Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
L’ACCOGLIENZA
SEDICESIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
I Muri.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
Quei razzisti come i cechi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come i serbi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i libici.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come gli ugandesi.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i sudafricani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i singalesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i filippini.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come gli australiani.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I LADRI DI NAZIONI.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
I SIMBOLI.
LE PROFEZIE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. PRIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SECONDO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TERZO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUARTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SESTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SETTIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. OTTAVO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. NONO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DECIMO MESE.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE MOTIVAZIONI.
NAZISTA…A CHI?
IL DONBASS DELI ALTRI.
L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
TUTTE LE COLPE DI…
LE TRATTATIVE.
ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.
LA RUSSIFICAZIONE.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.
IL FREDDO ED IL PANTANO.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE VITTIME.
I PATRIOTI.
LE DONNE.
LE FEMMINISTE.
GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.
LE SPIE.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.
LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.
LA GUERRA ENERGETICA.
LA GUERRA DEL LUSSO.
LA GUERRA FINANZIARIA.
LA GUERRA CIBERNETICA.
LE ARMI.
INDICE NONA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA DETERRENZA NUCLEARE.
DICHIARAZIONI DI STATO.
LE REAZIONI.
MINACCE ALL’ITALIA.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
IL COSTO.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
PSICOSI E SPECULAZIONI.
I CORRIDOI UMANITARI.
I PROFUGHI.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I PACIFISTI.
I GUERRAFONDAI.
RESA O CARNEFICINA?
LO SPORT.
LA MODA.
L’ARTE.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
PATRIA BIELORUSSIA.
PATRIA GEORGIA.
PATRIA UCRAINA.
VOLODYMYR ZELENSKY.
INDICE TREDICESIMA PARTE
La Guerra Calda.
L’ODIO.
I FIGLI DI PUTIN.
INDICE QUATTORDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’INFORMAZIONE.
TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA.
INDICE QUINDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA PROPAGANDA.
LA CENSURA.
LE FAKE NEWS.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
LA RUSSOFOBIA.
LA PATRIA RUSSIA.
IL NAZIONALISMO.
GLI OLIGARCHI.
LE GUERRE RUSSE.
INDICE DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CHI E’ PUTIN.
INDICE DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…le Foibe.
Lo sterminio comunista degli Ucraini.
L’Olocausto.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Il Caso dei Marò.
Che succede in Africa?
Che succede in Libia?
Che succede in Tunisia?
Cosa succede in Siria?
L’ACCOGLIENZA
SEDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
Da ansa.it l'1 agosto 2022.
Un prete del patriarcato di Mosca ha tentato di colpire un rappresentante della Chiesa ucraina con la croce che portava al collo durante il funerale di un soldato ucraino in un villaggio rurale.
Il sacerdote del patriarcato russo Anatoly Dudko è andato su tutte le furie dopo le parole del prete ucraino, che aveva accusato Vladimir Putin nella sua omelia di aver iniziato la guerra in Ucraina per difendere la fede ortodossa russa.
"È eresia...". Dal Vaticano il "siluro" al patriarca Kirill. Nico Spuntoni il 3 Luglio 2022 su Il Giornale.
La distanza tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa sembra essersi amplificata dopo la guerra in Ucraina. Le parole del cardinale Koch si inseriscono nel solco di quelle di Papa Francesco dopo la videochiamata con il patriarca di Mosca.
"È un'eresia che il patriarca osi legittimare la brutale e assurda guerra in Ucraina con ragioni pseudo-religiose". Il cardinale Kurt Koch non ha usato mezzi termini per condannare la linea tenuta dalla Chiesa ortodossa russa già all'indomani del 24 febbraio. Lo ha fatto in un'intervista concessa al quotidiano cattolico tedesco Die Tagespost.
Sono parole di particolare rilevanza non solo perché tirano in ballo l'accusa di eresia, rimpallata per secoli da Occidente a Oriente e viceversa con motivazioni teologiche, ma per la fonte da cui provengono. Koch non è un porporato qualunque, ma il prefetto del Dicastero per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, nuovo nome del Pontificio Consiglio che si occupa di ecumenismo e cura le relazioni con le altre Chiese e Comunità ecclesiali.
Il suo profilo, peraltro, è tutt'altro che barricadiero, trattandosi di un fine teologo svizzero dal carattere mite e dai toni gentili, spesso considerato anche per questo una sorta di "piccolo Joseph Ratzinger". Non bisogna dimenticare che c'era il cardinale Koch accanto a Papa Francesco nella storica videochiamata con il patriarca russo Kirill che si è svolta nel pomeriggio del 16 marzo e che ha avuto come inevitabile argomento di discussione proprio la guerra in Ucraina. Durante quel colloquio, Bergoglio aveva rimproverato il leader spirituale russo per il suo sostegno all'operazione militare di Putin, ricordandogli che "la Chiesa non deve usare il linguaggio della politica, ma il linguaggio di Gesù".
Il Papa ha raccontato i dettagli di quella videochiamata nell'intervista concessa a inizio maggio al direttore del Corsera, Luciano Fontana, spiegando che Kirill aveva iniziato la conversazione "con una carta in mano" da cui aveva letto "tutte le giustificazioni alla guerra", sentendosi rispondere che "il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin".
Una franchezza che è sintomo di quanto la guerra in Ucraina abbia condotto le relazioni tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa a uno stallo dopo decenni di lavoro sotterraneo che aveva consentito la realizzazione dello storico incontro di Cuba nel 2016. I due leader si sarebbero dovuti rivedere di persona a Gerusalemme il 14 giugno, ma il conflitto ha stravolto l'agenda fissata dalle rispettive diplomazie.
Le recenti parole di Koch sembrano certificare una distanza difficilmente colmabile a breve giro anche perché Kirill non può permettersi reazioni troppo morbide verso Roma, avendo a che fare con le pressioni interne del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa da sempre non favorevole al dialogo con i cattolici.
Non a caso, a inizio giugno il Sinodo - attribuendo la decisione al patriarca - ha silurato a sorpresa il potentissimo metropolita Hilarion di Volokolamsk dal ruolo di "ministro degli Esteri", spedendolo a Budapest. Con il gelo ecumenico calato dopo il 24 febbraio e confermato dall'intervista di Koch a Die Tagespost, la sua linea considerata eccessivamente dialogante con la Chiesa cattolica potrebbe essergli costata non solo il posto di presidente del Dipartimento degli Affari Ecclesiastici Esterni ma anche la successione a Kirill che poco tempo fa veniva data quasi per scontata.
Bergoglio torna a parlare del conflitto in Ucraina. La furia di Papa Francesco: “La guerra non è tra buoni e cattivi”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 15 Giugno 2022.
Con la guerra in Ucraina non siamo nella favola di Cappuccetto Rosso dove è chiaro chi è il cattivo e chi è la buona. Ma chiediamoci: “Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?”. E se non fosse abbastanza chiaro, ecco due aggiunte: “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro”. L’analisi è di Papa Francesco e la conosciamo per merito de La Civiltà Cattolica che ieri ha pubblicato la trascrizione integrale del dialogo del 19 maggio tra il Pontefice e dieci direttori di altrettante riviste dei gesuiti in diversi paesi europei.
La conversazione ha spaziato a tutto campo: dalla guerra alla situazione della Chiesa e dei rapporti con gli ortodossi, dai giovani alle priorità della Compagnia di Gesù in Europa. Non sono a favore di Putin, argomenta il Papa e precisa: «Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli». Il conflitto non deve nascondere, in una visione parziale della realtà, i tanti altri disastri bellici in corso. «Ci sono altri Paesi lontani – pensiamo ad alcune zone dell’Africa, al nord della Nigeria, al nord del Congo – dove la guerra è ancora in corso e nessuno se ne cura. Pensate al Ruanda di 25 anni fa. Pensiamo al Myanmar e ai Rohingya. Il mondo è in guerra. Qualche anno fa mi è venuto in mente di dire che stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi e a bocconi. Ecco, per me oggi la terza guerra mondiale è stata dichiarata. E questo è un aspetto che dovrebbe farci riflettere. Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?
Io vivo la prima guerra nel ricordo di mio nonno sul Piave. E poi la seconda e ora la terza. E questo è un male per l’umanità, una calamità. Bisogna pensare che in un secolo si sono susseguite tre guerre mondiali, con tutto il commercio di armi che c’è dietro! Quella che è sotto i nostri occhi – aggiunge papa Francesco – è una situazione di guerra mondiale, di interessi globali, di vendita di armi e di appropriazione geopolitica, che sta martirizzando un popolo eroico». L’analisi porta con sé una domanda molto forte: chi si prenderà cura dei profughi e delle donne, quando l’emergenza sarà passata? E c’è anche un compito per le riviste dei gesuiti: impegnatevi a parlare del conflitto, a sensibilizzare, affrontando «il lato umano della guerra. Vorrei che le vostre riviste facessero capire il dramma umano della guerra. Va benissimo fare un calcolo geopolitico, studiare a fondo le cose. Lo dovete fare, perché è vostro compito. Però cercate pure di trasmettere il dramma umano della guerra, il dramma umano di una donna alla cui porta bussa il postino e che riceve una lettera con la quale la si ringrazia per aver dato un figlio alla patria, che è un eroe della patria… E così rimane sola. Riflettere su questo aiuterebbe molto l’umanità e la Chiesa. Fate le vostre riflessioni socio-politiche, senza però trascurare la riflessione umana sulla guerra».
Nella lunga riflessione il Papa si lascia andare anche a ricordi personali, parlando della visita compiuta a Redipuglia e al cimitero militare di Anzio, due momenti di grande commozione pensando a quelle migliaia di giovani morti. Quanto all’ortodosso Patriarca Kirill di Mosca, Papa Francesco taglia corto: «Ho avuto una conversazione di 40 minuti con il patriarca Kirill. Nella prima parte mi ha letto una dichiarazione in cui dava i motivi per giustificare la guerra. Quando ha finito, sono intervenuto e gli ho detto: Fratello, noi non siamo chierici di Stato, siamo pastori del popolo. Avrei dovuto incontrarlo il 14 giugno a Gerusalemme, per parlare delle nostre cose. Ma con la guerra, di comune accordo, abbiamo deciso di rimandare l’incontro a una data successiva. Spero di incontrarlo in occasione di un’assemblea generale in Kazakistan, a settembre. Spero di poterlo salutare e parlare un po’ con lui in quanto pastore».
Un altro capitolo riguarda la situazione della Chiesa. E qui il Papa avvia una riflessione molto decisa: nella Chiesa europea “vedo rinnovamento” con “movimenti, gruppi, nuovi vescovi che ricordano che c’è un Concilio alle loro spalle. Perché il Concilio che alcuni pastori ricordano meglio è quello di Trento. E non è un’assurdità quella che sto dicendo”. Altrove, specie negli Usa, il Concilio Vaticano II lo si vorrebbe semplicemente cancellare dalla storia. Il Papa ne è acutamente consapevole e lo dice senza mezzi termini, anche se non spiega in che modo si debba arginare i settori conservatori. “Il numero di gruppi di «restauratori» – ad esempio, negli Stati Uniti ce ne sono tanti – è impressionante” e “ci sono idee, comportamenti che nascono da un restaurazionismo che in fondo non ha accettato il Concilio. Il problema è proprio questo: che in alcuni contesti il Concilio non è stato ancora accettato. È anche vero che ci vuole un secolo perché un Concilio si radichi. Abbiamo ancora quarant’anni per farlo attecchire, dunque!”.
Un’altra tematica ha a che fare con la Germania. Anche qui la risposta dimostra una capacità di visione più ampia e profonda di quello che si legge di solito sui media. Papa Francesco sa quali sono le difficoltà ecclesiali ma ha deciso di aspettare e non forzare le situazioni. E lo dice, indicando una strategia precisa e consapevole: «Il problema sorge quando la via sinodale nasce dalle élite intellettuali, teologiche, e viene molto influenzata dalle pressioni esterne. Ci sono alcune diocesi dove si sta facendo la via sinodale con i fedeli, con il popolo, lentamente». Sulla diocesi di Colonia dove l’arcivescovo è contestato per la scarsa sensibilità verso le denunce di casi di abusi, papa Francesco non le manda a dire e rivela dettagli importanti: «Ho chiesto all’arcivescovo di andare via per sei mesi, in modo che le cose si calmassero e io potessi vedere con chiarezza. Perché quando le acque sono agitate, non si può vedere bene. Quando è tornato, gli ho chiesto di scrivere una lettera di dimissioni. Lui lo ha fatto e me l’ha data. E ha scritto una lettera di scuse alla diocesi. Io l’ho lasciato al suo posto per vedere cosa sarebbe successo, ma ho le sue dimissioni in mano».
Della serie: comportati bene… Intanto il direttore di una rivista on line chiede come parlare ai giovani e anche qui la risposta è pronta: «Non bisogna stare fermi»; «ai miei tempi il lavoro con i giovani era costituito da incontri di studio. Ora non funziona più così. Dobbiamo farli andare avanti con ideali concreti, opere, percorsi. I giovani trovano la loro ragione d’essere lungo la strada, mai in modo statico. Qualcuno può essere titubante perché vede i giovani senza fede, dice che non sono in grazia di Dio. Ma lasciate che se ne occupi Dio! Il vostro compito sia quello di metterli in cammino. Penso che sia la cosa migliore che possiamo fare». Questa risposta si lega con un’altra riflessione che il Papa ha già svolto nell’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” sul modo di annunciare il Vangelo oggi e sul principio che “la realtà è superiore all’idea”: non basta comunicare idee: non è sufficiente. Occorre comunicare idee che provengono dall’esperienza. Questo per me è molto importante.
Le idee devono venire dall’esperienza. Prendiamo l’esempio delle eresie, sia che esse siano teologiche sia che siano umane, perché ci sono anche eresie umane. A mio parere, un’eresia nasce quando l’idea è scollegata dalla realtà umana. Da qui la frase che qualcuno ha detto – Chesterton, se ben ricordo – che «l’eresia è un’idea impazzita». È impazzita perché ha perso la sua radice umana”. Il principio è semplice: «la realtà è superiore all’idea, e quindi bisogna dare idee e riflessioni che nascono dalla realtà». I gesuiti hanno nel “dna” il tema del “discernimento”: analizzare la realtà, riflettere bene, poi agire. Il Papa lo mette a fuoco puntando in alto: “se si lancia una pietra, le acque si agitano, tutto si muove e si può discernere. Ma se invece di lanciare una pietra, si lancia… un’equazione matematica, un teorema, allora non ci sarà alcun movimento, e dunque nessun discernimento”.
Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).
Mattia Feltri per “La Stampa” il 15 giugno 2022.
In una conversazione riportata ieri dalla Stampa coi direttori di dieci riviste europee della Compagnia di Gesù, Papa Francesco è tornato sulla guerra d’Ucraina. La sua opinione è nota, ma nell’occasione la dettaglia: alla condanna dell’aggressore si accompagna un fremente elogio del coraggio dell’aggredito, ma con l’avvertenza che questa non è la storia di Cappuccetto Rosso, non ci sono buoni e cattivi, la questione è più complessa.
In particolare - lo aveva già detto, lo ripete - la Nato ha abbaiato ai confini russi, forse per fomentare la guerra, perlomeno senza lo scrupolo di evitarla. Bisogna sempre accostarsi con particolare prudenza e rispetto alle parole di un pontefice, che si sia credenti oppure no.
Mi sono ricordato della volta in cui, rientrando in volo dallo Sri Lanka, una settimana dopo la strage di Charlie Hebdo (dodici morti nella redazione del giornale satirico per mano di terroristi islamici), Francesco dichiarò sacre le libertà di religione e di espressione, ma né l’una né l’altra sono illimitate: se dici una parolaccia a mia madre, spiegò, aspettati un pugno.
Anche lì, mi pare, l’intenzione era di sollecitare una lettura delle cose senza semplificazioni manicheiste, cioè un invito, replicato ieri, alla complessità. Per la prudenza e il rispetto raccomandati prima, mi limito a dubitare che sarebbe buona cosa dare un pugno a chi insultasse mia madre, e ad aggiungere che parlare di buoni e cattivi, subito dopo o durante una mattanza, a Parigi o a Kiev, sarebbe inutile e infantile. Non sono buoni e cattivi, sono vittime e carnefici, e le ragioni dei carnefici sono qualcosa che diventa il nulla.
Il caduta di Kirill, il patriarca russo scivola sull'acqua santa e finisce a terra durante la funzione religiosa. Il Corriere della Sera il 25 giugno 2022.
Il patriarca russo Kirill è caduto durante una funzione nella chiesa di Novorossijsk, a causa del pavimento bagnato dall’acqua santa.
Nel video si vede il religioso che mentre scende dal pulpito scivola e finisce rovinosamente a terra, poi la regia russa ha cambiato rapidamente inquadratura passando con le immagini all’esterno della chiesa
Secondo quanto riferito dall’agenzia Tass il capo della chiesa ortodossa russa non ha riportato conseguenze.
«Il pavimento è bellissimo, puoi specchiarti, è così lucido e liscio - ha detto poi Kirill durante il sermone - Ma quando l’acqua cade su di lui, anche se è acqua santa, sono le leggi della fisica a funzionare. Su questo bel pavimento sono caduto così purtroppo ma, per grazia di Dio, senza alcuna conseguenza».
"Non significa niente". La scivolata di Kirill sull’acqua santa è virale, la caduta del patriarca pro guerra perché contro il gay pride. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2022
Scivolare sul pavimento bagnato dall’acqua santa. E’ quanto accaduto al patriarca russo Kirill durante una funzione religiosa nella chiesa di Novorossijsk. Secondo quanto afferma l’agenzia russa Tass, Kirill non avrebbe riportato conseguenze nella caduta.
“Il fatto che io sia caduto oggi non significa nulla. È solo che il pavimento è bellissimo, è così lucido e liscio. Ma quando l’acqua cade su di esso, anche l’acqua santa, le leggi della fisica funzionano ma, per grazia di Dio, senza alcuna conseguenza”, ha detto poi Kirill nel corso del sermone parlando dell’accaduto e probabilmente provando ad allontanare presunti segnali divini dopo la sua esposizione a favore della guerra.
Kirill, fedelissimo di Putin, in questi mesi di guerra non ha mai lanciato un messaggio di pace al suo zar. Anzi. A poche settimane dall’invasione russa in Ucraina, Kirill si rese protagonista di dichiarazioni aberranti. Secondo il patriarca del Cremlino (e della chiesa ortodossa russa) la guerra “è giusta” perché vanno puniti modelli di vita peccaminosi e contrari alla tradizione cristiana come “il gay pride”.
Nonostante gli appelli arrivati sia dal mondo cattolico che da quello ortodosso ucraino, Kirill in un sermone pronunciato nella Domenica del Perdono, che in Russia apre la Quaresima, approvò a inizio marzo l’invasione della Russia arrivata dopo che “per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass“, “dove c’è un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale”.
E secondo Kirill “oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo ‘felice’, il mondo del consumismo eccessivo, il mondo della ‘libertà’ visibile. Sapete cos’è questo test? E’ molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay” e le repubbliche separatiste del Donbass hanno respinto questo “test di lealtà” all’Occidente, esortandole alla resistenza contro i valori promossi dalla lobby gay.
Deliranti le sue parole secondo cui le parate gay “sono progettate per dimostrare che il peccato è una delle variazioni del comportamento umano”. “Ecco perché per entrare nel club di quei Paesi è necessario organizzare una parata del Gay Pride. E sappiamo come le persone resistono a queste richieste e come questa resistenza viene repressa con la forza. Ciò significa che si tratta di imporre con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio”.
Il patriarca Kirill licenzia Hilarion, il «vice» contrario alla guerra in Ucraina. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.
Il patriarca di Mosca Kirill ha «licenziato» il metropolita Hilarion, finora presidente del Dipartimento relazioni esterne e quindi «ministro degli esteri» della Chiesa ortodossa russa, di fatto il numero due.
Hilarion, al quale è stata tolta anche la carica di metropolita di Volokolamsk, si era distinto in questi mesi per una posizione più moderata, mentre il patriarca ha continuato a benedire la guerra voluta dal suo alleato e amico Vladimir Putin, sposando in toto la propaganda del Cremlino. Il Sinodo della chiesa ortodossa russa ha annunciato che d’ora in poi «il Metropolita Hilarion di Volokolamsk sarà l’amministratore della Metropoli di Budapest-Ungheria, con l’esonero dalle funzioni di presidente del Dipartimento delle relazioni ecclesiastiche esterne e di membro permanente del Santo Sinodo».
Come «ministro degli esteri» e membro permanente del Sinodo ortodosso, lo sostituirà il metropolita Antonio di Korsun. Hilarion, come responsabile delle relazioni esterne, è stato l’uomo che stava preparando il nuovo incontro tra Papa Francesco e Kirill prima che l’invasione russa dell’Ucraina facesse precipitare la situazione. Alla fine l’incontro è stati rimandato dalla Santa Sede a data da destinarsi. Francesco, nell’intervista al direttore del era stato lapidario: «Il patriarca di Mosca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin». In tutto questo, Hilarion aveva cercato di smarcarsi dal suo superiore.
Nell’ultimo numero della Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, il direttore padre Antonio Spadaro ricordava due prese di posizione importanti del metropolita. In una trasmissione radiofonica del 29 gennaio sul canale Russia 24, aveva parlato con preoccupazione di ciò che stava succedendo, ricordato che «in America, in Ucraina e in Russia ci sono politici che credono che la guerra sia la decisione giusta in questa situazione», e si era detto «profondamente convinto che la guerra non sia un metodo per risolvere i problemi politici accumulati».
In una trasmissione successiva era arrivato a citare Rasputin, il quale aveva avvertito lo zar che «se la Russia fosse entrata in guerra, avrebbe minacciato l’intero Paese con conseguenze catastrofiche», arrivando non solamente alla perdita di parte delle terre russe ma anche della «Russia in quanto tale». Il sito indipendente Orthodox News ricorda oggi «lo sforzo del metropolita Hilarion di differenziarsi dall’atteggiamento aggressivo del Patriarca di Mosca e la sua piena identificazione con le richieste del Cremlino», citando alcuni episodi recenti.
Il primo è stato l’incontro con l’arcivescovo Chrysostomos di Cipro a Cipro, nell’ambito dell’Assemblea ortodossa del Consiglio mondiale delle Chiese, nonostante la Chiesa di Russia abbia interrotto la comunione eucaristica con l’arcivescovo di Cipro, dopo il riconoscimento da parte di quest’ultimo della Chiesa autocefala ucraina». A questo «è seguita la pre-conferenza del Consiglio mondiale delle Chiese (WCC) e il testo conclusivo emesso alla fine, che parlava di una condanna unanime della guerra che imperversa in Ucraina».
Hilarion «era presente all’incontro, in qualità di capo della missione della Chiesa russa, così come ha partecipato alle discussioni che hanno portato al testo finale delle conclusioni, adottato all’unanimità». Inoltre, «nelle sue recenti dichiarazioni sulle relazioni con le “Chiese ortodosse di Costantinopoli, Alessandria, Cipro e Grecia”, ha anche sottolineato che “non credo che dovremmo considerarle nemiche”, e ha parlato di “difficoltà temporanee” nella Chiesa ortodossa, che saranno superate “definitivamente” perché “si troverà una soluzione pan-ortodossa o inter-ortodossa, che permetterà di guarire le ferite inflitte al corpo dell’ortodossia mondiale e ripristinerà la piena comunione tra le Chiese». È importante notare che anche Kirill, nominato vent’ anni prima da Alessio II, era «ministro degli esteri» del Patriarcato quando il vecchio patriarca morì e gli succedette nel 2009. Hilarion era il candidato più probabile alla successione di Kirill. E magari potrebbe ancora esserlo in futuro, se alla fine Putin e il patriarca finissero in disgrazia.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 3 giugno 2022.
Il patriarca di Mosca e di tutte le Russie può essere anche considerato intoccabile da Viktor Orban, pronto a scontrarsi con l'Unione Europea per difendere Kirill dalle sanzioni, ma le parrocchie in Ucraina non pregano più per la sua salute.
Il capo della Chiesa ortodossa russa è l'alleato più fedele del Cremlino, che non solo ha benedetto la "operazione militare speciale" contro l'Ucraina, ma l'ha anche giustificata con la difesa dei "valori tradizionali" tanto cari sia al leader ungherese che a Vladimir Putin: la sua dichiarazione che l'invasione ha «sventato il pericolo di sfilate di Gay Pride a Donetsk» ha fatto il giro del mondo, suonando scioccante perfino per molti conservatori.
Con i suoi orologi di lusso, le sue benedizioni delle testate atomiche e le amicizie con politici impresentabili - come Leonid Sluzky, il capo della commissione Esteri della Duma, sostenitore della pena di morte famoso per le sue molestie sessuali - il Patriarca era già un personaggio molto discusso.
E quando ha insistito che la Russia «sta promuovendo la pace», gli ortodossi ucraini si sono ribellati: domenica 29 maggio il metropolita di Kiev Onufrij, per la prima volta, non ha menzionato nella sua liturgia domenicale il patriarca di Mosca come «grande signore e padre nostro».
A utilizzare il calcolo di Stalin, che chiedeva di quante divisioni disponesse il Vaticano, Vladimir Putin rischia di perdere un fronte intero. Due giorni prima, durante un'assemblea tenuta a Kiev e trasformata in corso d'opera in concilio, la Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca si è proclamata «autonoma e indipendente», cancellando dal suo statuto ogni menzione del suo legame subordinato alla Chiesa russa.
A Mosca aspettano a parlare di scisma, ma è evidente che la chiesa ortodossa si è spaccata sulla guerra: la posizione di Kirill è stata bollata da Onufrij come "il peccato di Caino", il sostegno a un massacro fratricida. Una presa d'atto seguita a una rivolta dei fedeli e del clero: circa 500 parrocchie avevano già dichiarato di uscire dalla giurisdizione del patriarcato di Mosca.
Il metropolita Evlogiy di Sumy aveva smesso di pregare per la salute di Kirill sotto le bombe russe, imitato da una quindicina delle 53 diocesi ucraine. Circa 400 sacerdoti e monaci hanno sottoscritto una lettera ai patriarchi delle antiche chiese di Oriente, chiedendo di processare il patriarca di Mosca come eretico per la sua propaganda del "mondo russo" come ideologia nazionalista del putinismo.
Nonostante diverse parrocchie avessero raccolto aiuti per i militari e per i profughi, e molti esponenti del clero avessero preso posizioni molto dure nei confronti dei principali moscoviti, la situazione era diventata insostenibile. Alla rabbia dei fedeli si erano aggiunte le pressioni delle autorità di molte regioni ucraine che avevano cominciato a mettere fuori legge le attività della "chiesa di Mosca". E così, dal 27 maggio la Chiesa ortodossa ucraina si è dichiarata indipendente: ora potrà istituire parrocchie all'estero - dove sono fuggiti milioni di profughi ucraini - e ricominciare a preparare il crisma a Kiev, dopo che per più di un secolo l'olio per i sacramenti veniva inviato da Mosca.
Uno scisma che Kirill per ora evita di dichiarare tale, anche perché dovrebbe ammettere di aver perso un terzo delle sue parrocchie e fino a due terzi delle entrate, con un patrimonio immenso di immobili e reliquie, tra cui il monastero delle Grotte di Kiev, culla dell'ortodossia della Rus. Ma soprattutto, il monastero di San Daniele di Mosca smetterebbe di venire considerato il centro religioso di "tutte le Russie", e la chiesa di Kirill si ridurrebbe di fatto a una istituzione nazionale russa, un colpo pesante all'ambizione di Putin e del suo patriarca di un nuovo impero del "mondo russo".
Non stupisce dunque che Kirill abbia voluto smussare gli angoli, parlando di «decisioni sagge per non complicare la vita dei credenti» in Ucraina. Molto meno conciliante la posizione di numerosi funzionari della Chiesa russa: Aleksandr Shipkov del dipartimento delle relazioni esterne ha pronunciato la parola proibita «scisma», sostenendo che fosse avvenuto «su ordine del dipartimento di Stato Usa».
Una situazione complicata, anche perché dentro la Chiesa ucraina è già nato a sua volta uno scisma: praticamente tutti i 14 vescovi dei territori in mano ai russi, tra cui la Crimea, Donetsk e Novokakhovka, hanno deciso di mantenere la fedeltà a Kirill. «Ci rendiamo conto che nelle zone occupate esiste una realtà diversa», ha ammesso il metropolita Climent. È evidente che la linea dello scisma passerà dalla linea del fronte, che è soggetta a cambiamenti. Il problema è cosa resterà dopo la guerra: in Ucraina infatti esiste anche la Chiesa ortodossa dell'Ucraina, frutto dello scisma dell'indipendenza, riconosciuta nel 2018 dal patriarca di Costantinopoli Bartolomeo come autocefala, e considerata "ufficiale" dal governo.
Uno smacco a Putin cui Kirill reagì rompendo ogni contatto con il centro dell'ortodossia mondiale. Ora, la nuova chiesa indipendente di Kiev è di fronte a un dilemma drammatico: se non ricuce i rapporti con Constantinopoli rischia di restare una scheggia illegittima dell'ortodossia. Motivo per il quale Serhiy Bortnik, teologo e collaboratore di Onufrij, dice che l'indipendenza da Mosca non significa la rottura di un legame "di preghiera", forse in attesa che un giorno un cambio di regime al Cremlino trasformi anche la posizione militarista e imperialista di Kirill.
Una prudenza che potrebbe costare agli scismatici il loro futuro: molti in Ucraina continuano a considerarli troppo vicini all'invasore, e le parrocchie ribelli stanno passando nella giurisdizione dei concorrenti della Chiesa ortodossa dell'Ucraina, mentre le diocesi nei territori occupati potrebbero venire subordinate direttamente a Mosca.
Ortodossi contro ortodossi, divisi dal nazionalismo. Andrea Riccardi su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.
Tre mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sostenuta dal patriarca Kirill, la fine del legame speciale e il distacco ufficiale della Chiesa di Kiev da Mosca.
Nel febbraio 2009 c’era un clima di festa sotto le volte della grandiosa cattedrale del Salvatore a Mosca. Veniva intronizzato il patriarca Kirill, presenti Medvedev, allora presidente della Federazione russa, e Putin primo ministro (prima di riassumere la carica presidenziale) nonché il presidente bielorusso e la leader della casata Romanov. Allora il primo patriarca, eletto dopo la fine del comunismo, affermò che, sulle sue spalle, cadeva il compito di unire i popoli ortodossi, un tempo parte dell’impero e poi dell’Urss, ma ora divisi tra vari Stati. Il patriarca si candidava come riferimento del mondo russo-ortodosso in una prospettiva sovranazionale in rapporto con il cattolicesimo e l’Europa. Sembrava una linea coerente di un discepolo — qual era Kirill — del metropolita Nikodim, amico di Roma e riformatore, morto nel 1978 in Vaticano durante un incontro con papa Luciani. Nel 2012 Kirill si era recato in Polonia per una clamorosa visita di riconciliazione tra polacchi e russi.
Già nel 2007, Putin aveva però enunciato la sua dottrina internazionale alla Munich Security Conference, accusando gli Usa di minacciare la Russia e di alimentare conflitti. Putin, che voleva riunificare il «mondo russo», nel 2008 invase la Georgia e nel 2014 annetté la Crimea. Il programma del patriarca è stato travolto dalla politica russa fino al distacco ufficiale della Chiesa ucraina da Mosca, dopo più di tre mesi di invasione russa dell’Ucraina, un trauma che ha reso il legame con il patriarcato moscovita non più accettabile. Il Concilio del 27 maggio ha condannato la guerra e chiesto ai russi di negoziare con Kiev, dissentendo dall’appoggio totale di Kirill a Putin. Inoltre ha proclamato «la piena autonomia e indipendenza» della Chiesa ortodossa ucraina da Mosca. Non uno scisma, ma la fine del legame speciale con Mosca. Nella liturgia, il metropolita Onufry, come un primate di una Chiesa autocefala, ha ricordato gli altri primati, tra cui quello di Mosca, ponendosi sullo stesso piano.
Per Mosca è una perdita grave: una Chiesa folta, molti preti e monaci, la porzione più grossa degli ortodossi ucraini. Gli altri appartengono alla Chiesa ortodossa autocefala ucraina, riconosciuta dal patriarcato di Costantinopoli nel 2018 e scomunicata da Mosca. Kirill, nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, aveva cercato di avere una posizione «imparziale» nella questione, differenziata dal governo, e non aveva partecipato, al Cremlino, all’atto di annessione della penisola alla Russia. Ma, con l’invasione russa dell’Ucraina, il patriarca non ha accolto gli appelli del metropolita di Kiev Onufry, peraltro non un nazionalista estremo, rivolti a lui e a Putin. Anzi Kirill ha dato pieno appoggio alla politica russa, suscitando proteste nel cristianesimo occidentale. Lo ha fatto secondo il modello dei suoi predecessori durante la seconda guerra mondiale con Stalin o quella in Afghanistan. Eppure Kirill era, fino a ieri, anche patriarca dei suoi «figli spirituali» ucraini, contro cui la Russia combatte.
Al di là delle sue posizioni soggettive, nella Russia di Putin in guerra si sta sprofondando in un «modello sovietico», in cui sono previsti fino a quindici anni di carcere per chi critica l’«operazione militare» in corso. Quali gli spazi di autonomia del patriarcato, così legato da sempre al Cremlino, che — ad esempio — ha promosso la costruzione di chiese russe in tante parti del mondo? La Chiesa russa si «sovietizza» più di quanto sembri, ma molti vescovi tacciono, nonostante il clima nazionalista, favorito da un’abile e distorcente informazione di Stato. La reazione del patriarcato di Mosca alle decisioni di Kiev è stata però prudente, affermando che la comunione tra le due Chiese resta.
Ora, in Ucraina, si apre una nuova partita: il rapporto tra ortodossi (ex russi) e autocefali (i cui non sono riconosciuti, perché ordinati da vescovi scomunicati). C’è poi la questione del rapporto con la Chiesa greco-cattolica (con lo stesso rito, ma unita a Roma), meno del 10% della popolazione, di ispirazione patriottica. Forse la guerra potrà mettere in moto nuovi processi di unificazione nel quadro dell’identità ucraina. È certo che la guerra mostra, pur in epoca ecumenica (o post-ecumenica), come sia difficile per le Chiese resistere all’attrazione fatale delle passioni nazionali.
Conflitti religiosi. Dio contro Dio: è la guerra delle quattro Chiese. Ci sono ortodossi obbedienti a Mosca, a Costantinopoli, autocefali e cattolici uniati. Anche l’Urss si dovette arrendere. Ezio Mauro su La Repubblica il 16 Aprile 2022.
Adesso che il Cristo degli ucraini è sceso dalla sua croce proprio nei giorni della resurrezione per risalire l’angoscia del suo ultimo Calvario, mentre il Patriarca di tutte le Russie Kirill invoca da Mosca lo stesso dio, chiamandolo a benedire la guerra di Putin, bisogna provare ad aprire il tabernacolo russo della santa fede per cercare le radici spirituali del conflitto.
Marco Leardi per ilgiornale.it il 24 aprile 2022.
Riti propiziatori, formule magiche, incantesimi e sortilegi. Inni intonati all'unisono per invocare la vittoria. Talismani e amuleti agitati contro il nemico. Tra Russia e Ucraina si sta combattendo una guerra occulta, parallela a quella sostenuta con le armi e le operazioni militari.
Un conflitto esoterico nel quale alle forze dispiegate sul campo si aggiungono quelle immateriali e misteriose evocate dall'aldilà. E non si tratta di dicerie o pittoresche leggende: nelle ultime settimane, a Mosca e Kiev, alcune streghe "accreditate" avrebbero iniziato a praticare rituali con il solo obiettivo di sostenere gli eserciti dei rispettivi paesi, nonché l'azione dei loro leader. Lo documentano, con tanto di immagini, alcuni media stranieri.
Così, dalla capitale della Russia arrivano notizie di raduni esoterici per supportare Vladimir Putin. Come riportato da Asianews, decine di donne vestite con un saio nero si sono radunate a Mosca per espimere solidarietà allo Zar e invocare per lui l'ausilio delle forze occulte.
A guidare il rito popiziatorio Aljona Polin, considerata la principale fattucchiera russa, nonché fondatrice dell'associazione delle "Grandi streghe di Russia". Già lo scorso 12 marzo, come testimoniato da alcuni video, la donna aveva convocato un consiglio generale delle streghe a sostegno di Putin. In quell'occasione erano stati pronunciati inni e formule magiche in favore del presidente, la cui immagine era stata posta al centro di un "cerchio del potere" formato dalle partecipanti al rituale.
"Che si manifesti la grande forza della Russia!", aveva ripetuto la chiromante, chiedendo agli spiriti di "dare forza e potere alla Russia e guidare correttamente il percorso del presidente Putin". Durante il rito venivano anche intonate maledizioni contro i nemici dello Zar. "Chi pretende di passare in mezzo a noi, chi ha deciso di andarsene da noi, chi mente in ogni cosa che dice, per i secoli dei secoli questi nemici saranno maledetti!".
Intanto, anche sul fronte ucraino si praticano analoghi rituali con l'opposto scopo di fermare l'avanzata russa. Secondo quanto riferito dall'agenzia Unian, infatti, le streghe di Kiev starebbero mettendo a punto un "rituale" in tre fasi per estromettere Putin dal teatro di guerra.
Il cerimoniale esoterico - a quanto si apprende - si dovrebbe svolgere in quello che è considerato un "luogo del potere" ammantato di mistero, ovvero il Monte Calvo, vicino alla capitale dell'Ucraina. Di questi rituali si dice al corrente anche padre Taras Zephlinsky, attivista della chiesa greco-ortodossa di Kiev, il quale all'AdnKronos non ha nascosto la propria preoccupazione per chi vuole "giocare con il maligno".
Tra riti magici e spiriti invocati, la drammatica attualità si fonde a superstizioni e ancestrali credenze. Le dottrine esoteriche affiancano i piani di guerra.
"Sigillo satanico". La nuova accusa dei russi a Kiev. Marco Leardi il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.
Simboli satanici nel quartier generale delle truppe ucraine: l'accusa arriva dall'agenzia di stampa russa Ria Novosti, con immagini e video. "Così cercavano poteri soprannaturali".
Un "sigillo satanico" nel quartier generale dell'esercito ucraino. Simboli tracciati col sangue, "segni di magia nera". L'accusa arriva dai media russi, con immagini che dovrebbero dimostrare cosa accade davvero tra i militari di Kiev. Nella guerra della propaganda, succede anche questo: l'agenzia di stampa statale di Mosca, Ria Novosti, ha comunicato che nei luoghi presidiati dalle truppe ucraine sarebbero state trovate testimonianze delle pratiche occulte eseguite dai soldati per invocare l'aiuto di forze maligne soprannaturali. L'organo vicino al Cremlino, per la verità, non ha usato alcun condizionale e anzi ha riportato come una certezza le informazioni di un proprio corrispondente.
"Segni della pratica della magia nera sono stati trovati nel quartier generale dei mortai ucraini, alla periferia del villaggio di Trekhizbenka: seguaci di forze ultraterrene hanno cercato di 'consacrare' le armi e hanno lasciato segni di sangue", ha riferito l'agenzia Ria Novosti. L'accusa rivolta alle truppe di Kiev è anche accompagnata da alcune immagini e da un video, nel quale viene mostrato un simbolo esoterico pitturato sulla parete esterna di una struttura fatiscente e ormai disabitata. "Sul muro è stato trovato un sigillo satanico", hanno affermato i media russi, localizzando il presunto scoop nella regione di Luhansk, nell'Ucraina sud-orientale.
Per decifrare quel simbolo, Ria Novosti ha anche interpellato un'esperta culturologa, Ekaterina Dais, la quale ha fornito una propria interpretazione. "Questo è un sigillo magico costituito da molte linee che si intersecano. Cosa significhi è difficile da dire con certezza, in esso puoi vedere sia il segno invertito dell'anarchia, sia parte del segno 'SS', la runa zig, che è chiaramente visibile nel settore all'estrema sinistra del cerchio", ha osservato la donna, indicando quindi una presunta matrice nazista nel disegno attribuito ai soldati ucraini. E poi l'ulteriore dettaglio: "la lettera ebraica 'zain' scritta in tedesco, che significa spada o arma".
Secondo l'esperta, il sigillo è stato utilizzato per compiere rituali che i militari di Kiev praticavano per rafforzare le loro armi o per chiedere "poteri soprannaturali per l'invio di armi". Il video pubblicato dall'agenzia russa mostra anche dei segni tracciati col sangue su un comunicato stampa ucraino nel quale si elencavano le perdite di vite umane nel Donbass. Tali segni, tuttavia, non sarebbero stati trovati altrove. Tra propaganda e suggestioni, una nuova accusa contro Kiev. In realtà, non è la prima volta che Mosca attribuisce pratiche sataniche agli ucraini.
La verità, come sempre, sta nel mezzo. Come già avevamo documentato su queste pagine, infatti, a margine di uno scontro violento combattuto con le armi, Russia e Ucraina stanno conducendo una "guerra occulta" fatta di credenze popolari, riti magici, streghe e sortilegi. Per antiche tradizioni culturali e superstizioni, né Mosca né Kiev si sono sottratte dal filone esoterico.
Chakassia, il rito degli sciamani per proteggere i soldati russi: "Una testa di toro offerta agli spiriti". Libero Quotidiano il 30 maggio 2022.
In Russia c'è chi si affida al "soprannaturale" con la speranza di dare una mano a Putin e ai suoi soldati sul campo di battaglia. E' quanto emerge da un servizio andato in onda sulla tv di Stato Channel One e ripreso dal giornalista inglese Francis Scarr. Si tratta di un filmato che mostra sciamani della Chakassia - repubblica della Federazione Russa in Siberia - mentre invocano gli "spiriti della terra", chiedendo loro di proteggere i militari impegnati nell'"operazione speciale" in Ucraina.
Il rito, che si è svolto sulle montagne del Saksary, viene spiegato dal tg in maniera dettagliata: uno sciamano, Valery Nikolayevich, entra in azione "non appena gli ultimi raggi di sole sono scomparsi all'orizzonte". Durante l'operazione la "testa di un toro viene offerta agli spiriti". A quel punto - come riporta il Messaggero - lo sciamano dice: "C'è anche qualcos'altro nel fuoco, ma non dirò cosa perché è sacro". Il servizio, poi, sottolinea che il rito è stato compiuto seguendo tutte le regole più importanti al fine di evocare i "poteri superiori". Una sorta di certificato di garanzia, insomma.
Riti del genere, in ogni caso, sono piuttosto diffusi in Russia: non è la prima volta, infatti, che a Mosca la guerra in Ucraina viene raccontata come se fosse qualcosa di sacro. Basti pensare che sempre su Channel One a un mese dall'inizio del conflitto, il magnate ortodosso Konstantin Malofeyev disse che l'operazione militare speciale è una "guerra santa" e che le forze russe hanno a che fare addirittura con "satanisti" e "pagani". Una teoria che va oltre ogni immaginazione.
"Testa di toro offerta agli spiriti". Sulla tv russa il rito sciamanico pro-Putin. Marco Leardi il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.
In Siberia eseguito un rito sciamanico per invocare le "forze superiori" a sostegno dell'esercito di Putin impegnato in Ucraina. Sulla tv russa le immagini dello stregone all'opera.
Una testa di toro offerta agli spiriti soprannaturali. Sacrificata per chiedere alle potenze occulte di sostenere la battaglia dello Zar. Al tramontare del sole, mentre le tenebre pendevano il sopravvento, uno sciamano ha iniziato a preparare il rito esoterico. Nessuna messa in scena, nessuna finzione: davanti alle telecamere, lo stregone pro-Putin si è pure mostrato all'opera. Sulla tv russa, la realtà ha superato la fantasia e così, durante un notiziario dell'emittente statale, sono state trasmesse le immagini di un rituale eseguito per "proteggere coloro che stanno prendendo parte all'operazione speciale in Ucraina".
Con tono serio, l'annunciatrice ha comunicato al pubblico il compimento del rito da parte degli sciamani della Chakassia, regione russa situata nella Siberia occidentale. La cerimonia, seguita e documentata da un'inviata dell'emittente Russia1, aveva come scopo proprio quello di convogliare le forze dell'aldilà sugli uomini di Putin impegnati a combattere contro Kiev. Gli sciamani - ha spiegato l'anchorwoman - "hanno chiesto agli spiriti della terra di supportare i nostri combattenti". Perché ogni arma utile a sconfiggere il nemico deve essere utilizzata; anche quella esoterica.
Nel servizio realizzato sulle montagne della Siberia, le immagini hanno seguito le fasi di preparazione della cerimonia sciamanica. "Appena i raggi del sole sono scomparsi sotto l'orizzonte, Valery Nikolayevich ha iniziato a fare gli ultimi preparativi", ha raccontato l'inviata, rivelando l'identità di quell'individuo barbuto ripreso mentre componendo una catasta di legna. "A prima vista, è un normale locale, ma in realtà è un capo sciamano". L'uomo, ha aggiunto la giornalista russa, ha coinvolto e convocato alcuni colleghi stregoni per invocare i "poteri superiori".
Nella surreale cronaca, mentre scorrevano le immagini realizzate all'imbrunire, è stato spiegato al pubblico che il rito avrebbe previsto il sacrificio di una testa di toro offerta agli spiriti. "Il rituale è stato compiuto seguendo tutti i canoni", ha aggiunto la cronista russa. Poi la parola è passata allo sciamano in persona. "C'è anche qualcos'altro dentro la catasta, ma non dirò cosa", ha aggiunto l'uomo, mantenendo la segretezza sui dettagli del rito occulto. La notizia di per sé non stupisce: già in passato avevamo registrato, proprio su queste pagine, l'avvenuto raduno di alcune streghe pro-Putin, ritrovatesi per "dare forza e potere alla Russia" attraverso le loro invocazioni.
La guerra "occulta" della Russia, tra superstizioni e riti, non si è mai interrotta. Nemmeno mentre Mosca accusava gli ucraini di ricorrere a riti esoterici definiti come satanici.
Registrata ufficialmente la chiesa di Satana Nella provincia ucraina di Cerkassy è stata ufficialmente registrata, come comunità religiosa, l'associazione dei credenti nel diavolo. Da rainews.it il 29 agosto 2014. La comunità si chiama “Bozhici” (Satanisti). Il leader degli idolatri del diavolo si chiama Serghei Neboga (Non-Dio). È la prima e, per il momento, l’unica comunità dei satanisti in tutta l’area post-sovietica che legalmente, in conformità con la Costituzione dell’Ucraina, professano la venerazione del diavolo. Sul sito ufficiale è stato comunicato che la notte di Valpurga, tra il 30 aprile e il 1 maggio scorso, è stata posta la prima pietra come fondamenta del Tempio di forze oscure a ridosso del Bosco Nero, luogo malfamato secondo la superstizione locale. Il Bosco Nero a volte viene chiamato Bosco del Diavolo. Il libro di culto è stato scritto dallo stesso Neboga e s’intitola “Prassi segreta della magia nera dei popoli slavi”. Secondo l’affermazione del fondatore della chiesa del Satana la sua comunità “è un’associazione degli stregoni e delle streghe che praticano l'idolatria del diavolo”. Neboga fa anche servizi a pagamento: diagnostica problemi e l’impatto delle forze oscure. Per risolvere “il problema” chiede la modica somma di 100 dollari. La garanzia della diagnostica corretta è del 99%. Tra i riti offerti agli adepti ci sono messe nere, nozze nere e perfino la cancellazione del battesimo. Secondo l’autorevole studioso e ricercatore ucraino Vladimir Rogatin, membro della Federation europeenne des centres de recherche et d’information sur le sectarisme (FECRIS), in Ucraina ultimamente “è stato rilevata la crescita dell’influenza e della presenza di diverse sette sataniche, oltre 100 comunità sataniche con oltre 2 mila adepti”.
Vladmir Putin e le messe nere, il rituale per vincere la guerra: Cremlino, indiscrezioni inquietanti. Maurizio Stefanini Libero Quotidiano il 31 marzo 2022.
Streghe, sciamani, cosmisti, neopagani, adoratori, patriarchi e soprattutto misteri attorno a Putin. E misteri attorno al ministro della Difesa, il generale Sergei Shoigu. Che fine ha fatto, e se sia vero il video in cui è riapparso in pubblico dopo che non si vedeva dall'11 marzo, è il mistero più recente. Ma non l'unico, e neanche il più inquietante. Come indicano i suoi tratti asiatici, Shoigu è di Tuva: una repubblica della Federazione Russa, al confine tra Siberia e Mongolia, che fino al 1757 fu sotto alla Cina, e tra il 1921 e il 1944 fu indipendente. La lingua locale è di tipo turco, il 60% della popolazione è buddhista fedele al Dalai Lama, un altro 8% pratica forme di paganesimo sciamanico, e le due cose si mescolano spesso. Di Shoigu si diceva che fosse non solo un buddhista o uno sciamanista, ma addirittura uno sciamano e che la sua carriera fosse stata agevolata dalla capacità di propiziare a Putin forze spirituali positive. Ad esempio, si fantasticava, sacrificando lupi neri.
STRANE RIVELAZIONI
Nel 2008 lui smentì, spiegando che era stato battezzato nella fede ortodossa a 5 anni dalla mamma, che era di origine una contadina ucraina. Ma le voci sono state ricicciate a inizio del mese, attraverso una intervista al quotidiano Daily Mail di Valery Solovey, politologo ed ex professore all'Istituto di Stato di Mosca per le Relazioni Internazionali. Secondo queste rivelazioni, proprio prevedendo una possibile guerra nucleare il presidente russo avrebbe nascosto la famiglia e le persone a lui più vicine in una piccola città sotterranea super hi-tech sulle montagne dell'Altai, al confine con Mongolia, Cina e Kazakistan. E di Solovey è stato ricordato come aveva tirato fuori la storia dei riti sciamanici, venendo per ciò interrogato dalla polizia. Storie non controllate e non controllabili. Ma è vero, e pubblico, che a Mosca il 12 marzo si è riunito un Consiglio Generale delle Grandi Streghe di Russia, appunto per appoggiare lo sforzo bellico. «Chi sente, ma non sente, chi vede, ma non vede, chi c'è, c'era e ci sarà, non dimenticherà la mia parola: solleva la forza della Russia, dirigi il nostro presidente Putin sulla via della giustizia» è stato la "formula" recitata dalla Strega in capo Aljona Polin, di fronte a un centinaio di donne dedite alle arti magiche, vestite con saio e cappuccio decorato da immagini di uccelli rapaci, in una sala al cui centro c'era uno scialle con sopra un ritratto di Putin e accanto a una candela accesa.
SAN PAOLO REINCARNATO
Le streghe son tornate, si potrebbe commentare. «Abbiamo bisogno di ogni aiuto», diceva Tony Curtis in Operazione Sottoveste, nel portare anche uno sciamano filippino oltre ai pezzi di ricambio per permettere al sommergibile di tornare in mare. Anche Putin non disdegna di affiancare agli anatemi del patriarca Kirill quelli delle fattucchiere. Dmitry Utkin, il capo di quel Gruppo Wagner cui sono state subappaltate dal Cremlino operazioni militari in mezzo mondo, è un noto cultore del neo-paganesimo slavo, oltre che di militaria e simbologie naziste. A Bolshaya Yelnya, nella regione di Nizhny Novgorod, c'è una comunità di donne guidata dalla guru Svetlana Frolova che, con il nome d'arte di Maria Photina, predica l'adorazione di Putin come divinità. Vestite in tunica e sandali, il capo coperto da un velo nero, grigio e marrone, sono convinte che il presidente sia la reincarnazione di San Paolo e pregano icone che lo ritraggono. E ogni anno il 9 maggio nella commemorazione della vittoria sulla Germania nazista sfila un Reggimento Immortale che si ispira al cosmismo: idea del filosofo russo Nikolaj Fëdorov (1829-1903) secondo cui la scienza avrebbe dovuto resuscitare gli antenati, per poi colonizzare l'Universo al fine di trovare i pianeti dove far abitare la massa di umanità risorta. Putin ha riconosciuto la loro associazione, e dal 2008 ha anche istituito una licenza formale per streghe e stregoni. L'importante è che le forze spirituali siano usate a favore del regime. Nel 2019 Alexander Gabyshev, per sua autodefinizione "sciamano guerriero", si era messo in marcia verso Mosca dalla natia Sakha: altra repubblica della Federazione Russa in Siberia e con etnia locale turca, più nota ai giocatori di Risiko come Jacuzia. «Mi ha detto Dio di cacciare Putin e le parole di Dio non si mettono in discussione: Putin non è un uomo ma un demone, la Bestia», aveva spiegato. Lui lo hanno messo in manicomio.
Franca Giansoldati per “Il Messaggero” il 19 marzo 2022.
Dopo gli esorcismi fatti da un gruppo di sacerdoti in Ucraina nel tentativo di liberare dal Male il presidente russo Vladimir Putin, adesso arriva anche l'anatema da parte di uno dei più noti teologi: il vescovo di Chieti, monsignor Bruno Forte. Commentando la scelta di Putin di citare nel discorso alla nazione fatto allo stadio di Mosca un passo del Vangelo di Giovanni («Non c'è' amore più' grande di dare la propria vita per i propri amici») a giustificazione della guerra in corso, Forte ha spiegato che si tratta «di un atto sacrilego», una «bestemmia». Una terribile offesa a Dio.
Per l'arcivescovo «il presidente russo è evidente che non riesce più' a trovare argomenti per giustificare questa follia, una aggressione ingiustificata e totalmente immorale». Poi riferisce - in una intervista all'Ansa - di una evidente strumentalizzazione del Vangelo finalizzata ad una auto-giustificazione. Le vittime innocenti che stanno morendo per colpa di questa aggressione non possono essere giustificate con parole evangeliche che dicono l'opposto, l'amore per gli altri e l'amore perfino per i nemici».
Un’altra condanna arriva da padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica e spin doctor di Papa Francesco: «La politica non deve usurpare il linguaggio di Gesù' per giustificare l'odio. La retorica religiosa del potere e della violenza è blasfema». Proprio oggi Papa Francesco ha confermato di avere invitato tutti i vescovi del mondo a unirsi nella preghiera per la pace e la consacrazione della Russia e dell'Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, secondo la profezia della Madonna di Fatima. La celebrazione è prevista per le ore 17 di venerdì 25 marzo, Festa dell'Annunciazione, nella Basilica di San Pietro. Lo stesso atto, lo stesso giorno, sarà compiuto da tutti i vescovi del mondo e dal cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, al santuario portoghese di Fatima come inviato del Papa.
La guerra resta un terreno complicato per il Vaticano. Il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha raccontato a Vida Nueva, il settimanale spagnolo, di essere rimasto di stucco davanti a questa escalation visto che aveva avuto rassicurazioni di altro genere da parte delle autorità russe. «Ho vissuto l'inizio della guerra in Ucraina con una certa sorpresa e, allo stesso tempo, con profonda tristezza. Ero a conoscenza delle richieste della Federazione Russa in merito alla sicurezza della regione, ma speravo che rispettassero le promesse, ripetute più volte, anche dai più alti livelli, che non avrebbero invaso l'Ucraina.
Speravo anche che gli intensi contatti diplomatici che vari leader occidentali avevano mantenuto fino a quel momento con il Cremlino potessero produrre un risultato positivo. Allo stesso modo, confidavo nelle dichiarazioni della parte russa secondo cui intendeva non agire in contrasto con le disposizioni degli accordi di Minsk. Successivamente ho pensato che l'invio di truppe russe sarebbe stato limitato ai territori sotto il controllo dei separatisti nel Donbass, e non oltre. In conclusione sì, temevo che la situazione potesse peggiorare, ma non mi aspettavo che raggiungesse le proporzioni attuali. La speranza e il desiderio che ciò che stiamo vivendo oggi non si realizzasse era decisamente più grande di ogni altra paura».
Di fronte ad una aggressione di questo genere, aggiunge il cardinale, vi è sempre «il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese». Giustifica moralmente gli aiuti che gli altri paesi europei stanno inviando a Kyev contro l'invasione russa? «L'uso delle armi – ha risposto - non è mai qualcosa di desiderabile, perché comporta sempre un rischio molto alto di togliere la vita alle persone o causare lesioni gravi e terribili danni materiali.
Tuttavia - prosegue - il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi. Allo stesso tempo - afferma ancora Parolin - entrambe le parti devono astenersi dall'uso di armi proibite e rispettare pienamente il diritto umanitario internazionale per proteggere i civili e le persone fuori dal combattimento. D'altra parte, sebbene gli aiuti militari all'Ucraina possano essere comprensibili, la ricerca di una soluzione negoziata».
Marco Imarisio per “il Corriere della Sera” il 5 maggio 2022.
«Colloquiare con Kirill è più noioso che guardare il golf alla televisione». E se lo dice lui, forse c'è del vero. Andrej Kuraev, protodiacono della Chiesa ortodossa, sessantenne professore di teologia e filosofia, è stato a lungo il principale collaboratore del patriarca, l'uomo che ha costruito le fondamenta della sua dottrina. Fino al 24 febbraio.
Quel giorno, una delle figure religiose più amate e rispettate di Russia, divenne un paria per la sua stessa comunità ecclesiastica. Perché si schierò in modo netto contro la cosiddetta Operazione militare speciale, con parole che segnavano una scelta di campo. Era già passato all'opposizione, ma quello fu il suo passo d'addio, imposto dall'alto.
Le similitudini tra la massima autorità temporale russa e quella politica passano anche per i metodi. Il giorno dopo, Kirill dichiarò aperto il processo di privazione di ogni grado ecclesiastico.
Kuraev è tornato a farsi sentire ieri. Con toni per nulla sfumati, anzi. «Papa Francesco ha espresso concetti molto profondi durante l'intervista con il Corriere della Sera. E tentò di farlo anche durante il colloquio con il patriarca, durante il quale Kirill si limitò a tenere la solita lezione di propaganda politica. Per questo è noioso colloquiare con lui.
Non ascolta».
L'uomo a cui guarda quella parte non piccola di monaci che vivono con disagio le dichiarazioni da comandante in capo del patriarca, giudica non casuale il fatto che il Papa abbia parlato il giorno dopo una predica alla cattedrale dell'Annunciazione di Mosca, dove Kirill ha sostenuto che la Russia non ha attaccato nessuno e non vuole combattere nessuno. «Sembra uno scherzo del Signore» dice Kuraev.
«Egli ha letteralmente messo uno specchio di fronte ai nostri slavofili convinti che i cattolici abbiano il "culto della personalità" e che tutto da quelle parti si incentra sul potere e sul denaro. Adesso, con un Pontefice che in umiltà si propone per venire a Mosca nel nome della pace, capiscono che contrasto di personalità esista tra i due. E poi, la sua frase sul chierichetto è la più pungente. Pronunciandola pubblicamente, il Papa sta dicendo di escludere Kirill dal novero dei suoi possibili interlocutori».
C'è una reazione importante anche dal fronte laico. Novaya Gazeta, il giornale diretto dal premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, costretto a sospendere le pubblicazioni dopo l'approvazione della nuova legge sulla censura, ma ancora attivo sul web, ha pubblicato ieri sera un editoriale firmato da Aleksej Malyutin, il suo esperto di religioni. «Tra Francesco e Kirill andò in scena un conflitto sui valori. Uno voleva la pace, l'altro parlava del tempo di volo dei missili lanciati sull'Ucraina. I particolari di quel mancato dialogo stupiscono persino chi è abituato alla consueta retorica militarista del capo della Chiesa ortodossa».
Ma la delicatezza di una eventuale visita di Francesco a Mosca appare ancora più evidente dalle reazioni al suo annuncio. L'Unione dei cittadini ortodossi e l'Associazione degli esperti ortodossi, due organizzazioni di destra radicale della Chiesa che fino al 24 febbraio erano considerate marginali ma che ora sostengono con foga le tesi del Cremlino e di Kirill, hanno promesso al papa «una accoglienza dura».
Invece il capo dell'Unione mondiale dei vecchi credenti Leonid Sevastianov ha giudicato «necessario» il suo viaggio. «Sappia Francesco che qui troverà molti più amici di quanto possa immaginare». Non esiste una sola Chiesa. Neppure in Russia.
R. Cas. per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.
Sergej Chapnin è sempre stato un precursore. Nel 2015, in un saggio profetico, stigmatizzò la nostalgia per il "Paese forte" della Chiesa Russa Ortodossa, o "Chiesa dell'impero" come la chiamò. Parole che gli costarono il licenziamento dopo sei anni alla guida del Giornale del Patriarcato di Mosca. E lo scorso marzo è stato tra i primi a invocare le sanzioni contro il patriarca Kirill. «È responsabile. Ha fornito la base ideologica e la giustificazione morale dell'operazione militare russa in Ucraina», dice da New York dove oggi è senior fellow presso il Centro di Studi Cristiano Ortodossi della Fordham University.
Conosce il patriarca sin dagli Anni '90. È giusto sanzionarlo?
«Conoscevo "Kirill il metropolita", persona affabile. "Kirill il patriarca" è un'altra persona. Pensa solo a soldi e potere. Le sanzioni aiuteranno a individuare i suoi fondi nascosti. Sono soldi rubati alla Chiesa».
Nel saggio che le costò il lavoro parlava di "nuova religiosità ibrida". Che cosa intendeva?
«Con Alessio II, c'è stata una rinascita della Chiesa puramente formale fatta di rituali e retorica, ma non di fede. Una rinascita culminata in una sorta d'ideologia geopolitica: l'ambizione neo-imperiale che Vladimir Putin e il patriarca Kirill condividono».
Si riferisce al concetto di "Russkij Mir", Mondo Russo?
«È uno dei loro concetti chiave. L'idea è che Russia, Bielorussia e Ucraina facciano parte di una sorta di trinità spirituale. Non puoi separarle. Perciò quando Kiev ha chiesto di aderire a Ue e Nato, per Putin non è stato solo un tradimento politico, ma una catastrofe spirituale».
Che ruolo ha quella che ha chiamato "Chiesa dell'Impero"?
«Nell'ideologia di Putin gli imperi russi sono tre: l'impero dei Romanov, l'impero di Stalin e l'impero di Putin stesso. Nel mezzo ci sono stati dei traditori: Lenin, Gorbaciov ed Eltsin. Quando vent' anni fa la Chiesa Russa Ortodossa ha canonizzato l'ultimo zar, Nicola I, con lui ha canonizzato tutto l'impero dei Romanov. Putin ha poi riabilitato Stalin come colui che vinse il nazismo. E ora spetta alla Chiesa costruire la figura imperiale di Putin come difensore della fede cristiana nel mondo».
Chi guadagna di più dall'altro in questa partnership? Kirill o Putin?
«Per Putin, Kirill è il leader della "corporazione" religiosa della Federazione. Alla pari dei leader delle altre corporazioni: energia atomica, petrolio, etc. È Kirill ad avere più bisogno di Putin: tutti i suoi soldi, potere e influenza sono fondati su questa partnership con lo Stato».
C'è dissenso nel clero?
«È difficile decifrarne gli umori. La maggioranza sta in silenzio, perché in Russia è impossibile parlare pubblicamente».
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 5 maggio 2022.
L'8 marzo, durante le celebrazioni della Domenica del perdono nella cattedrale di Mosca, il patriarca Kirill aveva spiegato quali erano le vere ragioni della guerra di Vladimir Putin. Prima di Lavrov, prima e meglio del propagandista in capo Solovyov. Disse in sostanza Kirill: è una guerra santa contro l'Occidente corrotto e omosessuale. «La guerra è in corso perché la gente non vuole le parate gay nel Donbass. Oggi esiste un test, una specie di passaggio per entrare in quel mondo "felice", il mondo del consumo eccessivo, della "libertà" visibile. Sapete cos' è questo test? È molto semplice e allo stesso tempo terribile: una parata gay».
Secondo Kirill l'Occidente organizzava il genocidio dei popoli che si rifiutano di organizzare parate gay. L'Unione europea ha deciso infine di trattarlo come uno dei capi della propaganda guerrafondaia putiniana, «da lui minacce all'integrità dell'Ucraina», c'è scritto nella bozza delle sanzioni, e dunque la Commissione ha proposto formalmente il congelamento dei beni e il divieto di viaggio: una lista nera che comprende ufficiali militari (a partire dai responsabili dei crimini di Bucha) e uomini d'affari vicini al Cremlino.
Ma che asset potrà mai avere, il pio religioso, che spedì aiuti e mascherine per il Covid alla Puglia (il governatore Emiliano lo ringraziò con un video solenne, «un grande uomo e grande amico del popolo pugliese»), l'uomo che, nel 2012, benedì il terzo mandato di Putin, gridandogli in chiesa «hai svolto personalmente un ruolo enorme nel correggere la curvatura della nostra storia, Vladimir Vladimirovich!»?
In realtà, mentre combatteva l'Occidente corrotto e l'ossessione del consumo, Kirill consumava, a sua volta. E non poco. La Chiesa ortodossa russa ha definito «un'assurdità» le voci di ville sul Mar Nero e yacht, conti in Svizzera e orologi da decine di migliaia di euro (ma con un Breguet da 30 mila dollari è stato fotografato dieci giorni fa). Eppure, inchieste giornalistiche indipendenti russe dicono il contrario.
Novaya Gazeta scrisse (senza mai arretrare) che Kirill era intestatario di conti correnti che da un minimo di 4 miliardi di dollari potevano arrivare a otto: in Svizzera, Austria e Italia. Novaya scrisse che la cifra esatta era difficile da quantificare perché «il patriarca ha preferito mantenere i suoi risparmi in banche svizzere, da dove solo negli ultimi anni sono stati parzialmente trasferiti in Austria e in Italia (probabilmente sotto le garanzie del Vaticano)».
Nel libro «Russia' s Dead End», Andrei Kovalev, ex membro dello staff di Gorbachev, scrisse - sulla base di documenti che fu possibile consultare solo per breve periodo, alla fine dell'Unione sovietica - che Vladimir Mihailovic Gundyaev (questo il vero nome di Kirill) aveva un passato di più che probabile agente del Kgb, l'agente "Mihailov". Ovviamente il patrirca lo nega. Certo è invece che i monaci ortodossi in teoria fanno voto di non possesso quando vengono ordinati, ma ciò non sembra aver fermato l'accumulo di Kirill. Secondo un'inchiesta di "Proekt", il patriarca possiederebbe, lui e due dei suoi cugini di secondo grado, immobili per 2,87 milioni di dollari a Mosca e Pietroburgo.
Una sua seconda cugina di 73 anni, Lidia Leonova, possiede a Mosca una casa di circa 600mila dollari su Gagarinsky Pereulok, più una di 533mila dollari a Pietroburgo sul Kryukov Canal. L'appartamento sul canale è una storia nella storia interessante, le fu donato nel 2001 da un uomo d'affari, Alexander Dmitrievich, grande amico di Kirill, pochi mesi dopo che il sindaco di Mosca aveva ritirato le pretese del Comune in un contenzioso contro quello che, secondo "Proekt", era un presunto partner commerciale di Dmitrievich, un italiano di nome Nicola Savoretti (uno dei non pochi contatti italiani del religioso).
Savoretti replicò che Kirill non si era adoperato per la risoluzione di quella vicenda, e di non avere progetti in comune con Dmitrievich. Molte carte in possesso di collettivi di coraggiosi giornalisti russi hanno poi consentito di ricostruire che Kirill avrebbe una residenza sul Mar Nero vicino a Gelendzhik, la cui costruzione è stata stimata in un miliardo di dollari, che appartiene formalmente alla Chiesa ortodossa russa ma dove non è permesso libero accesso nemmeno ai vescovi, rilevò Novaya Gazeta.
La residenza di Gelendzhik, casualmente, è non lontano dal celebre "Palazzo di Putin", raccontato nei dettagli dall'inchiesta di Alexey Navalny. Kirill possiederebbe poi uno chalet vicino a Zurigo, più azioni in una serie di oggetti immobiliari tra Mosca, Smolensk e Kaliningrad, senza contare venti residenze formalmente appartenenti a varie organizzazioni religiose centralizzate e locali della Chiesa ortodossa russa.
Gli asset in Russia saranno difficili da toccare, ma i conti correnti si trovano in Europa e in Svizzera, e potrebbero essere abbastanza facilmente attaccati. Kirill definì la presidenza Putin «un miracolo di Dio». Miracolo dorato, naturalmente, come le icone ortodosse di Andrej Rublëv.
Guerra Santa Ue a Kirill. Il patriarca-miliardario: "Non temo Bruxelles. E il Papa sbaglia i toni". Serena Sartini il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'ipotesi di sanzioni anche al capo della Chiesa russa: "È responsabile delle minacce all'integrità ucraina". La replica: "Impossibile intimidirci". Poi la risposta al Pontefice: "Incontro travisato, così dialogo difficile".
È in totale contrapposizione con Papa Francesco. Ha da sempre sostenuto la guerra, definendola «giusta» e appoggiato il fedelissimo amico Vladimir Putin. Nel mirino dell'Unione europea, dopo oltre due mesi di guerra in Ucraina, è finito anche il Patriarca ortodosso di Mosca e di tutte le Russie, Kirill. L'Europa unita ha infatti deciso di colpire anche il capo della chiesa ortodossa perché «ritenuto responsabile del sostegno o dell'attuazione di azioni o politiche che minano o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina», recita il testo del sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia.
Un patrimonio di quattro miliardi di dollari, ville sul Mar Nero, yacht e conti bancari in Svizzera. Secondo le accuse dell'opposizione, impossibili da verificare, il numero uno del patriarcato di Mosca sarebbe da considerare un oligarca, a tutti gli effetti da inserire nella lista nera delle persone che l'Ue vuole sanzionare con conseguente divieto di ingresso nell'Ue e congelamento dei beni. La Chiesa ortodossa russa replica esprimendo «scetticismo» e rispedendo le accuse al mittente. «Vorrei ricordare agli autori delle iniziative sanzionatorie che il Patriarca proviene da una famiglia i cui membri sono stati oggetto di repressione per decenni a causa della loro fede, durante il periodo dell'ateismo militante comunista», ha precisato il portavoce della Chiesa ortodossa russa, Vladimir Legoyda. «Nessuno di loro ha avuto paura di reclusione o rappresaglie - ha ricordato -, quindi bisogna essere completamente estranei alla storia della nostra Chiesa per intimidire il suo clero e i suoi credenti, inserendoli in liste nere. Più le sanzioni diventano indiscriminate, più mancano di buon senso, più lontano diventa il raggiungimento della pace, per la quale la Chiesa ortodossa russa prega con la benedizione di Sua Santità il Patriarca a ogni liturgia».
Eppure le parole di Kirill non sembrano affatto indirizzate alla pace. Tanto che il Patriarca continua a non definire l'attacco russo in Ucraina come «guerra». «La Russia non ha mai attaccato nessuno nella sua storia, ha solo protetto i suoi confini», ha detto in un sermone nella Cattedrale dell'Arcangelo al Cremlino. «Noi non vogliamo combattere nessuno. La Russia non ha mai attaccato nessuno. Sorprendentemente, un Paese grande e forte non ha mai attaccato nessuno, ha solo protetto i suoi confini. Dio conceda che il nostro Paese rimanga forte, potente e amato da Dio fino alla fine dei tempi». Kirill non teme affatto le sanzioni dell'Unione europea che potrebbero essere approvate nelle prossime ore. «Il possibile inserimento del patriarca Kirill nella lista delle sanzioni dell'Ue non ha nulla a che fare con il buon senso, la chiesa non si spaventerà di essere inclusa in alcune lista», ha aggiunto il portavoce della chiesa ortodossa.
Il Patriarcato di Mosca è intervenuto duramente anche per ribattere alle parole di Papa Francesco che, in una intervista al Corriere della Sera, ha definito Kirill un «chierichetto di Putin». «È deplorevole - ha sottolineato il Patriarcato - che un mese e mezzo dopo il colloquio con il Patriarca Kirill, Papa Francesco abbia scelto il tono sbagliato per trasmettere il contenuto di questo colloquio. È improbabile che tali dichiarazioni possano contribuire all'instaurazione di un dialogo costruttivo tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa russa, che è particolarmente necessario in questo momento».
Kirill, al secolo Vladimir Michajlovic Gundjaev, è nato a Leningrado (l'attuale San Pietroburgo) il 20 novembre 1946. Eletto il 27 gennaio 2009 con 508 voti su 702, Kirill guida 165 milioni di fedeli sparsi per il mondo. Si vocifera che abbia conosciuto Putin quando entrambi erano agenti del Kgb. Con il capo del Cremlino, è legato da una lunga amicizia, consolidata anche dalla sua inclinazione al lusso. Tra gli hobby del Patriarca, infatti, figurano lo sci alpino, l'allevamento dei cani di razza, lo sci acquatico e gli orologi di pregio, come il Brequet da 30mila dollari esibito dieci anni fa durante un incontro ufficiale e poi «cancellato» con Photoshop dopo le proteste dei fedeli. Kirill ha sempre negato l'esistenza di enormi ricchezze, ma secondo le stime della rivista indipendente russa Novaya Gazeta, il Patriarca avrebbe dai 4 agli 8 miliardi di dollari.
La fede in guerra. Nel suo delirio bellicista, il patriarca Kirill è sempre più isolato. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 28 Aprile 2022.
Il capo della chiesa ortodossa russa è ormai oggetto di disprezzo e di derisione di gran parte del suo clero. Per migliorare la reputazione, ha perfino fatto passare una formale lettera di auguri di Papa Francesco come segno di dialogo e vicinanza da parte di Roma.
Per alcuni sarebbe un’ennesima riprova d’ininterrotto dialogo della Chiesa di Roma col patriarcato di Mosca, e di rapporti null’affatto incrinati tra le due Santità, che pur si sarebbero dovute riabbracciare in giugno a Gerusalemme – il rinvio sine die del secondo incontro, dopo quello del 2016 in una sala dell’aeroporto di L’Avana, avrebbe infatti rischiato di generare «molta confusione», come ha detto Papa Francesco sollecito nel trasmettere a Kirill una breve lettera di auguri in occasione della Pasqua che le Chiese ortodosse hanno celebrato il 24 aprile secondo il computo del Calendario giuliano. Una lettura, questa, che già si dava due giorni fa, sia pur con ulteriori e diversificate considerazioni di merito, col diffondersi della notizia della missiva papale.
Eppure, il fatto che a pubblicarne domenica il testo fosse stata per prima Mosca, e solo l’indomani Oltretevere con ampi passaggi della stessa, avrebbe dovuto indurre a maggiore cautela valutativa e a un ridimensionamento della portata di tali auguri. Auguri che, come da prassi oramai consolidata, sono rivolti annualmente in occasione della Pasqua a ogni patriarca, cui sono stati espressi, anche questa volta, con parole uguali per tutti. Insomma, nessuna novità né tantomeno unicità nella lettera a Kirill, a eccezione della più ampia riformulazione del quarto capoverso riguardante l’offensiva russa in Ucraina, che così suona: «Possa lo Spirito Santo trasformare i nostri cuori e renderci veri operatori di pace, specialmente per l’Ucraina dilaniata dalla guerra, affinché il grande passaggio pasquale dalla morte alla nuova vita in Cristo diventi quanto prima una realtà per il popolo ucraino, che anela a una nuova alba che porrà fine all’oscurità della guerra».
Parole inequivocabili quelle di Francesco, che sono scivolate addosso a Kirill, intento piuttosto – o chi per lui dal suo entourage – a surrettiziamente presentarsi quale interlocutore privilegiato del vescovo di Roma e degno di un credito che non ha mai pienamente avuto presso i suoi omologhi e che ha pressoché perso del tutto con il servile sostegno all’”operazione speciale” della Federazione Russa in Ucraina. D’altra parte, nessuno degli altri patriarchi s’è sognato di dar notizia e, meno che mai, far pubblicare il benaugurante scritto bergogliano, per giunta considerato di routine.
Un’operazione, dunque, autopromozionale e nulla più da parte di Kirill, che già lunedì ha fatto carta straccia dell’appello di Francesco con l’omelia pronunciata nella cattedrale della Dormizione: una vera e propria laus belli fondata sulla solita tesi della “Santa Russia”, che il patriarca moscovita aveva ancora una volta esplicitato, il 27 febbraio scorso, nei termini di unica terra composta da Bielorussia, Russia e Ucraina. A essere questa volta svolta scomodato Ivan III, che «dopo aver fatto molto per unire tutte le terre intorno a Mosca, decise che Mosca doveva diventare la capitale del grande stato» e pose fine a «l’invasione degli stranieri, il conflitto civile, la confusione dei pensieri, la perdita dell’identità nazionale». Da qui il parallelismo coi presenti tempi, nei quali «noi, come popolo, ci troviamo di fronte a molti problemi associati all’aggravarsi della situazione intorno al nostro Paese». Necessario, dunque, chiedere al Signore non solo «di preservare la pace». Ma anche «di rafforzare la nostra Patria e di unire tutta la Russia. Una tale preghiera dovrebbe soprattutto risuonare in queste mura storiche. Siamo nel tempio, che è un santuario nazionale e allo stesso tempo un tempio commemorativo, creato come segno dell’unificazione di tutte le terre russe».
In un crescendo di toni, caratterizzato dall’impiego di tutto l’armamentario lessicale bellicistico e dalla legittimazione del trionfo militare, che non è solo «fisico» e non è «solo vittoria dell’arma con cui il soldato affronta il nemico. Ma è sempre una vittoria dello spirito», si tocca poi il trito argomento dei «nuovi pseudovalori. Ma dobbiamo preservare la nostra, se volete, vocazione speciale: preservare la fede ortodossa, preservare l’unità del nostro popolo, non soccombere a nessuna tentazione e promessa».
Poi il passaggio più sconcertante: «I nostri devoti eroici antenati, compresi coloro che costruirono questa cattedrale, avevano ben capito tutto ciò. E, quindi, le cattedrali furono edificate come fortezze, perché si rendevano conto che, a un certo punto, ci si sarebbe dovuti difendere dietro le loro mura. Cosa, questa, che è accaduta più volte nella storia della nostra Patria. Basti ricordare l’eroica difesa di Smolensk, quando il nemico passò attraverso le mura di cinta e rimase solo la cattedrale come ultima roccaforte e rifugio per i difensori della città. E non volevano cedere la cattedrale: il tempio fu fatto saltare in aria e sepolto sotto gli archi dei suoi difensori, che rimasero imbattuti. Che tutti questi meravigliosi esempi eroici ci ispirino oggi a difendere la Patria, a difendere la nostra vera indipendenza dai potenti centri di potere che esistono attualmente sulla terra. Che il Signore ci custodisca nella vera libertà». Quel Signore, che invocato subito dopo perché «custodisca il nostro esercito, le nostre autorità e tutti coloro da cui oggi dipende soprattutto la difesa della nostra Patria», è nuovamente protagonista nella conclusione del sermone. Non già tuttavia come Dio della pace o amorevole Padre comune, i cui figli in Ucraina patiscono morte, miseria, distruzione (a essi Kirill non riserva neppure una parola). Ma come il Signore e Padre del cielo, cui ci si rivolge perché «la sua misericordia […] si estenda sulla nostra terra, sulla nostra Patria, come si è estesa nella sua storia millenaria, soprattutto nei momenti più pericolosi e critici di essa. Possa il Signore custodire la nostra terra, il nostro popolo, la nostra Chiesa, le autorità e l’esercito per molti e buoni anni!».
Non meraviglia pertanto che il clero della Chiesa ortodossa russa mostri sempre più insofferenza per un patriarca che ha scambiato il messaggio evangelico con proclami bellicistici. E non è solo questione di metropoliti che non ne citano più il nome nelle divine liturgie o di aperte condanne della guerra fratricida, come quella avanzata agli inizi di marzo da 233 sacerdoti e diaconi. Ma di aperta ridicolizzazione e derisione di Sua Santità Kirill I, al punto che in ambiti seminariali s’è coniato il nuovo termine verbale cirillizzare (кириллить), per indicare un chiacchierio pio e allo stesso tempo del tutto irresponsabile, in cui il religioso e il politico sono strettamente intrecciati.
Secondo Sergej Chapnin «è esattamente ciò che vediamo nei sermoni del patriarca Kirill». Del quale il teologo, giornalista e scrittore moscovita ha una conoscenza diretta e difficilmente eguagliabile, essendo stato dal 2009 al 2015 direttore del Giornale del Patriarcato di Mosca (Журнала Московской Патриархии) nonché segretario della Commissione della Presenza interconciliare per i Rapporti tra Chiesa, Stato e Società. Incarichi che, alla pari di innumerevoli altri, erano stati concessi a Chapnin su disposizione di Kirill, estimatore delle sue competenze e capacitò. Salvo, però, a metterlo alla porta nel 2015 con l’intensificarsi di posizioni critiche sullo stato attuale della Chiesa ortodossa russa da parte del brillante e indipendente pensatore.
Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 28 aprile 2022.
No, Kirill non è Francesco. Non nel senso del romano Pontefice, papa Bergoglio. Ma nel senso del Santo poverello di Assisi. Il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, colui che nel 2012 ha definito Vladimir Putin “il miracolo di Dio”, che ha benedetto nella cattedrale di Cristo Salvatore i missili nucleari, e che ha dichiarato la guerra santa in Ucraina, è tutt’altro che un asceta, è anche lui un oligarca. Con un patrimonio stimato da oppositori in 4 miliardi di dollari.
Per questo i ministri degli Esteri della Ue stanno studiando sanzioni anche nei suoi confronti, come per gli altri oligarchi. Il 24 aprile il ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis ha pubblicamente chiesto restrizioni.
Pericolo tanto concreto che, su Interfax, la Chiesa ortodossa russa ha definito “un non senso” la proposta di Vilnius di chiedere sanzioni contro Kirill. “Un non senso imporre sanzioni su leader religiosi, è contrario al senso comune”. Con ciò stesso confermando, però, l’esistenza di un patrimonio personale di Kirill aggredibile all’estero. Il Patriarca ha sempre negato alla radice di essere ricco, parlando di “non sense”.
Certo sarebbe un non senso sanzionare il Santo poverello di Assisi, ma certamente non è questo il caso, visto che chi ha benedetto la guerra in Ucraina avrebbe, secondo un report del 2006 pubblicato da Forbes nel 2020 un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre un articolo di Novaya Gazeta (la rivista su cui scriveva la giornalista uccisa Anna Politkovskaja e diretta dal premio Nobel Dmitri Muratov, chiusa il 5 aprile scorso) stimava nel 2019 una ricchezza tra 4 e 8 miliardi di dollari. Cifre non verificate e comunque non verificabili. Il consistente patrimonio personale sarebbe frutto dalle esenzioni fiscali statali russe su una porzione consistente della manifattura di tabacco e di birra, almeno in passato.
Quando Forbes France gli ha posto domande sulla sua ricchezza il Patriarca Kirill ha risposto: "L'ascesi è soprattutto diretta alla lotta con le passioni. La passione è un problema in quanto può inghiottirci e renderci suoi schiavi. La sete inestinguibile di potere, di certe cose materiali o di denaro sono esempi distruttivi delle passioni di cui molte persone soffrono oggi".
Il capo religioso è quindi sospettato di possedere ricchezze personali, parte delle quali all’estero, anche in Svizzera e in paradisi offshore. Alcuni sospettano addirittura che il Patriarca sia perfino l'intestatario fittizio di beni di Putin, Lavrov e altri.
Secondo alcune fonti pubbliche (peraltro difficili da verificare, data la natura altamente confidenziale della clientela bancaria) Kirill avrebbe conti bancari anche in Italia, Austria e Spagna. A chiedere le sanzioni a suo carico è oggi su Repubblica l’esperta di diritti umani Hanna Hopko che ha definito il patriarca Kirill “in realtà uno dei politici di più alto rango della Russia di Putin”.
Indagini sono in corso in tutt’ Europa. A tutto ciò si aggiungono i beni in Russia: una villa vicina quella di Putin a Gelendzhik sul Mar nero e un superyatch su cui è stato fotografato in costume da bagno. La passione di Kirill per gli orologi di lusso ha dato luogo in passato a curiosi photoshop delle immagini del Patriarca, che hanno eliminato l’orologio al suo polso, ma non il suo riflesso. In ogni caso è molto interessante il sistema di finanziamento della Chiesa ortodossa russa grazie alle esenzioni fiscali sulla produzione di tabacco e di birra, che sarebbe alla base di tanta ricchezza.
La prima attività di import di sigarette e tabacco è valsa a Kirilli, il “Papa di Putin”, il nomignolo di “Tobacco Metropolitan”. Kirill sostiene di aver preso le distanze da questi affari. Ma secondo gli oppositori di Putin sono queste attivita economiche milionarie che hanno permesso a tutta la Chiesa ortodossa russa di prosperare, già a partire dai primi anni Novanta.
Uno di noi...Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 28 aprile 2022.
Avendo sentito dire da più parti che quello in corso era uno scontro di civiltà tra il bieco capitalismo occidentale e le nobili tradizioni di Santa Madre Russia, mi sono avvicinato alla biografia del patriarca con un misto di invidia e venerazione. Il particolare che in gioventù il papa di Putin fosse stato una spia del Kgb (proprio come Putin) rendeva ancora più affascinante la sua conversione spirituale: in fondo anche Fra Cristoforo aveva cominciato maluccio. Mi erano rimasti nella memoria i discorsi nei quali Kirill se la prendeva con il denaro, i vizi e il lusso ostentato. «I nuovi idoli creati dall’Occidente», li chiamava. Perciò potete immaginare quanto mi abbia stupito apprendere che quegli idoli nessuno li adora più di lui, che possiederebbe una villa in Svizzera e una sul Mar Nero accanto a quella del compare Putin, oltre a un patrimonio personale stimato dagli oppositori in 4 miliardi di dollari, ottenuto con generose percentuali sul commercio di alcol e tabacchi. Sulle prime ci sono rimasto un po’ male. È vero che in Italia abbiamo avuto i papi simoniaci del Rinascimento, però abbiamo avuto anche il Rinascimento, mentre il contributo del patriarca Kirill allo sviluppo delle arti si sarebbe finora limitato alla foto che lo ritrae su un megayacht in costume da bagno. Poi però mi sono detto: vuoi vedere che lavora ancora per i servizi segreti? Una spia infiltrata tra le storture del capitalismo perché in missione per conto di Io.
(ANSA il 14 aprile 2022) Sono giunti a circa 400 i sacerdoti della Chiesa ucraina sotto la giurisdizione del Patriarcato di Mosca che si appellano collettivamente al Consiglio dei Primati delle Chiese Antiche Orientali (la più alta corte dell'ortodossia mondiale) contro il patriarca di Mosca Kirill, citandolo in giudizio. Lo scrive Orthodox Times.
I 400 sacerdoti sostengono che Kirill predica la dottrina del "mondo russo", che si discosta dall'insegnamento ortodosso e andrebbe condannata come eresia. E addebitano a Kirill crimini morali nel benedire la guerra contro l'Ucraina e sostenere pienamente le azioni aggressive delle truppe russe sul suolo ucraino. Il clero spera che il Consiglio dei Primati consideri il loro appello e prenda la decisione giusta. "Stiamo assistendo alle brutali azioni dell'esercito russo contro il popolo ucraino, approvate dal patriarca Kirill. Come sacerdoti della Chiesa e come semplici cristiani, siamo sempre stati e saremo sempre con il nostro popolo, con coloro che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Sosteniamo pienamente le autorità statali ucraine e le forze armate ucraine nella loro lotta contro l'aggressore", affermano i sacerdoti nel loro appello. Ritengono inoltre che le attività del patriarca di Mosca rappresentino una minaccia per l'ortodossia ecumenica.
Gli autori del testo invitano il Consiglio a "esaminare le dichiarazioni pubbliche di Kirill sulla guerra contro l'Ucraina, a valutarle alla luce delle Sacre Scritture e della Sacra Tradizione della Chiesa", e di privare Kirill del diritto del trono patriarcale. "La tragedia che si sta svolgendo oggi in Ucraina è anche il risultato della politica perseguita dal patriarca Kirill durante il suo incarico di capo della Chiesa russa. Ovviamente, questa è già una sfida per l'intero mondo ortodosso", afferma padre Andriy Pinchuk, che ha caricato il testo dell'appello e i nomi dei suoi firmatari sul suo account Facebook personale. Allo stesso tempo, nel mondo ecumenico, si intensificano le pressioni sul Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) nei confronti del patriarca di Mosca, anche per espellere la Chiesa ortodossa russa dal Concilio. Il segretario generale del Cec, il rev. Ioan Sauca, della Chiesa rumena, ha però finora 'congelato' la proposta di espellere la Chiesa ortodossa russa, sostenendo che ciò si discosterebbe dalla missione storica del Cec di rafforzare il dialogo universale, rinviando tuttavia la competenza e la decisione al Comitato centrale in calendario a giugno.
Da ansa.it il 27 marzo 2022.
"C'è bisogno di ripudiare al guerra luogo di morte, dove i padri e le madri seppelliscono i figli, dove gli uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono". Lo ha detto il Papa all'Angelus tornando a pregare per la pace in Ucraina.
"E' passato più di un mese dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina, dall'inizio di questa guerra crudele e insensata che come ogni guerra rappresenta una sconfitta per tutti, per tutti noi", ha ricordato. Francesco ha parlato della "bestialità della guerra", "atto barbaro e sacrilego". "La guerra non può essere qualcosa di inevitabile", ha sottolineato il Pontefice.
"La guerra non devasta solo il presente ma anche l'avvenire di una società. Ho letto che dall'inizio dell'aggressione in Ucraina un bambino su due è stato sfollato dal Paese. Questo vuol dire distruggere il futuro, provocare traumi drammatici nei più piccoli innocenti". Lo ha detto il Papa all'Angelus.
"La guerra non può essere qualcosa di inevitabile. Non dobbiamo abituarci alla guerra, dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell'impegno di domani perché se da questa vicenda usciremo come prima saremo in qualche modo tutti colpevoli". Lo ha detto il Papa all'Angelus.
"Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l'umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell'uomo prima che sia lei a cancellare l'uomo dalla storia". "Prego per ogni responsabile politico - ha proseguito il Papa - di riflettere su questo, di impegnarsi su questo e, guardando alla martoriata Ucraina, di capire come ogni giorno di guerra peggiora la situazione per tutti". "Perciò - ha concluso - rinnovo il mio appello: basta, ci si fermi, tacciano le armi, si tratti seriamente per la pace".
Libero Quotidiano il 06 aprile 2022
Papa Francesco pronto a incontrare Kirill, il patriarca di tutte le Russie. Eppure i dubbi sulla posizione di Vladimir, nome laico dell'arcivescovo ortodosso, sono molti. Basta pensare che a inizio guerra in Ucraina Kirill si è detto favorevole, ricordando che "dobbiamo difenderci". Ma non è tutto. Figlio e nipote di preti, l'arcivescovo nato a Leningrado - la stessa città natale dell'amico Vladimir Putin - vanta un passato nel Kgb. Un'esperienza che ha portato la politica a proteggere la sua lunga carriera religiosa.
Tra le iniziative per cui si ricorda il patriarca c'è quella "della pace". Kirill, dopo la nomina a patriarca di Mosca nel 2009, è diventato dal 2006 co-presidente della Conferenza mondiale religiosa per la pace. Poi nel 2011 si è recato in Siria chiedendo la fine del conflitto: "Si può risolvere ogni problema pacificamente, con il dialogo. L'essenziale è che non venga versato sangue", diceva. E ancora: nel 2012 ha promosso un viaggio in Polonia per rappacificarsi con gli ortodossi polacchi. Infine nel 2016, l'incontro a Cuba con Bergoglio.
Eppure la facciata nasconde tanti gialli e tanti interrogativi. Kirill infatti non si nasconde e appoggia la campagna di riabilitazione di Stalin, al punto che inizia a pregare pubblicamente perché alla santa Russia non venga meno la chiesa ucraina. A questo punto le domanda sono due: si può considerare vero il suo ecumenismo? Ha senso che il papa continui a dialogare con lui? Difficile dimenticare le sue controverse parole sul matrimonio omosessuale come segno dell'avvicinarsi dell'apocalisse.
Cesare Martinetti per “la Stampa” il 3 aprile 2022.
La seconda guerra ucraina, consustanziale e parallela a quella che si volge sul campo, è una feroce guerra tra Chiese che credono nello stesso Dio. Il patriarca Kirill di Mosca, appoggiando con passione la guerra, ha offerto a Vladimir Putin una copertura teologica difficile da capire in Occidente. Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose, è stato protagonista del dialogo tra i cattolici e l'Oriente, fin dagli Anni 70, quando Kirill venne per la prima volta a Bose.
Si sarebbe mai immaginato che quel giovane e brillante prete ortodosso sarebbe salito sui carri armati di Putin in guerra contro cristiani ucraini?
«Sono stato sorpreso. Io l'ho conosciuto bene. L'ho incontrato la prima volta alla fine degli Anni 70, quando accompagnava il metropolita Nicodim. Poi è venuto ancora ai convegni ecumenici di Bose: lo ricordo molto convinto e attivo nel dialogo ecumenico, un uomo aperto che conosceva bene l'Occidente. Successivamente l'ho incontrato a Mosca nel 2004, quando sono stato inviato da papa Wojtyla in delegazione con il cardinale Kasper per restituire l'icona trafugata della Madonna di Kazan. Ci fu una straordinaria accoglienza nella splendida cattedrale di Cristo Salvatore».
E come spiega la sua adesione alla guerra?
«Mi ha sorpreso perché lo si pensava determinato nel mantenere vivo lo spirito ecumenico soprattutto dopo l'incontro a Cuba con Francesco in cui - dobbiamo dirlo - il Papa si è umiliato, accettando di vederlo quasi di sfuggita in una sala d'aeroporto. Ma non dimentichiamo che gli ortodossi sono diffidenti verso il Papato e come Chiese si sentono sorelle deboli di fronte alla sorella forte, la Chiesa cattolica, molto organizzata e presente in tutto il mondo».
Però nei sermoni di Kirill c'è qualcosa di più: ha dato una giustificazione teologica alla guerra di Putin. Perché?
«Tutto quello che dibattiamo in Occidente grazie alla nostra modernità arriva agli ortodossi russi in un cono d'ombra che è quello occidentale-americano e cioè del grande e storico nemico. Per molto tempo, per loro, l'ecumenismo è stato un prodotto dell'Occidente, che veniva dalla pluralità delle confessioni, dalla tolleranza, realtà per loro sconosciute. Ciò che per loro è lotta metafisica tra il bene e il male ed è manifestazione dell'Anticristo, per noi è un'acquisizione dei diritti civili (ad esempio nei confronti degli omosessuali). D'altronde, noi cattolici eravamo sulle loro posizioni 50 anni fa, né più né meno. E sono convinto che una parte della Chiesa cattolica la pensi ancora così. Solo, non si ha più il coraggio di dirlo pubblicamente».
E come ha reagito la Chiesa ucraina alla crociata di Kirill?
«Intanto va detto che in Ucraina ci sono quattro Chiese cristiane: una ortodossa in comunione con Mosca, altre due ortodosse, una in comunione con Costantinopoli, l'altra patriarcale autocefala, e infine una cattolica uniate, cioè di rito bizantino.
Solo il patriarca Onufri, metropolita della Chiesa ucraina in comunione con Mosca, ha espresso una posizione sapiente, invitando i fedeli a difendere la patria ucraina ma non odiare il popolo russo. Al contrario, le gerarchie delle altre Chiese hanno risposto benedicendo le armi, invitando i combattenti a schiacciare il nemico e a maledire il patriarca Kirill. Siamo nel pieno di una guerra di religioni, altro che ecumenismo!».
A sentir questi racconti, sembra di tornare indietro di secoli. Com' è possibile?
«Per capirlo bisogna ripassare un po' la storia ed è quello che manca nel dibattito su Kirill. Le Chiese ortodosse non sono nostre contemporanee: hanno vissuto sotto il regime sovietico o sotto l'impero ottomano e questo ha impedito loro l'accesso alla modernità.
È mancato quello che per noi ha rappresentato l'Illuminismo e la Rivoluzione francese. Alla caduta del comunismo la Russia è stata invasa da missionari polacchi e da organizzazioni cattoliche occidentali che facevano proselitismo. Gli ortodossi hanno reagito difendendo il loro territorio "canonico", un concetto sconosciuto a noi cattolici».
E dopo la rivoluzione ucraina cos' è successo?
«Alcune volte, preti russi sono stati attaccati, le chiese sono state chiuse, i religiosi perseguitati e, anche ultimamente, il Parlamento ucraino ha approvato delle leggi persecutorie nei confronti degli ortodossi in comunione con Mosca.
In verità, in Ucraina c'era tutto un humus di guerra di religione, ma nessuno ci badava. E poi questa guerra vergognosa è stata preparata: ho molti contatti con religiosi russi e ucraini che mi raccontavano che da mesi dalla Polonia entravano in Ucraina colonne di carri armati e carri con i missili».
Ma Putin cos'ha fatto per meritarsi una «sinfonia» così entusiasta da parte di Kirill?
«Putin negli anni è diventato il grande protettore della Chiesa russa, ovunque nel mondo.
È come un Carlo Magno d'Oriente. Dice di essere cristiano, non manca mai ai riti. Sostiene e finanzia la ricostruzione delle chiese ortodosse in Medio Oriente, ricostruisce quelle distrutte dalla guerra in Siria; a Gerusalemme ha finanziato enormi lavori, e sul monte Athos in Grecia ha restaurato il grande monastero di Panteleimon, in rovina fin dagli Anni 20. Tutto questo fa sì che la Chiesa si sia piegata a lui. E ci sono vescovi ancora più patriottici di Kirill, come il metropolita Tikhon, padre spirituale di Putin e - si dice - possibile prossimo patriarca».
Perché la religione è così importante in quei Paesi?
«Perché fa parte dell'identità, come in Polonia e in Ungheria. L'unico Paese in cui non conta più nulla è la Bulgaria, perché il comunismo è riuscito a fare un deserto».
Una religiosità che sopravvive in un mondo dove le cose si risolvono con la guerra e dove le manifestazioni della fede sono fisiche, le code anche nella nuovissima cattedrale di Mosca per il bacio delle reliquie. È spiritualità o superstizione?
«È l'Oriente, dove la fede non è solo un fenomeno intellettuale. Noi abbiamo inventato la formula della "fede pensata", non solo matura e profonda, ma che si dà delle ragioni attraverso il pensiero. In Oriente non hanno questa dimensione, per loro la fede ha una profondità spirituale che coinvolge tutta la persona. Non sono capaci della preghiera mentale. Pregano con il corpo, si genuflettono, si segnano in continuazione, hanno bisogno di baciare le icone e nelle chiese non ci sono sedie, perché bisogna pregare in uno stato di vigilanza fisica. I loro santi parlano con gli orsi, con gli alberi e con la natura».
Incomprensibile per noi?
«Sì. La religione senza l'uso della ragione diventa facilmente magìa o fanatismo. Lo diceva Benedetto XVI: l'Illuminismo è stato un grande dono perché, dando il primato alla ragione, ha liberato la religione dal fanatismo e dalla magia».
Qual è la sua ragione di speranza?
«Io sono amico del metropolita Ilarione, il numero due del Patriarcato, incaricato di tenere i rapporti con le Chiese estere e vicinissimo al patriarca. È un monaco spirituale e intellettuale raffinatissimo, è venuto a Bose, abbiamo fatto viaggi ecumenici insieme, e nella mia casa editrice ho pubblicato i suoi libri. Lui in questo momento è silente, e questo significa che non tutta la Chiesa è pienamente d'accordo con Kirill. Confido, prima o poi, Ilarione faccia sentire la sua voce, che è certamente una voce ecumenica e di pace».
Alessio Esposito per ilmessaggero.it il 7 aprile 2022.
È morto di Covid il politico russo Vladimir Zhirinovsky, leader del partito liberaldemocratico. Figura chiave nella storia post-sovietica del paese, l'ultra-nazionalista è deceduto all'età di 75 anni. Il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha spiegato che Zhirinovsky era ricoverato dall'inizio di febbraio per Covid ed è morto dopo una «malattia grave e prolungata».
Lo scorso 22 dicembre, in quello che è stato il suo ultimo discorso al parlamento russo, il leader liberaldemocratico rivelò che l'invasione dell'Ucraina sarebbe iniziata il 22 febbraio. La sua previsione si è poi rivelata errata di sole 24 ore. In quell'occasione Zhirinovsky parlò di una «nuova direzione nella politica estera russa». Da quel giorno del politico si sono perse le tracce: almeno fino ad oggi, quando è stata annunciata la sua morte, causata dal Covid e dalle complicanze di patologie pregresse.
Il presidente russo Vladimir Putin ha inviato alla Duma un messaggio di condoglianze per la morte di Vladimir Zhirinovsky. A segnalarlo è l'ufficio stampa del Cremlino, ripreso dalla Tass. «Vladimir Zhirinovsky era un politico esperto, un uomo energico e aperto, un eccezionale oratore e polemista - dichiara Putin - è stato il fondatore e il leader inflessibile di uno dei più antichi partiti politici del paese. Ha fatto molto per la formazione e lo sviluppo del parlamentarismo russo, della legislazione interna e ha voluto sinceramente dare un contributo a risolvere i problemi principali del Paese». Zhirinovsky, prosegue Putin, «ha sempre difeso la posizione patriottica e gli interessi della Russia di fronte a chiunque e nelle discussioni più importanti».
Lucetta Scaraffia per il Resto del Carlino il 9 aprile 2022.
Se si guarda a Kirill, patriarca di tutte le Russie, sembra di venire trasportati indietro nel tempo. Non sono solo le parole, decisamente desuete, con cui ha benedetto l'invasione dell'Ucraina, considerata una «guerra metafisica contro le forze del male» (in questo caso rappresentate dal degrado morale dell'occidente), o con cui ha approvato ogni forma di combattimento dei soldati russi «per difendere la loro patria» dopo la scoperta degli orrori perpetrati a Bucha.
Desueta è anche la sua vita: figlio e nipote di preti, destinato quindi a fare carriera nella chiesa ortodossa - a partire da Leningrado, sua città natale, che è la stessa di Putin - e a farla come fedele alleato dello stato, quale esso sia.
In questa storia apparentemente lineare si intrecciano però anche elementi diversi: suo nonno è stato relegato da Stalin nei terribili gulag delle isole Solovki, accusato di fare attività religiosa, cioè di non essersi allineato alle direttive del regime comunista. Vladimir invece - è questo il nome laico di Kirill - nel regime si trova benissimo, tanto da diventare negli anni settanta agente del Kgb. La sua carriera religiosa avviene quindi sempre sotto l'ombrello protettore della politica, e in particolare dell'amico personale Putin.
Kirill, dopo la nomina a patriarca di Mosca nel 2009, sa bene come si deve muovere un capo religioso di questi tempi, e si distingue come paladino della pace. Dal 2006 è co-presidente della Conferenza mondiale religiosa per la pace e, forse anche in tale veste, nel 2011 si reca in Siria alle soglie del conflitto, rivolgendosi ai contendenti con un appello: «Si può risolvere ogni problema pacificamente, con il dialogo. L'essenziale è che non venga versato sangue».
Nel 2012 promuove un viaggio in Polonia per rappacificarsi con gli ortodossi polacchi. Infine, nel 2016, l'incontro a Cuba con papa Francesco lo lancia anche come protagonista dell'ecumenismo. Ma si tratta di una facciata piena di crepe: Kirill non ha remore nell'appoggiare la campagna di riabilitazione di Stalin, e comincia a pregare pubblicamente perché alla santa Russia non venga meno la chiesa ucraina, dove ormai gli ortodossi sono divisi in tre comunità, di cui una sola ancora legata a Mosca.
Non è una questione di poco peso: per gli ortodossi russi il legame con Kiev, luogo di fondazione della loro chiesa, è simbolicamente fondamentale, e così più in concreto l'appartenenza alla loro chiesa delle popolose e ferventi comunità ucraine: senza gli ucraini il patriarcato di Mosca è poca cosa, perde la possibilità di presentarsi come alternativa al patriarca di Costantinopoli. Si può considerare vero il suo ecumenismo? Ha senso che il papa continui a dialogare con lui? L'ecumenismo si deve basare sull'onestà degli intenti di quanti, al di là dei secolari conflitti teologici, condividono la fede in Cristo. E si può considerare cristiano chi pensa che il matrimonio omosessuale è segno dell'avvicinarsi dell'apocalisse, mentre benedice orribili eccidi di innocenti?
Dio salvi la Russia. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022
Un’inchiesta sulla storia e il vero ruolo di Kirill, patriarca della Chiesa ortodossa di Mosca e di tutte le Russie e sul progetto religioso e politico che lo lega a Vladimir Putin.
Dio salvi la Russia di Alice Cohen e Samuel Lieven
VOCE FUORI CAMPO L'uomo che sta indossando le vesti è Kirill, il Patriarca di Mosca, l'incarnazione del potere della Chiesa ortodossa russa. Una chiesa russa che si sta espandendo rapidamente anche all'estero a partire da Parigi dove Kirill, nel 2016, ha consacrato la nuova cattedrale ortodossa. Kirill lo troviamo spesso a fianco dei potenti: Barack Obama, Papa Francesco, il presidente cinese Xi Jinping, seduto con il leader siriano Bashar al-Assad e, ovviamente, con Vladimir Putin. I due sono alleati e stanno creando insieme una nuova identità russa ultraconservatrice, uno rafforza l’altro. Per capire il potere che Kirill ha acquisito negli ultimi trent’anni, basta osservare la trasformazione dello skyline di Mosca, diventata una capitale dalle luccicanti cupole dorate. Dal 2010 sono state costruite una cinquantina di chiese e quasi altrettante sono in lavorazione. Mosca è la sede del Patriarcato, sede della Chiesa Ortodossa. Dietro le mura di questo monastero, custodito da una manciata di cosacchi, si nasconde un'istituzione misteriosa e inaccessibile. Il patriarca Kirill presiede oltre trentaseimila parrocchie e più di cento milioni di fedeli, ovvero circa un terzo dei cristiani ortodossi del mondo.
JEAN-FRANÇOIS COLOSIMO TEOLOGO E DIRETTORE EDITIONS DU CERF - PARIGI Il piano di Kirill è quello di innalzare la Chiesa russa come potere universale, una Chiesa la cui influenza si fa sentire in tutti gli ambiti della vita, nella politica, nella società, ma anche, ovviamente, a livello internazionale.
VOCE FUORI CAMPO Dal suo quartier generale di Mosca, Kirill è chiaro sulla sua intenzione di non limitarsi al ruolo di guida spirituale.
KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Sono criticato ma non credo di avere scelte. Un patriarca deve poter rappresentare adeguatamente la Chiesa, parlando ai singoli e, soprattutto, ai capi di Stato e ai rappresentanti del mondo della politica, dell'economia, della cultura. 24/09/2015
KIRILL: Signor presidente, per me è una gioia essere qui
MAHMOUD ABBAS: Grazie molte, sono felice di incontrarla Kirill: grazie molte
VOCE FUORI CAMPO Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità nazionale palestinese, è venuto a visitare il patriarca.
KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Siamo molto preoccupati per la situazione in Medio Oriente, in Siria e in Iraq: il pericolo di atti terroristici in Medio Oriente è ancora molto reale.
MAHMOUD ABBAS – PRESIDENTE DELL’AUTORITA’ NAZIONALE PALESTINESE Abbiamo unito le forze con gli altri paesi che promuovono la sicurezza e la pace, in particolare il governo russo che sta conducendo questa battaglia.
VOCE FUORI CAMPO Per i palestinesi l’obiettivo di questi incontri è rafforzare il sostegno della Russia, ma questo coinvolge anche il Patriarcato.
SOTTOTITOLI KIRILL: Vorrei omaggiare con alcuni doni la vostra delegazione
MAHMOUD ABBAS: Gerusalemme è vostra quanto nostra. L’abbiamo sempre protetta. Voi e noi.
NICOLAS KAZARIAN – DOCENTE DI ORTODOSSIA INSTITUT SAINT SERGE - PARIGI Tra i palestinesi ci sono molti cristiani ortodossi e la loro protezione per il patriarca Kirill è una delle ragioni della presenza della Russia nell’area. VOCE FUORI CAMPO L'altro luogo di Kirill a Mosca è la Cattedrale di Cristo Salvatore, una cattedrale simbolo della rinascita religiosa del Paese. Piscina in epoca sovietica, è stata ricostruita nel 1995. Kirill non è qui per celebrare una messa. Attraverso i sotterranei della cattedrale incontra gli uomini più potenti della Russia, quelli del cerchio magico di Putin: il presidente della Duma, l'assemblea nazionale russa, il primo vice-capo di stato maggiore dell'ufficio esecutivo presidenziale e il capo della Corte costituzionale.
SOTTOTITOLI 1 NOVEMBRE 2017 KIRILL: Dio vi aiuti nel vostro impegno. Andiamo
VOCE FUORI CAMPO I NOVEMBRE 2017 Tutti partecipano al Consiglio mondiale del popolo russo, un forum annuale fondato da Kirill quando l'Unione Sovietica crollò. L’obiettivo era quello di unire la nazione attorno alla Chiesa in un momento in cui l'impero stava cadendo a pezzi. Nella sala e sul palco, sacerdoti, membri dell'esercito, la frangia nazionalista della società civile. E, soprattutto, rappresentanti dei principali partiti politici: Russia Unita, il partito di Putin, l'estrema destra e persino il Partito Comunista. Il tema del Concilio quest'anno è la Russia nel XXI secolo.
KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE 1 NOVEMBRE 2017 La famiglia e la società sono esposte agli stessi pericoli: gli eccessi della legge sui minori, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la crescita del transumanesimo, tutti questi tentativi di dare una definizione distorta al concetto di essere umano.
VOCE FUORI CAMPO Un forum in cui il leader di estrema destra Vladimir Žirinovskij si muove a suo agio ed è un aperto sostenitore di Kirill.
VLADIMIR ŽIRINOVSKIJ - PARTITO LIBERAL-DEMOCRATICO DI RUSSIA Ognuno avrà una foto, non fate chiasso. Andiamo, vieni, vieni qui, mettiti qua. Questa è la tua o la mia faccia? Mi vedi? Così, scatta! Chi altro? Ok, ora basta.
VLADIMIR ŽIRINOVSKIJ – PARTITO LIBERAL-DEMOCRATICO DI RUSSIA Non siamo uno stato religioso, ma abbiamo chiuso con l'ateismo. Oggi la Chiesa svolge lo stesso ruolo che aveva ai tempi dello Zar.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Zhirinovsky, che aveva predetto e previsto con esattezza il giorno e l’ora dell’invasione in Ucraina, è stato colpito in questi giorni dal virus, si era anche diffusa la notizia di una sua presunta morte, poi smentita dal portavoce del Cremlino Peskov. Però, da giorni non si sa più qual è lo stato reale delle sue condizioni. Comunque, il leader della destra russa pensava a una chiesa che tornasse agli splendori dell’epoca dello zar, quando il patriarca era l’uomo più potente dopo lo zar perché la chiesa incarnava la spiritualità, la cultura, il nazionalismo di un’intera società. Poi, però, nell’epoca della rivoluzione bolscevica, tra il 1919 al ’39, il clero fu in qualche modo perseguitato, furono arrestati e furono anche deportati i sacerdoti. E nel 1939 le chiese erano state quasi tutte distrutte. Poi, nel 1943, Stalin aveva bisogno di cementare il popolo e di rafforzare il morale delle truppe da impiegare al fronte nella guerra contro il nazismo e rispolvera l’utilità e la missione della chiesa russa. Alla fine della guerra militari e clero sfilarono sotto Stalin, la chiesa era diventata un ingranaggio dell’Unione Sovietica. E poi, finita la guerra, le persecuzioni ricominciarono. Tuttavia, nel 1965, Kirill, figlio di sacerdoti, nipote di sacerdoti anche perseguitati, decide di entrare in seminario. La sua fu una carriera velocissima, brillantissima: dopo sei anni fu inviato a Ginevra presso l’assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, una sorta di Onu cristiana: è lì che Kirill impara il linguaggio della politica, della diplomazia perché è sotto il controllo degli apparati sovietici. Ecco, ma Kirill, ha giocato una partita tutta sua o ha lavorato per enti esterni?
SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA UFFICIALE DEL PATRIARCATO DI MOSCA significa che il KGB ha approvato la sua nomina. Tutti i leader delle delegazioni che sono stati inviati all’estero hanno scritto rapporti al Comitato per gli affari religiosi. E una copia va al KGB. Quindi, fin da giovane, Kirill ha avuto legami con il KGB.
VOCE FUORI CAMPO 4 DICEMBRE 2017 Oggi la Chiesa ortodossa russa ha riacquistato il suo splendore. E quando ha celebrato il centenario del Patriarcato, lo ha fatto con tutto lo splendore di un’istituzione. Kirill ha invitato i patriarchi delle 14 Chiese che compongono la galassia ortodossa, comprese quelle di Egitto, Canada, Grecia e Repubbliche Ceca e Slovacca. Apparire l'uomo che detta l’agenda alla comunità ortodossa è la sua ambizione. 400 arcivescovi e migliaia di credenti. Ma è soprattutto il preludio di un singolare evento religioso e geopolitico. Tutti i capi ortodossi sono stati invitati nella residenza presidenziale di Vladimir Putin a trenta chilometri da Mosca, una specie di secondo Cremlino. Putin non è ancora arrivato. Il vero tema dell’incontro è la difesa dei cristiani perseguitati in Medio Oriente, il cavallo di battaglia di Kirill, una questione particolarmente rilevante visto il conflitto in Siria.
CYRILL BRETT –DOCENTE DI FILOSOFIA SCIENCES PO - PARIGI L'obiettivo della Chiesa ortodossa in Siria è in primo luogo quello di fornire supporto alle proprie truppe russe. E la seconda missione è… La Chiesa Ortodossa Russa sta investendo molto nel restauro dei monasteri, nel sostegno alle parrocchie ortodosse, ma anche alle altre … in Siria. Non c'è dubbio che, in Siria, dopo la guerra, la Chiesa ortodossa russa avrà recuperato posizioni che potrebbero far traballare il panorama religioso e quello culturale e sociale.
VOCE FUORI CAMPO Grazie all'aiuto dato ai cristiani perseguitati, Kirill sta guadagnando maggiore influenza sulle altre Chiese ortodosse: si sta posizionando al centro del gioco come il padrino dell'Ortodossia in Medio Oriente.
PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA 4 DICEMBRE 2017 Purtroppo, in questo secondo decennio del XXI secolo, ci troviamo di fronte a qualcosa che pensavamo appartenesse al passato: la persecuzione religiosa e, in particolare, la persecuzione dei cristiani. La situazione in Siria merita la nostra particolare attenzione. Molte chiese e monasteri cristiani sono stati saccheggiati e distrutti. Da diversi anni lo Stato russo, insieme alla Chiesa ortodossa russa e ad altre organizzazioni religiose, fornisce aiuti umanitari alle vittime in Siria.
VOCE FUORI CAMPO Dopo dieci minuti dall'inizio della riunione, alle telecamere viene chiesto di lasciare la stanza e tornare due ore dopo per immortalare un altro incontro. Un discorso finale in scena per le telecamere, con un patriarca che era all'incontro precedente! Il Patriarca di Antiochia di Damasco, Siria.
PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA Santità, sono lieto di incontrarla faccia a faccia. VOCE FUORI CAMPO Una sequenza di due minuti e mezzo affinché il patriarca possa rendere un sentito omaggio alla Russia di Vladimir Putin.
GIOVANNI X YAZIGI – PATRIARCA GRECO ORTODOSSO DI ANTIOCHIA E DI TUTTO L’ORIENTE Desidero esprimere ancora una volta la mia profonda gratitudine a lei, Eccellenza, e alla Russia per tutto ciò che ha fatto e continua a fare in Medio Oriente, e specialmente in Siria.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, Putin in Siria ha allentato un pochettino la presa: da quando è partita la guerra in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, l'aviazione di Mosca ha condotto in Siria 300 raid aerei rispetto ai 1200 di febbraio, ecco, contro postazioni di gruppi anti-governativi, non solo quelli affiliati all’Isis. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani, in Siria, in oltre dieci anni di conflitto, in un conflitto che si è disputato lontano dalle telecamere, si contano più di 6,6 milioni di rifugiati siriani nel mondo, 100.000 gli scomparsi, 15.000 le persone morte torturate per mano delle forze governative siriane. Ora, la Russia è stata chiamata proprio da Assad nel 2015, Assad il controverso e discusso leader di Damasco. Il fatto che Putin abbia ospitato nella sua dimora il patriarca di Damasco in sede appartata vuol dire solo una cosa, che la diplomazia russa si offre come difensore dei cristiani in Medio Oriente, soprattutto i cristiani perseguitati e Kirill è il braccio spirituale di Putin, ha a cuore il tema della persecuzione perché suo nonno era stato perseguitato e si offre come punto di riferimento dei cristiani ortodossi in Medio Oriente ma non solo di quelli ortodossi. Ora, c’è un tema però, che secondo il direttore del giornale del patriarcato, Sergei Chapnin, che si è dimesso nel 2015 e che conosce benissimo i segreti del patriarca Kirill, Kirill avrebbe avuto contatti stretti con il Kgb, cioè con quell’organo di sicurezza supremo dell'URSS, che aveva proprio tra i suoi compiti il controspionaggio, in patria e all’estero. Ora, il Kgb fu abolito nel 1991 ma è sopravvissuto in varie forme, tanto è vero che ancora oggi l’establishment e l'élite russa proviene da quel mondo. E Kirill è stato funzionale per mantenere il consenso in patria di Putin.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, stiamo parlando di Putin e del ruolo del Patriarca di Mosca Kirill. Putin serve a Kirill perché Kirill vuole diventare il punto di riferimento mondiale della Chiesa ortodossa e prendere il posto, cioè, del patriarca di Costantinopoli, mentre Kirill serve a Putin per mantenere un certo consenso interno. Il rapporto tra i due si cementa nel 2012, quando un gruppo di donne, le Pussy Riot, che erano nate per difendere e tutelare i diritti delle donne in Russia, entrano invece nella contestazione per i brogli elettorali. All’improvviso entrano nella cattedrale simbolo di Mosca, la Cristo Salvatore, e mettono in scena una protesta contro Putin, una protesta che assume una dimensione internazionale, rischia di incrinare l’immagine di Putin. Ma arriva la ciambella di salvataggio. Ecco, Kirill utilizza l’indignazione dei fedeli per la performance sacrilega, la usa per ricompattare i fedeli intorno alla figura di Putin: mette insieme, cioè, paragona l’offesa a Putin come se fosse un’offesa a Dio.
VOCE FUORI CAMPO 22 NOVEMBRE 2016 Quando Kirill festeggia il suo compleanno, il suo ospite d'onore è Vladimir Putin. Un compleanno festeggiato in pompa magna, trasmesso in diretta dalla televisione russa.
NIKITA MICHALKOV – REGISTA È una giornata meravigliosa. Noi, qui, e i nostri milioni di telespettatori celebriamo il favoloso settantesimo compleanno di Sua Santità il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia,
Kirill. VLADIMIR PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA Incarni l'autorità della Chiesa ortodossa russa. Sei il devoto custode delle sue tradizioni e delle azioni dei suoi membri che hanno svolto un ruolo incalcolabile nell'affermazione dei valori cristiani così come nell'emergere e nello sviluppo dello stato russo.
VOCE FUORI CAMPO Putin non perde occasione per ostentare la sua vicinanza a Kirill e per sottolineare la sua fede cristiana. Per lui la chiesa è una leva di influenza. Vladimir Putin si presenta come un cristiano ortodosso. Nella festa dell'Epifania fa un tuffo nelle acque gelide tradizionalmente benedette, in ricordo del battesimo di Cristo. Il sodalizio tra Kirill e Putin si è cementato quando il Cremlino ha dovuto affrontare le proteste. Nell'inverno del 2011 migliaia di persone sono scese in piazza contro il governo, sospettato di frode alle elezioni generali di quello stesso anno.
SOTTOTITOLI Russia libera da Putin! Vogliamo elezioni libere! Russia libera da Putin!
VOCE FUORI CAMPO 21 FEBBRAIO 2012 Le proteste sono andate avanti per sei mesi. In questo contesto le Pussy Riot hanno fatto irruzione nella cattedrale di Cristo Salvatore. Hanno eseguito la loro preghiera punk politica, un Te Deum iconoclasta che attacca Kirill e, soprattutto, Vladimir Putin.
SOTTOTITOLI Kirill crede in Putin Meglio credere in Dio, parassita! Combatti per i diritti, scordati i riti Unisciti alla protesta, Santa Vergine Maria Vergine, madre di Dio, bandisci Putin
VOCE FUORI CAMPO Un evento visto milioni di volte su Internet. Le persone coinvolte sono state condannate a due anni in un campo di prigionia. Tutto questo ha avuto un profondo impatto sulla società russa.
SOTTOTITOLI Un giorno Dio vi punirà!
SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA DEL PATRIARCATO DI MOSCA L’accusa principale alle Pussy Riot è che hanno recitato una preghiera che diceva: "Madre di Dio, bandisci Putin". Tutti percepivano che la reazione di Putin era troppo dura. La Chiesa avrebbe anche sorvolato: quello che è successo dopo è una reazione all'umiliazione del presidente.
VOCE FUORI CAMPO 22 APRILE 2012 Due mesi dopo, Kirill si è recato tra la folla e ha radunato i fedeli per una preghiera di massa.
KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Oggi siamo vittime di un attacco non paragonabile a quelli del passato. Ma è un attacco pericoloso. Il vero atto di blasfemia, sacrilegio e beffa del sacro è presentato come espressione legittima di libertà umana. Questo approccio può trasformare un evento microscopico in un fenomeno di proporzioni enormi e preoccupa chiunque sia un credente.
SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA DEL PATRIARCATO DI MOSCA Kirill ha organizzato una preghiera di massa fuori dalla Cattedrale di Cristo Salvatore per mostrare quanto fosse attiva la Chiesa. Hanno partecipato i sacerdoti di tutte le altre regioni, che sono stati trasportati in autobus. Uno spettacolo gigantesco messo in scena per un solo spettatore: Putin. Il patriarca ha sfruttato l'irritazione del presidente per assicurarsi di ottenere la legislazione che desiderava.
VOCE FUORI CAMPO 4 NOVEMBRE 2017 Nella giornata dell'Unità Nazionale Russa, il 4 novembre, Kirill e Vladimir Putin inaugurano una mostra che celebra la nazione russa. Una mostra che inizia con una preghiera e un bacio. Quest'anno la mostra è dedicata al futuro della Russia. La Russia deve accelerare il passo per superare l'Occidente. Una modernizzazione che è possibile solo se la Russia rimane ancorata ai valori tradizionali, valori evidenziati in un video sui presunti pericoli che dovrà affrontare la Russia di domani. Uno scenario allarmistico, quanto improbabile.
ESTRATTO DEL VIDEO DELL’ESPOSIZIONE SULLA RUSSIA DEL FUTURO Per la prima volta a metà del ventunesimo secolo, ci saranno tanti musulmani quanti cristiani. I musulmani che sono migrati in Europa cambieranno le politiche degli stati e le loro relazioni sociali. Nel 2050 la tecnologia dell’utero artificiale sarà una realtà. Le donne non dovranno portare bambini in grembo. Gli uomini non serviranno più per la riproduzione. La fertilizzazione sarà possibile grazie allo sperma artificiale, cresciuto da cellule staminali di embrioni. Nella maggioranza dei paesi sarà legale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che porterà a una crisi della famiglia tradizionale e a una riduzione della natalità.
ALEXANDER BAUNOV - POLITOLOGO CARNEGIE MOSCOW CENTER - MOSCA C'è un solo tema che unisce Chiesa e Stato, ed è il tema del contrasto tra omosessuali ed eterosessuali. Dopo il 2012, dopo che lo Stato ha iniziato a utilizzare il tema del matrimonio tra persone dello stesso sesso nella sua propaganda, il sentimento antieuropeo ha iniziato a crescere. Cominciarono a dire che l'Europa aveva preso la strada sbagliata e che noi russi eravamo rimasti sulla strada giusta.
KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Possiamo vedere come l'Occidente stia perdendo ciò che ci legava ad esso. Non vediamo più la società occidentale come una società che condivide i nostri stessi valori.
VOCE FUORI CAMPO Nel dicembre 2016 il patriarca ha visitato la Francia. Ha tenuto una conferenza stampa improvvisata al seminario russo di Epinay sous-Sénart. Di fronte alle domande della stampa sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, Kirill ha ribadito la sua posizione.
KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE 5 DICEMBRE 2016 Non chiediamo una posizione più dura nei confronti di coloro che hanno un diverso orientamento sessuale ma siamo fermamente contrari all'idea di metterli sullo stesso piano delle persone che si sono sposate davanti a Dio, hanno partorito figli e stanno perpetuando il genere umano. In nessun caso il piano di Dio può essere alterato da dottrine o legislazioni politiche.
VOCE FUORI CAMPO Kirill è in Francia per consacrare la nuova cattedrale ortodossa, la Santissima Trinità: costruita vicino alla Tour Eiffel per un costo di 150 milioni di euro, concordata tra Vladimir Putin e Nicolas Sarkozy, ma interamente pagata dallo Stato russo.
SERGEI CHAPNIN - EX DIRETTORE DELLA RIVISTA DEL PATRIARCATO DI MOSCA Questo è un complesso con status diplomatico: comprende la chiesa, l'ambasciata e il centro culturale. È un modello in miniatura della Russia con la Chiesa russa al centro.
JEAN-FRANÇOIS COLOSIMO – TEOLOGO E DIRETTORE EDITIONS DU CERFPARIGI L'immagine di una Russia capace di tornare sulla scena internazionale coinvolge necessariamente l'ortodossia russa perché è il segno identitario più distintivo. L'America ha Hollywood e la Coca Cola, e la Russia ha le sue liturgie con icone, incensi, sacerdoti colorati.
VOCE FUORI CAMPO Parte della numerosa comunità russa si è presentata per la consacrazione. Questa cattedrale è uno strumento di soft power russo perché consente di riunire sia i vecchi emigrati della rivoluzione sia i nuovi, partiti negli anni Novanta sotto il nome della Chiesa.
KIRILL – PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE Ci sono molti russi in Francia, molti cristiani ortodossi. Abbiamo l'obbligo di compiere la nostra missione pastorale. Per tutto il Novecento abbiamo avuto una chiesa in un garage, in rue Petel. Riesci a immaginare, un garage trasformato in chiesa?
VOCE FUORI CAMPO In realtà Parigi aveva già una cattedrale russo-ortodossa nell'ottavo arrondissement. Ma la Chiesa è sotto la supervisione dell'altro patriarcato concorrente di Krill, quello di Costantinopoli.
ALEXANDER BAUNOV - POLITOLOGO CARNEGIE MOSCOW CENTER- MOSCA Kirill è il capo della più grande Chiesa ortodossa ma il capo del mondo ortodosso è il Patriarca di Costantinopoli. Questo paradosso infastidisce Kirill, che vuole diventare la voce principale del mondo ortodosso nel suo dialogo con Roma. Vorrebbe che tutte le altre Chiese ortodosse seguissero i suoi suggerimenti sui valori morali e le sue posizioni politiche a livello internazionale, e il Patriarca di Costantinopoli interferisce. Ed è per questo che c'è una tensione costante tra loro.
VOCE FUORI CAMPO Il Patriarca esercita la sua potenza politica e numerica contro Costantinopoli. Ma il punto debole di Kirill è l'Ucraina. Negli ultimi anni alcuni credenti ortodossi ucraini si sono allontanati dalla chiesa di Kirill. Quando, nel 2014, sono scoppiati disordini in piazza Maidan, a Kiev, parte della popolazione ha voluto rivolgersi ulteriormente a ovest, mentre gli altri guardavano alla Russia. Una crisi che si era aggravata col dispiegamento di truppe da parte del Cremlino per annettere la Crimea. La crisi ucraina è sempre stata la grande incognita di Kirill: rischia di compromettere la sua ambizione di influenzare. Per questo è alleato di Putin.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Kirill ha giustificato la guerra in Ucraina come se fosse una guerra santa, una lotta, uno scontro di civiltà, una crociata contro i gay e contro il transumanesimo, cioè contro quella filosofia, che era nata in California, che prevede l’evoluzione dell’uomo attraverso la tecnologia. Però, Kirill rischia di fare un autogol, di aprire la via a uno scissionismo, a una scissione con la chiesa ucraina e, soprattutto, con il mondo dei cristiani ortodossi. Ecco, era già successo negli anni Novanta che si erano aperte alcune crepe con la chiesa ucraina, quando in Ucraina si era proclamata l’indipendenza, crepe che si erano poi allargate nel 2014 con l’invasione della Russia in Donbass e in Crimea. E poi, nel 2018, c’era stata addirittura la consacrazione di una chiesa ufficiale ucraina da parte del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, consacrazione, l’avversario di Kirill proprio, consacrazione che era stata in qualche modo spinta dall’allora presidente ucraino Poroshenko, filo Usa e atlantista convinto. Ecco, questo aveva fatto irritare Putin e Kirill, che erano certi che l’Ucraina dovesse appartenere come territorio ma anche come spiritualità alla Russia. Ora, dopo le bombe, dopo l’omelia del 6 marzo che ha giustificato le bombe in Ucraina, un centinaio di chiese ortodosse filorusse si sono sostanzialmente staccate e hanno aderito alla chiesa ucraina. La stessa cosa l’ha fatta una chiesa ortodossa nei Paesi Bassi, ad Amsterdam, che era punto di riferimento degli ortodossi russi nei Paesi Bassi. Ecco, questo per dire cosa: che Kirill, col fatto di giustificare la guerra, rischia l’isolamento mondiale con un paradosso, se ce lo concedete: che da una parte vuole essere il punto di riferimento dei cristiani perseguitati in Siria, dall’altra giustifica chi i cristiani in Ucraina li bombarda.
Il conflitto in Ucraina non ha cause solo geopolitiche, ma anche ideologico-religiose. Nel Paese esistono due Chiese Ortodosse: una fa capo al Patriarca Filarete e comprende il 60% della popolazione, l'altra – con il Metropolita Onofrio – riconosce come Patriarca quello di Mosca. CARLO JEAN su Il Quotidiano del Sud il 26 Marzo 2022.
Esiste in Occidente, in particolare in Italia e, soprattutto, nel Vaticano, un grande imbarazzo nell’affrontare i rapporti della Chiesa Ortodossa russa e con le messianiche affermazioni di Putin sugli obiettivi di quella che chiama “operazione militare speciale” volta non solo a denazificare l’Ucraina, ma a liberarla dal peccato, cioè dalla “banda di gay che la governerebbe”. Tale imbarazzo deriva anche dagli stretti rapporti fra il Cremlino e il Patriarcato di Mosca. Putin è affascinato dall’Ortodossia. La trova funzionale ai suoi obiettivi di restaurare la Russia nello status di grande potenza.
La Chiesa Ortodossa ha recuperato il rango e il peso politico che aveva ai tempi degli Zar. È portatrice dell’ideologia della Russkiy Mir, o “mondo russo”, della Terza Roma, erede dei valori al tempo stesso mistici e imperiali della tradizione e destinata a salvare il mondo. L’Ortodossia è legata alla politica. Il Patriarca Kirill ha fornito una giustificazione non solo ideologica, ma anche teologica all’aggressione all’Ucraina. È stato spinto, al riguardo, dal fatto che in Ucraina esistono due Chiese Ortodosse: la prima, autocefala, cioè nazionale ucraina, fa capo al Patriarca Filarete e comprende il 60% della popolazione del paese. La seconda, con il Metropolita Onofrio, con sede sempre a Kiev, ma critica dell’aggressione russa e del Patriarca Kirill, ne ha il 25% e riconosce come Patriarca quello di Mosca (la popolazione restante è uniate, cioè cattolica di rito greco, concentrata nell’Ovest del paese, o ateo). Fra le due chiese ortodosse corre cattivo sangue, accentuatosi con l’aggressione russa (in circa metà delle diocesi che fanno capo al Patriarcato di Mosca, non è stato più menzionato Kirill, il quale aveva benedetto l’aggressione, certamente anche nella speranza di riassorbire sotto di lui anche la chiesa autocefala che, sotto pressione dell’allora presidente Porošenko, nel 2015, si era legata al Patriarca di Costantinopoli, per sottolineare il sui distacco da Mosca, che si era annessa la Crimea.
Il fatto che la guerra in Ucraina non abbia cause solo geopolitiche, ma anche ideologico-religiose è divenuto evidente ai telespettatori italiani con gli interventi televisivi di Alexander Dugin, il principale esponente della Scuola Eurasista ipernazionalista russa, oggi consigliere e ispiratore ideologico di Putin. Avevo conosciuto a Mosca negli anni ’90 questo strano personaggio che sembra uscito da un libro di Dostoevskij. Allora era capo del Centro Geopolitico della Duma (a proposito, è un grande estimatore del vino italiano!). Per lui, l’attacco all’Ucraina investe l’identità e il futuro non solo dell’Ortodossia e della Russia, ma la loro missione “divina” nel mondo. Esso deve essere salvato dal materialismo, dal consumismo e da “forze oscure” che lo stanno dominando e corrompendo e di cui sarebbe prova, al tempo stesso evidente e inquietante, la tolleranza dimostrata, come dice Kirill, nei riguardi dell’“amore contro natura”. Esse avrebbero avuto il sopravvento in Ucraina con la “rivoluzione arancione”. Il mondo, in particolare i paesi continentali dell’Eurasia (che considera estesa da Dublino a Vladivostok) possono essere salvate dalla corruzione delle potenze marittime dell’anglo-sfera solo dalla rigenerazione dei valori tradizionali della Russia, che si espanderebbe grazie alle sue ricchezze naturali. Senza di esse, l’Europa non potrebbe sopravvivere. La Russia sarebbe in grado di farle pagare con la sua moneta, liberandoli dalla schiavitù del dollaro. Tutte le sue teorie sono contenute in un ampio saggio (di oltre 500 pagine) “The Foundation of Geopolitics; the Geopolitical Future of Russia”.
Ai politici e alle opinioni pubbliche occidentali può sembrare una follia paranoica, ma secondo la mia conoscenza (ho frequentato per otto anni la Moscow School of Political Studies e fatto/partecipato a conferenze, soprattutto all’Accademia dello Stato Maggiore Generale), per la “Russia profonda” e anche per taluni esponenti del potere politico di Mosca è invece del tutto normale pensarla così. I telespettatori italiani sono stati di certo sconcertati quando Dugin ha tranquillamente affermato che il motivo dell’aggressione all’Ucraina era quello di liberare il paese dalla “banda di gay” che lo domina e di “salvare il mondo dal peccato”. Sarebbe comunque interessante conoscere perché, come e da chi sia stato escluso da trasmissioni, ad esempio da “Controcorrente” del 23 marzo scorso.
Più che meravigliarmi della cosa – già affermata da Kirill nel suo appello ai militari russi il giorno prima dell’inizio dell’aggressione all’Ucraina, dove li incitava a combattere con valore per il popolo russo, in una guerra che dichiarava in pratica non solo giusta, ma santa – devo confessare, che essa mi ha divertito. Mi sarei aspettato che l’On.le Zan si precipitasse a imitare il tebano Gorgida, fondatore dell’eroico “battaglione sacro” e corresse in Ucraina. Invece niente! Neppure una flebile protesta. Solo un rinnovato appello alla pace (senza beninteso precisare se fosse la pace di Putin o quella di Zelensky, come se la cosa non avesse importanza) e alla cessazione delle uccisioni e distruzioni.
Non è un appunto al prode Onorevole citato. Anche il Vaticano non ha fatto molto meglio. Ha deplorato l’aggressione, ma non l’aggressore. Non ha criticato Kirill per il discorso inviato alle Forze Armate russe prima dell’aggressione (e non mi si venga a dire che i soldati non sapevano di andare ad attaccare l’Ucraina, perché addormentati come affermano i prigionieri russi alla propaganda di Kiev!), né per il fatto di essersi schierato a favore al 100% del regime, di cui è una delle colonne, né infine di aver lasciato affermare che l’esercito russo è in Ucraina a combattere “l’Anticristo”.
La razionalità, ragionevolezza e moderazione della Santa Sede, proprie della cultura occidentale, sono le ragioni profonde del suo appeasement. L’invito a Kirill di andare a Kiev con Papa Francesco dimostra una carenza di intelligence. Nel caso migliore, gli ucraini avrebbero accolto a sassate il Patriarca. La visita sarebbe terminata nel ridicolo.
Un altro episodio di eccesso di cautela che mi è sembrato tale è quello verificatosi in un’intervista di Lucia Annunziata e mons. Spadaro di Civiltà Cattolica. L’Alto Prelato, per dimostrare la fermezza del Vaticano nel prendere posizione sulla crisi ucraina, adduceva il fatto che il Papa avesse parlato di “guerra” e non, come Putin, di “operazione militare speciale”. La brava conduttrice ha sorriso comprensiva. Forse perché aveva ricordato che la dottrina tradizionale cattolica della “guerra giusta”, consolidata da più di quindici secoli e ribadita nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1985 e nella lettera di Giovanni Paolo II del giugno 1982 all’Assemblea Generale dell’ONU, che spense le polemiche create dalla “Lettera dei vescovi americani sulle armi nucleari”, sembra sia stata ufficialmente sconfessata. Confesso di esserne rimasto molto stupito. Non vedo come senza tale millenaria dottrina, la Santa Sede possa parlare di pace e di guerra. Beninteso, potrà esaltare il pacifismo o raccomandare al “Cuore di Maria” le vittime, oppure potrà essere strumentalizzata dai belligeranti per la propaganda di guerra, come Zelensky tenta di fare. Ma la pace è altra cosa. Non per nulla i teologi hanno sempre collocato la guerra giusta nella categoria teologica della Caritas. Non in quella della justitia, con una sola eccezione: quando c’era da sostenere la colonizzazione spagnola e portoghese, gabellate per “cristianizzazione degli indi”.
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Niccolò Zancan per “La Stampa” il 24 marzo 2022.
È l'inizio di uno scisma nella chiesa ortodossa. Padre Giobbe Oshaanskyi, abate del monastero della Santa Resurrezione di Leopoli, è il primo ad averlo annunciato ai suoi fedeli.
«Non è stata una decisione facile. Ho vissuto sotto il patriarcato di Mosca per tanti anni. Ma è dal primo giorno che ci penso, dal 24 febbraio. Non posso più stare con una chiesa che benedice la guerra».
È una giornata di primavera. Suonano gli allarmi antiaerei e suonano i clacson nella città caotica. I profughi sono adesso 211 mila, altri stanno arrivando con un treno da Zaporizhia, dove essere stati sfollati da Mariupol. Tutte le storie finiscono a Leopoli, la porta dell'Ucraina sull'Occidente.
Ma anche questa città ormai si sente accerchiata. Senza più amici, e in preda ai sospetti. Dove anche una parola pronunciata in russo da un giornalista malaccorto può innescare una reazione.
Non si può più dire «sbasibo». Gli scienziati hanno lanciato un appello per blandire i ricercatori russi dalle riviste. Nelle radio locali i cittadini russi vengono chiamati «zombie»: «Perché non vogliono vedere, non vogliono capire».
E anche l'amicizia con i vicini bielorussi è sempre più in discussione, visto che ormai diverse fonti ufficiali, compresa la Nato, parlano di un possibile attacco imminente.
A domanda precisa rivolta all'uomo che sovrintende le sirene antiaeree nella regione di Loepoli, il signor Maxim Kozyntsky risponde così: «Dei quattro allarmi di ieri, due hanno segnalato il pericolo dovuto al lancio di missili Iskander dal territorio della Repubblica Bielorussa, uno riguardava un raid di aerei strategici russi decollati dal Mar Nero, la quarta volta era la minaccia di un attacco missilistico».
Tutto questo per spiegare dove ha preso sua decisione, il monaco Giobbe Oshaanskyi. Via Pekarska, dopo la l'Università che ospita le facoltà di Medicina. C'è un vecchio edificio in ristrutturazione. Rappresenta una stratificazione di epoche.
Era stato un monastero cattolico, è stato un ospedale militare ai tempi dell'Unione Sovietica e adesso è un monastero ortodosso in Ucraina che non vuole più rispondere a Sua Santità Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Ecco padre Giobbe Oshaanskyi sulla porta, ha 33 anni.
Ha studiato a Roma, «Diritto canonico orientale» al Collegio Capranica. Ha fatto costruire una piccola chiesa tutta con pietre portate dalla Grecia, perché dopo gli studi di Roma è andato a farsi monaco sul Monte Athos.
«Per me non esisteva il problema della divisione fra russi e ucraini. I miei parrocchiani non hanno mai sentito la propaganda russa. Io parlavo della vita spirituale e basta, parlavo del Cristo. Perché la gente veniva qui per sentire la parola di dio, non la politica. Ma la guerra è una situazione straordinaria che obbliga tutti a reagire.
In guerra non è possibile non prendere parte. E visto che il patriarcato di Mosca non reagisce come dire, obiettivamente, io non posso più stare in silenzio. Non vedevo più il senso di stare con questa chiesa. Punto e basta».
È un addio alla grande chiesa di Mosca. Per cercare riparo sotto il piccolo ombrello della chiesa autocefala ucraina riconosciuta solo nel 2018. Padre Giobbe Oshaanskyi è stato il primo. Lo ha seguito l'arciprete Ihor Derkach, rettore della Chiesa della Santa Intercessione a Chervonograd. Altri due monaci si sono aggiunti ieri.
Cosa li accomuna tutti? Non possono accettare le parole del patriarca di Mosca Kirill, queste parole: «Ciò che sta accadendo oggi nell'ambito delle relazioni internazionali non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Si tratta della salvezza umana, di dove andrà a finire l'umanità».
Non possono accettare che questa guerra sia stata benedetta dalla più alta carica ecclesiastica russa. Sono 12 mila le chiese ortodosse in Ucraina che rispondono ancora direttamente al patriarcato di Mosca. Dodicimila meno quattro, per ora.
Una è la chiesa di padre Giobbe Oshaanskyi a Leopoli: «La mia decisione ha suscitato molte reazioni. Positive e negative. Mi hanno detto che sono un sacerdote coraggioso, uno dei pochi del patriarcato che ha avuto il coraggio di dire la verità e non tenere una doppia morale.
E cioè, dire: sì, è stata benedetta la guerra, però la guerra non c'entra niente con la fede. Non è vero. C'entra eccome! La chiesa che benedice la guerra è sotto eresia, e questa eresia si chiama mondo russo, e io non voglio avere niente in comune».
A questo punto gli domandiamo in che modo la chiesa russa stia raccontando la guerra contro l'Ucraina ai suoi fedeli, ed ecco la riposta del monaco: «La vede come la chiesa cattolica vedeva le crociate. Loro pensano di combattere per la fede, pensano di aiutare il popolo ucraino a liberarsi dallo spirito dell'occidente, cioè la gay propaganda e altre cose assurde».
Stanno arrivando altri profughi nella chiesa della Santa Resurrezione di Leopoli. Dormono nelle poche stanze già ristrutturate del monastero. «Anche la mia famiglia è dovuta sfollare da Kiev. Quello che sta succedendo in Ucraina è sotto gli occhi di tutti.
Non giudico l'Europa, ma sono convinto che l'Europa debba pensare al suo futuro. Perché se l'Ucraina perde, la Russia andrà a denazificare la Polonia e poi Berlino. Questa è una guerra della Russia contro l'occidente». Padre Oshaanskyi, è preoccupato per la sua scelta? «Ho fatto quello che mi ha dettato la coscienza».
Massimo Franco per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2022.
Il governo russo non vuole che papa Francesco accetti l'invito di Volodymyr Zelenski ad andare a Kiev. E ha fatto sapere in modo pressante al Vaticano che quel viaggio potrebbe provocare una tensione inedita nelle relazioni tra Mosca e la Roma papale. «Se visitasse l'Ucraina adesso, farebbe un favore non tanto a Zelenski ma agli Stati Uniti», sarebbe stato il messaggio trasmesso alla Segreteria di Stato; e con parole insieme irritate e allarmate.
Una visita di Bergoglio nella capitale ucraina accerchiata dalle truppe russe darebbe corpo a quell'isolamento internazionale che Vladimir Putin già vive in modo quasi ossessivo dopo la sua aggressione militare. E pazienza se il viaggio è altamente improbabile, nonostante le rassicurazioni di Kiev sulle eventuali misure a protezione del Papa: prima occorrerebbe un «cessate il fuoco». In seguito alla telefonata dell'altroieri tra Francesco e il presidente ucraino, prima del discorso di Zelenski al Parlamento italiano, la posizione vaticana diventa delicata.
Da una parte, Francesco ha fatto sapere di essere pronto a tutto pur di innescare un negoziato che fermi la guerra. Dall'altra, andare a Kiev verrebbe visto inevitabilmente come un appoggio oggettivo ai nemici di Putin da parte di una Santa Sede che ha tentato invano, finora, una mediazione; senza schierarsi con l'Occidente, è vero, ma additando con nettezza le responsabilità di Mosca.
È una vicenda intricata, perché mostra le incognite e le incertezze di una diplomazia vaticana che si sta rendendo conto dei limiti del suo approccio; e di quanto l'invasione russa abbia cambiato gli schemi e reso fragile le coordinate del passato. A velare l'impossibilità di un negoziato non basta la volontà tenace di pacificare il conflitto. Proprio nel momento in cui si sta consumando una guerra tra nazioni cristiane, il Vaticano si ritrova senza strumenti e margini in grado di fermarla.
E lo scontro tra ortodossi ucraini e russi, e il rischio di infilare i cattolici in questa faida politico-religiosa, è un fattore ulteriore di tensione. Di fatto, Francesco verrebbe considerato come schierato con la parte antirussa del mondo ortodosso. Anche per questo, qualcuno nelle ultime ore aveva ipotizzato una visita a Kiev di Francesco insieme con il patriarca russo Kirill.
Ma l'ostilità della popolazione nei confronti del capo ortodosso che ha definito «giusta» l'aggressione di Putin, e puntato il dito contro l'Occidente «anticristiano», l'ha fatta accantonare subito: la presenza di Kirill verrebbe vissuta dagli ucraini come una provocazione. Rimane soltanto il nervosismo di un governo russo intenzionato a far capire che un gesto ulteriore di Francesco in favore del governo di Kiev sarebbe visto come un passo falso.
Lo schiaccerebbe, a sentire gli uomini del Cremlino, sull'Unione Europea ma soprattutto sugli Stati Uniti: prospettiva tutt' altro che scontata ma che, di nuovo, lascia capire quanto sia difficile non schierarsi e non aderire a un'alleanza internazionale quando un trauma come la guerra costringe in qualche modo a prendere posizione. A complicare ulteriormente le cose è la potenziale tensione che si potrebbe creare presto tra Santa Sede e governo italiano. È filtrata la notizia di un prossimo passaggio delle consegne all'ambasciata russa presso la Santa Sede.
Il problema è che al posto di Aleksandr Adveev, diplomatico apprezzato in Vaticano, in Italia dal 2013, secondo Il Messaggero Mosca avrebbe scelto Alexei Paramonov: il direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri, che nei giorni scorsi ha minacciato ritorsioni contro l'Italia per il suo appoggio all'Ucraina.
E ha rinfacciato al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, i controversi aiuti russi durante la pandemia. Il tentativo del Vaticano sembra quello di attenuare l'effetto delle dichiarazioni di Paramonov, e di farne emergere i meriti nel dialogo tra Santa Sede e Mosca. Ma l'imbarazzo è evidente: tanto che non si capisce nemmeno se alla fine quella designazione sarà confermata o no. È verosimile che nel primo caso si aprirebbe un fronte diplomatico col governo di Mario Draghi: non solo russo ma vaticano. Ci si muove insomma su un terreno sempre più scivoloso, per tutti. E, almeno per ora, senza un regista in grado di indicare una via d'uscita o anche soltanto un compromesso.
Papa Francesco scomunica le armi? L'Osservatore Romano si ribella: clamoroso scontro in Vaticano. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 25 marzo 2022
Ad accogliere il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, giunto a Bruxelles per chiedere agli alleati della Nato di aumentare la loro spesa militare, ci sono le parole di Papa Francesco: «Mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil per l'acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!». Si vis pacem para bellum, cioè l'idea che preparare la guerra sia la strategia indicata a perseguire la pace, è un motto latino tanto antico quanto lontano dalla mentalità di Jorge Mario Bergoglio, sempre più timoroso che si passi a un conflitto globale, a tutto campo, che potrebbe coincidere con la fine del mondo.
Lo comunica alle partecipanti del Centro Femminile Italiano, affinché la sua analisi riecheggi nelle cancellerie europee, così come in quelle orientali, fino a Mosca, a Pechino e a Pyongyang: «Ma purtroppo questo è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica. La storia degli ultimi settant' anni lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po' dappertutto; fino ad arrivare a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero.
Ma il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno "scacchiere", dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri». Se mercoledì, nella telefonata al presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva detto: «Capisco che desiderate la pace, che dovete difendervi», ieri a poche ore dalla consacrazione di Ucraina e Russia al Cuore Immacolato di Maria per chiedere la pace, Papa Francesco spiegava che il sostegno immediato non coincide obbligatoriamente con un riarmo prolungato. Semmai, a suo avviso, «la vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, un mondo ormai globalizzato, e di impostare le relazioni internazionali».
SFORZI BELLICI - Pare che non lo ascoltino. Almeno a giudicare dalla convinzione con la quale il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, arrivando al Consiglio Ue a Bruxelles dopo i vertici Nato e G7, procede secondo quanto concordato: «Io ho ribadito l'impegno che hanno preso tutti gli altri governi nei confronti della Nato, quindi noi abbiamo questo impegno che è storico per l'Italia e noi continueremo a osservarlo». Sul fornire armi al popolo ucraino si è espressa anche la Cei, attraverso le parole di monsignor Stefano Russo: «Bisognerebbe arrivare a un disarmo totale e generale», ha dichiarato il prelato che ha anche sottolineato come questo «in questo momento, purtroppo, non sta avvenendo». Anzi, di fatto «il mercato delle armi alimenta le guerre, come più volte sottolineato da Papa Francesco. Bisognerebbe che tutte le nazioni prendessero questa decisione altrimenti ci troveremo sempre di fronte a queste crisi e al pericolo che queste crisi possano scoppiare», ha ribadito il segretario generale annunciando che la Cei sta pensando all'invio in Ucraina di «una delegazione di vescovi». Deciderà il cardinale Gualtiero Bassetti se e come esprimere quel «gesto di vicinanza concreto».
ACCUSE AL CREMLINO - In quel delicato gioco di equilibri, si inserisce anche L'Osservatore Romano con un editoriale del vicedirettore dei media vaticani Alessandro Gisotti che, a un mese dall'inizio del conflitto, ne attribuisce chiaramente la responsabilità al presidente russo Vladimir Putin, senza peraltro nominarlo, affermando che «appare ormai evidente che chi ha voluto questa guerra sconsiderata e ingiustificata non pensava di trovare un'opposizione così ostinata del popolo ucraino a cui l'Europa, e non solo, guarda con ammirazione per la forza che sta dimostrando nel difendere la propria libertà. Chi ha riportato di nuovo l'orrore della guerra nel Vecchio Continente, riteneva probabilmente che in pochi giorni la "questione" sarebbe stata risolta. Ha ignorato così, ancora una volta, la lezione della storia che tragicamente ci ricorda anche per le cosiddette super potenze - che una volta iniziata una guerra non si sa mai quando (e come) andrà a finire. L'unica certezza è che la vita delle persone è sconvolta per sempre». Al Cremlino suona come un'anàtema, l'annuncio di un giudizio divino, che prima o poi arriverà. Non solo la Chiesa cattolica, ma anche gli ortodossi ormai hanno isolato il Patriarcato di Mosca. Il metropolita georgiano Ioseb de Shemokmedi accusa di eresia ogni vescovo che sostenga l'invasione militare russa all'Ucraina. Ma anche fra il clero e i fedeli russi serpeggia il malcontento.
42 anni fa l'assassinio del santo salvadoregno. Chi era Oscar Romero, il monsignore assassinato per aver provato a fermare la violenza. Mons. Vincenzo Paglia su Il Riformista il 24 Marzo 2022.
«Soldati, vi supplico, vi prego, vi ordino: non uccidete i vostri fratelli». Sono le parole che il 23 marzo del 1980 mons. Oscar Arnulfo Romero pronunciò dall’altare della cattedrale di San Salvador. Il giorno dopo venne ucciso mentre celebrava la Messa. Sono passati esattamente 42 anni da quel giorno. E oggi siamo a un mese di guerra in Ucraina. Quelle parole sembrano lontane un’epoca. Mi è tornata in mente l’inizio di una poesia di Davide Maria Turoldo
Chi ti ricorda ancora
Fratello Romero?
Ucciso infinite volte
Dal loro piombo e dal nostro silenzio.
Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.
Sono le prime due strofe della bella poesia che Turoldo scrisse in memoria di Romero anni prima della canonizzazione. C’era in quegli anni una memoria viva di questo testimone della fede e dell’amore sino al martirio. Allora la causa di beatificazione era praticamente bloccata (di qui il lamento di Turoldo). Era viva invece la sua memoria presso i cristiani di tutte le denominazioni. La Chiesa anglicana lo aveva scelto tra i dieci testimoni della fede del Novecento che campeggiano nella facciata della cattedrale di Westmister. Persino l’Onu ne onorò la memoria proclamando il 24 marzo, giorno del suo martirio, “International Day for the right to the Truth Concerning Gross Human Rights and for the Dignity of Victims”. Turoldo si riferiva soprattutto ai confratelli di Romero. Oggi penso, invece, alla grande maggioranza. Con amarezza, con grande amarezza purtroppo, dobbiamo rilevare un pesantissimo silenzio su Romero e sulla sua testimonianza martiriale.
