismo, che ha devastato l’economia ed eletto la miseria a prassi.
Putin è riuscito a riplasmare un’identità in cui molti possono ritrovarsi: essa tiene insieme lo stemma e il nastrino zarista, l’inno sovietico con la vecchia musica e nuove parole, la bandiera che fu quella di un breve periodo democratico. Pezzi di storia, una volta antitetici, messi insieme. Un’operazione alla quale i politologi russi hanno dato il nome di «rinascimento nazionale e tradizionale».
La storia politica e personale di Vladimir Putin è tutta da raccontare perché intensa. Il personaggio è lontano dall’essere storicizzato, la sua attualità è viva, pronta a riservare sorprese. È un fatto che la Russia sia ridiventata un grande protagonista della geopolitica globale recuperando il ruolo perso dopo il crollo dell’URSS.
Gennaro Sangiuliano, Putin, vita di uno zar, Mondadori, pp. 284, € 20,00
La spada e l’altare: le origini del pensiero politico di Putin. Tratto da La Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica di Luca Gori su luissuniversitypress.it.
Credo nel katechon; è la sola possibilità per me di capire la storia e di trovare il suo significato come cristiano. Carl Schmitt
Se l’eccezionalismo americano era nato come momento di “rottura” rivoluzionaria rispetto all’ordine costituito, proponendo la democrazia come nuovo orizzonte politico universale, il conservatorismo russo ha invece nel suo Dna il Kathéchon: la visione di una Russia come “scudo” che protegge l’ordine dalle forze apocalittiche del caos. Si tratta di un concetto chiave per chi voglia provare a capire la Russia di Putin, la sua “svolta conservatrice” e l’obiettivo di sfidare l’egemonia occidentale per affermare una civiltà russa autonoma e creare un mondo policentrico.
La parola Kathéchon viene dal greco antico e significa “ciò che trattiene” o “colui che trattiene”. Nella visione escatologica della cultura cristiana, il Kathéchon viene identificato con la Roma imperiale, considerata l’ultimo Regno in grado di proteggere il mondo dalla venuta dell’Anticristo. Questa interpretazione è basata sulla seconda Lettera di San Paolo Apostolo ai Tessalonicesi, e in particolare sul seguente (per molti versi misterioso) passaggio:
Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene.
Nella tradizione russa, il Kathéchon viene riproposto nella formula della “Terza Roma”, coniata dal monaco Filofej di Pskov nel XVI secolo. L’idea che i russi fossero il “popolo eletto” destinato a combattere l’Anticristo forgiò una mentalità con evidenti ripercussioni politiche e ideologiche. Già durante il regno di Ivan IV (detto il Terribile), incoronato nel 1547 dal metropolita Makarij con il titolo di “gran principe e zar di tutta la Rus’”, in un rito di definitiva sacralizzazione della monarchia russa, vennero indicati due nemici contro cui Mosca doveva fungere da Kathéchon.
Un Anticristo esterno, che poteva arrivare dalle terre oltre la Moscova; e un Anticristo interno, che veniva identificato nella resistenza alla volontà del potere costituito, soprattutto nelle fasi di instabilità e disordine. Equiparando ogni insubordinazione al tentativo di indebolire lo Stato nel suo ruolo di “freno” al ritorno dell’Anticristo, veniva forgiato in chiave escatologica un certo tipo di regime e di esercizio del potere che avrebbe segnato a lungo la cultura politica della Russia. In particolare nel rapporto tra Stato e popolo.
Nel XVIII e XIX secolo, i contenuti del concetto di Kathéchon cambiarono però sensibilmente. La sua interpretazione venne collegata al dibattito tra occidentalisti e slavofili, divenendo così una dottrina laica di politica estera a difesa dell’unicità storico-culturale della Russia. Manteneva comunque anche una dimensione messianica, per cui Mosca restava la protettrice del mondo e lo “scudo” che aveva salvato l’Europa dall’orda mongola. A quest’ultimo riguardo, è rinomata la presa di posizione di Puškin nella sua Lettera a Cˇaadaev del 19 ottobre 1836:
Senza dubbio, lo scisma ci ha separati dal resto dell’Europa, e non abbiamo potuto partecipare a tutti i grandi eventi che l’hanno definita, ma noi abbiamo avuto un destino speciale. È stata la Russia e il suo territorio senza limiti che ha assorbito l’invasione dei Mongoli. I Tatari non hanno osato giungere sino ai nostri confini occidentali, lasciandoci alle loro spalle. Si ritirarono verso i loro deserti e la civiltà cristiana è stata salvata […] il nostro martirio ha evitato distrazioni allo sviluppo energico dell’Europa cattolica.
Durante l’Epoca d’argento, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il principio del Kathécon venne nuovamente riformulato, questa volta in termini apocalittici e declinisti. Nel 1894 Vladimir Solov’ev, ispiratore del movimento poetico del Simbolismo, scrisse una poesia, Panmongolismo, in cui elogiava la cultura orientale e profetizzava la caduta di Mosca come Terza Roma. A seguito della guerra russo-giapponese del 1905, si diffuse inoltre in Russia la paura – ampiamente riflessa nella letteratura del tempo – dell’uomo orientale. Nel 1913, Andrej Belyj scrisse uno dei più importanti romanzi simbolisti, Pietroburgo, dove a questa fobia veniva riservato uno spazio centrale.
La Prima guerra mondiale e la Rivoluzione bolscevica aggiunsero poi un ulteriore elemento di caos e di disordine dionisiaco, silitico che di autocoscienza. La Russia non sembrava più in grado di mettere un freno alla venuta dell’Anticristo. Anzi, di fronte ad un mondo che non offriva più una prospettiva di salvezza, abbassava lo scudo protettivo e lasciava passare la “malvagità”, con il suo carico di guerra, morte e distruzione.
Questo senso di Apocalisse imminente lo si ritrova – in particolare – nella poesia di Aleksandr Blok, Gli Sciti. Nei versi dedicati al popolo delle steppe vi si intravede – all’inizio del 1918, sullo sfondo dei colloqui che avrebbero condotto al Trattato di Brest-Litovsk – una Russia tumultuosa, impaurita e smarrita, che minaccia di non alzare nuovamente la “diga” contro l’onda (anche simbolica) del panmongolismo nel caso in cui russi ed europei non fossero riusciti a trovare la pace e a salvare la loro civiltà. Particolarmente significativo è il passaggio seguente:
Unisciti a noi! Via dalla guerra,
Vieni nelle nostre pacifiche braccia!
Sei ancora in tempo – la spada sotterra,
Compagno! Fratello, ti abbraccio!
Ma se la nostra offerta sarà vana,
Anche noi conosciamo la slealtà!
La vostra progenie sarà malsana
E per secoli interi vi maledirà!
Per boscaglie e boschi ci scanseremo
Davanti all’Europa bella e distinta,
E rivolti ad essa noi mostreremo
Il nostro sorriso e l’asiatica grinta!
Andate, andate pure negli Urali!
Noi lasceremo il campo di battaglia,
Là dove respira l’integrale,
Dove colpisce la mongola marmaglia!
Ma d’ora in poi non saremo più un baluardo,
D’ora in poi alla lotta non costretti,
La lotta seguiremo con lo sguardo,
Coi nostri occhi sghembi e stretti.
Noi non ci muoveremo quando gli empi
Unni i cadaveri deruberanno,
Bruceranno le città e i templi,
E la carne dei bianchi arrostiranno!
Per quanto concerne la versione sovietica del Kathéchon, la questione è molto articolata e richiederebbe ben altra trattazione. Ci limitiamo qui a ricordare in modo succinto due interpretazioni storiografiche. In primo luogo, è stato sostenuto che secondo una logica conservatrice, Stati Uniti e Urss hanno svolto entrambi, durante la Guerra fredda, un ruolo di “freno” rispetto al rischio dell’Apocalisse atomica. La dottrina della “distruzione mutua assicurata” avrebbe cioè “trattenuto” sia Mosca che Washington dal compiere passi avventati, garantendo – in ultima istanza – la stabilità globale. Secondo un’altra lettura, di stampo liberale, sarebbe stata invece la stessa guerra fredda ad agire da Kathéchon, “congelando” la realizzazione del progetto kantiano di un governo mondiale e di una pace perpetua.
Dopo il 1991 è tuttavia prevalsa – almeno tra le fila dei neoconservatori russi – un’ulteriore interpretazione dell’Urss come Kathéchon. Il regime sovietico è stato presentato, secondo una visione secolarizzata del messianismo russo, come protettore della classe operaia rispetto all’oppressione del capitalismo e – soprattutto – come bastione che ha difeso l’umanità dal male assoluto del nazismo. Negli anni Novanta, i neoconservatori russi hanno inoltre scoperto il pensiero di Carl Schmitt che ha scritto del Kathéchon in Il nomos della terra. Ed è stato soprattutto Dugin, attraverso una serie di articoli tra i quali Katechon and Revolution pubblicato nel 1997, a rendere Schmitt popolare anche in Russia.
Se nella filosofia di Schmitt il Kathéchon coincide sostanzialmente con lo Stato che protegge contro il caos, nella Russia post sovietica il concetto, molto caro ai “conservatori radicali”, ha finito per incarnare l’idea stessa di difesa dalla minaccia esterna. Mosca è vista cioè come la forza che resiste a un nemico fisico e metafisico inviato dall’Anticristo. Un tempo i Tatari, i Turchi, Napoleone o Hitler. Più di recente i liberali, gli agenti americani, i movimenti Lgbt, la Nato, l’Unione europea, il liberalismo, la globalizzazione, il postmodernismo.
Il Kathéchon si erge in sostanza a difesa della civiltà russa, a cominciare dalla sua identità ortodossa. Nel manifesto conservatore, La dottrina russa si enfatizza proprio la dimensione religiosa ed escatologica del concetto e infatti vi si legge: “Il Kathéchon come regno ortodosso difende i cristiani contro le forze ostili alla salvezza dell’anima”. Dal canto suo, il conservatore Cholmogorov ha definito il Kathékon come segue:
Ecco come l’idea bizantina di Kathéchon, l’idea di trattenere il mondo, è riflessa nella nostra coscienza imperiale. È ciò che sta sul ponte tra l’Anticristo e il mondo e che impedisce all’Anticristo di entrare nel mondo. Ora non è più un ponte, ma piuttosto una botola, il cui coperchio viene ogni tanto rimosso e alcuni vampiri o lupi mannari o assassini escono dal buco. Lo stivale [militare] russo incerato pesta il coperchio e ripristina il silenzio per un po’ di tempo.
La forza militare è quindi un alleato del Kathéchon. Le parole di Cholmogorov lasciano intravedere come i conservatori post sovietici, soprattutto i più radicali, abbiano una visione politica, patriottica e militarizzata della religione ortodossa. Una visione nazionalista. Come direbbe Dugin, sono intellettuali che oppongono al cattolicesimo occidentale lo spirito ortodosso: contemplativo, apofatico, esicastico, comunitario, anti-individualista e antimoderno. E che fanno rivivere il mito di fine Ottocento della Russia “Nuova Gerusalemme”, la terra che custodisce la verità di Cristo. I neoconservatori parlano, in particolare, di un’ideologia dell’“ortodossia atomica”.
Una dottrina basata sulla capacità di unire il “rosso” (lo scudo atomico forgiato in epoca sovietica) e il “bianco” (lo scudo della chiesa ortodossa), garantendo così la sovranità del Paese. Il “doppio scudo” (militare e religioso) è indispensabile affinché la Russia sia indipendente e realizzi la sua missione nel mondo. Fede e forza militare concorrono al conseguimento di uno stesso obiettivo: difendere l’ordine.
Per Cholmogorov, Dugin e Prochanov la dimensione militare della Russia riguarda, in altri termini, la sua stessa natura spirituale. Mosca deve essere infatti forte perché nulla e nessuno possa mettere a rischio la sua capacità di testimoniare la fede cristiana. Questo “patriottismo ortodosso” risale al 1888, quando fu celebrato il novecentesimo anniversario della conversione della Russia. Il simbolo più recente di tale connubio può essere individuato nella costruzione di un’enorme cattedrale, fuori Mosca, nel Parco della Vittoria, dedicata alle forze armate russe. Putin sembra aver convalidato il concetto di “doppio scudo” quando nel 2007 a Sarov (la città dove fu prodotta la prima bomba atomica sovietica) ha risposto alla domanda di un giornalista sulla politica nucleare di Mosca e sul futuro dell’ortodossia, usando le seguenti parole:
Le due questioni sono correlate perché sia la fede tradizionale della Federazione Russa che lo scudo nucleare della Russia sono componenti che rafforzano lo Stato russo e creano le condizioni necessarie per la sicurezza interna ed esterna del Paese. Ciò indica chiaramente come lo Stato debba trattare entrambe [le problematiche] oggi e in futuro.
Nel pensiero di Putin, l’ortodossia va quindi arruolata a difesa della stabilità, della Patria, dello Stato e della sua sovranità. La scelta di considerare l’ortodossia come una religione politica ha implicato – per alcuni circoli conservatori – la messa in evidenza del legame con la guerra e la resistenza al male. Da qui la tendenza a rivalutare i principi guerrieri (Nevskij, Donskoj) e il tentativo di “canonizzare” i costruttori dello Stato russo: Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Stalin, o personalità militari come il Maresciallo Zˇukov o i marinai del sottomarino Kursk.
In definitiva, possiamo ritenere che Kathéchon e ortodossia atomica facciano parte della coscienza collettiva russa, come l’eccezionalismo di quella americana. Entrambi i concetti contribuiscono infatti alla missione nazionale di respingere i nemici e tutelare ordine e status quo, secondo un’esigenza fortemente sentita dai russi, consciamente o inconsciamente. In Fuga da Bisanzio, Iosif Brodskij – sia pur nel quadro di riflessioni metafisiche e certo non di segno conservatore – ha scritto:
Noi siamo, dopo tutto, un popolo molto sedentario, lo siamo anche più di altri popoli europei (tedeschi o francesi) che corrono a destra e a sinistra, se non altro perché hanno le automobili e non hanno frontiere che siano vere frontiere. Per noi un appartamento è a vita, la città è a vita, il Paese è a vita. Perciò i concetti di residenza e di permanenza sono più forti; e così il senso di perdita. Eppure una nazione che in mezzo secolo ha perduto quasi sessanta milioni di anime sacrificandole al suo Stato carnivoro […] era sicuramente in grado di intensificare in sé il senso della stabilità. Se non altro perché quelle perdite furono sostenute per la causa dello status quo.
I russi incarnano dunque una drammatica propensione alla stabilità. Di cui lo Stato approfitta per perseguire i suoi fini e preservare sé stesso. Secondo la logica conservatrice, attraverso questa interiorizzata capacità russa di “trattenimento” dello status quo, Mosca non difenderebbe peraltro solo sé stessa (e il suo sistema) da una minaccia occidentale che la pone sotto attacco ma proteggerebbe anche, ancora una volta, la cultura europea autentica, i veri valori cristiani, l’anima spirituale del Vecchio continente cui gli europei stessi avrebbero voltato le spalle.
[La Chiesa ortodossa] – ha osservato John Burgess – è arrivata alla seguente conclusione: poiché la Russia, spesso a dispetto di sé stessa, ha preservato l’ortodossia nel tempo, la nazione e la sua Chiesa hanno ora una responsabilità speciale, dimostrare cosa è buono e vero non solo per i russi ma per l’umanità intera. La grandezza della Russia sta nel tutelare questa visione di paradiso in terra e nell’offrirla al mondo.
Di fronte all’invocazione di questa responsabilità universale, il nemico del Kathékon e dell’ordine costituito non sarebbe allora l’Occidente in sé, ma la sua degenerazione postmoderna. La vera dialettica contemporanea – ha sottolineato Natal’ja Naroˇcnickaja, membro dell’Izbosrkij Club – andrebbe pertanto riassunta in questi termini: “Europa conservatrice versus Europa postmoderna e la Russia è dalla parte dell’Europa conservatrice”. Sebbene Putin non si sia mai schierato in modo così netto e non abbia mai usato esplicitamente il concetto di Kathéchon, la sua narrativa pubblica ne è pervasa. Basti ricordare il discorso di Monaco del 2007, l’intervento presso il Club Valdaj del 2013 o le parole usate in occasione dell’annessione della Crimea nel 2014. Basti pensare alla sua posizione sulle “rivoluzioni colorate” o sulle “Primavere arabe”. Tutti esempi dai quali emerge la consapevolezza di quale sia diventata – oggi – la posta in gioco nel rapporto tra Russia e Occidente.
Non più soltanto una competizione geopolitica tra divergenti interessi nazionali, ma una battaglia metafisica tra diversi modelli di valori. Eccezionalismo americano versus Idea Russa. Cosmopolitismo europeo versus sovranismo russo. Disordine versus ordine. Cambio di regime versus status quo. Anomia versus Kathéchon. Una battaglia che implica anche una crescente politicizzazione della dimensione religiosa, nel caso della Russia dell’ortodossia, attraverso un’alleanza sempre più stretta tra “spada” e “altare”.
Da La Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica di Luca Gori. In alto, immagine di Pieter Bruegel – The Fall of the Rebel Angels.
Luca Gori è un diplomatico italiano, ha prestato servizio nelle Ambasciate d’Italia a Mosca, Washington e nella Rappresentanza Permanente italiana presso l’Unione europea a Bruxelles. È autore di vari saggi di politica internazionale, tra i quali Il russo del diplomatico (Studio Editoriale Gordini, 2007), L’Unione europea e i Balcani occidentali (Rubbettino, 2007), L’America allo specchio (Aracne, 2015), L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, con Alessandro Aresu (Il Mulino, 2018).
Putin, lo zar «folle» che si crede onnipotente: «Nella sua mente una realtà parallela». Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.
Ossessioni, incubi e pensieri segreti: «Da quando ha modificato la Costituzione diventando presidente a vita la sua psicologia è cambiata».
La notte in cui cadde il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, il tenente colonnello Vladimir Putin , capo della stazione del Kgb a Dresda, chiamò la guarnigione sovietica di stanza a Potsdam chiedendo aiuto e sollecitando un intervento armato. Una folla inferocita aveva circondato il consolato dell’Urss e minacciava di assaltarlo. La risposta fu negativa: «Non abbiamo l’autorizzazione da Mosca: il centro tace».
Quella frase ha segnato per sempre la sua vita.
La paralisi del potere e il caos della piazza sono da allora i suoi incubi.
Come disse nel 2000, l’anno in cui fu eletto presidente della Russia, «in quelle circostanze funziona una cosa sola: devi colpire per primo e colpire così duro che il tuo avversario non dev’essere più in grado di reggersi in piedi».
«Avremmo evitato molti problemi — aveva aggiunto — se non avessimo lasciato così frettolosamente l’Europa Orientale».
Il più macroscopico, secondo Putin, fu il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando l’indipendenza delle Repubbliche, soprattutto quelle slave «fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo a essere diviso da confini di Stato».
Forse è utile tornare a quell’episodio lontano nel nostro viaggio nella mente dello zar, per cercare di capirne le motivazioni profonde che lo hanno portato a ordinare la più vasta operazione militare in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale . E soprattutto per capire quanto residuo equilibrio e ragionevolezza albergano ancora in lui.
Se questo è il retroterra, è chiaro che Putin abbia deciso, trent’anni dopo, di agire in nome dell’unità del popolo russo.
Meno lineari sono i processi che hanno convinto il leader del Cremlino a scatenare l’apocalisse e lanciare una guerra distruttiva, che probabilmente lo vedrà prevalere ma rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro, ritorcendosi sulla Russia con gravissime conseguenze politiche, economiche e strategiche.
Qualunque sarà l’esito della partita ucraina, è evidente infatti che nei prossimi anni un nuovo intermarium, una linea divisoria da mare a mare, scenderà dal Baltico al Mar Nero separando di nuovo il continente tra due blocchi nemici.
Secondo lo scrittore russo Viktor Erofeev, «nella mente di Vladimir Putin si è formata chiaramente una realtà parallela, incomprensibile all’Ucraina, all’America e all’Europa».
È un mondo nel quale a Kiev governa una banda di neonazisti, che si arma con il contributo americano e minaccia militarmente la Russia. «In questa visione, l’Ucraina dev’essere demilitarizzata, il suo esercito liquidato, il Paese un po’ castrato». Erofeev sostiene che questa realtà alternativa si è andata formando in Putin nell’arco di vent’anni, quelli in cui è stato presidente, e che si fonda su quattro elementi di base: «L’infanzia povera, la gioventù da ragazzo di strada, il Kgb e l’impero sovietico».
Nella seconda realtà putiniana tutto è una battaglia da vincere e tutto grida vendetta per lo status perduto nella sconfitta della Guerra Fredda e nell’umiliazione subita da allora.
Anche Nikolai Swanidse, già membro del Consiglio per i diritti umani e vecchio amico di Putin, prima di cadere in disgrazia per la sua difesa di Memorial, data a due decenni fa l’inizio della deriva: «Come possono avere una influenza positiva vent’anni di potere incontrollato e zarista?». Secondo Swanidse, «il linguaggio serve a Putin per nascondere i suoi pensieri, interessante non è quello che dice, ma quello che fa».
Ma è stata l’esperienza della pandemia, chiuso per due anni in una fortezza sempre più separata dal mondo, ad accentuarne gli aspetti messianici e la convinzione di dover assolvere a una missione.
Prima però c’è un passaggio importante, secondo la politologa Tatjana Stanowaja: «La svolta è all’inizio del 2020 quando Putin modifica la Costituzione e si rende di fatto presidente a vita: può stravolgere le regole a suo piacimento e questo cambia la sua psicologia e il modo in cui si rapporta ai suoi avversari interni ed esterni, lo fa sentire onnipotente».
Putin identifica il destino della Russia con quello suo personale.
La Storia è diventata per lui un’ossessione.
Non dovrà più succedere che un presidente americano, come fu il caso di Barack Obama, si permetta di definire la Russia «una potenza regionale».
Aprire la crisi in Ucraina, dice lo storico Reinhard Krumm, «è la catarsi geopolitica per riordinare i rapporti della Russia con il mondo», qualunque sia il prezzo. Putin pensa ormai da monarca assoluto e identifica il destino della Russia con quello della sua persona. E adotta una narrazione sempre più irragionevole: «Considera la Russia come un’entità metafisica, un essere eterno che per ragioni storiche è superiore a un’entità artificiale costruita da Lenin, che è l’Ucraina», spiega Kurt Kister, ex direttore della Süddeutsche Zeitung.
Il problema è che è difficile, forse impossibile, negoziare con qualcuno che pensa in termini metafisici.
Chiunque sia andato a Mosca nelle ultime settimane si è trovato davanti un leader aggressivo, emotivo e soprattutto latore di una dimensione parallela e lontana dalla realtà.
Non potrà più lamentarsi di non essere preso sul serio, Vladimir Putin. Ma come lui stesso scrisse in una dedica al regista Nikita Mikhalkov, sotto una foto che lo ritraeva nell’atto di saldare un conto al ristorante: «Bisogna pagare per tutto nella vita, Nikita».
Il saggio di Franco "Bifo" Berardi. Come si cura il nazi, la forza del libello che unisce Marx e Deleuze. Filippo La Porta su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022.
Nel 1992 apparve un aureo libretto di Bifo (Franco Berardi), che per immaginazione sociologica e capacità di lettura del presente metterei accanto ai saggi di Bauman, Sennett, etc. (benché più “militante”): Come si cura il nazi ora riproposto dall’editore Tlon, con una bella prefazione di Luca Cirese e una postfazione dell’autore. La diagnosi è classicamente marxiana (Grundrisse): il capitale ha sviluppato una potenza produttiva e tecnologica straordinaria, che però non mette al servizio dell’umanità, o solo quanto basta per ricavare il suo profitto. Premessa generale è l’idea che il fine dell’uomo è potenziare l’intelletto sovraindividuale, la intelligenza collettiva ai fini della propria liberazione (Aristotele riletto da Averroè). Bifo è forse il frutto migliore della fervida stagione dell’operaismo: ne conserva l’audacia teorica senza certa ferrigna pesantezza. Ripassiamo a grandi linee l’analisi contenuta nel libello, dove fa interagire Marx con Deleuze e Lenin con Tristan Tzara.
Perlopiù il valore della merce, nella economia immateriale (fatta di beni immateriali) non è più dato dal lavoro in essa contenuto ma dall’immaginario: principale forza produttiva è l’intelligenza, la capacità di relazioni, il linguaggio, l’assistenza. Il che schiude prospettive inedite di emancipazione. Oggi si fronteggiano due soggetti: la mondializzazione, fredda e impersonale, che implica sradicamento, e il bisogno spesso paranoico di identità locale, tribale, di radici salde anche se magari inventate. Un po’ lo schema del sociologo Benjamin Barber in un saggio uscito da noi nel 2002: globalismo vs tribalismo, McMondo vs Jihad, tra loro segretamente e involontariamente complici, dunque entrambi da rigettare. Anche se personalmente non sono perfettamente equidistante: il McMondo, per quanto orribile, contiene pur sempre alcuni anticorpi. Come peraltro sa Bifo l’illuminismo finisce in idolatria e la modernità occidentale sarà pure andata a male, tuttavia implica da sempre la critica della modernità stessa, da Baudelaire e Nietzsche fino a Marcuse. Proprio Marx apprezzava questo aspetto dirompente della modernità, che ingarbuglia ogni appartenenza e identità. Né sono del tutto convinto che il consumismo sia uguale al gulag: la pubblicità ti inganna e ti seduce, ma non ti controlla interamente.
È però indubitabile che il nazismo attuale si genera dal terrore “malato” della contaminazione e del contatto, e dalla ricerca di certezze populiste e identitarie. Ora, prima di arrivare alla pars costruens, davvero innovativa (su come interferire con la costruzione dell’immaginario), vorrei esprimere un dubbio su un solo aspetto. Dopo pagine e pagine in cui leggiamo una apologia dello spaesamento e dello sconfinamento, una gaia scienza del nomadismo, del transito e dell’erranza, viene umanamente voglia di stabilire ogni tanto dei confini, benché provvisori, di essere anche un po’ stanziali. Simone Weil nel suo elenco dei “bisogni dell’anima” – nell’Enracinement (1943) – metteva accanto al bisogno di giustizia, di libertà, di verità, di uguaglianza, etc, anche quello di gerarchia, di sicurezza, di ordine, di obbedienza, e infine di radicamento. Insomma se intendiamo trovare un nuovo fondamento della convivenza sociale dobbiamo allora disporre di un orizzonte antropologico sufficientemente ampio. Il punto è dare risposte mature a questo insieme di bisogni: ogni radicamento dovrebbe essere ogni volta scelto consapevolmente dagli individui e non coincidere con una mitica origine, o peggio con sangue e suolo.
Lo stesso Bifo poi mostra un piccolo cedimento identitario quando non può fare a meno di richiamarsi alla centralità del “comunismo”, anche se definito però elegantemente come “assenza”, come “indicibile” (una teologia negativa lievemente estetizzante). Sempre Weil lamentava che non esistono atei ma idolatri. Difficile non esserlo per niente. Là dove queste pagine ritrovano tutta la loro verità è quando si impegnano a definire in cosa consista la cura del nazi, e – intendo sottolinearlo – si tratta di un nazi dentro e fuori di noi. Dato che il nazismo di ieri e quello di oggi (appena più depresso) nasce da un irrigidimento, dalla ossessione della purezza (e del capro espiatorio), dall’ipernazionalismo, dalla paranoia identitaria, e infine dalla “pretesa di dominare il corso storico e naturale degli eventi” – mentre sappiamo che la realtà è impura, e inoltre mutevole ma immodificabile, ingovernabile – bisogna allora ripensare la politica stessa, oggi tanto più impotente quanto più parla di strategie e progetti. Bifo propone di agire molecolarmente, dentro “microsituazioni comunitarie”, di ridicolizzare ovunque il culto economicistico, la identificazione tra ricchezza e consumo, di insegnare (e imparare) a sorridere, di sottrarsi alla competizione, di perdere il controllo (il quale è sempre una illusione), oltre – beninteso – la proposta di una riduzione generale dell’orario di lavoro (che permetterebbe a ciascuno una maggior cura di sé).
Ora, affinché questo appello non finisca in una nobile retorica, in un messaggio gentile, vagamente zen, bello ma anche un po’ fumoso – “disponibilità alla deriva”, abbandonarsi alle correnti, disperdere il sé … – il lettore è chiamato a tradurlo nella propria esistenza. Insomma il libro di Bifo va completato e direi collaudato dentro la esperienza quotidiana, anche immaginando sperimentazioni personali, esempi tangibili e sorridenti di “ben fare”, terapie contagiose e irradianti (sapendo inoltre che un naziskin è spesso meno coerente del suo stereotipo). Provo a fare solo un paio di esempi. Ciascuno dovrebbe – nel suo ambito professionale – rinunciare al potere di cui si trova anche casualmente a disporre (come medico, come docente, come leader politico, come giornalista…). In tal modo “togliere alla relazione sociale il suo carattere violento”, decostruire logiche di dominio entro il proprio ruolo sociale. E ancora: dovrebbe dimostrare non retoricamente ma con il proprio concreto stile di vita che limitarsi alle cose essenziali è più interessante e piacevole della ricerca del successo. Filippo La Porta
Quella profezia di Freud a Einstein: "Non c'è speranza di reprimere la violenza innata". Karen Rubin il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Putin incarna le pulsioni dell'odio e della distruzione che impediscono all'umanità di vivere in un mondo prospero e senza coercizioni.
Il 30 luglio del 1932 Albert Einstein scrisse una lettera a Sigmund Freud. Sperava che lo psicoanalista potesse rispondere rivelando alla comunità scientifica come agire sulla mente umana per indirizzarla al rifiuto della guerra. Il fisico propose un'autorità sovranazionale, legislativa e giudiziaria, che imponesse con la forza di sottomettersi alle sue sentenze per comporre pacificamente tutti i conflitti, convinto che nella realtà diritto e forza siano inscindibili. La domanda rivolta a Freud riguardava la propensione della massa a lasciarsi assoggettare da una minoranza di potere che con la guerra guadagna invece di perdere e soffrire come avviene ai comuni mortali.
Voleva sapere, lo scienziato, se ci fosse la possibilità di rendere gli uomini mentalmente più capaci di resistere alle psicosi dell'odio e della distruzione. Lo psicoanalista risposte articolando il suo pensiero sul rapporto tra diritto e potere.
Chiese di sostituire la parola «potere» con la parola «violenza» dato nella storia i conflitti d'interesse tra gli uomini si erano risolti generalmente mediante violenza, per asservire il nemico o ucciderlo, soddisfacendo così un'inclinazione pulsionale. La psicoanalisi, spiegò Freud, presume due tipi di pulsioni: di vita, eros, che tende alla conservazione, e di morte, thanatos, che è aggressiva e distruttiva. Entrambe indispensabili alla vita. La pulsione di autoconservazione è erotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all'aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, necessita della pulsione di appropriazione se vuole impadronirsi dell'oggetto desiderato. La propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, sembra ovvio ricorrere all'antagonista pulsione di vita, incentivando quei legami tra gli uomini che creano amore e solidarietà. Un tale stato di pace, aggiunse lo psicoanalista, era pensabile solo teoricamente.
Nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità comprende fin dall'inizio elementi di forza disuguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell'assoggettamento, vincitori e vinti. Da quanto precede, continuò Freud, si ricavava la conclusione che non c'è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici della terra, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l'uomo ha bisogno, ci siano popoli la cui vita scorre senza coercizione e l'aggressione è sconosciuta. Un mito a cui lo psicoanalista disse di non credere aggiungendo che anche i bolscevichi speravano di sopprimere l'aggressività garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l'uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della loro comunità, ma intanto si erano armati con il massimo scrupolo. Freud avrebbe detto a Putin di non sentirsi così diverso dal leader bolscevico Lenin che tanto disprezza.
P.Val. per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
«L'obiettivo è un cambio di regime a Kiev, né più, né meno. Putin lo ha detto chiaramente: gli obiettivi sono demilitarizzazione e denazificazione. L'esercito russo vuole prendere il controllo dell'intero territorio o della maggior parte di esso. Mosca rifiuta di parlare con il governo ucraino e questo implica che l'operazione militare continuerà e che il risultato che auspichiamo è l'emergere di un nuovo Paese. Stiamo vivendo le ultime ore dell'Ucraina come l'abbiamo conosciuta in 30 anni. Al suo posto nascerà un Paese che Mosca considererà amico e leale, privo di ideologia nazionalista e in rapporti del tutto diversi con l'Occidente».
Dmitrij Suslov dirige il Centro di Studi europei e internazionali presso la Scuola Superiore di Economia di Mosca, uno dei pensatoi di politica estera più vicini al Cremlino. Perché Putin agisce ora?
«La pazienza russa è finita. Putin ha concluso che l'Occidente, per cecità o per scelta, ha sistematicamente ignorato le sue preoccupazioni e le sue richieste, di cui si è parlato per anni, in particolare negli ultimi mesi. Alla luce dell'assoluta mancanza di progressi nell'applicazione degli accordi di Minsk, del rifiuto da parte americana delle garanzie di sicurezza chieste dal Cremlino, del pericolo militare rappresentato dagli attuali rapporti tra gli Usa e l'Ucraina, la Russia ha deciso di risolvere il problema unilateralmente».
Così non si rischia di innescare una guerra globale?
«L'Occidente reagirà con sanzioni, critiche e il rafforzamento della struttura militare della Nato nell'Europa centro-orientale. Ma sappiamo bene che non ci sarà alcuna guerra nucleare. Gli Usa hanno detto chiaramente che non combatteranno contro la Russia per l'Ucraina.
Certo, non c'è dubbio che siamo già entrati in una nuova realtà geopolitica, un nuovo stato delle relazioni. Il dopo Guerra Fredda è finito per sempre e siamo dentro una confrontazione a tutto campo con l'Occidente, inclusa l'Unione Europea. Se non è una nuova Cortina di Ferro, ci manca poco. Lo scontro sarà forte, ci considereremo di nuovo nemici. Tutto ciò purtroppo è vero, ma la leadership russa considera più importante la risoluzione della questione ucraina ed è pronta a pagare il prezzo».
Al Cremlino sono emerse differenze di opinione. Putin ha deciso da solo?
«Difficile dirlo. È vero che non c'è pieno consenso nella comunità di politica estera su questa scelta. Alcuni pensavano che ci fosse una chance per la diplomazia. Ma la decisione presa è stata un'altra».
Non temete una forte resistenza interna in Ucraina, uno scenario afghano?
«La leadership russa spera che le truppe ucraine rifiutino di combattere e l'esercito si disintegri. Non escludo una forte resistenza in alcune parti del Paese, quelle più nazionaliste dell'Ovest, territori ostili dove le truppe russe probabilmente non entreranno. Ma il paragone con l'Afghanistan non regge: era un altro Paese, un territorio che offriva possibilità di santuari, non c'era nessun elemento culturale comune. Non mi aspetto una guerriglia su vasta scala. Ma lo scenario ideale sarebbe l'implosione del governo ucraino e un cambio di regime prima che le truppe russe arrivino a Kiev».
Ma questo porterà la Russia ad essere completamente isolata nella comunità delle nazioni.
«Il mondo è più grande dell'Occidente, che non lo domina più. Non c'è dubbio che la Russia sarà politicamente isolata dal mondo occidentale e i loro rapporti saranno ostili per molti anni. Ma non ha senso parlare di isolamento russo nella comunità internazionale: le nazioni che gli Usa possono motivare contro la Russia sono una minoranza.
Cina, India, Medio Oriente, Africa, America latina non la isoleranno. Pechino non critica Mosca, oggi Lavrov ha parlato con il ministro degli Esteri cinese e non c'è stata una sola critica da parte sua. Forse la Cina non gioisce di fronte a questa azione, ma la sua posizione nei confronti della Russia è amichevole e questo ci aspettiamo dalla maggioranza dei Paesi. Quanto all'isolamento all'Onu, suvvia, la Russia è membro permanente del Consiglio di Sicurezza».
Di fronte a sanzioni più dure, la Russia userà l'arma energetica contro l'Europa?
«No. Piuttosto sarà l'Europa a usare l'arma energetica contro sé stessa. Dopo il blocco del Nord Stream 2, se diventasse impossibile il transito del gas attraverso l'Ucraina a causa dell'azione militare, le sole condutture attive sarebbero Nord Stream 1, Turkish Stream e una molto piccola attraverso la Bielorussia. Voglio dire che l'Europa soffrirà non perché la Russia taglierà le forniture, che continueranno, ma perché ha deciso di privarsi del Nord Stream 2».
Putin vuole entrare nella storia come l'uomo che ha unificato il mondo russo?
«Non c'è dubbio che questo sia uno dei pilastri del suo lascito storico: ristabilire l'unione dei tre Paesi slavi. Non si tratta di ridare vita all'Impero russo o all'Urss. Ma ristabilire un'alleanza tra nazioni sorelle. Sanzioni e confrontazione sono temporanee, questo è per le generazioni».
Guerra in Ucraina, per capire il conflitto serve conoscere il mito della grande Russia. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 24 Febbraio 2022.
Autocrazia e ortodossia. L’Impero e Kiev, madre di tutte le città. L’ideologia di Putin trova origine in un altro spazio. E in un altro tempo.
Dice Andrej Belyj nel prologo di “Pietroburgo”, uno dei più importanti romanzi russi, scritto fra il 1911 e il 1914: «L’Impero russo comprende: in primo luogo la Grande, la Piccola, la Bianca e la Rossa Russia (…) Il nostro Impero Russo consiste in una moltitudine di città: capitali provinciali, distrettuali, autonome. E inoltre: nella metropoli e nella madre delle città russe.
Nicolai Lilin, scrittore e autore del libro dedicato a Putin "L'ultimo Zar", per “Il Messaggero” il 25 febbraio 2022.
Vladimir Putin prefigurava da mesi l'attacco all'Ucraina. Non possiamo definire la decisione finale come una sorpresa. Servono mesi per preparare un'operazione, che ha lo scopo di smilitarizzare il Paese, scegliere le unità militari e disporre gli schieramenti.
In Occidente esiste un grave deficit culturale d'interpretazione di ciò che arriva dall'Est. Nell'ultimo anno le dichiarazioni programmatiche del presidente russo sull'Ucraina erano esplicite.
Nella logica dei blocchi contrapposti emerge dunque la persistenza dell'incapacità di dialogo tra la Russia e l'Occidente. L'intervento militare è sempre un fallimento. Nulla è più terribile di una guerra, piombata sulla soglia delle case dei civili, che la diplomazia non è stata in grado di arginare.
La guerra non produce alcuna soluzione. E il conflitto nelle città sarebbe devastante, perché i civili sarebbero le principali vittime. In entrambi i fronti l'impegno diplomatico è stato carente.
Da otto anni non si affrontano le questioni di fondo della vita delle persone schiacciate nel Donbass. Il conflitto dimostra l'incapacità russa di produrre una soluzione pacifica.
Come d'altra parte non si può dimenticare la volontà degli Stati Uniti d'imporre, espandendo la Nato sempre più prossima ai confini russi, al mondo la propria egemonia economica e militare che ha percepito minacciata in quel territorio.
I russi non vogliono trovarsi i missili della Nato puntati addosso davanti alla frontiera. La Russia ha aggredito l'Ucraina, ma ognuna delle parti in causa non ha scongiurato l'escalation, pensando ai relativi interessi. Le mancanze del governo ucraino appaiono evidenti.
Dopo l'indipendenza non c'è stato un rinnovamento della classe politica. La nomenclatura ha cambiato semplicemente abito. Si è trasformata dall'essere comunisti a neo oligarchi che hanno approfittato delle ricchezze ucraine senza preoccuparsi del benessere del Paese. In prospettiva gli obiettivi del presidente russo mi sembrano abbastanza individuabili.
Nei prossimi due o tre anni, organizzando la propria successione, vorrà uscire dalla scena politica come colui che ha ricucito le ferite della fine dell'Unione Sovietica. Questa è la sua ambizione.
Ha la dipendenza patologica di voler essere una grande figura storica. Intende essere ricordato come il leader che ha riparato il danno causato dal crollo sovietico. Negli anni, a modo suo, ha voluto ricostruire la sfera d'influenza russa, di cui l'Ucraina è l'ultimo tassello fondamentale, dando nuove forme all'idea d'impero sovietico.
Questo è l'atto finale della sua politica. Sul fronte interno negli ultimi cinque anni Putin, i suoi burocrati, hanno perso il rapporto con i giovani, nati dopo la fine dell'URSS, che non accettano la propaganda del regime, non capiscono la retorica patriottica e non hanno vissuto il contesto storico del socialismo reale.
Non comprendono le ragioni dell'attacco dell'Ucraina. Nel paese esistono voci contrastanti, pacifisti convinti che hanno manifestato, quando ormai era evidente il conto alla rovescia dell'intervento, ma sono minoranza. Putin ha visto crescere sempre i propri consensi affrontando le crisi, trovando un nemico e questa è una delle ragioni della guerra.
Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
Nel 2017, tre anni dopo l'annessione della Crimea, una statua in bronzo alta quattro metri dello zar Alessandro III venne inaugurata alla presenza di Vladimir Putin a Jalta, sulle rive del Mar Nero. Sul piedistallo sopra il quale è seduto con la spada sguainata, è scritta la sua frase più celebre: «La Russia ha due soli alleati: il suo esercito e la sua flotta». Alessandro III è lo zar preferito di Putin, il quale non perde occasione per ripeterne il motto, che evoca orgoglio, solitudine armata, disponibilità al sacrificio per la propria giusta causa, tratti distintivi della Russia di fronte all'Occidente decadente e viziato.
L'avventura ucraina suona plastica conferma di una certa idea del potere e della Russia, che Putin ha progressivamente maturato nei suoi ventidue anni al Cremlino. Ma se finora, dalla Crimea alla Siria, il presidente russo aveva sempre saputo minimizzare gli azzardi geopolitici e vendere abilmente i successi sul palcoscenico interno, il lancio dell'offensiva militare contro Kiev segna un cambio di passo, dove i rischi e i costi appaiono molto più alti di una vaga definizione di successo.
Cos' è cambiato nell'approccio mentale di Putin, da spingerlo a una scommessa tanto ambiziosa, pericolosa e non del tutto condivisa perfino da molti dei suoi più stretti collaboratori?
Per capirlo può essere utile partire da due quadri di Ilya Glazunov, considerato il più grande artista russo del XX secolo e molto amato da Putin, che nel 2010 lo insignì dell'Ordine per il merito alla Patria. Sono due dipinti a olio enormi, esposti l'uno di fronte all'altro a Mosca in un piccolo museo a lui dedicato, proprio di fronte al Pushkin.
Il primo ha per titolo «Il mercato della nostra democrazia» e nello stile realista che è la cifra di Glazunov, morto nel 2017, descrive il quadro caotico, inquietante e drammatico della Russia degli Anni Novanta, un Paese completamente allo sbando. Ci sono gli oligarchi e le prostitute, la povertà e l'invasione culturale americana, Eltsin e Clinton, la Nato e i bombardamenti in Bosnia, i bimbi abbandonati e i criminali, la droga e l'alcolismo, la privatizzazione bugiarda e i comunisti nostalgici. Ancora più importante è l'altro dipinto, che riesce a cogliere il senso profondo dell'operazione politico-identitaria di Putin. Il titolo è «La Russia Eterna».
È una composizione ordinata e popolata di santi e scrittori, zar e leader sovietici, principi guerrieri ed eroi del lavoro socialista, patriarchi, scienziati, i morti della Grande guerra patriottica come i russi chiamano il Secondo conflitto mondiale che costò loro venti milioni di vite umane. Il tutto è dominato da un grande crocefisso, con il Cremlino a far da sfondo e le icone di fianco ai razzi Sputnik. È una tela fiammeggiante, che trasmette orgoglio nazionale in ogni sua parte.
È il Russkij Mir , di cui Vladimir Putin si vuole ricostruttore e garante, una visione dove tutto si tiene. Più narrazioni In oltre due decenni al vertice, Putin ha cavalcato diverse narrazioni per la costruzione e il mantenimento del consenso. Prima la crescita economica, perseguita grazie agli alti corsi dei prezzi dell'energia. Poi la polemica con l'Occidente, accusato di voler far rivivere la Guerra Fredda con l'ampliamento della Nato ai baltici e agli ex Paesi del Patto di Varsavia.
Quindi il patriottismo nazionalista con l'annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni del Donbass nella guerra finora ibrida e a bassa intensità con l'Ucraina. E ancora la nuova alleanza (geopoliticamente contro-natura) con la Cina, superpotenza emergente. Ma quando ognuno di questi racconti ha cominciato ad esaurire la propria spinta propulsiva, l'ex agente del Kgb fattosi zar è tornato alla sua grammatica originaria: l'autoritarismo, il restringimento quasi totale di ogni spazio di libertà, la mano dura verso gli oppositori di cui il caso di Alekseij Navalny è l'emblema.
Ma l'isolamento forzato dalla pandemia, due anni vissuti in una bolla impenetrabile ai più, sembrano aver trasformato il leader russo, accentuandone aspetti messianici e quasi mistici.
E se già dopo l'annessione della Crimea aveva fatto riferimento al mondo russo, alla necessità di riunificare i fratelli separati dalla «più grande tragedia geopolitica del XX secolo», cioè la fine dell'Unione Sovietica, solo negli ultimi anni Putin si è sempre più immedesimato nel ruolo dell'unto del Signore: «Ha cominciato a parlare della sua missione in termini storici, è diventato meno pragmatico e più emotivo», dice la politologa Tatiana Stanovaya.
La sua distanza fisica e mentale da consiglieri e collaboratori è diventata siderale, facendone un autocrate a tutti gli effetti: «Putin è isolato, più isolato di Stalin», spiega Gleb Pavlovski, che lavorò con lui e con Dmitrij Medvedev prima di diventare un critico del sistema. Ora Vladimir Putin ha fretta. Sente l'età avanzare, la salute vacillare. Il tempo non è più dalla sua parte. Vuole di più e lo vuole subito. Ed è disposto a pagare e far pagare al suo Paese un prezzo molto alto.
«La sua è una guerra non solo per l'Ucraina, ma per il sistema europeo - dice l'ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer - vuole ristabilire la Russia come la potenza prevalente nello spazio ex sovietico, cancellando le umiliazioni degli Anni Novanta». Lo zar sa che una democrazia funzionante in Ucraina metterebbe a rischio la sua regola autoritaria. Così sta puntando al bersaglio grosso, memore di Alessandro III, esercito e flotta unici alleati. All'evidenza, non si accorge di aver sbagliato secolo.
Vladimir Putin "impazzito a causa del Long Covid": le voci sul presidente, vittima della "nebbia cerebrale"? Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022.
Tra i giornalisti e gli analisti di tutto il mondo si sta provando a dare una spiegazione al comportamento di Vladimir Putin, che evidentemente stava preparando da tempo l’invasione russa in Ucraina, nonostante fino a qualche giorno fa stesse tenendo apparentemente la via diplomatica. Uno dei primi a toccare con mano il cambiamento di Putin è stato Emmanuel Macron, che quando lo ha incontrato lo ha trovato “paranoico”.
D’altronde la conferenza con cui ha dichiarato guerra all’Ucraina ha ben poco di razionale, e qualcuno ha avanzato l’ipotesi che il Covid possa avere qualcosa a che fare con la “pazzia” del presidente russo. Tra settembre e ottobre Putin è infatti scomparso dopo che alcuni casi di positività sono emersi tra i suoi collaboratori più stretti: diversi esperti incontratisi al Council on Foreign Relations hanno avanzato l’idea secondo cui il comportamento e le affermazioni “non corrette” di Putin potrebbero essere correlate alla cosiddetta “brain fog”, ovvero alla nebbia cerebrale che può colpire il cervello dopo aver contratto il Covid.
“Si è letto che Putin non stia ragionando correttamente, forse a causa del Long Covid. Non c’è nessuna prova, ovviamente”, ha twittato Laurie Garrett, giornalista scientifica nonché autrice americana Premio Pulitzer. La tesi però non sembra campata per aria, dato che gli stessi leader politici che hanno avuto relazioni con Putin negli ultimi tempi hanno constatato come fosse diverso dal passato, di sicuro meno lucido e più paranoico.
Otto e mezzo, Alessandro Sallusti: "Hitler come Putin? Ci sono analogie inquietanti..." Libero Quotidiano il 26 febbraio 2022.
"Putin come Hitler?". Alessandro Sallusti, in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nella puntata del 25 febbraio, conferma il paragone: "Ci sono analogie, dei corsi e ricorsi storici, inquietanti... Nel 1938 Hitler invase la Cecoslovacchia con la scusa che ci fosse una minoranza tedesca vessata e l’Europa stette a guardare. Come quella era una scusa per Hitler così le minoranze russe lo sono per Putin", sottolinea il direttore di Libero.
Che osserva: "La domanda è se questo è il primo passo per ricostituire l'Unione Sovietica, per ricostituire un impero". "Se Vladimir Putin fosse il nuovo Hitler", aggiunge Gad Lerner, anche lui in collegamento, "e noi abbiamo sentito indicare tanti nuovi Hitler negli ultimi 20 anni, ci sarebbe solo una cosa da fare e ce lo dice la storia: armare una guerra militare contro la Russia".
"Questa è la seconda grande sconfitta dell'Occidente in pochi mesi dopo la fuga ingloriosa da Kabul", conclude dunque Gad Lerner. "Per me non è Hitler, è uno che vuole sviluppare una sua sfera d'influenza e avere la certezza che ai suoi confini non ci siano missili della Nato puntati contro di lui".
Otto e mezzo, Gad Lerner: "Se Putin fosse il nuovo Hitler, ci sarebbe solo una cosa da fare". Libero Quotidiano il 26 febbraio 2022.
Si parla della guerra in Ucraina e Gad Lerner, in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nella puntata del 25 febbraio, osserva: "Se Vladimir Putin fosse il nuovo Hitler, e noi abbiamo sentito indicare tanti nuovi Hitler negli ultimi 20 anni, ci sarebbe solo una cosa da fare e ce lo dice la storia: armare una guerra militare contro la Russia".
Quindi, ricorda il giornalista, "Putin è al potere da quasi 23 anni, si è presentato al mondo come capo della Russia attraverso la spietata repressione in Cecenia, che ha provocato più di 50mila morti, è stato ammirato perché visto come un baluardo contro l'islam aggressivo, ha un arsenale nucleare".
E oggi il presidente ucraino Zelensky, "nella situazione tragica in cui si trova, ha chiesto addirittura volontari che vadano a combattere per difendere Kiev. Ma noi non lo stiamo facendo", sottolinea. Quindi, conclude Gad Lerner: "Questa è la seconda grande sconfitta dell'Occidente in pochi mesi dopo la fuga ingloriosa da Kabul. Per me non è Hitler, è uno che vuole sviluppare una sua sfera d'influenza e avere la certezza che ai suoi confini non ci siano missili della Nato puntati contro di lui". "Noi dobbiamo decidere come ci vogliamo comportare in futuro con la Russia".
"Una nuova Urss", Sallusti e lo scenario da incubo su Putin. Lerner: se è come Hitler facciamogli guerra. Federica Pascale su Il Tempo il 25 febbraio 2022
"Ci sono delle analogie dei corsi e ricorsi storici che sono inquietanti, nel senso che alla fine non si inventa nulla, la storia è sempre quella.” Lo afferma Alessandro Sallusti, ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo, il talk di approfondimento politico in onda su La 7. Durante la puntata di venerdì 25 febbraio, il direttore di Libero ha commentato ciò che sta accadendo in Ucraina, invasa dalla Russia e attualmente in seria difficoltà.
“Nel ‘38 Hitler invase la Cecoslovacchia con la scusa che c'era una minoranza di popolazione tedesca che lui riteneva vessata dal governo cecoslovacco, e l'Europa stette a guardare. Sì, era contraria però alla fine glielo fece fare” ricorda Sallusti, “Come era una scusa quella di Hitler, immagino che probabilmente sia una scusa anche quella di Putin sulle minoranze russe. Da sempre in quella zona convivono etnie diverse, o comunque popolazioni che hanno origini diverse” e sottolinea: “La domanda è se questo è il primo passo per ricostruire un'unione sovietica, un impero”.
Altro ospite, in studio al fianco della Gruber, è Gad Lerner: “Mi sembra evidente che se Vladimir Putin fosse il nuovo Hitler, ci sarebbe una sola cosa da fare: la storia ci dice che la prima cosa da fare è armare una guerra militare contro la Russia di Vladimir Putin” decreta senza mezzi termini, ipotizzando dunque una terza guerra mondiale. Evidentemente non putiniano, il giornalista ricorda chi è il Presidente della Federazione Russa: “È al potere da quasi 23 anni, si è presentato al mondo come capo della Russia attraverso la spietata repressione in Cecenia che ha provocato più di 50.000 morti, applaudito da tutti i leader conservatori perché era visto come un baluardo contro l'islam aggressivo. Ha un arsenale nucleare.”
Ad ogni modo lo scenario di guerra ipotizzato da Lerner pare non si realizzerà, o almeno non adesso. Infatti, Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti d’America, e l’Unione Europea hanno già escluso un intervento armato in Ucraina. “Oggi Zelensky, disperatamente nella condizione in cui si trova, ha chiesto addirittura volontari di persone esperte con le armi che vadano a combattere per difendere la sorte di Kiev” riporta amareggiato Lerner.
Ivan, Caterina, Pietro il Grande: il pantheon zarista di Vladimir Putin. Lo strappo da Lenin e i bolscevichi e della democrazia liberale. L’unico faro per il Capo del Cremlino è il nazionalismo imperiale. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 23 febbraio 2022.
È un po’ come se un presidente degli Stati uniti parlando all’annuale “Discorso sullo stato dell’Unione” dicesse – «Vedete americani, la verità è che George Washington ha sbagliato tutto, e pure Benjamin Franklin. Non vi dico poi Abramo Lincoln». Però, con il discorso di Putin alla nazione, con cui ha spiegato “la rava e la fava” del perché riconosce le repubbliche del Donbass, è andata proprio così. Putin – serissimo, come sempre ma più di sempre – inizia scandendo bene le parole: «La questione è molto seria e deve essere discussa in modo approfondito» . È così che inizia la sua “lectio magistralis” di storia contemporanea: «L’Ucraina moderna è stata interamente creata dai bolscevichi, la Russia comunista. Questo processo iniziò praticamente subito dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e i suoi compagni lo fecero in un modo estremamente duro per la Russia: separando, recidendo ciò che è storicamente terra russa».
E uno salta subito sulla sedia. Parole che suonano come strappate al Libro nero del comunismo, che andò di voga un venticinque fa e in cui la storia di “Lenin e dei suoi compagni” era diventata una lunga serie di repressione, crimini e terrore su larga scala.
La storia sta davvero finendo e Putin è the last man standing – come recitava il famoso libro di Fukuyama? Riscrive in diretta la storia comunista dell’Unione sovietica, magari per dirci che sì, l’umanità ha come meta la democrazia liberale, abbandonando per strada monarchie, oligarchie, dittature, teocrazie, et voilà anche la Russia ci è arrivata? Non era questo, il sogno alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione sovietica? Non era questo, il sogno di Gorbaciov? Macché. Putin riavvolge il nastro della storia: «Da tempo immemorabile, le persone che vivono nel sud- ovest di quella che storicamente è stata terra russa si definivano essi stessi russi e cristiani ortodossi. Questo era il caso prima del XVII secolo, quando una parte di questo territorio si unì allo stato russo, e dopo».
Siamo, storicamente dalle parti di Ivan IV Vasil’evic, Ivan il Terribile, primo zar di tutte le Russie, e di Pietro Alekseevic Romanov, Pietro il Grande, primo imperatore di Russia. Ma non manca nemmeno Caterina: «Nel 2021, il cantiere navale del Mar Nero a Nikolayev ha cessato l’attività. I suoi primi approdi risalgono a Caterina la Grande». Eccolo, il Pantheon di Vladimir Vladimirovic Putin: Ivan, Pietro e Caterina.
Niente bolscevichi – persino il trattato di Brest- Litovsk che Lenin volle a tutti i costi con la Germania per finire una guerra che troppi morti russi aveva provocato, viene criticato: «umiliante», viene definito. Cancellati dalla storia, ma non come faceva Stalin, che li sbianchettava dalle foto, man mano che i suoi vecchi compagni cadevano nella Grande Purga degli anni Trenta. No no, in diretta tv, sotto gli occhi del mondo. Perché Putin ha bisogno di mettere sotto accusa la Rivoluzione russa del ’ 17 – quella che ha sostanzialmente creato l’Unione sovietica moderna? Perché egli critica il principio di “stato confederativo” – l’eccessiva autonomia che venne concessa dai bolscevichi alle multiple nazionalità che componevano l’ex impero russo che, va ricordato, copre un ottavo della superficie terrestre e ha undici fusi orari.
È lì, in quella costituzione che sta il male che è venuto dopo. «Quando si tratta del destino storico della Russia e dei suoi popoli, i principi di sviluppo statale di Lenin non erano solo un errore; erano peggio di un errore, come si suol dire. Questo è diventato palesemente chiaro dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991».Insomma: è colpa di Lenin se la Russia si è sciolta come neve al sole.
Ma la critica si sposta su un piano “teorico” e morale, contro la corruzione invalsa in Ucraina per colpa dell’Occidente e contro la sua supposta “civilizzazione”: «Questa situazione pone la domanda: povertà, mancanza di opportunità e potenziale industriale e tecnologico perduto: è questa la scelta della “civilizzazione” filo- occidentale che usano da molti anni per ingannare milioni di persone con promesse di pascoli celesti?». La Russia non sa che farsene della democrazia liberale, non sa che farsene del bolscevismo, non sa che farsene del confederalismo: la Russia è un impero. «Da tempo immemorabile» è così, il resto sono frattaglie della storia. Abbiamo uno zar e un imperatore di tutte le Russie, nuovo di zecca: Vladimir Vladimirovic il Grande.
Il terrore di Putin. Delitti e misfatti di un dittatore che ha trasformato la Russia nel suo show personale. Alessandro Cappelli su Linkiesta il 24 Febbraio 2022.
Mosca sfrutta una narrazione storica falsa e crea un pretesto per invadere l’Ucraina. È la trama del one man show condotto dal capo del Cremlino: in un Paese andato ormai oltre l’autoritarismo non esiste opposizione, non c’è dibattito politico e nemmeno gli oligarchi e l’élite hanno un vero peso sulle decisioni del leader.
Vladimir Putin è seduto alla sua scrivania in una sala enorme, di fronte a lui, a diversi metri di distanza, ci sono ministri, consiglieri, rappresentanti dei servizi segreti. Putin parla risoluto e interroga, gli altri balbettano, tremano, sembra che non sappiano cosa rispondere. Anche un falco come Sergey Naryshkin, direttore dei servizi d’intelligence esterni, sembra in preda al terrore. Un senso di impotenza da parte di tutti meno uno.
Il Consiglio di sicurezza della Federazione russa restituisce l’immagine di una Russia costruita, rappresentata, guidata solo e unicamente da Vladimir Putin. «Il capo del Cremlino usa questi momenti, che dovrebbero essere riservati, anche per fare propaganda, per dimostrare che lui è l’uomo forte e gli altri sono lì solo per dargli ragione», dice a Linkiesta Anna Zafesova, giornalista esperta di Russia e autrice del libro “Navalny contro Putin”. «Non c’è contraddittorio, non c’è confronto, e se c’è non emerge mai».
Poco dopo quella riunione del Consiglio di sicurezza, Putin ha annunciato pubblicamente di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche separatiste ucraine a Donetsk e Lugansk. Un riconoscimento che serve solo a fornire alla Russia un pretesto per varcare il confine ucraino e occupare i territori fino alla cosiddetta linea di contatto. A quel punto, la crisi è precipitata.
La risposta del mondo occidentale è arrivata qualche ora dopo. I leader di Unione europea, del Regno Unito e degli Stati Uniti si sono riuniti per stabilire nuove sanzioni da imporre a Mosca e hanno organizzato una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Martedì la Nato ha dichiarato di essere pronta a sedersi al tavolo e parlare con la Russia e ha specificato che a causa dell’invasione dei mezzi militari russi nel Donbass «sono stati messi in allerta 100 jet e oltre 120 navi».
Ma in ogni caso la risposta di Bruxelles e dell’Alleanza atlantica non sembra preoccupare l’autocrate russo: Putin continua a raccontare verità tutte sue, a dare la sua versione della storia, guardando soprattutto alle questioni interne al suo Paese.
Nel suo discorso, il leader del Cremlino ha dichiarato che gli accordi di Minsk che dovevano portare a una pace duratura in Ucraina «non esistono più», ha spiegato che la Russia sostiene il diritto dei separatisti su «tutto il Donbass» e che l’ingresso delle truppe in Ucraina «dipenderà dalla situazione sul terreno».
Per Putin, l’Ucraina è il giardino di casa. Lo ha dimostrato dicendo che il Paese vicino «non ha mai avuto una tradizione stabile come nazione a se stante». Una dichiarazione – falsa – che riprende diversi discorsi pronunciati in passato e anche un brano del suo saggio “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”, pubblicato lo scorso luglio, in cui sosteneva che russi e ucraini sono un solo popolo.
«La guerra non la vuole nessuno, ma molti russi potrebbero condividere il discorso imperialista di Putin: per qualcuno lo scioglimento dell’Unione sovietica è stato un errore e l’Ucraina davvero non ha una dimensione statale vera e propria. È una consapevolezza creata ad arte dalla propaganda putiniana, ma di certo il discorso del leader del Cremlino incontra la sensibilità di molti russi», spiega Anna Zafesova.
Il bagno di folla con cui lo scorso 18 marzo i russi accolsero Putin allo stadio Luzhniki di Mosca, in occasione del settimo anniversario della annessione della Crimea, dimostra che l’opera di revisionismo del Cremlino ha fatto proseliti in patria.
Negli anni, Putin ha reso la Russia il palco del suo personalissimo one man show, in cui non c’è spazio per le voci fuori dal coro. Gli oppositori politici sono tutti in carcere o in esilio, quelli ancora vivi. E non esiste megafono abbastanza forte che possa far sentire la loro voce. Ne è una prova il fatto che una settimana fa sia iniziato un nuovo processo contro l’attivista dell’opposizione russa Alexei Navalny – rischia altri dieci anni di carcere – ma la notizia viene costantemente coperta dal rumore della guerra al confine.
Nella Russia degli anni ‘20, le sanzioni in arrivo dall’Occidente possono pesare su un’economia che non gode di buona salute, ma è difficile intuire che impatto possano avere in termini di deterrenza e di decisioni politiche.
I legami economici con l’Europa sono chiaramente determinanti. L’Unione europea acquista il 27% di tutte le esportazioni russe e di certo i nuovi accordi con la Cina non hanno ancora lo stesso peso: il gasdotto Power of Siberia che porterà gas verso la Cina sarà completato solo nel 2025 e trasporterà un quinto di quello che oggi va in Europa.
Dal punto di vista politico, invece, «la logica delle sanzioni dovrebbe portare gli oligarchi a mettere pressione a Putin, solo che sono personaggi talmente succubi del suo autoritarismo che probabilmente non faranno granché per spostare gli equilibri», dice Anna Zafesova.
In effetti l’invasione del Donbass ha danneggiato l’élite economica russa, lo si è visto sui tabelloni della Borsa di lunedì e martedì, con i titoli russi che hanno perso il 20%. «Ma chi ci perde – aggiunge Zafesova – non è un’oligarchia come quella che abbiamo conosciuto nella Russia di Yeltsin, non sono privati che hanno comprato parti dello Stato ma aziende statali dirette da uomini piazzati da Putin. È vero che quando la Borsa crolla si impoverisce quella cerchia ristretta di uomini di fiducia del capo, ma chi avrà il coraggio di opporsi con forza?».
L’élite economica, insomma, non ha voce in capitolo su un argomento come l’imperialismo putiniano.
Chi ha, o dovrebbe avere, peso anche in decisioni politiche delicate sono i siloviki – termine che indica i politici provenienti dagli apparati di sicurezza – cioè i principali consiglieri del leader del Cremlino. «Estremisti e nazionalisti, con un certo interesse ad alimentare le divisioni tra Russia e Occidente», li ha definiti così l’analista politica russa Tatiana Stanovaya su Foreign Policy.
È possibile che alcuni rappresentanti di questa ristretta cerchia non condividano alcune delle visioni e delle decisioni di Putin. Ma le immagini di Naryshkin – uno dei siloviki – al Consiglio di sicurezza spiegano quanto anche loro temano il confronto con l’uomo forte.
«Possiamo anche supporre che alcune delle figure più importanti vogliano disfarsi di Putin – dice Zafesova – ma nessuno ha idea di come fare, perché non ci sono proprio gli strumenti per una successione in un Paese in cui a mancare è prima di tutto la politica. Perfino nell’Unione Sovietica di Leonid Breznev il leader dialogava con il Politburo, negoziava con militari e altri apparati. Qui c’è un uomo solo al comando e tutti gli altri ad obbedire».
Michela Allegri per “il Messaggero” il 6 maggio 2022.
L'Unione europea parte all'attacco e abbandona la strada del temporeggiamento, discostandosi dagli Usa. Alina Kabaeva, considerata la storica fidanzata di Vladimir Putin, è stata inserita nella black list che fa parte del sesto pacchetto di sanzioni Ue, che attualmente si trova sul tavolo del Consiglio in attesa di approvazione.
L'ex campionessa di ginnastica ritmica, 39 anni, oro alle Olimpiadi di Atene 2004, sarebbe la madre di tre dei figli dello zar. Il suo nome - aggiunto alla lista insieme a quelli di altre tre persone vicine a Putin - è stato proposto dal servizio per l'azione esterna della Commissione europea, il Seae, guidato dallo spagnolo Josep Borrell.
A breve dovrebbe finire nella black list anche il patriarca della chiesa ortodossa russa, Kirill. Adesso è questione di tempo: se il documento, preparato da Bruxelles, otterrà il via libera unanime dei 27, per Kabaeva scatterebbero il divieto di ingresso nei Paesi membri dell'Unione e il congelamento dei beni.
L'ex ginnasta, che è anche un ex membro della Duma, il Parlamento russo, è sospettata, tra l'altro, di avere un ruolo chiave nella gestione occulta dei beni di Putin all'estero. Per questo motivo, lo scorso aprile, anche gli Stati Uniti avevano deciso di sanzionarla: un pacchetto di misure era già stato preparato dal Tesoro americano.
Ma, alla fine, il Consiglio di sicurezza nazionale aveva deciso di rallentare, nella consapevolezza che la misura avrebbe colpito direttamente Putin, con il rischio di provocare un'ulteriore escalation e una reazione del leader del Cremlino.
I servizi della Commissione europea la pensano in modo diverso, visto che la donna ha un ruolo centrale nella campagna propagandistica sulla guerra in Ucraina in atto da parte del governo di Mosca. Durante una delle sue ultime apparizioni, alla VTB Arena di Mosca, durante l'Alina festival - un evento a lei dedicato -, la Kabaeva ha parlato di ginnastica e guerra, contestando il divieto imposto agli atleti russi di partecipare alle competizioni internazionali.
«Ogni famiglia ha una storia legata alla guerra. La ginnastica russa uscirà rafforzata da questo isolamento, vinceremo», ha detto. Negli Usa e nell'Unione europea le sanzioni hanno già colpito le prime due figlie di Putin, Katerina Tikhonova e Maria Vorontsova, la prima moglie del presidente russo, Lyudmila Putina.
Lo Zar ha sempre negato la relazione con la Kabaeva. Ma in un report dell'intelligence americana la donna viene indicata come «beneficiaria della ricchezza del signor Putin». Negli ultimi anni ha vissuto in una dimora protetta a Cologny, vicino a Ginevra, o in una residenza di lusso a Lugano, subito dopo la nascita di due gemelli, nel 2015. Dal 2014 è nel board del National Media Group, il principale gruppo di media del Cremlino. Il suo stipendio è di circa 11 milioni di dollari all'anno. Prima, dal 2007 al 2014, era stata anche eletta alla Duma tra le fila del partito Russia Unita, quello di Putin.
L’amante di Putin, Alina Kabaeva, nelle ultime settimane è diventata introvabile. Irene Soave su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.
Si ritiene che sia in Svizzera, e alcune petizioni ne chiedono l’espulsione; lei da settimane non si fa trovare, e il suo nome è sparito persino dal sito del colosso dei media che dirige.
C’è una categoria degli affetti personali di un dittatore, o di un leader politico che si avversa, su cui si rovescia in genere il disprezzo massimo degli oppositori: più dei figli, più delle mogli, dei dittatori sono odiate le amanti. Sui giornali di tutto il mondo si è già guadagnata il soprannome di «Eva Braun», dunque, dal nome dell’amante di Adolf Hitler, l’ex ginnasta Alina Kabaeva. Saggiamente, nelle ultime settimane è diventata introvabile. Il suo nome è sparito persino dal sito di Nmg, il colosso dei media che dal 2014 dirige.
Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina
Trentotto anni, una folgorante carriera da ginnasta alle spalle, Alina Kabaeva non ha nella vita di Vladimir Putin alcun ruolo ufficiale; però ne sarebbe, secondo illazioni che sono ormai certezze — tanto che appunto rischierebbe sanzioni — una «seconda moglie» ufficiosa, con tanto di rito nuziale celebrato in segreto dalla Chiesa ortodossa, quattro figli segreti, posto ai vertici d’azienda assegnato d’ufficio e persino un ruolo di goccia che ha fatto traboccare il vaso nel silenzioso divorzio del presidente dalla moglie Lyudmila Putina nel 2013. Ma sono quasi tutte illazioni. Il Moskovsky Korrespondent, tabloid che nel 2008 aveva pubblicato un ritratto di Kabaeva confermando la relazione con Putin, era stato chiuso subito dopo.
Sulla sua figura aveva riportato l’attenzione, più volte, l’oppositore incarcerato Alexey Navalny: la rete dei suoi collaboratori ha pubblicato una dettagliata inchiesta su Alina Kabaeva, a capo dal 2014 di un colosso dei media — l’NMG Group — senza avere mai lavorato prima nella comunicazione, e titolare di uno stipendio di circa 10 milioni di euro l’anno. «Voglio ricordarvi che Nmg, che nella propaganda del Cremlino fa la parte del leone, è indubbiamente di proprietà diretta di Putin, e infatti è diretto dalla sua amante». Questa settimana, però, il nome di Kabaeva è misteriosamente scomparso dal sito di Nmg.
Fino a poco dopo l’inizio della guerra, c’erano prove che Alina Kabaeva conducesse una vita molto riservata in Svizzera, dove i figli sarebbero stati iscritti a scuola. Perché la Svizzera la espellesse, ad esempio, erano partite alcune petizioni, una delle quali intitolata «Riuniamo Eva Braun al suo Fuhrer» (sessantamila firme); altri, riporta la rivista Fortune, chiedono che all’ex ginnasta siano tolte le medaglie olimpiche.
Figlia di un ex calciatore, più robusta della media delle ginnaste, aveva meritato un bronzo a Sydney 2000, un oro ad Atene 2004, e poi nove ori, tre argenti e due bronzi mondiali, 15 ori agli Europei e cinque primi posti in Coppa del Mondo, tra il 1998 e il 2007. A Madrid nel 2001 un suo successo venne annullato per doping (un diuretico). Ora c’è chi chiede di bandirla dai medaglieri.
Intanto, bisognerebbe trovarla. Le prove che viva in Svizzera non sono inconfutabili, e c’è chi invece ipotizza che si trovi in un rifugio di lusso, un bunker hi-tech con tutte le comodità, fatto allestire da Putin per i propri cari in Siberia, nelle montagne dell’Altai.
Alina Kabaeva, una petizione perché l’amante di Putin venga espulsa dalla Svizzera. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 21 marzo 2022.
Su change.org la raccolta firme ha già raggiunto il tetto massimo di 35mila sottoscrizioni. Da molti la donna è ritenuta la moglie del presidente russo.
Con una raccolta firme sul web che nel sommario recita «riunite Eva Braun al suo Hitler», alcuni attivisti svizzeri hanno chiesto a gran voce che la presunta amante di Vladimir Putin Alina Kabaeva venga espulsa dalla Svizzera (Paese non più neutrale), dove a quanto pare sarebbe nascosta la donna, una ex ginnasta di 38 anni: la petizione su change.org in breve tempo ha già raggiunto le 35mila sottoscrizioni, cioè il tetto massimo fissato. «Nonostante la guerra in corso, la Svizzera continua ad ospitare un complice del regime di Putin - si legge nel testo, scritto in tedesco -. L’opinione pubblica ha appena appreso che la figura politica e mediatica russa, ed ex atleta, Alina Kabaeva, si sta nascondendo in conseguenza delle sanzioni imposte alla Federazione Russa nel tuo paese. È la moglie preferita del delirante dittatore e criminale di guerra che ha attaccato a tradimento l’Ucraina nelle ultime settimane. Allora perché ora, visto il volume delle sanzioni imposte alla Russia, continui ad ospitare lei e la sua famiglia, mentre Putin sta distruggendo la vita di milioni di persone?»
Kabaeva è nata 38 anni fa a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan. Ex ginnasta con medaglie olimpiche, ex modella e ora politica, è una delle donne russe più influenti e da tempo è ritenuta l’amante del presidente Vladimir Putin, dalla quale avrebbe avuto, secondo alcuni, due figlie gemelle, nate vicino a Lugano e ora di sette anni. Per altri però i figli sarebbero quattro, tutti con passaporto svizzero. Né il presidente russo né Kabaeva hanno mai confermato la relazione, anche se molti restano convinti che i due si siano sposati con una cerimonia ortodossa privata.
Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 14 maggio 2022.
C'è perfino la nonna dell'amante di Putin nella nuova sventagliata di sanzioni lanciata dalla Gran Bretagna all'indirizzo dell'élite russa.
Ma il personaggio che spicca di più nell'elenco è proprio lei, Alina Kabaeva, l'ex ginnasta olimpica che sarebbe l'attuale partner del dittatore russo e che gli avrebbe dato pure tre figli.
Alina compare in cima alla lista di dodici parenti e amici dello zar del Cremlino cui Londra ha congelato i beni e proibito l'ingresso nel Regno Unito. Questa volta non si tratta di famosi oligarchi, ma proprio della cerchia più intima di Putin: e il governo Johnson ha deciso di colpirli perché, come spiegano sotto anonimato funzionari governativi britannici, «sono persone che il leader russo usa da anni per nascondere le sue ricchezze personali».
In pratica, un network di familiari che agisce da prestanome: ufficialmente, Putin ha solo un modesto stipendio e possiede non più di un piccolo appartamento a San Pietroburgo, due vecchie macchine di epoca sovietica e un garage.
Ma in realtà è uno degli uomini più ricchi del mondo: secondo il finanziere anglo-americano Bill Browder ha un patrimonio di oltre 200 miliardi di dollari, anche se i britannici sono più cauti e parlano «solo» di 24 miliardi.
Ma comunque è un forziere enorme, intestato a familiari e amici: e dunque sanzionare loro significa mettere le mani nelle tasche stesse di Putin.
Alina Kabaeva, per esempio, è stata messa nel mirino perché, in quanto presidente del più grande gruppo privato russo dei media, il National Media Group, è legata a Bank Rossiya, l'istituto controllato da Gennady Timchenko, considerato il «banchiere personale» di Putin.
Timchenko è anche in rapporti con Anna Zatseplina, la nonna di Alina, che avrebbe ricevuto dal banchiere un appartamento di lusso a Mosca: e così pure la vecchietta è finita nel mirino delle sanzioni.
Non è sfuggita alla scure di Londra neppure l'ex first lady russa Lyudmila, dalla quale Putin aveva divorziato nel 2014. Da allora lei è stata fatta sparire dalla scena pubblica: ma questo non le ha impedito di giovarsi di rapporti preferenziali con diverse banche statali russe ed esibire un livello di ricchezza che non trova spiegazioni ufficiali. Nell'elenco delle sanzioni c'è poi tutta la schiatta dei cugini di Putin. Innanzitutto Mikhail Shemolov, che ha un patrimonio di 600 milioni di oscura provenienza e che a quanto pare non sapeva neppure di essere comproprietario del «Palazzo di Putin», la sontuosa e stravagante residenza sul Mar Nero che è di uso esclusivo del leader russo.
Poi ci sono Roman e Mikhail Putin: il primo è un fanfarone che si è sempre vantato dei rapporti col più famoso cugino e ha pure messo su una società di consulenza, la «Putin Consulting», per facilitare gli investimenti stranieri in Russia; il secondo siede nel consiglio di amministrazione di Gazprom, il colosso russo del gas, così come di un'altra società energetica. Ed entrambi i cugini si ritrovano chissà come nelle tasche mezzo miliardo a testa.
Nessuno di questi personaggi è un oligarca della fama di un Roman Abramovich, che aveva enormi interessi in Occidente: si tratta invece di individui - spiegano i britannici - «che si muovono deliberatamente nell'ombra», a parte la Kabaeva, si potrebbe dire, che è stata da tempo messa sotto i riflettori dai media. Ma ora Londra è andata a stanarli: e li ha aggiunti alla lista di oltre 1.000 persone e 100 società colpite da sanzioni. Come ha detto la ministra degli Esteri Liz Truss, «stiamo portando alla luce e prendendo di mira l'oscuro network che sostiene il lussuoso stile di vita di Putin»: e, fanno sapere, non è finita qui.
Chi è la compagna di Putin. Silvia Morosi per corriere.it il 7 marzo 2022.
«L’amante di Vladimir Putin, Alina Kabaeva, si starebbe nascondendo in Svizzera con i loro quattro figli piccoli». A riportare la notizia è Page Six, la pagina di gossip del New York Post. Mentre il leader russo continua la sua invasione dell’Ucraina, «attaccando cittadini innocenti e provocando una crisi di rifugiati, la sua famiglia è rintanata in uno chalet molto sicuro da qualche parte in Svizzera, almeno per ora, come ci ha riportato una fonte», spiega la testata.
Kabaeva, ex ginnasta olimpica vincitrice dell’oro, 38 anni (qui le foto), «avrebbe quattro figli con il leader russo, 69 anni, ma i due non lo hanno mai confermato ufficialmente». Della vita privata del leader del Cremlino si è sempre saputo poco, soprattutto dopo la fine nel 2013 del primo matrimonio con Ljudmila Aleksandrovna Putina, nata Škrebneva, politica russa. Dalla loro unione nacquero due figlie: Maria e Katerina (per ragioni di privacy le due ragazze hanno scelto di cambiare identità in Maria Vorontsova, genetista, e Katerina Tikhonova, ballerina e matematica).
Fonti, riporta ancora Page Six, spiegano che i due sarebbero i genitori di «due figlie gemelle di 7 anni, nate vicino a Lugano, in Svizzera, nel febbraio 2015», e si ritiene «abbiano anche altri due figli... I bambini hanno tutti passaporti svizzeri, e immagino che lo abbia anche lei», aggiunge ancora la fonte.
Kabaeva è stata una delle maggiori stelle della ginnastica ritmica russa, avendo vinto un oro olimpico e due volte il campionato mondiale, escludendo Madrid 2001 dove fu annullata la sua vittoria per doping. Dal 2007 al 2014, Kabaeva è stata anche deputata della Duma per il partito Russia Unita, tanto da essere stata immortalata spesso in compagnia di Putin in occasione di eventi di carattere politico. Tra gli altri gossip non confermati anche la presenza di una figlia segreta di nome Luiza Rozova, un’ereditiera di 18 anni nota anche come Elizaveta Krivonogikh, che Putin avrebbe avuto da una precedente relazione.
Solo una settimana fa, il DailyMail scriveva che lo zar aveva nascosto i suoi familiari in una «città sotterranea» in Siberia, sui monti Altai, all’interno di un bunker progettato per la protezione in caso di guerra nucleare. Secondo il politologo ed ex professore a Mosca Valery Solovey, 61 anni, Putin soffrirebbe di «problemi medici nascosti e avrebbe preso parte ad alcuni strani rituali sciamanici segreti insieme al ministro della Difesa Sergey Shoigu. L’ipotesi di una malattia di Putin è stata fortemente smentita dal Cremlino.
Quali sono le voci sull'ex ginnasta. Chi è Alina Kabaeva, le foto dell’ex ginnasta (presunta) compagna di Putin in Svizzera con quattro figli. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Marzo 2022.
È da giorni al centro del gossip ma di lei si sanno solo voci e poche certezze. Alina Kabaeva, 38 anni, è una delle donne russe più influenti, sia dal punto di vista sportivo sia come personaggio pubblico. Per qualcuno è l’amante di Vladimir Putin dal quale avrebbe avuto 2 o quattro figli. C’è anche chi dice che in questo momento sia in Svizzera al sicuro con la prole. Ma di tutto questo non ci sono conferme ufficiali.
Nata a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, è stata una ginnasta e modella, poi è scesa in campo nella politica. È stata campionessa di ginnastica ritmica, medaglia di bronzo a Sydney 2000 e soprattutto all’oro ad Atene 2004. A queste medaglie si aggiungono nove ori, tre argenti e due bronzi mondiali, 15 ori agli Europei e cinque primi posti in Coppa del Mondo, tra il 1998 e il 2007. A Madrid nel 2001 un suo successo venne però annullato per doping, dopo essere risultata positiva a un diuretico, oltre agli infortuni che ne hanno presto compromesso il proseguimento della carriera, fino al ritiro alla fine del 2007.
La sua popolarità però non tramonta. È stata modella e personaggio televisivo nonché protagonista di alcuni film. Poi la decisione di scendere in politica. Deputata della Duma, il parlamento russo, dal 2007 al 2014, dopo essere stata eletta con il partito “Russia Unita”, viene presto vista in più occasioni pubbliche in compagnia del presidente Putin, tanto da risultare la nuova fiamma dello zar. Certo è solo che politicamente è stata una sua grande sostenitrice.
Quando nel 2013 Putin si separò con sua moglie Ljudmila Shkrebneva dopo 30 anni di matrimonio, il Moskovsky Korrespondent scrisse che la cisi con l’ex moglie era aperta e che Putin sarebbe stato disponibile a sposare la ginnasta. Ma il Cremlino smentì e il quotidiano fu chiuso poco dopo.