Romero sembra dimenticato. Anche nelle fila dei cristiani. La sua memoria non è più sentita come uno scandalo per le violenze e le guerre di questi anni e dei nostri giorni. Sento vero per questi tempi il lamento di Turoldo: “Chi ti ricorda ancora, fratello Romero?” Perché la sua memoria non è più dirompente? Sembra essersi attutita. Mi chiedo: si è forse annebbiata la testimonianza dei martiri, anche tra le comunità cristiane? È da mesi che questo interrogativo mi risuona nella mente. E ne trovo conferma nella freddezza con cui è stata celebrata la beatificazione di Rutilio Grande lo scorso gennaio. C’è stato come un grande silenzio nelle comunità cristiane come nelle società civili. Eppure ricordo che esattamente 9 anni fa, il 19 marzo del 2013, incontrando papa Francesco alla fine della Messa d’inizio di pontificato, parlammo di Romero e della necessità di promuovere la beatificazione di Rutilio Grande. Mi disse che il miracolo Padre Rutilio lo aveva già compiuto facendo cambiare vita a Romero. Come ricordano tutti coloro che conoscono anche solo poco di Mons. Romero. Mi sorprende il silenzio su questi due martiri. Eppure la loro memoria sarebbe molto utile. Anche in questo tempo nel quale si è come indebolita la forza di un cristianesimo martiriale. C’è nel Vangelo una dimensione di “eroismo” – inteso non in senso mondano ma, appunto, evangelico – che spinge il credente a dare la propria vita per gli altri più che a conservarla per se stessi. E ancor meno a colpirla a morte. Quell’istinto cristiano – un istinto originario fin dalle prime pagine della Bibbia che vede in ogni omicidio un fratricidio e in ogni guerra una uccisione tra fratelli – che spinge a ritenere che nessuna guerra è giusta, è come superato dalla voglia di trovare una morale che giustifichi. In questo tempo sento più che mai forte l’urgenza della dimensione “martiriale” del cristianesimo.
Ripeto: non si è attutita? Romero, predicando al funerale di un prete ucciso dagli squadroni della morte, affermò: «Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo “spirito del martirio”», cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arriva la nostra ora di render conto, possiamo dire «Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ho data. Non dimentichiamo che dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera» e, aggiungo io, nel testimoniare la non violenza del Vangelo della pace. In questo orizzonte evangelico come non vedere Romero negli uccisi durante le guerre, tutte le guerre? Riprendo i versi di padre Davide Turoldo: «Tutti uccisi infinite volte dal loro piombo e dal nostro silenzio. Ucciso per tutti gli uccisi; neppure uomo, sacerdozio che tutte le vittime riassumi e consacri». È questo il senso della memoria di Oscar Arnulfo Romero in questo 24 marzo 2022. E ricordare anche quella di padre Rutilio Grande. Era docente nella Università Cattolica di San Salvador, ma aveva scelto di vivere in un villaggio della periferia, Aguilares, con i contadini.
Un mese prima di essere ucciso (13 febbraio 1977), durante una sua predica diceva: «Sono convinto che presto la Bibbia e il Vangelo non potranno più attraversare i nostri confini. Ci lasceranno solo le copertine, perché ogni loro pagina è sovversiva. E credo che lo stesso Gesù, se volesse attraversare il confine di Chalatenango, non lo lascerebbero entrare. Accuserebbero l’Uomo-Dio, il prototipo dell’uomo, di essere un sobillatore, uno straniero ebreo, che confonde il popolo con idee strane ed esotiche contro la democrazia, cioè contro la minoranza dei ricchi, il clan dei Caini. Fratelli, senza dubbio, lo inchioderebbero nuovamente alla croce. E Dio mi proibisce di essere anch’io uno dei crocifissori». Il Vangelo della pace, dunque, deve essere predicato a voce alta dalla Chiesa di oggi. Lo ribadisce papa Francesco denunciando ancora una volta la disumanità della guerra: «Va contro la sacralità della vita umana, soprattutto contro la vita umana indifesa, che va rispettata e protetta, non eliminata, e che viene prima di qualsiasi strategia! Non dimentichiamo: è una crudeltà, disumana e sacrilega!». E domenica scorsa ha continuato: la guerra è “ripugnante”; di più, è “sacrilega” perché va contro la santità della vita umana, specie quella indifesa. E aggiungeva: «Siamo di fronte ad un massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità». E chiede a “tutti gli attori della comunità internazionale” l’impegno indefesso per cessare il conflitto e avviare i passi per la pace.
La guerra non è mai giusta. Nel Savador di mons. Romero la guerra civile era ingiusta, sempre. Era guerra di interessi mascherati da “ideali”. Sempre guerra, sempre ingiusta. Come lo sono tutte le guerre, a maggior ragione quando la sofferenza colpisce le popolazioni civili. La Chiesa ha il compito di predicare il Vangelo della pace: è il senso della predicazione di un Regno che sia di Dio e non del “diavolo” annuncia un disegno di Dio più alto, nobile e ambizioso per la Storia umana: realizzare la libertà, l’uguaglianza, la fraternità. È la profezia strettamente connaturata all’Antico e al Nuovo Testamento. E saldamente ancorata alle aspirazioni di ognuno di noi a vivere sereni, in pace, lasciando un mondo migliore ai nostri figli. Non un mondo distrutto o avvelenato dal rancore. Mons. Vincenzo Paglia
"I cristiani e la pace" di Mounier. La Chiesa condanna la guerra ma non se è un male necessario. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 23 Marzo 2022.
Credo che la crisi ucraina rilanci seriamente l’attualità delle riflessioni di Emmanuel Mounier, con il rigetto sia del bellicismo sia di un astratto pacifismo, e, soprattutto, ci aiuti a leggere bene l’articolo 11 della Costituzione, risalendo alle culture fondanti che l’hanno generata e all’esperienza della Resistenza europea che ne sta alla base. L’interrogativo chiave di partenza, in termini etico-politici, ma che illumina anche le riflessioni giuridiche, è come reagire al Male, alla volontà di potenza che si è espressa a Monaco l’anno precedente e che ha trovato le democrazie europee, Regno Unito e Francia, del tutto impreparate. Ovviamente non si può che essere contro i bellicisti, ma questo significa che dobbiamo aderire a una forma di ideologia pacifista, che punta su un tipo di pace che assomiglia a una resa?
Per rispondere a questa domanda, Mounier inizia criticando la Conferenza di Monaco che non ha affatto garantito la pace, ma esclusivamente «l’assenza di guerra armata». La cultura politica che vi si è espressa da parte delle democrazie occidentali è quella di un «pacifismo dei tranquilli», una «mediocrità» e un’«assicurazione contro ogni rischio», un’«utopia da sedentari». Questo esito è inaccettabile perché la forza è «una componente costante dei rapporti umani. […] Non esiste diritto che non sia stato plasmato da una forza, che non si sostenga senza una forza». Indubbiamente il cristianesimo punta ad allentare la «servitù della forza» per far prevalere altrimenti giustizia e carità, ma non è una pedagogia facile, immediata e neanche irreversibile: riemergono infatti costantemente «potenze oscure dalle caverne della vita e dagli abissi del peccato». Oltre al bellicismo che sta dietro la sovranità statale occorre per Mounier anche prendere atto della distanza che separa «il realismo cattolico e una certa ideologia pacifista», giacché «al di fuori dei sentieri della santità integrale», dopo aver esperito seriamente tutte le alternative possibili, «può arrivare il momento in cui tali mezzi si rivelano definitivamente inefficaci» ed allora, solo a quel punto, «il cattolicesimo ammette la legittimità della violenza al servizio della giustizia».
Mounier vuole essere rigoroso e ricorda quindi le quattro condizioni poste dalla Chiesa cattolica (e che devono essere tutte compresenti) per ritenere giusta una guerra: autorità legittima, causa giusta intesa come riparazione di una grave ingiustizia e proporzionalità dei mezzi rispetto ai mali arrecati, retta intenzione ossia scopo di una pace giusta, necessità del mezzo bellico come unico per riparare l’ingiustizia. Tutto questo complesso apparato di criteri è necessario perché, e qui sta la conclusione chiave, per evitare la guerra non si può escludere a priori il rischio di guerra: «Il rischio è ovunque, salvo nell’avvilimento o nel suicidio deliberato. […] Deve essere corso, facendo al contempo uno sforzo tanto più eroico per scongiurarlo». Nonostante la diffusione di posizioni pacifiste radicali nel seno della Chiesa cattolica, eticamente apprezzabilissime sul piano individuale, e la necessità di un protagonismo diplomatico ed ecumenico della Santa Sede, che la porta, con il Pontefice pro tempore in carica, chiunque egli sia, a non polemizzare con nettezza nei confronti di Paesi aggressori, come oggi nel caso della Russia putiniana, la complessità descritta nella sua epoca da Mounier, pur con alcuni importanti aggiornamenti, resta al centro del Magistero odierno della Chiesa.
Il paragrafo 500 del Compendio della Dottrina sociale condiziona l’esercizio della legittima difesa anche alla sua ragionevole efficacia: essa va praticata quando «ci siano fondate condizioni di successo», cosa che ovviamente mira ad evitare forme di testimonianza estrema. Non si può tuttavia leggere questa osservazione in modo semplicistico, come se la valutazione fosse limitata al solo momento di un’aggressione e alle sue più immediate conseguenze: così sarebbe ammessa solo una resa senza condizioni. La Scrittura, del resto, ci presenta il caso di Golia, molto più alto e forte, ma con una capacità visiva inferiore a colui che lo sconfisse (Davide oppure Elcanan, a seconda delle diverse narrazioni). Chi vede più lontano sa che chi appare soccombente a breve non lo è necessariamente alla fine del percorso. La prima grande democrazia europea ad affrontare un processo costituente fu, come noto, la Francia della Quarta Repubblica. Il suo Preambolo, tuttora vigente perché richiamato da quello della successiva Costituzione del 1958, affronta quindi in modo pionieristico, i nodi segnalati da Emmanuel Mounier, in due distinti periodi: «La Repubblica francese, fedele alle sue tradizioni, si conforma alle regole del diritto pubblico internazionale. Essa non intraprenderà nessuna guerra in vista di conquiste, e non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo. Con riserva di reciprocità, la Francia consente alle limitazioni di sovranità necessarie per l’organizzazione e la difesa della pace».
Il dibattito sul futuro articolo 11 iniziò in prima Sottocommissione il 3 dicembre 1946, con un testo di Dossetti chiaramente ispirato dal precedente francese. Togliatti fu però il primo a collegare logicamente e indissolubilmente i due aspetti: «Si tratta di un principio che deve essere affermato nella Costituzione, per chiarire la posizione della Repubblica italiana di fronte a quel grande movimento del mondo intero, che, per cercare di mettere la guerra fuori legge, tende a creare una organizzazione internazionale nella quale si cominci a vedere affiorare forme di sovranità differenti da quelle vigenti». La rinuncia alla guerra prende il suo senso nella costruzione di una nuova autorità legittima chiamata a rompere il sistema delle sovranità nazionali assolute. Il costituzionalista sturziano Carmelo Caristia lo tradusse immediatamente nella sua conseguenza normativa: propose ed ottenne di fondere i commi. Importante, però, per illuminare le culture politiche dei costituenti, è anche il dibattito sull’articolo 52 e più specificamente sulla bocciatura a larghissima maggioranza dell’emendamento pacifista radicale contro il servizio militare e per la neutralità perpetua presentato dal deputato socialista Arrigo Cairo. La proposta, che riecheggiava l’impostazione dell’articolo 9 del progetto di Costituzione giapponese, fu respinta il 22 maggio 1947.
Lungi dal congelare la Storia, la fine della Guerra fredda, ha ripresentato costanti dilemmi sui nodi della pace e della guerra. Si sono moltiplicate le situazioni di crisi in cui le democrazie occidentali si sono trovate a dover scegliere tra mobilitazione bellica e neutralità. Questi dilemmi si prestano male a sicurezze assolute e spesso i giudizi possono anche cambiare, perché una piena consapevolezza dell’impatto delle decisioni si può avere, tendenzialmente, solo dopo lo svolgimento degli eventi. Inoltre, non tutto ciò che è legittimo è di per sé opportuno e fecondo. Tuttavia, senza cadere in facili manicheismi, giova sempre ricordare che un Diritto imperfetto è sempre meglio di alcun Diritto. L’approccio delle culture democratiche che hanno fatto nascere la Costituzione, a differenza della sostanziale rassegnazione del bellicismo alle pulsioni peggiori della volontà di potenza e alla ricerca di perfezione del pacifismo astratto, fa propria l’importanza della battaglia per le cause imperfette teorizzata da Emmanuel Mounier secondo cui la “forza creatrice” dell’impegno nasce dalla «tensione feconda che esso suscita fra l’imperfezione della causa e la sua fedeltà assoluta ai valori che sono in gioco. L’astensione è un’illusione. Lo scetticismo è ancora una filosofia: ma il non intervento fra il 1936 e il 1939 ha prodotto la guerra di Hitler. D’altra parte, la coscienza inquieta e talvolta lacerata che noi acquistiamo dalle impurità della nostra causa ci tiene lontani dal fanatismo, in uno stato di vigile attenzione critica. Il rischio che noi accettiamo nell’oscurità parziale della nostra scelta ci pone in uno stato di privazione, d’insicurezza e di ardimento che è il clima delle grandi azioni».
Estratto dalla prefazione al volume di Emmanuel Mounier, I cristiani e la pace, Castelvecchi, Roma, 2022
Stefano Ceccanti
Dagospia il 23 marzo 2022.
Dall’account twitter di M.Antonietta Calabrò
Il Papa riconosce a Zelensky il diritto di difendersi. Parolin non esclude il viaggio di Papa Francesco a Kiev. Putin vuole inviare ambasciatore in Vaticano Paramonov , (che ha attaccato Lorenzo Guerini). A un mese dall’inizio della guerra, la giornata segna una svolta
Domenico Agasso per “la Stampa” il 23 marzo 2022.
«Capisco che voi desiderate la pace, capisco che dovete difendervi, i militari difendono, le persone civili difendono la propria patria, ognuno la difende». Sono le parole che papa Francesco ha pronunciato al telefono con Volodymir Zelensky, secondo quanto riferito dallo stesso presidente dell'Ucraina in videocollegamento con il Parlamento italiano. Una mossa, quella di Zelensky, che viene letta anche come tentativo di arruolare, almeno mediaticamente, contro la Russia il Pontefice, invitato ufficialmente ad andare a Kiev.
Ma una visita del Papa, per ora improbabile, è possibile? Il cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin ha dichiarato che «non è in grado di dirlo, loro dicono di poter garantire la sicurezza e so che il presidente Macron andrà... forse anche Johnson...». Parlando con Bergoglio, il leader ucraino ha ribadito che «il ruolo di mediazione della Santa Sede nel porre fine alla sofferenza umana sarebbe accolto con favore».
Massimo Franco per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022
«Il Papa negli ultimi giorni ha rafforzato molto la condanna dell'aggressione russa all'Ucraina. In questo modo ha reso più netta la posizione vaticana, che non è mai stata equidistante ma si preoccupava di offrire una mediazione. L'offerta è stata lasciata cadere un po' da tutti, anche perché il Vaticano può facilitare un negoziato solo se esiste la volontà di aprirlo davvero. E alla fine la Santa Sede ha deciso di schivare l'abbraccio strumentale delle destre cristiane schierate in modo più o meno larvato con Vladimir Putin». L'analisi arriva da uno degli uomini più vicini a Francesco.
E racconta come in quattro settimane di conflitto la posizione vaticana abbia virato verso un giudizio più duro sulla guerra decisa unilateralmente da Mosca: sebbene la volontà di mediare rimanga, caldeggiata dall'Ucraina. Il primo segnale che qualcosa stava cambiando è arrivato il 18 marzo quando il cardinale Pietro Parolin, «primo ministro» della Santa Sede, ha affermato che il diritto «a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta il triste ricorso alle armi».
Indirettamente, la sua presa di posizione è parsa giustificare anche i rifornimenti militari che il governo dell'Ucraina riceve. La decisione ha trovato forti resistenze nelle file del pacifismo religioso, amplificate dalla stampa cattolica: al punto da delineare in Italia un'inedita convergenza di Matteo Salvini con Francesco, lodato dal leader leghista per i suoi appelli alla pace.
Dopo la telefonata di ieri di Francesco al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Salvini, accusato dagli avversari di ambiguità verso Putin, ha ribadito il suo plauso al pontefice. Eppure, quella chiamata ha confermato un approccio diverso: tanto che Zelensky ha invitato il Papa a Kiev. Col passare del tempo si sono intravisti i rischi di una posizione che si limitava alla tesi di un «alt alla guerra», dando l'impressione di un conflitto nel quale Russia e Ucraina venivano messe quasi sullo stesso piano.
A frustrare la voglia di mediazione di Francesco sono state inoltre le affermazioni del patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, «braccio religioso» del putinismo. La sua legittimazione dell'attacco russo come «guerra giusta» contro l'Occidente che proteggerebbe «i Gay Pride» anticristiani, ha reso chiara la difficoltà di qualunque dialogo. E il «colloquio telematico» avuto con Francesco il 16 marzo lo ha confermato, allungando un'ombra tra cattolici e ortodossi: proprio quella che il Vaticano cerca di evitare.
E pensare che il 18 febbraio, quattro giorni prima dell'attacco russo, l'uomo del Cremlino presso la Santa Sede, l'ambasciatore Aleksandr Avdeev, aveva annunciato a Genova, durante un seminario italo-russo, un incontro tra Francesco e Kirill. E alla vigilia dell'invasione sembrava confermato.
«A giugno o luglio», aveva detto Avdeev: il secondo dopo quello storico del 2016 a Cuba. Ma ora la previsione è che slitterà di mesi. L'arretramento del dialogo ha dato corpo a uno degli incubi del Papa argentino: che il conflitto della Russia contro l'Ucraina si trasferisca sul piano religioso; non solo tra cattolici e ortodossi, ma dentro le stesse comunità religiose. Gli ortodossi ucraini e quelli russi sono spaccati tra di loro. E il capo dei greco-cattolici ucraini, monsignor Sviatoslav Shevchuk, ha chiesto subito al popolo di «difendere la patria» contro gli invasori russi. Francesco in queste settimane non ha mai nominato Putin. Ha negato che possa esistere una «guerra giusta».
Ma i riferimenti sempre più insistiti alla «violenta aggressione contro l'Ucraina, un massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità», evocano responsabilità additate in modo inequivocabile. D'altronde, il 10 marzo anche il presidente delle conferenze episcopali europee, il cardinale lussemburghese Jean-Claude Hollerich, aveva scritto una lettera aperta a Kirill perché fermasse Putin: messaggio che sembrava rivolto anche a Roma. Sono state queste pressioni concentriche, abbinate alle notizie e alle immagini dei bombardamenti contro i civili, a suggerire parole più nette contro la guerra di Putin. Per ora prevale giustamente l'aspetto umanitario.
La Chiesa cattolica insiste sull'accoglienza dei profughi ucraini e sulle perdite sui due fronti. Ma sullo sfondo si affaccia il tema di come saranno ridisegnati i rapporti tra Santa Sede e Russia, alleata del Papa argentino nella difesa delle minoranze cristiane in Siria e Medio Oriente; e se e come il conflitto cambierà lo schema bergogliano dell'equidistanza da qualsiasi blocco o alleanza internazionali. Nella nuova Guerra fredda che si va delineando dopo queste settimane sanguinose, il ruolo della Santa Sede potrebbe rivelarsi più prezioso ma più complicato. Almeno all'inizio, la diplomazia vaticana è apparsa spiazzata: tanto da far ritenere che dovrà essere ripensata a fondo per non apparire sbilanciata o, peggio, velleitaria.
Effetto guerra, «Il patriarcato di Mosca ha comunque perso l’Ucraina». Fulvio Scaglione su Avvenire il 24 marzo 2022.
Classe 1968, moscovita purosangue nato sull’Arbat, Sergey Chapnin è uno dei non molti che possono dire di conoscere bene la Chiesa ortodossa russa (Cor) e il patriarca Kirill. Da fuori, perché ha sempre indagato come giornalista la vita religiosa della Russia. Da dentro, perché è stato per sei anni direttore del Giornale del Patriarcato di Mosca, segretario della Commissione ecclesiale per i rapporti con la società e le istituzioni e docente presso l’Università ortodossa “San Tikhon”, titolare di un corso che, alla luce degli ultimi eventi, aveva un titolo quasi profetico: “La Chiesa e la società dell’informazione”.
Tutto finito quando, presentando una relazione al prestigioso Carnegie Centre di Mosca, Chapnin osò parlare di “Chiesa del silenzio” di fronte alla retorica della guerra e soprattutto di “Chiesa dell’impero”. Kirill, che lo conosceva dagli anni Novanta e che l’aveva messo alla testa del Giornale subito dopo essere diventato patriarca nel gennaio del 2009, lo licenziò in poche ore. Ora Chapnin si è fatto promotore di una lettera aperta contro la guerra e contro l’atteggiamento della Chiesa ortodossa russa che in pochi giorni ha raccolto l’adesione di un centinaio tra intellettuali e specialisti della Russia e dell’ortodossia.
La Chiesa dell’impero… Lei aveva la vista lunga.
Su certi temi il patriarca e il presidente Putin hanno idee che coincidono da almeno quindici anni. Kirill ha per la Chiesa la stessa visione imperialistica che il Cremlino ha in politica. Da molto tempo il patriarca si sente l’unica figura che può tenere unite le terre dell’ex Urss, il vero leader spirituale dell’ex impero sovietico, perché la Cor è presente nei Paesi Baltici, in Ucraina, nel Caucaso, nell’Asia Centrale. Lui pensa che l’Ucraina sia “sua”, proprio come Putin pensa che l’Ucraina sia “di Mosca”. È quindi naturale che i due si appoggino l’un l’altro. D’altra parte, il concetto di Russkij mir (mondo russo) e di Santa Rus’ (ovvero di un unico corpo di popoli slavi che deve restare unito sotto l’egida di Mosca, n.d.A), che da anni sono alla base della propaganda e della storiografia di Stato, furono elaborati da un ristretto ambito di circoli intellettuali e think tank tra cui ebbe un ruolo fondamentale il Vsemirnyj Russkij Narodny Sobor (Consiglio mondiale popolare russo), che era stato fondato proprio da Kirill quando era ancora metropolita e responsabile delle relazioni estere della Cor. Kirill riuscì poi a “vendere” al Cremlino questa idea, che è diventata l’architrave dell’azione politica della Russia.
Ciò che succede anche dal punto di vista religioso, però, è che Mosca sta perdendo l’Ucraina.
L’Ucraina è ormai persa. Già 17 diocesi, quasi metà del totale, hanno smesso di nominare il patriarca Kirill durante le liturgie, disconoscendo così la sua autorità spirituale. E poi ci sono altri segnali. Un convento di L’viv ha deciso di lasciare la Cor per entrare nella Chiesa ortodossa dell’Ucraina, quella autocefala nata nel 2018. C’è una valanga in arrivo.
Pensa che chi lascia la Cor entrerà nella Chiesa autocefala o che nascerà una nuova Chiesa?
Credo che nascerà una nuova struttura della Chiesa ortodossa in Ucraina. Ma solo quando la guerra sarà finita".
Non c’è dissenso interno alla Chiesa ortodossa russa? Un tempo si pensava che il metropolita Tikhon Shevkunov, il “confessore di Putin”, fosse il falco e il metropolita Ilarion Alfeev la colomba…
La situazione è complessa, le leggi in vigore non permettono di chiamare guerra la guerra e invasione l’invasione, se non usi l’espressione “operazione speciale” rischi il processo, una multa e persino il carcere. C’è un gran numero di consigli parrocchiali e parroci che hanno paura di esprimersi in pubblico. Ma un solo parroco ha fatto un’omelia contro la guerra, padre Ioann Budrin di Kostroma: in due giorni è stato portato davanti al tribunale e condannato a una multa di 35mila rubli, che per un parroco è una grossa somma. Possono prendere posizione quasi solo quelli che sono fuori dalla Russia, come il metropolita Innokenty di Vilnius e della Lituania che ha fatto affermazioni molto coraggiose contro la guerra. Ma per quel che so, questa è stata l’unica voce di un alto esponente della Chiesa ortodossa russa. Quanto ai due metropoliti… Tikhon da molti anni sostiene la necessità di opporsi all’Occidente per proteggere l’integrità del mondo ortodosso, visto ovviamente come più ampio del territorio della Federazione russa. Per quanto invece riguarda Ilarion, mantiene un ostentato silenzio. Non vuole perdere i contatti con il resto del mondo cristiano ma alla fin fine è anche lui schierato con Kirill.
A proposito del mondo cristiano: il Patriarca e papa Francesco si sono parlati via Internet. Che cosa ne pensa?
Non credo che papa Francesco possa essere rimasto soddisfatto. Dagli stessi resoconti ufficiali del patriarcato si capisce che Kirill ha solo ribadito le proprie teorie, per di più in modo assai semplicistico. E poi ha provato a sfruttare l’occasione: al Consiglio superiore ecclesiale, una delle maggiori istituzioni della Chiesa ortodossa russa, ha cercato di sostenere che il contatto con il Papa, come prima quello con l’arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana Justin Welby, dimostrava che il Patriarcato non è isolato, mentre invece conosciamo bene il giudizio del mondo cristiano su questa guerra.
Putin ha molto esibito, negli anni, un certo atteggiamento religioso. Ma ci crede davvero o usa la religione per ragioni politiche?
Secondo me, Putin è una persona semireligiosa ma certo non un cristiano. Sente il bisogno di un elemento mistico, misterico, forse magico, e soprattutto cerca una conferma sacrale a ciò che sta facendo. È importante per lui credere che le sue azioni ricevono una qualche conferma dall’alto. E il patriarca Kirill, con le teorie sul Russkij Mir o la Santa Rus’, offre a Putin e allo Stato russo la giustificazione che questi cercano per i crimini che commettono contro altri popoli ma anche contro il popolo russo, con la censura, la repressione, il terrore.
Una domanda che si fanno tutti: dove vuole arrivare, Putin, in Ucraina?
Se pensiamo a quella specie di para-religione che Putin e Kirill hanno in testa, credo che l’idea sia di conquistare Kiev. Loro pensano che Mosca sia il centro politico e culturale della Santa Rus’ ma che Kiev ne sia il centro spirituale. Per loro è insopportabile immaginare Kiev come parte dell’Occidente o con un governo filo-occidentale, quindi penso che prima o poi tenteranno di conquistarla. È un’idea folle ma penso che ci proveranno".
Il gesto forte del Papa: così scuote le coscienze sulla guerra in Ucraina. Francesco Boezi il 22 Marzo 2022 su Il Giornale.
Papa Francesco si prepara ad una mossa plateale sulla guerra in Ucraina. Nel frattempo, il cardinale e segretario di Stato Parolin ribadisce la posizione del Vaticano ed apre ancora alla mediazione.
Papa Francesco continua ad adoperarsi attraverso canali diplomatici per contribuire alla pace in Ucraina ma si prepara anche ad un gesto forte: il pontefice argentino consacrerà tanto la nazione presieduta da Volodymyr Zelensky quanto quella di Vladimir Putin al cuore immacolato di Maria. La celebrazione avrà luogo il prossimo 25 marzo, in occasione della Penitenza e durante la festività dell'Annunciazione.
L'ex arcivescovo di Buenos Aires ha chiesto in via ufficiale a tutti i vescovi della Chiesa cattolica di unirsi, mentre in Vaticano si rincorrono voci sulla possibile presenza del pontefice emerito Benedetto XVI. Per ora si tratta di una mera suggestione: sono molti anni che Joseph Ratzinger non prende parte ad una funzione pubblica. Ma non è detto che le circostanze non possano spingere l'ex successore di Pietro ad uscire dal monastero Mater Ecclesiae per recarsi nella Basilica di San Pietro.
L'atto di consacrazione per entrambe le nazioni conferma l'impostazione del pontefice argentino sulla ricerca della pace: per il Santo Padre e per la Santa Sede, la fine delle ostilità non è raggiungibile sostenendo, a mo' di tifo, le ragioni dell'una o dell'altra parte in conflitto. Il Vaticano, nonostante gli attacchi ricevuti da qualche media progressista, ha riconosciuto il diritto dell'Ucraina di difendersi per mezzo delle armi.
La presa di posizione ufficiale è arrivata tramite le dichiarazioni rilasciate dal cardinale e segretario di Stato Pietro Parolin a Vida Nueva, settimanale spagnolo: "Il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi".
Non c'è, insomma, quella "inaccettabile equidistanza" denunciata da Le Monde. Certo, il Papa non può parlare il linguaggio della politica e deve tenere aperto ogni canale di dialogo. Nel caso in cui Ucraina e Russia volessero davvero che la mediazione sul conflitto coinvolgesse il Vaticano, l'invito dovrebbe arrivare da ambo le parti: questa è la tradizione che vige in materia diplomatica. E gli attori di questa fase storica conoscono bene la prassi. Parolin, nella medesima intervista citata, ha ribadito che la Santa Sede è ancora disponibile a svolgere la funzione di mediatore.
La consacrazione potrebbe non essere l'unico intervento plateale del Papa gesuita: la strada che conduce ad una visita a Kyev è pressoché impraticabile. E sempre la tradizione di cui sopra vorrebbe che il Santo Padre, in caso, si recasse anche a Mosca. La natura difficile di una visita apostolica di questo tipo e durante una guerra non impedisce a molti addetti ai lavori di parlarne: Jorge Mario Bergoglio, come la conversazione tenuta di recente con il patriarca ortodosso moscovita Kirill dimostra, ha aperto un canale di dialogo anche con le istituzioni cristiane russe.
Non solo: secondo quanto dichiarato da Alekseij Paramonov, che è il direttore del Diparimento del ministero degli Esteri russo che si occupa dell'Europa, Santa Sede e Russia continuano a parlarsi. Il vescovo di Roma, secondo il vertice russo e così come ripercorso dall'agenzia Nova, avrebbe "mostrato un sincero interesse a comprendere, per quanto possibile, la situazione in Ucraina e formarsi una propria opinione".
In contemporanea, dalle parti di piazza San Pietro, hanno ennesimamente chiarito quale sia la visione sul conflitto innestato da Vladimir Putin: "In Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un'operazione militare ma di guerra che semina morte, distruzione e miseria", ha tuonato sempre Parolin, utilizzando peraltro le medesime parole del vertice della Chiesa cattolica, nella Messa del 16 marzo scorso per la pace in Ucraina.
In missione contro l'Occidente. Dietro Putin c’è la guerra santa di Kirill: fondamentalismo religioso è alla base del conflitto. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 18 Marzo 2022.
E così dopo le dichiarazioni del Patriarca di Mosca Kirill, abbiamo scoperto che il mondo ortodosso ha delle sue specifiche varianti nazionaliste e ideologiche – con copertura religiosa – almeno tanto quanto le ha l’ampio e variegato settore dei tradizionalisti cattolici. E uno dei compiti dell’Occidente potrebbe consistere nell’appoggiare e sostenere quelle voci che si oppongono all’ideologia nazionalista-religiosa e dare spazio al dialogo, alla tolleranza, al riconoscimento delle diversità. Già perché una delle questioni irrisolte che il conflitto sta portando alla luce riguarda l’ecumenismo, il dialogo tra chiese cristiane che per il momento è naufragato.
Ancora non si è sentita la voce del Patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli – che sarebbe un primus inter pares – sebbene la sua leadership morale sia ampiamente contestata. Tuttavia si è sentita forte la voce del Patriarca Kirill di Mosca a sostegno delle tesi del governo. La continuità tra ortodossia e potere politico in Russia è una tradizione radicata, rinforzata da 70 anni di potere sovietico. Nel resto del mondo ortodosso dell’Est Europa, l’assetto delle chiese – che sono chiese autocefale, nazionali – è destinato a venire ridiscusso, nel medio periodo, proprio dal conflitto in corso. Eppure qualcosa si muove. Significativo in questo senso è un appello che viene dallo stesso mondo ortodosso ed è fortemente critico nei confronti del Patriarca Kirill. Si tratta della Dichiarazione sull’insegnamento del “mondo russo” (A Declaration on the “Russian world” teaching). È stata pubblicata sul sito della Accademia per gli studi teologici di Volos (Grecia) e sul Forum Public Orthodoxy del Centro studi cristiani ortodossi della Fordham University. Inizialmente sottoscritto da 65 teologi ortodossi, il testo registra oltre 500 firme di intellettuali e le adesioni sono destinate ad aumentare.
Il documento condanna senza appello l’ideologia del “mondo russo”. Definito così: «Il sostegno da parte di diversi gerarchi del Patriarcato di Mosca alla guerra del presidente Vladimir Putin contro l’Ucraina si è radicato in una forma di fondamentalismo religioso ortodosso etno-filetico, di carattere totalitario, chiamato Russkii mir o mondo russo, un falso insegnamento che sta affascinando molti dentro la Chiesa Ortodossa ed è stato anche ripreso dall’estrema destra e da fondamentalisti cattolici e protestanti». Da notare quest’ultima frase, cioè la saldatura tra i nazionalismi che prendono la religione a pretesto come copertura ideologica. L’ “etno-filetismo” cioè l’identificazione di chiesa e nazione su base etnica, è condannato dal Concilio di Costantinopoli del 1872 che lo qualificò allora come una “moderna eresia”. Risorge – come risorgono i nazionalismi a periodi alterni – e si avverte la necessità di avviare una profonda e diffusa operazione ecumenica e culturale per smantellare alle radici qualunque giustificazione della violenza e della sopraffazione.
Notano i firmatari che sia Putin sia Kirill sono i protagonisti dell’ideologia del “mondo russo”. «Nel 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea e ha iniziato una guerra per procura nella zona del Donbass in Ucraina, fino all’inizio della guerra vera e propria contro l’Ucraina, Putin e il patriarca Kirill hanno usato l’ideologia del mondo russo come principale giustificazione per l’invasione. Tale insegnamento afferma che esiste una sfera, o civiltà, russa di carattere transnazionale, chiamata «Santa Russia» o «Santa Rus’», che comprende la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia (e talvolta anche la Moldavia e il Kazakistan), così come tutti coloro di etnia russa e i russofoni di tutto il mondo». E Mosca ne sarebbe il centro politico, religioso, etnico, ideologico. “Tale insegnamento sostiene che questo «mondo russo» ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kiev quale «madre di tutte le Rus’»), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca), che lavora in «sintonia» con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo”.
È un’ideologia nazionale che ha un nemico specifico: l’Occidente – per definizione corrotto – e che “avrebbe ceduto al «liberalismo», alla «globalizzazione», alla «cristianofobia», ai «diritti omosessuali» promossi nelle «parate gay», e al «secolarismo militante». Contro l’Occidente e gli ortodossi che sarebbero caduti nello scisma e nell’errore (come il Patriarca Ecumenico Bartolomeo e altre Chiese ortodosse locali che lo sostengono) si erge il Patriarcato di Mosca, insieme a Vladimir Putin, come i veri difensori dell’insegnamento ortodosso, che vedono i termini di una moralità tradizionale, una comprensione rigorosa e inflessibile della tradizione, nonché la venerazione della Santa Russia”. A partire da questa premessa, il documento sviluppa le linee di una risposta teologica improntata al dialogo, alla chiarificazione dei reali valori alla base del Vangelo, a partire dalla precisa affermazione di Gesù: il mio Regno non è di questo mondo. Da qui proviene la denuncia di ogni ideologia politica che si voglia appropriare del messaggio cristiano; e della falsità intrinseca di ogni regime politico che intenda se stesso come interprete di un’unica e sola continuità con il Vangelo. Dicono precisamente gli estensori del documento: “Respingiamo qualsiasi divisione manichea e gnostica che elevi come «santa» la cultura orientale ortodossa e i popoli ortodossi al di sopra di un «Occidente» svilito e immorale.
È particolarmente malvagio condannare altre nazioni attraverso speciali petizioni liturgiche della Chiesa, elevando i membri della Chiesa ortodossa e le sue culture come spiritualmente santificati in confronto agli «eterodossi» carnali e secolarizzati”. Ed aggiungono, per maggiore chiarezza, la necessità di condannare la guerra e l’invasione russa dell’Ucraina: «un’invasione militare su larga scala che ha già provocato numerosi morti civili e militari, lo sconvolgimento violento della vita di oltre quarantaquattro milioni di persone, lo spostamento e l’esilio di oltre due milioni di persone (al 13 marzo 2022). Questa verità deve essere detta, per quanto dolorosa possa essere. Perciò condanniamo come non ortodosso e respingiamo qualsiasi insegnamento o azione che rifiuta di dire la verità, o sopprime attivamente la verità sui mali che vengono perpetrati contro il Vangelo di Cristo in Ucraina.
Cosa accadrà adesso? Occorre stare a vedere quale potrà essere l’effetto di questa dichiarazione e di una lenta presa di coscienza da parte dei settori più avvertiti dell’ortodossia, a partire dalla stessa Chiesa ortodossa ucraina legata al Patriarcato di Mosca, che in questi giorni ha dichiarato la sua avversione verso la guerra voluta dal Cremlino. Una spaccatura significativa. Sarà però necessaria un’azione coordinata da parte degli altri attori dell’ecumenismo: le altre chiese cristiane (protestanti), la stessa Chiesa cattolica, per incoraggiare tutta l’ortodossia a fare un passo avanti. Insomma un effetto a lungo termine della guerra potrebbe essere il venir meno delle chiese nazionali (autocefale, come si dice con termine tecnico) e dare una spinta decisa al ristagnante ecumenismo di questi anni. Infatti una delle differenze profonde tra le Chiese riguarda la giustizia sociale. Mentre l’ortodossia preferisce (finora) un messaggio spirituale slegato dalle concrete condizioni di vita, è risaputo che il mondo cattolico ha uno dei suoi perni sul legame indissolubile tra evangelizzazione e opere di carità, sul connubio tra Vangelo e Dottrina sociale che da questo prende linfa ed origine. Nel mondo ortodosso non è così. Forse siamo ad un punto di svolta, vedendo quanto estremismo può generare un Vangelo scollegato dalla realtà e collegato al potere politico.
Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).
Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 17 marzo 2022.
E alla fine il contatto c'è stato. Papa Francesco e il patriarca ortodosso di Mosca, Kirill si sono incontrati, seppur virtualmente, separati soltanto da una webcam. Settimane di tensioni in cui sembrava che i rapporti tra le due chiese fossero ormai compromessi, soprattutto dopo le affermazioni del leader religioso russo che ha chiaramente appoggiato la guerra di Putin in Ucraina, disconoscendo quella linea pacifista su Kiev che aveva abbracciato nel 2016 durante lo storico incontro a Cuba con Bergoglio.
Da quanto hanno fatto sapere sia il Patriarcato di Mosca sia la Sala Stampa della Santa Sede sembra che lo strappo sia ricucito: un colloquio «cordiale» in cui i due leader hanno convenuto che «la Chiesa non deve usare la lingua della politica ma il linguaggio di Gesù», con Francesco che ha voluto ricordare al patriarca che «chi paga il conto della guerra è la gente, sono i soldati russi e la gente che viene bombardata e muore».
C'è da chiedersi adesso, ed è anche ciò che si sta facendo all'interno delle mura vaticane, se delle parole e dell'atteggiamento di Kirill ci si possa fidare: soltanto una settimana fa, infatti, il patriarca, durante il sermone della domenica che in Russia ha aperto la Quaresima, ha parlato di «crociata», di guerra necessaria in Ucraina per arginare le lobby gay in Occidente, di attacco per fermare le nazioni che difendono i diritti degli omosessuali, portando argomentazioni storiche e politiche.
Parole che hanno lacerato ancor di più il mondo ortodosso e scatenato anche una reazione importante di Papa Francesco, il quale domenica scorsa all'Angelus ha detto, pur senza citare esplicitamente il patriarca russo, ma il riferimento era abbastanza chiaro, che «Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra, e chi appoggia la violenza ne profana il nome».
Una presa di posizione durissima da parte del Papa che ha subito messo in allerta gli analisti di tutto il mondo, convinti che la rottura tra le due chiese fosse ormai praticamente in atto e che l'atteso incontro di persona tra il Papa e Kirill in cantiere per questa estate fosse soltanto un ricordo lontanissimo. «Ma non dobbiamo scordarci che il Papa considera Kirill un fratello - spiega uno stretto collaboratore di Francesco a il Giornale - e si sa che spesso tra fratelli si discute ma poi vince sempre la pace.
Rientra nel carattere del Pontefice dire le cose come stanno e sono certo che tra i due ci siano state parole costruttive». E in effetti, almeno da quanto emerge, Kirill ha convenuto con il Papa che «le Chiese sono chiamate a contribuire a rafforzare la pace e la giustizia», con Francesco che ha inoltre precisato al suo interlocutore quanto «come pastori abbiamo il dovere di stare vicino e aiutare tutte le persone che soffrono la guerra. Un tempo si parlava anche nelle nostre Chiese di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può parlare così. Si è sviluppata la coscienza cristiana dell'importanza della pace».
Proprio perché i tempi sono cambiati, Francesco il 25 marzo consacrerà la Russia e l'Ucraina al Cuore Immacolato di Maria. Un gesto storico che fu compiuto anche nel 1984 da Giovanni Paolo II ma, secondo quanto raccontò chi era presente, senza nominare la Russia per non irritare l'allora patriarca Pimen. Un atto di consacrazione che oggi, invece, sarà chiaramente rivolto ai due Paesi in guerra.
Ceccanti: "Il Papa non può fare il cappellano dell'Ue o della Nato". Francesco Boezi il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il professor Stefano Ceccanti spiega perché "l’aspirazione alla pace non va scambiata con l’inazione, col neutralismo". Poi le aperture sulle riforme strutturali (e sul referendum Giustizia).
Il professor Stefano Ceccanti, esponente di punta del Pd che prima di tutti gli altri si era detto convinto che Sergio Mattarella potesse (per Ceccanti dovesse) essere rieletto al Quirinale, disegna i confini tra il ripudiare la guerra e ad assistere inermi ad un massacro. Gli stessi disciplinati dalla Costituzione. Se i cattolici non sempre si sono schierati dalla parte del "pacifismo astratto", l'art.11 della Carta, come l'onorevole spiega nella introduzione di "I cristiani e la pace", libro di Emmanuel Mounier edito da Castelvecchio, necessita d'interpetazioni precise. E poi la politica, con la necessità mai venuta meno - dice Ceccanti - di una riforma elettorale e con qualche apertura sul Referendum sulla Giustizia.
Professor Ceccanti, è tornato il pacifismo di sinistra?
"Secondo la grande maggioranza delle grandi culture democratiche che hanno ispirato la Costituzione l’aspirazione alla pace non va scambiata con l’inazione, col neutralismo, ma col multilateralismo, è incardinata in una concertazione tra democrazie. Questo sono le distinte realtà dell’Unione europea e della Nato. Poi ci sono correnti minoritarie, a destra come a sinistra, che fanno una sorta di salto logico, per me sbagliato, dalla scelta personale della nonviolenza, che è apprezzabilissima e che può essere una scelta efficace dentro le democrazie, passano ad una sorta di pacifismo astratto che non tiene conto delle volontà di potenza negli Stati autocratici. Del resto anche nelle nostre società evolute e democratiche nessuno pensa di eliminare i corpi di polizia contando solo sulla bontà delle persone. Un deputato socialista all’Assemblea costituente propose la neutralità e la rinuncia all’esercito ma prese solo trenta voti. Queste posizioni di per sé sbagliate possono comunque aiutarci perché ci aiutano volta per volta a porci dei dubbi sulle scelte che facciamo, se esse siano razionali e proporzionate. Il dibattito in una società democratica è un elemento di forza".
Lei ha da poco introdotto un libro di Mounier sul rapporto tra i cristiani e la Pace. Non è sempre vero che i cristiani ripudiano la guerra?
"Storicamente fino al Concilio Vaticano II la dottrina, pur dentro alcuni criteri e limiti, tendeva ad essere troppo permissiva, alla fine tendeva a riconoscere in quasi ogni guerra un conflitto giusto. Come mi raccontò l’uditore laico Sugranyes de Franch, amico di Papa Montini e esule antifranchista, al Concilio ci fu un impegno forte per stringere i freni, soprattutto tenendo conto del potenziale distruttivo delle armi nucleari, tanto che nei testi del Concilio si parla solo di legittima difesa e non anche di guerra giusta. Però il Concilio non voleva affatto arrivare all'opposto, quello di ritenere sempre illegittima la difesa armata. Infatti Sugranyes ripeteva spesso che Francia e Regno Unito avevano sbagliato a non intervenire contro Franco e fu favorevole all’intervento contro la Serbia. Del resto Montini era stato insieme a Degasperi tra i sostenitori più forti dell’adesione dell’Italia alla Nato".
E poi c’è l’Art.11 della nostra Costituzione….
"Che ripudia appunto non solo la guerra per noi ma anche quella di aggressione degli altri. Per questo l’articolo nella sua seconda parte, che va letta in modo strettamente legato alla prima, tende a spostare a livello multilaterale la questione dell’uso legittimo della forza. Non è una scelta di isolazionismo per cui noi ripudiando la guerra nostra ci dovremmo disinteressare di quelle procurate da altri. Dopo di che, se non funziona il monopolio legittimo della forza perché il Consiglio Onu riconosce il potere di veto alla Russia che è un aggressore, è giusto che ci si ponga il problema di come aiutare chi legittimamente, secondo la stessa Carta Onu, difende il proprio diritto a resistere. Ovviamente in forme proporzionate e ragionevoli. L’aiuto all’Ucraina anche con armi è una via media tra l’assistere rassegnati in modo pilatesco e pendere iniziative con esiti sproporzionati come una no fly zone".
Senta, la guerra di Putin sembra bloccare in parte l’attività del Parlamento che è chiamato a nuove urgenze. Rischiamo di rimandare questioni centrali in termini di riforme istituzionali?
"Più che bloccare l’attività la ridefinisce, impone ad esempio di rimodellare il Pnrr e più in generale le politiche energetiche e quelle della difesa".
Come giudica la posizione del Papa sulla guerra?
"Il Papa e la diplomazia della Santa Sede sono chiamati ad un ruolo altro, di ricomposizione del conflitto, giocando lì il loro prestigio, ma questo non risolve il problema di cosa dobbiamo fare noi. Il Papa lavora su un piano diverso, non può fare il cappellano della Nato o dell’Unione europea, ma neanche noi possiamo vederci come ambasciatori della Santa Sede, noi dobbiamo fare il nostro dovere nella Ue e nella Nato, nelle forme multilaterali efficaci in questa fase".
L’Unione europea è chiamata a diventare “adulta”. Anche il Pd ormai sostiene la necessità di una Difesa comune.
"Il Pd ha nel suo dna De Gasperi e Spinelli, coloro che più di molti altri avevano lavorato nei primi anni ’50 per la Comunità europea di difesa, allora bocciata dai francesi. Lo è quindi non da oggi".
Sistema elettorale: non è più un argomento sul tavolo?
"L’esigenza c’è ed è forte, ma evidentemente a fine legislatura non si può immaginare una riforma votata fini da una piccola maggioranza contro altri. Bisogna provare fino alla fine ma con la condizione di una maggioranza larghissima, senza tentazioni di parte sulla base dell’ultimo sondaggio".
L’attenzione si è spostata: avete ancora intenzione, come forza di esecutivo, di intervenire sulla Giustizia prima del Referendum?
"La Commissione Giustizia sta lavorando e credo che ce la possa fare. Se non arriverà in tempo occorrerà sostenere col Sì i quesiti coerenti col nostro impegno parlamentare (distinzione funzioni, valutazione magistrati, sistema elettorale Csm) e bocciare col No quelli non coerenti (abrogazione totale del decreto Severino, intervento confuso sulla carcerazione preventiva. In ogni caso il Parlamento dovrebbe intervenire anche dopo l’esito dei referendum perché il loro esito concreto non sarebbe risolutivo".
Guerra in Ucraina, Papa Francesco parla col Patriarca di Mosca Kirill. Il Tempo il 16 marzo 2022.
Papa Francesco e il Patriarca di Mosca Kirill hanno discusso del conflitto in Ucraina auspicando «una pace giusta». Lo rende noto il Patriarcato di Mosca in una nota. «Le parti hanno sottolineato l’importanza cruciale del processo di negoziazione in corso, esprimendo la speranza che una pace giusta possa essere raggiunta presto», ha detto il Patriarcato.
Tra Papa Francesco e il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill si è svolta «una discussione dettagliata» della situazione ucraina. «Particolare attenzione - riferisce la nota del Patriarcato - è stata rivolta agli aspetti umanitari dell’attuale crisi e alle azioni della Chiesa ortodossa russa e della Chiesa cattolica romana per superarne le conseguenze. Le parti hanno sottolineato l’eccezionale importanza del processo negoziale in corso, esprimendo la loro speranza per il raggiungimento al più presto di una pace giusta. »Sua Santità - riferisce sempre la nota - ha salutato cordialmente il Primate della Chiesa Cattolica Romana, esprimendo soddisfazione per la possibilità di organizzare un colloquio« (in video-chiamata). Papa Francesco e il Patriarca Kirill hanno discusso »anche di alcune questioni attuali della cooperazione bilaterale«. Il patriarca Kirill era affiancato, nella video-chiamata, dal metropolita Hilarion di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato, mentre il Pontefice era affiancato dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani.
Papa Francesco, "ha accuratamente evitato di nominare Putin": pioggia di accuse, un caso internazionale. Libero Quotidiano il 18 marzo 2022.
Papa Francesco criticato. Ad avanzare accuse al capo della Santa Sede è il New York Times. In un lungo articolo il quotidiano americano sottolinea come il Papa "deplora la guerra in Ucraina, ma non l’aggressore". Il riferimento è alla guerra in Ucraina, per cui Bergoglio si è speso in diversi appelli. "Il Papa – si legge – ha accuratamente evitato di nominare l’aggressore, il presidente russo Vladimir Putin, o anche la stessa Russia. E mentre ha affermato che chiunque giustifichi la violenza con motivazioni religiose ‘profana il nome’ di Dio, ha evitato le critiche al principale sostenitore religioso e apologeta della guerra, il Patriarca Kirill della Chiesa ortodossa russa".
E ancora: "A differenza di alcuni nazionalisti europei, che hanno improvvisamente ignorato il nome di Putin per evitare di ricordare agli elettori che appartenevano al fan club del leader russo, la motivazione di Francesco deriva dal suo camminare su una linea sottile tra coscienza globale, attore diplomatico del mondo reale e leader religioso responsabile dell’incolumità del proprio gregge".
Parole forti quelle del New York Times, mentre il Pontefice ha invitato tutti i vescovi a unirsi e pregare per le sorti del popolo ucraino. L'occasione, come ribadito nei giorni scorsi, sarà la celebrazione della Penitenza, prevista alle 17 di venerdì 25 marzo, festa dell'Annunciazione, nella Basilica di San Pietro.
Ucraina, la sinistra attacca anche Papa Francesco: parla di pace, ma ai compagni non basta. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 14 marzo 2022.
Il nono anniversario della sua elezione - ieri - è stato per papa Francesco il più triste. Addirittura angoscioso. Perché dopo aver lanciato l'allarme per anni sulla terza guerra mondiale che si stava combattendo "a capitoli", ora si ritrova un mondo che rischia di precipitare definitivamente in una guerra planetaria. Che sarebbe l'ultima... E incredibilmente - dopo che nessuno ha ascoltato i suoi allarmi, compresi quelli contro la corsa agli armamenti degli Stati - c'è chi afferma, come il quotidiano Le Monde, che la sua condanna della guerra in Ucraina non è come a Parigi si vorrebbe. Eppure è impossibile equivocare i suoi interventi. Nessuno in queste settimane ha pronunciato parole così forti di condanna del conflitto, dell'odio, e di pietà e solidarietà per le vittime. Ieri all'Angelus ancora più accorato ha detto: «Fratelli e sorelle, abbiamo appena pregato la Vergine Maria. Questa settimana la città che ne porta il nome, Mariupol, è diventata una città martire della guerra straziante che sta devastando l'Ucraina. Davanti alla barbarie dell'uccisione di bambini, di innocenti e di civili inermi non ci sono ragioni strategiche che tengano: c'è solo da cessare l'inaccettabile aggressione armata, prima che riduca le città a cimiteri. Col dolore nel cuore unisco la mia voce a quella della gente comune, che implora la fine della guerra. In nome di Dio, si ascolti il grido di chi soffre e si ponga fine ai bombardamenti e agli attacchi! Si punti veramente e decisamente sul negoziato, e i corridoi umanitari siano effettivi e sicuri. In nome di Dio, vi chiedo: fermate questo massacro!» Poi ha esortato di nuovo «all'accoglienza dei tanti rifugiati, nei quali è presente Cristo», ha ringraziato «per la grande rete di solidarietà che si è formata» e ha chiesto a tutta la Chiesa di intensificare «i momenti di preghiera per la pace» perché «Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra, e chi appoggia la violenza ne profana il nome. Ora preghiamo in silenzio per chi soffre e perché Dio converta i cuori a una ferma volontà di pace».
SENZA EQUIVOCI
Ha parlato di «inaccettabile aggressione armata» in Ucraina, di «barbarie», ha implorato di metter «fine ai bombardamenti e agli attacchi». Non c'è nessuno che in buona fede possa dire che il papa non è chiaro. Ma, pur riconoscendo l'intensità degli interventi del pontefice e il suo prodigarsi per far cessare il conflitto, sia con la diplomazia che con gesti eccezionali come quando è andato personalmente all'ambasciata russa a esprimere il suo sgomento per l'invasione, Le Monde sabato ha scritto che il papa dovrebbe puntare esplicitamente il dito contro la Russia. Secondo il giornale francese «per un cattolico che ascoltasse solo lui sarebbe molto difficile sapere chi ha iniziato la guerra». Forse Le Monde ha confuso il papa con il conduttore di un telegiornale. Ammesso e non concesso che ci sia qualcuno che non è al corrente dell'invasione dell'Ucraina, va ricordato che il Papa non ha il compito di fare notiziari d'informazione, la sua missione è un'altra. Ma l'osservazione ostile del giornale francese torna utile per capire che, diversamente da giornalisti e (cattivi) politici, un Papa non inveisce mai contro singoli uomini, popoli o Stati; non pronuncia parole di odio che vanno a gettare benzina sulle fiamme dei conflitti. Lucio Brunelli, vaticanista di lungo corso, già direttore di Tv 2000, spiega: «Mai, nessun papa in condizioni analoghe, ha citato nomi e cognomi dei leader e nemmeno degli Stati. Sicuramente non lo fece Giovanni Paolo II, sia nella prima che nella seconda guerra in Iraq. I Pontefici hanno sempre trovato il modo affinché il destinatario del messaggio fosse chiaro senza puntargli contro il dito. Come quando papa Wojtyla, già vecchio, si rivolse a Bush, Blair e Aznar, riuniti nel vertice di guerra alle Azzorre, il 16 marzo 2003, chiamandoli "quelli più giovani di me", con queste parole: "Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest'esperienza: Mai più la guerra!, come disse Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite. Dobbiamo fare tutto il possibile!". Così Bergoglio non cita la Russia ma è chiaro a chi si rivolge». Del resto, come ha notato il filosofo Massimo Borghesi, il 6 marzo il Papa ha perfino risposto alla propaganda di Putin, che parla di «operazione militare», dicendo: «Non si tratta solo di un'operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria. In Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime». Inoltre - spiega Brunelli - bisogna capire che «c'è una sapienza anche diplomatica nel non fare i nomi: lasciare sempre uno spiraglio al dialogo, alla resipiscenza. Non chiudere mai del tutto la porta. Ma ormai nessuno sa più fare Politica e Diplomazia con la maiuscola».
LA TELA DEL DIALOGO
Infatti il Papa e il Segretario di Stato Parolin continuamente - anche in queste ore - offrono la disponibilità della Santa Sede come mediatrice per tessere la tela del dialogo e della trattativa. Va detto infine che nell'attacco del Monde si riflette l'ideologia oggi dominante - a Ovest come a Est - secondo cui si tratta di guerra fra il Bene e il Male, fra Buoni e Cattivi e che ci si deve arruolare da una parte o dall'altra. Il Papa però non si fa arruolare da nessuno: sta con le vittime. Non fa il cappellano di nessun impero. Non solo perché ogni parte ha le sue colpe e una storia di errori, non solo perché il mondo non si divide fra Nato e Russia, ma soprattutto perché è cattolico, universale, in quanto appartiene al Redentore che vuole salvare tutti, nessuno escluso. Porta al collo la croce che rappresenta tutte le vittime della storia umana, ma quello del crocifisso è un abbraccio che, con le vittime, vorrebbe stringere a sé e salvare anche i colpevoli. È la "folle" misericordia di Dio che ha pietà di tutti. Infatti, come ha detto all'Angelus, il Papa chiede di pregare «per chi soffre e perché Dio converta i cuori a una ferma volontà di pace». antoniosocci.com
Da ilnapolista.it il 13 marzo 2022.
Il quotidiano Le Monde dedica una pagina al singolare comportamento di Papa Francesco che ha sì speso parole per porre fine alla guerra ma non ha mai condannato l’invasione russa.
L’articolo del Monde inizia in un modo che in Italia sarebbe fantascienza:
Papa Francesco chiede la fine della “guerra” in Ucraina, ma per un cattolico che ascoltasse soltanto lui sarebbe molto difficile sapere chi è stato a provocare la guerra.
Le Monde ricorda il lavoro diplomatico del Vaticano: l’invio di due vescovi in Ucraina; le frasi sul “paese martirizzato” così come la richiesta di “porre fine agli attacchi armati”, l’affermazione sul Vaticano che è disposto a fare tutto per la pace.
Ha visitato di persona – evento senza precedenti – l’ambasciata russa presso la Santa Sede il giorno dopo lo scoppio delle ostilità. Ma di condanna formale dell’offensiva russa non c’è traccia nelle sue parole.
E, prosegue il quotidiano francese, “questa notevole impasse sulle cause del conflitto solleva interrogativi fino a Roma. (…) Questa omissione sul ruolo della Russia nell’innescare lo scontro militare porta gli osservatori a trovare una spiegazione nella politica di riavvicinamento con la Chiesa ortodossa russa perseguita da Papa Francesco. Una politica il cui prezzo alcuni considerano esorbitante. Il suo leader, il Patriarca Kirill, ha sempre dimostrato la sua vicinanza con Vladimir Putin. (…)
Mattarella a messa nella basilica ucraina a Roma: "Faremo tutto quello che si può". Il rettore: "La nostra colpa volere essere europei". La Repubblica il 6 marzo 2022.
Il presidente della Repubblica nella chiesa del quartiere Boccea che dall'inizio della guerra rappresenta il punto di raccolta e di stoccaggio degli aiuti alla popolazione.
"Grazie presidente Mattarella per la sua presenza", "grazie al popolo italiano per la solidarietà e gli aiuti, non ci sentiamo abbandonati", ha detto don Marco Yaroslav Semehen, rettore della chiesa ucraina di Santa Sofia a Roma, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha risposto: "Faremo tutto quello che si può". Poi l'abbraccio tra i due. E un regalo speciale: una bandiera dell'Ucraina donata da una bambina al capo dello Stato che ha tenuto con sé.
Questa mattina Mattarella ha partecipato alla messa nella basilica ucraina cattolica di Roma nel quartiere Boccea. "Oggi per noi ucraini non è un tempo normale, nonostante le nostre preghiere, stiamo vivendo un periodo molto difficile, il periodo della guerra, dell'invasione russa del nostro Paese. Una guerra inutile, ingiusta. Il popolo ucraino è un popolo pacifico e mai ha avanzato pretese da nessuno, per nessun metro quadrato di terra - ha detto il rettore della chiesa, don Marco, nel corso dell'omelia domenicale - Probabilmente la nostra unica colpa, davanti al governo russo, è quella di volere essere europei".
Gli aiuti alla popolazione ucraina
La chiesa e il suo comprensorio costituiscono dall'inizio della guerra il punto di raccolta e di stoccaggio degli aiuti alla popolazione ucraina, visibili anche all'esterno della chiesa e depositati anche nei locali parrocchiali. Al momento già 12 camion sono partiti per l'Ucraina con la collaborazione di diversi volontari. Lo scorso 3 marzo anche il Cardinale Krajewski, Elemosiniere di Sua Santità, si è recato alla Basilica per recapitare materiale sanitario e generi di sussistenza.
La messa
Oggi ricorre nel calendario liturgico la prima domenica di Quaresima, che nel rito orientale è celebrata con particolare solennità ed è denominata "dell'Ortodossìa". A Santa Sofia si celebra la Divina Liturgia (denominazione della celebrazione eucaristica nel rito bizantino) in lingua ucraina, con la benedizione delle icone. Nelle domeniche di Quaresima viene utilizzata la Divina Liturgia "di San Basilio", in uso solo in alcune circostanze, al posto della abituale Liturgia "di San Giovanni Crisostomo".
La chiesa ucraina di Santa Sofia a Roma
La Chiesa di Santa Sofia, chiesa nazionale a Roma degli ucraini, fa capo all'Esarcato Apostolico per i fedeli cattolici ucraini di rito bizantino residenti in Italia. L'Esarcato è stato eretto nel 2019 da Papa Francesco. Dal 2020 Esarca Apostolico è Monsignor Paulo Dionisio Lachovicz. Cattedrale dell'Esarcato è la Chiesa dei Santi Sergio e Bacco, in Piazza della Madonna dei Monti
Nel 1963, subito dopo il suo ritorno dalla prigionia in un gulag siberiano, l'arcieparca Josyf Slipyj avviò una raccolta fondi per costruire a Roma una chiesa per la comunità della Chiesa greco-cattolica ucraina. L'edificio fu progettato dall'architetto Lucio Di Stefano sulla base dei piani originali per la costruzione della cattedrale di Santa Sofia a Kiev. La costruzione, iniziata nel 1967, terminò nel 1969, quando, nel mese di settembre, l'arcieparca Josyf Slipyj e diciassette vescovi, alla presenza di papa Paolo VI, la consacrarono, trasferendovi le reliquie di Papa Clemente I, provenienti dalla basilica di San Clemente al Laterano. La chiesa, dedicata alla Divina Sapienza, nel 1985 è divenuta titolo cardinalizio e nel 1998 è stata elevata al rango di Basilica minore.
I mosaici dell'altare sono dell'artista ucraino Sviatoslav Hordynsky. Nel settembre del 2011 si sono conclusi i lavori di restauro dell'edificio promossi dall'Associazione "Santa Sofia" che è proprietaria della chiesa e degli edifici annessi. Nella cripta della basilica sono sepolti, tra gli altri, alcuni metropoliti e arcivescovi ucraini, oltre ad altre personalità ucraine. Un tempo vi era sepolto anche il cardinale Josyf Slipyj, la cui salma, dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica e l'indipendenza dell'Ucraina, è stata traslata a Leopoli. Adiacente alla chiesa si trova l'edificio che è stata sede dell'Università cattolica ucraina a Roma.
Rettore della Chiesa di Santa Sofia dal 2014 è Don Marco Yaroslav Semehen, nato a Ternopil'(Ucraina) nel 1980, sacerdote dal 2008 e dal 2020 presidente dell'Associazione religiosa "Santa Sofia" per i cattolici ucraini, che ha sede presso la Basilica.
Le iniziative
Presso la Chiesa di Santa Sofia, come pure presso la Cattedrale nel quartiere Monti, sono in corso in questi giorni iniziative di preghiera e di solidarietà a favore del popolo ucraino. Tra le iniziative di preghiera, domenica 28 febbraio Monignor Benoni Ambarus, vescovo ausiliare di Roma, ha presieduto una celebrazione per la pace presso la chiesa di via Boccea.
Quanto alla solidarietà, presso la chiesa è stata avviata una raccolta di aiuti materiali (vestiti, viveri, coperte, medicinali) nonché di offerte in denaro, con una significativa risposta da parte dei cittadini romani e dei connazionali residenti nella Capitale.
Il Papa: "La guerra è una follia. La Santa Sede impegnata per la pace. Servono corridoi umanitari". La Repubblica il 6 marzo 2022.
Il pontefice: "Grazie ai giornalisti che ci spiegano cosa accade". "La Santa Sede è disposta di fare del tutto, a mettersi in servizio per questa pace", lo ha detto il Papa all'Angelus. "In questi giorni sono andati in Ucraina due cardinali, per servire il popolo, per aiutare - ha annunciato -: il cardinale Krajewski, elemosiniere, per portare gli aiuti ai più bisognosi, e il cardinale Czerny, prefetto "ad interim" del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale".
La guerra delle Chiese: l’ortodossia divisa tra Russia e Ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 9 marzo 2022.
La guerra tra Russia e Ucraina è uno scontro fratricida, una vera e propria guerra civile tra due popoli fratelli che, oltre a colpire una terra cruciale per la geopolitica europea, ferisce anche il cuore identitario dell’Est europeo: il cristianesimo ortodosso. Da tempo coinvolto nella geopolitica dell’Europa orientale: come le rotte del gas, che vedevano Russia e Paesi dell’Est europeo intenti in una partita a scacchi per le forniture con al centro l’Ucraina, anche le vie della fede sono state al centro del mirino in questi lunghi otto anni culminati nell’invasione russa del 24 febbraio scorso.
In questi anni è andata in scena una crescente balcanizzazione del mondo ortodosso che ha indebolito la posizione della Russia, forse per sempre, quale Stella Polare delle Chiese orientali.
I rapporti fra i patriarcati di Mosca e di Costantinopoli, i maggiori dell’ortodossia, si sono fatti sostanzialmente bellicosi dopo lo scisma di Kiev, la cui Chiesa ortodossa ha proclamato l’autocefalia tra il 2018 e il 2019. Un atto visto come provocatorio dal patriarca di Mosca Kiril e da Vladimir Putin, legittimato dall’importante patriarcato di Alessandria e dalla chiesa ortodossa di Grecia. L’ex presidente ucraino Petro Poroshenko ha lavorato per dare legittimità politica all’atto che ha fatto segnare un punto forse di non ritorno nel decoupling dell’Ucraina dalla Russia e dunque nell’allontanamento tra i due Paesi. Kiev parla di libertà religiosa e di giurisdizione autonoma, Mosca di un conflitto alimentato ad arte tra Oriente e Occidente.
Nella guerra di oggi riemergono anche queste ferite. Colpi inferti a una tradizione di convivenza e a un legame sistemico, umano, culturale che anche nella Chiesa occidentale è stato visto come cruciale per l’ecumenismo. Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno a lungo proposto la visione delle due Chiese, quella romana e quella orientale, come i due polmoni dell’Europa. Associando Cirillo e Metodio a Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi, la liturgia antica di matrice bizantina della Seconda Roma (Costantinopoli) divenuta Terza (Mosca) alla Prima, alla Città Eterna, in nome dell’ecumenismo. Papa Francesco ha visitato l’Ucraina e incontrato Kiril all’aeroporto di L’Avana, nel 2015, pensando di vedere in lui il rappresentante unificato del mondo ortodosso. La guerra di religione andata in scena dopo i fatti del 2014, la secessione del Donbass, la proclamazione dell’autocefalia ucraina e rinfocolata dall’attuale conflitto può mandare in frantumi questo lungo processo di incontro.
Le minacce velate di bombardamento russo alla cattedrale di Santa Sofia a Kiev, in quest’ottica, appaiono leggibili nell’ottica di una guerra che è anche conflitto identitario: Vladimir Putin, presidente cesaro-papista di cui Kiril è fedele alleato, “cappellano del Cremlino”, si presenta come vendicatore dell’ortodossia moscovita e il timore ucraino è che possa arrivare alle estreme conseguenze. Non accadrà: il danno è già fatto, il fiume secolare della storia che connette Russia e Ucraina ha preso la funzione di linea di divisione dopo che Mosca e Kiev si sono separate nel cuore della Chiesa ortodossa.
L’Ucraina ha conosciuto la divisione tra la Chiesa favorevole a Mosca, guidata dal patriarca Filarete, e quella scismatica guidata da Epifanio, primate d’Ucraina e metropolita di Kiev a cui i filaretiani hanno contrapposto un altro noto prelato, Onufriy. Divise su tutto, durante l’attacco russo le due anime della Chiesa ucraina si sono ricompattate.
Il metropolita Onufriy di Kiev ha parlato di “guerra fratricida” in occasione dell’invasione russa dell’Ucraina. Difendendo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina – ha dichiarato apertamente nel discorso del 24 febbraio – ci appelliamo anche al presidente della Russia affinché fermi immediatamente la guerra fratricida. I popoli ucraino e russo sono usciti dal fonte battesimale del Dnepr e la guerra tra questi popoli è una ripetizione del peccato di Caino, che uccise con invidia il proprio fratello. Una simile guerra non ha giustificazione né presso Dio né presso l’uomo”. Molto diverso l’atteggiamento di Kiril, il quale ha sì espresso una dura condanna, rivolta però al governo ucraino. In un’omelia tenuta mente presiedeva la Divina Liturgia nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca nella giornata del 7 marzo Kiril, riprendendo il discorso di Putin del 21 febbraio scorso, ha rimarcato le “sofferenze” provate dal popolo del Donbass a causa del governo di Kiev. In seguito il patriarca di Mosca ha indicato nel rifiuto dei valori cristiani da parte dell’esecutivo ucraino, comprendente tra le altre cose l’organizzazione dei gay pride, uno dei motivi per ritenere giustificata l’aggressione.
Ducentotrentasei chierici ortodossi russi, ha ricordato Francesco Boezi su IlGiornale.it, hanno mostrato dissenso verso le prese di posizione di Kiril. Ma il danno ormai è fatto: la rottura tra le due ortodossie è diventata bellica dopo esser partita come scisma. E questo, per Vladimir Putin e Kiril, è forse un passaggio decisivo: la dichiarazione di autocefalia del patriarcato del Kiev è stata una vera e propria riaffermazione dell’indipendenza ucraina dopo la secessione dall’Urss trent’anni fa; il peso della storia della cristianità ortodossa e dell’identità nazionale russa che fa riferimento a Vladimir I principe di Kiev arriva fino ad oggi mentre l’Ucraina vuole dissociarsi e separare una volta per tutte la sua strada. Di “guerra di religione” parla esplicitamente Andrea Molle, docente di Scienze Politiche alla Chapman University di Orange, California, ricercatore presso START InSight. Molle, contattato da InsideOver, ci spiega che a suo avviso in Occidente “abbiamo la certezza che Putin abbia invaso l’Ucraina per ragioni geopolitiche, strategiche o economiche” e ci dimentichiamo della religione, “fattore fondamentale della politica”. “La Chiesa ortodossa d’Ucraina non ha mai riconosciuto la pretesa di primato di Mosca”, nota Molle, e questo “è un problema serio per Putin, nella cui teologia ortodossa” la capitale ucraina, capitale del primo Stato russo della storia, “è religiosamente seconda solo a Gerusalemme”. Per il presidente, “la cui fortuna politica si deve anche alla sua capacità di fare leva sul sentimento religioso del popolo”, schierarsi contro Kiev “è necessario per legittimare le proprie aspirazioni politiche e religiose”.
Si tratta di una chiave di lettura interessante che mostra i nervi scoperti della storia, il peso sistemico di un’eredità plurisecolare convergente, oggigiorno, nella guerra più calda d’Europa dal 1945. In cui la battaglia per le città ucraine diventa battaglia per il cuore e le menti della storia, con alle spalle l’eredità comune di un passato che si è, improvvisamente, spezzato. E il rischio grande, quando di guerre di religione si parla, è che lo scontro diventi imprevedibile e irriducibile. Specie se, dal lato russo, il patriarcato diventa zelante sostenitore di nuove crociate piuttosto che pontiere per la pace.
Kirill trasforma la guerra di Putin in una crociata contro il «grande Satana». PASQUALE ANNICCHINO, giurista, su Il Domani il 09 marzo 2022
Esiste una funzione pedagogica delle teologie politiche che si rivela nella sua massima potenza nei momenti di crisi.
Se i riferimenti al “grande Satana” arrivano non solo dall’islamo-fascismo degli ayatollah ma, dopo gli adattamenti nord-coreani e venezuelani, continuano a diffondersi, non resta che riflettere.
Con un nuovo intervento Kirill conferma il suo ruolo di supremo interprete della teologia politica post sovietica. La Russia è nella sua narrazione il veicolo di resistenza rispetto all’avanzata del demonio e alla possibilità della fine della civiltà.
PASQUALE ANNICCHINO. Giurista. È ricercatore presso il dipartimento di giurisprudenza dell'Università degli Studi di Foggia. È stato professore aggiunto di diritto presso la St. John's Law School di New York e ricercatore presso il Robert Schuman Centre for Advanced Studies presso l'EUI. Ha scritto per Il Foglio e il Corriere Fiorentino.
Il dialogo tra il patriarca e il papa è già un ricordo. MARCO GRIECO su Il Domani il 09 marzo 2022
Era il 2017 quando papa Francesco riconobbe per la prima volta il sanguinoso conflitto in Ucraina, ricevendo il plauso della chiesa greco-cattolica del paese. Oggi, invece, la Santa sede sceglie la prudenza diplomatica.
I tentativi di negoziato promossi dalla Santa sede per ora si sono risolti in una telefonata del cardinale Pietro Parolin al ministro degli Esteri russo: apertura di corridoi umanitari e stop ai combattimenti è l’appello.
Gli accorati appelli del mondo cattolico a un intervento di papa Francesco stanno sfumando. Per il momento la linea della chiesa cattolica è la cosiddetta «diplomazia umanitaria». Ma basterà?
MARCO GRIECO. Giornalista freelance, ha scritto per l'Osservatore Romano e per il quotidiano digitale In Terris.
Serena Sartini per “il Giornale” il 9 marzo 2022.
Papa Francesco aveva capito già da qualche giorno che l'asse con il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie sarebbe sfumato. Ancora prima della sua omelia di domenica in cui ha appoggiato la guerra di Putin definendola una guerra alle lobby gay. E così, deciso nella sua missione di tentare tutte le carte per riportare la pace in terra ucraina, Francesco - lontano anni luce dal pensiero di Kirill - ha inviato due cardinali per mandare il suo sostegno spirituale, materiale e diplomatico.
Tra i due porporati, il suo elemosiniere, il cardinale Konrad Krajewski, che è giunto proprio a Leopoli dopo essere arrivato al confine dalla Polonia. Si è mossa anche la diplomazia vaticana ad alti livelli: il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato ha avuto un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov.
Parolin ha ribadito la necessità di porre fine ai combattimenti in Ucraina e manifestato la disponibilità della Santa Sede per qualsiasi tipo di mediazione. La tragedia della guerra si intreccia tra politica e religione, in una terra dove anche le differenti anime ortodosse non sono allineate.
Non pochi esponenti di spicco delle diverse Chiese si sono rivolti direttamente a Kirill affinché chiedesse a Putin di porre fine alla guerra. E alla fine il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie è rimasto fedele al legame con il presidente russo e ha appoggiato la guerra, dopo giorni di silenzio. In una posizione distante è senza dubbio un altro leader ortodosso, a capo della Chiesa autocefala dell'Ucraina, non sottoposta quindi al Patriarcato moscovita ma riconosciuta da quello di Costantinopoli.
Il metropolita di Kiev, Epiphaniy, ha rivelato che dal giorno in cui sono iniziati gli attacchi, i russi hanno cercato di ucciderlo tre volte. Tre agenti russi hanno tentato di entrare nella cattedrale dell'Arcangelo Michele con la Cupola d'oro. «Sono stato informato da agenzie straniere - ha rivelato - che sono l'obiettivo numero 5 nella lista dei russi delle persone da uccidere».
Mentre l'arcivescovo di Kiev, Shevchuck, è arrivato addirittura ad invocare la no-fly zone. A criticare Kirill sono stati non solo i fedeli ucraini legati al Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, ma anche i membri della Chiesa ortodossa fedele a Mosca.
Il Santo Sinodo ha chiesto che non si versi «altro sangue fratricida» e il metropolita locale, Onufryi, ha fatto appello a Putin per «porre fine alla guerra sul suolo ucraino».
A criticare il sermone di Kirill anche 230 religiosi. La base della chiesa ortodossa che risponde al patriarcato di Mosca ha espresso dubbi e perplessità sulla linea filogovernativa che vede i suoi vertici aderire alla linea del Cremlino. A questo è seguita una raccolta firme di diverse centinaia di persone, appartenenti non solo al mondo religioso ma anche a quello accademico e intellettuale, contro l'omelia di Kirill.
Giuliano Foschini per repubblica.it il 9 marzo 2022.
Sono passati sei anni, era il febbraio del 2016, e nel mezzo non ci sono soltanto parole. Ma un altro mondo. «Deploriamo lo scontro in Ucraina», «costruite la pace» diceva, abbracciato a Papa Francesco, in un incontro storico avvenuto nell’aeroporto di Cuba, il patriarca ortodosso Kirill.
Lo stesso che 48 ore fa, nel corso del suo sermone nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, ha tuonato con espressioni incredibili sul conflitto in Ucraina. Parlando del presente, ma anche del passato: «Per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass» ha detto. «Oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo ‘felice’, il mondo del consumo eccessivo, il mondo della “libertà” visibile: sapete cos’è questo test? È molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay».
Le parole hanno fatto presto il giro del mondo, sconvolgendolo. Hanno colpito i fedeli. Travolto chi, ancora in questi giorni, pensava che un pezzo di pace potesse essere ancora costruito sull’asse della Chiesa: in questo 2022, tra giugno e luglio, era in programma un altro storico incontro, tra Kirill e Papa Francesco. Forse a Mosca. Forse a Bari, il luogo per eccellenza dell’unione delle due Chiese, perché casa di San Nicola: il simbolo è la statua donata nel 2003 alla città proprio da Putin, come ricorda la targa appesa davanti alla Basilica.
Si era pensato nei primi giorni del conflitto che una possibilità potesse essere accelerare i tempi dell’incontro, come se la fede potesse farsi buon senso. Il Papa, non a caso, ha incontrato il 18 febbraio l’ambasciatore russo, con la crisi in Ucraina già esplosa, senza però usare toni duri, proprio per lasciare una porta aperta alla conciliazione. Poi è arrivato il sermone di Kirill che sembra aver chiuso definitivamente le porte.
Eppure gli addetti ai lavori non si sono mostrati affatto stupiti rispetto a quanto accaduto. Era chiaro a tutti che un pezzo di questa guerra fosse anche religiosa: nel 2018 c’è stato uno scisma tra la Chiesa di Kiev e quella di Mosca. E in questo conflitto la Russia vuole conquistare territori ma anche i 30 milioni di fedeli ucraini.
Ancora: secondo diversi report di intelligence dell’ultimo anno, Kirill, da sempre appiattito sule posizioni di Putin, aveva visto incrinarsi i suoi rapporti con il Cremlino, Non a caso c’era chi aveva fatto notare come, recentemente, Kirill fosse - protetto anche dalla questione Covid - quasi scomparso dai radar ufficiali: niente photo opportunity con Putin, poche immagini e molti, lunghi, comunicati ufficiali. Per recuperare, doveva entrare con un discorso violento come quello consegnato ai fedeli. Confermando la sua fedeltà al Governo.
Anche perché negli ultimi mesi era apparso spesso accanto a Putin un altro religioso ortodosso di peso, il metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche. Che a febbraio, dalle mani del presidente, aveva ricevuto una delle massime onorificenze: l’Ordine di Aleksandr Nevskij. Proprio in quell’occasione Hilarion fece un riferimento esplicito all’Ucraina che, letto oggi dalla nostra intelligence, sembra non essere stato affatto casuale: «Ci occupiamo - disse - non solo di affari esteri, ma anche di relazioni interreligiose nella nostra Patria. E negli ultimi anni ci sentiamo sempre di più una sorta di dipartimento di Difesa, perché dobbiamo difendere le sacre frontiere della nostra Chiesa». Erano i primi giorni di febbraio e la guerra era già cominciata.
Il Papa e quattro Chiese: la difficile strada di Bergoglio. Francesco Boezi il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il dialogo avviato con il patriarca Kirill, le complesse logiche confessionali ucraine e le differenze di atteggiamento verso Vladimir Putin. Il ruolo di "mediatore" di papa Francesco è tutto fuorché semplice.
La funzione che il Vaticano sta cercando di ricoprire per la pacificazione del conflitto scatenato da Vladimir Putin in Ucraina non è semplice. Il Papa, rompendo gli indugi, si è recato presso l'ambasciata russa nella Santa Sede: il gesto è suonato più o meno come unA candidatura a "mediatore". Ed è possibile che il vertice della Chiesa cattolica, seppur sotto traccia e senza investitura ufficiale, stia lavorando in queste fasi per il cessate il fuoco.
La situazione religiosa e confessionale vigente in Ucraina, però, è complessa. E i rapporti che il Santo Padre ed il Vaticano devono tenere in forte considerazione, anche rispetto all'attività diplomatica, si diramano in una serie di logiche diversificate. Dinamiche che risultano tuttavia essenziali per comprendere il contesto in cui avviene il conflitto. Alcuni elementi per nulla di contorno interessano i rapporti che le varie istituzioni ecclesiastiche presenti in Ucraina hanno con la Chiesa ortodossa russa, che è stata un'interlocutrice (lo è ancora) della stessa Santa Sede.
Jorge Mario Bergoglio, in questi nove anni di pontificato, non ha mai nascosto il sogno di un "cristianesimo universale". E a questo fine si è riconciliato, primo nella storia recente, con il patriarca di Mosca Kirill (o Cirillo I). L'ex arcivescovo di Buenos Aires e l'arcivescovo ortodosso di Mosca hanno avuto modo d'incontrarsi e di abbracciarsi a L'Avana, nel febbraio del 2016, dopo quattro anni passati ad edificare canali di dialogo.
Non è stato un passaggio scontato ma Francesco non ha mai celato il desiderio di una visita apostolica in Russia. In questi giorni così complessi, poi, si è spesso ricordato di quanto e di quando il Papa avesse dialogato volentieri anche con lo stesso Vladimir Putin, che per gli ortodossi russi, vista anche la prossimità con il patriarcato moscovita, può essere considerato qualcosa in più di un semplice capo di Stato. Comunque sia, chi, come Bergoglio, persegue il disegno del dialogo interreligioso a tutti i costi non poteva e non può dribblare la dialettica tra il cattolicesimo e gli ortodossi.
Una premessa utile - quella su Bergoglio, Kirill e la Russia - ad introdurre un altro fattore caratterizzante di questa vicenda: il forte legame che c'è tra una parte della Chiesa ortodossa ucraina ed il patriarca Kirill. Ma l'Ucraina, sotto il profilo religioso, presenta ulteriori particolarità: esiste un patriarcato ortodosso di Kiev, che è slegato da quello di Mosca, ed anche una Chiesa autocefala, che si dichiara sì ortodossa ma che si professa indipendente tanto rispetto al patriarcato di Kiev quanto rispetto a quello della capitale russa. E in questo ginepraio di differenze il Vaticano sta cercando di muoversi per accelerare un processo di pace.
Come se non bastasse in termini di complessità, vale la pena specificare come soltanto la metà degli ucraini siano ortodossi: una buona parte di popolazione appartiene alla Chiesa greco-cattolica che è assoggettata, per così dire, a Roma ma che presenta a sua volta alcune peculiarità, con tendenze culturali ed organizzative da Chiesa nazionale. Un altro attore in campo cui Jorge Mario Bergoglio ed il segretario di Stato Pietro Parolin devono guardare. Anzi, se possibile, la Chiesa greco-cattolico ucraina è quella cui il Vaticano deve badare con più attenzione, essendo la più vicina sotto il profilo istituzionale e confessionale.
Mentre il cardinale Pietro Parolin dimostra vicinanza ai cattolici ucraini, agli ortodossi ucraini e non solo, Kirill ha deciso in un certo senso di alzare il tiro: come ripercorso da Il Messaggero, Cirillo I ha sottolineato come papa Francesco non abbia stigmatizzato l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin. D'altro canto, come si apprende dall'Adnkronos, i vescovi cattolici polacchi ma anche gli ortodossi ucraini (molti di quelli legati a Kiev ma anche più di qualche realtà che, prima della guerra, sarebbe stata associata al patriarcato di Mosca con una certa facilità) stanno domandando a gran voce al patriarca di Mosca di condannare la guerra senza tentennamenti. La tensione, insomma, per quanto resti unicamente sul piano teoretico, corre anche sul filo del dialogo interreligioso.
Ducentotrentasei chierici ortodossi russi, stando all'Ansa, hanno voluto esprimere dissenso rispetto all'atteggiamento sulla guerra del patriarcato di Mosca. In ogni caso, numerosi commentatori, proprio per via della capacità che il Santo Padre ha avuto nel costruire e mantenere rapporti con entrambe le realtà in conflitto, ritengono che il Papa possa essere il miglior mediatore possibile tra le parti.
Chi è Kiril, il patriarca di Mosca. Andrea Muratore su Inside Over il 10 marzo 2022.
Tra le figure protagoniste dell’odierna storia russa dopo Vladimir Putin un solo uomo ha avuto sul Paese un’influenza paragonabile e tanto estesa, ovvero il Patriarca Kiril.
Sedicesimo patriarca di Mosca, primate di Russia e capo della Chiesa ortodossa nazionale Kiril si è formato religiosamente nella tarda Unione Sovietica e ha ereditato dal predecessore, Alessio II, il compito di condurre la sua organizzazione nel mondo globalizzato con una Russia che, sotto la guida dello “Zar” del Cremlino, viveva un profondo conflitto tra svolte politiche e modernità.
Accusato di essere il “cappellano del Cremlino” per il sostegno alla svolta politica dell’era putiniana e per le decisioni prese in campo geopolitico e di politica estera, Kiril ha condotto la Chiesa ortodossa russa ad essere uno dei polmoni con cui il Paese respira nell’era presente assieme all’autorità politica. Interpretandone connotati identitari, dinamiche sociali, rigidità e facendosi di essa espressione. A testimonianza di come, nell’Europa orientale, la storia della cristianità continui a camminare.
Un patriarca in una Chiesa in trincea
Kiril, al secolo Vladimir Mikhailovich Gundyayev, è nato a Leningrado, l’attuale San Pietroburgo nel 1946. Ha studiato fin da giovane nel mondo delle scienze religiose, conseguendo nel 1969 la laurea in Teologia all’Accademia Teologica di Leningrado dove il fratello Nikolaj è oggigiorno docente.
Completando nel frattempo il seminario, venne ordinato nei gradi della Chiesa ortodossa lo stesso anno il 9 aprile dal Metropolita Nicodemo col nome religioso con cui è attualmente noto, in onore del patrono della cristianità orientale.
Fin dall’inizio Kiril si è mostrato attivo su due fronti. Da un lato ha conosciuto una rapida ascesa nelle gerarchie della Chiesa ortodossa per la vicinanza a Nicodemo di cui è stato segretario personale e organizzatore a livello seminariale. Dall’altro si è consolidato come esperto teologico e dottrinale nel quadro di una Chiesa che si apriva all’ecumenismo riannodando i fili con la cristianità cattolica e, al contempo, combattendo per le menti e i cuori dei cittadini russi nel pieno della fase terminale della parabola dell’Unione Sovietica.
Nel 1971 ha iniziato una carriera “diplomatica” al Congresso Mondiale delle Chiese in seguito alla nomina ad arcimandrita. Ecumenista sul fronte esterno e conservatore su quello interno, Kiril ha da allora in avanti promosso questa precisa strategia doppia ma tutt’altro che incoerente, se pensiamo a come la volontà di tenere le posizioni dottrinali e quella di aumentare la proiezione diplomatica dell’ortodossia si fondessero nell’obiettivo di ricordare al mondo l’esistenza della più grande comunità cristiana della superpotenza comunista.
La lunga ascesa di Kiril
Dal sostegno alla campagna delle Chiese per il disarmo al dialogo con i cattolici, Kiril ha iniziato da “diplomatico” del Patriarcato una lunga ascesa poi riverberatasi nel suo cursus honorum episcopale.
Nel 1976 è stato nominato Vescovo di Vyborg, piccola città strappata dall’Urss alla Finlandia nel 1940 dopo la Guerra d’Inverno, e “proconsole” nell’importante Arcidiocesi di Leningrado, di cui fino al 1982 ha presieduto il Concilio Diocesano. Nel 1984 è stato elevato al titolo di Arcivescovo di Smolensk, aggiungendo la reggenza su Kaliningrad nel 1988. Dal 1975 al 1998 ha ricoperto, inoltre, l’importante carica di membro del Comitato Centrale del Consiglio Mondiale delle Chiese.
Nel 1991 ha ricevuto l’elevazione al ruolo di metropolita, ovvero di responsabile di un’intera provincia ecclesiastica. In quello stesso anno il tracollo dell’Unione Sovietica aprì la strada alla lunga traversata del deserto della Russia contemporanea, in cui gli Anni Novanta sarebbero stati un periodo di torbidi, travagli e stravolgimenti sociali.
Kiril li visse da pontiere dell’ortodossia, promuovendo opere assistenziali e di carità negli anni del tracollo economico e dopo il default del 1998, parlando più volte in programmi televisivi e pubblicando libri sull’importanza dell’ortodossia nella storia russa. La sua opera andò a sostegno dell’attività di Alessio II (in carica dal 1990 al 2009), primo patriarca attivo nell’era post-sovietica, che provò a ricucire il trauma della dissoluzione dell’Unione Sovietica alzando all’onore degli altari i martiri vittime per la propria fede delle persecuzioni sovietiche ma non puntando a demonizzare il comunismo come male assoluto. Come Giovanni Paolo II, Alessio II capì che la minaccia principale alla spiritualità contemporanea venivano dal relativismo culturale, dalla mentalità consumistica, dalla globalizzazione neoliberista. Provò a calare nella realtà russa dei suoi tempi queste lezioni anche grazie all’operato di Kiril, che tra le altre cose mantenne dritta la barra del timone del dialogo con Roma.
Pontiere ecumenico o "cappellano del Cremlino"?
Alla morte di Alessio, nel 2009 Kiril fu eletto Patriarca di Mosca e primate di Russia, diventando la guida spirituale della seconda istituzione cristiana dopo la Chiesa cattolica. A Roma la sua ascesa fu colta con grande attenzione e trepidazione: Papa Benedetto XVI voleva proseguire la strada dell’ecumenismo e con l’enciclica Caritas in Veritate apparve ben disposto al dialogo con gli ortodossi. Nico Spuntoni in Vaticano e Russia nell’era Ratzinger ha scritto che l’ascesa di Kiril “ha posto Roma e il mondo cristiano di fronte a una personalità di rilievo, che si è qualificata come un interlocutore dotato di una visione articolata del presente e del futuro del cristianesimo, con cui condividere la consapevolezza della necessità della rivivificazione del rapporto tra cristianesimo ed Europa”.
Kiril dialogò a tutto campo con la Chiesa cattolica e seppe costruire una forte realizione con Benedetto XVI, per quanto mai culminata in un incontro se non con il suo successore, Francesco, con cui Kiril si vide nello storico faccia a faccia all’aeroporto di L’Avana del febbraio 2016.
Alle dimissioni di Ratzinger Kiril scrisse: “in un momento in cui l’ideologia del permissivismo e del relativismo morale, cerca di sloggiare dalla vita delle persone i valori morali, Voi avete coraggiosamente alzato la voce in difesa degli ideali del Vangelo, l’alta dignità dell’uomo e la sua vocazione alla libertà dal peccato. […] Negli anni del vostro ministero il rapporto tra le nostre Chiese ha ricevuto un impulso positivo, per la testimonianza comune di Cristo crocifisso e risorto nel mondo moderno”. In queste parole ci fu il seme gettato che portò alla fase più alta del dialogo tra cattolicesimo e ortodossia dallo scisma del 1054 in avanti.
Al contempo, Kiril in patria doveva fare i conti con il “fattore Putin”. L’ascesa inesorabile ai vertici dello Stato dello “Zar” del Cremlino portò in un certo senso un sistema cesaropapista al potere. Putin ha capito l’importanza politica e simbolica dell’idea storica della Santa Madre Russia, Kiril sul fronte interno ha suffragato la visione politica del governo aprendo alla critica agli eccessi del modello occidentale, a una visione sociale estremamente conservatrice, alla definizione di “miracolo diI Dio” per la rinascita economica del Paese dopo il caos degli Anni Novanta.
All’estero questo ha portato a considerare l’ibridazione graduale tra trono e altare come l’attestazione di un appiattimento di Kiril su Putin, tanto da portare al suo soprannome di “cappellano del Cremlino”. Questo non è vero fino in fondo: nel 2014, ad esempio, Kiril si rifiutò di incorporare nella Chiesa ortodossa russa le diocesi crimeane. Col passare degli anni, però, le logiche del conflitto hanno prevalso e Kiril ha sempre di più dato l’impressione di fornire un esplicito sostegno religioso alle mosse del Cremlino. Nulla però ha fatto scalpore quanto le uscite del solitamente moderato e attento Kiril nel 2022. Nei giorni dell’invasione russa dell’Ucraina Kiril ha definito “terribili” le sofferenze subite dai cittadini del Donbass e parlato di “forze del Male” in riferimento agli avversari di Mosca.
La guerra ha avuto, del resto, anche ragioni religiose: nel 2018-2019 il Patriarcato di Mosca ha subito il distacco della Chiesa ucraina, “scismatica” secondo il governo russo. L’irriducibilità della contesa russo-ucraina sta anche in questo problema che affonda le radici nella storia. Come la radicalizzazione di una figura storicamente ben più posata come Kiril testimonia apertamente, anche trovare una soluzione sarà molto complesso in quest’ottica.
Il fasciortodosso. L’omofobia del patriarca di Mosca ha svelato la natura criminale dell’invasione russa. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.
Kirill I ha indicato la lobby Lgbti come il vero nemico della campagna di Putin, sostenendo che l’oppressione delle popolazioni russofone del Donbass è stata fatta imponendo con la forza i gay pride
Grazie a Kirill, il Patriarca della Chiesa ortodossa di Mosca e di tutte le Russia, l’opinione pubblica internazionale ha scoperto i gravi motivi che hanno indotto Vladimir Putin a invadere l’Ucraina con l’obiettivo – come si diceva una volta – di farne un deserto e di chiamarlo pace.
Nel suo sermone al termine della Divina Liturgia nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, il Patriarca ha indicato, urbi et orbi, il vero nemico: la lobby gay.
In sostanza, a dire del Sant’uomo, nel governo di Kiev non vi sono solo drogati e nazisti, ma omosessuali (anzi – visto il contesto – prendiamoci la libertà di tornare al pluridecennale repertorio della commedia all’italiana: froci, recchioni, checche, busoni, culatoni e via andare), incuranti di quanto è divenuto politicamente corretto nell’Occidente dell’identità di genere.
E come si sarebbe manifestata l’oppressione delle popolazioni russofone del Donbass? Con le armi, la discriminazione, il genocidio? No; venivano loro imposti con la forza i gay pride, perché secondo Kirill queste parate «sono progettate per dimostrare che il peccato è una delle variazioni del comportamento umano».
«Ecco perché per entrare nel club di quei paesi (la Ue? L’Alleanza atlantica? ndr) è necessario organizzare (che sia una clausola riservata degli Accordi di Maastricht? ndr) una parata del gay pride».
Non per fare una dichiarazione politica ’’siamo con te’’, non per firmare accordi, ma – ha proseguito il Patriarca – per organizzare una parata gay.
«E sappiamo come le persone resistono a queste richieste e come questa resistenza viene repressa con la forza. Ciò significa che si tratta di imporre con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio, e quindi, di imporre con la forza alle persone la negazione di Dio e della sua verità».
Non lo sapevamo, ma pare che in quelle martoriate terre, in mezzo a popolazioni tutte casa e famiglia, rigidamente eterosessuali e timorate di Dio, il governo di Kiev inviasse i carri armati a proteggere le variopinte sfilate dell’orgoglio gay e costringesse i russi ad assistervi impotenti.
«Se l’umanità riconosce che il peccato non è una violazione della legge di Dio – ha osservato ancora Kirill – se l’umanità concorda sul fatto che il peccato è una delle opzioni per il comportamento umano, allora la civiltà umana finirà lì».
L’invasione russa dunque non è, come avevamo creduto, una questione di confini, di zone di influenza, di sicurezza nazionale, di vocazione imperialista ma una lotta contro i modelli di vita promossi dalle parate gay. A leggere bene le liste di proscrizione stilate da Putin, si potrebbe dubitare che l’Italia non vi sia inclusa per aver aderito alle sanzioni e all’invio di armi ai demo-nazi-tossico-gay ucraini.
Se lo zar, nuovo difensore della fede, si è fatto consigliare da Kirill potrebbe pretendere, da noi, l’impegno – magari attraverso un emendamento nella Costituzione (che ormai ne ha viste di ogni) in favore della famiglia naturale – che il Parlamento non approvi mai in via definitiva il ddl Zan.
Era questa, forse, la promessa che Putin si aspettava dalla visita annunciata di Mario Draghi a Mosca? L’opinione pubblica occidentale si è meravigliata quando Vladimir il Terribile. ha parlato di operazione di peacekeeping, senza capire che le sue intenzioni erano proprio quelle di far viaggiare i buoni costumi sui tank e di adornare di rosari i cannoni. E di liberare l’Ucraina dai peccatori contro natura, affossatori della ’’civiltà umana’’.
In pratica una crociata per re-invertire – Kirill docet – gli invertiti. Peccato che il diavolo ci infili sempre la coda. Nei Campi di sterminio che nel secolo scorso un nazista doc aveva sparso per tutta l’Europa, oltre agli ebrei e agli zingari (e agli avversari politici) erano rinchiusi anche gli omosessuali.
Chi è il patriarca russo Kirill, che ha parlato di una guerra «contro l’Occidente» che «sostiene i gay». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.
Vicino a Putin, finora si era mantenuto prudente rispetto alla guerra in Ucraina. Si dice fosse contrario all’annessione della Crimea e nel 2014 evitò di partecipare alle celebrazioni. Nel suo sermone di domenica, nessuna parola sulle vittime ucraine.
Dimenticate lo starec Zosima, il monaco de I Fratelli Karamazov che in Dostoevskij è l’immagine più pura del cristianesimo ortodosso, «ricordati soprattutto che non puoi essere giudice di nessuno». Il sermone di Kirill , patriarca ortodosso di Mosca, sembra destinato a rendere a lungo irrimediabile la frattura nel mondo ortodosso e assai arduo il percorso di avvicinamento, già faticoso, con la Chiesa di Roma. Il fatto che sia stato pronunciato durante la «Domenica del Perdono» è il tocco grottesco al compimento della parabola di Vladimir Michajlovič Gundjaev, nato 75 anni fa nell’allora Leningrado, sedicesimo patriarca di Mosca e di tutte le Russie, capo di una Chiesa che assomma 150 milioni di fedeli, circa la metà del mondo ortodosso.
E non ci sono solo le considerazioni sul «combattimento» contro «i cosiddetti valori del potere mondiale» rappresentati dalla lobby gay, la «parata gay» come «test» della «libertà» com’è intesa in Occidente.
Non c’è solo l’assenza di una sola parola di dolore per le vittime civili in Ucraina , le famiglie, i bambini, salvo i riferimenti a russofoni nel Donbass.
C’è, al fondo, l’evocazione di una guerra santa , di un conflitto che «non ha solo un significato politico» perché «si tratta della salvezza umana, di dove andrà a finire l’umanità», di «una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico»: un conflitto ontologico tra bene e male, dove il male è l’Occidente corroso dal peccato.
Che la chiesa ortodossa russa scontasse il «costantinismo» e un’alleanza secolare tra trono e altare alimentata dal nazionalismo era noto, come nota è la complicità e l’influenza reciproca tra il patriarca di Mosca e Putin . Ma finora Vladimir Michajlovič era stato attento a non esporsi troppo in pubblico. Cresciuto in una famiglia molto religiosa, monaco dal 1969, ha fatto una carriera folgorante fin dagli anni sovietici, gli studi all’Accademia teologica di Leningrado-San Pietroburgo della quale divenne poi rettore, la nomina a vescovo di Vyborg (1976), arcivescovo di Smolensk (1984) e Kaliningrad (1988) e metropolita (1991), Alessio II che nel 1989 lo sceglie come presidente del dipartimento affari religiosi esteri e quindi «ministro degli esteri» del Patriarcato, infine il vecchio patriarca che muore e Kirill che gli succede nel 2009. Dal 1996 al 2000 aveva diretto i lavori per l’elaborazione dei Fondamenti della concezione sociale della Chiesa ortodossa russa, nei quali tra l’altro si legge: «Lo Stato riconosce che il benessere terreno è inconcepibile senza l’osservanza di determinate norme morali, di quelle stesse che sono indispensabili anche per la salvezza eterna dell’uomo. Per questo gli obiettivi e l’attività della Chiesa e dello Stato possono coincidere non solo per quanto riguarda la ricerca di una prosperità puramente terrena, ma anche per la realizzazione della missione salvifica della Chiesa».
Eppure, almeno finora, Kirill si era mantenuto prudente. Si dice fosse contrario all’annessione della Crimea e nel 2014 evitò di partecipare alle celebrazioni. Nei rapporti esterni, ha legato il suo nome all’incontro storico con Francesco a Cuba, il 12 febbraio 2016, il Papa della Chiesa cattolica e il Patriarca ortodosso di Mosca che infine si vedono «per grazia di Dio» ai Caraibi, in una saletta all’aeroporto dell’Avana, per la prima volta dopo il «Grande Scisma» tra Occidente e Oriente del 1054. Letta oggi, quella «dichiarazione congiunta» che ha fatto epoca è carta straccia, «deploriamo lo scontro in Ucraina» , «invitiamo le parti all’azione per costruire la pace», «auspichiamo che tutti i cristiani ortodossi dell’Ucraina vivano nella pace e nell’armonia», la «nostra fratellanza cristiana», parole al vento come quelle rivolte il 3 marzo al nunzio apostolico a Mosca, l’apprezzamento di Kirill per «la posizione moderata e saggia della Santa Sede su molte questioni internazionali».
Da tempo si sta preparando un nuovo incontro «in territorio neutro» tra il Papa e il patriarca. Prima dell’invasione, la diplomazia russa diceva «a giugno o luglio», adesso chissà. Negli ultimi giorni i vescovi cattolici europei, gli ortodossi della chiesa autocefala ucraina e lo stessa chiesa di Kiev rimasta legata al patriarcato di Mosca avevano chiesto al Patriarca di Mosca di dire qualcosa. Alla fine lo ha fatto, scegliendo l’isolamento.
Nel discorso nessun riferimento ai morti ucraini. Chi è Kirill, il patriarca russo che ha parlato di una “guerra giusta” in Ucraina perché “contro i gay”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'8 Marzo 2022
Ha scelto un momento evocativo importante per dire la sua, “la domenica del perdono”. Ma di perdono nel suo sermone c’era ben poco. Kirill I, capo della chiesa ortodossa russa, in un sermone ha benedetto la guerra contro l’Ucraina con parole dure. Per lui la guerra della Russia in Ucraina “è giusta” perché vanno puniti modelli di vita peccaminosi e contrari alla tradizione cristiana come “il gay pride“. E così ha probabilmente messo un freno all’arduo percorso di avvicinamento con la Chiesa di Roma.
Kirill I è nato 75 fa nell’allora Leningrado con il nome di Vladimir Michajlovič Gundjaev. È il sedicesimo patriarca di Mosca e di tutte le Russie, capo di una Chiesa che assomma 150 milioni di fedeli, circa la metà del mondo ortodosso ed è un fedelissimo di Putin. Nel sermone Kirill non ha fatto menzione dei morti ucraini, del dramma dei bambini, salvo un riferimento ai russofoni del Donbass.
Kirill nel sermone pronunciato nella Domenica del Perdono, che in Russia apre la Quaresima, approva l’invasione della Russia arrivata dopo che “per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass“, “dove c’è un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale”. E secondo Kirill “oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo ‘felice’, il mondo del consumismo eccessivo, il mondo della ‘libertà’ visibile. Sapete cos’è questo test? E’ molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay” e le repubbliche separatiste del Donbass hanno respinto questo “test di lealtà” all’Occidente, esortandole alla resistenza contro i valori promossi dalla lobby gay.
Ha quindi affermato che la guerra riguarda la divisione tra i sostenitori del gay pride – o i governi occidentali che li permettono – e i loro oppositori nell’Ucraina orientale sostenuta dalla Russia. “Oggi i nostri fratelli nel Donbass, gli ortodossi, stanno indubbiamente soffrendo, e noi non possiamo che stare con loro, soprattutto nella preghiera”, ha spiegato Kirill.
Parole che hanno indignato tutto il mondo con l’evocazione di una guerra santa di un conflitto che “non ha solo un significato politico” perché “si tratta della salvezza umana, di dove andrà a finire l’umanità”, di “una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico”: un conflitto ontologico tra bene e male, dove il male è l’Occidente corroso dal peccato.
È noto che in Russia ci sia un’alleanza tra il trono e l’altare, un’influenza reciproca tra il patriarca e Putin. Fin ora Kirill non si era esposto più di tanto ma con il sermone non ha lasciato ombra di dubbio sul suo pensiero sulla guerra.
Cresciuto in una famiglia molto religiosa, monaco dal 1969, ha fatto una carriera folgorante fin dagli anni sovietici, gli studi all’Accademia teologica di Leningrado-San Pietroburgo della quale divenne poi rettore, la nomina a vescovo di Vyborg (1976), arcivescovo di Smolensk (1984) e Kaliningrad (1988) e metropolita (1991), Alessio II nel 1989 lo scelse come presidente del dipartimento affari religiosi esteri e quindi “ministro degli esteri” del Patriarcato. Successe al vecchio patriarca morto nel 2009.
Dal 1996 al 2000 aveva diretto i lavori per l’elaborazione dei Fondamenti della concezione sociale della Chiesa ortodossa russa, nei quali tra l’altro si legge: “Lo Stato riconosce che il benessere terreno è inconcepibile senza l’osservanza di determinate norme morali, di quelle stesse che sono indispensabili anche per la salvezza eterna dell’uomo. Per questo gli obiettivi e l’attività della Chiesa e dello Stato possono coincidere non solo per quanto riguarda la ricerca di una prosperità puramente terrena, ma anche per la realizzazione della missione salvifica della Chiesa”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Da ansa.it il 7 marzo 2022.
In un sermone-shock pronunciato ieri nella Domenica del Perdono il patriarca di Mosca Kirill ha parlato in termini giustificazionisti della guerra in Ucraina dopo che "per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass", "dove c'è un rifiuto fondamentale dei cosiddetti valori che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale".
Per Kirill "oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo 'felice', il mondo del consumo eccessivo, il mondo della 'libertà' visibile.
Sapete cos'è questo test? E' molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay". Nel suo sermone al termine della Divina Liturgia nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, il patriarca ortodosso, noto per la sua posizione filo-putiniana, ha fatto dapprima riferimento a che "questa primavera è stata offuscata da gravi eventi legati al deterioramento della situazione politica nel Donbass, praticamente lo scoppio delle ostilità".
Poi ha incentrato tutta la sua argomentazione sulla necessità di lottare contro i modelli di vita promossi dalle parate gay. "Se l'umanità riconosce che il peccato non è una violazione della legge di Dio - ha osservato -, se l'umanità concorda sul fatto che il peccato è una delle opzioni per il comportamento umano, allora la civiltà umana finirà lì".
E le parate gay "sono progettate per dimostrare che il peccato è una delle variazioni del comportamento umano". "Ecco perché per entrare nel club di quei paesi è necessario organizzare una parata del gay pride - ha proseguito -. Non per fare una dichiarazione politica 'siamo con te', non per firmare accordi, ma per organizzare una parata gay. E sappiamo come le persone resistono a queste richieste e come questa resistenza viene repressa con la forza. Ciò significa che si tratta di imporre con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio, e quindi, di imporre con la forza alle persone la negazione di Dio e della sua verità".
Secondo Kirill, "ciò che sta accadendo oggi nell'ambito delle relazioni internazionali, quindi, non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Si tratta della salvezza umana, di dove andrà a finire l'umanità". "Tutto ciò che dico non ha solo un significato teorico e non solo un significato spirituale. Intorno a questo argomento oggi c'è una vera guerra", ha rimarcato.
"Chi sta attaccando l'Ucraina oggi, dove la repressione e lo sterminio delle persone nel Donbass va avanti da otto anni? Otto anni di sofferenza e il mondo intero tace: cosa significa? - ha detto ancora il patriarca - Ma sappiamo che i nostri fratelli e sorelle stanno davvero soffrendo; inoltre, possono soffrire per la loro fedeltà alla Chiesa".
"Tutto quanto sopra indica che siamo entrati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico - ha quindi insistito a proposito della necessità di combattere -. So come, sfortunatamente, gli ortodossi, i credenti, scegliendo la via di minor resistenza in questa guerra, non riflettano su tutto ciò a cui pensiamo oggi, ma seguono umilmente la strada che mostrano loro i poteri costituiti".
"Non condanniamo nessuno, non invitiamo nessuno a salire sulla croce - ha aggiunto -, ci diciamo solo: saremo fedeli alla parola di Dio, saremo fedeli alla sua legge, saremo fedeli alla legge dell'amore e giustizia, e se vediamo violazioni di questa legge, non sopporteremo mai coloro che distruggono questa legge, offuscando il confine tra santità e peccato, e ancor più con coloro che promuovono il peccato come esempio o come uno dei modelli di comportamento umano".
"Oggi i nostri fratelli nel Donbass, gli ortodossi, stanno indubbiamente soffrendo, e noi non possiamo che stare con loro, soprattutto nella preghiera", ha concluso Kirill. Allo stesso tempo, "dobbiamo pregare affinché la pace giunga al più presto, che il sangue dei nostri fratelli e sorelle si fermi, che il Signore inclini la sua misericordia verso la terra sofferente del Donbass, che ha portato questo segno triste per otto anni, generato dal peccato e dall'odio umani".
Il sacro burattin. La rivolta ortodossa contro Putin e il silenzio del patriarca di Mosca. Francesco Lepore su l'Inkiesta il 7 marzo 2022.
Gli appelli del primate ucraino Onufriy rivolti al russo Kirill I, “vescovo della terza Roma” sono caduti nel vuoto. Quest’ultimo al contrario ha dimostrato in più occasioni di approvare l’azione militare e l’ideologia neoeurasiatista di Dugin.
A 12 giorni dallo scoppio del conflitto russo-ucraino i temi correlati della guerra fratricida e della pace sono i principali intorno a cui s’imperniano le posizioni diversificate delle Chiese e comunità ecclesiali ad intra e ad extra d’un Paese di fatti invaso.
Se delle une e delle altre si parla, non è certamente per mancanza di considerazione verso le altre religioni, i cui rappresentanti, a partire dall’Islam e dall’Ebraismo, hanno parimenti a cuore la risoluzione della crisi. Ma unicamente per il peso specifico che quelle hanno in Ucraina, dove l’83,5% della popolazione, complessivamente dichiaratasi appartenente a un determinato credo (84,1%), è cristiana. Di questa, secondo il sondaggio condotto nel 2020 dal think tank non governativo Razumkov Centre, eccettuata la Repubblica autonoma di Crimea e alcuni distretti del Luhans’k e del Donec’k, la stragrande maggioranza, vale a dire il 62,3%, è ortodossa, mentre il 9,6 è greco-cattolica.
A seguire percentuali minoritarie di altri riti e confessioni, non senza contare l’8,9% di chi si professa semplicemente cristiano. Secondo l’indagine svolta nel giugno 2021 dal KIIS (Kyiv International Institute of Sociology – Київський міжнародний інститут соціології) sarebbero invece addirittura il 73% gli ucraini ortodossi, di cui la maggioranza (58%) membri della Chiesa ortodossa d’Ucraina (UOC), meno della metà (25%) membri della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca (UOC-MP) e il 12% “semplici credenti ortodossi”.
Com’è noto, la UOC, nata il 15 dicembre 2018 attraverso un concilio di unione presieduto dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli a seguito del quale c’è stata una sostanziale fusione della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Kiev capeggiata dall’allora metropolita Filarete e di altra entità ecclesiale anticanonica, è considerata ancora scismatica e non valida sacramentalmente da Mosca. E questo nonostante il riconoscimento ufficiale di Bartolomeo I attraverso il tomos d’autocefalia, da lui firmato il 5 gennaio successivo nella cattedrale di San Giorgio a Istanbul. Pur contrapposte l’una all’altra, le due grandi Chiese ortodosse ucraine sono però da giorni concordi – al di là dei toni, delle motivazioni e delle diverse prospettive dei rispettivi primati Epifanij e Onufriy – nel condannare l’invasione putiniana iniziata il 24 febbraio.
Se scontate sono apparse le invettive del primo, che sabato in un vibrante discorso è tornato a parlare di «tirannia del Cremlino», sotto il cui «giogo [… il popolo ucraino, vissuto per decenni al costo di milioni di persone torturate dalla fame e dalla repressione» non senza una bordata al Patriarcato di Mosca, accusato di alimentare i falsi miti della «Santa Russia» e del «Popolo Trino», non può affatto dirsi lo stesso del secondo, da sempre contrario alla volontà dell’Ucraina di entrare nella Ue ma parimenti convinto dell’integrità territoriale del suo Paese. Ed è proprio la figura del metropolita Onufriy a stagliarsi in tutta la sua dignità e adamantina grandezza da quasi due settimane a questa parte.
Questi, in aperta controtendenza alle posizioni del patriarca di Mosca Kirill I, entusiasta sostenitore di Vladimir Putin e della sua politica espansionistica in Crimea e nell’Ucraina orientale a partire dal 2014, ha subito condannato le «operazioni militari» russe.
«Difendendo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina – così nel discorso del 24 febbraio – ci appelliamo anche al presidente della Russia affinché fermi immediatamente la guerra fratricida. I popoli ucraino e russo sono usciti dal fonte battesimale del Dnepr e la guerra tra questi popoli è una ripetizione del peccato di Caino, che uccise con invidia il proprio fratello. Una simile guerra non ha giustificazione né presso Dio né presso l’uomo».
Su suo mandato quattro giorni dopo il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa ucraina (UOC-MP), dopo aver disposto l’apertura continuata di chiese e monasteri per accogliere rifugiati e feriti, si rivolgeva proprio a «Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia», chiedendogli di «intensificare longanime» le preghiere per il popolo ucraino e d’impegnarsi per la «cessazione dello spargimento di sangue fratricida sul suolo ucraino e di invitare la leadership della Federazione Russa a porre immediatamente fine alle ostilità che minacciano di trasformarsi in una guerra mondiale».
Appelli tutti caduti nel vuoto che non hanno però scoraggiato l’impavido metropolita, che il 4 marzo, dopo una solenne liturgia impetratoria della pace, ha elevato un grido carico di dolore per il suo popolo. Chiedendo a «entrambe le parti, russa e ucraina, di sedersi al tavolo dei negoziati e risolvere tutti i problemi tra noi esistenti, non certamente con l’aiuto della spada. La spada divide, l’amore unisce», si è così rivolto al presidente della Federazione Russa: «Vladimir Vladimirovich, fa’ di tutto per porre fine alla guerra sul suolo ucraino! La guerra non porta bene al popolo. La guerra sparge sangue e il sangue divide le persone. Puoi farlo, e noi crediamo e desideriamo che tu lo faccia. Chiediamo che i giorni di Quaresima siano per noi sereni, affinché possiamo celebrare con gioia la festa luminosa della vita, la festa della Santa Risurrezione di Cristo».
Dal Cremlino ovviamente nessuna risposta né tantomeno dal santo monastero Danilov: il sacro burattino di Putin, contro il quale monta sempre più la protesta al punto tale che molti metropoliti non ne citano più il nome nelle divine liturgie (senza contare la dura e aperta condanna della guerra fratricida da parte di 233 sacerdoti e diaconi della Chiesa ortodossa russa), preferisce tacere sulle politiche sanguinarie dello zar del terzo millennio, trincerandosi dietro a invettive esorcistiche contro «forze esterne oscure e ostili» cui bisogna impedire «di ridere di noi» e alla riproposizione dell’esplosiva tesi della “Santa Russia”, unica terra composta da Bielorussia, Russia e Ucraina.
Non meraviglia pertanto che il 3 marzo, ricevendo nella residenza patriarcale il nunzio apostolico Giovanni D’Aniello, abbia elogiato con quell’untuosa doppiezza, per cui è tanto noto quanto screditato, Papa Francesco.
Quel vescovo di Roma che, incontrato a L’Avana il 12 febbraio 2016 e coprotagonista con lui della firma della Dichiarazione comune, non aveva fino a ieri espresso alcuna parola di aperta condanna dell’invasione russa al punto tale da essere elogiato da Kirill con riferimento alla «posizione saggia e prudente della Santa Sede».
Posizione, che «su tante questioni internazionali corrisponde alla posizione della Chiesa ortodossa russa. È importante che le Chiese cristiane, le nostre Chiese comprese, non diventino, volendo o non volendo, talvolta senza alcuna voglia, partecipanti a quelle complicate e contraddittorie tendenze che sono presenti oggi nell’agenda mondiale».
Fino a ieri, come si diceva, quando all’Angelus Bergoglio, forse consapevole che una tale prudenza potesse alla fine passare come silenzio acquiescente, è intervenuto in maniera inequivocabile sul tema, pur senza usare esplicitamente la parola “invasione” o citare Putin.
«In Ucraina – così Francesco – scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria. Le vittime sono sempre più numerose, così come le persone in fuga, specialmente mamme e bambini. In quel Paese martoriato cresce drammaticamente di ora in ora la necessità di assistenza umanitaria. Rivolgo il mio accorato appello perché si assicurino davvero i corridoi umanitari, e sia garantito e facilitato l’accesso degli aiuti alle zone assediate, per offrire il vitale soccorso ai nostri fratelli e sorelle oppressi dalle bombe e dalla paura».
Nel ringraziare poi «tutti coloro che stanno accogliendo i profughi», ha implorato «che cessino gli attacchi armati e prevalga il negoziato – e prevalga pure il buon senso –. E si torni a rispettare il diritto internazionale!». Non senza un ulteriore affondo a Putin, quando ha menzionato con gratitudine «anche le giornaliste e i giornalisti che per garantire l’informazione mettono a rischio la propria vita. Grazie, fratelli e sorelle, per questo vostro servizio! Un servizio che ci permette di essere vicini al dramma di quella popolazione e ci permette di valutare la crudeltà di una guerra». A differenza proprio di quel Kirill I che sempre ieri, al termine della liturgia della Domenica del Perdono o dei Latticini (che antecede l’inizio della Grande Quaresima), ha pensato bene di collegare quanto succede da otto anni nel Donbas ai perversi disegni di «chi rivendica il potere mondiale» e vuole introdurre nella regione i gay pride o «presunte marce della dignità organizzate per dimostrare che il peccato è una delle varianti del comportamento umano».
Da qui la considerazione apocalittica che «quanto sta accadendo oggi nell’ambito delle relazioni internazionali non ha quindi solo un significato politico» ma è segnale «che siamo entrati in una lotta dal contenuto non fisico, ma metafisico».
Insomma, nulla di nuovo, se non l’ennesima violenza verbale e intemerata omofobica del “vescovo della terza Roma”. Intemerata, in cui il tema della corruzione occidentale dei costumi nella forma massima dell’omosessualità non è nient’altro che una ripresentazione sermonesca dei capisaldi della neoeurasiatismo di Dugin. Cui, come si sa, guardano con ammirata attenzione il cleptocrate del Cremlino e il suo cappellano. Pardon, patriarca!
La fine della storiaccia. Il patriarca di Mosca, Fukuyama e la posta in gioco nella sfida di Putin all’occidente. Francesco Cundari su l'Inkiesta l'8 marzo 2022.
Le parole di Kirill sul gay pride sono l’altra faccia della strategia del leader russo: dimostrare che il modello della democrazia liberale non coincide con il progresso, ma solo con l’egemonia occidentale, che come tale va respinta, in nome di altri e opposti valori.
Hanno suscitato generale e direi sacrosanta indignazione le parole pronunciate dal patriarca di Mosca Kirill nel suo sermone domenicale, che riprendo dall’Ansa per chi se lo fosse perso, su quel «potere mondiale» che avrebbe attaccato il Donbass per imporgli i suoi valori: «Oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo “felice”, il mondo del consumo eccessivo, il mondo della “libertà” visibile. Sapete cos’è questo test? È molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay».
Credo di poter dare per scontato che tutti i lettori di questo articolo, salvo rare eccezioni, saranno d’accordo con me nel giudicare le parole del patriarca di Mosca inaccettabili non per la comunità omosessuale, non per la sinistra, non per l’occidente, ma semplicemente per qualunque persona civile. Ma se è così, questo significa che nel suo discorso c’è un grano di verità, specialmente quando aggiunge che «siamo entrati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico».
Persino e anzi soprattutto, paradossalmente, quando afferma: «Se l’umanità riconosce che il peccato non è una violazione della legge di Dio, se l’umanità concorda sul fatto che il peccato è una delle opzioni per il comportamento umano, allora la civiltà umana finirà lì».
Tutto sta a intendersi sul concetto di «civiltà». Perché in gioco è anche questo. E possiamo ben concedere, per cominciare, che la libertà di organizzare una «parata gay» senza rischiare di finire in galera, o di essere ammazzati, è senza dubbio tra le caratteristiche che tutti noi oggi consideriamo requisiti minimi per definire un Paese civile. Noi occidentali, s’intende. Cioè noi che abitiamo in quelle società in cui, dai tempi della rivoluzione francese, si è stabilito esattamente questo: che la legge di Dio non può diventare, in quanto tale, legge dello Stato. E di lì abbiamo iniziato un cammino che è passato dalla laicità dello Stato all’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, dalla libertà di espressione al suffragio universale, dal voto alle donne fino ai diritti degli omosessuali tanto antipatici a Kirill. Un cammino che ha conosciuto battute d’arresto e anche tremendi arretramenti, certamente. Eppure, se la storia del Novecento è oggi riassumibile nella sconfitta del fascismo prima e del comunismo poi, ciò significa che quel cammino non solo non si è mai interrotto, ma si è dimostrato sostanzialmente privo di alternative, se non altro sul piano ideale, vale a dire come modello universale, valido a ogni latitudine. Cioè, appunto, come idea di civiltà.
Il che naturalmente non significa sostenere che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che le democrazie occidentali non siano piene di difetti e contraddizioni che a loro volta alimenteranno ancora infinite crisi e infiniti e diversi tentativi di risolverle, e che tanto più siano pieni di difetti il capitalismo, la finanza e il modello di capitalismo fondato sul predominio della finanza che ha generato la crisi del 2008. Significa solo che a nessuno di noi, quali che siano le nostre convinzioni politiche, filosofiche, economiche o religiose, pare realistico che domani anche il più reazionario dei governi proponga di togliere il voto alle donne o di ristabilire la schiavitù. Mentre a ognuno di noi – tolti forse solo gli ossessionati dalle guerre di civiltà – pare assai più verosimile che in futuro il voto alle donne arrivi anche in quelle parti del mondo in cui ancora non c’è. E così, prima o poi, se ne facciano una ragione il patriarca di Mosca e il senatore Pillon, anche le parate gay.
In questo senso, dunque, c’è un grano di verità persino nel discorso di Kirill sul carattere «metafisico» della guerra in corso. E anche nella tesi di Francis Fukuyama (e Hegel prima di lui) sulla «fine della storia», che fin qui ho sostanzialmente parafrasato. Perché in fondo la sfida di Vladimir Putin all’occidente è anche il tentativo di dimostrare che Fukuyama aveva torto, che quel processo è reversibile, che il modello della democrazia occidentale non coincide con il cammino della libertà, con il fine (più che la fine) della storia, cioè con il progresso, ma solo con l’avanzamento dell’egemonia americana, che come tale può dunque essere respinta, in nome di altri e opposti valori.
Non per niente alla contrapposizione militare, e al tentativo di ricostruire una parvenza di bipolarismo mondiale al fianco della Cina, ha fatto seguito una stretta repressiva in Russia, con la scelta di stroncare ogni manifestazione di dissenso e persino, a quanto pare, di isolarsi da internet. Cioè il tentativo di tagliarsi fuori quanto più possibile dalla globalizzazione e dai suoi effetti. Ma il punto è proprio se e quanto oggi questo sia ancora possibile.
L’esito della sfida putiniana all’occidente, tra le altre cose, dirà dunque se Fukuyama e Hegel avevano ragione.
Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 5 marzo 2022.
Mercoledì il patriarca di Mosca Kirill, il capo della Chiesa ortodossa russa, ha avuto due colloqui importanti. Presso la residenza del monastero Danilov ha incontrato il nunzio apostolico presso la Federazione Russa, monsignor Giovanni D'Aniello, e poi l'ambasciatore della Cina, Zhang Hanhui. Russia, Vaticano e Pechino, è il triangolo inatteso che potrebbe aprire la via diplomatica per la questione della crisi Ucraina, per cui papa Francesco ha già speso parole nette di pace, senza però mai stigmatizzare frontalmente l'atto militare di Putin.
La via stretta di Francesco per cercare di tenere aperto un canale con il patriarcato di Mosca, è stato in qualche modo attestato dal comunicato diffuso dallo stesso patriarcato. Kirill ha espresso apprezzamento per «la posizione moderata e saggia della Santa Sede su molte questioni internazionali». E ha aggiunto: «È molto importante che le Chiese cristiane, comprese le nostre Chiese, non diventino, volontariamente o involontariamente, a volte senza alcuna volontà, partecipanti a quelle tendenze complesse, contraddittorie e in lotta tra loro che sono oggi presenti nell'agenda mondiale».
È chiaro che dentro queste parole del patriarca ci sono le questioni che dal punto di vista russo fanno in qualche modo da movente per l'azione militare messa in campo da Putin. Ma nella dichiarazione del patriarcato che ha seguito l'incontro con il nunzio D'Aniello si legge anche: «stiamo cercando di assumere una posizione di mantenimento della pace, anche di fronte ai conflitti esistenti. Perché la Chiesa non può partecipare al conflitto, può solo essere una forza pacificatrice».
È questa la forza su cui la Santa Sede sta cercano di far leva, per tentare di portare Kirill a far pressione su Putin per fermare le armi. Non è un segreto se questa azione militare russa ha anche un retroterra religioso, come scriveva già Samuel Huntington nel suo celebre Lo scontro delle civiltà, «le repubbliche ortodosse dell'ex Unione sovietica sono di importanza fondamentale per lo sviluppo di un blocco russo coeso nell'arena euroasiatica e mondiale».
Proprio Kirill domenica scorsa ha detto che «il Signore protegga dalla guerra fratricida i popoli che fanno parte dello stesso spazio, quello della Chiesa ortodossa russa. Non diamo a potenze esterne oscure e ostili l'opportunità di prenderci in giro». La via religiosa alla diplomazia cerca quindi di portare il patriarca a sfoderare la sua «forza pacificatrice», mettendo di lato gli interessi storico-culturali e quell'odore di cesaropapismo che a volte capita di sentire nel mondo ortodosso.
Ma l'epicentro dello scontro nel mondo delle chiese ortodosse è tra Mosca e Costantinopoli, dopo che il patriarca ecumenico Bartolomeo I nel 2019 ha concesso l'autocefalia, una sorta di indipendenza, alla Chiesa ortodossa di Kiev. L'autocefalia è stata considerata da Mosca come un affronto eterodiretto del mondo occidentale dentro le cose sacre e sante della terra russa, e non a caso proprio ieri il patriarca ecumenico Bartolomeo ha dichiarato di essere «diventato un bersaglio».
Il passo diplomatico di Francesco, l'unico sul campo che potrebbe avere uno sguardo davvero terzo, sembra rifarsi ai vincoli spirituali tra i popoli russo e ucraino. E nello stesso tempo sembra sufficientemente in grado di tenere aperta una porta per una soluzione politica al conflitto che non segua uno schema manicheo, ma capace di offrire una prospettiva nuova per la convivenza tra i popoli in quelle terre.
Qui potrebbe rivelarsi interessante anche il ruolo giocato dalla Cina, che ieri appunto ha incontrato Kirill con il suo ambasciatore in Russia. Pechino non ha troppe distanze da Mosca sul giudizio verso l'attuale ordine mondiale, ma dal punto di vista economico ha tutto l'interesse a ritagliarsi un ruolo di mediazione.
Mosca, Vaticano e Cina, lo strano triangolo sembra capace di aprire una via diplomatica per la soluzione del conflitto ucraino. In un suo tweet di ieri pomeriggio papa Francesco ha detto che sono «le armi spirituali» che possono cambiare la storia. Ma accanto a queste ci sono anche gli uomini del Papa, sparsi nelle nunziature in giro per il mondo. Giulio Andreotti nel 2002 rivolgendosi ai diplomatici della Santa Sede, disse che «il Papa ha i suoi uomini presenti quasi ovunque. L'auspicio - e la nostra preghiera a Dio - è che nell'interesse non solo della Chiesa questo quasi possa al più presto scomparire».
Franca Giansoldati per ilmattino.it l'1 marzo 2022.
Rosari, preghiere nei rifugi anti-bombe ma anche esorcismi. C'è, infatti, chi all'interno della Chiesa ucraina (greco cattolica) è convinto che Vladimir Putin sia posseduto dal demonio e che, di conseguenza, necessiti di riti per la liberazione dal Male.
Un prete di Leopoli, nativo del Donetsk – in passato catturato dai separatisti nel 2014 – su Facebook ha raccontato di avere avviato un rituale di esorcismo per liberare Putin dalle spire di Satana. Padre Tykhon Kulbaka, il 25 febbraio, ha spiegato poi al Religious Information Service ucraino (che ha sede all'Università Cattolica di Leopoli) in cosa consiste questa pratica. Per farla breve, ogni giorno, il religioso recita assieme ad altri religiosi, in una sorta di rete, i riti previsti, invocando San Michele Arcangelo e avviando un esorcismo a distanza. «Ritengo che uno spirito maligno si sia impossessato delle azioni di quest'uomo».
«Chiedo a Dio misericordioso di intervenire per sottrarre questa persona dall'influenza demoniaca e farle rinunciare al male e distruggere tale demonio corporalmente in modo che l'anima possa essere salvata». Padre Kubalka ha poi lanciato un sos a tutti i preti della zona affinché si uniscano a lui in questa impresa, incoraggiando al contempo anche i laici a pregare per questa intenzione. «La forza della preghiera è più potente».
Padre Kulbaka nel 2014 ha trascorso 12 giorni prigioniero delle forze filorusse quando hanno occupato le regioni di Donetsk e Luhansk. Quando i militari hanno saputo che era diabetico, gli hanno dato da mangiare pane bianco e pochissima acqua e gli hanno pure tolto le medicine dicendogli che era un nemico e doveva morire lentamente.
Papa Francesco è straziato per l'Ucraina: tacciano le armi, Dio sta con la pace. Il digiuno del mercoledì delle ceneri. Il Tempo il 27 febbraio 2022.
Con «il cuore straziato» Papa Francesco ha lanciato un appello ad aprire urgentemente i corridoi umanitari per chi fugge dall’Ucraina. «Penso agli anziani, a quanti in queste ore cercano rifugio, alle mamme in fuga con i loro bambini... Sono fratelli e sorelle per i quali è urgente aprire corridoi umanitari e che vanno accolti», ha detto dopo l’Angelus in piazza San Pietro a Roma, dove erano presenti anche fedeli ucraini con le loro bandiere. «In questi giorni siamo stati sconvolti da qualcosa di tragico: la guerra. Più volte abbiamo pregato perché non venisse imboccata questa strada. E non smettiamo di pregare, anzi, supplichiamo Dio più intensamente», ha continuato il Pontefice che ha rinnovato l’invito a fare del 2 marzo, Mercoledì delle ceneri, una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Ucraina.
«Una giornata - ha precisato il Pontefice - per stare vicino alle sofferenze del popolo ucraino, per sentirci tutti fratelli e implorare da Dio la fine della guerra». «Chi fa la guerra dimentica l’umanità. Non parte dalla gente, non guarda alla vita concreta delle persone, ma mette davanti a tutto interessi di parte e di potere», ha aggiunto Francesco. «Si affida alla logica diabolica e perversa delle armi, che è la più lontana dalla volontà di Dio. E si distanzia dalla gente comune, che vuole la pace; e che in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra». Ma il Papa non dimentica gli altri conflitti sparsi nel mondo: Yemen, Siria, Etiopia. E ribadisce: «Tacciano le armi! Dio sta con gli operatori di pace, non con chi usa la violenza». E ha citato infine l’articolo 11 della Costituzione italiana, «chi ama la pace» «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Ucraina, Papa Francesco sente al telefono Zelensky: “Profondo dolore per i tragici eventi”. Valentina Mericio il 26/02/2022 su Notizie.it.
Papa Bergoglio, in una telefonata con il presidente ucraino Zelensky ha espresso il suo dolore per gli eventi che hanno scosso l'Ucraina.
Alla luce dei drammatici eventi che hanno sconvolto l’Ucraina, Papa Francesco ha sentito al telefono il presidente Volodymyr Zelenskyi. A confermarlo il direttore della Sala Stampa del Vaticano Matteo Bruni. Il Santo Padre, nel corso del colloquio, ha pregato affinché a Kiev possa tornare nuovamente la pace.
Immediata la risposta del capo di Stato Ucraino che ha ringraziato con un tweet.
Ucraina, Papa Francesco sente al telefono Zelensky: cosa si sono detti
“Oggi Papa Francesco ha avuto un colloquio telefonico con il Presidente Volodymyr Zelenskyi.
Il Santo Padre ha espresso il suo più profondo dolore per i tragici eventi che stanno avvenendo nel nostro Paese”.
Sono queste le poche, ma incisive parole dell’ambasciata ucraina presso la Santa Sede attraverso un post su Twitter.
A seguito di ciò, il presidente ucraino ha colto l’occasione per esprimergli tutta la sua gratitudine soprattutto per la preghiera di pace che il Papa ha dedicato: “Ho ringraziato Papa Francesco per aver pregato per la pace in Ucraina e per una tregua.
Il popolo ucraino sente il sostegno spirituale di Sua Santità”.
Papa Francesco: “La Regina della pace preservi il mondo dalla follia della guerra”
Nel frattempo Papa Francesco nella giornata di sabato 26 febbraio ha scritto un post su Twitter nel quale ha condannato fermamente la guerra. Ha poi rinnovato l’invito ai credenti (e non) a digiunare e a pregare il 2 marzo in occasione del mercoledì delle Ceneri: “Gesù ci ha insegnato che all’insensatezza diabolica della violenza si risponde con le armi di Dio, con la preghiera e il digiuno.
La Regina della pace preservi il mondo dalla follia della guerra”, ha scritto il Pontefice”.
Dagotraduzione da Foxnews l'1 marzo 2022.
Un arcivescovo ucraino e portavoce della Chiesa ortodossa ucraina ha condannato il presidente russo Vladimir Putin definendolo «l'anticristo del nostro tempo attuale» mentre la Russia invade l'Ucraina.
Mentre Putin sembra ritrarre sé stesso come una specie di figura messianica, che cerca di riunire le Chiese ortodosse russa e ucraina (che si sono formalmente separate nel 2019), Yevstratiy Zoria lo ha messo dall'altra parte dello spettro cristiano.
«Putin non è davvero il messia, ma è l'anticristo del nostro tempo attuale», ha detto a Harry Farley, produttore di religione ed etica per la BBC, Yevstratiy Zoria, il portavoce della Chiesa ortodossa ucraina.
«Credi che sia l'anticristo del tuo tempo?» Farley ha insistito in un'intervista trasmessa dal Global News Podcast della BBC. «Sì, è anticristo perché tutto ciò che fa, tutto ciò che fa ora, è totalmente contro il vangelo, contro la legge di Dio», ha risposto il portavoce. La Chiesa ortodossa ucraina a Kiev non ha risposto immediatamente alla richiesta di commenti e chiarimenti di Fox News.
Secondo i sondaggi, una grande maggioranza della popolazione ucraina si identifica come cristiana ortodossa orientale, mentre una significativa minoranza di cattolici ucraini segue una liturgia bizantina simile a quella ortodossa ma è fedele al papa. La popolazione ortodossa ucraina è divisa tra la Chiesa ortodossa ucraina con sede a Kiev (che rappresenta Yevstratiy Zoria) e la Chiesa ortodossa ucraina, che è sotto il patriarca ortodosso di Mosca ma ha un'ampia autonomia.
Putin ha giustificato la sua invasione in parte come una difesa della chiesa ortodossa orientata a Mosca, ma i leader di entrambe le chiese stanno denunciando l'invasione, così come la minoranza cattolica del Paese.
«Con la preghiera sulle labbra, con l'amore per Dio, per l'Ucraina, per il nostro prossimo, combattiamo contro il male e vedremo la vittoria», ha detto all'Associated Press il metropolita Epifany, capo della Chiesa ortodossa ucraina con sede a Kiev.
«Dimentica i reciproci litigi e incomprensioni e... unisciti all'amore per Dio e per la nostra Patria», ha affermato il metropolita Onufry, capo della Chiesa ortodossa ucraina collegata a Mosca.
Da “la Stampa” il 20 giugno 2022.
Se non può chiudere le porte alle bombe, l'Ucraina vuole lasciare fuori dai suoi incerti confini perlomeno la cultura russa. Lo ha fatto vietando con due diversi disegni di legge velocemente approvati dal Parlamento di Kiev, l'importazione e la distribuzione di libri e prodotti editoriali da Russia, Bielorussia e «territori temporaneamente occupati», oltre che dei volumi in russo provenienti anche da altri Paesi. Contemporaneamente, è stata imposta a tempo indefinito l'esclusione di tutti i musicisti che hanno la cittadinanza russa dalle esibizioni pubbliche, concerti e manifestazioni.
Per gli artisti però c'è una lista bianca: dal divieto sono esclusi tutti coloro che hanno condannato l'invasione di Mosca e che entrano in un elenco di cui si occuperà direttamente un'istituzione come il Consiglio nazionale di Sicurezza e Difesa. La breve discussione parlamentare che ha portato alle nuove regole dimostra la determinazione di Kiev a voltare pagina e a difendere l'identità nazionale su più piani, non solo quello militare.
Tanto più di fronte alla russificazione forzata che gli invasori stanno compiendo nei territori occupati, a cominciare dai programmi scolastici. A dimostrazione che i tempi sono definitivamente cambiati, anche la decisione di Kiev di aumentare l'utilizzo della lingua ucraina in radio e tv: le trasmissioni radiofoniche dovranno tenere conto che la quota di canzoni in lingua nazionale dovrà arrivare al 40% dall'attuale 35%.
L’Ucraina limita i libri e la musica in russo. Il Domani il 20 giugno 2022
Vengono vietati i contenuti prodotti in Russia e la trasmissione di musica in russo nei media e luoghi pubblici. Per importare libri in lingua russa da altri paesi servirà un permesso speciale. Le due leggi sono state approvate dal parlamento e ora manca solo la firma di Zelensky
Il parlamento dell’Ucraina ha approvato domenica due leggi che mettono nuovi e severi limiti alla circolazione di libri e musica in lingua russa. Si tratta dell’ultimo atto di un “conflitto culturale” iniziato in seguito all’invasione dell’Ucraina ordinata dal presidente russo Vladimir Putin.
Se la legge sarà confermata dal presidente Volodymyr Zelensky, diventerà impossibile per i cittadini russi stampare libri in Ucraina, a meno che non rinuncino alla loro cittadinanza per quella ucraina.
L’importazione di libri dalla Russia, Bielorussia e i territori dell’Ucraina occupata viene completamente vietata, mentre l’importazione di libri in lingua russa dall’estero sarà soggetta a speciali autorizzazioni.
La seconda legge, invece, vieta la trasmissione di musica realizzata da cittadini russi sui media e sul trasporto pubblico nel territorio dell’Ucraina. La quota dei contenuti in lingua ucraina che deve essere obbligatoriamente trasmessa dai media viene incrementata.
Entrambe le leggi sono stata approvate dal parlamento da una larga maggioranza che comprendeva anche alcuni parlamentari considerati tradizionalmente filorussi.
Mattarella riceve i premiati per il David di Donatello: “La guerra insensata non può rompere i legami culturali tra i popoli europei”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Maggio 2022.
Il Presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale i candidati ai premi David di Donatello ed ha indicato la cultura come grande elemento di dialogo, ponendo un argine alla giusta indignazione verso il Cremlino, che non può però travolgere anche i mostri sacri della cultura russa del passato
Sergio Mattarella ha ricevuto al Quirinale i candidati ai premi David di Donatello indica la cultura come grande elemento di dialogo, ponendo un argine alla giusta indignazione verso il Cremlino, che non può però travolgere anche i mostri sacri della cultura russa del passato. Già nei giorni scorsi il Presidente della Repubblica aveva voluto distinguere tra il governo di Putin e il popolo russo, ora fa notare a chi si è fatto prendere la mano, invocando una sorta di damnatio memoriae di autori russi dei secoli scorsi, che esistono dei limiti.
La premessa, nettissima, resta: “la guerra scatenata nel cuore d’Europa da un’aggressione inaccettabile scuote le nostre coscienze“. Ma “la cultura non si ferma. Neppure di fronte alla guerra. La cultura unisce. Supera i confini – limiti che essa non contempla – ed è fondamentale per ricreare condizioni di pace”. E dunque ha detto il Capo dello Stato “una guerra insensata non può mettere in discussione i legami spirituali e culturali che, nei secoli, si sono fortemente intrecciati nel mondo della cultura d’Europa. La scelta sciagurata della Federazione Russa di fare ricorso alla brutalità della violenza e della guerra non puo’ e non deve lacerare quei legami preziosi tra i popoli europei che la cultura ha contribuito a costruire e a consolidare“.
I due piani per Mattarella devono essere distinti: “La doverosa indignazione e la condanna non possono certo riguardare la cultura, grandi spiriti del passato e le loro opere, che tanto hanno dato alla civiltà del mondo intero“. Anche perché “sarebbe grave e controproducente per la nostra Italia e la nostra Europa. Lacerare la cultura europea, significherebbe assecondare quella logica di aggressione”. Quanto al cinema italiano, rappresentato ai massimi livelli oggi al Quirinale, la sua storia “fa parte pienamente della storia del nostro Paese“.
Negli ultimi due anni , ha ricordato il Presidente della Repubblica, la pandemia ha inferto “un colpo durissimo” al cinema come a tutti gli spettacoli dal vivo. Ma per la settima arte non si è trattato di un momento di paralisi. “La crisi è stata forte, ma l’ideazione, la produzione, la realizzazione di opere è proseguita. E non è azzardato dire che il cinema oggi sta vivendo una stagione di crescita. Non è la prima volta, del resto, nella storia – in quella italiana particolarmente – che si può parlare di crescita attraverso una crisi”.
E va ricordato che “l’arte, lo spettacolo, la musica non sono il superfluo, ma una componente essenziale della vita della società“. Ora il cinema e l’audiovisivo “si trovano nel vortice di trasformazioni che riguardano tecniche, strumenti, linguaggi” e “c’è l’esigenza di creare prodotti validi e apprezzati per le nuove generazioni, che saranno il pubblico del futuro“. Anche “l’interrelazione crescente del cinema con la televisione e con le altre piattaforme apre straordinarie opportunità. Sono strade che state già percorrendo con successo e con grande apprezzamento del pubblico”.
Il Pnrr “ha destinato alla cultura e al cinema importanti risorse” ricorda Mattarella che ribadisce come “la cultura è un vettore indispensabile dello sviluppo. Adesso dobbiamo fare in modo che gli investimenti producano i risultati che speriamo”. Il Capo dello Stato ha lodato anche il progetto di potenziamento di Cinecittà e lancia la candidatura di Cinecittà come “capitale europea del cinema: questo è un grande obiettivo per il Paese, da cui possono derivare benefici non soltanto economici”.
E proprio negli storici studi si terrà dopo vent’anni la cerimonia di premiazione dei David. Un pensiero va poi alle sale cinematografiche, alla loro crisi nelle grandi città e nei piccoli paesi: sono un “patrimonio civile” e “non possono essere trascurate” perché “il loro ruolo sociale è importante, sono centri di aggregazione“. Mattarella ricorda poi alcune “pietre miliari” del cinema italiano: gli Oscar Vittorio De Sica, Sofia Loren, Carlo Rambaldi. E coloro che ci hanno lasciato nell’ultimo anno, quattro donne straordinarie: Monica Vitti, Lina Wertmuller, Piera Degli Esposti, Catherine Spaak.
Infine i compimenti alle due premiate speciali di quest’anno, Giovanna Ralli e Sabrina Ferilli. “L’Italia e il suo cinema sono inscindibili” ha concluso il Presidente della Repubblica: “L’Italia ha bisogno del suo cinema e il cinema ha bisogno dell’Italia”.
Monica Guerzoni per il Corriere della Sera il 22 aprile 2022.
La terra rossa di Roma come l'erba di Wimbledon, costi quel che costi. Mario Draghi ci ha pensato molto e non ha ancora scelto le parole per dirlo. Ma la decisione è presa. Per il premier i tennisti russi e bielorussi devono restare fuori dal tabellone degli Internazionali Bnl d'Italia, lo storico torneo che si aprirà il 2 maggio in un Foro Italico colorato di giallo e di azzurro in segno di solidarietà al popolo ucraino.
Vista la bufera che ha travolto Wimbledon, a Palazzo Chigi hanno ben chiara la portata della scelta e le ripercussioni politiche, giuridiche ed economiche. Ma per quanto forte sia il rischio di critiche e proteste, Draghi sta studiando una moral suasion senza appello, che porti alla massima sanzione e lanci un monito severo contro la guerra di Putin.
Gli inglesi hanno escluso dal terzo torneo del Grande Slam in ordine cronologico annuale talenti russi come Daniil Medvedev, numero due al mondo e il connazionale Andrey Rublev, ottavo nella classifica maschile. E lo stesso trattamento ha in mente il capo del governo italiano.
Per Draghi c'è un Paese aggressore che è la Russia, c'è un Paese aggredito che sta subendo massacri e distruzione e c'è che il Cio, il Comitato olimpico internazionale, ha messo al bando gli atleti russi e bielorussi raccomandando a tutte le federazioni di non invitarli.
Nel caso del tennis non è così semplice. Per l'Atp e la Wta, le due associazioni che riuniscono i professionisti e le professioniste del dritto e del rovescio, escludere le racchette russe non è solo «ingiusto, deludente e discriminatorio», ma segna un «pericoloso precedente». Il campione serbo Novak Djokovic, che pure si dice «figlio della guerra», boccia la decisione di Wimbledon: «Follia». Reazioni che Draghi ha messo nel conto. Il premier vuole evitare mosse avventate e sta soppesando le differenze tra Wimbledon - l'unico torneo del Grande Slam organizzato da privati - e Roma. Gli Internazionali sono gestiti da Atp e Wta attraverso un impegno contrattuale con la Federtennis, nelle cui stanze aleggia il timore di sanzioni e il rischio di finire esclusi dai prestigiosi Master 1000. Ma Draghi, per quanto sia «pienamente consapevole del ruolo che l'Atp esercita nella gestione del torneo di Roma», tirerà dritto.
Quando il niet del governo sarà pubblico, lo sport italiano non potrà che spaccarsi. Il presidente della federazione Angelo Binaghi ha un sogno: «Far suonare prima della finale l'inno italiano e l'inno ucraino... Sarebbe divertente vedere un giocatore russo in finale in questo contesto».
Giovanni Malagò, presidente del Coni, pensa invece che il bando sia «in linea con quanto deciso dal Cio sugli sport individuali». Alla conferenza stampa di presentazione degli Internazionali, due giorni fa, la sottosegretaria Valentina Vezzali affermava che l'Italia affronterà la situazione «al fianco degli atleti ucraini», in linea con il Cio e con le federazioni internazionali. Draghi è pronto a servire e la traiettoria della palla è segnata. Ma Adriano Panatta, che trionfò a Roma nel 1976, non è d'accordo: «L'esclusione dei russi a Wimbledon? La trovo una stron... Medvedev e Rublev hanno già dissentito da quanto sta facendo il loro Paese».
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2022.
Oltre che più cattivi, la guerra rende tutti più stupidi. Fa vedere pericoli e questioni di principio anche dove non ci sono. Il tasso di stupidità è modulabile.
Si va dal poliziotto moscovita che multa un passante perché indossa scarpe gialloblù, fino al ministero della cultura ucraino che vieta il «Lago dei cigni» perché scritto da un genio vissuto a San Pietroburgo.
Poi ci sono gli organizzatori di Wimbledon che escludono due fra i tennisti più forti al mondo, Medvedev e Rublev, in quanto russi. Pensano di creare un danno di immagine a Putin?
Ma cosa volete che importi a Putin del boicottaggio di atleti che manco vivono in Russia: al limite se ne servirà per indossare gli amati panni della vittima. Intendono punire persone vicine al Cremlino?
Rappresaglia magari discutibile, ma in questo caso addirittura lunare, dato che Rublev ha contestato la guerra fin dal primo giorno. Si può condividere il rifiuto di partecipare alle competizioni in Russia. Si può condividere già meno l'esclusione delle squadre russe dalle competizioni in Occidente. Ma chiunque non sia completamente rintronato dal rombo dei cannoni riconoscerà che un divieto esteso agli sport individuali è un passaggio a vuoto della psiche.
Un'idiozia che ti fa apparire simile all'aggressore, a quel Putin che vede minacce dappertutto e accorcia o allunga il tavolo a seconda dell'interlocutore. Spero di poter applaudire Medvedev e Rublev agli Internazionali d'Italia. Non lasciamoci peggiorare dalla guerra. Non troppo, almeno.
Da Un Giorno da Pecora il 22 aprile 2022.
“La decisione di escludere i tennisti russi da Wimbledon è scandalosa, è una scelta politica, che ancora una volta si impiccia di sport. La politica ha bisogno dello sport ma non il contrario”.
Così a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, l'ex campione di tennis e membro del comitato d'onore degli Internazionali d'Italia Nicola Pietrangeli. “I giocatori russi abitano tutti fuori dal proprio Paese, ma che gliene frega a Zelensky o a Putin se giocano a Wimbledon?”, ha proseguito l'ex atleta intervistato da Giorgio Lauro e Francesca Fagnani.
Lei è presidente del comitato d'onore degli Internazionali di Roma: nella Capitale parteciperanno i russi e i bielorussi? “Per quello che mi riguarda sì”. Sembrerebbe che Draghi vorrebbe non partecipassero anche al torneo di Roma. “Draghi è abile e capace ma anche gli abili e i capaci sbagliano. Perché Draghi dovrebbe impicciarsi di questa competizione? Io direi che sarebbe una cosa che non dovrebbe fare”.
Se arrivasse questa richiesta lei come risponderebbe? “Io carinamente – ha detto Pietrangeli a Rai Radio1 - risponderei che non si dovrebbe intromettere”. Segue ancora molto lo sport che l'ha reso celebre? “Non mi diverto più a vedere il tennis in tv, questo tipo di gioco, che rispetto, non mi fa divertire”. Chi preferisce tra i due top player italiani, Matteo Berrettini e Jannik Sinner? “E' una bella lotta alla fine secondo me vincerà Sinner, anche se a me però piace molto Musetti”. Sinner è ormai stabilmente nel giro della top ten della classifica Atp. “Sono sicuro che entro la fine del 2022 Sinner entrerà nei primi cinque della classifica”, ha assicurato a Un Giorno da Pecora Pietrangeli.
Vincenzo Martucci per il Messaggero il 22 aprile 2022.
Paolo Bertolucci, oggi opinionista tv, fino al 1983 tennista professionista, twitta un commento sul divieto ai Championships dei giocatori russi e bielorussi: Agli arbori dell'Atp boicottammo Wimbledon. Giocarono solo i non iscritti. Gli organizzatori ebbero il torneo ma la vittoria fu nostra. Serve coraggio!.
Che cosa volevi dire, Paolo?
«Nel 1973, per difendere un collega, Niki Pilic, che era stato squalificato dalla Federtennis dell'allora Jugoslavia perché non aveva voluto giocare una partita di coppa Davis, protestammo molto duramente, compatti. E, in nome del diritto di accettare o meno la convocazione in nazionale, da liberi professionisti, ci riunimmo all'hotel Gloucester di Londra e, insieme a 81 dei migliori del mondo, iscritti al sindacato Atp - che era nato nel 1972 -, ci rifiutammo clamorosamente di giocare Wimbledon».
Come andò quella votazione?
«Eravamo tutti fermamente convinti di disertare, ma ricordo che io e Adriano (Panatta) votammo fra gli ultimi per vedere che succedeva. Ci comportammo un po' all'italiana, ma c'era una spiegazione: eravamo convinti di fare la cosa giusta, ma ci trovavamo anche sotto contratto con la Federazione italiana e sapevamo che, se avessimo disertato quel torneo così importante, supportato dalla Federazione internazionale e quindi anche da quella italiana, rischiavamo una sospensione e una multa. Comunque alla fine votammo anche noi a favore della mozione e non giocammo Wimbledon».
E come reagì la Fit?
«Ci squalificò e ci tolse due mesi di stipendio: io ricordo che prendevo 150mila lire al mese. Non ci fecero giocare in Davis contro la Spagna: al posto nostro andarono in campo Barazzutti e Zugarelli che non erano iscritti, con Giordano Maioli e Pietro Marzano».
Ha rimpianto quella decisione?
«Assolutamente no: l'Atp era appena nata e doveva dare un segnale importante. Fummo tutti d'accordo: americani, inglesi, francesi, tedeschi, meno quelli dell'Est che se avessero giocato sarebbero finiti al muro».
Il titolo lo vinse il cecoslovacco Jan Kodes: qualcuno dei ribelli ebbe dei rimpianti.
«Dissero di no i più forti, fra cui c'era anche il campione in carica, Stan Smith, che avrebbe potuto vincere ancora. Anche Adriano sarebbe potuto arrivare almeno ai quarti, ma era una questione di principio. E tenemmo alta la testa».
Che cosa dovrebbe fare oggi il sindacato dei tennisti contro la decisione di Wimbledon?
«Quello che facemmo noi. Atp e Wta hanno un'occasione unica, irripetibile, di alzare la voce e dimostrarsi uniti boicottando Wimbledon in difesa dei singoli atleti russi e bielorussi che non hanno scelta contro le decisioni di Putin. Rublev ha avuto anche coraggio a lanciare quel messaggio contro la guerra. Ma chi è a favore della guerra? Nessuno».
Senza Wimbledon e gli altri tornei in Inghilterra molti giocatori subiscono anche un danno economico.
«Per i vari Djokovic, Zverev, Tsitsipas, Sinner e compagnia non sarebbe un problema saltare quel torneo, pur così importante e che comunque andrebbe avanti da solo come fece nel 1973. Ma per tanti altri atleti minori è una grave perdita finanziaria. Disertarlo getterebbe discredito su Wimbledon: chi lo giocherebbe: solo gli inglesi?».
PAOLO ROSSI per repubblica.it il 22 aprile 2022.
Lui, Adriano Panatta, ha vissuto nel 1976 l'angoscia - insieme ai compagni Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli e il ct Pietrangeli - che gli venisse negata per motivi politici la possibilità di giocare la finale di Coppa Davis in Cile. Non c'erano paesi in guerra, certo, e la situazione era diversa. Ma lo stato d'animo di quei giorni, il rischio di non poter competere, fu simile alle sensazioni che oggi vivono i tennisti russi e bielorussi, cui verrà negato di giocare a Wimbledon.
Che reazione ha avuto, istintivamente?
«Una cosa negativa, molto. Assurda. I tennisti russi sono delle persone, non sono una nazione. Peraltro hanno anche dissentito sulla guerra».
Non si capacita, insomma.
«Sono persone che fanno un lavoro. Posso ancora comprendere un contesto olimpico, la Coppa Davis, i campionati del mondo. Cioè un contesto dove si rappresenta la nazione, ma questo?».
Wimbledon ha sbagliato.
«Mi chiedo: questo ragionamento vale per qualsiasi professionista russo sul suolo inglese? Che so, a un ingegnere viene impedito di svolgere l'esercizio della sua professione?».
Quindi?
«È demagogia. Ottusa. Volevano evitare che la famiglia reale si potesse trovare in imbarazzo nel premiare, eventualmente, un russo? Ma posso dire? E allora? Ma fate come fanno tutti gli altri tornei, che lasciano premiare vecchi campioni, come fa Parigi e mi sembra una cosa molto civile, peraltro. Non so: Borg, McEnroe, Laver. C'è solo l'imbarazzo della scelta».
C'è la monarchia.
«E allora? Intanto io sono repubblicano. E poi la regina da quando non premia più che ho perso il conto? Ma se hanno questi timori, l'imbarazzo, il protocollo e al di là delle battute lo dico sul serio, facessero premiare un atleta. Anche uno di oggi che non gioca. Federer? Sarebbe bellissimo».
Un boicottaggio fuori luogo.
«Ma che c'entra questa cosa? Tutti i boicottaggi sono stati alle Olimpiadi: Mosca, Los Angeles.Solo demagogia e ipocrisia».
Forse volevano dare un messaggio.
«Ma cosa? Non si risolvono i problemi della guerra, orrenda e lo dico e lo ripeto, orrenda. Hanno colpito Rublev che ha scritto "peace" sulla telecamera dopo aver giocato. Ma perché gli devi impedire di giocare. È una cosa violenta».
E se gli altri boicottassero Wimbledon, come nel '73?
«Non lo faranno mai. Noi avevamo appena creato l'Atp, io ne ero socio fondatore e anche nel primo board. Era tutto un altro spirito».
Paolo Bertolucci chiede un atto di coraggio a tutti i tennisti.
«Ma certo che ci vuole coraggio. Ma il problema è l'Itf: far giocare i russi senza bandiera che senso ha? Non restano comunque russi?».
Quindi cosa consiglia?
«Al di là della real casa britannica e del governo, l'Itf dovrebbe dettare regole per le nazioni, non per gli individui. Questo, così com' è, è una forma di razzismo».
Diciamo che gli Slam fanno anche come gli pare.
«Mai stato equilibrio giusto tra Atp e Itf. Sono mondi che storicamente non si sono mai incontrati».
Hanno ucciso il buon senso.
«Medvedev, Rublev e tutti gli altri esclusi sono dei signori russi, non sono la Russia. Io sono Adriano Panatta, italiano, ma non sono l'Italia. Poi, istituzionalmente, si rispettano le decisioni: nel '76 il governo non decise, non disse nulla, e quindi andammo. No, ma questi non sono mica normali. Hanno fermato dei cittadini del mondo. Come lo siamo tutti noi. Poi ognuno può avere le proprie idee politiche. Ma perché usare i tennisti per fare pressioni su Putin, che non si fila manco i governanti degli altri paesi?».
Per evitare imbarazzo alla famiglia reale.
«Ma chiedetevi: il vincitore di Wimbledon è più contento se lo premia Laver o la duchessa di Kent? Per questo lo ripeto fino alla fine: inutile boicottare, i dispetti non servono. Lo sport è un paese libero e tale deve rimanere. Lo ripeto? Scandisco?».
Giampiero Mughini per Dagospia il 22 aprile 2022.
Caro Dago, per fortuna c’è che lo sport ha dei percorsi - dei viali - più alberati, più ricchi, più belli che non altri percorsi della nostra vita reale, a cominciare da quelli della politica, e a non dire della politica quando si fa più sfrenata e aggressiva e micidiale: la guerra. Quella di punire alcuni grandi tennisti russi per il fatto di essere nati in Russia è tra le porcate più spaventevoli che io abbia ascoltato da un po’ di temo a questa parte.
Da italiano, da amante dello sport, da cittadino del mondo che piange le tragedie da cui è attualmente irrorata l’Ucraina, me ne vergognerei se a Medvedev e a Rublev venisse negato di calcare la terra rossa su cui si giocheranno i prossimi Internazionali d’Italia. Non abbiamo davvero bisogno di accrescere il tasso di aggressività tra le nazioni e i popoli. Al contrario, cerchiamo di usare lo sport per smussare quell’aggressività. Sono mille e mille gli episodi che confermano la mia opzione.
Al tempo in cui Mussolini era sovrano della nazione italiana e la nazionale italiana guidata da Vittorio Pozzo salutava il pubblico a braccio teso prima di iniziare il match, in occasione dei Campionati del Mondo a Parigi del 1938 gli antifascisti italiani esuli in Francia perorarono una campagna di delegittimazione dei nostri atleti, invitarono a di fare addirittura il tifo contro di loro. Uno di quegli antifascisti, Leo Valiani, uno dei maestri della moderna coscienza repubblicana, disse di no, che lui avrebbe tifato per l’Iialia del pallone, che una cosa era il fascismo e una cosa erano gli atleti che rappresentavano. Grazie, Valiani.
E ancora. Dopo il secondo dei tre salti di qualificazione alla finale del salto in lungo alle Olimpiadi di Berlino del 1936, il nero americano Jesse Owens non era ancora riuscito a qualificarsi. Gli si avvicinò uno splendido atleta tedesco bianco ventitreenne, lo studente di giurisprudenza Carl Ludwig Hermann Long. Che nelle qualificazioni aveva ottenuto il nuovo record olimpico saltando a 7,73 metri. Consigliò ad Owens di anticipare il punto di stacco di 30 centimetri. Owens riuscì a qualificarsi. In finale Long saltò fino a 7,87 metri. Owens superò gli otto metri e si guadagnò la medaglia d’oro (è una leggenda che Hitler non lo volle premiare personalmente perché nero). I due atleti si allontanarono dal campo abbracciati. Long morì sui campi della Seconda guerra mondiale. Ricordo la foto di un Owens che nel dopoguerra torna sul campo dello stadio di Berlino e abbraccia il figlio del leale atleta tedesco. Questi sono i percorsi dello sport.
E del resto è più vicina a noi la porcata di coloro che per motivi di propaganda avrebbero voluto che i tennisti italiani non andassero a giocare in Cile la finale della Coppa Davis. Adriano Panatta e i suoi compagni resistettero a questa ingiunzione, andarono, indossarono in campo una maglia rossa e vinsero 4-1. Sarebbe stato meglio se non fossero andati, se non si fossero insozzati con il respirare l’aria di un Paese dove vigeva una dittatura senz’altro oscena? Non dite sciocchezze, e difatti Adriano che è un ragazzo intelligente oltre che essere stato uno smagliante campione, è il primo a dire che quella di proibire gli Internazionali di tennis a Medvedev e Rublev è solo una gran “porcata”.
Né ho bisogno a questo punto di citare a questo punto il film di Clint Eastwood, quello che celebra la vittoria ai campionati del mondo di rugby della nazionale del Sud Africa, una nazionale tutta di “bianchi” che era stata calorosissimamente incoraggiata dal presidente “nero” Nelson Mandela, da un presidente che i “bianchi” avevano tenuto in cella per 27 anni. Potrei continuare per delle ore.
Il ritratto. Chi è Aleksandr Solzenicyn, lo scrittore controcorrente caro a Putin. Filippo La Porta su Il Riformista il 13 Maggio 2022.
Fa un certo effetto scoprire che il vero ispiratore di Putin, e delle sue velleità “imperiali”, sia Aleksandr Isaevic Solzenicyn, da lui ripetutamente onorato come grande patriota e nemico dell’Occidente. Ora, se qualsiasi strumentalizzazione politica diretta appare goffa e insostenibile, chiediamoci però se l’autore di Una giornata di Ivan Denisovic va considerato legittimamente un pensatore illiberale e reazionario. Risaliamo agli anni 70, quando Solzenicyn, inviso ai più e da noi considerato quasi un corpo alieno, venne calorosamente difeso da due intellettuali “eretici”, appartenenti a due campi politici diversi (anche se entrambi questi intellettuali erano insofferenti verso appartenenze rigide).
Franco Fortini, uno dei maestri della generazione del ‘68 , scrisse un articolo memorabile di elogio di Solzenicyn, sul Manifesto del 21 marzo 1974. Partiva proprio dal disprezzo verso lo scrittore russo dissidente manifestato perfino dalla sinistra che si volle definire “rivoluzionaria”, dunque antidogmatica e anticonformista. Andando controcorrente Fortini intese riportare quel disprezzo all’amore per la durezza, al “bisogno di eccesso e spietatezza”, al “rifiuto dei buoni sentimenti umanistici”, al desiderio dei militanti di allora di essere da parte della forza, della “realtà” contro l’utopia. Come se essere più radicali significasse essere più duri.
Rodolfo Quadrelli, benché refrattario all’etichetta di scrittore di destra, era pubblicato allora da Rusconi e collaborava al quotidiano Il Tempo. Emarginato dal mainstream culturale, è stato un finissimo critico della società, delle mode e dei linguaggi dominanti. Secondo lui l’opera di Solzenicyn non è solo una cronaca d’orrori, ma testimonianza fondamentale sottesa dall’idea che il male esercitato contro l’uomo “deriva dalla dissacrazione radicale”. Lo scrittore russo, che pure auspicava una rinascita religiosa, e che si può considerare un mistico, non si pone tanto come nemico della modernità tout court quanto come un critico dell’illuminismo, del mito della Ragione corrosiva e perciò liberatoria. Nei suoi libri sempre antepone all’assoluto della politica il valore di una limpida moralità: «non propone la liberazione dai tabù, non dissacra, non irride, non schernisce, ma pretende restituire all’uomo dignità e sacralità, ritrovando il dono della gratitudine» e soprattutto ricorda alla politica il tragico, “nemico mortale delle ideologie”, e cioè l’ineliminabilità del male.
Ma a proposito di Solzenicyn diamo ora la parola a Gustaw Herling, uno dei più grandi scrittori e saggisti polacchi del secolo scorso, scomparso nel 2000, autore di uno straordinario diario del gulag dove fu internato nel lontano 1940 – Un mondo a parte (1951) – assai prima di Arcipelago Gulag. In seguito andò a vivere a Napoli, dove diventò un “polacco napoletano” e sposò la coltissima Lidia Croce, che ne sostenne e in qualche caso tradusse l’opera. Anche lui inizialmente ostracizzato dai comunisti, per l’equazione tra nazismo e comunismo, venne però riabilitato nell’età matura. Dirà in proposito che questa tardiva attenzione tributatagli dopo alcuni decenni di indifferenza non vale però come risarcimento. Ora una casa editrice nata a Scampia 12 anni fa, dentro una libreria chiamata La scugnizzeria – e che stampa orgogliosamente volumi “a kilometro zero, su carta riciclata, con inchiostri a base vegetale e colle senza plastificanti” – pubblica i dialoghi di Herling con la giornalista Titti Marrone, apparsi sul Mattino nel 1992 e 1993: Controluce. Letteratura e totalitarismi (Marotta & Cafiero). Si tratta del duecentesimo titolo del loro catalogo! Un capitolo è dedicato proprio allo scrittore russo: “Profeta del nuovo, maestro dell’antico”, dove si prendono le mosse dall’involontario accordo tra Solzenicyn e Wojtyla, ovunque accomunati come un “duo che dice no al capitalismo egoista”.
Da una parte Herling vuole sottolineare la fede democratica di Solzenicyn: tornato in Russia nel 1994 e ricevuto da Eltsin con tutti gli onori, dopo un esilio americano di vent’anni, si troverà a disporre di una rubrica televisiva settimanale dove lancia proclami contro l’Occidente materialistico ma pure denuncia la corruzione dell’oligarchia del proprio paese, la pesante eredità del comunismo sovietico (mancanza di responsabilità, svogliatezza), invita il governo a rispettare la indipendenza della Cecenia e auspica uno stato laicamente indipendente dalla chiesa ortodossa. Dall’altra Herling osserva come sia Solzenicyn che Wojtyla “pur avendo ragioni da vendere stanno entrambi esagerando” nell’attacco al consumismo e al libero mercato. Per una semplice ragione: «la loro visione incessantemente apocalittica dell’Occidente potrebbe creare all’Est un’impressione falsa e pericolosa», avallando in quei paesi una certa “megalomania nazionale”, che consiste nella ‘illusione di poter superare “spiritualmente” il pur agognato Occidente.
Concludiamo su un possibile, benché inattuale, “umanesimo”. Sentimento tragico, scetticismo verso la Storia e insieme convinzione che si possa “restare uomini”: questa attitudine accomuna Solzenicyn a Vasilij Grossman. Così aveva scritto Solzenicyn a proposito della linea che separa il bene e il male entro il cuore di ognuno: «Ci fermiamo stupefatti davanti alla fossa nella quale eravamo lì lì per spingere i nostri avversari: è puro caso se i boia non siamo noi ma loro. Dal bene al male è un passo solo, dice un proverbio russo. Dunque anche dal male al bene». Forse il punto decisivo è questo: non tanto considerare il male eliminabile dalla storia umana quanto non identificare mai la realtà intera con il male, con i rapporti di forza e la razionalità calcolante, non scambiare la parte con il tutto. Come ha scritto Herling: «l’unico motivo per salvare la dignità umana in condizioni disumane è credere, anche nell’abisso del male, nell’esistenza del bene». Filippo La Porta
Nemmeno il Fascismo nel ‘43 censurava i compositori russi: riscopriamo "Onegin" di Tschaikowskij. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
“La musica è un linguaggio universale”; “la musica unisce i popoli in un abbraccio fraterno”; “chi ama la musica non può essere cattivo”, etc. Stupisce che, fino a ieri, a riempirsi la bocca di queste nobili frasi, fosse la maggioranza di quei direttori artistici che oggi, in tutto il mondo occidentale, cancellano senza pietà concerti di compositori come Tschaikowskij, Shostakovich, o Rachmaninov. Uno spettacolo desolante: il pensiero unico di una volta ha lasciato il posto a una becera “emozione unica” e tale opera di gretta, meschina ritorsione sull’arte, da qualche raro critico è stata definita un atteggiamento “fascista”. Peggio che andar di notte, ignoranza su ignoranza: basta infatti cliccare sull’archivio del Teatro dell’Opera di Roma consultando i titoli della stagione 1942-‘43. L’Italia di Mussolini era, allora, in guerra totale con l’Urss, un nemico non solo fisico, ma anche ideologico, incarnato dal Bolscevismo.
Eppure, tra dicembre ’42 e gennaio ’43, proprio mentre i nostri soldati affrontavano la disastrosa ritirata sul Don che ci costò 84.930 tra morti, dispersi e prigionieri e 29.690 tra feriti e congelati, presso il fascistissimo teatro dell’Opera di Roma andava in scena “Il principe Igor” di Aleksandr Borodin (5, 7, 10 gennaio), seguito, subito dopo, da “Kovancina” di Modest Petrovič Musorgskij (15, 17, 19 gennaio). Qualche mese dopo, appena terminata disastrosamente la Campagna di Russia, l’Opera di Roma metteva in scena Petruška e L’Usignolo del (vivente) Igor Stravinskij (16, 20 28 marzo 1943).
Quindi, va bene che oggi bisogna far scoppiare a tutti i costi la Terza guerra mondiale - e quindi l’odio e la delegittimazione del nemico devono spaziare a tutto campo (del resto, cosa c’è di meglio per riprendersi da una pandemia devastante?) - ma attenzione ai cortocircuiti: il rischio è quello di prestarsi a cocenti umiliazioni provenienti da quelle ideologie che vengono continuamente agitate come babau.
Proprio la grande musica classica (e non certo afono rockettino omosatanisteggiante) ci ricorda, invece, che anche in questo feroce bipede chiamato “uomo”, brilla una (tenue) scintilla divina, che questi sia italiano, tedesco, americano, russo o ucraino. Chi desidera la pace dovrebbe, quindi, spasmodicamente appigliarsi alla vera musica, l’arte che ammansisce le fiere, come ricorda il mito di Orfeo.
Peraltro, cancellare la cultura russa è cancellare quella europea, in buona parte italiana. Un’opera su tutte lo dimostra, l’Evgenij Onegin di Pëtr Il'ič Tschaikowskij del 1879 QUI, dal romanzo omonimo di Puškin: un capolavoro ispirato nettamente al repertorio italiano, per la cantabilità e il lirismo, che racconta la storia di Onegin (baritono) ricco dandy annoiato e cinico che rifiuta l’amore ingenuo e appassionato di una giovane nobile di campagna, Tatiana (soprano). Dopo il rifiuto e il duello mortale con l’amico poeta Lensky (tenore), Onegin scoprirà Tatjana ormai sposa di un maturo cugino principe e si accorgerà, troppo tardi, di amarla follemente. Un monumento al topos modernissimo dell’amore fuori sincrono, flagello dei nostri tempi che la promiscuità ha consegnato alla dittatura del desiderio. Conosciuto e amato in Russia tanto quanto la verdiana Traviata da noi, scopriamo che Onegin ne costituisce l’esatto, speculare opposto. Fra palazzi nobiliari e paesaggi campestri del primo Ottocento, i due melodrammi sono ambientati rispettivamente in Francia e in Russia, agli estremi longitudinari dell’Europa.
Allo stesso modo, i destini dei protagonisti sembrano specularmente opposti: la giovanissima Violetta verdiana, di umili origini, muore redimendosi dal peccato per un puro amore; viceversa, il nobile, adulto Onegin sopravvive, ma si danna per aver rifiutato l’amore sincero. In entrambe le opere, c’è una festa dove si consuma un tragico alterco che scatena un duello, anche se in Traviata viene ferito il barone cattivo e in Onegin muore il buono, l’amico poeta.
Spicca anche una figura chiave di anziano: da un lato, il borghese Germont, archetipo del grigio e mortificante benpensantismo borghese; dall’altro il principe Gremin il quale, rinnovato in ogni fibra da Cupido, si estasia per la giovane sposa che, pure, gli resterà fedele: “Tutte le età sono soggette all'amore” – canta Gremin nella sua splendida, commovente aria per basso QUI : afflati ben diversi dall’”uomo implacabile” verdiano che spingerà Violetta a separarsi da suo figlio.
Le opere sono così complementari che non stupisce la nascita di una fantasiosa e suggestiva tesi: Puškin, ormai inviso alle autorità russe, avrebbe abbandonato il suo paese nel 1837, dopo aver inscenato la propria morte in duello, per ricomparire in Francia sotto le vesti di Alexandre Dumas, padre dell’omonimo autore de La Dame aux camelias: entrambi talentuosi scrittori “negri” (avevano nonni africani), franco-russofoni, fissati sui Moti decabristi.
E così, nel pieno e totale rispetto della vostra opinione su Putin, Zelensky e la guerra in corso (qualunque essa sia), il nostro invito è proprio quello di ascoltare il capolavoro di Tschaikowskij, come esercizio estetico-intellettuale per separare l’arte dalla bruta geopolitica, la musica dalla violenta partigianeria, il Belcanto dal chiasso mediatico per contemplare “la bellezza che salverà il mondo”. E questa frase – neanche a farlo apposta – viene da un romanzo di Dostoewskj.
Valeria Crippa per corriere.it l'8 aprile 2022.
Addio al «Lago dei Cigni», allo «Schiaccianoci» e alla «Bella Addormentata» per gli ucraini rifugiati in Italia. Ciaikovskij, con il suo celebre trittico di balletti, finisce nel mirino del Ministero della cultura ucraina che, negli ultimi giorni, ha imposto a tutti i propri artisti di non interpretare opere di autori russi. Con il risultato, per i ballerini ucraini rifugiati in Italia e coinvolti in spettacoli benefici a sostegno del proprio Paese, di essere tacciati di «tradimento» sui propri social nel caso in cui osino esibirsi in coreografie russe o su musiche russe.
Per i ballerini russi la situazione è peggiore: le loro apparizioni nei gala benefici pro-Ucraina, organizzati dai teatri italiani, sono state bloccate, perché i colleghi ucraini non sono più autorizzati a condividere con loro il palco. La disposizione del Ministero ucraino sta deflagrando in tutta Italia sul mondo del balletto, dagli Arcimboldi di Milano al San Carlo di Napoli al Comunale di Lonigo, in provincia di Vicenza, dove ieri sera il russo «Lago dei Cigni» proposto da un corpo di ballo ucraino è stato sostituito in corsa dalla francese «Giselle». L’ultimo teatro a essere colpito e costretto a un cambio di programma è il Comunale di Ferrara, dove domani sera, al posto de «Il lago dei cigni» di Ciaikovskij, l'Ukrainian Classical Ballet eseguirà un'antologia di coreografie varie in una serata intitolata «Ukraina Gran Gala Ballet».
Il direttore artistico Marcello Corvino afferma in una nota: «Il governo ucraino ha recentemente imposto il divieto a tutti i suoi artisti di interpretare opere di autori russi. La direzione del Comunale di Ferrara non condivide il divieto del Ministero della cultura ucraina. La cultura russa è patrimonio dell'umanità e della cultura occidentale in particolare, non è emanazione del governo russo.
La cultura deve unire, costruire ponti tra popoli, non dividere. Nonostante la nostra divergenza di vedute con il Ministero della cultura ucraino, per non esporre gli artisti ospiti del nostro teatro a violazioni delle leggi emanate nel proprio Paese, abbiamo condiviso con i danzatori ucraini l'idea di un cambio di programma». In questo caso, la purga è sui compositori e non sui coreografi russi. Ma la situazione della cultura russa, nel mondo del balletto, sta precipitando.
Il quadro al momento non è esposto. Dopo Dostoevskij è il turno di Degas: Londra lo accusa di essere putiniano…Angela Nocioni su Il Riformista il 6 Aprile 2022.
Rinominare, eccolo qua il nuovo verbo del fascismo che avanza. Il dipinto “Danzatrici russe” di Edgar Degas si chiamerà d’ora in poi “Danzatrici ucraine”. L’hanno chiesto via Instagram oscuri utenti del social network alla National Gallery di Londra, dove il quadro è custodito e al momento non esposto. Un dipendente del dipartimento educazione del museo s’è preso a cuore la proposta. E la galleria ha provveduto a soddisfare gli utenti protestatari perché questo, ha fatto sapere un portavoce del museo, “è il momento appropriato”. Fonte: The Guardian. Appropriato per cosa? Per far abbattere la meticolosa idiozia del fondamentalismo da propaganda di guerra su un capolavoro di un impressionista francese di due secoli fa?
Povero Degas. Il suo pastello raffigura una compagnia di ballerine che lui aveva visto danzare a Parigi. Ne era rimasto rapito. C’è del giallo e del blu in quella danza. Forse dei nastri intrecciati ai capelli e ai tutù. Che i colori nazionali dell’Ucraina siano stati a fine Ottocento ritratti in soavi trasparenze in un’opera chiamata “Danzatrici russe” risulta oggi per alcuni insopportabile. Un ruolo nell’operazione Cancella e Rinomina pare l’abbia avuto la direttrice dell’Art Union, Maria Kashchenko, ucraina, per nulla imbarazzata dall’alto del suo incarico di funzionaria museale di rango a cambiare il nome a un dipinto di Degas. Anzi. “Io ho capito che il termine arte russa è diventato un facile ombrello usato per cose diverse – ha detto la direttrice Kashchenko – e in questo momento è veramente importante essere corretti”.
Non è soltanto una sua personale esigenza. No. Sragionano in tanti. Ha detto tempo fa a Der Spiegel la direttrice dell’Istituto ucraino di Londra, Olesya Khromeychuk: “Ogni visita in una galleria o in un museo a Londra con mostre sull’arte o sul cinema dell’Urss rivela un’errata interpretazione deliberata, o forse solo frutto di pigrizia, della regione. Come se fosse una Russia sconfinata. Proprio come vorrebbe l’attuale presidente della Federazione Russa“. E ancora: “I curatori non hanno problemi a presentare arte ed artisti ebrei, bielorussi o ucraini come russi. Nei rari casi in cui un ucraino non è presentato come russo, viene presentato come nato in Ucraina, come è successo col film del regista Oleksandr Dovzhenko in una delle più grandi esibizioni di arte rivoluzionaria a Londra”.
In questo clima agghiacciante, utile più ad esaltare pericolose manie che ad accogliere e proteggere suscettibilità ferite, il portavoce della National Gallery ha tentato pure una giustificazione accademica: “Il titolo di questo dipinto è stato oggetto di discussione per molti anni ed è trattato nella letteratura. Tuttavia c’è stata una maggiore attenzione nell’ultimo mese a causa della situazione attuale, quindi abbiamo ritenuto che fosse il momento di aggiornare il titolo del dipinto, per riflettere meglio il suo soggetto”. L’idea sarebbe quindi superare a spintoni questa “pigrizia”, istigando anche altre istituzioni culturali a rivedere i nomi dell’arte considerati sbagliati dalla cecità dei nazionalismi del momento.
Tutto ciò a testimonianza del fatto che non nasceva solo da provincialismo misto a banale ignoranza la figuraccia dell’Università Bicocca di Milano quando, a invasione dell’Ucraina appena avvenuta, ha prima cancellato un corso monografico su Dostoevskij e poi, viste le reazioni, s’è spiegata dicendo che sì, si poteva pure leggere in aula Dostoevskij ma soltanto se si improvvisava su due piedi un corso su un autore ucraino.
Angela Nocioni
La guerra in Ucraina. “Politicamente corretto ha portato al bando della cultura russa, si condanni Putin senza cadere nel pensiero unico”, parla Simona Colarizi. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 3 Aprile 2022.
Una grande storica e la manipolazione della storia operata per giustificare la guerra. E i rischi di un pensiero unico militarizzato. A parlarne con Il Riformista è Simona Colarizi, professore emerito di Storia Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Per saperne di più, consigliamo la lettura, del suo libro, quanto mai attuale, Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, la speranza, l’incertezza (Laterza, Bari-Roma 2015).
Non c’è d’avere un po’ di paura quando autocrati o governanti vari cercano di riscrivere la Storia per legittimare la guerra?
Quando nega l’identità etnica dell’Ucraina, Putin falsifica la storia; una storia di “frontiere in movimento” che danno un carattere peculiare alla questione nazionale in tutti i territori orientali tra la Germania e la Russia. Quando parla di de-nazificare l’Ucraina, Putin dimentica la storia dei rapporti tormentati tra Ucraina e Unione Sovietica ai tempi di Stalin che aveva lasciato morire di fame cinque milioni di ucraini nel periodo della grande carestia (1932). Una tragedia indimenticabile alla quale si devono far risalire le simpatie per Hitler al momento dell’invasione nel ’41. Simpatie ben presto scomparse di fronte agli orrori dell’occupazione nazista, una tra le più brutali nell’elenco degli orrori vissuti dalle popolazioni europee, a oriente come a occidente. Alle porte di Kiev, a Babij Jar, si consumava la strage di massa di 35 mila ebrei, mentre a Odessa si contavano 50 mila vittime. Putin sembra aver dimenticato anche quale sia stata la risposta degli ucraini che alle violenze degli occupanti tedeschi oppongono una strenua resistenza, anch’essa fondamentale per far fallire l’invasione dell’Urss e spingere i tedeschi alla disastrosa ritirata. Putin non vuole neppure ricordare che l’Europa Occidentale con le sue libertà e il suo benessere era un faro irresistibile per le nazioni europee, dal 1945 iscritte nella sfera di influenza sovietica. La disgregazione accelerata dell’intero impero comunista di cui Putin ancora oggi si rammarica, si produce proprio sulla spinta dei popoli desiderosi di partecipare al processo di integrazione europea. Si può comprendere la volontà di Putin di riportare la Russia alla potenza e alle dimensioni territoriali di un tempo; ma la brutalità della guerra di aggressione all’Ucraina oggi non tiene conto di quanto profondi e diffusi siano in tutti i popoli appartenenti alla sfera dell’ex Unione Sovietica, i sentimenti di indipendenza nazionale e la volontà di autodeterminazione; diffusi per lo meno quanto il nazionalismo dei russi. A ben vedere Putin ha lanciato una sfida all’Europa proprio sul piano valoriale quando nel suo discorso allo stadio ha parlato con disprezzo di un mondo occidentale europeo privo di valori spirituali, sterile e cinico nel suo materialismo dominante, ormai incapace di sognare un futuro. Colpisce la forte eco dei discorsi di Mussolini nel ’39 quando il duce definiva le plutocrazie occidentali come Stati in estinzione, Stati con le culle vuote, svirilizzati, impotenti e incapaci di difendersi. Putin nell’aggredire l’Ucraina, ha probabilmente contato sulla passività della Ue che avrebbe lasciato alla Russia carta bianca nel perseguire i propri obiettivi di potenza, come già era avvento con l’occupazione della Crimea, sanzionata dalle potenze Occidentali con misure che servivano solo a salvare le apparenze.
Il pensiero unico in divisa, impazza nei talk show televisivi e sulle pagine dei giornali mainstream. Ma una sana dialettica non dovrebbe essere il sale di una democrazia?
Il “pensiero unico”, il “politicamente corretto” arrivato all’estremo della cancellazione del passato o nel caso della guerra all’Ucraina alla messa al bando della cultura russa, è la negazione del pensiero democratico che si sviluppa e si alimenta con lo stesso metodo della riflessione storica, impostata proprio sull’analisi degli elementi contrastanti attraverso i quali si determinano eventi e processi. Il pensiero unico pretende di trasmettere una “verità” senza misurarsi con le tante contraddizioni che marcano i processi del passato e del presente, suscettibili di altre interpretazioni, di altre “verità”. Il pensiero unico è antidemocratico nella sua pretesa di esprimere una “verità” immutabile e indiscutibile, perché l’essenza della democrazia sta invece nei suoi valori dinamici che evolvono nel tempo, si sviluppano, acquistano significati nuovi attraverso il confronto anche aspro che non consente la sclerosi del pensiero unico. La democrazia si alimenta proprio attraverso la contestazione del conformismo intellettuale, politico e istituzionale, malgrado il rischio distruttivo presente in ogni processo contestativo estremizzato, nella comune consapevolezza che la democrazia è imperfetta ma anche perfettibile. Altrettanto importante resta però la contestazione dei modelli liberticidi: le autocrazie, le dittature e i totalitarismi che hanno come attributo comune anche il bellicismo, che sono antitetici ai valori dell’Unione Europea e dell’Italia. Negare un’equidistanza tra democrazie e autocrazie non significa appiattirsi sul “pensiero unico”; significa invece rivendicare i propri valori come parametro imprescindibile per misurarsi con la realtà di un mondo plurale col quale si deve convivere.
Molto si è detto, scritto, sentenziato, sui recenti discorsi di Putin. Professoressa Colarizi, su cose inviterebbe a riflettere con più profondità e serietà di analisi e d’intenti?
Vede, le parole di Putin toccano un nervo scoperto nella coscienza degli intellettuali europei che da anni sono consapevoli di quale crisi affligga le democrazie occidentali dove l’avvento della nuova era globale, ha generato nei popoli incertezze e paure. Qualunquismi e sovranismi, populismi e movimenti antipolitici, antieuropei, anti-establishment, nuove e vecchie destre, nazionalismi, razzismi e antisemitismi hanno ricominciano a inquinare la vita civile e politica delle democrazie occidentali. Fenomeni culminati negli Stati Uniti con l’assalto a Capitol Hill nel gennaio 2021 e in Europa con la Brexit che ha spezzato un anello importante della UE. In questo scenario si colloca l’indifferenza crescente – e non da oggi – che ha segnato gli umori delle popolazioni occidentali di fronte alle emergenze belliche esplose dopo il 1989. E non mi riferisco solo alla ex Jugoslavia dove a partire dal 1992 si sono consumati orrori pari a quelli della seconda guerra mondiale; mi riferisco agli innumerevoli conflitti che da trent’anni insanguinano il Medioriente e la stessa Russia (Georgia, Cecenia).
C’è chi, di fronte a un mondo seminato da conflitti e guerre più o meno dimenticato, sembra rimpiangere i tempi della Guerra fredda e di una governance bipolare.
Il bipolarismo tra le due super potenze aveva assicurato un falso mondo di pace per gli europei che avevano chiuso gli occhi di fronte alle guerre calde che affliggevano tutti gli altri popoli della terra. Aprire gli occhi su questo scenario, confrontarsi con tutti i cambiamenti politici e geo politici, economici, sociali, culturali della nuova era globale aveva portato a quel ripiegamento su se stessi che significava anche perdita dei valori fondanti. Si perdeva la fiducia nelle democrazie giudicate incapaci di difendere l’uomo qualunque in balia delle nuove sfide; si guardava addirittura con ammirazione alle autocrazie – Russia, Cina – dove governi stabili garantivano l’ordine pubblico e la sicurezza dei loro cittadini. Abbagliati dalla crescita economica della Cina e dalla ricchezza delle materie prime possedute dalla Russia, non ci si curava di quanto liberticide e belliciste fossero queste dittature, malgrado l’evidenza di Hong Kong o della Georgia, della Cecenia, della stessa Siria. Le contemporanee guerre della Nato e degli Usa facevano da facile alibi alla mancanza di una riflessione approfondita, anche questo sintomo di quel qualunquismo diffuso che si alimentava nella sfiducia crescente nei confronti dei propri rappresentanti politici. I più ottimisti vedono segnali di una inversione di questa spirale declinante nella nuova compattezza degli Europei che hanno affrontato e stanno affrontando tutti insieme la sfida della pandemia e le sue conseguenze economiche e sociali. I più ottimisti intravedono nella reazione degli Stati democratici alla guerra in Ucraina la conferma che il processo di ricomposizione di una forte identità democratica sta continuando. (E naturalmente io me lo auguro).
La “sindrome dell’accerchiamento” che segna la Russia, e non solo i suoi vertici, è frutto solo di una narrazione strumentale o coglie un qualcosa che è, non da oggi, parte della “psicologia di una Nazione”?
La sindrome dell’accerchiamento di Putin risale al “cordone sanitario” del 1917 e alla “cortina di ferro” del 1946. In teoria, è la stessa sindrome che affligge le democrazie europee e gli Usa che temono il dilagare del comunismo nei loro territori. Da una parte e dall’altra la sindrome dell’accerchiamento ha portato alla conquista armata di territori in Europa e nel mondo, per rafforzare le proprie difese contro la minaccia del nemico comunista o capitalista. I protocolli segreti tra Hitler e Stalin nel ’39 aveva palesato l’Imperialismo “difensivo” dell’Urss, così come l’imperialismo “difensivo” degli Usa si era esercitato con aiuti economici e con armi alla Turchia nel 1947 (dottrina Truman). A seguire, la catena di guerre (per interposta persona) tra le due super potenze in tutto il mondo, ma anche quelle di conquista in prima persona – Vietnam per gli Usa, Afghanistan per l’Urss. Ma la storia successiva al 1989 cambia poco la logica di fondo che si applica anche alle nuove superpotenze comparse sulla scena globale. Detto questo, resta una differenza di fondo che sfugge alle analisi di chi attribuisce alla Nato tutte le colpe dell’accerchiamento alla Russia di Putin. Mi pare che si dimentichi di nuovo la storia della seconda guerra mondiale quando le potenze democratiche hanno messo l’antifascismo sulle loro bandiere, un simbolo che è rimasto anche dopo il ’45. I valori antifascisti nel loro significato di lotta agli Stati totalitari fascisti e nazisti che avevano negato libertà e diritti umani, si sono perpetuati anche al di là dell’epoca storica alla quale vanno ricondotti. Il che non significa naturalmente omettere l’analisi di tutte le contraddizioni che sono riscontrabili nella complessità delle situazioni di ieri e di oggi.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Putin: "Anche J.K. Rowling censurata, l'occidente della cancel culture è come il nazismo". La Repubblica il 25 Marzo 2022.
Davanti a rappresentanti della cultura e delle arti russa, Vladimir Putin torna ad attaccare l'occidente, paragonando il presunto ostracismo di tutto ciò che è russo, ai roghi dei nazisti. "La cancel culture si è trasformata in cancellazione sistematica della cultura - ha attaccato Putin- ?ajkovskij, Shostakovich, Rachmaninov sono stati rimossi dalle stagioni concertistiche. Gli scrittori russi e i loro libri sono stati banditi". Poi il presidente russo, probabilmente riferendosi alla polemica tra la scrittrice sul femminismo J.K. Rowling e gli attivisti trasngender, ha dichiarato che "gli attivisti della teoria del gender stanno cercando di cancellare l'intera cultura nazionale russa, con millenni di storia". Pronta la risposta della scrittrice in un tweet: "Le critiche alla "cancel culture" non sono il massimo da parte di chi massacra civili per il solo fatto di resistere, o imprigiona e avvelena gli oppositori".
Putin accusa l'Occidente di cancel culture «come con J.K. Rowling». Lei lo attacca: «Massacra i civili». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.
Sostenendo che i Paesi occidentali stanno tentando di boicottare la cultura russa, il presidente Vladimir Putin ha tirato in ballo la creatrice di Harry Potter J.K. Rowling, facendo riferimento alla «cancel culture» di cui la scrittrice britannica è stata vittima qualche anno fa, dopo aver espresso opinioni controverse sulle donne transgender ed essere stata accusata di transfobia. Putin ha paragonato gli occidentali ai nazisti che bruciavano i libri e ha accostato il trattamento riservato alle personalità culturali russe da quando è iniziata la guerra a quello che è capitato a Rowling, boicottata aggressivamente sul web per il suo pensiero.
La reazione della scrittrice non si è fatta attendere: via Twitter Rowling ha criticato le parole di Putin, respingendole al mittente, e ha sottolineato, pur senza nominarlo direttamente, come non sia un alleato credibile né accettabile nel contestare la cancel culture : «Le critiche alla cancel culture dell’Occidente sarebbe meglio non arrivassero da coloro che in questo periodo stanno massacrando civili per il crimine di resistenza, o che incarcerano e avvelenano i loro critici», ha scritto l’autrice, a corredo di un articolo della Bbc dedicato all’oppositore di Putin Alexej Navalny. Rowling ha anche aggiunto un hashtag a sostegno della popolazione Ucraina, #IStandWithUkraine e, in un tweet pubblicato subito dopo, ha poi aggiornato i suoi follower sulle attività che la sua associazione benefica Lumos sta svolgendo a favore dei bambini ucraini.
Marx non russa. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2022.
La guerra fa strage anche di cervelli, o forse si limita a certificarne la mancanza. Nel caso vi fossero sfuggite, segnalo due notizie da ascrivere all’epidemia di anacronistica imbecillità che va sotto il nome di «cancel culture». La prima è che il festival di Colorado Springs dedicato alle avventure spaziali ha annullato la serata su . Benché sia morto da quasi mezzo secolo, il vecchio Yuri deve avere fatto ultimamente qualcosa di molto grave, se persino nel pacifico Lussemburgo un suo busto commemorativo è stato coperto dalle autorità. Quantomeno, Gagarin era russo. Ma Karl Marx? No, perché in un’università della Florida hanno tolto il nome del filosofo comunista dall’aula a lui intitolata, ritenendolo «non appropriato». Qui l’espressione «cancel culture» va intesa in senso letterale: solo una testa da cui è stata cancellata qualunque forma di cultura, compreso il sussidiario delle medie, può collegare Marx alla Russia attuale. Tanto per cominciare Marx era tedesco e morì a Londra con la convinzione che il comunismo avrebbe attecchito ovunque tranne che a Mosca. E poi la Russia reazionaria e baciapile incarnata da Putin non è più l’Urss, di cui condivide solo la volontà di potenza e la tragica visione totalitaria dello Stato. Serve un disarmo unilaterale della stupidità, prima che per rappresaglia — come si leggeva in un meme — Putin non decida di ribattezzare il capolavoro di Tolstoj «Operazione militare speciale e Pace». Ne sarebbe capace.
Le parole dell'autrice di 'Harry Potter'. JK Rowling smonta la propaganda di Putin sulla ‘cancel culture’: “Tu massacri civili”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 25 Marzo 2022.
JK Rowling non ci sta ad essere utilizzata per fini propagandistici dal presidente russo Vladimir Putin nella sua battaglia contro l’Occidente, dopo l’invasione dell’Ucraina iniziata ormai un mese fa.
La scrittrice britannica, autrice della fortunata saga di ‘Harry Potter’, ha infatti risposto alle parole dello Zar del Cremlino che l’aveva citata nel corso di un ampio discorso che lo aveva visto criticare la cosiddetta ‘cancel culture’ dell’Occidente.
Putin aveva infatti spiegato, nel corso di un intervento con esponenti del mondo della cultura russa, che Stati Uniti ed Europa “stanno cercando di cancellare un intero Paese millenario, il nostro popolo. Sto parlando della progressiva discriminazione di tutto ciò che è connesso alla Russia”.
Il presidente russo aveva sottolineato in particolare la discriminazione contro ciò che è connesso alla Russia ha citato i compositori Pyotr Tchaikovsky, Dmitri Shostakovich, Sergei Rachmaninov, oltre a scrittori e libri russi. Quindi il paragone con la Germania nazista, con Putin che ha spiegato come l’ultima volta che una tale campagna per distruggere letteratura è avvenuta “è stato per mano dei nazisti in Germania circa 90 anni fa”.
Quindi citando la scrittrice, Putin aveva sottolineato che “JK Rowling è stata cancellata perché lei, scrittrice di libri che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, non ha soddisfatto i fan delle cosiddette libertà di genere”.
Rowling ha duramente attaccato l’uso strumentale che Putin aveva fatto del suo nome e del suo ‘caso’ nel corso della sua invettiva contro l’Occidente.
La scrittrice ha infatti denunciato l’invasione dell’Ucraina in cui ha affermato che la Russia “sta massacrando civili”. “Criticare la ‘cancel culture’ dell’Occidente probabilmente non è la cosa migliore da fare da chi attualmente massacra civili per il crimine di resistenza, o che imprigiona e avvelena i suoi critici“, ha scritto l’autrice britannica.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
La nota del Miur. Le università bandiscono la Russia, una barbarie che ci ripiomba ai tempi di pietra e fionda. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 16 Marzo 2022.
E dunque ci risiamo. Non è bastata la drammatica e, per certi versi farsesca vicenda della soppressione del corso su Dostoevskij di un Università milanese. Soppressione poi revocata quando il danno era ormai fatto, tanto che il titolare del corso, lo scrittore Paolo Nori, si è rifiutato a quel punto di svolgerlo. Non è bastata la scelta, improvvida a mio parere, del festival di Cannes di rifiutare qualsiasi film russo nella prossima edizione. Non è bastata la lezione di civiltà offerta dal Cern di Ginevra, diretto dalla scienziata italiana Fabiola Giannotti, che, mentre ha sospeso la Russia, in quanto Stato, dal ruolo di osservatore, ha consentito però che gli scienziati russi continuassero a lavorare ai propri progetti accanto ai colleghi ucraini in quella istituzione.
No, non è bastato, se dobbiamo ancora oggi leggere la nota della nostra ministra dell’Università che ha chiesto agli Atenei «nel rispetto dell’autonomia accademica e di ricerca, a voler considerare la sospensione di ogni attività volta alla attivazione di nuovi programmi di doppio titolo o titolo congiunto» con istituzioni universitarie e culturali russe. Tanto che “nell’esercizio della propria autonomia accademica” leggiamo che c’è già una solerte Università, la quale per non sbagliare ha deciso di interrompere «le collaborazioni in atto con studiosi legati a istituzioni russe» (Il Foglio di ieri). È proprio vero che la guerra ci fa ritornare a essere “ancora quello della pietra e della fionda” come scrisse Salvatore Quasimodo, in un regresso culturale e civile che fa a pugni con quell’idea di civiltà in nome della quale ci schieriamo giustamente dalla parte dell’Ucraina. È proprio vero, come disse Francesco Saverio Nitti in Assemblea costituente, che “in Italia il ridicolo è contagioso”. Purtroppo qui non si tratta solo di ridicolo, ma del conformismo da pensiero unico che ci fa dimenticare gli stessi valori in nome dei quali diciamo saremmo pronti a morire. Mentre in realtà a morire sono altri.
Ma come si fa a non avvedersi che squalificare la cultura, la ricerca, l’arte a livello di un qualsiasi prodotto da bandire come una qualsiasi “sanzione”, rappresenta la più grande manifestazione di debolezza politica e culturale? Come si fa a non vedere che tali scellerate scelte sono il più grande tradimento che potremmo fare alla nostra civiltà? Persino il diritto internazionale bellico prevede situazioni nelle quali il nemico dev’essere soccorso, pur nella cornice del conflitto. E noi che facciamo? Tagliamo quei pochi ponti che danno ancora senso ai valori dell’umanesimo, della libertà, della civiltà. Scelte di questo genere sono la prova più evidente di un ateismo umanistico, della perdita di fede nella forza della cultura e della scienza come strumenti di elevazione dell’uomo e come strumenti per consentire all’uomo di riconoscere l’altro come uomo, al di là della sua appartenenza, della sua nazionalità e della sua divisa. Questa idea di troncare le relazioni artistiche, scientifiche e di ricerca sono un’insulto alla cultura. Sono la premessa di atteggiamenti iconoclasti che alimentano il sonno della ragione. Il volto di un materialismo economico preoccupato solo di salvaguardare la sopravvivenza biologica e in cui la scienza si può colpire, ma il gas russo al quale ci siamo impiccati nel corso degli anni ovviamente no. Perché si sa, con la cultura mica si mangia.
Rompere quei ponti non può che accentuare le distanze e le polarizzazioni e potenziare le spinte a una degenerazione culturale, antiumanistica e antiscientifica, per cui io non giudico più il caso concreto, la situazione specifica, ma preliminarmente escludo qualsiasi possibilità di confronto, sostituisco il pregiudizio al giudizio. Al rasoio di Occam, che impone metodologicamente di distinguere, individuando eventualmente anche i casi in cui certi rapporti istituzionali o persino accademici potrebbero rappresentare la copertura di infiltrazioni o una minaccia per la sicurezza, contrapponiamo la falce cieca che non a caso nell’iconografia religiosa è il simbolo della morte.
Chissà cosa penserebbe di tutto ciò il grande cineasta ebreo Radu Mihăileanu ricordando che il suo film, Il Concerto, avrebbe potuto cadere sotto la mannaia delle sanzioni. Un film magico e commovente, che narra una storia sull’orchestra russa del teatro Bol’šoj che, ai tempi di Breznev, riesce con infinite peripezie a ottenere di esibirsi a Parigi.
Forse, di fronte alle sanzioni, Mihăileanu penserebbe che ha la fortuna di non essere russo. Ma certo non dimenticherebbe la frase pronunciata prima del concerto da Andreï Filipov (il direttore caduto in disgrazia per l’opposizione al regime): «L’orchestra è un mondo. Ognuno contribuisce con il proprio strumento, con il proprio talento. Per il tempo di un concerto siamo tutti uniti, e suoniamo insieme, nella speranza di arrivare a un suono magico: l’armonia. Questo è il vero comunismo. Per il tempo di un concerto». E sì, è proprio vero che “sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”. Con buona pace della retorica politicamente corretta che esibisce snobisticamente e burocraticamente la nostra presunta superiorità. E che non ci farà mancare, ne sono certo, qualche alzata di sopracciglio anche di fronte a queste riflessioni, evidente e pericolosa espressione di cripto-putinismo. Giovanni Guzzetta
Da leggo.it il 10 marzo 2022.
Una catena di ristoranti in Francia ha subito insulti sui social e minacce telefoniche dopo essere stata indebitamente associata al leader russo Vladimir Putin. La Maison de Putine però non ha nulla a che vedere con il personaggio politico, si riferisce al tipico "Poutine" un piatto tipico di patatine fritte ricoperto di salsa al formaggio, prelibatezza del Quebec.
La Maison de Poutine, una prelibatezza del Quebec
La catena, che ha quattro sedi in Francia, di cui tre a Parigi, ha ricevuto numerosi insulti sulle proprie pagine social oltre che telefonate anonime con minacce e insulti: "Abbiamo fino a cinque o sei chiamate all'ora", ha detto a Le Parisien il co-fondatore del ristorante Guillaume Natas, spiegando che non ha ancora presentato una denuncia perché pensa che "la polizia abbia altro da fare". Tuttavia la preoccupazione è aumentata, tanto che un dipendente della sede del ristorante a Tolosa ha detto a France Bleu di temere che le persone possano vandalizzare la proprietà o ricorrere alla violenza.
Il chiarimento sui social «Non siamo legati a Putin»
Per questo la direzione del ristorante si è vista costretta a pubblicare un post sui social specificando che "non è legato al regime russo e al suo leader". "Il nostro piatto è nato in Quebec negli anni '50. E le storie sulla sua origine sono numerose. Ma una cosa è certa: il poutine è stato creato da cuochi appassionati desiderosi di portare gioia e conforto ai propri clienti", ha scritto il ristorante "La Maison di Poutine ha lavorato sin dal suo primo giorno per perpetuare questi valori e oggi porta il suo più sincero sostegno al popolo ucraino che sta lottando coraggiosamente per la propria libertà contro il regime tirannico russo".
Cocktail e locali cambiano nome per solidarietà con l'Ucraina
Il caso di La Maison de Poutine non è isolato. Anche un ristorante ad Austin, in Texas, precedentemente noto come "Russian House", ha annunciato di aver eliminato la parola "russo" dal suo nome. Il proprietario, Varda Monamour, originario dell'Europa orientale ha detto che se il nome "rattrista o porta dolore agli altri, sentiamo semplicemente che deve essere 'The House', la casa per tutti.
La casa in cui le persone possono entrare e godersi un buon pasto e concentrarsi sulle cose buone e su qualcosa che ci porta insieme, non ci separa". Polemiche anche nel mondo dei drink dove c'è stato chi ha proposto di cambiare il nome Moscow Mule (celebre cocktail a base di vodka e ginger beer) in Kiev Mule.
Da repubblica.it l'8 marzo 2022.
Un camion di un'azienda di Leitreim, in Irlanda, ha sfondato il cancello dell'ambasciata russa a Dublino con una decisa retromarcia. Non sono stati segnalati feriti. L'autista, è stato arrestato sul posto dopo essere uscito dal veicolo e aver distribuito foto di atrocità russe in Ucraina.
L'autista Desmond Wisley raccontato di essere stato sopraffatto dalla rabbia dopo aver visto il video della famiglia uccisa da un missile. "Voglio che l'ambasciatore e i suoi colleghi lascino questo paese libero. Sono solo un lavoratore, ma dobbiamo fare qualcosa".
Piera Anna Franini per “il Giornale” l'8 marzo 2022.
«Le ripetute e sempre più frequenti messe al bando di artisti e intellettuali russi suscitano preoccupazione. È in atto un'operazione di cancel culture pericolosa», si legge nella lettera arrivata ieri sul tavolo di Sergio Mattarella e del ministro Dario Franceschini.
La lista dei firmatari si ferma al numero 201: gli anni che ci separano dalla nascita di Dostoevskij, scrittore-simbolo di una crescente russofobia. Cala una cortina di ferro anche nel mondo della cultura: il caso Dostoevskij è la punta dell'iceberg di un atteggiamento di aut aut, richieste di abiura e caccia alle streghe.
Dal 24 febbraio, si puniscono gli artisti russi che non si pronunciano contro il Cremlino. Chi si rifiuta non dirige, non canta, non danza, non espone: dal Canada all'Australia. Il più avversato è il direttore Valerij Gergiev vicino al capo dello Stato essendo al timone del Mariinskij di San Pietroburgo, un teatrone di Stato da 2mila dipendenti: schierarsi implica schierare un'istituzione.
Quando mai gli artisti sono stati forzati a condannare il proprio Paese in conflitto? Eppure proprio il Met di New York ha chiesto questo alla cantante Anna Netrebko, pena - già applicata per i prossimi due anni - la cancellazione dalle stagioni. A monte operano tribunali dell'inquisizione 2.0 che sondano i social e scavano nel passato. «Negli ultimi 50 anni il mondo ha conosciuto una serie di guerre, ma è la prima volta che l'arte è tra le vittime. Così, mettiamo al bando l'eredità di un Paese. E paradossalmente queste sanzioni culturali, mai applicate prima, potrebbero indurre milioni di persone a trovare la ragione del conflitto. La cultura è da sempre pacificatrice e terreno di dialogo.
Cosa succede ora? Perché ci isolate», lamenta Galina Stolyarova, giornalista di cultura del Moscow Times. «La questione che si pone non è quella della neutralità ad ogni costo, ma se l'arte stessa deve servire da veicolo per ogni espressione di opinione. Io penso: no», osserva Jonas Kaufmann, il tenore più rappresentativo del momento. Esemplare il commento Alexander Malofeev, fenomeno del pianoforte di soli 20 anni, di Mosca. In Canada gli è stato chiesto di esprimersi contro il Cremlino. «La verità - la sua risposta - è che ogni russo si sentirà colpevole per decenni a causa della terribile e sanguinosa decisione che nessuno di noi poteva influenzare e prevedere».
Laddove prevale il buon senso, c'è apertura e cultura. E così, la Scala ha sì rinunciato a Gergiev, però lo ha sostituito con un giovane sotto la sua ala: dal Mariinskij nessun niet alla sostituzione, e dal pubblico applausi calorosi al giovane direttore. La Filarmonica scaligera ieri sera ha dedicato il suo concerto alle vittime della guerra senza specificare se ucraine o russe. E mentre il direttore Tugan Sokhiev si dimette sia dal Bolshoi di Mosca sia dall'Orchestra di Tolosa poiché costretto «a scegliere tra due tradizioni culturali», il concorso pianistico Van Cliburn, in Texas, sente il dovere di giustificare il fatto che accetterà candidati russi poiché «non sono funzionari del governo». Van Cliburn è il concertista americano che vinse il concorso Cajkovskij di Mosca. Correva il 1958, piena Guerra fredda. In quel momento l'arte unì Usa e Urss.
GLUCK per Dagospia l'8 marzo 2022.
Si deve pure (e non poco) a Dagospia se il sipario di piombo (dei giornali) non calasse pesantemente sulle beghe interne, lo strapotere dei sindacati, i silenzi omertosi degli sponsor e le gaffe messe in scena dal teatro la “Scala” nelle ultime settimane.
Finalmente fa rumore il calcio in culo affibbiato dal sindaco Beppe Sala al direttore d’orchestra Valery Giergev, amico di Putin, senza preavvisare l’interessato, gli stessi membri della Fondazione e il sovrintendente Mayer.
Tra i pensieri spettinati di Lec.S.Jerzy ce n’è uno che calza a pennello sul colpo di bacchetta scorretto del Beppone primo della classe (dei somari): “Preferisco la scritta proibito all’ingresso a quella senza via di uscita”.
Il fattaccio del Piermarini sembrava destinato a rimanere nell’enclave protettiva delle gazzette locali che mai osano mettere il naso (anzi se lo turano) nelle vicende del tempio della lirica milanese.
Dopo l’ex Mediobanca di Cuccia, la “Scala” è un’altra roccaforte intoccabile. Lo stesso è accaduto ai tempi di Mani Pulite per il Palazzo di Giustizia finito poi sotto le macerie causate dai suoi stessi giudici eroi. Simboli da lucidare (con la lingua) alla stregua della Madonnina che brilla sul Duomo.
“Giorni e giorni, di fulmini e saette, chi ad esaltare il gesto di Sala, chi a deplorarlo soprattutto però in famiglia, molto meno pubblicamente. Sala non è Putin ma è sempre Sala e magari se la lega al dito…”, ha colto nel segno Natalia Aspesi sulla “Repubblica” nel commentare il pasticciaccio innescato dal sindaco con l’elmetto.
Per concludere sull’abbandono anche della “divina” soprano Netrebko: “Vada come vada per la musica, ma altri sono i modi per aiutare l’Ucraina, e quindi tutto il mondo”. Ben detto Natalia!
Il che la dice anche lunga sul contesto censorio che aleggia da anni sul Piermarini e sull’affacciante Palazzo Marino sia pure con qualche lodevole eccezione.
Dunque, non è stato uno scoop di questo disgraziato sito, sottolineare subito che l’ukase improprio del sindaco rivolto a Valery Giergev, in quanto intimo dello zar Putin, suonava in pratica come una richiesta al direttore d’orchestra di abiurare al suo Paese natale.
A ricordarlo, per stare sullo spartito, c’è pure l’”Aida” di Giuseppe Verdi: “Se l’amor della patria è delitto/ Siam rei, siam pronti a morir”, A poco valgono le marce in fa minore (tardive) del Sala “puro e duro” che nel voler primeggiare non si è reso conto degli effetti, anche umani e drammatici, del suo ultimatum al maestro Gergiev.
Nella fondazione scaligera, dopo la messa alla porta sia del maestro che della soprano Netrebko, con tanto di sostituzioni sicuramente non a costo zero, si temono ripercussioni economiche sul suo bilancio del teatro che già fa acqua nonostante oltre il 35% di euro provengano dal finanziamento pubblico (Stato, Comune e Regione).
Soldi pubblici insomma. “Se non vengono onorati i contratti del musicista, cacciato in malo modo, o costretti all’abbandono come la soprano Netrebko, c’è il serio rischio di strascichi giudiziari in sede civile.
E sarebbe interessante se Sala e Meyer spiegassero, una volta per tutte, se i compensi degli artisti, secondo abusata consuetudine dei loro amministratori monegaschi, vengono pagati in Italia o in qualche paradiso fiscale”, fanno osservare a Dagospia in zona loggionisti.
“Non dimentichiamo – aggiunge -, che l’ex manager del tenore Luciano Pavarotti, lo scomparso Tibor Rudas, non era russo come oggi scrivono i giornali anche se sera vicino ai suoi amici oligarchi, bensì ungherese. Per 7 milioni di euro aveva acquistato una villa attigua a quella del nostro tenore sulle colline di Pesaro per seguire il Festival Rossiniano”.
Ma nel battere tutti sul tempo della solidarietà all’Ucraina aggredita, il sindaco “ghe pensi mi” nella sua smania censoria neppure si è neppure reso conto che il tema delle “sanzioni culturali” alla Russia sia nell’arte sia nella letteratura avrebbero sollevato un caso internazionale.
Qualcosa d’inedito, rispetto agli stessi anni della Guerra Fredda. Tema assai sensibile quello del rapporto tra culture e politica; tra “purezza e propaganda” che non si sciolgono con gli ukase di rito ambrosiano di Sala o della economista Giovanna Iannantuoni dell’ateneo Bicocca.
Alla professoressa che prima di scrivere una lettera di scuse aveva bocciato un seminario dello scrittore Paolo Nori sul romanziere russo Fiodor Dostoevskij va il premio dell’Idiota.
A ragione, l’epurato Paolo Nori, si è rifiutato di tornare in cattedra tra gli asini dell’accademia.
“La cosa più sorprendente nel testacoda dell’Università Bicocca è che i super cattedratici della Bicocca che avevano annullato le lezioni non sapessero che Dostoveskij era un campione della libertà, un oppositore del regime zarista… siamo a Cretinopoli”, ha rilevato Francesco Merlo rispondendo a un lettore della “Repubblica”.
Siamo alle intellettuali che il saggista e storico marxista Luciano Canfora paragona alle “galline pensierose”.
Già, Milano non si ferma mai nel suscitare a volte “il ridicolo” secondo l’opinione dell’ex sindaco Giuliano Pisapia che sulla cacciata di Giergiev avrebbe consigliato maggiore prudenza al suo successore. “Ridicolo, ma anche gravissimo” per Michele Serra l’episodio della Bicocca con l’invito agli intellettuali “risalite a a bordo, cazzo”.
“Questa guerra è illegittima e senza giustificazioni, ma non penso che la strategia sia tagliare con la Russia, anzi, dobbiamo sostenere i russi che resistono”, è la posizione riflessiva di James Bradburne, direttore di Brera.
“I russi non sono nemici, il nostro nemico è Putin, prosegue a chiosa della scelta di varie istituzioni culturali italiana di escludere la Russia dalle loro kermesse.
E l’artista dissidente cinese Al Weiwei che debutta alla regia all’Opera di Roma con “Turandot” è ancora più esplicito: “Se a un artista essendo amico di un politico viene proibito di lavorare, stiamo andando verso una strada non più democratica”.
Piovono fischi nel (sotto) Scala occupato da Beppe Sala, con un interrogativo: se il sindaco piscia fuori dal vaso (ukase a Gergiev) perché dai più è nominato solo l’orinatoio e non l’autore della minzione? Ah saperlo!
Dagotraduzione dal Washington Post l'8 marzo 2022.
Lo chef russo Alexei Zimin sta donando parte delle entrate del suo ristorante londinese per sostenere il lavoro della Croce Rossa con i rifugiati ucraini. Ha cantato canzoni di un poeta dissidente russo su Instagram, pubblicando messaggi come: «Stop alla guerra. Ritira le truppe. Riporta a casa i nostri soldati». Sa che parlando in questo modo, potrebbe non essere mai in grado di tornare in Russia, dove gli è stato attribuito il merito di aver guidato una rivoluzione gastronomica e possiede altri due ristoranti.
Eppure la casella vocale del suo ristorante è piena di messaggi di odio. «I russi sono assassini», «Voi siete i russi di Putin».
Zimin, 50 anni, è tra coloro che sono stati colpiti da un'ondata improvvisa e in rapida crescita di sentimenti anti-russi in Europa. Mentre i governi si sono mossi per punire il presidente russo Vladimir Putin e sanzionare gli oligarchi, mentre la società ha chiesto a figure culturali - dalle stelle dell'hockey ai cantanti d'opera - di denunciare la guerra, gli espatriati russi che non hanno mai avuto simpatia per Putin e che sono inorriditi da ciò che sta accadendo in Ucraina dicono che stanno affrontando un'ondata di ostilità generalizzata.
«In tutta Europa, le persone che non sono coinvolte nella guerra vengono prese di mira e rimosse dalle posizioni», ha affermato Aleksandra Lewicki, sociologa dell'Università del Sussex. «C'è la sensazione di un chiaro nemico: sono i russi, di ogni ceto sociale, e vengono presi di mira da crimini di odio razzista e commenti sprezzanti».
Raggruppare tutti i russi insieme è stata una prevedibile "reazione istintiva", ha detto Lewicki. Nell'immaginario dell'Europa occidentale, l'Oriente è stato a lungo inferiore, ha detto. «Spesso questi sentimenti sono dormienti, ma poi le cose accadono come in questo momento di crisi, e le persone iniziano immediatamente ad agire in base a questi impulsi».
Alcune persone si sono affrettate a emettere condanne generali anche nell'Europa centrale e orientale. Nella Repubblica Ceca, dove le persone ricordano ancora il trauma dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968, recenti post sui social media hanno suggerito che i cittadini russi «dovrebbero essere contrassegnati in modo visibile, magari con una stella rossa». La mattina dopo l'invasione, un professore dell'università di Praga ha scritto su Facebook che non avrebbe insegnato né testato gli studenti russi. (In seguito ha cancellato il post.)
Il primo ministro Petr Fiala ha denunciato gli attacchi ai bambini russi nelle scuole elementari ceche, sebbene abbia anche difeso le decisioni del suo governo di smettere di concedere visti alla maggior parte dei cittadini russi e di rivedere quelli dei russi già all'interno del paese.
Alcuni negozi e ristoranti hanno affisso cartelli in ceco e russo che dicono: «Non serviremo occupanti russi e bielorussi». Altri vogliono che i clienti russi superino una sorta di prova morale. Un cartello in un ristorante nel quartiere Zizkov di Praga afferma: «Prima che inizi a prestarti attenzione, devi affermare che Putin e Lukashenko sono assassini di massa. Poi ti scuserai per loro e mostrerai rimorso. Solo allora ti sarà permesso di ordinare».
Gli espatriati russi intervistati dal Washington Post hanno universalmente sottolineato che i commenti offensivi impallidiscono rispetto a ciò che gli ucraini stanno affrontando, come vittime della guerra. I russi che vivono in Europa non si aspettano di essere mandati nei campi come lo successe ai giapponesi che vivevano in America durante la seconda guerra mondiale.
Ma molti espatriati hanno raccontato di essere alle prese con sentimenti di vergogna e di sentirsi nuovamente a disagio per la loro nazionalità.
«Non so se dovrei dire che sono russa in questi giorni», ha detto Julia Potikha, 28 anni, che vive in Germania da quando si è trasferita da Mosca a 6 anni. Ha detto di non aver subito discriminazioni di recente, ma teme che le persone possano trattarla in modo diverso o biasimarla per l'invasione di Putin, che ha provocato un cambiamento sismico nella politica estera tedesca.
«Il popolo [russo] non è il governo e molti non supportano la guerra», ha detto Potikha, che si è offerta volontaria per assistere gli ucraini. I suoi genitori in Russia, però, sono sostenitori di Putin, ha detto. La maggior parte di ciò che sanno proviene dalla TV russa. Al telefono non volevano parlare dell'Ucraina.
Il fotografo russo Alexander Gronsky, 41 anni, ha appena cancellato una mostra imminente nella città italiana di Reggio Emilia. Ha detto che non era a causa della sua nazionalità in sé, ma piuttosto perché la mostra era stata organizzata in collaborazione con il Museo statale dell'Ermitage di San Pietroburgo.
«Capisco perfettamente, nessuno vuole collaborare con uno stato terrorista. Fa parte del danno collaterale della guerra», ha detto, aggiungendo che spera che i «ponti culturali! tra Europa e Russia non crollino. «Non tutti i russi sostengono Putin e la guerra», ha detto.
Igor Pellicciari, professore di politica russa all'Università di Urbino in Italia, ha affermato che «l'aria è piuttosto tossica per i russi ora, perché a quelli che vivono qui viene costantemente chiesto della guerra, come se dovessero giustificarsi».
In una recente notte a Trafalgar Square a Londra, i manifestanti portavano manifesti che dicevano: «Sono russo. Mi dispiace per questo» e «I russi sono contro la guerra».
Il primo ministro britannico Boris Johnson ha cercato di distinguere tra il regime russo e il popolo russo. In un video pubblicato su Twitter, Johnson, parlando in russo, ha detto: «Non credo che questa guerra sia nel tuo nome».
La Gran Bretagna ospita almeno 70.000 russi, molti dei quali vivono a Londra, tanto che la capitale si è guadagnata i soprannomi di "Mosca-sul-Thames" e "Londragrad".
Non tutti si sentono presi di mira. Katia Nikitina, 37 anni, specialista di marketing originaria della Russia, ha detto che nessuno dei suoi amici l'ha incolpata per la «guerra di un pazzo», come l'ha descritta lei. Ma ha detto che ha cercato di spiegare ai suoi amici britannici che i russi avrebbero manifestato contro la guerra più numerosi se non avessero rischiato di finire in prigione. Secondo l'organizzazione indipendente per i diritti umani OVD-Info, solo domenica in tutta la Russia sono state arrestate più di 4.500 persone durante le manifestazioni contro la guerra.
In una città globale come Londra, dove in metropolitana si possono sentire centinaia di accenti, chi parla russo non spicca. Ma luoghi con un visibile legame russo sono stati condannati per via dell'invasione. Mari Vanna, un ristorante russo di fascia alta a Knightsbridge, ha ottenuto recensioni su Google del tipo: «Il cibo era ottimo, ma sfortunatamente la guerra ha rovinato i nostri appetiti». Il receptionist di un altro ristorante russo a Londra, che ha chiesto di non essere nominato per paura di ulteriori abusi, ha detto che il suo posto riceve dai 30 ai 40 messaggi di odio al giorno, principalmente da britannici e americani. Manda i peggiori alla polizia.
«Vuoi sentirne uno?» ha chiesto prima di avviare la riproduzione di una registrazione in cui una persona con un accento britannico stava gridando: «Esci dal nostro fottuto paese prima che ti bruciamo, fottuta feccia».
Zimin, che negli ultimi sei anni ha vissuto in Gran Bretagna, ha detto che non è facile essere russo in questo momento. Parlava con un giornalista del Post nel suo ristorante, che serve piatti tradizionali russi come il borscht e la torta russa al miele e ha una vasta selezione di vodka infuse. Il personale proviene da molti paesi. Uno dei padroni di casa è ucraino.
«La maggior parte delle persone che conosco a Londra e Mosca sono contrarie alla guerra», ha detto. «Non possiamo smettere di essere russi, guerra o non guerra. Siamo russi e continueremo ad essere russi, ma non siamo russi che cercano di uccidere i nostri vicini».
Zimin ha detto che c'è molto della sua patria di cui è orgoglioso, ma non è il momento di esprimere quell'orgoglio. «Siamo il paese di Tolstoj e Dostoevskij», ha detto. «Ma non proprio per oggi».
Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 7 marzo 2022.
Anche nell'ultimo weekend un foltissimo pubblico di parigini e turisti ha preso d'assalto le sale della Fondation Louis Vuitton dove è stata prorogata fino al 7 aprile quella che per molti è già la mostra dell'anno: la collezione dei fratelli Morozov, considerata la più importante al mondo di dipinti moderni e impressionisti.
Oltre all'appagamento di vedere per la prima volta "live" capolavori di Bonnard, Cézanne, Gauguin, Van Gogh, Monet, Picasso che raramente lasciano i loro musei di provenienza, c'è la curiosità di capire se qualcosa è cambiato nel rapporto tra le opere e il pubblico da quando è cominciato il conflitto tra Russia e Ucraina.
In Francia si respira intanto un clima molto diverso rispetto all'Italia, il covid sembra davvero archiviato se non per l'obbligo di mascherina sui mezzi pubblici e i sempre più rari controlli del green pass. Tanta gente è tornata a vedere le mostre, si formano code davanti ai cinema, insomma chi è abituato a respirare cultura ha avuto fretta di riprendere le proprie abitudini, certo i francesi non sono terrorizzati da ministri pavidi di natura come dalle nostre parti.
A nessuno comunque sono venute in mente azioni di boicottaggio contro i due fratelli Mikhail e Ivan Morozov, imprenditori del tessile, che in soli vent' anni riuscirono a comprare circa 300 capolavori di arte francese, superando la fase iniziale di un gusto autarchico grazie ai continui viaggi a Parigi dove capirono in fretta quali fossero i veri valori della pittura. Unica collezione russa a rivaleggiare per importanza con l'America, i Morozov acquisirono tutte le opere prima della rivoluzione bolscevica, che fedele ai propri principi scellerati le disperse in ogni dove.
Ai fini di recuperarne il gusto originale, l'allestimento ricostruisce alcuni ambienti voluti dai collezionisti agli inizi del '900. I controlli all'ingresso della Fondation Vuitton sono degni di quelli di un aeroporto - il patron Bernard Arnault e il suo competitor/rivale a colpi di miliardi François Pinault che espone la propria collezione alla Bourse amano molto i bodyguard vestiti di nero, palestrati e con sguardo truce - la sensazione è che sia stata intensificata la vigilanza accanto alle opere e ai tornelli, però si tratta di misure dissuasive perché nessuno degli oltre 1 milione di visitatori è arrivato al museo disegnato da Frank Gehry con cattive intenzioni.
C'è da chiedersi però cosa accadrà dopo la scadenza della proroga: i dipinti devono tornare all'Hermitage di San Pietroburgo, al Pouchkine e al Tretiakov di Mosca, con la certezza di viaggiare senza rischi, cosa che al momento nessuno si sente di garantire. Secondo una legge, lo stato francese non può sequestrare opere di competenza di istituzioni pubbliche straniere. Piuttosto meglio aspettare e conservarle in sicurezza fintantoché (e se) la situazione si sarà normalizzata.
Certo, a rileggere i comunicati che accompagnarono a novembre il lancio della mostra, sembra di vivere in un altro mondo. «Una mossa che dà lustro alla Russia e alla Francia. I rispettivi presidenti si sono espressi nel catalogo dell'esposizione, cementando l'amicizia culturale tra i due Paesi. Si tratta di un appuntamento storico, di grande valore culturale e di grande peso politico», dichiaravano ignari di ciò che sarebbe accaduto. Ciò nonostante, nessuno tocchi la collezione Morozov e chi non l'avesse vista vada a Parigi perché davanti a certi quadri c'è da perdere la testa.
Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 7 marzo 2022.
La puntata di Non è L'Arena di ieri, domenica 6 marzo 2022, era interamente dedicata alla guerra tra Russia e Ucraina che continua a non dare alcun segno di distensione, esacerbandosi invece sempre più.
Fra i tanti ospiti del programma condotto da Massimo Giletti in onda su La7, c'era anche il filosofo Massimo Cacciari, accusato qualche giorno fa di essere un "putiniano" da Gianni Riotta su quotidiano La Repubblica.
Il professor Cacciari, incalzato da Giletti in merito, ha rispedito al mittente l'accusa definendo "idiota" Riotta. Epiteto che peraltro dà il titolo a uno dei grandi romanzi di Fëdor Dostoevskij, la cui opera proprio nei giorni scorsi è stata vittima di un discusso boicottaggio alla Bicocca di Milano.
Mentre il filosofo sottolineava come invece il pensiero dello scrittore andrebbe quanto più condiviso e reso obbligatorio negli atenei per dimostrare la sua assoluta lontananza dalle idee di Vladimir Putin, Giletti ha ricordato "quello straordinario diario scritto proprio da Dostoevskij sulla Prima Guerra Mondiale, sulle sue atrocità"...
A quel punto, Cacciari ha fermato il conduttore dicendogli: "Scusi se la correggo, ma Dostoevskij sulla Prima Guerra Mondiale non ha scritto proprio niente, perché è morto molto prima (precisamente nel 1881, ndr)".
Dopodiché Giletti ha cercato di rimediare alla gaffe, aiutato anche da Cacciari che non ha voluto infierire e ha tirato in ballo il Diario di uno Scrittore pubblicato nel 1873 nel quale Dostoevskij evocava il fosco futuro dell'Europa e la catastrofe alla quale essa stava andando incontro.
"La sua era una profezia" ha improvvisato Giletti, che fino a poco prima invece era del tutto sicuro che nella seconda metà dell'Ottocento Dostoevskij avesse scritto realmente sulle atrocità della Prima Guerra Mondiale, scoppiata ben quarantuno anni più tardi, nel 1914...
"Basta russofobia contro gli artisti e gli intellettuali". Piera Anna Franini l'8 Marzo 2022 su Il Giornale.
"Le ripetute e sempre più frequenti messe al bando di artisti e intellettuali russi suscitano preoccupazione. È in atto un'operazione di cancel culture pericolosa".
«Le ripetute e sempre più frequenti messe al bando di artisti e intellettuali russi suscitano preoccupazione. È in atto un'operazione di cancel culture pericolosa», si legge nella lettera arrivata ieri sul tavolo di Sergio Mattarella e del ministro Dario Franceschini. La lista dei firmatari si ferma al numero 201: gli anni che ci separano dalla nascita di Dostoevskij, scrittore-simbolo di una crescente russofobia.
Cala una cortina di ferro anche nel mondo della cultura: il caso Dostoevskij è la punta dell'iceberg di un atteggiamento di aut aut, richieste di abiura e caccia alle streghe. Dal 24 febbraio, si puniscono gli artisti russi che non si pronunciano contro il Cremlino. Chi si rifiuta non dirige, non canta, non danza, non espone: dal Canada all'Australia. Il più avversato è il direttore Valerij Gergiev vicino al capo dello Stato essendo al timone del Mariinskij di San Pietroburgo, un teatrone di Stato da 2mila dipendenti: schierarsi implica schierare un'istituzione. Quando mai gli artisti sono stati forzati a condannare il proprio Paese in conflitto? Eppure proprio il Met di New York ha chiesto questo alla cantante Anna Netrebko, pena - già applicata per i prossimi due anni - la cancellazione dalle stagioni. A monte operano tribunali dell'inquisizione 2.0 che sondano i social e scavano nel passato. «Negli ultimi 50 anni il mondo ha conosciuto una serie di guerre, ma è la prima volta che l'arte è tra le vittime. Così, mettiamo al bando l'eredità di un Paese. E paradossalmente queste sanzioni culturali, mai applicate prima, potrebbero indurre milioni di persone a trovare la ragione del conflitto. La cultura è da sempre pacificatrice e terreno di dialogo. Cosa succede ora? Perché ci isolate», lamenta Galina Stolyarova, giornalista di cultura del Moscow Times.
«La questione che si pone non è quella della neutralità ad ogni costo, ma se l'arte stessa deve servire da veicolo per ogni espressione di opinione. Io penso: no», osserva Jonas Kaufmann, il tenore più rappresentativo del momento.
Esemplare il commento Alexander Malofeev, fenomeno del pianoforte di soli 20 anni, di Mosca. In Canada gli è stato chiesto di esprimersi contro il Cremlino. «La verità - la sua risposta - è che ogni russo si sentirà colpevole per decenni a causa della terribile e sanguinosa decisione che nessuno di noi poteva influenzare e prevedere». Laddove prevale il buon senso, c'è apertura e cultura. E così, la Scala ha sì rinunciato a Gergiev, però lo ha sostituito con un giovane sotto la sua ala: dal Mariinskij nessun niet alla sostituzione, e dal pubblico applausi calorosi al giovane direttore. La Filarmonica scaligera ieri sera ha dedicato il suo concerto alle vittime della guerra senza specificare se ucraine o russe. E mentre il direttore Tugan Sokhiev si dimette sia dal Bolshoi di Mosca sia dall'Orchestra di Tolosa poiché costretto «a scegliere tra due tradizioni culturali», il concorso pianistico Van Cliburn, in Texas, sente il dovere di giustificare il fatto che accetterà candidati russi poiché «non sono funzionari del governo». Van Cliburn è il concertista americano che vinse il concorso Cajkovskij di Mosca. Correva il 1958, piena Guerra fredda. In quel momento l'arte unì Usa e Urss.
Da liberoquotidiano.it il 4 marzo 2022.
Addio al "Moscow Mule": il noto cocktail si chiamerà "Kiev Mule"o "Snake Island Mule", nome dell'isola ucraina teatro di guerra. E' la protesta simbolica lanciata da molti locali statunitensi contro la Russia, a seguito dell'invasione militare in Ucraina. La Caipiroska verrà chiamata "Caipi Island", mentre i cocktail "White Russian" e "Black Russian" diventeranno "White Ukrainian" e "Black Ukrainian".
Oltre al cambio di nomi, in molti hanno iniziato a boicottare i prodotti russi, in primis la vodka. Una mossa che, secondo gli osservatori, non ha un forte impatto sull'economia russa ma ha un valore simbolico importante perché punta a infliggere un duro colpo all'identità.
INTERFERENZE RUSSE. Putin in Italia con la rete di fondazioni finanziate con soldi del Cremlino. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 04 marzo 2022
Il Cremlino negli ultimi 15 anni ha condotto un’operazione di “contaminazione” attraverso la promozione della cultura russa.
La Russia ha costruito un modello di propaganda che sfrutta un doppio binario. Il primo visibile, riconoscibile nei suoi tratti radicali, fondato sulla disinformazione, diffusa dai gruppi editoriali controllati dal Cremlino o dagli oligarchi della cerchia di Putin.
e sigle più importanti sono tre: Rossotrudnichestvo, Fondazione Russskiy Mir e Gorchakov fund. Attraverso queste articolazioni legate al governo, la Russia cerca di legittimarsi.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
(ANSA il 4 marzo 2022) Via il concerto sinfonico con Valery Gergiev alla testa della Mariinsky Orchestra che avrebbe dovuto chiudere l'edizione 2022 del Macerata Opera Festival allo Sferisterio il 20 agosto. Lo ha annunciato il direttore artistico Paolo Pinamonti, durante la presentazione del programma 2022.
"E' evidente - ha detto Pinamonti - che di fronte alla drammatica situazione attuale e alla violenta aggressione della Russia di Putin dell'Ucraina, con la sofferenza delle popolazioni ucraine a cui va tutta la nostra solidarietà, dei soldati e i morti, questo concerto è inevitabilmente sospeso". L'eliminazione del concerto del maestro russo, considerato uno dei volti del regime di Putin, dalla programmazione del Macerata Opera Festival segue una raffica di cancellazioni in tutto il mondo.
Restano invece in calendario allo Sferisterio altri importanti concerti sinfonici e lici sinfonici con grande orchestre e celebri bacchette, tra cui l'Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino con Zubin Mehta nella Nona di Beethoven e l'Accademia di Santa Cecilia con Myung Whun Chung nella Seste e Settima di Beethoven. Comunque, secondo il nuovo direttore musicale di Macerata Opera, Donato Renzetti, "la musica non ha colore politico".
Mario Fabbroni per leggo.it il 4 marzo 2022.
«Minorati mentali. Sono tutti fuori di testa. Ma come si fa a prendersela con direttori d’orchestra oppure con grandissimi autori della letteratura mondiale per colpa della guerra tra Russia e Ucraina?».
Vittorio Sgarbi non le manda certo a dire. I suoi giudizi sono come una lama di scimitarra. Tagliano a fette, non lasciano scampo.
Anna Netrebko, la soprano russa super star, non si esibirà più al Metropolitan Opera di New York.... E anche alla Scala di Milano.
«Follia, azioni da minorati mentali».
Vale anche per il caso del direttore d’orchestra russo Gergiev, cui il sindaco di Milano, Beppe Sala, aveva chiesto di condannare la guerra?
«Vergognoso, è razzismo culturale».
Si Spieghi.
«Siamo di fronte a situazioni inconcepibili. È come se mettessimo al bando Pirandello perché era fascista».
Oppure?
«Non leggere Platone perché all’epoca, in Grecia, c’erano i colonnelli. Roba da matti».
Però si possono prendere le distanze dalla guerra.
«Certo. Ma Putin è abbagliato dall’idea della Grande Russia. E comunque non è mettendo al bando chi fa cultura che si risolve una crisi come quella che stiamo vivendo. Bisogna solo far tacere le armi».
Restando a guardare, solo perché si fa parte del mondo della cultura?
«E che colpa ne ha Dostojevski? La cultura e l’arte sono patrimonio di tutti. Sospendere un corso di letteratura sul grande autore russo Dostojevski è un atto gratuito di provocazione».
Non ha alcun senso?
«E me lo domanda? Qui siamo arrivati alla finta resa dei conti “retroattiva”. Quando Dostojevski ha scritto, di certo non immaginava di poter essere veicolo di propaganda di Putin...».
Si è capito in ritardo l’errore di sospendere un corso universitario?
«Alla Bicocca hanno dovuto fare precipitosamente retromarcia, riportando in auge il corso del prof su Dostojevski. E finirà tutto nella merda pure per la vicenda del “niet” alla Scala».
Cioè?
«Se dovessero annullare una mia conferenza per motivi ideologici, farei subito causa chiedendo un sostanzioso risarcimento. Anche il maestro Gergiev farà così, alla fine bisognerà pagarlo profumatamente».
Al Salone di libro di Torino niente delegazioni ufficiali, ma non saranno boicottati libri o autori russi. Va meglio così?
«Nient’affatto. Allora bisognava bruciare l’opera del Manzoni perché in Italia c’era il Duce».
Lo sport però ha messo al bando le nazionali e le squadre della Russia. È giusto?
«Dico solo che alle recenti Olimpiadi di Pechino sono andati tutti i Paesi. Eppure in Cina c’è un regime, una dittatura. E vogliamo parlare dei talebani, lasciati tranquillamente al potere?».
Da corriere.it il 4 marzo 2022.
Anna Netrebko non si esibirà più al Met per le due prossime stagioni almeno. La soprano si è ritirata dai suoi futuri impegni al Metropolitan Opera piuttosto che mettere in discussione il suo sostegno al presidente russo Vladimir Putin. «È una grande perdita artistica per il Met e per l’opera», ha dichiarato il direttore generale del Met Peter Gelb. «Anna è una delle più grandi cantanti nella storia del Met, ma con Putin che ha ucciso vittime innocenti in Ucraina, non c’era modo di andare avanti».
Netrebko nei giorni scorsi aveva già annunciato la decisione di sospendere momentaneamente l’attività artistica, rinunciando ai prossimi impegni: «Questo non è per me il momento di fare musica e di salire in palcoscenico. Ho quindi deciso per il momento di fare un passo indietro dai miei impegni artistici. È una decisione estremamente difficile per me ma so che il mio pubblico potrà capirla e rispettarla». La cantante il 9 marzo era attesa alla Scala per la Adriana Lecouvreur ma non verrà. Sui suoi profili social ha scritto: «Come ho già detto mi sono opposta a questa insensata guerra di aggressione e mi sto appellando alla Russia per mettere subito fine alla guerra, per salvarci tutti. Abbiamo bisogno di pace, subito».
Il direttore filo Putin
Nella mattinata del 24 febbraio, all’alba dell’invasione del territorio ucraino da parte dell’esercito russo, il sovrintendente e il sindaco Beppe Sala (che è anche presidente della Fondazione Scala), avevano scritto a Valery Gergiev una lettera «invitandolo a pronunciarsi in favore della risoluzione pacifica delle controversie, in linea con il dettato della nostra Costituzione. Non avendo ricevuto risposta a sei giorni di distanza, e a tre dalla prossima rappresentazione, risulta inevitabile una diversa soluzione». Il direttore è stato quindi sostituito con il 27enne Timur Zangiev.
Pierluigi Panza per corriere.it il 4 marzo 2022.
Il concerto degli artisti che non hanno preso le distanze dalla guerra di Putin in Ucraina si terrà al teatro Mariinskij il 6 marzo. Il teatro di San Pietroburgo, del quale Valery Gergiev è direttore generale, artistico e musicale, ha annunciato infatti un concerto con lo stesso maestro Gergiev e il pianista Danil Matsuev , ovvero i due artisti con i quali i teatri occidentali hanno sospeso la collaborazione dopo che essi non hanno preso posizione contro la guerra in Ucraina.
Il 24 febbraio, in particolare, il sovrintendente della Scala Dominique Meyer e il sindaco Beppe Sala avevano scritto a Gergiev una lettera «invitandolo a pronunciarsi in favore della risoluzione pacifica delle controversie». Non avevano ricevuto risposta.
Gergiev intanto sostituisce la direzione della «Dama di picche», che il musicista russo aveva in programma alla Scala la sera prima, il 5 marzo (a Milano dirigerà il giovanissimo Timur Zangiev; qui l’articolo sulla «deputinizzazione» della Scala, qui il dossier sul piccolo impero immobiliare di Gergiev a Milano, qui il commento di Giangiacomo Schiavi).
Il programma, per il quale sono in vendita i biglietti, prevede il concerto per pianoforte e orchestra numero 2 e la Sinfonia numero 2 di Sergei Rachmaninoff. «Abbiamo suonato centinaia di concerti in tutto il mondo — ha commentato Matsuev —, ma ogni apparizione sul palco con questo o quel concerto per me e Gergiev è un’improvvisazione».
Questo anche perché le prove, con Gergiev, sono talvolta poco certe. Ai tempi dell’Unione Sovietica dal Mariinskij scapparono in Occidente chiedendo asilo politico i due più celebri ballerini del teatro: Rudolf Nureyev e Mikhail Baryshnikov.
Altro spirito ma stesso compositore a Milano, dove il 7 marzo Riccardo Chailly dirigerà la Filarmonica al posto di Gergiev in un «Concerto per la Pace»: anche qui in programma Sergej Rachmaninov (Concerto n. 3 in re minore op. 30) e la Patetica di Tchaikovsky. Il Teatro alla Scala, intanto, sta cercando di pianificare la sua serata «in favore delle vittime» della Guerra in Ucraina.
Sarà una serata di raccolta fondi che andranno in beneficienza (quindi con prezzi significativi). Una data possibile è l’inizio di aprile. Si vorrebbe sul podio Riccardo Chailly, che il 3 aprile, però, ha già un appuntamento della stagione sinfonica per dirigere la «Resurrezione» di Mahler. L’evento potrebbe essere il giorno prima o dopo, forse. Sicuramente ci saranno Orchestra e Coro del teatro alla Scala.
La Scala, la Russia e la «deputinizzazione» del teatro: Maria Agresta al posto di Anna Netrebko, Chailly per Gergiev. Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.
Le mosse del teatro alla Scala dopo il silenzio di Valery Gergiev e il forfait di Anna Netrebko. Ma il direttore d’orchestra filo-Putin resta socio onorario della Filarmonica
Anna Netrebko e Valery Gergiev
Dal primo atto, il caso Valery Gergiev (qui il suo impero immobiliare a Milano), al secondo atto, il caso Anna Netrebko (qui la vicenda). Congedato il maestro russo, che non ha risposto alla lettera con la quale il sindaco e presidente del Teatro, Giuseppe Sala, gli chiedeva di prendere le distanze da questa guerra («non di abiurare il passato») siamo precipitati in pieno caso Netrebko. Il soprano russo, che ha inaugurato la stagione lo scorso 7 dicembre come Lady Macbeth, era attesa in calendario alla Scala il prossimo 9 marzo per una recita dell’opera «Adriana Lecouvreur» di Francesco Cilea. Forse intendo che si andava verso un caso delicato, l’altro giorno, annunciando la rinuncia a Gergiev il sindaco Sala aveva aggiunto: «Il caso della Netrebko è diverso rispetto a quello di Gergiev, perché lei ha condannato la guerra».
Il soprano e i social
In effetti il soprano lo ha fatto su un social. Ma già dall’altra sera si era capito che le cose si mettevano male. Il soprano non si era presentato alle prove e aveva inoltre postato su Instagram un messaggio nel quale smentiva di essere malata (come attribuito da alcune fonti): si diceva in perfetta salute, ma che «is not coming» (non sta venendo). Questo post faceva intendere di essere del tutto intenzionata a non cantare alla Scala e il teatro ne aveva subito preso atto. Ieri i messaggi del soprano, anch’essa come Gergiev ben medagliata da Putin, sono stati ulteriormente ambigui. Nella tarda mattinata aveva postato sul proprio Instagram sia una condanna contro «la insensata guerra di aggressione della Russia» che una foto che la ritraeva insieme al suo scopritore, Gergiev appunto. Passate un paio d’ore, il soprano russo ha cancellato tutto rendendo, per altro, il sito inaccessibile. Poi una dichiarazione a giustificare il forfait: «Questo non è per me il momento di fare musica e di salire in palcoscenico. Ho quindi deciso per il momento di fare un passo indietro dai miei impegni artistici. È una decisione estremamente difficile per me ma so che il mio pubblico potrà capirla e rispettarla».
Netrebko e la guerra
In precedenza aveva fatto sapere: «In primo luogo sono contro questa guerra. Sono russa e amo il mio Paese ma ho molti amici in Ucraina e le sofferenze mi spezzano il cuore. Voglio che questa guerra finisca e che le persone possano vivere in pace. Questo è quello in cui spero e per cui prego. Voglio però aggiungere una cosa: forzare gli artisti o qualsiasi personaggio pubblico a fare sentire le proprie opinioni politiche e a denunciare la sua terra natale non è giusto. Dovrebbe essere una scelta libera», aveva aggiunto ricordando di «non essere una politica» «ma un’artista il cui scopo è unire le persone dove la politica le divide».
Maria Agresta nella «Adriana Lecouvreur»
La Scala, preso atto del forfait, ha pensato a come sostituirla. Al suo posto, come sarà annunciato formalmente oggi in conferenza stampa, sarà l’italiana Maria Agresta, che già era in cartellone per altre serate della stessa opera. Ma come se non bastasse la guerra si è rifatto vivo pure il Covid. Il cantante protagonista dell’opera, nel ruolo di Maurizio, ovvero Freddie De Tommaso, è risultato positivo al test e deve dare forfait pure lui. L’aspetto curioso è che nella «Adriana Lecouvreur» è previsto in scena anche il marito della Netrebko, il tenore Yusif Eyvazov che, per ora, non ha cancellato. Eyvazov, non è russo: è un tenore azero nato in Algeria e cresciuto nell’Arzebaigian (all’epoca Unione Sovietica), che vive a Mosca con la Netrebko e il loro bambino.
Chailly alla Filarmonica
Il direttore principale della Filarmonica, Riccardo Chailly, ha invece accettato di dirigere il concerto della Filarmonica previsto per lunedì 7 marzo, quello che prevedeva in cartellone Gergiev. Il concerto, fanno sapere l’orchestra e il maestro, «sarà dedicato alle vittime della guerra e in favore della pace». Il programma subisce, però, una variazione: la nuova locandina presenta il Concerto n. 3 in re minore op. 30 di Sergej Rachmaninov e la Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 Patetica di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Confermata la presenza del giovanissimo solista Mao Fujita alla sua prima esibizione in Italia.
Gergiev socio onorario Filarmonica
Per completare la «deputinizzazione» della Filarmonica della Scala resta in ballo la nomina di Gergiev a «socio onorario», per ora non cancellata. Nessun problema, invece, per altri cantanti o ballerini russi che continueranno a partecipare alle rappresentazioni, anche insieme ad artisti ucraini. Quanto alla 23ma edizione della Triennale di Milano, invece, ci sarà il Padiglione della Ucraina, ma non quello della Russia. Lo ha deciso il presidente di Triennale, Stefano Boeri, che sui canali social ha dichiarato: «Stante l’attuale drammatica situazione in Ucraina causata dalla folle, violenta e ingiustificata aggressività dell’esercito russo è stato ritirato l’invito al Governo russo a partecipare con un proprio padiglione alla prossima Esposizione Internazionale».
Inquisizione, deriva totalmente illiberale: a Quarta Repubblica scoppia il caos sul direttore della Scala amico di Putin. Il Tempo l'01 marzo 2022.
Valery Gergiev è stato fatto fuori dalla Scala di Milano in quanto ritenuto dal sindaco Beppe Sala troppo vicino a Vladimir Putin. “Non dirigerà la Dama di picche” la notizia sul direttore d’orchestra, che ha deciso di non dissociarsi dalle azioni della Russia in Ucraina. Nella puntata del 28 febbraio di Quarta Repubblica, talk show del lunedì di Rete4 condotto da Nicola Porro, l’argomento è rovente e il primo ad intervenire è Vittorio Sgarbi: “Non appartiene a nessun partito e quando senti Sala che non lo vuole far suonare è inquisizione e fare quello che fa Putin”.
Poi tocca a Stefano Cappellini, tra i volti più noti di Repubblica: “Gli si sta rimproverando una mancata presa di posizione in un momento storico particolare”. “Non si sta giudicando l’artista” spiega il giornalista. Non è dello stesso avviso Hoara Borselli, che attacca: “Questa è una deriva totalmente illiberale, allora a tutti gli artisti dobbiamo chiedere un certificato di purezza?”.
La cacciata di Gergiev e il moralismo da salotto di Beppe Sala. Il licenziamento del direttore d’orchestra, cacciato dalla Scala in quanto non si sarebbe dissociato da Putin, è una triste pagina della nostra vita culturale. Un’operazione farlocca, concepita per tutelare il buon nome della Scala e per poter consumare l’aperitivo con la coscienza tranquilla. Daniele Zaccaria su Il Dubbio l'1 marzo 2022.
Il licenziamento del direttore d’orchestra Valery Gergiev, cacciato dalla Scala in quanto non si sarebbe dissociato da Vladimir Putin è una triste pagina della nostra vita culturale. E la disinvoltura con cui il Sindaco Beppe Sala ha annunciato la fine della collaborazione con il maestro russo un capolavoro di ipocrisia benpensante: «Non gli ho chiesto un’abiura, ma soltanto di prendere le distanze dalla guerra», spiega il felpato primo cittadino di Milano giocando a briscola con le parole. Sala e il sovrintendente Dominique Meyer chiedevano in sostanza a Gergiev di sottoscrivere una lettera preconfezionata in cui si auspicava «una soluzione pacifica del conflitto». E non avendo ricevuto risposta gli hanno dato il benservito.
Un’operazione farlocca, in perfetto stile “saliano”, concepita per tutelare il buon nome della Scala e per poter consumare l’aperitivo con la coscienza tranquilla. Roba da operetta. Ma a cosa (e a chi) serve la pubblica dissociazione di un artista dalle scelte suo governo se non a umiliarlo? Si ribatte che molti vip russi, soprattutto sportivi, hanno criticato l’invasione dell’Ucraina, omettendo di dire che quasi tutti vivono all’estero e non rischiano grandi ritorsioni. Pare invece che Gergiev sia vicino all’entourage di Putin. Non sappiamo quanto questo sia vero e quanto il direttore d’orchestra sia organico alla cerchia del Cremlino. Di certo non ha alcuna responsabilità per i bombardamenti delle forze armate russe sulle città ucraine.
Eppoi: ammettendo che non sia personalmente favorevole a questa sciagurata guerra, avrebbe mai la libertà di poterlo affermare senza subirne le conseguenze? Se è facile fare i moralisti con le terga altrui, pretenderlo è un metodo decisamente schifoso. Visto che Gergiev non ha mai rilasciato nessuna dichiarazione sulla crisi attuale, non è stato accusato di un reato di opinione come scrivono alcuni. Qui siamo oltre, e cioè al reato di “non opinione”: chi tace acconsente, chi tace è complice. E invece chi tace sta zitto. Che poi la facoltà di non rispondere è uno dei diritti fondamentali delle persone sospettate. Il piccolo tribunale meneghino che lo ha licenziato in tronco questo dovrebbe saperlo.
Lorenzo Santucci per formiche.net il 14 aprile 2022.
Valery Gergiev è il direttore d’orchestra più importante che la Russia può vantare, tanto che Vladimir Putin lo ha nominato anni fa come ambasciatore della cultura russa all’estero. Una volta caduta l’Unione sovietica, Gergiev ha infatti avuto la possibilità di girare il mondo, far conoscere il suo talento che gli ha permesso di essere a capo della celebre orchestra del teatro Mariinsky di San Pietroburgo ma, soprattutto, era l’uomo perfetto per ripulire l’immagine di un Paese che stava lentamente cadendo sotto l’autoritarismo del suo presidente.
Tuttavia, i viaggi non si fermavano all’aspetto culturale ma, spesso, erano occasioni per concludere affari loschi. A smascherarlo, una lunga inchiesta del team di Alexei Navalny che, con la pubblicazione di documenti originali, ha ripercorso la storia di Gergiev. Che di professione fa il maestro d’orchestra, è vero, ma è molto di più.
Con ordine. Gergiev è innanzitutto uno degli uomini più fidati di Putin, con cui si è presentato la prima volta negli anni Novanta a San Pietroburgo. Ma conoscere lo zar e diventarci amico vuol dire anche presentarsi alla sua cerchia e, quindi, in poco tempo Gergiev è diventato il Maestro del Cremlino nonché un ministro degli Esteri sotto falso nome. Il suo volto doveva essere immediatamente associato alla Russia, distraendo così da quanto accadeva all’interno del Paese o in quelli vicini, con la responsabilità di Mosca.
È stato così nel concerto organizzato tra le rovine di Palmira, in Siria, per celebrare la cacciata degli estremisti (magistrale il racconto di Mattia Bagnoli in Modello Putin, edito da People), con tanto di medaglia donata dallo zar. Ha portato la bandiera olimpica in apertura dei Giochi. Ha suonato nella Piazza Rossa in occasione dei Mondiali di calcio in Russia di quattro anni fa. Ha organizzato un concerto di beneficenza a Rotterdam, dove ha lavorato per venticinque anni, in ricordo delle vittime del Boeing MH17, abbattuto sopra il Donbass controllato dai filorussi. Ha preso parte a diversi spot elettorali dove il monito è facilmente intuibile: se vuoi rispetto per la Russia, vota Putin.
È come se Gergiev fungesse da parafulmini e dovesse attirare l’attenzione per distogliere quella sull’ex KGB: “Suonerò Ciajkovskij, Shostakovich, Stravinsky, ma non guardare i suoi crimini”, scrivono con ironia i giornalisti del gruppo di Navalny. Il dissidente numero uno in Russia ci era andato giù pesante con Gergiev, definendolo un “bugiardo e ipocrita, che sta pulendo la reputazione del suo presidente, un criminale, per tangenti e compensi folli”.
Parole a cui l’inchiesta scritta fornisce ulteriore concretezza. Una delle passioni del musicista sono le case, a quanto pare. Ne ha molte, ma fa finta di non averle mai comprate. Come quella a New York, comprata nel 2004 vicino a Central Park e, più precisamente, nel Lincoln Center che dista pochi minuti al Metropolitan Opera dove Gergiev è di casa quando si reca negli Stati Uniti.
Un appartamento al 56esimo piano, con tre camere da letto, tre bagni, un soggiorno con una bella vista sulla città: in tutto, 165 metri quadri al prezzo di 2,5 milioni di dollari, mai dichiarati. Sì, perché per essere coerente con la propaganda putiniana, avere un bell’appartamento in una delle città più emblematiche dell’Occidente rischia di essere una stonatura non da poco.
E Putin lo aiuta, in quanto secondo la legge dovrebbe essere licenziato dal suo incarico al teatro Mariinsky e, invece, è ancora lì. Il fatto che ne sia il legittimo proprietario sembra esser fuor di dubbio visti i documenti rilasciati dal team giornalistico che, per avere ulteriore conferma, ha aspettato il direttore d’orchestra fuori la Scala a Milano, dove Gergiev ha diretto La Dama di Picche. Fingendo di chiedergli un autografo, sono stati in grado di confrontare le due firme.
Il giorno dopo è scoppiata la guerra e siccome non ha mai preso le distanze dall’invasione, il sindaco Giuseppe Sala ha deciso di chiudergli la porta della Scala. A Milano ci potrà tornare, anzi, ci dovrà tornare. Qui, secondo quanto scritto nell’inchiesta, Georgiev possiede 800mila metri quadrati di terra: case, terreni e perfino un parco affittato alla città. Ma ha terre e ville in tutta Italia: a Roma, a Massa Lubrense (poco distante da Sorrento), dove possiede 56mila metri quadrati di spazio così come i 5,5 ettari sul promontorio di Napoli, a Rimini, dove nell’hinterland ha un bar (chiuso), un ristorante (lo United Tastes of Hamerica’s), un parco giochi (aperto d’estate), campi da baseball, un camping, oltre a proprietà e proprietà per quasi 30 ettari.
Molte di queste proprietà sono frutto di un regalo: l’arpista giapponese Yoko Nagae aveva sposato il conte Renzo Ceschino che, quando passò a miglior vita, le lasciò 190 milioni di dollari. La maggior parte li spese in musica e, in particolar modo, per supportare quel Gergiev che tanto le piaceva. Ha donato soldi per ristrutturare il Mariinsky, ha partecipato all’acquisto di strumenti musicali e preso parte a concerti e tournée del maestro. Quando anche lei morì, quello che il marito le donò passò a Gergiev.
A Venezia, il maestro è proprietario delle mura del ristorante Quadri, a piazza San Marco, un crocevia di turisti e non. Eppure nel fare l’imprenditore non c’è alcun male – dipende in che modo, è vero – e pertanto a finire nell’occhio dell’inchiesta giornalistica è un altro edificio. La sua società Commercio Edilizio SLR, che risponde a Gergiev, possiede Palazzo Barbarigo a Venezia, dove il maestro potrebbe andare ad abitare e per questo è in via di ristrutturazione (la ditta era titolare anche di altre sette appartamenti a Milano, venduti per un totale di 47 milioni di euro).
Secondo i documenti di cui sono entrati in possesso i giornalisti, Gergiev sarebbe socio al 100% della ditta ma, nei dati che ha fornito, non risulta un cittadino russo bensì olandese – a cui avrebbe anche diritto visto che ci ha vissuto per molti anni ed è stato insignito dell’alta onorificenza dell’Ordine del Leone direttamente dalla regina.
Il valore patrimoniale di Gergiev, solo in Italia, ammonta a oltre 100 milioni di euro, ma dichiarati al fisco russo visto che è dal 2017 che ha smesso di farlo. Ovviamente, rientra nell’illegalità non presentare i propri redditi così come illegali sono le operazioni che Gergiev porta avanti a nome della sua fondazione di beneficenza, Gergiev Charitable Foundation. In teoria, questa avrebbe una missione molto nobile in tema artistico – come la promozione della cultura e il supporto dei giovani talenti – e riceve donazioni dalle varie VTB Bank, Russian Railways, Rosseti, Sberbank, ma anche Mastercard, Nestlé e PWC. Negli ultimi quattro anni, nelle casse della fondazione sono entrati oltre 4 miliardi di rubli.
Il problema sta nel fatto che con gli utili della fondazione Gergiev soddisfa i suoi vizi, come case dal valore milionario, terreni e conti al ristorante: ben 375mila euro pagati a un pub di Monaco, meno in un ristorante a New York e per una visita medica a Baden-Baden, sempre in Germania, per cui ha speso complessivamente 5mila euro. E poi un altro milione e mezzo di rubli per cognac, whiskey, vodka e champagne, altri 2,5 milioni di rubli per un volo in business class. Ha utilizzato i soldi della fondazione – e non del guadagno che gli spettava – anche per pagare la ristrutturazione e le bollette del suo appartamento. Operazioni che con la beneficenza hanno molto poco a che fare.
Come giustificare tutto questo? Con l’assenso di Putin, ovvio. Si tratta infatti di quel patto non scritto tra lui e suoi fedelissimi che potrebbe essere riassunto con la semplice formula: “Fa quel che vuoi, purché mi sostieni”. Così ha fatto fino ad oggi anche Valery Gergiev, il più grande maestro d’orchestra russo in circolazione che di fronte all’invasione russa in Ucraina ha scelto la sua musica preferita: il silenzio.
Anna Netrebko non viene alla Scala: «Costringere a denunciare la terra d’origine non è giusto». Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera l'1 marzo Febbraio 2022.
Il soprano russo salta le prove. L’annuncio su Instagram: sto bene, ma non verrò a Milano il 9 marzo per la «Adriana Lecouvrer». Il Teatro alla Scala taglia il maestro filo-Putin Valery Gergiev.
«Non credo che ci sarà, a questo punto credo che lo possiamo escludere».
Il sindaco di Milano e presidente del Teatro alla Scala, Beppe Sala, ha confermato quello che è chiaro da giorni. Valery Gergiev, il maestro filo Putin direttore per una notte della Dama di Picche (la notte dell’invasione dell’Ucraina), non tornerà a dirigere al Piermarini. «Lui non ha risposto e io non ho chiesto nessuna abiura. Ho chiesto un no alla guerra», ha sottolineato. «Gergiev è ripartito e non ha risposto». La Carnegie Hall e i Wiener lo hanno già rispedito a casa; lo stesso la Filarmonica di Monaco, Parigi e Rotterdam, mentre Londra ha chiuso i rapporti con il Bolshoi (era prevista una tournée).
Chailly al posto di Gergiev alla Filarmonica
La Scala procederà tra breve appena avrà trovato un nuovo direttore per la Dama di picche, opera in russo nella quale si vedono russi con mitra in mano che esclamano: «La patria salveremo, / insiem combatteremo, /nemici innumerevoli / in schiavitù trarremo». Quanto al concerto della Filarmonica del 7 marzo si attende l’ufficializzazione della sostituzione di Gergiev con Riccardo Chailly. Gergiev, all’oggi, resta socio onorario della Filarmonica. Chi l’ha già «scaricato» è anche il suo agente, Marcus Felsner: «È diventato impossibile per noi, e chiaramente sgradito, difendere gli interessi del maestro Gergiev».
Anna Netrebko
Nonostante la dichiarazione contro la guerra, anche il soprano Anna Netrebko è destinata a non venire alla Scala. Il 9 marzo è attesa alla Scala per la Adriana Lecouvreur ma si è scoperto che non si è presentata alle prove. E su Instagram ha lasciato intendere che non ha nessuna intenzione di presentarsi: «Sono in salute, ma non verrò». Sempre lunedì il direttore generale del Met, Peter Gelbha, aveva dichiarato che sospenderà le collaborazioni con tutti gli artisti che hanno sostenuto il regime di Putin, lasciando intendere anche la Netrebko, che aveva scritto: «Costringere a denunciare la propria terra d’origine non è giusto».
DAGONOTA il 28 febbraio 2022.
Tornato dalla Cina sventolando la bandiera olimpica, cioè arrivando dal paese comunista ospitante i giochi invernali che minaccia di occupare militarmente Tawian, il sindaco Beppone Sala si è calato l’elmetto per sparare alzo zero contro il direttore d’orchestra russo Valery Gergiev, accusato di essere un fedelissimo del Putin che invade e insanguina l’Ucraina.
Il che è vero, ma non è il solo in Italia e in Europa, soprattutto nel mondo degli affari e della finanza, a essere in comunella con lo zar di Mosca. Gli ex leader francese Fillon e l’ex cancelliere tedesco Schroeder da anni sono dei lobbisti al servizio dello zar di Mosca.
L’Italia, su proposta del ministro degli Esteri, ha nominato Cavalieri del lavoro ben due ministri di Putin: Mikhail Vladimirovich Mishustin, primo ministro della Federazione Russa, e Denis Valentinovich Manturov, suo collega al Commercio e industria. Un “do” di petto inaspettato (o forse una stecca?) per la sua tempistica quello di Sala, che ha colto di sorpresa sia gli amministratori della Scala sia il sovrintendente Dominique Meyer.
“Ma ormai il presidente-sindaco sembra essere etero diretto dai sindacati com’è accaduto con il caso Regeni e la falsa trasferta dell’orchestra al Cairo”, sbuffa uno degli sponsor del teatro. Basta, insomma, fare il primo della classe senza tenere conto degli equilibri del teatro solo per battere sul tempo la Carnegie Hall di New York e la Filarmonica di Vienna che hanno cancellato i prossimi concerti di Gergiev, ma senza pentimenti pubblici.
Per aggiungere:” È sacrosanto condannare l’irruzione dei carri armati russi con la sua scia di morte, altro è il tono dell’ultimatum: in pratica chiedere al maestro Gergiev di ripudiare alle ragioni del suo paese sia pure sbagliate. Se non lo farà, si legge nel comunicato, la Scala farà a meno della sua collaborazione. Forse senza nemmeno rendersi conto degli effetti anche umani e drammatici del suo ukase e del prestigio che il maestro ha dato alla Scala. Potevano cancellare le sue prossime esibizioni senza pretendere altro sul tema della coscienza”.
Già. Tema assai sensibile quello del rapporto tra arte e politica; tra “purezza e propaganda” che ha attraversato tragicamente il secolo scorso. Sul “Corriere” Pierluigi Panza osserva che la carriera di Gergiev, caro amico di Putin, “è stata al contrario” di quella del ballerino Nureyev.
Ma siamo ai tempi della cortina di ferro. Tant’è che l’étoile nel 1966 fu costretta a chiedere asilo politico. Com’è capitato a tanti altri dissidenti nel campo della cultura finiti in esilio o, peggio, nei lager senza mai interrompere del tutto i rapporti e gli scambi culturali tra paesi nel pieno della Guerra Fredda. A iniziare dagli Stati Uniti.
E adesso, ci s’interroga perplessi se l’abiura pretesa per Gergiev riguarderà anche altri personaggi vicini e contigui alla Scala. Oppure il Beppe se la caverà spezzando la bacchetta al maestro Gergiev come facemmo con i Greci nella seconda guerra mondiale? Prendiamo il caso di Abramo Bazoli, consigliere del teatro, sponsor e nume tutelare di BancaIntesa, istituto che ha vasti interessi nell’ex Urss.
Nell’aprile 2017, il Presidente della Russia, Vladimir Putin, ha insignito dell’Ordine dell’Amicizia il suo amministratore delegato, Carlo Messina, e il presidente della Banca IMI Gaetano Miccichè. Mentre l’Ordine dell’Onore fu assegnato al Presidente di Banca Intesa Russia Antonio Fallico. Saranno riconsegnate al mittente le onorificenze ricevute al Cremlino da Messina e company?
Forse il primo inquilino di Palazzo Marino ignora che il primo ballerino del Bolshoi è l’italiano Jacopo Tissi, con cui si è esibito recentemente alla Scala nella “Bayadere”? Dovrà attaccare le scarpette al chiodo senza una abiura pubblica dell’odiato regime dispotico dove danza “da russo”?
Scala ha dimenticato la fraterna amicizia tra Silvio Berlusconi, uno dei primi imprenditori milanesi (anche nel pagare le tasse), e il lettone che divideva con Vladimir a Villa Certosa in Sardegna? Il sindaco chiederà al Cavaliere di bruciare le lenzuola consumate in quell’amicizia fraterna?
L’ukase lanciato dal sindaco Beppe Sala, che rappresenta la città e non soltanto la Scala, non può restare circoscritto a un direttore d’orchestra, ch’è – tra l’altro -, è “socio onorario” del teatro scaligero e suscita perplessità e interrogativi. Gergiev sarà degradato in piazza Loreto?
Al sindaco “ghe pensi mi” (Tino Scotti) meticoloso e vanesio nel mostrarsi quotidianamente su Instagram, va ricordato l’ammonimento dello scrittore Ambrose Bierce: “Lo zelo è una malattia nervosa che colpisce talvolta i giovani e gli inesperti”.
Dagospia. Anastasia Tsioulcas su npr.org il 27 febbraio 2022.
Il famoso teatro dell'opera di New York, il Metropolitan Opera, ha annunciato domenica che sospenderà i suoi rapporti con artisti e istituzioni russe alleate con il presidente Vladimir Putin.
In una dichiarazione video pubblicata su Facebook, il direttore generale del Met, Peter Gelb, ha espresso solidarietà al popolo e alla leadership dell'Ucraina e ha affermato: "In quanto compagnia d'opera internazionale, il Met può aiutare a suonare l'allarme e contribuire alla lotta contro l'oppressione... non possiamo più impegnarci con artisti o istituzioni che supportano Putin o sono da lui sostenuti, non fino a quando l'invasione e le uccisioni non saranno state fermate e l'ordine non sarà stato ripristinato".
In un'intervista al New York Times Sunday, Gelb ha aggiunto: "È terribile che le relazioni artistiche, almeno temporaneamente, siano il danno collaterale di queste azioni di Putin". Gelb non ha specificato quali istituzioni e artisti intende sospendere dalle collaborazioni, ma tre dei più importanti che sono stati attivamente alleati con Putin sono il Teatro Mariinsky (ex Kirov) di San Pietroburgo; il suo direttore generale e artistico, il direttore d'orchestra Valery Gergiev, che è anche l'ex direttore ospite principale del Met ; e il soprano Anna Netrebko, che appare spesso sul palco del Met.
Il Met ospiterà anche una produzione dell'opera Lohengrin di Wagner dall'Opera Bolshoi di Mosca nel marzo 2023. Il Bolshoi, come il Mariinsky, riceve il sostegno dello stato russo. (Venerdì, la Royal Opera House di Londra ha cancellato le apparizioni in tournée del Bolshoi Ballet che erano state programmate per questa estate.)
La mossa del Met arriva quattro giorni dopo che la Carnegie Hall e l'Orchestra Filarmonica di Vienna hanno cancellato Gergiev e il pianista Denis Matsuev da una serie di tre concerti a causa degli stretti legami dei due musicisti con Putin.
Il Met occupa una posizione particolarmente importante quando si tratta di alleanze con istituzioni e artisti russi. Per anni, il Met, sotto la guida di Gelb, ha portato produzioni e artisti dal Teatro Mariinsky al pubblico americano.
Valery Gergiev è stato un attivo sostenitore e amico di Putin sin dal loro primo incontro nel 1992. Nel 2014, Gergiev ha espresso il suo sostegno alle azioni di Putin a Donetsk. (Donetsk è una delle aree controllate dai separatisti che Putin ha riconosciuto come regione indipendente lunedì scorso.)
Nel 2013, Putin ha rilanciato un premio dell'era staliniana per Gergiev, assegnandogli il premio Eroe del lavoro della Federazione Russa, un anno dopo che Gergiev è apparso in un video della campagna elettorale di Putin, proclamando il suo sostegno. Putin è stato un sostenitore del Teatro Mariinsky mentre prestava servizio come vice sindaco di San Pietroburgo.
Domenica, il manager europeo di Gergiev, Marcus Felsner, ha annunciato che lo avrebbe lasciato come cliente a causa dei suoi legami con Putin. Negli Stati Uniti, Gergiev è rappresentato dal manager Douglas Sheldon, la cui scuderia comprende anche la Mariinsky Orchestra e la National Symphony Orchestra of Ukraine.
Inoltre, i sindaci e gli amministratori artistici di tre città europee hanno dato l’aut aut a Gergiev: o il direttore d'orchestra prende le distanze da Putin e denuncia l'invasione, altrimenti sarà licenziato.
In Germania, il sindaco di Monaco Dieter Reiter ha affermato che se Gergiev non denuncerà l'invasione entro lunedì, sarà estromesso dal suo ruolo di direttore principale della Filarmonica di Monaco. Nei Paesi Bassi, l'Orchestra Filarmonica di Rotterdam ha dichiarato che interromperà i concerti di Gergiev programmati a settembre se il direttore non si separerà da Putin.
Al leggendario teatro dell'opera La Scala di Milano, Gergiev dovrebbe dirigere le rappresentazioni dell'opera Dama di Picche di Ciajkovskij fino al 15 marzo. Il sindaco Giuseppe Sala ha detto che se Gergiev manterrà i suoi rapporti con Putin "la collaborazione sarà finita", secondo il Corriere della Sera.
Inoltre, la soprano Anna Netrebko, la cui ascesa internazionale è stata strettamente intrecciata con le sue frequenti apparizioni al Met, sarà probabilmente influenzata dalla decisione del Met. La sua prossima apparizione in programma al teatro dell'opera di New York è il 30 aprile, nel ruolo della protagonista dell'opera Turandot di Puccini.
Come Gergiev, Netrebko è legata a Putin da decenni. Nel 2012, approvando la sua elezione, ha detto in un'intervista che avrebbe voluto avere la possibilità di essere l'amante di Putin, poiché ammirava la sua "forte energia maschile". Non molto tempo dopo l'annessione della Crimea nel 2014, Netrebko (divenuta cittadina austriaca nel 2006) ha donato una somma di denaro al teatro dell'opera di Donetsk , gestito da un leader separatista filo-russo, Oleg Tsaryov. Sono stati fotografati insieme con in mano una bandiera separatista russa.
In una dichiarazione pubblicata su Instagram sia in russo che in inglese sabato, un giorno prima dell'annuncio del Met, Netrebko ha scritto di essere "contraria a questa guerra" e ha affermato di "non essere una persona politica". Ma ha proseguito: "Costringere gli artisti, o qualsiasi personaggio pubblico, a esprimere pubblicamente le proprie opinioni politiche e a denunciare la propria terra d'origine non è giusto. Io non sono un politico, non sono esperta in questioni politiche. Sono un’artista e il mio scopo è di unire la gente dalle divisioni politiche».
In una storia su Instagram, poi cancellata, Netrebko ha tuonato: "È particolarmente spregevole da parte di persone che vivono in Occidente, comodamente sedute a casa, senza paura per la propria vita, fingere di essere coraggiose e pretendono di “combattere” gettando gli artisti nei guai. Questa è solo ipocrisia da parte loro. Queste persone pensano che essere dalla "parte giusta" permetta loro tutto, sono solo delle merde umane. Sono malvagi quanto gli aggressori”.
Pierluigi Panza per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
«Abbiamo alla Scala "La dama di picche" diretta dal maestro Valery Gergiev, che ha più volte dichiarato la sua vicinanza a Putin. Con il sovrintendente gli stiamo chiedendo di prendere una posizione precisa contro questa invasione; se non lo facesse saremmo costretti a rinunciare alla collaborazione».
Lo ha dichiarato il sindaco di Milano e presidente del Teatro, Giuseppe Sala. «Se il direttore non prenderà una posizione, nelle prossime rappresentazioni, dal 5 marzo, si troverà un altro maestro».
Un trionfo per la Cisl, unico sindacato ad aver chiesto questa soluzione («Accogliamo con soddisfazione la dichiarazione: Milano si conferma città di pace e democrazia») ma la risposta a questo ultimatum, trasmesso con lettera, non poteva arrivare nella giornata di ieri in quanto il maestro Gergiev - noto per non fare molte prove - era in volo verso New York dove oggi, domani e dopo era atteso per tre concerti alla Carnegie Hall con i Wiener Philharmoniker.
Ma fin dall'altro ieri il suo arrivo non appariva il benvenuto. Un gruppo di protesta si era organizzato sul sito dell'attivista Valentina Bardakova e l'influente critico Norman Lebrecht aveva chiesto alla Carnegie Hall di annullare i concerti «prima che i suoi sponsor si sollevino in protesta».
Lebrecht aveva anche ricordato come «Denis Matsuev e Gergiev, nel marzo 2014, si sono uniti a una miriade di figure culturali russe nel firmare ufficialmente una lettera aperta di sostegno per invadere l'Ucraina» (lettera sul sito del Ministero della Cultura Russa: la firma di Gergiev è la 97). Queste pressioni hanno agito sui vertici della Carnegie e dei Wiener perché nella notte italiana, il mattino negli Usa, i vertici del teatro hanno preso la decisione di rispedire Gergiev a casa e hanno deciso pure di cancellare un futuro concerto di Matseuv.
Al suo posto Yannick Nézet-Séguin. Tutta la carriera di Gergiev è stata l'opposto di quella di Nureyev, Rostropovich e Barynikov: viaggia con l'aereo del «caro amico Putin, uno degli uomini più intelligenti del mondo», ha ricevuto da lui tutte le onorificenze del Paese, mai una parola sui casi Litvinenko, Politkovskaya, Nemtsov. Durissime erano giunte ieri anche le dichiarazioni contro Putin e contro chi ospiterà Gergiev del pianista russo Alexander Kobrin: «La musica non può essere fuori dalla storia.
Molti musicisti noti che sostengono apertamente il governo criminale russo (chiaro riferimento a Gergiev, ndr ) si esibiscono in tutti quei luoghi che consideravano nemici del governo russo, Usa, Europa, Giappone godendo di tutti i benefici finanziari e artistici. Sono ipocriti e bugiardi. Ma ipocriti sono anche quelli che li invitano sapendo che quelle persone hanno firmato documenti a sostegno dell'aggressione, a sostegno di leggi barbariche, come la punizione per propaganda gay. Vergogna. Credo che la gente sia accecata dalla propaganda e dalla paura proprio come in Germania sotto il regime nazista».
Anche Oksana Lyniv, ucraina e da gennaio direttrice del Teatro comunale di Bologna, aveva affermato che «tutti siamo responsabili della pace in Europa poiché da ieri, in Ucraina, si è vista la vera faccia di Putin. Chi tace sostiene il dittatore». Come finirà alla Scala? La cancellazione dei concerti americani ha sicuramente tracciato la strada per Milano e anche per Monaco di Baviera. Impossibile attendere l'abiura di Gergiev o una frasetta di accordo.
Ucraina, Vittorio Feltri: "La nota stonata di Sala, Gergiev con Putin e la guerra non c'entra". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.
Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha dimostrato di essere un inossidabile conformista già tempo fa. Il suo programma politico è noto: lotta dura alle automobili, la cui circolazione ormai è pressoché impedita, divieti di sosta dappertutto, largo ai monopattini che infestano ogni quartiere, e piste ciclabili buone per ottenere il risultato di paralizzare il traffico. Sorvoliamo sull'ordine pubblico: le bande di giovinastri che promuovono pestaggi, organizzano spedizioni punitive, aggrediscono passanti, non vengono combattute e dilagano a loro piacimento. Ne prendiamo atto, la colpa non è solo del signore di Palazzo Marino, ma soprattutto di chi lo ha votato confermandogli la poltrona. In questi giorni egli ha toccato il fondo nei panni di presidente della fondazione Scala, teatro di livello mondiale. Sapete cosa ha fatto? Ha chiesto a Gergiev, direttore d'orchestra di celebrata bravura, noto in qualsiasi angolo della terra, di firmare una dichiarazione solenne nella quale condanna Putin per via della guerra all'Ucraina.
Che è già una scemenza in quanto il provetto musicista è russo e chiedergli una abiura, onde rinnegare il presidente del proprio Paese, è un atto che rasenta la follia. Ma non è tutto. Sala proditoriamente ha aggiunto: se lei non accetta di prendere le distanze in modo netto dal padrone del Cremlino, sarò costretto a impedirle di dirigere l'orchestra della Scala. Una presa di posizione volgare e inammissibile. Infatti Gergiev è stato ingaggiato proprio per dirigere la grande orchestra milanese e non per fare predicozzi politici da utilizzarsi a fini propagandistici. Come si permette Sala di assumere iniziative simili nei confronti di un rinomato musicista, delle cui opinioni sulla guerra in corso non importa un accidenti a nessuno? Chi frequenta il massimo teatro cittadino e direi nazionale chiede di ascoltare le prodezze del direttore, infischiandosene altamente se questi è amico o avversario del tremendo moscovita. Le questioni belliche non devono interferire nelle manifestazioni artistiche, questo lo capisce anche un usciere del municipio, mentre il sindaco insiste: o dici che Putin è un farabutto oppure ti cacciamo come una cameriera a ore. Ma l'unico a meritare di essere licenziato, o almeno di essere degradato a fattorino, è l'arrogante Sala.
Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 27 Febbraio 2022.
Una volta tanto il mondo della Cultura esce dal suo umbratile salottino per ricollocare le arti e anche l'intrattenimento («Eurovision») nel mondo della vita. Il «caso Gergiev», ovvero il rifiuto da parte dei teatri di tutti i Paesi democratici di far dirigere il maestro russo sostenitore di Putin, firmatario di un documento a favore dell'invasione della Crimea, supporter della legge anti-gay, è solo la prima «sanzione» per far sentire la Russia di Putin culturalmente isolata.
La Carnegie Hall e i Wiener lo hanno già rispedito a casa; lo stesso la Filarmonica di Monaco (sarà defenestrato oggi) e Rotterdam, mentre Londra ha già chiuso i rapporti con il Bolshoi.
Anche la Scala, dove ieri c'è stato un minuto di silenzio per le vittime della guerra, domani o dopo annuncerà che non c'è stata risposta da parte di Gergiev alla lettera del sindaco Giuseppe Sala, che gli chiedeva di condannare l'invasione dell'Ucraina (non di abiurare il passato) e procederà con l'indicazione di un nuovo direttore per le prossime recite della Dama di picche (l'opera è in russo, nel primo atto si vedono ragazzi russi con mitra in mano che esclamano: «La patria salveremo»). Chi ha preso distacco con la guerra è Anna Netrebko: «Io mi oppongo a questa guerra», ma «non sono d'accordo a forzare artisti a dichiarazioni pubbliche».
E l'altra sera, nella recita della «Thais», il mezzosoprano ucraino Valentina Pluzhnikova è uscita in lacrime sul palco avvolta dalla bandiera Ucraina e abbracciata dalla protagonista, la lettone Marina Rebeka. Anche nell'arte la condanna è unanime. «Condanniamo la brutale invasione russa di un Paese europeo sovrano, esprimiamo preoccupazione per il patrimonio culturale in Ucraina e applaudiamo ai russi che si oppongono ai leader politici», ha dichiarato Sneka Quaedvlieg-Mihailovi, Segretario di Europa Nostra.
Alla Biennale di Venezia, ad aprile, sono previsti un padiglione russo e uno ucraino. Lo staff del padiglione ucraino ha dichiarato che «attualmente non sono più in grado di continuare il lavoro». Difficile pensare a un padiglione russo aperto. Mentre «la Biennale - afferma il presidente Roberto Cicutto -, invoca la pace e ripudia fermamente ogni forma di guerra e di violenza, confermandosi luogo del dialogo». Dopo l'occupazione di Praga da parte dell'Unione Sovietica, il padiglione della Cecoslovacchia espose questo cartello: «Chiuso per motivi tecnici. Informazioni al padiglione sovietico».
Ai Weiwei all’Opera di Roma: «L’arte è politica, nella mia Turandot città distrutte e filmati di guerre». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.
L’artista cinese dissidente: «Gergiev? Rispettate la sua scelta, ha il diritto di tacere. Ma la direttrice ucraina Oksana Lyniv è una vera combattente». Sulla Cina: «Amo il mio paese,, non amo il governo» Ho vissuto in un buco scavato nella terra».
Ai Weiwei è un uomo mite e un sopravvissuto. Il grande artista vive in «esilio» a Berlino dalla sua Cina di cui dice: «Amo il mio paese e la mia cultura, non amo il suo governo». Lo incontriamo all’Opera di Roma, dove sta preparando regia, scene, costumi e video di Turandot. «In ogni mio progetto c’è una dimensione politica, ma poi ricordiamoci che la gente va a teatro». «One shot», un colpo solo: è la sua prima e ultima regia d’opera. Il giorno è il 22 all’Opera di Roma, sarà uno degli eventi dell’anno, ripreso da Rai Cultura per Rai 5.
Weiwei, lo spettacolo era previsto due anni fa…
«Questa pausa ha portato a un ripensamento. Ci sono stati due disastri, la guerra della Russia in Ucraina, e la pandemia che mi ha spinto ad alcune riflessioni che hanno in parte cambiato la mia visione. Mi riferisco alle immagini di Wuhan, di come quella popolazione ha vissuto lo scoppio del Coronavirus. Ci sono altri due filmati, uno sui rifugiati e un altro sulle manifestazioni di Hong Kong del 2019 contro la proposta di legge cinese sull’estradizione. Da mille ore registrate, ne proietto una, su quattro maxischermi. Metto insieme sensibilità contemporanea e tradizione».
Le minoranze: Hong Kong richiama l’Ucraina?
«Tutte le guerre hanno lo stesso carattere. Si combatte per il futuro, per il sogno, per la dignità. La disperazione di Kiev è comune con tutto il mondo. Nel secondo atto c’è un video di tante bombe nella storia umana, da una italiana progettata nel 1911 a quelle su Hiroshima e Nagasaki. Non si può scherzare su Putin, le sue parole sulla guerra nucleare possono essere il futuro».
La scena?
«Ci sono rovine di una città, con torri e buchi che danno forma ai continenti del pianeta. Come un mappamondo di colore grigio. La parte centrale ruota, si compone e si scompone. Roma è un bell’esempio di civiltà e rovine».
E Puccini?
«C’è una connessione tra l’amore, l’odio e la vendetta del nostro tempo con l’opera di Puccini. Quest’opera, pensando a chi combatte per la libertà, da Hong Kong all’Ucraina, ci insegna che la morte è amore. L’uomo vuole uscire dalle sue rovine ma nel percorso ne trova di nuove. Si costruisce e si ricade, come Sisifo. E il senso dell’essere umano è di volere la vera libertà. Voglio mettere in contatto la nostra vita di oggi con quella di cent’anni fa, all’epoca in cui Puccini si confrontò con la fiaba cinese. Il mondo è come un’opera lirica. Turandot, quest’algida principessa immaginaria e reale, significa forza e potere; il principe Calaf, suo pretendente, diventa rifugiato politico».
Il caso Gergiev, licenziato dai teatri occidentali per non aver preso posizione contro il suo amico Putin?
«Ogni artista ha il suo senso di giustizia, tutti vogliono costruire un mondo civile e democratico. Se a un artista, essendo amico di un politico, viene proibito di lavorare, stiamo andando verso una strada non più democratica. Se vogliamo limitare la libertà di parlare, andiamo verso una società tirannica e autocrate. Se non abbiamo la possibilità di avere un’opinione, viviamo nel nazismo».
Ma Gergiev ha scelto il silenzio…
«Può non piacerti, ma deve avere la possibilità della sua scelta. La Germania di Hilter ha espulso gli artisti che avevano opinioni differenti dal regime. Vorrei aggiungere che ammiro Oksana Lyniv, la direttrice ucraina di Turandot: una vera combattente».
Lei ha scritto un libro epico e intimo sulla sua vita straordinaria, e sulla Cina.
«Ho scritto Mille anni di gioie e dispiaceri perché mio figlio sappia chi era suo nonno, mio padre, il grande poeta Ai Qing, genuino e naïf, morto nel 1996. Non aveva criticato il comunismo, aveva solo un diverso approccio e tutti dovevano essere uguali. Durante la Rivoluzione culturale abbiamo vissuto in un buco scavato nella terra che ho messo come sfondo del mio smartphone; ha vissuto le peggiori umiliazioni, lavava le latrine con dignità e un senso quasi estetico».
Anche lei fu arrestato.
«Nel 2011 sono stato 81 giorni senza poter parlare con i familiari e con l’avvocato, i miei aguzzini dicevano che avrei rivisto mio figlio dopo quindici anni, e che non mi avrebbe riconosciuto. Mia madre la chiamo in Cina ogni week-end, ha 90 anni, mi dice di non tornare. Se l’Occidente doveva essere più duro sui diritti civili? Si deve sopravvivere, alla fine vince il business».
Perché ha accettato di fare, e per una sola volta, l’opera?
«Perché Turandot mi riporta a quando ero ragazzo a New York, ero povero, senza soldi. E il Met di New York mi prese come comparsa alla Turandot di Zeffirelli. Io facevo il boia».
Elisabetta Andreis per il “Corriere della Sera - ed. Milano” il 2 marzo 2022.
Il direttore d'orchestra russo Valery Gergiev, messo alle strette e infine allontanato dal Teatro alla Scala, dalla Meuenchner Philarmoniker di Monaco e da altre collaborazioni artistiche in Europa per il rifiuto di prendere le distanze dall'attacco sferrato all'Ucraina dal presidente, e suo amico, Vladimir Putin, in Italia ha un tesoro immobiliare da circa 150 milioni.
A Milano possiede una ventina di palazzi che ha messo sul mercato, mentre sta costruendosi una principesca villa nella città dell'Ossezia settentrionale di cui è originario. Il maestro ha ereditato un quarto delle fortune dell'artista e mecenate giapponese Yoko Nagae.
A sua volta la filantropa scomparsa nel 2015, ammiratrice incondizionata di Gergiev, ha una vicenda particolare. Nel 1960 vinse - primo caso in Giappone - una borsa di studio del governo italiano per perfezionarsi nell'arpa a Venezia; lì venne notata dal facoltoso industriale milanese della farmaceutica (di 30 anni più anziano) Renzo Ceschina che nel 1977 la sposò.
Cinque anni dopo però morì lasciando tutto alla Nagae che per anni finanziò artisti e musicisti. Dopo cause giudiziarie innescate dai parenti di Ceschina, durate decenni, i giudici divisero in quattro parti il patrimonio immobiliare. A Gergiev finirono una ventina di immobili a Milano, oltre 20 mila metri quadrati di proprietà, più altri tesori tra cui una villa in costiera amalfitana, con tanto di rovine romane e torre aragonese nel giardino e a Venezia palazzo Barbarigo a San Vio, il caffè Quadri e alcuni negozi di piazza San Marco.
A Milano possiede i prestigiosi palazzi in via Mercato 28 e via Arco 2 di recente ceduti e poi l'edificio di via Rovello 2, via Montello 10, via Castaldi 4, largo Gemito 3, via Fra Bartolomeo 9 e ancora via Plinio 33, viale Berengario 5-7, le villette di via Montebianco 4-6, via Riva di Trento 6-8-10, più 8 mila metri quadrati a Segrate, con affaccio sul laghetto Cava, e una enorme cascina-villa padronale trascurata in Alzaia Naviglio pavese 394/396. Alcune proprietà sono già vuote, altre hanno affittuari ma sono quasi tutte pronte per essere cedute, se gli interlocutori si presenteranno.
Per quanto riguarda le altre porzioni del patrimonio Ceschina, diversi immobili hanno in sospeso cause giudiziarie per lo stato di trascuratezza in cui versano. Famoso quello in via Lamarmora 23, inutilizzato da tempo, ma anche il terreno in viale Puglie del mercatino domenicale - con diffida del Comune - al centro delle polemiche per la presenza di abusivi e il degrado che provoca. Fa capo allo stesso patrimonio immobiliare anche il «buco» in piazza Fontana, di fianco al Rosa grand Milano hotel.
Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera - ed. Milano” il 2 marzo 2022.
Dal primo atto, il caso Valery Gergiev, al secondo atto, il caso Anna Netrebko. Congedato il maestro russo, che non ha risposto alla lettera con la quale il sindaco e presidente del Teatro, Giuseppe Sala, gli chiedeva di prendere le distanze da questa guerra («non di abiurare il passato») siamo precipitati in pieno caso Netrebko. Il soprano russo, che ha inaugurato la stagione lo scorso 7 dicembre come Lady Macbeth, era attesa in calendario alla Scala il prossimo 9 marzo per una recita dell'opera «Adriana Lecouvreur» di Francesco Cilea.
Forse intendo che si andava verso un caso delicato, l'altro giorno, annunciando la rinuncia a Gergiev il sindaco Sala aveva aggiunto: «Il caso della Netrebko è diverso rispetto a quello di Gergiev, perché lei ha condannato la guerra». In effetti il soprano lo ha fatto su un social. Ma già dall'altra sera si era capito che le cose si mettevano male. Il soprano non si era presentato alle prove e aveva inoltre postato su Instagram un messaggio nel quale smentiva di essere malata (come attribuito da alcune fonti): si diceva in perfetta salute, ma che «is not coming» (non sta venendo).
Questo post faceva intendere di essere del tutto intenzionata a non cantare alla Scala e il teatro ne aveva subito preso atto. Ieri i messaggi del soprano, anch' essa come Gergiev ben medagliata da Putin, sono stati ulteriormente ambigui. Nella tarda mattinata aveva postato sul proprio Instagram sia una condanna contro «la insensata guerra di aggressione della Russia» che una foto che la ritraeva insieme al suo scopritore, Gergiev appunto.
Passate un paio d'ore, il soprano russo ha cancellato tutto rendendo, per altro, il sito inaccessibile. Poi una dichiarazione a giustificare il forfait: «Questo non è per me il momento di fare musica e di salire in palcoscenico. Ho quindi deciso per il momento di fare un passo indietro dai miei impegni artistici. È una decisione estremamente difficile per me ma so che il mio pubblico potrà capirla e rispettarla».
In precedenza aveva fatto sapere: «In primo luogo sono contro questa guerra. Sono russa e amo il mio Paese ma ho molti amici in Ucraina e le sofferenze mi spezzano il cuore. Voglio che questa guerra finisca e che le persone possano vivere in pace. Questo è quello in cui spero e per cui prego. Voglio però aggiungere una cosa: forzare gli artisti o qualsiasi personaggio pubblico a fare sentire le proprie opinioni politiche e a denunciare la sua terra natale non è giusto. Dovrebbe essere una scelta libera», aveva aggiunto ricordando di «non essere una politica» «ma un'artista il cui scopo è unire le persone dove la politica le divide».
La Scala, preso atto del forfait, ha pensato a come sostituirla. Al suo posto, come sarà annunciato formalmente oggi in conferenza stampa, sarà l'italiana Maria Agresta, che già era in cartellone per altre serate della stessa opera. Ma come se non bastasse la guerra si è rifatto vivo pure il Covid. Il cantante protagonista dell'opera, nel ruolo di Maurizio, ovvero Freddie De Tommaso, è risultato positivo al test e deve dare forfait pure lui. L'aspetto curioso è che nella «Adriana Lecouvreur» è previsto in scena anche il marito della Netrebko, il tenore Yusif Eyvazov che, per ora, non ha cancellato.
Eyvazov, non è russo: è un tenore azero nato in Algeria e cresciuto nell'Arzebaigian (all'epoca Unione Sovietica), che vive a Mosca con la Netrebko e il loro bambino. Il direttore principale della Filarmonica, Riccardo Chailly, ha invece accettato di dirigere il concerto della Filarmonica previsto per lunedì 7 marzo, quello che prevedeva in cartellone Gergiev. Il concerto, fanno sapere l'orchestra e il maestro, «sarà dedicato alle vittime della guerra e in favore della pace». Il programma subisce, però, una variazione: la nuova locandina presenta il Concerto n. 3 in re minore op. 30 di Sergej Rachmaninov e la Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 Patetica di Pëtr Il'i ajkovskij.
Confermata la presenza del giovanissimo solista Mao Fujita alla sua prima esibizione in Italia. Per completare la «deputinizzazione» della Filarmonica della Scala resta in ballo la nomina di Gergiev a «socio onorario», per ora non cancellata. Nessun problema, invece, per altri cantanti o ballerini russi che continueranno a partecipare alle rappresentazioni, anche insieme ad artisti ucraini. Quanto alla 23ma edizione della Triennale di Milano, invece, ci sarà il Padiglione della Ucraina, ma non quello della Russia. Lo ha deciso il presidente di Triennale, Stefano Boeri, che sui canali social ha dichiarato: «Stante l'attuale drammatica situazione in Ucraina causata dalla folle, violenta e ingiustificata aggressività dell'esercito russo è stato ritirato l'invito al Governo russo a partecipare con un proprio padiglione alla prossima Esposizione Internazionale».
Donatella Di Cesare per “La Stampa” il 2 marzo 2022.
Che chi è russo debba essere qui improvvisamente additato a nemico appare non solo inconcepibile, ma anche indegno di un Paese civile.
È vero che i venti di guerra soffiano forti ormai anche per le nostre strade e nelle nostre piazze, e che c'è chi fa di tutto per accendere gli animi, ma forse occorrerebbe fermarsi prima di compiere gesti di cui pentirsi e vergognarsi.
Non si vede infatti perché avere il passaporto russo costituisca d'un tratto uno stigma, il contrassegno per diventare vittima di azioni e gesti discriminatori che si vanno moltiplicando. Che senso ha negare il caffè a una turista russa in un bar?
Quali sarebbero le colpe di chi ha deciso di visitare le città italiane, di andare in vacanza in montagna o al mare, e viene circondato da un clima di pubblica ostilità, senza neppure lontanamente immaginare quello che succede in madrepatria (come non lo immaginavamo noi)?
Ha compiuto in tal senso un gesto più che discutibile Beppe Sala, primo cittadino di Milano, capitale dell'ospitalità, che ha portato Valerij Gergiev, sospetto di essere putiniano, a lasciare la direzione del Teatro alla Scala. Ma dirigere un'orchestra non è comandare una truppa militare. Questo significherebbe accettare solo gli artisti che, sotto intimidazione, abiurino pubblicamente.
Critica giustamente questa «aggressione» la grande Anna Netrebko che, postando su Instragam una foto emblematica insieme a Gergiev, si congeda dalla Scala precisando di essere contraria a questa guerra, ma rivendicando allo stesso tempo: «sono russa e amo il mio paese».
«Non è giusto costringere gli artisti ad esprimere pubblicamente le proprie opinioni politiche e a denunciare la propria terra d'origine». Così chi ha la colpa di essere russo viene ovunque estromesso a priori da eventi artistici, organizzazioni sportive, tornei di calcio.
Fifa e Uefa decretano l'espulsione della Russia, mentre il Comitato Olimpico esclude a priori cittadini russi e bielorussi, a meno che non si svestano dei loro panni di russi e bielorussi gareggiando come apolidi o neutrali. Ma la discriminazione si diffonde perfino nelle università e nelle accademie.
Ricercatori che avevano scritto mesi fa articoli scientifici si vedono adesso rifiutare i propri contributi dalle riviste non con ragioni di merito, bensì per il semplice motivo di essere russi.
Coinvolgere l'arte, lo sport, la scienza e la ricerca nella guerra non è una scelta saggia. Dovrebbe semmai essere l'esatto contrario: lasciare aperti proprio questi spazi al dialogo e alle prove di pace. Condannare fermamente l'invasione dell'Ucraina, aiutare i rifugiati e accoglierli, non vuol dire in nessun modo che il primo russo che incontriamo per strada debba essere il nostro nemico.
Questo clima bellico da 1914 non si confà a questo Paese e alla sua storia. C'è un equilibro da mantenere, che non è equilibrismo, c'è una assennatezza etica e politica che fa parte integrante della maturità di un Paese. Se molti leader politici si sono messi l'elmetto, occorre allora disobbedire, perché qui ne va davvero della civiltà discriminare un altro solo sulla base della sua nascita, della sua appartenenza a una nazione, è un atto discriminatorio e razzista.
Non vogliamo che i nostri teatri, i nostri stadi, le nostre università, le nostre piazze diventino altrettanti fronti di guerra. Uno scrittore russo deve poter partecipare a un festival, una ballerina deve potersi esibire, un calciatore deve poter giocare.
Un collega russo deve poter intervenire a un dibattito - se non ci sono voli, magari da remoto. Chi dice di appoggiare coloro che manifestano il proprio dissenso nelle piazze russe non può al tempo stesso compiere azioni e gesti discriminatori qui, perché evidentemente si smentirebbe.
Egle Santolini per “la Stampa” il 2 marzo 2022.
«Dopo una profonda riflessione ho preso la difficile decisione di ritirarmi per un periodo dall'attività concertistica. Non è il momento giusto per me di comparire in scena e fare musica. Spero che il pubblico capirà».
Anna Netrebko, russa, soprano, superstar dell'opera, lascia per il momento il campo. Salta, fra l'altro, la sua partecipazione, e presumibilmente quella del marito tenore Yusif Eyvazov, a quattro recite scaligere dell'Adriana Lecouvreur programmate per il 9, 12, 16 e 19 marzo: dopo l'allontanamento del direttore d'orchestra Valery Gergiev, un altro problema di sostituzione per la Scala, che dovrebbe dare aggiornamenti sui forzati cambi di cast stamattina in una conferenza stampa. Già sabato scorso, Netrebko aveva dichiarato di «opporsi a questa guerra.
Sono russa e amo il mio Paese - aveva dichiarato - ma ho molti amici in Ucraina e questa sofferenza mi spezza il cuore. Aggiungo però che non è giusto costringere gli artisti o qualsiasi figura pubblica a esprimere le proprie opinioni politiche in pubblico e a denunciare la propria patria. Dovrebbe trattarsi di una libera scelta. Sono un'artista e non un politico e il mio scopo è di unire attraverso le differenze politiche».
Il riferimento evidente era proprio al caso Gergiev, cui il sindaco di Milano Beppe Sala e il sovrintendente della Scala Dominique Meyer hanno chiesto - inutilmente - di prendere posizione contro la guerra. Disertate le prove di Adriana, Netrebko ha prima polemizzato sul suo profilo Instagram contro chi aveva scritto che lo aveva fatto perché malata («sto benissimo ma non vengo») e poi aveva postato una sua foto proprio con Gergiev.
Come il direttore del Mariinskij, anche il soprano è notoriamente vicina alle posizioni di Putin: nel 2014 ha versato un milione di rubli all'Opera di Donetsk, capitale dell'omonima Repubblica filorussa, posando con la bandiera separatista accanto al leader Oleg Tsarëv.
Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 2 marzo 2022.
«La prima vittima della guerra è la verità», scriveva Eschilo. I torti e la ragioni, nello scenario bellico, tendono a confondersi, e vengono costantemente confusi dalla propaganda, fiancheggiatrice per eccellenza delle guerre moderne e oggi supportata da spaventose tecnologie di manipolazione.
E, perciò, si rivela giusto l'intervento di boicottaggio delle piattaforme nei confronti dei canali disinformativi e dei media governativi russi. Nel teatro della guerra il tentativo di discernere accuratamente gli atti e le posizioni, evitando il loro rimescolamento strumentale, assume pertanto la valenza di un imperativo morale.
Nella vicenda che ha riportato il conflitto sul suolo europeo e ripristinato il clima della guerra fredda si possono distinguere con chiarezza un aggressore (il sistema di potere russo, con Vladimir Putin al vertice della piramide) e un aggredito (gli abitanti e il governo dell'Ucraina).
Un aggressore che ha finto di intavolare trattative diplomatiche, acquistando ulteriore tempo per il dispiegamento del suo apparato bellico - imponente al cospetto di quello dell'aggredito - fino all'inaudita e sconsiderata minaccia dell'arma nucleare. Un aggressore che accusa le democrazie rappresentative delle nefandezze di cui è il portatore, e che ha instaurato sul territorio della Federazione russa un'autocrazia.
A tal punto avvelenata da un'ideologia di tipo neoimperialista, anti-occidentale, antiliberale e militarista da avere inviato i carri armati per imporre i propri diktat, dopo aver già ampiamente fatto ricorso a tutto il repertorio della cyberguerra e della diffusione di ogni genere di fake news. Questa è l'inoppugnabile fotografia dello stato delle cose. Questi sono i tragici dati di fatto.
Di fronte all'invasione dell'Ucraina - che ha tutta l'aria di essere il primo atto di una catastrofe, perché i dittatori non dismettono da soli, come per magia, la loro cieca volontà di potenza - l'Occidente ha deciso (fortunatamente con maggiore compattezza del previsto) di reagire. All'insegna di tutta una serie di risposte proporzionate alla gravità della situazione, ma che devono rigorosamente rimanere al di qua della linea rossa dell'intervento militare diretto.
Una reazione corale, alla quale si sono uniti organismi di governance di vari settori (come Fifa e Uefa) e istituzioni ed enti culturali (come la Scala). Sono manifestazioni di russofobia o atti di censura? Tutt' altro, sono scelte politiche e di impegno civile che, a vario titolo, chiedono a intellettuali e artisti russi - persone prestigiose e in vista - di pronunciarsi sull'aggressione, mettendo in chiaro da che parte stanno rispetto alla condotta del potere repressivo che ha incendiato il continente.
A militarizzare la cultura, facendone uno strumento al servizio della sua politica di potenza dissennata, è stato il putinismo, non le autorità europee. Nulla di nuovo, purtroppo, come hanno già mostrato gli zdanovismi e i Minculpop del Secolo breve.
Decidere di interrompere le collaborazioni con chi condivide le scellerate azioni putiniane (o, in via transitoria, con chi non se ne dissocia) non significa dunque minimamente scagliare anatemi contro il mondo intellettuale, la società civile e la popolazione di nazionalità russa.
I protagonisti della scena culturale, che non ha frontiere, devono appunto lanciare ponti, e non sostenere chi li fa saltare per aria. E dovrebbero coltivare il senso della responsabilità nei confronti dell'umanità. Contrastare anche il rinnovato soft power globale su cui avevano puntato lo zar e la sua corte è, dunque, una misura corretta e opportuna. Perché solo dimostrando che l'autocrate è «nudo» (e isolato), si può sperare di far tacere le armi e di indurlo a negoziare.
Lettera di Pierluigi Panza a Dagospia il 27 Febbraio 2022.
Molti mi chiedono cosa pensi del caso Musica-Gergiev-Scala-Furtwängler.
Anzitutto, l’Arte non vive al di fuori della Lebeswelt, del Mondo della vita: quando lo fa si condanna all’isolamento.
È una fortuna scoprire che l’Arte conti ancora qualcosa nella vita degli uomini, di tutti gli uomini e non sia ridotta solo a consumo estetico da salottino istruito.
Basterebbe avere qualche conoscenza di Storia dell’estetica per sapere che l’Arte è anche vita (direi è il proseguimento della vita con altri mezzi): l’Illuminismo affidò all’arte un compito educativo (l’educazione estetica come miglioramento del gusto sociale in vista della felicità collettiva); Hegel affidò all’arte il compito di “addolcire la ferinità dei desideri”; nei “Problemi di Estetica” Croce evidenziò che il fenomeno artistico ha nell’Arte una componente estetica e un “contorno” e per Adorno il rapporto tra forma e contenuto (che è anche il contesto) sono inscindibili.
L’Arte, per Sartre, è gesto rivoluzionario contro il Potere e così per Marcuse; quando è suddita del Potere o del Potente la si è sempre definita “Arte di propaganda”.
Dopo l’invasione di Praga, il Padiglione Cecoslovacco della Biennale restò chiuso esponendo come opera d’arte il seguente cartello: “Per informazioni chiedere al Padiglione Sovietico”.
Sebbene oggi si stia parlando solo di un interprete come Gergiev (si dà troppa importanza ai direttori d’orchestra) è anche dubbio che a sancire la “sublimità” del suo gesto (in ragione il resto “non conta”) debbano essere gli assidui frequentatori dei teatri i quali, per ricorrenza, assurgerebbero a valutatori estetici: Diderot metteva già in chiaro che un critico è colui che riconnette il particolare all’universale filosofico e non uno che vede tanti quadri o ascolta tante opere.
A Gergiev non è stata chiesta una vera e propria abiura, che consiste nel rinnegare il proprio passato: gli è stato chiesto, un po’ retoricamente, se qui e ora, hic et nunc fosse disposto a prendere le distanze da questa guerra, da ora in poi.
Gergiev è già un “monumento”, è già nell’enciclopedia e forse ha già un suo busto in qualche museo: guai a rimuoverli!