Secondo alcuni con Putin avrebbe avuto due figlie gemelle nate vicino Lugano 7 anni fa. Per altri invece i figli sarebbero 4, tutti nati in Svizzera: un primogenito nato nel 2009 e un’altra bambina nata nel 2012. Per la pagina di costume del New York Post “Page Six”, ora Kabaeva sarebbe al sicuro con i figli in Svizzera , nonostante il Paese abbia abbandonato qualche giorno fa la tradizionale neutralità, condannando apertamente l’invasione russa dell’Ucraina.
“L’amante di Vladimir Putin, Alina Kabaeva, si starebbe nascondendo in Svizzera con i loro quattro figli piccoli”, scrive Page Six. Mentre il leader russo continua la sua invasione dell’Ucraina, “attaccando cittadini innocenti e provocando una crisi di rifugiati, la sua famiglia è rintanata in uno chalet molto sicuro da qualche parte in Svizzera, almeno per ora, come ci ha riportato una fonte”, spiega la testata. Che continua ancora: “avrebbe quattro figli con il leader russo, 69 anni, ma i due non lo hanno mai confermato ufficialmente”.
Putin avrebbe due figlie, Maria e Katerina, con l’ex moglie Ljudmila Aleksandrovna Putina, nata Škrebneva, che però hanno cambiato identità per ragioni di sicurezza. Poi il mistero sugli altri due o quattro nati dalla presunta unione con Kabaeva. Tra gli altri gossip non confermati anche la presenza di una figlia segreta di nome Luiza Rozova, un’ereditiera di 18 anni nota anche come Elizaveta Krivonogikh, che Putin avrebbe avuto da una precedente relazione.
All’inizio del conflitto in Ucraina, il DailyMail scriveva che Putin aveva nascosto i suoi in un luogo sotterraneo della Siberia, sui monti Altai, all’interno di un bunker progettato per la protezione in caso di guerra nucleare. Tutte storie che non hanno conferma ma che alimentano l’alone di mistero.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 28 marzo 2022.
Un attico di lusso del valore di 2 milioni di euro a San Pietroburgo è stato collegato alla presunta figlia adolescente di Vladimir Putin, Luiza Rozova, 19 anni, che sarebbe nata dalla relazione con Svetlana Krivonogikh.
A localizzare la proprietà sarebbe stato un gruppo di hacker che avrebbe preso di mira un servizio di consegne, riuscendo a individuare l’indirizzo della giovane. Si dice che Luiza viva presso l'ambitissimo indirizzo nel Triangolo d'Oro della città con la madre Svetlana Krivonogikh.
Il complessto di 1.300 metri quadrati nel blocco recintato Fontanka 76 è descritto come una "club house" con una serie di «appartamenti d'élite» dalla società di costruzioni tedesca Engel & Voelkers. Dispone inoltre di finiture e arredi di design "di fascia alta" del designer italiano Roberto Molon in uno «stile art déco elegante e leggero».
L'impianto idraulico e gli elettrodomestici da cucina arrivano «dai principali produttori tedeschi e italiani» e «tutto è pensato per creare il massimo comfort, praticità e una favolosa atmosfera di bellezza, comfort e intimità».
L'opuscolo della struttura vanta «un centro benessere con piscina e un servizio di lusso» e offre «lusso nello spirito della modernità dei designer italiani».
I rapporti dicono che ad analizzare i record di Yandex Food hackerati, che sono diventati pubblicamente disponibili, è stato Oleg Yemelyanov, legato al leader dell'opposizione incarcerato Alexei Navalny. Così hanno rintracciato l’appartamento collegato a Krivonogikh sull'argine numero 76 di Fontanka, ha detto.
«Wow, l'[ex]amante di Putin, Svetlana Krivonogikh, ha un appartamento con una superficie totale di quasi 400 metri quadrati sull'argine del fiume Fontanka», ha detto Yemelyanov. «Grazie per il suggerimento a Luiza Vladimirovna [Rozova] che ha ordinato cibo a quell'indirizzo».
Luiza, studentessa, è la figlia di Krivonogikh, 45 anni, ora co-proprietaria di un'importante banca russa e una delle donne più ricche del paese con una fortuna finanziaria e immobiliare stimata in 88 milioni di euro.
La donna non ha mai commentato le affermazioni secondo cui sua Elizaveta è figlia di Putin. Il sospetto che fosse la figlia segreta di Putin nata da una relazione extraconiugale è stato diffuso per la prima volta da un media indipendente in Russia, che è stato successivamente bloccato dalle autorità.
Di recente Luiza è stata costretta a chiudere il suo Instagram dopo essere stata colpita da un'ondata di trolling estremo sulla guerra russa in Ucraina. Un commento diceva: «Sei seduta nel bunker? Come un topo?».
Vladimir Vladimirovic Putin. Da cinquantamila.it
Vladimir Vladimirovic Putin, nato a Leningrado (oggi San Pietroburgo) il 7 ottobre 1952 (68 anni). Presidente della Federazione Russa. Ai vertici del Paese ininterrottamente dal 2000. Già primo ministro dall’8 agosto 1999, divenne presidente ad interim il 31 dicembre di quell’anno, quando Boris Eltsin (1931-2007), rassegnò le dimissioni. Confermato alle elezioni presidenziali del 2000 e del 2004, visto che la costituzione russa gli impediva di rimanere in carica per più di due mandati consecutivi, nel 2008 fece eleggere alla presidenza Dimitri Medvedev (n. 1965), un suo fedelissimo, e tenne per sé la carica di primo ministro.
Modificata la costituzione per allungare il mandato presidenziale da quattro a sei anni, fu rieletto presidente nel 2012 e nel 2018 (con il 76,6% di voti). Modificata di nuovo la costituzione nel 2020, e approvato un emendamento che azzerava il conteggio dei mandati presidenziali, ora potrebbe ricandidarsi anche nel 2024 e nel 2030, restando così al potere fino al 2036
«Per alcuni è la fonte di ogni male, l’uomo del Kgb che tira le fila di trame oscure, il mandante di omicidi in mezzo mondo, il padrino di una rete di crimine e corruzione, il difensore di dittatori, il manipolatore di terroristi e il repressore delle libertà. Per altri è un eroe del mondo oppresso dal capitalismo americano, l’ultimo baluardo dei valori tradizionali, il leader decisionista, lo stratega e tattico imbattibile. È un’icona pop, che ha ispirato quadri, monumenti, profumi, t-shirt, canzonette e torte di cioccolato, e la somiglianza non casuale dello 007 di Daniel Craig con il presidente russo è un sintomo di quanto il personaggio abbia colpito l’immaginario non soltanto dei russi. Eserciti di analisti cercano di decrittare i suoi moventi nascosti osservando il suo modo di camminare (“da pistolero”, è l’ultima diagnosi di un team olandese), di esercitarsi in palestra (un disastro, è stata la bocciatura delle riviste di fitness americane)» (Anna Zafesova, IL, 2/2016).
In antitesi con la figura di Eltsin (che aveva una salute precaria e a cui piacevano alcol e sigarette), Putin si è mostrato invece come l’uomo che non beve, che caccia le balene, accarezza gli orsi, guida un aereo da guerra, fa molto sport e piace alle donne.
Nel 2007, durante un incontro con Angela Merkel, ben sapendo che la cancelliera ha il terrore dei cani a causa di un’aggressione subita in gioventù, fece comparire all’improvviso il suo Labrador che iniziò ad annusare le gambe della tedesca.
È stato accusato di essere corrotto, di gestire il potere in modo autoritario, di voler creare un culto della personalità, di non rispettare il diritto internazionale, di voler sfalsare i risultati delle elezioni americane, di perseguitare gli omosessuali, di foraggiare i partiti di estrema destra in tutta Europa.
«Nella Russia di Putin gli oppositori vengono arrestati alla vigilia delle elezioni e i giornalisti che scrivono contro Putin incredibilmente muoiono sempre di morte violenta e misteriosa» (Marco Travaglio).
«I benefici della stabilità politica che lui incarna, e della riconquistata influenza russa negli affari internazionali, non sono avvertiti dalla maggioranza dei suoi cittadini. Le risorse naturali del Paese – petrolio, gas, diamanti – sono in mano a pochi oligarchi legati al presidente. Lui e i suoi compari hanno accumulato immense fortune, mentre quasi venti milioni di loro connazionali vivono sotto la soglia della povertà» (Lilli Gruber).
«Non chiede mai scusa: nelle rare occasioni in cui ritira una decisione già presa, lo fa soltanto dopo che l’attenzione del pubblico si è spostata su un altro argomento. Putin è un leader che non ammette errori» (Julia Joffe, Washington Post, 14/3/2015).
Nella sua autobiografia ha scritto: «Se una rissa è inevitabile, bisogna picchiare per primi».
Titoli di testa Una ragazza, bella e giovane, siede davanti a un dottore. Ha lo sguardo basso e l’aria un po’ intimidita: sta chiedendo consiglio su come affrontare la sua prima esperienza sessuale. Il medico la rassicura: «Se è per amore andrà tutto bene», poi si gira e sorridendo indica una foto di Vladimir Putin. Conclude: «Con lui potrà stare al sicuro». Il video termina con la donna che si dirige serena al seggio, mentre una voce fuori campo ricorda «Putin. La prima volta è solo per amore» (spot per le elezioni presidenziali russe del marzo 2012).
Vita Origini modeste • Suo nonno è stato il cuoco personale prima di Lenin e poi di Stalin • Suo padre, Vladimir Spiridonovic Putin è sommergibilista della Marina sovietica. Sua madre, Maria Ivanovna Putina, operaia. Abitano in una kommunalka, i condomini comunisti con i bagni, la cucina e i corridoi in comune
«Nel nostro appartamento in coabitazione c’era una vecchietta, nonna Anya. Quando sono nato, mia madre insieme con lei mi ha battezzato di nascosto da mio padre, che era membro del Pcus, segretario di cellula in fabbrica».
Unico superstite di tre figli (il fratello più grande muore nei primi mesi di vita, il secondo di difterite durante l’assedio di Leningrado), Vladimir Vladimirovic vive un’infanzia dura. «Piccolo di statura, gracile, biondiccio ma dotato di grande determinazione nel carattere, oltre che di intelligenza. Lui stesso in alcune interviste si autodefinirà un “hooligan” pronto alle risse di strada. Una volta un bullo grande e grosso picchiò duro l’amico di giochi di Putin, nessuno intervenne perché avevano paura. Vladimir Vladirimovic non c’era, gli fu raccontato al ritorno da scuola. Volodja (così la madre chiamava Putin) era più piccolo di due anni e di stazza di gran lunga inferiore al bullo violento. Lo attese nel cortile. Gli altri ragazzi erano increduli. Gli saltò al collo, con calci, pugni, colpi di gomito, testate. Lo stese e lo finì di pestare. Da quel giorno le gerarchie nel cortile cambiarono» (Gennaro Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar, Mondadori 2015)
A quindici anni Putin ha già in mente di fare l’agente segreto. «Sono andato perfino a vedere la sede del Kgb. Sono entrato e mi ha ricevuto un tizio che, per quanto possa sembrare strano, mi ha ascoltato serio e poi mi ha detto ”Certo ci fa piacere, ma onestamente non prendiamo chi si offre di propria iniziativa. E poi assumiamo solo chi ha fatto il militare o si è laureato”. Ovviamente ho chiesto cosa dovevo studiare. “Qualsiasi cosa”. Ma cosa è preferibile? “Giurisprudenza”. Ho capito e mi sono iscritto alla facoltà di legge di Leningrado» (a Natalia Gevorkian, di Kommersant, ripreso su La Stampa, 12/3/2000)
Vladimir entra anche nel partito comunista. Da un rapporto della Komsomol, organizzazione giovanile del partito degli anni 70: «Il compagno Putin migliora costantemente i suoi livelli ideologici e politici. Gode di una ben meritata autorevolezza tra i colleghi».
Nel 1975 si laurea in Diritto internazionale. «A metà del quarto anno di studi all’improvviso sono stato contattato da un “addetto ai quadri” che si è qualificato senza presentarsi. Mi ha telefonato a casa. In seguito ho saputo che lavorava al dipartimento che supervisionava le università. Ha detto di voler parlare della mia assegnazione: “Per ora non dirò dove”. Ma io ho capito subito. Ci siamo dati appuntamento nell’atrio della facoltà. L’ho aspettato per 20 minuti e pensavo: “Mascalzone, mi ha preso in giro, mi ha ingannato”. Stavo per andarmene quando è arrivato con il fiatone ed è passato subito al dunque: “C’è tempo, ma in genere, cosa diresti se ti offrissero un lavoro negli organi?”».
Putin rimane nel Kgb dal 1975 al 1991. Durante la sua carriera nell’organizzazione, vive per cinque anni a Dresda, nella Germania dell’Est. «Era come l’Unione Sovietica di trent’anni prima, un Paese totalitario».
Il colonnello Putin si occupa di spionaggio politico. Deve reclutare fonti, ottenere informazioni, analizzarle, trasmetterle a Mosca. A Dresda poi c’è un’importante fabbrica elettronica, lui deve tenere d’occhio gli stranieri che vanno a visitarla. Lavora fianco a fianco con i colleghi della Stasi. Il venerdì sera va sempre a farsi una birra con loro, mette su dodici chili.
Racconta Lyudmila, ex moglie di Putin: «Avevamo una Zhigulì di servizio, considerata un’ottima macchina in confronto alle Trabant. E nei fine settimana ce ne andavamo sempre in giro per la Sassonia».
Tutto cambia nel 1989. Il 9 novembre, mentre cade il muro di Berlino, è nella sede del Kgb di Dresda, impegnato giorno e notte a distruggere dossier, cancellare tracce delle comunicazioni e bruciare documenti. «Avevamo talmente tanta roba da mettere nel fuoco che a un certo punto la stufa scoppiò».
«La notte del 5 dicembre la folla occupò la sede della Stasi a Dresda. La mattina dopo tutti si radunarono davanti alla palazzina di Angelikastrasse 4, dove aveva sede (in incognito) il Kgb. All’interno chiamarono il vicino distaccamento militare per chiedere aiuto, ma la risposta fu negativa: “Non possiamo fare nulla senza l’autorizzazione di Mosca, e Mosca tace”. Putin ebbe la sensazione che “l’Urss non esistesse già più”. Uscì fuori con la pistola in mano (lui dice che aveva a fianco un soldato armato), si qualificò come interprete e spiegò che quello era territorio sovietico. La gente rinunciò a scavalcare il muro di cinta» (Fabrizio Dragosei, Corriere della Sera, 8/11/2009).
Quando ha deciso di andarsene dal Kgb? «Già in Germania ho capito che quel sistema non aveva futuro. E che l’Urss non aveva futuro. Perciò ho rifiutato il trasferimento a Mosca e sono tornato a Leningrado. Ero, come dicono da noi, nella “riserva attiva"». Lo è ancora? «No mi sono licenziato dopo il golpe del 1991». Ne ha sofferto? «Sì. Una rottura della vita, con le ossa che scricchiolavano. Per me era tanto più difficile perché ero un ufficiale di successo, non avevo da lamentarmi. Tutto mi andava bene. Molto meglio degli altri». Ha lasciato il Kgb. E il Pcus? «Sono rimasto membro del partito finché è esistito. Poi ho preso la tessera, l’ho messa in un cassetto e ci ho fatto sopra il segno della croce. Sta ancora lì» (Astrit Dakli).
Tornato a Leningrado, che ormai ha cambiato nome, Putin riaggancia i rapporti con Anatolj Sobcak. Nel 1975 era stato il relatore della sua tesi di laurea, ora è sindaco della città. Decide di buttarsi in politica e diventa un suo stretto collaboratore. Nel 1994, quando c’è da votare per le suppletive, è eletto deputato alla Duma.
«Quando Boris Eltsin lo nominò primo ministro, nella tarda estate del ‘99, quasi nessuno lo conosceva. Al Cremlino comandava ancora la “famiglia”, e tutti pensarono che il giovane sanpietroburghese fosse un esecutore come tanti altri. Ma a Putin bastarono pochi mesi per salire a razzo nei sondaggi con l’ausilio della crociata anti-cecena, e quando Eltsin si dimise, il primo giorno del Duemila, fu lui ad installarsi sul suo trono» (Franco Venturini, Corriere della Sera, 8/12/2003).
«“Who is Mr. Putin?”. Questa domanda, apparentemente innocente, mandò in tilt i ministri russi a Davos nell’inverno del 2000: invece di rispondere, si scambiarono occhiate imbarazzate. Vladimir Putin si era insediato al Cremlino da pochi giorni ed era un oggetto non identificato, uscito fuori dal nulla e diretto verso una destinazione ignota» (Zafesova).
Si candida per la prima volta alle presidenziali il 26 marzo successivo. Vuole ottenere un forte mandato popolare. Poco prima dell’apertura dei seggi, rivolge un appello agli elettori: chiede loro di scegliere velocemente (al primo turno) il presidente. «Ai russi non capitava da tempo di ascoltare in tv l’appello di un capo dello stato che non balbetta, non dice cose stravaganti, non piagnucola e non minaccia a vanvera. L’effetto è forte. “Noi siamo uno dei più grandi stati del mondo e una grande potenza nucleare” ha scandito fissando la telecamera con lo sguardo immobile, “e questo lo ricordano non solo i nostri amici”. Balsamo sulle ferite degli ultimi dieci anni di decadenza».
«Da allora, Putin non è cambiato come non sono cambiate le sue idee» (Venturini).
Vita privata Sposato per trent’anni con Lyudmila Shkrebneva. Nel giugno 2013, dopo quattro anni di indiscrezioni sulla relazione del presidente russo con l’ex ginnasta Alina Kabaeva, trentun anni più giovane di lui, i due annunciarono in tv la loro separazione. «Saremo vicini per sempre» (parola di lui, visibilmente nervoso) e il Presidente «continuerà a prendersi cura delle figlie, e loro lo sentono» (detto da lei con un sorriso forzato).
Vladimir Putin e Lyudmila Shkrebneva si conobbero a San Pietroburgo giovanissimi, a un concerto. Lei faceva la hostess dell’Aeroflot, aveva studiato lingue, era molto bella. Lui stava per entrare nel Kgb. Si sono sposati nel 1983.
Due figlie, Maria (n. 1985) e Katerina (n. 1986). Secondo la versione ufficiale hanno studiato in Russia all’università di San Pietroburgo e oggi vivono e lavorano in patria. Maria sarebbe endocrinologa e Katerina neuroscienziata. Per anni le due non sono mai apparse, hanno assunto cognomi di copertura: Vorontsova la più grande e Tikhonova la più giovane.
Secondo i tabloid tedeschi tradiva la moglie anche quando era in Germania est. Una volta avrebbe detto che chiunque avesse resistito tre settimane con sua moglie «meritava un monumento» (Luigi Ippolito, Sette, 5/4/2001).
Si parla anche di figli segreti, dalla ex ginnasta ne avrebbe avuti due.
Alla giornalista del Moskovsky Korrespondent che osò domandare della relazione con la Kabaeva, durante una conferenza stampa a Villa Certosa, Putin replicò accusando la reporter di intromissione nella vita privata altrui «con il naso moccioloso e con le proprie fantasie erotiche». La giornalista, che scoppiò in lacrime, si prese anche una finta mitragliata da Berlusconi. Pochi giorni dopo il suo quotidiano chiuse per «enormi perdite economiche» (da Micol Sarfatti, il Fatto Quotidiano, 25/2/2012).
Religione Dal 1993 è un fervente credente e membro attivo della Chiesa ortodossa russa. L’avvicinamento alla religione avvenne dopo un grave incidente stradale che coinvolse la moglie (da Masha Gessen, Putin. L’uomo senza volto, Bompiani 2012).
Quattrini Stando alla dichiarazione dei redditi pubblicata sul sito del governo russo, nel 2018, tra lo stipendio ufficiale, la pensione militare, gli interessi sui risparmi e qualche investimento ha guadagnato 8,6 milioni di rubli, 119 mila euro, quando il reddito medio in Russia è 22 mila euro all’anno.
Secondo Bill Browder, capo del fondo d’investimento Hermitage Capital Management, un tempo maggiore investitore straniero in Russia, Putin avrebbe messo illegalmente da parte talmente tanti soldi da essere diventato uno degli uomini più ricchi del mondo. Nel 2005 Browder è stato espulso dal Paese.
Curiosità Alto 1 metro e 68, pesa 71 chili. Si serve di vari sosia che dipendono dal servizio di sicurezza federale. Il più usato è stato Serghei Ivanovic, un ufficiale della guardia del Cremlino che spesso sfreccia per i boulevard di Mosca nella Mercedes presidenziale al posto del vero Putin. Talvolta a Mosca ci sono anche due o tre cortei presidenziali con altrettanti falsi Putin mentre il vero leader raggiunge il Cremlino con una linea segreta della metropolitana o in elicottero.
Da sempre porta l’orologio al polso destro • Gioca a hockey • Maestro sesto dan di judo, ha pubblicato un manuale ed è stato protagonista di un dvd che lo immortala sul tatami col campione olimpico giapponese Yasuhiro Yamashita • Non beve alcolici • Mangia una zuppa al giorno, ama l’agnello, il gelato al pistacchio e il tè verde. Gli uomini del servizio gastronomico assaggiano ogni cibo durante i suoi viaggi all’estero. Nel libro Vladimir Putin: cammino verso il potere l’ex moglie Ljudmila ha raccontato che una volta Vladimir, ghiotto di cetrioli salati, li assaggiò di nascosto sfuggendo alla sicurezza • Va pazzo per gli Abba. Canzone preferita: Super Trouper.
Titoli di coda «Sono quasi le 2 del mattino quando arriviamo alla fine dell’intervista. Vladimir Putin ha risposto per poco meno di due ore alle nostre domande. “Signor Presidente – chiede il direttore Luciano Fontana – c’è una cosa della quale si rammarica più di tutto nella sua vita, quella che lei considera un errore che non vorrebbe mai più ripetere?”. Il presidente russo si aggiusta sulla poltrona, gli occhi sembrano improvvisamente farsi più brillanti. Resta per qualche secondo in silenzio, poi con la sua voce sottile e sempre a basso volume, dice: “Sarò assolutamente sincero con voi. Non posso adesso ricordare qualcosa. Evidentemente il Signore ha costruito la mia vita in modo tale che non ho niente da rimpiangere”» (Paolo Valentino, Corriere della Sera, 6/6/2015).
Ivan, Caterina, Pietro il Grande: il pantheon zarista di Vladimir Putin. Lo strappo da Lenin e i bolscevichi e della democrazia liberale. L’unico faro per il Capo del Cremlino è il nazionalismo imperiale. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 23 febbraio 2022.
È un po’ come se un presidente degli Stati uniti parlando all’annuale “Discorso sullo stato dell’Unione” dicesse – «Vedete americani, la verità è che George Washington ha sbagliato tutto, e pure Benjamin Franklin. Non vi dico poi Abramo Lincoln». Però, con il discorso di Putin alla nazione, con cui ha spiegato “la rava e la fava” del perché riconosce le repubbliche del Donbass, è andata proprio così. Putin – serissimo, come sempre ma più di sempre – inizia scandendo bene le parole: «La questione è molto seria e deve essere discussa in modo approfondito» . È così che inizia la sua “lectio magistralis” di storia contemporanea: «L’Ucraina moderna è stata interamente creata dai bolscevichi, la Russia comunista. Questo processo iniziò praticamente subito dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e i suoi compagni lo fecero in un modo estremamente duro per la Russia: separando, recidendo ciò che è storicamente terra russa».
E uno salta subito sulla sedia. Parole che suonano come strappate al Libro nero del comunismo, che andò di voga un venticinque fa e in cui la storia di “Lenin e dei suoi compagni” era diventata una lunga serie di repressione, crimini e terrore su larga scala.
La storia sta davvero finendo e Putin è the last man standing – come recitava il famoso libro di Fukuyama? Riscrive in diretta la storia comunista dell’Unione sovietica, magari per dirci che sì, l’umanità ha come meta la democrazia liberale, abbandonando per strada monarchie, oligarchie, dittature, teocrazie, et voilà anche la Russia ci è arrivata? Non era questo, il sogno alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione sovietica? Non era questo, il sogno di Gorbaciov? Macché. Putin riavvolge il nastro della storia: «Da tempo immemorabile, le persone che vivono nel sud- ovest di quella che storicamente è stata terra russa si definivano essi stessi russi e cristiani ortodossi. Questo era il caso prima del XVII secolo, quando una parte di questo territorio si unì allo stato russo, e dopo».
Siamo, storicamente dalle parti di Ivan IV Vasil’evic, Ivan il Terribile, primo zar di tutte le Russie, e di Pietro Alekseevic Romanov, Pietro il Grande, primo imperatore di Russia. Ma non manca nemmeno Caterina: «Nel 2021, il cantiere navale del Mar Nero a Nikolayev ha cessato l’attività. I suoi primi approdi risalgono a Caterina la Grande». Eccolo, il Pantheon di Vladimir Vladimirovic Putin: Ivan, Pietro e Caterina.
Niente bolscevichi – persino il trattato di Brest- Litovsk che Lenin volle a tutti i costi con la Germania per finire una guerra che troppi morti russi aveva provocato, viene criticato: «umiliante», viene definito. Cancellati dalla storia, ma non come faceva Stalin, che li sbianchettava dalle foto, man mano che i suoi vecchi compagni cadevano nella Grande Purga degli anni Trenta. No no, in diretta tv, sotto gli occhi del mondo. Perché Putin ha bisogno di mettere sotto accusa la Rivoluzione russa del ’ 17 – quella che ha sostanzialmente creato l’Unione sovietica moderna? Perché egli critica il principio di “stato confederativo” – l’eccessiva autonomia che venne concessa dai bolscevichi alle multiple nazionalità che componevano l’ex impero russo che, va ricordato, copre un ottavo della superficie terrestre e ha undici fusi orari.
È lì, in quella costituzione che sta il male che è venuto dopo. «Quando si tratta del destino storico della Russia e dei suoi popoli, i principi di sviluppo statale di Lenin non erano solo un errore; erano peggio di un errore, come si suol dire. Questo è diventato palesemente chiaro dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991». Insomma: è colpa di Lenin se la Russia si è sciolta come neve al sole.
Ma la critica si sposta su un piano “teorico” e morale, contro la corruzione invalsa in Ucraina per colpa dell’Occidente e contro la sua supposta “civilizzazione”: «Questa situazione pone la domanda: povertà, mancanza di opportunità e potenziale industriale e tecnologico perduto: è questa la scelta della “civilizzazione” filo- occidentale che usano da molti anni per ingannare milioni di persone con promesse di pascoli celesti?». La Russia non sa che farsene della democrazia liberale, non sa che farsene del bolscevismo, non sa che farsene del confederalismo: la Russia è un impero. «Da tempo immemorabile» è così, il resto sono frattaglie della storia. Abbiamo uno zar e un imperatore di tutte le Russie, nuovo di zecca: Vladimir Vladimirovic il Grande.
«Putin ha un cancro alla tiroide. Uno specialista lo ha visitato 35 volte a Sochi»: l’indiscrezione di Proekt. S.Mor. su Il Corriere della Sera l'1 Aprile 2022.
L’ inchiesta del media russo indipendente sulle condizioni del capo del Cremlino: «Abbiamo trovato l’elenco dei medici che accompagnano il presidente nei suoi viaggi».
«Vladimir Putin ha un cancro alla tiroide». Da settimane, ormai, si rincorrono le voci su una possibile malattia che avrebbe colpito il presidente russo Vladimir Putin, 69 anni (qui l’articolo di Sandro Modeo). Ora, a mettere l’ennesimo tassello nella vicenda, è un’inchiesta di Proekt , un media russo indipendente specializzato in giornalismo investigativo per il quale lavorano giornalisti che decidono di restare anonimi e cercano di portare avanti inchieste libere nonostante la censura. «Vi mostriamo l'elenco dei medici che accompagnano il presidente nei suoi viaggi», si legge nell'articolo. I medici — tra cui Alexei Shcheglov, Yaroslav Protasenko e Yevgeny Selivanov — avrebbero visitato in passato Putin per un lungo periodo, quando «apparentemente aveva problemi alla schiena», e in tempi più recenti lo zar avrebbe chiesto il supporto di «uno specialista in cancro alla tiroide che è andato a trovarlo 35 volte in quattro anni a Sochi (nella sua residenza, ndr)». Si tratta appunto del medico endocrinologo del Central Clinical Hospital di Mosca, Selivanov. Il Cremlino — si legge ancora nell'articolo — avrebbe iniziato a nascondere informazioni sulla salute del presidente da anni, anche quando si ferì alla schiena dopo una caduta da cavallo.
Nei primi tempi le visite erano rare — si legge ancora nella testimonianza di un funzionario che all'epoca lavorava con il presidente — e «veniva prestata poca attenzione a problemi come la febbre». Era, infatti, importante non intaccare l'immagine di un presidente forte e valoroso. Il sito pubblica, infine, un elenco di occasioni in cui Putin, si pensa per motivi di salute, è stato costretto a rinunciare a viaggi di lavoro, incontri o commemorazioni.
Solo poche settimane fa gli 007 occidentali del gruppo «Five Eye» — Usa, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda e Australia — avevano accennato alla possibilità che Putin fosse in cura per un tumore (facendo notare uno «strano pallore e un gonfiore sospetto, soprattutto del collo e del viso», probabilmente legati all'assunzione di farmaci) o comunque per una patologia grave che richiedeva l'utilizzo di steroidi e provocava improvvisi scatti d’ira. Una fonte anonima aveva anche riferito al Mail di «un cambiamento nel suo processo decisionale negli ultimi cinque anni circa».
Non è, forse, un caso nemmeno la (recente) scelta di ingaggiare anche degli «assaggiatori personali» di cibo per evitare di essere avvelenato, atteggiamento riconducibile a una vera e propria «paranoia» nella testa del capo del Cremlino. Oltre che visionare, in modo quasi ossessivo, un video sulla morte di Gheddafi. «Il presidente russo passa ore a guardare il video della fine del leader libico», aveva detto il politologo bulgaro Ivan Krastev in un'intervista al Corriere della Sera. Dietro ai comportamenti dello zar ci potrebbero essere dunque spiegazioni di natura medica.
Dal “Corriere della Sera” il 2 aprile 2022.
Una testata russa specializzata in articoli d'inchiesta, Proekt (bandita in Russia ma consultabile con una vpn), ha diffuso la notizia che Vladimir Putin soffrirebbe di un cancro alla tiroide. Il Cremlino ha smentito: il portavoce Dmitry Peskov, citato dalla Pravda , avrebbe risposto «sì» alla domanda di un giornalista: « Ho capito bene che Vladimir Putin non ha il cancro?». Il portavoce del Cremlino avrebbe poi aggiunto: «Finzione e menzogna».
Una smentita che per i detrattori rafforza quasi la notizia. Putin sarebbe costantemente seguito nei suoi spostamenti da una nutrita équipe di 9 medici, di cui farebbe parte un chirurgo oncologo, Evgeni Selivanov, autore tra l'altro di uno studio sulla diagnosi del tumore alla tiroide. Negli ultimi quattro anni Selivanov avrebbe visitato Putin, solo a Sochi, ben 35 volte. Più assiduo di lui risulta essere solo un chirurgo otorinolaringoiatra, Alexei Shcheglov, che sarebbe andato da lui 59 volte. I supposti problemi di salute di Putin - che il 7 ottobre compirà 70 anni - sono stati evocati da fonti americane per spiegare l'imprevista decisione di attaccare l'Ucraina con una presunta instabilità dovuta forse all'assunzione di farmaci.
Marco Ventura per “il Messaggero” il 2 aprile 2022.
Il Capo sta bene per definizione, soprattutto quando indossa l'armatura del condottiero in una guerra come quella in Ucraina. E allora il Cremlino si affretta, per bocca del portavoce Peskov, a smentire la notizia diffusa in rete da Proekt, una testata d'inchiesta messa al bando dal regime russo ma accessibile col sistema VPN, che rivela «il più gran segreto del Cremlino».
Putin è malato, «ha un tumore alla tiroide» e ovunque vada, soprattutto nel buen retiro di Sochi, lo seguono stuoli di medici tra cui spiccano, guarda caso, un esperto endocrinologo e un otorinolaringoiatra. Ma in un passato recente, anche équipe di neurochirurghi probabilmente impegnati a curarne i postumi di una caduta da cavallo che lo indusse a dire «non mi reggo in piedi». Adesso si tratterebbe di qualcosa di molto più serio.
Il pronunciato gonfiore della faccia e la straniante immagine del leader che incontra Macron, Scholz e i propri stessi generali e collaboratori a distanza di metri a un tavolo lungo come una limousine, oltre all'azzardo dell'invasione in Ucraina, si spiegherebbero con la malattia e le terapie a base di ormoni.
Per Rocco Bellantone, direttore del centro di chirurgia endocrina e metabolica del Policlinico Gemelli di Roma dove si operano 2mila tiroidi l'anno, «ci sono vari tipi di carcinoma, ma si guarisce in una percentuale superiore al 90 per cento». Quanto a sintomi ed effetti, in genere quel che si vede è «un rigonfiamento al collo oppure, in uno stadio avanzato, una difficoltà a parlare, respirare e ingoiare. Ma di solito è un tumore asintomatico».
Significativo il fatto che «con la crisi di Chernobyl ci sia stato un aumento spaventoso di tumore alla tiroide in Ucraina, Russia e Bielorussia». Non è indicata la chemioterapia, ma eventualmente una terapia radiometabolica, conclude Bellantone. In ogni caso, per Putin niente più foto di caccia alla tigre in Siberia, galoppate a torso nudo, tuffi nell'acqua gelata per l'Epifania ortodossa e muscoli scolpiti dagli esercizi delle arti marziali.
Adesso i servizi occidentali fanno trapelare che avrebbe un problema a una gamba per un piccolo ictus, e un tremore alla mano per il Morbo di Parkinson. Proekt avrebbe visionato i documenti degli alberghi di Sochi e appurato che il chirurgo oncologo Evgeni Selivanov ha visitato il Capo a Sochi 35 volte in 4 anni, battuto solo dal chirurgo otorinolaringoiatra Alexei Shcheglov. Molti i dettagli. «Abbiamo promesso di svelarvi il segreto principale del Cremlino», annuncia Proekt.
«Stiamo parlando della salute di Vladimir Putin. Proekt ha trovato un elenco di medici di fiducia che scortavano il presidente russo nei suoi viaggi». Il prossimo 7 ottobre, lo Zar compirà settant' anni. «Stalin aveva già avuto un secondo ictus a questa età, Breznev aveva perso la capacità di lavorare, Andropov a settant' anni non ci è arrivato, Eltsin si dimise perché malato».
Stando alle immagini diffuse alla Tv, Putin a differenza dei predecessori «fa sport, cammina nella Taiga e si ammala al massimo di un raffreddore, non gli sarà difficile guidare la Russia fino al 2036, come gli consente la Costituzione che ha modificato». È davvero così? Secondo gli inchiestisti di Proekt, sin dall'inizio il Cremlino ha nascosto informazioni sulla salute di Putin.
Ma dallo scorso autunno voci sempre più insistenti negli ambienti moscoviti hanno acceso i riflettori su un intervento chirurgico alla schiena che avrebbe subìto a fine novembre 2016, quando 12 dottori volarono da lui a Sochi, compreso il luminare di neurochirurgia Oleg Myshkin e uno specialista in riabilitazione. Secondo i fogli inglesi Daily Star e Daily Telegraph, il capo del Cremlino soffrirebbe addirittura di un cancro all'intestino. E il dolore che prova sarebbe una delle concause della scellerata decisione di invadere l'Ucraina senza valutare in modo realistico le conseguenze.
L'isolamento parossistico a cui si è sottoposto durante il Covid e anche di recente, pure quello avrebbe come spiegazione fragilità e problemi di salute. E a un certo punto è circolata la voce che avesse contratto il virus. Un retaggio della sua fiducia nei rimedi alternativi è l'abitudine, suggeritagli a quanto pare dal ministro della Difesa Shoigu, a immergersi in bagni con corna di cervo non ancora ossificate, raccolte in primavera quando sono piene di sangue. E nell'agosto 2017, sei medici sarebbero andati a Sochi restandovi otto giorni (tra loro anche Selivanov e Shcheglov).
In diverse occasioni Putin avrebbe «dimostrato interesse per il problema del cancro alla tiroide». Altri indizi arrivano dalla ricostruzione dei periodi in cui il presidente russo non è apparso in pubblico. Qualche settimana fa gli 007 dei Paesi anglofoni (Five Eye) avevano a loro volta adombrato l'eventualità che Putin fosse in cura per tumore, in base a «uno strano pallore e un gonfiore sospetto, soprattutto del collo e del viso». Inquietanti, infine, il ricorso ad assaggiatori di corte per i cibi e la «paranoia» di guardare a ripetizione il video del linciaggio di Gheddafi. Segni di una possibile instabilità di mente o della razionale paura di un golpe?
L'indiscrezione di Proekt. “Putin è malato, ha un cancro alla tiroide”, l’indiscrezione sullo Zar e le 35 visite specialistiche a Sochi. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Aprile 2022.
Da settimane si rincorrono voci e indiscrezioni sullo stato di salute di Vladimir Putin, il numero uno del Cremlino che quasi 40 giorni ha avviato l’invasione delle truppe russe in Ucraina. Una nuova inchiesta sul 69enne ‘Zar’ russo, che compirà 70 anni il prossimo 7 ottobre, svelerebbe che Putin sarebbe affetto da un cancro alla tiroide.
A scriverlo è Proekt, un media russo indipendente specializzato in giornalismo investigativo, in cui lavorano giornalisti che sotto garanzia di anonimato portano avanti inchieste nonostante la censura sull’informazione decisa da Mosca.
Tra i medici personale che seguono Putin nei suoi viaggi figurerebbe anche un medico endocrinologo del Central Clinical Hospital di Mosca, Evgeny Selivanov, che sarebbe andato a trovarlo 35 volte a Sochi, la città nel sud della Russia dove si trova la sua residenza.
Quello su un possibile tumore di Putin è una tesi che circola da tempo. Nelle scorse settimane l’intelligence del gruppo “Five Eye”, ovvero Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda e Australia, avevano discusso dalla possibilità che il numero uno del Cremlino fosse in cura per un tumore facendo notare il pallore del presidente russo e il gonfiore sospetto di collo e viso, probabilmente legato all’assunzione di farmaci.
Quello della salute è un tema cruciale per Putin, che da sempre ama mostrarsi al popolo russo come un leader invincibile, un uomo forte e vero ‘maschio alfa’. Per questo la propaganda aveva sempre sminuiti o negato qualsiasi tipo di malanno.
Celebre è infatti il caso della notizia ‘sfuggita’ al Cremlino sull’incidente del 2021, quando probabilmente per una caduta da cavallo lo Zar aveva avuto pesanti contraccolpi fisici, con tanto di diffusione di video in cui lo si vedeva zoppicante. Immagini prima diffuse e poi cancellate da Mosca.
In ogni caso al momento quella del cancro alla tiroide resta solo una ipotesi: il Cremlino ad oggi, ovviamente, ha sempre negato ogni problema fisico del suo leader.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 marzo 2022.
Secondo fonti dell’intelligence, Vladimir Putin soffrirebbe di un disturbo cerebrale causato da demenza, morbo di Parkinson o da “rabbia di Roid”, cioè l’aggressività che scaturisce dopo il trattamento con gli stereoidi, e che nel caso di Putin gli analisti attribuiscono a una cura per il cancro.
Gli specialisti di Five Eyes, alleanza di intelligence tra Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti, ritengono infatti che la decisione di invadere l’Ucraina sia frutto di un problema fisiologico.
La comunità di intelligence sta condividendo un numero crescente di rapporti sul «comportamento sempre più irregolare» del 69enne presidente della Russia, a cui si aggiunge il suo aspetto gonfio e l'assurda distanza che insiste a mantenere quando c’è un visitatore al Cremlino.
L'intelligence suggerisce che Putin abbia subito un deterioramento psicologico causato da fattori fisiologici. Secondo le teorie condivise dagli analisti, il presidente soffre di una condizione cerebrale, per esempio il morbo di Parkinson o una forma più generica di demenza, oppure ha il cancro e le cure mediche che sta ricevendo hanno alterato l'equilibrio della sua mente.
L'ultima teoria, ritenuta credibile dall'intelligence britannica, è che il deterioramento mentale sia la conseguenza della cosiddetta "rabbia di roid", causata dall'uso prolungato di steroidi (per la cura del cancro).
Fonti citano la decisione di Putin di isolarsi fisicamente dagli ospiti come segno di paura di "comorbilità" - cioè ha paura di contrarre altre malattie che potrebbero aumentare il rischio di morte - o dell'uso di farmaci che sopprimono il sistema immunitario, lasciandolo aperto a infezioni.
Inoltre di recente il presidente russo è apparso notevolmente più gonfio intorno al viso e al collo, il che può essere un effetto collaterale degli steroidi, insieme a «cambiamenti di umore e comportamentali».
Un funzionario francese, presente all’incontro con Macron, ha raccontato che Putin «non era lo stesso» rispetto all’incontro con Macron di due anni prima, e per alcuni aspetti sembrava «andato in tilt».
Una fonte dell'intelligence britannica ha insistito sul fatto di essere fiducioso dell'affidabilità delle informazioni sulla salute di Putin: «La nostra visibilità sulla Russia è semplicemente straordinaria. La differenza nella qualità delle nostre fonti intorno a Putin rispetto a Xi e alla Cina è sbalorditiva».
Intanto i membri dell'Interpol hanno chiesto che la Russia venga espulsa dall'organizzazione internazionale di polizia, per negare a Mosca l'accesso a informazioni sensibili. Funzionari britannici incolpano il presidente dell'Interpol, il generale Ahmed Nasser al-Raisi, di aver bloccato le mosse per espellere la Russia.
Il generale degli Emirati è stato nominato nonostante le feroci obiezioni dei gruppi per i diritti umani, che lo accusano di complicità nella tortura quando era ispettore generale del ministero dell'Interno negli Emirati Arabi Uniti.
Putin sarebbe malato: avrebbe attacchi d’ira causati dalle cure per il cancro. Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.
Secondo fonti di intelligence non confermabili, numerosi rapporti occidentali sarebbero giunti a questa conclusione sovrapponendo al comportamento, il gonfiore del collo e della testa e il notevole distanziamento imposto ai leader stranieri.
Vladimir Putin sarebbe malato: soffrirebbe di disturbi cerebrali causati dalla demenza, sarebbe affetto dal morbo di Parkinson, oppure avrebbe attacchi di rabbia provocati dai trattamenti con gli steroidi per curare il cancro. A tornare sui presunti problemi di salute del presidente russo è il Daily Mail, quotidiano non sempre affidabile ma molto informato che cita fonti di intelligence occidentali vicino al Cremlino: funzionari esperti dei Five Eyes, i «cinque occhi» dell’alleanza di intelligence che comprende Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti. Come raccontato sul Corriere dallo scrittore Sandro Modeo, dietro a comportamenti dello zar ci potrebbero essere anche delicate spiegazioni di natura fisica e medica.
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Numerosi rapporti occidentali sarebbero giunti a questa conclusione sovrapponendo al comportamento del presidente russo, 69 anni, l’evidente gonfiore del collo e della testa apparso nei video più recenti e il notevole distanziamento fisico imposto durante le visite dei leader stranieri al Cremlino. «Negli ultimi cinque anni c’è stato un deciso cambiamento nel suo processo decisionale, chi è vicino a lui ha notato anche una minore chiarezza nel parlare e nel capire il mondo che lo circonda», ha spiegato una fonte al Daily Mail, confermando che la mancanza di comprensione sarebbe dovuta anche all’assenza di pareri discordanti nel suo circolo ristretto, che gli impedirebbe di capire il fallimento dell’invasione ucraina. «Semplicemente, non viene informato», prosegue.
La storia del Daily Mail si basa probabilmente su un’unica fonte, è debole e difficilmente confermabile, ma rinforza i sospetti emersi negli ultimi mesi: le scelte di Putin sarebbero influenzate dal Parkinson, da una forma più generica di demenza, oppure dall’uso prolungato di steroidi per curare il cancro, che ne avrebbe alterato l’equilibrio. Quest’ultima teoria sarebbe considerata credibile anche dall’intelligence britannica. La grande distanza mantenuta negli incontri delle ultime settimane con i leader stranieri — tenuti a sei metri, come nel caso di del presidente francese Emmanuel Macron — confermerebbe inoltre l’esistenza di malattie pregresse, che aumenterebbero i rischi di decesso nel caso contragga il Covid, o l’uso di farmaci che inibiscono il sistema immunitario, rendendo più facili le infezioni.
Proprio dopo l’incontro con Macron, un funzionario francese aveva confermato che Putin «non sembrasse lo stesso» di due anni prima, che fosse «fuori controllo». I britannici — ma anche gli americani — ritengono inoltre di avere una grande visibilità di ciò che succede nelle stanze del Cremlino: così si spiega anche la decisione inusuale di rendere pubbliche tutte le informazioni di intelligence, che di norma dovrebbero restare segrete, per anticipare — e magari scongiurare — le mosse di Mosca. «La nostra visibilità è straordinaria: rispetto a Xi Jinping e alla Cina, abbiamo una qualità eccezionale», ha detto al Daily Mail una fonte londinese.
«Anche un osservatore superficiale non può non restare colpito dalla metamorfosi somatico-fisiognomica subita negli anni dal volto di Putin: dal confronto fra una foto giovanile o della maturità e certe foto recenti come quella su UnHerd, in cui lo sguardo minaccioso e assente aderisce ai tratti, a partire dalle gote iper-vascolarizzate dal botox», scriveva Modeo la settimana scorsa nel suo lungo articolo sul Corriere, in cui affrontava anche le ipotesi sui possibili problemi di salute del leader russo. «La prima riguarda la schiena», spiegava, «ovvero possibili problemi alla colonna vertebrale per pregressi traumi sportivi, come accennato un volta dal vassallo bielorusso Lukashenko, o addirittura una neoplasia al midollo spinale, la cui sintomatologia sarebbe compatibile con alcune difficoltà deambulatorie e certe irrequietezze posturali di Putin».
Vladimir Putin, i segreti del bambino che giocava col topo e ha incendiato il mondo. Paolo Valentino, foto di Konrad Rufus Müller su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.
Bambino povero e ribelle, a 16 anni si presentò al Kgb per esser arruolato. Ecco come un uomo dalla vita oscura è diventato un tiranno consumato dalla fame di grandezza per la Russia e sé stesso.
Nulla distingue la casa al numero 12 di Ulitza Baskova, nel cuore di San Pietroburgo, dal resto degli anonimi edifici che le stanno accanto. L’unico segnale è che non è possibile visitarla. Negli Anni 50 era una komnunalka, una di quelle abitazioni nate dalla suddivisione dei grandi appartamenti signorili dell’epoca zarista, dove nell’Unione Sovietica più nuclei familiari convivevano, uno per stanza, condividendo cucina, bagno e corridoio. Vladimir Putin vi è nato e cresciuto, nella città che allora si chiamava ancora Leningrado. In condizioni così modeste, suo padre era operaio in una fabbrica di treni, che la caccia ai topi in cui si distingueva non era solo il gioco di un’infanzia povera, ma una continua lotta per non farli dilagare. Un giorno il giovane Vladimir ne inseguì uno particolarmente grosso sulle scale con un bastone in mano, fino a costringerlo in un angolo. All’improvviso il ratto gli si lanciò contro sfiorando la sua testa e con un balzo riuscì a fuggire. L’incidente, avrebbe detto Putin nell’unica autobiografia scritta con alcuni giornalisti nel 2000, gli diede una lezione di vita, mai dimenticata: «Ognuno dovrebbe tenerlo a mente: mai mettere qualcuno in un angolo».
La lezione del topo
Il 24 febbraio scorso il presidente russo ha ordinato la più grande azione militare di terra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina, decisa contro ogni logica razionale, in un azzardo geopolitico dove i rischi e costi si stanno rivelando molto più alti di un’effimera definizione di vittoria. E forse memore proprio del famoso topo, Putin l’ha motivata dicendo di esservi stato costretto, poiché «la Russia non aveva altra scelta». Andare indietro nella biografia dell’uomo che si è auto-investito della missione di riunificare il Russkij Mir, il mondo russo separato dalla fine dell’Unione Sovietica, ultima incarnazione del sogno imperiale di una Russia eterna, è fondamentale per capirne il mistero. La vita di Vladimir Putin è infatti costellata di “Harte Wendungen ”, le svolte traumatiche dipinte da Paul Klee, che ne hanno influenzato fortemente la personalità, fino a farla scivolare in una sorta di autocrazia paranoica che lo avvicina ai più spietati despoti della storia russa, da Pietro il Grande a Stalin.
La svolta dell’ex hooligan
«Ero un hooligan, un ragazzo di strada», racconta di sé il leader del Cremlino. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi. Il colloquio all’evidenza servì. Perché all’improvviso, all’età di 11 anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe. Fu nelle arti marziali che trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Con lui ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica. L’idea di fare la spia gli venne presto. Una mattina, all’età di 16 anni, si presentò all’Ufficio del Kgb a Leningrado chiedendo cosa dovesse fare per lavorare lì. «Primo non prendiamo persone che vengono da noi di loro iniziativa» rispose il funzionario «e secondo si viene da noi o dopo essere stato nell’esercito oppure dopo aver studiato all’università». «Studiato cosa?», chiese il ragazzo. «Che so? Legge», disse quello forse con l’intenzione di toglierselo di torno. E così fu.
Vladimir Putin il giorno del suo matrimonio, il 28 luglio 1983, con Ludmilla Škerbneva, allora studentessa di filologia spagnola: hanno avuto due figlie, Marija ed Ekaterina. Il matrimonio è finito nel 2013
Tenente colonnello del Kgb in 5 anni
Nel 1975, fresco laureato in Diritto internazionale all’Università di Leningrado, Putin venne assunto dai servizi segreti sovietici. Cinque anni dopo, ormai tenente colonnello, sposato con l’ex hostess dell’Aeroflot Ludmilla Alexandrovna Skrebneva e già padre di una bambina, fu mandato come capo missione a Dresda, nella Ddr, con l’incarico di raccogliere informazioni su dissidenti e valutare le perfomance dei colleghi. Come nome in codice si scelse Platov, da quello di un generale che comandava i cosacchi nella guerra contro Napoleone. Al violoncellista e grande amico Sergeij Roldugin, che un giorno gli chiese in cosa consistesse il suo lavoro al Kgb, rispose: «Ero uno specialista in relazioni umane». La vita di Vladimir Putin si riassume intorno a quattro città del destino: Leningrado-San Pietroburgo sulla quale torneremo, la tedesca Dresda, Mosca e Sochi sul Mar Nero, vetrina del suo potere imperiale.
QUANDO FU ELETTO PRESIDENTE DISSE: «DEVI COLPIRE PER PRIMO E COSÌ DURAMENTE CHE IL TUO NEMICO NON POTRÀ RIALZARSI»
La capitale della Sassonia gli è rimasta nel cuore. Anche se è lì che il suo universo cominciò a oscillare. Erano gli anni della perestrojka di Gorbaciov, che i capi comunisti della Germania Est rifiutarono di seguire. La notte del 5 dicembre 1989, meno di un mese dopo la caduta del Muro di Berlino, il tenete colonnello Putin, che da settimane ormai aveva trascorso giorni e notti bruciando documenti riservati, chiamò la guarnigione sovietica di stanza a Potsdam chiedendo aiuto e sollecitando un intervento armato. Una folla inferocita aveva circondato la palazzina del Kgb e minacciava di assaltarla. La risposta fu negativa: «Aspettiamo ordini da Mosca, ma il centro tace».
RACCONTÒ: «LASCIARE IL KGB FU LA SCELTA PIÙ DOLOROSA DELLA MIA VITA». MA POI ELTSIN GLI APRÌ LA STRADA AL CUORE DEL PAESE
Quella frase ha segnato per sempre la sua vita. La paralisi del potere e il caos della piazza sono stati da allora i suoi incubi. Come disse nel 2000, l’anno in cui fu eletto presidente della Russia, «in quelle circostanze funziona una cosa sola: devi colpire per primo e colpire così duro che il tuo avversario non dev’essere più in grado di reggersi in piedi». «Avremmo evitato molti problemi» aveva aggiunto «se non avessimo lasciato così frettolosamente l’Europa orientale». Il più macroscopico, secondo Putin, fu il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando la secessione delle Repubbliche, soprattutto di quelle slave, «fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo a essere diviso da confini di Stato». In quella notte nacque probabilmente la missione di volerlo riunificare.
Ritorno a San Pietroburgo
Aveva 38 anni nel 1990, Vladimir Putin, quando tornò sulla Nieva insieme a Ludmilla e alle due figlie piccole, portandosi dietro una lavatrice usata caricata sopra il tetto della Volga. A dargli un nuovo lavoro fu Anatoly Sobchak, il nuovo sindaco e uno dei personaggi più in vista della nuova Russia. Fu lui a cambiare il nome della città da Leningrado all’antico San Pietroburgo. Diventò il suo vice. Fu nel suo ufficio allo Smolny, dove aveva appeso un ritratto di Pietro il Grande al posto di quello di Lenin, che un giorno della primavera 1991, in attesa di essere ricevuto dal borgomastro per un’intervista, Putin preparò il tè dal Samovar per me e la mia interprete Natasha Petrovna, parlando con molta nostalgia dei suoi anni in Germania. Nella città più europea della Russia nacque la “banda degli amici pietroburghesi”, la filiera in parte legata al Kgb che l’avrebbe accompagnato per il resto della vita.
Il presidente russo Vladimir Putin con la sua insegnante elementare Vera Gurevich nella residenza presidenziale di San Pietroburgo
La banda dei pietroburghesi e Medvedev
Lavoravano tutti insieme per Sobchak: il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexeij Kudrin, il capo di Gazprom Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergeij Naryshkin. Poi c’erano i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbe diventati i “suoi” oligarchi. E non ultimo c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Egvenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca. Ma un’altra città del destino si profilò a quel punto all’orizzonte per Putin, che nel 1991, alla caduta dell’URSS, aveva lasciato il Kgb, «la decisione più dolorosa della mia vita». Quando Sobchak, travolto dalle accuse di corruzione, perse le elezioni del 1996, complici i buoni uffici di Kudrin già al ministero delle Finanze, per lui si aprì un posto nell’amministrazione presidenziale di Boris Eltsin.
Vladimir Putin bambino con la madre, Marijai Ivanovna Šelomova: faceva l’operaia, mentre il padre Vladimir Spiridonovic era un ex sommergibilista
Poche parole
Gli bastarono meno di due anni per imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino. Discreto, efficiente, di poche parole, sempre con la soluzione pronta. Già nel 1998 Eltsin lo nominò capo del Fsb, erede del Kgb. Sfruttò l’incarico alla perfezione, soprattutto mostrando totale lealtà al capo. Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov aprì un’indagine per corruzione sulla famiglia di Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe: mostrava Skuratov senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute. Era il più classico dei kompromat nell’arsenale della Lubjanka. Fu Putin in persona a spiegare in tv che il filmato non era un falso. Skuratov si dimise poche ore dopo. Eltsin lo ricompensò meno di un anno dopo, nominandolo a sorpresa primo ministro. Alla vigilia di Capodanno del 1999, lo designò suo successore al vertice della Russia. Poche ore prima che avvenisse il passaggio delle consegne al Cremlino, Putin celebrò con i suoi ormai ex “colleghi” del Fsb l’anniversario dei servizi sovietici: «Il gruppo che avete mandato in missione di infiltrazione in seno al governo, sta per compiere la sua missione», disse nel brindisi, scherzando ma non troppo.
Il presidente nuota mezz’ora ogni mattina. Qui nella piscina della sua residenza a Novo Ogariovo nei pressi di Mosca. Al collo porta la collanina di pelle con la croce che sua madre gli mise al collo quando venne battezzato di nascosto
A capo della Federazione Russa: «Riporteremo l’ordine»
Il 23 marzo 2000, dopo un breve interim al vertice, Vladimir Putin venne eletto presidente della Federazione russa con il 52,9% dei voti. «Riporteremo l’ordine», fu la promessa. Il suo cruccio era l’onore perduto della Russia, ormai declassata dal ruolo di Superpotenza e privata di quella uvazhenie, il rispetto che per i russi è bisogno esistenziale. Nei primi anni alla guida della Russia, oltre a ricostruire economicamente e politicamente un Paese annichilito dal Far West degli Anni 90, mettere in riga gli oligarchi e reprimere brutalmente la ribellione della Cecenia, Putin aveva avviato un dialogo stretto con gli Usa e l’Occidente, culminato nell’accordo di cooperazione Nato-Russia, addirittura arrivando a teorizzare che un giorno lontano Mosca avrebbe potuto far parte dell’Alleanza.
JOE BIDEN LO INCONTRÒ ANNI FA: «LA GUARDO E NON CREDO CHE LEI ABBIA UN’ANIMA». LA RISPOSTA: «VEDO CHE CI CAPIAMO BENISSIMO». LA SVOLTA ANTI OCCIDENTALE
La svolta avvenne nel 2007, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, quando lanciò un attacco a tutto campo contro gli occidentali, denunciando l’ordine creato dopo la Guerra Fredda, l’invasione americana dell’Iraq e soprattutto l’espansione della Nato fino ai confini della Russia, agli occhi di Putin un tradimento delle promesse fatte nel 1990 a Gorbaciov. Da quel momento, il leader russo iniziò l’inversione di rotta, avvitandosi in una spirale sempre più autoritaria all’interno, nazionalista e aggressiva all’esterno. Nel 2008 lanciò la prima azione militare nello spazio ex sovietico, occupando l’Abkhazia, territorio della Georgia. Ci sono molti fattori dietro l’involuzione di Putin e la sua metamorfosi in un leader sempre più autoritario. Le primavere arabe e la fine violenta di Gheddafi fecero su di lui una forte impressione. La prima rivoluzione ucraina, quella color arancione, fu un altro segnale devastante per il leader del Cremlino, che nel Paese vicino vedeva un pericoloso esempio di ribellione, rivendicazioni democratiche, caos.
Il giudizio e la rivoluzione di Euromaidan
Il fallito reset con l’Amministrazione Obama fu una conseguenza di questo cambiamento personale e politico. Nel 2011, quando da primo ministro (nel quadriennio in cui cedette la carica di presidente a Dmitrij Medvedev) lo incontrò per la prima volta a tu per tu, l’allora vicepresidente Joe Biden corresse radicalmente il giudizio che ne aveva dato George W. Bush anni prima: «L’ho guardato negli occhi e ho potuto vedere la sua anima». Biden ebbe un’impressione opposta: «Signor primo ministro, la sto guardando negli occhi e non credo che lei abbia un’anima». Putin rispose sorridendo: «Vedo che ci capiamo benissimo». Dopo l’annessione della Crimea nel 2014, decisa in seguito alla rivoluzione di Euromaidan a Kiev che lui definì un putsch orchestrato dagli americani, nulla è stato più lo stesso. Le sanzioni occidentali hanno accelerato la sua narrazione di un Paese accerchiato, che gli è valsa altissimi livelli di consenso. La polemica di Putin contro l’Occidente decadente e depravato si è fatta sempre più forte. Mentre all’interno, chi non si allineava come Alexeij Naval’nyj veniva perseguitato e subiva attentati alla propria vita.
Le Olimpiadi degli oligarchi
Fu sul Mar Nero, nella quarta città del destino, che Vladimir Putin mise in scena la sua nuova dimensione imperiale, con i Giochi Olimpici invernali del 2014, una stravaganza miliardaria pagata dagli oligarchi, che lanciarono la località prediletta da Stalin come nuova capitale diplomatica della Russia. In quegli anni i leader del mondo passarono tutti da lì, da Erdogan, a Netanyahu, ad Angela Merkel, che Putin, conoscendone la paura dei cani, accolse facendo entrare nella stanza il suo labrador. E fu a Sochi che insieme ai suoi generali mise a punto prima l’annessione della Crimea e poi nel 2015 l’avventura in Siria, incoraggiato dai tentennamenti dell’Amministrazione Obama. Scommetteva e vinceva. «Putin è stato fortunato e questo è pericoloso per un giocatore d’azzardo», dice Gleb Pavlovski, politologo che ha lavorato con lui al Cremlino prima di diventarne oppositore.
Vladimir Putin con le sue due figlie Maria e Ekaterina negli Anni 80
L’isolamento dello Zar
Sono passati 22 anni dall’arrivo al vertice della Russia. Putin ha cambiato la Costituzione, ipotecando il potere fino al 2036. Il cerchio dei suoi consiglieri si è fatto sempre più piccolo, la sua distanza dal mondo reale sempre più grande. Lo Zar è solo. Il consenso scricchiola, complice una situazione economica in costante peggioramento. La pandemia ne ha accentuato l’isolamento fisico e mentale. È diventato imperscrutabile ai suoi stessi collaboratori. Nessuno sa quali saranno le prossime decisioni. Alla vigilia dei 70 anni, con una condizione di salute diventata segreto di Stato e secondo molti a rischio, Putin ha fretta. Vuole unificare il Russkij Mir, salvare la Russia eterna, rifarne una Grande Potenza. Annientando nel sangue l’Ucraina, la nazione sorella che “pretende” di scegliere da sola il proprio destino, vuole completare la missione. Ma come ricorda Pavlovski, «quando giochi alla roulette russa, pensi che Dio sia con te, fino a quando non arriva il colpo».
Razionale o psicopatico? La metamorfosi di Putin. Sandro Modeo su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.
La guerra scatenata contro l’Ucraina è mossa coerente di un leader razionale o l’azzardo di uno zar impazzito, offuscato dalla paranoia o dai farmaci necessari alla cura delle sue patologie? Un’analisi nella mente del presidente della Russia — perché capirne la prospettiva è indispensabile per intuirne le mosse (e la durata del conflitto)
La domanda, purtroppo, è tutt’altro che oziosa, al punto da avere attivato da qualche giorno un’animata discussione internazionale ed essere diventata nelle ultime ore, non a caso, la «priorità» americana (dei servizi e del Pentagono): cercare di capire, almeno con approssimazione accettabile, se il presidente della Federazione Russa con cui dobbiamo «interloquire» per il conflitto da lui scatenato si ponga come «Putin the Rational» o «Vlad the Mad» (col secondo epiteto che allude al conte di Valacchia, l’«impalatore» prototipo di Dracula); o, forse, un ibrido tra le due identità, in alternanza o persino in sovrapposizione. Soprattutto da quell’interrogativo, infatti (anche se per fortuna non solo da quello, dato che incideranno fattori oggettivi, «esterni» alla personalità putiniana), dipendono le variabili dell’evoluzione bellica e politica: compresa, inutile girarci intorno, quella che si allunga come una nuova ombra sullo sfumare dell’ombra pandemica, quasi a staffetta: quella di un conflitto prolungato ed esteso o addirittura di un conflitto nucleare.
Il quadro è diviso, quasi polarizzato, con due schieramenti affollati di storici e studiosi di geopolitica, psicologi-psichiatri e neurologi: da una parte abbiamo i sostenitori della continuità, della coerenza e dell’ostinazione progettuale, sia nella visione storico-geopolitica che nella psicologia del presidente (e del suo cerchio magico); dall’altro, quelli che vedono invece un cambiamento più o meno marcato, comunque una metamorfosi, da ricondursi sia ai mutamenti della situazione ucraina sia, soprattutto, a un’alterazione neuropsicologica (per certi aspetti speculare a quella somatico-fisiognomica), dovuta alle varie patologie di cui Putin soffre o soffrirebbe, e alle relative terapie per curarle. Il tracciato è complesso, a tratti persino contradittorio, con buone ragioni da tutte e due le prospettive.
Nel momento in cui inquadra il crollo dell’Urss come «la più grande tragedia del ventesimo secolo» e abbandona presto l’iniziale apertura al dialogo e all’integrazione con Ue nascente e Nato, Putin mostra già in controluce il disegno soggiacente alle sue politiche future, la madre di tutte le revanches: un disegno descritto dall’esterno come neoimperialista, neosovietico o a mix tra i due, ma in ogni caso teso a un impulso di «riconquista» e «riparazione», di risalita a una grandeur originaria.
Al riguardo, tutti i suoi referenti culturali sono emblemi, in vari sensi, della tradizione e dell’«anima» russa: su tutti, Lev Gumilëv e Ivan Il’in.
Il primo, figlio d’arte (il padre — fatto fucilare da Stalin — era un poeta amatissimo da Raissa Gorbaciova; la madre nientemeno che Anna Achmatova) è un etnologo-geografo tra i massimi teorizzatori del ritorno a una Russia eurasiatica, secondo l’idea di certi esuli in età sovietica; il secondo, un «pensatore aristocratico» di iniziali simpatie naziste, che piega la filosofia idealistica tedesca in chiave slavofila (lui stesso si proclama discendente da Rjurik, il fondatore della Rus’ di Kiev) per rilanciare una Russia spiritualista e anticomunista, insieme antioccidentale e antisovietica. A concentrato esponenziale, non si può non citare il «Rasputin» Aleksandr Dugin, equivalente putiniano dello Steve Bannon trumpiano: perché è vero che Putin lo utilizza soprattutto in modo strumentale per aumentare il consenso, ma gli fa gioco la teoria delirante del «sogno eurasiatico», che vede nella Russia la nuova incarnazione dell’«Eterna Roma» espansa sia a est (fino all’Oceano Indiano) che a ovest (con l’Ue ridotta a «protettorato») e nell’America la nuova Cartagine (o la «chimerica», «impura» Nuova Babilonia). Anche se — con pronta e non casuale virata — Dugin vede nell’America trumpiana un interlocutore sintonico. Condendo il tutto con un non meno calcolato amplesso alla Chiesa ortodossa (vedi la sua frequentazione dell’archimandrita Tychon, stesso nome del «confessore» di Stavrogin, il protagonista dei Demoni di Dostoevskij), Putin conduce così lungo il «ventennio» le sue guerre: in Cecenia tra fine anni ’90 e nuovo millennio (con la devastazione di Groznji), in Georgia (2008), in Crimea e già in Ucraina (2014) in Siria (2015), a tacere della presa silente del Kazakhstan, che viene puntualmente ricordata quasi solo da Garry Kasparov, uno dei pochi ad aver capito tutto e presto.
2. Perché Putin ha puntato l’Ucraina? La Grande e la Piccola Russia
Una simile continuità è spesso legata al controllo degli snodi geo-strategici (Mare d’Azov e Mar Nero) e soprattutto delle risorse e dei traffici delle aree volta a volta (ri)occupate, quindi del relativo business statal-mafioso, come riassume proprio il rapporto tra Russia e Ucraina. Anche in questo caso, Putin utilizza a cornice — ancora in queste ore — una rilettura deformante di fatti e processi storici, riassunta addirittura in un saggio di suo pugno (Sull’unità storica di russi e ucraini, 12 luglio 2021) in cui l’indissolubilità originaria dei due popoli viene fatta risalire alla citata Rus’ di Kiev , e quindi alla comune origine da etnie scandinave migrate nelle aree della futura Madre Russia.
Poco importa che in realtà l’Ucraina (alla lettera: terra «al confine») abbia poi cercato lungo i secoli in molte occasioni di arrivare a un’autonomia che rifletta una propria identità nazionale; e — peggio ancora — che nel nuovo millennio abbia cercato l’integrazione geopolitica nell’Ue.
Qui siamo allo snodo-chiave, e al perverso intreccio Stato-mafia, che si salda al coté ideologico — o se vogliamo idealistico — come i muscoli alla struttura ossea di un organismo. Intreccio già in parte descritto da Roberto Saviano (qui), sul quale esiste un’oceanica bibliografia.
In estrema sintesi, lo schema rodato è per lungo tempo il seguente: il gigante Gazprom vende enormi cubature di gas naturale alla gemella ucraina Rue (RosUkrEnergo) «a prezzi stracciati», consentendo agli intermediari (come il controllore de facto di Rue, il boss «Don Semyon» Mohylevič, o oligarchi «buoni» come Dmytro Firtaš e il re dell’alluminio Oleg Deripaska) di trasportarlo (via Turkmenistan) e rivenderlo (anche ai Paesi europei) a prezzi astronomici: in cambio delle «creste», Putin (che ne beneficia in prima persona) chiede finanziamenti ai Partiti filorussi come il partito delle Regioni e ai relativi candidati-fantoccio (un nome per tutti: Viktor Janukovyč), che a loro volta si arricchiscono.
La summa materiale e simbolica di tutto questo è la cosiddetta Mežyhir’ja dello stesso Janukovyč, la «Versailles di Ucraina» in cui il presidente travasa una minima parte dei 12 miliardi di dollari acquisiti durante la presidenza: un’immane magione in cui risaltano uno zoo privato con canguri e struzzi, un galeone ancorato in un lago artificiale, 70 automobili da collezione, eliporti, e molto altro. Venatura non trascurabile: questo assetto di potere e business (in cui i confini tra Stato e mafia sono «fluidi» e «ibridi» come quelli tra guerra e pace nella teoria militare dell’attuale capo delle Forze Armate Valerij Gerasimov) acuisce presto il suo carattere transnazionale con inserzioni yankee: vedi la figura di Paul Manafort, decisivo (e strapagato) spin doctor di Janukovyč prima di diventarlo per Trump, e quindi ponte ideale verso la connection o collusion Trump-Putin.
Il punto è che nella visione di Putin quell’assetto dovrebbe coniugarsi a un permanente «vassallaggio» del Paese, ottenuto invece solo a singhiozzo, cioè sotto le presidenze compiacenti di Leonid Kučma (1994-2005) e dello stesso Janukovyč (2010-14). Risultano infatti problematici, dal punto di vista russo, sia il mandato di Viktor Juščenko (2005-2010), coincidente con la «rivoluzione arancione», cominciata proprio presidiando le piazze per il riconteggio delle elezioni del novembre 2004 e la correzione dei brogli (che in un primo momento fanno vincere Janukovyč); sia, in modo e grado diversi, quello di Petro Porošenko (2014-19).
Quest’ultima presidenza è decisiva — a posteriori — nello spiegare la transizione verso la guerra in corso: leader nel settore del cacao come riassume il nickname di «Re del cioccolato» (patrimonio, secondo Forbes, di 1,6 miliardi di dollari), Porošenko è figura ambivalente se non ambigua, che attua un pragmatico equilibrismo: è tra i fondatori del Partito delle Regioni, ma la sua politica estera vira presto (in coerenza con l’appoggio alle proteste 2013 di piazza Maidan) verso l’integrazione nell’Ue; cerca di tenere buoni rapporti con Putin, ma non è prono al separatismo filorusso.
L’anno in cui si insedia, il 2014, è quello della presa della Crimea e dei primi scontri militari nel Donbass (Oblast’ di Donetsk e Luhansk): ma quasi nessuno ricorda come Putin, a settembre, oltre ad avvisare Porošenko sull’inaffidabilità dell’Ue, si esprima in modi più brutali: «Se volessi, le truppe russe potrebbero essere in due giorni non solo a Kiev, ma anche a Riga, Vilnius, Tallinn, a Varsavia o Bucarest». Parla a nuora perché suocera intenda, dato che quelle parole verranno riferite da Porošenko a José Barroso, agli sgoccioli della Presidenza Ue; del resto, in una telefonata allo stesso Barroso, Putin avrebbe detto di poter «conquistare Kiev in due settimane».
Da quel momento, il rapporto Russia-Ucraina prosegue a onde, tra tensioni e distensioni: fino a quando due sequenze peggiorano il quadro.
La prima è quelle delle elezioni 2019: fuori causa un’antica nemica della Russia, la «signora dalla bionda treccia» Julija Tymošenko (già protagonista della Rivoluzione arancione e del governo Juščenko), Putin si accontenterebbe della conferma del pur riottoso Poroshenko come minore dei mali; invece, a sorpresa, vince l’ex comico Volodymyr Zelensky. La tensione col nuovo presidente tocca il diapason quando viene colpito Viktor Medvedchuk, politico-imprenditore amico di una vita di Putin, che è stato ospite nella sua dacia e ha addirittura tenuto a battesimo la figlia dell’oligarca, Daryja.
Uomo di fiducia del Cremlino a Kiev fin dai tempi della Rivoluzione arancione, Medvedchuk viene accusato dal governo di Zelensky di «alto tradimento» per il sostegno ai separatisti e lo sfruttamento illegale di risorse in Crimea: il 13 maggio 2021 è agli arresti domiciliari, dopo il sequestro dei beni di famiglia (compreso un oleodotto) e l’oscuramento delle tre TV (112, NewsOne e ZIK) utilizzate per la campagna filorussa.
Pochi giorni dopo — ufficialmente per un’«esercitazione su larga scala» — 3000 parà russi planano su Kiev. È l’antefatto dei parà planati in questi giorni per la presa di Kharkiv.
La seconda sequenza riguarda altre elezioni, quelle americane del 2020. Con l’exit di Trump (insanguinato dall’eversione di Capitol Hill, giustificata dal Cremlino) e la fine dell’isolazionismo, gli Usa tornano a essere per Putin — secondo la formula di Dugin — la «Nuova Babilonia». Le parole di «The Donald» sull’invasione ucraina sono tutt’altro che casuali: sia l’elogio di Putin, con iperbole già rivolta a sé stesso («un genio»), a far risaltare a contrasto la «stupidità» di Biden; sia, soprattutto, la rivendicazione dell’antica connection: «Con me, tutto questo non sarebbe successo». Forse, davvero non sarebbe successo, con un addomesticamento comune dell’Ucraina simile a quello dei tempi di Manafort; o forse, sarebbe successo comunque, in una reciproca legittimazione di azioni paralegali (lo stesso Trump ha proclamato l’inutilità di truppe Usa di peacekeeping all’estero, da destinarsi invece al confine messicano).
Con quelle due sequenze, in ogni caso, Putin non vede alternative: dopo «otto anni di negoziati a un punto morto», la «piccola Russia» — nozione ambigua, in realtà non coincidente con l’Ucraina — deve essere ricondotta alla Grande, ad ogni costo.
3. Continuità e discontinuità nella psicologia di Putin
La continuità storico-geopolitica e geostrategica appena percorsa è riflessa — secondo molti studiosi e osservatori — in quella psicologico-caratteriale di Putin, di fatto la stessa dalla sua presa del potere, ratificata tra marzo e maggio 2000 (ma avvenuta prima). Di più: per qualcuno, l’aggressività-anaffettività sarebbe costitutiva: la si potrebbe trovare già nel Putin ragazzino, che «gioca» nei cortili della kommunalka del centro di Leningrado in cui abita, un quinto e ultimo piano senza ascensore e a vani condivisi, con una coppia di anziani ebrei che — dirà più tardi Putin — lui non distingue affettivamente dai genitori. Come testimonia l’amico Viktor Borisenko, in quei cortili affollati di «brutti ceffi» con barba non rasata, sigarette e vino scadente, il giovane Volodya — anche se più giovane e magro di corporatura — «tiene testa a tutti»: «Se qualcuno lo insultava in qualsiasi modo, subito lui gli saltava addosso, lo graffiava, gli strappava i capelli a ciocche, lo mordeva».
Gli stessi tratti reattivo-rabbiosi sono poi testimoniati a scuola, nell’esperienza di judoka, nel KGB a Dresda; e sembrano poi ritrovarsi in tante sequenze della maturità, anche se — una volta al comando — frenate o almeno rivestite da un «controllo» algido e da una spietatezza atona. Lo si vede non solo nella conduzione delle guerre citate sopra, ma anche nella «gestione del dissenso» ovvero nella commissione dell’assassinio degli oppositori pericolosi (politici come Galina Starovojtova e Boris Nemtsov; giornalisti come Anna Politkovskaja e Paul Klebnikov) o del loro avvelenamento (dal polonio dell’agente FSB Litvinenko alla sostanza neurotossica dell’attivista Navalny); operazioni che arrivano a colpire anche gli ucraini, come il giornalista Georgij Gongadze (eliminato proprio per i suoi contributi sugli intrecci Stato-mafia) o come lo stesso futuro presidente Juscenko, intossicato con la diossina, tanto da restarne segnato in volto a vita.
In quest’ottica — che per certi versi sottende e quasi suggerisce spiegazioni psico-sociologiche se non psicanalitiche — molti valutano l’orrore ucraino in corso come un cambiamento «di grado» («di scala») ma non di sostanza: l’esito contestuale di quelle attitudini costitutive. Così la vede a esempio Semyon Gluzman, noto psichiatra ucraino oggi 75enne, spedito a inizio anni Settanta in una colonia penale siberiana (a Perm, 50 sottozero), per essersi opposto all’impiego della sua disciplina per soffocare i dissidenti. In una lunga intervista a John Sweeney per New Lines, Gluzman utilizza il rasoio di Occam: «No, Putin non è pazzo, è crudele», esattamente come i suoi antefatti canonici, da Hitler a Stalin, «evil doers», «gente sadica, ma non malata». Il che comporta una forte implicazione etica prima che politica: «se noi classifichiamo questi soggetti come malati, leviamo loro ogni responsabilità per le loro azioni». Tra tante osservazioni acute e altre più discutibili, Gluzman (che al momento dell’intervista spera ancora in una soluzione politica e in una rinuncia all’invasione) delinea molte questioni aperte: la distanza, se non l’irrelatezza, tra la «logica» occidentale e quella di Putin, come testimoniato dall’impotenza degli argomenti usati da Angela Merkel («Putin avrebbe potuto capirli, ma non li lasciava entrare nella sua mente»); la soggezione o meglio la paura dei boiardi e del cerchio magico e quella di Putin stesso, che nei tavoli immani e nel distanziamento esorcizzerebbe la prossimità della propria morte; e l’autoassoluzione implicita nei crimini che sta commettendo, totalmente delegati al nemico occidentale e alle sue «provocazioni».
A cerniera conclusiva delle due continuità (storico-geopolitica e psicologico-caratteriale) potremmo ricorrere alla descrizione del narratore Vladimir Sorokin, citata nella monumentale biografia putiniana di Steven Lee Myers. Scrivendo, non a caso, nell’anno-break 2014, cioè l’anno delle Olimpiadi-propaganda a Sochi, della Crimea e dell’innesco della crisi ucraina verso la guerra a «bassa intensità» (quella ha portato, ricordiamolo, più di 13.000 morti in otto anni), Sorokin vede i tratti decisivi di Putin nel continuo slittamento della dimensione personale in quella politica, con la nazione «ostaggio delle fisime psicosomatiche del suo leader». «Tutte le sue paure, le passioni, le debolezze, i complessi diventano politica dello Stato. Se è paranoico, l’intero Paese deve temere nemici e spie; se è insonne, tutti i ministri devono lavorare di notte; se è astemio, tutti devono smettere di bere; se beve, devono imitarlo; se odia l’America, contro cui il suo amato KGB ha combattuto, l’intera popolazione deve odiarla». («O al contrario amarla se lui la ama», avrebbe aggiunto Sorokin se avesse scritto dopo l’elezione di Trump).
È insieme una sintesi del Putin-pensiero e (a posteriori) una prognosi degli otto anni a venire, per certi aspetti definitiva.
Eppure, non tutti vedono quelle continuità, o non solo quelle.
In tanti, in questi anni e mesi, percepiscono Putin «cambiato»: nella somatica, va da sé, e non solo per l’età (testa ingrossata e faccia gonfia); nel «temperamento», che molti, tra cui Condoleeza Rice, definiscono «erratic»; nel lessico, spesso fuori controllo, viscerale, in tv come in privato; e a somma di tutto, nel cambio di passo di aggressività-anaffettività.
Significative le testimonianze dei politici; il presidente finlandese Sauli Niinisto, che lo conosce da molti anni, ha colto in una recente telefonata sulla sovranità finlandese toni «inusualmente minacciosi»; e lo stesso Macron — che l’ha incontrato e lo sente pressoché quotidianamente — ha detto di trovarlo più «rigido e paranoico», con «momenti di assenza».
Mentre diversi osservatori di politica e strategia militare vedono il Putin scacchista o freddo pokerista (molto bravo anche a bleffare) sostituito da un compulsivo giocatore d’azzardo alla roulette; e si spingono oltre un’istituzione della CIA come Robert Gates, che lo vede «fuori dai binari», o un decano del giornalismo francese come Bernard Guetta, uno dei tanti a descriverlo «scollegato dalla realtà». Forse lo sguardo più equilibrato — e più sottile — è quello dello psichiatra Kenneth Dekleva, a lungo all’ambasciata Usa a Mosca e specializzato nelle analisi psico-caratteriale dei leader. A domanda di Erin Burnett della Cnn su un Putin «cambiato» Dekleva risponde «sì e no», distinguendo tra la continuità dell’azione bellica (ancora una volta: dalla distruzione di Groznij a oggi) e un Putin «diverso» non perché «erratic», ma perché dominato dalla «frustrazione» e dalla «frenesia». «La cosa più triste, o più tragica» dice Dekleva, «è come Putin sia passato dall’essere un leader rispettato o temuto dall’Occidente e dal mondo a una sorta di Slobodan Milosevic». Resta però, inevasa, la questione dei possibili legami tra quei cambiamenti e le malattie del presidente.
4. La metamorfosi di Putin e le sue malattie
Anche un osservatore superficiale non può non restare colpito dalla metamorfosi somatico-fisiognomica subita negli anni dal volto di Putin: dal confronto fra una foto giovanile (in cui appare come un furetto febbrile in cerca di compostezza) o della maturità (come quella sulla copertina della biografia di Masha Gessen, in cui è scolpito in una glacialità asettica, quasi astratta) e certe foto recenti come quella su UnHerd, in cui lo sguardo minaccioso e assente aderisce ai tratti, a partire dalle gote iper-vascolarizzate dal botox.
Questo Putin «psicopatico» sembra attrarre naturalmente la metafora e la parabola del Joker, grazie a cui, chi lo volesse, potrebbe facilmente «unire i puntini»: saldare i vari segmenti di una lunga sindrome abbandonica (dal bambino dall’infanzia difficile allo zar barbarico cacciato dal mondo perbene del G8) e spiegare la sua aggressività sanguinaria come il desiderio di incendiare Gotham City. Forse c’è qualcosa di vero in questa caricatura; ma è un’altra semplificazione.