Ma in questa fase la cultura libera sta offrendo una testimonianza a difesa della Democrazia: la sospensione culturale come risposta ai carri armati, ai morti. Vi sembra poco?
È qualcosa di importante scoprire che la musica, le arti contino ancora, abbiano una forza cogente di “sanzione”, possano ancora testimoniare, forse educare (qualcuno ha letto le “Lettere sull’educazione estetica” di Schiller?). Sospensione: spetterà a Gergiev decidere come orientare la restante parte della propria vita.
Quanto al paragone con Furtwängler che diresse i concerti per la gioventù hitleriana da alcuni suggerito… beh, già introdurre il paragone sta a significare che si ritiene Putin come Hitler.
Ma se Putin è Hitler il discorso è già finito: nessun sostenitore è accettabile, si può solo, a tavolino, discuterne le ragioni. Ma anche entrando nel merito del paragone non ci siamo granché: Furtwängler diresse quei concerti a Berlino e poi alla Scala: è come se Gergiev dirigesse a Mosca e Minsk: ma in questo caso qualcuno gli direbbe qualcosa? Certo che no!
La sera dell’ Anschluss Furtwängler non stava dirigendo alla Royal Opera House di Londra o all’Opera di Parigi! Gergiev, invece, stava dirigendo alla Scala.
Un teatro, per altro, che ha fatto anche la storia politica del nostro Paese (da W Verdi, al Ballo del Papa di Napoleone, dalle insegne austriache rimosse e poi riposizionate, alla ricostruzione…). Furtwängler diresse a Praga, Vienna… tutte città occupate: insomma è come se Gergiev dirigesse a Mosca, Minsk e un concerto nella Kiev occupata…
Nel settembre 1944 Furtwängler fu inserito da Goebbels in un “Elenco degli artisti fondamentali per la cultura tedesca”; Gergiev ha sottoscritto di sua volontà una lettera in favore della politica di Putin verso la Crimea e l’Ucraina: forse non pensava a un gesto così efferato, ma proprio per questo gli si è chiesto, adesso, una parola. Per altro, nel 1934 Furtwängler si era dimesso da direttore dell'Opera di Berlino perché il nazismo non gli aveva permesso di suonare Hindemith. La cultura sospende, e la cultura riaccoglierà tutti. L’Arte è anche un gesto politico, di critica al Potere, però, non di pifferaio del Potente.
Gergiev torna nel suo teatro: suonerà con Matsuev, sarà il concerto dei «ripudiati». Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
Il 6 marzo al teatro Mariinskij di San Pietroburgo i due artisti con i quali i teatri occidentali hanno sospeso la collaborazione dopo che non hanno preso posizione contro la guerra in Ucraina.
Il concerto degli artisti che non hanno preso le distanze dalla guerra di Putin in Ucraina si terrà al teatro Mariinskij il 6 marzo. Il teatro di San Pietroburgo, del quale Valery Gergiev è direttore generale, artistico e musicale, ha annunciato infatti un concerto con lo stesso maestro Gergiev e il pianista Danil Matsuev , ovvero i due artisti con i quali i teatri occidentali hanno sospeso la collaborazione dopo che essi non hanno preso posizione contro la guerra in Ucraina. Il 24 febbraio, in particolare, il sovrintendente della Scala Dominique Meyer e il sindaco Beppe Sala avevano scritto a Gergiev una lettera «invitandolo a pronunciarsi in favore della risoluzione pacifica delle controversie». Non avevano ricevuto risposta.
Gergiev intanto sostituisce la direzione della «Dama di picche», che il musicista russo aveva in programma alla Scala la sera prima, il 5 marzo (a Milano dirigerà il giovanissimo Timur Zangiev; qui l’articolo sulla «deputinizzazione» della Scala, qui il dossier sul piccolo impero immobiliare di Gergiev a Milano, qui il commento di Giangiacomo Schiavi).
Il programma, per il quale sono in vendita i biglietti, prevede il concerto per pianoforte e orchestra numero 2 e la Sinfonia numero 2 di Sergei Rachmaninoff. «Abbiamo suonato centinaia di concerti in tutto il mondo — ha commentato Matsuev —, ma ogni apparizione sul palco con questo o quel concerto per me e Gergiev è un’improvvisazione». Questo anche perché le prove, con Gergiev, sono talvolta poco certe. Ai tempi dell’Unione Sovietica dal Mariinskij scapparono in Occidente chiedendo asilo politico i due più celebri ballerini del teatro: Rudolf Nureyev e Mikhail Baryshnikov.
Altro spirito ma stesso compositore a Milano, dove il 7 marzo Riccardo Chailly dirigerà la Filarmonica al posto di Gergiev in un «Concerto per la Pace»: anche qui in programma Sergej Rachmaninov (Concerto n. 3 in re minore op. 30) e la Patetica di Tchaikovsky. Il Teatro alla Scala, intanto, sta cercando di pianificare la sua serata «in favore delle vittime» della Guerra in Ucraina. Sarà una serata di raccolta fondi che andranno in beneficienza (quindi con prezzi significativi). Una data possibile è l’inizio di aprile. Si vorrebbe sul podio Riccardo Chailly, che il 3 aprile, però, ha già un appuntamento della stagione sinfonica per dirigere la «Resurrezione» di Mahler. L’evento potrebbe essere il giorno prima o dopo, forse. Sicuramente ci saranno Orchestra e Coro del teatro alla Scala.
Egle Santolini per “la Stampa” il 3 marzo 2022.
«La Scala non cancella né gli artisti né i titoli russi». Dunque, per fortuna, neanche il Boris Godunov che dovrebbe inaugurare la prossima stagione. All'indomani del caso Gergiev-Netrebko, il sovrintendente Dominique Meyer chiarisce la posizione del suo teatro.
Premessa: «Siamo tutti contro la guerra, per il rispetto dei diritti dei popoli e per la soluzione pacifica dei conflitti. Non riesco a pensare che, a due ore di volo, ci siano dei bambini sotto le bombe. Naturalmente siamo più a nostro agio con chi la pensa come noi. Ma sappiamo che le cose sono complicate. Che tra gli artisti c'è gente che ha paura, che ha famiglia a casa. Occorre riflettere, discernere tra chi ha assunto posizioni politiche, e ne porta le responsabilità, e chi politica non ne fa».
Dunque Meyer distingue fra Valerij Gergiev, cui era stato chiesto di prendere posizione «contro la guerra e non contro la propria patria», e che si è ben guardato dal farlo, e Anna Netrebko, «che era stata chiarissima, e si era già espressa per la pace».
E allora, sovrintendente, cos' è successo?
«Anna non è venuta alle prove, aveva il raffreddore, poi ha fatto un tampone risultato negativo. Ma quando si è diffusa la voce che si fingesse malata per non cantare si è arrabbiata, e ha deciso di fare un passo indietro».
Con quel comunicato in cui fa sapere di «ritirarsi per un periodo dall'attività artistica», non essendo questo per lei «il momento giusto per comparire in scena e fare musica».
Prima c'erano stati i post stizziti su Instagram, e anche una foto con Gergiev, poi cancellata. Resta il dubbio se davvero, come ipotizza Meyer, senza quelle fake news Netrebko avrebbe conservato il suo impegno per Adriana Lecouvreur , visto che intanto aveva cancellato pure ad Aarhus in Danimarca, a Zurigo e ad Amburgo.
Suo marito Yusif Eyvazov, invece, alla Scala canterà eccome, nelle recite previste e sostituendo pure il tenore con cui doveva alternarsi, Freddie De Tommaso, colto dal Covid. Mentre sul versante della Dama di picche il podio lasciato libero da Gergiev sarà occupato dal ventisettenne Timur Zangiev.
Infine, sarà il direttore musicale della Scala, Riccardo Chailly, a dirigere lunedì il concerto della Filarmonica destinato al maestro russo, significativamente dedicato «alle vittime della guerra e alla pace». E intanto si susseguono le prese di posizione di artisti e musicisti.
Kirill Petrenko, direttore dei Berliner Philharmoniker, è durissimo: «L'insidioso attacco di Putin all'Ucraina - ha detto - è un coltello nella schiena di tutto il mondo pacifico. È anche un attacco all'arte, che unisce tutti i confini. Sono profondamente solidale con tutti i miei colleghi ucraini e posso solo sperare che gli artisti stiano uniti per la libertà, la sovranità e contro l'aggressione».
Vasilij Petrenko, direttore della Royal Philharmonic e dell'Orchestra di Stato Russa «Evgenij Svetlanov», ha annunciato che interromperà i suoi impegni con la Russia. «La tragedia in Ucraina - dice - è già uno dei più grandi fallimenti morali e disastri umanitari del nostro s
Esagerare il delitto per giustificare il castigo. TIZIANO SCARPA su Il Domani il 05 marzo 2022
«Semmai bisognerebbe parlarne di più, di Dostoevskij,» ha detto Paolo Nori, dopo la cancellazione delle sue lezioni all’università Bicocca. Il sindacalista dei personaggi è d’accordo
Il sindacalista dei personaggi fa ispezioni sui luoghi di lavoro, per verificare le condizioni di sicurezza. Fa i suoi sopralluoghi anche nei romanzi.
Un giorno un mendicante lo ferma per la strada e gli parla di alcune incredibili reazioni italiane che boicottano la cultura russa: perfino Dostoevskij è diventato un autore pericoloso da trattare, il ciclo di lezioni che Paolo Nori doveva fare all’università Bicocca di Milano è stato sospeso.
Il mendicante è Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo. Ha molte rimostranze da fare contro il suo autore. Sostiene che Dostoevskij abbia reso efferato il suo assassinio perché non aveva argomenti sufficienti contro il movente: uccidere una vecchia parassita e cattiva è giustificato, se può servire a procurarsi i soldi per fare del bene all’umanità.
TIZIANO SCARPA. Romanziere, poeta e drammaturgo. Il suo ultimolibroè La penultima magia (Einaudi 2020). Tra i titoli più recenti, Stabat Mater(Einaudi 2008, premio Strega 2009 e Premio SuperMondello 2009), L’inseguitore (Feltrinelli 2008), Discorso di una guida turistica di fronte altramonto (Amos 2008), Le cose fondamentali (Einaudi 2010 e 2012), La vita, non il mondo (Laterza 2010), Il brevetto del geco (Einaudi 2016 e 2017), Il cipiglio del gufo (2018 e 2020)
Dostoevskij, "ponte" fra Europa e Russia. Censurarlo è odiarci. Francesco Giubilei il 6 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il filosofo Vladimir Kantor spiega i debiti reciproci fra il romanziere e l'Occidente.
L'evoluzione della cultura russa negli ultimi secoli va di pari passo con il dibattito mai terminato e caratterizzato da una poliedricità di posizioni sul suo fondamento identitario, in particolare in merito al rapporto con l'Europa e l'Occidente. Fu all'inizio dell'Ottocento che, sulla scia del processo di occidentalizzazione avviato da Pietro il Grande, nacque la principale dicotomia alla base del pensiero russo tra slavofili e occidentalisti.
Gli occidentalisti, i cui principali esponenti erano Petr Caadaev e Michail Bakunin, sostenevano la necessità per la Russia di appropriarsi delle conquiste della civiltà occidentale e vedevano nell'operato di Pietro il Grande un esempio da seguire per aprire «una finestra sull'Europa».
Gli slavofili si rifacevano invece a una Russia pre-pretina esaltandone il patrimonio culturale e spirituale e opponendosi a influenze esterne come testimonia il pensiero di Aleksej Chomjakov e Ivan Kireevskij.
Da quel momento, trovare una sintesi tra queste due correnti di pensiero è diventata una necessità per la cultura russa e il poeta e critico Apollon Aleksandrovic Grigor'ev rappresenta una figura a metà strada che, nonostante i rapporti con gli slavisti, fece parte dei cosiddetti pocenniki, un movimento nato per rivendicare l'importanza della terra e dell'esperienza contadina. Nella sua opera principale, Paradossi di una critica organica, unisce allo slavofilismo l'influenza degli autori occidentali, in particolare romantici come Carlyle, Emerson, Schiller, Byron.
Non a caso collaborò alle riviste Vremja e Epocha, animate da Fëdor Dostoevskij che decise di approfondire la teoria del «ritorno al suolo» basata sulla volontà di riappropriarsi delle tradizioni nazionali russe unita all'arricchimento portato dalla cultura europea, facendo così delle sue opere un ponte ideale tra la Russia e l'Occidente.
Partendo da questa visione, Vladimir Kantor, scrittore e filosofo russo, considerato da Le Nouvel Observateur tra i primi venticinque filosofi d'importanza mondiale, ha scritto un libro di recente pubblicato da Amos Edizioni intitolato Dostoevskij in dialogo con l'Occidente (pagg. 160, euro 15).
Sempre per Amos casa editrice veneziana animata da Michele Toniolo che annovera nel proprio catalogo vere e proprie chicche nel 2014 era uscito un altro testo di Kantor intitolato Dostoevskij, Nietzsche e la crisi del cristianesimo in Europa in cui il filosofo russo analizza la «morte di Dio» attraverso un parallelismo tra il pensiero di Dostoevskij e quello di Nietzsche.
Il suo ultimo lavoro indaga l'influenza reciproca tra Dostoevskij e la cultura occidentale ma, allargando il piano di lettura, può essere letto come il rapporto tra il pensiero russo e quello europeo aprendosi con l'Inferno dantesco e il legame con I Demoni sul tema del peccato e del pentimento fino ad arrivare al Papà Goriot di Balzac in cui si riscontrano elementi similari a Delitto e castigo. D'altro canto, l'influenza della cultura francese in Dostoevskij è profonda e «quando Delitto e castigo venne paragonato ai Miserabili di Hugo, per Dostoevskij fu la massima lode ricevuta in vita». Non a caso il suo percorso biografico è legato a Pietroburgo, la città più occidentale della Russia che si contrappone alla Rus' di Mosca e che i suoi nemici vorrebbero vedere inghiottita dal mare come nel mito di Atlantide citato da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia. Dostoevskij non solo aveva letto La Repubblica di Platone ma i suoi personaggi ne discutono, testimoniando il rapporto con la classicità greca.
Eppure non è solo Dostoevskij ad essere debitore verso l'Occidente ma anche il contrario, i suoi libri furono letti da Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud, Thomas Mann, Albert Camus, William Faulkner e Hugo von Hofmannsthal che nel suo articolo La situazione spirituale dell'Europa moderna scrisse: «se nella nostra epoca c'è un signore dello spirito, questi è Dostoevskij».
Per questo censurare Dostoevskij è non solo una forma di cancel culture ma anche di oikophobia, ovvero di odio verso noi stessi, poiché la cultura occidentale è tanto debitrice al grande romanziere russo quanto lo è stato lui nei nostri confronti.
Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica” il 27 settembre 2022.
Può sorprendere imbattersi in un Dostoevskij ferocemente umoristico, in grado di restituire il magma incandescente che la Russia vomita dal suo vulcano, che è poi la Pietroburgo degli anni sessanta del XIX secolo. Eppure, superata la sorpresa di uno scrittore che sembra Gogol, con indosso tutto il cappotto, resta la sensazione che Il coccodrillo - il lungo racconto (recensito già su Robinson da Wlodek Goldkorn) curato, per Adelphi, da Serena Vitale - sia una delle satire più devastanti della società nella quale Dostoevskij si aggira con sovrano disprezzo. Fëdor detesta tutto quello che massifica e rende conforme.
I tumultuosi cambiamenti sociali ed economici che hanno interessato l'Europa, non risparmiano la Russia e attizzano la fantasia dello scrittore, il quale immagina un enorme coccodrillo esibito nelle fiere da un protervo signore tedesco. L'animale divora un malcapitato funzionario russo, tal Ivan Matveic.
La tragedia surreale si rovescia nella grottesca satira politica. Matveic nella pancia del rettile progetta una nuova vita di riscosse sociali; dalle viscere del coccodrillo vuol far partire una rivoluzione che renderà il mondo migliore. È uno strano racconto, non sembra neanche scritto da Dostoevskij: «In realtà non è un unico, ci sono in Dostoevskij altri racconti fortemente satirici, come Il sogno dello zio, o Bobok. Credo che Dostoevskij amasse anche far ridere i lettori», mi dice Serena Vitale.
La pancia del coccodrillo somiglia a una tana e ricorda "Memorie dal sottosuolo".
«Il protagonista delle Memorie del sottosuolo è un uomo che non ama la vita, contrasta le leggi e odia l'umanità; ma in realtà odia soprattutto se stesso. Ivan, il protagonista de Il Coccodrillo, è la versione divertente. Nella tana, cioè nel ventre del coccodrillo, sta benissimo. È un pazzo che sogna di diventare un nuovo Fourier: anche lui immagina una società utopica».
Tu scrivi nella postfazione che Dostoevskij attraverso la figura di Ivan Matveic prende in giro Cernysevskij, l'autore del "Che fare".
«Un libro molto amato da Lenin, ma così mal scritto da indurre Nabokov ne Il Dono a farne la parodia. Comunque Nabokov non amava neanche Dostoevskij. Gli piacevano il sarcasmo e la forza umoristica ma trovava sciatto il suo stile. Troppo tirato via. Uno cesellava le parole, l'altro le tagliava con l'ascia».
Una bella differenza.
«Nabokov poteva permettersi ciò che a Dostoevskij era vietato. Poteva tranquillamente scrivere dalla sua villa di Montreux, mentre l'altro scriveva per vivere, per pagarsi i viaggi, il cibo, il gioco d'azzardo. C'era l'editore che lo inseguiva, i creditori che gli davano la caccia. Ecco perché scriveva un racconto in due settimane».
Se avesse avuto più tempo?
«Chi lo sa. Mi sono fatta un'idea».
Dilla.
«Tutto in Dostoevskij congiura contro le regole. Per lui due più due non fa quattro ma cinque. Provava un'intima ribellione contro le leggi, anche quelle che normano la lingua. Stravolgere lo stile equivaleva a sconvolgere l'ordine comune della vita. Del resto, solo così era in grado di esplorare le parti più inquietanti dell'animo umano».
Cercandovi cosa?
«Possiamo ipotizzare che cercasse l'intrinseca natura del male. Ma io credo che fosse soprattutto attratto dal fallimento. Nelle Memorie dal sottosuolo il protagonista dice di fare schifo perché non è riuscito neppure a diventare un insetto. È l'uomo che tenta di identificarsi con l'animale, e fallisce pure in questo. Non a caso Kafka adorava Dostoevskij».
Però le metamorfosi gli riuscivano.
«Regredire o trasformarsi in animale o insetto era per Kafka l'estrema protesta contro l'uomo moderno. Anche Dostoevskij prefigura nel mondo moderno il disagio di chi è costretto a viverci».
La sua Russia era moderna fino a un certo punto.
«Era ancora una infinita distesa di terra contadina punteggiata da alcune città europee come Odessa o Pietroburgo. Dostoevskij conosceva il vecchio continente».
Conosceva i tavoli da gioco e la roulette.
«Anche, ma le sue impressioni non erano di amore o di odio, bensì avvertiva la propria diversità. Temeva una Russia minacciata da un progresso che stava valicando gli Urali».
Salvaguardava l'anima russa. Ma tu credi in questa definizione?
«Ci credo anche se temo che Bachtin mi avrebbe preso a male parole. L'anima russa è l'imprescindibilità dalle proprie origini. Lì uomo e terra sono indissolubilmente legati».
A proposito di origini, le tue sono pugliesi.
«Sono nata a Ostuni».
Risulta che sei nata a Brindisi.
«Lo so, ma c'è stato un errore nel certificato, forse commesso da un impiegato che ha sbagliato nel trascrivere la città».
La tua infanzia?
«Disordinata ma intensa. Ascoltavo tantissima musica, forse per influenza familiare. Mio padre, famiglia di liutai, era suonatore di violino».
Non hai pensato di percorrerne le tracce?
«Troppo studio metodico. Ma poi le carriere erano tracciate dalla mamma. Lei decideva cosa avremmo fatto: mio fratello medico, mia sorella pianista, io insegnante.
Ero dotata per la matematica».
Ma poi hai scelto le lingue slave e il russo.
«Si cresce e ci si trasforma. Lo studio di quelle lingue rispondeva al bisogno di una certa armonia musicale e a una qualche forma di libertà».
È il mandato più alto per un traduttore.
«Lo penso anch' io. Avrò tradotto una cinquantina di testi importanti. Il libro che mi ha dato la gioia più intensa è Il dono, con quella lingua dolce e purissima che solo Nabokov e pochi altri possiedono. Ma il più grande resta Gogol».
Più di Tolstoj e Dostoevskij?
«Aveva in più quella follia che seppe trasferire nella lingua, rendendola un'esperienza straordinaria. Le anime morte, di cui bruciò la seconda parte, è un libro irripetibile che va al di là di ciò che intendiamo con mente umana. E poi c'è Il cappotto, o meglio Il pastrano, come sarebbe giusto tradurre, il racconto che ha fatto scuola.
Lo stesso Dostoevskij gli rende omaggio ne Il coccodrillo ».
Quanto ha contato nei tuoi studi la presenza di Angelo Maria Ripellino?
«È stato il mio maestro. Le sue lezioni erano bellissime. Pura messinscena teatrale. Del resto amava tantissimo il teatro e quella sua vena da attore serviva a catturarci e ad aprirci la mente. Eravamo una decina di persone in tutto a studiare il russo e quando uscivamo dall'aula ci sentivamo improvvisamente orfani di quella voce che ci regalava la bellezza di nomi che non avevamo mai conosciuto. Mi ha insegnato che la Russia è fondamentale anche nel dolore».
Con Ripellino hai studiato anche il ceco e questo ti ha permesso di tradurre i primi libri di Kundera.
«Erano bellissimi. Avemmo vari incontri».
So che andasti a trovarlo a Praga con il tuo marito di allora, Giovanni Raboni.
«No, andai da sola grazie a un borsa di studio che mi fece avere Ripellino. Lui voleva che imparassi bene il ceco. Quanto a Giovanni, fui io in seguito a iniziarlo al culto di Praga».
Come fu l'incontro con Kundera?
«Viveva in una casetta molto piccola in una strada dove c'era la sede della polizia segreta. Gli chiesi se aveva avuto fastidi. Disse: no, no. La verità è che loro spiano me e io spio loro. Kundera aveva molto humour ed era terribilmente galante con le donne. Tranquillizzai Vera, la sua seconda moglie, dicendole che non mi sarei fatta sfiorare neppure con un dito!».
Kafka ha mai scritto in ceco?
«No, però lo conosceva. Allora Praga era linguisticamente tripartita: convivevano ebrei, cechii e tedeschi. Un crogiuolo di etnie e di culture che si integravano perfettamente, e ciascuno poteva scegliere con quale lingua esprimersi. C'era spazio e gloria per tutti. Pensa al capolavoro di Jaroslaw Hasek, Il buon soldato Sc'veìk e a quelli di Kafka. Sembra quasi che raccontino mondi opposti, tanta era la ricchezza e tanti gli stimoli che raccoglievano».
Borsa di studio a Praga, ma nella tua vita c'è soprattutto Mosca.
«Ci sono stata a lungo dal 1967 e poi tornata con frequenza fino al 2003».
Come fu l'impatto per una giovane borsista?
«All'inizio piuttosto complicato. La prima cosa nella quale mi imbattei fu lo scarafaggio. Nel panorama moscovita è comune come la vodka. Gli insetti comparivano con le prime luci dell'alba. Uscivano da ogni condotto. Fu una convivenza dura. Nelle rare telefonate che potevo fare alla mamma c'era una richiesta insistita di Bygon».
Immagino che Mosca non fosse solo insetti da contrastare.
«Ho avuto amici meravigliosi. Ricordo la moglie di Mandel'stam, che ha influenzato la mia vita. Ammiravo quella donna durissima che aveva saputo tenere a mente tutte le poesie del marito, ucciso nel gulag, per poi donarcele nella trascrizione».
Brodskij la descrive come una donna fisicamente piccola e ostinata.
«Era l'ostinazione di chi non concedeva tregua alla sua epoca. Aveva visto e vissuto tutti gli orrori staliniani. La prima volta che ci vedemmo mi chiese di recitarle qualche pezzo della Commedia di Dante. Recitai, o meglio provai a farlo, il canto di Ulisse. Credo di aver saltato qualcosa perché mi disse: non si vergogna? Perché, le chiesi. Mio marito, rispose, conosceva Dante a memoria».
Un altro personaggio piuttosto esigente era Sklovskij, che pure ha frequentato.
«Lo incontrai la prima volta nel dicembre del 1978. Aveva 86 anni. L'idea era di fare un libro con lui: sulle sue esperienze e i suoi incontri. Era una giornata freddissima, una temperatura che sprofondava sotto i meno venti gradi. Giunsi davanti al suo piccolo appartamento. Mi aprì la moglie. Sull'ingresso sentii questo vecchio gridare: "Ho lavorato con Pudovkin ed Ejzenshtein, non devi certo spiegarmi come ci si mette davanti a una cinepresa!". Stavano realizzando un documentario televisivo su di lui. Entrai timidamente nella stanza delle riprese. Ancora urlava, agitando minaccioso un bastone verso il regista».
E quando ti vide?
«Fu sorpreso dalla presenza estranea. Ma servì a calmarlo. Gli spiegai che ero lì per il libro. Mi portò in camera da letto, che era anche tinello, e sprofondò in una vecchia poltrona. Gli passai il contratto. Lo lesse con un certo disgusto. Era convinto che l'editore volesse fregarlo. Ma poi cedette. Fu così che nacque il libro intervista con uno dei più grandi intellettuali russi del '900».
Che cosa ti colpì di quegli incontri?
«Viktor dipinse un grande affresco del suo tempo. Ma la cosa più bella e sincera che mi disse fu questa: nella mia vita ho scritto tanto, cose belle e mediocri, importanti e futili. Così è la vita di un intellettuale. Ma una cosa non ho mai fatto: non ho mai apposto la mia firma sotto una denuncia o una delazione". Era il grande vecchio fiero e integro che ho avuto la fortuna di conoscere».
Hai detto che in Russia sei andata fino al 2003.
«Fu l'ultima volta. Mi dava un fastidio enorme vedere Mosca infiocchettata nel lusso. Ricordo che stavo entrando in un negozio per acquistare un paio di scarpe. Avevo i capelli in disordine e l'abito stazzonato. Il commesso mi bloccò sulla porta, dicendomi che l'ingresso era vietato agli zingari. Mi chiesi, disgustata, che ne era di un popolo che stava subendo il doppio abbraccio mortale di consumismo e autoritarismo».
Per arrivare all'oggi, ti aspettavi questa guerra con tutte le sue pesanti implicazioni?
«C'è una specie di teoria messianica che Putin ha messo a punto grazie alle follie del patriarca Kirill. La cosa che mi provoca più orrore è vedere le migliaia di giovani russi mandati a morire. Giovani presi dalle repubbliche lontane: osseti, buriati. Popoli che a stento riconoscono una macchinetta del caffè. Io penso che ci sia qualcosa di profondamente patologico in questo culto della Russia, un delirio omicida che sta spingendo il paese alla rovina».
E' iniziata la caccia al "nemico". Bruciate pure i libri, ma non la chiamate pace. Angela Azzaro su Il Riformista il 3 Marzo 2022.
Parlano di pace e praticano la violenza contro chi non c’entra niente, contro chi ha solo “la colpa” di essere russo, anche se un russo morto. Anche se è un grande scrittore come Fedor M. Dostoevskij. La censura nei confronti di Paolo Nori non è una doccia fredda. I segnali erano già arrivati, come la decisione del sindaco di Milano Sala di cacciare il direttore della Scala Valery Gergiev. Gli era stata chiesta un’abiura che lui non ha fatto e il primo cittadino milanese, lo stesso che oggi critica con qualche “ma” la rettrice della Bicocca, non ci ha pensato su due volte e lo ha licenziato.
Un atto moralistico che non ha nulla a che fare con le responsabilità di Putin o con la volontà di fermare la guerra. La risposta è quella di chi cerca un capro espiatorio, qualcuno da gettare in pasto all’opinione pubblica per saziarne la voglia di giustizia o meglio di giustizialismo.
Con Nori si è fatto un passo in più, che lo scrittore ha giustamente definito ridicolo, ma proprio perché ridicolo è grave, gravissimo. In questo momento di follia putiniana, in cui i civili vengono bombardati, ricordare il grande scrittore russo era ed è (se Nori decide di accettare il nuovo invito) un’occasione unica per parlare di cultura, letteratura, perdono e incontro con l’altro. E la pace che cosa è, la sua costruzione che cosa è se non questa capacità di andare incontro all’altro, di riconoscerne le ragioni, di usare non le bombe ma il dialogo, la conoscenza dell’animo umano?
Annullando il corso come voleva fare la rettrice dell’Università milanese non si volevano solo evitare le polemiche, che invece sono esplose. Si voleva assecondare la cultura della vendetta, dell’occhio per occhio, dente per dente. Si voleva far propria la logica di guerra radendo a zero il pensiero dell’altro, un altro che è stato forse il più grande scrittore di sempre. Va bene, se è questo che volete fare, almeno ditelo, ammettetelo. Distruggete tutto quello che non rientra nel vostro canone, tutto ciò che vi dà fastidio, tutto ciò che non rientra nella vostra visione, date fuoco ai libri e agli scrittori come nel romanzo Fahrenheit 451, come facevano i nazisti.
Non è l’orgia del politicamente corretto come qualcuno scriverà: il politicamente corretto è la voce di chi non aveva voce che si affaccia alla storia. Questo invece è moralismo, è credere di essere sempre nel bene, nel giusto. Di possedere la verità. Ma non lo si faccia in nome della pace. Questa è guerra alle idee, a chi le rappresenta. Una guerra al futuro, se ancora ne abbiamo uno davanti a noi.
Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica
Da adnkronos.com il 24 febbraio 2022.
"La Russia non sta invadendo l'Ucraina. Poi, per carità, tutto può accadere ma credo che Putin (e non solo) tutto voglia fuorché una guerra. Oltretutto se per le truppe russe invadere l'Ucraina potrebbe esser semplice, controllare un territorio vasto e in gran parte ostile ai russi è un'operazione impossibile. Ieri la Russia, in una fase di stallo dei negoziati, si è limitata a formalizzare l'esistenza (dunque riconoscere) di due repubbliche separatiste e russofone: la Repubblica Popolare di Doneck e quella di Lugansk.
Si tratta di territori che la Russia controlla politicamente e militarmente da otto anni. Nulla di nuovo dunque e, per adesso, nulla di particolarmente preoccupante (posto che in tali contesti la situazione può sempre precipitare velocemente)". Così su Facebook Alessandro Di Battista.
"La Russia, giustamente, chiede garanzie - prosegue Di Battista - riguardo la neutralità futura dell'Ucraina. Un'eventuale entrata (oggi impossibile ma domani chissà) dell'Ucraina nella Nato rappresenterebbe una minaccia inaccettabile per Mosca. Come inaccettabile (tant'è che si arrivò a rapidi negoziati) fu l'istallazione di impianti missilistici sovietici a Cuba, a poche centinaia di km dalla Florida, nell'ottobre del 1962. E' difficile che la Russia possa ottenere un documento scritto (un trattato, per intenderci) che attesti un assoluto diniego da parte della Nato di aprire in futuro le porte all'Ucraina. Ad ogni modo con la mossa di ieri, definita da una serie di analisti, più teatrale che sostanziale, Putin allontana per qualche anno tale ipotesi. D'altro canto come potrebbe mai la Nato fare entrare nell'alleanza un paese che non controlla il proprio territorio?".
"Io resto dell'idea che agli Usa convenga trattare e che, oggi più che mai, siano alla ricerca di un compromesso con Mosca. Putin, ancora una volta, sta vincendo la partita dal punto di vista tattico. Certamente gli Usa (cosa che ormai accade da diversi anni) stanno sbagliando diverse mosse. In più l'Unione europea, nata, lo ricordo, per affrancarsi dal giogo di Washington, pare non esistere. Eppure, fino a prova contraria, l'Ucraina e anche la Russia, per lo meno fino agli Urali, si trovano nel vecchio continente".
"Incommentabili invece - continua - le dichiarazioni di alcuni nostri leader politici. Uno su tutti? Enrico Letta. Il segretario del partito nato dalle ceneri di quel Pci che, soprattutto negli anni di Berlinguer, dimostrava coraggio e combatteva per un sano (e oggi più che mai) prezioso multilateralismo, ha osato dire: 'i confini cambiati con le armi e la forza sono tutto ciò contro cui lottiamo e lotteremo'.
L'ha detto davvero. L'ha detto il segretario del partito che ha avallato tutte le guerre di invasione mascherate da missione di pace. Guerre sporche ma narrate come fossero umanitarie. E' lo stesso segretario che mesi fa si precipitò a Portico d'Ottavia insieme ai leader di tutti i partiti di destra (e ahimè anche ad alcuni esponenti del M5s) per manifestare l'assoluta fedeltà verso il governo di Israele".
"Ricordo che i governi israeliani usano armi e forza per cambiare i confini dei territori da decenni. Lo fanno a scapito del popolo palestinese, un popolo inerme, dimenticato, povero, senza uno Stato riconosciuto, senza una propria moneta e sotto apartheid. E lo fanno nel silenzio generale. E' proprio vero che oggigiorno il contrario della verità non è la menzogna ma l'ipocrisia.
P.S. Ad oggi neppure Washington sta pensando a nuove sanzioni alla Russia. Semmai intende sanzionare le repubbliche indipendentiste del Donbass. Sono alcuni leader europei, al contrario, a chiedere durezza contro Mosca ignorando che nuove sanzioni alla Russia colpirebbero più l'Europa della Russia stessa e, oltretutto, spingerebbero ancor di più Mosca tra le braccia di Pechino. L'ennesimo storico errore capace di commettere l'Europa", conclude.
Cancellate il nome di Putin dalla statua di San Nicola, a Bari scatta la petizione. Il Tempo il 02 marzo 2022.
Cancellate Vladimir Putin dalla statua di San Nicola. L'invasione dell'Ucraina da parte delle forze armate russe fa scattare la cancel culture anche in Italia e dopo il caso Dostoevskij, con l'Università Bicocca di Milano che ha sospeso le lezioni del professor Paolo Nori sul grande scrittore per poi riprogrammarle dopo le proteste, arriva la petizione pugliese. "Quella dedica di Vladimir Putin a pochi passi dalla Basilica di San Nicola deve essere rimossa", è la richiesta contenuta nella petizione lanciata su change.org da uno studente barese, Antonio Caso. La petizione in poco tempo ha raccolto oltre 11 mila firme, anche da fuori Puglia, e tutti si sono uniti alla volontà di chiedere al consiglio regionale pugliese di far rimuovere la targa incisa sull’ottone, risalente al 2003, dietro la statua del vescovo di Myra sul piazzale antistante la Basilica di San Nicola a Bari apposta nel 2013.
A pochi passi dal monumento si legge il "messaggio di pace", un ossimoro in questi tempi, firmato proprio da Putin: "Possa questo dono essere testimonianza non soltanto della venerazione del grande Santo da parte dei russi, ma anche della costante aspirazione dei popoli dei nostri Paesi al consolidamento dell’amicizia e della cooperazione". La dedica è destinata ai cittadini di Bari dati i "legami plurisecolari" che uniscono il capoluogo pugliese a Mosca. Putin voleva infatti ricordare il dono della statua di San Nicola, venerato da oltre due milioni di fedeli in Russia.
"La Puglia intera è da sempre legata alla Federazione Russa e alla cultura russa per legami ed affinità storiche, culturali ed economiche. Ciononostante, da pugliese, avere una dedica di Vladimir Putin dopo quanto accaduto in Ucraina davanti ad uno dei monumenti religiosi più importanti della regione è un’onta agli occhi del mondo e di tutti i turisti che visitano ogni anno la nostra regione", si legge nella petizione. La palla passa al Consiglio regionale.
Ucraina: Nardella, non buttiamo giù statua Dostoevskij a Firenze. ANSA su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.
"Mi hanno chiesto di buttare giù la statua di Dostoevskij a Firenze. Non facciamo confusione. Questa è la folle guerra di un dittatore e del suo governo, non di un popolo contro un altro. Invece di cancellare secoli di cultura russa, pensiamo a fermare in fretta Putin". Così, su Twitter, il sindaco di Firenze Dario Nardella in risposta a chi vorrebbe eliminare la statua dedicata a Fedor Dostoevskij, che si trova nel parco delle Cascine, donata dall'ambasciata russa lo scorso dicembre, in occasione del 200mo anniversario della nascita dell'autore. (ANSA).
Da blitzquotidiano.it il 3 marzo 2022.
Sta facendo discutere a Genova la decisione del Teatro Govi di Bolzaneto, storica sala della Valpolcevera, di annullare un evento per i 200 anni dalla nascita di Dostoevskij previsto nei prossimi giorni.
La direzione del teatro, di concerto con il municipio, ha deciso infatti di non ospitare il terzo “Festival internazionale di musica e letteratura russa” come presa di posizione contro il conflitto in Ucraina.
Dostoevskij censurato anche a Genova, teatro Govi annulla evento
“Non sarà ospitato – si legge in un messaggio pubblicato sui social – poiché tra gli organizzatori spicca il consolato russo, ed è contro ciò che esso rappresenta politicamente che va la nostra iniziativa, non certo verso gli artisti che si sono dimostrati comprensivi nei nostri confronti e che speriamo di poter ospitare appena la situazione dovesse migliorare”.
“Un evento che noi tutti avevamo accolto con grande entusiasmo e a cui tenevamo davvero tanto – si legge ancora nel messaggio, accompagnato dall’immagine di una bandiera della pace – ci sentiamo però in dovere di rinunciare per affermare a gran voce la nostra posizione, Il Teatro Govi è un luogo di cultura, pace e speranza che non vuole aprirsi a chi preferisce le bombe alle parole”.
Critiche per la decisione del teatro Govi di Genova
Numerosi i commenti di critica: “Il consolato rappresenta la Russia, non il governo russo”, scrive qualcuno. “Ma avete mai letto qualcosa di Dostoevskij? Un Festival a lui dedicato sarebbe stato un ottimo modo per promuovere una cultura russa contraria alla violenza e alle brutture del mondo”, aggiunge qualche altro seguace. “Pessima decisione. Veramente una brutta figura”.
L’associazione che gestisce il teatro, pubblico, prova a chiarire: “Siamo consapevoli che essere di nazionalità russa non significhi automaticamente essere guerrafondai e siamo consapevoli che in una guerra a soffrire siano i popoli di tutte le fazioni coinvolte, ma in questo terribile clima mondiale preferiamo prendere una posizione netta, nella speranza che si ritorni alla Pace nel più breve tempo possibile”.
Da ansa.it il 3 marzo 2022.
"Mi hanno chiesto di buttare giù la statua di Dostoevskij a Firenze. Non facciamo confusione. Questa è la folle guerra di un dittatore e del suo governo, non di un popolo contro un altro. Invece di cancellare secoli di cultura russa, pensiamo a fermare in fretta Putin".
Così, su Twitter, il sindaco di Firenze Dario Nardella in risposta a chi vorrebbe eliminare la statua dedicata a Fedor Dostoevskij, che si trova nel parco delle Cascine, donata dall'ambasciata russa lo scorso dicembre, in occasione del 200mo anniversario della nascita dell'autore.
Cancella gli idioti. I recenti fan di Dostoevskij hanno scoperto oggi la cancel culture nascosta nel sottosuolo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Marzo 2022.
La decisione dell’Università Bicocca di fermare (e poi ripristinare) un corso di Paolo Nori sullo scrittore russo è nello spirito di questi tempi scemi, quelli della viltà intellettuale.
Io non capisco cos’aspettino gli autori satirici a fare causa alla realtà per demansionamento. Non so proprio quale altro abisso di mancanza di senso del ridicolo tocchi osservare per decidere che è troppo, che non si usurpa così il mestiere a chi si guadagna la mesata ideando paradossi, non si scippa l’ideazione del delirio a chi è iscritto all’ordine professionale degli immaginatori di scemenze, non quando si è rettori universitari o altre cariche istituzionali. È inaccettabile, cribbio.
Riepiloghiamo queste trentasei ore di romanzetto minore.
Martedì sera Paolo Nori, su Instagram, riferisce d’aver ricevuto una lettera dall’università di Milano-Bicocca, presso la quale dalla settimana prossima dovrebbe tenere un corso, quattro lezioni sui romanzi di Dostoevskij.
Paolo Nori è un romanziere, uno studioso di letteratura russa, un intellettuale che in queste settimane si presta a fare divulgazione sulla lacuna di turno: il tema di cui in queste settimane sentiamo tutti l’urgenza di parlare pur non sapendone un cazzo. Alcuni turni sono più scoperti di altri, questo ha la fortuna d’esser coperto da Nori.
Dostoevskij, invece, è quel romanziere russo che non è Tolstoj: non quello della guerra e della pace, quello del delitto e del castigo (lo preciso per non farvi consumare Google). È, anche, il protagonista dell’ultimo romanzo di Nori, ma guarda un po’: Sanguina ancora, pubblicato da Mondadori. Avrebbe compiuto duecento anni qualche mese fa, Fëdor: ve lo preciso perché, senza consumare Google, possiate annuire e fingere di sapere benissimo che certo, mica è un contemporaneo, mica ha opinioni sull’attualità.
Nori legge a chi lo segue su Instagram le poche righe della Bicocca: «Caro professore, questa mattina il prorettore alla didattica mi ha comunicato la decisione presa con la rettrice di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è quello di evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione».
Se siete tra coloro che negli ultimi anni hanno assistito alla presa di potere della viltà intellettuale, non vi meraviglierete più di tanto: evitare polemiche sembra ormai lo scopo ultimo delle università di tutto il mondo. Anche coprendosi di ridicolo: leggere Memorie dal sottosuolo è controverso, perdindirindina, non potremmo sostituire il Dostoevskij col Gogol, che almeno era nato in Ucraina? (Questo non credo stesse nella comunicazione della Bicocca, o almeno Nori non l’ha letto a voce alta: sono io che sto sceneggiando ipotesi, tanto in ’sto delirio è concesso tutto).
C’è solo un modo d’averla vinta, nell’asilo nido che è divenuto il dibattito accademico. Far nascere una polemica reale che sia ancora più fastidiosa di quella potenziale «avete fatto un corso su un autore russo».
Ieri mattina il video di Nori era stato abbastanza diffuso da far dire alla Bicocca che era stato «un misunderstanding» (milanesi, prima o poi toccherà spiegarvi che dirlo in inglese non vi fa sembrare meno fessi – anzi). Il corso era stato ripristinato e la Bicocca aveva diramato un comunicato dall’imbarazzantissima chiusa «La rettrice dell’Ateneo incontrerà Paolo Nori la prossima settimana per un momento di riflessione».
Un momento di riflessione. Pregano insieme? Lui le regala dei bignami di Turgenev? Lei ha un figlio fancazzista e vuole sapere da lui se sia colpa di Oblomov? Lui le consiglia dei consulenti per la comunicazione che le evitino di passare per una deficiente che ritiene controverso un corso su uno scrittore di duecento anni fa? Fanno uno zoom col rettore di Yale che spiega loro quanto siamo in ritardo sulle forte tensioni e gli autori da cui è meglio tenersi lontani – a Yale già nel 2016 consideravano inopportuno Shakespeare, noi italiani sempre derivativi – e istituiscono una commissione di valutazione per stabilire se la peggior figura la si faccia a proibire o a lasciar fare? Lei chiede a lui conto di quella frase di Sanguina ancora che dice «Tutte le Russie sono tre: la piccola Russia, cioè l’Ucraina, la Russia bianca, cioè la Bielorussia, e la Russia Russia, cioè la Russia» e gli intima di rinnegarla? Ogni ipotesi fantasiosa è possibile.
Il fatto è che, mentre noialtri cui premeva far capire quanto fossimo in confidenza con la letteratura russa dell’Ottocento twittavamo spiritosaggini sbeffeggiando la cauta rettrice, là fuori c’era gente cui negli anni è stato detto che mica è necessariamente sbagliato rinnegare le opere se gli autori hanno la fedina penale sbagliata, la nazionalità sbagliata, il genere sessuale sbagliato, le convinzioni morali sbagliate. E quella gente era giustamente confusa. E sì, ci faceva ridere quando qualche carneade twittava che questo Fëdor deve prendere le distanze da Putin (giacché non riusciamo a seguire le istruzioni per montare la libreria Ikea ma ci pare inaccettabile che uno non sappia in che secolo è vissuto un romanziere che noi invece conosciamo); ma – una volta lasciata passare la linea per cui i consumi culturali non si valutano per la qualità delle opere ma per la fedina morale degli autori – perché Brocco75 non dovrebbe pretendere che Cechov faccia dire a Trofimov qualcosa contro Putin?
Il prorettore, ieri, dichiarava che l’equivoco (in milanese: misunderstanding) era dovuto all’idea di ampliare: volevano che Nori aggiungesse autori ucraini (quattro lezioni su Dostoevskij che diventano un bigino su tutta la letteratura di zona). Meccanismo già visto: mica vogliamo abolire Shakespeare, abbiamo sentito dire molte volte nelle università americane, ma ci sarà pure qualche trans d’origine thailandese che valga la pena studiare nella letteratura anglofona del Seicento, basta con ‘sto monopolio dei maschi bianchi.
Ieri il sindaco di Firenze ha twittato il suo fermo rifiuto di rimuovere la statua di Dostoevskij, inaugurata appunto per il duecentesimo compleanno. «Mi hanno chiesto di buttare giù la statua», ha scritto, spiegandoci poi che non bisogna «cancellare secoli di cultura russa». Ho telefonato all’ufficio stampa per sapere chi avesse chiesto a Nardella di abbattere la statua. La rettrice della Bicocca? Gli autori di libri con copertine gialle o azzurre che finalmente hanno accesso alle vetrine Feltrinelli in versione ucraina e non par loro vero che i gesti solidali siano l’anima del commercio? Il fan club di Tolstoj?
Mi ha risposto «dei passanti», e mi è sembrata una risposta pregna di spirito del tempo. Chiunque passa dice una stronzata, e noi gli diamo un turno sul palcoscenico della polemica del giorno. Sia quel chiunque turista che molesta il sindaco, o rettrice che molesta uno scrittore. Comunque vada, polemizzare ci pare più alla nostra portata che studiare la letteratura. Oltretutto, letteratura scritta da gente che neanche sta sui social a spiegarci cosa pensa dell’attualità spicciola.
La "cancel culture" a targhe alterne. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 4 Marzo 2022.
L' ondata di russofobia che ha invaso l'Italia e gran parte dell'Occidente, nelle sue forme più parossistiche è stata velocemente rispedita al mittente da gran parte dell'opinione pubblica. Ed è un ottimo segnale. La «cancel culture» è innanzitutto un orrore lessicale, un ossimoro. La cultura dovrebbe, per definizione, aggiungere, certamente non sottrarre e cancellare. La mania dello sbianchettamento ha la ferocia distruttiva dell'Alzheimer, con l'aggravante della selettività: si dimentica a comando solo quello che è scomodo per una certa parte politica. Il politicamente corretto ha smussato buona parte delle intelligenze più acuminate, portando a un rincoglionimento di massa. Basterebbe questo esempio per far calare il sipario: nei giorni scorsi si leggevano sui social battute sull'ipotesi di cambiar nome all'insalata russa e alle montagne russe. Ma la cancel culture supera la fantasia e si autodistrugge, si cancella da sola: negli Usa alcuni pazzi vorrebbero ribattezzare i cocktail altamente putiniani «white russian, «Moskow mule» e la caipiroska. Una roba da ubriachi, appunto. Tuttavia il caso della censura (poi ritirata) nei confronti del corso su Dostoevskij è stato talmente clamoroso e imbecille da aver inorridito tutti. Però è interessante notare come tra quelli che ora s'indignano - giustamente, e lo facciano più spesso! - ci sono alcune categorie che sprofondano in evidenti contraddizioni. 1) I ritardatari. Cioè coloro i quali, dopo aver per anni impugnato la gomma per cancellare tutto quello che non andava loro a genio, adesso, di fronte al dileggio di un mostro sacro, fanno le verginelle e denunciano la barbarie della rimozione culturale. Meglio tardi che mai, ma vedremo la prossima volta, quando la vittima avrà la colpa di essere un po' meno universale, da che parte staranno. 2) I propalatori di balle. La cancel culture è una stretta parente delle fake news. La prima riscrive il passato, la seconda inquina il presente. E fa sorridere che chi giustifica l'invasione in Ucraina, minimizza le violenze russe e cerca ossessivamente capri espiatori a Washington per giustificare Mosca (vecchio vizio rosso), poi si stracci le vesti per il caso Dostoevskij. Che è solo l'ultima declinazione di quei metodi dittatoriali verso i quali si sono sempre genuflessi: rimozione e bugie.
Alla ricerca di indizi sul carattere dell’uomo che tiene un dito sul pulsante nucleare, sono andato a rileggermi l’ultimo capitolo di «Limonov», capolavoro di Carrère. Vi si racconta di quando, nell’estate 1999, con Eltsin ancora al potere, il miliardario moscovita e burattinaio in capo Boris Berezovskij si recò a Biarritz, dove il capo dei servizi segreti Vladimir Putin trascorreva le vacanze con la famiglia, per convincerlo a entrare in politica. L’impresa si rivelò complicatissima, perché Putin oppose una discreta resistenza. Sostenne di non sentirsi all’altezza e di non avere ambizioni di quel genere. «In realtà sai chi vorrei essere, Boris Abramovic?», disse a Berezovskij. «Dimmi, Vladimir Vladimirovic, chi vorresti essere?». «Te». Berezovskij tornò a casa tutto felice e riunì la cupola degli oligarchi, annunciando loro che aveva trovato l’uomo giusto. Un mediocre senza personalità. «Vedrete, ci verrà a mangiare in mano». Solo il vecchio Eltsin, in un barlume di lucidità, bofonchiò: «Io quel piccoletto al Cremlino non ce lo voglio». Poi gli fecero cambiare idea. Un anno e mezzo dopo, Eltsin era in pensione e Berezovskij in esilio. La capacità di fingersi debole per non spaventare i più forti è stato l’indubbio talento di questo principe machiavellico. Ma gli anni passano anche sui caratteri e la speranza è che adesso Putin, per spaventare quelli che ritiene deboli, si stia fingendo più forte di quanto non sia. La Storia ha una certa predilezione per i ribaltamenti di ruolo.
Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 3 marzo 2022.
Quale ateneo, quale tempio del sapere, quale luogo di conoscenza, può considerare Fëdor Michajlovi Dostoevskij un pericolo?
È questa la domanda che ruota intorno all'incredibile vicenda raccontata da Paolo Nori in un post Instagram diventato virale: un'università italiana, la Bicocca di Milano, ha comunicato allo scrittore - profondo conoscitore della Russia, della sua letteratura come delle sue città, della sua lingua come della sua anima - che il ciclo di lezioni sull'autore di Delitto e castigo, I fratelli Karamazov, L'Idiota, veniva sospeso a causa della situazione internazionale.
Al che Paolo Nori, che sa raccontare la Russia come un romanzo e la sua vita quotidiana come fortunati sketch di teatro, ha strabuzzato gli occhi, ha puntato il cursore del portatile di nuovo su, ha riletto daccapo. Poi ha pensato: «Che teste di c...Lo scriva, lo scriva pure: che teste di c.».
Vedendo le sue lacrime sui social non si può non pensare al suo ultimo romanzo, Sanguina ancora. È sempre Dostoevskij a farla sanguinare. Ma stavolta i suoi libri non c'entrano.
«Cosa può far paura di Dostoevskij? Cosa temono di un uomo che è stato condannato a morte perché aveva letto pubblicamente una lettera proibita nel 1849?».
L'università parla di un malinteso, il corso si farà.
«Non so ancora se accettare e anzi non penso che lo farò. A meno che non mi dicano la verità: cosa hanno ritenuto imbarazzante di Dostoevskij riguardo alla guerra? La mail che mi hanno mandato è chiarissima: "Il prorettore alla didattica, d'accordo con la rettrice, ha deciso di rimandare il percorso su Dostoevskij per evitare tensioni interne in questo momento di politica internazionale". Che malinteso può esserci in una lettera del genere?».
Lei cosa pensa di quel che sta accadendo in Russia e in Ucraina?
«A lezione con i ragazzi del secondo anno (Nori insegna allo Iulm, ndr)abbiamo tradotto l'editoriale del premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, il direttore della Novaya Gazeta. Racconta che si sono ritrovati addolorati in redazione e c'è quest' immagine di Putin con in mano il pulsante nucleare come fosse il portachiave di una macchina lussuosa, come stesse giocando. Muratov scrive: "Ci rifiutiamo di considerare l'Ucraina un popolo nemico, questo numero del giornale esce in edizione bilingue, in russo e in ucraino, che non sarà mai per noi la lingua del nemico".
Ecco, io sono contento di aver portato dentro l'università questa roba qui. E ho scritto a un grande fotografo russo, Alexander Gronsky, arrestato in Russia per aver protestato contro la guerra, perché a Reggio Emilia hanno cancellato la sua partecipazione al Festival Fotografia. Gli hanno revocato l'invito perché russo. Mi sono scusato, gli ho detto che mi dispiace».
Le ha risposto?
«Sì. Mi ha detto che non riesce a essere tanto dispiaciuto per la revoca perché soffre per l'Ucraina. Questa guerra è una condanna per tutti. Ci stiamo dimenticando che in Russia ci sono persone così e non dobbiamo farlo. Io voglio ribadire il mio amore per la Russia oggi più che mai».
Si aspettava dall'università questo istinto di censura?
«Nella risposta ho scritto: "Sono senza parole". Quasi non volevo raccontarlo».
È talmente assurdo da poter condurre a un risveglio.
«Lo spero. Una docente di russo mi ha detto che alcuni suoi amici dovevano tornare a casa e non possono perché non ci sono voli, non funzionano le carte di credito. Ma essere russo non può essere una colpa».
Neanche essere ucraino lo è. La Russia ha deciso di attaccare in modo feroce e senza precedenti. Si aspettava un atto del genere?
«La voglia di Grande Russia c'è da sempre, ma no, non mi aspettavo si arrivasse a questo. Nel suo primo discorso Putin ha detto che moltissimi cittadini russi hanno un "rodnoj" in Ucraina. È più di un parente: viene da rodìt, partorire. Una persona con cui si ha un legame viscerale. Quindi no, non me l'aspettavo, ma io ho studiato letteratura, non riesco ad appassionarmi di politica».
Crede che sulla decisione della Bicocca abbia influito quanto successo alla Scala?
«Ho trovato esagerata la decisione sul direttore d'orchestra Gergiev. Poi ho visto che anche la soprano Netrebko, che è contro la guerra e che dicevano non sarebbe venuta perché stava male, ha scritto su Instagram che no, non sta male, non viene apposta. Perché è contro la guerra, ma non contro la Russia.
E quindi trovo che quel che sta succedendo sia una cosa stupida e che noi dobbiamo provare a non essere stupidi. Il portiere polacco della Juventus dice che è un bene che la Russia sia stata espulsa dai campionati del mondo. Bello sportivo! Che colpa hanno i giocatori?».
L'Europa risponde con le sanzioni, per cercare di isolare la Russia e convincerla a smettere di lanciare bombe sui civili. Non crede abbia senso?
«Non ho la preparazione, né l'intelligenza, né so se è giusto mettere sanzioni. Ma so che le persone devono comportarsi per bene con le altre persone. Anche se sono russe, anzi oggi a maggior ragione se sono russe o ucraine.
Da “Posta e Risposta” - “la Repubblica” il 3 marzo 2022.
Caro Merlo, leggo di Paolo Nori e della Bicocca. Allora dovrò ascoltare ostakóvi solo in cuffia e leggere i classici russi chiuso in salotto? Nel pur giustificato furore collettivo contro Putin, stiamo perdendo lucidità ? Ugo Guarducci - Firenze
La risposta di Francesco Merlo
La cosa che più sorprende nel testacoda dell'Università Bicocca è che i supercattedratici che avevano annullato le lezioni di Paolo Nori non sapessero che Dostoevskij era un campione della libertà, un oppositore del regime zarista. Sono loro che dovrebbero iscriversi ai corsi di Nori. E, se non avessero il tempo di leggere il suo ultimo Sanguina ancora. L'incredibile vita di Fëdor M. Dostojevskij , c'è pronto per loro un audiolibro di successo : L'idiota .
Federica Cavadini per corriere.it il 3 marzo 2022.
Nella diretta video su «la paura che fanno i russi», Paolo Nori, scrittore, traduttore e professore alla Iulm, racconta quasi in lacrime della mail appena ricevuta dall’università Bicocca, dove da mercoledì avrebbe tenuto un ciclo di lezioni su Dostoevskij. L’ateneo ha rinviato «per evitare qualsiasi forma di polemica in questo momento di forte tensione».
E Nori parla di «ridicola censura». «Essere russo è diventata una colpa — dice sbigottito —. Anche essere un russo morto». Il video è di martedì sera, è rilanciato in Rete dalle prime ore di mercoledì mattina e il dietrofront dell’ateneo arriva alle 11 con la rettrice Giovanna Iannantuoni che spiega: «Un malinteso. Le lezioni sono confermate».
Resta la domanda posta da Nori: «Un’università italiana che proibisce un corso su Dostoevskij?». E arriva subito, in mattinata, il chiarimento della ministra dell’Università, Cristina Messa (che a Bicocca è stata rettrice): «Bene che abbia rivisto la propria decisione. Importante che si tengano le lezioni di Nori con l’appoggio dell’ateneo».
Aggiunge che Dostoevskij «è patrimonio dal valore inestimabile e la cultura resta libero terreno di scambio e arricchimento» e sottolinea «il ruolo delle università come luogo di confronto e crescita ancora di più in una situazione così delicata».
I motivi del rinvio
Restano da spiegare le ragioni di quella mail. E per tutta la giornata arrivano commenti e interventi, dal mondo della cultura e dalla politica, su Nori, Bicocca, Dostoevskij si chiedono anche interpellanze parlamentari.
Una spiegazione per la scelta di Bicocca arriva dal prorettore alla didattica, Maurizio Casiraghi. «È stato un errore quella comunicazione ma non c’è stata nessuna censura — spiega —. Abbiamo deciso con la rettrice di rimandare il programma di un mese per avere il tempo di ristrutturarlo e ampliarlo per coinvolgere più studenti.
Ampliarlo come? L’idea era proporre anche autori ucraini, è una delle proposte arrivata dai docenti. Il nostro obiettivo è arricchire queste lezioni, che non sono corsi ma programmi che gli studenti possono inserire nel curriculum come competenze trasversali».
Il cortocircuito Bicocca-Nori
Per l’università Nori su Dostoevskij è confermato «nei giorni stabiliti e sui contenuti già concordati con lo scrittore». Nel pomeriggio però arriva la prima risposta di Nori. «Ancora non so se ci vado oppure no, ci devo pensare. Non so se voglio andare in una università che ha immaginato che Dostoevskij sia qualcosa che genera tensione».
E in serata commenta così l’idea dell’ateneo di proporre con Dostoevskij anche alcuni autori ucraini: «Non condivido che se parli di un autore russo devi parlare anche di un ucraino». E conclude: «Li libero dall’impegno che hanno preso e il corso che avrei dovuto fare in Bicocca lo farò altrove».
Gli inviti a Paolo Nori
Nori era già stato invitato da altri atenei a tenere le stesse lezioni. Da Pavia a Siena. E alla Iulm, dove lo scrittore insegna Traduzione editoriale della saggistica russa, i suoi studenti scrivono: «Condividiamo lo sconcerto per la scelta di Bicocca. Dostoevskij, pilastro della letteratura mondiale, non può essere improvvisamente accantonato soltanto perché russo».
E invitano la Iulm a chiedere a Nori di tenere seminari su Dostoevskij: «In un momento straziante per l’umanità, crediamo la letteratura russa sia farmaco e non veleno». E ancora: «Teniamo lontana ogni pulsione di censura. Giù le mani dalla letteratura russa, giù le mani da Dostoevskij».
Alberto Mattioli su Facebook il 2 marzo 2022.
Ultime news dalla nostra guerra in poltrona contro Putin, scaldati dal suo gas. Circola il tweet di un orchestrale italiano in pensione che propone ai suoi colleghi di non eseguire più autori russi. Quell’altro genio o forse genia (più politicamente corretto) della rettrice della Bicocca censura un corso su Dostoevskij (è seguita la marcia indietro). E infine il Wielki di Varsavia ha appena cancellato la nuova produzione del Boris Godunov. Speriamo che non lo venga a sapere Sala sennò restiamo senza titolo inaugurale.
La stupidità fa ridere. Ma guardate che la farsa sta diventando tragedia. Anche perché queste pagliacciate vengono perpetrate mentre gli ucraini combattono e muoiono, dando a tutti noi una lezione di dignità e di coraggio.
Forsan et haec olim meminisse iuvabit. ("Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose")
Da corriere.it il 2 marzo 2022.
«Ho ricevuto una mail dall’università Bicocca..». La diretta video è partita dal tema «la paura che fanno i russi», è passata dalla testimonianza del premio Nobel per la Pace Dmitry Muratov, il direttore di Novaja Gazeta, poi ha toccato la vicenda di Alexander Gronsky, prima invitato e poi «cancellato» dal festival di fotografia di Reggio Emilia. Infine è arrivata in Bicocca, l’ateneo pubblico di Milano.
Paolo Nori su Instagram: «Dovevo cominciare mercoledì un corso di quattro lezioni sui romanzi di Dostoevskij, un’ora e mezzo ciascuno, gratuito e aperto a tutti. Poi ho ricevuto questa mail: “Caro professore, il prorettore alla didattica ha comunicato la decisione presa con la rettrice (Giovanna Iannantuoni, ndr) di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è evitare qualsiasi forma di polemica, soprattutto interna, in questo momento di forte tensione».
Nori — classe 1963, traduttore e blogger, scrittore raffinato, autore di una cinquantina di romanzi — è docente al Dipartimento di studi umanistici Iulm, insegna traduzione editoriale della saggistica russa. In questo caso era stato chiamato dalla Bicocca per un mini-corso su Fëdor Michajlovic Dostoevskij. Quel corso non si farà — non ora. Ridicola censura, dice Nori: «La paura che fanno i russi sta prendendo dimensioni singolari».
La diretta Instagram
L’ultimo libro di Paolo Nori, pubblicato nel 2021, si intitola: «Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij». Un nome impronunciabile, oggi, con il conflitto russo-ucraino in corso e le bombe russe su Kiev? «Essere un russo è una colpa — dice Nori sbigottito e quasi in lacrime nella diretta Instagram —. Anche essere un russo morto.
Quello che sta succedendo in Ucraina è orribile, e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma queste cose qua sono ridicole: un’università italiana che proibisce un corso su Dostoevskij, non ci volevo credere. Bisognerebbe parlare di più di Dostoevskij. O di Tolstoj, primo ispiratore dei movimenti non violenti, molto ammirato da Gandhi che poi ha perfezionato la pratica. Questa cosa che l’università italiana proibisca un corso su Dostoevskij per evitare ogni forma di polemica è incredibile».
La colpa dei russi
All’inizio della diretta c’erano le parole scritte da Dmitry Muratov e tradotte proprio da Nori: «"Il nostro Paese per ordine del presidente Putin ha dichiarato guerra all’Ucraina e non c’è nessuno che può fermarla. Perciò, oltre ad essere addolorati, abbiamo e ho anche vergogna.
Dalla mano del comandante supremo come il portachiavi di una macchina costosa penzola il pulsante dell’attacco nucleare... Solo un movimento globale contro la guerra può salvare la vita sul nostro pianeta...”. Sono argomenti potenti in considerazione delle conseguenze che i giornalisti possono subire — riflette Nori — Ma essere russi è come una colpa, ormai. Non riesco a capire».
La solidarietà a Paolo Nori
Sul tema interviene con un tweet lo scrittore, drammaturgo e regista teatrale Giulio Cavalli: «La pericolosa abitudine di confondere i popoli con i loro governi è utile per infiammare il tifo ma diseduca alla complessità. Solidarietà a Paolo Nori (e a #Dostoevskij)»
Paolo Nori chiude la porta all’università Bicocca: «Niente lezione dopo la censura su Dostoevskij». Federica Cavadini su Il Corriere della Sera il 3 marzo 2022.
Nella diretta video su «la paura che fanno i russi», Paolo Nori, scrittore, traduttore e professore alla Iulm, racconta quasi in lacrime della mail appena ricevuta dall’università Bicocca, dove da mercoledì avrebbe tenuto un ciclo di lezioni su Dostoevskij. L’ateneo ha rinviato «per evitare qualsiasi forma di polemica in questo momento di forte tensione». E Nori parla di «ridicola censura». «Essere russo è diventata una colpa — dice sbigottito —. Anche essere un russo morto». Il video è di martedì sera, è rilanciato in Rete dalle prime ore di mercoledì mattina e il dietrofront dell’ateneo arriva alle 11 con la rettrice Giovanna Iannantuoni che spiega: «Un malinteso. Le lezioni sono confermate». Resta la domanda posta da Nori: «Un’università italiana che proibisce un corso su Dostoevskij?». E arriva subito, in mattinata, il chiarimento della ministra dell’Università, Cristina Messa (che a Bicocca è stata rettrice): «Bene che abbia rivisto la propria decisione. Importante che si tengano le lezioni di Nori con l’appoggo dell’ateneo». Aggiunge che Dostoevskij «è patrimonio dal valore inestimabile e la cultura resta libero terreno di scambio e arricchimento» e sottolinea «il ruolo delle università come luogo di confronto e crescita ancora di più in una situazione così delicata».
I motivi del rinvio
Restano da spiegare le ragioni di quella mail. E per tutta la giornata arrivano commenti e interventi, dal mondo della cultura e dalla politica, su Nori, Bicocca, Dostoevskij si chiedono anche interpellanze parlamentari. Una spiegazione per la scelta di Bicocca arriva dal prorettore alla didattica, Maurizio Casiraghi. «È stato un errore quella comunicazione ma non c’è stata nessuna censura — spiega —. Abbiamo deciso con la rettrice di rimandare il programma di un mese per avere il tempo di ristrutturarlo e ampliarlo per coinvolgere più studenti. Ampliarlo come? L’idea era proporre anche autori ucraini, è una delle proposte arrivata dai docenti. Il nostro obiettivo è arricchire queste lezioni, che non sono corsi ma programmi che gli studenti possono inserire nel curriculum come competenze trasversali».
Il cortocircuito Bicocca-Nori
Per l’università Nori su Dostoevskij è confermato «nei giorni stabiliti e sui contenuti già concordati con lo scrittore». Nel pomeriggio però arriva la prima risposta di Nori. «Ancora non so se ci vado oppure no, ci devo pensare. Non so se voglio andare in una università che ha immaginato che Dostoevskij sia qualcosa che genera tensione». E in serata commenta così l’idea dell’ateneo di proporre con Dostoevskij anche alcuni autori ucraini: «Non condivido che se parli di un autore russo devi parlare anche di un ucraino». E conclude: «Li libero dall’impegno che hanno preso e il corso che avrei dovuto fare in Bicocca lo farò altrove».
Gli inviti a Paolo Nori
Nori era già stato invitato da altri atenei a tenere le stesse lezioni. Da Pavia a Siena. E alla Iulm, dove lo scrittore insegna Traduzione editoriale della saggistica russa, i suoi studenti scrivono: «Condividiamo lo sconcerto per la scelta di Bicocca. Dostoevskij, pilastro della letteratura mondiale, non può essere improvvisamente accantonato soltanto perché russo». E invitano la Iulm a chiedere a Nori di tenere seminari su Dostoevskij: «In un momento straziante per l’umanità, crediamo la letteratura russa sia farmaco e non veleno». E ancora: «Teniamo lontana ogni pulsione di censura. Giù le mani dalla letteratura russa, giù le mani da Dostoevskij».
Vita di Dostoevskij con autoritratto. Bernardo Valli su La Repubblica il 7 febbraio 2022.
Paolo Nori mette sovente in scena anche se stesso nel libro che ha dedicato al grande scrittore russo. Al quale è lecito preferire un altro gigante: Tolstoj
Paolo Nori è un professore di lingua e letteratura russa, talmente preso dalla sua nobile materia di insegnamento da poter esibire come autore, a cinquantasette anni, decine di pubblicazioni: narrativa, saggi, traduzioni. Da alcuni mesi un suo libro (“Sanguina ancora”, sottotitolo “L’incredibile vita di Fëdor Mihajlovic Dostoevskij”, editore Mondadori) è in vendita in Italia, e tra non molto lo sarà in Francia.
Se la guerra mette alla sbarra la cultura russa. Lara Crinò La Repubblica il 2 marzo 2022.
Dalla polemica su Dostoevskij al Padiglione della Biennale di Venezia. Con l’invasione dell’Ucraina l’arte di Mosca finisce sotto accusa.
C'è chi usa il termine cancel culture e chi le definisce "sanzioni culturali". Il quotidiano britannico Guardian, riassumendo in una formula ciò che sta accadendo, titola: The Show can't go on, lo spettacolo non può continuare. In Italia, in Europa e nel resto del mondo, l'invasione russa dell'Ucraina sta comportando un effetto collaterale nel mondo delle arti.
Dostoevskij alla Bicocca, lo scrittore Paolo Nori rinuncia al corso: "Lo farò altrove". Tiziana De Giorgio su La Repubblica il 2 marzo 2022.
Dalla rivolta dei prof alla telefonata della ministra, l'università sommersa dalle polemiche fa marcia indietro ma arriva lo stop dello scrittore. Il prorettore Casiraghi: "Volevamo solo migliorare il corso aggiungendo anche altri contenuti".
Lo scrittore Paolo Nori rinuncia al suo corso su Dostoevskij all'Università Bicocca di Milano. Lo fa con un post su Instagram. "Il prorettore di Bicocca Casiraghi racconta i motivi per cui hanno sospeso il mio corso. Per 'ristrutturare il corso e ampliare il messaggio per aprire la mente degli studenti. Aggiungendo a Dostoevskij alcuni autori ucraini.
Paolo Nori, la Bicocca cancella il suo corso su Dostoevskij: "Censura". I docenti si ribellano e l'ateneo fa marcia indietro. La Repubblica il 2 marzo 2022.
L'ateneo ha cancellato con una mail il corso, lo scrittore: "Mi viene da piangere". Bicocca con una nota ufficiale spiega che il corso si terrà. La ministra Messa: "Ho parlato con Nori e con la rettrice Iannantuoni, bene aver rivisto la decisione". Nori: "Non so se ci andrò".
Lo scrittore Paolo Nori denuncia un episodio di presunta "cancel culture" da parte dell'Università Bicocca di Milano sulla Russia. Con una diretta Instagram ieri sera lo scrittore ha raccontato che avrebbe dovuto tenere nei prossimi giorni un ciclo di quattro lezioni sullo scrittore russo Dostoevskij, partendo dal suo ultimo libro "Sanguina ancora. L'incredibile vita di Fëdor M.
Dopo le polemiche l'ateneo fa retromarcia. Dostoevskij cancellato dall’Università Bicocca, salta il corso dello scrittore Paolo Nori: “Ridicolo, è censura”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Marzo 2022.
Fin dove ci si potrà spingere nella ‘guerra’ alla Russia e a Putin, colpevoli dell’invasione in Ucraina? Dopo le sanzioni internazionali, che ovviamente stanno provocando ripercussioni gravissime sull’economia del Paese e di conseguenza sui cittadini, vittime quanto quelli ucraini del conflitto in corso, ora è il turno anche di una generale ‘russofobia’ e a farne le spese è anche la cultura.
Esempio arriva dall’Italia e in particolare da Milano, città che appare in prima linea nell’opera di censura russa. A finire nel mirino erano stati prima il direttore d’orchestra della Scala Valery Gergiev, fatto fuori dal celebre teatro meneghino perché colpevole di essere amico personale dello Zar Vladimir Putin e di non aver condannato il conflitto in corso in Ucraina. Quindi è stato il turno della soprano Anna Netrebko, che ha disdetto i prossimi impegni, compresi quelli alla Scala: nel chiarire la sua posizione l’artista ha postato su Instagram una sua foto accanto proprio al maestro Valery Gergiev. Netrebko nei giorni scorsi aveva condannato l’invasione russa, con un ‘ma’: “Costringere a denunciare la propria terra d’origine non è giusto”.
Oggi a finire nel mirino della “censura” è addirittura Fëdor Dostoevskij, assieme a Tolstoj uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi di tutti i tempi. A spiegare il tutto è stato Paolo Nori, scrittore e grande esperto e studioso di letteratura russa, che ha raccontato su Instagram di aver ricevuto una email dell’Università degli Studi Milano-Bicocca nella quale gli è stato comunicato il rinvio di un ciclo di lezioni che avrebbe dovuto tenere sulla vita del romanziere.
In particolare l’Università avrebbe spiegato che il rinvio era dovuto al volere “evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione”, con evidente riferimento all’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca.
Nori aveva in programma un corso di quattro lezioni, aperte a tutti e gratuito, a partire da mercoledì 9 marzo, partendo dal suo ultimo libro “Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij“.
Lo scrittore, definendo “orribile” quanto sta accadendo in Ucraina, ha però voluto sottolineare l’assurdità della scelta dell’Università: “Quello che sta succedendo in Italia oggi, queste cose qua, sono ridicole: censurare un corso è ridicolo. Non solo essere un russo vivente è una colpa oggi in Italia, ma anche essere un russo morto, che quando era vivo nel 1849 è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita, lo è. Che una università italiana proibisca un corso su un autore come Dostoevskij è una cosa che io non posso credere, quando ho letto questa mail non ci credevo”.
Immediate le reazioni da parte di studiosi, professori, scrittori, attoniti quanto Nori per la scelta della Bicocca di rinviare il corso. Per Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, “bandire ora i rapporti con gli studiosi russi o addirittura la cultura russa vuol dire non sapere più cosa sia l’università. Oltre ad essere il più grande favore a Putin”. Condanna è arrivata anche dagli scrittori Nicolai Lilin, di origine russa, da Sandrone Dazieri e anche da una docente della Bicocca, Michela Cella: “Da collega mi dissocio da questa decisione“.
La retromarcia dell’Ateneo
Travolto dalle polemiche, l’Ateneo milanese in mattinata ha fatto marcia indietro confermando che il corso su su Dostoevskij di Paolo Nori si farà.
“L’Università di Milano-Bicocca è un ateneo aperto al dialogo e all’ascolto anche in questo periodo molto difficile che ci vede sgomenti di fronte all’escalation del conflitto. Il corso dello scrittore Paolo Nori si inserisce all’interno dei percorsi Bbetween writing, percorsi rivolti a studenti e alla cittadinanza che mirano a sviluppare competenze trasversali attraverso forme di scrittura. L’ateneo conferma che tale corso si terrà nei giorni stabiliti e tratterà i contenuti già concordati con lo scrittore“, spiega l’ateneo.
“Inoltre, la rettrice dell’Ateneo incontrerà Paolo Nori la prossima settimana per un momento di riflessione“, fanno sapere dall’Università.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Dopo la censura, Nori porta Dostoevskij ovunque. Emanuela Giampaoli su La Repubblica il 6 Marzo 2022.
Lo scrittore farà lezioni diffuse per ribadire il suo "sconfinato amore per l'autore di Delitto e castigo, per la lingua russa, per i russi, nonostante Putin e nonostante il dolore per quanto sta accadendo in Ucraina".
Non tutte le censure finiscono per nuocere. Almeno è quel che è accaduto a Paolo Nori che, dopo la paradossale cancellazione da parte della Bicocca del suo corso su Fedor Dostoevskij (poi maldestramente ritirata), ha visto amplificato l'interesse per l'autore di "Delitto e castigo". E così invece di scegliere un unico luogo dove portare le sue lezioni, ha deciso di andare "ovunque avrà senso".
Il politicamente corretto diventa grottesca “russofobia”. L'ultima trovata riguarda la vodka, finita all'indice di Bernabei, storico marchio romano del beverage, che ha deciso di bloccare la vendita del distillato russo. Rocco Vazzana Il Dubbio il 5 marzo 2022.
Quando il politicamente corretto sfocia nel grottesco, la censura bellica si trasforma in esplicita russofobia. Non c’è persona, prodotto o animale che non finisca nel mirino di quanti pensano di dare un contributo alla causa antiputiniana colpendo a casaccio. L’ultima trovata riguarda la vodka, finita all’indice di Bernabei, storico marchio romano del beverage, che ha deciso di bloccare la vendita del distillato russo attraverso i propri canali commerciali. Online «è completamente oscurata, non si può ne vedere né comprare, e la vogliamo eliminare totalmente dal nostro catalogo», rivendica il patron dell’azienda.
Ma la vodka, dicevamo, è solo una delle iniziative nate un po’ a casaccio in tutto il mondo. Solo due giorni fa, la guerra allo “zar” si è combattuta sul versante felino. Sì, perché pure i gatti russi vengono esclusi dalle competizioni internazionali per dare un segnale “forte” di fronte ai gatti del resto del mondo. Un trattamento che nemmeno i “colleghi” persiani hanno mai dovuto subire pur provenendo da un Paese in cima alla lista degli “Stati canaglia” stilata dal governo Usa. E dopo aver escluso Mosca dai mondiali di calcio e i club russi dalle competizioni Uefa, è toccato agli atleti paralimpici russi e bielorussi – che ieri avrebbero dovuto inaugurare i Giochi invernali di Pechino (in programma dal 4 al 13 marzo) – scoprire di essere stati estromessi da ogni gara. Un segnale forte che però ottiene un risultato insperato: fornire argomenti alla propaganda putiniana. «Questa situazione è decisamente mostruosa», ha avuto gioco facile nel commentare il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Grazie a una certa disparità di trattamento, il tennista numero uno al mondo Daniil Medvedev è riuscito invece a scamparla: dopo una scia lunghissima di polemiche e isterismi potrà continuare a gareggiare World Tour (Grand Slam compresi) purché senza bandiera russa. I censori più creativi, però, restano gli italiani. A cominciare dal sindaco di Milano, nonché presidente della Fondazione teatro alla Scala, Beppe Sala, che ha tolto la bacchetta dalle mani del maestro Valery Gergiev.
Il motivo? La mancata abiura al putinismo. E senza prendere nemmeno in considerare eventuali ripercussioni in patria per Gergiev e la sua famiglia, il sindaco di Milano ha stabilito che oggi il maestro non dirigerà La dama di picche di Cajkovskij. Ed è sempre a Milano che va in scena la commedia più ridicola di questa saga. L’università Bicocca chiede allo scrittore Paolo Nori di rinviare un seminario di quattro lezioni gratuite e aperte a tutti su Dostoevskij per «evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto è un momento di forte tensione». Un’offesa alla cultura mondiale e anche alla resistenza ucraina, certamente non interessata a bruciare i libri. Sempre che qualcuno non rimproveri ai combattenti pure di difendersi con dei russissimi kalashnikov e delle moscovite molotov.
Le "sanzioni" a Dostoevskij e la russofobia "a fin di bene". Marco Zucchetti il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.
Neppure il tempo di sentirsi di nuovo fieri di appartenere a un Occidente finalmente coeso e coerente nella risposta dura all'invasione russa, che subito le cose prendono una piega avvilente.
Neppure il tempo di sentirsi di nuovo fieri di appartenere a un Occidente finalmente coeso e coerente nella risposta dura all'invasione russa, che subito le cose prendono una piega avvilente. E anche la sacrosanta battaglia per isolare il regime di Putin va in vacca, trasformandosi in una bega manichea da stadio, roba da «loro» cornuti, «noi» forti e puri.
Rimanendo in Italia, la situazione sembra preoccupante su due livelli, ed entrambi hanno a che fare con l'incapacità di commisurare l'indignazione al buonsenso. Il primo livello è quello di una montante russofobia «a fin di bene» che muove dalla convinzione (ineccepibile) di essere dalla parte giusta della storia. «Siamo tutti ucraini», e dunque è legittimo bullizzare il nemico a casaccio. Su queste basi, sindaci e istituzioni varie hanno iniziato a pretendere abiure da parte di privati cittadini russi. I quali, per il solo fatto di avere in tasca un passaporto di Mosca non possono lavorare se non «condannano» le violenze. Partendo da buone intenzioni democratiche, si arriva alle purghe illiberali e putiniane.
In primo luogo non si capisce da che pulpito questi novelli inquisitori, che si sentono investiti della missione di snidare il Male ovunque, si permettano di pretendere eroiche dichiarazioni di anti-totalitarismo da parte di cittadini di un Paese dove una parola sbagliata può costarti la carriera o la libertà. Soprattutto se si considera che gli stessi inquisitori sono molto meno baldanzosi nella denuncia pubblica quando un loro superiore, rettore o leader di partito commette un reato. Facile fare gli antiputiniani a Milano.
In secondo luogo, c'è qualcosa di inquietante nell'addossare le colpe di un regime alla popolazione, come se a guidare i tank fossero indirettamente i direttori d'orchestra o i soprani. Certo, è doveroso boicottare affaristi, politici, squadre sportive e aziende espressione del potere di Mosca, sospendere l'uso di inno e bandiera alle Olimpiadi e vigilare affinché le figure pubbliche come gli artisti non si trasformino in megafoni della propaganda dello zar. Ma qui si sta andando oltre. Che c'entra la gogna al singolo con il dovere civico di colpire Putin ovunque? Questo non è isolare un regime, ma è un gioco di ruolo: chi vuole sentirsi partigiano contro l'invasore ma senza gli inconvenienti del fango e delle pallottole, sceglie l'iconoclastia come hobby, come avanspettacolo social.
Il rischio però è che dalla Scala si arrivi al tennista e alla modella, fino al camionista e alla badante, scatenando una caccia alle streghe superficiale in cui ogni russo diventa un potenziale nemico della pace mondiale, come ogni giapponese sul suolo americano dopo Pearl Harbor. Con il risultato che, trattando da criminali migliaia di persone il cui eventuale (e privato) voto a Putin potrà essere causa di disapprovazione, ma non può essere condizione sine qua non per svolgere il proprio lavoro, farà sentire sotto attacco una comunità che ancor più si compatterà sotto l'egida di quel dittatore che diciamo di voler privare del suo consenso. Bel lavoro.
Il secondo piano è invece più ampio e parte dall'ormai drammatica incapacità generale di sostenere una posizione senza per forza trascendere nell'autocensura. Il caso del corso di letteratura su Dostoevskij cancellato dall'Università Bicocca «per evitare polemiche» è indicativo. Ma è anche utile, perché come i canarini nelle miniere ci avverte di quanto l'atmosfera culturale sia diventata irrespirabile. Il terrore di apparire «filo-qualcosa-di-brutto-e-cattivo» porta ad evitare qualsiasi riferimento a temi sensibili. E a creare anche una «no fly zone» dialettica di sicurezza, che bandisce non solo il tema (il conflitto russo-ucraino), ma anche qualsiasi discorso tangenziale (la letteratura russa). Sui social girano immagini di Ignazio La Russa ribattezzato Ignazio L'Ucraina e il bando per l'insalata russa o la fermata Moscova della metro, ma nulla può essere più ridicolo della rimozione di Dostoevskij da un ateneo, perché nulla spiega più efficacemente lo stato comatoso in cui stiamo scivolando. Ci stiamo trasformando in fanatici un tanto al chilo, che seguono le bandiere delle crociate come le mode, senza capire più cosa è utile e cosa dannoso, cosa è doveroso e cosa è cretino. Anzi, cos'è Idiota. Sempre che citare un romanzo russo non ci renda complici di sterminio.
Cancella gli idioti. I recenti fan di Dostoevskij hanno scoperto oggi la cancel culture nascosta nel sottosuolo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Marzo 2022.
La decisione dell’Università Bicocca di fermare (e poi ripristinare) un corso di Paolo Nori sullo scrittore russo è nello spirito di questi tempi scemi, quelli della viltà intellettuale.
Io non capisco cos’aspettino gli autori satirici a fare causa alla realtà per demansionamento. Non so proprio quale altro abisso di mancanza di senso del ridicolo tocchi osservare per decidere che è troppo, che non si usurpa così il mestiere a chi si guadagna la mesata ideando paradossi, non si scippa l’ideazione del delirio a chi è iscritto all’ordine professionale degli immaginatori di scemenze, non quando si è rettori universitari o altre cariche istituzionali. È inaccettabile, cribbio.
Riepiloghiamo queste trentasei ore di romanzetto minore.
Martedì sera Paolo Nori, su Instagram, riferisce d’aver ricevuto una lettera dall’università di Milano-Bicocca, presso la quale dalla settimana prossima dovrebbe tenere un corso, quattro lezioni sui romanzi di Dostoevskij.
Paolo Nori è un romanziere, uno studioso di letteratura russa, un intellettuale che in queste settimane si presta a fare divulgazione sulla lacuna di turno: il tema di cui in queste settimane sentiamo tutti l’urgenza di parlare pur non sapendone un cazzo. Alcuni turni sono più scoperti di altri, questo ha la fortuna d’esser coperto da Nori.
Dostoevskij, invece, è quel romanziere russo che non è Tolstoj: non quello della guerra e della pace, quello del delitto e del castigo (lo preciso per non farvi consumare Google). È, anche, il protagonista dell’ultimo romanzo di Nori, ma guarda un po’: Sanguina ancora, pubblicato da Mondadori. Avrebbe compiuto duecento anni qualche mese fa, Fëdor: ve lo preciso perché, senza consumare Google, possiate annuire e fingere di sapere benissimo che certo, mica è un contemporaneo, mica ha opinioni sull’attualità.
Nori legge a chi lo segue su Instagram le poche righe della Bicocca: «Caro professore, questa mattina il prorettore alla didattica mi ha comunicato la decisione presa con la rettrice di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è quello di evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione».
Se siete tra coloro che negli ultimi anni hanno assistito alla presa di potere della viltà intellettuale, non vi meraviglierete più di tanto: evitare polemiche sembra ormai lo scopo ultimo delle università di tutto il mondo. Anche coprendosi di ridicolo: leggere Memorie dal sottosuolo è controverso, perdindirindina, non potremmo sostituire il Dostoevskij col Gogol, che almeno era nato in Ucraina? (Questo non credo stesse nella comunicazione della Bicocca, o almeno Nori non l’ha letto a voce alta: sono io che sto sceneggiando ipotesi, tanto in ’sto delirio è concesso tutto).
C’è solo un modo d’averla vinta, nell’asilo nido che è divenuto il dibattito accademico. Far nascere una polemica reale che sia ancora più fastidiosa di quella potenziale «avete fatto un corso su un autore russo».
Ieri mattina il video di Nori era stato abbastanza diffuso da far dire alla Bicocca che era stato «un misunderstanding» (milanesi, prima o poi toccherà spiegarvi che dirlo in inglese non vi fa sembrare meno fessi – anzi). Il corso era stato ripristinato e la Bicocca aveva diramato un comunicato dall’imbarazzantissima chiusa «La rettrice dell’Ateneo incontrerà Paolo Nori la prossima settimana per un momento di riflessione».
Un momento di riflessione. Pregano insieme? Lui le regala dei bignami di Turgenev? Lei ha un figlio fancazzista e vuole sapere da lui se sia colpa di Oblomov? Lui le consiglia dei consulenti per la comunicazione che le evitino di passare per una deficiente che ritiene controverso un corso su uno scrittore di duecento anni fa? Fanno uno zoom col rettore di Yale che spiega loro quanto siamo in ritardo sulle forte tensioni e gli autori da cui è meglio tenersi lontani – a Yale già nel 2016 consideravano inopportuno Shakespeare, noi italiani sempre derivativi – e istituiscono una commissione di valutazione per stabilire se la peggior figura la si faccia a proibire o a lasciar fare? Lei chiede a lui conto di quella frase di Sanguina ancora che dice «Tutte le Russie sono tre: la piccola Russia, cioè l’Ucraina, la Russia bianca, cioè la Bielorussia, e la Russia Russia, cioè la Russia» e gli intima di rinnegarla? Ogni ipotesi fantasiosa è possibile.
Il fatto è che, mentre noialtri cui premeva far capire quanto fossimo in confidenza con la letteratura russa dell’Ottocento twittavamo spiritosaggini sbeffeggiando la cauta rettrice, là fuori c’era gente cui negli anni è stato detto che mica è necessariamente sbagliato rinnegare le opere se gli autori hanno la fedina penale sbagliata, la nazionalità sbagliata, il genere sessuale sbagliato, le convinzioni morali sbagliate. E quella gente era giustamente confusa. E sì, ci faceva ridere quando qualche carneade twittava che questo Fëdor deve prendere le distanze da Putin (giacché non riusciamo a seguire le istruzioni per montare la libreria Ikea ma ci pare inaccettabile che uno non sappia in che secolo è vissuto un romanziere che noi invece conosciamo); ma – una volta lasciata passare la linea per cui i consumi culturali non si valutano per la qualità delle opere ma per la fedina morale degli autori – perché Brocco75 non dovrebbe pretendere che Cechov faccia dire a Trofimov qualcosa contro Putin?
Il prorettore, ieri, dichiarava che l’equivoco (in milanese: misunderstanding) era dovuto all’idea di ampliare: volevano che Nori aggiungesse autori ucraini (quattro lezioni su Dostoevskij che diventano un bigino su tutta la letteratura di zona). Meccanismo già visto: mica vogliamo abolire Shakespeare, abbiamo sentito dire molte volte nelle università americane, ma ci sarà pure qualche trans d’origine thailandese che valga la pena studiare nella letteratura anglofona del Seicento, basta con ‘sto monopolio dei maschi bianchi.
Ieri il sindaco di Firenze ha twittato il suo fermo rifiuto di rimuovere la statua di Dostoevskij, inaugurata appunto per il duecentesimo compleanno. «Mi hanno chiesto di buttare giù la statua», ha scritto, spiegandoci poi che non bisogna «cancellare secoli di cultura russa». Ho telefonato all’ufficio stampa per sapere chi avesse chiesto a Nardella di abbattere la statua. La rettrice della Bicocca? Gli autori di libri con copertine gialle o azzurre che finalmente hanno accesso alle vetrine Feltrinelli in versione ucraina e non par loro vero che i gesti solidali siano l’anima del commercio? Il fan club di Tolstoj?
Mi ha risposto «dei passanti», e mi è sembrata una risposta pregna di spirito del tempo. Chiunque passa dice una stronzata, e noi gli diamo un turno sul palcoscenico della polemica del giorno. Sia quel chiunque turista che molesta il sindaco, o rettrice che molesta uno scrittore. Comunque vada, polemizzare ci pare più alla nostra portata che studiare la letteratura. Oltretutto, letteratura scritta da gente che neanche sta sui social a spiegarci cosa pensa dell’attualità spicciola.
Dostoevskij non ci basta, perché non censuriamo Hemingway? La censura di guerra corre più veloce dei blindati russi. E ogni giorno colpisce nuovi bersagli: dopo il reato di “non opinione” per il maestro Gergiev, ora si è passati alla roncola della cancel culture. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 2 marzo 2022.
La censura di guerra corre più veloce dei blindati russi nelle steppe ucraine. E, come una giostrina isterica, ogni giorno si accanisce su nuovi, pregiati bersagli. L’ultima vittima è Fëdor Michajlovicč Dostoevskij, deceduto più o meno 140 fa quando in Italia regnava Umberto I e governava Agostino Depretis. L’Università della Bicocca di Milano aveva infatti deciso di sospendere un corso sul grande romanziere russo «per evitare polemiche».
Così recitava la mail spedita allo scrittore Paolo Nori che avrebbe dovuto tenere quelle lezioni. Una decisione talmente stupida che l’ateneo meneghino dopo poche ore e relativa rivolta sui social è tornato sui suoi passi. Il corso ci sarà, non prima però che la rettrice incontri Nori «per un momento di riflessione». Su cosa diavolo mai i due debbano riflettere non è dato saperlo. C’è da dire che l’avvilente vicenda suggerisce nuove strade allo zelo dei censori. Dopo il reato di “non opinione” per cui il direttore d’orchestra Gergiev è stato licenziato in tronco dalla Scala di Milano, ora si è passati alla roncola della cancel culture per colpire il passato remoto delle nazioni. Con associazioni di idee da scuola materna: cosa lega Dostoevskij alla guerra di Putin? Semplice, il luogo di nascita: San Pietroburgo. Scorrendo il ditino sulla carta geografica avremmo potuto applicare questa logica ad altri conflitti ed altri, illustri personaggi.
Vuoi dare un segnale forte contro le guerre americane in Vietnam e in Iraq? Beh, potresti iniziare sospendendo la visione dei film di Steven Spielberg e Clint Eastwood, oppure la lettura dei romanzi di John Steimbeck ed Ernest Emingway. O magari boicottare gli album di Michael Jackson e Madonna. Sei un oppositore della colonizzazione francese in Algeria? Prenditela con François Truffaut e Jean Luc Godard, oppure con Jean Paul Sartre e Albert Camus. E naturalmente al rogo quei tedescacci di Wolfang Gohete e Thomas Mann.
L’utopia di Gino Strada. Il chirurgo che ci insegnò a curare (anche) i nemici. Carlo Rovelli su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.
Questo è un libro che penso dovrebbero conoscere tutti, che si dovrebbe far leggere nelle scuole. È un libro diretto, sincero, che va al cuore del problema più importante che abbiamo oggi, e ci indica in maniera semplice come affrontarlo. Ma è anche un libro inquietante, perché ci mette davanti agli occhi l’orrore, e perché ci mostra che stiamo sbagliando. Gino Strada, fondatore di Emergency, l’organizzazione che cura i feriti di guerra in condizioni di emergenza, è scomparso l’anno scorso, lasciando un grande vuoto. Ha scritto questo volume un po’ alla volta, nel corso dei suoi ultimi mesi. Simonetta Gola, la sua compagna, ha partecipato alla scrittura e ne ha curato la pubblicazione, completandolo con una struggente postfazione. Nel libro, Strada racconta la sua vita di chirurgo di guerra, l’esperienza diretta e devastante della violenza, dell’orrore della guerra, il senso e lo spirito di Emergency e del suo attivismo. Mi ha catturato fin dalle prime pagine, con la nostalgia di una generazione che viveva direttamente e semplicemente la bellezza e l’intensità dell’impegno collettivo civile e politico. Poi, è l’incontro con la sofferenza sconvolgente generata dalla guerra, che segna Strada e riorienta la sua vita, a emergere bruciante da queste pagine.
Ma la forza di questo libro è la chiarezza con cui il racconto di Strada ci indica implicitamente dove sbagliamo. In un mondo in cui continuiamo a pensarci in termini di noi-contro-loro, in cui da una parte come dell’altra non facciamo che incolparci l’un l’altro e ci stordiamo di narrazioni per raccontarci all’infinito quanto «gli altri» siano aggressivi, cattivi, orripilanti, incivili, malvagi, subdoli, diabolici, cinici, dittatoriali, senza scrupoli (non si parla d’altro in questi giorni), Strada vede solo esseri umani che soffrono, che si sparano l’un l’altro, che si massacrano, che si mutilano, che spargono dolore, per non arrivare mai a nulla. Dobbiamo imparare a guardare il mondo come lui, pensarci come parte di un’unica comunità umana con problemi comuni, invece che continuare a struggerci per voler essere più forti degli altri. Perché ci lasciamo sempre catturare da questa sciocca retorica della demonizzazione dei nostri nemici? Siamo davvero cosi ciechi, oppure è solo il nostro egoismo che non ha scrupoli né limiti, a seminare dolore per qualche lira in più. In un caso o nell’altro, questo libro ci mette in discussione. Quanti bambini devono essere ancora straziati dalle bombe che noi produciamo e che non facciamo altro che gettare ovunque da decenni?
La forza del pensiero di Gino Strada è la connessione diretta fra la chiarezza del suo vasto sguardo politico, che vede il problema nella sua totalità, e l’estrema concretezza del suo impegno: una persona alla volta, curata da lui, e negli ospedali di Emergency, migliaia di singoli strappati, uno a uno, alla morte e alla sofferenza. «“Ma come, Emergency cura i talebani? Il nemico?”. Ebbene sì, noi curavamo anche i talebani. Li curiamo perché siamo esseri umani che si rifiutano di lasciar morire altri esseri umani. Curiamo i talebani come chiunque si presenti ai nostri cancelli, senza fare domande». Riuscirà la giovane generazione ad assorbire il pensiero di questo medico stupendo, libero, capace di andare per la sua strada, anche contro tutti, e per tutti? Riuscirà a portarci fuori da questa follia? Lo so che molte persone della mia età scuoteranno la testa, ma io ci spero. Simonetta chiude il libro così: «E dunque il pensiero è sempre con te, che con le tue parole continui ad aprire la strada a una visione potente: “L’utopia è solo qualcosa che ancora non c’è”».
LA PATRIA RUSSIA.
Fucilato, avvelenato e annegato: così il santone russo "sopravvisse" ai posteri. Grigorij Elfomovič Rasputin è stata e rimane una delle figure più contorte e misteriose del XX secolo. Rimasto accanto alla famiglia Romanov, fu uno dei motivi principali della caduta dell'impero zarista. Laura Lipari il 30 Agosto 2022 su Il Giornale.
Grigórij Efímovič Raspútin: questo è il nome di una delle personalità più contorte e inquietanti dello scenario russo dell'ultimo secolo. La sua figura è senza dubbio legata alla famiglia imperiale dei Romanov e in particolar modo allo zar Nicola II e alla zarina Aleksandra Fëdorovna.
Da contadino a santone: la trasformazione
Le origini di Raspútin sono avvolte nel mistero. Si pensa che sia cresciuto in Siberia, dove era già conosciuto dai cittadini del villaggio come un uomo vile e oltraggioso. Si macchiava spesso di piccoli reati, quasi sempre furti. Era sposato e aveva dei figli. La moglie, nonostante fosse esasperata dal comportamento del marito, gli restò accanto sempre, anche quando tutta la Russia lo voleva morto.
Deciso a cambiare vita, verso il 1897, Grigórij si allontana dal villaggio in cui abitava per andare alla ricerca di Dio. Soggiorna in alcuni monasteri e vaga in cerca di speranza e luce. Legge i libri sacri e ascolta gli insegnamenti di figure religiose, ma continua a non essere soddisfatto. Pensa che ci sia qualcosa di più dietro al mistero di Dio e che le sue potenzialità possano servire per evangelizzare la fede.
S’immerge totalmente nella dottrina ortodossa russa, imparando a memoria i passi del libro sacro, ma manca ancora qualcosa. Tutto cambia quando conosce la setta dei chlysty, una congregazione che esalta la sessualità attraverso riti orgiastici. La logica che sta alla base di questa comunità è che se non si pecca non ci si può pentire, e se non ci si pente non si può essere salvati. Da quel momento Raspútin si convince che Dio voglia servirsi di lui per guarire l’anima attraverso il corpo e che lui sia il mezzo perfetto.
Da questo momento diventa “il santone”. Barba e capelli lunghi, libro sacro in mano e abiti da monaco. Fino all’ultimo respiro la sua non è mai stata una parte di un copione recitata a memoria. Ha sempre creduto fermamente nei suoi poteri curativi e col tempo riuscì a convincere molti di essere colui che avrebbe portato la salvezza.
L’arrivo a corte
Nel 1904, dopo anni di attese e disperazione da parte dello zar e della zarina, nasce Aleksej Nikolaevič Romanov, unico figlio maschio e futuro erede al trono russo. È lui la speranza per la dinastia Romanov. Sembra che il bambino sia sano e nulla fa presagire niente di anomalo, se non per una macchia che sembra sangue. Dopo attente visite il medico comunica alla famiglia che Aleksej soffre di una grave malattia: l’emofilia. Un qualsiasi graffio o ferita potrebbe essere mortale per il piccolo. Non potrà condurre una vita normale. Ogni suo movimento dovrà essere controllato.
Per Nicola e Aleksandra è una tragedia. Il futuro zar è troppo fragile, non si sa neanche se potrà vivere anni. Passano mesi intrisi di sofferenza, vengono consultati i migliori dottori in circolazione. Nel frattempo il bambino cresce sotto una campana di vetro costruita dalla madre che non lo lascia neanche un attimo da solo. Tutte le attenzioni sono concentrate su di lui per prevenire un passo falso. La condizione di Aleksej è invalidante sia per se stesso che per tutta la famiglia reale. Lo zar, già incauto nel suo ruolo, abbandona sempre più la sua figura di sovrano per rimanere accanto alla sua famiglia.
È a questo punto che entra in gioco la figura di Raspútin. La nomea del santone viaggia velocemente e arriva fino alla corte. Nicola è scettico ma emotivamente sconfitto, non avendo nulla da perdere lo manda chiamare per un consulto. Quell’uomo barbuto ha un’energia particolare. È sicuro di sé, è carismatico, coinvolgente e convincente. Sin dal suo arrivo a corte sente di avere in pugno la situazione e d’altra parte i due coniugi reali non possono fare altro che dargli fiducia.
Da questo momento tra il monaco, Nicola e Aleksandra nasce un’intesa particolarmente forte. Man mano che Raspútin rimane dentro il Palazzo infatti, riesce a persuadere soprattutto la zarina di essere fondamentale per l’incolumità del figlio e di tutta la famiglia. Diventa dunque una figura di riferimento per ogni situazione, non solo quella spirituale, ma anche logistica e a volte anche politica. La soggezione al monaco diventa quasi idolatria.
All’esterno della corte invece, soprattutto tra i nobili e gli uomini vicini allo zar, Raspútin non è visto di buon occhio. Qualcuno si rende conto della prigione di vetro che l'uomo sta costruendo attorno alla famiglia. I Romanov, nel frattempo, sembrano sordi e ciechi di fronte la situazione di degrado che nel frattempo sta dilagando in Russia. I cittadini soffrono la fame e gli affari esteri sono in declino. Non è servita neanche la Rivoluzione del 1905 per scuotere Nicola di fronte ai suoi doveri.
Dopo una serie di azioni volte ad allontanare il santone da Mosca e la resistenza dello zar, la nobiltà russa comincia a lavorare su un piano per eliminare definitivamente il monaco.
L'inquietante fine
Il cadavere congelato di Rasputin adagiato su una slitta dopo il suo ritrovamento
Nel 1916 in una fredda notte di dicembre, il principe Felix Jusupov organizza una cena per uccidere Grigórij Raspútin. All’interno dell’abitazione vi sono il cugino dello zar, gran duca Dimitrij Pavlovič Romanov, Vladimir Mitrofanovič Puriškevič, il luogotenente Sukotin e il dottor Lazavert tutti d'accordo sul compiere l'omicidio. Il piano è semplice: avvelenarlo e nascondere il suo corpo.
A questo punto la storia si mescola alla leggenda. Secondo alcuni racconti, sembra che nella tavola imbandita era presente talmente tanto cianuro tra il cibo da uccidere un intero esercito. Seduti ognuno sulle proprie sedie, gli uomini non avrebbero toccato alcuna vivanda, aspettando il passo falso del santone nell'ingestione del veleno. L’uomo, secondo quanto è stato riportato, avrebbe mangiato e bevuto a volontà senza accusare alcun malore, facendo rimanere di stucco i presenti.
Determinati a eliminare quell'essere che non sembrava reale, decidono di cambiare il piano. Raspútin viene crivellato da diverse armi da fuoco e i primi colpi lo feriscono lievemente. Gli uomini sono terrorizzati da quel corpo che viene colpito ma non abbattuto. Esasperati, i congiurati prendono a colpire il monaco con calci e pugni finché questi non smette di respirare.
Viene legato, avvolto in una coperta e gettato nelle acque gelate del fiume Malaya Nevka. Dopo qualche tempo il corpo del santone viene ritrovato e analizzato. L’autopsia rivela due fatti misteriosi: non solo la presenza di acqua nel corpo, segno che fosse ancora vivo mentre veniva scaricato, ma anche l’assenza di veleno nello stomaco.
Sul conto di Raspútin sono state create storie e congetture che hanno contribuito a plasmare un personaggio inquietante e persino mistico. Non si sa quanta verità e quanta fantasia siano arrivate fino ai giorni nostri: quel che è certo è che il suo ruolo ambiguo e contorto sia stato in qualche modo oggetto di attrito tra lo zar e l'aristocrazia russa da cui ne conseguì una posizione di conflitto insanabile e la fine definitiva della Russia zarista.
Come Raspùtin tentò di salvare la Russia e lo Zar. La sua profezia su Roma. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 22 luglio 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
Leggendo nel grande libro della Storia, a volte, si ha l’irritante sensazione che vi sia stato un errore, come se mancasse una pagina: incoerenze logiche tra fatti oggettivi e stereotipi consolidati.
Una di queste spiacevoli sorprese riguarda la figura di Grigórij Efímovič Raspútin, il monaco russo icona dell’”eminenza grigia manipolatrice, perversa, dissoluta e malefica” che aveva plagiato la famiglia Romanov.
Sperando di non finire in una lista di proscrizione per giornalisti filo Ras-putin, scopriamo che il vero, enorme danno per il mondo fu che lo starec (nome dei mistici ortodossi) non fosse riuscito a manipolare fino in fondo la famiglia dello Zar: l’umanità si sarebbe risparmiata una 90ina di milioni di morti e atroci sofferenze di interi popoli per quasi un secolo.
L’immortale canzone dei Boney M. (1978) ben descrive il monaco: “Egli era grande e forte, nei suoi occhi un bagliore fiammeggiante, la maggior parte delle persone lo guardavano con terrore e paura, ma con le giovani donne di Mosca era così gentile”…
Il suo aspetto diede sempre adito ai nemici per dipingerlo in modo oscuro: la posa ieratica, il saio nero, lo sguardo magnetico creavano un contrasto esplosivo con la fama di donnaiolo. Fin da giovane, dimostrò inclinazione verso alcolismo ed erotomania, due vizi dai quali non seppe emendarsi nemmeno dopo la conversione che fece di lui un predicatore seguitissimo e circondato dalla nomea di taumaturgo.
Pare avesse capacità pranoterapeutiche, ma se vogliamo adeguarci allo scetticismo dogmatico di un Piero Angela, di sicuro riusciva a creare nei malati un effetto placebo così potente da sortire effettive guarigioni. Tale fama gli procurò l’attenzione della Zarina Alice d’Assia, devastata per l’emofilia del figlio piccolo Aleksej. Raspùtin allontanò i medicastri dal principino e, con essi, l’aspirina che, come anticoagulante, era la sostanza peggiore che potessero somministrare a un bambino cui bastava una sbucciatura per dissanguarsi. Lo zarevic migliorò subito; cuore di mamma, la Zarina ovviamente divenne dipendente dal monaco tanto da far malignare su una loro presunta relazione, ma lettere affettuosissime erano recapitate al “maestro” anche dalle quattro figlie di Alice, dalla giovane Olga fino alla piccola Anastasija, di otto anni. A meno di non considerare Raspùtin tanto stupido da abusare di tutte loro, tali sentimenti si devono considerare intrisi di spirituale entusiasmo e aristocratica ingenuità.
I pettegolezzi furono, peraltro, diffusi dal monaco Iliodoro, omosessuale, nemico di Raspùtin che detestava nel confratello l’esercizio di una virilità esuberante, derivato – forse - da una giovanile frequentazione nella setta dei Chlysty, per i quali il rito orgiastico era via di elevazione spirituale. Omosessuale era anche il principe Jusupov, autore del suo laborioso assassinio: per uccidere Raspùtin non bastarono cianuro, coltellate, revolverate e si dice che solo l’assideramento, quando fu gettato nella Neva, ebbe la meglio sulla sua potente forza vitale. Anche questa apparente “immortalità” alimentò la leggenda nera: insomma, in troppi lo odiavano e così tanto da seppellirlo con una valanga di maldicenze.
Eppure, i Romanov avevano in lui un vero nume tutelare. Nicola II era un debole, controllato dalla fragile moglie; una delle poche decisioni che prese da solo fu un errore immane: entrare nella Grande Guerra con un paese arretrato sul piano sociale, economico e tecnico-militare. Risultato: 3,5 milioni di morti fra militari e civili. Morto Raspùtin nel 1916, con il crollo del fronte interno, la Rivoluzione d’Ottobre fece il resto, fucilando l’intera famiglia Romanov (17 luglio 1918), ponendo fine allo zarismo, e regalando al mondo i circa 90 milioni di morti del Comunismo spacchettati tra Urss, Cina, Vietnam, Corea, Cambogia Europa dell’est e rotti.
Eppure Raspùtin, che conosceva bene il mondo contadino, aveva tentato disperatamente di dissuadere Nicola II, prima e dopo la firma, implorandolo di salvare dal conflitto un popolo che aveva già sopportato la schiavitù, la sferza dei padroni, la speculazione agraria, la carestia, il disastro della guerra russo-giapponese (1905). Fin dai primi sentori di guerra, nel ’14, il monaco guaritore inviò allo Zar questo telegramma: "Se la Russia va in guerra, sarà la fine della monarchia, dei Romanov e delle istituzioni russe". E così fu.
Ma pochi sanno che un’altra profezia del mistico ortodosso riguarda proprio Roma: "Nella notte dell’uomo bruciato, il sangue scorrerà a fiumi nella Roma dei papi e dei lestofanti. Il popolo uscirà sulle piazze accecato da un odio covato da tanto tempo e sulle picche lorde di sangue vedrete le teste dei politici, dei nobili e del clero. Il corpo di un uomo venerando sarà trascinato per le strade di Roma da un cavallo bianco e sulle strade rimarrà l’impronta del suo sangue e i lembi della sua pelle. Solo allora si scoprirà che l’uomo venerando era un serpente. E morirà come muoiono i serpenti. In questa notte di sangue e di magia le stelle cambieranno luce: quelli che indossavano l’abito della delinquenza indosseranno l’abito della giustizia e quelli che erano giusti diventeranno ingiusti”.
Dunque pare che, a Roma, (un 17 febbraio, data del rogo di Bruno?), qualche anziano maligno sarà smascherato, perderà la propria pelle (abito?) e ci sarà una presa di coscienza collettiva e traumatica. Chissà di chi si tratta … Ma forse, come già fu per Nicola II, anche stavolta nessuno prenderà in considerazione l’avvertimento del monaco barbuto. E tutto andrà come deve andare.
Fu Lenin il vero maestro dei crimini di Stalin. Orlando Sacchelli il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.
In molti libri ed enciclopedie Lenin viene ricordato come rivoluzionario e iniziatore del movimento comunista internazionale. Si dimentica, però, che molti crimini di cui si macchiò più tardi Stalin furono avviati da Lenin stesso. E la cosa non sembra imbarazzare Bersani (e il Pd)
Uno degli errori più grandi che possono essere fatti, limitandosi a letture frettolose, è considerare Lenin meno colpevole di Stalin. In realtà taluni gravi crimini vennero messi in pratica dai rivoluzionari russi subito dopo aver preso il potere. La violenza criminale non è figlia della degenerazione staliniana, dunque, ma era stata teorizzata e messa in pratica anni prima. Ci soffermiamo su Lenin perché, di recente, dopo le polemiche sulla cosiddetta "cancel culture" legate alla richiesta di rimuovere da taluni ministeri il ritratto di Mussolini, è spuntata una foto (che risale allo scorso mese di giugno) in cui si vede Bersani che parla in una sede del Pd con tre grossi ritratti alle spalle, tra cui campeggia quello di Lenin in mezzo a Gramsci e Togliatti. Tra i punti di riferimento ideali del primo partito della sinistra italiana, dunque, c'è anche Vladimir Il'ič Ul'janov, meglio noto come Lenin?
Sembra incredibile ma a giudicare da certi ritratti, mostrati con orgoglio nella sede dem, è proprio così. Eppure Lenin fu maestro di Stalin nella "pratica del terrore". Decenni di storiografia partigiana hanno contribuito a diffondere il mito di Lenin, che ancora oggi viene ricordato prevalentemente come rivoluzionario, politico, filosofo e scrittore d'ispirazione marxista. Un uomo di pensiero prima che di azione, a cui vengono riconosciute molte attenuanti e che non ha subito l'onta riservata a Stalin. Quasi a voler "salvare il salvabile" del comunismo sovietico, preservando da ogni accusa il suo ideatore-fondatore.
Nel libro "Il terrore rosso in Russia 1918-1923" Sergej Petrovič Mel'gunov ne parla espressamente già nei primi anni Venti del Novecento: "Gli esponenti bolscevichi sono soliti presentare il terrore come conseguenza della collera delle masse popolari: i bolscevichi sarebbero stati costretti a ricorrere al terrore per le pressioni della classe operaia... il terrore istituzionalizzato si sarebbe limitato a ricondurre a determinate forme giuridiche l'inevitabile ricorso alla giustizia sommaria invocata dal popolo". Ma la verità sarebbe stata molto diversa: "E si può agevolmente dimostrare, fatti alla mano, quanto tali affermazioni siano lontane dalla realtà", scriveva Mel'gunov.
La tirannia, gli stermini e il dispotismo contraddistinsero il comunismo sovietico fin dalle origini, come emerso dagli studi di Andrea Graziosi ("L'Urss di Lenin e Stalin", Il Mulino) e nel saggio "Stalin e il comunismo" comparso nel libro "I volti del potere" (Laterza). "Stalin apprese da Lenin la gestione spietata del potere, l'uso elastico dei precetti ideologici a seconda delle circostanze", ha scritto lo storico. E il loro culto della violenza fu presente fin dagli albori. Basti pensare cosa scriveva Lenin nel 1906 soffermandosi sulla presa del potere, per la quale sarebbe stata necessaria una guerra rivoluzionaria "disperata, sanguinosa, di sterminio". E, sempre Lenin (questa volta citando Marx), nel 1918 invitò i bolscevichi a impiegare "metodi barbari" contro i nemici della rivoluzione.
Fu sempre Lenin a ordinare "impiccagioni e torture di massa", scrive Graziosi, esplicitando che la vita di un comunista valeva da 12 a 50 vite contadine (ricorda qualcuno?), a chiedere di punire in modo durissimo i villaggi "covi delle rivolte" e il "banditismo", cancellando villaggi interi che si erano macchiati di una gravissima colpa, aver sviluppato il "libero commercio". In una lettera scritta al Comitato centrale un dirigente definì tale politica "sterminio di massa senza alcuna discriminazione".
Lenin mise inoltre in pratica la "decosacchizzazione" nel 1919, ed arrivò persino ad affamare i nemici mediante la carestia (1921-22), oltre a far deportare gli intellettuali e reprimere i religiosi. Più tardi, negli anni Trenta, appresa la lezione Stalin perfezionò l'arma della fame. A farne le spese furono milioni di ucraini, che definirono la pratica "Holodomor" (sterminio per fame).
Il noto dissidente russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn, premio Nobel per la Letteratura nel 1970, ricordò in questo modo la repressione sovietica a Tambov, città roccaforte cosacca, nel 1919: "Folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciati dalle mitragliatrici. L’insurrezione di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti per reprimerla abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban’, del Terek, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio".
Che dire infine dei Gulag, i campi di lavoro forzato usati come mezzi di repressione degli oppositori, fondati ufficialmente nel 1930. Esistevano già ai tempi di Lenin: i primi, infatti, furono avviati nel 1923 nelle isole Solovki, nel Mar Bianco. Del resto nel "Che fare?", testo-chiave di Lenin scritto tra il 1901 e il 1902, vi erano già, nero su bianco, le premesse dei crimini del comunismo e delle sue avanguardie.
L’11 settembre russo. Pietro Emanueli il 19 Ottobre 2022 su Inside Over.
Il 1999 è stato quello che in ambito geofilosofico si suol definire anno del destino. Perché è nel 1999, all’alba del Terzo Millennio, che furono i gettati i semi dell’odierna Terza guerra mondiale a pezzi e della sete di revisionismo dell’asse Mosca-Pechino, da qualche parte tra il bombardamento di Belgrado e l’incidente di Pristina.
Ma il 1999 fu storicamente importante, o meglio determinante, anche per un’altra ragione. Quell’anno, invero, ebbe luogo la più grande e sanguinosa sequenza di attentati terroristici nella storia della Russia, casus belli della seconda guerra cecena e catalizzatore dell’ascesa al Cremlino di Vladimir Putin.
Il contesto storico e gli attacchi
La sequela di attentati terroristici di stampo jihadistico che sconvolse la Federazione russa nel settembre 1999 fu anticipata da un’estate bollente – e non in senso meteorologico. Il carismatico terrorista Shamil Basayev, con l’aiuto di Ibn al-Khattab, aveva radunato un’armata di mujaheddin e stava minacciando la permanenza del Caucaso settentrionale all’interno della Federazione russa. Prima aveva aiutato l’autoproclamata repubblica di Ichkeria a espellere il dispositivo militare russo da Groznyj, poi era entrato nel Dagestan allo scopo di farne cadere il governo e instaurare una teocrazia wahhabita.
Putin, diventato primo ministro il 9 agosto di quell’anno, rispose all’inarrestabile avanzata di Basayev ordinando un duro bombardamento a tappeto della Cecenia verso fine mese. Un gesto che i terroristi, forse aiutati dai servizi deviati, non avrebbero lasciato impunito. Perché a partire dal 4 settembre, per dodici giorni, una pioggia di attentati terroristici contro obiettivi residenziali avrebbe insanguinato Russia europea e Caucaso settentrionale, lasciando a terra 307 morti e più di 1000 feriti.
Il 4 settembre, a Buynaksk (Dagestan), una miscela esplosiva uccise 64 persone e ne ferì 133. Cinque giorni dopo a Mosca, nel quartiere Pečatniki, altre 94 persone persero la vita in una tremenda esplosione, mentre 249 ne uscirono ospedalizzate.
Nonostante l’allarme rosso, il 13, dell’esplosivo posto al di sotto dell’autostrada Kashira provocò la morte di 118 persone. Altre stragi furono evitate grazie alla corsa contro il tempo dell’antiterrorismo, che quel giorno sequestrò tonnellate di esplosivi e sei bombe a tempo nell’area della capitale.
Tre giorni dopo, il 16, fu il turno di una palazzina residenziale a Volgodonsk, nell’oblast’ di Rostov, la cui esplosione causò il decesso di 18 persone e il ferimento di 288. Un attentato destinato a far discutere, molto più dei precedenti, perché “anticipato” tre giorni prima dal portavoce della Duma, Gennadij Seleznyov.
La sera del 22, infine, dei cittadini particolarmente vigili sventano un attentato in un edificio residenziale a Ryazan. Dopo aver notato l’inusuale andirivieni di un gruppo di individui sconosciuti, allertano le forze dell’ordine che, giunte sul posto, trovano delle bombe a base di ciclonite pronte a esplodere.
Ryazan fu lo spartiacque di quel settembre nero: il casus belli della seconda guerra cecena, annunciata da un Putin esasperato dall’ennesimo tentativo di spargere il sangue sul suolo russo, e l’inizio di una stagione di depistaggi, morti sospette e teorie del complotto relative al coinvolgimento dello stato profondo in quella catena di attentati. Perché le indagini della polizia locale sui fatti di Ryazan portarono all’arresto di due agenti del FSB, rei confessi, e al loro tempestivo scagionamento su ordine di Mosca, per la quale non erano degli attentatori, e quelle bombe non sarebbero mai esplose, perché si trattava di una prova per saggiare il livello di vigilanza dei cittadini.
Le conseguenze
Poco dopo l’annuncio del ritrovamento di esplosivo in grado di far cedere un intero edificio a Ryazan, l’allora primo ministro Putin, oramai il reale decisore della politica del Cremlino, comunicava l’intenzione di voler riaprire le ostilità con la Cecenia, in quanto ritenuta la principale base operativa di quei terroristi che stavano seminando sangue e terrore nella Russia europea.
Il 24 settembre, dopo venti giorni di attentati intermittenti, le forze armate russe entravano in Cecenia per rovesciare l’autoproclamata Repubblica di Ichkeria e neutralizzare la galassia terroristica ruotante attorno al duo Basayev-Khattab e appoggiata esternamente da una variegata costellazione di attori statuali e nonstatuali: dai Talebani ad Al-Qāʿida.
Poco importava che Basayev si fosse dichiarato estraneo ai fatti e che gli attentati fossero stati rivendicati da un gruppo ceceno, l’Esercito di Liberazione di Dagestan (ELD), perché il Cremlino era convinto che Basayev stesse mentendo e che l’ELD – sigla sino ad allora sconosciuta – fosse un camuffamento per depistare le indagini degli inquirenti.
La storia, ad ogni modo, avrebbe dato ragione alla linea dell’intransigenza di Putin: le operazioni militari in Cecenia sarebbero terminate con la ri-vassallizzazione della ribelle repubblica – la cui guida fu affidata alla famiglia Kadyrov –, il paragrafo russo dell’emergente (e globale) Guerra al terrore sarebbe culminato con l’azzeramento del pericoloso Emirato del Caucaso – incluse le eliminazioni di Basayev e al-Khattab – e, nel complesso, lo stato più profondo capitalizzò lo stato d’emergenza per riappropriarsi del Cremlino e porre fine all’era eltsiniana.
Le indagini, i depistaggi e i misteri mai chiariti
L’opinione pubblica russa non si è mai dimenticata delle tante ombre aleggianti sul settembre nero del 1999, che il tempo ha accentuato sino all’inverosimile a causa di una scia più che sospetta di testimonianze ritrattate, giustificazioni contradditorie, omicidi, suicidi e strani incidenti.
Nel febbraio 2000, uno dei primi a rompere il velo dell’omertà, nonostante la seconda guerra cecena in corso e il sangue ancora fresco per le strade, fu il disinnescatore della bomba di Ryazan: Yurij Tkachenko. Il poliziotto, intervistato dalla Novaya Gazeta, dichiarò di non aver mai creduto alla tesi governativa dell’esercitazione: l’esplosivo era vero – ciclonite –, come vero era il detonatore da lui disattivato. Un mese più tardi, dallo stesso giornale, fu pubblicata la testimonianza di Aleksei Pinyaev, un soldato che ai tempi dei fatti di Ryazan scoprì dell’esplosivo contenuto in sacchi recanti la scritta “zucchero” in un magazzino militare nei pressi della città.
Un anno più tardi, però, sia Tkachenko sia Pinyaev avrebbero cambiato improvvisamente (e radicalmente) le loro versioni: il primo dichiarò che a Ryazan non era stato trovato del vero esplosivo e quel detonatore non poteva innescare nessuna esplosione, il secondo dichiarò di aver inventato l’intera storia.
Le stranezze e i misteri relativi all’11 settembre russo non nacquero e finirono a Ryazan. Ad esempio, il presunto capo del commando terroristico, tal Achemez Gochiyaev, non è mai stato catturato e di lui non si hanno notizie dal 1999. E la commissione indipendente sugli attentati di settembre, presieduta da Sergei Kovalyov e inaugurata nel 2002, non ha mai potuto produrre nulla di concreto a causa della morte prematura, e talvolta violenta, dei suoi membri-chiave:
Sergei Yushenkov, assassinato il 17 aprile 2003;
Yuri Shchekochikhin, assassinato il 3 luglio 2003;
Artyom Borovik, morto a causa dello schianto al suolo di un aereo privato sul quale viaggiava il 9 marzo 2000;
Otto Latsis, sopravvissuto ad una brutale aggressione da parte di ignoti nel novembre 2003 e successivamente morto in un incidente stradale il 3 novembre 2005;
La morìa avrebbe privato la commissione indipendente dei suoi principali elementi, comportando prima il rallentamento e poi il blocco definitivo dei lavori. Con le morti violente di Anna Politkovskaya e di Aleksandr Litvinenko, i più eminenti membri esterni della commissione, si sarebbe infine interrotto ogni tentativo di fare luce sui punti d’ombra di quel settembre di sangue. Quel poco che è noto, anche se la verità non è mai emersa e i dubbi continuano a prevalere sulle certezze, è che il corso storico della Russia è cambiato per sempre a partire da quei tragici giorni del dimenticato 1999.
Chi era Shamil Basayev, il “bin Laden russo”. Pietro Emanueli il 17 Agosto 2022 su Inside Over.
Quando si scrive di Guerra al Terrore, spesso e volentieri, vengono in mente gli Stati Uniti delle ere Bush e Obama, ma la verità è che quella al jihadismo è stata – e, per certi versi, è – una lotta senza quartiere riguardante un gran numero di Paesi del globo, ed in particolare dell’Eurafrasia.
La Russia, in 44esima posizione nel Global Terrorism Index, ha avuto e continua ad avere un grave problema col terrorismo islamista, perché trattasi di una minaccia estesa da parte a parte del territorio federale, e negli anni dell’indipendenza è stata casa, oltre che di sanguinose guerre etno-religiose, di alcuni dei più gravi attentati jihadisti mai compiuti nella storia – come, ad esempio, gli attacchi agli edifici residenziali del 1999: 300+ morti, 1000+ feriti.
Il timore che la neonata Russia potesse implodere a causa delle pressioni trasversali provenienti da anarchia, separatismi e terrorismo sarebbe stato uno dei motivi alla base dell’ascesa di Vladimir Putin, l’eletto dello stato più profondo. E Putin, proprio come nelle migliori storie, una volta insediatosi al trono del Cremlino fu costretto ad affrontare una terribile nemesi: Šamil “Abu Idris” Basaev.
Basaev prima di Basaev
Šamil Salmanovič Basaev nacque il 14 gennaio 1965 in un piccolo villaggio della Cecenia meridionale, Dyshne-Ved, all’interno di una famiglia guerriera organizzata secondo l’antico modello tribale-clanistico del Teip.
Ultimo membro di una lunga e prolifica dinastia di guerrieri, che nel Quattrocento avevano combattuto il termibile Tamerlano e a inizio Novecento appoggiarono la nascita dell’Emirato del Caucaso settentrionale, Šamil fu così chiamato in onore di uno dei grandi eroi nazionali ceceni, l’imam Šamil, e fu allevato ai culti degli antenati, dell’autodisciplina, dell’islam e della patria. Un destino ascritto alla nascita.
Dopo essersi diplomato nella scuola del villaggio, Basaev prestò brevemente servizio nelle forze armate sovietiche in qualità di pompiere e, dopo un’esperienza lavorativa in una fattoria nella regione di Volgograd, si trasferì a Mosca. Qui, però, le cose non sarebbero andate come previsto: prima rifiutato dalla Scuola di legge dell’Università statale di Mosca, poi espulso dall’Istituto di ingegneria e gestione del suolo di Mosca per gli scarsi voti.
Più bravo a cavarsela in strada che nelle aule scolastiche, e più fatto per l’autonomia che per un lavoro sotto padrone, Basaev si sarebbe presto ritrovato a bazziccare nelle vie delle vibranti comunità cecene di Mosca. E qui, disilluso dal sogno sovietico, si sarebbe radicalizzato, insieme a molti altri connazionali, in concomitanza con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e con il sorgere della questione cecena.
Le guerre e il terrorismo
Il 9 novembre 1991, a pochi giorni dalla dichiarazione di indipendenza della Repubblica cecena di Ichkeria unilateralmente proclamata da Džochar Dudaev, Musaev dirottò l’Aeroflot Tu-154, lungo la tratta Mineral’nye Vody-Ankara, allo scopo di attrarre le luci dei riflettori internazionali sulla neonata causa cecena. Il dirottamento terminò in Turchia, risolvendosi senza vittime, e avrebbe proiettato lo sconosciuto – e senza contatti – Basaev a capo dell’insurgenza cecena.
Pochi mesi più tardi, guidato dal duplice obiettivo di fare esperienza sul campo e allargare il proprio capitale umano, Basaev partì come volontario alla volta del Karabakh, insieme a centinaia di connazionali, per combattere gli armeni. Era una guerra laica, per una terra contesa, ma per alcuni, lui incluso, era una questione di fede – di cristiani contro musulmani.
Sul campo karabakho avrebbe riscoperto le proprie origini, e cioè di discendente di una stirpe di valorosi guerrieri, e perduto definitivamente ogni inibizione. Dopo aver partecipato all’adrenalinica e sanguinosa battaglia di Şuşa, tra gli episodi più elevati della Prima guerra del Karabakh, si recò nella vicina Abchasia per assistere i separatisti antigeorgiani. E qui, oramai forte di una fama costruita sul campo, fu nominato comandante in capo della Confederazione dei popoli delle montagne del Caucaso.
Più o meno nello stesso periodo, a cavallo tra la prima guerra cecena, l’esperienza karabakha e la comparsa in Abchasia, il giornalismo investigativo russo cominciò a dedicare dei ritratti a questo ceceno enigmatico, di lignaggio nobile e pronto a combattere ovunque si levassero le grida di ribellione dei piccoli popoli del Caucaso, evidenziandone i lati oscuri e i presunti legami con gli apparati securitari della Federazione russa.
Secondo le fonti di Boris Kagarlitskij della Rossiyskaya Gazeta, successivamente corroborate dalle ammissioni di Sergej Stepašin, Basaev sarebbe stato sul libropaga del GRU, il servizio segreto militare di Mosca, che lo avrebbe finanziato (e armato) allo scopo di indebolire le neonate repubbliche del Caucaso meridionale. Ad un certo punto, però, Basaev sarebbe sfuggito al controllo dei suoi creatori, in un déjà-vu che ricorda la storia di Osama bin Laden, utilizzando le armi e i capitali ricevuti per portare avanti il sogno della Cecenia indipendente.
La svolta della vita, che trasformò Basaev da un assetto dei servizi segreti russi al nemico numero uno del Cremlino, sarebbe avvenuta nel dopo-Abchasia. Verso la metà degli anni Novanta, oramai irrimediabilmente radicalizzato, Basaev sarebbe stato avvicinato dall’ISI, l’agenzia di intelligence del Pakistan, e spedito in Afghanistan per ricevere formazione religiosa e addestramento para-militare. Un’esperienza che lo avrebbe cambiato per sempre, introducendolo all’internazionale jihadista baricentrata su Al-Qāʿida, rendendolo un mujaheddin e consacrandolo quale leader della rinascente insurrezione cecena.
Nemico numero uno della Russia
Nel 1996, di ritorno dai campi d’addestramento afgani, Basaev avrebbe assunto il comando della risorgente insurrezione cecena. Implacabile e inarrestabile, in soli due mesi – luglio e agosto – guidò l’eliminazione del signore della guerra più temuto della Cecenia, Ruslan Labazanov, e la riconquista di Groznyj, sino ad allora sotto il controllo di una forza d’occupazione russa.
A fine anno, confidando nell’immagine di eroe popolare costruita negli anni, Basaev decise di competere per la presidenza della Repubblica cecena di Ichkeria. Arrivò secondo, ottenendo le preferenze di un quarto dell’elettorato, ma gli fu comunque concesso di entrare nel governo in qualità di vice-primo ministro.
La situazione disastrosa del bilancio pubblico, sullo sfondo delle accuse di corruzione e dei mal digeriti legami con l’internazionale jihadista – emblematizzati dal rapporto fraterno con Ibn al-Khattab –, avrebbero portato alla rottura tra Basaev e le istituzioni dell’Ichkeria. E nel 1998, dopo aver rassegnato le dimissioni dal governo, Basaev sarebbe tornato alla clandestinità.
Prima che il settembre rosso di sangue del 1999 provocasse lo scoppio della Seconda guerra cecena, il Caucaso settentrionale sarebbe stato scosso da un altro evento bellico di grande importanza: il tentativo dell’anonima wahhabita, appoggiata da Basaev, di rovesciare le autorità legittime del Daghestan allo scopo di instaurare una teocrazia indipendente dalla Russia e satellizzata dalla Cecenia. Due episodi, avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro, che avrebbero spinto il Cremlino a riaprire il fronte ceceno-daghestano.
Basaev negò ogni coinvolgimento nella pioggia di attentati del settembre 1999, vero casus belli della seconda guerra cecena, ma questo non gli impedì di finire nel mirino del Cremlino. Neanche l’assunzione di responsabilità da parte dell’Esercito di liberazione del Daghestan, implicitamente scagionante l’insurgenza cecena, avrebbe salvato Groznyj dall’arrivo delle forze armate russe.
Nel contesto della seconda guerra cecena, Basaev avrebbe dismesso i panni del guerrigliero per indossare quelli del terrorista. Capitalizzando i legami con l’ISI e coi mujaheddin afgani stabiliti alcuni anni prima, Basaev lanciò un appello al Jihād globale che, risuonando in tutto il vicinato mediorientale e centrasiatico, fu in grado di magnetizzare nelle alture cecene migliaia di combattenti volontari.
L’eco di Basaev avrebbe avuto effetti profondi, e durevoli, a livello di panorama religioso – la trasformazione di Cecenia e dintorni da terre di sufismo a terre di wahhabismo – e nel modo di combattere – le battaglie irregolari e urbane sostituite da attentati suicidi e autobombe.
Il 4 aprile 2000, giustiziando nove soldati d’élite dell’OMON come rappresaglia per il caso Yurij Budanov – un ufficiale russo colpevole di aver violentato e ucciso un’adolescente cecena –, Basaev sarebbe diventato il terrorista più ricercato della Russia. Su di lui, un anno più tardi, fu messa una taglia di un milione di dollari. Tutto inutile: nel 2002 la crisi del teatro Dubrovka – 130+ morti e 700+ feriti –, nel 2003 l’assassinio di Akhmad Kadyrov – padre di Ramzan – e nel 2004 il massacro di Beslan – 300+ morti e 700+ feriti.
Nel 2005, causa il crescendo di attentati sanguinosi architettati in lungo e in largo la Russia (e lo spazio postsovietico), su di Basaev pendeva una taglia di dieci milioni di dollari e sulle sue tracce si trovavano i servizi segreti di decine di paesi, inclusi gli Stati Uniti. Quello stesso anno, nonostante le pressioni e i rischi, decise di accettare la proposta di intervista fattagli pervenire dal giornalista Andrej Babitskij, censurata in Russia e trasmessa negli Stati Uniti da ABC.
Sì, sono un cattivo ragazzo, un bandito e un terrorista… ma a loro [i russi] come li dovreste chiamare? Più di 40mila dei nostri bambini sono stati uccisi e decine di migliaia sono stati mutilati. Qualcuno ha qualcosa da dire in merito? La responsabilità è dell’intera nazione russa, che col suo tacito assenso sta dicendo “sì” a tutto questo.
Il 10 luglio 2006, al termine di una caccia all’uomo lunga sei anni, Basaev trovò la morte a Ekazhevo, in Inguscezia, a causa di una violenta esplosione nei pressi di un arsenale nelle disponibilità dell’insurrezione cecena. Un’incidente secondo alcuni. Un’eliminazione da manuale, firmata FSB, secondo altri.
Nonostante i tentativi di Ramzan Kadyrov di rimuovere la memoria di Basaev dalla storia recente della Cecenia, il terrorista continua a godere di una diffusa venerazione popolare. Nonostante il sangue (innocente) che ha fatto scorrere, Basaev continua a essere visto come una sorta di anti-eroe da ampie fasce della popolazione. E il suo pensiero continua a circolare, trasmesso di generazione in generazione, attraverso l’autobiografia scritta nei primi anni Novanta: Libro di un mujaheddin.
Roberto Fabbri per “il Giornale” il 7 ottobre 2022.
Sedici anni fa, un killer rimasto impunito come il suo mandante pensò di far cosa gradita a Vladimir Putin assassinando Anna Politkovskaja nel giorno del suo compleanno. La morte violenta fermò per sempre la penna e il brillante cervello di una giornalista coraggiosa che aveva avvertito per tempo tutto noi di quale sarebbe stata la deriva della «Russia di Putin», titolo di un suo profetico libro-denuncia.
Non si fermò invece, negli anni successivi, l'inquietante sequenza di omicidi di oppositori e avversari politici del presidente autocrate, sempre più chiaramente riconducibili alla volontà dello stesso potente uomo del Cremlino.
Quest' oggi Putin compie settant' anni e aveva progettato di farsi un regalo ancor più speciale: celebrare un rito religioso nella cattedrale ortodossa di Kiev, nel frattempo ricondotta sotto sovranità russa. I suoi consiglieri gli avevano assicurato che la capitale dell'Ucraina gli sarebbe caduta in mano come un frutto maturo già nello scorso febbraio, ma come tutti ormai sappiamo non è andata esattamente così e Putin si trova a celebrare un compleanno molto diverso da come l'aveva immaginato.
E questo perché l'uomo di cui i suoi ammiratori amavano esaltare la visione strategica non ne ha azzeccata una. L'apoteosi della sua politica di potenza non c'è stata. Credeva che gli ucraini avrebbero accolto i soldati russi con i mazzi di fiori invece li hanno presi a cannonate, molto più precise e micidiali del previsto, tra l'altro.
Contava che gli americani, guidati dal senescente Joe Biden, avrebbero fatto come a Kabul, abbandonando vergognosamente gli alleati, ma non è andata così: i cannoni che inchiodano i russi sono in buona parte suoi.
Era certo che gli europei avrebbero preferito lasciare scorrazzare l'orso russo nelle pianure ucraine in cambio della garanzia di forniture di gas e di vaghe promesse di fermarsi al confine polacco e invece siamo qui a organizzarci (male, magari) per un inverno col maglione in casa pur di non dargliela vinta.
Quanti errori di valutazione, quante brutte sorprese. Quanti generali sollevati inutilmente dall'incarico, quante incredibili bugie pronunciate invano nel tentativo di recuperare l'irrecuperabile, di vincere una guerra che non aveva nemmeno osato definire tale e che non può più vincere.
Il Putin settantenne di oggi è un uomo costretto a ostentare ottimismo di fronte al disastro incombente: ridotto a festeggiare in un clima surreale a metà tra la solennità e lo stadio l'annessione di territori che non riesce a controllare, a promettere l'imminente riconquista delle loro parti che Kiev si è già ripresa ignorando minacce roboanti, ad agitare addirittura lo spauracchio di una guerra nucleare come ultima disperata ratio.
È soprattutto un uomo paranoico più che mai, che sente alzarsi attorno a sé voci che mai avrebbe creduto di udire. Voci di sodali che gli devono ricchezze e privilegi enormi, ma che cominciano a parlare di errori politici dietro le disfatte militari e a mettere in discussione i suoi stessi organigrammi. Perché adesso sentono che lui potrebbe andare a fondo e vogliono salvarsi, magari disarcionandolo.
E così ci sono quelli che cominciano a pensare che all'Ucraina si potrebbe anche rinunciare, e altri che invece sembrano disposti a fare fuori ministri e generali considerati non abbastanza duri per vincere la battaglia della vita. In mezzo c'è lui, Vladimir che voleva passare alla Storia come l'erede di Ivan il Terribile, sempre più isolato in patria e all'estero. Magari pronto a gesti terribili e irrazionali, come lo Hitler del 1945 disposto a incenerire la Germania pur di non arrendersi. Certamente «triste, solitario y final». Termine, quest' ultimo, che in Russia raramente si abbina con un epilogo tranquillo per l'involontario protagonista.
Sfida allo zar. Come un finanziere americano ha smascherato gli affari di Putin e dei suoi oligarchi. Bill Browder su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.
La storia di Bill Bowder, il principale promotore del Magnitsky Act, la legge firmata da Barack Obama che sanziona la corruzione e la violazione dei diritti umani nel mondo
Sapere Vladimir bloccato in condizioni critiche in un ospedale russo fu un duro colpo. Mi sembrava di essere tornato al periodo dell’arresto di Sergej: un’altra persona a cui tenevo era in pericolo di vita a migliaia di chilometri di distanza, e io mi sentivo impotente. Anche Kyle Parker provava la mia stessa frustrazione. Oltre ad aver lavorato insieme al Magnitsky Act, le loro famiglie erano molto vicine: organizzavano barbecue nei rispettivi giardini, i loro figli giocavano insieme e le mogli erano amiche. Appena ricevetti la cartella clinica di Vladimir, la girai a Kyle.
Dovevamo diventare esperti tossicologi, e in fretta. Sapevamo entrambi della famigerata fabbrica di veleni del Kgb, che da decenni elaborava metodi nuovi, crudeli e misteriosi per eliminare i nemici della Russia. Prima di essere usati, i veleni che sviluppavano venivano spesso testati sui prigionieri nei gulag. Fra i preferiti c’erano il ricino, le diossine, il tallio, l’acido cianidrico, il polonio (che era stato usato a Londra per uccidere Aleksandr Litvinenko) e persino veleni rari estratti dalle meduse. Dovevamo capire quale fosse stato usato su Vladimir.
Kyle e io contattammo chiunque pensavamo che potesse darci una mano. In America, Kyle inviò la cartella clinica di Vladimir a un noto tossicologo dei National Institutes of Health, a un agente dell’intelligence specializzato in guerra biologica, a un disertore kazaco che era stato coinvolto nel programma veleni dell’Unione Sovietica, e a sua sorella, una delle migliori oncologhe del Memorial Sloan-Kettering Hospital di New York.
Dalla nostra parte dell’Atlantico, io e il mio team identificammo tutti gli esperti di veleni nel Regno Unito. Contattammo Porton Down, rinomata struttura di ricerca medica gestita dall’esercito, il Servizio nazionale di informazione sui veleni, un patologo forense dell’Home Office, il reparto di tossicologia del Guy’s Hospital e un ex detective della Omicidi della Metropolitan Police di Londra. Kyle ebbe risposta da alcuni dei suoi contatti entro poche ore. Il primo riscontro arrivò dalla sua fonte nell’intelligence, che sospettava l’impiego concomitante di ben due veleni, uno dei quali
progettato per creare la parvenza di una grave intossicazione alimentare. Mentre i medici erano impegnati a curare i sintomi dell’intossicazione, l’altro veleno portava a termine il lavoro vero: far collassare gli organi vitali di Vladimir.
La fonte di Kyle aveva già visto i russi ricorrere alla stessa tattica in passato. Dal punto di vista dell’assassino, era un’operazione semplice e pulita, con una intrinseca possibilità di negare l’evidenza. I medici, sempre che non fossero complici del misfatto, potevano dire in tutta onestà: «Non
siamo riusciti a individuare il problema. Abbiamo fatto il possibile, ma purtroppo il paziente è morto». La seconda risposta giunse dal contatto di Kyle ai National Institutes of Health. La sua analisi era meno dettagliata, ma, basandosi sulla conta dei globuli bianchi di Vladimir, escludeva con certezza un agente radiologico.
Era un’informazione utile. Alla luce del caso di Aleksandr Litvinenko, la prima cosa a cui Kyle e io avevamo pensato era l’avvelenamento da radiazioni. Ma iniziavamo a capire che identificare un veleno era come cercare un ago in un pagliaio. Per scoprire di cosa si trattasse, dovevamo procedere per esclusione. Le nostre richieste di aiuto in Gran Bretagna non riscossero lo stesso successo: a quanto pareva, nessuno controllava l’email nel fine settimana. L’unico a darci un riscontro fu l’ex detective della Omicidi. Invece di proporci la sua teoria sul veleno usato contro
Vladimir, ci fornì una serie di istruzioni raccapriccianti per preservare la «scena del crimine» – ovvero il corpo di Vladimir – in caso di morte, fra cui la «mungitura» del sangue dall’arteria femorale, la rimozione di una sezione del fegato e la raccolta di un campione di umor acqueo dal bulbo oculare.
A leggere quei dettagli mi si rivoltò lo stomaco. Vladimir era mio amico. Non volevo pensare ai suoi bulbi oculari o a pezzi di fegato. Volevo vederlo di nuovo parlare e camminare. Poi si fece viva la sorella di Kyle. «Kyle, detesto dovertelo dire, ma non credo che ce la farà» scrisse. Nel suo lavoro era abituata a perdere i pazienti. «Dovresti suggerire alla famiglia di prepararsi a dirgli addio.» Né Kyle né io avevamo intenzione di dire niente di simile a Evgenija. Era seduta al capezzale del marito e conosceva le sue condizioni meglio di noi. Scoprire con cosa era stato avvelenato stava
diventando sempre più urgente. Almeno avevamo i campioni da far analizzare in Occidente.
Chiamai l’ambasciata britannica a Mosca la mattina di sabato 30 maggio. Mi passarono un funzionario consolare diverso da quello con cui avevo parlato l’altra volta. «Abbiamo i campioni di Vladimir» gli dissi. «Deve portarveli sua moglie o potete andare a prenderli?» «Mi dispiace tanto, signore» rispose l’uomo. «Non l’hanno ancora contattata a questo riguardo?» «No.» «Non possiamo più occuparcene qui in ambasciata. La questione è stata trasmessa al Global Response Center di Whitehall. La contatteranno a breve.» Il Global Response Center è una divisione
del Foreign Office che si occupa dell’assistenza ai cittadini britannici in difficoltà all’estero.
Ero rincuorato di sapere che il governo stava prendendo la cosa sul serio. Poco dopo, in effetti, mi arrivò un’email. Peccato che fosse del tutto inutile. Non c’era nessun riferimento a una valigia diplomatica. Si limitavano a comunicarci i numeri di telefono degli uffici di Mosca di Dhl, FedEx e altre società di spedizioni, esprimendoci un tiepido sostegno morale. Dhl e FedEx? Mi prendevano in giro? Bastava cercare su internet per ottenere le stesse informazioni.
Chiamai l’addetto del Global Response Center, il cui numero era riportato in calce all’email. «Sono confuso» gli dissi. «Mi avevate assicurato che ci avreste aiutato a trasportare i campioni.» «Temo che non possiamo, signore.» «Ma l’ambasciata di Mosca aveva garantito che avremmo potu-
to usare la valigia diplomatica.» «Mi dispiace, ma non ci è possibile fornire quel genere di assistenza.» Gli spiegai che Vladimir, un cittadino britannico, rischiava di morire, ma l’uomo rimase sulla sua posizione. Dopo quella telefonata, mi ci vollero diversi minuti per calmarmi. Ciascuno di noi è portato a credere che, da cittadino di paesi potenti come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, se dovesse succedergli qualcosa di brutto all’estero, il suo governo farebbe di tutto per proteggerlo.
Ma in questo caso non stava succedendo. Era un ostacolo ai nostri piani. Nelle ultime ventiquattro ore ci eravamo concentrati sui veleni e sulle diagnosi, non sulla logistica. Dato che ci ritrovavamo a partire da zero, chiamai la Dhl, soltanto per scoprire che non spedivano campioni biomedici da Mosca. FedEx li accettava, ma disse che ci sarebbero volute almeno settantadue ore e che avremmo dovuto chiedere una licenza di esportazione al governo russo. Certo, come no. Uno dei motivi principali per cui volevamo utilizzare la valigia diplomatica era proprio evitare di coinvolgere il governo russo. Senza contare che, se Vladimir fosse morto, quei campioni potevano essere l’unica prova del suo omicidio e la valigia diplomatica avrebbe garantito la catena di custodia. Farli spedire da FedEx l’avrebbe inevitabilmente spezzata. L’unica cosa che mi veniva in mente era parlare con qualcuno più in alto. Scrissi un’email e la inviai al segretario di Stato per gli Affari esteri britannico, l’onorevole Philip Hammond, un uomo che non avevo mai incontrato in vita mia.
Trattandosi di un politico di alto rango, non mi aspettavo una risposta, invece a sorpresa ricevetti una sua email personale il giorno dopo, di domenica. Mi scrisse che aveva seguito il caso con attenzione e voleva aiutarci, ma quanto alla valigia diplomatica aveva le mani legate. Citò la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, spiegando che ne proibiva l’uso se non per le comunicazioni ufficiali. Per dimostrare il suo interessamento, tuttavia, si offriva di far scortare il nostro corriere all’aeroporto da un funzionario dell’ambasciata e di accompagnarlo fino ai controlli di frontiera. Purtroppo era il massimo che poteva fare. Ero deluso. I russi se ne fregavano della Convenzione di Vienna. Usavano le loro valigie diplomatiche per spostare droghe, veleni e denaro in tutto il mondo.
Perché gli inglesi non potevano fare uno strappo alla regola per salvare un loro cittadino? (In seguito capii che non potevo avere entrambe le cose. Era quello per cui Boris, Vladimir e io avevamo lottato e per cui Sergej era morto: anche la Russia dovrebbe essere un paese in cui il ministro degli Affari esteri risponde così a una richiesta di fare uno strappo alla regola.) A quel punto decidemmo di infischiarcene della catena di custodia. Se il governo britannico non ci permetteva di usare la valigia diplomatica, avremmo usato le nostre risorse per portare i campioni a Londra. Uno degli amici di Vladimir a Mosca, venuto a conoscenza del problema, si offrì di volare nella capitale inglese con i campioni di contrabbando nel bagaglio.
Successe tutto molto in fretta. I campioni arrivarono nel nostro ufficio il giorno successivo, nel primo pomeriggio di lunedì, cinque giorni dopo il ricovero di Vladimir. Finirono dritti in frigorifero, accanto al cibo da asporto avanzato dalla pausa pranzo. Ora dovevo soltanto trovare una struttura disposta a eseguire i test. Contattai per primo Porton Down, il centro di ricerca medica dell’esercito, ma la persona che mi rispose non mi lasciò nemmeno finire di spiegare la situazione: «Signore, accettiamo incarichi solo dal governo». «Ma è urgente» supplicai. «Non potete fare un’eccezione?». «Mi dispiace, non possiamo operare senza l’autorizzazione del governo.»
Allora chiamai il Servizio nazionale di informazione sui veleni, un’altra agenzia governativa, ma mi risposero che serviva un’autorizzazione delle forze dell’ordine. Anche se fossimo riusciti a ottenerla, ci sarebbero voluti giorni, se non addirittura settimane. Feci ancora una decina di chiamate che si rivelarono altrettanti buchi nell’acqua. Poi, a fine giornata, mi indirizzarono a un medico privato che aveva tra i suoi pazienti gestori di hedge fund, banchieri di investimento e altri ricchi londinesi. Non costava poco, ma ero pronto a sborsare qualsiasi cifra. Il medico in questione si appoggiava a un laboratorio privato in Harley Street, una zona del centro di Londra con un’elevata concentrazione di medici e specialisti di alto livello. Mi assicurò che avevano i contatti necessari per far testare i campioni in qualsiasi laboratorio del governo del Regno Unito. Disse che ci sarebbe voluto un giorno, due al massimo, ma che avremmo avuto delle risposte a breve.
Quando chiamai Evgenija per informarla che i campioni erano a Londra e stavano per essere analizzati, mi interruppe per darmi una notizia del tutto inaspettata: «Bill, i reni di Vladimir hanno ripreso a funzionare!». «Davvero? È fantastico!» «Sì, il dottor Protsenko ha deciso di svegliarlo dal coma farmacologico domani.»
Dal brusco inizio di Evgenija con l’ospedale Pirogov le cose erano migliorate. E soprattutto, pareva che il dottor Protsenko stesse davvero cercando di salvare la vita di Vladimir. Mentre il medico e i suoi assistenti si preparavano per la procedura, Evgenija si scoprì terrorizzata da ciò che sarebbe potuto succedere al risveglio di Vladimir. Sarebbe rimasto paralizzato? Avrebbe reagito al suono della sua voce? Avrebbe ripreso conoscenza? Non voleva nemmeno pensare a come sarebbe stata la loro vita se le facoltà mentali di Vladimir fossero risultate seriamente compromesse.
Sfida allo zar, Bill Browder, Chiarelettere, 360 pagine, 19,80 euro
Educazione cremliniana. La Russia di Putin raccontata da una delle voci più coraggiose della dissidenza. Kira Yarmish su L'Inkiesta il 21 ottobre 2022
Kira Yarmysh è stata arrestata per aver indetto raduni a sostegno di Alexei Navalny, il più importante esponente dell‘opposizione: è stata incarcerata per nove giorni insieme ad altre cinque donne. Pubblichiamo un estratto del suo libro “Gli incredibili eventi della cella femminile N.3” (Mondadori)
Il crimine di Anja si riduceva al fatto di essere capitata a tiro di un OMON durante una manifestazione: l’avevano pescata tra la folla e spintonata dentro un furgone. Pieno d’afa e d’allegria. I fermati erano un bel gruppo, e insieme avevano parlato, scherzato e riso: sembrava più una festa che un arresto. Era la sua prima volta in un cellulare della polizia e ad Anja sembrava tutta un’avventura. Una volta al comando, non aveva dubitato un attimo che li avrebbero rilasciati subito. Li avevano portati nella sala grande, una stanza ampia che con le sue file di sedie pareva un’aula scolastica. Addossata a una parete c’era la scrivania (la cattedra, sembrava) con sopra i ritratti di Putin (a destra) e Medvedev (a sinistra) e la bandiera russa in mezzo. Gli altri furono chiamati al tavolo uno per volta, firmarono delle carte e se ne poterono andare.
Ma mentre fuori già faceva buio, il suo turno non era ancora arrivato. Alla fine Anja era rimasta sola: e se fuori il buio era ormai pesto, dentro la stanza la lampada che penzolava dal soffitto faceva unronzio insopportabile. A un certo punto era entrato un poliziotto; le disse che avrebbe dovuto passare la notte in CiCì, che stava per “custodia cautelare”. Perché solo lei? Anja non se lo spiegava e provò a ribattere. L’altro disse che il suo capo d’accusa era più pesante e che sarebbe rimasta dentro fino al processo.
Da un materasso sul pavimento di una cella di custodia cautelare era difficile pensare che quella storia si sarebbe risolta presto e bene; ma in tribunale, dove tutto era pulito e in ordine e persino il bagno si chiudeva col chiavistello, la speranza nel lieto fine si era come rafforzata. Ragion per cui, quando il giudice l’aveva invitata a parlare, Anja quasi si era vergognata a insultarlo. E se lui mi vuole rilasciare e io me la prendo con un brav’uomo?, pensò. Il giudice ascoltò quello che aveva da dire e si ritirò una mezz’ora per deliberare; tornò dopo mezz’ora d’orologio, e con la faccia più inespugnabile e indecifrabile che ci fosse la dichiarò in arresto.
Seguì il tragitto verso “la circondariale”. Le due guardie che la scortavano avevano una gran smania di tornare a casa, dunque accesero sirena e lampeggiante per lasciarsi alle spalle il traffico di Mosca. A quella velocità e a sirena spiegata, Anja si sentiva un boss della malavita. Per sua sfortuna, anche quella parte della giornata durò troppo poco: fuori dal finestrino, le case schizzavano via veloci, e Anja pensava che anche gli orrendi tuguri chruščëviani avevano il loro sublime perché se erano l’ultima cosa che vedevi.
Alla circondariale si scoprì che la furia delle guardie era stata inutile: davanti ai cancelli c’era una lunga fila di auto della polizia piene.
L’attesa dilatò di nuovo il tempo. All’inizio le guardie scesero a fumare a turno. Poi insieme. Poi con loro scese anche Anja. Com’è ovvio cominciarono a parlare di politica, e il più vecchio le fece una bella tirata: con le loro manifestazioni non autorizzate, Anja e i suoi amici complicavano il lavoro della polizia. La tirata successiva fu per il sistema giudiziario: quegli stupidi comizi a lei costavano la prigione, è vero, ma a chi toccava scarrozzarcela? A lui. Dopodiché se la prese col governo, che rubava: il suo stipendio diminuiva a vista d’occhio, ma le manifestazioni da disperdere no.
Anja provò timidamente a far notare che tra ruberie e manifestazioni c’era un nesso diretto, ma l’altro non cercava un interlocutore. Continuò a inveire senza pietà contro il caos imperante, e arrivò a prendersela con il direttore della circondariale che li lasciava sotto lo schioppo del sole e che era il suo nemico più spietato e potente. E proprio mentre le vomitava addosso di tutto con il tacito assenso del collega, a un certo punto li avevano fatti entrare.
Anja era talmente stravolta dopo quella giornata di attesa, che quasi non vedeva l’ora di arrivare in cella. Ma non era ancora il momento. Quanto alla scorta, se l’era svignata immediatamente dopo averla lasciata in consegna ai colleghi della circondariale, che cominciarono subito a “registrarla”.
La procedura era macchinosa e caotica da fare spavento. Per cominciare sbudellarono la borsa che gli amici le avevano portato in tribunale. Neanche Anja sapeva cosa c’era dentro, dunque studiò con grande interesse ogni oggetto insieme agli agenti. Era persino divertente: sembrava quasi di tirar fuori i regali dal sacco di Nonno Gelo. Un paio di ciabatte di plastica e un pezzo di salame cotto non erano gran cosa, ma dopo quella giornataccia Anja si accontentava di poco.
Sventrarono e aprirono tutto, frugarono ovunque, le requisirono più o meno un terzo delle cose e altre le consigliarono di lasciarle in deposito per non portare subito tutto con sé. La borsa andava lasciata in deposito anche lei, perché la tracolla si staccava e rappresentava una “possibile minaccia”. Quale, in un primo momento Anja nemmeno lo capì, dunque chiese candidamente spiegazioni. L’agente robusto e guanciuto che secondo lei era il più alto in grado la guardò dalla fessura degli occhi e disse: «Ti ci puoi impiccare.»
Un brivido, e Anja decise che da quel momento avrebbe tenuto la bocca chiusa.
Oltre a borsa e tracolla risultarono proibiti un temperamatite (la lama!), un pacchetto di semi di girasole (sporcavano!), il balsamo per i capelli (opaco e perciò buon nascondiglio!), cuscino e coperta (nascondigli pure loro!), e molto altro di cui poteva giusto intuire la ragione del divieto. Tra l’altro, quando le intimarono di gettare via le arance, ubbidì, ma non senza provare a capire.
«Che cos’hanno, le arance?» chiese timidamente. «Ci puoi nascondere l’alcol.» «Che cosa?» aveva chiesto, sbalordita. «C’è chi ci inietta l’alcol con la siringa» spiegò stremato il guanciuto. «Niente frutta e verdura morbida. Solo mele, carote e cipolle. E ravanelli.» Quando ebbe infilato gli avanzi sparsi delle sue cose in un sacchetto, la portarono dal medico. La visitò in un bugigattolo a ridosso dell’ufficio delle guardie. Non c’era nessun altro, ma la telecamera a un angolo del soffitto lasciava intendere che la privacy era comunque un optional.
Il medico era una donna in carne neanche troppo vecchia e portava gli occhiali: sarebbe potuta sembrare gentile, se non fosse stato per lo sguardo di indicibile disprezzo che aveva stampato sulla faccia. La squadrò con sufficienza e spregio, quasi sapesse a priori che criminale incallita aveva davanti, e le ordinò di spogliarsi. «Del tutto?» domandò Anja, con un occhio alla telecamera. «Via la camicia e i jeans. Voltati. Ti hanno picchiata, al comando?» «Che cosa?!» «È un no, quindi… Cosa sono i lividi che hai lungo la spina dorsale?» Anja si contorse per provare a vederli, ma ovviamente non ci riuscì. «Quali lividi?» domandò, nervosa. «Saranno i segni del materasso…» «Il materasso non c’entra niente. E questo che hai sulla gamba?» «Ah, quello. Sono caduta dalla bici da poco.» «Dalla bici è caduta, questa… Reclami?»
«Nessuno!» esclamò pronta Anja. In quello stesso istante la dottoressa chiuse il registro con un colpo secco e andò verso la porta; anche di spalle, però, il suo disprezzo era lampante. Fu poi la volta delle impronte digitali. Lo “stampo delle dita”, come dicevano lì dentro. Le misero davanti un foglio A4 diviso a riquadri: quelli più piccoli erano per i polpastrelli, i due grandi per i palmi. Una poliziotta bionda di mezza età le strofinò sulle mani un apposito rullo impregnato di inchiostro nero lucido. «È inchiostro buono, viene via bene» fu svelta a dire, vedendo lo sguardo preoccupato di Anja. Non era chiaro se si vantasse o se volesse tranquillizzarla.
A procedura conclusa, quando Anja già pregustava la cella, il guanciuto tronfio sfilò l’ennesimo registro dallo scaffale. Le scappò un sospiro muto. L’altro si accasciò pesantemente sulla sedia, aprì il registro, squadrò Anja e chiese: «Facciamo l’elenco degli oggetti di valore?» «E facciamolo» acconsentì lei. «Quali sarebbero?» «Me lo deve dire lei. Il cellulare, di solito. Ce l’ha?» Annuì. «Me lo dia. Il passaporto dov’è? Ah, eccolo. C’è anche il tesserino della previdenza sociale, vedo: è una cosa di valore pure quello. Aggiungiamolo.» «Devo chiamare i testimoni?» chiese la poliziotta bionda.
Il guanciuto fece cenno di sì e cominciò a scrivere sul quaderno con una grafia precisa e riccioluta. La poliziotta uscì, scortata dal cigolio delle porte che si aprivano. Anja ne contò tre prima di sentirle dire: «Ragazze, con me a fare da testimoni, che ne è arrivata una nuova». Anja non capì la risposta, ma poco dopo in corridoio si sentì rumore di ciabatte: stavano arrivando in diverse. Anja si preparò. Come se le immaginava, le sue compagne di cella? Aveva in testa un misto di serie americane e cronaca nera russa, dunque la sua immaginazione le propose una via di mezzo fra una bella bionda atletica con la divisa arancione e una poveraccia brutta e sfatta col fazzoletto in testa. L’ansia cresceva con l’avvicinarsi dello sciabattare, e quando la prima sagoma svoltò l’angolo della porta Anja per poco non svenne: troppe emozioni.
Dietro la poliziotta entrarono altre due donne. Anja le squadrò e sentì qualcosa dentro che si spezzava e cadeva giù, spalancando un vuoto.
Gli incredibili eventi della cella femminile N.3, Kyra Yarmish, Mondadori, 400 pagine, 20 euro
Il “Trono di spade” del potere russo, dalle trame contro Shojgu alla successione di Putin. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 6 ottobre 2022.
«Ben detto, Ramzan. Sei un grande». L’inusuale endorsement del capo dei mercenari Wagner Evgenij Prigozhin nei confronti del leader ceceno Ramzan Kadyrov non sarebbe stato casuale. E neppure i loro durissimi attacchi in simultanea contro l’esercito per la «ritirata su posizioni più vantaggiose» da Lyman. I due starebbero tramando per rovesciare il ministro della Difesa Serghej Shojgu e rimpiazzarlo con Aleksej Djumin, attuale governatore di Tula ed ex “guardia del corpo” di Vladimir Putin, nonché suo papabile successore. Un “gioco dei troni” tutt’altro che distopico che si intreccia con la corsa alla successione dello stesso leader del Cremlino che, alla vigilia del suo 70esimo compleanno, sta affrontando la sfida più seria in un quarto di secolo al potere. Quanto la macchinazione della strana coppia del ceceno e dello “chef” possa riuscire è da vedere.
Kadyrov e Prigozhin sono gli «uomini da tenere d’occhio», concordano diverse fonti russe, gli esponenti più radicali del cosiddetto “partito della guerra” che invoca l’escalation in Ucraina. Hanno tre cose in comune: dispongono di “eserciti privati”, devono tutto al presidente, e sono in lotta con Shojgu. Ramzan Kadyrov, 45 anni, è il “mastino di Putin”, il suo “soldato di fanteria”. Governa la Cecenia come un feudo. Gode di autonomia e fondi illimitati in cambio di stabilità nell’ex Repubblica ribelle. I suoi uomini, i kadyrovtsy, sono una milizia paramilitare al suo comando. Evgenij Prigozhin, 61 anni, invece, è l’uomo del lavoro sporco. Era un oscuro ristoratore dal passato criminale prima che il presidente decidesse di appaltargli il catering del Cremlino dopo una cena in un suo locale. Da qui il nomignolo di “chef di Putin”. E anche i contratti milionari che lo hanno portato a capo della “fabbrica dei troll” di San Pietroburgo e della compagnia di mercenari Wagner. Per anni ne aveva smentito la paternità fino alla rivendicazione di qualche giorno fa seguita a un video in cui recluta prigionieri.
Quando la Difesa ha ammesso il «ritiro» da Lyman, Kadyrov e Prigozhin si sono lanciati in dure invettive contro l’esercito. E non era la prima volta. Una complicità segno di una combutta, stando ad Andrej Pertsev, analista di Carnegie Politika con ottime fonti al Cremlino. Entrambi hanno conti in sospeso con Shojgu. Lo scorso giugno la Difesa ha informato Kadyrov che creerà nuove formazioni militari in Cecenia che rispondano a Mosca, non più a lui. Mentre, secondo la newsletter The Bell, Shojgu ha tagliato i contratti di Prigozhin da 27 miliardi di rubli (452 milioni di euro) nel 2015 a poco più di un miliardo (1,6 milioni) e per di più è in ritardo coi pagamenti. Il duo avrebbe perciò cercato il consenso dell’ex pretoriano Aleksej Djumin, veterano delle Fso (il Servizio di protezione federale del presidente) ed ex viceministro della Difesa che avrebbe guidato le forze speciali durante l’annessione della Crimea prima di essere nominato governatore di Tula nel tentativo, si dice, di avvinarlo al popolo in vista di una futura successione al Cremlino. Secondo le fonti di Pertsev, Djumin aspirerebbe a tornare alla Difesa, ma al posto di Shojgu. E Kadyrov e Prigozhin non avrebbero altro che da guadagnarne. Djumin sarebbe anche un’assicurazione sul loro futuro. Se Putin davvero lo indicasse come suo delfino, il ceceno e lo chef continuerebbero a godere di favori anche nell’ipotesi di un avvicendamento al Cremlino.
Le probabilità che il cambio di poltrone riesca, mette in guardia Pertsev, tuttavia non sono molto alte, benché se ne discuta. Rimpiazzare Shojgu nel bel mezzo dell’offensiva vorrebbe dire ammettere i fallimenti sul campo. E Putin se ne guarda bene. Ieri tra l’altro il Cremlino ha promosso Kadyrov al grado di colonnello generale, terzo grado più alto nella gerarchia militare russa, ma ha preso le distanze da Prigozhin. È «soltanto un cittadino russo», ha detto il portavoce Dmitrij Peskov. E Putin ha approfittato di un video-incontro con un gruppo d’insegnanti per rispolverare un capitolo di storia reso memorabile da La Figlia del Capitano di Pushkin: la rivolta contro Caterina la Grande di Emeljan Pugaciov, finito giustiziato in Piazza Rossa. «Credeva di essere lo Zar», ha detto. «Era un elemento di debolezza dell’autorità centrale». Un’allusione sibillina tutta da decifrare. Una cosa sola è certa. Anche nel Trono di Spade di Putin, si vince o si muore. Pugaciov insegna.
Estratto dell'articolo Rosalba Castelletti per “la Repubblica” il 13 settembre 2022.
[…] Il 7 settembre scorso, una mozione sottoscritta da sette deputati municipali su 10, nel distretto Smolninskoe di San Pietroburgo, peraltro città natale del presidente russo, ha invitato la Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, a processare Vladimir Putin con l'accusa di tradimento per aver sferrato l'offensiva in Ucraina.
«Riteniamo che la decisione del presidente Putin di lanciare l'operazione militare speciale danneggi la sicurezza della Russia e dei suoi cittadini», recita il testo inviato anche al Consiglio di sicurezza e ai leader di cinque partiti russi […].
Il promotore Dmitrij Paljuga e i suoi sei colleghi sono stati subito convocati dalla polizia con l'accusa di "screditare" l'esercito russo, eppure hanno fatto scuola. Il loro esempio è stato seguito da tre deputati municipali del consiglio del distretto Lomonosovskij di Mosca che, più cautamente, hanno lanciato un appello a Putin a dimettersi perché «tutto è andato storto» dall'inizio del suo secondo mandato e perché credono che sia necessario un cambiamento per il bene del Paese.
[…] Le tue visioni, il tuo modello di gestione sono disperatamente fuori tempo e impediscono lo sviluppo della Russia e del suo potenziale umano», hanno scritto i deputati rivolgendosi direttamente al leader del Cremlino. Non è finita qui.
Sulla scia non solo della controffensiva ucraina, ma anche dei brogli che hanno contrassegnato le elezioni amministrative che si sono tenute nel fine settimana, ieri è iniziata a circolare una petizione.
«Le azioni del presidente Putin sono dannose per il futuro della Russia e dei suoi cittadini », recita il testo condiviso su Twitter da Ksenia Torstrem, deputata del distretto Semjonovskij di San Pietroburgo. «Chiediamo le dimissioni di Vladimir Putin dalla carica di presidente della Federazione Russa», conclude il comunicato, inizialmente firmato da 19 deputati municipali, ma che nelle ultime ore ha ricevuto altre 84 sottoscrizioni sia a Mosca che a San Pietroburgo. Le firme sono di deputati municipali che non hanno grandi poteri, ma che provano a fare politica nonostante tutto. E benché i numeri siano irrisori, sono il sintomo di un dissenso che non teme le ripercussioni.
Estratto dell’articolo di Micol Flammini per “il Foglio” il 13 settembre 2022.
I deputati di diciassette distretti di Mosca e San Pietroburgo hanno firmato una dichiarazione per chiedere le dimissioni di Vladimir Putin. La scorsa settimana erano arrivate altre due richieste simili, che accusavano il presidente russo di arrecare un grande danno alla sicurezza della nazione.
Attorno al Cremlino, mentre gli ucraini avanzano verso il confine orientale liberando i territori occupati dall'esercito di Mosca, è venuta giù l'unità che aveva contribuito a rendere forte e martellante in Russia l'idea che l'"operazione speciale" contro l'Ucraina fosse un dovere, anche di facile realizzazione.
L'avanzata ucraina ha lasciato la propaganda di Mosca senza una linea ben definita da seguire, non soltanto in politica sorgono le lamentele nei confronti degli errori commessi sul campo di battaglia, ma anche in televisione gli esperti sono divisi e le divisioni lasciano intravedere un paese che si trova davanti a un errore enorme e irrimediabile.
[…] La guerra è iniziata su una serie di considerazioni errate, calcoli fatti di fretta e con poca perizia. Una delle certezze di Mosca all'indomani dell'invasione era che proprio in quelle zone che oggi Kyiv sta liberando, i cittadini avrebbero accolto i russi a braccia aperte: quegli abbracci mai ricevuti, li vedono oggi dedicati invece ai soldati ucraini.
In un programma televisivo russo chiamato Mesto vstrechi , Luogo d'incontro, il commentatore Alexei Timofeev ha fatto presente nella puntata di domenica che il 24 febbraio era stato detto che i cittadini di Odessa, tradizionalmente non ostili ai russi, avrebbero abbracciato le truppe di Mosca e ha ammesso che ormai è chiaro che a Odessa di abbracciare i russi non ne hanno intenzione.
[…] Mosca sta già alzando i livelli di intensità dei bombardamenti, ha colpito anche una centrale termica nella zona di Kharkiv. Spera che queste difficoltà tolgano la forza agli ucraini, tolgano lo spirito della controffensiva di un esercito che sei mesi fa veniva definito di incapaci e oggi viene presentato dalla propaganda come forte e ben armato. In un aspetto la propaganda è rimasta unita, pur tra le prime crepe: nel definire gli ucraini "il nostro popolo", un paese fratello, vicino, amico. E la Russia, in questo rapporto fraterno, viene presentata come il fratello tradito.
La ricerca della libertà. Perché sono sempre di più gli ebrei che lasciano la Russia di Putin. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 19 Agosto 2022
Almeno uno su otto è già partito (tra questi anche il rabbino capo di Mosca), altri progettano di fare lo stesso. Molti fanno parte della fuga dei cervelli, ma il vero timore (la Storia insegna) è che l’autoritarismo nazionalista si trasformi in antisemitismo
Su ogni otto ebrei che erano rimasti in Russia, uno se ne è andato dall’inizio della guerra. E tra questi lo stesso Pinchas Goldschmidt, rabbino capo di Mosca dal 1993.
A dir la verità, non erano molti: più o meno 165mila, mentre in tutto il mondo gli ebrei con origini russe sono un paio di milioni. Ora 1.200.000 stanno in Israele, dove hanno anche un loro partito di una certa influenza: Yisrael Beiteinu, del ministro delle Finanze Avigdor Lieberman, che ha avuto il 5,63% dei voti alle ultime elezioni. Altri 350.000 si trovano negli Stati Uniti, circa 180.000 in Germania e altri 11.000 in Australia.
In realtà, poi, la vera patria degli ebrei del vecchio Impero Russo erano i territori della ex-Confederazione Polacco-Lituana (Ucraina, Bielorussia, Polonia, Lituania), dove quasi tutto il ceto medio era costituito da ebrei. Anche dopo l’annessione di quei territori, con le varie spartizioni della Polonia, agli ebrei non fu permesso di risiedere nella Russia storica per molto tempo. La redistribuzione avvenne soprattutto nel periodo sovietico, che verso gli ebrei ebbe un volto ambiguo. Da una parte furono formalmente riconosciuti come cittadini al pari degli altri e alcuni di loro – come Trotzky, Kamenev, Zinovev e Kaganovich – riuscirono ad accedere alle alte sfere. In più l’Urss diede un aiuto importante alla fondazione di Israele e sul suo territorio fu perfino costituita una provincia autonoma per gli ebrei, che però si trovava in un’area dell’Estremo Oriente dove ve ne erano pochissimi.
Dall’altra, però, il loro riconoscimento come nazionalità in un sistema dove tutto era dello Stato e i posti venivano assegnati anche in base a una proporzionale etnica mortificava le potenzialità di molti ebrei. Trotzky, Kamenev e Zinovev fecero tutti una brutta fine. Dopo un po’ l’Urss si mise ad appoggiare chi Israele la voleva distruggere. E sulla stessa provincia autonoma aleggiò un sospetto di deportazione. Più in generale, crebbe nel Paese l’antisemitismo e da qui nasce la lotta di molti ebrei per emigrare in Israele: «Refuznik», li chiamavano. Senza contare che comunque la religione ebraica era maltrattata dall’ateismo di Stato, come tutte le fedi.
Con la fine dell’Urss le relazioni con Israele si normalizzarono, tant’è che lo Stato ebraico si è da subito preoccupato di non apparire troppo schierato in questa guerra. Col ritorno a una iniziativa privata, sia pure caotica, molti ebrei hanno potuto diventare protagonisti. Con la fine dell’ateismo di Stato si è potuto aprire sinagoghe e scuole: «Siamo partiti da zero con sinagoghe, scuole, asili nido, servizi sociali, insegnanti, rabbini e membri della comunità», ricordava il rabbino capo Pinchas Goldschmidt prima di andarsene. E dal 1998 la Russia ha conosciuto quattro primi ministri di origine ebraica, compreso l’attuale: Mikhail Mishustin.
Ma non appena è stato possibile andarsene, la gran parte dei refuznik lo hanno fatto: la Russia post-sovietica, nonostante i cambiamenti, è comunque rimasta un Paese non facile per una minoranza che ha storicamente imparato di dover temere le involuzioni autoritarie. 250.000 erano gli ebrei russi Nel 1897 gli ebrei che si trovavano sul territorio della futura Urss erano 250mila su 5.250.000 e 2.680.000 in Ucraina. Nel 1926 diventano 539.037 su 2.672.499 e nel 1939 raggiungono il massimo, con 891.000 su 3.028.538. Nel 1989 sono già calati a 570.467 su 1.479.732 (ultimi dati dell’Urss) mentre nel 2002 sono dimezzati: 265.000 su 460.000 in tutto il territorio ex-sovietico. Otto anni dopo, nel 2010, sono 159.348 su 280.678.
Adesso l’Agenzia Ebraica, organizzazione che aiuta gli ebrei di tutto il mondo a trasferirsi in Israele, afferma che da marzo circa se ne sono andati 20.500 dei circa 165.000. Lo stesso Goldschmidt, si ricordava, ha lasciato il Paese con la sua famiglia a due settimane dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, andando prima in Ungheria e poi in Israele. Fuori dal Paese, si è dimesso dal suo incarico e ha condannato l’aggressione del Cremlino. «Sentivo di dover fare qualcosa per mostrare il mio totale dissenso e disaccordo con questa invasione dell’Ucraina, ma mi sarei messo in pericolo se l’avessi fatto rimanendo a Mosca», ha spiegato.
Di fronte alle critiche di alcuni membri della comunità perché li avrebbe «abbandonati», il rabbino ha risposto che dalla maggioranza gli sono arrivati chiari segnali di sostegno. Ma, appunto, se la maggioranza è d’accordo con lui, cosa si può fare allora se non parire? Ovviamente, gli ebrei sono anche coinvolti nella più generale fuga dei cervelli, con almeno un paio di centinaia di migliaia di professionisti e intellettuali che se ne sono andati per via del crollo di opportunità rappresentato dalle sanzioni.
Sul punto la Bbc ha sentito Anna Shternshis: professoressa di studi yiddish all’Università di Toronto e specialista nella storia ebraica russa. «Ho riflettuto a lungo sul motivo per cui c’è tanta fretta di partire, dal momento che non stiamo assistendo a un’enorme ondata di antisemitismo», ha affermato. «Ma poi, rimettendomi il mio cappello di storica, vedo che ogni volta che succede qualcosa in Russia, qualche sconvolgimento, qualche cambiamento, gli ebrei sono sempre in pericolo». Emblematici i pogrom che tra 1880 e 1920 accompagnarono le tensioni tra l’uccisione dello zar Alessandro II e le tre rivoluzioni del 1905, Febbraio e Ottobre. Ed emblematica ora la richiesta di chiusura degli uffici dell’Agenzia Ebraica che è arrivata dal Ministero della Giustizia.
Lo Zar all'angolo e l'escalation della menzogna. L'insostenibile escalation della menzogna. Parafrasiamo un illustre critico dell'imperialismo di Mosca, Milan Kundera, per dare a Putin quel che è di Putin. Roberto Fabbri il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.
L'insostenibile escalation della menzogna. Parafrasiamo un illustre critico dell'imperialismo di Mosca, Milan Kundera, per dare a Putin quel che è di Putin: nessuno come lui ha portato l'arte perversa tutta russa della bugia spudorata a fini di propaganda ai livelli che stiamo osservando in questi giorni. Giorni in cui si teme, e con qualche fondamento, l'inverarsi di un'assai più concreta escalation, quella militare con tanto di folle capitolo atomico. Un'accelerazione figlia della disperazione, che rischia di avvicinarci alla vera guerra che Putin ha in mente, che non è alla sola Ucraina, ma all'intero Occidente. Questa escalation è basata su un'altra, quella della menzogna firmata Putin: più incredibile e assurda dell'invasione dell'Ucraina, più rapida degli inutili missili ipersonici vantati dal dittatore, più impressionante dell'inattesa debacle della sua «armata rotta». Ieri il sempre più debole «zar» è arrivato a dire ai suoi compatrioti che l'Occidente incoraggia Kiev ad attaccare il territorio russo e a saccheggiarlo dei suoi beni e della sua sovranità (il che è falsissimo, anzi la principale preoccupazione di Biden è evitare esattamente questo per non allargare il conflitto). E ha perfino accusato lo stesso Occidente di voler attaccare la Russia con armi nucleari, il che è un'altra bugia assoluta, pronunciata proprio da chi prepara un'annessione truffaldina di quattro province ucraine per poi poterci minacciare con il suo arsenale atomico.
Sfacciataggine senza precedenti? Non scherziamo. Prima ancora del suo avvio lo scorso 24 febbraio, questa guerra è stata costruita su falsità sistematiche pronunciate in tutta serietà, con lo scopo non di essere creduti, ma di far capire che chi ha muscoli non ha bisogno di verità. Citiamo solo le principali, per ragioni di spazio. Il popolo ucraino non esiste, a Kiev comandano i nazisti, 150mila militari russi sono sul confine ucraino per esercitarsi ma non invaderanno nessuno, una fila lunga 65 chilometri di carri armati e blindati russi punta su Kiev per settimane, ma dopo che gli ucraini l'hanno decimata e sbandata «non ci interessava prendere Kiev», centinaia di morti nelle fosse comuni e per le strade di Bucha e di Irpin sono un falso dell'Occidente, altri 450 morti in un orrendo carnaio a Izyum sono un falso anche quelli, la nave ammiraglia della flotta del Mar Nero è affondata per un incidente, l'isola dei Serpenti è stata sgomberata come gesto di buona volontà, l'operazione speciale va avanti secondo i piani, l'esercito russo non colpisce obiettivi civili, la Russia vuole la pace ma Zelensky no. E avanti fino a oggi, con l'autoimbroglio dei 300mila riservisti russi mobilitati: serviranno a vincere la guerra? C'è di che dubitarne. Sono civili da riaddestrare e sulla loro motivazione parla chiaro la minaccia di leggi per sbatterli in galera fino a 15 anni se non fileranno al fronte senza fiatare.
La svolta estremista dello Zar. Così ultra-nazionalisti (e Dugin) hanno fatto breccia al Cremlino. "Non è un bluff". Il discorso di Vladimir Putin di ieri, non è stato duro solo nella forma. Anche nella sostanza ha segnato una svolta profonda nella tradizionale dottrina nucleare russa. Angelo Allegri il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.
«Non è un bluff». Il discorso di Vladimir Putin di ieri, non è stato duro solo nella forma. Anche nella sostanza ha segnato una svolta profonda nella tradizionale dottrina nucleare russa: la minaccia è diventata più concreta e immediata. Mai, perfino a guerra Ucraina già iniziata, il Cremlino si era spinto così platealmente lontano.
Nel giugno del 2020 gli strateghi di Mosca avevano per la prima volta esplicitato in un decreto presidenziale le condizioni di impiego delle armi atomiche, pubblicando un ordine esecutivo sui «Principi base della deterrenza nucleare». La condizione chiave era la messa a rischio, pur con armi convenzionali, dell'«esistenza dello Stato». Qualora si fosse verificata questa eventualità la Russia si sarebbe sentita libera di colpire per prima. Più volte gli esponenti del regime, avevano ribadito la validità dei principi stabiliti nel 2020: lo aveva fatto il portavoce Dimitri Peskov e ancora alla fine di marzo perfino un «duro» come l'ex presidente Dmitri Medvedev. Ieri Putin ha cambiato strada. Per salvaguardare «l'integrità territoriale del nostro Paese e per difendere la Russia e il nostro popolo faremo certamente uso di tutti i sistemi d'arma a nostra disposizione», ha detto. Qualche istante dopo, accanto all'integrità territoriale, Putin ha citato tra le ragioni che possono giustificare l'impiego di ogni strumento bellico, «la difesa dell'indipendenza e della libertà» dei cittadini russi. Concetti di ben più amplia latitudine rispetto a quelli precedenti.
È quello che le forze imperiali e nazionalistiche del regime chiedevano da tempo all'inquilino del Cremlino: una dichiarazione di guerra totale a quello che in Russia viene definito «l'Occidente collettivo». È la posizione del partito della guerra, che secondo le valutazioni più diffuse, riprese ieri dal sito Meduza, ha in questo momento tra gli esponenti più attivi Andrey Turchak (segretario della presidenza del partito di Putin, Russia Unita), il già citato Medvedev e il comandante della Guardia nazionale Viktor Zolotov.
È anche la posizione sintetizzata dai media di regime, passati ufficialmente dalla modalità «operazione speciale» a quella più estrema: adesso è la sopravvivenza stessa del mondo russo ad essere in pericolo. A sintetizzare efficacemente la nuova situazione era ieri l'editoriale online del Moskovskij Komsomolets (Mk), uno dei giornali più popolari a Mosca e in tutto il Paese. «Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la Russia è diventata il nuovo obiettivo. L'Ucraina, in questo processo, ha agito solo come una testa d'ariete...a combattere l'esercito russo non sono solo l'Ucraina, ma tutto il potenziale militare-industriale dell'Europa e degli Stati Uniti. Ciò significa che questo non è più un conflitto tra due paesi. Questa è una battaglia in cui il nemico punta non a difendere l'Ucraina, ma a distruggere la Russia».
L'apoteosi di questo atteggiamento si ritrova sui canali televisivi pubblici ma soprattutto sulle frequenze e sul sito di Tsargrad, la televisione dell'oligarca Kostantin Malofeev, ricco uomo d'affari ma anche ideologo della Russia di Putin. Qui ha fatto la sua ricomparsa, dopo il lutto legato alla morte della figlia, il filosofo Alexander Dugin, che in vista della mobilitazione militare del Paese ha tratteggiato quelli che per lui sono gli scenari del conflitto. Definirli apocalittici è perfino riduttivo.
Quelli estremi sono la fine della Russia «per opera dell'Anti-Cristo» (l'alleanza tra Ucraina, Stati Uniti ed Europa) e al contrario la vittoria delle «forze del bene» (la Russia) contro «le forze del male» (Nato e sodali). In mezzo c'è la fine del mondo. Perchè, dice Dugin, un modello a cui guardare è quello di Salvador Allende «che ha combattuto con una mitragliatrice in mano fino all'ultimo. Ma la differenza (rispetto a Putin; ndr) è che Allende non aveva un pulsante nucleare. Poteva sacrificare solo se stesso e un paio di nemici». Il Cremlino le bombe le ha, per la gioia di Dugin e la preoccupazione del resto del pianeta.
Kadyrov, Medvedev e gli altri: i «falchi» di Putin che lo spingono ad accelerare la guerra. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.
L’ex presidente Medvedev: «I nostri missili ipersonici sono capaci di raggiungere in maniera garantita obiettivi in Europa e Usa, molto più rapidamente di qualsiasi loro arma»
Tra i più accesi sostenitori del pugno duro contro Kiev e l’Occidente c’è sempre lui, Dmitrij Medvedev che quando prese il posto di Putin alla presidenza si presentò come il campione dei democratici e dei riformatori. Adesso che sembra contare sempre meno, cerca di collocarsi alla guida della pattuglia dei falchi, coloro che nelle ultime settimane avevano iniziato a mugugnare per l’«esitazione» del capo supremo. Trionfante, ieri Medvedev ha detto che i nuovi territori saranno difesi con «qualsiasi arma russa, inclusa quella strategica nucleare». E sulle possibili ritorsioni Nato ha detto: «I nostri missili ipersonici sono capaci di raggiungere in maniera garantita obiettivi in Europa e negli Usa molto più rapidamente di qualsiasi loro arma», ha sostenuto.
Negli ultimi mesi gli schieramenti attorno allo Zar sono cambiati profondamente, soprattutto visto l’andamento non proprio esaltante dell’Operazione militare speciale in Ucraina. Personaggi che venivano visti come guerrafondai o sostenitori a oltranza della politica del confronto duro con l’Occidente si sarebbero invece mossi dietro le quinte per convincere il presidente a non esagerare, a tenere a freno le teste più calde. E al fianco di Medvedev starebbero emergendo figure che fino a ieri erano di secondo piano ma che guadagnano status con le loro posizioni oltranziste, ancora più convinti dell’opportunità di pigiare sull’acceleratore di quanto non lo sia Putin.
Innanzitutto Ramzan Kadyrov , signore e padrone della Cecenia che negli ultimi giorni aveva annunciato di aver già attuato la mobilitazione generale nella sua repubblica e aveva invitato altri governatori a fare altrettanto. Senza aspettare le decisioni del ministero della Difesa che continuava a rimandare. Parimenti deciso sembra il comandante della Rosgvardia Viktor Zolotov, ex capo degli agenti addetti alla protezione del presidente. La Rosgvardia, una sorta di guardia nazionale, è formata dalle ex truppe anti sommossa dell’Interno. Questi uomini sono impegnatissimi nelle azioni belliche e contribuiranno a portare a termine il richiamo dei trecentomila veterani di cui c’è bisogno immediato al fronte.
Sulla stessa linea è schierato anche Andrej Turchak, primo vicepresidente del Consiglio di Federazione e soprattutto numero due del partito Russia Unita. Anche lui ieri si è precipitato ad approvare i provvedimenti presi: «Sono tempestivi e corrispondono agli obiettivi della difesa della nostra patria, della nostra sovranità e della nostra gente». Turchak ha poi comunicato che numerosi parlamentari sono pronti a rimettere il mandato per arruolarsi. Il più autorevole dei falchi è forse Vyacheslav Volodin, speaker della Duma, il quale sostiene che le truppe russe stanno combattendo già non solo «contro le formazioni naziste armate ma anche contro la Nato».
Avrebbero invece cercato di convincere Putin a non ricorrere alla mobilitazione i capi dei servizi segreti, Naryshkin e Bortnikov, il segretario del consiglio di sicurezza Patrushev (che starebbe già pensando alla successione al presidente), la governatrice della Banca centrale Nabiullina (che avrebbe riproposto le sue dimissioni), il capo del governo Mishustin.
Il marchese del Peskov. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.
Con quanto smodato entusiasmo reagirebbe alla notizia della sua chiamata alle armi il figlio di un gerarca di Putin, cioè di colui che ha appena indetto la mobilitazione contro il nemico alle porte? Non servivano grandi esercizi di fantasia per immaginarselo, ma lo scherzo telefonico organizzato da un canale russo di opposizione ha tolto ogni dubbio. Sentendosi convocare in caserma per il giorno seguente, il giovane Nikolay Dmitrievic Peskov, figlio del portavoce del Capo, ha subito tenuto a precisare di essere «il signor Peskov», e che diamine, per poi aggiungere che non credeva proprio che la faccenda lo riguardasse, ma che in ogni caso l’avrebbe risolta «a un livello più alto», cioè con una telefonata a papi. Il tono di voce tradiva la sorpresa di chi non riesce a capacitarsi che il suo interlocutore possa anche solo aver pensato di trattare un potente come se fosse carne da cannone, anziché un legittimo imboscato da congedare con tante scuse e ossequi al genitore.
Funziona così dall’inizio dei tempi, sotto tutti i climi e i regimi: chi si riempie la bocca di Dio, Patria e Famiglia è quasi sempre interessato solo alla famiglia, la sua, e dietro ogni fiore di Peskov si mimetizza un marchese del Grillo sinceramente convinto della propria superiorità, che ormai non è più di sangue, ma di relazione. «Lei non sa chi sono io», cioè chi conosco io, perché io sono in quanto conosco: non qualcosa, ma qualcuno.
Estratto dall'articolo di Enrico Franceschini per repubblica.it il 22 settembre 2022.
Lei non sa chi sono io”. Più o meno questo è il tono di Nikolay Peskov, figlio del portavoce di Vladimir Putin, a una telefonata che lo convoca in caserma per arruolarlo nella guerra in Ucraina facendo seguito alla “mobilitazione parziale” ordinata dal presidente russo. Solo che, a insaputa di Peskov junior, la telefonata è uno scherzo, organizzato da Popular Politics, un canale legato al movimento di Aleksej Navalny, il leader dell’opposizione condannato a dieci anni di carcere con accuse fraduolente dopo un tentativo di avvelenarlo.
L’autore della chiamata l’ha registrata e il dialogo con il figlio del potentissimo Dmitrij Peskov è finito sui social, sulle chat e sui media tradizionali di mezzo mondo, screditando la famiglia di un membro della ristretta cerchia dei fedelissimi di Putin.
Buongiorno, qui è il comando centrale delle Forze Armate russe – comincia la conversazione telefonica Dmitrij Nizovtsev, il presentatore del programma, fingendo di essere un ufficiale dell’esercito – le comunichiamo che il suo nome è nell’elenco dei riservisti che verranno arruolati per l’operazione militare in Ucraina nell’ambito della mobilitazione ordinata dal presidente Putin.
“Cosa?”, risponde meravigliato al telefono Nikolaj Peskiov, figlio 32enne del portavoce del capo del Cremlino. Non interrompa la comunicazione come ha fatto un’altra volta, riprende l’interlocutore, le abbiamo inviato la cartolina precetto per l’arruolamento ma lei non ci ha risposto. La aspettiamo in caserma domattina alle 10. “Non ho alcuna intenzione di venirci. Lei deve capire che io sono il signor Peskov. Non è previsto che io venga arruolato. Sistemerò tutto a un più alto livello”. Che minaccia interessante, replica il finto ufficiale, e di quale livello si tratterebbe?
Peskov figlio è un ex-coscritto nelle forze nucleari russe e in teoria rientrerebbe dunque nella lista dei 300 mila riservisti chiamati alle armi da Putin per rafforzare il contingente militare di 200 mila uomini impegnato da sette mesi in Ucraina, che fra l’alto numero di vittime e la controffensiva delle truppe di Kiev appare in grave difficoltà.
Dmitrij Peskov ha chiesto che il completo testo della telefonata venga pubblicato, sostenendo che questo scagionerebbe suo figlio dal sospetto di volere usare i suoi legami con il Cremlino per non andare a combattere. In effetti, sul finale della conversazione, quando forse il giovane Peskov capisce di essere caduto vittima di uno scherzo e che le sue parole potrebbero venire registrate, dice che, se Putin glielo ordina, sarebbe pronto a “difendere la madre patria”. Ma la sua prima reazione fa credere al classico “lei non sa chi sono io”. [...]
Sempre più solo. Piuttosto che finire nella guerra di Putin, i russi preferiscono lasciare il Paese. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.
Ovunque ci si prepara per non rispondere alla mobilitazione annunciata dal capo del Cremlino. Il Parlamento ha dovuto cambiare la legge per punire duramente i soldati che si arrendono o disubbidiscono agli ordini, mentre i riservisti hanno già comprato biglietti aerei per volare all’estero nei prossimi giorni
Il discorso televisivo di Vladimir Putin alla nazione russa è un’operazione di propaganda travestita da chiamata alle armi. Ieri il capo del Cremlino ha annunciato una «mobilitazione parziale» per trovare nuovi uomini da mandare a combattere in Ucraina: una risposta ai recenti successi militari dell’Ucraina nei territori che l’esercito russo aveva occupato all’inizio dell’invasione. L’obiettivo del Cremlino è richiamare in servizio i riservisti, cioè chi è in congedo permanente dopo aver fatto il servizio militare e non partecipa più alle operazioni militari.
Il cambio di tono e di strategia rispetto al passato sembra evidente: Putin non ha mai parlato apertamente di guerra, ma fin dall’annuncio del 24 febbraio ha sempre descritto l’invasione come «operazione militare speciale».
Potenzialmente potrebbe essere il preludio a una dichiarazione di guerra formale all’Ucraina. La settimana scorsa il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aveva negato questa possibilità, ma aveva risposto negativamente anche sulla possibilità di mobilitare i riservisti (sappiamo ormai che le sue parole hanno un grado di credibilità piuttosto basso).
Inoltre martedì la Duma, il parlamento russo, aveva emendato il codice penale del Paese per inasprire le pene contro i soldati che si arrendono o disubbidiscono agli ordini, specificando situazioni di «mobilitazione, legge marziale e tempo di guerra» come possibili aggravanti.
Il ministro della Difesa russo Sergej Šojgu ha detto che saranno mobilitati 300mila russi su un totale di circa due milioni di riservisti. È una stima molto ottimistica: si tratta di un provvedimento molto impopolare e migliaia di russi si sono subito messi alla ricerca di soluzioni per scansare la chiamata.
Poche ore dopo il discorso di Putin i voli in partenza dalla Russia verso praticamente qualunque altra destinazione sono andati esauriti: le destinazioni più gettonate sarebbero soprattutto Turchia, Azerbaigian e Armenia cioè Paesi che non richiedono visti all’ingresso per i russi. I voli per questi tre Stati sono già colmi fino a venerdì sera, e i prezzi dei biglietti dei giorni successivi sono schizzati alle stelle.
Un biglietto per il volo di sabato – una tratta da quattro ore e mezza – costa 173mila rubli, circa 2.870 euro. Ma fino a martedì sera costava circa 350 euro.
«Dubito che riusciranno a mobilitare così tanti uomini come dicono», ha scritto in un thread su Twitter Sergej Sumlenny, giornalista, politologo e scrittore di origine russa che ha lavorato a Mosca per l’emittente televisiva tedesca Ard ed è stato caporedattore di un telegiornale dell’emittente commerciale russa RBC-TV. «Per integrare così tante persone avrebbero bisogno di strutture libere e ufficiali militari, circa 500-800 per divisione».
L’analisi di Sumlenny, insomma, porterebbe a pensare che per Mosca non sarà così facile muovere tanti riservisti in breve tempo. Oltre al fatto che fin dall’inizio della guerra si parla delle enormi difficoltà dell’esercito russo nell’equipaggiare e armare a dovere i suoi soldati – e poi anche dei problemi logistici nel muovere e organizzare così tanti uomini.
«L’unico motivo per parlare di mobilitazione è per pura propaganda», aggiunge Sumlenny. «La Russia sta anche cercando di spaventare l’Occidente facendogli credere che abbia risorse illimitate (è una menzogna) e che ci sarà un’escalation del conflitto (un’altra menzogna)».
Per la Russia una mobilitazione, anche parziale, è un rischio, un’operazione che rischia di metterne a nudo ancor di più le difficoltà e i problemi organizzativi.
Tra l’altro il discorso di Putin è arrivato poche ore l’inizio dei lavori del mercoledì alla 77esima Assemblea Generale dell’Onu. Da New York il portavoce del Servizio di Azione Esterna dell’Unione europea, Peter Stano, ha definito la mobilitazione della Russia «un attacco ai principi fondamentali della comunità internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite, e fondamentalmente è un attacco contro tutti i Paesi che hanno sottoscritto i principi del diritto internazionale, della sovranità e dell’indipendenza delle nazioni».
Oltre alla mobilitazione parziale, l’autocrate russo ha insistito anche che sui referendum che hanno indetto per i prossimi giorni le autoproclamate repubbliche autonome del Donbas, Lugansk e Donetsk – già riconosciute come indipendenti da Mosca – e le aeree di Kherson e Zaporizhzhia. Le consultazioni vorrebbero essere un sistema per annunciare la volontà di annessione alla Russia.
«In altre parole, stanno pianificando sondaggi truccati per consentire alla Russia di annettere illegalmente più territorio ucraino», scrive l’Economist. «Uno degli obiettivi dei referendum è quello di contenere i successi militari ucraini nel Donbas: in caso di annessione formale di Lugansk e Donetsk in teoria il Cremlino potrebbe dichiarare che le offensive ucraine in quelle aree sono stati attacchi al suolo russo».
Sarebbe una copia di quanto già accaduto con la Crimea nel 2014: allora la penisola fu annessa con un referendum pilotato, che però si rivelò sufficiente per permettere ai funzionari russi di inibire i tentativi di riconquista ucraini. La speranza è che, otto anni dopo, l’Ucraina e i suoi alleati occidentali e democratici riescano a frenare le ambizioni imperialiste del Cremlino. O che quest’ultimo si fermi da solo sbagliando tempi e modi delle sue strategie.
Da adnkronos.com il 21 settembre 2022.
Nel giorno in cui Vladimir Putin ha ordinato la mobilitazione di 300mila riservisti da mandare a combattere in Ucraina, cresce la protesta in Russia contro la guerra. Sono 651 le persone arrestate finora, scese in piazza in diverse città del Paese. Lo riferisce la ong russa Ovd-info sul suo sito.
Sui social circolano i video della protesta a Mosca, uno in particolare - sull'account Twitter di Nexta, il sito dell'opposizione bielorussa - in cui si vedono gli agenti che portano via di peso i dimostranti che scandiscono lo slogan "vita per i nostri figli". In un altro video si vede la polizia, in tenuta anti sommossa, che carica i dimostranti a San Pietroburgo, dove i manifestanti sono stati picchiati con i manganelli durante la detenzione, come riferisce il sito in Ovd-info.
Poche ore dopo l'annuncio della 'mobilitazione parziale", la procura di Mosca ha avvisato che chi partecipa alle proteste rischia 15 anni di carcere. In un comunicato, la procura si riferisce alla pubblicazione sui social media di "post con informazioni per partecipare ad azioni pubbliche e commettere altre azioni illegali".
"La Procura mette in guardia dalla distribuzione di questo materiale - prosegue la nota - e la partecipazione ad azioni illegali che sono punibili sulla base di leggi penali ed amministrative". Azioni, si aggiunge, che sono "qualificate come reati punibili anche con pene detentive fino a 15 anni".
Da adnkronos.com il 21 settembre 2022.
L'annuncio di Vladimir Putin con il via alla mobilitazione parziale in Russia per andare a combattere in Ucraina ha gettato nel panico migliaia di giovani russi. "Non voglio diventare carne da cannone", dichiara un 30enne moscovita a Moscow Times, che ha raccolto diverse testimonianze. "Mio fratello ha paura. Stiamo urgentemente cercando di comprargli un biglietto aereo per ovunque", dice la sorella di un giovane che ha appena terminato il servizio militare. Sui social, intanto, alle immagini di riservisti in partenza si accompagnano quelle di giovani che prendono il volo o partono con ogni mezzo disponibile.
L'annuncio di Vladimir Putin con il via alla mobilitazione parziale in Russia per andare a combattere in Ucraina ha gettato nel panico migliaia di giovani russi. "Non voglio diventare carne da cannone", dichiara un 30enne moscovita a Moscow Times, che ha raccolto diverse testimonianze. "Mio fratello ha paura. Stiamo urgentemente cercando di comprargli un biglietto aereo per ovunque", dice la sorella di un giovane che ha appena terminato il servizio militare. Sui social, intanto, alle immagini di riservisti in partenza si accompagnano quelle di giovani che prendono il volo o partono con ogni mezzo disponibile.
"Certo che ho paura- dice Oleg, 29 anni - voglio assolutamente evitare di arruolarmi. Se avessi i soldi andrei all'estero". "La gente cercherà ogni opportunità per evitare l'arruolamento, qualcuno tornerà all'università o prenderà un lavoro part-time nel settore della difesa", afferma un'altro moscovita, che si dice pronto a rompersi un braccio pur di non partire. "Spero che i moscoviti saranno risparmiati. Non credo che le autorità vogliano foto di poliziotti che inseguono gli hipster nella metropolitana", dice il giornalista Vyacheslav Tikhonov E' terribile che i ragazzi di Mosca eviteranno probabilmente l'arruolamento a spese di altre regioni, ma non ho altro da sperare", aggiunge.
Che cosa è la "mobilitazione parziale" di Putin: saranno arruolati riservisti e chi ha fatto il servizio militare e ha "abilità speciali". Daniele Raineri su La Repubblica il 21 settembre 2022.
Che cosa vuol dire la mobilitazione parziale annunciata oggi da Putin? La Russia chiamerà alle armi i riservisti – che sono poche migliaia – e le persone che hanno già fatto il servizio militare e hanno abilità speciali considerate utili (per esempio con le radio, come medici, come meccanici e altro) a partire “dal 21 settembre”, quindi da oggi.
Video correlato: Putin annuncia mobilitazione parziale, pronti a tutto per difesa
Se si trattasse di una mobilitazione generale tutti gli uomini in età militare, quindi di età compresa fra i 18 e i 65 anni, sarebbero considerati arruolabili per essere spediti sul fronte ucraino, ma la Russia non è ancora a questo punto.
L’invasione russa è stata lanciata con un contingente di soli soldati professionisti, in teoria. Quando il presidente Putin ha scoperto che nei reparti mandati sul fronte c’erano anche soldati di leva li ha fatti richiamare indietro perché il prezzo politico da pagare per la morte di coscritti sarebbe stato troppo alto. In qualche caso sono morti lo stesso, per esempio alcuni marinai di leva che erano a bordo dell’incrociatore Moskwa, affondato dai missili ucraini ad aprile. Adesso ha fatto un passo in avanti che coinvolgerà settori molto più ampi della popolazione russa.
La chiamata alle armi di Putin. Chi sono i riservisti russi: per i 300mila soldati di Putin paga di 460 euro al mese e fino a 15 anni di carcere per i disertori. Redazione su Il Riformista il 21 Settembre 2022
Per 300mila russi il risveglio questa mattina è stato drammatico. Nel suo discorso alla nazione il presidente Vladimir Putin ha intimato la chiamata alle armi in Ucraina, una mobilitazione militare “parziale” che riguarderà i riservisti dell’esercito.
Il decreto firmato dallo Zar in realtà prevede anche la possibilità di chiamare la popolazione generale alle armi in maniera obbligatoria: all’articolo due infatti si legge che il presidente si riserva il diritto di “reclutare al servizio militare i cittadini russi nell’ambito della mobilitazione delle forze armate russe”.
Al momento comunque, nel tentativo già parzialmente fallito di tranquillizzare l’opinione pubblica ed evitare la corsa alla fuga all’estero, la mobilitazione resta parziale: vuol dire che saranno interessati solo coloro che hanno prestato servizio nelle forze armate, hanno determinate specializzazioni militari ed un’esperienza rilevante. Ma il potenziale russo da poter dispiegare in campo resta straordinario: in un Paese in cui il servizio di leva è ancora obbligatorio, secondo il ministro della Difesa Serghei Shoigu le forze disponibili sarebbero circa 25 milioni.
Secondo Andrei Kartapolov, capo della Commissione Difesa della Duma, i primi a essere mobilitati potrebbero essere i soldati e i capisquadra sotto i 35 anni e gli ufficiali minori sotto i 45 anni. Saranno esclusi per il momento alcune categorie, ad esempio gli studenti universitari, i militari di leva e coloro che hanno quattro figli oppure tre figli e una moglie incinta da almeno 22 settimane, così come si prende cura di parenti e amici di persone disabili e chi è stato condannato a reati gravi. Chi sarà mobilitato dovrà sottoporsi a un addestramento militare aggiuntivo prima di essere inviato sul fronte.
Chi è stato chiamato alle armi riceverà la paga standard dei soldati che fanno parte dell’esercito russo: il compenso mensile è di circa 30.000 rubli, pari a circa 460 euro, di poco più basso rispetto al salario medio russo ma di certo una cifra considerevole per chi abita nelle aree più remote e meno sviluppate del Paese.
Il decreto di mobilitazione arriva all’indomani di una nuova stretta decisa dalla Duma, la Camera bassa dell’Assemblea federale della Federazione Russa, che ha votato una ulteriore stretta alle poche libertà rimaste nel Paese. Tra i provvedimenti presi vi è anche l’aumento della pena fino a 15 anni di carcere (con un minimo di due) per i soldati che disertano, si arrendono o si rifiutano di seguire gli ordini loro impartiti. Porte aperte ai ‘foreign fighters’ disposti a combattere per il Cremlino: la Duma ha contestualmente approvato una legge che semplifica l’ottenimento della cittadinanza russa per gli stranieri che decidono di arruolarsi e combattere.
Il ricorso ai riservisti appare come il chiaro segnale delle difficoltà russe nella “operazione militare speciale” in Ucraina iniziata ormai lo scorso 24 febbraio. Colpiti dalla controffensiva di Kiev, che sta riconquistando chilometri e chilometri di territori precedentemente occupati dalle truppe fedeli al Cremlino sia nel nord che nel sud-est del Paese, Mosca avrebbe perso secondo le stime del Pentagano circa 70mila soldati dall’inizio del conflitto tra feriti e morti. L’ultima cifra ufficiale proveniente dal Cremlino parla invece di meno di 6mila soldati uccisi in battaglia, un numero evidentemente incompatibile con la chiamata alle armi voluta da Vladimir Putin.
Proteste in Russia, voli esauriti e fughe: il fronte interno mostra nuove crepe. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.
Biglietti aerei dei voli con prezzi alle stelle, 900 arresti nelle maggiori città: la Russia metropolitana (e non solo) non crede più nell’«uomo forte»
«Credo nel vostro sostegno». Non è una professione di fede, ma una richiesta di aiuto. L’analisi del discorso di Vladimir Putin dovrebbe cominciare dalla fine. Dall’utilizzo di una locuzione mai usata in epoca recente, l’unico precedente risale all’appello per il voto nel 2008, dietro alla quale si nasconde una parziale ammissione. L’uomo della forza per eccellenza , che negli ultimi vent’anni ha convinto il suo popolo di essere l’unica scelta per ridare ordine e potenza a una nazione in crisi di fiducia, questa volta non ce la fa da solo. Non ha più la situazione sotto controllo.
Era la sua guerra, questa. La sua Operazione militare speciale, un giro di parole per dire che non stava succedendo niente. E adesso facendo appello al supporto, e quindi alla benevolenza della sua gente, ammette in modo quasi esplicito di avere cominciato qualcosa che non riesce a finire. Le prime risposte sono arrivate subito, e non sono certo incoraggianti per lui. L’aumento del traffico alla frontiera con la Finlandia, l’unico confine di terra che consente ancora il passaggio ai cittadini russi forniti di visto per i Paesi europei, è un piccolo segnale. Anche se la tendenza era in atto già dalla scorsa settimana quando, con una mossa che lasciava presagire quanto stava per accadere, il Cremlino aveva aumentato le limitazioni per il permesso di espatrio.
Come sempre, esiste il rischio di dare grande importanza a indizi parziali, per renderli compatibili ai desideri occidentali. Se davvero c’è un esodo in atto, riguarda soltanto una piccola fascia di popolazione, quella più metropolitana e acculturata. Sono «gli insetti» che Putin ha già dato per persi da tempo. Quelli che hanno le risorse per acquistare biglietti aerei con prezzi all’improvviso schizzati alle stelle. Ieri sera per uno degli ultimi voli disponibili da Mosca a Dubai, la tratta più facile e battuta, bisognava pagare l’equivalente di 12.500 euro. A inizio giornata il costo era di appena mille euro. La verità è che questa mobilitazione parziale, altro giro di parole per negare una chiamata alle armi pressoché generale, dato che le esenzioni previste riguardano finora soltanto età, salute e fedina penale, può contare su un serbatoio immenso. Secondo l’ultimo censimento, effettuato nel 2016, il 74 per cento dei russi non ha un passaporto per l’estero. È la Russia più profonda, che da sempre rappresenta l’architrave del consenso putiniano.
Ora si ritrova a essere sua prigioniera, carne da macello senza alcuna possibilità di fuga. Non è un caso che le autorità abbiano subito chiuso il varco verso la Mongolia che permette di uscire dalla Buriazia, la remota regione siberiana che sta fornendo il maggior numero di soldati a questa guerra. Moriranno i soliti, quelli che non hanno voce e risorse. Le proteste di ieri a Mosca, San Pietroburgo e nelle altre grandi città, che hanno portato a mille arresti e quasi altrettante denunce in meno di dodici ore, lasciano capire che gli ultimi a essere chiamati saranno proprio gli abitanti delle aree metropolitane. Per quanto censurate in patria, le immagini dei giovani che urlano «Putin in trincea» e «Vita per i nostri figli» mentre marciano sulla Stary Arbat, la grande strada popolare della capitale, sono qualcosa che il Cremlino non si può permettere.
A differenza dello scorso febbraio, quando ancora esisteva una minima organizzazione del dissenso, queste sono manifestazioni spontanee, nate al momento e frutto di una emotività che sembra risvegliarsi solo ora. Con le cattive notizie che giungono dall’Ucraina, ormai impossibili da nascondere. Ieri ci sono stati passanti che hanno strappato alcuni ragazzi dalle mani degli agenti. A febbraio, applaudivano mentre li trascinavano via. Qualcosa sta cambiando, forse. Ci vorrà del tempo per capire. Un tempo che adesso sta per essere congelato dall’inverno russo. E che Putin ha già utilizzato più volte per una silenziosa repressione del fronte interno.
La fuga disperata dei russi per non morire in trincea. Federica Bianchi su La Repubblica il 23 Settembre 2022.
Dopo l’annuncio della coscrizione parziale, migliaia di cittadini cercano di scappare. E sono disposti a pagare qualunque cifra pur di non essere arruolati. Mente si moltiplicano le proteste
La Chiesa ortodossa russa come gli islamisti dell'Isis. Il patriarca Kirill, sostenitore feroce della politica imperialista del presidente russo Vladimir Putin, chiede in Chiesa ai giovani e meno giovani uomini russi di immolarsi per la Patria, «la via diretta per stare con Dio».
Ma decine di migliaia di russi preferiscono restare sull'umile suolo terreno e hanno preso a fuggire a frotte dalla madrepatria.
Dopo l'annuncio della coscrizione obbligatoria di almeno 300mila uomini per sostituire i 70mila soldati russi caduti durante la guerra contro l'Ucraina, migliaia di uomini tra i 18 e i 65 anni hanno fatto i bagagli. Si sono riversati negli aeroporti, su qualunque volo di sola andata li allontanasse dalla prospettiva di una morte probabile. Di voli verso Istanbul in Turchia e Yerevan in Armenia, Paesi che non richiedono un visto e che non applicano le sanzioni europee che impediscono ai russi di volare negli stati dell'Unione, non ce ne sono più in vendita questa settimana. E anche quelli per Tiblisi, capitale della Georgia, oramai sono introvabili nonostante i prezzi folli: hanno superato i 5mila euro, cinque volte il salario medio. In alcuni casi sono stati sfiorati perfino i 9mila come per un biglietto della compagnia aerea Emirates da Mosca a Belgrado, in Serbia.
La destinazione più gettonata è ancora la Turchia, che nel 2022 ha rappresentato il 25 per cento di tutti i voli russi. I posti sulla low cost Pegasus da Mosca a Ankara, capitale della Turchia, sono esauriti fino alla fine di settembre nonostante il prezzo abbia raggiunto i 2.000 euro.
Chi non ha avuto la prontezza o i mezzi di precipitarsi in aeroporto è ancora in fila ai check-point con la Finlandia, unico confine europeo aperto ai russi, per cercare di sfuggire alla chiamata alle armi. Ieri si registravano file chilometriche di auto in attesa di uscire.
Ma non è facile lasciare il Paese in aereo, in bus, in treno o in auto perché, resosi conto dell'esodo, Putin ha impedito a tutti gli uomini maggiorenni, di qualunque regione del Paese, di lasciare la Russia. E i suoi funzionari militari sono già in giro a bussare porta per porta per caricare sui bus tutti coloro che hanno almeno fatto il militare per poi sottoporli a un addestramento di due settimane prima dell'invio in Ucraina.
La resistenza della popolazione è tanta. E infatti la Germania ieri ha fatto sapere di volere ospitare tutti qui russi che sono in fuga dalla guerra di Putin. In pochi sono disposti ad essere usati come carne da cannone. Eppure, soprattutto nei villaggi più remoti, non hanno scelta. Così sui social media si moltiplicano i video di padri che salutano le figlie tra le lacrime o di donne disperate che annunciano di avere perso non solo il futuro ma anche il presente a causa di questa guerra.
Russia, file chilometriche al confine con la Georgia: i coscritti tentano di fuggire dal Paese
Nelle strade di decine di città si sono moltiplicate le proteste, con ragazzi che chiedono a Putin di andare lui stesso a combattere la sua guerra in trincea. Ma i manifestanti sono portati velocemente via dalla polizia e rischiano 15 anni di carcere.
Secondo molti analisti la coscrizione è parziale solo in teoria e lascia la porta aperta alla chiamata di tutti gli uomini abili del Paese: «Non esistono parametri di questa "parzialità" né geografici né di altro genere», ha detto al Financial Times l'analista politica Ekaterina Schulmann: «Con l'eccezione dei lavoratori del complesso militare e industriale, chiunque può essere inviato al fronte».
Da corriere.it l'1 ottobre 2022.
«Non sono pronto a uccidere per nessun ideale». È questa la motivazione che ha spinto Ivan Petunin, noto col nome d'arte di Walkie, a togliersi la vita. Il musicista, 27 anni, ieri ha pubblicato un video su Telegram in cui annunciava la sua decisione: «Se stai guardando questo video non sono più vivo, non posso prendere il peccato dell'omicidio sulla mia anima e non voglio», ha detto.
Il corpo del giovane è stato trovato vicino a un edificio di più piani in via Kongressnaya, a Krasnodar, città in cui viveva. Petunin era sicuro che prima o poi sarebbe stato chiamato alle armi, nonostante avesse ricevuto una dispensa provvisoria dal servizio militare, per motivi di salute. Si stava sottoponendo a cure neuropsicologiche.
"Non sono pronto a uccidere per nessun ideale". L’ultimo video del rapper russo Walkie morto suicida per non andare in guerra: “Siamo ostaggi di un maniaco”. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2022
Ha preferito togliersi la vita piuttosto che arruolarsi nell’esercito russo. “Non sono pronto a uccidere per nessun ideale, siamo ostaggi di un maniaco” è questo il messaggio pubblicato su Telegram dal rapper Ivan Petunin, noto col nome d’arte di Walkie, morto suicida a 27 anni a Krasnodar per evitare l’arruolamento, nel quadro della mobilitazione parziale dei riservisti ordinata dal presidente Vladimir Putin. A riportare la notizia è il sito di informazione locale 93.ru, rilanciato da testate nazionali come Kommersant.
Il corpo del musicista è stato trovato vicino a un edificio di più piani in via Kongressnaya, a Krasnodar. Prima di togliersi la vita, aveva pubblicato un videomessaggio sul suo canale Telegram. Messaggio, che è stato successivamente cancellato, dove spiegava di non essere “pronto a uccidere per nessun ideale”.
Era sicuro che, prima o poi, sarebbe stato chiamato alle armi, nonostante avesse ricevuto una dispensa provvisoria dal servizio militare, per motivi di salute. Si stava sottoponendo a cure neuropsicologiche.
“Se stai guardando questo video non sono più vivo, non posso avere sulla coscienza un omicidio e non voglio“, ha spiegato il rapper prima di gettarsi dalla finestra del suo appartamento.
Per Petunin, che si era sempre dichiarato pacifista, l’invasione dell’Ucraina “era stata sin dall’inizio molto dolorosa”. Il rapper, nei mesi scorsi, aveva ottenuto un esonero dalla leva per motivi di salute.
Nei giorni scorsi aveva pubblicato il suo ultimo album (“Walk Out Boy 3”) e prima di togliersi la vita ha voluto mandare un messaggio alla sua fidanzata: “Non ti scordare di me e del fatto che ho vissuto in pace con la mia coscienza“.
Il rapper suicida: "Non vado in guerra". Redazione su Il Giornale il 2 ottobre 2022.
Dopo l'editto di Putin con tanto di chiamate alle armi e arruolamenti di massa, centinaia di migliaia di persone si sono ammassate ai confini russi per lasciare il Paese ed evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che non sentono affatto la loro. Dopo le immagini delle lunghe code che hanno fatto il giro del mondo, lo Zar deve incassare un altro colpo pubblico, ancora più tragico. Il rapper russo Ivan Petunin, in arte «Walkie», si è suicidato pur di evitare una possibile coscrizione e lo ha fatto dopo diversi messaggi social che annunciavano l'estremo gesto.
La notizia è diventata virale sui social e ha provocato un'ondata di choc e indignazione. «Non sono pronto a uccidere. Non posso prendere sulla mia anima il peccato di omicidio e non voglio. Non sono disposto a uccidere per alcun ideale», ha spiegato Petunin in un video pubblicato su telegram poco prima di togliersi la vita. Da Krasnodar, nel Caucaso russo, un centinaio di chilometri a est della Crimea, Ivan ha argomentato la scelta estrema.
«Ho scelto di rimanere per sempre nella storia come un uomo che non ha sostenuto quello che è successo. Non sono pronto a prendere le armi e uccidere membri della mia stessa specie», ha detto, aggiungendo che il suicidio è «un modo per esprimere la mia estrema protesta», annunciando che una volta pubblicato il video lui non ci sarebbe più stato.
Eppure al momento Ivan non era in procinto per essere arruolato. A causa di problemi di salute, aveva ottenuto un esonero provvisorio dal servizio militare. Il ragazzo, 27 anni, si stava sottoponendo a cure neuropsicologiche, fatto che potrebbe aver accentuato in qualche modo l'istinto suicida. Ciononostante era convinto che prima o il richiamo alle armi sarebbe arrivato anche per lui, soprattutto dopo la mobilitazione ordinata da Putin che secondo il rapper (e non solo secondo lui) in breve sarebbe passata da parziale a totale. «Scelgo di rimanere per sempre nella storia, come un uomo che non ha sostenuto ciò che stava accadendo e ha protestato fino all'ultimo», ha spiegato Petunin.
Il corpo del giovane è stato trovato, poco dopo la pubblicazione online del video, vicino a un edificio di più piani in via Kongressnaya, a Krasnodar da cui il rapper si sarebbe lanciato. Nei giorni scorsi è diventato virale sui social il video di un uomo che si è dato fuoco in una stazione ferroviaria a Ryazan, anche in questo caso per evitare una possibile chiamata alle armi che lo avrebbe portato a combattere in Ucraina. Se Putin sembra sempre più convinto della sua folle linea bellica, tante piccole crepe stanno aprendosi nella società civile russa. Anche con gesti estremi e senza ritorno.
«Non voglio problemi, ho votato Vladimir Putin ma vado via»: i russi in fuga per non rischiare. Trecentomila persone dall’annuncio della mobilitazione generale, mezzo milione dall’inizio della guerra. Sono i cittadini emigrati per paura di essere spediti al fronte o nella speranza di tornare quando le cose cambieranno. Per entrambi nessuna intenzione di unirsi all’opposizione in Patria. Marta Ottaviani su L'Espresso il 3 ottobre 2022.
Un problema non esiste, fino a quando non tocca te. E così, a pochi giorni dall’annuncio della mobilitazione parziale, avvenuto il 21 settembre scorso dal presidente Vladimir Putin, la Russia si è scoperta malata di indifferenza, ma con la ferma intenzione di non finire vittima di una guerra a lungo ignorata.
Sono quasi 300mila le persone che hanno abbandonato la Russia dal 21 settembre. A queste, va aggiunto un altro mezzo milione che ha lasciato o non ha fatto ritorno nel suo Paese dal 24 febbraio, data di inizio della guerra in Ucraina. La grossa differenza, è che chi è partito a settembre lo ha fatto perché rischiava di essere mandato a forza al fronte. Il denominatore comune fra i due gruppi, è che si va via per paura, spesso solo con la speranza che il futuro sia diverso, molto raramente con la volontà di fare la propria parte in un possibile cambiamento. Un atteggiamento di rassegnazione misto ad apatia, che si trasforma in disagio tendente al fastidio quando gli si chiede la motivazione di tanta indifferenza.
Alekseij ha 32 anni, ed è stato uno dei primi ad arrivare a Istanbul. Fino a prima della guerra lavorava in uno dei negozi più di lusso di San Pietroburgo. Poi, però, quel negozio ha chiuso a causa delle sanzioni e lui si è trovato senza lavoro «Sapevo fin dall’inizio come stava andando la guerra – spiega a L’Espresso -. Le televisioni russe sono in mano alla propaganda, ma se uno usa i social e vuole sapere quale sia la verità non è molto difficile da scoprire. A metà settembre ho comprato un biglietto per Istanbul. È stato un gesto irrazionale, che però per il momento mi ha salvato la vita».
Ora si trova in Turchia, ospite da amici. Il biglietto gli è costato ben 1.000 euro, ma se lo avesse preso dopo il 21 settembre avrebbe rischiato di spendere fino a 10 volte tanto e non è detto che ne avrebbe trovato uno. Non solo infatti gli aerei sono pieni per le prossime due settimane, Turkish Airlines, la compagnia di bandiera turca, ha cancellato i voli da quattro città russe fino a fine dicembre. «Dove sono ora c’è una ragazza che sta cercando di fare uscire il fratello. Ma non c’è niente da fare. Non mi importa di questa guerra, non mi importa né della Crimea né del Donbass. Ho votato Putin perché ha garantito stabilità e crescita economica sta cercando di rendere di nuovo grande la Russia. È un nostro diritto difendere la nostra tradizione e i nostri valori. Ma è chiaro che questa operazione militare avrà conseguenze su tutti noi e molti di noi, di fondo, vogliono solo non avere problemi».
L’unica preoccupazione di Alexeij, in questo momento, è riuscire a cavarsela. Dei morti in guerra e chi di rischia di essere spedito in prima linea per direttissima, gliene importa poco e non c’è da sorprendersi. I dati del centro di ricerca Levada, considerato il più indipendente del Paese, parlano chiaro. Il 66% degli intervistati ha paura che dalla mobilitazione parziale di passi a quella totale. Ma fra le reazioni alla notizia del 21 settembre, il 47% prova ansia o paura e il 23% choc. La rabbia e la vergogna raccolgono uno scarso 13% e 5%.
«Questa cosa che i russi si dovrebbero vergognare inizia a dare fastidio». La voce di Pavel arriva dal Kazakhstan e si sente male. Studente di relazioni internazionali, al momento si trova in una delle strutture messe a disposizione da parte del governo di Astana. Alla richiesta di commentare di dati di Levada, ha risposto con affermazioni frutto di una propaganda che ormai è un lavaggio del cervello. «Non siamo stati noi a muovere guerra all’Ucraina, è dal 2014, quando la Crimea ha scelto di fare parte della Russia che veniamo provocati dalla comunità internazionale. Io credo che ogni territorio debba poter scegliere di che nazione fare parte e, da russo, do il benvenuto a chiunque voglia stare con noi. Il mio è un Paese accogliente con chi lo apprezza». Il discorso filerebbe, se lui non fosse scappato a gambe levate con altri studenti della sua università e non avesse fatto otto ore di coda per passare il confine. «È assolutamente normale che un ragazzo di 20 anni non voglia morire- continua a spiegare con il tono di chi è davvero convinto di quello che pensa -. Credo che le conseguenze di questo conflitto saranno enormi. Ne uscirà un nuovo ordine mondiale dove l’Occidente, non avrà contro solo la Russia. Quello che voi non capite è che se i russi votano Putin da oltre 20 anni è perché sentono protetti».
Fino a questo momento, il Kazakhstan è uno dei Paesi che ha assorbito la maggiore quota di russi che sono fuggiti, con oltre 100mila persone. Il suo presidente, Quasym Tokayev, è pronto a riconoscere ognuna di loro come rifugiati politici, purché non abbiano precedenti penali. L’ex Repubblica sovietica dell’Asia centrale è un Paese chiave per Mosca. Se si conta che in precedenza si era già rifiutata di inviare soldati in Ucraina e non riconoscerà l’esito dei referendum farsa, la dice lunga su come Mosca non solo si stia isolando, ma stia anche perdendo tutta l’influenza che aveva fino a pochi anni fa, a vantaggio delle altre potenze che si stanno facendo avanti nella regione, in primis Cina e Turchia.
C’è poi chi è riuscito a fare il grande salto e adesso è in Europa. Ilija viene da Murmansk, anzi, da Murmanks l’Eroica, come la chiamano in Russia per l’importanza ricoperta durante la Seconda Guerra Mondiale. La sua principale occupazione era fare l’autista dei gruppi di turistiche da tutto il mondo raggiungevano la Penisola di Kola per vedere l’Aurora boreale. Ha fatto appena in tempo a passare il confine con la Finlandia, prima che lo chiudessero. Ora si trova a Tallinn, dove la comunità russa sta cercando di aiutare chi è scappato dal reclutamento forzato. «In pochi anni ho visto la mia vita precipitare. Prima il Covid, le cose stavano molto lentamente tornando alla normalità quando è arrivata questa guerra. Io personalmente non capisco nulla e sono sicuro che sia così anche per la maggior parte del popolo russo. Fino a prima del Covid stavamo tutti benissimo, poi deve essere successo qualcosa, Decidono tutto i politici, Russi, americani, europei. Decidono solo loro. Non penso nemmeno che l’Occidente voglia distruggere la Russia, ma si considera troppo poco spesso che fino a 30 anni l’Ucraina era tutta russa ed è un fatto storico, che non si può cancellare». E quando gli si domanda che cosa ne pensi della situazione interna nel suo Paese, alza le spalle. «Io non ho mai votato. Votare in Russia è assolutamente inutile. Non funziona come negli altri Paesi. La gente vota, ma alla fine non decide niente».
E a quelli che non riescono a capire questo atteggiamento, come stanno le cose lo spiega quel 15% del Paese che, secondo Levada, non si limita a essere contro Putin, ma vorrebbe proprio un Paese diverso, più democratico e vicino all’Occidente. Viktor è un informatico, uno di quelli che in Russia i suoi coetanei considerato un miracolato. Viene da Mosca e da due mesi vive a Tbilisi, in Georgia, ha trovato un lavoro e ha la concreta possibilità di rifarsi una vita fuori dal suo Paese. Nel 2020, ha partecipato alle manifestazioni contro l’incarcerazione di Alekseij Navalny, il blogger che, da dissidente, è diventato il punto di riferimento per l’opposizione, quella non strumentale.
«C’è una parte di Russia – spiega – soprattutto fra i giovani, che vorrebbe realmente un Paese con una vita politica autentica e una democrazia sul modello di quelle occidentali. Ma per un movimento ampio dal basso è ancora troppo presto e soprattutto non ci sono leader politici di riferimento. L’unico era Navalny, ma è in carcere e chissà quando uscirà». Obbligati a tenersi Putin e chi verrà dopo di lui, insomma. Chi può, ormai pensa alla sua vita fuori dalla Russia, ma non è sempre facile. «Qui a Tbilisi ci sono dei problemi – prosegue Viktor -. Continuo a dire che sono contro Putin, che ho anche rischiato di andare in carcere, ma non mi credono. In più di una occasione mi hanno chiesto di schierarmi contro la guerra in Ucraina. Io da una parte li capisco, dall’altra però penso di pagare il conto di altri».
La mobilitazione è tragicomica. Migliaia di russi arruolati a casaccio e rimandati a casa. La mobilitazione più pazza del mondo. Giorno dopo giorno la chiamata alle armi decisa da Mosca per rimpolpare l'esercito impegnato a combattere (e a farsi uccidere) nella cosiddetta "operazione speciale" in Ucraina mostra i suoi limiti. Andrea Cuomo il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.
La mobilitazione più pazza del mondo. Giorno dopo giorno la chiamata alle armi decisa da Mosca per rimpolpare l'esercito impegnato a combattere (e a farsi uccidere) nella cosiddetta «operazione speciale» in Ucraina mostra i suoi limiti: errori, fughe, diserzioni, proteste. Perfino il presidente Vladimir Putin ha riconosciuto che ci sono stati molti sbagli. Un'ammissione «insolitamente rapida» che secondo l'intelligence britannica - che analizza l'andamento della guerra in un report quotidiano sempre assai informato e acuto - evidenzia la portata delle «disfunzioni» della leva. Insomma, se perfino lo Zar non riesce a negare i pasticci, vuol dire che la cosa è più grave di quanto appaia. I funzionari locali, si legge nel documento rilasciato ieri dal ministero della Difesa di Londra, probabilmente non hanno chiara l'esatta portata e la motivazione legale della campagna: essi hanno quasi certamente arruolato persone non idonee e faranno fatica a formare le nuove reclute.
Ovunque in Russia e nei territori filorussi recentemente annessi con un atto unilaterale e non riconosciuto dalla comunità internazionale le autorità sembrano procedere a casaccio, mobilitando chi capita. «Gli uomini - racconta Ivan Fedorov, sindaco di Melitopol, città sotto occupazione russa - hanno appena iniziato a essere presi per le strade. Abbiamo avuto un gran numero di casi durante il fine settimana in cui i russi si avvicinano semplicemente a uomini di età diverse, con diversa forma fisica e chiedono loro di andare all'ufficio del comandante per essere registrati».
Naturalmente poca o nessuna selezione significa mandare al fronte personale addestrato in maniera frettolosa e spesso non idoneo fisicamente e moralmente. Clamoroso il caso della regione di Khabarovsk, nell'estremo oriente russo, dove «circa metà» delle persone richiamate alle armi per la mobilitazione sono state rimandate a casa perché convocate per errore. «In dieci giorni, diverse migliaia di nostri ragazzi hanno ricevuto i documenti di convocazione e si sono presentati agli uffici di leva. Ne abbiamo rimandato circa la metà a casa, poiché non rispondevano ai requisiti per il servizio», racconta irritato il governatore regionale Mikhail Degtyarev, parlando di «eccesso di zelo». Il guazzabuglio è costato il posto al commissario militare regionale, Yury Sergeevich Layko, sollevato dall'incarico. Stessa cosa nella regione della Jacuzia, nella Siberia Orientale, dove, come fa sapere il capo della Camera civica regionale Nikolay Bugayev, circa 300 persone sono tornate a casa dopo essere state convocate «per sbaglio» nell'ambito della mobilitazione putiniana.
Chi se ne frega palesemente degli equivoci è il leader ceceno Ramzan Kadyrov. Ieri su Telegram il braccio armato di Vladimir Putin nella bellicosa repubblica caucasica, ha tenuto a far sapere che i suoi tre figli sono pronti a combattere in Ucraina, malgrado siano tutti e tre minorenni. «La minore età - spiega il leader ceceno - non dovrebbe interferire con l'addestramento dei difensori della nostra madrepatria. Akhmat, Eli e Adam hanno rispettivamente 16, 15 e 14 anni. Ma il loro addestramento militare è iniziato molto tempo fa, quasi in tenera età. E non sto scherzando. È arrivato il momento di mettersi in mostra in una vera battaglia e io non posso che accogliere con favore il loro desiderio. Presto andranno in prima linea e si troveranno nei tratti più difficili della linea di contatto». Contenti loro.
Più saggia appare la scelta della giornalista russa Maria Ovisannikova. Condannata agli arresti domiciliari con l'accusa di avere diffuso false notizie contro le forze armate, secondo quanto riferito dal marito avrebbe lasciato la federazione lo scorso 1° ottobre portando con sé la figlia di 11 anni e Mosca ha inserito il suo nome nella lista dei ricercati. La Ovisannikova era diventata famosa quando lo scorso marzo era apparsa alle spalle di una conduttrice del telegiornale mostrando il cartello «Stop alla guerra, non credete alla propaganda». Multata, non si era scoraggiata e ad agosto era tornata a mostrare un cartello pacifista vicino al Cremlino finendo agli arresti domiciliari fino al 9 ottobre. Ma lei ha preferito la libertà.
Rosalba Castelletti per repubblica.it il 3 ottobre 2022.
Abbas Galljamov ha scritto i discorsi del presidente russo per anni, quando Vladimir Putin era appena arrivato al Cremlino e durante la sua parentesi da premier. Sull'orazione di venerdì sull'annessione di quattro regioni ucraine è spietato. "Propaganda al 99 per cento", dice al telefono con Repubblica da Tel Aviv dove vive in esilio. Oggi consulente politico indipendente, definisce Putin "inadeguato", "in guerra con la realtà" e "senza strategia". Così "debole" da poter ricorrere all'arma nucleare come extrema ratio col rischio però di provocare un golpe.
Che cosa pensa delle invettive di Putin contro Usa e Occidente?
"Il 99 per cento di quello che ha detto era solo propaganda. Emozione. Quasi nulla che avesse conseguenze reali. L'unica cosa degna di nota è stata la sua dichiarazione di essere pronto ad andare al tavolo delle trattative, ma allo stesso tempo di non voler discutere del futuro dei territori annessi. Tutto il resto era pura ideologia. E in questa ideologia non c'era nulla di inedito. Quasi tutto quello che ha detto venerdì lo avevamo già sentito prima. La retorica anti-colonialista è stata però molto prepotente. In passato ne aveva usato soltanto frammenti. Stavolta sembrava di ascoltare non tanto il presidente della Russia, ma il leader di un Paese africano del Terzo Mondo del secolo scorso che aveva appena ottenuto l'indipendenza".
Il discorso com'è stato recepito dal pubblico russo?
"Non ha causato che delusione. Sia l'élite che la popolazione hanno capito che Putin non ha più nulla di nuovo da dire. Il che significa anche che le cose continueranno ad andare allo stesso modo. Putin non ha mostrato di avere nessun asso nella manica per invertire la tendenza. E la tendenza è negativa. Gli ucraini stanno vincendo sul campo, l'economia russa sta morendo e il malcontento popolare sta crescendo. Avrebbe dovuto presentare un nuovo approccio. E invece niente".
Putin ha cercato di proiettare un'immagine di forza nel suo momento di massima debolezza. È slegato dalla realtà?
"Proprio così. Putin non è in guerra con l'Ucraina, né con la Nato. È in guerra con la realtà. Dice di voler negoziare e allo stesso tempo di non voler discutere il nodo principale. Puoi mettere condizioni se stai vincendo, ma non ora che gli ucraini avanzano. Hanno conquistato Lyman. È solo questione di tempo prima che rioccupino tutti i territori annessi. Come puoi aspettarti di negoziare e non essere pronto a discutere lo status di questi territori mentre li stai perdendo militarmente? È il comportamento di una persona inadeguata".
Annettendo nuovi territori e rifiutandosi di negoziare su di essi, Putin non si è lasciato molte vie d'uscita. Quali opzioni gli restano?
"Putin non ha nessuna strategia. Non è lui il leader. Non è lui a guidare, viene guidato. È in balia degli eventi e delle persone. Non ha più il controllo. Ognuno agisce autonomamente perseguendo i propri obiettivi. È quello che succede quando sei debole e stai perdendo. Putin non voleva annettere nuovi territori in questo momento. Due settimane fa il Cremlino aveva detto che la questione dei referendum e dell'annessione era sospesa, che prima bisognava vincere sul piano militare e poi si poteva passare alla fase politica. Dopo pochi giorni le Camere pubbliche delle regioni ucraine separatiste hanno detto di voler entrare immediatamente a far parte della Russia. Questo perché i leader separatisti hanno agito in maniera autonoma.
Dopo il ritiro delle truppe russe da Kharkiv hanno capito di non poter più contare sul Cremlino e di doversi salvare da soli. Hanno forzato la mano e Putin non si è potuto tirare indietro. Non poteva dire di "no" a quello che dice essere il suo stesso popolo che soffre sotto il regime nazista ucraino. Ma in realtà non voleva l'annessione adesso. Aveva bisogno di mani libere per negoziare. Ecco perché, all'indomani dell'annuncio dei referendum, ha rilasciato i prigionieri di Azov. Voleva rendere questa pillola amara un po' più dolce. Mostrare a Kiev un segno di buona volontà. Putin vuole negoziare. Con ieri lo ha detto già tre volte nelle ultime settimane".
Lei ha sostenuto che la forza è l'unica fonte di legittimazione per Putin. Ha perso entrambe?
"Decisamente. Sta perdendo forza e legittimazione. Gli umori di protesta crescono. I consensi calano. È una tendenza che probabilmente non riuscirà a fermare. L'unica questione è quanto velocemente si svilupperà".
Il sistema politico su cui Puin si è retto per 20 anni non è più solido?
"Ci sono profonde crepe. I leader separatisti, ad esempio, hanno forzato i referendum di concerto con Andrej Turchak, segretario del Consiglio generale del partito Russia Unita, agendo contro Sergej Kirienko incaricato di controllare i territori annessi. Dipenderà tutto da che cosa succederà sul campo di battaglia. Se continueranno le sconfitte, il sistema diventerà sempre più debole e Putin perderà il controllo del Paese finché il regime non crollerà. Ma se riuscirà a stabilizzare il fronte, o ad avanzare, il regime in una certa misura si consoliderà. Non tornerà mai più a essere forte come era prima del conflitto, ma guadagnerà stabilità. Dipende tutto dall'esercito ucraino".
Putin ha detto di essere pronto a difendere i nuovi territori "con ogni mezzo possibile". Quant'è realistica la minaccia nucleare?
"Finora, ogni volta che si è sentito minacciato politicamente, Putin ha scelto l'escalation. Se perdesse l'offensiva in Ucraina, perderebbe anche il potere. E per lui vorrebbe dire il carcere. Se non gli restasse altra via d'uscita, non è escluso perciò che Putin possa decidere di sferrare un attacco nucleare contro l'Ucraina. Certo, non lo vuole. Si tratterebbe dell'extrema ratio. Ma la domanda è se l'esercito gli obbedirà. Perché, se mai Putin decidesse di sferrare un attacco nucleare, vorrebbe dire che è stato totalmente sconfitto sul piano delle armi convenzionali e che ha perso ogni legittimazione agli occhi degli ufficiali dell'esercito. Che a questo punto potrebbero rifiutarsi di eseguire i suoi comandi. E il rifiuto sarebbe un golpe".
La fuga della classe media. “Questa è la vera crepa del regime-zombie russo”. Giampolo Visetti su La Repubblica il 29 settembre 2022.
UPPER LARS (CONFINE TRA GEORGIA E RUSSIA) – Gli strateghi della repressione putiniana hanno sottovalutato le armi non convenzionali più potenti. La meglio gioventù russa, dopo il via al reclutamento di massa, può così usarle per fuggire dalla guerra del Cremlino contro l’Ucraina. Decine di migliaia di ragazzi in queste ore raggiungono la frontiera di Upper Lars, tra le montagne del Caucaso che separano la Russia dalla Georgia, usando biga elettrica, skateboard, blablacar, monopattino, autostop, bicicletta e prima di tutto i piedi. “Aerei e treni sono pieni e controllati dalla polizia – dice Yuri, 31 anni, ingegnere meccanico partito da San Pietroburgo – la colonna di auto in Ossezia è ferma da tre giorni. Per salvarmi, prima che chiudano il confine, ho scelto la mia biga: la batteria basta per 70 chilometri, fino a Stepantsminda”.
Il rastrellamento degli arruolabili, da inviare negli occupati territori ucraini dopo i referendum-farsa, segna per la Russia un passaggio senza precedenti: l’esodo di massa di maschi giovani, laureati, con importanti prospettive di carriera e risparmi per molti mesi, vicini alla visione occidentale della realtà, pronti a lavorare a distanza in un luogo qualsiasi del mondo, in fuga con cuffie sulle orecchie, telefonino in mano e computer nello zaino. Una settimana fa le autorità avevano definito l’inizio di questa migrazione anti-reclutamento “reazione isterica e emotiva”, destinata ad esaurirsi “in poche ore”.
Oltre 300 mila ragazzi russi, formati per assicurare un futuro alla nazione, sono invece già riusciti a rifugiarsi all’estero. Altre decine di migliaia premono oggi contro le frontiere di Georgia, Kazakhstan, Mongolia, o sono saliti sugli ultimi voli verso i Paesi che non impongono un visto. La Finlandia ha deciso invece di chiudere i confini. Shock e imbarazzo sono tali che Vladimir Putin è costretto a correre ai ripari. Secondo il centro studi indipendente Levada, non riconosciuto dalle autorità, dopo la mobilitazione parziale il consenso interno per Putin è calato del 6%: i russi che condividono le sue scelte sono ora il 60%, sette punti meno di agosto. Le forze armate non sono così ora dirette solo verso il Donbass, ma nel Caucaso, epicentro di un dissanguamento umano che minaccia di minare la stabilità del suo potere. Lungo i 40 chilometri tra Vladikavkaz e il confine di Upper Lars, i posti di blocco russi sono cinque. Nell’ultimo operano i reparti speciali dell’Fsb.
“Sequestrano il passaporto – dice Roman, manager moscovita di una piattaforma dell’e-commerce – ti schedano e controllano al computer se sei destinatario della cartolina da riservista. Se non sei nell’elenco passi, altrimenti è finita”. Per i primi 300 mila reclutati la finestra per fuggire s’è chiusa ieri: non più concessi i visti speciali per l’espatriato. “Al mio vicino di fila – dice Dimitri, 20 anni, studente di giurisprudenza a Krasnodar – hanno messo in mano gli scarponi da soldato e gli hanno consegnato il biglietto del bus per il centro di reclutamento aperto a un passo dalla frontiera. Si è messo a piangere, ha implorato, ha offerto soldi. Inutile: l’ho visto sparire in una stanza dietro l’ufficio di polizia”. I respingimenti sono già migliaia. “Il Cremlino – dice Ljuba, 36 anni, docente di storia fuggita da Jakutsk, nel Nordest siberiano – vuole stroncare la grande fuga dei giovani russi. In marcia non sono più solo i riservisti, ma decine di migliaia di persone normali che non vogliono restare ostaggi di un regime-zombie, che in ogni istante può bussare alla tua porta per spedirti a morire nell’aggressione contro chi non ci ha mai minacciato”.
Non è ancora un organizzato fronte di dissenso in esilio: ormai è però chiaro che lo shock-reclutamento del 21 settembre supera perfino quello dell’invasione del 24 febbraio e che il sostegno popolare del Cremlino rischia di uscirne demolito. “Avevano promesso – dice Vanya, 34 anni, capo di un ufficio fiscale scappato da Khabarovsk, nell’Estremo Oriente siberiano – che l’operazione speciale contro Kiev sarebbe finita in pochi giorni. Adesso reclutano con la forza, per mesi e forse anni. Tre colleghi sono già stati uccisi in Ucraina: io ho moglie e due figli piccoli, non posso permettermi di morire”. Per questo ha scelto tre giorni di viaggio fino in Georgia, piuttosto che tre ore per entrare in Kazakhstan. “Come la Bielorussia – dice – Astana ha accordi speciali con la Russia. Se vieni rimpatriato, finisci in cella per dieci anni”.
Questo costante terrore della guerra, di un potere ostile, dell’arresto e della privazione di ogni libertà, lungo il confine georgiano minaccia di costare la vita a migliaia di ragazzi. “A chi sa di essere negli elenchi dei reclutati – dice Igor, ucraino di Crimea con passaporto russo, fuggito da Kerch – non resta che aggirare i posti di blocco valicando le montagne. I miei amici partono a piedi stanotte, io aspetto a Gudauri”. Superare il Caucaso da clandestini, con guide ossete e cecene, costa ormai oltre mille euro. Non si rischia solo l’arresto. I passi sicuri sono oltre quota 4 mila: con l’arrivo di autunno e inverno, neve e gelo promettono una strage. “Chi può – dice Aleksander, 26 anni, videomaker che ha lasciato Rostov sul Don - vende l’auto in Ossezia e con i soldi si paga la fuga in montagna. Quel che resta serve per il treno da Tbilisi a Istanbul, o a Erevan”. Decine di migliaia le auto abbandonate da chi scappa: le autorità assicurano che saranno donate alle famiglie dei soldati al fronte. Per frenare l’esodo il Cremlino ora vieta di entrare in Ossezia del Nord alle auto registrate nel resto del Paese.
L’esercito di chi fugge già prima di indossare la mimetica affronta così marce a piedi di quattro giorni: non è pronto per la guerra, ma per lo smart working, certo di riuscire a rifarsi una vita lontano dalla patria. Fino a quando? “Nessuno lo sa – dice Anton, 36 anni, avvocato di Mosca – è una catastrofe. Con Putin al potere resta la guerra, o la fuga all’estero. Vecchi, poveri e abitanti dei villaggi rurali non hanno alternative. Gli altri stanno scappando, o progettano di farlo. E’ questa clamorosa diserzione popolare a incidere la prima crepa nell’onnipotenza del regime”. La prima conquista di chi arriva in Georgia? Wi-fi, Internet e social non censurati, le chat con gli amici in attesa sul mare a Batumi. Braccata da una settimana, la meglio gioventù russa ricomincia così a vivere. Migliaia di ragazzi siedono esausti sul prato sotto il monastero della Trinità di Gergeti: impugnano smartphone e pc perché vogliono sapere, dopo molto tempo, cosa sta succedendo.
La fuga disperata dei russi per non morire in trincea. Federica Bianchi su La Repubblica il 23 settembre 2022. Dopo l’annuncio della coscrizione parziale, migliaia di cittadini cercano di scappare. E sono disposti a pagare qualunque cifra pur di non essere arruolati. Mente si moltiplicano le proteste
La Chiesa ortodossa russa come gli islamisti dell'Isis. Il patriarca Kirill, sostenitore feroce della politica imperialista del presidente russo Vladimir Putin, chiede in Chiesa ai giovani e meno giovani uomini russi di immolarsi per la Patria, «la via diretta per stare con Dio».
Ma decine di migliaia di russi preferiscono restare sull'umile suolo terreno e hanno preso a fuggire a frotte dalla madrepatria.
Dopo l'annuncio della coscrizione obbligatoria di almeno 300mila uomini per sostituire i 70mila soldati russi caduti durante la guerra contro l'Ucraina, migliaia di uomini tra i 18 e i 65 anni hanno fatto i bagagli. Si sono riversati negli aeroporti, su qualunque volo di sola andata li allontanasse dalla prospettiva di una morte probabile. Di voli verso Istanbul in Turchia e Yerevan in Armenia, Paesi che non richiedono un visto e che non applicano le sanzioni europee che impediscono ai russi di volare negli stati dell'Unione, non ce ne sono più in vendita questa settimana. E anche quelli per Tiblisi, capitale della Georgia, oramai sono introvabili nonostante i prezzi folli: hanno superato i 5mila euro, cinque volte il salario medio. In alcuni casi sono stati sfiorati perfino i 9mila come per un biglietto della compagnia aerea Emirates da Mosca a Belgrado, in Serbia.
La destinazione più gettonata è ancora la Turchia, che nel 2022 ha rappresentato il 25 per cento di tutti i voli russi. I posti sulla low cost Pegasus da Mosca a Ankara, capitale della Turchia, sono esauriti fino alla fine di settembre nonostante il prezzo abbia raggiunto i 2.000 euro.
Chi non ha avuto la prontezza o i mezzi di precipitarsi in aeroporto è ancora in fila ai check-point con la Finlandia, unico confine europeo aperto ai russi, per cercare di sfuggire alla chiamata alle armi. Ieri si registravano file chilometriche di auto in attesa di uscire.
Ma non è facile lasciare il Paese in aereo, in bus, in treno o in auto perché, resosi conto dell'esodo, Putin ha impedito a tutti gli uomini maggiorenni, di qualunque regione del Paese, di lasciare la Russia. E i suoi funzionari militari sono già in giro a bussare porta per porta per caricare sui bus tutti coloro che hanno almeno fatto il militare per poi sottoporli a un addestramento di due settimane prima dell'invio in Ucraina.
La resistenza della popolazione è tanta. E infatti la Germania ieri ha fatto sapere di volere ospitare tutti qui russi che sono in fuga dalla guerra di Putin. In pochi sono disposti ad essere usati come carne da cannone. Eppure, soprattutto nei villaggi più remoti, non hanno scelta. Così sui social media si moltiplicano i video di padri che salutano le figlie tra le lacrime o di donne disperate che annunciano di avere perso non solo il futuro ma anche il presente a causa di questa guerra.
Russia, file chilometriche al confine con la Georgia: i coscritti tentano di fuggire dal Paese
Nelle strade di decine di città si sono moltiplicate le proteste, con ragazzi che chiedono a Putin di andare lui stesso a combattere la sua guerra in trincea. Ma i manifestanti sono portati velocemente via dalla polizia e rischiano 15 anni di carcere.
Secondo molti analisti la coscrizione è parziale solo in teoria e lascia la porta aperta alla chiamata di tutti gli uomini abili del Paese: «Non esistono parametri di questa "parzialità" né geografici né di altro genere», ha detto al Financial Times l'analista politica Ekaterina Schulmann: «Con l'eccezione dei lavoratori del complesso militare e industriale, chiunque può essere inviato al fronte».
(ANSA-AFP il 26 settembre 2022) - Un uomo russo ha sparato al comandante militare locale ferendolo gravemente in un centro di reclutamento in una città siberiana dopo avergli detto che si sarebbe rifiutato di combattere nella guerra in Ucraina. "Il commissario militare Alexander Yeliseyev è in terapia intensiva, in condizioni molto gravi. L'uomo che ha sparato è stato arrestato. Sarà punito obbligatoriamente", ha dichiarato il governatore della regione di Irkutsk, Igor Kobzev, aggiungendo che la sparatoria è avvenuta nel centro di reclutamento militare della città di Ust-Ilimsk.
(ANSA il 26 settembre 2022) - Sparatoria in una scuola della città russa di Izhevsk, capitale della Repubblica dell'Udmurtia: sei persone, tra le quali anche bambini, sono state uccise e 20 feriti. Lo riportano i media russi. L'aggressore, scrive la Tass, si sarebbe suicidato secondo quanto riferisce il governatore locale.
(ANSA il 26 settembre 2022) - Proteste e scontri con la polizia nella regione russa del Daghestan dove i manifestanti sono scesi in piazza contro la mobilitazione paziale annunciata mercoledì da Vladimir Putin. Lo riferisce la Bbc. Decine di video pubblicati sui social mostrano manifestanti che affrontano la polizia e altri funzionari della sicurezza nella capitale regionale Makhachkala. L'osservatore russo indipendente dei diritti umani Ovd-Info ha riferito che gli agenti hanno fatto ricorso all'uso di pistole stordenti e manganelli sulla folla. Oltre 100 persone sono state arrestate.
«I russi non sono motivati a combattere in Ucraina: reclutano anche i detenuti e i senza tetto». Kseniya Kirillova giornalista investigativa ed analista della Jamestown Foundation di Washington è meno pessimista rispetto ad altri esperti, dopo il discorso del capo del Cremlino di due giorni fa. Gennaro Grimolizzi il 23 Settembre 2022 su Il Dubbio.
«Non credo che Putin arriverà ad usare armi nucleari». Kseniya Kirillova giornalista investigativa ed analista della Jamestown Foundation di Washington è meno pessimista rispetto ad altri esperti, dopo il discorso del capo del Cremlino di due giorni fa. La minaccia nucleare potrebbe essere considerata ancora come tale. Kirillova ha lasciato la Russia da alcuni anni e adesso vive negli Stati Uniti.
Le truppe russe stanno subendo la controffensiva ucraina. I risultati positivi sul campo si stanno avendo anche grazie agli aiuti militari dell’Occidente?
Certo. Si aggiunga, inoltre, che i russi non sono motivati a combattere. Anche gli analisti militari fedeli al Cremlino hanno fatto notare che la Russia non ha la forza per un’offensiva di massa. Al momento, Mosca sta reclutando attivamente non solo i detenuti, ma anche i senzatetto. In alcune regioni si stanno formando distaccamenti di mercenari. Secondo gli analisti occidentali, queste modalità non saranno in grado di soddisfare le esigenze dell’esercito in combattimento. Tuttavia, anche gli esperti filo-Cremlino avvertono che l’annuncio di una mobilitazione generale porterà a un forte aumento del sentimento contro la guerra nella società e gli economisti russi affermano senza mezzi termini che ‘ nessuno è pronto per la mobilitazione’.
I problemi, dunque, aumentano pure in Russia?
Il cosiddetto “posizionamento dell’economia del Paese in guerra”, voluto dai falchi, è messo in discussione, vista la corruzione impossibile da estirpare, nel settore della difesa. All’inizio di settembre, il Comitato Investigativo ha arrestato Nail Gubaev, ex direttore degli investimenti di una importante società e componente del consiglio di amministrazione di JSC ELVIS- NeoTech, sospettato di aver commesso una frode su ampia scala. Gubaev è accusato di appropriazione indebita sia di denaro pubblico che di fondi appartenenti alla stessa società JSC ELVIS.
La “Nuova Russia” riflette un modello del diciannovesimo secolo. È davvero realizzabile?
Dipende da cosa intendiamo per “realizzabile”. Il processo di degrado del livello decisionale e l’immersione della società e delle élite in un sistema arcaico di percezione del mondo è abbastanza realizzabile. Nella mente di Putin sono gli Usa, il ‘”principale nemico”, ad avere un obiettivo: distruggere in ogni modo possibile la Russia. Di conseguenza, questo falso postulato diventa una profezia che si auto-avvera. Se il nemico è implacabile, è impossibile mettersi d’accordo con lui, il che significa che deve essere sconfitto. Questo punto di vista è trasmesso dalla propaganda, che ha portato a una distorsione della percezione. Negli ultimi otto anni i russi hanno vissuto in un mondo illusorio, creato dalla propaganda che annovera storie sui “fascisti ucraini” e sul “genocidio dei russofoni”.
In Russia è vietato parlare di guerra. La repressione della libertà di opinione rafforzerà l’opposizione?
Sfortunatamente la repressione può, a un certo punto, sopprimere efficacemente il dissenso. Le persone hanno paura di opporsi alla guerra e alcune si rassegnano alla nuova realtà. Non si vede ancora una vera e propria protesta contro la guerra in Russia. La buona notizia è che anche la percentuale di persone che sostengono attivamente la guerra è piuttosto piccola. La maggior parte dei russi pro guerra lo fa per conformismo e per le paure che ho richiamato prima. I russi stanno cercando di convincersi della correttezza e della necessità di ulteriori restrizioni, divieti e privazioni.
Dagli Stati Uniti è arrivata la notizia di finanziamenti russi ad alcuni partiti ed esponenti politici di diversi Paesi. È un metodo praticato dalla Russia di Putin?
Ho potuto verificare che i russi sono impegnati a corrompere i politici occidentali. Se non riescono a portare al potere le forze a loro fedeli, organizzano ‘ misure attive’ per destabilizzare i loro paesi. Un esempio lampante è il tentato colpo di Stato in Montenegro nel 2016.
Putin sarà processato un giorno? Quando ci sarà quel giorno, avverrà pure la fine del putinismo?
Non è realistico fare previsioni, temo però che il sistema creato da Putin possa sopravvivergli. Anche dopo aver perso la guerra, la Russia potrebbe avere un margine per esistere isolata sul modello iraniano. Il modello prima o poi cadrà, ma è un tema da affrontare a lungo termine.
Anais Ginori per “la Repubblica” il 25 settembre 2022.
Aprire le porte dell'Europa ai cittadini in fuga dalla Russia, a coloro che sono in pericolo perché «non si adeguano alla folle decisione di avviare la guerra in Ucraina». Il nuovo appello viene dal presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, prendendo atto di uno scenario che in pochi giorni è radicalmente cambiato. Se fino a poco fa, il dibattito europeo verteva sulla stretta da dare sui visti ai cittadini russi, la chiamata alla "mobilitazione parziale" di Vladimir Putin e le immagini di disertori in fuga dal paese pongono un dilemma politico e morale ben diverso.
Impossibile non vedere il rapido esodo provocato dalla decisione del Cremlino. In Finlandia il numero di russi che vogliono attraversare il confine è raddoppiato in una settimana. Il prefetto della Carelia del Sud, una delle aree del paese baltico che ha il maggior numero di chilometri confinanti con la Russia, parla di situazione «stabile e pacifica».
Helsinki è intenzionata a mettere in campo «restrizioni significative» per il rilascio dei visti e per ora non ha varato un divieto di ingresso nello spazio Schengen come invece hanno già deciso Estonia, Lettonia e Lituania dove i cittadini russi e bielorussi non sono accettati. Analoga limitazione è stata introdotta dalla Repubblica Ceca e dalla Polonia. «Abbiamo deciso di sospendere l'attuale rilascio di visti ai cittadini russi, abolendo i visti turistici» ha precisato il ministro degli Esteri polacco, Zbigniew Rau. Tanto da un punto di vista di sicurezza politica quanto da un punto di vista morale, prosegue Rau, è «altamente sconsigliabile» far entrare un forte numero di russi.
L'Europa avanza in ordine sparso. Se dalla Germania è arrivato un messaggio di accoglienza, a Parigi fanno notare che non ci possono essere gesti isolati e il coordinamento a 27 rimane indispensabile. «Non possiamo dare l'impressione di dividerci, rinnegando quello che abbiamo deciso sinora» spiega una fonte diplomatica francese. La preoccupazione di Emmanuel Macron è che possa rompersi il fronte comune delle sanzioni contro Mosca, che comprende anche le restrizioni ai visti. «È una misura più simbolica di altre sanzioni ma serve a pesare sull'opinione pubblica russa» dice la fonte.
Ma molti leader europei si rendono anche conto che dare rifugio ai disertori russi che ora bussano alle porte sarebbe un altro modo di fare pressione sul Cremlino, anche in termini di immagine, come già dimostra l'appello di Volodymyr Zelensky che ha chiesto ai russi di sottrarsi alla chiamata alle armi di Putin.
Per cercare una linea comune, gli ambasciatori dei 27 si riuniscono martedì a Bruxelles. Si tratterà di decidere se confermare la linea adottata pochi giorni fa, il 12 settembre, quando l'Ue aveva approvato un nuovo regime con un «approccio molto più restrittivo sui visti per scopi non essenziali» come ha ricordato ieri un portavoce della Commissione. In linea teorica i russi possono entrare nell'Ue in pochi, rari casi.
«Gli Stati membri possono ancora rilasciare visti ai cittadini russi, anche se con un processo più lungo e macchinoso». La Commissione lavora a soluzioni comuni a livello Ue. «Questo è essenziale per preservare uno spazio Schengen forte e soprattutto la nostra unità» commenta un portavoce. Molti paesi, tra cui Francia e Germania, spingono per una maggiore flessibilità che possa integrare un «fatto nuovo», come ha sottolineato Michel a proposito degli effetti della mobilitazione generale sulla popolazione russa. Al contrario, i paesi baltici e dell'Est - con la solita eccezione dell'Ungheria - spingono per mantenere il più possibile chiuse le frontiere.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 25 settembre 2022.
La domanda che circola, in varie forme, nelle chat di quelli che stanno fuggendo verso il confine è «devo togliere l'adesivo della Z dal parabrezza?». Le code ai valichi di frontiera lungo tutto il perimetro della Russia - Finlandia, Georgia, Kazakhstan, Mongolia - si stanno allungando per chilometri, i biglietti aerei sono andati esauriti: la grande fuga dalla mobilitazione alla guerra in Ucraina continua, ma stavolta a scappare a migliaia non sono dissidenti e oppositori.
È la fuga dei sostenitori di Vladimir Putin, di quelli che fino a tre giorni prima appiccicavano la Z simbolo dell'invasione in Ucraina sull'auto, e chiedevano di «asfaltare Kyiv» nei social. Come con la riforma delle pensioni nel 2018, stavolta il padrone del Cremlino ha dato una martellata proprio al suo popolo.
A Mosca circolano voci di un divieto di espatrio per uomini e donne con obbligo militare, ed è evidente che la guerra ora riguarda tutti: da tutte le regioni russe a cominciare dalla finora intoccabile Mosca arrivano notizie di uomini reclutati direttamente per strada, nei loro letti di notte, alla scrivania in ufficio, in quella che assomiglia sempre di più non a una chiamata alle armi, ma a un rastrellamento.
La brutalità con la quale il regime ha trasformato i suoi fedelissimi in carne da cannone ha avuto un effetto choc, e al Cremlino stanno aspettando con ansia l'esito dei primi sondaggi «per uso interno». Intanto la tirata di orecchie pubblica ai militari, per l'«eccesso di zelo» nella coscrizione, è il segnale che qualcuno si è reso conto dell'impatto devastante di decine di migliaia di uomini strappati alle famiglie.
In alcune regioni, dopo le proteste e le denunce dei media locali, i padri con prole numerosa, i malati, gli studenti e gli anziani sono stati rilasciati dalle caserme, ma difficile che la tendenza generale possa invertirsi. Le gerarchie, poco preparate e molto corrotte, continueranno a reclutare chiunque gli capiti a tiro, anche perché l'unica regola della «verticale di potere» costruita da Putin è quella di avere più paura di una strigliata dall'alto che di qualunque altra conseguenza.
Il capo vuole i numeri, e i numeri avrà, e se dietro ai numeri ci sono persone che non vogliono e non possono combattere, e che verranno gettati sotto i colpi ucraini senza alcuna preparazione, e con dei fucili arrugginiti, non è un problema del commissario militare della Buriazia o di Samara.
Mentre mani ignote continuano a lanciare molotov contro i commissariati militari (impossibile procedere alla mobilitazione con gli archivi inceneriti), Russia Unita e comunisti ieri hanno proposto alla Duma una legge su 300 mila rubli (poco più di 5 mila euro) da pagare ai neosoldati, che vedranno tutelato anche il loro posto di lavoro e sospeso gli eventuali mutui, cancellati in caso di morte. Soldi che andrebbero ad aggiungersi a quelle spese militari che, secondo indiscrezioni raccolte da Bloomberg nel governo russo, dovrebbero costituire dal 2023 il 40% del bilancio russo. In altre parole, i russi potrebbe presto trovarsi a scegliere tra la trincea e la miseria.
Una situazione che produce conversioni inattese, come quella del leader ceceno Ramzan Kadyrov, che ha proposto di interrompere la mobilitazione popolare per mandare al fronte la metà degli effettivi dei vari enti repressivi: tra poliziotti, Guardia nazionale, Fsb e altri servizi segreti, ma anche magistratura, guardia di finanze, polizia penitenziaria, messi dei tribunali e innumerevoli altri bracci armati del regime, si potrebbero radunare almeno 2,5 milioni di uomini già addestrati all'uso delle armi.
Una proposta che tiene conto della rabbia che i russi cominciano a provare: ieri a Omsk le neoreclute hanno aggredito gli agenti della Guardia nazionale - la polizia politica che Putin ha creato e affidato alla sua ex guardia del corpo Valery Zolotov proprio per reprimere il dissenso - che cercavano di spingerli sui pullman dell'esercito: «Perché non venite a combattere insieme a noi?», gridavano.
Putin si trova ora di fronte a un dilemma irrisolvibile: mandare al fronte i suoi pretoriani, riempiti di soldi e privilegi per renderli leali, o rischiare di polverizzare il poco consenso popolare che gli resta mandando padri di famiglia al fronte e manganellando ragazze alle manifestazioni. È probabile che gli toccherà fare entrambe le cose, per tentare di vincere una guerra che ritiene fatale perdere.
Del resto, nei 23 anni precedenti una guerra di conquista gli aveva sempre fatto recuperare l'amore dei russi, ma stavolta anche l'annuncio dell'annessione di nuovi territori - a Mosca si parla di un discorso di Putin alle Camere il 30 settembre, a conclusione dei «referendum» nelle zone occupate dell'Ucraina - potrebbe non sortire l'effetto magico nei russi troppo impegnati a mettersi in salvo per sognare il ritorno dell'impero sovietico.
Giovanni Pigni per “la Stampa” il 24 settembre 2022.
Aleksandr ha capito subito che tirava una brutta aria quando martedì sera hanno annunciato un imminente discorso del presidente russo Vladimir Putin. Il ventinovenne di San Pietroburgo ha subito iniziato a cercare biglietti aerei per la Turchia e l'Armenia.
Ma era già tardi: la maggior parte dei voli erano pieni, quelli rimanenti costavano migliaia di dollari. La mattina dopo i suoi peggiori timori si sono avverati: Putin ha annunciato la mobilitazione parziale del Paese, chiamando alle armi 300 mila riservisti per sostenere lo sforzo bellico in Ucraina.
«Sono anni che mi oppongo a questo governo, non ho nessuna intenzione di andare a combattere per esso», spiega Aleksandr. A corto di opzioni, il ragazzo ha comprato in fretta e furia un volo interno per Ekaterinburg, sui monti Urali. Da lì è riuscito a ottenere un passaggio in macchina fino al confine con il Kazakhstan. Quando è arrivato alla frontiera si erano già formate lunghe file di uomini in fuga. «Ho dovuto aspettare almeno dieci ore per passare il confine», ricorda Aleksandr. Ora il ragazzo si trova a Kostanay, la prima città kazaka dopo il confine.
Trovare un alloggio è stata un'impresa: la città è invasa dai russi che scappano dalla mobilitazione. Il piano ora è raggiungere Astana, la capitale, dove Aleksandr verrà raggiunto dalla moglie Veronika e dal figlio di un anno, Mark. Vivranno lì per tre mesi, poi si vedrà. «Sono triste perché lascio la mia famiglia e i miei genitori anziani, perché non so quando potrò tornare. Mia nonna è già molto vecchia, non so se la rivedrò ancora», racconta il giovane. A dargli forza, la consapevolezza che sta agendo per il bene della sua famiglia, per il futuro di Mark.
Nell'ultimo periodo, vivere in Russia era diventato difficile a causa dell'onnipresente propaganda bellicista, presente perfino nelle scuole. «Se le cose non cambiano in Russia, non vedo un futuro per mio figlio», dice Aleksandr. «Il nostro governo non solo sta distruggendo il Paese vicino, ma anche il nostro stesso Paese», commenta. Come Aleksandr, migliaia di altri uomini stanno fuggendo dalla Russia per sottrarsi alla mobilitazione.
Il tempo stringe, visto che molti dei Paesi limitrofi hanno chiuso i confini. La prossima a farlo sarà la Finlandia, ai cui valichi si stanno formando lunghe code. Secondo la ong Guide to the Free World circa 70 mila russi sono già fuggiti o stanno escogitando piani di fuga. Chi non è riuscito a prendere un biglietto aereo e non ha altri mezzi sta fuggendo a piedi verso il confine.
Il timore diffuso è che il governo imponga la legge marziale e chiuda i confini. Mentre molti scelgono la fuga all'estero, altri preferiscono darsi alla macchia. Come Pavel, 31 anni, programmatore. La mattina della mobilitazione, Pavel è stato bombardato di chiamate da amici e parenti che lo volevano convincere a lasciare il Paese immediatamente: lui è un ufficiale in riserva, dunque rientra nella categoria di quelli che verranno mobilitati per primi.
Alcuni amici, trasferitisi negli Emirati Arabi all'inizio del conflitto in Ucraina, volevano comprargli un biglietto aereo per permettergli di raggiungerli. Una volta lì, gli hanno detto, non sarà difficile trovare un lavoro ben pagato. Dopo una breve riflessione, Pavel ha deciso che non partirà: è troppo legato alla sua terra, alla sua amata San Pietroburgo. Ha così lasciato il suo appartamento di città per rifugiarsi nella sua dacia (la casa di campagna dei russi) in mezzo ai boschi.
Resterà lì per il prossimo futuro, dove le autorità difficilmente potranno rintracciarlo. Eviterà accuratamente i trasporti pubblici, dove pattuglie di poliziotti, secondo alcune fonti, già fermano uomini in età militare. «Alla stazione dei treni ho già visto che fermavano persone e le portavano via per interrogarle», racconta il ragazzo.
Pavel si è sempre considerato un patriota della Russia. Per lui, il conflitto in Ucraina è una «guerra fratricida» in cui non vuole avere nulla a che fare. «La Russia avrebbe potuto attrarre l'Ucraina a sé in molti modi, dare un buon esempio, sviluppando i nostri legami culturali, sociali ed economici», commenta amaro. «Invece questo governo ha scelto le armi e ha distrutto i rapporti tra i nostri popoli».
La ribellione dei russi contro i centri militari. Kirill a chi si arruola: "Se muori vedi Dio". Oltre 70mila in fuga: code alle frontiere. Assalti ai punti di reclutamento. Peskov: "Reazione isterica". Zelensky: "Protestate". Il patriarca: "Date la vita". Caos visti, oggi summit dell'Ue. Matteo Basile il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.
C'è chi ha prenotato l'ultimo aereo disponibile. Chi è riuscito a salire su un treno. Chi ha viaggiato per ore con la propria auto. E anche chi ha noleggiato un motorino o una bicicletta pur di fuggire dalla Russia. Sono almeno 70mila ma probabilmente molti di più gli uomini che sono già scappati, cui si sommano i tanti che stanno escogitando un piano di fuga dopo la mobilitazione militare annunciata da Putin, con il richiamo alle armi anche dei piloti di linea russi. Se prima il regime di Mosca era mal sopportato ma comunque tollerato dalla maggior parte dei russi, adesso che il Cremlino mette potenzialmente a rischio centinaia di migliaia di persone è scattata una ribellione che sa tanto di presa di coscienza per una misura ormai colma.
«Una reazione isterica», secondo il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, colpa, manco a dirlo, «di una certa mancanza di informazione» dice, facendo capire che ora le cose sono più chiare. Il che fa intendere che la fuga diventa sempre più pericolosa. Fatto sta che dopo la corsa ai voli, ai confini con la Finlandia e con la Georgia sono stati registrati chilometri di code, con migliaia di persone disposte ad attendere anche 12 ore pur di passare il confine. Un segnale ma anche un problema. «È una questione nuova, che stiamo monitorando», ha confessato il portavoce della Commissione Ue Eric Mamer. «Oggi si terrà una riunione del gruppo di lavoro per affrontarla e vedere come agire», ha aggiunto, mentre lunedì a Bruxelles è prevista una riunione straordinaria per coordinare gli Stati su come muoversi. Se da una parte lo stesso Mamer spiega che esistono tutti i percorsi per la richiesta di asilo «per le persone che pensano di averne diritto», dall'altra si va avanti in ordine sparso e la spaccatura è evidente. Dopo la linea dura annunciata da Polonia, Repubblica Ceca e Norvegia, anche la Finlandia, uno dei Paesi maggiormente interessati, ha già annunciato misure per «limitare in modo significativo l'ingresso di cittadini russi», dimostrazione di quanto sarà complesso trovare una posizione unitaria anche sul tema dei visti.
Intanto, chi non fugge dal Paese assiste a un'escalation delle proteste. Dopo le manifestazioni di piazza improvvisate e gli oltre mille arresti, sono già cinque i centri di arruolamento militare dati alle fiamme da mercoledì. Gli ultimi due uffici di reclutamento sono stati incendiati la notte scorsa a Khabarovsk e nella regione dell'Amur, dopo che gli stessi atti di protesta si erano verificati a San Pietroburgo. Non è escluso che boicottaggi simili si allarghino a macchia di leopardo. Ancor di più dopo l'appello del presidente ucraino Zelensky, che si è rivolto direttamente ai russi: «protestate contro la mobilitazione per la guerra. Per gli uomini in Russia, è una scelta: morire o vivere, diventare uno storpio o preservare la salute», ha detto, aggiungendo che «55mila soldati russi sono morti in questa guerra in sei mesi. Decine di migliaia di feriti, mutilati. Ne volete di più? No? Quindi protestate, combattete, fuggite! O arrendetevi alla prigionia ucraina». Chi sicuramente non si arrende nonostante la carcerazione è Alexey Navalny, principale oppositore di Putin, di nuovo in cella di isolamento dopo aver condannato la mobilitazione ordinata dal Cremlino.
Di contro, la massima autorità religiosa, il patriarca di Mosca Kirill, si è lanciato in un altro delirio molto più politico che di fede: «Andate coraggiosamente a compiere il vostro dovere militare. E ricordate che se darete la vostra vita per la vostra Patria, per i vostri amici, allora sarete con Dio nel suo Regno, nella gloria e vita eterna», ha detto, in piena sintonia con lo Zar. Che nella sua follia bellica non è rimasto solo. Ma in scarsa e pessima compagnia.
Il folle appello alla guerra santa. Vittorio Macioce il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.
Quello della Russia è sempre più un viaggio a ritroso, fuori dal tempo, come un'ossessione, con l'idea di rifiutare qualsiasi traccia di Occidente. Non c'è solo l'Ucraina in gioco in questa folle storia. Kiev semmai è il simbolo di un tradimento, di un'eresia, di un varco che apre le porte alle contaminazioni della liberal democrazia. È per questo che tutto rischia di diventare ancora più complicato, al di là della propaganda del Cremlino, dei referendum farsa, degli alibi di un'aggressione che Putin non ha il coraggio neppure di chiamare con il suo vero nome. C'è un solco che ormai divide senza futuro l'Europa dalla Russia, l'Ovest dall'Est, la stessa idea del cristianesimo. Nulla, davvero, sarà mai più come prima. Le parole di Kirill, primo del suo nome, patriarca di tutte le Russie e presunto faro della Chiesa ortodossa, sono di fatto un appello alla guerra santa. «Andate coraggiosamente ad adempiere al vostro dovere militare. Ricordate che, se morirete per il vostro paese, sarete con Dio nel suo regno, nella gloria e la vita eterna». È la promessa del paradiso conquistato con le armi e con il sangue. È il segno che il regime autoritario di Mosca sta abbracciando il totalitarismo, in una metamorfosi che assomiglia a una fuga verso il nulla. Non è il ritorno al sacro, ma uno spettacolo che sotto il nome di Dio nasconde una sfacciata e grottesca professione di fede verso il nichilismo. È una tragedia che si presenta in televisione con il volto della farsa. I più assennati se ne stanno andando, fuggono dall'assurdo, altri non ne hanno la forza o le possibilità, molti si preparano a resistere e combattere contro la maledizione di uno zar riemerso dalle pieghe del tempo, ma c'è anche una Russia profonda che ascolta e ci crede. È lì che Putin affonda le radici del suo potere. È quel continente oscure che rende ancora reali il suo potere e le sue menzogne.
Non c'è purtroppo neppure da stupirsi. Vladimir Michajlovic Gundjaev, nome secolare del patriarca, si è mosso quasi sempre in simbiosi con l'altro Vladimir. Si conoscono dai tempi del Kgb e le loro carriere sono il frutto di una rete di relazioni che all'inizio lì a messi lì come teste di legno per accorgersi poi, troppo tardi, che stavano seduti su troni difficili da scalfire. Kirill, come Putin, ha dialogato a lungo con l'Occidente, con la Chiesa di Roma, ricordando a tutti che suo nonno, sacerdote, fu prigioniero del gulag delle isole di Solovki. La famiglia Gundjaev conosce il terrore, ma non è bastato. Il sedicesimo patriarca di Mosca ha benedetto la guerra e ha definito «forze del male» chiunque provasse a opporsi a Putin. Non è più in grado di evitare lo scisma, con gli ortodossi ucraini che non possono certo riconoscersi nella fede di Kirill. Epifanio, metropolita di Kiev, chiede da tempo sanzioni per il patriarca di Mosca. «Kirill è la voce del Cremlino, uno degli oligarchi. L'Occidente impone sanzioni a tutte queste categorie di persone per influenzare e contrastare la politica aggressiva del Cremlino. Kirill è identico a tutti i propagandisti, oligarchi e funzionari già sanzionati, l'unica differenza è il vestito: lui indossa abiti religiosi». Non certo poveri. Kirill, proprio come gli oligarchi, conosce il sapore della ricchezza.
Il malcontento aleggia su Putin (e la storia insegna). Gino Dato su La Gazzetta Del Mezzogiorno il 23 Settembre 2022.
Il malcontento è un venticello. E la mobilitazione di uomini per la guerra lo fa soffiare forte. Putin mostra perciò ferma volontà di non cedere a quanti vogliono disgregare la Russia, ma definisce «parziale» la mobilitazione in atto. Che significa «parziale»? Che si rivolge solo ai riservisti e a quanti hanno maturato o esperienze belliche oppure, ancora, abilità speciali che possono essere particolarmente idonee allo stato bellico, come alcuni mestieri, per esempio meccanici, o professioni, per esempio medici. Circa 300mila le nuove unità, pagate come soldati a contratto e addestrate prima di andare al fronte, l’1% o poco più dei 25 milioni che la Russia potrebbe mobilitare.
Putin teme il malcontento e le sue manifestazioni attraverso i sondaggi. Come quello che rivela il consenso dei russi all’operazione militare (oltre il 70%) e a Putin (oltre l’80%), ma che scende a solo il 3% della popolazione disposta a combattere per la Russia.
L’invasione dell’Ucraina fu lanciata con un contingente di soli soldati professionisti. Il presidente lo ricorda bene, tanto che, quando ha scoperto la presenza di soldati di leva nei reparti mandati al fronte, li ha fatti richiamare.
Troppo alto il prezzo da pagare. In un conflitto con l’Ucraina che registra l’impopolarità di numerose sconfitte, del logoramento, delle ingenti perdite in vite umane.
Il malumore e il disappunto, frenati da leggi liberticide e da un apparato di polizia occhiuto, comincia a destabilizzare un forte culto della personalità, ormai al potere da più di un ventennio, dalle dimissioni di Eltsin nel 1999. Fino ad oggi non si era visto un sacrificio così ingente di soldati, stimato tra i 45 mila e i 70 mila, e una campagna di arruolamento così massiccia. I disagi vengono enfatizzati da una pretesa conquista che è diventata ritirata. Diserzioni, tradimenti, collaborazionismi, sospetti e torture ordiscono la tela intricata di una guerra civile. Ed è comprensibile, dicono gli stessi uomini dell’establishment, «che l’opinione pubblica reagisca in maniera emotiva».
I sommovimenti nei territori occupati russo-ucraini e il disagio che serpeggia ci confermano che le opinioni pubbliche contano, anche quando, nelle dittature, o nei regimi, sono sotterranee, silenziose, non aperte e articolate come possono essere nelle democrazie.
Temi scabrosi, come quelli della guerra, che sacrifica giovani vite, che conduce alla fame, sentiti come odiosi, hanno fatto spesso irruzione nella storia più recente destabilizzando sempre leader egemoni.
Anche Mussolini era saldo al potere quando nel luglio ’43 il Gran consiglio apre la strada al suo arresto. Le opposizioni covavano tra gli stessi gerarchi, ma si erano andate concretizzando nel mormorio della gente comune, come documentavano i rapporti dei prefetti e le inchieste dell’Ovra, la polizia segreta che spiava intellettuali e popolo. Per carpire gli umori, i desideri – si sa, vox populi, vox dei, voce di popolo, voce di Dio – per una alleanza, quella con la Germania, e una guerra che portavano fame, morti e disonore.
Sicuramente morte e disonore al popolo e alle sue élite portò un’altra guerra dell’età contemporanea, quella degli americani in Vietnam, coinvolgendo non solo gli intellettuali ma tutti i ceti di una democrazia solida e antica. Furono i giovani a cominciare a protestare pubblicamente bruciando le cartoline precetto.
Morti e disonore raccoglie anche Putin che, come ogni leader, non deve fare i conti solo con il dissenso degli intellettuali, sottile, sofisticato, sui principi di libertà. Ma con lo scontento dell’opinione pubblica.
S’inalberano anche i quadri intermedi, cinghie di trasmissione tra il popolo ed il potere. «Le tue visioni, il tuo modello di gestione sono disperatamente fuori tempo e impediscono lo sviluppo della Russia e del suo potenziale umano», hanno in questi ultimi giorni, in concomitanza con la controffensiva ucraina, denunciato alcuni deputati municipali di San Pietroburgo. Eppure quello che preoccupa di più è che, come dice il sociologo russo Lev Gudkov, «non ci sono più né opposizione né media indipendenti che possano trasformare» il malcontento «in azione politica».
Prima o poi la Russia imploderà?
Dal 21 febbraio al 21 settembre: cos’è cambiato nella narrazione di Putin. Mauro Indelicato su Inside Over il 22 Settembre 2022.
Il 21 febbraio è forse il giorno più emblematico della guerra in Ucraina e questo nonostante le operazioni militari in quel momento non erano ancora iniziate. Quel giorno infatti si è tenuto il primo discorso con il quale Vladimir Putin ha fatto intuire l’imminenza dell’inizio delle ostilità, quello per intenderci dove è stato annunciato il riconoscimento delle repubbliche di Donetsk e Lugansk. In Russia come nel resto del mondo, dopo settimane di tensioni, in tanti hanno atteso le comunicazioni in televisione del leader del Cremlino. Forse per un caso o forse per una precisa scelta comunicativa, a distanza di sette mesi esatti Putin ha tenuto un altro importante discorso. Questa volta l’annuncio ha riguardato la mobilitazione “parziale”. Dal 21 febbraio al 21 settembre, tanto in Russia quanto sul campo di battaglia in Ucraina, è cambiato molto. E i mutamenti sono ben rintracciabili nelle differenze tra i due discorsi.
Le differenze tra febbraio e settembre
In primo luogo, a risaltare è la differenza nella durata dei due discorsi. Il 21 febbraio il presidente russo ha parlato per più di un’ora, mentre l’ultimo discorso non è andato oltre i venti minuti. E questo porta a un altro contrasto nelle due comunicazioni di Putin. Sette mesi fa il leader del Cremlino ha tenuto una sua vera e propria lezione di storia, rintracciando nel passato i motivi per cui Mosca era chiamata a effettuare determinate importanti scelte e a riconoscere le repubbliche separatiste, preludio all’intervento armato vero e proprio che sarebbe poi scattato il 24 febbraio. Oggi invece Putin si è limitato a un discorso di carattere prettamente “operativo”, dove ha semplicemente annunciato le ultime decisioni intraprese. Quelle, per l’appunto, relative alla mobilitazione parziale.
In secondo luogo, è importante sottolineare anche la differenza della platea a cui il presidente russo si è rivolto. Il primo discorso, oltre che ai russi, è sembrato a tratti indirizzato anche agli ucraini. Rei, secondo Putin, di aver creduto ai leader locali e di essere stati ingannati da un governo di Kiev considerato vicino ai neo nazisti. A distanza di sette mesi Putin si è invece rivolto quasi esclusivamente ai russi. Lo si è notato soprattutto quando ha ripetuto, scandendolo più di una volta, che “la mobilitazione è parziale e riguarderà solo alcuni riservisti”. Un modo per tranquillizzare un’opinione pubblica non del tutto convinta di un’eventuale mobilitazione generale.
Le similitudini tra i due discorsi
É nei toni invece che può essere ricercata l’unica vera similitudine nella comunicazione di Putin. Seduto nello stesso ufficio in cui ha registrato il discorso di febbraio, con alle sue spalle i drappi e le bandiere della federazione, il presidente russo è stato ancora una volta molto duro contro l’occidente e contro chi “vuole disgregare la Russia”. Arrivando ad agitare lo spettro nucleare: “Io non sto bluffando”, ha ripetuto Putin con riferimento all’uso delle armi nucleari.
Il richiamo ai nemici e alle loro intenzioni di porre Mosca sotto costante attacco è quindi un’altra importante analogia. Del resto, l’obbligo di difendere la federazione e di preservarne il prestigio è storicamente stato in qualche modo il perno attorno cui ha ruotato la politica di Putin.
Cosa è cambiato in sette mesi
Due discorsi diversi sintomatici di due situazioni profondamente diverse. Nelle differenze di comunicazione, è possibile ravvisare i tanti cambiamenti occorsi tra il 21 febbraio e il 21 settembre.
Nel primo caso, come detto, la guerra non era ancora iniziata. In televisione è quindi apparso un Vladimir Putin intenzionato, da un lato, a spiegare i motivi dell’escalation partendo dalla storia. E, dall’altro lato, intenzionato a mostrare, tanto a livello interno quanto a livello esterno, una certa fermezza nelle scelte e una certa sicurezza. Del resto quel 21 febbraio è stato anche il giorno della famosa riunione del consiglio di sicurezza della federazione dove Putin ha “orientato” e quasi suggerito le risposte di Sergej Naryskin, capo del servizio di intelligence.
Oggi invece la guerra è in corso e la Russia sta subendo, specie dopo la controffensiva ucraina a sud di Kharkiv, non poche difficoltà. Putin sembra quindi più orientato a spiegare brevemente in televisione le scelte fatte e a mostrarsi come “comandante in capo” nel pieno controllo della situazione. Andando in parte a tranquillizzare un’opinione pubblica russa un po’ più dubbiosa rispetto a prima circa l’esito delle operazioni militari.
Lo Zar all'angolo e l'escalation della menzogna. L'insostenibile escalation della menzogna. Parafrasiamo un illustre critico dell'imperialismo di Mosca, Milan Kundera, per dare a Putin quel che è di Putin. Roberto Fabbri il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.
L'insostenibile escalation della menzogna. Parafrasiamo un illustre critico dell'imperialismo di Mosca, Milan Kundera, per dare a Putin quel che è di Putin: nessuno come lui ha portato l'arte perversa tutta russa della bugia spudorata a fini di propaganda ai livelli che stiamo osservando in questi giorni. Giorni in cui si teme, e con qualche fondamento, l'inverarsi di un'assai più concreta escalation, quella militare con tanto di folle capitolo atomico. Un'accelerazione figlia della disperazione, che rischia di avvicinarci alla vera guerra che Putin ha in mente, che non è alla sola Ucraina, ma all'intero Occidente. Questa escalation è basata su un'altra, quella della menzogna firmata Putin: più incredibile e assurda dell'invasione dell'Ucraina, più rapida degli inutili missili ipersonici vantati dal dittatore, più impressionante dell'inattesa debacle della sua «armata rotta». Ieri il sempre più debole «zar» è arrivato a dire ai suoi compatrioti che l'Occidente incoraggia Kiev ad attaccare il territorio russo e a saccheggiarlo dei suoi beni e della sua sovranità (il che è falsissimo, anzi la principale preoccupazione di Biden è evitare esattamente questo per non allargare il conflitto). E ha perfino accusato lo stesso Occidente di voler attaccare la Russia con armi nucleari, il che è un'altra bugia assoluta, pronunciata proprio da chi prepara un'annessione truffaldina di quattro province ucraine per poi poterci minacciare con il suo arsenale atomico.
Sfacciataggine senza precedenti? Non scherziamo. Prima ancora del suo avvio lo scorso 24 febbraio, questa guerra è stata costruita su falsità sistematiche pronunciate in tutta serietà, con lo scopo non di essere creduti, ma di far capire che chi ha muscoli non ha bisogno di verità. Citiamo solo le principali, per ragioni di spazio. Il popolo ucraino non esiste, a Kiev comandano i nazisti, 150mila militari russi sono sul confine ucraino per esercitarsi ma non invaderanno nessuno, una fila lunga 65 chilometri di carri armati e blindati russi punta su Kiev per settimane, ma dopo che gli ucraini l'hanno decimata e sbandata «non ci interessava prendere Kiev», centinaia di morti nelle fosse comuni e per le strade di Bucha e di Irpin sono un falso dell'Occidente, altri 450 morti in un orrendo carnaio a Izyum sono un falso anche quelli, la nave ammiraglia della flotta del Mar Nero è affondata per un incidente, l'isola dei Serpenti è stata sgomberata come gesto di buona volontà, l'operazione speciale va avanti secondo i piani, l'esercito russo non colpisce obiettivi civili, la Russia vuole la pace ma Zelensky no. E avanti fino a oggi, con l'autoimbroglio dei 300mila riservisti russi mobilitati: serviranno a vincere la guerra? C'è di che dubitarne. Sono civili da riaddestrare e sulla loro motivazione parla chiaro la minaccia di leggi per sbatterli in galera fino a 15 anni se non fileranno al fronte senza fiatare.
La svolta estremista dello Zar. Così ultra-nazionalisti (e Dugin) hanno fatto breccia al Cremlino. "Non è un bluff". Il discorso di Vladimir Putin di ieri, non è stato duro solo nella forma. Anche nella sostanza ha segnato una svolta profonda nella tradizionale dottrina nucleare russa. Angelo Allegri il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.
«Non è un bluff». Il discorso di Vladimir Putin di ieri, non è stato duro solo nella forma. Anche nella sostanza ha segnato una svolta profonda nella tradizionale dottrina nucleare russa: la minaccia è diventata più concreta e immediata. Mai, perfino a guerra Ucraina già iniziata, il Cremlino si era spinto così platealmente lontano.
Nel giugno del 2020 gli strateghi di Mosca avevano per la prima volta esplicitato in un decreto presidenziale le condizioni di impiego delle armi atomiche, pubblicando un ordine esecutivo sui «Principi base della deterrenza nucleare». La condizione chiave era la messa a rischio, pur con armi convenzionali, dell'«esistenza dello Stato». Qualora si fosse verificata questa eventualità la Russia si sarebbe sentita libera di colpire per prima. Più volte gli esponenti del regime, avevano ribadito la validità dei principi stabiliti nel 2020: lo aveva fatto il portavoce Dimitri Peskov e ancora alla fine di marzo perfino un «duro» come l'ex presidente Dmitri Medvedev. Ieri Putin ha cambiato strada. Per salvaguardare «l'integrità territoriale del nostro Paese e per difendere la Russia e il nostro popolo faremo certamente uso di tutti i sistemi d'arma a nostra disposizione», ha detto. Qualche istante dopo, accanto all'integrità territoriale, Putin ha citato tra le ragioni che possono giustificare l'impiego di ogni strumento bellico, «la difesa dell'indipendenza e della libertà» dei cittadini russi. Concetti di ben più amplia latitudine rispetto a quelli precedenti.
È quello che le forze imperiali e nazionalistiche del regime chiedevano da tempo all'inquilino del Cremlino: una dichiarazione di guerra totale a quello che in Russia viene definito «l'Occidente collettivo». È la posizione del partito della guerra, che secondo le valutazioni più diffuse, riprese ieri dal sito Meduza, ha in questo momento tra gli esponenti più attivi Andrey Turchak (segretario della presidenza del partito di Putin, Russia Unita), il già citato Medvedev e il comandante della Guardia nazionale Viktor Zolotov.
È anche la posizione sintetizzata dai media di regime, passati ufficialmente dalla modalità «operazione speciale» a quella più estrema: adesso è la sopravvivenza stessa del mondo russo ad essere in pericolo. A sintetizzare efficacemente la nuova situazione era ieri l'editoriale online del Moskovskij Komsomolets (Mk), uno dei giornali più popolari a Mosca e in tutto il Paese. «Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la Russia è diventata il nuovo obiettivo. L'Ucraina, in questo processo, ha agito solo come una testa d'ariete...a combattere l'esercito russo non sono solo l'Ucraina, ma tutto il potenziale militare-industriale dell'Europa e degli Stati Uniti. Ciò significa che questo non è più un conflitto tra due paesi. Questa è una battaglia in cui il nemico punta non a difendere l'Ucraina, ma a distruggere la Russia».
L'apoteosi di questo atteggiamento si ritrova sui canali televisivi pubblici ma soprattutto sulle frequenze e sul sito di Tsargrad, la televisione dell'oligarca Kostantin Malofeev, ricco uomo d'affari ma anche ideologo della Russia di Putin. Qui ha fatto la sua ricomparsa, dopo il lutto legato alla morte della figlia, il filosofo Alexander Dugin, che in vista della mobilitazione militare del Paese ha tratteggiato quelli che per lui sono gli scenari del conflitto. Definirli apocalittici è perfino riduttivo.
Quelli estremi sono la fine della Russia «per opera dell'Anti-Cristo» (l'alleanza tra Ucraina, Stati Uniti ed Europa) e al contrario la vittoria delle «forze del bene» (la Russia) contro «le forze del male» (Nato e sodali). In mezzo c'è la fine del mondo. Perchè, dice Dugin, un modello a cui guardare è quello di Salvador Allende «che ha combattuto con una mitragliatrice in mano fino all'ultimo. Ma la differenza (rispetto a Putin; ndr) è che Allende non aveva un pulsante nucleare. Poteva sacrificare solo se stesso e un paio di nemici». Il Cremlino le bombe le ha, per la gioia di Dugin e la preoccupazione del resto del pianeta.
Sempre più solo. Piuttosto che finire nella guerra di Putin, i russi preferiscono lasciare il Paese. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.
Ovunque ci si prepara per non rispondere alla mobilitazione annunciata dal capo del Cremlino. Il Parlamento ha dovuto cambiare la legge per punire duramente i soldati che si arrendono o disubbidiscono agli ordini, mentre i riservisti hanno già comprato biglietti aerei per volare all’estero nei prossimi giorni
Il discorso televisivo di Vladimir Putin alla nazione russa è un’operazione di propaganda travestita da chiamata alle armi. Ieri il capo del Cremlino ha annunciato una «mobilitazione parziale» per trovare nuovi uomini da mandare a combattere in Ucraina: una risposta ai recenti successi militari dell’Ucraina nei territori che l’esercito russo aveva occupato all’inizio dell’invasione. L’obiettivo del Cremlino è richiamare in servizio i riservisti, cioè chi è in congedo permanente dopo aver fatto il servizio militare e non partecipa più alle operazioni militari.
Il cambio di tono e di strategia rispetto al passato sembra evidente: Putin non ha mai parlato apertamente di guerra, ma fin dall’annuncio del 24 febbraio ha sempre descritto l’invasione come «operazione militare speciale».
Potenzialmente potrebbe essere il preludio a una dichiarazione di guerra formale all’Ucraina. La settimana scorsa il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aveva negato questa possibilità, ma aveva risposto negativamente anche sulla possibilità di mobilitare i riservisti (sappiamo ormai che le sue parole hanno un grado di credibilità piuttosto basso).
Inoltre martedì la Duma, il parlamento russo, aveva emendato il codice penale del Paese per inasprire le pene contro i soldati che si arrendono o disubbidiscono agli ordini, specificando situazioni di «mobilitazione, legge marziale e tempo di guerra» come possibili aggravanti.
Il ministro della Difesa russo Sergej Šojgu ha detto che saranno mobilitati 300mila russi su un totale di circa due milioni di riservisti. È una stima molto ottimistica: si tratta di un provvedimento molto impopolare e migliaia di russi si sono subito messi alla ricerca di soluzioni per scansare la chiamata.
Poche ore dopo il discorso di Putin i voli in partenza dalla Russia verso praticamente qualunque altra destinazione sono andati esauriti: le destinazioni più gettonate sarebbero soprattutto Turchia, Azerbaigian e Armenia cioè Paesi che non richiedono visti all’ingresso per i russi. I voli per questi tre Stati sono già colmi fino a venerdì sera, e i prezzi dei biglietti dei giorni successivi sono schizzati alle stelle.
Un biglietto per il volo di sabato – una tratta da quattro ore e mezza – costa 173mila rubli, circa 2.870 euro. Ma fino a martedì sera costava circa 350 euro.
«Dubito che riusciranno a mobilitare così tanti uomini come dicono», ha scritto in un thread su Twitter Sergej Sumlenny, giornalista, politologo e scrittore di origine russa che ha lavorato a Mosca per l’emittente televisiva tedesca Ard ed è stato caporedattore di un telegiornale dell’emittente commerciale russa RBC-TV. «Per integrare così tante persone avrebbero bisogno di strutture libere e ufficiali militari, circa 500-800 per divisione».
L’analisi di Sumlenny, insomma, porterebbe a pensare che per Mosca non sarà così facile muovere tanti riservisti in breve tempo. Oltre al fatto che fin dall’inizio della guerra si parla delle enormi difficoltà dell’esercito russo nell’equipaggiare e armare a dovere i suoi soldati – e poi anche dei problemi logistici nel muovere e organizzare così tanti uomini.
«L’unico motivo per parlare di mobilitazione è per pura propaganda», aggiunge Sumlenny. «La Russia sta anche cercando di spaventare l’Occidente facendogli credere che abbia risorse illimitate (è una menzogna) e che ci sarà un’escalation del conflitto (un’altra menzogna)».
Per la Russia una mobilitazione, anche parziale, è un rischio, un’operazione che rischia di metterne a nudo ancor di più le difficoltà e i problemi organizzativi.
Tra l’altro il discorso di Putin è arrivato poche ore l’inizio dei lavori del mercoledì alla 77esima Assemblea Generale dell’Onu. Da New York il portavoce del Servizio di Azione Esterna dell’Unione europea, Peter Stano, ha definito la mobilitazione della Russia «un attacco ai principi fondamentali della comunità internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite, e fondamentalmente è un attacco contro tutti i Paesi che hanno sottoscritto i principi del diritto internazionale, della sovranità e dell’indipendenza delle nazioni».
Oltre alla mobilitazione parziale, l’autocrate russo ha insistito anche che sui referendum che hanno indetto per i prossimi giorni le autoproclamate repubbliche autonome del Donbas, Lugansk e Donetsk – già riconosciute come indipendenti da Mosca – e le aeree di Kherson e Zaporizhzhia. Le consultazioni vorrebbero essere un sistema per annunciare la volontà di annessione alla Russia.
«In altre parole, stanno pianificando sondaggi truccati per consentire alla Russia di annettere illegalmente più territorio ucraino», scrive l’Economist. «Uno degli obiettivi dei referendum è quello di contenere i successi militari ucraini nel Donbas: in caso di annessione formale di Lugansk e Donetsk in teoria il Cremlino potrebbe dichiarare che le offensive ucraine in quelle aree sono stati attacchi al suolo russo».
Sarebbe una copia di quanto già accaduto con la Crimea nel 2014: allora la penisola fu annessa con un referendum pilotato, che però si rivelò sufficiente per permettere ai funzionari russi di inibire i tentativi di riconquista ucraini. La speranza è che, otto anni dopo, l’Ucraina e i suoi alleati occidentali e democratici riescano a frenare le ambizioni imperialiste del Cremlino. O che quest’ultimo si fermi da solo sbagliando tempi e modi delle sue strategie.
Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 20 settembre 2022.
Il dissidente russo e attivista per i diritti umani, Vladimir Osechkin, fondatore del progetto per i diritti umani Gulagu.net – autore di diversi scoop sul regime di Putin, per esempio la documentazione delle torture in carcere, ma anche molti leaks di informazioni sugli apparati russi – ha raccontato di aver subito un tentativo di omicidio a Biarritz, in Francia, dove è riparato da alcuni anni.
In Russia ovviamente è nella lista nera di Vladimir Putin, Osechkin stesso ha raccontato la storia nel programma di Yulia Latynina. Dopo le rivelazioni di Gulagu.net, nell’ottobre del 2021, sulle torture nelle carceri russe, il direttore del Servizio penitenziario federale Alexander Kalashnikov è stato licenziato e la Duma è stata costretta ad approvare una legge che aumenta le pene per la tortura.
Il tentato omicidio di Osechkin è avvenuto con queste modalità. Alcuni uomini si sono appostati per colpirlo, Il racconto del dissidente è spaventoso: «Porto i piatti in sala per mettere i bambini a mangiare, e con la mia visione laterale, su una delle terrazze, vedo un puntino rosso [che si muove] oltre la ringhiera della terrazza e lungo il muro verso di me».
Come se fosse braccato e puntato da un mirino: «Abbiamo ricevuto un addestramento speciale, siamo stati addestrati per questo, siamo stati istruiti in modo che, in caso di necessità, non avremmo esitato e non avremmo aspettato che ci sparassero. Naturalmente, subito si sono spente anche le nostre luci, i bambini sul pavimento, con mia moglie hanno trascorso circa un'ora in una delle stanze più sicure».
Più tardi la polizia francese avrebbe accertato che sono stati sparati dei colpi. «Non sono stato colpito – ha spiegato Osechkin – i colpi sono stati sparati, il mirino puntava nella mia direzione. [Sono stato aiutato a sopravvivere] dagli errori dell'assassino e dalla velocità della luce - [il punto rosso] l'ho visto accidentalmente con l'occhio laterale».
Secondo Osechkin, la sua vita è stata salvata dal capo redattore investigativo di Bellingcat, Christo Grozev, che gli ha passato le informazioni sul tentato omicidio. Racconta Osechkin: «C’era un messaggio di Christo e della sua fonte che ha aiutato me e le persone coinvolte nella mia sicurezza a prevenire il mio omicidio. Un uomo con stretti legami con l’Fsb e la criminalità organizzata aveva lasciato la Russia in direzione di Biarritz.
Mi hanno convinto ad evacuare letteralmente per due giorni e ad andarmene, anche se non volevo, volevo prenderli qui. Ma siamo andati in montagna per il fine settimana, ho insistito per tornare dopo il fine settimana, una settimana fa. La sera la famiglia era a teatro e io lavoravo al buio, nessuno pensava che fossi a casa da sola.
Stavo lavorando al buio con i miei documenti, un macbook con le luci soffuse, mi sento a mio agio a lavorare in questo modo. Quando sono arrivati i miei figli e mia moglie abbiamo preparato la cena e a quel punto ho visto di essere in quel mirino rosso oltre la ringhiera di una delle terrazze».
Osechkin non ha risposto alla domanda di Latynina se l'assassino fosse stato catturato dall’operazione della polizia francese che è subito scattata. Non ha detto di no, ha detto che non può dire molto a causa della segretezza dell'indagine.
Proprio a Biarritz un gruppo di attivisti fu autore, nei primi mesi della guerra di Putin in Ucraina, di un eclatante gesto di protesta: andarono a disegnare bandiere ucraine sul cancello, sui sanpietrini davanti al cancello, sui muri a destra e sinistra della grande villa situata al 9 di Avenue du General Mac-Croskey: una villa che era stata trasferita dall’oligarca amico di giovinezza di Putin, Gennady Timchenko, a Kirill Shamalov, allora marito (oggi ex) di Katerina Tikhonova, la seconda figlia di Putin.
Insomma, la villa di una delle due figlie di Putin. Biarritz in altre parole un luogo particolarmente sensibile nella geografia del putiunismo, anche perché lì si trova anche la casa dove passava lunghi mesi dell’anno Ljudmila Putina, la prima moglie di Putin.
Il tentato omicidio di Osechkin è, dopo l’avvelenamento di Sergey Skripal e sua figlia a Salisbury, nel Regno Unio, con il novichok, e dopo l’assassinio di un ribelle ceceno-georgiano nel Kleiner Tiergarten di Berlino, probabilmente il terzo più grave tentativo di assassinio che sarebbe stato tentato – se queste ricostruzioni fossero confermate – dai servizi russi in Europa.
Dopo la Gran Bretagna e la Germania, adesso la Francia. Nessun paese europeo può dirsi al sicuro da operazioni russe di livello militare, che avvengono ormai da anni nelle nostre stesse città.
DAGONEWS il 15 settembre 2021.
Altra morte eccellente, e misteriosa, in Russia. Il direttore della Komsomolskaja Pravda, Vladimir Nikolayevich Sungorkin, è deceduto mercoledì: aveva 68 anni e nel suo corpo ci sarebbero segni di “soffocamento”. Stava viaggiando verso Khabarovsk con alcuni colleghi, prima di dirigersi a Mosca, quando ha perso improvvisamente i sensi.
Poco prima, aveva detto ai colleghi: "Dovremmo trovare un bel posto da qualche parte... per il pranzo". Il suo collega Leonid Zakharov ha spiegato che tre minuti dopo Vladimir ha iniziato a soffocare e il gruppo lo ha portato fuori a prendere aria. Il medico che lo ha visitato inizialmente ha concluso che è morto per un ictus.
Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 13 settembre 2022.
Finestre, scogliere, intossicazioni strane, barche nei mari del nord. La Russia di Putin non è un paese per vite tranquille. È morto in Russia Ivan Pechorin, amministratore delegato dell'industria aeronautica della Corporazione per lo sviluppo dell'Estremo Oriente e dell'Artico. Il corpo di Pechorin è stato ritrovato sull'isola Russkij.
Pechorin, in stato di ebbrezza alcolica, sarebbe caduto in mare da una barca da diporto. Secondo il servizio stampa della società, è morto nella serata di sabato 10 settembre nella zona di Capo Ignatiev.
Secondo la versione ufficiale della polizia russa, è caduto in mare a tutta velocità. L’“incidente” sarebbe avvenuto nelle acque vicino all'isola Russky, non lontano da Capo Ignatiev, scrive la Komsomolskaya Pravda. Il corpo è stato ritrovato dopo una ricerca durata più di un giorno.
Pechorin aveva 39 anni e un posto importantissimo nello scacchiere dell’energia e dell’industria russa, perché di fatto era una specie di delegato di Putin per l’amministrazione delle immense risorse energetiche dell’Artico.
Ad aumentare l’aspetto sinistro di questa ennesima morte nel mondo di top manager russi – specialmente dell’energia – c’è la circostanza anche questa abbastanza sinistra che il predecessore, l’ex amministratore delegato della società, Igor Nosov, era morto pure lui improvvisamente a febbraio, colpito da un ictus a 43 anni. Il corpo non aveva ricevuto però autopsia.
La “Corporazione per lo sviluppo dell'Estremo Oriente e dell'Artico” riveste un ruolo cruciale nella Russia colpita dalle sanzioni, sia nell’energia sia nell’industria aerea. E Pechorin ne disegnava le politiche e era andato a spiegare la sua idea di recente al Forum economico orientale – presente Putin – durante un panel dedicato alla lotta alle sanzioni, che aveva come titolo “Ognuno ha la sua strada: La logistica di un mondo cambiato”.
Pechorin, ci racconta uno dei presenti al Forum, si era anche trattenuto a parlare con i vertici di Lukoil, tra cui Ravil Maganov, 67 anni, il presidente del board della compagnia petrolifera russa, morto anche lui il 1 settembre dopo una sospetta caduta da una finestra di un ospedale di Mosca, lo stesso ospedale dove di lì a poco si sarebbe recato Vladimir Putin per l’ultimo saluto a Mikhail Gorbaciov, morto il 30 agosto.
E subito prima, nella notte del 14 agosto, era voltato giù da un attico di un condominio di lusso a Washington, D.C., Dan Rapoport, un finanziere lettone che era nel suo paese d’origine uno dei più noti critici di Putin, aveva lavorato in Russia con un fondo d'investimento nei primi Anni novanta, per poi finire nel libro nero putiniano, come il suo amico Bill Browder, fondatore del fondo Hermitage, e poi uno dei più impegnati attivisti anti-Putin, e autore della campagna per il Magnitsky Act negli Stati Uniti e in Europa. Rapoport, tra l’altro, sosteneva la battaglia di Alexey Navalny e della sua Fondazione.