Seguendo sempre Myers, il volto e il corpo di Putin cominciano a mutare nel 2011, quando — anche su sollecitazione della nuova partner ufficiosa, la ginnasta Alina Kabaeva — riprende l’attività sportiva (lui ex judoka, sciatore e nuotatore) e si sottopone ai primi interventi di chirurgia cosmetica per un maquillage radicale: pelle più tesa, via zampe di gallina e borse intorno agli occhi, gote più alte e piene. Non tutti, in patria, gradiscono; ma un noto chirurgo estetico, Aleksandr Pukhov, prende le sue difese: «Volete davvero vedere il presidente vecchio e flaccido?».
E il nuovo look prepara i grotteschi festeggiamenti del 60° compleanno, 7 ottobre 2012, in cui, tra mille iniziative, si fa combattere il «conducator» con animali selvaggi (spesso drogati).
Ma sotto lo smalto della carrozzeria il motore arranca: il mese prima, a Vladivostok, Putin si era stirato giocando a hockey su ghiaccio; e nel periodo a seguire cominciano le speculazioni sulla sua salute, sempre più insistenti nella lunga eclissi del marzo 2015, tra voci di decesso (in stile Urss), di nuovo botulino e di interventi alla schiena. Speculazioni proseguite in questi anni e arrivate a diapason proprio in questi giorni, soprattutto su tre tipi di patologie.
La prima riguarda proprio «la schiena», ovvero possibili problemi alla colonna vertebrale per pregressi traumi sportivi, come accennato un volta dal «vassallo» bielorusso Lukashenko, o addirittura una neoplasia al midollo spinale, la cui sintomatologia sarebbe compatibile con alcune difficoltà deambulatorie e certe irrequietezze posturali di Putin. Lui stesso una volta ha ricordato i «fortissimi dolori alla schiena» patiti dal padre (scomparso il 2 agosto ’99 per cause non chiarite), indicando una possibile predisposizione ereditaria.
A livello di terapia, quel tipo di tumore vede il trattamento elettivo nei corticosteroidi (oltre a chirurgia, radio e più raramente chemio); farmaci, com’è noto, che possono indurre, specie a quantità elevata e periodi prolungati, alterazioni dell’umore a vasto spettro, secondo reazioni soggettive, dal down depressivo all’esaltazione maniacale. Memorabile, al riguardo, un film di Ray (Bigger Than Life), il cui protagonista, un grande James Mason, sviluppa una megalomania «napoleonica»; ma più prosaicamente, molti di noi ne hanno avuta esperienza diretta o tra parenti e amici. Con due corollari rilevanti: la possibile incidenza, a livello di effetti collaterali, di analgesici maggiori come gli oppioidi, che possono indurre a loro volta (oltre a dipendenza) idee paranoiche, apatia, depressione, rallentamento cognitivo; e il fatto che Putin possa aver assunto — soprattutto nel citato periodo di velleità salutista — anche steroidi anabolizzanti, non meno insidiosi nel produrre alterazioni del carattere verso la rabbia, l’aggressività e il disordine psicotico.
La seconda speculazione riguarda invece il morbo di Parkinson, che spiegherebbe a sua volta certe alterazioni cinetiche, la «rigidità» di cui parlano Macron e altri, il rallentamento della risposta cognitiva e la ridotta ampiezza di oscillazione della mano destra rispetto alla sinistra, rivelata da certe riprese tv. Anche qui però, un ulteriore problema sarebbe rappresentato dalle terapie: i farmaci di elezione, dopaminergici come la levodopa, producono effetti collaterali tra loro contraddittori, dalla sonnolenza all’ansia-agitazione alle allucinazioni.
Qui il riferimento immediato è Risvegli (il libro di Oliver Sacks, da cui il film con Robin Williams e De Niro), ma l’elemento chiave sono studi recenti che mostrano come quei farmaci trasformino tanti anziani parkinsoniani in giocatori compulsivi (di Bingo, Gratta & Vinci, roulette…) diminuendo la soglia di percezione del rischio.
L’inciso obbligato, invece, qui riguarda il precedente di Hitler, col parkinsonismo come uno dei pochi aspetti in cui i due autocrati siano accostabili in senso non generico e stereotipato. Un contributo recente di un gruppo di neurologi di Pittsburgh, in particolare, dimostrerebbe come la progressione della patologia e i relativi sintomi (tremori, schiena ricurva, sguardo assente, e così via) abbia compromesso piuttosto presto le capacità cognitive di Hitler e i suoi processi decisionali, determinando diversi errori strategico-militari, dal prematuro e frettoloso attacco della Russia nel ’41 all’ ostinazione nel prolungare l’assedio di Stalingrado l’anno dopo. Sono conclusioni altamente controverse: e con la differenza, comunque, che Hitler avrebbe subìto solo le alterazioni della malattia, non quelle delle terapie.
La terza ipotesi sulle patologie di Putin riguarda il Covid-19: nel dettaglio, la possibilità che una forma di Long-Covid possa aver prodotto una nebbia cognitiva.
Troppi elementi, però, non sembrano tornare: può darsi che Putin abbia contratto il virus a settembre 2020, quando tutto il cerchio magico viene isolato; e può darsi che lo Sputnik V (seconda dose in aprile 2021) non l’abbia protetto a sufficienza.
Ma come sempre, l’opacità è sovrana: quando Macron rifiuta il tampone nella visita al Cremlino, Putin esibisce il primo dei famosi tavoli-ponte per non (ri) contagiarsi: ma perché allora, com’è stato notato, in quel periodo si apparta senza mascherina con Lukashenko?
L’opacità stessa — e l’impossibilità delle intelligence di appurare la verità — non permette di stabilire con certezza nessi causali tra le patologie di Putin e le alterazioni psico-caratteriali. Però, nonostante alcune contro-tesi da «avvocato del Diavolo» dell’intelligence Usa (il fatto che Putin «reciti» la propria instabilità come strategia), i suoi cambiamenti sono evidenti.
5. Il malato e il malvagio
«Sono un malato… sono un malvagio»: è il ruminio dell’io narrante nel celebre incipit delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Nel romanzo, patologia e malvagità sono i tratti sovrapposti di una discesa «pre-freudiana» nelle cause sottostanti al disagio psichico; qui, semplicemente, sintetizzano la domanda iniziale su un Putin in continuità o discontinuità coi suoi tratti («solo» malvagio o «anche» malato).
In effetti, in partenza ha ragione Gluzman: la crudeltà (o il sadismo, o se vogliamo il «male», rigorosamente con la minuscola, per togliergli ogni enfasi teologico-metafisica) non necessitano di un’addizione patologica; a meno di non considerare patologici quegli stessi tratti. O impostare il discorso in altro modo.
In un libro notevole di Simon Baron-Cohen, psicologo-psichiatra di Cambdrige (Zero Degrees of Empathy, in italiano proprio La scienza del male, Cortina), vengono analizzati «sei gradi» di empatia con cui — per tratti neuropsicologici come esito di genetica e cultura — ogni soggetto umano si relaziona al prossimo. Semplificando brutalmente, a un estremo della scala (lo «zero» del titolo) abbiamo i dittatori, i boia nazisti o stalinisti; all’altro, la «super-empatia» di San Francesco o del principe Myškin dell’Idiota; in mezzo, la medietas delle maggioranze. È una classificazione in cui il quantitativo è ipso facto qualitativo, ed è forse utile per ipotizzare una lettura del rapporto continuità-discontinuità nel percorso di Putin appena ricostruito.
Per un verso, come si è visto, l’invasione dell’Ucraina obbedisce a una coerenza «progettuale» di lungo corso e a obiettivi molto precisi, che Putin sta per raggiungere. E nessuno può dire, al momento, se l’hybris proseguirà oltre e altrove, come sostengono in tanti, a cominciare dalla Nobel bielorussa Svetlana Aleksievich; se gli obiettivi saranno perimetrati all’Ucraina (con probabili trattative «vere» dopo il controllo di Kiev e della congiungente Donbass-Transnistria via Odessa, Zelensky ucciso o destituito) o se si estenderanno ai Paesi Nato; in ultimo, se la minaccia nucleare, com’è probabile, sia solo l’apex della dottrina russa della «escalation to de-escalation» (sorta di nuova versione della «madman theory» nixoniana) o una prospettiva praticabile.
Ma, per un altro verso — o simultaneamente —, già ora ci sono un prima e un dopo questa invasione: un diaframma separa comunque le guerre precedenti (quasi tutte «interne»), il sicariaggio di oppositori e dissidenti, persino le due ecatombi dei primi anni di presidenza, esito di sue gestioni scellerate (il sottomarino Kursk nel 2000 e la strage alla scuola di Beslan nel 2004) dall’annientamento di una nazione di oltre 40 milioni di abitanti, con l’indifferenza (la non-empatia) verso decine di migliaia di vittime civili e militari, compresi tanti giovani russi; in ultimo, tra l’intenzione di riscrivere la storia come in una fiction di Philip Dick e l’attuazione di quella riscrittura.
Certo, in questo passaggio — una volta per tutte: di grado e di sostanza — può avere inciso, di nuovo, lo slittamento del «personale» nel «politico» descritto da Sorokin (comunque uno schema da personaggio dickiano: il mondo inghiottito dall’Io): per esempio, la furia per i provvedimenti contro il sodale Medvedchuk. Ma qui non è da escludere l’insinuarsi delle alterazioni ipotizzate sulla spietatezza-anaffettività costitutiva, che ne verrebbe acuita, nell’ottica di Putin con vantaggi (maggior intraprendenza) e svantaggi (minor lucidità di calcolo).
Non solo: se la guerra viene mossa da un 70 enne, non è da escludere — a cornice di tutto — il peso della percezione della propria fine biologica, sia in sé stessa, sia legata a una patologia che la stia accelerando.
La finestra temporale per riscrivere la Storia a proprio nome si sta chiudendo: questo coinciderebbe con la «fretta» registrata da Dekleva. Né è da escludere che il «Paese profondo» — periferie povere, volente e opache come quelle descritte nei romanzi di Roman Sencin — lo sostenga proprio per questo, in sintonia con l’«attimo» da cogliere. Qui il «personale» e il «politico» sembrano fondersi con una consistenza inquietante; anche se i morsi economico-sociale delle sanzioni (vedi il possibile default imminente) potrebbe presto minarla.
In questa prospettiva, tutta la gestione dell’invasione diventa più coerente.
Lo diventa l’enfasi della rappresentazione nei saloni «onirici» del Cremlino, con i citati tavoli-ponte come studiati «schiacciamenti prospettici» degli interlocutori interni e internazionali: vedi, su tutto, la sequenza dell’umiliazione del capo dell’intelligence Naryshkin, che rivelerà in foto successive il distanziamento estremo tra Putin (su una minuscola scrivania bianca) e il resto dell’assemblea. E lo diventa l’impiego della neolingua putiniana, in cui inganno e auto-inganno si saldano ferocemente. Esemplare, al riguardo, il monologo, con tanto di contrazioni nasali «taurine», sulla «denazificazione» dell’Ucraina, in cui Putin non solo enfatizza le presenze neonaziste in quel Paese (in decalage) e finge di ignorarne il possente coté ebraico, ma elide dalla scena il fatto di esser stato lui a utilizzare formazioni neonaziste in quelle aree, come quella di Aleksandr Barkashov in appoggio ai separatisti filorussi; a tacere della sua sintonia con autocrati a loro volta sintonici a formazioni neonaziste, Trump in testa.
6. Che fare? Le domande all’Occidente
Il Putin dei primi vent’anni di presidenza (di «regno») era, nei termini ricordati all’inizio, un «Putin the Rational» prevalente in alternanza a un «Vlad the Mad» «episodico»; o almeno così ha fatto comodo figurarselo all’Occidente, come ricorda sempre Kasparov.
Quello attuale sembra alternare due varianti di mister Hyde, lasciando i residui del dottor Jekyll solo alla ratio dei propri obiettivi.
Contrastarlo, o interloquire con lui, è quindi (quasi) impossibile.
Le domande cui rispondere o le questioni da risolvere nell’immediato sono quasi accademiche. La prima — indissolubilmente legata a quella su un Putin neuropsicologicamente alterato — è quella sull’entourage ristretto.
Secondo Tatyana Stanovaya, fondatrice degli analisti politici R. Politik, l’attuale élite governativa putiniana sarebbe spartita tra un gruppo di «tecnocrati» con poca o nessuna voce in ambito di sicurezza e politica estera e un ristretto gruppo di «consiglieri» dell’intelligence e dell’esercito (i cosiddetti siloviki) che dominerebbero l’agenda, alimentando il lato più aggressivo di P. e spingendo per le soluzioni più radicali.
Ne spiccano, su tutti, tre: il «falco tra i falchi» dell’intelligence, Nikolai Petrushev (collega-amico di P. nel KGB fin dagli anni ’70 e fautore primo dell’avvelenamento di Litvinenko), complottista-dietrologo che vede nell’Ucraina un «protettorato» occidentale e teorizza una congiura Usa per «distruggere la Russia» (questo almeno fino al 2015, prima della vittoria di Trump); il capo dell’FSB, Aleksandr Bortnikov, anche lui in rapporti con Putin dagli anni ’70 al KGB, responsabile di vari ambiti tra loro correlati (contro-terrorismo, cyber-sicurezza) e, non ufficialmente, della gestione» delle opposizioni e del dissenso; e l’ormai noto Ministro della difesa Sergei Shoigu , uno dei tre uomini da cui dipenderebbe un’eventuale attacco nucleare (gli altri due sono lo stesso Putin e il Capo delle Forze Armate Gerasimov).
È un quadro che implica diverse incognite: su tutte, quale sia il vero rapporto gerarchico tra Putin e i boiardi; su quanto, appunto, i siloviki alimentino il mister Hyde più strong.
La seconda questione è quasi basica. Con un establishment così aggressivo e coeso (anche se qualche osservatore si spinge a vedere nell’ escalation il segnale di una «lotta per la successione» a Putin già in corso), molto dipenderà dall’attività diplomatica con interlocutori terzi. Il punto è che l’attore più influente, la Cina, non ha esplicitamente condannato l’invasione ucraina in quanto la inquadra come utile «precedente» per proprie, eventuali iniziative analoghe, non solo a Taiwan (vedi Tibet e Xingjiang).
Forse però, la domanda più ingombrante (che in questi giorni cerchiamo di esorcizzare e rimuovere con ogni mezzo) è a un altro livello. È stato giustamente scritto come l’invasione russa rappresenti l’irruzione (il ritorno) di una dimensione antistorica ovvero arcaica, quasi primordiale. Si finge di non vedere, però, che questo è quasi solo il punto di vista «occidentale» o meglio europeo: mentre noi abbiamo trascorso un secolo senza pandemie (l’ultima è stata la Spagnola) e tre quarti di secolo senza guerre (con l’eccezione tragica dell’ex-Jugoslavia), in molte aree del resto del mondo pandemie e/o guerre hanno continuato a mietere vittime e a rallentare quei progressi tecnoscientifici, culturali e socioeconomici che diminuiscono la conflittualità della specie, come ha mostrato Steven Pinker in un libro già classico come The Better Angels of Our Nature (Il declino della violenza, Mondadori).
L’arcaico, il primordiale (come sinonimo di violenza e guerra) è stato addomesticato, non eliminato dalla natura umana; è sempre lì, in alcuni circuiti del cervello del Sapiens, non solo in quello di Putin.
Illudersi del contrario, può portare a risvegli-shock. Traduzione sgradevole: il conflitto in corso ha comportato e comporterà per noi (come blowback delle sanzioni) costi energetici, economici, commerciali; per gli ucraini — che stanno resistendo con una dignità esemplare — la perdita della vita o lo sradicamento. Nel caso, saremmo pronti a imitarli?
FONTI
Libri
Biografie di Putin: Masha Gessen, Putin. L’uomo senza volto, traduzione di Lorenzo Matteoli, Bompiani, 2008; Steven Lee Myers, The New Tsar. The Rise and Reign of Vladimir Putin, Simon & Schuster, 2015, paperback 2016; sulla visione geopolitica e geostrategica di Putin: Angela Stent, Putin’s World: Russia Against the West and With the Rest, Twelve, 2019; sull’intreccio Stato-mafia in Russia e Ucraina: Luke Harding, Collusion, traduzione di Sara Crimi e Laura Tasso, Mondadori, 2017; Craig Unger, Casa di Trump, Casa di Putin, traduzione di Lorenzo Matteoli, La Nave di Teseo, 2018; sui rapporti storici tra Russia e Ucraina: Giorgo Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci, 2021.
Articoli
L’intervista di John Sweeney allo psichiatra ucraino Seymon Gluzman, A Bad Day in Kyiv, è uscita su New Lines, 24 febbraio 2022; sulle patologie di Putin sono uscite decine di articoli: si segnalano almeno quello redazionale del Robert Lansing Institute, Putin’s worsening health set to be is determining factor in Russia’s policy over the next four years, 29 settembre 2021; e quello di Paul Taylor, Inside Vladimir Putin’s head, POLITICO, 27 febbraio 2022; sull’entourage di Putin e i siloviki: Andrew Roth, Putin’s security men: the elite group who ‘fuels his anxieties’, Guardian, 4 febbraio 2022.
Massimo Ammaniti per corriere.it il 15 marzo 2022.
Nel grande salone dell’Ordine di Santa Caterina nel Cremlino, progettato e realizzato dagli Zar per celebrare le glorie dell’Impero Russo, Vladimir Putin ha riunito i capi della sicurezza per riconoscere le nuove Repubbliche ucraine. Il fatto risale a qualche settimana fa ed è illustrativo del carattere e del modo di avere rapporti con i collaboratori del leader russo.
È uno scenario agghiacciante: nel grande salone tondo, completamente bianco, ornato di grandi colonne, Putin è seduto al centro e intorno a fargli da corona ci sono i suoi sottoposti seduti, ognuno distante dall’altro (l’immagine è irreale, potrebbe quasi ricordare le scene del film muto di Fritz Lang «Metropolis», in cui si rappresentava un mondo assoggettato a una dittatura del futuro che si sarebbe imposta nell’anno 2026, non molto lontano dall’oggi).
Come abbiamo visto i funzionari della sicurezza cercavano di assecondare il monarca, come poi è avvenuto al capo dei servizi segreti Sergei Naryshkin che si dibatteva imbarazzato per cercare di non contraddire quello che il padrone intendeva rivolgendogli degli sguardi tra l’imperativo e l’ironico. A un certo punto Putin si è rivolto a loro con una domanda che non richiedeva risposte: «Ci sono punti di vista diversi?».
Colpisce in questo scenario la glacialità dell’incontro, che vorrebbe trasmettere agli spettatori russi che hanno seguito in televisione le fasi dell’incontro il senso autocratico di Putin, che domina incontrastato la Grande Madre Russia assoggettata al suo potere. È un’immagine potente e grandiosa che ai miei occhi di psichiatra rievoca quello che scrisse parecchi decenni fa il sociologo americano Norman Cameron sulle pseudo comunità paranoidi, vengono immaginate e costruite nella mente di quanti sono affetti dalla paranoia. Sono mondi mentali abitati dai persecutori che devono essere assoggettati e annichiliti per non rappresentare più una minaccia. Più che stretti collaboratori, i capi dei servizi di sicurezza sembrano piuttosto dei «competitor» pericolosi che devono essere annullati per non contrastare il potere del monarca.
Non è la prima volta che accade nel mondo russo. Più volte si è parlato della paranoia di Stalin, addirittura diagnosticata nel 1927 dal grande neurologo di Pietroburgo Vladimir Bechterev che l’aveva visitato al Cremlino e che poi pagò con la sua vita quella che fu la sua ultima diagnosi.
Non credo che Putin sia mai stato visitato da uno psichiatra, ma colpisce ad esempio il suo atteggiamento freddo e distante nell’intervista rilasciata al regista americano Oliver Stone, anche quando risponde alla domanda che gli viene fatta sulla sua adolescenza, quando era un ragazzo di strada in un quartiere degradato. Lì aveva forgiato il suo carattere calloso e privo di emozioni che viene descritto nei trattati di psichiatria, apprendendo nelle lotte quotidiane le strategie di una cultura antisociale e violenta.
Più volte si è espresso con queste parole: «Bisogna colpire per primo», per evitare di dover subire le aggressioni degli altri che ai suoi occhi sono sempre nemici. Sicuramente nelle strade di Leningrado aveva imparato ben presto a diffidare dei compagni di strada, sempre pronti a tradirti per un pezzo di pane in più. È la stessa strategia che Putin segue ancora oggi nella sua guerra sciagurata in Ucraina: colpire i paesi dell’Occidente prima che possano reagire. Ma al di là della sua arroganza, si coglie in lui una paura profonda e un dubbio che lo tormenta: «Non so se sia vero ma basandomi sul semplice sospetto agirò come se fosse sicuro», parole che Otello continua a ripetere a sé stesso nella tragedia di Shakespeare.
Quel movimento sospetto di Vladimir Putin, cosa rivela il biografo dello Zar: la verità sulla malattia. Il Tempo il 15 marzo 2022.
Cosa c'è di vero nelle speculazioni che vedono il presidente russo Vladimir Putin malato di cancro e in preda a una sorta di delirio dovuto dai farmaci? A fornire qualche elemento alla discussione che a onor del vero manca di prove concrete è Nicolai Lilin, lo scrittore italiano nato in Russia, diventato famoso per il romanzo con spunti autobiografici Educazione Siberiana ma che recentemente ha pubblicato una biografia di Putin.
Lo scrittore martedì 15 marzo a L'aria che tira, il programma di La7, ammette che Putin ha realizzato in Russia una dittatura con mire imperialistiche perché non è vero che "l'ultimo Zar" vuole rifare l'Urss, il suo vero obiettivo è rifondare "l’impero russo”. Per lo scrittore Putin anche in questo frangente resta un politico freddo e razionale e ha sicuramente "piani B, C e così via. Secondo me lui è preparato come in Cecenia, dove era partito con un certo tipo di pianificazione e poi ha sfruttato la situazione, girando a suo favore il dissenso tra i ribelli, tanto è vero che parte dei ceceni si è staccata ed è diventata fedele alla Russia”.
Insomma non siamo davanti a un pazzo, o a un malato offuscato dai farmaci: “Lo stato di salute dei grandi leader è sempre un segreto, soprattutto in dittatura quindi non sapremo mai la verità sulla salute di Putin, è anche inutile ragionare su questo argomento" con diagnosi attraverso i video, "diffonderemmo solo fake news" dice Lilin che però qualche osservazione sulle condizioni di Putin la fa. Si è spesso parlato dei piccoli scatti che il presidente russo fa con il copro, nella parte sinistra. I video sono oggetto delle più svariate teorie sul web: "Io Putin l'ho studiato a lungo - spiega lo scrittore - questo movimento di spalla sinistra che fa spesso quando parla non è segno di malattia" ma viene dalla sua esperienza nel judo, assicura lo scrittore: "È uno dei trucchi della scuola di San Pietroburgo, si tratta di un movimento che un judoka fa spesso: finge attaccare a sinistra e invece lo fa a destra". Un riflesso fisico che Putin fa "involontariamente" nei suoi discorsi, soprattutto quando vuole essere "più aggressivo" nell'eloquio e mettere l'interlocutore al tappeto.
Clemenza e Anna Politkovskaja avevano già capito tutto. Valentina Roselli, Giornalista, su Il Riformista il 15 Marzo 2022.
Clemenza, socio del celeberrimo Vito Corleone nel primo film della saga Il Padrino, parlando con il rampollo Michael pronuncia una battuta che oggi più che mai risuona come una verità incontestabile: “Lo dovevano fermare a Monaco a quello, non dovevano fargliela passare liscia “Quello era Hitler e a Monaco ci fu l’incontro dove il dittatore tedesco ottenne la benedizione di Francia e Inghilterra per l’invasione dei Sudeti. Hitler poteva e doveva essere fermato, proprio come lo “Zar” Vladimir Putin.
Ci sono verità talmente lampanti che persino un uomo del tutto estraneo alla vita civile, avvezzo a guerre combattute impugnando una pistola, steso su un materasso, un avanzo di galera insomma, sa riconoscere. Per questo quella scena è cruciale ed è emblematica di come persino un emarginato può avere molto più buon senso dei suoi governanti, ed evitare gli errori ai quali non ci può essere più rimedio. Anche con Putin adesso è tardi, come lo fu per Hitler nel 39’ dopo l’occupazione della Polonia. Adesso assistiamo impotenti all’occupazione dell’Ucraina e tutti piangono e cercano di farci singhiozzare ogni giorno passando immagini di bambini uccisi, bombardamenti, donne, cani, gatti e anziani in lacrime nei rifugi. Uno spettacolo straziante che spero ci renda tutti furiosi e incapaci di piangere, perché se è vero che la rabbia non permette compassione, è altrettanto vero che ci rende più reattivi e meno vulnerabili.
In questi anni abbiamo assistito al grottesco corteggiamento dei nostri capi di governo del dittatore russo, lusingato a suon di cene, inviti in costa Smeralda, telefonate amichevoli, l’accettazione della sua ingerenza nell’elezione di un presidente americano e addirittura una candidatura al Nobel per la pace e un fondamentalmente: un assordante SILENZIO su tutti i suoi crimini. Un silenzio dovuto in primo luogo all’atavico timore del comunismo e dei suoi rigurgiti, lo stesso che permise a Hitler di agire indisturbato, e in secondo luogo alla paura di perdere i rifornimenti di gas. Un terzo del fabbisogno europeo veniva soddisfatto da Mosca e nonostante da decenni si dichiari di voler diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, si è continuato per pigrizia e amore dello status quo a dipendere da un assassino.
Si signori un assassino, e molti tra quelli che contano, hanno finto di non sapere niente. Lo ha detto apertamente solo qualche mese fa il presidente Biden e Putin pare non essersi scomposto più di tanto.
La Monaco di Putin
Putin è stato capo della polizia segreta per 16 anni con il grado di tenente colonnello, prima di entrare in politica nel 1991. La sua forma mentis, e i suoi metodi non sono mai stati politicamente corretti e lo ha dimostrato presto la sua politica estera con la guerra in Cecenia. Sul fronte interno i giornalisti, categoria da sempre imbavagliata nelle terre dell’Urss, dal 1999 iniziarono a temere seriamente per la loro vita. Essere un giornalista e opporsi a Putin significava morire e lo si vide bene con l’omicidio di Anna Politkovskaja.
Anna Politkovskaja era una coraggiosa giornalista della Novaja Gazeta morta a soli 48 anni, per aver denunciato le violazioni dei diritti umani durante la seconda guerra cecena. Aveva raggiunto una certa fama con i suoi reportage e non lesinava critiche a Vladimir Putin accusandolo apertamente del mancato rispetto dello stato di diritto. Fu assassinata con due colpi di pistola il 7 ottobre 2006 a Mosca, giorno del compleanno del mandante, forse un regalo particolare che il dittatore si è voluto fare. Fu ritrovata nell’ ascensore del suo palazzo, uccisa mentre stava tornando a casa: la spesa in una mano e i suoi appunti nell’altra. Nonostante le minacce, Anna Politkovskaja proprio come Clemenza del Padrino, non voleva fargliela passare liscia al nuovo Hitler del terzo millennio. Si è battuta a mani nude, per amore della democrazia e la sua morte era l’equivalente dell’incontro di Monaco nel 1938. Non dovevano fargliela passare allo “Zar”. Quella tragedia poteva diventare l’occasione per prendere le distanze ed evitare la dipendenza economica da chi uccide i propri oppositori. Invece dove non poté l’indignazione poté l’ingordigia. Si volle riconoscere solo un partner commerciale per lo scambio delle materie prime, la crescita economica russa, l’aumento del Pil e del suo potere d’acquisto, la fine dell’autarchia e la nascita degli oligarchi che trasferivano fiumi di denaro in occidente. La stessa ricchezza che oggi viene congelata per ritorsione, una confisca che è diventata l’unica arma a disposizione delle democrazie europee.
Certo ogni tanto qualche voce timida si è alzata per denunciare l’intollerabile, come l’inchiesta dall’International Federation of Journalists del 2009 con la denuncia della morte e della scomparsa di più di 300 giornalisti a partire dal 1993 . Sono stati resi noti anche gli avvelenamenti degli oppositori, uno nello stesso anno dell’uccisione della Politkovskaja, quello di Alexander Litvinenko, ex spia russa e duro oppositore di Putin, a cui fu messo nel tè del polonio. Ma tutto a bassa voce, in un sussurro.
Illuminante quello che avvenne in Sardegna a Villa Certosa nell’estate del 2008. Putin è ospite di Berlusconi, durante la conferenza stampa una giornalista russa chiede allo zar in odor di divorzio, lumi sulla sua vita privata e Putin guarda molto male la malcapitata. Berlusconi a quel punto mima una fucilazione. Un bagno di cattivo gusto nel verde mare della Sardegna.
Candidatura al Nobel per la pace
Tra un omicidio di stato e l’altro con l’uso del veleno Putin affronta la prima rivolta ucraina, in modo “democratico”, sostenendo le forze filorusse destituendo il presidente ucraino Viktor Janukovič, dichiarando poi l’annessione della Crimea con un referendum popolare non riconosciuto dalla comunità internazionale. Niente guerra, e questo gli è sufficiente per essere candidato al Nobel della Pace su proposta dell’Accademia internazionale dell’unità spirituale e della cooperazione tra nazioni del mondo.
Putin quel Nobel non lo vincerà mai forse per questo prosegue con i suoi metodi poco ortodossi senza che l’Europa batta ciglio: incarcerazioni, uccisioni, avvelenamenti di stato. Nel marzo del 2018 si ha notizia di altri due decessi da polonio, quello dell’ex spia russa Sergei Skripal e di sua figlia Yulia e altri li seguiranno fino a giungere all’ultimo nome noto, Alexei Anatolievich Navalny, attivista politico e blogger di origine ucraina miracolosamente scampato ad un avvelenamento nell’agosto del 2020.
Anche la pandemia è stata occasione per ribadire la superiorità russa. Il primo vaccino europeo anti Covid, dal nome fortemente evocativo “Sputnik “è stato messo a punto proprio dalla Russia di Putin. Tanta la fiducia nel dittatore e nei suoi metodi, che persino il nostro piccolissimo stato nello Stato, San Marino, non ha esitato ad iniettarlo ai propri cittadini, senza chiedersi quanto avesse concesso alla sicurezza, un dittatore in vena di supremazia.
Lo abbiamo poi fatto arrabbiare con le forniture di gas perché a suo dire l’Europa non è riuscita a garantire contratti di consegna a lungo termine sufficienti con Mosca, alimentando così l’impennata dei prezzi record. “La loro intera politica era quella di rescindere i contratti a lungo termine e quella politica si è rivelata sbagliata“, ha detto in un incontro con i funzionari del settore energetico russo, “hanno commesso degli errori“.
Si caro zar, abbiamo commesso indubbiamente degli errori, ma non sui contratti a lungo termine. Il nostro grande sbaglio è stato quello di non bloccarti a Monaco/Mosca nel 2006, allora non dovevamo fartela passare liscia.
Quella realtà parallela in cui vive lo zar Putin. Nunzio Smacchia su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Marzo 2022. Il criminologo: "Serve studiare la sua personalità per comprendere i suoi aspetti più attaccabili, in modo da consentire di anticiparne le mosse e trovare un negoziato che metta fine alla guerra".
Al punto in cui è arrivata l’offensiva russa contro l’Ucraina è necessario studiare bene la personalità di Putin per trovare dei punti deboli, o meglio, per comprendere quelli che sono i suoi aspetti più attaccabili, in modo da consentire di anticiparne le mosse nella mortale e criminosa partita in corso e trovare un negoziato soddisfacente che metta fine alla guerra in atto. Oggi Putin crede di essere investito di una grandiosa missione storica (annettere l’Ucraina nella sfera geopolitica russa), e tanto basta per considerarlo un megalomane o un messianico; probabilmente cambierà tattica e atteggiamento quando subirà delle perdite inaspettate, perciò non è un lunatico, o un folle apocalittico.
Il leader sovietico a questo punto dell’invasione accetterebbe, forse, una soluzione onorevole che metta fine al conflitto, purché ne esca indenne e gli si salvi la faccia. Ma come? Questo è il problema angoscioso dibattuto da tutti gli Stati mondiali. All’orizzonte non si vede per il momento una conclusione che riduca al minimo i danni, le perdite. Dalla sua oratoria si comprende che non ha i piedi per terra, si comporta da «onnipotente», soprattutto da quando nel 2020 si è autonominato presidente a vita. Questo significa che ha un potere infinito nelle sue mani che gli consente di stravolgere le regole a suo piacimento, come ha sottolineato la politologa Tatijana Stanowja. L’idea fissa del dittatore è di demilitarizzare l’Ucraina, perché secondo lui è un paese nazista. Sembra che viva in una «realtà parallela» come si è notato da più parti e quindi è da considerare un borioso pericoloso e criminale. Ma come si argina una personalità di questo genere che agli occhi del mondo appare delittuosa e assolutamente da condannare? È il caso di studiare i comportamenti che avvengono all’interno del Cremlino, dove sicuramente si è creata nel tempo una psicopatologia del consenso, che nasconde notevoli rischi e che nella storia ha portato al fascismo e al nazismo. Sembra voler essere il protagonista di una «chiamata» che lo sta cambiando radicalmente, facendolo sprofondare in un delirio patologico di natura politica, accrescendo il suo ego da esibizionista.
Un uomo che è riuscito con indubbia abilità e disinvoltura a trovarsi a capo di una delle nazioni più potenti della terra; un individuo che è stato posto dai suoi seguaci su un piedistallo decisamente più grande di lui, complice un vuoto sorprendente della politica interna, preso com’è stato da un’illusione, una distorsione cognitiva dovuta alla facilità dell’insediamento al vertice; ed è così che sono venute fuori in maniera netta e decisa le sue pulsioni di rivalsa e di dominio. Al punto in cui la Russia si è invischiata in questo assurdo attacco tra il punitivo e l’espansionistico c’è da chiedersi se abbia ancora del consenso e se all’interno del Politburo i politici che lo circondano condividano la spregiudicatezza e l’amoralità di una guerra che mina alla base i principi democratici della convivenza umana.
La sua ascesa politica si colloca a cavallo tra la psicologia sociale e l’analisi socioeconomica in un momento nel quale il Partito versava in una crisi di prestigio e occorreva dare un peso alla pedagogia autoritaria; e questo aspetto gli ha dato potere, rendendolo più cinico e privo di scrupoli. Pasolini riuscì a stigmatizzare con la sua filmografia l’aggressività patologica di regime.
Che dire allora della personalità di Putin: è un ostentatore o un egocentrico patologico? Nutre una sete di approvazione e ha una esasperata preoccupazione dell’immagine di sé, si esalta per le azioni che compie; vuole imporre in modo autoritario la propria figura e il proprio pensiero.
Ma in questo momento ha un seguito? Chi vuole, oggi, condividere le sue scelte da guerrafondaio? Nessuno. Chi lo fa compatisce solo la sua mediocrità di statista e di uomo. Il suo comportamento non è dettato dalla smania di primeggiare a tutti i costi, ma dalla bramosia nefasta di superare i limiti di una razionalità fuori controllo. È ossessionato da una fantasia di onnipotenza e da atteggiamenti deliranti di grandiosità. Insomma è un despota che è riuscito a soffocare il dissenso, a zittire la stampa e a mandare in frantumi le speranze e gli ideali di democrazia. Ciò che gli è sfuggito di mano è il non aver compreso non solo gli orientamenti del suo ambiente politico, ma soprattutto gli umori del mondo intero. Che dire, allora? Putin è un «pazzo politico», o un «pazzo comune»? Lo si deve considerare un maniaco, o un paranoico che mantiene spesso inalterate le facoltà mentali percettive, oltreché istrioniche e affabulatorie? Solo la storia lo potrà dire.
Per capire l’ossessione di Putin basta leggere Erodoto e Platone. GIULIO GUIDORIZZI, grecista, su Il Domani il 17 marzo 2022
Vladimir Putin, si legge da varie parti, è diventato folle. Perlomeno, c’è la possibilità che soffra di turbe mentali.
Il fatto che un dittatore soffra di una sindrome paranoica non implica che non sia in grado di perseguire i suoi fini, perché è anzi proprio il suo disturbo mentale che lo mette in grado di proiettare nell’azione le sue visioni megalomani e patologiche.
Le prime parole sulla psicopatologia del tiranno ci vengono da Erodoto, nel passo del terzo libro in cui paragona tra loro le varie forme di costituzione: un tiranno, dice, è l’espressione di un paradosso perché dovrebbe essere felice, dato che gli è concesso tutto, e invece germoglia in lui l’odio verso i suoi cittadini.
GIULIO GUIDORIZZI, grecista. Grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e di antropologia del mondo antico. È professore ordinario di Letteratura Greca presso l’Università di Torino. Autore di manuali per la scuola, di letteratura e storia. Tra le sue opere, l’edizione delle Baccanti di Euripide (1989) e delle Nuvole di Aristofane (1995), un commento all'Edipo a Colono di Sofocle (2007), le traduzioni della Biblioteca di Apollodoro (1995), dei Miti di Igino (2001) e dell’Anonimo del Sublime (1993). Per il Mulino ha pubblicato Sofocle. L'abisso di Edipo.
La guerra e il terrore. La catastrofe intellettuale di Vladimir Putin. Paul Berman su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
L’attacco all’Ucraina, a differenza di quelli di epoca zarista e comunista, non ha dietro di sé un pensiero forte né offre un obiettivo di grandezza. Una debolezza strutturale che maschera la vera ragione del conflitto: la paura delle idee liberali. Un grande saggio di Paul Berman.
Vladimir Putin potrebbe essere uscito di senno, ma è anche possibile che abbia semplicemente osservato le cose attraverso una particolare lente che appartiene alla tradizione russa. E che abbia agito di conseguenza. Invadere i vicini non è, dopo tutto, una cosa inedita per un leader russo. È una cosa abituale. È senso pratico. È un’antica tradizione. Ma quando cerca una retorica aggiornata che riesca a spiegare a se stesso e al mondo le ragioni di quest’antica tradizione, Putin fa fatica a trovare qualcosa.
Si aggrappa a retoriche politiche che risalgono a tempi ormai lontani. E si disintegrano nelle sue mani. Fa dei discorsi e scopre di essere senza parole, o quasi. E questa potrebbe essere stata la prima battuta d’arresto, ben prima delle battute d’arresto patite dal suo esercito. Però non si tratta di un fallimento psicologico. Si tratta di un fallimento filosofico. Gli fa difetto un adeguato linguaggio per fare analisi: e, di conseguenza, gli fa difetto la lucidità.
Il problema che Putin sta cercando di risolvere è l’eterno dilemma russo, e cioè il vero «indovinello, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma» che Winston Churchill attribuì alla Russia (e che non sarebbe mai riuscito a risolvere, anche se riteneva che l’“interesse nazionale” offrisse una chiave). È il dilemma su che cosa fare riguardo a uno stranissimo e pericoloso squilibrio nella vita russa.
Lo squilibrio consiste nella coesistenza, da una parte, della grandeur della civiltà russa e della sua geografia (che costituisce un’enorme forza) e, dall’altra, di una strana e persistente incapacità di costruire uno Stato resiliente e affidabile (che costituisce un’enorme debolezza). Nel corso dei secoli i leader russi hanno cercato di affrontare questo squilibrio costruendo le più criminali fra le tirannie, nella speranza che la brutalità avrebbe compensato la carenza di resilienza. E hanno accompagnato la brutalità con una politica estera insolita, diversa da quella di qualunque altro Paese, una politica estera che sembrava servire allo scopo.
Grazie alla brutalità e all’insolita politica estera lo Stato russo è riuscito ad attraversare il XIX secolo senza collassare – e questo è stato un successo. Ma nel XX secolo lo Stato è collassato due volte. Il primo collasso, nel 1917, consentì l’ascesa al potere di estremisti, di pazzi e di alcune delle peggiori sciagure della storia del mondo. Nikita Chruščëv e Leonid Brežnev riportarono lo Stato a una condizione di stabilità.
Poi lo Stato russo crollò di nuovo. Il secondo collasso, nell’epoca di Michail Gorbačëv e Boris El’cin, non fu altrettanto disastroso. Eppure, l’impero scomparve, scoppiarono delle guerre lungo i confini meridionali della Russia, l’economia si disintegrò e crollò l’aspettativa di vita. Questa volta fu Putin a guidare la ripresa. In Cecenia lo fece con un grado di criminalità che qualifica soltanto lui, tra i combattenti dell’attuale guerra, per un’accusa di genocidio o qualcosa del genere.
Ma Putin non è stato più abile di Chruščëv e di Brežnev nel tentativo di raggiungere un successo definitivo, e cioè la creazione di uno Stato russo abbastanza solido e resiliente da evitare ulteriori collassi. La cosa lo preoccupa. Con tutta evidenza lo getta nel panico. E le sue preoccupazioni lo hanno condotto a considerare il problema dal punto di vista che in passato hanno adottato, uno dopo l’altro, tutti i suoi predecessori – un punto di vista che ha versioni diverse, ma che di fatto è sempre lo stesso.