E prima ancora c’erano state le morti strane di una serie di manager del petrolio o del gas, Sergey Protosenya, Vladislav Avayev, Vasily Melnikov, Mikhail Watford (trovato impiccato), Alexander Tyulyakov (Gazprom, trovato impiccato), Leonid Shulman, Andrei Krukowski (neanche quarant’anni, top manager del resort sciistico di Gazprom non lontano da Sochi, Krasnaya Polyana, volato giù da una scogliera non si capì assolutamente come).
L’Artico appare da tempo del resto come un territorio di battaglia, e un luogo di faide da decifrare. A settembre dell’anno scorso era morto in modo molto singolare in Siberia, vicino a una cascata nella riserva naturale dell’altopiano Putorana, a 150 km da Norilsk, nord del circolo polare artico, Yevgeny Zinichev, ministro russo per le emergenze, e uomo che Putin salutava come uno dei suoi possibili successori. Zinichev – che era un alleato apparentemente di ferro di Putin – sarebbe morto mentre tentava di salvare un altro uomo caduto in acqua da una scogliera. Le scogliere tornano sempre, come le faide.
Morto un altro oligarca di Putin: "Era ubriaco, è caduto da una barca". Ivan Pechorin era l'uomo chiave di Putin nell'Artico. Secondo i media russi la vittima, ubriaca, sarebbe caduta in mare dalla barca sulla quale stava viaggiando nei pressi di Vladivostok. Federico Giuliani il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.
Ivan Pechorin, amministratore delegato dell'industria aeronautica della Corporation for the Development of the Far East and the Arctic, è morto in Russia in circostanze ancora da chiarire. La vittima, 39 anni, era un importante manager al servizio di Vladimir Putin, incaricato di amministrare le risorse energetiche russe presenti nell'Artico. Stando alle prime ricostruzioni, Pechorin sarebbe caduto da una barca da diporto. L'incidente sarebbe inoltre avvenuto vicino all'isola di Russky, nei pressi di Vladivostok, a 5.800 miglia ad est di Mosca.
Un'altra morte sospetta
Secondo quanto riportato dalla Komsomolskaya Pravda, Pechorin ha modernizzato l'aviazione nella Russia orientale e sviluppato le risorse di Mosca nell'Artico alla luce delle pesanti sanzioni inflitte dal blocco occidentale. Sulla carta, era dunque un uomo chiave di Putin. Anche perché pare che fosse responsabile, tra le altre cose, del supporto del trasporto aereo di passeggeri, della modernizzazione delle infrastrutture aeroportuali e della costruzione di nuove piste.
La citata Corporation for the Development of the Far East and the Arctic, un’agenzia di cooperazione pubblico-privato dedicata ai territori più lontani da Mosca, ha annunciato lunedì la sua "tragica morte". "La morte di Ivan è una perdita irreparabile per amici e colleghi, una grande perdita per la società. Porgiamo le nostre più sincere condoglianze a familiari e amici", si legge in una nota della società.
La sua ultima apparizione pubblica risalirebbe all'Eastern Economic Forum, evento tenutosi dal 5 all'8 settembre a Vladivostok. In quell'occasione, Pechorin ha parlato durante una sessione intitolata "Ognuno ha il proprio percorso: la logistica di un mondo cambiato". La morte di Pechorin segue quella dell'ex CEO della società, Igor Nosov, 43 anni, morto improvvisamente per un ictus lo scorso febbraio.
La ricostruzione della vicenda
La Pravda ha fatto sapere che Pechorin e un gruppo di amici erano "già ubriachi" quando sono saliti a bordo di una barca sabato sera sull'isola di Russky. Pechorin sarebbe quindi caduto da un ponte anteriore della barca a circa 40 minuti dall'inizio del viaggio. Il corpo è stato ritrovato lunedì sull'isola.
La morte di Pechorin potrebbe essere un tragico incidente o un "tragico incidente" costruito ad arte. "È del tutto plausibile che Pechorin sia caduto in mare dalla barca mentre oscillava perché era ubriaco. Fare feste a bordo di una barca e nuotare in mare sotto l'influenza dell'oscurità sono attività coerenti con il modo in cui gli oligarchi russi si divertono", ha dichiarato Rebekah Koffler, ex ufficiale della Defense Intelligence Agency, a Fox News. "È tuttavia improbabile che la verità venga scoperta perché non ci si può fidare delle indagini russe", ha aggiunto Koffler.
Mercoledì scorso, Pechorin ha moderato una discussione all'Eastern Economic Forum di Vladivostok in merito all'espansione dell'accesso dell'aviazione all'Estremo Oriente. In quello stesso giorno, Putin si è recato a Vladivostok per parlare al medesimo forum.
La lista si allunga
In attesa di capire cosa è accaduto a Pechorin, la lista delle strane morti di manager del petrolio o del gas risulta essere già piuttosto corposa. Il primo settembre, Ravil Maganov, 67 anni, un magnate del petrolio ed ex capo della seconda compagnia petrolifera russa, la Lukoil, sarebbe caduto dalla finestra del sesto piano di un ospedale di Mosca. Il magnate del petrolio aveva precedentemente espresso la sua opposizione all'invasione dell'Ucraina. Lukoil ha però specificato che la sua morte è avvenuta "dopo una grave malattia".
Altri nomi degni di nota passati a miglior vita in circostanze misteriose sono Sergey Protosenya, Vladislav Avayev, Vasily Melnikov, Mikhail Watford, Alexander Tyulyakov, Leonid Shulman e Andrei Krukowski.
Otto mesi fa era deceduto anche il suo capo. Ivan Pechorin, l’ultima morte sospetta tra i manager legati a Putin: sarebbe caduto dalla sua barca nel Mar del Giappone. Carmine Di Niro su Il Riformista il 13 Settembre 2022
La lista delle morti sospette di manager e oligarchi legati al Cremlino continua col passare dei mesi di conflitto in Ucraina ad allungarsi. L’ultimo a comparire nell’elenco è Ivan Pechorin, 39enne amministratore delegato della Far East and Arctic Development Corporation, l’industria aeronautica della Corporazione per lo sviluppo dell’Estremo Oriente e dell’Artico.
Il corpo del manager è stato ritrovato lunedì sull’isola Russkij, nel Mar del Giappone, dove stava navigando con la sua imbarcazione. Pechorin sarebbe stato vittima di un incidente nella giornata di sabato 10 settembre: in stato di ebbrezza, il manager e uomo fidato di Putin per l’amministrazione delle risorse energetiche dell’Artico, sarebbe caduto dalla barca da diporto mentre viaggiava ad alta velocità. Il corpo, sempre stando alla versione ufficiale russa, è stato poi rinvenuto lunedì, dopo oltre un giorno di ricerche.
“La morte di Ivan è una perdita irreparabile per amici e colleghi”, ha dichiarato l’ERDC in un comunicato ufficiale sul proprio sito web, ricordando così il manager che solo pochi giorni fa aveva partecipato con Vladimir Putin all’Eastern Economic Forum di Vladivostok, lì dove lo Zar del Cremlino aveva minacciato di chiudere i rubinetti del gas in caso di price cap europeo.
A rendere il decesso di Pechorin ‘inquietante’ è il precedente sulla morte del suo ex capo, l’ex amministratore delegato della società Igor Nosos: anche lui era morto improvvisamente a soli 43 anni, stroncato da un ictus, col corpo che non era stato sottoposto ad autopsia.
Quella di Pechorin, come detto, è solo l’ultima delle morti eccellenti tra i manager di Stato e tra gli oligarchi che hanno fatto parte della stretta cerchia di “fedelissimi” di Vladimir Putin. Soltanto lo scorso primo settembre era morto precipitando dalla finestra di un ospedale di Mosca Ravil Maganov, 67 anni, vicepresidente del board della compagnia petrolifera russa Lukoil.
A metà agosto era precipitato da un palazzo di Washington Dan Rapoport, finanziare di origine lettone che aveva fatto fortuna in Russia e che aveva criticato apertamente Putin, mentre a luglio era stato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua piscina in un sobborgo di San Pietroburgo Yuri Voronov, 61 anni, alto dirigente della compagnia di trasporti Astra Shipping.
In precedenza altre morti sospette erano state quelle di Andrej Krukovskij, manager della stazione sciistica di proprietà di Gazprom a Sochi, precipitato lo scorso maggio mentre percorreva un sentiero. Quindi il lungo e inquietante elenco di suicidi: Mikhail Watford (nato Tolstosheya), magnate del petrolio e del gas arricchitosi il crollo dell’Unione Sovietica, trovato impiccato nel garage della sua casa nel Surrey in Inghilterra; Alexander Tyulyakov, vicedirettore generale del Centro per la sicurezza aziendale di Gazprom, trovato impiccato nel suo cottage di Mosca; Sergey Protosenya, 55enne ex Ceo di Novatek, trovato morto in Spagna a Lloret de Mar assieme a moglie e figlia adolescente, una vicenda ricostruita come un omicidio-suicidio; Vladislav Avayev, ex vicepresidente di Gazprombank ed ex consigliere del Cremlino, trovato senza vita nel suo appartamento in un lussuoso condominio di Mosca dopo aver ucciso, secondo la ricostruzione ufficiale, moglie incinta e figlia 13enne.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Tutti gli ex uomini del presidente. I 12 oligarchi e manager russi morti in modo misterioso dall’inizio della guerra. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 2 Settembre 2022.
Alcuni, come Ravil Maganov, il più recente, sono vittime di cadute all’apparenza casuali. Altri sarebbero stati uccisi dai parenti (poi sucidatisi), altri ancora sono finiti uccisi in circostanze strane. Che dietro ci sia la mano di Vladimir Putin è più di un sospetto.
Putin batte Agatha Christie? Dieci piccoli indiani è il libro con cui la scrittrice inglese, vendendo 110 milioni di copie, batté ogni record di vendite, raccontando la storia di 10 ospiti di una villa in un’isola del Devon che muoiono uno a uno secondo i tempi e le modalità di una macabra filastrocca. Invece, sono già 12 gli oligarchi e manager russi che dall’inizio dell’anno sono morti in modo misterioso.
Numero a parte, ci sono almeno quattro importanti differenze. La prima è che lo scenario non è una isoletta senza comunicazioni, ma l’intera Europa e pure gli Usa. Un’altra è che il ritmo che scandisce i decessi non è una canzoncina, ma quello delle notizie della guerra in Ucraina. Una terza che, mentre nei Dieci piccoli indiani il responsabile resta insospettabile fino alla fine, mentre qua chiunque abbia familiarità con la Russia suggerisce che dietro ci deve essere Putin. E una quarta, soprattutto, è che quella di Agatha Christie è un romanzo, qui invece è tutto vero. In compenso, sono proprio i modi curiosi e grotteschi di queste dodici morti che sembrano evocare i rozzi versi di quei delitti.
L’ultimo è Ravil Maganov. Vicepresidente e presidente del Consiglio di amministrazione di Lukoil, è morto dopo essere «caduto» dalla finestra del sesto piano di quello stesso Ospedale Clinico Centrale della Direzione Amministrativa del Presidente della Federazione Russa di Mosca in cui era appena morto Gorbaciov e che è considerato il miglior ospedale del Paese. L’Ospedale del Cremlino, lo chiamano: roba rigorosamente per vip. Aveva 67 anni, e alla Lukoil si dicono «profondamente rattristati nell’annunciare che Ravil Maganov, presidente del Consiglio di Amministrazione di Pjsc Lukoil, è morto dopo una grave malattia. Ravil Ulfatovich ha dato un contributo inestimabile non solo allo sviluppo della Società, ma all’intera industria petrolifera e del gas russa. Le molte migliaia di dipendenti di Lukoil sono profondamente rattristate per questa dolorosa perdita, e esprimono le loro sincere condoglianze alla sua famiglia».
Nessun riferimento, dunque, alle circostanze del decesso: a meno di non considerare «grave malattia» l’appartenere al ceto degli oligarchi e manager in un momento come questo. Il sito delle forze dell’ordine Mash aggiunge di problemi al cuore e di una grave forma di depressione. La Tass specifica ulteriormente: infarto, e assumeva antidepressivi. Insomma, ci sono due ipotesi. Uno: lo hanno buttato di sotto perché il board di Lukoil da lui preceduto a marzo aveva criticato l’Operazione militare in Ucraina, chiedendo «la rapida fine del conflitto armato» e esprimendo «sincera vicinanza a tutte le vittime». Due: disperato per essere numero due del secondo colosso petrolifero russo, il poveretto si è sentito male mentre si stava affacciando ed è andato di sotto.
Ma è il numero 12, si diceva. Il primo della lista è morto il 29 gennaio, prima ancora che la guerra inizi. È Leonid Shulman, 60 anni, capo del servizio di trasporto di Gazprom Invest. Lo trovano morto nel bagno della sua villa, nel sobborgo moscovita di Leninsky, in un villaggio di categoria extra lusso. Accanto, un biglietto in cui si lamentava del dolore per una gamba rotta. Secondo i Servizi ucraini, aveva profondi tagli sul corpo insanguinato. Secondo Fortune, era nei guai per un’indagine su frode alla Gazprom.
Il 25 febbraio, primo giorno di guerra, arriva il secondo. È Alexander Tyulyako: 61 anni, vicedirettore generale della cassa di Gazprom. Pure lui a Leninsky, impiccato nel garage del suo cottage. Anche lui ha accanto un biglietto, di cui però non è rivelato il contenuto. Il servizio di sicurezza di Gazprom caccia infatti via tutti dalla scena del delitto; soprattutto la Polizia.
Il 28 febbraio, il terzo della lista è Michael Watford: 66 anni, vero nome Mikhail Tolstosheya, origini ucraine. Dopo aver fatto fortuna con petrolio e gas, nel 2000 è emigrato nel Regno Unito, dove ha cambiato cittadinanza, nome e attività professionale, dandosi all’immobiliare. Anche il suo cadavere è in un garage, nella sua casa del Surrey. La polizia inglese esclude un omicidio, ma definisce la morte «inspiegabile».
Il 23 marzo il quarto è Vasily Melnikov: 43 anni, proprietario di una società che importa attrezzature mediche e che si chiama Medstom. Non c’è solo il cadavere suo, ma anche quello della moglie e dei due figli, nel loro appartamento di lusso a Nizhny Novgorod. Causa della morte: ferite da taglio inflitte con coltelli trovati sulla scena del crimine. Per le sanzioni, la Medstom era al collasso.
Il 18 aprile, il quinto della lista è Vladislav Avaev: 51 anni, vicepresidente di Gazprombank ed ex-funzionario del Cremlino. Anche in questo caso, accanto al suo cadavere nell’appartamento di Mosca ci sono quelli della moglie e di una figlia 13enne. E anche una pistola, con cui prima le avrebbe uccise e poi si sarebbe suicidato. «Lo ha ucciso Putin» è la chiara accusa di Igor Volobuev: già vicepresidente di Gazprom, scappato nella natia Ucraina per combattere contro gli invasori.
Il 21 aprile, tocca a Sergeij Protosenya: 55 anni, top manager di Novatek, secondo colosso dell’energia in Russia dopo Gazprom; un patrimonio personale stimato 400 milioni di euro. Il suo è ritrovato, insieme a quello della moglie e della figlia 18enne a Lloret de Mar, 70 km da Barcellona, in una villa affittata per Pasqua. Lui strangolato; le due donne pugnalate. Il figlio, che stava in Francia, esclude assolutamente un omicidio-suicidio. Suo padre, spiega, voleva troppo bene alla ragazza.
Il primo maggio, siamo a sette. Andrei Krukowski, 37 anni, direttore del resort sciistico della Gazprom a Krasnaya Polyana, muore nel Caucaso. Secondo la Tass, «è caduto da uno scoglio», a Sochi. «Amava le montagne e vi trovava la pace». «La tragedia è avvenuta sulla strada per la fortezza di Akzepsinskaya».
Il 7 maggio, l’ottavo della lista è Alexander Subbotin: 43 anni, ex-ad di Lukoil ma membro del Consiglio di amministrazione, oltre che fratello di Valery Subbotin, ex vicepresidente per l’approvvigionamento e le vendite petrolio della stessa Lukoil. Muore per insufficienza cardiaca, dopo essersi sottoposto a un trattamento sciamanico a Mytišči, a 19 km da Mosca. Era una “cura” che faceva spesso per curare gli eccessi alcolici: tagli in cui veniva iniettato il veleno di rospo, per far passare la sbronza col vomito e al contempo rafforzare il sistema immunitario. Nel contempo, gli sciamani dovrebbero chiamare gli spiriti sacrificando alcuni galli e bagnandosi con il loro sangue. Ma stavolta si è sentito male e lo sciamano Magua, con la moglie, invece di chiamare subito i soccorsi ha preferito provare col Corvalol, sedativo a base di erbe naturali.
Il 27 giugno, il nono è Yevgeny Palant: 47 anni, di origine ucraina, proprietario di una compagnia di cellulari A-mobile attiva in Abkhazia, e anche finanziatore di un Teatro Drammatico Russo nella stessa repubblica separatista dalla Georgia. Vicino a Mosca, il suo cadavere nudo è ritrovato vicino a quello della moglie Olga, 50enne, dalla 20enne figlia Polina. Scoperto che voleva lasciarla, la donna gli avrebbe dato 14 pugnalate, poi avrebbe disegnato due cuori col sangue sul muro, poi si sarebbe suicidata: così assicurano media filo-governativi.
Il 5 luglio, il decimo è Yuriy Voronov: 61 anni, titolare di Astra-shipping, un’impresa di logistica con vantaggiosi contratti con Gazprom nell’Artico. Il suo cadavere viene trovato a galleggiare nella piscina della sua lussuosa villa, con una pallottola in testa, e una pistola vicino. Gli inquirenti attribuiscono la morte a una «disputa con soci di affari», dal momento che secondo la vedova il marito si lamentava di gente che lo stava truffando. Ma le telecamere di sicurezza non mostrano nelle ore precedenti né visite, né intrusi.
Il 14 agosto, l’undicesimo della lista è Dan Rapoport: 52 anni, finanziere e broker di origine lettone, che dopo aver fatto fortuna in Russia se ne è andato ed è diventato un vivace critico del governo di Putin. Nella notte, precipita da un palazzo di Washington. Al momento della morte veste un cappello e infradito arancioni ed ha 2.620 dollari in contanti, ma né portafoglio né carta di credito. Le circostanze del decesso sono definite «estremamente sospette» da Bill Browder: ex finanziere americano con base a Mosca, figlio di un famoso leader del Partito Comunista Usa, divenuto poi uno dei principali alfieri delle sanzioni contro la Russia di Putin dopo l’uccisione del suo avvocato russo Sergei Magnitsky, avvenuta nel 2009.
Da corriere.it l'1 settembre 2022.
Ravil Maganov, presidente del Consiglio di amministrazione di Lukoil, è morto giovedì a Mosca dopo essere precipitato dalla finestra di un ospedale della capitale russa. A riferirlo, citando fonti a conoscenza della situazione, è l'agenzia internazionale Reuters. La notizia è stata data anche da alcuni media russi, che citano fonti anonime.
Maganov, che aveva 67 anni, era vicepresidente della società, la seconda di produzione petrolifera in Russia, che non ha ancora commentato la notizia.
La notizia della morte di Maganov arriva dopo una serie di decessi di manager di società energetiche russe avvenuti nei mesi scorsi in circostanze misteriose.
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 2 settembre 2022.
Già in una situazione normale ci sarebbero ragioni per dubitare del suicidio di un grosso dirigente russo che cade, in un ospedale a Mosca, dalla finestra del sesto piano. Le finestre sono sempre troppo spalancate, in Russia.
Figuriamoci adesso, nel pieno della guerra in Ucraina che non va come il Cremlino aveva previsto, e con una controffensiva ucraina che si sposa a diversi scricchiolii nel regime di Mosca, costretto e reprimere sempre più spaventosamente ogni figura di dissenso.
Così ieri in pochi analisti hanno creduto che Ravil Maganov, presidente del Consiglio di amministrazione della compagnia petrolifera Lukoil, si sia davvero suicidato gettandosi nel vuoto da una stanza dell'Clinico Centrale di Mosca. Per una serie di elementi di fatto.
Primo. Da poco prima dell'inizio dell'invasione russa in Ucraina, hanno cominciato a morire uno dietro l'altro top manager del gas e del petrolio russo, Sergey Protosenya, Vladislav Avayev, Vasily Melnikov, Mikhail Watford, Alexander Tyulyakov, Leonid Shulman, Andrei Krukowski.
Il nono era stato Alexander Subbotin, top manager di Lukoil trovato in una mansion alla periferia di Mosca. Le forze dell'ordine dissero che era morto per insufficienza cardiaca, che lui e la sua sicurezza personale avevano trascorso diversi giorni a casa di amici di famiglia.
Le dinamiche sembrarono talmente poco credibili da suonare tragicomiche: Subbotin si sarebbe presentato «in uno stato di grave intossicazione da alcol e droghe il giorno prima» della sua morte, a casa di uno sciamano. Il corpo era stato scoperto in una stanza del seminterrato, utilizzata dallo sciamano per «riti vudù giamaicani».
A Ferragosto c'è stato un caso che sarebbe il decimo, una morte sospetta a Washington, Dc, di Dan Rapoport finanziere lettone che ormai viveva negli Stat Uniti, sponsor di Alexey Navalny, amico di Bill Browder, il finanziere del fondo Hermitage diventato attivista per i diritti umani dopo l'assassinio in carcere del suo collaboratore Sergey Magnitsky (Browder lanciò una campagna per un Magnitsky Act poi adottato nei principali pasi occidentali). Anche Rapoport è morto cadendo nel vuoto da un attico, con dubbi sempre crescenti nelle ultime ore da parte di alcuni servizi occidentali.
Secondo: in Lukoil, secondo quanto riferiscono a La Stampa fonti molto a conoscenza del dossier, è in corso una scatenata guerra di potere tra chi sostiene una fazione ultra realista e putiniana, e qualcuno che ha voluto parlare contro la guerra in Ucraina, forse sostenuto da un pezzo stesso dei servizi.
All'inizio di marzo, per capirci, il consiglio di amministrazione di Lukoil aveva chiesto pubblicamente la fine del «conflitto militare» in Ucraina. I membri del board avevano espresso «preoccupazione per i continui tragici eventi in Ucraina e profonda solidarietà a tutti coloro che sono stati toccati da questa tragedia».
Critiche che erano state probabilmente alla radice delle strane e repentine dimissioni di Vagit Alekperov, lo storico amministratore delegato dell'azienda, che era stato appena colpito dalle sanzioni e dal divieto di viaggio nel Regno Unito, diventato il principale hub estero dell'azienda (il secondo è l'Italia: Lukoil gestisce distributori in Calabria e Sicilia soprattutto, una raffineria, a Priolo, di fatto ferma dopo la guerra in Ucraina).
Terzo: mentre Lukoil comunica la morte in modo anodino («Siamo profondamente dispiaciuti di annunciare che Ravil Maganov... è deceduto a seguito di una grave malattia»), e mentre fonti interne all'azienda andavano in giro con troppo zelo ad accreditare la tesi del suicidio, due persone che conoscevano bene Maganov hanno dichiarato alla Reuters di ritenere «altamente improbabile che si sia suicidato».
Maganov un paio d'anni fa era stato premiato personalmente da Putin, dopo un servizio ventennale nell'economia del regime: lavorava in Lukoil dal 1993, ne aveva visto nascere e coordinato la raffinazione, la produzione e l'esplorazione. Era presidente dal 2020, mentre suo fratello Nail è a capo del produttore petrolifero russo Tatneft. Però qualcosa era successo. Maganov era rimasto vicinissimo ad Alekperov anche dopo le dimissioni di quest' ultimo.
Mentre gli hardliners putiniani dentro Lukoil cominciavano a vederlo con insofferenza. Restano sibilline e non rassicuranti, in questa storia, anche le coincidenze casuali. L'Ospedale Clinico Centrale di Mosca è noto per avere tra i suoi pazienti l'élite politica e imprenditoriale russa. È assai difficile che vi accada qualcosa di davvero imprevisto, è un luogo totalmente sotto il controllo del Fsb. Mikhail Gorbaciov è morto proprio lì martedì scorso, e Vladimir Putin si era recato sul posto proprio ieri mattina, per deporre dei fiori accanto alla bara del leader della perestroika, che odiava. Maganov era volato giù da lì poche ore prima, alle 7,30 del mattino.
La strana morte di Ravil Maganov, il manager Lukoil caduto da una finestra dell’ospedale di Mosca. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022
Ravil Maganov, 67 anni, era ricoverato per una malattia cardiaca. La più grande società petrolifera privata russa di cui era vicepresidente e capo del cda aveva criticato l’operazione militare in Ucraina ed espresso vicinanza alle vittime
Quella di Ravil Maganov è forse la più eccellente delle eccellenti e misteriose morti di importanti personaggi russi avvenute in questi ultimi mesi. Volato da una finestra dell’ospedale dove era ricoverato per una malattia cardiaca. Suicidio apparente, legato alla gravità delle sue condizioni. Ma, guarda caso, Lukoil, la più grande società petrolifera privata russa della quale era ai vertici, aveva criticato l’Operazione militare speciale in Ucraina. L’uomo era ricoverato nell’Ospedale clinico centrale (TsKB) della capitale, quello riservato storicamente ai membri della nomenclatura, lo stesso dove martedì è deceduto Mikhail Gorbaciov.
Sotto la guida di Maganov, la Lukoil aveva «auspicato la pace»
Maganov, presidente del Consiglio di amministrazione della compagnia, era il braccio destro di Vagit Alekperov, l’ex viceministro dell’Energia di epoca sovietica che negli anni seguiti allo scioglimento dell’Urss, durante le privatizzazioni selvagge, era riuscito a mettere in piedi il suo impero personale.
Ad aprile Alekperov aveva lasciato la guida di Lukoil dopo essere stato colpito dalle sanzioni occidentali. Ma immediatamente dopo l’inizio dell’offensiva in Ucraina il 24 febbraio, Lukoil aveva «auspicato la pace», aveva timidamente fatto capire che quello che stava accadendo non era una cosa giusta. Poco, molto poco, ma comunque una linea non in sintonia con quello che il Cremlino sostiene.
A marzo, il Consiglio, proprio sotto la guida di Maganov, aveva chiesto la «rapida fine del conflitto armato» in Ucraina, e aveva espresso «sincera vicinanza a tutte le vittime».
Il lungo elenco di suicidi e incidenti oscuri
La morte di Maganov susciterebbe solo qualche perplessità se non arrivasse dopo una serie quasi infinita di suicidi e incidenti più o meno oscuri che erano iniziati già prima di febbraio ma che si sono poi intensificati. Tutte coincidenze? Sembra francamente strano.
Si parte con Leonid Shulman, capo del servizio trasporti di Gazprominvest, sussidiaria del colosso del gas, nel gennaio di quest’anno. Fu trovato suicida nella vasca da bagno.
Subito dopo, a febbraio, Aleksandr Tyuliakov, alto dirigente di Gazprom. Sempre a febbraio Mikhail Watford, uomo d’affari russo di origine ucraina. Quindi Vasily Melnikov , altro businessman morto misteriosamente. Ad aprile Vladislav Avayev, ex vicepresidente di Gazprombank, ucciso con moglie e figlia. E ancora: Sergey Protasenya , pure lui ucciso assieme alla moglie e la figlia, questa volta in Spagna. Era un importante manager di Novatek, la più grande compagnia privata che si occupa dell’esportazione di gas. A maggio è morto Andrej Krukovskij, manager della stazione di sci di proprietà di Gazprom a Sochi, precipitato mentre percorreva un sentiero.
Sempre a maggio è scomparso anche Aleksandr Subbotin, altro manager di Lukoil, deceduto per insufficienza cardiaca in una casa nei pressi di Mosca mentre, secondo alcune fonti, era impegnato in riti voodoo. E a luglio è toccato a Yurij Voronov, capo di Astra-shipping, una azienda che lavora per Gazprom. Si sarebbe sparato un colpo in testa nella villa che aveva nei pressi di San Pietroburgo.
A due settimane fa risale un’altra caduta dall’alto. Quella del finanziere Dan Rapoport, di origine lettone, che aveva fatto fortuna in Russia e che è stato un vivace critico del governo di Putin. Rapoport è precipitato da un palazzo a Washington.
La morte dal sesto piano del super manager Lukoil che osò criticare la guerra. Roberto Fabbri su Il Giornale il 2 settembre 2022.
Nella Russia di Putin certi privilegi di epoca sovietica sono rimasti immutati. Esistono tuttora, per dirne una, ospedali e sanatori riservati alla «nomenklatura», termine che fin dai tempi del regime comunista indica il vertice del potere politico ed economico. Nell'Ospedale Clinico Centrale di Mosca era ricoverato Mikhail Gorbaciov prima della morte sopravvenuta martedì scorso. E fino a ieri, al sesto piano, vi era in cura anche Ravil Maganov, presidente del Consiglio di amministrazione di Lukoil, colosso del petrolio e secondo produttore di greggio in Russia. La posizione di potere non ha salvato Maganov, che aveva 67 anni, da una fine drammatica: alle 7.30 del mattino è precipitato da una finestra, schiantandosi in un cortile e morendo sul colpo.
Secondo fonti di polizia, Maganov si sarebbe suicidato. È noto (lo riporta l'affidabile quotidiano economico russo Kommersant) che il top manager aveva avuto un infarto e che soffriva di depressione. Ma è anche vero, a far dubitare di una morte cercata volontariamente, che Maganov è il secondo tra i massimi dirigenti di Lukoil nel giro di pochi mesi a perdere la vita in circostanze poco chiare. L'8 maggio scorso, in seguito alla scoperta in un appartamento del corpo del top manager Aleksandr Subbotin, la polizia russa aveva aperto un'indagine per sospetto omicidio, concludendo poi essersi trattato di morte naturale per crisi cardiaca.
A far dubitare di un suicidio, soprattutto, ci sono due elementi. Il primo è che Lukoil che a differenza di Gazprom e di Rosneft non appartiene allo Stato - è stata una delle pochissime grandi imprese russe a correre il rischio di esporsi chiedendo apertamente la fine dell'invasione dell'Ucraina ordinata da Vladimir Putin lo scorso 24 febbraio. Già all'inizio di marzo, in una lettera agli azionisti, la compagnia petrolifera dichiarava ufficialmente di schierarsi in favore di «una immediata cessazione del conflitto armato e della doverosa ricerca di una sua soluzione attraverso un processo negoziale e mezzi diplomatici», oltre a esprimere «la più profonda solidarietà a tutti coloro che sono toccati da questa tragedia»: molto difficile che Putin abbia tollerato una così esplicita sconfessione. Va anche ricordato che il fondatore di Lukoil, Vagit Alekperov, che aveva conservato il suo posto in seguito a un'intesa di fatto imposta dal Cremlino, si era invece dimesso nell'aprile scorso dopo essersi visto bloccare i beni in Inghilterra.
Il secondo punto è la notoria esistenza di una guerra di tipo mafioso tra fazioni oligarchiche che, all'ombra di uno «zar» garante di ogni e qualsiasi concessione statale, si contendono il controllo degli immensi guadagni derivanti dalla gestione del settore energetico nazionale. Una guerra spietata, nella quale si sono già contate tra i top manager di colossi energetici una decina di morti più che sospette, ma regolarmente definite suicidi dagli investigatori russi: spiccano i «suicidi» (aprile scorso in Spagna) dell'ex manager di Novatek Sergei Protosenja, di sua moglie e della loro figlia diciottenne; il giorno prima erano stati trovati morti in un appartamento di Mosca l'ex vicepresidente di Gazprombank Vladislav Avayev, sua moglie e il loro figlio di 13 anni.
Una guerra, peraltro, avviata a fini di arricchimento già una quindicina di anni fa da Putin in persona e dal suo giro di fedelissimi («siloviki») provenienti dal mondo del Kgb. La sua prima celebre vittima non in senso omicida, a differenza di altri casi era stato l'oligarca Mikhail Khodorkovskij, che si era visto espropriare il colosso degli idrocarburi Yukos, finito nelle mani di amici di Putin come Igor Secin mentre il vecchio proprietario veniva spedito in Siberia a scontare dieci anni di carcere duro.
Tommaso Carboni per lastampa.it il 21 agosto 2022.
Nello sforzo di contenere la Russia e il suo attacco ingiustificato all’Ucraina, l’Occidente ha imposto sanzioni di varia natura sulle persone che sostengono il regime di Vladimir Putin. In questa lista ci sono ministri e deputati, oligarchi e amici personali del presidente russo, comandanti militari e dirigenti di società statali. Ci sono anche noti propagandisti.
Il falco paranoide Vladimir Solovyov, tra l’altro proprietario di una villa sul lago di Como; c’è Dmitry Kiselyov, direttore dell'agenzia d'informazione Rossiya Segodnya; ci sono Margarita Simonyan, amministratrice delegata di Russia Today, e Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, e Olga Skabeyeva, altra conduttrice tv pro Cremlino. Le sanzioni poi hanno colpito personaggi meno importanti come Artyom Sheinin o Sergei Brylyov.
Si può essere d’accordo o meno sul sanzionare i giornalisti più sfacciatamente pro Cremlino, punendoli in sostanza per le loro parole. Eppure non si può non accorgersi che c’è un intero gruppo di persone – intellettuali, che lavorano anche loro con parole e idee – che sono sfuggite quasi completamente al perimetro sanzionatorio occidentale. Lo fa notare un editoriale uscito poco fa sul Moscow Times, giornale online che aveva sede a Mosca e si è trasferito ad Amsterdam dopo l’invasione del 24 febbraio.
Vladislav Inozemtsev, l’autore dell’articolo, scrive che “le sanzioni, concentrandosi sui semplici propagandisti, hanno dimenticato obiettivi molto più importanti. Coloro che hanno creato l'ideologia russa moderna e l'hanno attivamente diffusa per anni non sono stati toccati”.
Si tratta di esperti di relazioni internazionali e politologi. Putin non è un dilettante impazzito, fa notare giustamente Inozemtsev, ma un leader che segue in modo abbastanza consequenziale il canovaccio tracciato da questo gruppo di intellettuali. Uno dei più noti è Sergey Karaganov: stretto consigliere prima di Boris Eltsin poi di Putin, preside della Facoltà di Economia e Affari Internazionali dell’Università di Mosca, è stato anche parte del direttivo internazionale del Council on Foreign Relations, uno più influenti think tank americani di politica estera.
Non c’è dubbio che appartengano a Karaganov molte delle idee con cui Mosca ha giustificato l’invasione dell’Ucraina. Come prima cosa, secondo Karaganov, il crollo dell’URSS avrebbe lasciato i popoli attorno alla Russia, compreso quello ucraino, privi di un vero senso di nazionalità e quindi incapaci di affermarsi come stati sovrani.
Da ciò deriverebbe la missione del Cremlino di costruire un’unione eurasiatica incentrata sul predominio di Mosca (anche per proteggere i diritti dei russofoni sparsi nella regione). Per far questo, afferma Karaganov, la Russia sarebbe autorizzata a riscrivere l’ordine della sicurezza mondiale ed europea, se necessario usando la forza.
“Oggi siamo entrati in un periodo piuttosto acuto, credo, di dieci anni di demolizione attiva delle regole del gioco creato dall'Occidente dopo il crollo dell'URSS”, ha detto Karaganov in un’intervista recente. E ha aggiunto: “Se mi chiedeste cosa vorrei ottenere alla fine, risponderò che non vorrei riprodurre nemmeno il sistema di Yalta, ma il ‘concerto delle grandi potenze’ che si è creato in seguito agli esiti delle guerre napoleoniche”.
Gli altri ideologi indicati dal Moscow Times sono Fyodor Lukyanov e Timofei Bordachev. Questo trio – scrive Vladislav Inozemtsev – insieme a Dmitry Suslov, Andrei Ilnitsky e Andrei Sushentsov ha glorificato per anni la svolta verso est della Russia, “sostenendo che l'alleanza di Mosca con Pechino avrebbe posto fine alla supremazia dell’America”.
Questi intellettuali sono gli ideatori della cosiddetta “dottrina Putin”, che – secondo Foreign Affairs – implica “il rovesciamento delle conseguenze del crollo sovietico”, e consiste nel “dividere l'alleanza transatlantica e rinegoziare l'assetto geografico che pose fine alla Guerra Fredda".
Tra gli strumenti di propaganda ideologica, spiega il Moscow Times, ha avuto un ruolo determinante il forum e think tank moscovita Valdai Discussion Club. Per anni questo club ha intrattenuto rapporti con accademici e politici occidentali, “influenzandoli - scrive Inozemtsev – “e portandoli in Russia per ‘dibattiti scientifici’ culminati in incontri annuali con Sergei Lavrov, Dmitry Medvedev e Vladimir Putin”.
C’è da dire che questi incontri avrebbero potuto anche essere utili, se solo i politici e gli accademici in questione avessero preso sul serio le idee dei loro colleghi russi. Il Moscow Times osserva che “a nessuno di questi brillanti visionari e pensatori è mai stato vietato di viaggiare in Europa e ancora oggi sono ospiti frequenti dei media occidentali”.
In alcuni casi – continua il Moscow Times - questi intellettuali russi starebbero cercando oggi di riposizionarsi nel mondo accademico occidentale, “se gli sforzi di Putin dovessero fallire”. Ma c’è almeno un politologo a cui questo cambio di casacca è sicuramente precluso.
È l’ultra reazionario Alex Dugin, il più radicale e appariscente del gruppo, colpito da sanzioni nel 2015 per aver fomentato le violenze in Donbass. Non è chiaro quanto la leadership russa lo ascolti davvero, anche perché l’Università di Mosca lo ha allontanato. All’indomani dell’invasione, Dugin ha spiegato in questi termini la guerra in Ucraina: “Non si tratta solo di denazificare il paese e proteggere il Donbass, è una battaglia contro l’Occidente, cioè l’Anticristo”.
In effetti la domanda posta dal Moscow Times è abbastanza legittima: che senso ha sanzionare persone come Maria Zakharova (portavoce del ministero degli Esteri russo), se poi si lasciano indisturbati i professori che l’hanno istruita in quel modo? All’Università statale per le relazioni internazionali di Mosca, secondo il Moscow Times, il rettore Anatoly Torkunov e professori come Alexei Podberyozkin “stanno facendo del loro meglio per trasformare l’ateneo in una fabbrica che produce sempre più laureati alla ‘Zakharova’ che insistono sulla supremazia russa e sul potere della forza, non delle regole, nella politica globale”.
Colpire intellettuali per le loro idee è sempre delicato e molto opinabile, ma la vera questione non è nemmeno questa. L’articolo del Moscow Times ci ricorda che alla base putinismo c’è un corpo di dottrine che si è sviluppato alla luce del sole negli ultimi 25 anni. "La guerra si spiega con decisioni maturate dentro lo stato russo”, ha spiegato lo storico Andrea Graziosi, docente all'Università di Napoli Federico II, autore di saggi sull’Unione Sovietica tradotti in tutto il mondo. “È davvero superficiale non leggere quello che dicono i russi del perché l’hanno cominciata. Non dicono che l’hanno fatto per paura della Nato, cui si accenna in qualche documento; dicono di averlo fatto per cambiare l’ordine mondiale nato nel 1991 e che questo era il momento giusto per farlo".
Anna Zafesova per “La Stampa” il 20 agosto 2022.
Viktor Galdobin aveva 49 anni, amava le moto, scriveva poesie, aiutava i cani randagi. Non amava Putin e la sua guerra, argomento sul quale aveva litigato con tutti, colleghi e amici, e perfino con suo padre, un ex poliziotto. È stato ucciso a pugni e calci nella sala biliardo del suo villaggio Bolshaya Martynovka, nei pressi di Rostov-sul-Don.
Gli assassini hanno trasmesso l'esecuzione in diretta su Instagram: si vedono due ragazzi picchiare un uomo che non si difende, e urlare «Gloria all'Ucraina?! Frocio, vaff..., ti piace l'Ucraina?! Prendi, c...!». Si sentono le risate e il grido di una donna «uccidilo, uccidilo, c...».
Il video ha girato nei social del Sud della Russia, ricondiviso e commentato con faccini sorridenti. I due assassini non hanno nascosto i loro nomi e nickname, ma la magistratura sta indagando su un omicidio colposo senza aggravanti: «Nel nostro villaggio non puoi dire che simpatizzi per l'Ucraina, ti ammazzano», ha raccontato un amico di Galdobin al giornale online Vyorstka, che ha rivelato la storia.
Già dopo l'uscita dell'articolo, il club di biker di cui faceva parte Galdobin ha chiesto di non menzionarlo: «Per noi il fatto che uno dei nostri membri fosse un oppositore è un insulto», ha scritto con numerosi errori di ortografia il suo direttore.
La guerra in Ucraina infuria a pochi chilometri da Rostov, ma è in corso anche dall'altra parte del confine. Il 15 agosto, un ufficiale dell'esercito russo ha usato come ultimo argomento in una discussione con un tassista contrario all'invasione una pistola, uccidendolo con quattro colpi a bruciapelo.
Pochi giorni prima, un moscovita ha accoltellato un vicino critico della guerra, per poi consegnarsi alla polizia invocando l'attenuante della «rabbia per gli insulti ai nostri militari». I casi di aggressioni, botte e denunce contro chi simpatizza per l'Ucraina (o chi viene scambiato per ucraino) sono decine, l'ultimo è di due giorni fa: uno sconosciuto ha teso un agguato all'attivista contro la guerra Mikhail Baranov, gettandogli in faccia un liquido verde. Mikhail era già stato minacciato, e sulla porta del suo appartamento era apparsa la scritta "traditore".
Ma nel mirino non finiscono soltanto i dissidenti. Un marito moscovita ha denunciato la moglie perché «educa nostra figlia a criticare il presidente». Un intero ufficio di Pushkino ha consegnato alle autorità una collega che «simpatizza per Zelensky e racconta falsità sulle atrocità commesse dai russi contro civili ucraini». Una classe di liceali ha chiamato la polizia per la professoressa di inglese che criticava la guerra. Una donna ha chiamato la polizia per cercare l'ignoto vicino che aveva dato al suo wi-fi di casa il nome "Gloria all'Ucraina": lo aveva visto apparire sul suo telefonino, e l'ha considerato una minaccia alla sicurezza del condominio.
Una vecchietta ha attirato l'attenzione su una ragazza che lasciava volantini contro la guerra al supermercato: il guardiano del negozio non le ha prestato ascolto, ma la babushka ha insistito, e la giovane dissidente è ora in carcere e rischia di restarci per 10 anni.
Mogli che lasciano i mariti, genitori che denunciano i figli come «traditori della patria», fratelli che smettono di parlare con le sorelle: il documentario di Andrey Loshak "Legami spezzati" mostra una Russia che torna nella modalità della guerra civile. Mentre in Europa si discute di come sanzionare i turisti russi senza punire i dissidenti, e l'Ucraina si convince sempre di più che dall'altra parte del confine abitino soltanto complici più o meno espliciti di Putin, in Russia migliaia di persone vengono arrestate e condannate per aver manifestato e protestato contro la guerra.
Lo Stato lancia il segnale: «La violenza verso un altro Paese autorizza anche i cittadini a usare la forza, soprattutto verso i nemici della nazione», spiega a Vyorstka il sociologo Artemiy Vvedensky, che teme un aumento della "disumanizzazione" dei russi. La repressione poliziesca sta crescendo: l'avventore di un bar crimeano è stato condannato per aver chiesto al DJ di mettere un rap ucraino (mille euro di multa, più 10 giorni di carcere al DJ), e a Omsk un uomo è stato picchiato dalla polizia per aver esibito lo stemma del tridente ucraino.
È il "fascismo putiniano" denunciato dal dissidente solitario Viktor Galdobin, ucciso proprio da quei seguaci del presidente che riteneva «ubriaconi disperati e incattiviti», e che odiava con la stessa intensità con la quale gli ucraini odiano e disprezzano gli "orchi" russi, venuti dalla provincia profonda a uccidere e saccheggiare. È una guerra che passa su una linea generazionale, ma anche lungo la frattura storica tra popolo ed élite, con la seconda terrorizzata dal primo quanto incapace di dargli una dimensione civile, una parabola raccontata magistralmente in "Cuore di cane" di Mikhail Bulgakov, in una cultura che parla ancora di "popolo" e non di "cittadini".
Ma mentre l'intellighenzia e la neoborghesia scelgono, per l'ennesima volta nell'ultimo secolo, tra la fuga e il conformismo, sono proprio i rappresentanti del "popolo" a sfidare il pensiero unico putinista: Galdobin era uno scaricatore che abitava in una borgata, e Pavel Filatiev, ex parà di Volgograd, che ha appena messo online "Zov", una denuncia violenta della brutalità dell'esercito russo in Ucraina, è un "orco".
Secondo le indiscrezioni che girano in rete, ad opporsi alla guerra sono più della metà dei russi, e non il 15% dei sondaggi ufficiali, ma misurare la protesta latente in una dittatura è impossibile. Non resta che seguire i segnali indiretti di una resistenza nascosta: le scritte che appaiono nella metropolitana e sui muri, l'epidemia di binari danneggiati sotto i treni che portano armi al fronte, e di commissariati militari bruciati, i soldati che si licenziano a centinaia, costringendo il regime a reclutare i detenuti.
Il fronte interno di Putin non sono soltanto i dissidenti "agenti stranieri", passa anche dal "popolo" del quale si sentiva adorato. Del resto, già Lenin aveva teorizzato che la rivoluzione in Russia si ottiene trasformando «una guerra imperialista in una guerra civile».
La figlia di Dugin, l’ideologo di Putin, morta nell’esplosione della sua auto a Mosca. Probabile attentato. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.
Il padre della donna è l’ideologo che sta ispirando la politica di Vladimir Putin. La vittima stava viaggiando sulla sua vettura lungo un’autostrada alle porte di Mosca
La figlia di Alexander Dugin, l’ideologo ispiratore delle politiche ultranazionaliste di Vladimir Putin, è morta nella sera di sabato alle porte di Mosca nell’esplosione della sua auto. L’episodio ha tutti i contorni di un attentato anche se mancano conferme ufficiali. La Toyota Land Cruiser Prado (di proprietà del padre) sulla quale viaggiava Darya Dugina, 30 anni, è saltata in aria mentre percorreva un’autostrada alle porte di Mosca. La notizia è stata anticipata dal sito russo Moscow Komsomolets che a sua volta ha citato canali Telegram di persone vicine a Dugin. Più tardi anche l’agenzia Tass ha confermato la notizia.
* L’esplosione - Alcuni video pubblicati a tarda sera su profili social mostrano l’auto in fiamme, un suv, ai bordi della strada. In uno di questi si scorge anche Alexander Dugin in persona recarsi sul posto e coprirsi il volto in segno di disperazione davanti alla carcassa dell’auto. Secondo fonti russe l’esplosione è avvenuta attorno alle 22 (ora di Mosca) lungo l’autostrada Mozhayskoye, non lontano dal villaggio di Bolshie Vyazemy. I rottami dell’auto sono finiti sparpagliati lungo la carreggiata; la polizia inizialmente pensava allo scoppio di una bombola di gas ma successivamente è divenuta prevalente l’ipotesi di un ordigno piazzato a bordo del mezzo.
* Le ipotesi - Secondo alcune voci circolate in serata l’obiettivo dell’attentato avrebbe dovuto essere Dugin in persona ma il filosofo all’ultimo momento non è salito sulla Land Cruiser assieme alla figlia. Dugin padre si sarebbe trovato su un’auto che seguiva quella di Darya; questo spiegherebbe la sua presenza sul luogo dell’attentato pochi istanti dopo l’esplosione. Padre e figlia stavano rientrando a Mosca dopo aver preso parte a un festival a Zakharovo. Il leader della repubblica separatista del Donetsk, Denis Pushilin, ha confermato la notizia della morte di Darya Dugina, attribuendo l’attentato - secondo quanto riporta l’agenzia Novosti - a «terroristi legati al regime ucraino».
* Chi è Dugin - Alexander Dugin, ideologo e esperto di geopolitica, padre della «Quarta teoria politica», è come detto ispiratore della linea del Cremlino degli ultimi anni, sfociata nell’invasione dell’Ucraina. Ultranazionalista e conservatore, nemico dei principi liberali, egli immagina l’esistenza di un’area «eurasiatica» comune, comprendente appunto Europa e Russia che si deve contrapporre agli Stati Uniti, alla sua cultura, alla sua visione politica ritenuta prevaricatrice. Ruolo della Russia sarebbe dunque quello di rompere o indebolire l’asse occidentale allontanando i Paesi europei da Washington. In questa chiave Dugin ha sostenuto l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca. È inoltre sostenitore di una religione ortodossa estremamente tradizionalista, contraria ai diritti e alle libertà individuali alle quali opporre invece l’appartenenza a una comunità identitaria. Per queste sue posizioni è bersaglio di sanzioni già da diversi anni da parte di alcuni governi, ad esempio gli Stati Uniti e il Canada.
* Chi è la vittima - Anche Darya Dugina, 30 anni, era stata colpita da analoghi provvedimenti : della donna si sa che si è laureata in filosofia a Mosca nel 2015. Anche lei si stava affermando come analista geopolitica, sulle orme del padre. Anch’ella era sostenitrice del Movimento eurasiatico guidato dallo stesso Dugin. Il 4 giugno scorso fu inclusa nella lista delle persone sanzionate dal governo del Regno Unito (tra loro il magnate Roman Abramovic) per avere espresso appoggio o promosso politiche favorevoli all’aggressione russa dell’Ucraina. Figurava al numero 244 dell’elenco delle 1.331 persone fisiche sanzionate, quale «autore di alto profilo della disinformazione circa l’Ucraina e riguardo all’invasione russa dell’Ucraina su varie piattaforme online», nonché responsabile per il supporto e la promozione di politiche o iniziative di destabilizzazione dell’Ucraina per comprometterne o minacciarne «l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza».
Fabrizio Dragosei per corriere.it il 21 agosto 2022.
Un attentato che segue di poche ore gli attacchi contro i militari russi in Crimea — che pure non sono stati ufficialmente rivendicati da nessuno. Ma per molti in Russia, come ha detto esplicitamente anche la tv nazionalista Tsargrad, c’è la mano di Kiev dietro l’attentato che ha causato, nella notte tra sabato 20 e domenica 21, la morte di Darya Dugina, figlia dell’ideologo di Putin Alexander Dugin.
Che avrebbe agito con l’ intento di far capire a tutti gli abitanti del Grande Paese che l’Operazione militare speciale è in realtà una guerra vera e propria. E che la guerra non risparmia nessuno — e non si combatte solamente «altrove». Se verrà mai confermata la matrice ucraina (ma è difficile che un atto terroristico come questo venga mai firmato), la distruzione della Toyota è innanzitutto un messaggio a Vladimir Putin che considera l’ideologo Dugin come una specie di padre spirituale. E a tutti i silovikì (quelli che provengono dalle forze armate e dai servizi di sicurezza) che circondano il leader russo.
Da ieri sera nessuno è più al sicuro o al di là della portata dei «partigiani» ucraini. Gli Stati Uniti e la Nato, che stanno rifornendo il Paese aggredito con artiglieria pesante e a lunga gittata, hanno ottenuto la rassicurazione che le nuove armi non sarebbero state usate per indirizzare i colpi verso il territorio della Russia.
Lo Stato Maggiore di Zelensky sta rispettando questa consegna, ma ha deciso di ricorrere ad altri strumenti, a cominciare dai droni (come quello che si è schiantato sul comando della flotta russa del Mar Nero) che non rischiano di innescare uno scontro diretto tra Mosca e l’Occidente.
E poi è iniziata l’attività dei partigiani ucraini dietro le linee nemiche. Bandiere e murales che compaiono ovunque, azioni di sabotaggio nelle retrovie, dal Donbass alla Bielorussia.
L’esplosione dell’auto sulla quale si trovava la figlia del filosofo Dugin (e sulla quale originariamente doveva essere pure lui) è un altro passo su questa strada?
Portare la guerra nel cuore della Russia fu la strategia che adottarono gli indipendentisti ceceni alla fine degli anni Novanta, quando innescarono una serie di attentati in varie città russe, compresa la capitale. A Grozny si muore per mano russa e ora noi facciamo vedere agli stessi russi cosa vuol dire avere il nemico in casa, era la tesi dei leader ceceni più radicali.
Ma quella strategia non ebbe successo. Anzi, servì a compattare la popolazione dietro alle autorità e a lanciare in orbita Vladimir Putin appena nominato primo ministro che divenne popolarissimo con la sua promessa di «andare ad ammazzare i terroristi fino nel cesso».
Il fallimento di quelle iniziative fu talmente clamoroso che gli oppositori del potere si dissero convinti che alcuni di quegli attentati, come quello sventato all’ultimo momento nel settembre 1999 in un palazzo di Ryazan (a sud di Mosca), fossero stati organizzati dagli stessi servizi segreti russi proprio per alimentare la «strategia della tensione». Accusa sempre sdegnosamente respinta da Putin.
L’uccisione di Daria Dugina ha già scatenato richieste di ritorsioni immediate e violentissime contro il «Reich ucraino», come viene chiamato il governo di Kiev. E Putin, o i super falchi che lo circondano, potrebbero trarne spunto per colpire anche quelle aree che fino ad ora sono rimaste fuori dalla guerra o per ricorrere a nuovi, più pesanti strumenti bellici.
Gli Usa: “C’è Kiev dietro l’attentato alla figlia di Dugin”. Scoop clamoroso del New York Times sull’assassinio dello scorso agosto. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 6 Ottobre 2022.
Dopo l’annessione delle quattro regioni ucraine, con referendum già ratificato dai deputati russi della Duma, arriva un nuovo decreto da parte di Vladimir Putin: la centrale nucleare di Zaporizhzhya è nella lista degli asset federali di Mosca. La città fa parte dell’omonimo oblast – uno dei quattro oblast del referendum di pochi giorni fa – ma ora il Cremlino ne ha ufficializzato la formale nazionalizzazione.
Nel frattempo, sul campo di battaglia, prosegue imperterrita l’offensiva ucraina. Parte delle forze russe avrebbe lasciato la città di Snigur Ivka, snodo ferroviario cruciale circa gli esiti del conflitto locale, nella regione di Mykolaiv, a cui si affianca l’inizio della “liberazione della regione di Lugansk”, così come riferito dal governo di Kiev.
Anche lo scenario internazionale continua a destare numerose preoccupazioni. Il portavoce alla presidenza di Putin, Peskov, ha affermato che gli Stati Uniti sono diventati “parte diretta del conflitto”, specificando la responsabilità della Casa Bianca nell’aver “creato una situazione molto pericolosa nel conflitto”.
Ed è proprio da Oltreoceano che arrivano clamorose notizie. Secondo l’intelligence americana, infatti, dietro all’omicidio di Daria Dugina, la figlia del filosofo nazionalista Aleksandr Dugin, da molti considerato l’ideologo di Putin, avvenuta poche settimane fa, ci sarebbe proprio l’esecutivo di Zelensky. “Parti del governo” di Kiev, stando a quanto riportato dal New York Times, avrebbero autorizzato l’attentato alla trentenne, che il 23 agosto è stata fatta saltare in aria nella sua macchina. Il quotidiano della Grande Mela ha però ribadito la totale estraneità di Washington all’assassinio, condannato anche dal Papa: “Gli Usa non hanno preso parte all’attacco, né fornendo informazioni, né altre forme di assistenza”, ma l’azione sarebbe un’operazione autonoma dei servizi segreti ucraini.
Il Nyt, inoltre, ha specificato come il reale obiettivo fosse il padre di Daria, Aleksandr. Intanto, il consigliere della presidenza ucraina ha ribadito la totale estraneità ai fatti del Paese, affermando: “In tempi di guerra, ogni omicidio deve avere un senso, tattico o strategico. Dugin non era un obiettivo tattico e strategico per l’Ucraina”.
Il giornale americano ha citato fonti dei servizi statunitensi; nei mesi scorsi, in effetti, si sono verificate alcune operazioni di Kiev, che sono state compiute all’oscuro degli alleati americani. A fine aprile, per esempio, Joe Biden contestò al governo Zelensky di non inviare i reali numeri del bollettino di guerra, sottostimando quelli ucraini e facendo il contrario con i feriti ed i decessi delle truppe russe.
Allo stesso tempo, rimane difficile pensare che membri dei servizi ucraini possano essere riusciti a raggiungere Mosca, in tempi di piena guerra, e programmare indisturbati un attentato nel fulcro della Federazione Russa. Sin da subito, il Cremlino ha incolpato il “regime nazista ucraino”; ma se la versione del New York Times fosse confermata, una della poche ipotesi plausibili potrebbe essere quella del tradimento da parte di una talpa russa, subordinata agli ordini del nemico di Kiev.
Il mistero continua a infittirsi. Ma non può essere escluso che la notizia venga poi utilizzata dai russi, come monito per azioni ben più “radioattive” di quelle attuate finora. Matteo Milanesi, 6 ottobre 2022
Chi ha ucciso Darya, la figlia di Dugin, a Mosca? Partigiani ucraini o oppositori interni? Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.
La falla nella difesa che ha portato all’attentato in cui è morta Darya Dugina è un imbarazzo per il Cremlino, che nelle ultime ore ha subìto anche gli attacchi ucraini sul territorio della Crimea
Ogni conflitto ha il suo lato oscuro, i misteri, le triple verità e l’assassinio di Darya Dugina rientra in uno scenario dove vale tutto.
Intanto c’è la Storia. Omicidi e agguati sono diventati una costante nello scontro tra i due popoli fin dalla Guerra fredda. Con nazionalisti fatti fuori all’estero ricorrendo ai veleni e gli incursori paracadutati dietro le linee in missioni con poche possibilità di sopravvivere. C’è spazio per le attività clandestine ma anche per le faide interne e le provocazioni. Le prime possono fare da schermo al resto. Ilya Ponomariev, ex deputato della Duma, critico del Cremlino e riparato a Kiev, ha invece indicato la pista di un gruppo russo anti-Putin, l’Esercito repubblicano nazionale. E aggiunge: altre mosse seguiranno. Ipotesi che ha bisogno di riscontri, come le altre.
Gli ucraini hanno dimostrato di poter organizzare sabotaggi, episodi cresciuti dopo l’inizio della crisi, con una combinazione di attacchi di forze speciali e partigiani in territorio russo e aree occupate. Mestiere, denaro, complicità aiutano ad arrivare lontano. Come i loro rivali. I servizi segreti di Mosca sono stati sospettati di aver innescato esplosioni in fabbriche di armi all’estero — ad esempio nella Repubblica Ceca nel 2014 —, depositi dai quali partivano armi destinate all’Ucraina.
Vicende con molti condizionali. Che continuano. Sabato due russi e un ucraino sono stati fermati mentre cercavano di entrare in un vecchio impianto militare in Albania. Una volta scoperti hanno usato un gas urticante ferendo un paio di guardie. Storia da decifrare. Come è da decriptare quanto è avvenuto nella regione ucraina di Kirovohard dove è stato freddato con un solo proiettile il capo dell’intelligence locale Oleksandr Nakonechny. Un delitto che segue settimane tempestose per gli agenti di Zelensky, con alcuni dirigenti importanti rimossi a segnalare regolamenti di conti personali o politici. E questo si lega al «clima» di Mosca.
I Dugin rappresentano dei bersagli dal valore simbolico, megafoni del nazionalismo, figure controverse, ideali per «spaccare» da vivi e da morti. L’attentato — chiunque sia il colpevole — rappresenta una falla nel cerchio di difesa. Alimenta dubbi, può innescare la caccia al traditore poiché qualcuno è riuscito, se è vera la ricostruzione, a collocare l’esplosivo sul Suv. Sono venute meno le regole di prevenzione. O semplicemente pensavano che nessuno avrebbe osato toccarli e non le avevano adottate. Dicono che il fuoristrada non fosse vigilato. Gli assassini, quindi, hanno messo insieme opportunità e target. Notevoli le similitudini nel duello Israele-Iran, con scienziati e generali fatti fuori in operazioni non rivendicate. Una partita definita segreta che si svolge però sotto gli occhi di tutti.
Sono fendenti in profondità, un imbarazzo per il Cremlino: non riesce a proteggere la Crimea e assiste a un attentato contro una personalità nota anche all’estero. Fatti con un margine di negabilità. L’incursione di un drone-kamikaze, il killer mascherato, la sostanza tossica nel cibo, una bomba magnetica piazzata sotto la vettura permettono a chi colpisce di mantenere una distanza dall’attacco. A sua volta, chi subisce può decidere quale tesi portare avanti. Infatti i separatisti del Donbass hanno subito chiamato in causa l’Ucraina mentre alcuni osservatori non escludono la provocazione, la manovra per ottenere svolte radicali usando il corpo di Darya.
Per questo è uno strumento di lotta «amato» in certe fasi. Consente di agire con libertà, di destabilizzare e nascondere la mano. Al tempo stesso, a forza di ripetere atti simili e lasciando intendere che ci sia un coinvolgimento, autorizzi l’avversario ad accusarti. Anche se sei estraneo. Vale per Kiev che allude al karma e alle sigarette quando saltano per aria gli impianti in Russia, vale per Mosca che ha liquidato gli oppositori all’estero.
L’eventuale coinvolgimento, vero o presunto, degli ucraini può scatenare una reazione a catena. I russi cercheranno la loro vendetta, il campo della battaglia si allarga, i rappresentanti dell’establishment avversario finiscono nel mirino. In realtà lo erano già — basti pensare agli allarmi per Zelensky protetto da un triplo scudo — ma l’eliminazione della Dugina li espone ancora di più.
Aleksandr Dugin, il filosofo nazionalista che piace a Putin e ha molti amici in Italia. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.
(Ex) sodale di Limonov, fautore di un terzo impero contro le «diaboliche» democrazie occidentali, vanta contatti la Lega e in ambienti di destra: c’è anche una foto con Gianluca Savoini e Diego Fusaro
Ideologo ispirato e ascoltato dallo stesso leader del Cremlino, ma soprattutto fonte inesauribile di teorie più o meno deliranti, tutte volte a giustificare e a «santificare» l’intervento militare in Ucraina.
Aleksandr Dugin potrebbe essere finito nelle mire dei terroristi (ucraini o interni) non per le sue affermazioni su Mosca vista come terza Roma (dopo i due imperi di Occidente e d’Oriente) ma magari per i suoi inviti espliciti ad azioni belliche ancora più incisive e devastanti nei confronti dei nemici che in Ucraina si ostinano «a resistere». La Russia, aveva scritto sabato su un canale Telegram, «ha lanciato apertamente una sfida all’Occidente come civiltà e per questo adesso dobbiamo andare fino in fondo». E ancora: «La partecipazione all’Operazione militare speciale è un’impresa eroica in una guerra santa… Contro di noi c’è l’Occidente; contro di noi c’è il diavolo».
È da quando era giovane e si esibiva come cantautore rock-esoterico che Aleksandr Dugin è ossessionato da teorie che potremmo come minimo definire fuori dal comune. Ha fondato, assieme a Eduard Limonov, il partito Nazional-bolscevico nei primi anni Novanta. Un raggruppamento che voleva mettere assieme quelle che i due ritenevano essere le idee «buone» sia del nazionalsocialismo che del comunismo. I nazional-bolscevichi finirono fuori legge e comunque il movimento ebbe vita breve dopo la rottura con Limonov che riteneva Dugin troppo di destra.
Le idee sulla superiorità morale della Russia, sulla necessità di rifondare un impero per contrastare i mali che arrivavano dall’Europa, lo portarono a contatto con diversi esponenti politici, fino al grande interesse dimostrato da Vladimir Putin. Prima Dugin fu vicino a Evgenij Primakov, che negli anni Novanta aveva quasi sconfitto Eltsin alle presidenziali e stava per riportare i comunisti al potere. Poi il filosofo divenne consigliere del presidente della Duma Seleznyov e quindi dell’importante dirigente del partito putiniano Russia Unita Naryshkin (anche lui speaker della Camera bassa per un certo periodo). Negli anni Dugin ha imparato diverse lingue come autodidatta, dall’italiano, che parla correntemente, all’inglese, il francese, lo spagnolo, il tedesco e il portoghese.
Nel nostro Paese sono stati pubblicati quasi tutti i suoi libri e lui è venuto varie volte, anche per i suoi contatti con vari esponenti politici, soprattutto all’interno della Lega. Gianluca Savoini, l’uomo che per Matteo Salvini teneva i contatti con l’establishment moscovita, in primo luogo. In passato Dugin aveva espresso giudizi molto positivi sul leader leghista che intervistò per una tv quando questi volò a Mosca. Più recentemente però Dugin si è detto deluso dalla svolta di Salvini e ha voluto prendere le distanze da lui: «La sua trasformazione in senso atlantista e liberale è un peccato», ha detto in un’intervista. Positivi invece ultimamente i giudizi su Giorgia Meloni, lontana «dalle politiche fallimentari del globalista e liberale Draghi».
Con Draghi se l’è presa qualche giorno fa anche il sito della figlia di Dugin, che definisce il presidente del Consiglio un «collaborazionista degli americani». L’articolo non è firmato da Darya ma da un collaboratore italiano che invita gli elettori a orientarsi su raggruppamenti che chiedono l’uscita del nostro paese dalla Nato, dall’Unione Europea, dall’euro, eccetera.
Con Putin non c’è una collaborazione ufficiale e Dugin non ha alcun ruolo all’interno del governo o dell’amministrazione del Cremlino. Ma si sa che il presidente lo stima molto e apprezza le sue idee sulla nascita di un grande impero euroasiatico in grado di contrastare le idee di democrazia e libertà che vengono da Ovest e che sono considerate dannosissime per la Russia e per il mondo intero. Si ispira a molte delle cose dette da Dugin il famigerato articolo fatto pubblicare dallo zar per spiegare ai russi e al mondo l’inesistenza di una Ucraina autonoma e separata dalla «madrepatria». Alcune delle affermazioni contenute in quel testo sembrano provenire interamente dalle chilometriche elucubrazioni di Dugin.
La donna accusata della morte di Dugina: la figlia dodicenne, la fuga in Estonia. Cosa dicono i russi. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.
Mosca annuncia la soluzione del caso a tempo di record. Una Mata Hari con figlia al seguito arrivata da Kiev è la «versione perfetta». Ma mette in cattiva luce l’efficienza degli apparati di sicurezza russi.
Mosca annuncia a tempo di record la soluzione dell’omicidio di Darya Dugina ed accusa – di nuovo – l’intelligence di Kiev. Una tesi — scontata — che può portare a conseguenze serie. Per gli inquirenti ad agire sarebbe stata Natalia Pavlovna Vovk, di nazionalità ucraina. L’FSB afferma che la donna, legata al Battaglione Azov, sarebbe arrivata nel paese in luglio insieme alla figlia dodicenne e avrebbe monitorato le abitudini della Dugina. La sua base d’appoggio era un appartamento in affitto. Compiuto l’attacco è fuggita in Estonia. Un lungo percorso parte di un’operazione complessa e ben pianificata. Almeno questo è ciò che ripetono dalla Russia. I servizi hanno diffuso al momento un video dove mostrano la principale sospetta quando entra in auto nel paese e alla sua partenza con relativi controlli, uno scambio di targhe della sua Mini (kazake al posto di quella ucraina), uno spezzone davanti ad un edificio. C’è qualche dubbio di autenticità sul tesserino militare attribuiti dagli investigatori alla Vovk, potrebbe essere stato manipolato con photoshop. In queste ore è uno scambio continuo di illazioni, contro-verità, indiscrezioni fumose.
Vedremo nelle prossime ore se il dossier si arricchirà di informazioni, da valutare e verificare. L’ordigno era composto da circa 400 grammi d’esplosivo collocati sotto il sedile del guidatore. Il Suv apparteneva alla figlia dell’ideologo nazionalista, quindi non vi sarebbe stato scambio di auto come detto in un primo momento. La bomba è stata attivata in remoto, ipotizzano fosse collegata ad un cellulare usa e getta. L’attentatore seguiva il bersaglio, ha chiamato il numero innescando la carica. Dettaglio che porterebbe ad escludere l’errore di persona.
Da dove viene l’esplosivo? Acquistato sul mercato nero del crimine? Portato da fuori? L’esplosione è avvenuta quando l’auto era sulla strada e non nel parcheggio dell’evento, altro dato che conferma come la Dugina fosse tenuta d’occhio. Un omicidio mirato senza conseguenze per eventuali passanti. La tattica di ordigni magnetici è molto diffusa, impiegata da tanti servizi segreti e gruppi estremisti. Perché puoi applicarli nel momento più favorevole, tuttavia non sono mancati episodi dove gli assassini l’hanno «inserita» da moto in corsa.
Il killer ha studiato il target. Darya aveva partecipato ad un evento insieme al padre. Si deve presumere che il veicolo sia rimasto incustodito e non fosse sorvegliato. Dall’altra parte non siamo al fronte ma nel cuore della Russia e la Dugina evidentemente non si sentiva minacciata. I media hanno sostenuto che le telecamere di sicurezza non funzionavano da due settimane. Casualità o manomissione? E la trappola è stata piazzata in questo punto o in precedenza?
La versione russa è perfetta. Mette insieme il nemico ucraino, il Battaglione Azov, la mano straniera, l’eventuale copertura all’estero, la scusa per una reazione. Tutto questo per superare con un balzo l’imbarazzo per un colpo duro all’immagine della sicurezza, con un personaggio di grande visibilità messo nel mirino. Una Mata Hari con figlia al seguito – era una copertura ideale, potranno dire - ha messo in scacco un apparato gigantesco addestrato a reprimere ogni forma di dissenso. Anche minimo. La narrazione portata avanti dagli ufficiali mette in cattiva luce dispositivi agguerriti – in patria come in Crimea -, un prezzo da pagare per dare un pretesto al neo-zar. E l’accusa alla Pavlovna è un modo anche per allontanare le piste alternative. Insieme a quella che coinvolgeva l’Ucraina sono state considerate una faida interna nel mondo dell’estremismo, la provocazione, l’azione di presunti resistenti russi, l’Esercito repubblicano nazionale. Già domenica, però, molti esperti si erano detti certi che Mosca avrebbe addossato tutte le responsabilità su Kiev.
Siamo sempre in una nebulosa, facile mescolare le carte, confondere, alimentare voci. La donna ricercata magari potrebbe sapere qualcosa o essere periferica all’attentato. Non è comunque una buona aria per gli eredi del Kgb. Se l’FSB – annotano i commentatori – dice il vero significa che è stato beffato, a maggior ragione con tutta i dati che ha rilanciato in poco tempo. Se, invece, la sua è una bugia vuol dire che non è neppure riuscito a imbastire un canovaccio credibile. E non sarebbe la prima volta come ricordano le tracce lasciate in molte operazioni in Europa durante gli ultimi anni.
Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2022.
La «soluzione» a tempo di record del giallo Dugin lascia più domande che certezze. Uno sviluppo quasi scontato. L'atto di accusa contro l'ucraina Natalya Vovk è la cornice perfetta. Mette insieme il nemico del momento, l'eventuale copertura all'estero con la fuga della «colpevole» in Estonia, l'intelligence ucraina che ha dimostrato di poter far male in profondità, la scusa per una reazione. E il fatto che la donna sia ormai fuori dai confini può togliere dall'impaccio di doverla processare. Non che sia un problema ma in questo modo può diventare uno strumento di pressione verso il Paese baltico.
Tutto questo per superare con un balzo l'imbarazzo per un colpo duro alla sicurezza. Una Mata Hari con figlia al seguito - era una copertura ideale, potranno dire - ha messo in scacco un apparato gigantesco addestrato a reprimere ogni forma di dissenso. Chiamando in causa la Vovk i russi provano ad allontanare le piste alternative. In queste ore ne sono state considerate tante.
Una faida interna nel mondo dell'estremismo, la provocazione a tavolino del regime, l'iniziativa di agenti fuori controllo - un classico - persino l'azione di resistenti interni, l'«Esercito repubblicano nazionale», sigla che sarebbe pronta ad agire di nuovo. Siamo sempre in una nebulosa, facile mescolare le carte. La donna ricercata magari potrebbe sapere qualcosa o essere periferica all'attentato. Un colpo ben preparato. L'ordigno era composto da circa 400 grammi d'esplosivo collocati sotto il sedile del guidatore.
Il Suv apparteneva alla figlia dell'ideologo nazionalista, quindi non vi sarebbe stato scambio di auto come detto in un primo momento. La bomba è stata attivata in remoto, ipotizzano fosse collegata ad un cellulare usa e getta. L'attentatore seguiva il bersaglio, ha chiamato il numero innescando la carica. Dettaglio che porterebbe ad escludere l'errore di persona. Da dove viene l'esplosivo? Acquistato sul mercato nero? Portato da fuori?
L'esplosione è avvenuta quando era sulla strada e non nel parcheggio dell'evento, altro dato che conferma come la Dugina fosse tenuta d'occhio. Darya aveva partecipato ad un evento insieme al padre e si deve presumere che il veicolo - una Toyota - sia rimasto incustodito e non fosse sorvegliato. Dall'altra parte non siamo al fronte ma nel cuore della Russia e la giovane evidentemente non si sentiva minacciata. Di nessun aiuto le telecamere di sicurezza in quanto - scrivono i media locali - erano fuori uso da due settimane. Casualità o manomissione? E la trappola è stata piazzata in questo punto o in precedenza?
La verità Mosca potrà fornire risposte ma dovrà essere convincente, offrendo prove e non solo indizi. Se l'Fsb - annotano i commentatori - dice il vero significa che è stato beffato. Mai dire mai, specie quando danzano le spie. Se, invece, la sua è una bugia vuol dire che non è neppure riuscito a imbastire un canovaccio credibile. E non sarebbe la prima volta: lo dicono le missioni pasticciate condotte in Europa in questi anni.
Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2022.
Per il consigliere presidenziale ucraino, Mykhailo Podolyak, si tratta di «propaganda fantasiosa» e di «lotta intestina» dentro gli apparati di sicurezza nemici.
Per il battaglione d'Azov di cui Natalya Vovk, 43 anni, passaporto ucraino, secondo i russi farebbe parte, «l'attentato è la preparazione all'apertura del tribunale contro l'Azov». Era attesa a Kiev l'accusa per l'uccisione per la morte della figlia di Dugin.
Dunque nessuna sorpresa di fronte al profilo diffuso ieri dai servizi di sicurezza russi. A non convincere, tra gli altri elementi della ricostruzione, sono i movimenti. Secondo i servizi di Mosca, madre e figlia sarebbero arrivate in Russia in luglio a bordo di una Mini Cooper alla quale sarebbero state applicate tre targhe diverse: la prima della Repubblica di Donetsk, per varcare il confine, la seconda del Kazakistan, usata a Mosca, e la terza dell'Ucraina per uscire dal Paese. Passaggi del genere, però, sono particolarmente complicati e monitorati, soprattutto in tempo di guerra.
La versione, non verificabile, è corredata da un video che mostra la killer attraversare il confine russo ed entrare in un edificio che si dice appartenesse alla vittima, ma l'Fsb non ha fornito altre prove fotografiche o video per corroborare le accuse né ha compiuto arresti. Respinta anche la teoria - diffusa da hacker russi, ripresi dai media di Mosca - che la Vovk appartenga al battaglione Azov, ritenuto un gruppo terrorista di stampo nazista dalla Russia e corpo integrato da anni nell'esercito di Kiev.
«L'attentato è la preparazione all'apertura del tribunale contro l'Azov», si legge sul canale Telegram del Battaglione, con riferimento al processo che i russi vorrebbero aprire a Mariupol contro i prigionieri ucraini. Una vicenda politica e non solo militare. Sulla quale i comandanti ucraini aggiungono: «Dopotutto, in questo modo la Russia scalda l'opinione pubblica dei suoi cittadini sulla "necessità" di un simile processo».
E se in rete molti osservatori fanno notare come la divisa della donna non corrisponda a quella utilizzata dai militari dell'Azov, sono gli stessi media russi a non confermare la teoria. Non a caso è all'agenzia russa Ria Novosti che la cugina di Natalya Vovk riferisce come la stessa Vovk appartenesse sì alle forze armate dell'Ucraina «ma con un ruolo di ufficio, ottenuto a causa della sua disabilità». Intanto, mentre la versione ufficiale dell'attentato lascia più dubbi che risposte, a Kiev è convinzione che in Russia la morte di Dugina - anche lei come il padre fiera sostenitrice dell'annientamento dell'Ucraina - stia alimentando le voci di chi chiede una linea più dura sul fronte.
Le parole di Dugin al funerale della figlia: «Quando era piccola ‘Russia’ e ‘nostra nazione’ tra le sue prime parole». Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022. L'ideologo di Putin era il vero bersaglio dell'attentato alla periferia di Mosca. LaPresse / CorriereTv
Commosso intervento di Aleksandr Dugin ai funerali della figlia Darya Dugina, morta sabato 20 agosto in un attentato alla periferia di Mosca. «Quando era una bambina, le prime parole che ha pronunciato, che ovviamente le avevamo insegnato, sono state 'Russia', 'il nostro potente Stato', 'la nostra nazione', 'il nostro impero'", ha detto l'ideologo di Putin, probabilmente il vero bersaglio dell'attentato.
I dubbi sull’attacco ad Aleksandr Dugin. Aldo Cazzullo il 23 agosto 2022 su Il Corriere della Sera.
Caro Aldo, le parole di Dugin per ricordare la figlia: «Morta per il popolo... per la Russia!» Messaggio delirante che solo il dolore per la tragedia che lo ha colpito può, forse, giustificare. Sapere che è lui il fidato consigliere di Putin fa venire i brividi. Maria Cornaggia Mi dispiace per la povera Darya, eppure non provo pietà per suo padre, consulente di Putin. Marco Ferrara Che efficienza, i servizi segreti russi. Dopo poche ore sanno già tutto sulla assassina della povera Darya Dugina. Bertoldo Paganoni
Cari lettori, Le idee di Aleksandr Dugin erano detestabili; non rappresentano però una buona ragione per ammazzarlo, né tanto meno per ammazzare sua figlia. La storia ci dirà, prima o poi, chi è stato. C’è una guerra in corso, e ogni guerra da sempre si combatte anche con l’informazione, talora con il terrore. Nessuno è al riparo. Né a Kiev né a Mosca. Il regime di Putin non poteva pensare di scatenare una guerra d’aggressione, senza pagarne le conseguenze, a tutti i livelli; e non è detto che nel mirino debbano esserci soltanto le reclute mandate a combattere in Ucraina, a volte con l’inganno. Tuttavia, le esecuzioni mirate sono sempre uno strumento discutibile. Molto spesso le persone eliminate vengono sostituite da altre peggiori; e l’argomento che riecheggia in un classico del cinema, «Munich» di Steven Spielberg — «anche le unghie ricrescono, non per questo rinunciamo a tagliarle» —, non convince. So bene che è un’arma cui anche le democrazie, dagli Stati Uniti a Israele, hanno fatto ricorso. Ma i dubbi restano, proprio perché le democrazie dovrebbero avere metodi diversi da quelli delle dittature. Da millenni si discute se sia giusto gioire per la morte del tiranno, del nemico, del malvagio: è il tema letterario del «nunc est bibendum», ora possiamo brindare. Era giusto eliminare Osama e impiccare Saddam, e gioire per la loro morte? Se ne può discutere. Certo Dugin non è né Osama né Saddam, anche se la sua intelligenza e il suo carisma hanno giustificato se non ispirato un crimine come la guerra in Ucraina. Inoltre, le esecuzioni mirate hanno una terribile caratteristica: devono essere, appunto, mirate. Se colpiscono nel mucchio, o se colpiscono la persona sbagliata, sono controproducenti per la causa che avrebbero dovuto servire, e diventano un’arma in mano alla causa che avrebbero dovuto combattere.
Chi è Natalya Vovk, l’ucraina che per i russi è l’autrice dell’attentato a Darya Dugina. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022.
La Mini, le tre targhe, il battaglione Azov: i servizi russi accusano una donna dell’omicidio della figlia di Aleksandr Dugin.
Il padre chiede non solo vendetta per l’attentato che sabato sera gli ha portato via la figlia Darya morta nell’esplosione della sua auto. Ma «soprattutto vittoria», vale a dire il completamento dell’Operazione militare speciale iniziata a febbraio con la cancellazione dell’Ucraina come Paese. E l’Fsb, principale erede del Kgb, annuncia di aver già individuato l’attentatrice o, meglio, le attentatrici visto che si tratterebbe di una cittadina ucraina e di sua figlia dodicenne. Un comunicato diffuso dai media russi pieno di dettagli ma, soprattutto di incongruenze e di particolari che, se veri, mettono in dubbio le capacità degli investigatori. Come il fatto che la donna sarebbe entrata in Russia a luglio mentre già da mesi era indicata negli archivi dello stesso Fsb come appartenente a gruppi militari ucraini. Gli agenti che in poche ore avrebbero svelato il mistero affermano di sapere che l’ucraina è arrivata con una auto dotata di tre targhe che venivano usate a rotazione. Sanno che abitava nello stesso palazzo di Darya Dugina. Hanno pubblicato la foto della tessera di appartenenza della donna al famigerato reggimento Azov. Ma se la sono lasciata sfuggire: a loro è rimasto solo il filmato dell’auto, una Mini, che varcava la frontiera con l’Estonia. (Qui il pezzo di Guido Olimpio: le indagini degli 007 russi. Soluzione troppo rapida e piena di falle)
Il Cremlino
Putin ha conferito a Darya l’ordine «del coraggio» e, in un telegramma, ha espresso le sue condoglianze a Dugin, per il «crudele e vile» assassinio: la ragazza era una persona «solare, piena di talento, con un vero cuore russo gentile, caritatevole, sensibile e aperto». Da molte parti, dopo l’annuncio dell’Fsb, sono partite richieste di immediate ritorsioni nei confronti di Kiev e del regime «nazista» che è al potere. E molti si sono recati in pellegrinaggio sotto la casa dove abitava la ragazza. Dall’Ucraina si smentisce qualsiasi coinvolgimento nei fatti.
Ma torniamo al clamoroso annuncio dell’Fsb. L’assassina viene identificata come Natalya Vovk, entrata in Russia il 23 luglio assieme alla figlia sull’auto che in quel momento aveva una targa della Repubblica indipendentista di Donetsk. Avrebbe poi affittato una casa nello stesso palazzo di Darya, come si vede da un video diffuso. Sabato sera sarebbe arrivata assieme alla figlioletta al convegno dove la Dugina si trovava con il padre e sarebbe poi ripartita dopo aver messo l’esplosivo sotto il suv della Dugina, sempre a bordo della Mini (questa volta con targa ucraina). La Vovk, che aveva a disposizione anche una targa del Kazakistan, sarebbe stata filmata mentre lasciava la Russia alla frontiera con l’Estonia. L’Fsb ha diffuso la tessera militare della donna, rilasciata nel 2020 con il cognome Shaban, che sarebbe quello del marito. La tessera certifica l’appartenenza all’unità militare 3057 della Guardia nazionale ucraina nella quale è inquadrato il reggimento Azov. Diversi siti d’inchiesta hanno messo in evidenza numerose incongruenze. Intanto il fatto che dal 2016 la donna usa il nome da nubile, Vovk, in quanto avrebbe divorziato dal marito. Da documenti ucraini, risulta che la donna ha lavorato nel settore bancario. Il ministero degli Interni ucraino ha subito sostenuto che la tessera è falsa.
L’auto, che da luglio sarebbe stata in Russia, è apparsa invece su un sito di compravendite ucraino ad agosto. Tra fine luglio e agosto la stessa vettura risulterebbe assicurata in Crimea da un’altra persona, una certa Yulia Zezera di Kaliningrad. È assai strano poi che la Vovk abbia eseguito l’atto terroristico portandosi dietro una bambina.
Ex deputato
Di quello che è avvenuto sabato sera, quando Darya Dugina è rimasta uccisa nell’esplosione della sua vettura alle porte di Mosca, ha parlato l’ex deputato d’opposizione in esilio (a Kiev) Ilya Ponomarev. Prima ha detto che gli autori apparterrebbero a un fantomatico Esercito nazionale repubblicano che lo avevano autorizzato a rivendicare l’atto. Poi, in serata, ha parlato della Vovk: «Non ha avuto un ruolo diretto» nell’assassinio. Ma, secondo il deputato, «non è una persona estranea» ai fatti. «Non è l’esecutrice dell’attentato ma è una persona che merita protezione». Ponomarev aggiunge di averla aiutata a uscire dalla Russia. Sul suo canale Telegram ha poi specificato di averlo fatto «su richiesta degli amici russi». Ma non ha spiegato a quali amici si riferisse.
Le sue affermazioni, in sostanza, sembrerebbero sorprendentemente confermare che, in un qualche modo, la donna sia coinvolta nel crimine.
Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2022.
Anche se il colpevole è ufficialmente Natalya Vovk, la donna ucraina ripresa sulla sua Mini e all'ingresso del palazzo di Darya Dugina, gli inquirenti proseguono le indagini alla ricerca di chi credono l'abbia aiutata. O di chi magari possa essere il vero esecutore materiale dell'attentato che sabato scorso ha fatto saltare in aria la vettura della figlia dell'ideologo ultranazionalista Aleksandr Dugin.
Il cosiddetto fronte interno, del quale a Mosca nessuno ama parlare apertamente, in realtà preoccupa non poco le autorità per una serie di atti di sabotaggio e azioni dimostrative messe a segno nei sei mesi dall'inizio dell'Operazione militare speciale in Ucraina.
Si teme che quello contro Darya Dugina possa essere solo la prima di altre iniziative volte a far salire la tensione all'interno della stessa Russia.
Per ora l'unica rivendicazione della bomba da quasi mezzo chilo piazzata sulla Toyota Land Cruiser viene da un ex deputato fuggito all'estero dopo l'annessione della Crimea del 2014. Ilya Ponomarev, ex comunista, poi socialdemocratico, si trova in Ucraina dove dice di essere entrato nelle forze della Difesa territoriale dopo l'invasione russa. Nel 2014 fu l'unico deputato della Duma a votare contro l'annessione della Crimea.
Il giorno dopo l'attentato alla Dugina, Ponomarev ha detto di essere stato autorizzato ad attribuire l'atto terroristico a un gruppo che si chiamerebbe Esercito nazionale repubblicano e che agirebbe da mesi all'interno del Paese. Secondo Ponomarev, che lunedì scorso ha rilasciato una dettagliata intervista al sito Meduza.io , l'ucraina Vovk non sarebbe l'esecutrice materiale dell'azione, anche se avrebbe avuto comunque qualche cosa a che fare con gli eventi.
L'ex parlamentare aveva affermato: «Lei non è una persona del tutto estranea; ma non ha avuto, diciamo così, un ruolo diretto in questa storia non dico che lei non sia coinvolta nel fatto stesso; dico che lei non è la persona che ha eseguito questo attentato. Lo dico in base a quello che mi hanno riferito persone dell'Esercito nazionale repubblicano».
Mercoledì, però, in un'altra intervista al quotidiano Repubblica , Ponomarev ha cambiato versione, affermando che Natalya Vovk «non c'entra nulla» con la morte della Dugina. Stranamente la donna, che sarebbe ora in Estonia, non ha aperto bocca dopo essere stata accusata esplicitamente dai servizi segreti russi.
Si sono visti filmati di lei con capelli di diverso colore; a bordo della Mini che girava per Mosca con tre targhe diverse (ucraina, kazaka e della repubblica indipendentista di Donetsk). Poi ancora Natalya al citofono di quello che sarebbe un palazzo nello stesso complesso abitativo dove viveva Dugina.
L'Fsb ha pure pubblicato l'immagine di un documento di appartenenza a un gruppo militare al quale farebbe capo il Reggimento Azov. Ma questo potrebbe facilmente essere un falso.
Lei, comunque, non ha fatto sentire la sua voce dopo essere uscita dal Paese.
Di certo sappiamo che in Russia esistono vari gruppi di opposizione che sono entrati in clandestinità dopo l'inizio dell'Operazione militare speciale. Ci sono i membri dell'Esercito di cui parla Ponomarev che, secondo l'esponente politico, potrebbero essere anche un migliaio. Poi ci sono formazioni anarchiche e bande di estrema destra. Di sicuro nuclei partigiani agiscono all'interno delle aree ucraine occupate dall'esercito russo. Hanno fatto ricorso in almeno due occasioni ad auto-bombe per colpire collaboratori di Mosca.
Agiscono contro infrastrutture militari, centri di reclutamento. Lavorano per rallentare o bloccare i convogli che portano al fronte uomini ed equipaggiamento, sia negli snodi ferroviari russi che in quelli della Bielorussia, alleata di Mosca. Il sito Theins.ru sostiene che dalla fine di febbraio ci sono state 23 azioni contro uffici di reclutamento in Russia. In venti casi si è trattato di incendi. Gruppi, ma anche «cani sciolti» che agiscono in autonomia e che sono assai difficili da individuare.
È il caso, ad esempio, di un artista ed ex insegnante di 48 anni, Ilya Farber, arrestato in Udmurtia per aver dato fuoco a due edifici dell'esercito. «Volevo vedere se ero in grado di farlo», ha spiegato durante l'interrogatorio. Un altro partigiano ha contattato il sito dopo aver incendiato a Nizhny Novgorod l'auto di una donna che raccoglie fondi per sostenere i militari russi in Ucraina, una certa Natalya Abiyeva. «Tra noi ci sono sia anarchici che nazionalisti», ha spiegato. «Ma le questioni ideologiche oggi non contano. Putin ha rubato il nostro futuro e siamo tutti convinti che non possiamo rimanere con le mani in mano».
Russia, morta in un'esplosione d'auto la figlia di Dugin. "Erano insieme, lui ha cambiato macchina all'ultimo momento". La Repubblica il 21 Agosto 2022.
Un'auto guidata dalla figlia dell' "ideologo di Putin" Aleksandr Dugin, Daria Dugin (o Darya), è saltata in aria nei pressi del villaggio di Velyki Vyazomi, alla periferia di Mosca. La conducente Daria Dugin, figlia di Aleksandr Dugin, è morta in quello che appare come un attentato. Daria Dugin aveva 30 anni. Secondo il Daily Mail, che cita fonti russe i due, che tornavano da un evento pubblico, avrebbero dovuto viaggiare sulla stessa auto, ma Dugin avrebbe all'ultimo istante preso un altro veicolo.
Su Twitter circolano numerose immagini e video del luogo dell'esplosione. Per alcuni, Dugin stesso sarebbe stato l'obiettivo. Ma nel video qui sotto (da Twitter) si vedrebbe lo stesso Dugin sul luogo dell'incidente. Avrebbe quindi evitato un attentato potenzialmente rivolto a lui. Secondo RT, sarebbe proprio il filosofo e politologo ultranazionalista russo l'uomo con le mani nei capelli che si vede nei video girati sulla scena dell'esplosione.
Secondo il leader della Repubblica popolare filorussa di Donetsk, Denis Pushilin, ci sono "terroristi del regime ucraino" dietro l'incidente. A detta di Pushilin, a quanto riferisce Ria Novosti, l'obiettivo dell'attentato era il padre. "I terroristi del regime ucraino, cercando di eliminare Aleksandr Dugin, hanno fatto saltare in aria sua figlia... In macchina. Beato ricordo di Darya, è una vera ragazza russa", ha scritto Pushilin nel suo canale Telegram. Darya Dugin è stata opinionista politica per il Movimento Eurasiatico Internazionale, guidato da suo padre.
La famiglia con la "Z" amata dai sovranisti, tra fake news e odio per l'Occidente. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 21 Agosto 2022.
Il filosofo non ha alcun legame personale con il leader del Cremlino né molta influenza in patria. Il Cremlino prese le distanze quando teorizzo "il genocidio degli ucraini".
L'ultima volta che l'avevamo vista Daria Dugina, o Platonova come si faceva chiamare, interveniva in qualità di esperta del Movimento Internazionale Eurasiatico al convegno "La guerra geopolitica dell'Occidente contro la Russia: il caso Ucraina" ospitato a Mosca dalla Camera Civica della Federazione russa il 15 febbraio scorso. Mancavano nove giorni al lancio della cosiddetta "operazione militare speciale" contro Kiev e Daria e altri sedicenti esperti, anche italiani, sostenevano che gli Usa stessero cavalcando lo scontro che si profilava in Ucraina per allontanare definitivamente l'Europa dalla Russia e quindi scongiurare la nascita di una grande "Eurasia" sotto l'egida della Novorossija che si estenda "da Dublino a Vladivostok", teorizzata dal padre mentore, l'ideologo sovranista Aleksandr Dugin.
Classe 1992, una laurea in Filosofia, Dugina era incappata nelle sanzioni britanniche perché "autrice frequente e di alto profilo di disinformazione" sull'Ucraina. A capo del sito in lingua inglese e turca United World International, di proprietà di Evgenij Prigozhin, lo "chef di Putin" padrino della famigerata "fabbrica dei troll" e del gruppo di mercenari Wagner, Dugina definiva gli ucraini "subumani" da conquistare e aveva scritto il libro di prossima pubblicazione intitolato Z, il famigerato simbolo dell'operazione russa in Ucraina.
La fake news dell'"ideologo di Putin"
Pur avendo seguito le orme del padre, aveva cercato di smarcarsene non adottandone il cognome ma, per quanto si fosse conquistata una reputazione autonoma, è indubbio che il vero obiettivo dell'autobomba che la ha uccisa sabato sera alla periferia di Mosca fosse il padre, faro dei sovranisti occidentali e disseminatore di disinformazione.
Una delle più grandi "fake news" di Dugin è stata farsi chiamare "ideologo di Putin" o - complice la sua barba semi-incolta - "Rasputin di Putin", un nomignolo coniato non a caso da Breibart News, il sito del suo ammiratore e seguace Steve Bannon, ex stratega di Donald Trump e dell'Alt-right suprematista e antisemita statunitense.
Benché teorizzi un pensiero che ben interpreta i disegni neoimperiali di Vladimir Putin e il suo saggio Fondamenti di geopolitica sia stato adottato come manuale dall'Accademia dello Stato Maggiore, Dugin in realtà non ha alcun legame personale con il leader del Cremlino né molta influenza in patria, come testimoniano anche gli studi dei think tank Rand e Kennan Institute, ma non ha esitato a sfruttare il soprannome per accreditarsi presso i circoli sovranisti e complottisti occidentali.
Il rapporto, complicato, con il Cremlino
Il Cremlino non solo non ha avvallato le sue due avventure politiche, il Partito nazionalbolscevico e il Partito Euroasiatico, entrambi disciolti, ma ne ha anche preso le distanze quando nel 2014, iniziato il conflitto nel Donbass, Dugin invocò il "genocidio" degli ucraini - parole giudicate eccessive che, oltre all'inclusione nelle "liste nere" di Ue e Usa, gli costarono la cattedra presso l'Università statale di Mosca. Ma è anche vero che al Cremlino non dispiaccia affatto la sua opera di influenza all'estero.
È stato il caos seguito al crollo dell'Urss ad avere alimentato le tesi neoimperialiste di Aleksandr Gelevic Dugin, classe 1962, figlio di un ufficiale dell'intelligence sovietica. Ispirandosi ai pensatori Ivan Ilin e Nikolaj Gumiliov, Dugin teorizza una "Quarta teoria politica" che scavalchi fascismo, comunismo e liberalismo e fonda il Movimento internazionale eurasiatico sostenendo l'unificazione dei territori russofoni, Ucraina inclusa, ed europei in un nuovo vasto Impero.
L'Eurasia e la "Terza Roma" che è Mosca
L'Eurasia, appunto, capitanata dalla Terza Roma, Mosca, che combatta l'Occidente individualista, "eterna Cartagine" da radere al suolo. Dugin diffonde le sue teorie tramite media finanziati dall'oligarca ultraortodosso e nostalgico degli zar Konstantin Malofeev: la tv Tsargrad e i siti web multilingue Katehon.com e Geopolitica.ru. È da qui che partono le tesi Alt-right, Q-Anon, suprematiste, complottiste, sovraniste e No-vax rilanciate ad esempio in Italia da siti come Imolaoggi o da canali YouTube come VisioneTv.
Il faro dei sovranisti
Dugin è riuscito a fare di più. È diventato anche il faro dei partiti sovranisti: dall'ex Front National di Marine Le Pen in Francia all'Afd tedesco all'Fpö austriaco fino alla Lega di Salvini e ai movimenti neofascisti Forza Nuova e Casa Pound in Italia. L'omicidio di sua figlia e la sua mancata morte, come ha scritto l'esperto britannica di politica russa Mark Galeotti su The Spectator, non farà che accrescerne il mito. "Se un Dugin morto sarebbe stato un martire malleabile - sostiene Galeotti - un Dugin sopravvissuto arrabbiato potrebbe ora rivelarsi un jolly".
Attentato contro i Dugin, la terza ipotesi: “Sono i russi anti Putin”. Daniele Raineri su La Repubblica il 22 Agosto 2022.
La portavoce degli Esteri Maria Zakharova: “Se troveremo tracce del coinvolgimento di Kiev, vuol dire che lo stato ucraino è uno stato terrorista”
La Russia lancia un’accusa incompiuta contro l’Ucraina per l’attentato che sabato sera ha ucciso Daria Dugina, figlia ventinovenne dell’ideologo russo Alexander Dugin, per bocca della portavoce degli Esteri Maria Zakharova: “Se troveremo tracce del coinvolgimento di Kiev, vuol dire che lo stato ucraino è uno stato terrorista”.
Gli ucraini smentiscono: “Non siamo stati noi”, dice Mikhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelensky, per quel che vale una smentita in un campo – quello delle operazioni clandestine dei servizi segreti all’estero – che non ammette dichiarazioni ufficiali. Il governatore filorusso di Donetsk, Denis Pushilin, accusa in termini secchi gli ucraini e quindi sostiene che la bomba sia stata piazzata da quel network di sabotatori che fin dall’inizio dell’invasione a febbraio ha cominciato a lanciare attacchi in territorio russo.
E in serata è arrivata anche la rivendicazione del cosiddetto Esercito repubblicano nazionale, un’oscura formazione partigiana – sconosciuta prima di ieri – che sostiene di avere come obiettivo la deposizione di Putin “usurpatore e criminale di guerra” e questa volta la fonte della rivendicazione è Ilya Ponomarev, ex membro della Duma russa e oppositore comunista di Putin che ha trovato rifugio a Kiev e da lì prosegue la sua attività. Ponomarev ha parlato alle sette di sera in un programma trasmesso sulla sua televisione, ma non è considerato una fonte sempre impeccabile. “L’attacco apre un nuovo capitolo della resistenza a Putin”, ha detto il politico russo in esilio.
Gli investigatori russi dicono che la bomba che sabato sera ha ucciso Dugina era piazzata sotto il sedile del guidatore della Toyota Land Cruiser intestata a lei. L’esplosione ha sparso detriti per decine di metri, ha disintegrato il tettuccio e i due posti davanti, ha fatto saltare i finestrini, ha piegato la carrozzeria verso l’esterno e ha sbalzato il corpo sulla strada.
Non si trattava di una carica leggera che si poteva piazzare in fretta, magari una di quelle “bombe appiccicose” che i sicari in motocicletta possono attaccare con un magnete o con una sostanza adesiva alle portiere di una macchina e basta loro un gesto della mano, ma di un ordigno potente (forse più dei quattrocento grammi di tritolo dichiarati dalla polizia). La Toyota era stata parcheggiata per almeno tre ore in un parcheggio incustodito e inquadrato da telecamere a circuito chiuso – che però avevano smesso di funzionare due settimane fa.
Dugin e figlia erano andati a un festival che si chiama “Tradizioni” e la loro partecipazione era nota da tempo. L’unica cosa che chi ha piazzato la bomba non poteva sapere è che all’ultimo momento l’ideologo ha scelto di salire su un’altra auto e non su quella guidata dalla figlia. L’esplosione è avvenuta dopo dieci minuti sul tratto di autostrada che attraversa Odintsovo, sobborgo a trenta chilometri dalla capitale dove Putin e molti altri membri dell’establishment hanno le loro residenze – e se l’attentato doveva essere un segnale contro il Cremlino non poteva esserci un posto più adatto. Dugin è subito sceso dalla macchina che seguiva, ha guardato la carcassa della vettura in fiamme e si è messo le mani nei capelli ripreso da altri automobilisti - è un’immagine che diventerà iconica di questo periodo violento in Russia.
Dugin era un bersaglio particolare – sempre che fosse lui e non la figlia, partner di tutte le sue operazioni di propaganda – perché era molto conosciuto soprattutto all’estero come volto del putinismo e giocava molto su questa sua vicinanza al leader del Cremlino per fini autopromozionali, ma in realtà non era così connesso e per questo non godeva di protezioni speciali.
Il rapporto tra costo e ritorno, per così dire, in un attentato contro Dugin era molto più vantaggioso rispetto a quello di un attentato contro un dirigente qualsiasi del Cremlino di sicuro più vicino al vertice del potere ma anche meglio protetto e più difficile da colpire. Chi ha progettato questo attacco voleva colpire un simbolo del putinismo che scatenasse l’attenzione dei media internazionali, con uno sforzo relativamente piccolo.
Se fossero stati gli infiltrati ucraini che finora si erano dedicati a colpire ferrovie, depositi di carburante e agenti dei servizi russi sarebbe un salto di livello enorme. Il separatista Pushilin li accusa, ma a febbraio aveva detto lo stesso dopo un finto attentato con autobomba inscenato a Donetsk e viene il sospetto forte che anche in questo caso gli ucraini non c’entrino. In queste ore si scommette molto sulla pista interna a Mosca.
Forse la bomba è parte di una strategia della tensione voluta dai servizi russi per rafforzare il partito della guerra, forse invece è un avvertimento da parte di quel blocco potente di poteri che è stato danneggiato in misura enorme dalla guerra di Putin e che non riesce a farsi ascoltare, oppure ancora l’ultranazionalista Dugin andava tolto di mezzo perché continua a parlare di guerra fallita e di debolezza russa. E da ieri c’è anche questa sigla, Esercito repubblicano nazionale, che si prende un posto fisso sulla scena.
Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 22 agosto 2022
«Chiunque ci sia dietro all'attentato contro Aleksandr Dugin, una cosa è comunque certa: questo attacco pone alla Russia un grave problema strategico, perché la obbliga a dedicare più uomini e risorse alla difesa di obiettivi che non riteneva a rischio.
Sommandolo alle incursioni militari condotte dagli ucraini o dai sabotatori, in Crimea e in altri luoghi dietro le linee della guerra, diventa una sfida complessa da affrontare». Il politologo americano Edward Luttwak allarga lo sguardo oltre la bomba che ha ucciso la figlia dell'ideologo di Putin, per analizzare le implicazioni e gli effetti più ampi sul conflitto.
Ha idea di chi possa essere stato?
«Al momento si fanno solo ipotesi. Le più citate sono un'operazione organizzata direttamente da Kiev; un atto compiuto da qualche simpatizzante ucraino; o un'iniziativa interna, gestita da apparati dello Stato contrari alla guerra o da membri della dissidenza. Nessuno però sa davvero cosa sia successo».
L'attentato non dimostra comunque che il regime ha un controllo del territorio meno solido di quanto si pensasse?
«Putin non ha voluto proclamare la mobilitazione generale, per non urtare la popolazione e perdere consenso, ma ciò comporta che ha meno risorse e capacità anche per la sicurezza interna».
Perché prendere di mira Dugin?
«È il filosofo che ha costruito l'architettura intellettuale della guerra, sostenendo che questo è il ruolo storico della Russia. Quindi, pur non facendo ufficialmente parte del governo, è un obiettivo strategico».
Chi poteva avere interesse a colpirlo?
«Un'ipotesi è che Kiev, direttamente o attraverso i molti ucraini che vivono in Russia, voglia dimostrare di avere le mani lunghe. Di sicuro lo sta già facendo sul piano militare, con i recenti attacchi lanciati in Crimea e nelle retrovie. Questo crea a Mosca un serio problema strategico e logistico, perché deve aumentare gli uomini e le risorse dedicate alla difesa di obiettivi che riteneva sicuri, distraendole dal fronte dove ha già limitazioni significative. Ciò sta già avvenendo, è un dato di fatto.
Ora si tratta di capire se l'attentato a Dugin si inquadra in questa strategia, ampliando il fronte degli attacchi domestici fino alla capitale, oppure se è stata un'operazione condotta dalla dissidenza interna contraria alla guerra, per aprire crepe nel regime. Qualunque sia la risposta, l'effetto non cambia».
Cioè?
«Così come sta già rafforzando le difese in Crimea, il Cremlino ora dovrà porsi il problema di potenziare la sicurezza interna. A Dugin verrà data una scorta, ma sono molti i consiglieri, i politici e i sostenitori del governo che adesso si sentiranno in pericolo. Tutto ciò destabilizza la società, rende più difficile la prosecuzione della guerra senza la mobilitazione generale, e distrae risorse necessarie al fronte».
Vede il rischio di attentati contro obiettivi civili?
«Non credo, perché produrrebbero una reazione opposta a quella desiderata. Adottando una linea tipo quella dei palestinesi, bombardando cinema, supermercati o matrimoni, si motiverebbe la gente a difendere il paese, rafforzando la mano di Putin. Chiunque sia il responsabile, è più probabile che continui a puntare su obiettivi militari o politici, cioè strategici e non civili».
Un segnale politico per il Cremlino. Ezio Mauro su La Repubblica il 21 Agosto 2022.
L'attentato in cui ha perso la vita la figlia dell'ideologo vicino a Putin è un segnale politico per il presidente russo
Bisognerà capire che uso politico il Cremlino farà dell'esplosione che l'altra notte ha distrutto nel fuoco l'auto su cui doveva viaggiare Aleksandr Dugin, e che ha ucciso Darya, la figlia dell'ideologo di Putin. Lo scoppio è rimbalzato sui siti e il rogo alla periferia della capitale ha continuato a bruciare nei video, riproponendo l'immagine del terrorismo che ritorna a Mosca con un attentato indirizzato contro il vertice del Paese: minacciato nelle sue connessioni culturali, spirituali, filosofiche con la fonte stessa della teoria metastorica e della teologia politica che hanno determinato la svolta strategica di Putin, e ispirano quotidianamente la sua concezione dell'anima russa, della sua missione e del suo destino nel mondo.
Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.
Tra i silenzi degli indagati e il muro di gomma di Mosca di fronte alle rogatorie dei pm di Milano, l'inchiesta sulla trattativa al Metropol rischia di concludersi, a dicembre, senza fare luce sulla compravendita di gas che avrebbe dovuto portare circa 65 milioni di dollari nelle casse della Lega.
Il 18 ottobre 2018 nella hall dell'hotel moscovita Gianluca Savoini, l'ex portavoce di Matteo Salvini e presidente dell'associazione Lombardia-Russia, l'avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci incontrano tre emissari del Cremlino: Ilya Yakunin, vicino al parlamentare Vladimir Pligin e all'allora ministro dell'Energia Dmitry Kozak; Yury Burundukov, legato all'oligarca nazionalista russo Konstantin Malofeev; Andrey Kharchenko, ex agente dei servizi segreti.
Tutti e sei sono indagati ora a Milano per corruzione internazionale. Almeno due di loro, Yakunin e Kharchenko, sono considerati vicinissimi proprio ad Aleksandr Dugin, di cui parla Savoini nell'audio di Buzzfeed. «Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo - dice in maniera criptica a Miranda - . Solo noi tre. Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi. Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro "lato politico". Solo noi. Nessun altro».
In effetti, il 17 ottobre Savoini incontra Dugin davanti al Metropol. E lo stesso giorno l'allora vicepremier Matteo Salvini, a Mosca per un evento di Confindustria Russia, avrebbe incontrato il suo omologo russo Dmitry Kozak. Coi pm i tre italiani si avvalgono della facoltà di non rispondere. E anche le rogatorie in Russia restano lettera morta. Dopo mesi di silenzio, Mosca risponde chiedendo quesiti più dettagliati. Poi la guerra in Ucraina chiude ogni comunicazione. E ora, dopo l'ultima proroga di due mesi fa, l'inchiesta rischia di essere archiviata a dicembre.
Parla l'analista britannico, tra i maggiori esperti di politica e sicurezza russa. La Repubblica il 24 Agosto 2022. "L'indagine dell'Fsb che identifica l'attentatrice in una donna ucraina è uno dei tanti goffi tentativi di narrazione russa. Ma escluderei l'operazione sotto falsa bandiera. L'attentato radicalizzerà lo scenario. E scopriremo che la verticale del potere è meno forte di quanto pensiamo"
L'Fsb ha trovato in tempi record un colpevole per l'uccisione di Daria Dugina a Mosca, l'ucraina Natalia Vovk, ma Mark Galeotti è scettico. "Questa ricostruzione rischia di ritorcesi contro gli stessi servizi segreti russi presentandoli come incompetenti", spiega a Repubblica l'analista britannico, tra i massimi esperti di politica e sicurezza russa, direttore dell'agenzia di consulenza Mayak Intelligence, nonché membro del think tank di Difesa Rusi e dell'Istituto di Relazioni internazionali di Praga.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 agosto 2022
Nell'affaire Metropol, la trattativa in un hotel di Mosca per un presunto finanziamento russo di 65 milioni alla Lega - su cui è ancora in corso un'indagine a Milano per corruzione internazionale - assieme a un emissario della Lega, Gianluca Savoini, due dei russi identificati come parte della conversazione erano Andrey Kharchenko e Ilya Yakunin.
Kharchenko è uno dei collaboratori stretti di Alexandr Dugin, il filosofo del rossobrunismo eurasiano che probabilmente era il vero bersaglio dell'autobomba esplosa nella notte di sabato a Mosca. Dugin è stato in realtà dietro tutta quella partita, e dietro molte altre, in Europa e in Italia.
Non è solo un intellettuale, quell'uomo che vediamo nei fermo immagine davanti alla macchina esplosa della figlia, con le mani nei capelli, e Kharchenko non è solo il suo migliore allievo laureato. Il filosofo è figlio di un dirigente del Kgb, e Karchenko - rivelò Bellingcat - viaggiava con un passaporto speciale che di solito viene rilasciato solo dagli Esteri russi, per lo più agli uomini dei servizi. Insomma, filosofo molto particolare, Dugin.
Non perché sia particolarmente vicino a Putin - non lo è affatto - ma perché è stato coscientemente usato dal Cremlino per una serie di operazioni di propaganda e penetrazione nei partiti e nei media occidentali, proprio quell'Occidente che la sua "Quarta teoria politica" disprezza, cercando di congiungere separatismo etnico di estrema destra e anticapitalismo e anti Nato di estrema sinistra.
Fu così che Dugin è entrato in Italia. A metà tra agitatore culturale e servizi segreti. Savoini lo porta a Milano già nel 2015, plenipotenziario di Tsaargrad, il network dall'oligarca Malofeev. I libri come ottimo pretesto geopolitico.
Quel giorno Dugin ha accanto Maurizio Murelli, militante neofascista già condannato negli Anni 70. Anni dopo, nell'estate 2018 della nascita del governo Lega-M5S, un tour duginiano lanciato da Savoini vedrà Dugin approdare sulla terrazza di Casa Pound, con il segretario Simone Di Stefano, ancora Murelli e, moderatore, Giulietto Chiesa. Estrema destra e estrema sinistra.
Nel marzo scorso fu fatta trapelare dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky una mail che riferiva di un altro incontro, che i russi stavano organizzando nel novembre 2017, tra Salvini e il team di Malofeev e Dugin: «Per novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'Hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro», scriveva Mikhail Yakushev, numero due di Malofeev, oligarca plurisanzionato fin dall'annessione illegale della Crimea nel 2014, che finanziò ampiamente.
In un'altra mail il team russo di Tsaargrad scrive che bisogna creare in Europa una rete di partiti, di estrema destra (Lega, Le Pen, Wilders) «ma anche euroscettici», chiamata "Altintern" (citazione del vecchio Comintern): «Senza il nostro impegno attivo e il sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire».
Dugin pensava anche al M5S. E lo disse a chiare lettere al sito web di Defend Democracy Press. Se a italiani, tedeschi e francesi fosse stata data la possibilità di ritirarsi, affermò, «sarebbe successo il giorno dopo»: «Se lo chiedessimo oggi agli italiani, ovviamente se ne andrebbero anche loro.
E sappiamo che lo chiedono Lega Nord e Cinque Stelle. Dobbiamo affrontare la verità: l'Unione europea sta cadendo a pezzi; è la fine della Torre di Babele, basata sulla geopolitica atlantica e sul sistema di valori liberale». «L'Italia è oggi l'avanguardia geopolitica della Quarta Teoria Politica» spiegò Dugin lodando Giuseppe Conte e il suo primo governo: «L'unione tra Lega e Cinque Stelle è il primo passo storico verso l'affermazione irreversibile del populismo e il passaggio a un mondo multipolare».
Per questo, disse, quel governo italiano era un partner naturale del Cremlino. Di certo foto e amici imbarazzanti tornano a galla: ieri per esempio l'estremista di ultradestra americano James Porrazzo ha twittato una foto di Darya Dugina, chiamandola «una guerriera che sapeva che sarebbe potuto succedere», e in questa foto "Dari" è proprio accanto a Salvini.
Il dissidente Ponomarev: "L'attentato a Dugina opera dei partigiani. Sono dappertutto in Russia, colpiranno ancora". Daniele Raineri su La Repubblica su il 24 Agosto 2022.
"La bomba contro l'auto del propagandista russo è stata piazzata dall’Esercito repubblicano. Sono in mille, hanno già colpito in 35 regioni", racconta l'ex parlamentare della Duma oggi in esilio in Ucraina
Ci sono due versioni contrastanti sulla morte di Daria Dugina, figlia dell'ideologo e propagandista russo Aleksandr Dugin, uccisa da una bomba cinque giorni fa mentre guidava in autostrada vicino Mosca. I servizi segreti russi dopo un'indagine durata due giorni hanno dichiarato che la colpevole è una donna ucraina che è scappata in Estonia - e si tratta di un'accusa conveniente perché permette a Mosca di attribuire l'attentato ai servizi ucraini.
Da ilgazzettino.it il 24 agosto 2022.
Nell'ultimo post c'è un concentrato di antiamericanismo e un messaggio diretto contro l'Italia e il premier italiano Mario Draghi definito un «Quisling», un «collaborazionista» degli americani. Darya Dugina nel suo ultimo post pubblicato sui social diceva che l'unica prospettiva valida per gli italiani alle elezioni del 25 è votare per le forze anti-establishment di "Italia sovrana e popolare", il partito di Rizzo e Ingroia.
L'affondo sull'ex premier è stato pubblicato quattro giorni fa sul sito diretto da Daria Dugina, la figlia dell'ideologo di Vladimir Putin rimasta uccisa in un attentato in Russia.
Nell'articolo pubblicato su United World International (Uwi) e firmato da Fabrizio Verde, si afferma che «l'Italia di Draghi, con il suo cieco servilismo verso gli Stati Uniti, ha contribuito all'attuale crollo dell'Europa, portandola sull'orlo di una crisi economica, politica, sociale».
Sulla spinta «delle élite politiche che hanno deciso di seguire i dettami di Washington e di lanciarsi contro la Russia, che è un fornitore di energia indispensabile per quasi tutta l'Europa».
Quanto alle prospettive future dell'Italia, nell'articolo si afferma che «non c'è in vista nessun cambiamento di prospettiva», neanche in caso di vittoria del centrodestra. Perché «Giorgia Meloni ha avuto fretta, come gli altri leader, di proclamare la sua fede nell'alleanza atlantica, che sembra una necessità per governare in Italia».
Per il sito di Daria Dugina, gli italiani dovrebbero puntare su «Italia Sovrana e Popolare, che include alcune formazioni come il Partito Comunista, Ancora Italia, Riconquistare l'Italia»: una coalizione considerata «unica alternativa al totalitarismo liberalista, guerrafondaio e sanitario», il cui programma mette «tra le priorità far uscire l'Italia dalla Nato, dall'Ue, dall'Euro e dall'Oms. E include lo stop immediato dell'invio di armi al regime ucraino e alle sanzioni alla Russia».
Daria Dugina era stata sanzionata dagli Stati Uniti a marzo proprio per il suo incarico di direttore di United World International, considerato da Washington un sito di disinformazione e propaganda filo-Cremlino.
Giuseppe Agliastro per “la Stampa” il 24 agosto 2022.
Una "martire" in nome della quale le truppe russe devono cercare "la vittoria" nell'atroce invasione dell'Ucraina: nella cerimonia funebre in sua memoria, politici e oligarchi filo-Cremlino hanno descritto così Darya Dugina, la propagandista russa assassinata alle porte di Mosca sabato notte, quando un ordigno ha fatto saltare in aria l'auto su cui viaggiava.
Parole spesso impregnate di nazionalismo e dell'inconfondibile propaganda di Putin, e che certo non spengono i timori di alcuni osservatori che il terribile delitto di cui è stata vittima questa giovane donna - da chiunque sia stato commesso - possa contribuire a un inasprimento degli attacchi dell'esercito russo in Ucraina.
A dare l'estremo saluto a Dugina - che era sotto sanzioni di Washington e Londra perché accusata di "disinformazione" sulla guerra in Ucraina - c'erano centinaia di persone: amici, colleghi, familiari, e alcuni noti politici e imprenditori russi.
Nella camera ardente allestita al centro televisivo Ostankino di Mosca, in una sala volutamente oscurata, tra le corone di fiori decorate col tricolore russo, tra le rose rosse i gigli bianchi, spiccava un ritratto in cui la 29enne sorrideva: una grande foto in bianco e nero illuminata e posta alle spalle della bara.
Seduti davanti al feretro c'erano i genitori della ragazza, vestiti a lutto, provati, a cominciare dal Aleksandr Dugin, il filosofo conservatore e ultranazionalista che appoggia apertamente la sanguinosa aggressione militare contro l'Ucraina. Alcuni lo considerano una sorta di ideologo dell'autoritarismo del Cremlino, per quanto la sua reale influenza sul presidente russo sia oggetto di discussione.
C'è chi ipotizza che in realtà fosse lui il vero obiettivo degli attentatori. Il controspionaggio russo sostiene invece che nel mirino ci fosse proprio la figlia, Darya Dugina. Lunedì, a nemmeno due giorni dall'omicidio, l'Intelligence russa ha infatti puntato il dito contro «i servizi speciali ucraini» e li ha accusati di aver commesso il crimine servendosi di una loro agente che viaggiava con una Mini cooper.
La versione delle autorità russe - sfoderata in tempi record - è ovviamente tutta da dimostrare e da parte sua l'Ucraina afferma di non avere nulla a che fare con questo tremendo delitto e sostiene che dietro ci siano semmai proprio i servizi russi. «L'Fsb ha fatto questo e ora suggerisce che sia stato qualcuno dei nostri», ha detto alla tv ucraina il segretario del Consiglio di sicurezza di Kiev, Oleksiy Danilov.
Sull'omicidio di Dugina si sa in realtà davvero troppo poco per trarre delle conclusioni. La tv russa comunque ripete la versione di Mosca senza metterla in dubbio e proprio il giorno dopo che la Russia ha accusato l'Ucraina per il delitto, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha tuonato che Mosca non avrà «nessuna pietà» per chi ha ucciso Dugina.
La televisione russa ha dedicato ampio spazio ai funerali della ragazza, a cui non erano presenti membri del governo ma durante i quali un delegato di Putin ha consegnato a Dugin la medaglia dell'Ordine del Coraggio, assegnata alla memoria a sua figlia.
«L'enorme prezzo che dobbiamo pagare può essere giustificato solo dal risultato più alto, la nostra vittoria», ha detto emozionato Dugin tra retorica e nazionalismo durante i funerali affermando che sua figlia «viveva per la vittoria ed è morta per la vittoria». Dichiarazioni dello stesso tono sul sanguinoso conflitto in Ucraina sono arrivate anche dall'oligarca Konstantin Malofeev. «Non è morta invano. Con il sangue dei nostri martiri diventiamo più forti», ha affermato Malofeev aggiungendo poi che «con questa morte prematura della nostra cara e amata Dasha» l'esercito russo «vincerà sicuramente la guerra».
Leonid Slutsky, leader del partito nazionalista Ldpr e presidente della Commissione Esteri della Duma, è arrivato addirittura a dichiarare che una piazza di Kiev potrebbe essere dedicata a Dugina una volta «completata la denazificazione» dell'Ucraina, ripetendo così le accuse infondate della propaganda di Putin secondo cui il governo di Kiev sarebbe un covo di fascisti: una menzogna con la quale il Cremlino cerca di giustificare l'ingiustificabile invasione dell'Ucraina.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 24 agosto 2022.
Era un funerale di stato a tutti gli effetti, quello di Darya Dugina, la figlia di Alexander Dugin assassinata nella notte tra sabato e domenica a Mosca. Il che conferma ancora una volta il rilievo che quella famiglia ha avuto in questi anni per i servizi e gli apparati della Russia di Vladimir Putin.
Ci sono diverse immagini estremamente dense di senso e rivelatrici della cerimonia, ne abbiamo scelte in particolare tre. La prima è quella di Leonid Slutsky, il presidente della Commissione Esteri della Duma, che nella sua orazione funebre ha addirittura mimato lo slogan hitleriano «Ein Volk, ein Reich, ein Führer»: «Qualunque sia il tuo partito politico, fede o età, c'è solo una via. Un paese! Un presidente! Una vittoria!». Slutsky è anche quello che, visto il buon legame stabilito con il 5 stelle Vito Petrocelli, gli scrisse una lettera formale nel maggio 2020 - dopo la vicenda degli "aiuti russi sul Covid" - passando all'incasso con la richiesta di far togliere le sanzioni alla Russia.
La seconda immagine racconta ancora una volta quanto vicino sia ai Dugin l'oligarca Konstantin Malofeev, plurisanzionato per l'annessione illegale della Crimea nel 2014, da lui finanziata. Malofeev, Dugin e Igor Girkin sono stati personaggi cruciali in tutta quella vicenda, Dugin teorizzò che occorreva «uccidere, uccidere, uccidere gli ucraini».
La terza immagine certifica la riapparizione di Evgheny Prigozhin, l'oligarca sanzionato dalla Ue come capo del gruppo mercenario Wagner, che non si era più visto dal bombardamento della base Wagner a Popasna, proprio in giorno in cui lui era presente sul posto. La Stampa ha ricostruito che Dugina aveva un rapporto di lavoro con Prigozhin: gestiva una serie di persone fittizie online.
Nel marzo 2022 documenti ufficiali americani scrivono: «L'organizzazione di influenza sui media Project Lakhta, di proprietà di Prigozhin, ha sviluppato un nuovo sito, United World International (Uwi). Almeno dal 2014, Project Lakhta ha utilizzato, tra le altre cose, persone online fittizie che si fingevano statunitensi per interferire nelle elezioni Usa, come ha fatto l'Ira durante le elezioni del 2016. Nel 2022, l'Uwi ha suggerito che l'Ucraina «morirebbe» se fosse stata ammessa alla Nato.
Il capo redattore di Uwi, Darya Aleksandrovna Dugina (Dugina), ha cercato collaboratori per scrivere articoli su Uwi». Una famiglia tra Prigozhin e Malofeev, pieni servizi russi. E specializzata in false flag e depistaggi.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 23 agosto 2022.
Anche Darya Dugina aveva un indirizzo mail di Tsaargrad, l'organizzazione dell'oligarca Konstantin Malofeev di cui Alexander Dugin, suo padre, era direttore editoriale. Una delle mail leakate dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky viene spedita da Gianluca Savoini, il consigliere di Salvini poi messo da parte dopo lo scandalo Metropol, e a chi scrive Savoini? Proprio a Darya Dugina. I due stanno organizzando un evento in pompa magna a Milano, dove si pensa di far venire anche esponenti ufficiali dello stato russo: «Il 28 gennaio ci sarà un grande incontro con Marine Le Pen, Strache e altri partiti del gruppo europeo a Milano.
Come abbiamo detto a dicembre, inviteremo anche Russia Unita e Aleksandr Dugin». Un happening notevole, viene informata Dugina, con anche un pranzo privato «con Matteo, alcuni membri importanti e i nostri amici russi». Si scelse un profilo più basso, poi, con figure non ufficiali. Queste mail sono ormai in giro, una delle prove più dettagliate del network antieuropeo e euroscettico al quale i Dugin e Malofeev hanno lavorato per anni in Europa. Qualcosa di profondamente legato ai servizi russi, ancora più inquietante oggi dopo l'assassinio di Dugina a Mosca.
«Vedo che il grande pubblico scrive con condiscendenza che Dugin ha zero influenza, e così via. No, Dugin è uno strumento importante attraverso il quale i servizi segreti russi hanno stabilito contatti con vari politici dagli antisemiti iraniani alla Lega in Italia», spiega Roman Dobrokhotov, fondatore di The Insider e uno dei tre "Roman" terribili del giornalismo indipendente russo (con Badanin e Amin) illuminando l'importanza di Dugin.
Oltre all'Italia e all'Iran, spiega Dobrokhotov, Dugin ha lavorato con Turchia, Grecia, Balcani e un'altra dozzina di paesi «in cui il reclutamento attivo è in corso con il pretesto della cooperazione tra partiti conservatori». È un'altra questione, osserva, che anche un'attività del genere può scatenare un tentativo di assassinio. Nel suo libro Putin's People, Catherine Belton racconta di come Dugin fosse figlio di un colonnello del Kgb.
Politicamente la figura più importante assieme a lui è stata Konstantin Malofeev, oligarca plurisanzionato dal 2014 come finanziatore dell'aggressione russa alla Crimea, e mediatore tra l'altro di un "prestito"" russo di 11 milioni a Marine Le Pen, attraverso una banca di Praga.
Malofeev mette su fin dal 2013 una serie di società (Tsaargrad group) con diversi compiti, tra cui media e propaganda, e ne affida la direzione editoriale a Dugin. Il quale in quella veste intervista anche Matteo Salvini. Nel novembre 2017, subito prima del voto italiano del 2018. Dugin dice a Salvini che «è essenziale definire un nuovo soggetto politico.
Credo che la gente può essere questo soggetto. Non un individuo, né la nazionalità, ma la gente». Salvini annuisce entusiasta. E cita appunto Le Pen:«In effetti, la campagna effettuata da Marine Le Pen in Francia, come il motto ha: "In nome del popolo!"». Non è chiaro se è in quell'occasione a Mosca che Salvini conosce Darya Dugina. Esistono foto di loro due come vecchi amici, una pubblicata ieri da La Stampa.
Nelle mail rivelate dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky e Michael Weiss, si legge che Tsargrad fungeva anche da intermediario tra i partiti e i politici di alto rango della Russia. E stava organizzando per l'autunno del 2019 un mega evento del network Dugin in Europa. Sappiamo che si sarebbe dovuto tenere al Konstantinovsky Palace, a San Pietroburgo. La cosa poi saltò, anche per una serie di scandali tra cui i contatti Lega-Russia dell'hotel Metropol.
Certo è che nei documenti leakati, il braccio destro di Malofeev e Dugin, Mikhail Yakushev, scrive:«Senza il nostro impegno attivo e il nostro sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire».
Yakushev parla anche dell'epidemia di Covid, che è all'inizio, e può essere sfruttata: «Riteniamo che al momento ci sia ancora la possibilità di ripristinare i contatti per un lavoro sistematico con gli euroscettici per contrastare la politica sanzionatoria di Bruxelles». Di lì a poco, Vladimir Putin concorda con Giuseppe Conte la missione di aiuti russi in Italia, ormai da molti osservatori ritenuta una spy ops su suolo Nato.
MOSCA CONFERISCE ONORIFICENZA POSTUMA AL VALORE A DUGINA
(ANSA il 22 agosto 2022) - Con un decreto presidenziale, la Russia onora Darya Dugina, morta sabato per una bomba che ha fatto esplodere la sua auto, con l'Ordine del Coraggio. Lo rende noto l'agenzia Tass. Il decreto recita che l'onorificenza postuma è attribuito a Darya Aleksandrovna Dugina "per il coraggio e la dedizione nell'espletare i suoi doveri professionali".
DUGINA, L'ACCUSA DI MOSCA: "UCCISA DA UNA DONNA UCRAINA POI FUGGITA IN ESTONIA". IL PADRE: "VOGLIAMO PIÙ DI UNA VENDETTA"
Estratto dell’articolo di Daniele Raineri per repubblica.it il 22 agosto 2022.
I servizi segreti della Russia (Fsb) annunciano di avere trovato la colpevole dell’uccisione di Daria Dugina, figlia dell’ideologo e propagandista Aleksandr Dugin, avvenuta sabato sera con una bomba piazzata sotto il sedile della sua automobile. Si tratterebbe di una cittadina ucraina, Natalya Pavlovna Vovk, entrata in Russia con la figlia dodicenne il 23 luglio e scappata in Estonia subito dopo l’operazione.
Avrebbe anche affittato un appartamento nello stesso palazzo della Dugina per sorvegliarla meglio, avrebbe guidato una Mini Cooper – alla quale ha cambiato tre volte la targa – e avrebbe agito per conto dei servizi segreti ucraini. Sabato sera sarebbe andata assieme alla figlia al festival “Tradizioni”, dove avrebbe piazzato la bomba.
[...] Dugin oggi ha parlato per la prima volta dopo avere visto da vicino l’esplosione che ha ucciso la figlia, con un comunicato in linea con tutta la sua propaganda che accusa “il regime nazista dell’Ucraina” di avere ordinato l’attentato. “I nostri cuori bramano qualcosa di più della semplice vendetta o punizione. Abbiamo solo bisogno della nostra Vittoria. Mia figlia ha deposto la sua vita da vergine sul suo altare. Quindi vinci, per favore! Volevamo farla diventare intelligente e un eroe. Lascia che ispiri i figli della nostra Patria all'impresa anche adesso”, scrive, e sembra anche in questa occasione chiedere a Putin di aumentare lo sforzo bellico nel conflitto contro Kiev.
Anche Putin ha parlato per la prima volta denunciando che "un crimine vile e crudele ha interrotto la vita di Darya Dugina, una persona brillante e di talento con un vero cuore russo", il presidente russo non ha però fino ad ora commentato i risultati delle indagini.
DAGONOTA il 23 agosto 2022.
C’è qualcuno che crede davvero che ci sia la presunta spia Natalia Vovk dietro all’attentato a Darya Dugina? Nemmeno i russi hanno abboccato alla versione dell’FSB, il servizio di intelligence erede del KGB.
Anzi, molti esperti ritengono che dietro all’attacco ci possano essere proprio gli alti papaveri del Cremlino, e addirittura frange dissidenti dei servizi segreti, che si stanno rivoltando contro Putin. È la tesi dello storico Yuri Felshtinsky, citato dal Daily Mail: "L'esplosione dell'auto del famoso fascista russo e ideologo del regime di Putin, Alexander Dugin, è stata organizzata dai servizi di sicurezza russi. La bomba è stata attaccata all'auto di Dugin all'interno del suo complesso sorvegliato".
In effetti, Kiev avrebbero ben poco da guadagnare dall’attentato, che ora sarà usato da Putin per giustificare una nuova offensiva sull’Ucraina. Anche l'ex legislatore russo Ilya Ponomarev ha affermato che l'esplosione è stata opera di un gruppo russo sconosciuto, il Partito Repubblicano Nazionale: “Questo attacco apre una nuova pagina nella resistenza russa al putinismo. Nuova - ma non l'ultima".
(ANSA il 23 agosto 2022) - "Il sostegno alla guerra sta calando in Russia e il Cremlino ha bisogno di una mobilitazione sociale. Per questo l'Fsb (i servizi russi, ndr) sta pianificando una serie di atti terroristici nelle città russe, con tante vittime civili. Dugina è stata solo la prima. L'Ucraina, a differenza della Russia, non è in guerra con i civili". Lo ha detto Oleksii Danilov, Segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale dell'Ucraina, citato dal giornale Ukrainska Pravda.
(ANSA il 23 agosto 2022) - "Non siamo affatto coinvolti nell'esplosione che ha ucciso questa donna: è opera dei servizi segreti russi". Lo ha dichiarato Oleksii Danilov, Segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale dell'Ucraina citato dal giornale Ukrainska Pravda, a proposito dell'uccisione di Darya Dugina, figlia dell'ideologo di Putin. "'Fsb (i servizi russi) ha fatto questo e sta dicendo che è stato qualcuno della nostra parte a farlo. Non lavoriamo così. I nostri uomini e donne hanno compiti più importanti", ha aggiunto.
(ANSA il 23 agosto 2022) - "Il Dipartimento di Stato ha informazioni sul fatto che la Russia potrebbe rafforzare gli attacchi contro le infrastrutture civili e governative ucraine nei prossimi giorni". Lo afferma l'ambasciata americana a Kiev, sottolineando che gli attacchi russi in Ucraina continuano a rappresentare una minaccia per i civili e le infrastrutture civili.
Estratto dell’articolo di Marco Ventura per “il Messaggero” il 23 agosto 2022.
Vladimir Putin tace e prepara la reazione. In silenzio, come le sue dilette tigri siberiane. Si limita a pubblicare un messaggio sul sito del Cremlino in occasione della giornata nazionale della bandiera russa, per dire che «la Russia è una potenza mondiale forte e indipendente» e che personalmente s' impegna a perseguire politiche a favore degli «interessi vitali della nostra patria». Poi, detta le condoglianze a Dugin per l'uccisione della figlia e le conferisce l'onorificenza postuma dell'Ordine del Coraggio.
«Un crimine vile e crudele ha interrotto - afferma Putin - La vita di una persona brillante e di talento con un vero cuore russo: gentile, amorevole, comprensiva e aperta, ha dimostrato coi fatti cosa significhi essere una patriota della Russia».
[…] Non parla nessun alto papavero del Cremlino né della Duma, e per intercettare una possibile reazione di Mosca bisogna andare fino a Ginevra, da Gennady Gatilov, il rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite nella città svizzera, che confida al Financial Times di non vedere alcuna possibilità di una soluzione diplomatica al conflitto e di attendersi una lunga guerra.
[…] Putin sa bene che il moltiplicarsi degli attacchi diretti alla Crimea, […] e l'attentato che ha scosso la notte moscovita, alimentano le richieste di vendetta in Russia. […] Un autorevole quanto anonimo analista osserva che «Putin ha dimostrato, a differenza di quanto molti sostengono, di non soffrire o avere problemi interni: gli basta cambiare due o tre volte il responsabile della Flotta del Mar Nero o qualche dirigente dei servizi.
Al messaggio recapitato con la bomba dell'altra notte, cioè che chiunque sia stato è in grado di colpire anche a Mosca, nel perimetro del potere - anche se va detto che Dugin non è il vero ideologo di Putin né il suo Rasputin - è probabile che Putin decida di ribattere con la stessa moneta: una reazione mirata sui palazzi che contano a Kiev, magari in coincidenza con la festa dell'Indipendenza ucraina il 24 agosto: target simbolici come la sede dei servizi segreti o il ministero della Difesa».
Micol Flammini per “il Foglio” il 23 agosto 2022.
Ci sono crimini che rimangono irrisolti per sempre in Russia. Quello di Daria Dugina, figlia del politologo e propagandista Aleksandr, ha richiesto all’Fsb soltanto due giorni di indagini. Il sito russo Holod media ha messo tanta velocità a confronto con quella di altre uccisioni e, per fare un esempio, per trovare il colpevole dell’omicidio dell’oppositore Boris Nemtsov i servizi russi hanno impiegato 2.733 giorni.
Nel caso di Nemtsov vennero accusati cinque ceceni – erano ancora i ceceni il nemico numero uno di Mosca. Per Dugina l’Fsb dice che la colpevole si chiama Natalia Vovk, e non soltanto è ucraina – il nuovo nemico da odiare – ma è identificata anche come un membro del battaglione Azov: i nazisti che Mosca ha usato come pretesto per la sua operazione speciale.
I media russi hanno pubblicato quello che dicono essere il documento di identità di Vovk, con cui la donna sarebbe entrata in Russia e che specifica la sua appartenenza al battaglione: a quanto pare nessuna guardia di frontiera deve aver ritenuto il dettaglio rilevante. Vovk sarebbe arrivata in Russia con sua figlia di dodici anni, avrebbe preso un appartamento vicino a quello di Dugina e l’avrebbe seguita con una Mini Cooper.
A bordo della stessa macchina è poi fuggita in Estonia, dove si troverebbe attualmente. I russi chiedono l’estradizione e Margarita Simonyan, direttrice di Rt, ha detto che se Tallinn non vorrà fare come dice Mosca, i russi troveranno la loro strada: “Abbiamo professionisti che vogliono ammirare le guglie nelle vicinanze di Tallinn”. Quando due uomini dell’intelligence militare russa andarono a Salisbury per avvelenare l’ex spia Sergei Skripal, Mosca disse che si trattava di semplici turisti, e ora le parole di Simonyan suonano come un’ammissione e sono il segno del fatto che la Russia non è neppure più interessata a mentire.
Già da sabato notte, prima del comunicato ufficiale dell’Fsb, i media russi accusavano l’Ucraina e i suoi servizi, ma ora il Cremlino sta restringendo il campo e punta dritto al battaglione Azov, che per i russi è un’organizzazione terroristica, e alla quale il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dedicato il suo discorso di domenica. Zelensky ha detto che se avrà luogo il processo a Mariupol contro i prigionieri di Azovstal, che fanno parte del battaglione, l’Ucraina lo considererà il superamento di una linea rossa “oltre la quale qualsiasi negoziato sarà impossibile”.
Ieri il reggimento Azov ha tenuto una conferenza stampa in cui un combattente di nome Wikipedia ha detto di non conoscere Vovk. Il messaggio che arriva dalla Russia è che Daria Dugina fosse il vero obiettivo dell’attacco, e Mosca è decisa ad attribuire tutta la responsabilità al battaglione Azov, probabilmente per legittimare il processo. Dall’evacuazione di Azovstal, la Russia si interroga su cosa fare con i prigionieri: scambiarli oppure processarli e sottoporli a una punizione esemplare.
Quest’ultima è la linea dei falchi. Il presidente russo ha mandato soltanto ieri un messaggio di condoglianze, parlando di un crimine “vile e crudele” e di Daria Dugina come di “una persona brillante e di talento con un vero cuore russo: gentile, amorevole, comprensiva e aperta. Ha dimostrato con i fatti cosa significa essere un patriota della Russia”.
Poco dopo è arrivata anche la prima dichiarazione di Dugin che chiede di aumentare la violenza contro l’Ucraina: “I nostri cuori bramano qualcosa di più della vendetta o della punizione. E’ troppo meschino, non è il modo russo. Abbiamo bisogno della nostra vittoria”. Dugin è sempre stato un sostenitore della guerra contro Kyiv, ritiene però che Putin abbia posto obiettivi troppo limitati. E’ tra i falchi, tra coloro che ritengono Putin troppo debole e magari pensano anche che al Cremlino ci vorrebbe un comandante più deciso.
E’ ancora difficile stabilire chi aveva interesse a uccidere Dugina, se sia stato un errore, se si sia trattato di sabotatori. C’è però un dato che si può trarre: per far tacere i falchi, Putin dovrà dare retta alla linea più dura e lo sta già facendo. Ieri, in tutta l’Ucraina, le sirene sono suonate con molta frequenza e il paese ha cancellato ogni celebrazione in occasione del 24 agosto, giorno in cui si ricorda l’indipendenza dall’Urss. In vista del trentunesimo anniversario, a Kyiv erano già stati disposti i mezzi militari russi distrutti dall’esercito ucraino dal 24 febbraio.
(ANSA il 29 agosto 2022) - Il servizio di sicurezza russo Fsb ha detto di avere identificato un secondo cittadino ucraino accusato di avere partecipato all'attentato in cui il 20 agosto ad ovest di Mosca è stata uccisa Darya Dugina, figlia del filosofo ultranazionalista Alexander Dugin. Si tratta di Bodan Petrovich Tsyganenko, che avrebbe collaborato con Natalya Vovk, accusata di avere fatto esplodere la bomba sull'auto della Dugina.
Secondo i servizi russi, citati dalla Tass, l'uomo, di 44 anni, sarebbe anch'egli un agente dei servizi segreti ucraini, accusati di avere organizzato e compiuto l'attentato. Tsyganenko sarebbe entrato in Russia dall'Estonia il 30 luglio e avrebbe lasciato il Paese il giorno prima dell'uccisione della Dugina.
L'Fsb lo accusa di avere fornito false targhe automobilistiche e falsi documenti alla Vovk sotto il nome di una cittadina kazaka, oltre che di avere confezionato l'ordigno usato per l'attentato. Il servizio di sicurezza russo aggiunge che le indagini continuano per identificare altri complici.
L'inchiesta dell'Fsb. Attentato contro Dugina, Mosca accusa un secondo 007 ucraino: “Ha fornito documenti falsi e fabbricato la bomba”. Redazione su Il Riformista il 29 Agosto 2022
Un secondo cittadino ucraino coinvolto nell’attentato costato la vita a Darya Dugina, figlia del filosofo ultranazionalista Alexander Dugin. A identificarlo è stato l’Fsb, il servizio di sicurezza russo che sta indagando dal 20 agosto scorso sulla morte della giornalista e analista politica russa, uccisa nell’esplosione di una bomba piazzata nella sua auto, sulla quale avrebbe dovuto viaggiare anche il padre ‘ideologo’ del presidente Vladimir Putin.
L’uomo, di 44 anni, si chiama Bodan Petrovich Tsyganenko: anch’egli agente dei servizi segreti ucraini, avrebbe collaborato con l’altra 007 di Kiev Natalya Vovk nell’attentato costato la vita alla Dugina nell’esplosione avvenuta a ovest di Mosca lo scorso 20 agosto.
Tsyganenko sarebbe entrato in Russia dall’Estonia il 30 luglio e avrebbe lasciato il Paese il giorno prima dell’uccisione della Dugina. L’Fsb lo accusa di avere fornito false targhe automobilistiche e falsi documenti alla Vovk sotto il nome della cittadina kazaka Yulia Zaiko, oltre che di avere confezionato l’ordigno usato per l’attentato.
“L’ulteriore indagine ha stabilito che l’omicidio di Dugina è stato preparato a Mosca, insieme a Natalia Vovk, da un altro membro del gruppo di sabotaggio e terrorista ucraino, il cittadino ucraino Bogdan Petrovich Tsyganenko, nato nel 1978, arrivato in Russia tramite Estonia il 30 luglio 2022 e che ha lasciato il territorio russo il giorno prima dell’esplosione che ha ucciso Dugina“, si legge in un comunicato diffuso dall’Fsb tramite l’agenzia stampa russa Tass.
La ricostruzione ufficiale russa sulla morte della Dugina, premiata dal presidente Vladimir Putin con l’Ordine coraggio per la dedizione mostrata nell’esercizio del suo dovere professionale, è stata sin dal primo giorno smentita da Kiev.
Dugin's list. Report Rai PUNTATA DEL 16/05/2022 di Emanuele Bellano
Collaborazione di Chiara D’Ambros, Edoardo Garibaldi
Una lettera riservata inviata da Dugin a un suo collaboratore svela il progetto del Cremlino.
L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia era stata teorizzata e prevista dal filosofo e ideologo russo Aleksandr Dugin le cui teorie, secondo molti analisti, sarebbero di ispirazione per la politica di Vladimir Putin. Una lettera riservata inviata da Dugin a un suo collaboratore svela il progetto del Cremlino, messo in atto nell'ultimo decennio: generare un sentimento filo-russo nei Paesi europei, minare dall'interno i valori fondanti dell'Europa, contrastare la gestione unipolare del mondo guidata dagli Stati Uniti. La diffusione di questi valori e la loro penetrazione in Occidente viene spinta da Mosca attraverso un sofisticato quanto poderoso meccanismo di "soft power". Investendo oltre 240 milioni di euro, filtrati attraverso società off-shore e compagnie fantasma, la Russia ha stretto rapporti di collaborazione con forze politiche europee di estrema destra e con esponenti del mondo politico e culturale, indirizzando in alcuni casi perfino le scelte politiche e di governo dei Paesi Europei.
DUGIN’S LIST di Emanuele Bellano collaborazione Chiara D’Ambros – Edoardo Garibaldi Ricerca immagini Paola Gottardi
ALEKSANDR DUGIN – FILOSOFO Questo tour, questo viaggio attraverso l’Italia questa volta era per me soggettivamente evento perché ho incontrato tanta gente, in tanti luoghi, grande interesse, grande odio, di certi centri dell’influenza globalisti, liberali, che hanno fatto la guerra informatica, la guerra culturale contro me.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo video amatoriale è stato registrato nel tragitto tra Udine e l’aeroporto di Malpensa, nel 2019 al termine del tour di 14 giorni in Italia del filoso e politologo Aleksandr Dugin. Il viaggio ha portato Dugin in 10 città italiane in cui ha partecipato a convegni, incontri e interviste.
GIORNALISTA RETE55 Professor Dugin perché lei fa paura?
ALEKSANDR DUGIN Sono chiamato anche da alcuni giornali americani il filosofo più pericoloso del mondo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dugin è considerato l’ideologo a cui si ispira il presidente russo Vladimir Putin. Secondo gli analisti occidentali le sue teorie sull’Eurasianesimo avrebbero ispirato anche il progetto da parte della Russia di invasione dell’Ucraina.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Io definisco l’Eurasianesimo come una forma di fascismo. Nella logica dell’Eurasianesimo c’è la concezione dello scontro con l’occidente finalizzato non solo a garantire la sopravvivenza della Russia ma a farla tornare grande.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma Dugin ha agito non solo come filosofo e ideologo. Oggi è possibile ricostruire la rete di relazioni che per anni ha tessuto tra il Cremlino e personaggi influenti in Occidente. In questa lettera riservata, spedita a un suo collaboratore elabora un elenco diviso per singoli paesi. Il titolo è di per sé emblematico: “Paesi e persone in cui vi sono motivi per creare un club d’élite o un gruppo di influenza informativa”. Lo scopo è diffondere posizioni filo-russe, coltivare l’ideologia eurasiatica e minare i principi che fondano l’Europa e l’Occidente. Tra i paesi citati da Dugin c’è anche l’Italia. Nella lista, tra i primi, compare Orazio Gnerre. Vicino alla causa dei separatisti filorussi del Donbass, la regione dell’Ucraina orientale in cui in questi giorni si sta concentrando il fuoco dell’esercito russo, Gnerre nel 2014 vola a Donetsk dove incontra Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk.
EMANUELE BELLANO C’è un documento come la Dugin’s List, la lista di Dugin. Tra le persone che vengono citate in questa mail di Dugin c’è il suo nome.
ORAZIO MARIA GNERRE – STUDIOSO Mi scusi ma mi sta dicendo una cosa veramente nuova. I miei rapporti culturali con il professor Dugin sono stati di breve durata e neanche significativi.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I rapporti tra Gnerre e Dugin risalgono almeno al 2013. Quell’anno Orazio Gnerre partecipa a una conferenza in Russia presieduta proprio da Alexandr Dugin. Due anni dopo Gnerre è di nuovo in Russia per partecipare a un forum a San Pietroburgo organizzato dal partito nazionalista russo Rodina.
EMANUELE BELLANO L’obiettivo dichiarato di questo forum qual è?
ANDREA FERRARIO - BLOGGER Era quello principalmente di ottenere degli agganci che promuovessero gli interessi di Mosca in Europa e in particolare l’annullamento delle sanzioni che erano state introdotte dopo l’annessione della Crimea.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 22 giugno 2015 Gnerre riceve un sms da parte di Dugin: Orazio, sono a Milano per la conferenza di oggi. Puoi entrare in contatto con Gianluca Savoini? Poche ore dopo Gnerre riceve una telefonata proprio da Savoini
GIANLUCA SAVOINI - SMS Buongiorno Orazio, ci vediamo stasera?
ORAZIO MARIA GNERRE – SMS Assolutamente! Assolutamente, sarò anch’io alla conferenza.
GIANLUCA SAVOINI - SMS Benissimo perché sono qui col professore e volevo confermare. Lei si può fermare con noi a cena? ORAZIO MARIA GNERRE – SMS Molto volentieri
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Applicando in Italia il “soft power” russo Alexandr Dugin contatta le persone della sua lista. Oltre a Orazio Gnerre anche Claudio Mutti, direttore della Rivista Eurasia, con sede a Parma, e anche lui citato nella lista.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In sostanza è l’attuazione del “soft power” russo alle nazioni Occidentali. EMANUELE BELLANO Di cosa si tratta?
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Consiste nell’influenzare un paese al fine di renderlo più favorevole alle proprie posizioni. I russi hanno cercato negli anni di fare appiglio sull’agenda noglobal dell’estrema sinistra, sull’agenda antiamericana della sinistra ma anche dell’estrema destra, sull’antimulticulturalismo, ma anche su tutti quei movimenti cristiani ultraconservatori che difendono la visione tradizionale della famiglia.
EMANUELE BELLANO Tutto questo al fine di minare dall’interno i valori fondanti dell’Occidente e dell’Europa?
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sì, la “political warfare” è una zona grigia, una via di mezzo tra la pace e la guerra che la Russia ha messo in atto finanziando per anni nei paesi europei le forze politiche contrarie all’establishment.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Orazio Gnerre finito sotto indagine del Ros, perché era sospettato di far parte di una rete internazionale, una rete nera che aveva tra i punti di riferimento Maurizio Murelli, il neo fascista condannato di concorso in omicidio del poliziotto Antonio Marino, durante una manifestazione nel ‘73. Dopo il carcere Murelli aveva rapportI con Dugin, fonda l’associazione culturale Orion, un’associazione che mescolava idee neofasciste con quelle filorusse. Di questa associazione faceva parte anche Gianluca Savoini l’ex portavoce di Salvini coinvolto nello scandalo del Metropol, era una associazione che aspirava al Progetto euroasiatico. L’Europa e l’Asia sotto l’egemonia russa. Orazio Gnerre è stato indagato dal Ros e dalla Procura di Genova perchè sospettato di reclutare miliziani da portare in Donbass per farli combattere al fianco dei filorussi. Ma la vicenda è stata archiviati, è stata la stessa Procura, lo diciamo chiaramente a chiedere l’archiviazione per Gnerre Nella lista di Dugin, facevano parte anche il giornalista e saggista Massimo Fini, il giornalista e politico Giulietto Chiesa, che è deceduto nel frattempo, c’è il movimento politico Fiamma Tricolore, poi una serie di attivisti, associazioni, editori e direttori come Claudio Mutti responsabile di Rivista Eurasia. Si costituisce così, si costituirebbe anzi, quella che l'analista Anton Shekhovstov ha definito “l’internazionale nera”. I rapporti tra Putin, il Cremlino attraverso il soft power e vari stati sono stati intensi. Tra questi c’è Germania, Grecia, Romania, Polonia, Turchia. Uno degli ultimi casi è quello del rapporto con il Front National di Marine Le Pen, diventato nel 2018 diventato Rassemblement National. I rapporti con la Le Pen cominciano nel 2010 diventano più intensi nel 2014 dopo l’invasione russa della Crimea, quando viene indetto un referendum per decretarne l’annessione alla Federazione Russa e a Putin ha bisogno di osservatori internazionali neutrali, insomma neutrali si fa per dire.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il referendum in Crimea è programmato per il 16 marzo 2014. Il Cremlino ha bisogno di politici e osservatori occidentali che diano riconoscimento internazionale al risultato delle urne. Nei giorni immediatamente precedenti due alti esponenti della politica russa si scambiano sms a riguardo.
TIMOR PROKOPENKO – SMS Puoi portare Marine Le Pen in Crimea come osservatore, è estremamente necessario, ho detto al capo che sei con lei.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A scrivere è Timur Prokopenko, vice capo del dipartimento Interno della presidenza russa, vicino a Vladimir Putin. L’sms è indirizzato a Konstantin Rykov, politico e produttore televisivo russo, assiduo frequentatore della Francia e della Costa Azzurra. Il giorno dopo Rykov scrive a Prokopenko
KONSTANTIN RYKOV – SMS Riguardo a Marine Le Pen: ora ha una campagna elettorale municipale, è in tournée. È improbabile che possa venire lei, ma forse potrebbe qualcuno dei suoi vice.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Infatti Konstantin Rykov, riesce a portare in Crimea per il referendum l’allora consigliere internazionale di Marine Le Pen, membro del Front National, Aymeric Chauprade.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Dal 2014 al 2019 Chauprade è stato parlamentare europeo. In quel frangente la figlia del portavoce di Putin, Dimitri Peskov, è stata stagista presso il suo ufficio al Parlamento Europeo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Aymeric Chauprade è nella lista di Aleksandr Dugin in quanto persona di influenza filorussa, in Francia. Affianco al suo nome Dugin scrive: “Sostiene un'alleanza strategica tra Europa e Russia per contrastare efficacemente la politica mondiale unipolare degli Stati Uniti”. Intervistato ripetutamente dal canale di propaganda russa in Europa RT, Chauprade interviene nel 2014 sulla situazione in Ucraina.
AYMERIC CHAUPRADE – FRONT NATIONAL Gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno interferendo nelle questioni politiche ucraine. La posizione dei paesi occidentali è dannosa e può portare a un peggioramento della situazione in Ucraina.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Su RT, la TV di propaganda russa in Europa, interviene più volte anche Marine Le Pen, sostenendo di voler liberare la Francia dai vincoli imposti dall’Unione Europea anche a costo di uscire dall’UE. Ma cosa c’è dietro il legame sempre più stretto che Aymeric Chauprade e Marine Le Pen intrecciano con la Russia di Putin? Nel 2014 Chauprade entra in contatto con l’Oligarca russo, sostenitore di Putin Konstantin Malofeev. Tra aprile e settembre attraverso un complesso giro di società il Front National ottiene un finanziamento da due banche russe per un totale di 11 milioni di euro. 400 mila euro di questo finanziamento sarebbero finiti a Chauprade per finanziare la sua campagna elettorale. Il resto rimane nelle disponibilità del Front National, oggi diventato Rassemblement National.
LAURENT JACOBELLI - PORTAVOCE RASSEMBLEMENT NATIONAL Quando il Front Nationale all’epoca ha deciso di finanziare la sua campagna elettorale ha chiesto un prestito alle banche francesi che hanno rifiutato sistematicamente. Subito dopo abbiamo provato con le banche dell’Unione Europea che si sono comportate nello stesso modo. A quel punto abbiamo trovato una banca russa che ha accettato di prestarci il denaro necessario per fare la nostra campagna elettorale.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Una tranche del prestito il Front National lo riceve nel settembre 2014 per un importo di 9 milioni di euro dalla First Czech- Russian Bank. EMANUELE BELLANO È possibile sapere chi ha autorizzato il finanziamento al Front National?
MAXIME VAUDANO – LE MONDE La First Czech-Russian Bank è formalmente una banca privata, ma sappiamo bene che ha stretti legami con il Cremlino. Per questo è impossibile che il prestito fosse concesso senza l’autorizzazione del potere politico di Mosca. Poi c’è un secondo prestito, quello da 2 milioni di euro che è più misterioso perché arriva attraverso una società con sede a Cipro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell’aprile 2014 il Front National riceve il denaro dalla Vernonsia Holding Ltd. la società è propaggine a Cipro della compagnia russa VEB Capital. In altre parole, un braccio finanziario del Cremlino. All’epoca a capo di VEB Capital c’era Yuriy Kudimov. Espulso nel 1985 dalla Gran Bretagna con l’accusa di essere una spia russa del KGB, Kudimov è dal 2010 in stretti rapporti con l’oligarca russo amico di Putin, Konstantin Malofeev.
LAURENT JACOBELLI - PORTAVOCE RASSEMBLEMENT NATIONAL Vi assicuro che non c’è nessun legame, nessun legame, tra Vladimir Putin e noi, né politico, né nei contenuti, né in materia di finanziamenti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando il 24 febbraio la Russia invade l’Ucraina, la Francia è in piena campagna elettorale per l’elezione del presidente. Il giornale Liberation pubblica un articolo in cui rivela che Marine Le Pen ha gettato al macero migliaia di volantini elettorali che la ritraevano insieme a Vladimir Putin. La leader del Ressamblement National supera gli altri candidati e arriva comunque al ballottaggio con Emmanuel Macron.
AYMERIC DUROX - RASSEMBLEMENT NATIONAL NANGIS (ILE DE FRANCE) Questi sono i voti che Marine Le Pen ha preso qui al secondo turno. Sono numeri importanti. Grazie a questi voti ho delle chance di diventare deputato.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nella 44esima circoscrizione a sud-est di Parigi il Ressemblement National ha preso oltre il 56 per cento dei voti vincendo in 130 comuni su 150.
EMANUELE BELLANO Nei programmi elettorali di Marine Le Pen c’era l’idea di uscire dalla Nato e comunque di svincolarsi in qualche modo dall’Europa. Non avete paura oggi con la situazione internazionale che c’è adesso che la Francia possa prendere con Marine Le Pen una direzione in questo senso?
AYMERIC DUROX - RESSAMBLEMENT NATIONAL NANGIS (ILE DE FRANCE) Non credo che i francesi si facciano condizionare da queste questioni internazionali sull’uscire dalla Nato o no. I francesi in Francia non hanno più potere d’acquisto, sono preoccupati per la loro sicurezza e per questo bisogna criticare l’Europa che ha arricchito la Germania, ha impoverito l’Italia e ha impoverito la Francia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora abbiamo capito intanto che la Guerra fredda non è mai cessata. Caso mai si è trasformata in "political warfare" cioè una sorta di guerra però non combattuta con armi tradizionali bensì con la politica e la propaganda Putin ha bisogno di osservatori internazionali per sancire referendum indetto per l’annessione della Crimena, bene il suo vice capo del dipartimento Interno Timur Prokopenko scrive ad un politico, produttore televisivo Rykov, che vive in Costa Azzurra, dice perchè non coinvolgi Marine Le Pen come osservatore internazionale. Lei non può e in Crimea va il suo consigliere internazionale Aymeric Chauprade. Chauprade risulta poi nella lista di Dughin, come “sostenitore di un'alleanza strategica tra Europa e Russia per contrastare la politica mondiale unipolare degli Stati Uniti”. Nello stesso anno il Front National viene finanziato per oltre 11 milioni di euro. 400 mila sarebbero finite invece nelle case di Chauprade per finanziare la sua campagna elettorale. A elargire il finanziamento, sono istututi finanziari, bracci finanziari del Cremlino. Due milioni in particolare proverrebbero da una società di Kudimov. Kudimov che è stato espulso dalla Gran Bretagna sospettato di essere una spia russa. Insomma la lista di Dugin è molto ricca arriva anche in Polonia. Una Polonia che condivide con l’Ucraina un lungo confine e quindi risente particolarmente di questo con questa conflitto. In Polonia dalla lista di Dugin, spicca Mateusz Piskorski, che è a capo di un misterioso Centro Europeo di Analisi Geopolitica. Anche questo finanziato anche questo dalla Russia. Ma la Russia sarebbe anche intervenuta anche pesantemente sull’esito delle elezioni Polonia protando alla vittoria il partito anti-europeo, il PIS guida di Kaczynski. Galeotta sarebbe stato in particolare un pranzo tra l’allora ministro degli interni j Sienkiewicz, e il presidente della banca centrale Belka, discorsi che sarebbero stati ascoltati da orecchie indiscrete.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questo ristorante di Varsavia stanno pranzando Bartolomiej Sienkiewicz, all’epoca ministro degli Interni polacco e Marek Belka, allora presidente della Banca centrale della Polonia. Il ministro dell’interno polacco manifesta le sue preoccupazioni per la situazione economica.
BARTŁOMIEJ SIENKIEWICZ - MINISTRO DEGLI INTERNI Abbiamo una situazione pessima del bilancio dello Stato che non fa che peggiorare. La spirale avviata dalla crisi economica rischia di far collassare tutto il sistema. Mancano i soldi e attualmente i tagli sono insufficienti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Registrato da una cimice nascosta sotto il tavolo il presidente della Banca centrale promette al ministro dell’Interno un aiuto per far uscire il Paese dalla crisi economica, ma in cambio chiede un sacrificio.
MAREK BELKA - PRESIDENTE DELLA BANCA NAZIONALE POLACCA Potrebbe essere messa in campo un’azione straordinaria da parte della Banca centrale. però per questa eventualità il governo dovrebbe dire addio al ministro delle Finanze Rostowski e licenziarlo e nominarne un altro che sia gradito alla Banca centrale.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La conversazione tra il ministro e il governatore della banca centrale ha generato uno scandalo che ha coinvolto il partito “Piattaforma Civica” di Donald Tusk, allora al governo.
GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, nella campagna elettorale del 2015 per le elezioni parlamentari le intercettazioni sono state il tema principale discusso dai partiti e alla fine “Piattaforma Civica”, un partito pro-Europa, ha perso potere e le elezioni sono state vinte dal Pis, un partito antieuropeista.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie alla pubblicazione di queste conversazioni il Pis guidato da Jaroslaw Kaczynski è alla guida della Polonia, e gli europeisti di Piattaforma Civica finiscono all’opposizione.
GRZEGORZ RZECKOWSKI - GIORNALISTA Il primo ministro dell’epoca Donald Tusk, ha detto pubblicamente che quello era stato un piano scritto in un alfabeto estero.
EMANUELE BELLANO Facendo riferimento a cosa?
GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Alla Russia, suggerendo che tutto lo scenario delle intercettazioni nei ristoranti fosse stato organizzato dalla Russia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il primo ristorante in cui sono avvenute le intercettazioni era in questo edificio. Secondo le ricostruzioni dei servizi segreti polacchi le spie russe avevano scelto questo posto perché di fronte all’ambasciata americana a Varsavia.
EMANUELE BELLANO I russi originariamente volevano intercettare i funzionari e i diplomatici americani?
GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, è stato il controspionaggio americano che l’ha scoperto. Hanno avvertito l’ambasciata.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Scoperto dai servizi segreti il locale chiude ma le intercettazioni proseguono in altri due ristoranti
TOMASZ PIATEK - EDITORE ARBITROR Poi siamo venuti a sapere che i ristoranti dove i politici venivano intercettati, quei ristoranti erano fondati da persone legate alla Russia, abbiamo in quegli anni Kaczynski ha dovuto sapere che sta accettando un regalo di Putin che voleva distruggere il partito pro occidentale.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma in viceministro Adam Andruszkiewicz, membro del PIS, con un passato nell’estrema destra, di Gioventù Polacca, Andruskiewicz nel 2018 ha lasciato il movimento per essere nominato Vice ministro polacco per la Digitalizzazione e nega interferenze russe sulla vittoria del partito.
ADAM ANDRUSZKIEWICZ – VICEMINISTRO DELLA DIGITALIZZAZIONE Noi non siamo a conoscenza di prove che testimonino che quelle intercettazioni siano state davvero messe in atto dalla Russia. È una cosa questa che compete la procura e il ministero della Giustizia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le indagini non sono riuscite a provare che dietro le cimici ci fosse la mano dei servizi russi. Oggi il governo del PIS si è espresso nettamente contro la Russia sostenendo l’Ucraina. Tuttavia nella lista stilata da Aleksandr Dugin la Polonia è tra i Paesi con maggior numero di contatti. Tra loro Mateusz Piskorski.
TOMASZ PIATEK - EDITORE ARBITROR Mateusz Piskorski ha rapporti amichevoli con funzionari degli ex servizi segreti comunisti. Già negli anni ’90 viaggiava in Russia, a Mosca, dove si svolgevano delle conferenze anti Nato, anti occidentali e ci viaggiava con un suo collaboratore Sylwester Chruszcz che poi era diventato deputato di Kaczynski, di Pis.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Piskorski è stato il principale alleato di Dugin in Polonia. Aveva lo scopo di creare missioni finalizzate a legittimare le finte elezioni organizzate dalla Russia attraverso il Centro europeo di analisi geopolitica.
EMANUELE BELLANO Perché ha fondato questa associazione?
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In molti paesi non puoi andare a testimoniare la legittimità delle elezioni individualmente, senza cioè rappresentare alcuna organizzazione. Quindi per far parte di una missione ufficiale, Piskorski ha creato la sua organizzazione.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel febbraio 2014 le milizie locali favorevoli a un’annessione alla Russia occupano i palazzi governativi nella regione meridionale dell’Ucraina, la Crimea. Putin ottiene dal parlamento russo il via libera per usare la forza militare in Ucraina. Il 16 marzo 2014, sotto il controllo delle truppe russe, la Crimea vota un referendum per decidere l’annessione alla Federazione Russa. I sì vincono con il 95 per cento dei voti. In quei giorni l’associazione di Mateusz Piskorski è in Crimea per certificare la regolarità dell’elezione.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Matueusz Piskorski ha guidato lì una missione composta da una ventina di falsi osservatori.
EMANUELE BELLANO Quante elezioni come questa ha supervisionato?
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In totale più di una ventina.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il Centro europeo di analisi geopolitica di Piskorki è una delle poche organizzazioni per cui è stato possibile ricostruire un flusso di denaro proveniente dalla Russia allo scopo di finanziarne l’attività. Un’indagine del consorzio giornalistico investigativo Occrp chiamata Russian Laundramat, la lavatrice russa, ha individuato 21 mila euro arrivati all’organizzazione di Piskorski da Mosca, transitati attraverso una società di comodo con sede a Cipro.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sono a conoscenza del fatto che il principale supporto finanziario all’associazione di Piskorki è arrivato in contanti.
EMANUELE BELLANO Che prove abbiamo di questi pagamenti?
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Ho parlato con uomini che hanno preso parte a queste missioni e mi hanno detto che hanno ricevuto sempre contanti. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Piskorski un personaggio misterioso, a capo di qusto Centro Europeo di Analisi Geopolitica, finanziato dai russi. Lo abbiamo visto accompagnarsi con venti falsi osservatori per certificare la regolarità delle elezioni in Crimea. Un po’ come aveva fatto il consigliere internazionale di Le Pen Chauprade. Nel 2016 Piskorski è stato arrestato dalla magistratura polacca con l’accusa di essere una spia al servizio della Russia e della Cina. Il processo è ancora in corso. Comunque questo non ha evitato a Piskorski di costituire un suo partito, Change. Al suo fianco spunta un altro personaggio: Bartosz Bekier è il fondatore del sito internet polacco XPortal, Anche il suo nome rientra nella famigerata lista di Dugin.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il sito XPortal di Bekier è citato nel documento di Dugin come portale filo-russo e radicale. Il suo simbolo è costituito da due fucili incrociati su sfondo nero. BARTOSZ BEKIER, XPORTAL In questa foto stavamo proiettando il logo di Xportal col laser su un edificio qui a Varsavia, finché è arrivata la polizia e ce lo ha fatto togliere.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Che cosa rappresenta?
BARTOSZ BEKIER, XPORTAL I fucili incrociati simbolizzano l'alleanza globale degli estremi, ossia tutto ciò che si oppone al liberalismo occidentale: nazionalisti con stalinisti, maoisti e con ultraconservatori.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui un adesivo di XPortal è affisso nel quartiere Esquilino a Roma di fronte alla sede del movimento di destra Casa Pound. In questa foto Bekier posa con i militanti di Hezbollah. Questa fotografia documenta invece miliziani filo-russi del Donbass con il simbolo di XPortal. Bartosz Bekier è anche il fondatore del movimento polacco di estrema destra Falanga, il cui simbolo è usato dai combattenti filo-russi a Donetsk.
BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Siamo andati perché volevamo mostrare le azioni terroristiche compiute dall’esercito ucraino contro i separatisti filo-russi del Dombass. Siamo stati testimoni dei bombardamenti dei mig ucraini, per esempio alla stazione e delle morti di civili innocenti. Tutte cose su cui le televisioni polacche dal 2014 mantengono un silenzio assoluto.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Donetsk Bekier incontra Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, sostenuta da Putin e nata con la guerra separatista del 2014 con l’Ucraina. Le missioni di Falanga hanno riguardato anche altre aree rilevanti per l’influenza geopolitica della Russia. Da sette anni la Russia è impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco dell’esercito del presidente Bashar Al Assad. Nel 2013 Bartosz Bekier vola in Siria dove incontra il primo ministro siriano Al Halqi.
BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Era una missione internazionale e c’era anche una delegazione dall’Italia guidata da Roberto Fiore di Forza nuova e anche il politico nazionalista inglese Nick Griffin.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La missione a Damasco è organizzata dal Centro europeo di analisi geopolitica di Mateusz Piskorski.
MICHAL KACEWICZ – GIORNALISTA POLSKA NEWSWEEK Ho ricevuto una chiamata da questa organizzazione in cui mi chiedevano di partecipare alla missione in Siria.
EMANUELE BELLANO E qual era il piano del viaggio?
MICHAL KACEWICZ - GIORNALISTA Ho parlato con dei diplomatici dell’ambasciata siriana e ho capito che il vero scopo era portare giornalisti occidentali al fine di legittimare il regime di Assad. E così ho rifiutato.
EMANUELE BELLANO C’erano legami con la Russia?
MICHAL KACEWICZ - GIORNALISTA Ho iniziato a indagare e ho trovato relazioni con organizzazioni russe che pagavano l’associazione di Piskorski per missioni come questa.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma i soldi servono per promuovere anche azioni violente come quella messa in atto nel 2018 a Uzhgorod, città dell’Ucraina occidentale.
GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Tre estremisti polacchi connessi all’estrema destra filorussa sono andati in questa città e hanno dato fuoco al centro culturale della minoranza ungherese.
EMANUELE BELLANO Chi era a capo della spedizione?
GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Michal Prokopowicz, un membro dell’organizzazione di estrema destra Falanga che era anche in contatto con il partito “Change” di Bekier e Piskorski.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ripresi dalle telecamere di sorveglianza i membri del commando incappucciati lanciano alcune molotov e appiccano il fuoco all’edificio. Lo scopo del gesto è aumentare le tensioni etniche in Ucraina e destabilizzare il governo di Kiev.
BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Si tratta di ex membri di Falanga perché non fanno più parte del movimento.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questa foto ritrae a sinistra Bartosz Bekier. Al suo fianco Mateusz Piskorski. Seduto all’estremità destra del tavolo Michal Prokopowicz, considerato autore materiale del rogo in Ucraina. In mezzo il giornalista e attivista tedesco di estrema destra Manuel Ochsenreiter.
GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Nel processo Prokopowicz, l’uomo accusato di essere autore del rogo, ha dichiarato di aver ricevuto soldi da Ochsenreiter che avrebbe finanziato la missione incendiaria in Ucraina.
EMANUELE BELLANO Ci sono legami tra Manuel Ochsenreiter e la Russia?
GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, Ochsenreiter innanzi tutto ha collaborato con il filosofo e ideologo russo Alexandr Dugin.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con la lista di Dugin il cerchio si chiude. il nome di Manuel Ochsenreiter è citato come uno dei suoi contatti in Germania. Ma Ochsenreiter ha contatti anche con Kateon il think tank di Kostantin Malofeev l’oligarca di Dio.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione russa in Ucraina i servizi polacchi chiudono il sito di Bartosz Bekier, XPortal.
EMANUELE BELLANO Come commenta il fatto che il comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale ha chiesto alla Polonia di mettere fuori legge Falanga?
BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Sono dichiarazioni che vengono da istituzioni che hanno come base il liberalismo che secondo noi è un’ideologia totalitaria che vuole togliere a organizzazioni come la nostra la libertà di espressione.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che un ruolo l’ha avuto anche Bartosz Bekier il fondatore del sito XPortal, che ha appoggiato i filo russi combattenti in Donbass, e ha fondato anche il movimento Falanga, un movimento da cui provengono quei membri che hanno realizzato attentati in Ucraina, per destabilizzare il paese che sarebbero stati finanziati da un attivista e giornalista tedesco Ochsenreiter che anche lui appartiene alla lista di Dugin, una lista corposa una rete che si dipana fino in Austria. Proprio seguendo le tracce del partito di estrema destra Austriaco l’FPO che emerge anche il ruolo di un altro Centro Russo di Scienza e Cultura, Rossotrudnichestvo, che sostanzialmente è un’agenzia che serve per aggirare la norma per aggirare il numero fisso di diplomatici presenti nei paesi perchè è un numero fisso posto dalle leggi internazionali. Si sospetta che i diplomatici possano essere delle spie quindi viene messo un limite per non avere in un paese trope spie che lavorano per altri stati. Questo centro servirebbe per avere numero illimitato di spie.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, parliamo del sofisticato soft power russo. Il cremlino ha investito 240 milioni di euro, anche provenienti da società off-shore, per condizionare le politiche di paesi europei e anche per creare una rete, una sorta internazionale nera. In tutto questo ha avuto un ruolo importante l’ideologo Dugin il quale ha creato una vera e propria lista della quale vi abbiamo dato conto questa sera. Questa azione, questo soft power è stato esercitato anche mettendo in campo delle spie per condizionare l’esito delle elezioni di paesi stranieri e anche siglando dei contratti con i leader di partiti occidentali. Seguendo il filo di questa rete si è arrivati anche in Austria. Uno dei leader che si è lasciato coinvolgere e sedurre dal potere russo è l’ex leader del partito di estrema destra Fpo, Heinz-Christian Strache, il quale credendo, in un resort. di parlare con un’avvenente nipote di un oligarca si è lasciato un po’ andare e ha parlato di appalti in cambio di appoggio elettorale. Si è accorto tardi che era una trappola.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ibiza, isola delle Baleari, in Spagna. In un resort di lusso i due principali esponenti del partito di estrema destra austriaco Fpo incontrano una giovane donna russa. La ragazza dice di essere nipote di un potente oligarca. L'uomo che parla, seduto sul divano, è Christian-Heinz Strache, all'epoca capo del partito di estrema destra austriaco Fpo.
HEINZ-CHRISTIAN STRACHE - POLITICO La prima cosa che posso promettere nel caso di una nostra partecipazione al governo è che la società Strabag che costruisce infrastrutture non riceva più commesse. In questo modo si libera un gran numero di appalti pubblici. Ecco, dille di creare una società come Strabag, così tutti i contratti pubblici che Strabag riceve ora, li riceverà lei.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In t-shirt azzurra c’è Johann Gudenus, numero due in quel momento del partito. Nel video i due politici sembrano promettere alla donna russa gli appalti pubblici fino ad allora affidati al colosso austriaco delle infrastrutture Strabag, in cambio del supporto alla loro imminente campagna elettorale. Durante l’incontro l’avvenente giovane donna russa sostiene di essere interessata a comprare per conto di suo zio il più importante tabloid austriaco per condizionare in vista delle elezioni l’opinione pubblica austriaca. Cosa apprezzata dal capo del partito Strache.
HEINZ-CHRISTIAN STRACHE - POLITICO Se lei davvero riesce a comprare il giornale in tempo e il giornale spinge il nostro partito per due, tre settimane prima delle elezioni, allora sì, non prenderemo il 27 per cento, ma il 34 per cento.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Non è chiaro chi fosse la giovane donna russa, né perché abbia contattato i due esponenti dell’Fpo.
MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Sono caduti in una trappola organizzata da un detective privato con l’aiuto di questa giovane donna russa. Ma ciò che è importante è il modo in cui si sono comportati. Sappiamo che hanno incontrato molte volte oligarchi e uomini d’affari russi. Questa è l’unica volta che vediamo cosa si sono detti e non c’è motivo di pensare che nelle altre situazioni si siano comportati diversamente.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I primi contatti tra l'Fpo austriaco e Mosca risalgono al 2008. All'epoca tra i membri del partito c'è Barbara Kapple che al tempo stesso è manager della società Austrian Technologies.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Ufficialmente questa società vendeva tecnologia austriaca all’estero, non solo in Russia, ma anche in altri paesi dell’Est come Kazakhstan e Ucraina. non era molto proficua in questo business, ma fu molto attiva nell’organizzare conferenze politiche che avevano lo scopo di sostenere gli interessi della politica estera della Russia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'8 agosto 2008 la Russia lancia un'invasione terrestre, aerea e marittima in Georgia per sostenere le regioni filorusse dell’Ossezia del Sud e dell’Abcazia. Dopo 5 giorni di guerra viene siglato il cessate il fuoco. Anche dopo la fine dei combattimenti la Russia continua a occupare l'Abcazia e l'Ossezia del Sud in violazione dell'accordo con la Georgia.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In quegli anni dal 2008 al 2010 Barbara Kappel faceva parte della fazione filorussa del partito austriaco Fpo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell’Ottobre 2008 Austrian technologies organizza una conferenza a Vienna dal titolo “Europe-Russia-Georgia: Peace Building I”. Barbara Kappel e il leader dell’Fpo HeinzChristian Strache rappresentano la parte austriaca. I partecipanti criticano gli Stati Uniti e il presidente Georgiano anti-Putin Saakashvili. Strache nell’occasione afferma che l’Europa deve perseguire i suoi interessi geopolitici approfondendo e sviluppando la cooperazione con la Russia. A distanza di due anni nel 2010 Austrian Technologies sponsorizza un’altra conferenza a Vienna dal titolo emblematico “Riflessioni sulla prospettiva Russo-Austriaca”. Insieme alla società di Barbara Kappel l’evento è organizzato dall’agenzia federale russa Rossotrudnichestvo.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Il nome per esteso del Rossotrudnichestvo è “Centro russo di scienza e cultura”. Ma è lo strumento principale del soft power russo in Europa.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con sedi praticamente in ogni capitale europea il Rossotrudnichestvo è una rete capillare che per anni ha permesso al Cremlino di monitorare i paesi occidentali e promuovere idee filo-russe. Ha una sede a Varsavia, in Polonia e a Parigi. In Austria è in questo palazzo settecentesco nel cuore di Vienna.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In base alle leggi internazionali ogni governo può avere solo un numero ristretto di diplomatici che lavorano in un altro Paese. Ebbene, è piuttosto noto che una parte dei diplomatici russi sono spie. Se in un Paese c’è un un ufficio del Rossotrudnichestvo il numero di funzionari che può lavorare in quell’ufficio è illimitato e così la Russia può avere a disposizione tutte le spie che vuole.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Al punto che Mosca ha finanziato il Rossotrudnichestvo nel 2013 con 48 milioni di euro saliti nel 2020 a 228 milioni di euro.
EMANUELE BELLANO Cosa ha spinto i leader dell’Fpo a legarsi così alla Russia?
MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Entrambi avevano l’interesse comune di indebolire l’Unione Europea. L’Fpo è sempre stato un partito anti-europeista e la Russia da ciò ne ha tratto un evidente vantaggio.
EMANUELE BELLANO Quali sono state le posizioni che hanno animato la politica filorussa dell’Fpo?
MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Ogni volta che in parlamento c’era un voto che andasse contro gli interessi della Russia, su Cecenia, Donbass, sull’invasione della Crimea e così via, l’Fpo era dalla parte di Putin, votando contro le risoluzioni sia a livello nazionale che europeo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’artefice del legame tra il partito di estrema destra austriaco e il Cremlino è Johann Gudenus, l’uomo che indossa una t-shirt azzurra nel video trappola dove Strache parla con la giovane donna russa di appalti e appoggio elettorale
NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Gudenus all’età di 17 anni con la sua scuola fece uno scambio culturale in Russia. Da lì è nato il suo amore per Mosca, San Pietroburgo e la cultura russa.
EMANUELE BELLANO Qual è stato il suo ruolo nel partito Fpo?
NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Era il vice di Strache. Si conoscono da quando erano adolescenti.
EMANUELE BELLANO Come si sono sviluppati questi rapporti con la Russia?
NINA HORACZEK -GIORNALISTA FALTER Una delegazione austriaca di politici dell’Fpo si è recata a Mosca ma anche in Cecenia da Kadyrov, conosciuto come il macellaio di Grozny.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dittatore russo a capo della Repubblica Cecena, Razman Kadyrov è accusato di omicidi e torture soprattutto nei confronti di omosessuali e oppositori politici. Secondo le recenti ricostruzioni ci sarebbero anche le sue truppe dietro al massacro di civili a Bucha, a nord di Kiev nel marzo scorso.
NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Successivamente sono stati i russi a venire a Vienna. In particolare Aleksandr Dugin.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Uno dei primi viaggi del filosofo putiniano a Vienna risale al 2014. Un giornale svizzero, ha rivelato che in quell’occasione l’ideologo russo ha partecipato a una cena con i vertici dell’Fpo Heinz Christian Strache e Johan Gudenus. Nel 2018 Dugin è di nuovo a Vienna questa volta per partecipare a una cerimonia di gala.
NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Dugin è stato ospite d’onore all’AkademicaBall, una cerimonia che si tiene a Vienna, in cui tutti indossano abiti di gala e ballano danze tradizionali austriache.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I balli si tengono nella prestigiosa cornice del palazzo Hofburg di Vienna. Alcuni di questi balli prendono il nome di “balli russi”. L’organizzazione è nelle mani di Nathalie Holzmuller, cittadina austriaca con passaporto russo, qui fotografata in una di queste cerimonie con Gudenus e Strache. In una lettera del 2015, Holzmuller scrive che i balli sono un progetto voluto e sponsorizzato proprio dall’Fpo. Il legame tra il partito di estrema destra austriaca e il Cremlino raggiunge l’apice un anno dopo. Nel 2016 una delegazione dell’Fpo vola a Mosca per incontrare gli esponenti di “Russia Unita”, il partito di Vladimir Putin.
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In quel momento il Cremlino decide di firmare un documento di collaborazione con l’Fpo austriaco.
EMANUELE BELLANO Perché era un patto con un partito che sarebbe potuto andare al potere e far parte del governo in Austria?
ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Questa era l’idea di Russia Unita: avere un accordo con alcune forze in Europa che avrebbero avuto poteri di governo nei loro Paesi. E sappiamo che lo stesso accordo è stato fatto con un medesimo intento anche con la Lega di Salvini.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nei giorni successivi all’invasione russa dell’Ucraina l’attuale leader dell’FPO Herbert Kikcl si è scagliato contro la Nato contro gli Stati Uniti, sostenendo che le sanzioni contro Mosca violavano il diritto internazionale. Come abbiamo visto, il partito dell’ FPO è stato infiltrato pesantemente dal soft power russo. Lungo il percorso è emerso anche il ruolo di questo Centro Russo di Scienza e Cultura il Rossotrudnichestvo. Uno strumento sommerso per monitorare l’attività e la politica dei paesi europei, e anche condizionarla. Per questo Cremlino lo ha finanziato complessivamente per oltre 240 milioni di dollari. Ora c’è da chiedersi quanti centri come questo ci sono e quanto condizionano lo svolgimento della nei paesi?
Ucraina, Aleksandr Dugin svela la verità sulla guerra di Putin contro l'Occidente. Il Tempo il 29 marzo 2022.
L'ideologo Aleksandr Dugin rivela le vere ragioni della guerra di Vladimir Putin contro l'Ucraina. In verità il conflitto non è nato per la conquista dell'Ucraina ma come vero e proprio scontro di civiltà. L'ideologo di Putin ne parla durante la puntata di "Fuori dal coro" andata in onda mercoledì 29 marzo su Rete4.
"E' il conflitto tra la civiltà del male che è l'Occidente e la terra del cuore che è precisamente la Russia. La Russia sente molto forte la sua identità culturale e la propria civiltà. Putin dice che la Russia non è un Paese ma è la civiltà stessa. I suoi valori non possono coincidere con quelli dell'Occidente che crede di essere l'unica civiltà. Il mondo occidentale attuale ha perso tutta la misura. Il liberalismo ha iniziato a mostrare tutti i suoi aspetti totalitari e vuole imporre le sue regole agli altri come se fossero universali. La lotta della Russia consiste nel mostrare che possiamo resistere contro questa oppressione. L'operazione militare speciale è una manifestazione della sfida della Russia contro l'egemonia culturale. La Russia lotta contro questa ideologia del genere, LGBT. La guerra di Putin non è contro l'Ucraina ma contro l'ordine globale liberale. E' la guerra della società religiosa e spirituale della Russia contro la società satanica dell'Occidente. E in tutto questo l'Occidente è destinato a soccombere".
L'Amaca di Michele Serra di domenica 27 marzo 2022
Non si contano più le culture tradizionali, sincere o pretestuose, che si sentono assediate dall'Occidente. La cultura giapponese (vedi il suicidio rituale di Yukio Mishima), la cultura islamista, ora la cultura russa (ma forse sarebbe più giusto chiamarla russista, alla maniera di quella islamista) che nella versione di Putin lamenta l'arroganza dell'Occidente come minaccia mortale per Santa Madre Russia.
L'ideologo di Putin: "La Nato e gli Usa non entrino in campo o useremo l'atomica". Luigi Mascheroni il 14 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il filosofo vicino al Cremlino difende l'attacco russo: "È un'azione militare, non un'invasione. Il presidente malato? Disinformazione, mai stato meglio".
Aleksandr Dugin è un filosofo e politologo russo che ha stretti legami con il Cremlino, considerato «l'ideologo di Putin» e descritto come un suo consigliere e ispiratore. Molto letto dai sovranisti, pubblicato in Italia dalla casa editrice AGA di Maurizio Murelli, è un pensatore non allineato che vede la Russia con occhi completamente diversi dai nostri. La sua è una voce scomoda - non esente da parzialità e propaganda - ma utile da ascoltare.
Dugin, Lei è a Mosca ora. Qual è la situazione lì?
«Tutto molto tranquillo. La popolazione appoggia completamente Putin. Non c'è una vera opposizione. E non tanto perché c'è una censura contro chi critica le operazioni militari in Ucraina, ma perché il popolo russo è davvero solidale con il Presidente. L'opinione pubblica qui ha ben chiari gli scopi di Putin ed è preparata perché comprende che la pressione della Nato conto le nostre frontiere è inaccettabile».
Sui giornali e in tv vediamo arresti e proteste a Mosca.
«Vivo nel centro di Mosca. Non c'è nessuno che protesta, a parte piccolissimi gruppi, o singoli individui, e neppure collegati tra loro. La percezione di una protesta interna è frutto della disinformazione dei media occidentali. Si prendono immagini di manifestazioni del passato, in contesti differenti, e si fanno passare per contestazioni».
Ha avuto modo di parlate con Putin di recente?
«Questa è una domanda personale, a cui non rispondo. Parlo di geopolitica, se vuole».
Cosa sta succedendo in Ucraina?
«Per capirlo occorre risalire alle cause e leggere la dissoluzione dell'Urss dentro un contesto non solo ideologico ma geopolitico. E se la geopolitica è la scienza che considera il mondo come il campo di battaglia tra potere marittimo e potere terrestre, in questo senso la fine dell'Urss è stata la vittoria del potere del mare e il crollo del potere della terra. Dopo il 1989 la Russia ha perso autorità sulle sue zone di controllo a favore dell'occidente e l'occidente ha acquistato influenza in questo vuoto, che era la conseguenza della debolezza del potere terrestre. Si è dissolto il patto di Varsavia e si è rafforzata la Nato».
E l'Ucraina è rimasta nel mezzo.
«Quando l'Ucraina si è separata dalla Russia ed è diventata indipendente a poco a poco si è avvicinata alla Nato, ma ha potuto farlo perché negli anni Novanta quella di Gorbaciov e poi di Eltsin era una Russia debole. Ma quando è tornata forte con Putin, la pressione permanente della Nato contro i nostri confini qualcosa che nessuno può negare non è stata più accettabile. Putin è diventato più forte e con una coscienza geopolitica più sviluppata e così gli equilibri sono cambiati. E si è risposto a una situazione intollerabile: prima in Georgia, poi in Crimea, poi nel Donbass, dove l'esercito ucraino era un pericolo costante: la popolazione veniva bombardata e i civili uccisi. Il resto è venuto da sé: l'appello della Russia a non far entrare l'Ucraina nell'area di influenza dell'Occidente è stato rifiutato, e così ecco la guerra».
È una invasione.
«È un'operazione militare. Putin ha spiegato molto bene gli scopi, che sono due. Primo: denazificare un Paese il cui governo ha non solo tollerato ma appoggiato i gruppi neonazisti per dare forza a una identità nazionalista ucraina basata sull'odio contro i russi. Una identità artificiale creata attraverso una ideologia che l'Occidente ha finto di non vedere perché odiare i russi è più importante che odiare i nazisti. Secondo: cambiare il regime politico a Kiev per fare ritornare l'Ucraina nella sfera politica, militare e strategica russa. Attenzione: l'operazione militare in corso non è una guerra contro la Nato. Ma una operazione per difendere una zona di interesse vitale per la Russia, la quale zona a lungo è stata indirettamente occupata dal potere occidentale durante un momento di debolezza di Mosca».
La guerra non sembra andare bene per Putin.
«Non credo proprio. Putin sapeva che l'Ucraina ha un grande esercito e che prendere il controllo di un Paese con 40 milioni di persone non sarebbe stato semplice. Ecco perché le operazioni sul campo si prolungano. Sconfiggere un esercito di 600mila soldati, che ha dalla propria parte l'appoggio e la propaganda di tutto l'Occidente non è facile. Nessuno qui credeva in una vittoria breve. Intanto la Russia però ha il controllo totale dei cieli. La guerra durerà ancora un mese, o più, ma l'esercito russo vincerà. Non c'è alcun elemento inaspettato in questa guerra per Putin».
Gli analisti dicono che Putin è malato, poco lucido, staccato dalla realtà.
«I modelli della disinformazione in casi del genere sono sempre gli stessi: far passare l'idea che un leader politico sgradito sia pazzo, malato, che non controlla più la situazione. Invece Putin è sano, lucido e molto forte. Mai stato meglio».
Lei nei suoi libri distingue un Putin lunare e un Putin solare. Cioè?
«Il Putin solare è il Putin della Grande Eurasia, il Putin patriota e sovranista, l'uomo che rompe con la postmodernità occidentale, contro la globalizzazione. Il Putin lunare è quello invece che scende a compromessi con l'Occidente, il WTO, Davos, l'élite liberale atlantista».
Quello di oggi, che Putin è?
«Iper-solare».
Tutti abbiamo paura dell'uso dell'atomica.
«Questo è l'unico vero problema, anche per noi. Tutto dipende dagli Stati Uniti. Se Washington si limita alle sanzioni, alle pressioni politiche e agli appoggi economici all'Ucraina, insomma se l'Occidente sosterrà indirettamente Kiev tutte azioni legittime non succederà nulla. Se però ci sarà un attacco diretto della Nato, allora la Russia risponderà con mezzi simmetrici. Se ci sentiremo minacciati sul nostro territorio, useremo le armi nucleari».
Boni Castellane per “la Verità” il 6 marzo 2022.
Il grottesco zelo di Beppe Sala e Gianni Riotta ci spinge a fare l'esatto opposto: riflettere. Di fronte a una guerra, con tutto il carico di morte e distruzione, non è concesso agli esseri umani pensanti di accodarsi alle narrazioni che da entrambe le parti stiamo sentendo. Quella del «Putin pazzo» serve a chiudere i discorsi, ma non a capire cosa accade. In questi giorni il filosofo Alexander Dugin, uno dei principali intellettuali russi, ha fatto una sorta di rassegna delle motivazioni russe dietro questo intervento.
La prima cosa che notiamo è che il riferimento alla «motivazione ufficiale», e cioè la difesa dei russi del Donbass, non viene particolarmente sottolineata. Al contrario Dugin afferma che la vera motivazione consiste in una «contrapposizione con il globalismo come fenomeno esteso». Visto che la «élite liberale atlantista» ha imposto in tutta Europa dei governi pronti al Grande Reset, la Russia ne spezza l'avamposto orientale, contrastandone così il piano generale.
Anche Putin, che si dice ascolti Dugin, nel discorso che annunciava l'inizio della guerra ha fatto spesso riferimento alle «minacce alla Russia» non soltanto in termini meramente militari. Un secondo elemento consiste nel riferimento che Dugin fa all'«esclusione della Russia dalle reti globaliste», cioè la lettura delle sanzioni come di un'occasione per creare la Grande Asia, idea tipica della dottrina duginiana, vista come una sorta di arca russa separata e indipendente dal mondo influenzato dall'atlantismo.
Pare dunque che la saldatura con la Cina e con l'India non solo non sia momentanea ma sia stata pianificata come obiettivo. Su questo gli analisti hanno visioni differenti: se la Russia può senza dubbio vendere gas alla Cina, la Cina non può limitarsi a vendere manufatti alla Russia. Più complessi i risvolti inerenti gli assetti valutari internazionali: si affaccia un nuovo Gold standard russo-cinese in chiave di contrasto al dollaro?
Il terzo, e più profondo, elemento di interesse avanzato dalle considerazioni di Dugin consiste nella presa di distanza dall'idea di «guerra ai valori dell'Occidente». Per secoli la cultura russa si è pensata in contrapposizione all'Occidente: anche la parentesi sovietica si è nutrita di quest' idea. Dugin fa una netta torsione affermando che «l'Occidente non è più quello della cultura mediterranea romano-greca, né il Medioevo cristiano e nemmeno il Ventesimo secolo violento e contraddittorio. L'Occidente ha tagliato le proprie radici ed oggi rappresenta l'anti-civilizzazione».
Seguendo questa idea Dugin arriva a dire che «anche gli Stati Uniti devono seguire coloro che rifiutano il globalismo», ipotizzando una spaccatura orizzontale tra élite globaliste che detengono il potere e popoli che, nella lettura di Dugin, le subiscono senza averle democraticamente investite. Il riferimento ai «valori d'Occidente» però non scende nel dettaglio.
Ma al di là delle inconciliabilità già evidenziate nel dibattito tra Dugin e Bernard Henri-Levy tenutosi nel 2019, l'elemento di maggior interesse sta proprio nel fatto che un pensatore così radicalmente russo usi l'argomento della dissoluzione dei valori occidentali per fare appello al loro recupero.
La parte più debole delle considerazioni consiste nell'attribuire sbrigativamente all'invasione dell'Ucraina la funzione di necessario momento di costruzione di questo nuovo mondo panasiatico. Tuttavia questo pensiero, nazionalistico e unilaterale, insinua un interrogativo che ci mette a disagio: la libertà, il valore più sacro e fondante dell'Occidente, alla luce di ciò che è successo negli ultimi due anni, è ancora un fondamento o è diventata una funzione del «nuovo mondo»?
Le vere ragioni dietro l’attentato alla figlia del filosofo dei sovranisti. MARA MORINI su Il Domani il 21 agosto 2022
Dugin doveva essere in macchina, invece ci è salita solo la figlia Daria. Attenzione a considerarlo l’ideologo di Putin: in realtà il presidente russo ha altri riferimenti.
L’affermazione del presidente Putin sul fatto che «la Russia si è sempre sentita un paese euroasiatico», costituisce per Dugin un motivo di orgoglio, «un riconoscimento epocale, grandioso, rivoluzionario» che consente al filosofo russo di “frequentare” ambienti politici vicini al Cremlino e l’oligarca Konstantin Malofeev, un ultranazionalista, monarchico e ortodosso.
Tuttavia, il progetto di integrazione euroasiatica della Russia, che accomuna Dugin e Putin, è declinato in maniera diversa: ultrareazionaria e radicale per Dugin, patriottica e pragmatica per Putin.
Nella tarda serata di sabato scorso nel villaggio Bolshie Vyazemy, a pochi chilometri da Mosca, si è verificata un’esplosione, dovuta ad un ordigno nascosto nella macchina che guidava Dar’ja Dugina, figlia del noto filosofo Aleksandr Dugin. Entrambi avevano partecipato al festival “Tradizione”, ma, all’ultimo momento, il filosofo russo è salito su un’altra auto, secondo quanto è stato dichiarato dall’attivista Piotr Lundstrem.
Immediate le reazioni del Cremlino dove la portavoce del ministero degli esteri, Maria Zacharova, ha affermato che, se le indagini confermeranno il coinvolgimento dell’Ucraina sulla morte di Dugina, allora si potrà dire che «Kiev pratica la politica del terrorismo di Stato». Un’ipotesi fortemente smentita dal consigliere del presidente ucraino Mykhailo Podolyak: «Non siamo uno stato criminale, a differenza della Russia, e sicuramente non uno stato terrorista. L'Ucraina non ha nulla a che fare con l'omicidio della figlia di Dugin».
Ma chi era l’obiettivo di questo attentato? Il padre, la figlia o entrambi? Lo scambio della macchina, avvenuto all’ultimo minuto lascia presupporre che il vero obiettivo fosse il filosofo Dugin, impropriamente definito in Occidente come il fondatore del “nazionalismo russo”, “l’ideologo/la mente di Putin”.
Chi conosce veramente il pensiero politico e filosofico della Russia, sa che il presidente Vladimir Putin ha ben altri riferimenti che spesso cita nei suoi discorsi: il pensatore Ivan Il’in, il filosofo Nikolaj Berdjaev e l’etnologo Lev Gumilëv, (come è ben descritto nel libro L’idea russa di Bengt Jangfeldt).
IL PENSIERO DI DUGIN
Il pensiero politico di Dugin si fonda essenzialmente sulle teorie di Alain de Benoist, di Robert Steuckers e Jean Thiriart e dei rapporti intercorsi con lo scrittore dalle posizioni nazionaliste ed estremiste, Aleksandr Prochanov, e con Julius Evola, un filosofo italiano vicino al fascismo che professava il tradizionalismo integrale.
L’orientamento politico di Dugin risente, quindi, di queste contaminazioni che si traducono in un nazional-boscevismo di matrice rosso-bruna che ha alcuni punti di contatto con il partito liberal-democratico del nazionalista Vladimir Zhirinovskyj e con la corrente del movimento eurasista. E proprio l’affermazione del presidente Putin sul fatto che «la Russia si è sempre sentita un paese euroasiatico», costituisce per Dugin un motivo di orgoglio, «un riconoscimento epocale, grandioso, rivoluzionario» che consente al filosofo russo di “frequentare” ambienti politici vicini al Cremlino e l’oligarca Konstantin Malofeev, un ultranazionalista, monarchico e ortodosso.
Come ha scritto un giornalista russo «queste sono idee che rispondono ai bisogni psicologici della società: un’alternativa alla storia d’amore finita male con l’Occidente».
Tuttavia, il progetto di integrazione euroasiatica della Russia, che accomuna Dugin e Putin, è declinato in maniera diversa: ultrareazionaria e radicale per Dugin, patriottica e pragmatica per Putin. Inoltre, Dugin che è stato co-fondatore con Eduard Limonov del Partito Nazional-Boscevico, sciolto dalle autorità russe, è stato cacciato da numerose università russe ed è piuttosto emarginato dai mass media.
NON È L’IDEOLOGO DI PUTIN
Non solo non esistono foto che lo ritraggono insieme a Putin, ma se fosse veramente l’ideologo del Cremlino, Dugin avrebbe potuto usufruire della scorta del servizio FSB e si potrebbe affermare che l’attentato ha un alto valore simbolico perché è stato ucciso “un uomo di Putin”.
Diverso è il discorso sui rapporti intercorsi tra Dugin e i partiti europei di estrema destra; in particolare, già dalla fine degli anni Ottanta con gli ambienti culturali dell’estrema destra italiana vicini alla rivista Orion. Come spiega lo storico Giovanni Savino in From Evola to Dugin, i rapporti di Dugin con esponenti dei partiti di Forza nuova, Casa Pound e Lega sono sempre stati assidui: dall’intervista di Dugin al leader Salvini ai contatti con Gianluca Savoini dell’associazione Lombardia-Russia. Recentemente, Dugin ha anche apprezzato l’attività politica di Giorgia Meloni, affermando: «Ho un presentimento, si farà strada».
Non si esclude che questo attentato fosse rivolto anche alla figlia Dar’ja che lavorava per Russia Today e si è sempre espressa in difesa dei separatisti del Donbas e a favore dell’invasione russa in Ucraina. Certamente, questa notizia non costituisce una storia a sé, ma è legata alle dinamiche russo-ucraine di questi mesi, come le rispettive reazioni propagandistiche stanno dimostrando.
Darya Dugina, tutti i buchi nella versione di Mosca. "Beffati i servizi segreti di Putin". Il Tempo il 23 agosto 2022
È la "colpevole perfetta" Natalya Vovk, la 43enne ucraina indicata dai servizi di sicurezza russi dell'Fsb come esecutrice dell'attentato mortale in cui ha presso la vita Darya Dugina, la figlia del filosofo Aleksandr Dugin. Il cerchio delle indagini si è chiuso a 48 ore dalla morte della 30enne, una soluzione che "lascia più domande che certezze", scrive Guido Olimpio sul Corriere della sera elencando i tanti punti oscuri della versione russa.
Una colpevole perfetta, Si diceva, perché l'ucraina indicata dall'Fsb avrebbe goduto di copertura all'estero, sarebbe poi fuggita in Estonia "e il fatto che la donna sia ormai fuori dai confini può togliere dall'impaccio di doverla processare". "Tutto questo per superare con un balzo l'imbarazzo per un colpo duro alla sicurezza", si legge nell'analisi. La versione dell'Fsb corroborata da un video che mostra gli spostamenti della presunta agente segreta ucraina, dall'ingresso in Russia fino alla figa in Estonia passando per il soggiorno nella stesso palazzo di Dugina, permette a Mosca di escludere la altre piste. "In queste ore ne sono state considerate tante. Una faida interna nel mondo dell'estremismo, la provocazione a tavolino del regime, l'iniziativa di agenti fuori controllo - un classico - persino l'azione di resistenti interni, l'«Esercito repubblicano nazionale», sigla che sarebbe pronta ad agire di nuovo", scrive il Corriere.
Quello che si sa è che l'ordigno era composto da circa 400 grammi di esplosivo, è stato piazzato sotto il sedile del guidatore dell'auto di Dugina e "non vi sarebbe stato scambio di auto come detto in un primo momento". L'esplosione sarebbe stata provocata con un controllo a distanza, vaia telefono o computer. È lecito pensare, dunque, che chi ha fatto esplodere la bomba sapesse che in auto c'era solo la figlia e non Dugin.
Secondo le voci che rimbalzano da Mosca, la vicenda imbarazza più di tutti proprio i servizi segreti interni di Vladimir Putin. "Se l'Fsb - annotano i commentatori - dice il vero significa che è stato beffato", riassume quotidiano, "se, invece, la sua è una bugia vuol dire che non è neppure riuscito a imbastire un canovaccio credibile".
Dietro l'attentato alla figlia di Dugin "gruppi dell'opposizione russa". La pista che allarma Putin. Il Tempo il 21 agosto 2022
La morte di Darya Dugina, figlia del filosofo e ideologo Aleksandr Dugin molto vicino al presidente russo Vladimir Putin, ha provocato le accuse incrociate Russia e Ucraina. La giovane donna è stata uccisa da una bomba piazzata sull'auto che guidava nella periferia di Mosca dopo un evento a cui aveva partecipato in compagnia del padre, che si è salvato perché all'ultimo istante ha deciso di spostarsi in altro modo.
Sul tavolo diverse ipotesi su chi può esserci dietro l'attentato. Fabrizio Dragosei, giornalista del Corriere della sera, intervenendo a Rai News24 per ha affermato che la pista che vuole i servizi segreti di Kiev in azione a Mosca per colpire le persone vicine a Putin è concreta, ma non è da escludere che dietro alla morte di Darya Dugina ci sia "un gruppo autonomo anti-russo o anti-governativo, che si trova già in Russia", perché nel Paese "c'è ancora un minimo di opposizione alla guerra" in Ucraina "ancora esiste anche se è messo all'angolo", spiega il giornalista. "Sappiamo anche che in Russia ci sono molti ucraini e molti russi che hanno parenti a Kiev che sono finiti sotto i bombardamenti" delle forze armate di Mosca. "Io credo e questa sia la pista più probabile, almeno finora", conclude Dragosei.
La figlia di Dugin è rimasta uccisa nell’esplosione dell’auto che stava guidando vicino al villaggio di Bolshiye Vyazemy nella regione di Mosca. L’auto esplosa, una Toyota Land Cruiser Prado, apparteneva a suo padre, ha affermato Andrey Krasnov, il capo del movimento Russian Horizon e testimone dell’incidente, spiegando che Dugin è subito corso sul luogo dell’esplosione. Le autorità russe hanno aperto un’inchiesta sulla morte di Dugina, che il Comitato Investigativo della Federazione Russa considera come un "crimine pianificato in anticipo e realizzato su commissione". La polizia russa ha cercato di ricostruire la dinamica che avrebbe portato all’esplosione, spiegando che degli ignoti hanno quasi sicuramente piazzato l’ordigno sull’auto mentre si trovava parcheggiata insieme a quelle degli ospiti del Festival.
Il capo dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, Denis Pushilin, ha puntato il dito contro i "terroristi del regime di Kiev" che "cercando di eliminare Aleksandr Dugin, hanno fatto saltare in aria sua figlia". A rincarare la dose la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, secondo cui se la "pista ucraina" dovesse essere accertata, confermerebbe il "terrorismo di stato di Kiev". Accuse rispedite al mittente direttamente dal governo ucraino che, tramite Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente Volodymyr Zelensky, ha dichiarato di non "avere nulla a che fare" con la morte di Dugina: "Non siamo uno stato criminale come la Russia".
Darya Dugina, si indaga sull'esplosione a Mosca: "La bomba è russa". Angela Bruni su Il Tempo il 22 agosto 2022
Darya Dugina, figlia del filosofo ed ideologo Aleksandr Dugin molto vicino al presidente russo Vladimir Putin, è rimasta uccisa nell'esplosione dell'auto che stava guidando vicino al villaggio di Bolshiye Vyazemy nella regione di Mosca. L'auto esplosa, una Toyota Land Cruiser Prado, apparteneva a suo padre, ha affermato Andrey Krasnov, il capo del movimento sociale Russian Horizon e testimone dell'incidente, spiegando che Dugin è subito corso sul luogo dell'esplosione. I due avevano preso parte al festival Traditions, vicino Mosca. Al momento di andare via, Dugina ha preso l'auto del padre.
«Darya guidava un'altra macchina ma oggi ha preso la sua macchina, mentre Aleksandr è andato via in un modo diverso. È tornato, era sul luogo della tragedia. Per quanto ho capito, Aleksandr o probabilmente loro due insieme erano l'obiettivo», ha detto ancora Krasnov. Le autorità russe hanno aperto un'inchiesta sulla morte di Dugina, che il Comitato Investigativo della Federazione Russa considera come un «crimine pianificato in anticipo e realizzato su commissione».
L'esplosione che ha provocato la morte della figlia di Dugin viene, quindi, investigata come omicidio commesso «con particolare crudeltà e in modo pericoloso», con riferimento al paragrafo E comma 2 dell'articolo 105 del codice penale della Federazione Russa. La polizia russa ha cercato di ricostruire la dinamica che avrebbe portato all'esplosione, spiegando che degli ignoti hanno quasi sicuramente piazzato l'ordigno sull'auto mentre si trovava parcheggiata insieme a quelle degli ospiti del Festival. La morte di Dugina ha immediatamente innescato uno scambio di accuse tra Mosca e Kiev. In particolare, il capo dell'autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, Denis Pushilin, ha puntato il dito contro i «terroristi del regime di Kiev» che «cercando di eliminare Aleksandr Dugin, hanno fatto saltare in aria sua figlia».
A rincarare la dose la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, secondo cui se la «pista ucraina» dovesse essere accertata, confermerebbe il «terrorismo di stato di Kiev». Accuse rispedite al mittente direttamente dal governo ucraino che, tramite Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente Volodymyr Zelensky, ha dichiarato di non «avere nulla a che fare» con la morte di Dugina. «Non siamo uno stato criminale come la Russia», ha commentato Podolyak. La morte della figlia di Dugin «non è un argomento di nostro interesse», ha poi fatto sapere Andrii Yusov, portavoce dell'intelligence militare ucraina. «No comment», dunque, anche se, parlando al Washington Post sempre in riferimento alla morte di Dugina, Yusov ha aggiunto che «il mondo russo mangerà e divorerà se stesso dall'interno».
Darya Dusigina era stata inserita nella lista dei sanzionati dal dipartimento del Tesoro Usa perché indicata come responsabile di un sito di disinformazione chiamato United World International. In questo sito è stato scritto che l'Ucraina sarebbe «perita» una volta ammessa nella Nato. Il sito, spiegano gli americani, è il frutto di un'operazione di interferenza politica russa, chiamata «Project Lakhta,» che secondo i funzionari del Tesoro ha usato utenti fittizi online per interferire nelle elezioni negli Usa sin dal 2014. Nata nel 1992, era laureata in filosofia all'università statale di Mosca, Dugina aveva seguito le orma del padre e scriveva per Tsargard e Rt, testate filo Cremlino, con lo pseudonimo di Darya Platonova. Era uno degli autori del «libro di Z» sull'invasione russa dell'Ucraina di prossima pubblicazione. Il 4 luglio era stata inserita nella lista dei sanzionati dal Regno Unito che ha descritto i suoi «frequenti contributi di alto livello alla disinformazione relativa all'Ucraina e all'invasione russa dell'Ucraina su diverse piattaforme online».
Morte Darya Dugina, per i servizi segreti russi il caso è chiuso: "È stata una 007 ucraina". Il Tempo il 22 agosto 2022
Il Servizio di sicurezza federale russo (Fsb) annuncia di aver trovato il colpevole dell'omicidio di Darya Dugina, figlia di Alexander Dugin, il filosofo da molti ritenuto l'ideolodo di Vladimir Putin. A eseguire l'attentato sarebbe stata, secondo quanto hanno stabilito i servizi russi a meno di 48 ore dall'esplosione, l'ucraina Natalya Vovk, di 43 anni, che sarebbe riuscita a fuggire in Estonia. Lo ha reso noto l'agenzia russa Tass.
Per l'intelligence esterna russa, l'omicidio della figlia di Alexander Dugin "è stato commesso e preparato dai servizi speciali ucraini". Secondo Mosca, Vovk, arrivata in Russia il 23 luglio scorso insieme alla figlia dodicenne Sofia Shaban, aveva affittato un appartamento nello stesso palazzo in cui viveva la vittima. Natalya Vovk e la figlia avrebbero partecipato al festival "Tradizione" a cui erano presenti Aleksandr Dugin e la figlia.
Per spiare la giornalista Vovk ha utilizzato un’auto a cui avrebbe cambiato diverse volte targa: entrata in Russia a bordo di un autoveicolo con targa della Repubblica popolare di Donetsk, poi a Mosca, quando seguiva Dugina, aveva usato invece una targa del Kazakistan. Per lasciare la Russia, invece, ha usato una targa ucraina. Dopo aver azionato da remoto l’esplosivo collocato nella Toyota Land Cruiser Prado dove è salita la Dugina - e dove sarebbe dovuto salire anche il padre - la donna, che ha usato nei suoi spostamenti vari documenti di identità, avrebbe guidato attraverso la regione di Pskov fino all’Estonia, insieme alla figlia, in un viaggio di circa 12 ore. L'Fsb ha anche reso noto che il caso è stato trasferito al Comitato investigativo.
Dugin "ha sacrificato la figlia". La teoria choc e l'incontro segreto con i servizi russi. Il Tempo il 22 agosto 2022
I servizi di sicurezza russi dell'Fsb a poco più di 48 ore dall'attentato che ha provocato la morte di Darya Dugina, figlia 30enne del filosofo Aleksandr Dugin, hanno annunciato di aver individuato la presunta colpevole: un’agente dei servizi segreti ucraini, Vovk Natalya Pavlovna, poi fuggita in Estonia. Ma la versione ufficiale si scontra con una ridda di indiscrezioni e teorie alternative. Come il retroscena presentato da General Svr, un canale Telegram che sarebbe curato - almeno così sostiene chi lo gestisce - direttamente da un ex ufficiale dei servizi segreti russi, che in passato ha pubblicato notizie poi rivelatesi veritiere sulla guerra in Ucraina e non solo.
La ricostruzione, molto difficile da verificare, parte da un mese fa, quando Alexandr Dugin avrebbe avuto una conversazione privata con un generale dell'Fsb, di cui esisterebbe una registrazione. Ebbene, in questo incontro il filosofo un tempo tra i più ascoltati da Vladimir Putin si sarebbe lamentato delle scelte sbagliate del presidente russo in Ucraina. Per Dugin, a Putin manca la determinazione a "condurre una vera, grande guerra, fino alla completa sconfitta del nemico". Il filosofo avrebbe poi riportato un aneddoto: aveva visto un gatto in strada e questi, per sfuggirgli, era stato investito. Da qui l'idea di Dugin, che ha letto nell'episodio "un segno del destino", si legge in un post di General Svr, "una persona è inutile se non è pronta a sacrificare, per il trionfo delle sue idee, la cosa più preziosa che ha".
E così il filosofo si sarebbe "offerto di sacrificare sua figlia" motivando l'incredibile proposta con il fatto che "anche Putin aveva delle figlie e che avrebbe percepito la morte di sua figlia (di Dugin) per mano dei 'servizi speciali occidentali' come una tragedia personale e un lutto" convincendolo a lanciare l'offensiva finale in Ucraina. Dopo le iniziali titubanze dell'interlocutore e una serie di colloqui successivi, i servizi di sicurezza russi avrebbero accettato l'offerta proponendo di organizzare "un falso", inscenare un attentato usando il cadavere sfigurato di una donna estranea alla vicenda.
Dugin si sarebbe rifiutato per timore di cosa sarebbe successo se la verità fosse venuta a galla. Dopo di che, l'agguato sarebbe stato organizzato ed eseguito dall'Fsb senza che Dugin avesse ulteriori dettagli di come e quando sarebbe stato attuato. La teoria è tutta da dimostrare e si sovrappone alle accuse incrociate di Kiev e Mosca su un attentato atroce che, a prescindere dalle responsabilità, sembra destinato a innalzare ulteriormente il livello dello scontro e la tensione internazionale.
Darya Dugina, tutti i buchi nella versione di Mosca. "Beffati i servizi segreti di Putin". Il Tempo il 23 agosto 2022
È la "colpevole perfetta" Natalya Vovk, la 43enne ucraina indicata dai servizi di sicurezza russi dell'Fsb come esecutrice dell'attentato mortale in cui ha presso la vita Darya Dugina, la figlia del filosofo Aleksandr Dugin. Il cerchio delle indagini si è chiuso a 48 ore dalla morte della 30enne, una soluzione che "lascia più domande che certezze", scrive Guido Olimpio sul Corriere della sera elencando i tanti punti oscuri della versione russa.
Una colpevole perfetta, Si diceva, perché l'ucraina indicata dall'Fsb avrebbe goduto di copertura all'estero, sarebbe poi fuggita in Estonia "e il fatto che la donna sia ormai fuori dai confini può togliere dall'impaccio di doverla processare". "Tutto questo per superare con un balzo l'imbarazzo per un colpo duro alla sicurezza", si legge nell'analisi. La versione dell'Fsb corroborata da un video che mostra gli spostamenti della presunta agente segreta ucraina, dall'ingresso in Russia fino alla figa in Estonia passando per il soggiorno nella stesso palazzo di Dugina, permette a Mosca di escludere la altre piste. "In queste ore ne sono state considerate tante. Una faida interna nel mondo dell'estremismo, la provocazione a tavolino del regime, l'iniziativa di agenti fuori controllo - un classico - persino l'azione di resistenti interni, l'«Esercito repubblicano nazionale», sigla che sarebbe pronta ad agire di nuovo", scrive il Corriere.
Quello che si sa è che l'ordigno era composto da circa 400 grammi di esplosivo, è stato piazzato sotto il sedile del guidatore dell'auto di Dugina e "non vi sarebbe stato scambio di auto come detto in un primo momento". L'esplosione sarebbe stata provocata con un controllo a distanza, vaia telefono o computer. È lecito pensare, dunque, che chi ha fatto esplodere la bomba sapesse che in auto c'era solo la figlia e non Dugin.
Secondo le voci che rimbalzano da Mosca, la vicenda imbarazza più di tutti proprio i servizi segreti interni di Vladimir Putin. "Se l'Fsb - annotano i commentatori - dice il vero significa che è stato beffato", riassume quotidiano, "se, invece, la sua è una bugia vuol dire che non è neppure riuscito a imbastire un canovaccio credibile".
Chi è Elvira Nabiullina, la donna più potente della Russia. Andrea Muratore su Il Giornale il 16 agosto 2022.
Elvira Nabiullina è la donna più potente di Russia e una figura chiave nel sistema di potere vicino al presidente russo Vladimir Putin. Di cui rappresenta, da governatrice della Banca centrale, un'architrave sostanziale. Dotata del potere di governare i cordoni della borsa del Paese e di una residua pulsione tecnocratica che rappresenta ciò che rimane del sistema di potere del premier Evgenij Primakov. Nabiullina è una delle poche figure che, anche nei giorni della guerra d'Ucraina, è depositaria di un potere fondamentale: poter contraddire lo Zar, alla cui resistenza al potere ha contribuito come pochi venendo acclamata come "salvatrice" dell'economia della Russia due volte, dopo la Grande Recessione e dopo l'annessione della Crimea nel 2014. E oggi Nabiullina cerca di riuscire nell'impresa per la terza volta, costruendo l'argine alle sanzioni occidentali che stanno colpendo l'economia russa dopo lo scoppio del conflitto con Kiev.
L'economista liberale nel cuore della Russia post-sovietica
La Nabiullina è nata da una famiglia di umili condizioni e di origine tartara a Ufa, vicina al confine kazako, il 29 ottobre 1963. Si è formata negli Anni Ottanta tra la città natale e la capitale Mosca, alla cui Università di Stato completò gli studi in Economia nel 1986. Negli anni della fine dell'Unione Sovietica e della perestrojka si formò come economista permeata dalle tendenze liberali e mercantiliste che iniziavano, timidamente, a farsi piede nel senescente sistema sovietico.
Dopo un'iniziale attività di ricercatrice, dal 1991 Nabiullina ha lavorato per una delle prime associazioni imprenditoriali di categoria dell'Urss, l'Unione per la Scienza e l'Industria dell'Urss, un gruppo di pressione promuovente gli interessi delle imprese, e quindi presso il suo ente successore, l'Unione Russa degli Industriali e degli Imprenditori, tra le poche istituzioni che cercavano di mettere ordine nel Far West economico e commerciale creatosi dopo il crollo della superpotenza comunista. L'esperienza maturata nel settore. imprenditoriale attirò l'attenzione sulla Nabiullina da parte di molti esponenti della nuova élite post-comunista che cercavano di porre un argine all'anarchia nazionale dell'era di Boris Eltsin. Tra questi si segnalava Herman Gref, capo del think tank indipendente Center for Strategic Development (Csd) e il futuro primo ministro Evgenij Primakov.
In quest'ottica mautrò la chiamata istituzionale: nel 1994 Nabiullina entrò al Ministero dello Sviluppo Economico e del Commercio come funzionaria, nel 1997 fu nominata viceministro e ricoprì per un anno la carica fino alla chiamata, nel 1998 alla guida della banca pubblica Sberbank. Si costituì in quella fase il nocciolo duro dell'élite tecnocratica che avrebbe resistito a lungo nel ventennio putiniano: Nabiullina tra il 2000 e il 2007 è stata prima vice e poi direttrice (dal 2003) del Csd sostenendo la strategia di Gref, nominato Ministro dello Sviluppo Economico dal neo-presidente Putin, per valorizzare l'economia russa aprendo a un moderato ritorno dello Stato e a uno sfruttamento a fini mercantilistici degli asset pregiati riacquistati dagli oligarchi e sfruttati. Gas e petrolio innanzitutto, ovviamente. Questo portò la Russia a voler partecipare, fino alla Grande Recessione, al banchetto della globalizzazione neoliberista fornendo materie prime energetiche a costi sempre crescenti.
La "salvatrice" della Russia
Nel 2007 Nabiullina sostituì proprio il suo mentore, Gref, come Ministro dello Sviluppo Economico trovandosi presto a dover dialogare con Alexei Kudrin, Ministro delle Finanze, per rispondere allo tsunami della Grande Recessione. A cui Mosca rispose provando a difendere il cambio del rublo contro gli scossoni e la volatiltià. Una prova generale, durata cinque anni, del decollo nelle istituzioni prima come consigliera numero uno di Putin per l'Economia (2012-2013) e poi, dal 2013 ad oggi, come governatrice della Banca centrale.
Dopo l'invasione della Crimea e la partita politica del 2014 Nabiullina si è trovata ad affrontare con durezza la tempesta delle sanzioni: la Nabiullina ha scelto una strategia molto chiara in questi anni, paragonabile alla linea di Luigi Einaudi (governatore della Banca d’Italia) e Giuseppe Pella (Ministro del Tesoro) nei governi italiani dell’immediato secondo dopoguerra guidati da Alcide De Gasperi. L'obiettivo è stato chiaro fin dall'inizio: difendere il rublo per evitare il default della Russia, con il fine di stimolare l’accumulazione di riserve e spingere il governo a una linea prudente di bilancio. In otto anni questo ha consentito alla Russia di accumulare riserve in valuta e oro di circa 600 miliardi di dollari, propugnando una vera e propria strategia di "economia della resistenza". Nabiullina è stata nominata nel 2014 nella classifica Forbes delle donne più potenti del mondo, indicata dopo aver "avuto il difficile compito di gestire il tasso di cambio del rublo durante la crisi politica ucraina, e di favorire la crescita di un'economia che cerca di evitare una recessione".
Le prestigiose testate Eurobanker nel 2015 e The Banker nel 2017 la hanno nominata "governatrice dell'anno" mentre la Russia riusciva a stabilizzarsi sulle sanzioni e Putin più volte la salutava come "salvatrice della Russia". I risultati sono stati ottenuti in una fase di prezzi negativi per l'economia russa del petrolio e del gas naturale. Anche nelle fasi più dure Nabiullina si è attenuta alla sua politica monetaria ultraconservatrice. Nel giro di pochi anni il Paese è tornato a crescere e l'inflazione è crollata. Putin ha inoltre elogiato i suoi "sforzi energici [contro] il banditismo" nella repressione della corruzione bancaria.
Nella tempesta d'Ucraina
Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina il Moscow Times ha dichiarato che Nabiullina ha grandi responsabilità per aver preparato la Russia a un’economia di guerra. Indubbiamente la Russia non avrebbe mai potuto gestire l'offensiva senza le risorse accumulate negli anni in cui, parallelamente, si avviava il decoupling dall'Occidente. Ma la governatrice si è sempre dichiarata contraria all'invasione del Paese limitrofo, che del resto le hanno rotto le uova nel paniere nelle settimane in cui si preparava una strategia monetaria per l'era post-pandemica.
Come ha scritto il Financial Times, "poco prima che la Russia iniziasse ad ammassare truppe ed equipaggiamenti al confine ucraino, Nabiullina sembrava avere più successo che mai. Ha parlato di ottenere un'inflazione post-pandemia persino inferiore all'obiettivo del 4%. Ha trovato supporto per una delle posizioni più dure al mondo sulle criptovalute". Ma il suo lavoro, con la guerra in Ucraina, "è stato capovolto". La governatrice si ritrovò dopo la guerra a gestire un’economia in declino chiamata a riconvertirsi allo sforzo bellico, un mercato valutario interno nel caos, la morsa di nuove sanzioni sempre più devastanti. Il grande gelo andato in scena con Putin nei primi giorni è stato seguito da una serie di azioni volte a evitare gli effetti di una guerra economica indiscriminata con l'Occidente.
Chiedendo agli esportatori di gas di convertire l'80% degli euro e dei dollari incassati in rubli, ha contribuito a rivalutare la divisa russa; impennando i tassi al 20% ha evitato il boom di un'inflazione corsa comunque al 20%; parlando chiaramente dei rischi recessivi e del crollo del Pil nel 2022 (-10% nelle previsioni) si è dimostrata realista. Adulto nella stanza dell'economia russa, Nabiullina prova a salvare nuovamente la Russia nel cuore della guerra di Putin all'Ucraina. Sarà dura: ma le prime settimane di conflitto hanno dimostrato che la credibilità e il realismo non sono venute meno. E per una Banca centrale la credibilità dei suoi vertici è ancora fondamentale, anzi è tutto: la lezione di Guido Carli si applica anche al ruolo della meno allineata ma più decisiva figura negli apparati di potere russi.
“La pista occidentale dietro la morte della figlia di Dugin”. Matteo Carnieletto il 22 Agosto 2022 su Inside Over
“Una tragedia immane. Un vile attentato”. Commenta così Daniele Lazzeri – presidente del think tank “Il Nodo di Gordio”, un centro studi internazionale di geopolitica, economia e politica estera – l’attacco che ha portato alla morte Darya Dugina. “L’assassinio della figlia del filosofo russo Aleksandr Dugin, mi ha molto colpito. E non solo per aver avuto modo di conoscere in più occasioni il professor Dugin, ma per la brutale modalità di esecuzione. Troppi sono ancora, infatti, i dubbi e le incertezze sulle dinamiche dell’attentato. Ho letto in queste ore le tesi più disparate: dalla ritorsione dell’intelligence ucraina per le sue posizioni espresse negli ultimi anni, al regolamento di conti interno all’establishment di Mosca perché i Dugin iniziavano ad essere dei personaggi scomodi, fino alla vendetta religiosa per la loro appartenenza fideistica ai Vecchi Credenti, ortodossi tra gli ortodossi. Per quanto mi è dato di comprendere, non tralascerei l’ipotesi della pista dei servizi segreti occidentali viste anche le modalità utilizzate nell’attentato che mal si sposano con la lunga tradizione degli assassini politici dall’Unione Sovietica in poi”.
Ma chi è esattamente Dugin?
Sulla sua controversa figura e sul ruolo che ricopre, non solo in Russia ma anche in molti Stati europei, si può discutere a lungo. A partire dalla definizione che spesso gli viene affibbiata quale “Rasputin di Putin”, anche se lo stesso Dugin smentisce di essere un influente suggeritore del Cremlino. La folta e lunga barba, unita ad una profonda conoscenza delle dottrine mistiche non sono sufficienti per trasformare un filosofo – con un pensiero a tratti bizzarro – in un sulfureo consigliere dello Zar Vladimir.
Quindi la sua vicinanza a Putin è solo un bluff?
È vero che le sue teorie per la rinascita del pensiero eurasista hanno influenzato numerosi circuiti culturali e politici con una fascinazione proveniente da ambienti tra loro molto diversi. Dal mondo della destra tradizionalista europea, ai circoli legati alle esperienze nazional-comuniste fino ai nazionalisti russi. Ma il professor Dugin è tutt’altro che un nazionalista russo nostalgico della grandeur di quell’Unione Sovietica che lo aveva additato come un pericoloso dissidente.
Ma allora qual è il Dugin-pensiero?
Il suo ragionamento vola ben oltre, rilanciando l’idea di un grande spazio eurasiatico composto da più popoli, lingue e tradizioni religiose. “Una Civiltà – scrive Dugin – non ha confini delimitati come uno Stato, perché è un’entità vivente”. Una visione neo-imperiale che nulla ha a che spartire con la logica imperialista di stampo anglo-americano. Né con la deriva del liberalismo che, per Dugin, rappresenta il “male assoluto” e contro la quale invoca da decenni un’autentica crociata da parte dei popoli che desiderano ritornare davvero alla libertà in un’ottica multipolare. Un Eurasia – quella prefigurata da Dugin – che è la congiunzione tra il bosco e la steppa. E cioè tra il mondo della Siberia russa e il bosco che appartiene al centro Europa, alla Germania. L’Italia è una macchia mediterranea. Da qui si capisce che l’Italia in questo c’entra ben poco. Questo in estrema sintesi è il pensiero di Alexsandr Dugin espresso in decine di volumi e centinaia di conferenze ed interviste, alcune delle quali realizzate personalmente con “Il Nodo di Gordio”. Anche se la sua figura è stata prepotentemente riscoperta dai media mainstream per le sue posizioni intransigenti sulla Crimea e sul Donbass.
Lei conosce personalmente Dugin. Cosa si ricorda dei vostri incontri?
Lo ricordo molto contrariato a luglio del 2014 durante il nostro workshop annuale perché – a suo dire – il presidente Putin non era stato sufficientemente decisionista nei confronti dei ripetuti attacchi dell’Ucraina nelle aree indipendentiste di Donetsk e Lugansk, prevedendo già allora che proprio il traccheggiare del Cremlino avrebbe determinato un conflitto russo-ucraino di ben più vasta portata e su larga scala del quale avrebbero approfittato Washington e le potenze occidentali a tutto danno dell’Europa. Un’Europa che, appiattita su un timoroso filo-atlantismo e attraverso il meccanismo delle sanzioni, alla lunga avrebbe finito per subire un effetto boomerang per l’economia e le relazioni internazionali di Bruxelles. Ed in effetti, a distanza di otto anni, così è stato. Profezie da Rasputin…
I volenterosi carnefici di Putin. Il genocidio degli ucraini e le responsabilità dei russi (di tutti i russi). Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 Ottobre 2022.
Di fronte ai crimini di guerra in Ucraina, non si vede nessuna mobilitazione o protesta pacifista a Mosca, e nemmeno da parte dei russi che vivono all’estero e non rischiano niente. La storia ricorda che il Cremlino ha provato a cancellare Kyjiv con lo Zar, con l’Urss e ora con Putin
I russi invadono, stuprano e cancellano la cultura, la lingua e il popolo ucraino da più di un secolo, anche con la pianificazione della carestia dei contadini (1932-33), le Grandi Purghe (1936) e l’eliminazione fisica di un’intera generazione di intellettuali (1937-38).
Basta leggere un buon libro di storia per saperlo, consiglio quelli di Anne Applebaum e di Timothy Snyder. Basta anche parlare con un ucraino qualsiasi, il quale potrà testimoniare di bisnonni morti per la fame pianificata da Stalin, di nonni finiti sotto le purghe sovietiche, di parenti umiliati come nemici del popolo, di conoscenti incarcerati perché scrivevano in lingua ucraina e di amici esposti per settimane alle radiazioni di Chernobyl senza che Mosca gli dicesse che cosa era successo.
Non si contano i colpi di Stato russi in Ucraina, le dichiarazioni di indipendenza domate nel sangue, i presidenti fantoccio del Cremlino che hanno sparato sulla folla per obbedire agli ukase di Mosca e allontanare Kyjiv dall’Europa.
Questo genocidio ininterrotto del popolo ucraino è stato perpetrato dalla Russia guidata dallo Zar, dalla Russia guidata dai comunisti e dalla Russia guidata da Putin. Zar, Urss e Putin uniti nella lotta per cancellare l’Ucraina e gli ucraini.
Pensare che questa ultima fase del genocidio ucraino sia opera esclusiva dell’attuale capo del Cremlino vuol dire non conoscere la storia dell’imperialismo russo né la famigerata cultura coloniale dei russi in generale e in particolare rispetto agli ucraini.
Credere che in tutto questo non ci sia alcuna responsabilità del popolo russo, dei volenterosi carnefici di Putin come lo storico Daniel Goldhagen ha definito il popolo tedesco rispetto a Hitler, vuol dire non conoscere quanto sia radicato il suprematismo russo nei confronti degli ucraini e, di conseguenza, l’inossidabile volontà di resistenza degli ucraini.
Gli ucraini sanno chi sono i russi, sanno che cosa hanno sempre fatto, sanno che cosa faranno, sanno che se devono morire è meglio farlo difendendo la propria famiglia, la propria casa, la propria cultura. Purtroppo gli italiani non lo sanno, e non fanno nulla per nascondere la loro ignoranza sui social e sui giornali.
Meno di un mese dopo l’invasione del 24 febbraio, mentre le televisioni russe inondavano l’etere anche italiano di odio suprematista nei confronti degli ucraini, ho scritto che non si vedeva la rabbia dei russi per quello che stava succedendo. Where’s the outrage?, dov’era e dov’è la collera dei russi?
Non c’è stata nessuna mobilitazione, non ci sono state proteste significative, si sono viste solo adunate a favore del regime nella Piazza Rossa, si sono sentite solo le furie omicide dei conduttori televisivi di prima serata e le telefonate dei soldati russi incitati dai familiari a stuprare e a uccidere quanti più ucraini possibile. Ucraini colpevoli soltanto di essere ucraini.
Sette mesi dopo quell’articolo, otto mesi dopo l’invasione militare e le centinaia di stragi di civili, non si è ancora vista una mobilitazione, una manifestazione, niente di niente. Non si è vista nemmeno una protesta dei tanti russi che vivono all’estero e che non rischiano nulla. Nessun presidio davanti alle ambasciate del loro paese. Zero, soltanto la fuga da casa per evitare di essere arruolati e mandati al fronte.
I russi che sono rimasti in patria stanno zitti, si voltano dall’altra parte, non criticano Putin se non di essere poco risoluto. Intanto schiacciano bottoni che lanciano missili sugli ospedali, sulle fermate degli autobus, sui parchi-giochi, sulle scuole, sui centri commerciali, assicurandosi di farlo durante l’ora di punta oppure di notte se l’obiettivo invece sono le abitazioni private.
Sono cittadini russi quelli che uccidono a sangue freddo nelle zone occupate, quelli che buttano i corpi nelle fosse comuni a Bucha e altrove, quelli che stuprano le ragazze e fanno razzia nelle case ucraine, mentre i loro connazionali a casa si lamentano di non poter più accedere a Netflix e per questo chiedono al boia del Cremlino di intensificare le stragi e di spaventare gli europei, riuscendoci.
I russi vogliono uccidere gli ucraini, cancellare la lingua ucraina, negare l’indipendenza ucraina.
Gli ucraini non vogliono uccidere i russi, non vogliono cancellare la lingua russa, non negano il diritto dei russi di avere un loro Stato.
Gli ucraini si sentono europei, occidentali e democratici. Non vogliono i russi in casa, perché sanno che cosa gli succede sotto occupazione. Gli ucraini vogliono essere indipendenti e resistono come possono, anche con il nostro aiuto, al secolare genocidio orchestrato dai russi.
Nessun russo si senta escluso da questa responsabilità.
Chi vuole Aleksandr Dugin morto (e perché). Francesca Salvatore il 21 Agosto 2022 su Inside Over.
L’autobomba che ha ucciso questa notte Darya Dugina era molto probabilmente destinata al padre, Alexandr Dugin, ideologo di Putin, che all’ultimo momento avrebbe cambiato vettura, salvandosi. Si tratta di una sequenza di immagini che scioccano, nonostante tutto: le fiamme, la carcassa dell’auto, lo sgomento di un padre. Ma cosa è davvero successo questa notte a Mosca? Qualsiasi ipotesi, al momento, potrebbe trovare la sua ragion d’essere. Certo è che l’attentato rompe la pax interna imposta con la forza nei mesi delicati dell’invasione dell’Ucraina e rischia di incendiare il velo di Maya con cui il Cremlino ha ammantato le operazioni oltreconfine.
Dugin è davvero così popolare?
Prima di partire da qualsiasi analisi, occorre ricordare che Darya Dugina non era estranea alle teorie del padre. Filosofa, giornalista e politologa si era espressa chiaramente a favore delle operazioni in Ucraina e si era più volte detta compiaciuta di essere finita nelle black list occidentali. Questo significa che, senza mai escludere la teoria del pazzo, qualcuno avrebbe anche potuto voler male a lei stessa o voler colpire nel più profondo colui il quale viene considerato addirittura il “Rasputin” dei giorni nostri. Rastrellando commenti qui e lì, un dettaglio salta agli occhi: Dugin non è popolare in Russia. Anzi, è un personaggio semisconosciuto all’uomo della strada, altro che Rasputin. Dugin è un ideologo dell’Eurasionismo colto, istruito, a suo modo raffinato: contrariamente a quanto molti pensano, ha un’influenza molto limitata all’interno della corte di Putin. Del resto, se ne fosse stato davvero l’ideologo sarebbe stato protetto e invece così non è stato. Nel cerchio magico del leader russo albergano persone ben più pragmatiche che apprezzano il potere politico e il denaro ben al di sopra di alcune visioni mistiche dei “popoli delle steppe” . Ciò che rende Dugin rilevante, tuttavia, è la misura dell’influenza e del supporto di cui gode presso l’esercito russo. Se la Russia post-Putin prendesse una brusca svolta a destra, le idee di Dugin potrebbero essere la perfetta giustificazione per una rinnovata spinta in direzione occidentale.
Le ipotesi
Dugin non è un personaggio popolare, tantomeno un simbolo. Noto a chi è familiare con le vicende del Cremlino e con la vita di Vladimir Putin, vale più per l’Occidente che per i russi, soprattutto quelli delle aree periferiche, gli stessi luoghi da cui proviene la carne da cannone putiniana. Questo può avvalorare la tesi di una matrice ucraina/occidentale che ha usato Dugin per dare un sottile messaggio a Vladimir Putin: lo stile è mafioso, il metodo è da ABC del terrorista, il contenuto è “prendo la tua dottrina e la faccio saltare in aria”.
Nel clima da regola del sospetto che ormai vige ad est da febbraio ad oggi, anche l’ipotesi false flag è al vaglio degli analisti. Ma la domanda resta la stessa: cui prodest? Un’ipotesi che si fa strada in queste ore è che l’attentato alla famiglia Dugin possa essere utile a Putin per screditare Kiev. Del resto, in queste settimane, alcuni deputati del partito russo di centro sinistra Russia Giusta hanno presentato alla Duma un disegno di legge che prevede il riconoscimento dell’Ucraina come Stato terrorista e la confisca dei beni dei suoi cittadini a favore di Mosca. L’attentato tornerebbe utile per accelerare il processo. Anche in questo caso, però, occorre fare delle riflessioni. Se questa fosse la strada che il Cremlino vuole inseguire, eliminare un personaggio così noto e odiato in Occidente ma sconosciuto in Russia avrebbe poco senso. Per perseguire questa strada Putin avrebbe bisogno di un atto eclatante, con grande spargimento di sangue innocente, che instilli in casa e all’estero il dubbio sulla condotta degli Ucraini. La morte di Dugin non avrebbe potuto scatenare tutto questo. Nei fatti, seppur crudamente, nessuno lo avrebbe pianto in patria né fuori. Impatto zero, dunque. Inoltre, autoprodurre un attentato di questa portata sarebbe anche un penoso autogol: ammettere pubblicamente che la fortezza russa è permeabile all’intelligence ucraina. Ha senso?
Maggiore possibilità potrebbe avere la pista interna, quella delle serpi in seno che da mesi sappiamo essere il nemico numero uno per Putin. Dal partito contro la guerra agli ambiziosi doppiogiochisti, colpire Dugin è l’equivalente della testa di cavallo nel letto di Wolz ne “Il padrino”: un avvertimento. Il filosofo si porta dietro, infatti, tutta quell’area politica che al sesto mese di guerra contesta il carrozzone della guerra che arranca e che sta trascinando Mosca sull’orlo del baratro.
Le reazioni dei media
Diversi politici russi hanno reagito alla notizia: il leader dei separatisti filorussi nella regione di Donetsk, Denis Pushilin, parla, in un messaggio pubblicato su Telegram, dell’atto commesso dai “terroristi del regime ucraino”, riferisce Ria Novosti. Vladimir Rogov, membro dell’amministrazione insediata da Mosca a Zaporozhye, ritiene che tutto sia “opera dell’Ucraina” e afferma che è stata superata una linea rossa, riporta invece Izvestia. “Stanno uccidendo i nostri figli – le linee rosse sono state superate molte volte! Nella regione di Mosca, Daria Dughina è stata brutalmente uccisa: un’auto con una ragazza è stata fatta saltare in aria. Non ho dubbi che ciò sia stato fatto dai terroristi dell’UGIL, lo stato ucraino di Ivano-Frankivsk e Lviv. L’obiettivo potrebbe essere sia Dasha che suo padre, Aleksander Dughin”, ha scritto Rogov, aggiungendo che Daria stava combattendo “l’ucrofascismo e i suoi padroni anglosassoni”. Il comandante militare Akim Apachev, che ha incontrato Daria e Aleksander Dughin al festival della tradizione la sera del 20 agosto, ha affermato che “è ovvio che questo attacco terroristico è stato preparato per Dugin…è anche evidente che da oggi partono gli attentati terroristici nella capitale, da oggi non ci sono più luoghi sicuri. L’unico modo per proteggere il Paese è distruggere il nostro nemico naturale che si trova a Kiev, Dnepropetrovsk, Kharkiv, Nikolaev, Odessa e in altre città russe”.
Più asciutte le reazioni dall’Ucraina: dalle pagine del Kyiv Indipendent si legge infatti che Mykhailo Podolyak, consigliere del capo dell’ufficio presidenziale di Volodymyr Zelensky, ha affermato che l’Ucraina non è dietro l’omicidio della figlia di Alexander Dugin. “Non siamo uno stato criminale, a differenza della Russia, e sicuramente non uno stato terrorista”, ha detto Podolyak alla TV nazionale. Una risposta ovviamente scontata qualsiasi sia la verità dietro l’attentato.
Nel frattempo a Mosca, l’aria cambierà di certo. Il clima di sospetto è destinato ad addensarsi. Cambierà, forse, anche la narrazione del conflitto e la propaganda, che potrebbe farsi più aggressiva, ma per parlare ai dissidenti interni più che all’Occidente. Si “rischia” una distrazione dal conflitto poichè, come sostiene Edward Luttwak “Molti consiglieri, politici e sostenitori del governo adesso si sentiranno in pericolo. Tutto ciò destabilizza la società e distrae risorse necessarie alla guerra”.
Il caso Dugin, lo spettro di Emmanuel Goldstein e l’ombra di Mongoose. Emanuel Pietrobon il 24 Agosto 2022 su Inside Over.
Quando un’indagine per omicidio viene chiusa in tempi record, magari in meno di un giorno, il sospetto che gli inquirenti vogliano celare o annacquare una scomoda verità sorge spontaneamente. E assume la forma di una recondita e inesprimibile convinzione, anche se contraria alla versione ufficiale delle autorità e della stampa, se di mezzo c’è un cadavere eccellente. Come quello di Daria Dugina.
Le conclusioni del FSB gettano più ombre che luci sulle circostanze che hanno condotto all’assassinio della giovane politologa, astro in ascesa della galassia eurasistica, perché vorrebbero spiegare, ma non lo fanno, vorrebbero essere basate su prove incontestabili, ma sono ricche di speculazioni, e vorrebbero essere complete, ma sono piene di buchi. Un’inconcludenza che, storia dei servizi segreti di Mosca alla mano, non può che essere motivata da due ragioni: calcolo politico – la volontà di rassicurare l’opinione pubblica e di risolvere celermente il caso – e trame nel dietro le quinte del palcoscenico – la guerra all’ombra delle guglie del Cremlino.
Detti e non detti della ricostruzione ufficiale
Gli investigatori del FSB si dicono sicuri di aver risolto il caso Dugin(a), risalendo alle presunte origini e alle presunte ragioni dell’attentato in meno di ventiquattro ore dalla scomparsa della giovane e promettente politologa. Ma è una ricostruzione, la loro, che non convince del tutto i più arguti e che lascia in sospeso più domande di quelle a cui viene data risposta.
Daria Dugina, astro in ascesa della galassia eurasistica, sarebbe stata uccisa da una cittadina ucraina di (possibili) radici tatare, Natalia Shaban-Vovk, entrata nella Federazione il 23 luglio, a bordo di una Mini Cooper targata Donetsk, con la figlia minorenne al seguito. Con il supporto di agenti ucraini, una volta in Russia, la presunta attentatrice avrebbe reperito i quattrocento grammi di esplosivo poi piazzati da sua figlia sotto la vettura di Dugina. E dopo l’esplosione, presumibilmente innescata da remoto, la fuga in Estonia.
Daria, e non suo padre Aleksandr, avrebbe rappresentato il vero e unico bersaglio dell’attentatrice e dei suoi soci di cospirazione. Forse perché la politologa, oltre ad essere una sostenitrice della cosiddetta “operazione militare speciale” e un’accanita detrattrice del battaglione Azov – del quale la Vovk farebbe parte –, non era schermata da alcun muro protettivo. Una ricostruzione che, se decostruita, è costellata di crepe.
La pista occidentale dietro la morte della figlia di Dugin
Un guardiano che non guarda?
Il primo pensiero a caldo, da una disamina delle conclusioni degli inquirenti, è che sono inconcludenti e costituiscono più una macchia che una medaglia per la reputazione dei servizi segreti di Mosca. Perché se è vero che il FSB è il guardiano della Russia, queste indagini indicano che è un guardiano che non guarda. O che, se ha guardato, lo ha fatto male o ha deciso di voltarsi dall’altra parte.
Molte delle domande più importanti non hanno trovato risposta. Forse perché gli investigatori non le hanno ancora, essendo stati pressati dal Cremlino a fornire un nome all’opinione pubblica in tempi record. O forse perché le hanno e, proprio per questo, le conservano per se stessi. Puzza di Mongoose. Miasma di Emmanuel Goldstein.
Porsi le domande alle quali gli agenti del FSB non hanno risposto, volutamente o meno, è più che doverso nell’ambito della ricerca della verità fattuale – che, come la storia insegna, non sempre corrisponde a quella di giudici ed investigatori. Perciò è legittimo chiedersi come abbia fatto la Vovk, soldatessa di Azov conosciuta al FSB, prima ad entrare in Russia e dopo a pianificare inosservata, per un mese, l’attentato; come e quando si sia procurata l’esplosivo; se abbia legami con il fantomatico Esercito repubblicano nazionale che, secondo il politico in esilio Il’ja Ponomarëv, sarebbe il vero esecutore dell’omicidio; se è una coincidenza che le telecamere lungo la strada percorsa da Daria Dugina fossero fuori uso.
Le ombre da chiarire
Attorno al caso Dugin(a) si respira aria graveolente, pestilenziale, a causa di quello che sembra essere fetore di Mongoose, cioè di un’operazione pilotata dall’esterno – e con l’aiuto di quinte colonne – allo scopo di evidenziare le falle nella Fortezza Russia, ma che potrebbe anche provenire dallo spettro di Goldstein, ossia un auto-attentato o uno che si è preferito non prevenire o per danneggiare la presidenza – la pista della faida tra i vari poteri – o, al contrario, per favorirne l’agenda – creando un martire da mitizzare e col quale spezzare l’apatia di larga parte dell’opinione pubblica, creando un nemico tangibile, perché in grado di agire nel cuore dell’Impero, e contro il quale sfogarsi in campagne di due minuti d’odio e attuare rappresaglie di peso.
Non ha importanza che l’obiettivo non fosse Dugin padre: è il cognome che conta. E i Dugin, pur non essendo dei novelli Rasputin – sebbene sia questa la narrativa occidentale –, sono tra i simboli dell’era Putin e i capifila di un pensiero, il neo-eurasismo, che si è fatto spazio nelle stanze dei bottoni con l’aggravamento della competizione tra grandi potenze e che è stato fatto proprio, dal 24.2.22, dal partito della guerra.
È possibile che il caso Dugin(a) sia parte di una cospirazione transnazionale in stile Mongoose, materializzatasi grazie al coordinamento tra servizi segreti ucraini (e occidentali) e quinte colonne in loco, come non è irrazionale pensare ad un piano Goldstein, che avrebbero avuto motivo di avallare sia la presidenza Putin sia i suoi oppositori – il partito anti-guerra formato da apparati dei servizi segreti, segmenti delle forze armate, oligarchi scontenti e in dialogo, probabilmente, con l’estero. La prima per creare un martire e alimentare il raccoglimento attorno alla bandiera, tra discorsi alla nazione e dimostrazioni patriottiche. I secondi per inviare un eloquente monito: il conflitto è anche in Russia, alle porte del Cremlino.
Quale che sia e dove si trovi la verità, che difficilmente emergerà, resta il fatto che la sera del 20 agosto ha perso la vita un astro nascente e promettente della politica russa, Daria Dugina, che aveva tanti piani in serbo per il futuro. Una combinazione di inventiva, stacanovismo e talento che, pare, stava infastidendo i concorrenti del padre e talune fazioni politiche – un’invidia nota e che potrebbe essere tornata utile a chi ha progettato l’attentato. Tante le briciole da raccogliere e seguire. E non è detto, vista la nebbia che avvolge tutto ciò che riguarda la Russia, che porteranno da alcuna parte.
Konstantin Malofeev, chi è lo sponsor di Aleksandr Dugin. Francesca Salvatore il 28 Agosto 2022 su Inside Over.
Al funerale di Darya Dugina, seduto vicino al filosofo Dugin e alla moglie Natalya Menteleva, sedeva un giovane possente e dalla barba folta. Non si trattava di un parente, bensì di Konstantin Valer’evič Malofeev, proprietario di Tsargrad.tv, dove Dugina lavorava come corrispondente e cronista e presso la quale Dugin padre è caporedattore dalla sua apertura, nel 2015.
La carriera prima della TV
Le parole di commiato del magnate televisivo, da sole, spiegano il rapporto che lega Malofeev alla famiglia Dugin: “Dasha (il diminutivo di Darya in russo, non è morta invano (…) con il sangue dei nostri martiri noi diventiamo ancor più forti. (…) Anche per la scomparsa prematura della nostra cara amatissima Dasha, noi vinceremo sicuramente in questa guerra, lei questo voleva e per questo viveva. (…) E anche nel regno dei cieli sarà una guerriera di Cristo”. Oltre allo stretto legame tra i tre, il linguaggio dell’elogio funebre racconta alla perfezione chi sia Malofeev e quali siano i suoi feticci. Lo si capiva bene anche da quel titolo, “Chi ha ucciso il soldato Darya Dugina?”, comparso su Tsargrad.tv poche ore dopo l’attentato.
Il quarantottenne oligarca televisivo è presidente del consiglio di amministrazione del gruppo Cargrad e direttore dell’Aquila Bicipite, organizzazione non governativa russa per lo sviluppo dell’educazione storica, è nella lista delle sanzioni personali imposte da Usa, Canada e UE dal 2014. Nel 2017, Kiev ha invece inserito Malofeev nella lista dei ricercati internazionali, accusandolo di creare gruppi paramilitari illegali. C’è un po’ di tutto nel cursus honorum di Malofeev: alta finanza, politica, scandali. Ma c’è un punto imprescindibile nella sua scalata al potere: l’apologia di Putin e del putinismo. Circa dieci anni fa, nel 2014 questo favorito suscitò scalpore per un suo ambizioso progetto: avviare una sorta di Fox News ortodossa per coadiuvare Mosca nel suo ritorno al glorioso passato zarista.
Ma cosa possedeva di diverso questo quarantenne dalle orde di oligarchi dell’era Putin? In un momento in cui il governo russo stava rendendo la vita difficile agli oligarchi indisciplinati, Malofeev – conservatore e patriottico – era il tipo di uomo d’affari destinato ad emergere come una sorta di “Soros di Putin“, come venne ribattezzato ai tempi della guerra in Crimea.
L’ossessione per la fede ortodossa
La fondazione dedicata a San Basilio il Grande è la più grande organizzazione di beneficenza ortodossa del Paese, altro “capolavoro” dell’oligarca: la sua missione è più grande della semplice restaurazione dell’Ortodossia in Russia. Piuttosto, è una lotta globale condita da refrain censori, soprattutto in fatto di musica, internet e tematiche LGBT. Non a caso, i bersagli preferiti del suo canale sono le femministe russe e gli omosessuali.
L’ossessione per la fede ortodossa è quella che ha legato in qualche modo il suo destino al conflitto in Ucraina: Malofeev stava viaggiando a seguito di una delegazione della chiesa ortodossa portando le sacre reliquie in un tour attraverso la Bielorussia e l’Ucraina quando il suo aereo venne dirottato e costretto ad atterrare in Crimea. Settimane prima che il territorio fosse annesso alla Russia, migliaia di persone si presentarono per venerare i resti sacri. Da quel momento, Malofeev ha tenuto un piede in quel di Mammona e uno nella Chiesa ortodossa, parte integrante della mitopoiesi di Putin. Ben presto, l’idea di rieducare all’ortodossia i russi diventò un progetto televisivo: Tsargrad.tv., che nel 2015 iniziò a trasmettere su Spas, un canale religioso gestito dalla Chiesa ortodossa.
Il progetto Tsagrad
Tsargrad prende spunti editoriali dal presidente Putin e dalla Bibbia. Il chiodo fisso per il modello incentrato sui “valori tradizionali” della nota rete americana non è casuale. Malofeev volle infatti con sè Jack Hanick, uno dei padri fondatori di Fox, per mettere in piedi il suo impero mediatico. In un’intervista al Financial Times del 2015, il magnate dichiarava che il primo intento della sua Fox made in Russia era fare proseliti, nonché rendere praticanti “quelli che vanno in Chiesa solo a Pasqua”. Invece di giovani alla moda che parlano di cambiamento politico, Tsargrad ha una cupa redazione dedicata ai valori conservatori, al patriottismo e alla Chiesa ortodossa russa. Lo studio del canale è decorato con costose immagini religiose: come amava ripetere il suo fido socio Hanick, è “Bisanzio che incontra il 21° secolo”. Una cupola con una grande icona di Cristo sul soffitto, alte finestre, luce naturale che infonde spiritualità: un incubo per tecnici e cameraman.
Per realizzare una piattaforma mediatica degna del progetto di Malofeev, serviva un maître à penser. La scelta cadde proprio su Alexander Dugin, che accolse quasi messianicamente il suo ruolo di caporedattore. “Il liberalismo è stato fortemente screditato dalla politica occidentale”, affermò Dugin all’inizio del progetto. L’obiettivo era, dunque, portare il discorso patriottico fuori dal dalle ere sovietica e liberale. “Tsargrad riflette l’opinione di questa maggioranza silenziosa”, sosteneva Dugin, dimentico della fattura occidentale dell’espressione usata. Tuttavia, al canale serviva anche un’ allure di tipo geopolitico, e cosa c’era di meglio di una quotidiana filippica anti-occidentale sulle notizie? Il tutto opportunamente condito da riferimenti a Soros e i Rotschild e i loro piani per il dominio del mondo, al “satanismo abortista americano”, alla “deriva morale dell’Occidente, et similia. Ma soprattutto, Malofeev aveva scelto come suo filosofo televisivo l’uomo che nel 1997 aveva pubblicato The Foundations of Geopolitics: The Geopolitical Future of Russia, vero e proprio manifesto del neo-eurasianismo.
Il progetto per la Russia
Con la filosofia di Dugin come sostrato culturale, Malofeev fa grandi progetti per la Russia che sarà.
La guerra in Ucraina, che ha visto un inasprimento delle sanzioni, sembrava aver bloccato l’idea di promuovere i suoi valori oltre l’Europa, ove raccoglie le simpatie di euroscettici e complottisti. Qualcuno, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, aveva ipotizzato che i progetti deliranti dell’imperatore televisivo potessero almeno ridimensionarsi, ma così non è stato. Accogliendo favorevolmente la prospettiva che Putin rimanga al potere fino al 2036, il magnate sostiene che la Russia ora ha “una quasi monarchia”, un’ottima cosa, a suo dire: infatti, è almeno dal 2019 (come racconta in questa intervista sul New York Times) che anela l’introduzione di una monarchia costituzionale, una prospettiva ormai diventata realistica.
I progetti di Malofeev per la Russia del futuro si fondono in maniera perfetta con le teorie duginiane: insieme, negli ultimi mesi, hanno fornito la piattaforma filosofica con la quale giustificare l'”operazione speciale”. “Gli ucraini devono capire che li stiamo invitando a creare questa nuova, grande potenza (russa). Così come bielorussi, kazaki, armeni, ma anche azeri e georgiani, e tutti coloro che non solo erano e sono con noi, ma lo saranno anche “, scriveva Dugin su Tsargrad nel maggio scorso.
Al connubio Malofeev-Dugin mancava un solo dettaglio: un martire a cui intitolare la loro battaglia culturale fatta di croci e microfoni. Un'”evangelista della guerra” -come l’ha definita l’esperto di nazionalismo russo Giovanni Savino-, una giovane santa da vendicare e celebrare, un vessillo da agitare per ottenere proseliti e galvanizzare i propri accoliti. Darya Dugina, da morta, rappresenta tutto questo: bella, giovane, donna, cresciuta a pane e teorie del padre. La scenografia del suo funerale parla chiaro: il corpo ricomposto nella bara aperta, la camera ardente allestita negli studi di Ostankino, la presenza di alcuni dei principali esponenti dei media ufficiali, delle forze politiche rappresentate alla Duma (vedi Leonid Slutsky, presidente del Partito liberaldemocratico di Russia e Sergey Mironov, leader di Russia Giusta ). Se chi ha ucciso “il soldato Dasha” voleva dichiarare guerra a Putin, adesso il binomio Malofeev-Dugin è pronto a rispondere al fuoco: da questa battaglia verrà fuori la Russia dei prossimi cento anni.
Ideali e carriera, Darya sulla scia del papà. Filosofa e analista, anche lei era stata colpita dalle sanzioni di Usa e Ue. Andrea Cuomo il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Darya Dugina, nata nel 1992, era laureata in filosofia all'Università statale di Mosca. Aveva approfondito gli studi sul neoplatonismo, ma rivendicava come riferimenti culturali anche Antonio Gramsci, Martin Heidegger e il sociologo francese Jean Baudrillard. Ma era il padre Aleksandr Dugin il suo vero punto di riferimento. Di lui «Dasha» (così era nota) aveva sposato le idee sul nazionalismo eurasiatico che in molti consideravano una giustificazione ideologica all'invasione dell'Ucraina da parte della Russia. Lei stessa, nella sua attività pubblicistica, si era esposta parecchio: in autunno uscirà un libro nel quale compare come coautrice: «Libro Z», dalla lettera diventa simbolo del sostegno all'invasione. Aveva lavorato, tra gli altri, per le emittenti filo-Cremlino Russia Today e Tsargrad Tv con lo pseudonimo di Daria Platonovna.
Un'attività che le era valsa la «scomunica» da parte dell'Occidente. La Dugina, era stata colpita dalle sanzioni occidentale in quanto «fautrice di alto profilo e frequente di disinformazione sull'Ucraina e sull'invasione russa su varie piattaforme online». Era anche oggetto di sanzioni da parte del Dipartimento del Tesoro Usa come direttrice del sito United World International (Uwi) di proprietà di Ievgeny Prigozhin, stretto alleato di Putin, accusato di disinformazione.
Negli ultimi tempi la Dugina si era occupata nei suoi scritti anche dell'Italia. Aveva salutato con favore la caduta del governo di Mario Draghi «un Quisling, un «collaborazionista degli americani» e auspicato alle elezioni del 25 settembre un successo delle forze anti-establishment come «Italia sovrana e popolare», la lista di Marco Rizzo e Antonio Ingroia.
Uccisa la figlia di Dugin. Accuse tra Mosca e Kiev. Il giallo della matrice. Un'esplosione squarcia il sabato sera russa. Sono le 21,45 ora locale, le 20,45 in Italia. Andrea Cuomo il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Un'esplosione squarcia il sabato sera russa. Sono le 21,45 ora locale, le 20,45 in Italia. Sulla trafficata Mozhayskoye Shosse, nei pressi del villaggio di Velyki Vyazomi, alla periferia occidentale di Mosca, venti chilometri a Ovest rispetto alla capitale, salta in aria una Toyota Land Cruiser Prado. Il Suv è intestato a Aleksandr Dugin, 60 anni, da alcuni considerato uno degli ideologhi di riferimento di Vladimir Putin. Ma non c'è lui a bordo. C'è la figlia trentenne, Darya Platonova Dugina, da sola. Il suo corpo è estratto carbonizzato dalla vettura che nel frattempo si è rovesciata e ha preso fuoco, illuminando a giorno la notte moscovita.
Passano poche ore e la Rete si riempie di immagini dal luogo dell'esplosione. In un filmato si vede un uomo con la lunga barba bianca e le mani nei capelli, a pochi metri dalle fiamme, tra rottami e detriti. Quell'uomo è Dugin appena arrivato sulla scena. Su quel volto il dolore per la morte della figlia e il terrore dettato dalla consapevolezza che a bordo di quell'auto avrebbe potuto, avrebbe dovuto esserci anche lui. Padre e figlia erano appena stati a un festival, lui per tenere una conferenza, lei come ospite, e stavano tornando a casa. Solo per un caso all'ultimo l'ideologo è salito su un'altra vettura, lasciando inconsapevolmente all'amata Darya il biglietto per l'inferno.
L'esplosione della Toyota è un attentato. Gli inquirenti russi ritengono probabile che sul Suv qualcuno avesse piazzato un ordigno esplosivo. Per uccidere con ogni probabilità Dugin stesso, l'uomo che con le sue teorie avrebbe dato un sostrato filosofico all'aggressione dell'Ucraina. Anche se poi in molti considerano Dugin un eccentrico, una figura marginale lontana dal cuore del dibattito politico proprio a causa delle sue teorie troppo ardite.
Non ci mette molto l'establishment vicino a Putin a mettere sotto accusa Kiev. Il primo a prendere posizione è il capo dell'autodichiarata repubblica filorussa di Donetsk, Denis Pushilin: «Vigliacchi infami! I terroristi del regime ucraino, nel tentativo di eliminare Aleksandr Dugin hanno fatto saltare in aria sua figlia. Era una vera ragazza russa!». Subito dopo la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zacharova interviene: «Se la pista ucraina venisse confermata, allora dovremmo parlare di politica di terrorismo di Stato attuata dal regime di Kiev». Punta il dito anche Akim Apachev, amico della famiglia Dugin, uno degli ultimi ad avere visto Darya: «È ovvio che da oggi non ci sono più luoghi sicuri in Russia. L'unico modo per proteggere il Paese è distruggere il nostro nemico naturale seduto a Kiev, Dnepropetrovsk, Kharkov, Nikolaev, Odessa e in altre città russe». Ma il consigliere della presidenza ucraina, Mikhailo Podolyak, taglia corto: «L'Ucraina non ha nulla a che fare con l'omicidio della figlia di Dugin».
È un giorno complicato: poche ore dopo Oleksandr Nakonechny, il capo di un ramo regionale del Servizio di sicurezza ucraino (Sbu), quello di Kirovgrad, viene trovato morto. La moglie riferisce di uno sparo, probabilmente si tratta di suicidio ma un'altra indagine si apre. Ma il giallo che può cambiare l'immediato futuro della guerra in Ucraina è a Mosca. Naturalmente la pista di un sabotaggio ucraino sta in piedi, Dugin e la figlia rappresentano target credibili. Ma la storia insegna che a Mosca la prima risposta non è sempre quella giusta. Esiste un fronte interno che si oppone alla guerra. E c'è chi avrebbe interesse a colpire gli estremisti del putinismo. Secondo Ilya Ponomarev, ex deputato della Duma russa, dietro alla bomba potrebbe esserci un gruppo partigiano. Lo riferisce «The Guardian»: «Parlando a Kiev, dove vive, Ponomarev - scrive - ha affermato che l'esplosione di sabato sera è stata opera dell'Esercito Nazionale Repubblicano», «gruppo clandestino che lavora» per «rovesciare il regime di Putin». E invece attribuire rozzamente l'attentato agli ucraini potrebbe diventare il pretesto per un'ulteriore escalation. Nulla di buono da Mosca.
Nel mirino il filosofo che sogna l'Eurasia. E il messaggio a Putin. "Nessuno è al sicuro". Fanatico ultra nazionalista e grande sponsor della guerra. Colpire Dugin significa minacciare la cerchia più ristretta dello Zar. Roberto Fabbri il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Da Kiev giurano di non entrarci per nulla. Non siamo uno Stato terrorista come la Russia, spiegano. Tutto è possibile, per carità. Anche che Aleksandr Dugin, l'ideologo della destra ultranazionalista russa che ha iniziato Vladimir Putin alle visioni imperial-tradizionaliste e al concetto ambiguo di Eurasia, abbia rischiato di seguire sua figlia Darya all'altro mondo in seguito a un regolamento di conti tra élite di potere moscovite: il personaggio è scomodo, e gli appetiti nei dintorni del Cremlino sono molto robusti. Rimane il fatto che la vecchia legge del cui prodest? orienta i sospetti verso l'Ucraina. Dugin, il fanatico negatore del diritto stesso degli ucraini di essere un popolo distinto da quello russo, istigatore insieme a sua figlia dell'aggressione militare a quello Stato amico dell'esecrato Occidente, è visto a Kiev come mandante e responsabile, non meno di Putin, dei massacri e delle devastazioni che quel popolo fierissimo di esserlo subisce da sei mesi. E l'attentato contro i Dugin, padre e figlia, ha tutta l'aria di essere un messaggio fortissimo al dittatore del Cremlino: nessun luogo è più sicuro per te, né la Crimea che hai annesso né la stessa Mosca. Se non possiamo colpire te, colpiremo chi ti consiglia e ti sostiene, adesso sai che possiamo farlo.
È importante capire che Aleksandr Dugin, sessant'anni, e sua figlia Darya, che ne aveva trenta, sono due personaggi di primissimo piano sulla scena del potere in Russia. Erano talmente sintonizzati nel loro estremismo che è logico pensare che chi ha ordito l'attentato puntasse a eliminarli insieme. Darya Dugina si occupava di geopolitica e dirigeva un sito (United World International, in sigla UWI) di disinformazione riconducibile a Yevgeni Prigozhin, vicinissimo a Putin e noto tra l'altro per essere al vertice delle famigerate milizie mercenarie russe Wagner, attive sul fronte ucraino. Su UWI si parlava volentieri di politica italiana: in un post di cinque giorni fa il premier Draghi veniva attaccato come «collaborazionista degli americani», si criticava Giorgia Meloni per il suo ostentato atlantismo e si suggeriva agli elettori di votare per movimenti antisistema.
Quando parlava di Ucraina, Darya Dugina riprendeva alla lettera il Dugin-pensiero: gli ucraini, aveva scritto una volta, sono «subumani che devono essere conquistati». Un linguaggio che sarebbe piaciuto ad Adolf Hitler. E in effetti, Aleksandr Dugin è la prova vivente dell'ipocrisia di Vladimir Putin quando sostiene la necessità di «denazificare l'Ucraina». Il fanatico filosofo Dugin è infatti colui che ha avvicinato Putin alle idee di Ivan Ilyin, il pensatore filonazista russo teorico di una Russia Eterna guidata da un «Leader redentore» con il diritto-dovere di azzerare le libertà individuali dei suoi cittadini-sudditi, cui spetta invece il dovere categorico di combattere le guerre da lui scatenate per la grandezza della Patria. Putin fu così colpito da decidere di far rimpatriare nel 2005 dalla Svizzera le spoglie di Ilyin (morto nel 1954 dopo esser vissuto nel Terzo Reich fino al 1938) e far loro dare sepoltura solenne. Non gli importava che Ilyin fosse stato un fervente antisovietico, come del resto lo stesso Dugin, che già in gioventù ostentava simpatie fasciste, antisemitismo e ostilità verso «l'Occidente impuro».
Tra i maestri politici di Dugin figura il teorico francese della destra tradizionalista Alain de Benoist, e quando ha presentato i suoi libri in Italia, le conferenze sono state organizzate da circoli neofascisti. Con il da poco defunto Eduard Limonov, Dugin aveva anche fondato il partito Bolscevico-nazionale, che teneva insieme il peggio degli estremismi di destra e di sinistra russi: un sincretismo politico che Putin ha ripreso nella sua propaganda nazionalistica che fonde la nostalgia zarista con quella per l'Unione Sovietica e perfino per Stalin, presentati non come espressioni del comunismo, ma come esempi di grandezza nazionale. Propaganda che viene ammannita oggi in Russia obbligatoriamente già sui banchi delle elementari.
Mosca ha già risolto il caso: Dugina uccisa da un'ucraina. I servizi russi: "Legata ad Azov e fuggita in Estonia". Il padre: "La vendetta non basta, adesso la vittoria". Andrea Cuomo il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.
Caso risolto. In fretta e furia. Senza dubbi. Ha già un nome e un volto l'attentatrice che ha ucciso Darya Dugina, la figlia del «Rasputin» di Vladimir Putin, Aleksandr Dugin, saltata in aria nel Suv del padre su una strada alla periferia di Mosca sabato sera. Si tratterebbe (il condizionale è nostro) di Natalia Vovk, cittadina ucraina nata nel 1979, «arrivata in Russia il 23 luglio insieme alla figlia Sofia Shaban e riuscita dal Paese dalla regione Pskov, da dove ha raggiunto l'Estonia», come si legge in un comunicato redatto a tempo di record dall'Fsb - la sigla dei i servizi russi di intelligence. Che taglia corto sul mandante: «Il crimine - si legge nella nota - è stato preparato e commesso dai servizi segreti ucraini». Mosca fa sapere di avere inserito il nome della Vovk nella lista dei ricercati e di aver giù chiesto al Paese baltico l'estradizione della donna. L'Estonia però nega di avere ricevuto una simile richiesta da Mosca.
Tutto troppo facile, tutto troppo veloce, tutto troppo «ucraino». Da Mosca il padre Aleksandr Dugin invoca accorato: «I nostri cuori bramano non solo la vendetta, a noi serve la Vittoria. E allora vincete, per favore!». E Vladimir Putin parla di «crimine vile e crudele». Le prove di accumulano rapide e circostanziate. Compare una foto di un documento che la qualifica come membro del battaglione Azov (cosa che la Guardia nazionale si affretta a smentire: «Natalya Vovk non ha mai servito nelle Forze speciali Azov» e quel documento «è un falso di bassa qualità, fatto in fretta»). Poi ecco un video diffuso dalla stessa Fsb che mostra la Vovk nelle ore che precedono e che seguono l'attentato. «Come si evince dal video - scrive la Tass - la donna, insieme alla figlia, è entrata in Russia il 23 luglio dopo un check doganale. Il video mostra anche filmati di lei che entra nel condominio di Dugina e mentre lascia la Russia per l'Estonia: con la figlia viene ripresa al confine alle 12.02 del 21 agosto. La loro auto, come mostrano le immagini riprese dalle telecamere a circuito chiuso, viene perquisita a fondo».
La 43enne ucraina sarebbe arrivata in Russia il 23 luglio scorso con la figlia dodicenne Sofia Shaban a bordo di una Toyota Land Cruiser con targa della Repubblica popolare di Donetsk. Targa che lei stessa avrebbe modificato più volte nel corso dei giorni successivi: quando seguiva la sua preda, la Vovk avrebbe usato una targa del Kazakistan mentre per lasciare la Russia aveva preferito una targa ucraina. La Vovk avrebbe preso in affitto per le sue settimane moscovite un appartamento nello stesso condominio in cui viveva la Dugina e aveva partecipato, sempre con la figlia, al festival «Tradizione» a cui erano presenti Aleksandr Dugin e la figlia. Non è chiaro però come e quando sarebbe stato installato l'ordigno sotto il Suv della giornalista. Ieri una fonte della polizia ha fatto sapere che l'ordigno esplosivo «è stato fatto esplodere a distanza». E fonti di sicurezza russe hanno dichiarato alla Tass che la Vovk potrebbe aver usato la figlia per piazzare la bomba nell'auto. L'Fsb ha fatto sapere che il caso è stato trasferito al Comitato investigativo.
In mattinata, prima che il caso venisse «risolto», l'attentato era stato rivendicato da un gruppo finora sconosciuto che si definisce Esercito nazionale repubblicano. E poche ore dopo è comparso anche un manifesto politico dell'organizzazione, in cui si legge che «mettiamo al bando guerrafondai, ladri e oppressori dei popoli della Russia». Ma la fonte è a sua volta sospetta: si tratta di Ilja Ponomarev, ex deputato alla Duma di Stato russa, l'unico parlamentare che votò all'epoca contro l'annessione della Crimea.
C'è chi teme un nuovo "terrore rosso". Yulia Latynina (Novaya Gazeta): "La repressione aumenterà ancora". Angelo Allegri il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.
«Una stupida provocazione dell'Fsb», dice Liubov Sobol (immagine in basso), avvocato in prima fila per i diritti civili, tra le persone più vicine al dissidente Aleksei Navalny. «Un mistero, con il timore che sia il pretesto per l'inizio di una fase di repressione totale» scrive Yulia Latynina (a lato), editorialista tra le più famose della Novaya Gazeta, il giornale del Premio Nobel Muratov, la cui redazione si è rifugiata a Riga, in Lettonia.
Non c' nulla di certo nell'attentato a Darya Dugina. E nemmeno la soluzione del caso immediatamente trovata delle forze di sicurezza russe, tanto perfetta da sembrare posticcia, contribuisce per il momento a fare chiarezza. Della presunta colpevole sapevano tutto, «compreso che era stata segnalata come membro del reggimento Azov fino all'aprile 2022» scrive Christo Grozev, giornalista investigativo che guida il servizio russo del sito Bellingcat. «Come è entrata in Russia viste le tracce così visibili delle sue esperienze militari»?
La Latynina, che qualcuno ha definito la nuova Anna Politkovskaja, esprime una paura sulla morte di Darya Dugina: «temo che questo omicidio sarà seguito da una fase di terrore totale, come dopo i colpi di Fanny Kaplan contro Lenin o dopo l'assassinio di Kirov».
Il riferimento è a due episodi della storia russa del '900. Il primo è dell'agosto del 1918: Fanny Kaplan, attivista del partito social-rivoluzionario tenta di assassinare Lenin, considerato traditore della rivoluzione, ferendolo gravemente.
È una svolta, la repressione si abbatte subito sugli avversari dei bolscevichi. Un decreto, ispirato al «terrore rosso», viene approvato in poche ore, centinaia di persone cadono vittima delle nuove leggi. Quanto a Sergej Kirov, capo del partito di Leningrado, legatissimo a Stalin, viene assassinato nel dicembre del 1934, da un giovane all'apparenza vicino alla sinistra del partito e a Grigorj Zinoviev. La sua uccisione apre la strada alla repressione contro Trotskij, Kamenev e lo stesso Zinovev, che sfocerà nei grandi processi del 1936.
L'accaduto «potrebbe essere il risultato di una resa dei conti per il potere all'interno del Cremlino e allo stesso tempo giustificare la repressione», dice la Latynina. «Non sono molti i russi che ora sostengono la guerra. Il via libera alla mobilitazione generale può essere ottenuta solo con il terrore. Man mano che la situazione al fronte peggiora per Putin, il suo sostegno tra il popolo e nell'èlite è destinata a diminuire. Man mano che il suo sostegno diminuisce, il terrore aumenterà».
Difficile misurare il consenso del Cremlino in questo momento. I sondaggi che c'è chi si ostina a condurre, sembrano, in un Paese in cui ogni confronto aperto di idee è impossibile, difficilmente affidabili. Ci sono statistiche che qualcuno interpreta come segnali indiretti. Ieri l'Auditel russa ha pubblicato i dati sull'ascolto dei canali televisivi. I primi tre, Channel One, Rossya-1 e Ntv, diventati in questi mesi strumenti a tempo pieno per la propaganda del Cremlino, hanno perso dall'inizio della guerra a oggi oltre il 25% del pubblico. La stessa percentuale di diffusione tra la popolazione guadagnata da un social incontrollabile e incensurabile come Telegram. Andrei Kolesnikov (ex) ricercatore del Carnegie Center di Mosca è netto: «Gli attentatori o vogliono una condotta di guerra più aggressiva o vogliono provocare più repressione interna. In ogni caso non ho dubbi: sono uomini dei servizi segreti».
Ucraina: l'assassinio di Darya Dugina e il rischio nucleare. Piccole Note il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
L’assassinio a sangue freddo della figlia di Aleksandr Dugin, Darya, fatta esplodere sulla sua auto, segnala un salto di qualità della guerra ucraina, dal momento che è la prima volta che viene imboccata la via del Terrore sul territorio russo, finora limitata alle sole aree del Donbas con alcuni attentati contro le autorità locali stabilite nelle aree controllate dai russi.
Dal momento che è davvero difficile credere che a compiere l’attentato contro la figlia del consigliere dello Zar sia stata l’intelligence ucraina – troppo sofisticata l’azione – l’ipotesi più probabile è che si tratti di una feroce declinazione di quell’idea di guerra personalizzata e ibrida in cui si è impelagato l’Occidente, avviata con le sanzioni emanate contro amici e conoscenti di Putin, tra cui addirittura la sua presunta amante (sciocco corollario dell’altrettanta stupida idea di “punire” lui, come se le guerre fossero assimilabili a un duello western).
L’autobomba in cui è morta la ragazza segnala, dunque, una brutta svolta del conflitto: qualcosa che ha più a che fare con l’Isis che con una battaglia di resistenza. Viene così sdoganato il terrorismo, che è altra cosa da una guerra partigiana che può anche prendere di mira figure isolate, ma non prendere di mira deliberatamente e in maniera mirata degli innocenti.
E se ciò da una parte costringerà l’intelligence russa a una maggiore e più capillare vigilanza del territorio nazionale, dall’altra accrescerà le pressioni sullo Zar perché aumenti l’uso della Forza nel conflitto ucraino, nel quale finora ha frenato, evitando, per esempio, i bombardamenti a tappeto in stile Iraq.
Ed è alquanto disgustoso che, a fronte dell’omicidio di una ragazza, i media d’Occidente facciano a gara per spiegare come il padre sia un nazionalista della peggior specie, come se ciò, se anche se fosse vero, giustificasse l’assassinio della figlia.
Peraltro, a questo omicidio rischia di aggiungersi qualcosa di molto più grave, dal momento che la centrale atomica di Zaporizhzhia resta a rischio di incidente, non essendo stata rimossa dai target dei missili ucraini, anzi.
E l’allarme di Zelensky, che ha dichiarato che questa settimana, in concomitanza con la celebrazione dell’indipendenza di Kiev, i russi potrebbero fare qualcosa di grave, suona piuttosto come una minaccia che altro.
D’altronde se i media occidentali continuano a giocare col fuoco, perseverando nella stolta propaganda che indica nei i russi i responsabili di un eventuale disastro radioattivo – propaganda che ricorda quella che circolava durante la guerra siriana prima degli attacchi chimici attribuiti falsamente ad Assad -, nulla importando i gravi rischi del caso, la cosa è ancora più seria.
Come spiegato ampiamente in un’altra nota, i russi stanno vincendo questa guerra e non hanno alcun interesse per un incidente del genere, che invece potrebbe consentire alla controparte di ribaltare il tavolo, che li vede sicuri perdenti, e magari portare a un intervento diretto della Nato nel teatro di guerra (giustificato dalla gravità del disastro), con i rischi di escalation connessi.
A conferma di quanto scritto sullo sviluppo del conflitto, la nota del New York Times che relativizza i recenti attacchi ucraini alla logistica russa, celebrati dai media mainstream come dei grandi successi militari, che preluderebbero a un ribaltamento delle sorti della guerra.
In realtà, scrive il Nyt, questi attacchi in profondità, se pure hanno rallentato l’esercito russo, rendendo meno martellante l’azione della sua artiglieria, non l’hanno affatto arrestato. I momenti di tregua ottenuti dall’Ucraina, scrive infatti il giornale della Grande Mela, “potrebbero essere solo temporanei, perché le forze russe si adattano alle minacce contro le loro linee di rifornimento e trovano altri modi per trasportare le munizioni al fronte”.
“E sebbene i funzionari occidentali abbiano lodato la strategia di questi attacchi in profondità dell’Ucraina, la Russia ha continuato a fare progressi striscianti nel territorio dell’Ucraina orientale usando una tattica collaudata di scatenare enormi raffiche di artiglieria contro città e villaggi, con il sostegno di carri armati e truppe di fanteria”.
Non c’è modo di evitare la sconfitta ucraina, che prima o poi arriverà. E se la guerra prosegue con questa intensità, Kiev rischia la disfatta totale, con l’esercito messo in rotta e una leadership privata, in tal modo, di un qualche potere negoziale. Tutto il contrario di quanto affermano tanti analisti e politici d’Occidente secondo i quali più armi si inviano in Ucraina più essa sarà forte al tavolo dei negoziati.
E resta il pericolo incombente del Generale Inverno, che porterà severe restrizioni ai cittadini europei a causa delle sanzioni anti-russe, rafforzando la posizione di Mosca.
Anche per questo si vuole chiudere la guerra in fretta, ma senza concedere la vittoria a Putin. Un incidente nucleare, nelle menti malate degli Stranamore che affollano i circoli atlantisti, potrebbe essere foriero di una risoluzione siffatta. Per fortuna, anche se ridotti al silenzio, non tutti i politici d’Occidente sono incantati da queste sirene di guerra.
Ps. L’Fsb ha comunicato di aver risolto il caso della Dugina, senza dare dettagli, Probabile che cercheranno di circoscrivere la vicenda per evitare di evidenziare la vulnerabilità interna e di essere costretti a rispondere in maniera dura, come richiederebbe l’efferata azione (si immagini la reazione, se solo si sospettasse la mano russa su un eventuale assassinio di un figlio di un politico Usa…).
Una cosa gravissima per il mondo. Attentato Dugina, il terrorismo organizzato dell’Occidente e l’attentatrice addestrata dalla Nato. Paolo Liguori su Il Riformista il 25 Agosto 2022
Era troppo facile prevedere che dalla guerra il passo verso il terrorismo sarebbe stato ovvio, spontaneo e veloce. Però l’attentato a Daria Dugina ha fatto precipitare la situazione in maniera molto più veloce e incredibile, preoccupante. Ieri il Papa ha parlato delle vittime innocenti della guerra come quella giovane ragazza che ha saltata in aria a causa di una bomba, ma non ha citato la Dugina. C’è stata una protesta dell’ambasciata di Kiev perché secondo loro il pontefice ha messo sullo stesso piano aggrediti e aggressori. Con questa tesi l’ambasciata di Kiev in Italia sta dicendo che l’aggressore ovvero la ragazza saltata in aria è stata uccisa da un’aggredita, ovvero la militante ucraina. In pratica ha rivendicato l’attentato. Cosa significa questo? Una cosa gravissima per il mondo.
Finora noi abbiamo combattuto il terrorismo islamico dicendo che se si portano le guerre altrove si commettono atti che non possono più essere controllati. Adesso gli islamici possono tranquillamente dirci che lo facciamo anche noi. Quando la questione è appoggiata dall’Ucraina oppure, ancora peggio, dalla Nato e dagli Stati Uniti, lo facciamo anche noi il terrorismo.
La legittimazione di questo atto avvenuto a Mosca è una legittimazione del terrorismo in Occidente. Ci sono due modi per vedere l’Occidente. Sento dire che l’Occidente è democrazia e sta combattendo contro le autocrazie ma non è così. Ci sono almeno due visioni dell’Occidente: quella di Washington che coincide con quella di Draghi per le parole utilizzate a Rimini, e quella del Papa.
Questa cosa è chiara e bisogna rifletterci perché l’Occidente libero e democratico però non violento è una cosa, l’Occidente che invece rivendica il terrorismo come utile e necessario è una cosa diversa. Si tratta di un Occidente ricco, potente, militarista che crea consenso nell’opinione pubblica ma che non rappresenta la libertà dei buoni contro i cattivi. Inoltre l’attentatrice è una militare ucraina mandata in un centro addestramento Nato in Estonia e poi fatta scappare in Austria perché non è un Paese Nato e quindi non provoca conseguenze. Insomma qui si tratta di terrorismo organizzato.
Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom
Dugina celebrata come martire russa. Lavrov: "Nessuna pietà per gli assassini". Il padre: "Una guerriera, un'eroina". Kiev replica alle accuse sulle responsabilità dell'attentato attaccando gli 007 russi. Gaia Cesare il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.
«È morta per il popolo, per la Russia», a causa di «un atto di terrorismo del regime nazista ucraino» e ora «abbiamo bisogno solo della vittoria». I funerali di Darya Dugina, uccisa con un'autobomba sabato notte a Mosca, diventano per il Cremlino occasione di aggiungere una nuova pagina alla propaganda, attraverso le parole pronunciate dal padre della vittima, Alexander Dugin, intellettuale dell'estrema destra considerato il cervello del putinismo, ultranazionalista e strenuo sostenitore del conflitto in Ucraina, pur non avendo mai avuto accesso alla stretta cerchia dei collaboratori del presidente. Mentre nella capitale russa, in una sala del centro televisivo Ostankino campeggiava ieri sulla bara il ritratto in bianco e nero della commentatrice pro-regime e duecento persone rendevano omaggio al volto ormai noto dei canali televisivi filo-Cremlino, il capo della diplomazia moscovita Sergei Lavrov non perdeva occasione per augurarsi «che l'indagine si concluda presto» e che «non ci può essere pietà per chi ha organizzato, ordinato ed eseguito» l'attentato.
Tra Mosca e Kiev va in scena il solito copione. Il Cremlino non intende mostrare dubbi sulle responsabilità ucraine e ha già dato un nome e cognome alla presunta responsabile dell'attacco: una donna ucraina di 43 anni, Natalya Vovk, che si sarebbe fatta accompagnare nella missione dalla figlia dodicenne e sarebbe poi fuggita in Estonia. Kiev smentisce categoricamente e sostiene che si sia trattato di una «esecuzione perpetrata dai servizi segreti russi» e che «l'Ucraina non hanno nulla a che fare» con l'attentato (parola del segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale, Oleksii Danilov).
A supportare la tesi ucraina, con un'analisi accurata dei documenti della presunta killer diffusi da Mosca, è il data analyst finlandese Lauri Linnamäe, consulente in comunicazioni strategiche. Che fa a pezzi il lavoro dell'intelligence russa, la Fsb, smascherando ciò che considera un pessimo lavoro svolto con Photoshop. Gli 007 moscoviti hanno diffuso la tessera militare dell'attentatrice, rilasciata nel 2020 con il cognome Shaban, quello del marito, e che proverebbe l'appartenenza al battaglione ultranazionalista Azov dei più strenui ed estremi combattenti ucraini, e nello specifico all'unità militare 3057 della Guardia nazionale ucraina nella quale è inquadrato il reggimento. L'analista-dati Linnamäe mostra come strumenti forensi basici provino che il documento è stato artefatto e quanto tempo è stato impiegato per raggiungere l'obiettivo. Tagli grossolani, errori jpeg, pezzi di pelle il cui colore e allineamento non corrispondono, e ancora sviste marchiane su timbro e sfondo. Linnamäe non è il solo a esprimere dubbi sulla presunta attentatrice. Christo Gorozev, del sito investigativo Bellingcat, si chiede come sarebbe entrata in Russia, visto che gli hacker russi sapevano che la signora Vovk era un membro dell'esercito ucraino già da aprile.
Intanto papà Dugin celebra la figlia come una martire. «Non aveva paura e l'ultima volta che abbiamo parlato al festival culturale mi ha detto: mi sento una guerriera, un'eroina». Dugin era seduto accanto alla moglie e all'oligarca Kontantin Malofeev, finanziatore della televisione Tsargrad, di cui Dugin era direttore editoriale e su cui la figlia Darya aveva avuto, e avrebbe dovuto riavere, una rubrica. Il suo lavoro si è interrotto con un'autobomba. La propaganda russa continua a viaggiare a pieno regime.
La corrente eurasista e la supremazia della Russia. Chi è Aleksandr Dugin e chi era la figlia Draia Dugina morta nell’attentato a Mosca: “Guerra scontro civiltà”. Redazione su Il Riformista il 21 Agosto 2022
E’ ricoverato in stato di choc Aleksandr Dugin dopo la tragica morte della figlia, Daria Dugina, rimasta uccisa nell’esplosione di un ordigno piazzato nell’auto (di proprietà del padre) su cui viaggiava sabato sera, 20 agosto, vicino Mosca. “Povero Aleksandr. Ora si trova in ospedale. Le nostre più sentite condoglianze”, ha scritto Markov. Padre e figlia avevano partecipato al festival ‘Tradizione’, a una cinquantina di chilometri dal centro di Mosca. Durante il festival, l’auto era parcheggiata nell’area Vip, ma le telecamere di sorveglianza non funzionavano, a quanto scrive la testata russa Lenta.ru.
Secondo una prima ricostruzione Dugina era da sola alla guida di una Toyota Land Cruiser Prado, di proprietà del padre, quando è avvenuta l’esplosione. Su quell’auto avrebbe dovuto esserci anche il genitore, ritardato tuttavia da un contrattempo dopo aver partecipato, in compagnia della figlia, a un festival letterario, “Tradizione e storia”, e salito su un’altra auto. Circostanza che porta gli investigatori a ipotizzare che il vero obiettivo di quello che sembra essere a tutti gli effetti un attentato era proprio Dugin.
Ma chi è Aleksandr Dugin? Ha 60 anni ed è considerato l’ideologo del presidente russo Vladimir Putin nonché consigliere di diversi politici, è un filosofo russo noto per le sue opinioni anti-occidentali, di estrema destra e “neo-eurasiatiche”. Secondo i media occidentali, è uno dei principali ispiratori della politica estera di Vladimir Putin, mentre la stampa russa lo considera una “figura marginale” per le sue opinioni “ritenute troppo radicali anche dai nazionalisti”.
Nel 2014 – riporta Russia Today – è stato licenziato dall’Università statale di Mosca dopo il suo appello a “uccidere, uccidere, uccidere” gli ucraini. Dugin è esponente della corrente eurasista del nazionalismo russo, che promuove la creazione di una superpotenza attraverso l’integrazione della Russia con le ex Repubbliche sovietiche. I suoi lavori sul ‘mondo russo’ e l’Eurasia sono considerati tra quelli che hanno ispirato in parte l’ideologia ultranazionalista a cui aderiscono molti al Cremlino e che ufficialmente giustifica l’invasione russa dell’Ucraina.
Nonostante non abbia mai ricoperto una posizione ufficiale nel governo, Dugin è considerato uno stretto alleato del presidente russo ed è definito da molti in Occidente come “il Rasputin di Putin”.
La figlia Daria, 30 anni, chiamata dagli amici Dasha, era laureata in filosofia all’Università statale di Mosca e aveva approfondito gli studi sul neoplatonismo, ma rivendicava come riferimenti culturali anche Antonio Gramsci, Martin Heidegger e il sociologo francese Jean Baudrillard. Anche lei come il padre, sosteneva la guerra contro l’Ucraina.
E’ tra gli autori di un libro in uscita in autunno proprio sul tema del conflitto: il titolo è ‘Libro Z’ dalla lettera diventa simbolo del sostegno all’invasione. Aveva lavorato, tra gli altri, per le emittenti filo-Cremlino Russia Today e Tsargrad Tv con lo pseudonimo di Daria Platonovna. A maggio, in un’intervista, aveva descritto la guerra come uno “scontro di civiltà” ed espresso orgoglio per il fatto che sia lei che suo padre (sanzionato dagli Usa già nel 2015 per il suo presunto coinvolgimento nell’annessione russa della Crimea) fossero finiti nelle liste nere dell’Occidente.
Il 4 giugno infatti venne inclusa, insieme al genitore, nella lista delle persone sanzionate dal governo del Regno Unito (tra loro il magnate Roman Abramovic) per avere espresso appoggio o promosso politiche favorevoli all’aggressione russa dell’Ucraina. Figurava al numero 244 dell’elenco delle 1.331 persone fisiche sanzionate, quale “autore di alto profilo della disinformazione circa l’Ucraina e riguardo all’invasione russa dell’Ucraina su varie piattaforme online”, nonché responsabile per il supporto e la promozione di politiche o iniziative di destabilizzazione dell’Ucraina per comprometterne o minacciarne “l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza”.
Miscela di nazionalismo sfrenato e bolscevismo. Dugin, l’ideologo che fa parlare Putin di denazificazione dell’Ucraina e vuole la guerra all’America casa di Satana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Agosto 2022
La lunga barba incolta da eremita spelacchiato lo fa somigliare un po’ a Alexandr Solgenitsin, il quale costretto all’esilio, scelse una montagna di neve nel Vermont che gli ricordasse la patria perduta. Alexander Dugin, che abbiamo visto paralizzato dalla vista del rogo in cui sua figlia Darya ardeva dopo l’esplosione dell’autobomba destinata a lui, era ed è vivo, ma ferito a morte. Le sue prime parole sono state: “La sola vendetta non può bastare. Sono stati i nazisti di Kiev e vanno puniti”. Ma i sospetti sulla matrice dell’attentato cadono su due fronti: sia su quello degli ucraini – i quali negano – sia su quello dei maledetti (da Dugin) russi occidentalizzanti che si fanno arrestare per le proteste contro la guerra e che rimpiangono il Bancomat, McDonald, gli smartphone e tutta la immondizia che viene dall’Occidente, così pensa Dugin…
Non è ora che gli “occidentalizzanti” crepino tutti? È quello che auspica Dmitry Medvedev che per anni si è avvicendato sulla poltrona presidenziale con Putin (per rispettare le forme) e che, come vicepresidente del Consiglio di Sicurezza, grida a favore di telecamera che “gli occidentali fanno schifo e spero che muoiano tutti”. Espressioni collettive e dunque razziali perché non si riferiscono ad un solo nemico, come fa Biden quando dà dell’“assassino” a Putin, ma nei confronti di interri popoli: quella è tutta farina del sacco di Dugin, il quale fa parte del circolo di Putin, fra cui è uno dei più ascoltati. Alexander è un sessantenne ben educato nell’Istituto di Aeronautica di Mosca e da giovane fu un dissidente perché non tollerava le gerarchie militaresche. Ma i suoi eroi erano Josef Stalin e il filosofo tedesco un po’ esistenzialista e un po’ nazista Martin Heidegger, debitore sia di Jean Paul Sartre che di Nietzsche non estraneo alla politica di annientamento degli ebrei malgrado la sua controversa storia con la giovanissima Hanna Arendt, ebrea.
Lo hanno chiamato il “Rasputin di Putin”, ricorrendo all’anima nera dell’ultimo Zar Nicola prima che tutta la famiglia Romanov fosse massacrata a colpi di pistola negli scantinati del loro palazzo. Ma è un’idea priva di alcun fondamento: Rasputin era una specie di santone superstizioso, Dugin a suo modo è razionale. Nasce come privilegiato figlio di analisti del Kgb ed è stato educato a pensare n termini di “geopolitica” alla scuola di Yuri Andropov –spietato modernizzatore del Kgb e poi Segretario Generale del Pcus, con fama di modernizzatore occidentalizzante, del tutto inventata. Lo definivano l’uomo che beveva whiskey (cosa che incantava gli americani) ma la sua più rilevante impresa fu quella di adottare e addestrare il giovane Michail Gorbaciov per la grande operazione “perestroika-glasnost” che incantò tutti coloro che incoraggiavano ogni segnale di evoluzione dal pietrificato mondo sovietico di cui le cespugliose sopracciglia di Leonid Breznev erano il segno grafico, quanto i baffoni di Stalin.
Quando l’Urss crollò separando la Russia dalla Bielorussia e dall’Ucraina, il sogno imperiale dell’imperatrice Caterina, di Pietro il Grande e dello stesso Stalin sembrava infranto e disperso. La Russia sembrava finita, ma un piccolo tenente colonnello che amava farsi fotografare a petto nudo a cavallo come un cowboy, fu selezionato e scelto dai vecchi capi del Kgb, rimasto unito dopo il crollo un istituzione ancora in piedi sulle macerie degli anni di Boris Eltsin. Putin fu selezionato nella fase finale della presidenza di Eltsin in una Russia devastata dagli oligarchi che si erano appropriati del tesoro sovietico. Dugin in quegli anni si confermava come l’intellettuale ideologo della rinascita di una Russia stanca di sconfitte, mutilata dei pezzi dalla corona zarista come la Polonia, le tre Repubbliche Baltiche, la Bielorussia e la stessa Ucraina, delusa dalle sirene occidentali. La democrazia occidentale non era andata molto oltre i fast food McDonald.
Fui di fronte a quello smarrimento che tutti gli sforzi dell’ex Kgb puntarono su Dugin che diventò una star dell’editoria, il propagandista del connubio fra bolscevismo e nazionalsocialismo, profeta della finale vittoria russa sul resto del mondo. Con un nemico ben identificato: l’abietto, corrotto, decadente occidentalismo con tutti i suoi lussi e lussurie. Questi aggettivi fanno parte della retorica di Putin in persona e dei putiniani capeggiati da Medvedev. Dugin ha messo insieme una miscela già usata: un connubio fra nazionalismo sfrenato e bolscevismo, convinto che la Russia sia destinata ad annichilire l’Occidente, sterco del diavolo, e l’America casa di Satana. Un linguaggio non troppo diverso da quello degli Ayatollah iraniani. Il suo immaginario attinge alle numerose fasi in cui tedeschi e russi si sono trovati sullo stesso destriero, salvo trafiggersi a morte.
Nelle sue memorie compare il Trattato di Rapallo del 1920 quando bolscevichi e gli uomini della Repubblica di Weimar strinsero l’alleanza fra i vinti della Prima guerra mondiale per scambiarsi ciò che veniva negato dalla pace di Versailles: lo spazio per i tedeschi e l’accesso alla tecnologia ai russi. Fu così che, molto prima che Hitler conquistasse il potere, fabbriche belliche tedesche su suolo russo e scuole di guerra comuni formarono gli ufficiali che poi si trovarono nemici durante la Grande Guerra Patriottica che per i russi non coincide con la nostra Seconda Guerra Mondiale ma comincia solo con l’invasione tedesca del 22 giugno del 1941.
Non per caso Putin è stato un grande estimatore, ricambiato, della Merkel. Non per caso l’ex Cancelliere tedesco Schroder Presidente di Gazprom in Germania è considerato un uomo dei russi perché certamente ai nostri tempi è totalmente ripristinato, come Dugin raccomanda, il legame fra russi e tedeschi sconvolto dal tradimento di Hitler di fronte al quale Stalin era incredulo, tanto da far fucilare quasi tutti coloro che lo avvertivano dell’imminente voltafaccia. Dugin ha insegnato a Putin a dire sempre di voler distruggere dei “nazisti” così come fece Krusciov incoraggiato da Togliatti e da Mao Zedong ad intervenire contro la rivoluzione ungherese, perché “fascista” seguendo la tradizione iniziata dal 1953 con la repressione degli operai “fascisti” di Potsdam, i praghesi della mancata primavera Dugin anche oggi, dopo il tremendo attentato in cui è morta sua figlia, parla delle responsabilità dei nazisti ucraini.
Su questa strada Putin lo aveva seguito con entusiasmo annunciando la “denazificazione” dell’Ucraina e dei diciottenni nazisti del battaglione Azov. Dugin non ha dubbi sul fatto che la Russia debba usare la forza militare per riprendessi ciò che considera suo e cioè non solo la Russia propriamente detta ma l’intera Eurasia contesa alla Russia dall’Occidente che va combattuto con le armi, senza farsi impressionare dalle emozioni della guerra nucleare. Finché Putin flirtava con l’Occidente durante i primi anni Duemila, Dugin lo avversava. Dal momento in cui Putin ha mosso le sue armate prima in Cecenia, poi in Crimea, in Georgia, in Siria e ora in Ucraina, Alexander è diventato un suo consigliere e un sostenitore con il suo Fronte nazionale bolscevico trasformatosi in Partito Eurasia.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Fake news. La Russia in crisi dà la colpa agli ucraini per l’omicidio della figlia di Dugin. L'Inkiesta il 23 Agosto 2022.
Secondo l’FSB la colpevole dell’omicidio dell’opinionista rossobruna sarebbe una donna ucraina fuggita in Estonia. Anche il padre, scampato all’attentato, abbraccia la stessa narrazione e chiede vendetta, augurandosi una pronta vittoria. Ma le autorità di Kyjiv negano ogni responsabilità
Nel giro di poche ore gli agenti del FSB, i servizi di sicurezza russi, avrebbero trovato i responsabili dell’omicidio di Daria Dugina, 29 anni e figlia di Alexander Dugin, avvenuto in mattinata con una bomba piazzata sotto la sua automobile.
Secondo le indagini la responsabile sarebbe una donna ucraina, che subito dopo sarebbe fuggita in Estonia. Le autorità di Kyjiv hanno negato ogni responsabilità. Come ha dichiarato il presidente Volodymyr Zelenskiy, «l’Ucraina non c’entra nulla perché, a differenza della Russia, non è uno stato criminale o terrorista». Secondo le ricostruzioni, l’automobile apparteneva al padre Alexander Dugin, il filosofo-ideologo dell’estrema destra russa, convinto sostenitore della guerra contro l’Ucraina.
Lo stesso Dugin, nelle sue prime dichiarazioni pubbliche dopo la morte della figlia, rilasciate insieme al magnate ultraconservatore Konstantin Malofeev, avrebbe chiesto vendetta e rappresaglie nei confronti degli ucraini. A suo avviso l’attacco sarebbe stato «un atto di terrorismo perpetrato dal regime nazista ucraino» e «adesso ci serve solo la nostra vittoria. Mia figlia ha sacrificato sull’altare la sua giovane vita. Per cui, per favore, vincete».
Daria Dugina, che in pubblico mostrava di condividere in pieno le idee del padre, era una personalità ambiziosa in cerca di un proprio spazio politico (più volte aveva chiesto per sé il ministero della Difesa, con aspre critiche al modo in cui veniva condotta).
Come racconta Kamil Galeev era in realtà una personalità camaleontica, disposta a cambiare idee a seconda dell’interlocutore e desiderosa di affrancarsi dalla ingombrante figura paterna, della quale era considerata una pedina. Anche per questo aveva scelto di essere chiamata Platonova e non esitava, in privato, di farsi beffe nei confronti delle idee del padre (una cosa comune a tutti i figli dell’inner circle putiniano).
Scia di sangue. Le conseguenze dell’omicidio di Dugina sugli equilibri interni in Russia. Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 24 Agosto 2022.
La guerra ha finora cristallizzato il conflitto perenne fra le varie cordate dentro la corte del Cremlino: da un lato la fazione nazionalista a favore di un’escalation, dall’altro quella più cauta rimasta scottata dai disastri iniziali. Lo choc di un omicidio nel cuore del potere potrebbe risvegliare un pericoloso attivismo politico
Dopo sei mesi, la guerra è arrivata anche a Mosca. Oppure no? Come spesso accade in Russia, anche gli eventi più attesi sfuggono a una facile interpretazione. L’autobomba che ha ucciso Darya Dugina, figlia dell’ideologo eurasiatico Aleksandr Dugin, ha squarciato il velo di apparente tranquillità che permeava la capitale della Federazione Russa. Era una calma di facciata, che presto o tardi sarebbe comunque crollata sotto la pressione della campagna di reclutamento sempre più aggressiva condotta dalle autorità per colmare i ranghi sfoltiti dalle perdite in Ucraina.
L’attentato ha anche svelato le contraddizioni nella retorica che il Cremlino aveva furbescamente adottato per giustificare la propria campagna in Ucraina. Da un lato, l’omicidio di Dugina calza a pennello all’immagine di Kyiv come sponsor di movimenti neonazisti e terroristici, alleati con attori eversivi presenti in Russia (leggersi: le forze democratiche). A confermare questa linea ci ha pensato anche Ilya Ponomarev, una figura ambigua nella galassia dell’opposizione russa. Ex membro del Partito Comunista, per anni attore nella pantomima fra il partito di Putin Russia Unita e la finta opposizione di sistema, è un personaggio ambiguo e fortemente divisivo fra i democratici russi.
Da anni residente a Kyiv, ha immediatamente reclamato una complicità con gli autori materiali dell’attentato, cercando di vendersi come un interlocutore con contatti sul territorio federale. Tralasciando ipotesi inverificabili su un suo potenziale doppiogiochismo, è altamente improbabile che sia effettivamente membro di una falange di partigiani capace di organizzare un tale attacco, come affermato da Ponomarev stesso.
Il narcisismo di Ponomarev si sposa però perfettamente coi risultati delle indagini preliminari svolte dal FSB, che ha accusato l’Estonia di ospitare una delle persone sospettate di aver partecipato all’attacco. D’altro canto, la linea del terrorismo pro-ucraino dell’opposizione è anche una clamorosa ammissione di debolezza da parte dei servizi di sicurezza, l’ennesimo fallimento che si aggiunge all’incapacità di arginare le operazioni di sabotaggio svolte dai paramilitari ucraini a danno dei depositi di munizioni a Belgorod e in Crimea.
L’immagine di un paese sotto assedio è stata a lungo propagata dalle autorità russe per giustificare la politica aggressiva di Mosca. Ciò che i curatori del Cremlino hanno però evitato negli ultimi mesi è stato cercare di rendere “l’operazione speciale” qualcosa di più concreto rispetto a una semplice guerra televisiva.
Per un sistema di governo che predilige una cittadinanza desensibilizzata e spenta, lo choc di una guerra nel cuore del Paese potrebbe risvegliare un pericoloso attivismo politico. Come ha detto Carolina De Stefano a Formiche, un’autobomba nel cuore di Mosca risveglia gli spettri di quegli anni ’90 che Putin aveva saputo domare.
Non a caso, la Russia ha finora cercato di evitare la proclamazione dello stato di guerra e una mobilitazione generale: oltre ai problemi di rifornimento che provocherebbe armare centinaia di migliaia di reclute, Mosca non ha alcun interesse a cedere la narrativa a quei gruppi politici che già da settimane reclamano una guerra totale.
Paradossalmente, è infatti l’opposizione leale a destra che è stata finora la più polemica rispetto alla guerra: un blogger ultranazionalista come Igor Girkin, l’ex agente del FSB e “ministro” della Repubblica di Donetsk, è fra i pochi può permettersi feroci critiche a una gestione indecisa e pasticciata del conflitto.
Questo ondeggiare fra una retorica da Grande Guerra Patriottica e una copertura mediatica che in Europa occidentale assimileremmo a quella della guerra in Iraq, ha profonde radici politiche. Come verrà usato l’omicidio di Dugina dipenderà da chi riuscirà ad affermarsi nella lotta per dare nuovamente senso alla guerra.
La posta in gioco è alta, e la guerra ha cristallizzato il conflitto perenne fra le varie cordate dentro la corte del Cremlino. È uno scontro che vede da un lato la fazione pro-guerra nazionalista a favore di un’escalation, e dall’altro quella più cauta rimasta scottata dai disastri iniziali. Ci sono poi fratture anche all’interno dei vari campi: l’ex capo staff di Vyachislav Volodin, che da presidente della Duma sta provando a presentarsi come maggiore rappresentante delle repubbliche separatiste e alfiere dell’annessione, è in un conflitto aperto con Sergey Kiryienko, attuale vicecapo dello staff di Putin e colui che detiene nominalmente il compito di controllare gli alleati nel Donbass.
Ci sono poi gli oligarchi, poco propensi a vedere la guerra continuare, e i tecnocrati dell’esercito e dei ministeri, spaventati dal dover dimostrare la propria capacità gestionale in una situazione così pericolosa. Su tutto ciò incombe lo spettro di Nikolai Patrushev, il falco segretario del Consiglio di Stato e forse il consigliere più vicino a Putin in questo momento.
Non è detto che l’omicidio di Dugina sfoci in una escalation, ma sicuramente rappresenta un punto di svolta nella dialettica fra fazioni.
(ANSA il 26 agosto 2022) - "L'Ucraina è profondamente delusa dalle parole del Pontefice, che confrontano ingiustamente l'aggressore e la vittima. Allo stesso tempo, la decisione di Papa Francesco di menzionare nel contesto della guerra russo-ucraina la morte di una cittadina russa sul territorio della Russia, con la quale l'Ucraina non c'entra niente".
È quanto ha detto il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba al Nunzio a Kiev, mons. Visvaldas Kulbokas. Lo riferisce l'ambasciata ucraina presso la Santa Sede.
Il 25 agosto il Nunzio Apostolico in Ucraina Visvaldas Kulbokas è stato invitato al Ministero degli Affari Esteri d'Ucraina - riferisce l'ambasciata ucraina presso la Santa Sede - riguardo alle parole di Papa Francesco, pronunciate durante l'udienza generale del 24 agosto, Giornata dell'Indipendenza dell'Ucraina e giorno che coincide con sei mesi dall'invasione armata su vasta scala della Russia in Ucraina.
Il Ministero degli Affari Esteri d'Ucraina ha anche richiamato l'attenzione del Nunzio Apostolico sul fatto che, "dall'inizio dell'invasione su vasta scala della federazione russa in Ucraina, il Pontefice non ha mai prestato particolare attenzione alle vittime specifiche della guerra, tra cui 376 bambini ucraini morti per mano degli occupanti russi". "Il Ministero degli Affari Esteri ucraino ha espresso la speranza che in futuro la Santa Sede eviti dichiarazioni ingiuste che causano delusione nella società ucraina", riferisce l'ambasciata.