Questo punto di vista è come una specie di paranoia climatica. Si tratta della paura che i princìpi caldi della filosofia liberale e delle pratiche repubblicane provenienti dall’Occidente, spostandosi verso Est, possano scontrarsi con le nubi ghiacciate dell’inverno russo e che da questa collisione nascano delle violente tempeste a cui nulla sopravvivrà. Si tratta, in breve, della convinzione secondo cui i pericoli per lo Stato russo sono esterni e ideologici e non interni e strutturali.
La prima di queste collisioni, quella originaria, prese una forma molto rozza e non ebbe le caratteristiche delle successive collisioni. Ma fu traumatica. Stiamo parlando dell’invasione della Russia da parte di Napoleone nel 1812, che mandò a sbattere la Rivoluzione francese, in una sua forma deteriorata e dittatoriale, contro il medievalismo congelato degli zar. La collisione tra la Rivoluzione francese e gli zar portò l’esercito francese fino all’incendio di Mosca e l’esercito zarista fino a Parigi.
Ma le collisioni tipiche, quelle che si sono verificate ripetutamente nel corso dei secoli, sono sempre state filosofiche, mentre gli aspetti militari sono rimasti confinati alla reazione russa. Un decennio dopo l’ingresso dell’esercito zarista a Parigi, una cerchia di aristocratici russi, influenzati dalla Rivoluzione francese e da quella americana, adottò delle idee liberali. E organizzò una cospirazione in nome di una nuova Russia liberale. Questi aristocratici furono arrestati ed esiliati e il loro progetto fu sbriciolato. Ma lo zar, che era allora Nicola I, non si fidò un granché della sua vittoria su di loro. E reagì adottando una politica che proteggesse per sempre, in un modo migliore, lo Stato russo dai rischi di sovvertimento.
Nel 1830 scoppiò una nuova rivoluzione francese che diffuse analoghe aspettative liberali qui e là in Europa, e soprattutto in Polonia. Nicola I si rese conto che un rivitalizzarsi del liberalismo ai confini del suo Paese era destinato a rinvigorire le cospirazioni degli aristocratici liberali arrestati ed esiliati. Reagì invadendo la Polonia. E, per buona misura, inghiottì lo Stato polacco, inglobandolo nell’impero zarista.
Nel 1848, in Francia, scoppiò un’altra rivoluzione, che condusse ad ancor più diffuse insurrezioni liberali e repubblicane in tutta Europa – si trattò quasi di una rivoluzione continentale, e fu un’indicazione chiara che in Europa stava cercando di emergere con tutte le forze una nuova civiltà, che non era più monarchica né feudale e che non avrebbe più ubbidito ai voleri di nessuna chiesa che esercitasse il potere in un dato luogo, una nuova civiltà fatta di diritti umani e di pensiero razionale. Ma la nuova civiltà era esattamente ciò che Nicola I aveva temuto. Lo zar reagì invadendo l’Ungheria. Queste due invasioni da lui condotte – quella della Polonia e quella dell’Ungheria – dal punto di vista di Nicola I furono guerre di difesa che avevano assunto la forma di guerra d’aggressione. Erano “operazioni militari speciali” progettate per impedire il diffondersi di idee sovversive in Russia grazie alla distruzione dei vicini rivoluzionari, con l’ulteriore speranza di estirpare le aspirazioni rivoluzionarie da un territorio ancora più vasto.
Le guerre ebbero successo. La rivoluzione continentale del 1848 andò incontro a una sconfitta continentale e Nicola I ebbe una parte importante in tutto questo. Fu il “gendarme d’Europa”. E lo Stato zarista durò per altre due o tre generazioni, finché tutto quello che Nicola I aveva temuto alla fine accadde davvero e l’ispirazione proveniente dai socialdemocratici tedeschi e da altre correnti liberali e rivoluzionarie dell’Occidente penetrò disastrosamente proprio nella sua Russia. Era il 1917. E lo zar era allora il suo bisnipote Nicola II.
Il fragile Stato russo andò a fondo. E riemerse come una dittatura comunista. Ma la dinamica di base rimase la stessa. Sui liberali e sulle correnti liberalizzatrici provenienti dall’Occidente Stalin aveva una visione identica a quella di Nicola I, anche se il vocabolario con cui Stalin esprimeva i suoi timori non era lo stesso usato dallo zar. Stalin si impegnò a distruggere ogni aspirazione liberale o liberalizzatrice in Unione Sovietica. Ma si impegnò a distruggerle anche in Germania – e anzi questo fu uno dei primi obiettivi della sua politica verso la Germania, che si prefiggeva di distruggere i socialdemocratici prima ancora che i nazisti. E lo fece anche in Spagna, durante la Guerra civile: lì la sua politica si prefiggeva di distruggere gli elementi non comunisti della sinistra spagnola altrettanto (se non più) che di distruggere i fascisti. Quando la Seconda guerra mondiale terminò, Stalin si impegnò a distruggere quelle stesse aspirazioni in tutte le parti d’Europa che erano cadute sotto il suo controllo. È vero che era uno squilibrato.
Ma anche Chruščëv, che non era uno squilibrato, si rivelò essere un Nicola I. Nel 1956, quando l’Ungheria comunista decise di esplorare delle possibilità vagamente liberali, Chruščëv individuò in questo un pericolo mortale per lo Stato russo e fece la stessa cosa che aveva fatto Nicola I. Invase l’Ungheria. Poi salì al potere Brežnev. E si rivelò uguale anche lui. Tra i leader comunisti della Cecoslovacchia si fece strada un impulso liberale. E Brežnev invase la Cecoslovacchia. Questi erano i precedenti quando Putin, nel 2008, decise l’invasione su piccola scala di una Georgia che era da poco diventata liberale e rivoluzionaria. E quando poi, nel 2014, decise l’invasione della Crimea, che faceva parte della rivoluzionaria Ucraina.
Ciascuna di queste invasioni del XIX, XX e XXI secolo avevano l’obiettivo di preservare lo Stato russo, impedendo che una brezza puramente filosofica di pensieri liberali e di esperimenti sociali potesse fluttuare al di là del confine. E gli stessi ragionamenti hanno condotto all’invasione più feroce di tutte, che è quella che sta avvenendo proprio ora.
L’unica differenza è che Putin si è imbattuto in un problema di linguaggio, o di retorica, che non aveva afflitto nessuno dei suoi predecessori. Nicola I, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, sapeva benissimo come descrivere le sue guerre contro le idee e i movimenti liberali dell’Europa Centrale. Lo faceva evocando i principi di un ideale monarchico mistico e ortodosso. Lui sapeva a favore di che cosa e contro che cosa si batteva. Era il campione della vera Cristianità e della tradizione consacrata ed era il nemico dell’ateismo satanico, dell’eresia e del disordine rivoluzionario.
I suoi princìpi suscitavano disgusto tra gli amici della Rivoluzione francese e di quella americana. Ma suscitavano rispetto e ammirazione tra gli amici dell’ideale monarchico e dell’ordine, che, anche grazie al suo aiuto, erano dominanti in Europa. I suoi princìpi erano nobili, solenni, grandiosi e profondi. Erano, per certi versi, dei princìpi universali e questo li rendeva degni della grandeur russa – erano dei princìpi buoni per l’intera umanità, sotto la guida della monarchia russa e della Chiesa ortodossa. Erano dei princìpi vivi, fondati nella realtà del tempo, benché fossero nascosti dietro il fumo e l’incenso, e ponevano lo zar e i suoi consiglieri nella posizione di pensare con lucidità e in modo strategico.
Anche Stalin, Chruščëv e Brežnev sapevano come descrivere le loro guerre contro i liberali e i sovversivi. Lo facevano invocando i princìpi del comunismo. Anche questi princìpi erano grandiosi e universali. Erano i princìpi del progresso umano – anche in questo caso sotto la guida della Russia – dei princìpi buoni per il mondo intero. Questi princìpi suscitavano sostegno e ammirazione in ogni Paese in cui c’era un forte partito comunista e talvolta anche fra i non comunisti, che accettavano l’argomentazione secondo cui le invasioni sovietiche erano antifasciste. Per queste ragioni, anche i princìpi comunisti erano altrettanto fondati nella realtà del tempo e questo metteva i leader comunisti nella posizione di fare i loro calcoli strategici con lucidità e sicurezza di sé.
E Putin, invece, a quale dottrina filosofica potrebbe appellarsi? I teorici putiniani avrebbero dovuto confezionargliene una, qualcosa di magnifico, che fosse capace di generare un linguaggio utile a sviluppare un pensiero sull’attuale situazione della Russia e sull’eterno dilemma dello Stato russo. Ma i teorici lo hanno deluso. Avrebbe dovuto farli fucilare. Forse questo fallimento non è davvero colpa loro, ma questa non è una buona ragione per non fucilarli. Non si può confezionare una dottrina filosofica a comando, nel modo in cui chi scrive i discorsi scrive un discorso. Le dottrine forti o ci sono o non ci sono. E così Putin ha dovuto arrabattarsi con le idee che galleggiavano qua e là, afferrandone una e poi un’altra per poi legarle insieme con un nodo.
Non ha tratto quasi niente dal comunismo, fatta eccezione per l’odio verso il nazismo che è rimasto dalla Seconda guerra mondiale. Anche lui ha posto molta enfasi sul suo antinazismo e questa enfasi ha avuto un ruolo importante nel suscitare quel supporto che Putin è riuscito a raccogliere fra i suoi compatrioti russi. Ma, per altri versi, l’antinazismo non è un punto di forza della sua dottrina. Negli ultimi anni, i neonazisti in Ucraina hanno avuto visibilità, anche se soltanto in forma di graffiti sul muro e di saltuarie manifestazioni di piazza. Ma non hanno avuto un ruolo né grande né piccolo. Hanno avuto un ruolo irrilevante e questo significa che l’enfasi di Putin sui neonazisti ucraini, che è utile per la sua popolarità in Russia, introduce però una rilevante distorsione nel suo pensiero.
E da qui proveniva l’aspettativa, che è stata delusa, secondo cui un gran numero di ucraini, spaventati dai neonazisti, avrebbe guardato con gratitudine i carrarmati russi che transitavano lungo le strade. Ma non c’è alcun altro elemento del comunismo che sopravvive nel suo pensiero. Al contrario, Putin ha ricordato con dispiacere come le dottrine comuniste ufficiali del passato avessero incoraggiato l’autonomia dell’Ucraina invece di incoraggiare la sua sottomissione nell’ambito di una più grande nazione russa. La posizione di Lenin su quella che era abitualmente definita “questione nazionale” non è la sua stessa posizione.
Dal mistico ideale monarchico degli zar, invece, Putin ha tratto molte cose. Ne ha tratto il senso di un’antica tradizione, che lo porta a evocare il ruolo di Kiev nella fondazione della nazione russa nel IX secolo e le guerre di religione del XVII secolo fra la Chiesa Ortodossa (i bravi ragazzi) e la Chiesa cattolica (i cattivi ragazzi). L’ideale monarchico non è una forma di nazionalismo, ma Putin ha dato alla sua personale lettura del passato monarchico e religioso un’interpretazione nazionalista, al punto che la lotta dell’Ortodossia contro il Cattolicesimo si presenta come una lotta nazionale dei russi (che nella sua interpretazione comprendono gli ucraini) contro i polacchi. Putin evoca l’eroica rivolta dei cosacchi che fu guidata, nel XVII secolo, dall’atamano Bohdan Chmel’nyc’kyj, anche se sceglie di tralasciare con discrezione il ruolo aggiuntivo di Chmel’nyc’kyj come leader di alcuni dei peggiori pogrom della storia.
Ma non c’è nulla di grandioso né di nobile nella lettura nazionalista del passato fatta da Putin. La sua evocazione della storia della chiesa implica la grandezza della spiritualità ortodossa ma non sembra riflettere questa grandezza, quasi come se, per lui, l’Ortodossia fosse soltanto un pensiero secondario o un ornamento. Il suo nazionalismo ricorda soltanto in modo superficiale i vari nazionalismi romantici dell’Europa del XIX secolo e degli anni che condussero alla Prima guerra mondiale. Quei nazionalismi del passato tendevano a essere varianti di un moto comune all’interno del quale ciascun singolo nazionalismo, ribellandosi contro l’universalismo dei dittatori giacobini e degli imperi multietnici, rivendicava di svolgere una missione speciale per l’intera umanità.
Ma il nazionalismo di Putin non rivendica alcuna missione speciale di questo tipo. Non è un nazionalismo grandioso, ma un piccolo nazionalismo. È il nazionalismo di un piccolo Paese – un nazionalismo che ha una vocetta strana, come quella del nazionalismo serbo che negli anni Novanta sbraitava su avvenimenti del XIV secolo. È, sia chiaro, una voce arrabbiata, ma non ha il tono profondo e tonitruante dei comunisti. È la voce del rancore nei confronti dei vincitori della Guerra fredda. È la voce di un uomo la cui dignità è stata offesa. Le aggressive invasioni di campo di una Nato trionfante lo fanno infuriare. E cova la sua rabbia.
Ma anche il suo rancore manca di grandeur. E manca, in ogni caso, della capacità di dare spiegazioni. Gli zar potevano spiegare perché la Russia aveva suscitato l’inimicizia dei rivoluzionari liberali e repubblicani: ciò era avvenuto perché la Russia difendeva la vera fede, mentre i liberali e i repubblicani erano i nemici di Dio. Allo stesso modo, anche i leader comunisti potevano spiegare perché l’Unione Sovietica si era fatta a sua volta dei nemici: ciò era avvenuto perché i nemici del comunismo sovietico erano i difensori della classe capitalista e il comunismo costituiva il disfacimento del capitalismo.
Putin, invece, parla di “russofobia”, e questo implica un odio irrazionale, qualcosa che non si può spiegare. E, nel suo rancore, non punta neppure a qualche virtuoso obiettivo supremo. Gli zar credevano che avrebbero potuto offrire la vera fede all’umanità solo sconfiggendo i sovversivi e gli atei. E i comunisti credevano che, dopo aver sconfitto i capitalisti e i fascisti, che sono lo strumento del capitalismo, la liberazione del mondo sarebbe stata a portata di mano. Ma il rancore di Putin non indica un futuro radioso. È un rancore che guarda al passato e che non ha un volto rivolto al futuro.
Stavolta, quindi, si tratta di un nazionalismo russo che non ha nulla che possa attirare il sostegno di qualcun altro. Lo so che in alcune parti del mondo ci sono persone che sostengono Putin nella guerra che sta conducendo in questo momento. Lo fanno perché albergano un loro personale rancore verso gli Stati Uniti e i Paesi ricchi. O lo fanno perché conservano la gratitudine per aver ricevuto aiuto dall’Unione Sovietica durante la Guerra fredda. E ci sono serbi che sentono un legame fraterno. Ma quasi nessuno sembra condividere le idee di Putin. Non c’è niente che si possa condividere. E non c’è nessuno in tutto il mondo che pensi che la distruzione dell’Ucraina inaugurerà una nuova epoca migliore di questa.
Questa dottrina non offre speranza. Offre isteria. Putin crede che sotto la presunta leadership nazista che si è impadronita dell’Ucraina milioni di russi che vivono all’interno dei confini dell’Ucraina siano vittima di un genocidio. Talvolta pare che con la parola “genocidio” Putin intenda dire che dei russofoni con un’identità etnica russa siano costretti a parlare ucraino, cosa che li priverebbe della loro identità – e cosa di cui parla nel suo saggio del 2021 che si intitola “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”. Altre volte sembra invece che Putin si accontenti di lasciare intatta l’allusione a dei massacri.
In entrambi i casi, è apparso particolarmente poco convincente su un aspetto importante. In nessuna parte del mondo qualcuno ha indetto una manifestazione per denunciare il genocidio di milioni di russi in Ucraina. E come mai? Perché Putin parla con il tono di un uomo che non aspira neanche a essere creduto, tranne che dalle persone che non hanno bisogno di essere convinte.
Eppure, lui si aggrappa alla sua idea. Gli si addice. Considera se stesso una persona acculturata che pensa nel modo più raffinato – come qualcuno che non potrebbe mai invadere un altro Paese se non fosse capace di evocare una grandiosa filosofia. Riguardo a questo punto, Putin sembra bramare delle rassicurazioni. E immagino che questo sia il motivo per il quale ha passato così tante ore al telefono con Emmanuel Macron, il presidente del Paese, la Francia, che è sempre stata la patria del prestigio intellettuale. Ma il cuore del disastro è proprio l’attaccamento di Putin a questa idea di una filosofia grandiosa. Infatti, come può ragionare con lucidità un uomo che è immerso in idee piccine e ridicole come questa?
Lui sa di essere circondato dai problemi e dalle sfide del mondo reale, ma la sua immaginazione ribolle. Ci sono i rancori che derivano dalla storia medievale, dalle guerre di religione e dalle gloriose imprese dei cosacchi del XVII secolo. Ci sono i paralleli tra il Cattolicesimo polacco del passato e l’attuale “russofobia” della Nato. C’è l’orribile destino dei russi dell’Ucraina che si trovano nelle mani dei neonazisti sostenuti dall’Occidente. E, in questo ribollire di rancori, la cosa migliore con cui Putin riesce a uscirsene è la politica estera dello zar Nicola I degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento.
Ora, è vero che dal punto di vista di un tradizionale realismo in politica estera tutto quello che ho appena detto dovrebbe essere scartato come irrilevante. Il realismo è un’ideologia che accantona come cose insignificanti le ideologie e si attiene rigidamente ai rapporti di potere. Questo può semplicemente significare che le farneticazioni nazionaliste di Putin sono abbastanza prive di senso, fatta eccezione per le lamentele che riguardano la Nato e le sue aggressioni, lamentele che sono giudicate non ideologiche. Ed è questo il punto su cui dovremmo concentrare tutta la nostra attenzione.
Ma davvero dovremmo farlo? Le persone che prendono seriamente le lamentele riguardo alla Nato parlano sempre del pericolo che corre la Russia come se fosse qualcosa di così ovvio da non aver bisogno di alcuna spiegazione. Lo stesso Putin sottolinea gli sconfinamenti a Est della Nato e batte il pugno sul tavolo, ma si limita a questo, senza spiegare su cosa si basino le sue obiezioni. Si suppone che noi deduciamo che l’espansione della Nato costituisca un pericolo per la Russia perché, un qualche giorno, all’improvviso, gli eserciti della Nato potrebbero attraversare il confine entrando nel territorio russo, proprio come ha fatto l’esercito di Napoleone nel 1812.
Eppure, anche se dovessimo limitare l’analisi ai soli dati di fatto, come ci suggerisce di fare il realismo, dovremmo ricordare che nei più di settant’anni della sua esistenza la Nato non ha fornito il minimo elemento perché si possa pensare che essa sia qualcosa di più che un’alleanza difensiva. Non c’è ragione alcuna per ritenere che un giorno, all’improvviso, la Nato, che è per principio antinapoleonica, si comporti in modo napoleonico. La ragione per cui la Nato si è espansa verso Est è stata invece la volontà di stabilizzare l’Europa e di interrompere le dispute sui confini – una cosa che dovrebbe essere anche nell’interesse della Russia.
Eppure, che l’espansione della Nato abbia fatto infuriare Putin e lo abbia terrorizzato è una cosa indiscutibile. Ma perché? Penso che la risposta sia ovvia. Ed è ovvio il motivo per cui nessuno la vuole dire ad alta voce. Alla fine, le rivoluzioni europee che avevano terrorizzato Nicola I, nonostante tutti i suoi sforzi, ebbero effettivamente luogo. E sorsero delle repubbliche liberali. E, nel 1949, le repubbliche liberali si sono unite fra loro, come se credessero davvero che i principi liberali e repubblicani potessero dare avvio a una nuova civiltà. E protessero questa civiltà con un’alleanza militare: la Nato. In questo modo, le repubbliche liberali produssero un’alleanza militare che conteneva in sé un’idea spirituale, e cioè la convinzione che il progetto liberale e repubblicano fosse meraviglioso. Ecco qui la rivoluzione del 1848, finalmente vittoriosa e protetta da un formidabile scudo. E Putin individua il problema.
L’espansione verso Est della Nato lo fa infuriare e lo terrorizza perché ostacola la tradizionale politica estera russa, solida e conservatrice, stabilita da Nicola I: la politica di invadere i vicini. Là dove si è espansa la Nato, la Russia non può più invadere e quindi non possono essere smantellate le conquiste delle rivoluzioni liberali e repubblicane – o, quantomeno, non possono essere smantellate dall’esercito russo.
L’opposizione all’espansione della Nato coincide quindi con un’accettazione dell’espansionismo della Russia, un espansionismo davvero strano il cui obiettivo è sempre stato impedire il diffondersi verso Est delle idee rivoluzionarie.
Ma Putin non dice questo. Non lo dice nessuno. È una cosa che non si può dire. Chiunque dovesse riconoscere che accetta la politica russa di invadere i vicini starebbe dicendo, di fatto, che decine di milioni di persone che vivono lungo il confine con la Russia, o nelle zone limitrofe, dovrebbero essere soggette alla più violenta e omicida delle oppressioni per la più banale delle ragioni, e cioè per proteggere la popolazione russa dal contatto con le idee e le convinzioni che noi stessi crediamo stiano alla base di una società sana. Per questo non lo dice nessuno. E invece si consente che circoli la supposizione secondo cui la Russia correrebbe dei pericoli a causa della Nato, in quanto si troverebbe di fronte alla prospettiva di un’invasione napoleonica. Per dirla in breve, il “realismo” che rivendica di essere una fonte di lucidità intellettuale è invece fonte di annebbiamento intellettuale.
Ma, alla fine: perché Putin ha invaso l’Ucraina? Non è per l’aggressione da parte della Nato. Non è a causa di quanto è accaduto a Kiev nel IX secolo o di quanto è accaduto nelle guerre del XVII secolo tra ortodossi e cattolici. E non è a causa del fatto che l’Ucraina, con il presidente Volodymyr Zelensky, è diventata nazista. Putin ha invaso l’Ucraina a causa della rivoluzione di Maidan del 2014. La rivoluzione di Maidan è stata proprio una rivoluzione del 1848 – una classica sollevazione europea animata dalle stesse idee liberali e repubblicane del 1848, con lo stesso idealismo studentesco e con gli stessi gesti romantici e anche con le stesse barricate nelle strade, se non fosse che questa volta erano fatte di copertoni di gomma e non di legno.
Io lo so, perché sono uno studioso delle rivoluzioni – ho osservato molti sollevamenti rivoluzionari in diversi continenti – e perché ho visto la rivoluzione di Maidan, con tre mesi di ritardo. Ho percepito nell’aria l’elettricità rivoluzionaria – e l’ha percepita anche Putin, da lontano. La rivoluzione di Maidan ha rappresentato tutto ciò contro cui Nicola I si era impegnato a combattere nel 1848-49. È stata dinamica, appassionata e capace di suscitare simpatia da parte di un gran numero di persone. Alla fine la rivoluzione di Maidan è stata superiore alle rivoluzioni del 1848. Non è sfociata in utopie folli o demagogiche, né in programmi di sterminio o nel caos. È stata una rivoluzione moderata a favore di un’Ucraina moderata – una rivoluzione che ha offerto all’Ucraina un futuro percorribile e che, in questo modo, ha offerto nuove possibilità anche ai vicini dell’Ucraina. E, diversamente dalle rivoluzioni del 1848, non è fallita. Per questo Putin era terrorizzato. Ha reagito annettendo la Crimea e fomentando le sue guerre nelle province separatiste dell’Ucraina orientale, nella speranza di poter fare qualche ammaccatura al successo rivoluzionario.
Anche lui ha ottenuto alcune vittorie e forse anche gli ucraini hanno contributo a provocare loro stessi qualche ammaccatura. Ma Putin ha visto che, ciò nonostante, lo spirito rivoluzionario continuava a diffondersi. E ha visto che in Russia il suo avversario Boris Nemcov era diventato popolare. Questa cosa lo terrorizzava. Nel 2015 Nemcov è stato opportunamente assassinato su un ponte a Mosca. Poi Putin ha visto farsi avanti Alexei Navalny, che gli faceva un’opposizione ancora più dura. E ha visto che anche Navalny stava diventando famoso, come se non ci fosse fine a questi fanatici riformatori e al loro fascino popolare. Putin ha avvelenato Navalny e lo ha imprigionato.
Ed ecco che è scoppiata un’altra rivoluzione di Maidan, questa volta in Bielorussia. E un’altra volta si sono fatti avanti dei leader rivoluzionari. Una di loro, Svjatlana Cichanoŭskaja di Minsk, si è candidata alle elezioni presidenziali del 2020 contro Aljaksandr Lukašėnka, il delinquente della vecchia scuola. E ha vinto! – anche se a Lukašėnka è riuscita una manovra in stile “Stop the Steal” (il riferimento è al tentativo fallito dei sostenitori di Donald Trump di sovvertire il risultato delle Presidenziali americane, ndr) e si è dichiarato vincitore. Putin ha segnato un altro punto a suo favore nella sua eterna controrivoluzione su scala ridotta. Ma, ciò nonostante, il successo della Cichanoŭskaja alle elezioni lo ha terrorizzato.
E Putin era preoccupato anche per l’ascesa di Zelensky che, a un primo sguardo, sarebbe potuto sembrare una nullità, un semplice comico televisivo, un politico con un programma accomodante e rassicurante. Ma Putin ha letto la trascrizione della telefonata tra Zelensky e l’allora presidente americano Donald Trump, che dimostrava che Zelensky, in realtà, non era uno sciocco. Putin ha letto che Zelensky chiedeva armi. La trascrizione di quella telefonata avrebbe potuto persino dargli la sensazione che Zelensky potesse essere un’altra figura eroica dello stesso stampo delle persone che aveva già assassinato, avvelenato, imprigionato o rovesciato – che potesse essere un tipo inflessibile e quindi pericoloso.
Putin si è convinto che la rivoluzione di Maidan fosse destinata a diffondersi a Mosca e a San Pietroburgo, se non quest’anno, l’anno prossimo. Si è quindi consultato con i fantasmi di Brežnev, Chruščëv e Stalin che gli hanno detto di rivolgersi al teorico-principe Nicola I. E Nicola I ha detto a Putin che, se non avesse invaso l’Ucraina, lo Stato russo sarebbe crollato. Era una questione di vita o di morte.
Putin avrebbe potuto reagire a questo consiglio presentando un progetto grazie al quale indirizzare la Russia in una direzione democratica e, allo stesso tempo, preservare la stabilità del Paese. Avrebbe potuto scegliere di verificare, osservando l’Ucraina (dato che crede che gli ucraini siano un sottoinsieme del popolo russo), se il popolo russo è davvero in grado di creare una repubblica liberale. O avrebbe potuto prendere l’Ucraina come modello invece che come nemico, un modello per capire come costruire quello Stato resiliente di cui la Russia ha sempre avuto bisogno.
Ma gli mancano gli strumenti di analisi che avrebbero potuto permettergli di pensare in questo modo. La sua dottrina nazionalista non guarda al futuro, se non per individuare i disastri che incombono. La sua dottrina guarda al passato.
E così Putin ha fissato il suo sguardo nel XIX secolo, e ha ceduto al suo fascino, nel modo in cui qualcuno potrebbe cedere al fascino della bottiglia – o della tomba. Si è tuffato fin nelle profondità più selvagge della reazione zarista. Il disastro che si è verificato è stato quindi, prima di tutto, un disastro intellettuale. Si è trattato di un mostruoso fallimento dell’immaginazione russa. E questo mostruoso fallimento ha determinato uno sprofondamento nella barbarie. E ha condotto l’eternamente-fragile Stato russo proprio davanti a quel pericolo che Putin era convinto di contribuire ad allontanare con le sue scelte.
Nino Materi per “il Giornale” il 18 marzo 2022.
È il linguaggio del non detto. Messaggi non verbali lanciati dal corpo. In termini scientifici si chiama «cinesica» (dal greco kinesis, movimento). Gesti (involontari), che «parlano» di più, e meglio, delle parole stesse. Ma se in un discorso radiofonico o in un testo scritto si può bluffare giocando col punto segreto dell'ipocrisia, in un proclama televisivo la fisicità fuori controllo dell'oratore può smascherare le sue vere intenzioni.
Un processo di disvelamento temutissimo dai dittatori, soprattutto quando si trovano in situazioni particolarmente drammatiche per il proprio Paese. E cosa c'è di più tragico della decisione di scendere in guerra? Che poi la guerra venga edulcorata lessicalmente con la formula di «operazione speciale», è solo un artificio retorico a misura di propaganda. Ieri Putin, dopo lo storico annuncio del 24 febbraio, quando ha spiegato in tv la scelta di «denazificare» l'Ucraina a colpi di bombe, è tornato davanti alle telecamere mettendo nel mirino i «traditori» e «l'Occidente che vuole distruggerci».
In mezzo ai due video, quasi tre settimane di morte e distruzione; ma una cosa è rimasta uguale: la postura e le «smorfie» (evidenti, nonostante gli sforzi di «Zar Vladimir» per tenerli a freno) che urlano al mondo il retropensiero putiniano. Molto si è detto in questi giorni su una, presunta, malattia da parte del presidente russo: voci rilanciate da quelle ormai celebri immagini in cui Putin appare ad una esagerata distanza di sicurezza dai suoi interlocutori politici posti all'altro capo di un tavolo bianco lungo quanto un'autostrada.
E anche qui ci sarebbe da tirare in ballo un termine difficile: «prossemica», ossia la scienza che studia lo spazio o le distanze come fatto comunicativo e psicologico che l'uomo interpone tra sé e gli altri. «Osservando i video in cui Putin, dall'inizio della guerra in Ucraina, si rivolge ai russi - spiega sul suo sito Francesco Di Fant, esperto di comunicazione e linguaggio del corpo - si nota come rimanga con le mani quasi sempre poggiate sulla scrivania, questo gesto, che potrebbe essere definito di "ancoraggio" per tenersi saldi in una situazione di disagio.
L'unico gesto che gli "sfugge" è l'indice puntato mentre avverte minacciosamente gli avversari. Puntare l'indice è un gesto aggressivo che mima il gesto di minaccia con un oggetto in mano, come un bastone». Una caratteristica questa del dito puntato - che accomuna trasversalmente nella storia quasi tutti i despoti alla vigilia o nel pieno di un conflitto bellico: da Bin Laden ad Assad, da Stalin a Tito, da Ceausescu a Mussolini, ma l'elenco potrebbe essere lunghissimo.
L'attualità ci riporta a Putin. «A livello del viso - aggiunge Di Fant - è possibile vedere l'emozione del disgusto (bocca con labbra che spingono verso l'alto e naso arricciato) e della rabbia (sopracciglia abbassate, palpebre semichiuse con occhi a "fessura", sguardo fisso dal basso verso l'alto)».
Poi c'è quel pollice destro che tamburella spasmodicamente sul bordo del tavolo e quello spingersi col bacino fino al bordo estremo della poltrona, come se si trovasse sull'immaginaria linea di confine di un precipizio. E nulla lascia sperare che non venga compiuto anche l'ultimo passo per il volo nella definitiva distruzione. Come dimostra la frase terribile pronunciata ieri dal portavoce di Putin, Dmitry Peskov: «Purificheremo la società russa».
«Putin non è un folle: è un imperialista. Ma l’Ucraina è piena di nazisti». Intervista allo scrittore Nicolai Lilin: «Per anni non siamo voluti intervenire nel Donbass, dove i nazisti ucraini massacravano la popolazione russofona. Ci siamo voltati dall'altra parte. E ora siamo caduti dal pero e bastoniamo il popolo russo». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 19 marzo 2022.
Nicolai Lilin ha le idee molto chiare ma non ama le semplificazioni. Per lui, scrittore italiano di origini russe, e autore tra gli altri del libro “Putin. L’ultimo Zar” (Piemme), dietro le analisi del conflitto in Ucraina c’è innanzitutto un grosso equivoco. Un «inganno», per citare le sue parole, che ha impedito all’Occidente di prestare l’orecchio alla Russia prima, e ora, ora che è troppo tardi, di comprendere davvero chi abbiamo davanti: «Putin non è affatto un folle, la sua strategia è lucidissima – spiega al Dubbio -. È un uomo di 70 anni che vive solo con un’idea: passare alla storia come colui che ha ripristinato l’Impero russo. Questa è la tragedia».
E cosa ha in mente per l’Ucraina?
Ciò che aveva in mente lo ha detto chiaramente per anni. Il problema è che noi occidentali abbiamo fatto fatica a interpretare i suoi messaggi, anzi spesso siamo stati sordi e miopi perché era comodo trovarsi nella situazione in cui eravamo: ci era comodo consumare l’energia russa, avere qui gli oligarchi russi e i loro investimenti. Ma in una tale situazione di dinamicità geopolitica non ci è possibile vivere in uno stallo.
E quali erano i suoi messaggi?
Il suo interesse reale è ricreare l’Impero russo. Già dal 2007, Putin ha iniziato a parlare di un nuovo ordine mondiale e ha invitato gli occidentali a partecipare a questo processo. Si è rivolto soprattutto all’Europa. Ma poi ha capito che insieme all’Occidente non riuscirà a realizzare niente, perché l’Occidente non è voluto entrare in questo processo, né ha voluto risolvere la questione ucraina. Ha capito di essere rimasto solo e ha cominciato a usare le sue ambizioni per conto proprio. Ecco cosa sta avvenendo.
Lei parla di una aspirazione imperialista di Putin: come si declinerà? Ritiene che si accontenterà della Crimea e del Donbass, o vorrà conquistare l’intera Ucraina?
Di certo ha un’aspirazione imperialista, ma ciò non vuol dire che vorrà conquistare l’intero Paese. Vuole legalizzare la Crimea e, a mio avviso, vorrebbe strappare all’Ucraina tutto l’accesso sul Mar Nero, cioè l’area Sud da annettere alla Federazione russa. Per quel che riguarda l’Ucraina centrale, e soprattutto l’Ovest, la presenza militare in quei territori è solo un elemento utile alla trattativa. Anche perché, a livello militare, se avesse voluto veramente conquistare l’intera Ucraina l’avrebbe già rasa al suolo. Non gli abbiamo visto ancora impegnare neanche il 5% della sua potenza. E per fortuna: perché non auguro a nessun popolo di vivere quello che hanno vissuto gli iracheni o i siriani.
Eppure, secondo alcuni, Putin e l’esercito russo starebbero dando segnali di difficoltà di fronte alla resistenza ucraina.
Siamo di fronte a una interpretazione un po’ propagandistica. Da occidentale lo posso capire: si vuole far credere che la Russia sia in difficoltà e che l’Ucraina resista. Ma questa linea narrativa viene promossa soprattutto per far sì che noi cittadini appoggiamo queste vergognose misure da spadaccini e guerrafondai.
Si riferisce all’invio di armi?
Sì, se dobbiamo inviare qualcosa questa è la diplomazia e gli aiuti umanitari. Perché inviando le armi la guerra non può che diventare più lunga e cruenta, moriranno più persone e in più tempo. Da militare che ha vissuto la seconda campagna cecena, che ha visto come si radono al suolo le città, e cosa può fare un reparto congiunto di artiglieria, forze missilistiche e bombardamenti aerei, ecco vi assicuro che se Putin avesse applicato la stessa strategia che ha applicato in Cecenia, oggi Kiev non esisterebbe più.
Quindi qual è la sua strategia?
Muoversi con lentezza. Sta perdendo tanti uomini, certo, ma se ne sbatte, perché è un dittatore. È una persona che a 70 anni vive solo con un’idea: passare alla storia come colui che ha ripristinato l’Impero russo. Questa è la tragedia. A livello strategico, l’invasione è partita con un calcolo di uno a uno, tra le forze russe e le forze di difesa. E questo contraddice ogni metodologia di guerra di invasione.
Non la definirebbe neanche tale?
Assistiamo a un’invasione, certo, perché quando anche solo un soldato calpesta la testa di un paese indipendente è già un’invasione. Ma a livello strategico è atipica. È partito con uno scopo diverso: ripeto, non vuole conquistare tutta l’Ucraina, ma dimostrare che è capace di fare un gesto forte.
Per sedersi al tavolo del negoziato in una posizione di forza?
Secondo me sì. Aspetta la voce dell’Europa perché capisce che non farà mai accordi direttamente con Joe Biden. Il problema che noi dobbiamo mettere in campo è che Putin rappresenta se stesso, è un dittatore autoritario che prende le decisioni da solo per i suoi propri interessi. Non è un fantoccio di qualcuno.
Invece Biden sì?
Biden è un fantoccio nelle mani degli oligarchi americani. E così i politici europei.
Con chi parlerebbe Putin?
Con Angela Merkel. Una donna, perché per lui è molto importante avere una donna forte di fronte e le rispetta. Non si fida degli uomini occidentali. Perciò fatica a trovare un interlocutore ma aspetta di essere interpellato. Perché capisce che questa guerra non potrà durare a lungo.
Cosa crede si aspetti dall’Occidente?
Una consolidazione vera del pensiero politico europeo. Finora ci stiamo muovendo a rimorchio della politica statunitense. Putin sta cercando di capire cosa sceglierà l’Occidente: se morire di freddo ad ottobre, senza gas e luce, oppure se abbandonare l’influenza Usa per riprendere la nostra indipendenza politica e discutere del futuro di quella zona d’Europa. Ma le garanzie, ripeto, non possono arrivare dagli Usa, ma dall’Europa unita, che per ora si comporta in maniera infantile ed è carente di pensiero politico.
Ma dal punto di vista delle sanzioni la risposta dell’Unione Europea è stata compatta.
Parliamone seriamente. L’Europa si è accorta che dietro le montagne Urali c’è la vera Russia? La Russia dispone del mercato asiatico. Ha già 18 trilioni di dollari annui di giro economico solo legato alla Cina. Poi c’è il Pakistan e l’India, che pur essendo storicamente in guerra, hanno assunto una decisione unanime: sono rimasti neutrali.
Neanche gli interessi economici degli oligarchi russi potranno fermare Putin?
Se pensiamo di mettere in ginocchio gli oligarchi russi sbagliamo, perché non abbiamo capito con chi abbiamo a che fare. Mentre per l’oligarca occidentale il potere sta nell’impegno economico, per l’oligarca russo la vera ricchezza non sta nella quantità di soldi che possiede, ma nel permesso che ha dallo zar di utilizzare le risorse naturali. Finché avranno la concessione di estrarre il gas e venderlo da qualche parte, avranno il potere. E su questo dobbiamo riflettere: se non risolveremo questa situazione, noi tutti avremo freddo.
Ci spieghi meglio.
Per il presidente Putin, gli oligarchi russi sono i suoi sudditi, il suo portafogli. Perciò sbagliano coloro che pensano che voglia ricostruire l’Unione Sovietica. Sta ricostruendo l’Impero, con un potere e metodi zaristi. E il metodo di utilizzo delle risorse è zarista, come faceva Pietro il Grande che delegava a chi riteneva degno il potere di estrarre i minerali.
Quindi lei ritiene che le sanzioni non scalfiranno l’economia russa?
Metteranno in difficoltà l’economia reale russa, ci sarà il default, le persone staranno male. Ma questo non farà altro che consolidare l’opinione pubblica attorno a Putin. Che quindi vedrà l’Occidente come il nemico. In questo modo dimostriamo loro di non aver ascoltato i loro problemi. Per anni non siamo voluti intervenire nel Donbass, dove i nazisti ucraini massacravano la popolazione russofona. Ci siamo voltati dall’altra parte. E ora siamo caduti dal pero e bastoniamo il popolo russo.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a proteste di piazza e arresti di massa in Russia. Sembra sollevarsi la voce dei dissidenti. Il consenso di Putin si sta sgretolando?
Parliamo di una popolazione vastissima di 140 milioni di persone. Non possiamo conoscerla guardando le scene di una piazza di Mosca. La piazza casomai è un elemento di una realtà più vasta. Putin è molto sostenuto dalla Russia, seppure c’è una grande cultura del dissenso, come ci raccontano i nostri classici: a partire da Dostoevskij. Insomma, in Russia ci sono i dissidenti e i pacifisti, come in ogni altro paese. Anche noi abbiamo i nostri dissidenti, gli estremisti, i neozanisti, i guerrafondai: fa parte di una grande entità moderna. E la Russia non è diversa.
Lei avverte un clima di “russofobia”, in Italia, come conseguenza al conflitto?
Sì, è un’idiozia totale. E le spiego perché viene applicata.
Prego.
Le forze politiche la promuvono per distogliere la nostra attenzione dalle loro mancanze. Perché se oggi c’è la guerra, è perché l’Europa è mancata all’impegno diplomatico in questi anni. E non ha voluto prestare attenzione, ad esempio, al vasto rapporto di Amnesty che ha denunciato come i battaglioni neonazisti ucraini abbiano massacrato la popolazione.
Parla del battaglione Azov?
Esattamente. Diffondere ora la “russobia” serve a prendere posizione, ma perché non l’abbiamo presa nel 2014, quando i nazisti hanno massacrato i civili? C’è un doppiopesismo. Io la guerra l’ho fatta veramente, la prima a 12 anni. Sono contrario alla guerra, sempre e a ogni costo. Però non c’è mai il bianco e il nero. Se parlo del nazismo in Ucraina, non significa che supporti un’aggressione militare. Semplicemente condivido i motivi di questa guerra che tutti avremmo dovuto vedere. Chi dice che Putin ha invaso l’Ucraina perché è pazzo, diffonde un’opinione degradante. Putin non è pazzo. La tragedia è che lui è molto lucido. Ha una spiegazione “binaria”: quella che dà in pasto al proprio popolo e alla comunità internazionale, e la sua propria ambizione geopolitica. Che avremmo potuto fermare in maniera diplomatica. Ma adesso lui sfrutta questa carta contro di noi.
Quale carta?
Quando dice che vuole denazificare l’Ucraina, ha ragione. I nazisti in Ucraina ci sono, integrati nell’esercito regolare. Dal 2014 si sta sviluppando una modalità nazista, nonostante il presidente Zelensky sia ebreo, e lo spiega anche il direttore generale del Comitato ebraico ucraino Eduard Dolinsky. Gli oppositori, gli intellettuali, chiunque abbia mosso una critica… è stato ammazzato. In questi giorni citiamo Anna Politkovskaja (la giornalista russa di Novaya Gazeta uccisa nel 2006, ndr) ma anche in Ucraina ci sono stati casi del genere.
La guerra Russia-Ucraina. “Stalin più lo Zar, ecco il sogno che Putin offre ai russi”, intervista a Marcello Flores. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 19 Marzo 2022.
Il discorso dello Zar decodificato da uno dei più autorevoli storici italiani: Marcello Flores. Il professor Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies. Tra le sue numerose pubblicazioni, La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo (Feltrinelli, 2017).
Professor Flores, come decodificare il discorso alla Nazione di Vladimir Putin?
Più che il contenuto, è il luogo. In una forma da adunata di massa, sullo stile di quello che le grandi dittature del XX° secolo ci hanno fatto conoscere, Putin ha riproposto quello che aveva già detto precedentemente. Una rilettura totalmente falsificata della storia, che cerca la giustificazione a quella che viene chiamata Operazione Speciale, in un supposto genocidio che non sa neanche spiegare che cosa sia, benché la Russia abbia firmato la Convenzione contro il genocidio, che, secondo Putin, sarebbe in atto nel Donbass a cui l’azione militare russa sta ponendo fine. E’ solamente una grande occasione propagandistica per cercare di rafforzare quel consenso, che certamente Putin ha sempre avuto ma che forse era un po’ in crisi negli ultimi giorni, e allo stesso tempo dare un segnale all’interno che lui non accetta nessuna visione che non sia quella ufficiale e che tutti quelli che non ci si riconoscono, possono essere considerati non più dei russi ma dei traditori. Insomma, una grande kermesse del nazionalismo più oltranzista che però non dice nulla di nuovo rispetto a quello che in realtà Putin aveva già detto in più occasioni, dal discorso del 21 febbraio e anche prima.
Putin ha parlato al Paese nell’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea. E ha affermato: “Sono gli abitanti che hanno fatto la scelta giusta, hanno messo un ostacolo al nazionalismo e al nazismo, che continua ad esserci nel Donbass”. Professore, perché c’è questo reiterato riferimento da parte del presidente russo al nazismo e alla “denazificazione” dell’Ucraina?
Perché non l’unica ma certamente la cosa più forte che rappresenta l’identità della Russia contemporanea e dei russi che vivono nella Federazione Russa, è la “Grande guerra patriottica” nella Seconda guerra mondiale. Che sempre più è stata vista e considerata come la vittoria militare. Quando Putin parla della Seconda guerra mondiale, parla di una grande vittoria militare. Non parla dei 20 milioni di morti, cioè di un momento di sofferenza terribile e di straordinario coraggio della popolazione, parla della grande vittoria militare. Questo richiamo, per avere forza, deve in qualche modo riprodurre il nemico di allora, cioè il nazismo. Anche se è qualche cosa di assolutamente ridicolo, quel richiamo viene utilizzato e fa parte di quella pantomima nazionalista a cui credono, o fingono di credere, i Russi e che Putin continua a riproporre.
Allo Zar del Cremlino sembra piacere vestire i panni dello storico. Perché, professor Flores?
Più che vestire i panni dello storico, gli piace essere quello che dall’alto del suo scanno di Zar, spiega cos’è la Storia. Dà la verità al suo popolo. Addirittura in questa occasione ha combinato la sua “verità” storica assoluta, che non deve essere messa in discussione, con anche la sua interpretazione della Bibbia, che è stata utilizzata per giustificare questo intervento “coraggioso” a favore degli amici, che rappresenta il massimo anche dal punto di vista religioso. E’ qualcosa che apparteneva già alla sua retorica, questa volta è riuscito a farlo in un coreografia sicuramente molto più forte. Bisogna capire quanto in Russia questo spettacolo ha successo e prende, o quanto anche mostra rispetto a quelli che hanno avuto già dei dubbi sulla guerra, delle incrinature che potrebbero nelle prossime settimane e mesi mettere più in difficoltà il consenso che Putin ha. Che certamente ancora oggi appare molto forte.
Per Vladimir Putin il futuro affonda nel passato?
Assolutamente sì. Il futuro è radicato nel passato, ma in un passato che è interpretato, rivisitato e manipolato sulla base di quelle che sono le intenzioni rispetto al futuro. C’è questa sorta di circolarità tra passato e futuro in cui non si riesce neanche bene a capire cosa venga prima, se il passato che si vuole far rivivere o se il nuovo “mondo russo”, peraltro teorizzato da personaggi assolutamente improbabili culturalmente ma a cui Putin fa un chiaro e continuo riferimento. Il cui “summa” può essere sintetizzato così: dopo l’impero zarista, dopo l’impero sovietico, una nuova grande idea di “mondo russo” che riesca addirittura a sommare e racchiudere la grandezza di tutte le “Russie” passate.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Marco Prestisimone per ilmessaggero.it il 19 marzo 2022.
«Il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer, il cibo del Führer mi circolava nel sangue. Hitler era salvo. Io avevo di nuovo fame», scrive Rosella Postorino nel meraviglioso «Le assaggiatrici». Nel libro racconta delle donne costrette ad assaggiare il cibo destinato a Hitler per essere sicuri che non fosse avvelenato. Quello che ha pensato di fare anche Vladimir Putin: le minacce sulla tv di stato russa oltre alla spietatezza dello zar nascondono la paura - inevitabile - di minacce esterne ma anche interne.
Il timore del veleno
Perché dietro alla denuncia dei russi che si oppongono alla guerra come «feccia» e «traditori» da «sputare come moscerini», si nasconde il timore (che in Russia definiscono «paranoia») che qualcuno possa cercare di ucciderlo. Come? Con il veleno, il metodo più usato fin dai tempi dell'ex Unione Sovietica. Una paura che arriva anche da chi si trova nella sua stretta cerchia di collaboratori.
Secondo il Daily Beast, Putin ha anche degli assaggiatori personali (e per lui non è una novità, li aveva adottati già in passato): a loro fa appunto assaggiare il cibo prima che lo mangi lui stesso e il mese scorso avrebbe sostituito tutto il suo intero staff personale di mille persone. «Addetti alla lavanderia, segretarie, cuoche... adesso ha un gruppo di persone completamente nuovo.
E che il veleno sia il metodo "preferito" per uccidere in Russia, Putin dovrebbe saperlo: si ritiene che i suoi agenti abbiano ucciso Alexander Litvinenko, ex agente dei servizi segreti e poi dissidente, aggiungendo veleno radioattivo a una tazza di tè nel 2006. E nel 2018, le autorità affermano che i collaboratori di Putin abbiano spruzzato veleno mortale sulla porta d'ingresso dell'ex spia Sergei Skripal con lui e sua figlia salvi per miracolo. E Putin avrebbe anche ordinato l'avvelenamento del leader dell'opposizione russa Alexei Navalny.
L'addio del generale Gravrilov
A riprova delle preoccupazioni di Vladimir Putin e della stretta sugli organismi direttamente responsabili della fallimentare campagna di Ucraina, c'è il siluramento dei vertici della Guardia nazionale russa, istituita personalmente da Putin nel 2016, storica erede del “Corpo delle Guardie interne” creato nel 1811 dallo Zar Alessandro I.
Il generale Roman Gavrilov, vicecomandante della Rosgvardia, sarebbe stato arrestato dall’Fsb (i servizi di sicurezza della Federazione russa, l’ex Kgb), secondo altri solo «rimosso dall’incarico», con l’accusa di fuga di notizie e abusi amministrativi. A divulgare la notizia è Christo Grozev, giornalista investigativo del sito “Bellingcat”, che rimanda a tre «fonti indipendenti». Puntuale anche la smentita, tramite il deputato della Duma, Aleksandr Khinstein, per il quale l’arresto è «un falso assoluto».
Ci sarebbe anche già il nome di un successore. “L’elite russa vuole eliminare Putin”, la rivelazione degli 007 ucraini: avvelenamento, malattia o incidente le ipotesi. Elena Del Mastro su Il Riformista il 20 Marzo 2022.
Fin ora era stata solo un’idea circolata in rete, uno scherzo semiserio per affrontare il drammatico momento. Ma ora sembra che l’idea di uccidere Putin per scongiurare un inasprimento del conflitto in Ucraina sia un’ipotesi effettivamente al vaglio di una certa elite russa. Gli 007 ucraini sostengono che “nell’elite russa si starebbe formando un gruppo di persone contrarie a Putin che starebbero considerando la sua fine” spingendosi ad ipotizzare 3 morti possibili: avvelenamento, malattia improvvisa, incidente.
Fin ora l’eliminazione di Putin era stato solo un auspicio come quello espresso il 3 marzo dal ministro del Lussemburgo Jean Asselborn che si è augurato che il presidente russo venga “eliminato fisicamente da una rivolta per fermare la guerra”. L’intelligence ucraina ha pubblicizzato il piano per far fuori Putin su Facebook. Vista così sembrerebbe uno scherzo ma questa guerra si sta combattendo anche con l’amplificatore dei social e il ministero della Difesa non tiene segrete le informazioni che ha.
E così in un batter d’occhio tutte le agenzie hanno diramato la notizia. Ma questa guerra si combatte anche a suon di fake news e propaganda quindi il sospetto che possa essere stata una mossa studiata è legittimo. In ogni caso secondo gli 007 ucraini, un gruppo di figure influenti contrarie al presidente russo si sta formando tra l’elite politica e imprenditoriale russa. “Il loro obiettivo – sostiene Kiev – è rimuovere Putin dal potere il prima possibile e ripristinare i legami economici con l’Occidente a causa della guerra in Ucraina”. E che gli oligarchi amici di Putin possano già essere stanchi delle sanzioni imposte è possibile.
L’intelligence ucraina ha anche diramato l’informazione che i i russi starebbero inviando altri gruppi terroristici per eliminare i vertici ucraini: il presidente Volodymyr Zelensky, il capo dell’Ufficio del presidente Andriy Yermak e il primo ministro Denys Shmygal.
L’elite non meglio specificata avrebbe anche già pensato al nome di un successore di Putin. Secondo l’intelligence ucraina, una certa parte dell’elite politica russa considera il direttore del Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa Alexander Bortnikov come il successore di Putin che, riportano i media ucraini, “recentemente sarebbe caduto in disgrazia per errori di calcolo nella guerra contro l’Ucraina”.
Notizie che alimentano voci di un malcontento non solo della gente comune ma anche dei vertici della società russa, colpita pesantemente dalla sanzioni occidentali. E che Putin con l’adunata di migliaia di persone allo stadio Luzniki ha voluto plasticamente smentire. D’altra parte anche Zelensky deve guardarsi alle spalle: secondo Kiev, Mosca avrebbe “ordinato personalmente un altro attacco” ad opera di mercenari per eliminare i vertici ucraini dopo che “tutti i precedenti tentativi si sono conclusi con il fallimento e l’eliminazione dei terroristi”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
"Veleno, incidente, virus piano anti Putin a Mosca". Gli 007 di Kiev ci credono. Roberto Fabbri il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.
Le carte dei servizi ucraini. Per un oppositore in esilio lo Zar vuol portare la guerra in Europa.
Avvelenamento, incidente o malattia improvvisa. Forse è wishful thinking, il dare corpo alle proprie speranze, o forse propaganda. O magari, invece, in questa storia diffusa da fonti dell'intelligence ucraina c'è del vero e non è solo fantasia che nelle cerchie più elevate del potere di Mosca qualcuno stia lavorando per eliminare Vladimir Putin.
Raccontano queste fonti che il fallimento dell'impresa militare, impantanatasi in un massacro di soldati e di civili oltre che nel discredito internazionale, stia facendo prender piede l'idea di fermarla partendo dalla testa, sarebbe il disegno di un'élite politica e imprenditoriale russa desiderosa di recuperare rapporti distesi con l'Occidente. Quei rapporti che la guerra voluta da uno «zar» in pieno delirio imperiale ha devastato, gettando nell'incertezza le prospettive economiche di una «crema» sociale russa ormai da tempo abituata alla ricchezza, e soprattutto a godersela indisturbata.
Si tratterebbe di un complotto contro il capo assoluto del regime di Mosca voluto proprio da coloro che egli ha beneficato, ottenendone in cambio sostegno e fedeltà incondizionati. Gli ucraini spiattellano anche il nome dell'uomo che nei piani dei golpisti sarebbe destinato a prenderne il posto: il potente generale Aleksandr Bortnikov, direttore dell'Fsb, i servizi segreti russi. Un personaggio tutt'altro che cristallino, visto che risulta coinvolto nell'assassinio a Londra dell'ex 007 russo Alexander Litvinenko, avvelenato con il famigerato «tè al polonio» nel novembre 2006. Bortnikov avrebbe, teoricamente, i suoi motivi per prendersela con Putin, presso il quale è caduto in disgrazia dopo avergli fornito informazioni troppo ottimistiche riguardo all'accoglienza che le truppe di Mosca avrebbero ricevuto in terra ucraina. Ma è fin troppo ovvio che ora le reali possibilità per Bortnikov di rimpiazzare Putin precipitano a zero, ed è logico domandarsi la ragione di questa fuga di notizie. Al piano per eliminare Putin, sempre secondo le fonti ucraine, se ne starebbe contemporaneamente affiancando uno eguale e contrario per decapitare la leadership di Kiev: non solo il presidente Volodymyr Zelensky, ma anche il capo del suo ufficio Andriy Yermak e il primo ministro Denys Shmygal. Incaricati dell'operazione sarebbero dei nuovi gruppi terroristici sguinzagliati da Putin in Ucraina, dopo il fallimento dei ceceni.
Come che sia, le ragioni per cui il Putin di oggi fa paura sono reali. Si teme soprattutto che il suo disegno espansionistico non si limiti all'Ucraina. È stato lui stesso a ingiungere alla Nato, prima dell'invasione, di ritirarsi dai Paesi dell'Est che un tempo facevano parte dell'Urss o del Patto di Varsavia: ricreare l'impero sovietico sarebbe il suo vero obiettivo. Secondo informazioni che l'attivista russo Vladimir Osechkin afferma di aver ottenuto da una talpa dell'Fsb e che ha diffuso dalla Francia dove risiede, Putin intenderebbe estendere il conflitto in Europa. L'informatore dei servizi avrebbe riferito di un piano inquietante. La rapida discesa verso una guerra mondiale comincerebbe con una richiesta formale all'Occidente di ritirare sanzioni e truppe Nato. Seguirebbero due scenari: la resa occidentale con la firma di un nuovo trattato oppure una fulminea reazione bellica a un rifiuto. I primi bersagli di attacchi missilistici anche nucleari sarebbero Paesi baltici e Polonia, e Putin giocherebbe la carta dello choc nella speranza di paralizzare la leadership americana, da lui considerata debole e irresoluta. Piuttosto che rischiare una vera terza guerra mondiale, Joe Biden accetterebbe di mollare al suo destino l'Europa orientale riportando i confini Nato al 1994. Scommesse folli, come si vede, ma chi avrebbe immaginato anche solo un mese fa che Putin avrebbe ridotto mezza Ucraina a un cumulo di macerie? La sua logica ricorda quella di Hitler e di Mussolini. Volpi finite in pellicceria, come diceva Andreotti, ma che prima fecero stragi spaventose nei nostri pollai.
I misteri intorno a Putin: sabotaggi, complotti e due super-falchi «spariti». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2022.
La nebbia di guerra avvolge il Cremlino. E lo rende ancora di più un mistero all’interno di un enigma, tanto per parafrasare Winston Churchill e la sua celebre definizione della Russia. La festa allo stadio Luzniki per l’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea sarà ricordata anche per la bizzarra interruzione del discorso di Vladimir Putin. «Guasto tecnico» ha detto Dmitrij Peskov, il portavoce del presidente. «Oppure sabotaggio» ha chiosato dal carcere il dissidente Aleksej Navalny. È quel che molti hanno pensato. Alla luce delle tre pause innaturali fatte da Putin mentre parlava sul palco, l’ipotesi più probabile rimane quella di un guasto allo schermo del suggeritore. Ma non è stato l’unico problema di quello che doveva essere «L’evento», pianificato per dissolvere ogni dubbio sull’unità del Paese. Durante l’intervento della portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, è saltato il sonoro della diretta televisiva per almeno trenta secondi. Scena muta, solo immagini. Ce n’è abbastanza per non escludere un attacco hacker, tesi che riscuote un certo credito presso i siti indipendenti di informazione.
Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina
I tempi del conflitto Putin ripete che «l’operazione militare speciale» procede secondo i piani. Ma qualcosa non sta andando come previsto. Come i tempi del conflitto. Il piano iniziale prevedeva una marcia trionfale tra le regioni russofone, salutata con favore dalla popolazione locale pronta a ribellarsi all’esercito «nazista» dell’Ucraina. Al massimo, un mese. Ormai ci siamo quasi. Ancora non si vede la fine. Fin dai primi giorni, non appaiono in pubblico il ministro della Difesa , il falco che sussurra all’orecchio del presidente, e il capo di Stato Maggiore Valerij Gerasimov. Chissà se è un caso. Il precedente del licenziamento di alcuni ufficiali di alto grado dell’Fsb, il servizio di sicurezza russo, accusati di aver sbagliato le previsioni, autorizza qualche sospetto. La guerra continua, ma sta cambiando. Proprio ieri sera gli analisti militari di Russia Today incaricati di commentare da studio le gesta belliche dei soldati russi, spiegavano la relativa importanza strategica di una eventuale conquista di Kiev, ponendo invece l’accento sul corridoio che va dal Donbass alla Crimea, senza mai menzionare le città più importanti dell’Ucraina. Come a dire, questo sarebbe il sottinteso, che il vero obiettivo è una vittoria parziale e immediata, che eviterebbe il rafforzamento della posizione negoziale di Zelensky e una lunga guerra di occupazione per la quale sembrano mancare mezzi, risorse e rinforzi. Non è una correzione di rotta da poco. Voci contro La teoria del complotto non si addice al gesto coraggioso di , la giornalista che pochi giorni fa ha fatto irruzione durante il telegiornale della sera per protestare contro la guerra. Ma , in un ambiente controllato in come quello dell’informazione russa. Non è stato l’unico segnale mediatico in contrasto con la narrazione di Stato. La scorsa domenica è avvenuta una cosa inaudita, per chi conosce bene Vladimir Solovyov, l’anchor man più popolare di Russia e più vicino a Putin che ci sia, oligarca a sua volta con tanto di villa sul lago di Como oggi sotto sequestro. Il suo show è registrato. Non passa spillo in scaletta senza il consenso del Cremlino. Eppure, due ospiti anche loro di stretta osservanza presidenziale, il regista Karen Sachnazarov e il deputato Semyon Bagdasarov, hanno «osato» riconoscere l’impatto forte delle sanzioni e i fallimenti dell’esercito. Potrebbe essere una messa in scena per mostrare pluralismo. O forse l’inizio di una operazione mediatica per preparare il terreno al racconto di un finale diverso. Ma qui si torna al caro vecchio Churchill. E alla nebbia fitta che circonda il Cremlino.
La biografia di Putin firmata da Dell’Arti in edicola con Repubblica. Enrico Franceschini su La Repubblica il 21 marzo 2022.
Si intitola "Le guerre di Putin. Storia non autorizzata di una vita" e racconta la vita del leader russo. Dall'infanzia di ragazzino povero e bullizzato alla carriera, prima nel Kgb e poi in politica
Al dibattito aperto dall'Economist sulla "stalinizzazione della Russia", si potrebbe aggiungere un curioso aneddoto: il nonno di Vladimir Putin era il cuoco di Stalin. Si chiamava Spiridon Ivanovic Putin, lavorava in un grande ristorante della San Pietroburgo zarista, dove un giorno entrò Rasputin. Il monaco consigliere dello zar ordinò una zuppa di cavoli, gli piacque, ne ordinò una seconda e poi una terza. Alla fine, volle conoscere il cuoco. "Di chi sei?", gli chiese quando se lo trovò davanti.
Un riflesso condizionato dovuto ai servi della gleba, che appartenevano sempre a qualcuno: lo zar li aveva aboliti nel 1861, ma tante teste, come quella di Rasputin, non si erano ancora adattate. Spiridon rispose: "Io non sono di nessuno. Io sono Putin". Rasputin allora si alzò in piedi e disse: "Bravo Putin, ti benedico! Vai con Dio, figlio mio". E il nonno di Putin da qualche parte andò: mentre Rasputin e lo zar fecero una brutta fine, dopo la rivoluzione bolscevica Spiridon fu assunto come cuoco da Lenin; e alla morte di Lenin, nel 1924, fu ingaggiato da Stalin.
L'episodio è uno dei tanti narrati da Giorgio Dell'Arti in Le guerre di Putin, pubblicato da La nave di Teseo e in uscita con Repubblica da oggi: un libro che ripercorre i conflitti in cui il capo del Cremlino ha trascinato la Russia, dalla Cecenia alla Georgia all'attuale invasione dell'Ucraina, oltre a Siria, Libia, Repubblica Centroafricana, ma come avverte il sottotitolo, "storia non autorizzata di una vita", è essenzialmente una biografia.
Diversa dalle biografie classiche perché si sviluppa sotto forma di dialogo, tra l'autore che pone domande e che risponde, in un viaggio a zig-zag nell'esistenza del nuovo zar di Mosca. Come se fossimo seduti al caffè con qualcuno che sa tutto di lui e soddisfa ogni curiosità. L'infanzia di ragazzino povero e bullizzato a Leningrado, lo shock di assistere al crollo del muro di Berlino come agente del Kgb in Germania Est, la folgorante carriera da anonimo portaborse a presidente della Russia fra il 1996 e il 1999 sulle ali corruzione, il patto con gli oligarchi miliardari per consolidare il potere e arricchirsi, la graduale evoluzione ad autocrate al governo da più di ventidue anni e in grado di restarci fino al 2036, per quasi trentasette, superando il record di Stalin.
Dell'Arti, detto per inciso, meriterebbe una biografia anche lui, magari a domande e risposte come questa: una vita nel giornalismo che lo ha portato fra molti altri incarichi a essere il fondatore e primo direttore del Venerdì di Repubblica e più recentemente il regista delle sfide letterarie a forma di tabellone tennistico sul nostro inserto culturale Robinson, oltre che scrittore, organizzatore culturale, editore in proprio e molto altro.
Ma torniamo alla lunga permanenza al potere di Putin: come ha fatto a essere presidente dal 1999, se la costituzione russa scritta dopo il crollo dell'Urss limitava la presidenza a due mandati di quattro anni ciascuno? Ha cambiato la costituzione, spiega Dell'Arti, e per dare maggiore legittimità al provvedimento lo ha fatto approvare dal popolo in un referendum. Già, ma come ha fatto a convincere il popolo a votare per la sua riforma di stampo chiaramente autocratico? Con una lotteria. "Chi depone la scheda nell'urna ha diritto al biglietto con il quale si possono vincere buoni d'acquisto da spendere in tremila negozi e ristoranti", più appartamenti, automobili, telefonini, scrive l'autore. Una dittatura 2.0, mascherata da democrazia.
La prova che Putin, per concludere con la tesi dell'Economist, è il nuovo Stalin? Lasciamo la parola al nonno-cuoco di Putin, con cui nel 1960 il nipotino gioca una partita a scacchi, ennesimo episodio di questa brillante "biografia non autorizzata". Il bambino è piuttosto bravo e dà scacco matto al nonno, che tuttavia continua a muovere i pezzi, come se la partita non fosse finita. "Ma nonno, la partita è finita, ho vinto io", gli dice il futuro presidente della Russia. "E chi l'ha detto?" risponde il nonno. "Sono le regole", protesta il bambino. "Quali regole?" è la lezione di nonno Spiridon. "Un vero uomo le regole le stabilisce da sé".
Il volume: Le guerre di Putin. Storia non autorizzata di una vita di Giorgio Dell’Arti è in edicola da oggi con Repubblica a 12,90 euro in più. Il libro è disponibile in libreria pubblicato da La nave di Teseo.
Chi è Ivan Ilyn, il filosofo (fascista) più citato da Putin. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2022.
Teorizza il ruolo della Russia come centro di un vastissimo impero dove avverrà «il ritorno di Dio». Per molti è l’ideologo del «fascismo russo».
È certamente il filosofo più citato dal presidente russo e da tutti i collaboratori a lui più vicini anche se Ivan Ilyin è stato un appassionato sostenitore del fascismo. E non solo negli anni Venti quando sviluppò le sue principali teorie, ma anche dopo la guerra, fino alla morte avvenuta nel 1954. Il fatto è che Ilyin, seguace di Kant e di Hegel, sviluppò poi teorie tutte sue riprese e spesso citate da Vladimir Putin.
In particolare quello che piace del filosofo è l’idea del ruolo secolare della Russia, della sua lotta contro i nemici che vogliono sempre impedirle di conseguire la sua missione. Che alla fine è quella di costituire una specie di impero su un vastissimo territorio per permettere «il ritorno di Dio». Teorie complesse e da molti criticate che sono state poi negli anni semplificate da chi voleva solo cogliere gli aspetti che più gli servivano delle speculazioni di Ilyin. Lo storico Timothy Snyder dell’Università di Yale che lo ha studiato a fondo parla di un “fascismo russo”. E sottolinea alcuni concetti espressi dal filosofo che, evidentemente, oggi possono essere apprezzati molto dal signore del Cremlino: «Credeva che uomini audaci possono cambiare una realtà debole e imperfetta con azioni audaci».
Scrive ancora il professor Snyder: «Ilyin completò la sua teoria del fascismo concludendo che la Russia era l’unica nazione non corrotta e indebolita al mondo. Da una piccola regione attorno a Mosca, la Russia si era sviluppata in un impero ideale. Ilyin era convinto che si fosse espansa senza attaccare nessuno pur essendo costantemente sotto attacco da tutte le parti. La Russia era la vittima perché gli altri Paesi non coglievano le virtù che stava difendendo acquisendo maggiori territori».
Per Ilyin, la Russia doveva essere governata da un capo indiscusso e indiscutibile. Le elezioni dovevano avere l’unico scopo di confermare «la subordinazione del popolo». Snyder afferma che la concezione del filosofo del «ritorno della Russia a Dio richiedeva l’abbandono non solo dell’individualità e della pluralità ma anche dell’umanità». Insomma, per raggiungere uno scopo superiore si può passare sopra a qualsiasi cosa. Idee nelle quali certamente credevano Mussolini e Hitler. E che oggi alcuni al vertice della Russia sembrano condividere, visto quello che sta accadendo con l’Operazione militare speciale in Ucraina.
La "sindrome dell'uomo alto" di Putin: cosa è. Evi Crotti su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.
La firma simbolicamente rappresenta l’Io sociale, ove il soggetto investe la propria paternità che fa da spinta all’affermazione nel sociale. Secondo Freud tale spinta si manifesta nei valori, quali l’ideale, la legge, la morale, la coscienza che hanno costruito il SuperIo, iniziando dall’introiezione dei modelli genitoriali. Le firme di Putin esprimono un Ego idealizzato e onnipotente, tipico di chi ha contratto la cosiddetta “Sindrome dell’Uomo Alto. Essa è stata elaborata e studiata dalla dott.ssa Susan Heitler, docente presso l’Università di Harvard; tale sindrome, senz’altro presente nel presidente russo, viene espressa con comportamenti arroganti, impulsivi e iperprotettivi dettati dall’onnipotenza e dall’aver acquisito il titolo di Zar di Russia: un comportamento senza dubbio narcisistico, privo quindi di logica e di “sano” progresso. Questa sindrome descrive il modo in cui le persone al potere mostrano estremo orgoglio, eccesso di fiducia in sé e disprezzo totale per gli altri. Questi tratti inducono a un comportamento impulsivo e spesso distruttivo. Un esistere senza farsi notare troppo, cioè mascherato. Putin è convinto, come del resto ogni dittatore, di tutelare il patrimonio della propria gente, mentre sembra che in lui sia in deciso aumento la “sindrome dell’Uomo alto”. Essa non comporta una grandezza fisica, bensì un’arroganza comportamentale che lo rende borioso, arrogante e vendicativo, specie quando si innesca in lui il meccanismo perverso del narcisismo primario, cioè quella impellente spinta a sentirsi onnipotente. Una firma così aggrovigliata e oscura mette in luce un’intelligenza manipolatoria e quindi incapace di gestire con intelligenza e lungimiranza gli impulsi. Non fa quindi specie che i gesti si basino sulla spettacolarità, sull’onnipotenza e sulla baldanza di prestazione, fino a raggiungere punte d’iniquità tipiche dell’uomo affetto dalla “sindrome dell’uomo alto” che si sente sulla cima del mondo.
Vladimir Putin, l'ossessione per il video di Gheddafi sodomizzato e ammazzato: la testimonianza di Ivan Krastev. Libero Quotidiano il 21 marzo 2022.
L'ossessione di Vladimir Putin si chiama Gheddafi. Nel dedalo di sospetti e paranoie che gravano sul presidente russo, tra complotti esterni, sindrome da accerchiamento e timori di golpe, secondo il Corriere della Sera spunterebbe ora una nuova pesantissima ombra. Ivan Krastev, politologo di vaglia, l'Occidente vive e ragiona partendo da un presupposto sbagliato: la verità è la nostra, quella di Putin è deformata. Per capire una crisi e il comportamento dei suoi protagonisti occorre partire da dati strutturale, certo, ma anche personali, dal vissuto di ogni attore in campo.
"È noto che Putin ha passato ore a guardare e riguardare gli ultimi minuti di vita di Gheddafi. Quel video in cui veniva preso e messo a morte. Ci dice qualcosa del suo umore apocalittico. È chiaro che si identifica con Gheddafi". Il presidente russo tradito e beffato dall'Occidente, prima usato e poi fatto cadere. Proprio come accaduto 11 anni fa con il Rais libico, linciato dalla folla dei suoi oppositori, brutalizzato e sodomizzato davanti agli obiettivi dei telefonini. Le speranze di una Primavera araba finite nel sangue, proprio come in Siria. Secondo qualcuno, la democrazia ucraina viene considerata un pericolo dal Cremlino, proprio come era accaduto nel Medio Oriente all'inizio dello scorso decennio. "C'è un dettaglio che sottovalutiamo - sottolinea ancora Krastev -. Nel 2011 Obama riuscì a convincere Mosca a sostenere l'operazione in Libia, dicendo che era solo una No-fly zone e che non si puntava al cambio di regime. Poi è andata com'è andata. E Putin ha finito per convincersi che, qualsiasi cosa facesse, l'Occidente vuole sempre il cambio di regime".
Da qui a sostenere che quanto sta accadendo in Ucraina dal 2014 a oggi sia esclusivamente colpa dell'Occidente, degli Stati Uniti e dell'Europa, però, ce ne corre. "Certo che l'Occidente avrebbe potuto fare cose diverse, ma non è affatto detto che non avrebbe finito per ottenere lo stesso risultato in Putin". Nel 2021, d'altronde, il presidente scriveva in un saggio che "Russia e Ucraina sono un solo popolo". C'è dunque una volontà di potenza, un movente culturale, storico e addirittura etnico, che trascende ogni politica contingente e ogni strategia politico-militare. Ma conoscere e riconoscere certi moventi avrebbe aiutato a prevedere le mosse di Putin, tutto tranne che un banale "pazzo".
Domenico Quirico per “la Stampa” il 22 marzo 2022.
Ammettiamolo. In questa orgia di bugie, disinformazione, mezze verità, propaganda che marchia anche il conflitto ucraino almeno con noi stessi abbiamo l'obbligo della sincerità. Esclusa per fortuna l'ipotesi di entrare direttamente in guerra con uomini, aerei, bombe atomiche, amputata la possibilità di affidarsi alla diplomazia avendo definito Putin il nuovo Hitler con cui l'unico rapporto possibile è come per i nazisti, darsi appuntamento nell'aula di un tribunale apparecchiato per una seconda Norimberga, il piano numero uno di Biden, della Nato e anche degli europei è uno solo: che qualcuno a Mosca uccida Putin liberandoci dal fardello.
Insomma si invoca, neppur troppo scopertamente, un «happy end» mediante il tirannicidio, la congiura. Non resta che il pugnale di un monarcomaco, come si diceva nel secolo di ferro, quello delle guerre di religione (e quale secolo è più di ferro ahimè di questo appena avviato?). Scandagliamo un giuda del regime oligarchico che per trenta denari o per salvare la pelle elimini il tiranno.
Ci penseremo noi a trasformare il traditore in un Bruto senza paura folgorato sulla via della democrazia e dei diritti umani. Sentiamo già l'odore delizioso del sangue. Il pugnale è strumento vecchiotto. La Cia (e i loro colleghi del Kgb poi Fsb) hanno nell'assassinio del singolo nemico una certa pratica anche non sempre coronata da successo: dai sigari bomba al polonio è stato arricchito tecnologicamente l'armamentario dei Borgia.
Nei primi giorni di guerra correvano rumori su piani ingegnosi dei russi per decapitare l'Ucraina uccidendo il coriaceo e ipercomunicativo Zelenski. Piano evidentemente o inesistente o inconcludente. Chissà che dall'altra parte dell'oceano non abbiano qualcosa di più risolutivo in mente.
Lo scenario del dopo? Anche quello sarebbe già scritto: all'annuncio della fine prematura e spiccia del despota le folle russe scendono in piazza, finalmente libere dalla paura, per salutare l'avvento della prima democrazia russa, gli apparati repressivi si sfaldano, Navalny e gli altri oppositori liberati dalle galere vengono portati in trionfo alla Duma e prendono il potere. Soprattutto i soldati impantanati dal fango dell'Ucraina e dal disgusto della guerra gettano le armi e tornano a casa.
Gli oligarchi o fuggono in Corea del Nord o vengono catturati e costretti a confessare i loro delitti. Tutto il mondo torna al suo posto. Bisogna trovare però il tirannicida. E' uno scenario possibile? O meglio: è uno scenario probabile? Per prima cosa, si suggerisce, alleggeriamoci del fardello morale: domandarci cioè se un delitto abbia in questa circostanza giustificazione.
Eppure dai tempi di Armodio e Aristogitone che eliminarono Ipparco un pioniere della tirannide nell'antica Atene, questo dibattito affatica filosofi e teologi. In effetti l'eliminazione fisica del dittatore ha antipatiche ma evidenti parentele con le pratiche del terrorismo. I confini sono labili visto che anche i terroristi usano gli stessi metodi e invocano l'assoluzione che viene da una buona causa, la loro. Allora non vi propongo ciance sulla legittimità di uccidere.
Non sono tempi adatti a questi etici dettagli, mi rispondereste. L'unico dibattito è quello pratico, materialistico: il tirannicidio ha dimostrato di avere alte probabilità di successo? Ovvero morto il despota cosa succede? Il nocciolo della questione, cinicamente imposto, non è se un assassinio sia mai giustificabile ma se l'assassinio sia efficace. Dovete poter rispondere che lo è: che ci consentirà cioè di raggiungere, nella Russia di oggi e in questa situazione di guerra, obiettivi altrimenti inaccessibili a causa del controllo ferreo che Putin esercita sul Paese; o per l'impossibilità in tempi brevi che perda la guerra e venga travolto dalla sconfitta.
Che è più sicura tagliola in cui hanno lasciato le zampe lupi assai più astuti e feroci di lui. Inoltre dobbiamo esser certi che una diversa eliminazione dal potere richiederebbe un prezzo elevato, ovvero una guerra prolungata che è più costosa che una sola vittima. In questo caso potreste dire che il piano numero uno, e unico, è un atto politico efficace. Lo conferma il Corano che spiega: se ci sono due califfi uno dei due deve morire perché la morte è meglio della discordia.
Siamo nel caso coranico dei due califfi? L'eliminazione dell'uomo che incarna il neo imperialismo russo risolve tutti i problemi anche a lungo termine? Un assalto al palazzo di inverno, ovvero una rivoluzione, non sembra, analizzando la società modellata da Putin in vent' anni, possibile. E allora come insegnava il realista Machiavelli ci vuole una congiura «fatta da uomini grandi o familiarissimi del principe».
Attenti però, aggiunge: le congiure falliscono per imprudenza o per leggerezza ogni volta che coloro che ne sono a conoscenza superano il numero di tre o quattro persone. E' necessario dunque che nel cerchio più ristretto del potere putiniano qualcuno tradisca. A riguardare il passato occorre essere di palato grosso: in fondo molti dei tirannicidi dell'età classica avevano, accanto a proclamate esigenze di libertà, ben più personali e meschine motivazioni di vendicarsi del padrone. Lo stesso Bruto in fondo... Forse si può sperare in qualche oligarca umiliato nelle sue aspirazioni o depredato di una parte del bottino che gli spettava.
Darei più possibilità ai militari: nella guerra ucraina muoiono molti generali, segno che Putin li esige in prima linea sul modello staliniano, forse insoddisfatto dei risultati. Quelli che ordinavano una ritirata Stalin li faceva fucilare. Un ricordo che può solleticare qualche idea di rivolta salvavita. Resta da risolvere il problema del cosa accadrà dopo. Siamo certi che l'eliminazione violenta e oligarchica del tiranno non inneschi un caos peggiore? Il pessimismo è obbligatorio.
Quasi mai il risultato è stato conforme ai desideri di chi pensava di risolvere tutto al prezzo di una sola vita per di più sciagurata. Nel 1914 il serbo Gavrilo Princip si illuse: ammazzando l'erede al trono austriaco i problemi dei Balcani sarebbero stati risolti, pensava. Invece eliminò l'unico personaggio che probabilmente, non per indole pacifista, avrebbe impedito che l'Europa precipitasse nella tragedia della Prima guerra mondiale.
Vladimir Putin, machismo ideologico e ossessione per il potere: come nasce la metamorfosi di un leader che 20 anni fa era "amico dell'Europa". Paolo Garimberti su La Repubblica il 28 Marzo 2022.
Dal discorso del 2001 al Parlamento tedesco alla tragica svolta con l’invasione dell’Ucraina: perché Putin ha cambiato pensiero e azione. "La Russia è amica dell'Europa, una pace stabile nel continente è un obiettivo fondamentale per la nostra nazione. Così come il rispetto dei diritti democratici e delle libertà è l'obiettivi chiave della nostra politica interna". Così parlava Vladimir Putin al Parlamento tedesco il 25 settembre 2001, usando quella che lui stesso aveva magnificato come "la lingua di Goethe, Schiller e Kant", imparata nei cinque anni trascorsi a Dresda da capo della locale sezione del Kgb, con il grado di tenente colonnello.
Putin e l'ultimo mistero del Cremlino. Ezio Mauro su La Repubblica il 27 Marzo 2022.
La teologia politica perenne di Mosca e i suoi interpreti, dal Pcus agli oligarchi e ai siloviki. "Il potere viene da Dio". Più che un atto di fede sembra quasi una superstizione, o addirittura un esorcismo, la formula che si tramanda nei secoli al Cremlino per spiegare l'assolutismo come sistema naturale di governo della Russia: ai tempi dello Zar, nei settant'anni del bolscevismo e oggi, nell'epoca de-ideologizzata del putinismo trasformato in regime. Dunque il potere è comunque sacro, attraversando le ere e i sistemi politici, e il suo mandato è trascendente, sia che interpreti un disegno del cielo sia che impersoni la provvidenza della storia.
Putin si barrica dietro un totem del potere e della fragilità maschile. ALESSANDRO GIAMMEI su Il Domani il 23 marzo 2022.
La scrivania è un totem del potere maschile: il piano su cui si esercitano poteri politici, economici e culturali. Ma è anche una barriera: una protezione orizzontale che separa il professore, il capo, il leader dalle minacce.
Una simile barriera, all’altezza della bocca del suo stomaco, ha protetto Putin nei più cruciali momenti mediatici dell’imminente conflitto. Pronunciando il delirante discorso del 24 febbraio ad esempio, e di lì in tutte le sue apparizioni ufficiali durante la guerra che continuava a fomentare e giustificare, Putin si è mostrato dietro a una scrivania.
Anche ricevendo Macron e altri leader ha frapposto un tavolo gigantesco tra sé e l’altro, spingendo i giornalisti internazionali a domandarsi se lo facesse intimidirli o proteggersi dal Covid. Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Clicca qui per iscriverti alla newsletter e segui tutti i suoi contenuti.
«Sai dirmi» chiede il Cappellaio ad Alice, sgranando gli occhi di matto, «perché un corvo assomiglia a una scrivania?». O almeno le chiede così nella mia traduzione preferita di Alice nel paese delle meraviglie: quella curata per Garzanti, nel 1989, dalla poetessa d’avanguardia Milli Graffi. E le chiede più o meno la stessa cosa anche in altre illustri versioni nostrane del romanzo: da quella di Masolino D’Amico a quella di Aldo Busi. Il primissimo traduttore di Alice però, nel lontano 1872, aveva stranamente scelto di voltare altrimenti quell’indovinello in italiano. Si chiamava Teodorico Pietrocola Rossetti e, oltre a essere un patriota risorgimentale (e un cugino della grande lirica pre-raffaellita Christina Rossetti), era amico dell’autore, Lewis Carroll. Poteva insomma ricorrere direttamente a lui per indovinare la risposta giusta alla domanda allucinante – il Cappellaio stesso, come ammette poche righe più avanti, non la sa. E tuttavia, Teodorico decise di discostarsi dall’originale, in cui si parla proprio di corvo (raven) e di scrivania (desk), e tradusse: «perché un corvo è simile a un coccodrillo?». Ecco, mi pare che, esattamente centocinquant’anni dopo, la domanda da rivolgere a una tale catena di nonsensi, nel vertiginoso gioco del telefono traduttorio del tè dei matti, diventi: perché una scrivania assomiglia a un coccodrillo?.
SCRIVANIA E COCCODRILLO
In realtà Carroll, nelle lettere alle sue giovani lettrici e nella prefazione a un’edizione di Alice, un paio di risposte le aveva date. Un corvo e una scrivania, rivelò ad esempio, sono capaci di produrre alcune note, anche se piatte (in inglese, si badi, “bemolle” si dice “piatto”). In italiano si potrebbe magari tentare un gioco di parole tra le nere penne dell’uccello e quelle a sfera, o stilografiche, nello scrittoio: stessa parola, diverso oggetto.
Ma il coccodrillo che c’entra? Come è venuto in mente proprio il coccodrillo a Teodorico Pietrocola Rossetti? Forse perché anch’esso è un po’ piatto, dilungato com’è sulle quattro zampette, come un tavolo su cui mettersi al lavoro? Forse perché, tra le bestie con le gambe, è in effetti quella più ovviamente orizzontale, e non è troppo difficile immaginare il suo dorso come un pericoloso, rugoso piano da scrittura squamato? Del resto, tristemente, scrivanie foderate di pelle di coccodrillo esistono senz’altro. Anzi, l’oggetto più virile che si possa ricavare dalla sfavillante armatura naturale di questo rettile preistorico è forse proprio il servizio da scrittoio, giacché valigette, scarpe e cinture da maschi tradizionali e ordinarie tendono a essere confezionate, invece, a scapito di altri animali – e l’emblematica borsetta di coccodrillo è certo da signora.
Karl Springer, negli anni Settanta, rivestiva di finto coccodrillo scrivanie forgiate in un unico pezzo ricurvo; col marchio Asprey di Londra (i rinomati designer del diamante blu al collo di Kate Winslet in Titanic, quello che la vecchia butta in mare alla fine del film) si producevano, a inizio secolo, verdissimi complementi da scrivania in oro giallo e pelle di coccodrillo. Insomma una contiguità materiale, più che un gioco di parole, lega davvero il coccodrillo alla scrivania, con buona pace di Alice. E direi che questa inattesa fratellanza si gioca su due caratteri in particolare: l’orizzontalità ovviamente, ma anche la scorza, l’epidermide. A differenza dei corvi, scrivanie e coccodrilli hanno a che fare con la superficie.
IL TAVOLONE DI PUTIN
Vladimir Putin, all’inizio del febbraio scorso, ha ricevuto il presidente francese Emmanuel Macron al Cremlino per discutere di quella che, allora, era ancora un’imminenza di guerra in Ucraina. Lo ha fatto accomodare, innescando una scena surreale davvero da tè dei matti, al capo di un immane, infinito tavolo bianco lungo almeno cinque metri e sorretto da tre pilastri, sedendosi all’altro capo, tipo prima colazione de La Bella e la Bestia, con tanto di (grottescamente piccino) centrotavola di fiori.
Ha incontrato poi, nello stesso mese, anche il cancelliere tedesco Scholz e il premier ungherese Orbán, sempre frapponendo tra sé e l’interlocutore quel ridicolo tavolo titanico da salone di Dracula, da set di Tim Burton. Il Guardian e il New York Times, tra gli altri, si sono chiesti se un tale tavolone spaziale servisse a intimidire i convenuti, come quelli altrettanto sproporzionati dietro cui siedono i cattivi di James Bond e i sindaci corrotti dei fumetti, o se non si trattasse piuttosto di un’espressione materiale della leggendaria germofobia di Putin, acuita a dismisura dal Covid: una specie di barriera orizzontale per garantire il famoso distanziamento sociale ed evitare ogni rischio di contagio.
LA BARRIERA ORIZZONTALE
C’è da dire che una simile barriera, all’altezza della bocca del suo stomaco, ha protetto il presidente/dittatore russo nei più cruciali momenti mediatici del successivo conflitto. Pronunciando il delirante discorso del 24 febbraio, e di lì in tutte le sue apparizioni ufficiali durante la guerra che continuava a fomentare e giustificare, Putin è rimasto dietro un tavolo, su cui spesso poggiava le mani gesticolando, o aggiustava i fogli, o poggiava il gomito.
Solitamente, il tavolo è il suo: quello dell’ufficio presidenziale al Cremlino, di legno lucido, ampio fino a uscire da qualsiasi inquadratura a mezzo busto. Non sempre però. A un incontro col suo consiglio di sicurezza a Mosca lo abbiamo visto, solo a un capo della stanza, dietro una scrivania bianca con finiture dorate, ricurvo sulla superficie da cui spuntano due microfoni (giacché l’uditorio, composto di vari uomini e una sola donna su seggioline senza tavolo, è lontanissimo).
Nel video diffuso su Twitter a metà marzo in cui sbraitava di purificazione della società il tavolo c’è, ma non si vede: Putin vi imprime gli avambracci inarcando le spalle, in una posa da bullo che tuttavia gli gonfia la giacca verso la nuca, deformandolo in una figura gobba e senza collo cui la scrivania restituisce la spinta aggressiva. È solo dopo quasi un mese di guerra che, forse constatando quanto più efficace sia la grammatica visiva attiva e verticale attraverso cui si racconta invece Volodymyr Zelensky, Putin si è liberato della sua trincea orizzontale, scavalcando la scrivania e comparendo in piedi, in un piumone aperto sul maglione bianco, al centro di un palco a sua volta al centro di uno stadio moscovita. Lì parla al microfono in un video del 18 marzo scorso, sempre solissimo ma circondato da remoti spalti gremiti di sostenitori.
La scrivania è un totem del potere maschile: il piano su cui si esercitano poteri politici, economici e culturali. Non a caso la metonimia che si usa per sintetizzare il raggiungimento dello status di professore è “cattedra”; non a caso il capo, quando esige qualcosa da chi gli è subalterno, si aspetta di trovarla sulla sua scrivania a una certa ora. Non a caso Frank Underwood, in House of Cards, si dirige subito alla scrivania nello studio ovale quando finalmente riesce a sgraffignare la presidenza degli Stati Uniti, e vi sbatte il pugno in segno di vittoria. La scrivania separa Pietro Airota da Elena nella terza stagione de L’amica geniale, quando lei cerca il suo aiuto di marito progressista ma lui si asserraglia nel ruolo di novello patriarca.
D’altro canto, questa pietra angolare della supremazia virile è anche una protettiva pelle di coccodrillo: un bunker dietro cui trincerarsi, un diaframma per tenere qualsiasi minaccia a una rassicurante distanza. Mi pare che le scrivanie e i tavoloni dietro cui si barrica e confina Putin, rifiutandosi di sedere invece ai tavoli collegiali delle trattative, rivelino la pericolosa fragilità del suo maschile mito di sé.
È importante notare che l’iconizzazione del potere femminile sovverte la galleria cui Putin ricorre, e cui partecipano anche le mistiche scrivanie, simili ad altari di chiesa, del Megadirettore Galattico di Fantozzi e del demonio in persona, interpretato da Al Pacino, ne L’avvocato del diavolo – che nel suo superattico non ha neanche un letto, solo la scrivania da cui orchestra l’apocalisse.
Angela Merkel famosamente rifiutava di usare la massiccia scrivania nera ereditata da Schröder, e lavorava a un piccolo scrittoio di fianco. Miranda Priestly, ne Il diavolo veste Prada, lavora a un tavolo di cristallo, dalle gambe sottili, che non nasconde nulla. E persino la Madonna, quando l’angelo la trova intenta a studiare nell’Annunciazione di Leonardo, adopera un tavolo piccolo, grande appena per contenere il leggio col libro – mentre suo figlio, nella sconfinata Ultima cena, siede al centro di una lunga tavola affollata solo da un lato, neanche fosse l’orizzontale barricata contro cui si va a sostenere un esame, a chiedere un aumento, a difendere un imputato o a sentir sragionare un autocrate spaventoso e spaventato, forse prossimo a versar lacrime di coccodrillo.
ALESSANDRO GIAMMEI. Professore di letteratura italiana al Bryn Mawr College, negli Stati Uniti. Con Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja (edizioni del verri, 2014) ha vinto l’Harvard Edition dell’Edinburgh Gadda Prize. Nel 2018 ha pubblicato con Marsilio il romanzo-saggio Una serie ininterrotta di gesti riusciti: Esercizi su Il grande Gastby di F. Scott Fitzgerald.
Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2022.
Putin? «Un narcisista, assolutamente privo di carisma». Il mondo degli oligarchi? «Noioso, superficiale». L'ex compagno Sergei Pugachev? «Un bullo che probabilmente ha rubato».
Alexandra Tolstoy (in Inghilterra la traslitterazione del nome è questa ndr ) oggi è una donna che lavora: mantiene se stessa e i tre figli con escursioni in Kyrgyzstan, consulenze sulle decorazioni d'interni, la vendita di antiquariato e articoli di design ( thetolstoyedit.com). Con il padre studioso ha tenuto una conferenza alla Royal Geographical Society di Londra sulla storia dietro il conflitto in Ucraina, sta gestendo un'asta per le vittime di guerra, collabora con la Croce Rossa per la raccolta fondi. È una vita nuova, «più libera» di quella precedente, certo meno agiata. Contessa, discendente dell'autore di Guerra e pace e Anna Karenina , innamorata della Russia «e della sua gente, così emotiva, aperta, diversa dagli inglesi», è la «straniera» che rubò il cuore dell'uomo una volta considerato il banchiere di Putin poi entrato in rotta di collisione con il regime.
Al fianco di Pugachev ha vissuto anni all'apparenza dorati, spostandosi dalla Russia, ai Caraibi, a Londra, a Nizza con un aereo privato e uno stuolo di dipendenti (la nanny russa e inglese, l'insegnante di francese per i bambini, il medico personale, lo chef). Nel 2015 l'oligarca, raggiunto a Londra dai procedimenti legali dello Stato russo che lo accusava di aver intascato quasi un miliardo di dollari di fondi pubblici, si è chiuso nel suo castello-fortezza in Francia, negandole qualsiasi finanziamento.
Ha avuto paura?
«Molta. Alla fine temevo che potesse prendere i bambini. È un uomo impulsivo, irascibile, possessivo, un narcisista che ha cercato in ogni modo di controllarmi, arrivando a nascondere il mio passaporto e quello dei nostri figli. È stato un incubo. Sapevo che dovevo scappare».
Con il senno di poi, si chiede come abbia fatto a innamorarsi di un uomo così?
«Quando ci siamo conosciuti è stato come un colpo di fulmine. Mi sono innamorata perdutamente. Nessuno mi aveva mai fatto sentire così. Era molto romantico, attento, sensuale, generoso. L'amore ti porta a vedere solo i lati positivi, vuoi assolutamente credere che il tuo amato sia una persona buona. Avevo qualche dubbio, ma ho fatto il possibile per non pensarci, gli ho creduto. Solo dopo ho capito che mi aveva raccontato un sacco di bugie, su come aveva costruito la sua fortuna - credo che abbia veramente rubato quei soldi - ma anche sui titoli di studio, sul perché era stato in prigione...».
Ha ancora paura?
«No. Forse dovrei, ma Sergei non può più venire in Gran Bretagna, verrebbe arrestato immediatamente, e in Francia si è costruito un'altra famiglia, la sua quarta, con una ragazza locale. Quando eravamo insieme ha ricevuto diverse minacce, che riguardavano anche noi, siamo stati seguiti, ma ora credo di essere una pedina troppo piccola. Come cittadina britannica qui mi sento al sicuro. Forse sono ingenua, non so».
In Russia ha conosciuto Putin. Che impressione le ha fatto?
«L'ho visto un paio di volte. Sergei all'inizio ci parlava quasi ogni giorno, mi raccontava dei suoi scoppi d'ira, delle sue debolezze, le sue paure. È un narcisista cui non piace ritrovarsi con le spalle al muro. È un uomo privo di qualsiasi carisma, basso, con un viso molto sovietico. Non fa una bella figura».
E il giro degli oligarchi?
«Noioso. Le mogli non hanno niente da dire, nulla le motiva, parlano d'arte, ma è un interesse creato in modo artificiale. Forse la vita è interessante solo quando hai uno scopo, loro non ce l'hanno. È un ambiente superficiale e materialistico dove contano i soldi e non ci sono amicizie vere, nessuno si fida degli altri, gli uomini sono come cani sempre pronti ad aggredire. Non è un mondo che mi manca, è lontano anni luce dai miei valori. Non mi mancano neanche i soldi, o l'aereo privato. Meglio viaggiare con Easyjet, dove nessuno ti guarda».
Sulla sua storia è uscito anche un documentario di Netflix. Quando è stato realizzato?
«Abbiamo iniziato le riprese nel 2014, quando Sergei e io eravamo ancora insieme. Era un progetto che piaceva a tutti e due. Poi una notte Sergei è scappato in Francia, senza neanche avvertirmi e la mia vita è cambiata. Non l'ho seguito, aveva già dimostrato di essere un uomo violento e possessivo. Abbiamo interrotto le riprese. Non volevo finire ma alcuni miei amici mi hanno detto che era meglio raccontare tutta la storia».
Ha vissuto a lungo in Russia, crede che riuscirà a tornare?
«Purtroppo non sono ottimista. Ero in Russia pochi giorni prima dell'inizio della guerra. È strabiliante come Putin sia riuscito a manipolare la gente. Li controlla molto attraverso la religione, lui che non è credente. Ho amici intelligenti, istruiti che credono alle sue bugie».
I metodi del Cremlino. Chi è realmente Vladimir Putin: ex funzionario del Kgb, il servizio segreto che ha mantenuto unita la Russia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Marzo 2022.
Non posso dire che Vladimir Putin sia per me uno strano e lontano parente, ma per le circostanze che adesso ricorderò e senza averlo mai incontrato di persona o per telefono, quest’uomo m’è familiare. Mi ha stupito, mi ha indignato, ho persino cercato di trovare le sue giustificazioni, ma molto prima di oggi ero già arrivato alle conclusioni che poi la cronaca e la storia stanno mostrando. La storia si intreccia con quella della commissione parlamentare sul dossier Mitrokhin, che è lunga e complessa e che sarebbe troppo noioso tentare di condensare. Ma vale la pena mettere a posto le date: il caso Mitrokhin nasce in Italia nel 1999, governo D’Alema, quando viene annunciata la pubblicazione anche in italiano di un libro scritto da un oscuro ex archivista del Kgb Vassili Mitrokhin insieme allo storico inglese Christopher Andrew.
In Italia e soltanto in Italia quel testo che era stato stampato il milioni di copie in tutto il mondo, provocò una tempesta mediatica: nel partito che era stato comunista scoppiò una sorda rissa tra comunisti che erano sempre stati filo russi come Armando Cossutta e quelli che in silenzio avevano invece tessuta rapporti sempre più stretti ogni Stati Uniti, col dipartimento di Stato fin dai tempi dei viaggi di Giorgio Napolitano quando andò a incontrare Henry Kissinger, Una miriade di voci, insinuazioni, ipotesi, depistaggi, smentite e accuse non provate, infestarono di colpo il panorama della politica italiana. Una tale rissa che lo stesso presidente del consiglio Massimo D’Alema prese in considerazione l’idea di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta su questo dossier. Io a quell’epoca ero vice direttore scrivente de il Giornale e mi ero occupato di questa faccenda del Mitrokhin molto di malavoglia. Ricordo benissimo, ero a New York nella confortevole casa della mia ex moglie al West Village quando Maurizio Belpietro, allora direttore del giornale mi telefono per chiedermi se avessi avuto voglia di occuparmene a tempo pieno.
All’inizio mi sembrava una storia vecchia come Arsenico e vecchi merletti le solite spie e le dubbie testimonianze. Poi, cominciai a capire che cosa fosse successo mentre ero in America e sentii subito puzza di bruciato. Non si trattava affatto di un’antica questione di vecchie spie che fotografano il nuovo sottomarino e neppure delle confidenze di un ambasciatore a una signora non disinteressata. Mettendo a fuoco la questione di quell’inchiesta che aveva tanto mosso le acque si vedevano non soltanto le due fazioni dell’ex partito comunista in lite fra loro ma comparivano personaggi legati alla Democrazia cristiana, al Partito socialista ed altri. Ciò che lo scandalo del libro di Mitrokhin illuminava somigliava a un regolamento di conti a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, quando ancora non era chiaro che piega prendesse il futuro. Scrissi un gran numero di articoli, intervistai protagonisti, scoprii molte bugie e giorno dopo giorno, diventai sempre più esperto di una materia priva di fascino ma intrisa di sangue come quella dell’intelligence.
Fu allora che accadde l’imprevisto: il capo dell’opposizione di centro destra, Silvio Berlusconi, mi chiese se me la sentissi a proseguire la mia inchiesta sui banchi del Parlamento dove certamente si sarebbe varata una legge che istituisse la Commissione Mitrokhin. Dissi di sì, e quello fu l’inizio della fine della mia vita, perché non avevo minimamente calcolato ciò che sarebbe potuto succedere, che in parte successe e in parte no, come si sarebbero comportati i giornali, la politica, i poteri economici, le spie, e un’altra quantità di attore non minori nascosti nell’ombra. Candidato a Brescia fui eletto nel 2001 quando ancora la legge elettorale era il Mattarellum. La proposta di legge elaborata dalla coalizione di centrodestra impiegò più di un anno di ferocissimi scontri tra tutti i partiti rimpallando tra il Senato e la Camera dei deputati finché nel giugno del 2002 la legge fu approvata. Stranamente, il commissario più anziano risultò essere Giulio Andreotti il quale non aveva mai fatto parte in vita sua di alcuna commissione parlamentare e che fu dall’inizio alla fine un guerrigliero nel sabotare, frenare, deviare i buoni propositi della commissione istituita con una legge che prescriveva gli obiettivi da raggiungere.
E Putin? Putin era ancora un oggetto misterioso: arrivato al potere da poco, si sapeva che era sponsorizzato da Boris Yeltsin. Il giovane Vladimir appariva anche del tutto nuovo: non era un vecchio ubriacone come Yeltsin, non un consumato politico come Mikhail Gorbaciov e neppure una statua di legno mangiata dalle tarme come Leonid Breznev, ma un agile giovanotto che ispirava l’idea della modernità, abilissimo in tutti gli sport, capace di pilotare o guidare qualsiasi veicolo, vascello o aereo. In questo, se volete solo in questo, somigliava al Duce. Sembrava, il giovane Putin, di una eleganza europea con cravatte di eccellente fattura e sul volto un’espressione impenetrabile e astuta. Per quanto oggi possa sembrare incredibile, di lui mi ero fatto come tanti l’idea di un innovatore moderno appartenente al Grande Stagno intorno al quale gracidano le rane, come Platone definiva la civiltà del Mediterraneo che produceva filosofi e idee sulla città ideale.
L’incontro che Berlusconi aveva promosso a Pratica di Mare quando mise insieme le mani del presidente russo con quelle del presidente americano aveva prodotto un effetto emotivo di massa: tutto lo spaventoso intruglio di minacce e colpi di mano che aveva ispirato la guerra fredda, sembrò finito in un cassonetto. Del resto, c’era chi prevedeva la fine della Storia e Bill Clinton con Boris Yeltsin si erano già fatti vedere abbracciati, grassi e ubriachi in pubblico. Così, con aria deplorevolmente spensierata decisi in compagnia di Valerio Riva – famoso per il monumentale volume L’Oro di Mosca – pensai di scrivere una lunga e amichevole lettera a Vladimir Putin. E così, sulla mia terrazza, stendemmo Valerio e io un testo rispettosissimo anzi amichevole, pieno di speranza e di auguri, in cui chiedevamo al nuovo presidente russo di aiutare il Parlamento italiano. Ero in fondo non soltanto un senatore della Repubblica ma il presidente di una Commissione bicamerale, istituzionalmente avevo un rango piuttosto alto. La lettera, scritta in un russo perfetto e anzi letterario grazie a Valerio, auspicava una cordiale collaborazione fra le istituzioni italiane e russe con tutti i nastrini e i fiocchi d’ordinanza, La affidai alle vie diplomatiche e aspettai la risposta. Che non venne mai.
Non venne mai, mi fu detto qualche anno dopo, perché Vladimir Putin si era infuriato: “Davvero in Italia esiste una cosiddetta commissione d’inchiesta sul Kgb? E chi gli ha dato il permesso?” E qui veniamo ad un punto fondamentale: il Kgb. Noi distratti europei occidentali pensiamo che il Kgb fosse qualcosa di simile alla Cia americana, all’M16, il Servizio segreto di Sua Maestà e di James Bond, o al “Bureau” francese. Insomma, uno dei più importanti servizi segreti del mondo. Errore madornale: il Kgb è anche un servizio segreto, ma prima di tutto è l’istituzione che ha mantenuto unita la Russia averso i decenni anche con nomi precedenti che vanno dalla Ceka rivoluzionaria al Nkvd, ma che è sempre stato un ente militare che interviene nella vita di tutti e anche nello Stato a tutti i livelli. Era rimasto molto offeso dal fatto che un’istituzione italiana si fosse arrogata il diritto di indagare per di più sulla base di documenti provenienti da un transfuga passato agli inglesi. Il risultato fu visibile: i giornali russi cominciarono a pubblicare articoli sprezzanti e la mia sorpresa fu ancora maggiore quando vidi che quegli articoli venivano rimpallati e riecheggiati negli argomenti sulla stampa italiana. Trascuro molti passaggi già noti per arrivare al punto: tutti coloro che da Mosca cercarono di dare un loro contributo ad Alexander Litvinenko che dal Regno Unito raccoglievano informazioni, morivano.
Lo stesso “Sasha” fu ucciso col polonio e morì gridando e scrivendo di sapere che il veleno veniva da Putin. Il Regno Unito dopo qualche anno portò a termine l’inchiesta affidata a sir Robert Owen che mi convocò a dire quel che sapevo, sia negli uffici di Scotland Yard per due giorni e poi per via telematica al processo che si concluse con la sentenza che dichiarava Putin responsabile dell’omicidio Litvinenko, anche se non mise in relazione diretta quella morte con le tragiche vicende della Commissione Mitrokhin. Litvinenko prima di morire fornì le indicazioni che portarono all’arresto di un groppo di ucraini che portavano in macchina una grosso bibbia scavata per ospitare una granata di potenza micidiale che avrebbe dovuto essere usata da un ex ufficiale del Kgb residente a Napoli. Fu tutto messo a tacere con colpi di scena che vanno al di là di quel che io potevo concepire. Così cominciai a farmi un’idea di quello che fino a pochi anni prima mi era sembrato un gran bravo ragazzo, dal sorriso mesto ma obliquo.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
La guerra Russia-Ucraina. Putin non è pazzo, segue un disegno politico e non teme la guerra. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Marzo 2022.
Questa guerra forse mondiale e forse no, è probabile che sfugga di mano e che diventi davvero una mostruosa guerra mondiale. Non lo si dovrebbe dire, perché l’etichetta imporrebbe affermare sempre e con un minimo di fiducia che occorrono grandi sforzi diplomatici (ed è vero, occorrerebbero) e poi il dialogo. Anche fra sordi, e anche se riforniamo di armi gli aggrediti. Anzi, il Direttore di questo giornale ha aperto un dibattito fra chi è pro o contro questo invio di armi, schierandosi con i secondi perché non si devono mai rifornire di armi i fronti di guerra.
Io, che non sono un guerrafondaio e che la guerra mondiale me la ricordo (insieme ad altre guerre) non so pensare ad altro che a quei ragazzi, maschi e femmine, con nonne e madri che a Kiev si preparano allo scontro finale producendo bottiglie Molotov con l’aiuto del tutorial di Google. Interrogati da decine di catene televisive del mondo, a domanda rispondono: “Questa è la mia terra, mio padre e i miei fratelli sono già al fronte, no io sono ucraina e non russa, combatteremo fino all’ultimo e alla fine vinceremo noi”. Inutile, anzi profondamente sbagliato invocare e paragonare i casi dell’Iraq, o dell’Afghanistan, per una questione fondamentale che riguarda la memoria. Putin dice: l’Ucraina storicamente non esiste, gli ucraini sono lo stesso nostro popolo, sono i nostri parenti spesso in senso letterale. È stata un’idea idiota aver creato a tavolino una Ucraina diversa dalla Russia e oggi quella terra che è la nostra terra, viene usata dai nostri nemici per preparare una aggressione che noi non permetteremo, perché abbiamo deciso di andare avanti comunque con le buone o con le cattive o le cattivissime (uso di armi nucleari) affinché quella terra che è roba nostra sia demilitarizzata e “denazificata”, curioso termine per dire che il presidente ebreo dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, deve essere ucciso, o almeno deposto.
Non sono uno slavista e non ho motivo di dubitare che le due lingue, ucraino e russo, siano due varietà della stessa lingua, come le altre lingue slave. Quando vivevo a New York, ricordo che quasi tutti gli insegnanti di russo, nelle maggiori scuole di lingue, erano ucraini. E non dubitiamo neppure che esista un retroterra comune di ninnenanne, ricette di cucina, balli popolari e memorie. E allora, potrebbe darsi che Vladimir Putin in fin dei conti non abbia tutti i torti? Questa è una teoria piuttosto diffusa specialmente in Italia dove il partito putiniano di sinistra e di destra, è molto forte. Anzi, voglio inserire un ricordo piccolo ma istruttivo. Quando, fra il 2002 e il 2006, ero senatore della Repubblica e presidente di una Commissione bicamerale d’inchiesta sulla penetrazione sovietica in Italia durante la guerra fredda, non ci volle molto per accorgermi che esisteva un sentimento trasversale di ostilità alla Commissione che non era ideologico: il comunismo e il capitalismo non c’entravano affatto.
Fu il capogruppo di un partito ben rappresentato in Commissione che un giorno con affetto e quasi con disperazione, mi disse. “Ma Presidente, ma che cosa dobbiamo fare? Lei ci è anche simpatico, ma non lo vede che è solo? Qui siamo tutti putiniani, sia noi di sinistra che quelli di destra, ma non lo vede? Perché vuole farsi male?”
Non lo ascoltai e mi feci molto male, ma questa è un’altra storia.
Putin era da poco arrivato al potere e non avevo alcun pregiudizio nei suoi confronti mentre lui, come vidi presto, ne aveva moltissimo nei miei perché non tollerava che si mettesse sotto inchiesta, sia pure in un Parlamento straniero, l’operato della sua casa madre, il KGB, che non era un servizio segreto come la Cia americana o l’Mi6 inglese, ma una istituzione che sorvegliava e guidava l’intero popolo entrando nelle famiglie per decidere chi fosse destinato all’accademia militare e chi ai corsi di medicina. In Italia è diffusissima l’idea che “in fondo” sia tutta colpa degli Stati Uniti e della Nato perché l’Ucraina ha da otto anni fatto domanda di ammissione all’Alleanza Atlantica che però l’ha respinta. L’ha respinta proprio perché l’Ucraina ha molti contenziosi con la Russia (Crimea prima e poi Donbass) e dunque un suo ingresso nell’Alleanza avrebbe prima o poi favorito situazioni di guerra. E anche questo è un punto importante perché a quanto pare la Russia ha invaso uno Stato confinante e indipendente dopo un processo alle intenzioni che ricorda la favola del lupo e dell’agnello di Fedro: “Superior stabat lupus, inferior agnus…”. Il lupo stava sopra e l’agnello sotto: “Tu sporchi la mia acqua”, disse il lupo. “Come potrei, se io sono sotto di te?” si difese l’agnello. “Ah, oltre a sporcare la mia acqua, sei anche arrogante!” disse il lupo. E uccise l’agnello.
Nel nostro caso il lupo accusa l’agnello di aver fatto domanda di ammissione (respinta) alla Nato e che questo evento irreversibile è causa sufficiente per procedere all’invasione. Da quel momento è nato in Italia, e se non ci sbagliamo soltanto in Italia, un fecondo dibattito sul tema “Quanto è brutta la guerra”. Ma ancora non siamo arrivati al punto che a mio parere fa da spartiacque. Il punto è che gli ucraini, apparentemente tutti, o la stragrande maggioranza, hanno risposto con le armi della difesa all’invasione russa e pur sapendo di non poter vincere militarmente si sono attrezzati per una lunga e sanguinosa resistenza durante l’occupazione che i russi saranno costretti a rendere permanente, mentre il loro piano era quello di usare un colpo di mano militare per rovesciare un regime democratico e sostituirlo con un governo fantoccio. Il tutto, contando sull’indifferenza, se non sulla soddisfazione degli ucraini, che – tanto – sono sangue del nostro sangue e, quando capita, cantiamo anche le stesse canzoni.
Che cosa è successo, dunque, che è sfuggito a Putin rendendolo così determinato e anzi feroce, tanto da sfidare il mondo o con la sua show-room di armi nucleari? È successo che il fattore tempo ha divorato o almeno annullato il fattore nazionale. In breve: da quando negli anni Novanta la presenza totalizzante benché fraterna di Mosca è scomparsa, è cresciuta una generazione di trentenni, cui possiamo aggiungere quelli nati negli anni Ottanta, ai quali non importa un fico secco della contiguità linguistica con la Russia, perché il loro desiderio è l’Europa. Quando vidi per la prima volta il documentario sulla rivoluzione del 2014 quando centinaia di ragazzi e ragazze si lasciarono assassinare dagli agenti filorussi su piazza Maiden, personalmente rimasi sconvolto dal fatto che tutti quei nuovi esseri umani nati dopo la fine dell’Urss, erano morti insanguinando le bandiere dell’Unione Europea con cui noi arrediamo gli uffici istituzionali.
Quella gente giovane, con i loro genitori e nonni, avevano preso l’abitudine di sognare non l’America ma la nostra Europa: sognavano in maniera molto concreta (sfidare la morte e morire non è retorica) e un futuro simile a quello di noi italiani, dei francesi, dei polacchi, tedeschi o spagnoli. E seguitano a desiderarlo anche adesso mentre preparano le loro diligenti bottiglie incendiarie. Putin non è un pazzo perché la sua pazzia è purtroppo in linea con la soffocante tradizione del potere russo, che sia o non sia comunista. Ma pensa in modo antico e purtroppo decrepito perché non capisce che l’elemento nazionale non conta più nulla di fronte al desiderio di appartenere a una comunità lontana dalla sua famiglia infernale. E a causa di questa incapacità, l’abbiamo visto, sfida il mondo alla guerra. E poiché l’incapacità è antica e inguaribile, bisogna dolorosamente concludere che è più probabile la guerra che la pace perché la guerra è quasi inevitabile. La cosa più tecnologica che possiamo fare, è incrociare le dita.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
La storia si ripete. La furbata di Putin: mascherarsi da soccorritore per invadere l’Ucraina. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Febbraio 2022.
Quando i tedeschi attaccarono la Polonia il primo settembre del 1939, si aspettavano che entro un paio di giorni l’Armata Rossa facesse il suo ingresso da Est. Invece, non accadde nulla. E poi Nulla e poi nulla ancora per due settimane, finché Hitler cominciò a dare segni di nervosismo: che sta facendo Stalin? Il protocollo segreto del cosiddetto “Patto di non aggressione” firmato ad agosto dai ministri degli Esteri Molotov e von Ribbentrop alla presenza di Stalin, parlavano chiaro. Hitler chiese a von Ribbentrop di parlare con i sovietici e Molotov rispose: «Noi non vogliamo fare la figura degli invasori. Preferiamo aspettare che a Varsavia cada il governo e poi entreremo per difendere le minoranze russe, ucraine e romene».
E così fu: i russi presero il 51 per cento della Polonia mentre i tedeschi occuparono l’altro 49 e il modello politico dell’invasione benefica era stato varato una volta e per sempre: la Russia, sovietica o post sovietica, non invade ma assiste fraternamente. Dopo aver assistito la Polonia, i russi andarono ad assistere la Finlandia o meglio le minoranze russe della Finlandia e proseguirono salvando fraternamente le Repubbliche baltiche, non senza aver preso un sacco di umiliazioni dall’esercito finlandese cosa che costrinse l’imbarazzato Stalin a far giustiziare con un colpo alla nuca tutti i comandanti russi. L’alleanza di fatto fra sovietici e nazisti finì soltanto il giorno in cui Hitler pugnalò alle spalle l’alleato invadendo l’Urss nel giugno del 1941, ma dopo l’ultima perfidia poi raccontata dal maresciallo Zukov. Poco prima dell’attacco, Hitler fece avere a Stalin – preoccupato per l’ammassamento di truppe tedesche – una lettera in cui gli raccomandava di non reagire scompostamente se qualche testa calda fra i suoi generali affetto da manie anticomuniste, avesse fatto un’incursione in terra sovietica: «Se ciò accadesse me lo faccia immediatamente sapere, ma le raccomando di non rendere irreversibili gli effetti di un tale colpo di testa».
Questa fu la ragione per cui Stalin, avuta notizia dell’invasione, per una settimana non fece nulla salvo tentare mille volte di chiamare Berlino che non rispondeva. Fu così che l’Urss perse milioni di uomini prima di aver la forza di riorganizzarsi e sbarrare a Stalingrado la via dell’accesso ai pozzi petroliferi. L’Unione Sovietica è l’unico Paese in cui non esiste di nome una Seconda Guerra Mondiale, ma una Grande Guerra Patriottica iniziata nel giugno del ’41 e finita con la presa di Berlino nel 1945. Ciò che era accaduto fra il settembre del 1939 al giugno 1941 non esiste nelle scuole e nelle celebrazioni. Nel 2019 Vladimir Putin fece varare una legge che colpisce con gravi sanzioni chiunque sostenga che Stalin si fosse alleato con Hitler, ribadendo che la Russia si limitò a entrare nei Paesi devastati dalla guerra tedesca per proteggere le minoranze russe. Finita la guerra calda e inaugurata la guerra fredda col discorso di Winston Churchill all’Università di Fulton negli Stati Uniti, quando disse che una “cortina di ferro” che partiva da Trieste (il maresciallo jugoslavo Tito era ancora il delfino di Stalin) separava le democrazie dalla dittatura comunista, la Russia sovietica si impegnò più volte e con molta generosità a correre in soccorso della rivoluzione tradita e delle minoranze minacciate.
Di fronte all’aggressione degli operai tedeschi al governo della Ddr che riduceva le paghe e aumentava la produzione obbligatoria, il 17 giugno 1953 il presidio militare sovietico attaccò gli operai e ne arrestò cinquemila, ignoto il numero dei morti. Una grande operazione di soccorso fu affidato all’Armata Rossa a Budapest quando, morto Stalin e insediato Nikita Krusciov, fu necessario affrontare un’altra grave rivolta in Ungheria, fomentata dagli stessi operai comunisti e dagli studenti. La rivolta fu repressa nel sangue dai carri armati sovietici sotto l’occhio della televisione che portava per la prima volta le immagini della strage nelle case di tutto il mondo. Abbiamo saputo in seguito che, essendo Krusciov molto esitante, la decisione di invadere e reprimere fu presa per l’insistenza del segretario del Pci italiano Palmiro Togliatti e di quello comunista cinese, Mao Zedong. Da allora in Italia con il termine “carristi” furono indicati tutti coloro che approvavano l’intervento dei carri armati russi. I carri armati non invadevano mai ma venivano in soccorso del comunismo sovietico attaccato da oscure forze reazionarie sempre in combutta con gli Stati Uniti e la Cia per una provocazione della Nato. E passarono dodici anni prima di rivederli a Praga in una mattina d’agosto del 1968, stavolta in sferragliante soccorso non si sa di chi, visto che intervenivano contro il tentativo di instaurare un “socialismo dal volto umano” promosso dal segretario Dubcek.
Le vittime in quel caso non furono migliaia come a Budapest perché ormai l’occhio della televisione vedeva tutto ciò che in passato poteva essere nascosto, ma contro i carri armati russi e tedeschi orientali (quale sottile raffinatezza far invadere la Cecoslovacchia anche dai tedeschi, per la seconda volta in trent’anni) si lanciarono gli studenti e in particolare le studentesse armate di mazzi di fiori che consegnavano allo sbalordito mitragliere sulla torretta del carro. L’Armata Rossa restò poi per un lungo tempo ai confini della Polonia con i motori accesi in attesa che da Mosca arrivasse l’ordine di invasione dopo gli scioperi operai nei cantieri navali di Danzica e poi per il crescente potere territoriale del sindacato Solidarnosc guidato dall’elettricista Lech Walesa, ma in realtà dal papa polacco Karol Woytjla dopo il fallito tentativo di eliminarlo per mano del killer professionista Ali Agca. L’invasione fraterna era sul punto di partire quando si dette un fatto inatteso: il generale polacco Jaruzelski con un auto-golpe instaurò un regime militare nazionale ma in linea con le richieste di Mosca, che rinunciò a mettere in moto i carri.
La successiva mossa fraterna allo scopo di salvare minoranze russe o russofone con l’aiuto fraterno alla minoranza filosovietica, fu l’Afghanistan nella notte di Natale del 1979 e che durò per ben dieci anni, quando il 15 febbraio 1989 per la prima volta l’Armata Rossa si dichiarò sconfitta e si ritirò in preda alla frustrazione. Quando ciò accadde, il regime comunista vacillava nella stessa Unione Sovietica e sembrava che davvero la vecchia armata fosse davvero stanca di guerra e di repressioni. In Afghanistan aveva dovuto affrontare per la prima volta una guerra asimmetrica fomentata dagli americani che allevarono con i loro aiuti ai ribelli antisovietici una generazione di jihadisti e di guerriglieri armanti di moderni missili ed equipaggiamenti che poi la stessa America sconfitta sullo stesso campo abbandonerà a sua volta sconfitta nel 2021 con la più codarda ritirata che si fosse mai vista.
Negli anni successivi, l’Armata Rossa di fatto si scioglie, Mosca era piena di mercatini dove potevi acquistare per pochi dollari tutte le uniformi, medaglie e cappelli e bandiere dell’esercito della rivoluzione sovietica. Gli oligarchi avevano preso il posto dei gerarchi di partito e la stessa Unione Sovietica era sul punto di disfarsi come poi si disfece. L’arrivo di Putin sulla scena politica fu un evento voluto e programmato dall’unica istituzione dotata di un suo Dna vitale: il Kgb, che si dividerà nei due servizi Fsb per l’Interno e Svr per l’estero. La lunga storia di Vladimir Putin, un uomo solo incontrastato al comando della Russia da più di venti anni non può essere detta in poche righe, ma va ricordato che per anni prestò servizio come tenente colonnello del Kgb nella città di Dresda della Ddr e la sua dottrina è stata espressa in modo limpido e chiaro da lui stesso quasi ogni giorno . da chiunque visibile – in centinaia di video su YouTube: dissolvere l’Unione Sovietica è stato uno scellerato delitto, noi la riunificheremo. Prima libereremo la Georgia (fatto), poi la Crimea; quindi, sarà la volta del Donbass e quanto all’Ucraina, nostra madre e figlia e parente e amica, sangue del nostro sangue, vedrete che è già sulla strada del ritorno a casa e noi fraternamente l’aiuteremo.
L’America torna ad essere quel che è: il nostro mortale nemico e il più grande Paese del mondo ha bisogno di molti buffer states, o paesi satelliti che facciano da cuscinetto per bloccare gli invasori. Da Caterina di Russia a Pietro il Grande a Stalin, i nostri confini sono resi sacri dalla storia, proprio così dice Vladimir Vladimirevic che fu subito ben osservato e compreso dagli studiosi occidentali che conoscono l’animo “liberatorio” russo, Nel 2005 Hélène Blanc, storica dello slavismo e criminologa francese scrisse in Les yeux de V. Poutine (“Gli occhi di Putin”): «Bisogna smettere di considerare la Russia come uno Stato di diritto (non lo è ancora), né uno Stato democratico. Più che mai la Russia di Putin, erede dell’Unione Sovietica, resta uno Stato di forza». Sono passati diciassette anni ed è difficile, anzi impossibile, considerare superata quella definizione.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.