Da tg24.sky.it il 25 agosto 2022.
Non sono piaciute a Kiev le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione della morte di Darya Dugina, figlia dell'ideologo della Russia nazionalista Alexander Dugin, rimasta uccisa nell'esplosione della sua auto, episodio sul quale prosegue lo scambio di accuse tra Russia e Ucraina.
Nel commentare la morte di Dugina, Bergoglio aveva parlato di "vittime innocenti" che fanno le spese delle guerre. Espressione poco gradita all'Ucraina, che già aveva avuto modo di manifestare il suo dissenso per la controversa figura della figlia del filosofo della "Grande Russia". Il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba: "Profondamente delusi".
"L'Ucraina è profondamente delusa dalle parole del Pontefice, che confrontano ingiustamente l'aggressore e la vittima." Con queste parole il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba ha motivato la decisione di convocare il nunzio apostolico in Ucraina, monsignor Visvaldas Kulbokas, a proposito del recente commento del Pontefice sulla morte di Dugina.
"Abbiamo studiato attentemente le parole di Papa Francesco", ha detto Kuleba, "e la di menzionare nel contesto della guerra la morte di un cittadino russo sul territorio della Russia, con la quale l'Ucraina non ha nulla a che fare, provoca incomprensioni".
"Dall'inizio dell'invasione, il pontefice non ha mai prestato particolare attenzione alle vittime specifiche della guerra, tra cui 376 bambini ucraini morti per mano degli occupanti russi", ha sottolineato il ministro. Che ha concluso: "Spero che in futuro la Santa Sede eviti dichiarazioni ingiuste che causano delusione nella nostra società".
Da liberoquotidiano.it il 25 agosto 2022.
Si solleva un caso per le parole commosse di Papa Francesco riguardo alla morte di Darya Dugina, la figlia dell'ideologo putiniano Aleksandr Dugin uccisa da un'autobomba in un attentato nella notte tra sabato e domenica scorse a Mosca.
Al temine dell'udienza generale, Bergoglio rivolge nuovamente il proprio pensiero all'Ucraina, chiedendo "che si intraprendano passi concreti per mettere fine alla guerra e scongiurare il rischio di un disastro nucleare a Zaporizhzhia".
Il Pontefice lancia un appello per "i prigionieri, soprattutto quelli che si trovano in condizioni fragili". "Chiedo alle autorità responsabili di adoperarsi per la loro liberazione", queste le parole di Francesco, che invita a non rassegnarsi "a tanta crudeltà, a tanti innocenti che stanno pagando la pazzia, la pazzia, la pazzia di tutte le parti, perché la guerra è una pazzia - afferma Bergoglio -, e nessuno in guerra può dire 'io no, non sono pazzo'. La pazzia della guerra".
Il Papa parla anche della morte di Darya Dugina in un attentato. "Penso alla povera ragazza volata in aria per una bomba sotto il sedile della macchina a Mosca - continua il Pontefice -, gli innocenti pagano la guerra, gli innocenti. Pensiamo a questa realtà e diciamoci l'un l'altro la guerra è una pazzia. E coloro che guadagnano con la guerra, con il commercio delle armi, sono dei delinquenti che ammazzano l'umanità".
"Il discorso del Papa - il commento a caldo di Andrii Yurash, ambasciatore ucraino presso la Santa Sede - è stato deludente e mi ha fatto pensare a molte cose: non si può mettere nella stessa categoria aggressore e vittima, stupratore e stuprato. Come è possibile chiamare innocente uno degli ideologi dell'imperialismo russo? Lei (Darya Dugina, ndr) è stata uccisa dai russi" che ora ne fanno una "vittima sacra" da usare come "scudo".
Per Kiev, aggiunge l'ambasciatore ucraino a Roma Yaroslav Melnyk, la Dugina "non significava nulla. Credetemi, per la stragrande maggioranza degli ucraini, il suo nome è diventato noto solo dopo la sua morte. Questa persona non ha significato nulla per l'Ucraina, ma le accuse contro l'Ucraina sono abbastanza attese".
"In linea di principio - conclude riguardo alla pista della presunta killer, una ragazza ucraina vicina al Battaglione Azov già identificata e scappata all'estero -, non c'è nulla di nuovo per noi in questa situazione: un flusso infinito di bugie, accuse fabbricate e falsificazioni. In due giorni in Russia è stato rivelato l'omicidio di Dugina e, ad esempio, per 16 anni non sono stati in grado di trovare gli assassini di Anna Politkovskaya", la giornalista russa oppositrice del Cremlino uccisa nel 2006.
Valerio Salviani per leggo.it il 12 novembre 2022.
Il re è nudo. La ritirata delle truppe russe da Kherson ha aperto una nuova fase della guerra in Ucraina. Vladimir Putin, ormai isolato dal resto del mondo (resiste solo Xi Jinping), non è mai stato così in difficoltà. E adesso i nemici se li ritrova anche in casa. L'ultima umiliazione non è andata giù agli uomini del potere russo, che chiedono la sua testa. Il mormorio nei corridoi del Cremlino si è fatto insistente, nessuno guarda più lo zar con lo stesso timore e lo stesso rispetto di prima.
Ha fatto rumore l'attacco di Aleksandr Dugin, neonazista soprannominato "Il cervello di Putin", che ha paragonato la sorte del presidente al «re della pioggia», sacrificato se non riesce a «salvare il suo popolo». Un messaggio chiaro, che è fomentato da gran parte dell'elite russa: «Putin va rovesciato». Dugin, che ha perso la figlia in un attentato avvenuto a Mosca durante la guerra (che per l'intelligence americana è stato opera di Kiev), è sempre stato uno degli uomini di riferimento per Putin. Per questo adesso le sue parole - pubblicate su Telegram e poi rimosse - tengono lo zar in ansia. «Chi non è arrabbiato per la perdita di Kherson non è un vero russo», ha scritto Dugin.
Dugin è solo uno dei tanti ultranazionalisti preoccupati per le sorti del Paese. L'economia russa sta crollando per le sanzioni, l'Europa sta trovando nuovi fornitori di gas e sul campo di battaglia si collezionano umiliazioni, mentre Putin prova a fare la voce grossa millantando attacchi nucleari che suonano come mosse della disperazione. Ma lo zar, che tramite il suo portavoce Peskov ha dato la colpa di quanto successo a Kherson «ai militari», non può permettersi una rivolta interna. Per questo a Mosca è in corso una vera e propria caccia ai traditori. La "Zrada", come viene chiamata. Chi si oppone alla guerra finisce in manette.
Eppure il dissenso non manca. Lo scrittore Zakhar Prilepin, storico sostenitore del presidente, parlando della sconfitta a Kherson ha definito Putin un «comandante supremo tratto in inganno» da innominabili ignoti. Nessuno crede alla storia della ritirata strategica, mentre in piazza nella città riconquistata gli ucraini fanno festa e innalzano le bandiere in segno di vittoria. Mikhail Leontiev, il portavoce del potente capo di Rosneft Igor Sechin, ha attaccato il Cremlino in tv: «Deve essere la politica ad assumersi la responsabilità». Nella vittoria tutti uniti, nella sconfitta si scoprono le carte. E Putin, che ha annunciato il forfait al G20, adesso trema.
Cosa sta succedendo tra Dugin e Putin. Francesca Salvatore il 13 Novembre 2022 su Inside Over.
Dopo la morte della figlia Darya, nell’attentato che sembra avere ancora oggi cento padri, la figura di Aleksandr Dugin, filosofo ed esponente di spicco del nazionalismo russo, aveva subito un boom di popolarità. L’attentato fu però anche l’occasione per riflettere, a livello di media e analisti internazionali, su quanto l’oscura figura di Dugin fosse più popolare in certi circoli europei filoputiniani che in Russia stessa.
Dugin, ideologo dell’Eurasiatismo colto, istruito, a suo modo raffinato, contrariamente a quanto molti pensano, ha avuto un’influenza molto limitata all’interno della corte di Putin almeno fino all’ultimo mandato, sebbene Dugin sia da tempo il maître à penser dell’impero mediatico del magnate Konstantin Malofeev. Eppure, dopo la morte di Darya e in concomitanza con l’escalation russa in Ucraina, Dugin sembrava aver compiuto un salto di qualità in termini di influenza, addirittura accolto nel cerchio magico di chi detta la comunicazione di Mosca.
Il post della discordia: cosa voleva dire Dugin?
Il filosofo si è reso nelle ultime ore di un episodio di dubbio sapore. Dugin, avrebbe definito il ritiro da Kherson come l’ultimo possibile, avvertendo che, in caso di nuovi rovesci militari, “chi è al potere dovrebbe essere eliminato”. Lo aveva fatto con un articolo sul proprio blog, successivamente al ritiro delle truppe russe dalla città di Kherson; si tratterebbe di una critica al presidente Vladimir Putin, mai nominato ma sottinteso. Ne è seguito un lungo post su Telegram, poi rilanciato su tutte le piattaforme social prima che fosse cancellato. Sebbene il testo in questione sia stato rimosso, alcuni media sono riusciti a copiarne il contenuto prima della cancellazione. Lo riferisce il Mirror, aggiungendo che, in seguito, il post (di 2 giorni fa) è stato rimosso. L’articolo originale, tuttavia, è ancora su Tsargrad.tv.
Dugin ha definito la ritirata da Kherson “l’ultima linea rossa” accettabile per l’operazione militare speciale russa in Ucraina: “Le autorità in Russia non possono più cedere nulla. Il limite è stato raggiunto”, ha scritto il filosofo, che ha definito Kherson “una città russa, capoluogo di una delle regioni della Russia” che “è andata perduta”. Nel testo si legge una riflessione sulla responsabilità del Cremlino e sulle possibili conseguenze per gli errori commessi. Rivolgendosi al potere, Dugin lo definisce “responsabile” del ritiro, per poi fornire una definizione di autocrazia: “Diamo al sovrano la pienezza assoluta del potere per proteggerci tutti – il popolo e lo Stato – in un momento critico. Se per questo si circonda di spiriti maligni o sputa sulla giustizia sociale, ciò è spiacevole, ma sappiamo che ci protegge. E se non ci proteggesse? In quel caso lo aspetta il destino del Re delle piogge. Anche l’autocrazia ha un aspetto negativo. Totalità del potere in caso di successo, ma anche totale responsabilità in caso di fallimento”.
Uccidere il “Re delle piogge”?
L’esegesi dell’intellettuale Dugin, non è semplice. Parole molto criptiche, che rimandano a Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, opera dell’antropologo britannico James Fraser del 1890, in cui si descrive il culto africano del “Re delle piogge”. Questa figura è considerata una sorta di mago che invia la pioggia ogni volta che viene invocata; ma se il “Re delle piogge” non si rivela all’altezza delle aspettative e si verifica una prolungata siccità, deve essere lapidato.
Leggendo l’articolo, il primo consigliere del ministero dell’Interno ucraino, Vadim Denisenko, ha evidenziato il parallelismo che Dugin farebbe tra il “Re delle piogge” e il presidente Putin. “Di fatto, Dugin avverte Putin: o la situazione migliora, o Putin deve essere rimosso”, ha affermato Denisenko. Tuttavia, nel suo articolo, il politologo russo non afferma mai esplicitamente tale posizione, accennando solo a possibili rischi di disordini pubblici o potenziali rivolte in Russia. Se un personaggio come Dugin avanza una simile ipotesi, la sensazione è che, come afferma anche Denisenko, il sistema di potere nella Federazione Russa sia “ancora sotto controllo, ma sta affrontando le prime profonde crepe”.
E la perdita di Kherson potrebbe diventare per la Russia una sorta di spinta a cercare un caprio espiatorio.
La risposta di Dugin
La risposta di Dugin non ha tardato ad arrivare: “L’Occidente ha iniziato a far credere che io e i patrioti russi ci siamo rivoltati contro Putin dopo la resa di Kherson, chiedendo presumibilmente le sue dimissioni. Questo non proviene da nessuna parte e si basano su un mio presunto messaggio cancellato”. “Io e tutti i patrioti russi lo sosteniamo incondizionatamente. Il dolore per la perdita di Kherson è una cosa; l’atteggiamento nei confronti del Comandante in capo è un altro. Siamo fedeli a Putin e sosteniamo la SMO e la Russia fino alla fine” ha proseguito Dugin. “L’Occidente – ha aggiunto – che sta esercitando una pressione eccessiva sulla Russia, non capisce che la Russia e Putin non capitoleranno in nessun caso. Il presidente è stato chiaro: non ci arrenderemo. Mettere all’angolo la Russia è un suicidio per l’Occidente e per l’umanità”. Sull’uso del nucleare Dugin ha anche allontanato l’idea di un ricorso della Russia all’atomica sostenendo che dopo aver mobilitato la società spiritualmente e ideologicamente, la Russia ce la farà anche senza armi nucleari”.
Una risposta che decisamente cozza con le dichiarazioni di Putin, Medvedev e tanti altri nelle ultime settimane. Nel tentativo di riabilitarsi, Dugin ha quindi attaccato l’élite al potere, bollata come la vera voltagabbana della situazione, colpevole di tradire la Guida Suprema: “Solo noi, i patrioti russi e il popolo russo, gli siamo fedeli”.
Perché Dugin si espone?
Le ipotesi sull’articolo di Dugin sono molteplici. Come è possibile che un uomo che solo pochi anni fa non aveva autorevolezza alcuna ora si permette di attaccare-pur attraverso un enorme giro di metafore-il comandante supremo di Mosca? Certo è che questo aumento della virulenza delle affermazioni di personaggi piuttosto silenti come Dugin dà molto da pensare. Stessa cosa dicasi per un uomo del calibro di Medvedev, i cui post su Telegram ormai viaggiano ciascuno su una media di oltre 2 milioni di visualizzazioni.
La sensazione è che i falchi della Russia neozarista ora incalzino Putin più del dovuto, costringendolo ad agire più drasticamente di quanto il presidente stesso può (o immaginava). Il fatto che un uomo come Dugin critichi così apertamente il Cremlino è però anche segno di due cose: o si ritiene sufficientemente protetto oppure a Mosca sono saltati i freni inibitori che oggi permettono a un numero sempre più folto di nazionalisti di mettere alla berlina Putin. Del resto, lo aveva fatto anche Ramzan Kadyrov, con la differenza che quest’ultimo ha un’intera piccola nazione sul libro paga di Mosca. E ci resterà ancora a lungo.
E i seguaci di Dugin chiedono altri 180mila rinforzi. Putin tra guerra in Ucraina e proteste: il partito d’opposizione è guidato dalle madri dei soldati russi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Agosto 2022
Ho trascorso la settimana leggendo e guardando tutte le notizie nelle lingue che comprendo ed ho imparato a guardare la guerra russa in Ucraina non come facciamo in genere con l’idea di due squadre che sì picchiano finché qualcuno porta a casa la vittoria. Le guerre durano tempi che non sono quelli programmati da chi le ha iniziate: quando gli americani invasero l’Iraq non avrebbero immaginato di finire in un pantano pluriennale e in una sconfitta. Oggi i russi dopo solo sei mesi di guerra non ricordano più con quale obiettivo hanno iniziato l’invasione del 24 febbraio. Secondo un vecchio detto, nessun piano militare sopravvive al contatto col nemico.
Eppure, lo scopo della guerra era quello di ridurre l’Ucraina al ruolo di “buffer State”, uno Stato cuscinetto che separi la Grande Russia dal mondo occidentale, perché alla Russia non basta essere il più grande Paese che occupa un ottavo delle terre emerse. La Russia reclama il diritto ad una speciale protezione e distanze e zone di influenza che sono tipiche degli imperi e non del mondo moderno. La Russia, ha dato per scontato che tutti coloro che parlano russo fossero russi nell’anima, circostanza che la guerra non ha confermato. Non si sono mai viste manifestazioni di giubilo tra gli abitanti ucraini di lingua russa e nemmeno una pallida imitazione del trionfo che i romani dedicarono al generale Clark quando sfilò con i suoi carri Sherman davanti al Colosseo fra i baci e piogge di fiori.
Oggi sappiamo che a Mosca e San Pietroburgo il più forte partito d’opposizione è quello delle madri dei ragazzi chiamati per il servizio militare, inghiottiti in un inferno da cui cercano di fuggire abbandonando armi e mezzi. La guerra stessa è diventata uno scontro fra i più costosi pezzi d’artiglieria e le armi americane usate dagli ucraini – gli Himars, che sembrano più potenti e precise di quelle russe. Malgrado quel che in Occidente molti pensano, la qualità della vita genera manifestazioni di piazza che la polizia ha ordine di reprimere cercando di evitare violenze clamorose.
La guerra richiede carne da cannone, in Ucraina si continua a morire alla ricerca di una “pace giusta”
Gli analisti considerano questa recente moderazione come un segno della fragilità di Putin di fronte al circolo dei potenti che non intende perdere la faccia di fronte alla diplomazia internazionale. Non manifestano in piazza soltanto i contrari alla guerra, ma pure gli ultranazionalisti seguaci di Dugin i quali, dopo l’attentato che è costato la vita a sua figlia reclamano per la vittoria almeno altri 180mila uomini addestrati. Nessuno, neanche al Cremlino o a Kiev, è in grado di prevedere come finirà, se finirà e quando. Anche questa guerra, come tutte quelle che l’hanno precedute, seguono la “legge di Tucidide”: scoppiano quando l’uso perverso delle parole diventa irreversibile e proseguono secondo leggi sconosciute della loro fisiologia e patologia negli armamenti, i loro infarti, la fame e la sete degli uomini e delle macchine.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Da repubblica.it il 28 agosto 2022.
Un necrologio con la foto di Darya Dugina e la scritta "assassinata dall'odio anti russo". E' apparso in giro a Rimini nelle ultime ore.
La figlia del filosofo e politologo russo Aleksandr Dugin, ideologo di Vladimir Putin, Dugina, morta lo scorso 21 agosto, è stata vittima di un attentato, per mano dell'intelligence ucraina secondo la versione delle autorità russe: la donna è saltata in aria mentre era alla guida dell'auto del padre.
In ricordo della defunta una ventina di persone hanno partecipato a Rimini a una Santa Messa di suffragio oggi, domenica 28 agosto, celebrata nel Santuario della Madonna della Misericordia.
Il necrologio è firmato: "Le amiche e amici della Russia". Il parroco, don Sebastiano Benedettini, ha affermato di non essere a conoscenza e ha chiesto ai promotori dell'iniziativa di togliere dai manifesti quella frase sull'odio anti russo, ma è rimasto inascoltato.
Davide Gasparini, uno degli autori, ha rassicurato che non c'è "alcuna intenzione di schierarsi sul piano politico", ma si tratterebbe solo di "un'esposizione pacifica del proprio pensiero".
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 30 Agosto 2022.
I misteri che si addensano attorno all'aggressione di Putin all'Ucraina, e alle operazioni dei servizi segreti russi in Occidente, cominciano a essere tanti. Un attivismo feroce russo si registra contro i paesi baltici, come sembrerebbero indicare le due storie che vi raccontiamo. La prima parte dagli Stati Uniti.
Benché inizialmente la polizia americana avesse affermato di non sospettare che dietro la caduta di Dan Rapoport da un attico di un condominio di lusso di Washington D.C., la notte del 14 agosto, ci fossero elementi di particolare stranezza, quella morte appare invece adesso assai sospetta a diversi servizi occidentali.
Rapoport, imprenditore lettone-americano, era nel suo paese d'origine uno dei più noti critici di Putin. Aveva lavorato in Russia con un fondo d'investimento nella tumultuosa stagione di speranze dei primi Anni novanta, per poi finire nel libro nero putiniano. Come il suo amico Bill Browder, fondatore del fondo Hermitage, e poi uno dei più impegnati attivisti anti-Putin, e autore della campagna per il Magnitsky Act negli Stati Uniti e in Europa. Browder non esita a dare questa lettura: «Penso che le circostanze della sua morte siano estremamente sospette.
Ogni volta che qualcuno che ha una visione negativa del regime di Putin muore in modo sospetto, si dovrebbe ipotizzare un gioco scorretto, non escluderlo». Rapoport sosteneva la battaglia di Alexey Navalny. Aveva contatti importanti con l'élite americana, tra l'altro la sua famiglia aveva venduto una mansion di 5,5 milioni di dollari nel 2016, che è poi diventata la casa di Ivanka Trump e Jared Kushner.
Alyona Rapoport, la moglie, non crede minimamente al suicidio: «Faceva progetti e non pensava certo di uccidersi». Persino le modalità con cui la storia è emersa aumentano i sospetti che ci sia una mano dei servizi russi: sul canale Telegram dell'ex direttore di Russian Tattler, già in passato noto per aver diffuso notizie di fonte russa. Come faceva a sapere qualcosa che nessuna polizia aveva ancora divulgato?
Tutto questo avviene mentre l'Fsb dichiara di aver trovato un presunto complice di Natalya Vovk nell'attentato a Darya Dugina: sarebbe il cittadino ucraino Bohdan Petrovych Tsyhanenko. Ma siccome ogni informazione del Fsb è essa stessa una operazione di disinformation, quello che è utile qui è capire dove Mosca voglia puntare il dito: oltre all'Ucraina, l'Estonia.
Secondo i servizi di Mosca, Tsyhanebko sarebbe entrato in territorio russo attraverso l'Estonia il 30 luglio 2022, e sarebbe ripartito dalla Russia il giorno prima che l'auto di Dugina saltasse in aria, fornendo «a Vovk targhe e documenti falsi rilasciati a una cittadina kazaka, Yulia Zaiko, e assemblando la bomba insieme a Vovk in un garage preso in affitto nel settore sud-ovest di Mosca».
Nulla o quasi di tutto questo sta in piedi, naturalmente. E la storia di Natalia Vovk in sé appare sempre più difficile da credere. Lauri Linnamäe, analista open source, ha spiegato punto per punto che il presunto documento della donna ha tutte le caratteristiche di un falso ritoccato con Photoshop: sfocature nei punti di contatto, sfasatura nei layer e nella sovrapposizione di piani tra il viso e lo sfondo della foto del volto, capelli piallati con figure geometriche, campionamento. Niente risulta credibile.
Non solo il fatto che sia l'Fsb - una centrale di disinformation esso stesso - a fornirci questa versione dei fatti. Christopher Steele, l'ex capo del desk Russia del MI6 dal cui report (in larga parte non smentito) partirono le inchieste sul Russiagate di Trump, fornisce questa fotografia della situazione in cui siamo: «L'uccisione di Dugina in Russia assomiglia sempre più agli attentati agli appartamenti di Mosca del 1999: un'operazione false flag da parte di una fazione dell'FSB, della quale accusare i nemici di Putin e progettata per suscitare fervore nazionalista a sostegno dell'escalation militare (in Cecenia allora, ora in Ucraina)».
DAGONEWS il 30 Agosto 2022.
Quasi un decennio dopo il suo esilio, questa settimana un ex politico russo è riemerso dall'ombra, diventando la nuova spina nel fianco del Cremlino.
In uno scioccante discorso televisivo da Kiev la scorsa settimana, il 47enne ex politico Ilya Ponomarev ha parlato dicendo di essere un “messaggero” di quello che dice essere un movimento di resistenza clandestino che opera in Russia, l'Esercito Repubblicano Nazionale. Ponomarev ha letto il cosiddetto manifesto del gruppo su un canale televisivo con sede a Kiev da lui fondato sette mesi fa (February Morning), in cui si rivendica la responsabilità dell’omicidio di Darya Dugina, la figlia dell’ideologo di Putin Alexander Dugin.
«Gli attivisti hanno scelto una figura sacra del fascismo russo e non spetta a me criticare l'obiettivo del loro atto», ha detto Ponomarev in un'intervista al “The Daily Beast”, affermando di essere in contatto con i "combattenti della resistenza" da aprile. Oltre a trasmettere i loro messaggi, Ponomarev ha affermato che il suo "lavoro è fornire supporto commerciale" al gruppo secondo necessità.
Il legame di Ponomarev con il presunto movimento è oscuro e l’uomo non è stato in grado di fornire prove del fatto che abbiano avuto un ruolo nell'attacco a Dugina. Ma quello che Ponomarev afferma non ha fatto altro che alimentare i dubbi sul fatto che dietro l’attacco ci siano proprio i russi.
«Riceviamo video e messaggi di testo dai ribelli russi sulle loro azioni quasi ogni giorno - ha detto Ponomarev - Lanciano bottiglie molotov negli uffici di leva militare, fanno saltare in aria le ferrovie, fanno scoppiare pneumatici di auto con simboli russi a favore della guerra e attaccano gli attivisti che stavano raccogliendo soldi per la guerra»,
Il socio di Ponomarev a February Morning, Aleksey Baranovsky, un ex sostenitore delle organizzazioni di estrema destra in Russia, ha detto al Daily Beast di aver ricevuto messaggi dall'esercito repubblicano nazionale un'ora dopo l'attacco a Dugina a Mosca: «Hanno chiesto a Ponomarev di condividere il loro manifesto, in cui promettevano che coloro che non lasceranno il potere saranno distrutti. L'iniziativa è venuta dal gruppo. Hanno agito in assoluta autonomia. Non li chiamiamo terroristi, sono un esercito di ribelli».
Ponomarev è fuggito dalla Russia per la prima volta nel 2014 dopo essere stato l'unico membro del parlamento russo a votare contro l'annessione della Crimea. Alla fine si è stabilito a Kiev, dove è diventato (senza successo) amministratore delegato di una società di investimento statunitense nel settore petrolifero e del gas in Ucraina. A The Daily Beast ha rivelato che l'invasione russa dell'Ucraina è ciò che lo ha spinto a lanciare il gruppo mediatico, presidiato esclusivamente da esiliati russi che vivono in Ucraina. «La mia guerra è iniziata quel giorno» ha detto anche a The Daily Beast.
Tuttavia alcuni esperti indipendenti hanno espresso scetticismo sulle affermazioni e sulla reputazione di Ponomarev. Uno specialista moscovita in gruppi di attivisti radicali, Alexander Verkhovsky, sospetta che il gruppo sia solo un esercito nella testa di Ponomarev: «Ci sono gruppi contro la guerra in Russia. Lanciano bottiglie molotov, fanno saltare in aria le cose, ma se fossero stati uniti in un grande esercito, avrebbero avuto almeno un canale indipendente da Ponomarev su Telegram. Ma vediamo cos'altro faranno».
«Il regime di Putin? Pazzi, servi e guerrafondai. Se non fossi andato via non mi sarei più potuto definire uomo». Sabrina Pisu su L'Espresso il 16 Agosto 2022.
Parla Boris Bondarev, ex enfant prodige della diplomazia in servizio alla sede Onu di Ginevra che si è ribellato allo zar condannando la guerra in Ucraina e ora vive in un luogo segreto. «Provo vergogna. È lui il responsabile dell’orribile corruzione morale della società russa»
Quando la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, Boris Bondarev ha capito che non poteva più mentire a sé stesso. Quel 24 febbraio è stato chiaro che il solo gesto possibile, di dignità, per non essere complice di «questa ignominia sanguinosa», era quello di lasciare l’incarico di diplomatico russo della Missione permanente russa alle Nazioni unite di Ginevra. Doveva andarsene e ad alta voce. È stato il diplomatico russo di più alto livello a dimettersi pubblicamente. Il 23 maggio ha affidato a righe nette il suo grido di verità: «La vergogna mai provata verso il mio Paese per la guerra aggressiva scatenata da Putin contro l’Ucraina, un crimine contro il popolo ucraino e quello russo». Una lettera aperta di dimissioni «in ritardo», inviata ai suoi colleghi e condivisa sui social media anche da Hillel Neuer, avvocato internazionale e direttore esecutivo di Un watch, che è finita sulle prime pagine in tutto il mondo.
«Se non avessi abbandonato quei servili, pazzi e guerrafondai, non sarei stato mai più capace di definirmi un uomo»: racconta Boris Bondarev a L’Espresso, in un’intervista che per motivi di sicurezza è fatta per iscritto. Dopo le dimissioni, è stato messo sotto alta protezione della polizia svizzera, della sua attuale condizione non può parlare.
Boris Bondarev, 42 anni, si è lasciato alle spalle una lunga carriera diplomatica iniziata nel 2002 al servizio del ministero degli Esteri russo, dopo una laurea in Relazioni internazionali a Mosca. Il primo incarico all’estero a ventidue anni, in Cambogia, poi tra il 2009 e il 2013 in Mongolia. Nel 2019 arriva all’Onu a Ginevra, in Svizzera, dove si occupa di disarmo e non proliferazione: «Ho lavorato soprattutto per la Conferenza sul disarmo (Cd) e ho anche partecipato alla preparazione degli incontri russo-statunitensi sulla stabilità strategica, incluso il vertice Biden-Putin che si è tenuto nel giugno 2021». Questo è il suo impiego fino a quel 24 febbraio che ha segnato «il punto di non ritorno».
Nelle settimane che seguono si sente solo tra i colleghi diplomatici: «Parlavano, come se nulla fosse, di attacchi nucleari e uso di armi chimiche contro l’Ucraina o gli Stati Uniti. I loro occhi brillavano, letteralmente. Sembrava un manicomio».
Boris Bondarev è convinto che a condividere le sue opinioni nel servizio diplomatico «siano una minoranza»: «La gran parte di loro ha lasciato il ministero degli Esteri russo in silenzio dopo l’inizio della guerra, e li rispetto, ma credo che non siano pochi quelli scontenti perché ritengono che Putin sia troppo debole e indeciso. Preferirebbero usare armi nucleari contro l’Ucraina per spaventarla al punto tale da farle accettare le condizioni di Mosca. Sono soprattutto giovani, cresciuti a latte e “culto della personalità” di Putin. Hanno imparato da lui che vale la legge del più forte. Chi ha denaro o connessioni può permettersi quasi tutto e godere dell’impunità. È questa l’orribile corruzione morale della società russa di cui Putin è responsabile».
È stato un lungo e graduale processo involutivo che, secondo Bondarev, ha fatto sì che «la propagsanda prendesse il posto della professionalità». Il cambiamento più importante è avvenuto dopo l’annessione della Crimea nel 2014: «In quel momento l’Occidente ha scatenato quella che è stata vista come “un’improvvisa” e “insidiosa” campagna anti-russa e molti diplomatici di lungo corso hanno pensato di rispolverare il lessico dell’era sovietica, usando dozzinali cliché propagandistici, una modalità ben accolta dalla “corte” di Mosca e adottata dal ministero degli Affari esteri russo».
Bondarev era convinto che l’annessione della Crimea e i combattimenti nel Donbass nel 2014-15 facessero parte di una strategia di Putin per arrivare a una soluzione diplomatica. Ha pensato fino alla fine che la guerra non potesse essere il suo obiettivo, perché sarebbe stata «una follia totale».
Se guarda indietro non si pente di essere stato al servizio della politica estera del Cremlino: «Ho sempre cercato di mitigarla con il mio lavoro personale. A differenza di molti miei colleghi che credono che la diplomazia sia sferragliare sciabole, ho sempre pensato che parlare sia molto meglio che combattere. È stato grazie a questa esperienza che sono stato finalmente in grado di vedere che le politiche di Putin sono sbagliate, inadeguate e criminali».
Secondo Bondarev, Putin può essere solo fermato sul campo di battaglia: «L’esercito ucraino ha già dimostrato di essere in grado di difendere il Paese. Con armi più moderne dall’Occidente sarà in grado di sconfiggere gli invasori. Per Putin la sconfitta è un incubo, si è giocato tutto con questa guerra e non gli deve essere permesso di vincerla». La politica dell’appeasement, secondo Bondarev, non funziona mai e non bisogna prendere in considerazione chi spinge per un dialogo con Putin, per dargli quello che chiede: «Chi parla di questo tipo di “accordi di pace” a spese del sangue e del suolo ucraino è in realtà con Putin. Nessuna concessione territoriale intermedia, come il controllo del Donbass o l’annessione di un paio di nuove regioni, può soddisfarlo perché ha promesso di conquistare e annettere l’intera Ucraina».
Lo scopo principale della guerra, continua Bondarev, è «la distruzione dell’Ucraina come soggetto della politica mondiale e come entità indipendente». Il secondo obiettivo è umiliare l’Occidente: «Putin vuole vendicarsi del disprezzo che lui e la sua cerchia ristretta hanno». Un’eventuale sconfitta di Kiev sarà vista dal Cremlino come la sconfitta della Nato e l’indebolimento dell’Occidente. «Putin colpirà, molto probabilmente, la Moldavia, facendo affidamento sulla sua base in Transnistria. Le annessioni della Bielorussia e del Kazakistan settentrionale sono del tutto possibili in quanto “territori nativi russi con una popolazione di lingua russa”. In seguito sarebbero gli Stati baltici che potrebbero trovarsi in prima linea». Putin dovrà, quindi, continuare a fare la guerra per «spiegare al popolo russo perché la situazione economica e sociale è disastrosa. La guerra è, come pensano al Cremlino, una risposta universale a tutte le domande. Putin ha solo costruito la sua dittatura personale privando milioni di persone di speranze e prospettive per il futuro».».
Boris Bondarev si sofferma anche sulle responsabilità all’interno dell’Onu che è «paralizzato perché i principali antagonisti in questo conflitto, Russia e Stati Uniti, hanno un potere di veto nel Consiglio di sicurezza. Gli è, in realtà, impedito di fare cose importanti e la colpa è di alcuni governi. L’Onu sta facendo un lavoro umanitario enorme ma ha bisogno di una riforma vera che ne migliori l’efficienza».
Una seconda ondata di russi sta, intanto, lasciando il Paese, sarebbero già almeno 200mila, secondo le ultime stime, di metà marzo, dell’economista russo Konstantin Sonin. «Sono la parte migliore della Russia: giovani, persone colte, professionisti e creativi», spiega Bondarev. «Senza di loro Putin può facilmente rimanere al potere perché si affida ai gruppi sociali più poveri e non istruiti che sono stati sottoposti al lavaggio del cervello dalla sua stessa propaganda». Putin isolerà la Russia dal resto del mondo e questo la renderà ancora più sottosviluppata: «La guerra renderà questo processo più semplice per lui, per questo è un crimine anche contro la Russia».
Se Putin sarà sconfitto in Ucraina, secondo l’ex diplomatico russo, sarà la fine del suo governo: «Non può permettersi di perdere perché la sua immagine di leader forte, costruttore di un impero, andrebbe in pezzi e dovrà trovare un capro espiatorio, qualcuno vicino a lui. Quando il suo stretto entourage comincerà a sentirsi minacciato, lo scenario di un colpo di Stato sarà molto più probabile di quanto non lo sia ora».
Il regime di Putin è molto personale, con la sua caduta non riuscirebbe a restare in piedi: «Non è un’esagerazione dire che Putin incarna lo Stato per molti russi. Ufficiali, ministri e generali sono sconosciuti alla maggioranza della popolazione. Quando Putin sarà fuori gioco, in un modo o nell’altro, nessun governo sarà legittimo. Il nuovo presidente dovrà spiegare ai russi i motivi della crisi economica e sociale, sarà allora logico e tentante dare la colpa a Putin per tutti gli errori, i crimini e questo minerà quello che resta della legittimità del regime che inizierà a sgretolarsi».
Questa guerra ha provocato una spaccatura profonda nella società russa, con una parte che è a favore e l’altra contraria, una lacerazione che ha diviso intere famiglie, anche quella di Bondarev: «Mio padre mi ha detto che “non vedo il quadro generale”, mia sorella invece mi ha sostenuto». Un conflitto sociale che si inserisce in una sofferenza economica: «Oggi oltre 20 milioni di russi vivono sotto la soglia di povertà che è di 12.916 rubli al mese, circa 215 euro. Lo stipendio mensile medio è di circa 600 euro. È vergognoso per un Paese ricco di risorse come la Russia. L’instabilità è spiegata con la macchinazione di un nemico esterno, come l’Ucraina o, più in generale, l’Occidente».
La miseria porta all’indifferenza verso la politica e il governo: «È opinione diffusa in Russia che non spetti ai cittadini decidere perché incapaci di capire, mentre il governo è composto da persone ritenute le più intelligenti e colte. Questa mentalità è stata il pilastro che ha sostenuto l’Impero russo, l’Urss e ora il regime di Putin».
Un sistema che potrebbe essere smantellato dalle nuove generazioni: «Vedo molti giovani in Russia che ancora protestano contro la guerra. Sono indipendenti, sono la speranza per il rinnovamento». Il futuro di Boris Bondarev è lavorare per la pace e la Russia che verrà: «Tutti noi, alla fine, torneremo a casa e ricostruiremo il nostro Paese, da capo».
Sergei Korolev, la “scommessa” di Putin. Pietro Emanueli su Inside Over l'8 luglio 2022.
I veri uomini di potere non amano il contatto col pubblico, si astengono dal parlare ai microfoni e repellono le luci dei riflettori. Eminenze grigie, talvolta coi capelli ancora neri, questi uomini sono dei burattinai ai quali piace godersi lo spettacolo da loro coreografato nel dietro le quinte del palcoscenico.
In Russia, stato-civiltà nel quale i siloviki rivestono un ruolo-chiave nelle dinamiche di governo sin dai tempi dello zarato, la schiera di uomini di potere che hanno assunto il potere visibile, o che detengono quello invisibile, è lunga quanto la sua storia millenaria. Il più importante dell’attualità è stato ed è sicuramente Vladimir Putin, il padre fondatore della nuova Russia, ma come lui ne esistono tanti. E uno di essi è Sergei Korolev.
Le origini
Sergei Borisovič Korolev nasce a Frunze, nell’attuale Kirghizistan, il 25 luglio 1962. Di origini slave, Korolev viene cresciuto in un contesto familiare permeato da valori militari, fedele al Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e relativamente agiato per l’epoca.
Dal padre, un comandante delle forze armate, Korolev avrebbe ereditato – oltre che la passione per la divisa – i contatti negli ambienti che contavano – e che mai hanno smesso di contare, neanche dopo la fine del grande esperimento sovietico. Il padre, infatti, era un amico stretto di Viktor Zubkov, un importante tesserato del PCUS che decenni dopo, durante l’era Putin, avrebbe scalato la piramide del potere.
Korolev non sarebbe rimasto molto in Kirghizistan, da lui ritenuto troppo remoto e troppo irrilevante per soddisfarne le ambizioni carrieristiche. Da adolescente si fece inviare dai genitori a Leningrado, odierna San Pietroburgo, per frequentare la Scuola militare superiore di elettronica, presso la quale si licenziò nel 1979.
Terminati gli studi, decise di proseguire la tradizione di famiglia entrando nel mondo dei servizi segreti. Un paragrafo di vita, questo, del quale nulla è noto.
L’ascesa di Korolev comincia in concomitanza con il collasso dell’Unione Sovietica. Talentuoso, sfrontato e, non meno importante, ricco di capitale umano – il circuito di amicizie del padre –, Korolev avrebbe cominciato una silenziosa ma inesorabile scalata della piramide del potere nel dopo-Urss.
Aiutato da Zubkov, futuro 36esimo primo ministro della Russia e futuro presidente del CdA di Gazprom, e da Anatolij Serdyukov, futuro ministro della difesa, Korolev sarebbe entrato prima nel succulento mercato della sicurezza privata e poi nel dipartimento anti-crimine organizzato del FSB.
Neanche un’indagine a suo carico per via di presunti legami con la mafia sanpietroburghese sarebbe stata in grado di fermarne l’ascesa ai vertici dell’apparato securitario. Perché dopo essere stato demansionato nel 2004, a causa delle ombre su di lui gravanti, fu riabilitato da Serdyukov nel 2007, nel frattempo nominato ministro della difesa, dal quale fu assunto come consigliere.
Sotto l’egida di Serdyukov, Korolev avrebbe copartecipato alla riforma del GRU, alla fondazione del SSO e alla creazione del Centro per le esigenze speciali. Un’esperienza formativa di grande utilità, propedeutica al raffinamento di abilità già possedute e all’acquisizione di nuove.
Con la fine dell’era Medvedev, e la conseguente uscita di scena di Serdyukov dal ministero della Difesa, Korolev avrebbe vissuto un nuovo periodo di difficoltà. Nuovamente demansionato a seguito di uno scandalo di corruzione, scoppiato nell’immediatezza del reinsediamento alla presidenza di Putin, l’uomo riuscì comunque a farla franca nel migliore dei casi: crollo delle accuse e ritorno al FSB. Una caduta in piedi.
Trasferito al FSB, Korolev fu qui nominato capo del Direttorato della sicurezza interna del CSS. Una manna del cielo, per l’uomo, visto che trattavasi del dipartimento deputato alle indagini su casi di corruzione, collusione col crimine e criminalità di alto profilo, cioè su capi di accusa che lo seguivano come un’ombra dai primi anni Duemila.
L’unità, sotto la direzione di Korolev, sarebbe divenuta celebre per le indagini ai danni di politici e miliardari scomodi al sistema, dall’oligarca Dmitrij Mikhalchenko ai governatori Nikita Belykh e Komi Vyacheslav Gaizer, contribuendo in maniera determinante alla rivalutazione dell’uomo da parte di Putin.
Nel 2016, dopo soli quattro anni di permanenza al FSB, Korolev riceve la prima promozione: viene nominato direttore del Servizio di sicurezza economica. Non dimentico dell’importanza del CSS, ne affida la guida a un suo protetto e fedelissimo: Aleksei Komkov. Il primo mattoncino di un piccolo impero. La prima tappa di un percorso positivamente in salita, segnato dalla pioggia di “ingressi meritocratici” nei consigli direttivi di varie entità, tra i quali l’Istituto Kurchatov e Rosatom.
Il 2021 è l’anno della svolta, dell’investitura ufficiale a membro dell’esclusiva e ristretta cerchia putiniana, emblematizzata dalla nomina a primo vice-direttore del FSB, dalla promozione a generale dell’esercito e dall’entrata nell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai in qualità di supervisore per la Russia dell’agenda sulla lotta al terrorismo.
Ritenuto un papabile alla successione di Aleksander Bortnikov, direttore del FSB dal lontano 2008, Korolev riceve l’unzione anche da parte dell’Occidente allo scoppio della guerra in Ucraina. Nell’aprile 2022, invero, viene fatto oggetto di sanzioni da parte di Regno Unito, Canada e Australia per via del presunto ruolo giocato nel conflitto. Sanzioni simboliche, certo, ma che sanno di conoscenza sul suo conto: è uno dei possibili astri sui quali farà affidamento Putin per ricostruire il sistema nel dopoguerra e traghettare la Russia verso la metà del secolo.
Tichon, il confessore di Putin. Pietro Emanueli su Inside Over l'8 luglio 2022.
È dall’alba dei tempi che imperatori, re e statisti si circondano di maghi, fattucchieri, oracoli e chierici. Una questione di scaramanzia, di volontà di conoscere il futuro o di fede nell’esistenza di un disegno intelligente. Molte volte, più che predire il futuro, oracoli e chierici tentano di determinarlo, fornendo suggerimenti ai loro principali e trasformandosi in poteri dietro il trono.
Il cardinale Richelieu fu l’eminenza grigia di Luigi XIII. Il cardinale Mazzarino lo fu di Luigi XIV. Rasputin lo fu della famiglia Romanov. E uno sfuggente vescovo ortodosso, di nome Tichon, lo è di Vladimir Putin.
Le origini e l'ascesa
Il metropolita Tichon, al secolo Georgij Aleksandrovič Shevkunov, nasce a Mosca il 2 luglio 1958. Avido nelle letture di testi cristiani sin dalla giovinezza, Shevkunov udirà la chiamata, l’invito a darsi alla vita religiosa, nel 1982, anno del battesimo e dell’ingresso nell’antico e suggestivo monastero dormitorio delle grotte di Pskov.
Shevkunov, sin dai primordi della vita religiosa, risalterà agli occhi di pari grado e superiori per la capacità di scrivere testi persuasivi e l’inventiva. Due qualità che lo avrebbero rispettivamente traghettato, nel 1986 e nel 1988, nel Dipartimento pubblicazioni del Patriarcato di Mosca e nella squadra adibita all’organizzazione del millenario della cristianizzazione della Rus’ di Kiev.
Scrittore prolifico, e soprattutto polemico, Shevkunov avrebbe profittato delle più ampie libertà individuali garantite dalla Perestroika per disquisire su rapporti tra stato e chiesa, secolarizzazione della società e democrazia. Lo Shevkunov di quegli anni è essenzialmente un pessimista antropologico: critico verso i connazionali, disilluso sul futuro dell’Unione Sovietica – e, in seguito, della Russia.
Nel 1991, presso il monastero Donskoj, Shevkunov prende i voti monastici e per lui inizia una nuova vita, emblematizzata dall’acquisto di una nuova identità: diventa il metropolita Tichon, in onore dell’undicesimo patriarca di Mosca e di tutte le Russie. A partire da quell’anno, complice l’entrata nei circoli del potere, Tichon avrebbe acquistato un’influenza crescente nei panorami religioso, politico e sociale.
Il rapporto con Putin
Tichon, coerentemente con l’obiettivo di ripulire l’anima corrotta della Russia postcomunista e cleptocratica, avrebbe trascorso l’era eltsiniana in compagnia dei nuovi ricchi, i futuri oligarchi, emersi durante la stagione di privatizzazioni selvagge dell’epoca. In alcuni casi, come dimostrato dalla conversione dell’investitore Sergei Pugačëv, il metropolita sarebbe riuscito nell’obiettivo.
Fu nel corso degli anni ruggenti dell’era eltsiniana e grazie all’oligarca-divenuto-apostolo Pugačëv, un uomo con le mani impastate ovunque poi passato alla dissidenza, che Tichon fece la conoscenza dell’ambizioso, e non ancora presidente, Vladimir Putin. I due, a partire dall’incontro organizzato da Pugačëv, non si sarebbero più lasciati.
Né Putin né Tichon hanno mai parlato dettagliatamente del loro rapporto in pubblico, lasciando che indiscrezioni e fonti di terza mano colmassero il vuoto lasciato dal loro silenzio. Dei due si è detto e si è scritto di tutto: Putin chiamerebbe il metropolita agli orari più improbabili, come le tre di notte, per confessarsi e parlare di relazioni internazionali; Tichon avrebbe una linea diretta col capo di Cremlino e l’onore di poterlo incontrarlo senza previo avviso.
Pugačëv, a proposito della loro relazione, ha spiegato come Tichon partecipi ai riti religiosi organizzati periodicamente da Putin nelle sue dacie e come quest’ultimo sia solito ascoltare i suoi sermoni con attenzione.
Tichon, a metà tra il consigliere politico e il confessore spirituale, è l’uomo che, più di ogni altro, avrebbe convinto Putin a rispolverare l’antico trinomio nicolino Ortodossia, Autocrazia e Nazionalità (Правосла́вие, самодержа́вие, наро́дность), illuminandolo sul potere mobilitante della fede e preconizzando il ritorno dell’identità al centro delle relazioni internazionali. Una visione simil-huntingtoniana in parte corroborata dagli accadimenti che hanno contraddistinto i primi anni Duemila, nonché le decadi successive, e che ha plasmato in maniera profonda il programma di rinazionalizzazione delle masse del dopo-Medvedev.
Predicatore instancabile
Il rapporto con Putin è enigmatico, circondato da una coltre di nebbia, ma l’attività pastorale e divulgativa di Tichon non ha segreti. Le attività pastorali e culturali le porta avanti in qualità di membro del Consiglio per la cultura del Patriarcato di Mosca, del Consiglio per la cultura della presidenza e del Consiglio supremo della Chiesa ortodossa russa. Le attività divulgative in qualità di scrittore prolifico e organizzatore di eventi, come mostre ed esibizioni museali.
Caporedattore del portale panortodosso e panslavista Pravoslavie, Tichon ha messo la firma su centinaia di articoli su ecumenismo – al quale è contrario, specialmente se diretto alla fine del Grande scisma –, politica domestica – patrocinando la causa della nazionalizzazione delle masse in senso conservatore ed etnocentrico – e politica estera.
Paladino della causa della transizione multipolare, nonché figura direttamente coinvolta negli affari esteri – attraverso un seggio nel Consiglio consultivo sulla Crimea –, Tichon ha giocato un ruolo-chiave nella mobilitazione dei fedeli ortodossi ai tempi dell’annessione della Crimea e allo scoppio della guerra in Ucraina ha sposato in toto la linea del patriarca Cirillo, spendendosi, tra interviste e articoli, nella veicolazione dell’idea che nel mondo, più che una competizione tra grandi potenze, sia in corso una guerra spirituale, tra il bene e il male, con la Russia a rappresentare il biblico catechon.
Herman Gref, il tesoriere della Russia putiniana. Pietro Emanueli su Inside Over il 9 luglio 2022.
Herman Gref, da non confondere con Hermann Graf – tra i migliori piloti dell’aviazione tedesca di tutti i tempi –, è un uomo sulle cui spalle grava come un macigno l’onere-onere di mantenere in piedi il sistema bancario della Russia. Perché se Elvira Nabiullina è la mente raffinata dietro lo scudo anti-sanzioni forgiato allo scoppio della guerra in Ucraina, Gref è stato a lungo il titolare del ministero dello sviluppo economico ed è oggi il presidente di Sberbank.
Le origini
Herman Oksarovič Gref, al secolo Herman Gräf, è un russo di adozione nato in quel di Panfilovo, attuale Kazakistan, l’8 febbraio 1964. Figlio di due tedeschi deportati dalla regione di Leningrado alle remote steppe kazake durante la Seconda guerra mondiale, cioè ai tempi dei trasferimenti di popolazione tanto cari a Stalin, Gref cresce preservando la memoria delle proprie origini e con la passione per i numeri, quest’ultima ereditata dalla madre – un’economista.
Una volta adulto si trasferisce a Mosca, dove prima studia economia al MGIMO e dopo serve nelle forze armate. Al soggiorno moscovita segue il trasloco nel cuore della Siberia, più precisamente a Omsk, dove completerà gli studi universitari precedentemente cominciati.
Nel 1990, dopo aver terminato il ciclo di studi a Omsk, Gref si trasferisce nella vibrante San Pietroburgo, all’epoca ancora nota come Leningrado, per frequentare un programma post-laurea in diritto. E qui, aiutato dal destino, farà la conoscenza dell’incubatore di talenti Anatolij Sobchak e della sua prole, stringendo amicizia con dei futuri uomini di successo come Vladimir Putin, Dmitrij Medvedev, Dmitrij Kozak e Aleksej Kudrin.
Il periodo sanpietroburghese avrebbe aiutato Gref, in estrema sintesi, a fare un determinante salto di qualità tanto a livello professionale – prima l’ingresso nell’amministrazione cittadina, poi l’entrata nel governatorato – quanto a livello di capitale umano – la conoscenza degli uomini che destinati a prendere le redini del Cremlino nel dopo-Eltsin.
L'ascesa
Nel 1998, alla vigilia del passaggio di scettro deciso dallo stato più profondo, Gref entra nel governo Eltsin in qualità di vice-primo ministro delle proprietà statali. Un’investitura di peso, anche per via del suo magro curriculum, alla quale seguono l’ingresso nei consigli direttivi della Commissione federale per il mercato mobiliare, di Svyazinvest e Gazprom.
Nel 2000, caduto Eltsin e asceso Putin, Gref viene nominato alla guida del ministero dello sviluppo economico e del commercio. Evidentemente soddisfatto dal modus operandi e dai risultati conseguiti da Gref, Putin lo riconfermerà nuovamente nel 2004.
Allievo di Aleksej Kudrin, l’artefice della politica economica della prima parte dell’era Putin, il Gref di inizio Duemila viene ricordato per la creazione del Fondo di stabilizzazione, per l’apertura del dibattito sull’adesione della Russia all’Organizzazione Mondiale del Commercio e per la ritrosia ai monopoli statali e agli oligopoli misti sotto egida pubblica. Un liberista duro e puro.
Nel 2007, con la fine prematura e volontaria del governo Fradkov – avvenuta per ragioni mai chiarite –, Gref decide di seguire i colleghi e di rassegnare le dimissioni. Non il capolinea di una carriera in ascesa, quanto, al contrario, la prima fermata di un nuovo e più remunerativo percorso.
Tesoriere di Russia
Nel 2007, all’indomani della fuoriuscita dal ministero dello Sviluppo economico e del commercio, Gref entra in Sberbank – la più grande banca statale di Russia – in qualità di presidente. Un’elezione, apparentemente, avvenuta senza preavviso: Gref, infatti, fu investito del ruolo nel corso di un vertice straordinario.
Sberbank, all’epoca già in ascesa, presentava una varietà di problemi: carenza di cultura aziendale, sottoproduttività, efficienza migliorabile, mancanza di impronta internazionale. Problemi che Gref, un’economista liberale cresciuto studiando i modelli bancari occidentali e asiatici, avrebbe risolto in pochi anni, portando Sberbank nella top-100 dei gruppi bancari per capitalizzazione.
I risultati ottenuti a Sberbank lo hanno reso il tesoriere di Russia e un membro di diritto della cerchia putiniana. Una fama che gli è valsa la cristallizzazione del suo ruolo in Sberbank – nel 2019 ha iniziato il suo quarto mandato consecutivo –, che gli ha permesso di entrare nei comitati direttivi di altri giganti – come Yandex – e che non è passata inosservata in Occidente.
Nel 2022, dopo quattro anni di attenzione speciale a distanza – nel 2018 era stato inserito nella cosiddetta “Lista del Cremlino” del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti –, Gref viene sanzionato sia da Bruxelles sia da Washington a causa della guerra in Ucraina. Sanzioni simboliche, certo, ma che parlano dell’importanza di quest’uomo all’interno della Russia putiniana, della quale è una colonna portante e alla cui costruzione della “resistenza economica” ha direttamente contribuito trasformando Sberbank in un “colosso sostenibile”.
Russia, muore a 46 anni Dmitry Konoplev: era il progettista di armi di Putin. Valentina Mericio il 23/07/2022 su Notizie.it.
Considerato uno dei migliori progettisti di armi di Vladimir Putin, Dmitry Konoplev è morto a 46 anni. Era sottoposto a cure per l'ansia e la depressione.
Aveva 46 anni ed era uno dei migliori progettisti di armi del presidente russo Vladimir Putin. Dmitry Konoplev è deceduto in circostanze misteriose. L’uomo era a capo dell’azienda di armi Shipunov Instrument Design Bureau e, stando a quanto appreso dalle testate estere, stava ricevendo le cure contro l’ansia e la depressione.
Aveva inoltre ricoperto il ruolo di vicedirettore dell’Agenzia federale russa per la fornitura di armi, materiali ed equipaggiamenti speciali.
Non sarebbero ancora del tutto chiare le cause del suo decesso. Inizialmente i medici avevano affermato che non era possibile stabilire cosa avesse provocato la morte di Konoplev. Stando a quanto riferisce Izvestia, l’uomo che sarebbe stato colpito da “un infarto acuto”, era sottoposto ad una terapia con Xenon in una clinica a Mosca.
Lo Xenon viene utilizzato proprio per curare i disturbi dell’ansia, della depressione o ancora altre malattie neurologiche. Ad ogni modo, non sono state diffuse ufficialità circa la sua morte.
LEGGI ANCHE: Putin: “In Ucraina non abbiamo ancora iniziato a fare sul serio. L’Occidente non seminerà caos in Russia”
Il governatore Alexey Dyumin: “Ha dato un grande contributo”
Nel frattempo il governatore della regione di Tula, Alexey Dyumin ha detto del progettista russo: “ha fatto molto per l’industria della difesa del paese”.
Ha anche aggiunto che ha dato un grande contributo al settore. L’ufficio di Konoplev era il principale sviluppatore di armi complesse per Putin. Molte le imprese e le organizzazioni con le quali ha intrecciato legami tra cui anche il Ministero della Difesa.
ANSA l'8 luglio 2022 – L'oppositore russo Alexei Gorinov è stato condannato a sette anni di reclusione da un tribunale di Mosca con l'accusa di aver diffuso "notizie false" sull'esercito russo per il solo fatto di essersi schierato contro l'invasione dell'Ucraina ordinata da Vladimir Putin: lo riporta Novaya Gazeta Europa dall'aula di tribunale.
A marzo in Russia è entrata in vigore una "legge bavaglio" che prevede fino a 15 anni di reclusione per la diffusione di informazioni sulle forze armate che dovessero essere ritenute "false" dalle autorità russe. Il governo russo sta inasprendo sempre più la censura e la repressione del dissenso.
L'oppositore russo Aleksey Gorinov durante il processo contro di lui ha mostrato un piccolo cartello contro la guerra in Ucraina. "Avete ancora bisogno di questa guerra?" c'era scritto su un foglio di carta stretto in mano dal dissidente stando a quanto riporta Nastoyashcheye Vremya, uno dei siti internet di Radio Liberty, secondo cui i poliziotti hanno cercato di coprire il cartello e nasconderlo mettendosi davanti all'imputato.
Già a fine giugno Gorinov aveva mostrato un cartello sul quale c'era scritto "Sono contro la guerra" durante un'altra udienza del processo contro di lui.
Maurizio Stefanini per “Libero Quotidiano” il 7 Luglio 2022.
In Russia gli oligarchi muoiono, i generali vengono arrestati. 61 anni, manager legato a Gazprom, Yury Voronov, è stato trovato a galleggiare nella piscina della sua lussuosa villa, con una pallottola in testa. Vicino a lui c'era una pistola.
È l'ottavo manager o imprenditore russo trovato misteriosamente ucciso dall'inizio dell'anno, e il terzo nella stessa zona di San Pietroburgo. Voronov dirigeva una imprese di logistica, titolare di vantaggiosi contratti con Gazprom nell'Artico.
Secondo le prime informazioni, le indagini starebbero per ora attribuendo la morte a una «disputa con soci di affari», dal momento che secondo la vedova il marito si lamentava di gente che lo stava truffando. Ma le telecamere di sicurezza non mostrano nelle ore precedenti né visite, né intrusi.
Il 20 gennaio fu il manager di Gazprom Leonid Shulman a essere trovato cadavere nella sua casa di campagna nel paese di Leninisky, vicino a San Pietroburgo: ucciso a pugnalate ma vicino a una lettera di suicidio. Nello stesso villaggio il 25 febbraio fu trovato morto nel suo garage Alexander Tyulakov, altro manager di Gazprom. Anche lui, con tracce chiare di pestaggio e una lettera di suicidio. Il 28 febbraio il milionario russo di origine Mikhail Watford fu trovato morto nella sua casa del Surrey, in Inghilterra.
A fine marzo fu trovato morto con la sua famiglia a Nizhny Novgorod Vasily Melnikov, proprietario della impresa di forniture mediche MedStorm. Poiché non c'erano segni di ingressi non autorizzati e si sono trovati sulla scena del crimine coltelli, gli inquirenti pensano a un massacro della famiglia seguito da suicidio.
Il 18 aprile fu trovato morto nel suo appartamento a Mosca l'ex-vicepresidente di Gazprombank, con moglie e figlia. Gli inquirenti parlanop di di crimine per gelosia. Il 19 aprile a Barcellona fu trovato morto Sergey Protosenya, manager del produttore di gas Novatek, parzialmente di Gazprom.
Vicino i cadaveri di moglie e figlia. Ad aprile il milionario nel settore dei cellulari Yevgeny Palant è stato trovato cadavere assieme alla moglie, con tracce di pugnalate. Secondo i media governativi lo ha ucciso la moglie per poi suicidarsi, perché la voleva lasciare. A maggio il 43 miliardario Alexander Subbotin, ex top manager di Lukoil, è stato trovato morto dopo una seduta sciamanica, forse per un infarto dovuto a veleno di rospo. Resta aperta la questione di chi ha commesso i delitti: servizi, criminalità comune (a volte sovrapponibili in Russia) oppure agenti stranieri?
Intanto, sono stati arrestati dall'Fsb con accuse di corruzione, tre generali del ministero degli Interni: Sergei Umnov, capo della polizia di San Pietroburgo fra il 2012 e il 2019, poi nominato da Vladimir Putin come assistente del ministro degli Interni Kolokoltsev; Aleksei Semyonov, a capo dei vigili di San Pietroburgo, e Ivan Abakumov. L'accusa è abuso di potere, per aver acquistato proprietà a spese del Fondo del programma di assistenza per San Pietroburgo e la regione di Leningrado fra il 2016 e il 2020. Umnov a sua volta, nel 2012, aveva usato una inchiesta per corruzione per fare fuori all'allora capo della polizia di San Pietroburgo, Mikhail Sukhodolsky, di cui in seguito prese il posto
Russia, i servizi segreti dell'Fsb arrestano tre generali. Il nome eccellente nelle purghe di Vladimir Putin. Il Tempo il 06 luglio 2022
Sono stati arrestati dall’Fsb in Russia, con accuse di corruzione, tre generali del ministero degli Interni. Si tratta di Sergei Umnov, capo della polizia di San Pietroburgo fra il 2012 e il 2019, poi nominato da Vladimir Putin come assistente del ministro degli Interni Kolokoltsev, Aleksei Semyonov, a capo dei vigili di San Pietroburgo, e Ivan Abakumov. Sono state effettuate perquisizioni nelle loro abitazioni.
L’accusa è quella di abuso di potere per aver acquistato proprietà a spese del Fondo del programma di assistenza per San Pietroburgo e la regione di Leningrado fra il 2016 e il 2020. Il comitato investigativo avrebbe aperto una inchiesta nel luglio del 2020. Umnov a sua volta, nel 2012, aveva usato una inchiesta per corruzione per fare fuori all’allora capo della polizia di San Pietroburgo, Mikhail Sukhodolsky, di cui in seguito prese il posto. Continuano gli arresti di figure di spicco in Russia dall’inizio della guerra.
Russia, ora Putin arresta anche i moderati: in carcere l’ex collaboratore dello Zar e la star dell’hockey. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 6 luglio 2022.
Nel mirino chi resta in silenzio e ha legami con l’Occidente: non c’è più spazio per una «area grigia». Molti per sfuggire alle purghe vanno «in vacanza»
«Attualmente sono in vacanza all’estero». Era due settimane fa, e così parlava al telefono Vladimir Ryzhkov, deputato della Duma di Mosca, esponente dell’opposizione liberale a Vladimir Putin. Negli ultimi tempi, sono in molti a essere andati in vacanza, chiamiamola così. Anche perché l’alternativa è il soggiorno nelle patrie galere. Con una cadenza quotidiana da stillicidio, gli arresti eccellenti del Cremlino sono ripresi all’improvviso. Forse è improprio definirla un’onda, come fu all’inizio della cosiddetta Operazione militare speciale, quando attivisti, studenti e storici leader della contestazione vennero privati della libertà a migliaia. Quella fu la prima e più importante operazione di azzeramento di ogni voce contraria.
Adesso restano gli altri, gli oppositori moderati, quelli che in qualche modo restavano silenti e dentro il sistema. Vladimir Mau, rettore dell’Università di Economia a Mosca, non è certo un barricadiero. Fino a pochi giorni fa figurava anche nel consiglio di amministrazione di Gazprom. Uno studioso molto attivo ai tempi di Boris Eltsin, consigliere di Egor Gajdar, l’autore della riforma economica liberale che sancì il passaggio del modello sovietico al capitalismo. Nei primi anni di Putin, fu anche il direttore del Centro di riforme economiche presso il governo. Lo scorso marzo, aveva firmato e promosso un appello di trecento accademici russi che definiva «una decisione necessaria e opportuna» l’attacco a Kiev.
Ma questo, oltre a rapporti ancora buoni con il Cremlino, non gli è bastato per evitare la resa dei conti che sempre avviene tra pezzi diversi di Stato durante i periodi di guerra. Gli attacchi agli economisti liberali da parte degli statalisti «patrioti», che nel nome di un fanatismo ormai diffuso additano al pubblico ludibrio persone come lui e come Aleksej Kudrin, oggi capo della Corte dei conti, ma non si sa ancora per quanto, sono diventati sempre più frequenti. Mau è stato arrestato per via dell’ormai consueta accusa di corruzione, ormai la leva ufficiale che giustifica la caduta di persone in vista di un certo spessore.
In rapida sequenza, è poi toccata la stessa sorte al fisico Dmitry Kolker, riformista «orgoglio della Russia» che nel 2012 aveva ricevuto questa speciale onorificenza da Putin in persona. Era malato terminale di tumore, ricoverato in terapia intensiva. Lo hanno preso lo stesso. È morto pochi giorni fa, sotto custodia cautelare.
Sono finiti in carcere gli avvocati siberiani che avevano firmato un appello non per condannare la guerra, ma per chiederne una tregua temporanea. È finito in carcere Ivan Fedotov, una stella venticinquenne dell’hockey. All’inizio di febbraio era stato salutato come un eroe, insieme ai suoi compagni di squadra della nazionale russa che avevano vinto la medaglia d’argento alle Olimpiadi invernali di Pechino. È stato dichiarato renitente al servizio di leva, ma la sua vera colpa è di aver scelto di esercitare la sua professione negli odiati Usa, firmando un contratto con i Philadelphia Flyers.
Il filo comune che lega queste persone così diverse tra loro è il loro essere legati all’Occidente, ognuno a modo suo. Con una scelta di vita, con la propria storia culturale e le proprie convinzioni. E ormai non c’è più spazio per quella che il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha definito una «area grigia». Quelli che possono, si eclissano, consapevoli del fatto che le sue vacanze dureranno a lungo. Chi resta, come il settantunenne Dmitry Gozman, uno dei pochi commentatori vagamente non allineati ancora in circolazione, «vive come se ogni giorno potesse essere l’ultimo». Perché sa di rappresentare qualcosa che oggi non ha diritto di cittadinanza oggi in Russia.
Matteo Basile per “il Giornale” il 3 luglio 2022.
Non ci sono status che tengano. Nemmeno essere uno sportivo di successo basta per essere al sicuro. Se vivi in Russia la longa manus del regime ti può raggiungere comunque, al primo passo falso, reale, presunto o pretestuoso che sia. E così la stella dell'hockey su ghiaccio Ivan Fedotov rischia grosso, addirittura di finire a combattere in Ucraina. La sua colpa?
L'aver firmato un contratto con i Philadelphia Flyers della National Hockey League americana gli è costata l'accusa di diserzione per essersi sottratto al servizio militare perché tesserato per la squadra dell'esercito.
Fedotov non è un Carneade dello sport, tutt' altro. Il 25enne è il portiere del Cska Mosca campione di Russia, e della nazionale. Le sue prestazioni hanno attirato l'interesse della ricca e prestigiosa lega americana con tanto di contratto firmato mesi fa. Ma il matrimonio non s' ha da fare perché per il Cremlino Ivan è formalmente un militare. Il Cska è di fatto la squadra dell'esercito russo e ogni suo tesserato deve rispettare obblighi particolari. E quindi niente espatrio.
Anzi, la polizia, su ordine dell'ufficio militare, ha dato il via a una vera e propria caccia all'uomo e il giocatore è stato arrestato a San Pietroburgo. Dopo diverse ore passate all'ufficio di registrazione e arruolamento militare, è stato ricoverato in ospedale probabilmente a causa di un malore.
Al di là delle minacce e delle sicure pressioni subite, quasi certamente Fedotov riuscirà ad evitare la partenza per il fronte ma il suo sogno di giocare negli Stati Uniti si è interrotto ancora prima di cominciare. Per risolvere il contratto che lo lega al Cska infatti servirebbe una dispensa speciale che, naturalmente, non gli è stata e non gli sarà concessa.
A due giorni dall'inizio del processo nei confronti di Brittney Griner, stella basket Usa arrestata in Russia con l'accusa di spaccio di stupefacenti perché trovata in possesso di uno spray alla cannabis (e in detenzione preventiva da febbraio), un altro episodio che alimenta la crisi diplomatica tra Stati Uniti e Russia. Come se la tensione non fosse già a livelli massimi.
Se per la Griner si sono mosse le alte sfere della diplomazia e si ipotizza un possibile scambio di prigionieri con un trafficante d'armi russo, per Fedotov si sta muovendo la National Hockey League, soprattutto per tutelare gli altri atleti russi che giocano in America. La Lega Hockey ha raccomandato a tutti di non far ritorno in patria per evitare rischi. E non si tratta solo di ragioni economiche, con contratti da decine di milioni di dollari che ballano. Quanto accaduto a Fedotov dimostra che nella Russia di Putin nessuno, nemmeno un campione, può davvero sentirsi al sicuro.
L’arci-putinista Patrushev, il «clown» Medvedev e gli altri. Chi conta davvero a Mosca? Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.
Il giornale del Nobel Muratov, Novaja Gazeta, ha fatto il «borsino» del cerchio magico dello Zar, tra falchi col meglio alle spalle e opachi personaggi considerati ridicoli anche in Madrepatria.
Quasi tutti gli uomini del presidente. E quanto pesano, soprattutto. Sono mesi in cui per forza di cose gli esercizi di Cremlinologia sono diventati un sottogenere giornalistico, con annesse previsioni sul nuovo Zar nell’improbabile caso di abbandono, o peggio, da parte di Vladimir Putin. Novaya Gazeta, il quotidiano diretto dal premio Nobel Dmitry Muratov , ha fatto una operazione diversa. Sulla sua edizione online, l’unica ormai possibile, ha affidato ad alcuni politologi la valutazione sulla effettiva rilevanza dei personaggi che più di tutti recitano il ruolo di guerrafondai e nemici dell’Occidente.
Cominciamo con i due cattivi mediatici per eccellenza, Ramzan Kadyrov e Dmitry Medvedev , i due uomini che ogni mattina danno il buongiorno al creato con parole sempre più aggressive contro «i nemici della Russia». Il leader ceceno si è accreditato con i consueti toni sguaiati come il cattivo tenente di Putin. Ma è innegabile come la guerra in Ucraina gli stia dando la possibilità di uscire dal cono d’ombra del leader regionale e di ritagliarsi un ruolo importante a livello federale. Non ha alcuna possibilità di sostituirlo, ma almeno è diventato un interlocutore del presidente. Quella dell’ex delfino dello Zar è invece una parabola opposta. La tribuna degli esperti di Novaya Gazeta è concorde su Medvedev. Un grande avvenire dietro le spalle, e un presente gramo. «La sua figura ormai non appartiene più alla politica, è diventato una specie di clown dei media» dice ad esempio l’analista Nikolay Petrov.
Andiamo oltre. C’è un metodo, nelle dichiarazioni fuori misura di Andrey Turchak . Secondo Fyodor Krasheninnikov, giornalista e analista politico ben addentro alle dinamiche della verticale del potere russo, per il segretario generale di Russia Unita la guerra rappresenta la possibilità di scalare le gerarchie, per avere finalmente un posto al sole, ben diverso da quello di capo di un partito personale senza alcuna vera struttura. Lo speaker della Duma Vyacheslav Volodin era conosciuto fino a pochi anni fa come un moderato di centro. Dal 2018 in poi, dopo alcune accuse di corruzione, ha promosso leggi contro le comunità Lgbt, riciclandosi in falco. Da ricordare, tra le tante, la proposta di licenziare dal pubblico impiego chi solleva obiezioni sull’Operazione militare speciale. Ma rendersi visibile non lo rende certo più influente. In Russia conta poco. Anche per lui, il meglio è passato. Fino al 2016 dirigeva lo staff presidenziale, ruolo in cui gli è subentrato Sergey Kiriyenko , che oggi gestisce l’occupazione del Donbass. Sogna di prendere il posto di Putin, ma a Mosca viene considerato un tecnocrate di poco carisma, incapace di parlare in pubblico.
Al vicepremier Marat Khushullin è stata affidata la ricostruzione e la gestione delle regioni di Kherson, Zaporiziya e della nuova repubblica di Lugansk. Al contrario di quel che si crede, e lo stesso vale per Kiriyenko, non si tratta di una promozione. «Loro due, e in generale ogni persona chiamata a svolgere pubblica attività in quell’area, si sono macchiati di molti più crimini di quelli che sparano soltanto sui social» dice Krasheninnikov. Anche per questo non hanno un futuro, e possono solo sperare che Putin duri più a lungo possibile. Sergey Mironov figura in questo elenco solo per ragioni interne. Il capo di Russia giusta, partito alleato di Putin, famoso per la sua prudenza e per avere svolto la funzione del finto oppositore, è per il mercato interno quel che rappresenta Medvedev all’estero. «Non capisce che così si rende ridicolo e inaffidabile» taglia corto Novaya Gazeta.
Ultimo viene il più importante. Nikolay Patrushev crede in quello che dice. È il Putinista assoluto. A differenza degli altri, era un oscurantista convinto ancora prima che lo divenisse il suo leader. L’ex direttore dei Servizi segreti è il capo indiscusso del Consiglio di sicurezza, ben sopra Medvedev che nominalmente gli starebbe sopra. «Il conflitto con l’Occidente e il crescente isolamento di Putin hanno accresciuto il suo potere a livello esponenziale». Patrushev è l’uomo che filtra le informazioni dirette al suo leader. Ma anche il secondo uomo più potente di Russia ha un problema. I suoi 70 anni, uno in più di Putin. L’erede al trono ancora non si trova. E se per caso esiste un successore designato, si muove nell’ombra.
(ANSA il 28 giugno 2022) - Ilya Yashin, uno dei principali oppositori russi, è stato fermato ieri sera mentre si trovava in un parco del centro di Mosca assieme alla giornalista Irina Babloyan: lo riferisce il Moscow Times citando la reporter. Babloyan ha poi dichiarato di aver saputo che Yashin è stato accusato di disobbedienza alla polizia, motivo per il quale rischia fino a 15 giorni di reclusione.
Le accuse rivolte a Yashin sono ovviamente ritenute di matrice politica. Vadim Prokhorov, avvocato del dissidente, ha dichiarato che non gli è stato consentito di vedere il suo assistito in commissariato. Yashin, 38 anni, ha condannato l'invasione dell'Ucraina ordinata da Putin ed è tra le poche figure di spicco dell'opposizione a non aver lasciato la Russia. Il governo russo sta inasprendo sempre più la censura e la repressione del dissenso.
A marzo in Russia è pure entrata in vigore una "legge bavaglio" che prevede fino a 15 anni di reclusione per la diffusione di informazioni sulle forze armate che dovessero essere ritenute "false" dalle autorità russe.
(ANSA il 28 giugno 2022) - Il tribunale distrettuale Khamovnichesky di Mosca ha condannato Ilya Yashin, uno dei principali oppositori russi, a 15 giorni di arresto: lo riferisce Novaya Gazeta Europa citando il canale Telegram di Yashin.
Il dissidente è accusato di "disobbedienza alla polizia" ma le accuse nei suoi confronti sono ritenute di matrice politica. Il governo russo sta inasprendo sempre più la repressione del dissenso. A marzo in Russia è pure entrata in vigore una legge che prevede fino a 15 anni di reclusione per la diffusione di informazioni sull'esercito che dovessero essere ritenute "false" dalle autorità russe.
Secondo Yashin - ripreso sempre da Novaya Gazeta Europa - un poliziotto lo accusa di avergli afferrato l'uniforme e di averlo insultato e spintonato. Ma l'oppositore assicura che era seduto su una panchina in un parco di Mosca assieme alla giornalista Irina Babloyan quando tre agenti di polizia gli sono corsi incontro e "lo hanno portato silenziosamente a un'auto con la lettera Z sul parabrezza". Yashin, 38 anni, ha condannato l'invasione dell'Ucraina ordinata da Putin ed è tra le poche figure di spicco dell'opposizione a non aver lasciato la Russia.
Da liberoquotidiano.it il 23 giugno 2022.
Stare vicino a Vladimir Putin diventa ogni giorno che passa sempre di più un pericoloso. Lo sa bene Vadim Zimin, colonnello trovato moribondo nella sua casa vicino alla capitale russa. Il 53enne aveva il compito di trasportare la valigetta contenente i codici per attivare le armi nucleari. L'ultima volta era stato visto in pubblico ai funerali di Zhirinovsky, fedelissimo di Putin.
Zimin è ora ricoverato in gravi condizioni in terapia intensiva, lotta tra la vita e la morte dopo essere stato ferito a colpi di arma da fuoco. L'uomo, appartenente al Servizio di sicurezza federale, era stato incaricato di custodire la valigetta che il leader del Cremlino porta sempre con sé, contenente i comandi per azionare i missili atomici. Zimin è conosciuto anche per essere stato uno dei più stretti collaboratori dell'ex presidente Boris Eltsin. Dopo questo incarico è arrivato al ruolo di colonnello sotto Vladimir Putin, anche se la sua funzione non è del tutto chiara.
Dopo essere stato trovato morente nella sua cucina a Krasnogorsk, il fratello che si trovava in bagno al momento della sparatoria, l'ha soccorso raccogliendolo da una pozza di sangue. Era assente invece la moglie, un medico impegnato a salvare i feriti di guerra in Ucraina. Secondo quanto riportano le indagini, Zimin stava indagando su un presunto caso di corruzione dopo essersi unito al servizio doganale di un ruolo di alto livello.
Paolo Valentino per corriere.it il 17 giugno 2022.
Era la «poster girl» di Vladimir Putin, un’icona pop con oltre 200 mila follower su Instagram. Nel 2014, lei di nazionalità ucraina, aveva appoggiato l’annessione russa della Crimea, diventando una nemica agli occhi dei suoi connazionali, inserita nella lista dei ricercati del suo ex Paese e sanzionata dall’Unione europea.
Ora però Natalia Poklonskaja , 41 anni, giurista, ex deputata del partito di governo al Parlamento della Russia, ha osato criticare l’operazione militare dello Zar. E d’un tratto, è diventata la donna che ha tradito due volte. La guerra, quella che per l’Ucraina è iniziata otto anni fa, le ha cambiato la vita, segnandone l’ascesa e adesso la caduta.
Aveva appena 33 anni, Poklonskaja, quando gli «omini verdi» di Putin occuparono la Crimea. Faceva il sostituto procuratore al servizio dello Stato ucraino. Ma si schierò subito dalla parte della Russia e venne premiata: divenne Procuratrice generale del governo provvisorio della penisola.
Giovane, fotogenica, entusiasta, fu uno dei successi più importanti della propaganda russa. Popolarissima sui social network, diventò perfino una figura di culto del popolo dei Manga in Giappone, a causa della sua somiglianza con uno dei personaggi della serie di videogiochi Phoenix Wright: Ace Attorney. Ed era solo l’inizio.
Due anni dopo, infatti, Poklonskaja venne eletta alla Duma nelle liste di Russia Unita. Non si ripresentò nel 2021, quando però venne nominata vicepresidente di Rossotrudnichestvo, l’Autorità statale che rappresenta gli interessi della Russia nelle ex Repubbliche Sovietiche. È stata anche ambasciatrice russa a Capo Verde.
Ora però la sua carriera è finita. Nei giorni scorsi Putin l’ha infatti sollevata dal suo incarico, ufficialmente su sua richiesta. Lei ha ringraziato «per la fiducia e l’appoggio» avuto in questi anni. In futuro sarà semplice consulente della Procura generale, un posto che equivale all’emarginazione. La decisione di ridimensionarla era nell’aria da mesi, da quando, subito dopo il 24 febbraio, Poklonskaja aveva osato definire «una catastrofe» l’invasione dell’Ucraina.
In una lunga intervista rilasciata a un popolare canale di You Tube, la giurista si era scagliata contro la lettera Z, diventata simbolo del sostegno dei russi alla guerra, che lei ha definito invece «simbolo di tragedia e dolore per la Russia e l’Ucraina». «Le persone muoiono, case e intere città vengono distrutte costringendo milioni di persone a fuggire. I corpi e le anime sono mutilati. Il mio cuore scoppia di dolore. I miei due Paesi si stanno uccidendo, non è questo che volevo e che voglio».
Poklonskaja ha ancora giustificato l’annessione della Crimea, ma ha lanciato un appello ai due popoli: «Vi prego, smettetela di combattere. Siamo andati troppo lontano ed è tempo di farci coraggio da soli per il futuro, invece di lasciarlo nelle mani di chi è armato». Già al momento dell’intervista, Rossotrudnichestvo aveva annunciato che ci sarebbero state «conseguenze».
Ma in realtà, era da qualche anno che Poklonskaja aveva attirato su di sé sospetti, polemiche e accuse di essere incontrollabile. Nel 2018, al tempo delle proteste di piazza contro l’aumento dell’età pensionistica deciso dal Cremlino, fu l’unica deputata del partito di maggioranza a votare contro la legge.
Si aprì una discussione interna sulla sua espulsione, ma non successe nulla. Più curiosità che altro suscitò invece la sua fallita campagna per far vietare «Mathilda», il film che racconta la storia d’amore dello Zar Nicola II, l’ultimo dei Romanov, con una ballerina. Poklonskaja si scagliò contro la pellicola definendola «un’opera di parassiti».
Il capo di Sberbank che smentisce Putin in diretta: «Dieci anni per riprenderci dalle sanzioni». Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 18 giugno 2022.
Sberbank è la principale banca russa, non propriamente una voce marginale al Cremlino e dintorni. E proprio l’amministratore delegato di Sberbank , German Gref, si è sentito in dovere di avvertire che occorreranno dieci anni prima che l’economia di Mosca possa tornare sui livelli precedenti alle sanzioni introdotte dall’Occidente. Una smentita in diretta di quanto affermato da Vladimir Putin, sicuro che l’«embargo» sta avendo effetti molto limitati sull’economia del Paese, perché Gref ha parlato dalla medesima tribuna di San Pietroburgo dove lo «zar» si era poco prima lanciato in un discorso incendiario contro Europa e Usa.
Il ceo di Sberbank - citato dall’agenzia Reuters - ha chiarito che i Paesi che hanno colpito la Russia con le sanzioni rappresentano «il 56% delle sue esportazioni e il 51% delle sue importazioni». «La maggior parte dell’economia russa è sotto tiro» ha proseguito. «Di conseguenza e se non facciamo nulla potrebbe essere necessario circa un decennio per riportare l’economia ai livelli del 2021» ha affermato Gref, chiedendo una riforma strutturale dell’economia russa. Stessi concetti che il 18 aprile scorso aveva già tracciato Elvira Nabiullina, a capo della Banca centrale russa, secondo la quale le restrizioni stanno colpendo duramente le imprese e le famiglie russe.
Secondo Gref, le spedizioni di merci sono diminuite di sei volte mentre anche il trasporto via mare e per via aerea è stato ostacolato poiché le sanzioni hanno impedito alle compagnie aeree russe di volare in direzione ovest e alle navi battenti bandiera russa è stato vietato l’ingresso nei porti dell’Ue. Le sanzioni alle banche russe hanno in gran parte frenato le transazioni finanziarie con controparti estere, mentre alla Russia è anche impedito di ricevere apparecchiature e parti essenziali per le sue industrie automobilistiche, energetiche e aeree.
Sberbank nel 2020 ha avuto un fatturato superiore ai 47 miliardi di dollari. In quanto maggiore soggetto finanziario non è stato risparmiato dalle sanzioni e nel marzo scorso è stata distaccata dal sistema di scambi internazionali Swift. In pratica le aziende russe non possono più appoggiarsi a Sberbank per le loro transazioni internazionali. Il peso finanziario del gruppo rende ancor più significative le parole pronunciate dal suo numero uno alla presenza di Vladimir Putin.
Le parole di German Gref trovano conferma anche nelle previsioni formulate pochi giorni fa dalla Banca Mondiale nel suo ultimo «Global economic prospect», in pratica il report in cui vengono messe a punto le previsioni di sviluppo per ogni Paese o area economica del pianeta. La Banca mondiale assegna agli Stati Uniti una crescita a fine 2022 del 2,6, all’area Euro e al Giappone del 2,5 ma un calo dell’8,6 per il pil della Russia. Il dato peggiore dell’intera economia mondiale.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2022.
«L'esercito russo sta combattendo i nazisti. L'Operazione militare speciale sarebbe già vittoriosamente terminata se i nemici uncinati facessero esplodere case e ospedali insieme a donne e bambini per dare la colpa alle nostre truppe e non perdere così il flusso di denaro e di armi che arriva dall'Occidente. A proposito, non siamo noi ad avere aggredito l'Ucraina. Siamo stati costretti ad agire in modo preventivo perché tutti sanno che Kiev stava preparando una bomba atomica per lanciarla contro Mosca, mentre nei laboratori segreti in Ucraina gli americani stavano creando varianti di Coronavirus da guerra che colpiscono solo i russi e vengono diffusi da uccelli migratori».
Se davvero lo arrestano, buttano via la chiave. Dallo scorso 7 giugno Dmitry Glukhovsky, lo scrittore più venduto in Russia negli ultimi dieci anni, autore popolarissimo tra gli adolescenti per via di una saga post apocalittica dalla quale è stato tratto un videogame di grande successo, è inseguito da un mandato di cattura. In base alla legge sulla censura approvata a marzo, è accusato di avere gettato discredito sull'Armata russa, reato punibile con una pena variabile tra i dieci e i quindici anni di reclusione.
«Come si può credere a un delirio che travisa completamente la realtà scambiando il nero con il bianco, l'aggressore con l'aggredito? Eppure, proprio questa è la posizione ufficiale della Russia. E in molti ci credono». Anche in Italia, ma questo è un altro discorso. Quello che riguarda il quarantaduenne moscovita diventato celebre con Metro 2033 , romanzo tradotto in 35 lingue che racconta le vite di pochi sopravvissuti alla Terza guerra mondiale che hanno trovato rifugio nel più grande bunker antiatomico del mondo, la metropolitana di Mosca, è più complesso.
«Gli ideologi e gli esperti in pubbliche relazioni di Putin hanno deciso di trasformare il sacrificio di milioni di russi durante la Grande Guerra Patriottica in un fonte battesimale della propria legittimazione, raffigurando il presidente e il suo entourage come eredi dei vincitori». Con i post caustici che scriveva dall'estero sui suoi social, non era questione di se, ma di quando sarebbe stato incriminato.
Eppure, finora non era successo. Erano stati colpiti singoli cittadini, dissidenti, giornalisti come l'esperto di servizi segreti Andrey Soldatov, ma nessun personaggio celebre del mondo culturale russo, che ancora conserva una sua sacralità.
«I russi in maggioranza sono perfettamente inermi e impotenti davanti allo Stato che inculca loro una coscienza di pedissequa fedeltà al posto di quella civica. Viene insinuato nei cittadini lo sciovinismo imperiale facendolo passare per patriottismo». Glukhovsky, che in patria è venerato dai fan della sua serie, dopo Metro 2033 è arrivato 2034 e 2035, oltre ad altri romanzi distopici, è il primo. «Sono pronto a ripetere ogni cosa che ho detto» ha scritto sul suo canale Telegram, dando per primo la notizia dell'incriminazione, confermata poi dal ministero dell'Interno. «Fermate la guerra. Abbiate il coraggio di ammettere che è un attacco a un'intera nazione di fratelli, e fatela finita».
La sua vicenda è rivelatrice di un cambio di passo delle autorità. E segna l'inizio di una nuova fase. «Putin intimoriva i politici, adesso lo fa con gli scrittori», ha dichiarato su Twitter Lyubov Sobol, amica e alleata del dissidente numero uno Aleksej Navalny, che sta scontando una condanna a nove anni di carcere «per frode e insulti». Ma forse la cosa più realista l'ha scritta in un post collettivo la squadra di Andrej Pivovarov, un altro attivista incarcerato. «Adesso la macchina della censura e della repressione passerà sopra tutto e tutti».
Da “la Stampa” il 9 giugno 2022.
In Russia, dopo l'invasione dell'Ucraina, non si sentiva più al sicuro. E così Pinchas Goldschmidt, rabbino capo di Mosca, ha scelto di lasciare il Paeseassieme alla moglie Dara e di rifugiarsi prima per qualche giorno in Ungheria e poi in Israele. È stata la nuora, Avital Chizhik-Goldschmidt, a rivelarne le ragioni con un post accorato su Twitter.
«Posso finalmente rendere noto a tutti che i miei suoceri sono stati messi sotto pressione dalle autorità per sostenere pubblicamente l'operazione speciale in Ucraina e si sono rifiutati di farlo», ha scritto sul suo account Avital, che fa la giornalista a New York, spiegando che «sono fuggiti in Ungheria due settimane dopo l'invasione russa e ora sono in esilio dalla comunità che hanno amato e costruito e in cui hanno cresciuto i loro figli per oltre 33 anni».
Ma sulle ragioni della fuga, nella comunità rabbinica russa, c'è chi avanza dubbi o, comunque, si pone qualche interrogativo. Goldschmidt ha rifiutato di commentare la sua partenza o di rispondere a domande su un suo eventuale ritorno a Mosca, dove ieri è stato rieletto a capo della Sinagoga Corale.
Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2022.
Aveva capito subito. E due settimane dopo l'invasione, silenzioso, aveva fatto le valigie. Via da Mosca. Dopo 33 anni, e prima che arrivasse il peggio. Il rabbino capo Pinchas Goldschmidt non ha preso aerei, se n'è andato in macchina.
Destinazione Ungheria e altre capitali dell'Est Europa, dove per settimane ha aiutato i profughi ucraini. Infine, Gerusalemme. Per quasi tre mesi, la più alta autorità della comunità ebraica russa è riuscita a tenere la notizia nascosta.
Ora che è al sicuro, lo può rivelare dagli Stati Uniti la nuora Avital con un tweet: Pinchas e sua moglie, Dara, «sono in esilio dalla comunità che hanno ama-o e in cui hanno cresciuto i loro figli. Il dolore e la paura della nostra fami-glia, negli ultimi mesi, è al di là delle parole». 2022, fuga da Mosca. Troppe le pressioni da Putin, e da troppo tempo: Pinchas, passaporto anche svizzero, era nel mirino da anni per le sue opinioni e già nel 2005 era intervenuto Peres, allora vicepremier, per chiedere di non limitarne le libertà. Con la guerra, troppi i controlli dell'Fsb, le telefonate mute, le minacce.
Anche perché il rabbino, altro che «denazificazione», aveva denunciato come «questa guerra di Putin stia portando a un grande esodo d'ebrei». È un dato: più della metà della comunità ebraica ucraina, fino a 400 mila persone, è scappata in Polonia, in Romania, in Moldavia, nei Paesi baltici, in Israele, in America. Gli ebrei di Kiev portano sulle spalle una delle pesanti memorie legate alla Shoah: le bombe hanno sfiorato anche il monumento alle 33 mila vittime di Babin Yar, luogo d'uno dei peggiori massa-cri nazisti. E i russi hanno colpito pure le sinagoghe a Kharkiv e a Mariupol. Anche gran parte della comunità russa sta pensando d'imitare gli ucraini: fiutando l'aria grama, molti se ne stanno andando.
Rosalba Castelletti per “la Repubblica” il 6 giugno 2022.
Pur di smentire i giornali che lo davano in fuga dalla Russia, l'oppositore settantenne Grigorij Javlinskij ha citato il leggendario cantautore sovietico Vladimir Vysotskij: «Non preoccuparti, non me ne sono andato. E non sperare, non me ne andrò!», ha scritto su Telegram. Il tre volte candidato - sconfitto - alle presidenziali e fondatore del partito liberale Jabloko (Mela), non rappresentato in Parlamento dal 2007, era stato visto imbarcarsi lo scorso giovedì su un volo per Londra via Dubai. Il video di lui in coda agli imbarchi in aeroporto ben presto era rimbalzato su vari siti web e canali Telegram finché non è intervenuto il portavoce del partito, Igor Jakovlev, a sostenere che Javlinskij fosse andato in vacanza per due settimane.
Il dubbio resta. Da quando, il 24 febbraio, è cominciata l'offensiva russa in Ucraina, quasi tutti i politici liberali hanno lasciato il Paese. Compresi i leader delle ultime isole dell'opposizione liberale "sistemica", ossia tollerata dalle autorità russe. Con l'inizio della cosiddetta "operazione militare speciale", la musica è cambiata anche per loro. Sono fuggiti dissidenti come l'ottantenne Lev Ponomariov, a capo del Fondo in difesa dei detenuti, promotore della petizione che ha raccolto il numero record di oltre un milione di firme per la pace: dopo la minaccia di un processo legale, è volato in Georgia.
Hanno scelto l'esilio politici di lungo corso come Leonid Gozman, 71 anni, ex copresidente del partito Russia Giusta, oggi a capo del movimento "Unione delle forze di destra", approdato a Berlino. E sono volati via dopo essersi dimessi Anatolij Chubajs e Valentin Jumashev. Nominalmente consiglieri di Putin, benché non contassero più nulla, erano tra gli ultimi reduci del "clan" Eltsin: architetto delle privatizzazioni il primo, avvistato giorni fa con un carrello vuoto in un supermercato di Limassol, a Cipro, genero dell'ex presidente il secondo.
L'ultimo transfuga è Mikhail Kasjanov, il copresidente di Parnas, il Partito della Libertà popolare, che nei giorni scorsi ha ammesso di trovarsi all'estero. «Ma spero non per lungo», ha scritto ad Afp . Kasjanov fu ministro delle Finanze sotto Boris Eltsin dal 1999 al 2000 e premier durante il primo mandato di Vladimir Putin al Cremlino dal 2000 fino all'allontanamento dal governo nel 2004. Tre anni dopo raccolse le firme necessarie a presentare la sua candidatura alle presidenziali del 2008, ma la Commissione elettorale centrale (Cec) la respinse con uno stratagemma consolidato: dichiarò nullo il 13 per cento delle firme. Da allora, Kasjanov è sempre stato sull'altro fronte della barricata rispetto al Cremlino. Nell'inverno 2011-2012 fu tra i principali oratori della cosiddetta "Rivoluzione bianca" in piazza Bolotnaja che chiedeva elezioni più eque. Con tempismo sospetto e nel classico stile dell'uso di sovietica memoria del "kompromat", Ntv diffuse filmati di Kasjanov in intimità con una collaboratrice.
Dal 2015 il 64enne è co-presidente di Parnas, ultimo erede politico dell'era Eltsin nell'era Putin. La storia del partito risale ai primi Anni '90 quando, sull'onda delle riforme democratiche, ex comunisti fondarono la Piattaforma Democratica prima e il Partito Repubblicano poi. Passati all'opposizione con l'ascesa al potere di Putin, i "repubblicani" diedero vita a una coalizione che poi confluì in Parnas, di fatto caduto nell'oblio dopo lo scandalo a sfondo sessuale che travolse Kasjanov. Tollerato sì, ma rappresentato solo a livello locale.
Perlomeno fino a qualche giorno fa quando si è visto revocare fino a settembre la registrazione dal ministero della Giustizia dopo che Kasjanov aveva prospettato una fusione con Open Russia, l'organizzazione "non grata" legata all'ex oligarca in esilio Mikhail Khodorkovskij. «I precedenti accordi con le autorità sulle garanzie personali per ogni liberale sistemico sono stati annullati dalla metamorfosi del Sistema causata dall'operazione», ha commentato il canale Telegram Kaktovottak.
La prossima vittima dell'operazione di pulizia del "campo non sistemico", sostengono gli esperti, potrebbe essere proprio Jabloko, l'ultimo partito di spicco in Russia a non riconoscere il referendum in Crimea e ad aver condannato l'offensiva in Ucraina definendola «una guerra contro il corso oggettivo della storia ». Perciò il viaggio di Javlinskij fa pensare. Per Anatolij Nesmijan, commentatore nazionalista, Javlinskij e Kasjanov hanno colto i segnali: «Il prossimo passo saranno le rappresaglie dimostrative contro i "liberali"» .
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2022.
Adesso ogni ponte con il passato è caduto. Le dimissioni di Valentin Yumashev dall'incarico di consigliere personale di Vladimir Putin rappresentano una notizia piccola e grande al tempo stesso. Il genero di Boris Eltsin non contava nulla. Il suo incarico era una rendita personale, legata ai debiti pregressi dell'attuale presidente russo.
Con la rinuncia dell'ex capo dello staff del Cremlino negli anni '90, si conclude in modo definitivo il lungo addio di Putin alla Famiglia. Al gruppo di parenti e oligarchi che gravitava, e si arricchiva, intorno all'uomo che aveva salvato la Russia dal golpe ma che nei suoi ultimi anni era diventato ormai ricattabile proprio per via della condotta non certo irreprensibile delle persone a lui vicine.
Quando il 9 agosto del 1999 Eltsin nominò primo ministro uno sconosciuto signore stempiato e di poche parole che sembrava un reperto storico dell'ex Urss, in quanto ex funzionario del Kgb, in molti rivendicarono la trovata di aver messo al potere quell'oscuro funzionario che aveva come unico compito quello di garantire al presidente una onorevole ritirata al riparo delle inchieste giudiziarie sulla corruzione, e al suo clan di continuare a gestire il potere. Ma l'unico che ha sempre potuto vantare una primogenitura era Yumashev.
Dopo averne discusso soltanto con Anatolij Chubais, il plenipotenziario economico all'inizio degli anni '90 consegnò le più grandi aziende pubbliche ai privati, creando gli oligarchi, fu lui a convincere il futuro suocero a scegliere Putin come proprio successore. In una rara intervista concessa alla Bbc nel 2019, altri tempi ormai, se ne vantò con discrezione, raccontando come erano andate le cose.
Eltsin aveva una sua rosa di candidati, tra i quali spiccava Boris Nemtsov, il politico liberale che il 27 febbraio 2015 verrà assassinato mentre cammina sul ponte del Cremlino, forse il delitto politico russo più misconosciuto e importante. Ne parlò con Yumashev, l'ex giornalista che insieme alla figlia Tatiana era il suo vero consigliere occulto fin dal 1996, quando diresse una campagna elettorale che sembrava destinata a fallire contro i comunisti di Zyuganov e invece si trasformò in un trionfo grazie ai finanziamenti di quelli che poi sarebbero diventati oligarchi.
«Invece io gli dissi che Putin sarebbe stato perfetto, perché era chiaro che fosse pronto per incarichi importanti». Eltsin annuì. La storia della Russia stava per cambiare. Ben presto, il nuovo presidente deluse le aspettative della Famiglia, costruendosi una squadra di fedelissimi composta da vecchi compagni del Kgb e dagli amici di San Pietroburgo.
Ma Putin ha sempre cercato di onorare il suo debito con Eltsin e con la sua storia personale. Fino alla guerra in Ucraina, che ha dissolto ogni legame. Liudmila Narusova, vedova di Anatolij Sobchak, il sindaco di San Pietroburgo che fu il primo a credere in lui, a inizio marzo si è permessa di denunciare le ingenti perdite tra i soldati di leva mandati al fronte «senza preparazione». A Ekaterinburg, la città di Eltsin, il centro che porta il suo nome, diretto da Tatiana e Valentin Yumashev, ha pubblicato una dichiarazione ufficiale con la quale chiedeva di fermare questo conflitto «fratricida» facendo riferimento al lascito dell'ex presidente.
«Nel 1991, Russia e Ucraina hanno rinunciato all'Urss e imboccato insieme la difficile strada verso la comunità dei paesi civilizzati, verso democrazia e mercato. Ora si trovano su barricate opposte: una sciagura per entrambi i popoli».
Dopo una uscita del genere, nonostante il credito che poteva vantare, era chiaro che Yumashev non sarebbe rimasto al suo posto. E infatti sembra che abbia lasciato il Cremlino già alla fine di marzo. Negli stessi giorni in cui Chubais è fuggito di nascosto dal Paese. Il cerchio si è chiuso. Al Cremlino non resta più nulla della Russia di Eltsin che sognava di aprirsi all'occidente.
Valentin Yumashev, il consigliere di Putin lascia: dimissioni lampo. Cosa c'è dietro questa scelta. Libero Quotidiano il 31 maggio 2022
Vladimir Putin continua a perdere alleati: Valentin Yumashev, genero dell'ex presidente russo Boris Eltsin, ha deciso di lasciare l'incarico di consigliere dello zar. Lo riporta la Reuters. L'addio al Cremlino, in realtà, risale allo scorso aprile, stando a quanto riportato da Lyudmila Telen, primo vicedirettore esecutivo del Boris Eltsin Presidential Center. Una decisione confermata anche da un'altra persona, che però è voluta rimanere anonima.
Yumashev è sposato con la figlia di Eltsin, Tatyana. Prima delle sue dimissioni, era lui a tenere ancora legati l'amministrazione Putin e il governo di Eltsin, caratterizzato da riforme liberali e aperture verso l'Occidente, cosa molto lontana dalle politiche e dalle strategie attuali dello zar. L'ex consigliere, comunque, non aveva mai avuto un ruolo di rilievo nell'amministrazione. Con Eltsin, presidente dal 1991 al 1999, era stato invece capo dell'amministrazione presidenziale.
Il Cremlino, insomma, perde pezzi. Queste, infatti, non sono le prime dimissioni che mettono in allarme il presidente russo. Lo scorso marzo Anatoly Chubais, un'altra figura di spicco dell'era Eltsin, ha lasciato il suo ruolo di inviato speciale del Cremlino. Mentre questo mese un diplomatico della missione russa presso le Nazioni Unite si è dimesso ammettendo di essere contrario alla guerra in Ucraina. Nessun commento sulle dimissioni di Yumashev da parte del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.
Da Ansa il 26 maggio 2022.
"Mio nonno e Kennedy non sarebbero mai arrivati a un'escalation così. E l'Ucraina sarebbe stata salvata". Così Nina Krushcheva, pronipote dell'ex leader sovietico Nikita Kruscev. "Putin è un autocrate, anzi un dittatore ora, e tutti i dittatori soffrono di un malessere simile: sono paranoici, sospettosi, pervasi dall'idea che solo loro sappiano qual è il bene della nazione.
Questo descrive in qualche modo anche Putin", dice in un'intervista a QN, sottolineando che invece "non ci sono prove della sua malattia. Rumors simili in Russia sono circolati per anni". "Non è questione di ambizioni imperialistiche sovietiche", afferma Krushcheva, che vive e insegna negli Usa, e ritiene piuttosto che "gli interessi di Putin affondano nella storia profonda, quando la Russia era davvero una grande potenza imperiale.
Il suo riferimento ideale all'Urss sta nel fatto che durante la Guerra Fredda la Russia era tenuta in grande considerazione e lui vorrebbe lo stesso tipo di rispetto oggi". Sottolinea che "gli obiettivi in Donbass possono già essere spacciati come una 'vittoria'": "Mariupol è sotto il controllo russo, Kherson e le repubbliche auto-proclamatesi di Donetsk e Luhansk sono prossime all'esserlo. Il Cremlino ha impiegato più tempo del previsto, ma ci sta arrivando. La domanda ora è se andrà ancora avanti".
Da ilmessaggero.it il 26 maggio 2022.
L’Italia revoca «per indegnità» l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Stella d’Italia a Mikhail Vladimirovich Mishustin, premier della Federazione Russa e a Denis Manturov, Ministro dell’industria e del commercio.
Lo stabilisce il decreto del 9 maggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (su proposta del ministro degli Esteri Luigi Di Maio), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 25 maggio.
Si tratta delle prime onorificenze revocate a cittadini russi dall’inizio della guerra in Ucraina. Un secondo Decreto firmato da Mattarella - sempre su proposta di Di Maio - revoca «per indegnità» anche l’Onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia a Viktor Leonidovich Evtukhov, Segretario di Stato russo e ad Andrey Leonidovich Kostin, Presidente della Banca russa Vtb.
Chi è Mikhail Vladimirovich Mishustin
È un politico ed economista russo, dal 16 gennaio 2020 Primo ministro della Federazione Russa. Suo padre, nato a Polack, in Bielorussia è di origini ebraiche. Si è laureato nel 1989 all'Istituto meccanico-strumentale di Mosca, specializzandosi in Sistemi di progettazione automatizzata, ed ha ottenuto i titoli di ingegnere sistemista, ingegnere ricercatore e dottore in scienze economiche.
Dopo essere stato assistente dell'Istituto meccanico dal 1989 al 1992, ha lavorato presso l'organizzazione informatica Mezdunarodnyj komp'juternyj klub, e nell'agosto 1998 è stato nominato vicedirettore del Servizio fiscale dello Stato. Dall'anno successivo, con la riorganizzazione della struttura in Ministero, è stato viceministro delle imposte e delle tasse, ricoprendo la carica fino al 2004.
Dal 2004 al 2006 ha diretto l'Agenzia federale del catasto e dal 2007 al 2008 l'Agenzia per la gestione delle zone economiche speciali. Nel 2008 è diventato presidente del gruppo finanziario UFG Invest, e dal 2010 al 2020 è stato direttore del Servizio fiscale federale.
Il 15 gennaio 2020 è stato indicato dal Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin per il ruolo di Primo ministro. Il giorno successivo la nomina è stata formalizzata dal Capo dello Stato dopo l'approvazione da parte della Duma, che ha confermato la candidatura con 383 voti favorevoli, 41 astensioni e nessun voto contrario. La composizione del governo è stata ufficializzata con decreto presidenziale il 21 gennaio 2020.
Fabrizio Dragosei per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2022.
Sono passati solo tre mesi ma la Russia sembra essere piombata in un'altra era geologica. Certo, anche prima dell'Operazione militare speciale in Ucraina iniziata il 24 febbraio c'erano le sanzioni occidentali.
Ma i cambiamenti di queste 15 settimane hanno portato il Paese in una situazione che molti paragonano a quella degli anni più bui della Guerra Fredda. Per ora i negozi sono ancora relativamente ben forniti ma presto buona parte dei prodotti che provengono dall'Occidente non si troveranno più.
E la stessa cosa capiterà nell'industria che già fatica a procurarsi pezzi di ricambio. Inclusa quella estrattiva da cui dipende la sopravvivenza stessa dell'economia russa. Le notizie sono arrivate prima a blocchi, con gli annunci delle restrizioni che scattavano da un giorno all'altro e delle aziende che se ne andavano.
Poi è proseguito uno stillicidio di pessime novità per l'intera nazione e per i singoli consumatori. Niente più collegamenti aerei diretti con il 90 per cento del mondo, niente più Ikea, McDonald's e jeans Levi's. Fine dello shopping compulsivo al Gum, al Crocus Village di Mosca e negli altri centri del lusso dove «tutti» avevano dovuto aprire, da Louis Vuitton a Ferrari e Lamborghini.
Solo per andare a Helsinki oggi ci vogliono ore e ore di treno se non si vuole volare tramite Istanbul o Erevan in Armenia. Non si trovano i bottoni, manca il mastice per le otturazioni dentarie.
Se prima si discuteva della bandiera sotto la quale dovevano sfilare gli atleti russi, ora il problema è risolto drasticamente: fuori tutti da tutti gli sport (o quasi). Anche il campionato di calcio russo cambia faccia. Entro fine giugno se ne andrà buona parte dei giocatori stranieri.
«Back in the Ussr», solo che ai tempi dell'Unione Sovietica a Mosca e Leningrado venivano a giocare anche i fenomeni ucraini. Belanov di Odessa e Blokhin di Kiev, entrambi vincitori del Pallone d'oro, tanto per fare due nomi. Oggi, se pure ci fosse un fenomeno russo, non sarebbe nemmeno preso in considerazione dalla giuria.
Ben più serie le carenze nell'industria. Via tutte le compagnie petrolifere straniere che collaboravano (e fornivano la tecnologia) nello sviluppo dei giacimenti: Shell, Bp, Total. Stop alle ricerche nell'Artico (l'ambiente ringrazia) e a nuovi stabilimenti di liquefazione del gas per poterlo vendere anche senza i gasdotti.
La Russia esporta ancora tanto metano e tanto petrolio (i cinesi fanno affari d'oro comprando l'Urals scontato a 70 dollari il barile) e riceve montagne di valuta. Ma forse questo non durerà, perché i clienti diminuiranno, anche per paura di finire a loro volta sanzionati. E i pozzi non riusciranno a funzionare a regime.
Come pure i voli interni: Aeroflot e gli altri da anni usavano velivoli occidentali. Sta crollando l'import, anche se Putin sostiene che «tutto va bene» e la Russia si sta organizzando per commerciare con nuovi partner: «Espanderemo la cooperazione con i Paesi che sono interessati».
Ma il suo stesso ministero delle Finanze dice che in aprile lo Stato ha incassato il 33% in meno di Iva sulle importazioni. Ogni giorno arriva una brutta notizia per i cittadini ordinari che hanno sempre più difficoltà a trovare lavoro, visto che in migliaia sono a spasso per la chiusura di molte aziende.
Tra breve rimarranno disoccupate anche le donne impegnate nel settore dell'utero in affitto, che in Russia è legale. Una legge appena passata in prima lettura alla Duma vuole proibire agli stranieri di rivolgersi alle russe per questa pratica.
A. Mar. per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2022.
Un grande incendio è scoppiato ieri a sud di Mosca. Il tetto di un edificio industriale di via Kotlyakovskaya ha preso fuoco ed è crollato, ufficialmente senza causare vittime: le fiamme si sono estese per un'area di oltre 300 metri quadrati, una densa nube nera si è alzata nel cielo della capitale russa. Secondo l'emittente Nexta , l'edificio ospitava soltanto un deposito di mobili, ma l'episodio ha attirato l'attenzione a causa della fitta serie di misteriosi incendi che si ripetono da tempo in Russia.
Solo una settimana fa, ad esempio, se ne era sviluppato uno di piccole dimensioni all'Istituto centrale di aeroidrodinamica Zhukovsky, nella regione di Mosca: nulla di grave, ma era il sesto a colpire un luogo di importanza strategica. In precedenza ne era scoppiato un altro al polo industriale di Korolyov, alle porte di Mosca, mentre due avevano colpito a distanza di poco tempo l'Istituto di ricerca per la difesa aerospaziale di Tver, il più danneggiato.
Incendio allo Zhukosvky: perché tanti incidenti in istituti strategici russi? Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 21 Maggio 2022.
Dall’inizio della guerra le fiamme hanno avvolto diversi impianti. Se non è colpa del nemico sono malfunzionamenti imbarazzanti: spesso lo Stato tace.
Solo un altro piccolo incendio. L’ultimo di una serie che comincia a essere lunga. La scorsa mattina, le fiamme che si sono sviluppate in una centralina elettrica dell’Istituto centrale di Aero-idrodinamica Zhukovsky, nella regione di Mosca, si sono estese per appena trenta metri quadrati. Senza fare grandi danni, ma creando una densa una colonna di fumo difficile da ignorare anche per i media della capitale, che infatti sono stati obbligati a darne notizia.
Come al solito, da qui in poi è tutta terra incognita. Qualche media internazionale ha subito evocato l’ennesimo incidente avvenuto in un obiettivo strategico russo, anche se per dovere di cronaca va ricordato come lo Zhukovsky sia ormai una vecchia gloria. Ben lontano dall’essere il principale centro aerospaziale russo, il Centro aperto oltre un secolo fa, che dal 1935 al 1947 portò il nome dell’operaio modello Alexey Stachanov, oggi è un luogo in teoria deputato alla sperimentazione dei prototipi di sommergibile e di aerei, che negli ultimi anni si è dedicato allo sviluppo degli elicotteri ad alta velocità.
Non sarà la Cape Canaveral russa, non sarà stato certo un rogo immane, ma è pur vero che si stratta della sesta volta che un episodio simile accade in luoghi che rivestono una certa importanza strategica, per quanto formale. Il mese scorso era toccato al polo industriale di Korolyov, sempre alle porte di Mosca, che ospita numerosi stabilimenti legati alla produzione di energia e componentistica aerospaziale, tra cui il Centro scientifico russo dedicato allo sviluppo di razzi e veicoli spaziali, e RKK Energija, ovvero la società che si occupa di attività correlate al volo spaziale, e prima ancora si erano verificati altri due incendi all’Istituto di ricerca per la difesa aerospaziale a Tver, il più danneggiato, e un altro quasi in simultanea all’impianto chimico Dmitrievsky di Kineshma, che lavora a stretto contatto con il ministero della Difesa.
E ogni volta, dall’esterno viene attribuita a questi episodi una importanza quasi simbolica. Anche ieri le immagini del rogo sono state mostrate con una certa soddisfazione da diversi canali social ucraini, che le hanno considerate come la prova di una azione di sabotaggio in corso sul territorio russo, teoria adombrata anche da qualche ospite dei soliti talk show di propaganda, che nella loro tendenza a non dare mai alcuna notizia negativa, preferiscono dare la colpa al nemico invisibile piuttosto che riconoscere il malfunzionamento di gangli vitali dello stato russo. Mancherà sempre la controprova, quindi si può dire di tutto. Quel che succede a Belgorod, con le strane esplosioni che si susseguono nella città a soli 39 chilometri dall’Ucraina, rientra nel canone di una guerra segreta di confine a bassa intensità.
Questi invece sono fatti diversi. L’unica volta che è stato tirato per i capelli a commentare uno di questi episodi, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov si era limitato a dire che nessuna ipotesi era esclusa, e tanto bastò per validare le interpretazioni più disparate. Alla fine dello scorso aprile, l’incendio che distrusse l’Istituto di Difesa aerospaziale di Tver venne messo in conto dai media di Stato alle conseguenze dello scandalo che aveva travolto i vertici dell’ente, accusati di assumere «anime morte», persone che lavoravano per finta, allo scopo di intascare stipendi veri. Una truffa da 300 milioni di rubli, quasi 4 milioni di euro, che qualcuno avrebbe voluto spegnere con il fuoco.
La diversità degli eventuali obiettivi, la cui importanza viene spesso amplificata dai media occidentali, rende molto difficile dare credito all’esistenza di uno scenario in stile iraniano, con le centrali nucleari boicottate dagli agenti segreti israeliani fino al punto di far quasi fallire le ambizioni all’uranio di Teheran. Ma è pur vero che le autorità russe si trovano alle prese con un dilemma. O si tratta di sabotaggio, oppure pezzi importanti dello Stato danno segni di estrema vulnerabilità, con una frequenza sempre più intensa e quindi sospetta. In entrambi i casi, si tratterebbe di riconoscere una propria debolezza. Quindi, nel dubbio, meglio tacere.
(ANSA il 23 maggio 2022) -Un consigliere della missione russa alle Nazioni Unite a Ginevra, Boris Bondarev, si è dimesso dal suo incarico per denunciare l'invasione dell'Ucraina. Lo afferma l'ong UN Watch, che ha pubblicato la lettera di congedo del diplomatico.
"Non mi sono mai vergognato così tanto del mio Paese", si legge nel testo, che descrive la guerra di Mosca come "il crimine più grave contro il popolo russo", commesso da parte di un gruppo dirigente "che vuole solo una cosa, cioè restare al potere per sempre"..
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2022.
La vita di Boris Bondarev è cambiata in una notte. Da lunedì scorso il diplomatico in servizio presso la missione russa alle Nazioni Unite a Ginevra ha voltato le spalle al suo Paese, dimettendosi dalla carriera. È il primo alto funzionario della Federazione russa a fare il gran rifiuto, abbandonando il proprio incarico per protesta contro la guerra in Ucraina.
«Non mi sono mai vergognato tanto per il mio Paese come il 24 febbraio», ha dichiarato nella mail inviata ai colleghi del corpo diplomatico, accusando Vladimir Putin di «aver trasformato il Paese in un orrore totale e in una minaccia per il mondo intero».
Da quel momento ogni contatto con la rappresentanza russa all'Onu è stato interrotto. Anche il Cremlino, all'evidenza imbarazzato, ha tenuto un profilo basso: «Possiamo solo dire che il signor Bondarev non è più dei nostri, anzi è contro di noi», ha detto laconico il portavoce Dmitrij Peskov, secondo il quale il diplomatico «si è espresso contro l'opinione dominante del nostro Paese». Bondarev ora ha paura.
«Le mie dichiarazioni sono considerate un crimine in Russia e un procedimento penale è sicuro», ha detto alla Süddeutsche Zeitung , ammettendo di temere per la sicurezza propria, della sua famiglia, di parenti e amici in Russia. Ma più paura di una condanna in contumacia gli fanno i lunghi tentacoli del Cremlino, che negli anni scorsi non ha esitato a colpire dissidenti e oppositori anche all'estero.
Le autorità svizzere lo hanno già messo sotto protezione e il diplomatico sta valutando una richiesta d'asilo alla Federazione elvetica. «Quello che ho fatto, l'ho fatto per la mia coscienza. Volevo muovere qualcosa, essere un'ispirazione per i miei colleghi, per i diplomatici, e altri connazionali, che vivono in Russia e pensano di non poter fare nulla».
Ma che segnale è la spettacolare ribellione di Bondarev? È la punta dell'iceberg di una crescente insoddisfazione verso la politica guerresca di Vladimir Putin? Sta crescendo in Russia, nelle élite prima ancora che nel popolo, un embrione di resistenza al Cremlino?
Critiche pubbliche alla cosiddetta «operazione militare speciale» sono state lanciate sin dall'inizio, soprattutto da chi si è prima messo al sicuro abbandonando il Paese. Fra questi l'oligarca Oleg Tinkov, artisti come la prima ballerina del Bolshoi Olga Smirnova, la giornalista Marina Ovsyannikova, che agitò un cartello contro la guerra e la propaganda in diretta televisiva.
Un dissenso silenzioso ed eloquente è stato quello di Anatolij Chubais, ex vicepremier, controverso protagonista della privatizzazione selvaggia dell'era Eltsin, che ha rimesso il suo incarico di inviato di Putin per il clima, lasciando la Russia, ma senza dire una parola.
Il caso Bondarev segna però un salto di qualità nella resistenza allo Zar. Intanto perché smentisce le sicurezze di Sergeij Lavrov, il ministro degli Esteri, secondo il quale «non ci sono traditori fra i diplomatici».
In realtà, secondo il giornale Kommersant , dall'inizio dell'invasione, decine di diplomatici si sono dimessi dalla carriera, anche se nessuno di loro ha avuto il coraggio di dire che lo ha fatto per protesta contro la guerra. Ma c'è molto di più. Secondo fonti occidentali con buoni contatti nel mondo della diplomazia russa, «oltre cento funzionari sarebbero pronti a ripetere il gesto di Bondarev».
E la cosa preoccupa così tanto il Cremlino, che il segretario del Consiglio di Sicurezza, Nikolaj Patrushev, ha presentato proprio in questi giorni un rapporto a Vladimir Putin, nel quale il ministero guidato da Lavrov viene definito «un castello di carte costruito sulla sabbia». Il rapporto farebbe nomi e cognomi degli oltre cento diplomatici in odore di «tradimento», commentando le situazioni di ognuno di loro.
Il presidente russo sarebbe molto preoccupato della situazione, perché un esodo di massa darebbe all'esterno un «segnale devastante per l'immagine internazionale della Russia», oltre ad avere «conseguenze pesanti anche sull'agenda politica interna».
Il problema è che al momento non ci sono soluzioni facili. Una purga nella diplomazia, come a quanto pare raccomanda Patrushev, rischia infatti di essere controproducente e Putin se ne rende conto. Lavrov al momento non rischia, nonostante chi lo abbia incontrato di recente lo definisca stanco.
Negli ultimi due anni, almeno cinque volte il ministro degli Esteri ha chiesto a Putin il permesso di andarsene, ricevendone sempre dei rifiuti. Probabilmente, il presidente russo pensa che solo lui sia in grado di tenere a bada il corpo diplomatico, ormai integrato nella macchina della propaganda russa. Un compito che il caso Bondarev e quello dei cento diplomatici rendono ora proibitivo.
Secondo il portale di opposizione Meduza , un'ondata di pessimismo attraversa in questa fase l'élite russa, intesa come rappresentanti dell'economia e funzionari governativi, che non si aspettavano sanzioni così vaste e dure da parte dell'Occidente. Secondo questi ambienti, già adesso «non è più possibile vivere normalmente» e la situazione è destinata a peggiorare d'estate. E gli «smutnoe vremya», i tempi dei torbidi non hanno mai portato bene agli Zar.
"Mai vergognato così tanto": si dimette consigliere russo dell'Onu. Alessandro Ferro il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.
Durissima presa di posizione, per la prima volta, di un importante diplomatico russo che si dimette da consigliere della missione russa all'Onu: è Boris Bondarev, che ripudia la politica di Putin e Lavrov. Ecco cosa ha detto.
Anche qualche alto funzionario russo, ogni tanto, si rende conto dei crimini di guerra di Putin riuscendo a dissociarsene pubblicamente. Boris Bondarev, consigliere della missione russa alle Nazioni Unite a Ginevra, ha aperto gli occhi sulla guerra ormai giunta al terzo mese decidendo di dimettersi dal suo incarico. "Non mi sono mai vergognato così tanto del mio Paese", riporta la lettera pubblicata dall'Ong "Un Watch". Bondarev rincara la dose parlando del "crimine più grave contro il popolo russo" commesso da parte di un gruppo dirigente "che vuole solo una cosa, cioè restare al potere per sempre".
"Crimine contro gli ucraini"
Finalmente c'è qualcuno che ha preso una posizione contro il regime: chissà se nella tv russa parleranno della lettera di Bondarev o nessun abitante di Mosca verrà a conoscenza di queste dimissioni ma soprattutto del perché. Si tratta della prima, clamorosa, defezione negli alti ranghi russi, forse il primo vero caso di chi volta le spalle allo Zar perché in completo disaccordo non soltanto dell'invasione ucraina ma anche delle migliaia di vittime civili e delle stragi compiute fino ad oggi. Il consigliere d'ambasciata che fa parte ormai della diplomazia dal 2002, ha definito le azioni del Cremlino "un crimine contro il popolo ucraino e forse il più grave mai commesso verso quello russo".
"Lavrov esempio di degrado"
Abbiamo imparato a conoscerlo bene per le sue sparate contro l'Occidente e in particolar modo gli Stati Uniti ma soprattutto per l'intervista rilasciata a Rete 4: è il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, definito da Bondaer "un eccellente esempio del degrado del sistema" invitando anche altri diplomatici russi alle Nazioni Unite e in tutto il mondo a dimettersi. "Chi ha sferrato questa guerra vuole solo una cosa", si legge nella dichiarazione del consigliere russo, "rimanere al potere per sempre, vivere in palazzi di lusso e senza gusto, navigare su yacht per costi e dimensioni paragonabili all'intera Marina russa, godere di completa impunità". Il diplomatico russo ha poi aggiunto che non si tratta di una missione diplomatica ma "di guerrafondai, bugie e odio", ha scritto nella sua lettera di dimissioni. Lavro farebbe gli "interessi di pochi, pochissimi, contribuendo così a un ulteriore isolamento e degrado del mio Paese". Da qui, l'amara ma lucida considerazione che la Russia non abbia più alleati (o quasi) "e non c'è nessuno da incolpare se non la sua politica sconsiderata e mal concepita", si legge sul DailyBeast.
"Propaganda come negli anni '30"
In quella che più che lettera sembra a ragion veduta un'invettiva, il consigliere Bondarev se la prende con la diplomazia russa che negli ultimi 20 anni ha innalzato il livello di bugie abbassando il livello di professionalità. "Negli anni più recenti, però, questo è diventato semplicemente catastrofico", ha spiegato, prendendosela con i clichè di propaganda dei giornali di regime come fossimo "nello spirito dei giornali sovietici degli anni Trenta". Bondarev è il primo diplomatico straniero di alto livello che prova, in qualche modo, a "salvare" la guerra e la faccia di Mosca concludendo che, nonostante i suoi 20 anni al servizio della Russia, "semplicemente non può più condividere questa ignominia sanguinosa, astuta e assolutamente inutile".
Dagotraduzione dall’Express il 23 maggio 2022.
Durante un concerto che si è svolto a San Pietroburgo, il pubblico si è messo a cantare slogan contro la guerra in Ucraina. Nel filmato del concerto che è circolato in rete si sente una folla di migliaia di russi che cantano «F**k the war» più e più volte.
La provocatoria dimostrazione di opposizione all'«operazione militare speciale» di Putin lascia pensare che la macchina della propaganda russa stia fallendo.
Finora le autorità hanno tentato di mantenere una rigida censura sulle informazioni relative alla guerra, ma proteste e manifestazioni anti-invasione sono scoppiate lo stesso in tutta la nazione.
La televisione statale russa ha trasmesso un'ampia copertura della guerra dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina a febbraio. Il contenuto è strettamente a favore della guerra, e le autorità tentano di utilizzare i media per diffondere affermazioni di propaganda inventate nel tentativo di giustificare l'intervento militare russo.
Secondo i media russi le forze di Putin hanno invaso l'Ucraina nel tentativo di liberare le persone che sono intrappolate sotto il governo politico corrotto e nazista. Ma la nazione democratica dell'Ucraina ha ricevuto un ampio sostegno internazionale dalla NATO nella sua difesa contro gli invasori russi.
È chiaro che i media russi sono altamente controllati: qualsiasi commento che si opponga alla guerra in Ucraina viene censurato o annullato. Mikhail Khodaryonok, giornalista militare russo, ha recentemente rilasciato diverse dichiarazioni controverse sulla performance militare russa in Ucraina alla rete televisiva Russia One. Il signor Khodaryonok ha dichiarato: «La situazione per noi chiaramente peggiorerà».
Ha aggiunto: «Il problema più grande con la nostra situazione militare e politica è che siamo in totale isolamento geopolitico e il mondo intero è contro di noi, anche se non vogliamo ammetterlo».
Per la televisione di stato, le affermazioni dell'esperto militare sono state scioccanti. Khodaryonok ha affermato che la Russia non è riuscita a formare alcuna alleanza internazionale sostanziale durante la guerra e ha avvertito che le prestazioni delle truppe russe erano in declino.
Il giornalista è poi tornato in tv per smentire le sue precedenti dichiarazioni. «Penso che alle nostre forze armate sia stato dato questo obiettivo e che nel prossimo futuro sarà raggiunto».
Finora le autorità russe hanno represso le manifestazioni contro la guerra e arrestato i manifestanti, messo a tacere le obiezioni sull’invasione dell’Ucraina e utilizzato pesantemente la censura. Per questo è difficile accertare se ci sia un vero sostegno alla guerra tra la popolazione. Ma si stima che migliaia di cittadini russi siano fuggiti dal paese dallo scoppio della guerra ed è ampiamente suggerito che ciò è dovuto alla paura del regime di Putin.
“Guerra di m…”, il coro in Russia durante concerto: il video è virale. Redazione su Il Riformista il 22 Maggio 2022.
“Guerra del m…“. E’ il coro lanciato da centinaia di persone durante il concerto in Russia della band rock Kiss Kiss. Sui social il video della protesta contro “l’operazione militare speciale” lanciata dal presidente Vladimir Putin lo scorso 24 febbraio è diventato in poche ore virale. Secondo i media indipendenti locali, il concerto si è svolto venerdì scorso, 20 maggio, nella città di San Pietroburgo.
I Kiss Kiss nelle scorse settimane si sono già schierati contro la guerra anche se, al momento, non hanno commentato il coro partito durante la loro esibizione. A rilanciare il filmato sui social anche Lyubov Sobol, avvocatessa e politica 34enne vicinissima al nemico numero uno di Putin, Alexiei Navalny, che ha ottenuto oltre 1,6 milioni di visualizzazioni su Twitter.
Dopo la protesta, adesso si temono ripercussioni per la band. In Russia vige la censura da inizio marzo e chi diffonde notizie false sull’operazione militare speciale va incontro a pene severe. La settimana scorsa un video della band Ddt nella città di Ufa, negli Urali, è stato largamente condiviso sui social: mostra il cantanteYuri Shevchuk, che grida al pubblico: “Patria, cari amici, non è il c… del presidente che dovete leccare e baciare sempre. E’ quello della povera vecchia che vende le patate alla stazione“. Gli spettatori hanno applaudito con calore il cantante. Si è poi appreso che Shevchuk è indagato con l’accusa di aver screditato le forze armate russe.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 23 maggio 2022.
«Khuy voyne, guerra vaff...»: la platea scandisce in un coro unanime, non si ferma, alza le braccia al ritmo dello slogan. È l'87simo giorno della guerra in Ucraina, e al concerto della punk band femminile Kis-Kis, nel club A2 di Pietroburgo, esplode la protesta più massiccia delle ultime settimane, talmente spontanea e dirompente da rimanere impunita. Impossibile arrestare decine di persone, tutta la sala, e questa sensazione di non essere soli amplifica il coraggio di fare quello che sembrava ormai quasi impensabile.
I concerti rock stanno diventando l'ultimo territorio pubblico ancora libero in una Russia ormai dittatoriale, con la musica ribelle per definizione che riacquista la sua dimensione antisistema che l'aveva fatta nascere negli scantinati di Pietroburgo ed Ekaterinburg negli anni '70. Quando Yuri Shevchuk dice che «la patria non è il culo del presidente, da slinguazzare e baciare tutto il tempo», il suo pubblico di Ufa esplode in un boato di approvazione.
Parole che il Cremlino non poteva tollerare, e il frontman storico dei Ddt è stato incriminato per «discredito delle forze armate», e potrebbe non cavarsela con soltanto la multa: il caso è stato spostato da Ufa a Pietroburgo, per indagare su altre dichiarazioni simili del musicista. Shevchuk si è rifiutato di testimoniare contro se stesso, e ora tutta la Russia attende con ansia il processo: l'arringa dei periti linguistici per dimostrare che la frase «la patria non è il culo del presidente» è falsa sarà assolutamente imperdibile.
La storia ha fatto un cerchio per tornare indietro di 40 anni, e gli eroi del rock clandestino dell'epoca sovietica, considerati da molti ormai dei nonni aggrappati alle tradizioni "impegnate", tornano a combattere il regime. Shevchuk era finito nei guai già nel lontano 1980, per aver scritto "Non sparare", una struggente denuncia della guerra in Afghanistan, che ora suona di nuovo.
Nel 2010, aveva chiesto a Vladimir Putin per quanto avrebbe continuato ad arrestare gli oppositori in piazza (il leader russo reagì con un ipocrita e sprezzante «Mi scusi, come si chiama lei?», cui la leggenda del rock russo rispose con un memorabile «Sono Yura, un musicista»), e non tutte le città della provincia russa osavano ospitare i concerti dei Ddt per paura che suonassero la mitica «Putin gira per la terra, la nostra patria è nella m...».
Ma anche voci meno "politiche" si sono schierate: Boris Grebenshikov, storico guru del rock pietroburghese, ha raccolto 12 milioni di euro per l'Ucraina. Al suo concerto di beneficenza a Londra si è presentata anche Zemfira, la star indiscussa del Duemila: il suo clip "Carne" - «A Mariupol è mezzanotte, volano i missili ad alta precisione, cosa facciamo qui, ce lo chiederemo per tutta la vita» - ha fatto un milione di visualizzazioni su YouTube in tre giorni.
Il movimento contro la guerra ha unito musicisti di diverse generazioni e generi, che hanno sostituito come leader della protesta i politici incarcerati, esiliati o censurati: il rapper Face è stato il primo russo a chiedere pubblicamente scusa agli ucraini, e i concerti di Oxxxymiron a Berlino, Istanbul e Londra hanno disegnato la mappa della nuova emigrazione russa. Un'intera generazione è fuggita in poche settimane, per rendersi conto che il sogno di "Russia, indietro!", il videoclip dei Nogu Svelo dove i militari e i carri alla parata in piazza Rossa, al ritmo di un coro da stadio, camminano a ritroso fino a sparire, è un'utopia, e «bisogna prepararsi a non tornare a casa, forse per vent' anni», scrive Igor Grigoryev, l'ex direttore della rivista Om.
Oltre a raccogliere soldi per gli ucraini, i concerti di Oxxxymiron "Russians against the war" sono stati anche un tentativo di contarsi, e di lanciare un movimento di "russi buoni", quelli che hanno detto no, e che sperano un giorno di cambiare il loro Paese, e ricucire la ferita con l'Ucraina: «Suona impossibile», ha detto dal palco Oxxxymiron, «ma siamo a Berlino, e nel 1941 nessuno avrebbe immaginato un ebreo russo suonare qui musica afroamericana».
Difficile che il regime putiniano possa tollerare questo focolaio di protesta: molti cantanti, del resto, sono già fuggiti dalla Russia e si esibiscono in Europa, mentre chi rimane in patria si scontra con pressioni sempre più pesanti. La band B2 si è vista cancellare un concerto dietro l'altro dopo essersi rifiutata di esibirsi in una sala decorata con la grande Z simbolo del militarismo russo.
Il dilemma della fuga, o del silenzio, è stato riassunto da Diana Arbenina nella straziante "Non tacere": «Sto perdendo me stessa e la mia casa, non so cosa succederà dopo, tutti stanno volando via, siamo un Paese maledetto». Shevchuk sceglie di restare con il suo pubblico, nonostante il rischio del carcere: «Ai nostri concerti vengono migliaia di solitudini, erano tristi nelle loro cucine, qui si incontrano, cantano insieme a noi la pace».
Anna Zafesova per “la Stampa” il 19 maggio 2022.
Le eleganti t-shirt e shopper nere con la scritta "Centro di ripugnante liberalschifo" sono già il trend dell'estate a Ekaterinburg. Nessuno sa chi le produce: il sito It' s My City ha intervistato il loro inventore a condizione dell'anonimato. Ha raccontato di aver inventato il design ascoltando il famigerato propagandista putiniano Vladimir Solovyov, che ha accusato la sua città di essere un covo dei nemici del regime, di "ripugnante liberalschifo": "Prima ho riso, poi ho capito che volevo una maglietta con quella frase". Chiedere aiuto alla sorella creativa, e mettere in rete il design perché chiunque se lo possa scaricare e riprodurre è stata questione di poche ore.
Ekaterinburg, Ekat, come lo chiamano i suoi abitanti più giovani, ha i riflessi rapidi: la città si è già riempita di adesivi rossi con la frase del propagandista, esibiti su finestre e grondaie a metà tra scherno e orgoglio.
La capitale degli Urali ha indossato l'accusa di Solovyov quasi come un complimento.
Del resto, è qui che tuttora scendono in piazza contro la guerra più persone che in qualunque altra città russa (tranne le due capitali Mosca e Pietroburgo): in tre mesi, gli arrestati sono decine, di ogni genere ed età, dalla giovane madre Nadezhda Saifutdinova, che ha fatto ricorso a una protesta estrema come quella di cucirsi la bocca per rappresentare la censura, alle due ottantenni Galina Bastrykina e Svetlana Moleva, fermate dalla polizia per cartelli che inneggiano alla pace e alla libertà di espressione.
È a Ekat che gira tuttora miracolosamente a piede libero Evgeniy Roizman, l'unico sindaco indipendente eletto da una grande metropoli russa nel ventennio putiniano: l'ex primo cittadino appoggia apertamente Alexey Navalny e denuncia la guerra con il linguaggio irriverente che lo ha reso famoso. È nel capoluogo degli Urali che Aleksandr Antonov corre una maratona con la maglietta col tridente ucraino, e si prende pure il 54% di solidarietà nei sondaggi.
È qui che ogni giorno partigiani invisibili lanciano nel cielo palloncini nei colori dell'Ucraina, mettono nel fiume di una flottiglia di barchette con scritto "No alla guerra", o strappando il banner con la Z sulla fiancata dell'università dell'architettura.
È stato proprio il banner ad aver fatto scatenare Solovyov, forse perché ha suscitato una protesta non solo clandestina, ma organizzata, con nomi, cognomi e 580 firmatari che hanno chiesto di toglierlo, in quanto «si tratta di un gesto politico fatto a nome dell'università, senza aver consultato gli studenti», come ha dichiarato Olga Yakimova, l'organizzatrice della lettera aperta.
Olga è considerata un'attivista di Navalny, ed è stata minacciata di espulsione insieme agli altri firmatari, mentre non si sa molto della sorte delle decine di studenti dell'università federale degli Urali, che hanno abbandonato in massa una lezione di indottrinamento sulla guerra. Una propaganda ormai quasi obbligatoria in molti atenei, come denuncia il giornale online degli studenti Doxa, ma solo a Ekaterinburg i ragazzi hanno avuto il coraggio di lasciare l'aula, e di riprendere l'esodo, silenzioso e sdegnato, con il telefonino. Per molti intellettuali delle ultime generazioni Ekat è la vera capitale della Russia reale, lontana dai soldi, dai lussi e dagli intrighi di Mosca e Pietroburgo.
Una città industriale e sovietica - qui si trova il gigantesco Uralvagonzavod, la fabbrica preferita da Putin, dove oggi si procede al rimessaggio frettoloso di vecchi carri armati da inviare in Ucraina -, che però ha saputo reinventarsi come capitale del rock, della birra artigianale e dell'attivismo civico, grazie anche alle mostre e ai convegni al liberale Eltsin-zentr. Il primo presidente russo era stato il capo comunista della città quando si chiamava ancora Sverdlovsk, ma ne incarna bene il lato ribelle, e Solovyov ha indicato esplicitamente il centro a lui dedicato come "nido dei traditori".
Ottenendo però una reazione molto pesante del governatore Evgeniy Kuyvashev, che ha invitato il propagandista a «stare attento a quello che dice», difendendo l'onore dei suoi concittadini, «coraggiosi, liberi, intelligenti e dotati di pensiero critico». Una risposta che apre una delle prime crepe in quello che da fuori appare un establishment monolitico. I deputati del consiglio regionale - quasi tutti del partito putiniano Russia Unita - scrivono infatti alla TV di Stato chiedendo una museruola per Solovyov, che per ripicca apre un sito dove denunciare «attività antirusse» negli Urali, e si merita l'insulto del "neonazista" dal pugile olimpionico Egor Mekhonzev.
Nel frattempo i propagandisti moscoviti contano le volte (poche) in cui il governatore Kuyvashev ha appoggiato la guerra in pubblico, e accusano i dissidenti di essere i veri colpevoli dei roghi forestali (il capo della rete di Navalny, Leonid Volkov, viene da Ekaterinburg). Non è più uno scontro tra governo e dissidenti, ma uno scontro interno al regime, che gioca col fuoco in una città che negli anni '90 sognava di diventare il centro di una "repubblica degli Urali" che si sarebbe allontanata da Mosca.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 16 maggio 2022.
I piccoli gesti di protesta hanno qualcosa di poetico. Non solo per il coraggio di chi li fa, non solo perché ormai è ben noto quanto sia difficile manifestare il dissenso in Russia. Sono messaggi nella bottiglia dalla vita effimera, lasciati nella speranza che qualcuno ci faccia caso. Appunti per il futuro, scritti nella consapevolezza che la libertà di espressione è un rischio. E in qualche modo, raccontano anche lo spirito del tempo che si vive in questo Paese.
Ogni tanto succede. Così, all'improvviso. Mentre si cammina per Mosca o San Pietroburgo, in centro come in periferia. Qualcuno ha lasciato un soldatino rosso di pongo con un piccolo cartello sul quale è scritto «No alla guerra» sul davanzale di una finestra che si affaccia sul marciapiede. Qualcuno ha legato un nastro verde, il colore della pace in Russia, attorno al braccio di una statua che celebra le vittorie militari. Sul davanzale del ponte della Neva è stata lasciata una Madonna che piange, nel cortile di una casa di Mosca è stata pitturata una scritta sull'asfalto.
Entro poche ore, non ci sarà più nulla. Testimonianze individuali e isolate, un modo per dire che non è vero che tutti la pensano allo stesso modo. Persino qui, in Russia.
All'inizio, dopo il 24 febbraio, tutti i media internazionali partirono per raccontare le proteste. Sull'onda delle grandi manifestazioni del 2019, che riguardavano però l'annunciato taglio delle pensioni, nel ricordo delle grandi mobilitazioni organizzate dal dissidente Alexej Navalny, che però risalivano al 2017, la sollevazione di massa veniva data per scontata.
Nessuno aveva calcolato quanto i bulloni della propaganda fossero stati stretti durante il biennio della pandemia, mentre il mondo intero aveva altro a cui pensare. Piazza Pushkin doveva essere l'epicentro. Trovammo qualche ragazzo che saliva dalle scale della metropolitana e veniva subito circondato dagli Omon, gli agenti antisommossa, trovammo un rapporto di forze dispari, quasi impietoso. Non era aria. E non solo per via dell'azione delle forze dell'ordine, così capillare da sembrare ossessiva.
Il dissenso può nuotare se trova l'acqua per farlo. Nella Russia ansiosa di rivincita sulla storia, istruita durante l'ultimo ventennio a sentirsi vittima dei soprusi occidentali, lo stagno è stato prosciugato.
Venne poi la draconiana legge sulla censura, che spaventò molto i giornalisti indipendenti, figurarsi gli insegnanti, il ceto medio delle grandi città, potenziali bacini di contestazione. Perché se è vero che in questo Paese si vive con poco, quel poco bisogna pur averlo. E quando si capisce di essere da soli, una minoranza al momento infinitesimale, il posto di lavoro e lo stipendio, uno se li tiene stretti. L'Operazione militare speciale poi è concepita per non far sentire in guerra la popolazione.
Riguarda i militari di professione, quelli che sono in Ucraina per scelta, o per dovere. Ben presto divenne chiaro che il cambiamento non sarebbe giunto dal basso. Verrà, se mai verrà, dal campo di battaglia, dai rapporti di forza, dalla diplomazia per ora inerte. Così, queste piccole proteste hanno un valore relativo, gesti isolati, semi abbandonati al loro destino, nella speranza che qualcosa di diverso un giorno possa fiorire. Non è molto, ma è tutto quel che c'è, che è possibile oggi in Russia, in questo momento.
Riccardo Michelucci per “Avvenire” l'11 maggio 2022.
L'ultimo episodio verificato risale al 3 maggio scorso quando, in piena notte, un uomo a volto coperto ha lanciato bottiglie molotov contro il centro di reclutamento dell'esercito della città di Nizhnevartovsk, in Siberia.
Qualche giorno prima era accaduto lo stesso anche al commissariato militare di Zubova Polyana, a circa 400 chilometri a sud di Mosca. Il rogo ha distrutto i computer dell'archivio e ha cancellato i database con l'elenco dei coscritti, costringendo le autorità a interrompere gli arruolamenti in diversi distretti della Federazione. A marzo si erano verificati almeno altri quattro episodi di sabotaggio, con incendi dolosi ai centri di reclutamento russi.
Ordigni incendiari rudimentali hanno colpito le caserme di Berezovskij, non lontano da Ekaterinburg, e di Suja, nella regione di Ivanovo, dove sui muri della città sono comparse anche alcune scritte contro la guerra. A Voronezh è stato rovesciato liquido infiammabile sulla porta d'ingresso del distretto militare.
Un giovane di 21 anni, arrestato per aver dato fuoco all'ufficio di arruolamento di Lukhovitsy, nella regione di Mosca, ha motivato il suo gesto con la volontà di bloccare la mobilitazione in Ucraina. Il Conflict Intelligence Team (Cit), un gruppo indipendente di giornalisti investigativi russi, ritiene che si tratti soltanto dei casi più eclatanti tra quelli documentati.
Atti di protesta disperati sfociati in rabbia e violenza. Ma anche il termometro del malessere sempre più diffuso tra la popolazione russa, che trova un riscontro persino all'interno delle stesse forze armate della Federazione.
Dalla prima metà di aprile - secondo le stime del Cit - dal 20 al 40% dei soldati che avevano preso parte alle operazioni militari a Kiev, a Chernihiv e a Sumy hanno cercato di disertare rifiutandosi di continuare la guerra.
L'avvocato Pavel Chikov, che dirige l'Ong russa per i diritti umani Agora e da anni si batte contro gli abusi delle forze dell'ordine, ha riferito al media indipendente Mediazona che gli uffici della sua associazione sono subissati dalle richieste di assistenza legale dei "refusenik" dell'esercito e della Rosgvardiya, la Guardia Nazionale creata da Putin nel 2016.
Da Pskov a Vladivostok, da San Pietroburgo a Sinferopoli, da Kazan a Mosca: sono già centinaia i soldati che si sono rifiutati apertamente di partecipare alla guerra in Ucraina e il loro numero cresce di giorno in giorno.
Raccontare le diserzioni all'interno delle truppe russe resta assai difficile. Le dimensioni del fenomeno emergono dall'incessante lavoro degli avvocati, delle organizzazioni per i diritti umani e dei giornalisti investigativi che sono spesso costretti ad andarsene dalla Russia per motivi di sicurezza.
Il movimento degli obiettori di coscienza russi ha raccolto ogni singolo episodio avvenuto fino ad oggi in un rapporto dettagliato che dà voce a quel pezzo sempre più consistente dell'esercito di Mosca che non vuole la guerra. Un documento dal titolo assai esplicito - "I russi si rifiutano di combattere in Ucraina" -, che elenca centinaia di casi di disertori dell'esercito e della Guardia Nazio- nale, le minacce e le intimidazioni che hanno subito, oltre alle testimonianze dei coraggiosi avvocati che li assistono.
«In un primo momento il Ministero della Difesa di Mosca sosteneva che a combattere in Ucraina fossero soltanto i soldati professionisti ma poi ha dovuto ammettere l'impiego dei coscritti, giovani tra i 18 e i 27 anni obbligati ad arruolarsi con la minaccia di multe pesanti o di pene detentive fino a due anni. A molti di loro non è stato detto chiaramente che sarebbero finiti al fronte», spiega Elena Popova, coordinatrice del movimento degli obiettori.
Il 25 febbraio, il giorno dopo l'inizio della guerra, alcuni uomini dell'unità Omon della Guardia Nazionale impegnati in un'esercitazione militare in Crimea si sono rifiutati di attraversare il confine con l'Ucraina e di partecipare all'invasione del Paese. Sono stati immediatamente cacciati dall'esercito e il loro caso è uno dei tanti che riempiono le scrivanie dei legali dell'associazione Agora.
Ma da quando la loro storia è stata resa pubblica - si legge sempre nel rapporto - i militari della Guardia Nazionale che si sono rifiutati di partecipare alla guerra sono già diventati oltre un migliaio.
A i mezzi d'informazione russi è vietato pubblicare notizie di tali rifiuti e i giornalisti che lo fanno rischiano procedimenti penali per aver diffuso "false notizie" sulle forze armate. Il 15 aprile scorso Mikhail Afanasyev, caporedattore del Novy Focus, è stato arrestato proprio perché aveva raccontato gli episodi di diserzione registrati all'interno della Guardia Nazionale.
Per aggirare la censura e continuare a raccogliere informazioni sensibili molte organizzazioni per i diritti umani e organi di stampa indipendenti hanno quindi dovuto lasciare il Paese.
Da un paio di mesi il Conflict Intelligence Team si è spostato a Tbilisi, in Georgia, mentre il giornale online Meduza ha sede in Lettonia e si appoggia a un server dell'Oceano Indiano. Erano stati proprio i giornalisti di Meduza a dar voce per primi ad Albert Sakhibgareyev, il soldato 25enne che ha disertato dopo aver compreso che le esercitazioni nelle quali era impegnato nell'area di Belgorod, nei pressi del confine ucraino, servivano in realtà a preparare l'invasione.
«Nessuno ci ha avvertito dell'attacco, non eravamo affatto preparati a quanto stava accadendo», ha detto, spiegando che la sua brigata non ha attraversato il confine con perché molti suoi commilitoni hanno disatteso gli ordini.
Scorrendo l'elenco compilato dagli obiettori si apprende che anche molti militari a contratto nelle regioni di Kaliningrad, di Chelyabinsk e di Pskov hanno fatto la stessa cosa, rifiutandosi di essere trasferiti nelle zone di guerra.
La 136a Brigata di fanti motorizzati che operava nell'oblast di Zaporizhzhya, in Ucraina, avrebbe addirittura disertato abbandonando l'equipaggiamento sul campo. I casi risultano cresciuti in modo esponenziale col trascorrere delle settimane di guerra. Molti si sono ribellati perché sono stati costretti a combattere con l'inganno. Altri invece perché non condividevano affatto l'attacco in Ucraina e hanno per questo subito minacce, intimidazioni e procedimenti disciplinari fino al licenziamento.
Persino schedature, com'è accaduto a un soldato che si è visto applicare sul libretto di servizio un timbro con la scritta «Incline al tradimento, alle bugie e all'inganno». L'avvocato Maxim Grebenyuk, ex procuratore militare e fondatore del progetto Military Ombudsman, segue personalmente un centinaio di soldati allontanati dalle forze armate negli ultimi due mesi.
Citato dal rapporto degli obiettori di coscienza, spiega che dall'inizio della guerra non è stato ancora avviato alcun procedimento penale a loro carico per timore che la notizia finisca sulla stampa fomentando la ribellione tra i militari e creando un danno di immagine all'esercito.
E anche perché la Russia non ha dichiarato formalmente guerra all'Ucraina e quindi non esistono ordini ufficiali che impongano ai militari di partecipare a operazioni sul territorio di un altro Stato.
Domenico Quirico per “la Stampa” il 10 maggio 2022.
Cerco una cartolina della piazza rossa il nove maggio, della gran sfilata militare, del suo splendore visibile e dei suoi cauti silenzi, delle parole di Putin, dei cadetti e delle cadette dai lucidi stivali, degli eroi vivi e defunti, della bandiera che fu issata sul Reichstag nazista e di quelle nuove di zecca che si vuol piantare sul più modesto municipio di Mariupol. E la trovo nella parola memoria. Perché la giornata di ieri a Mosca non è stata all'insegna del presente o del futuro. È stata, verrebbe da dire, solo memoria.
E la memoria può essere eversiva o reazionaria, perché lo Stato la fabbrica e la coltiva ad arte. L'intero passato è assorbito dal compito di divulgare le ingiustizie commesse ai nostri danni: la Russia è buona, la causa è giusta e la guerra è nobile. È il messaggio inculcato in questa memoria fittizia che può portare un Paese intero in uno stato di trance. E in alcuni casi questa trance può durare per intere generazioni perché è diventata la Storia.
E questo è il nodo dell'uomo russo che è sempre stato trattato come qualcosa di sostituibile e di rinnovabile secondo la necessità, è sempre stato ingannato. E questa è la sua memoria, l'esser stato perennemente ingannato. Tutto quello che ha creduto si è rivelato falso, è stata una soltanto una chimera. La Russia ha sperimentato tutti gli inganni possibili: lo zarismo, l'anarchia ci fu anche quello, poi si è concessa con entusiasmo Marx ed Engel ed è arrivata invece la dittatura staliniana e la stagnazione ma che non riguardava il ben oliato meccanismo repressivo.
E poi la perestrojka con la promessa superficiale e velleitaria di una democrazia cucita su misura; e fu invece il ghigno di Eltsin e dei suoi quaranta ladroni. E oggi Putin: la potenza militare, il mondo che ha di nuovo paura dei russi... Si attende fatalisticamente che anche questo inganno si sveli, come sempre. Lasciando vuota la memoria. Le hanno viste proprio tutte i russi.
Il callo che si è formato nella coscienza è quello di dover attendere sempre qualcosa dallo Zar, vecchio e nuovo, o dal politburo o dal burocrate che ora dispone anche del computer. E poi c'è la paura, quella permanente e antica che è orfana appunto di una memoria che sia evolutiva, e spieghi il passato e il presente, non abbia salti, vuoti paurosi, pause incolmabili.
Per questo la vittoria sui tedeschi nel 1945 e i ventisette milioni di morti della guerra patriottica sono fondamentali. Sono l'unica cosa intoccabile, al di sopra di ogni delusione, consola, conferma. Ma è una memoria che risale a ottanta anni fa. È immobile. E dopo? È vecchia come i veterani che ogni anno si accomodano in tribuna accanto allo Zar del momento. Storia mito leggenda memoria tutto insieme: loro sono gli unici vincitori veri, intoccabili di questa Storia dove l'individuo è sempre stato schiacciato, zittito senza che nemmeno potesse farsi avanti e la libertà di parola è sempre vista come una insolenza.
Anche loro hanno probabilmente da raccontare molte ingiustizie, sono figli della ferocia staliniana che ha consentito di vincere la guerra. Ma sono almeno una generazione intera che ha mantenuto la propria dignità, per loro la memoria è sacra e viva. Ma bastano per il presente? Bastano anche per le generazioni successive?
Per i figli e i nipoti la Russia, amara constatazione, è sempre quella fatta a gradini della gerarchia dei quattordici ranghi dell'epoca zarista e in ogni atto del potere e rapporto tra superiori e inferiori c'è l'insolente millanteria di non dover render conto a nessuno e la certezza che l'uomo russo sopporterà tutto, le bastonate, il gulag e perfino la guerra del Donbass.
La interruzione di memoria più brutale è quella dell'ottantanove, conseguenza della autodistruzione dell'Urss. Una esperienza psicologica che pochi popoli hanno dovuto affrontare in modo così brusco e totale. Forse trentanni fa i russi hanno sognato davvero per un attimo un futuro né socialista né comunista o capitalista, un futuro normale.
Quello che li schiacciò non furono tanto la miseria, l'inflazione, le razzie trionfali degli sciacalli che si contendevano i pezzi del tesoro sovietico, o il frantumarsi dell'impero staliniano da Berlino al Pacifico. La tragedia fu la maledizione della memoria singola e collettiva. Tutto il passato era azzerato e maledetto. Si invitava addirittura a copiare il nemico poiché aveva sempre avuto ragione, si chiedeva di autodistruggersi come oggetti inutili e ricominciare da capo. Il futuro c'era già stato.
Il passato, ed è anche peggio, doveva ancora arrivare. In questo vuoto gonfio di rimorsi e di dubbi si dovevano affrontare problemi come la fine della ideologia unica, del potere unico e della proprietà unica, e assorbire novità come la libertà di coscienza, il sistema parlamentare, la fine delle repressione di massa e della guerra fredda con l'Occidente. Le storie di disperazione personale dominavano il presente. Ognuno poteva raccontare storie di disagio, così grottesche e fantastiche da sembrare al di là della umana comprensione. La vita quotidiana, prima dominata dalle barriere infrangibili di un potere assoluto, si trasformava in un carnevale bizzarro che faceva girare la testa; sembrava non far parte di una esperienza possibile.
La riscrittura e la distorsione della Storia per questo diventarono un atto cruciale che l'abisso della memoria cancellata rendeva più semplice. Si trattava in fondo di uomini e donne per cui la stagione sovietica aveva fatto di tutto per sterminare la personalità trasformandola in un attributo dello Stato, storpiata sotto il peso del terrore delle polizie segrete.
La massa critica di un ritorno all'indietro si stava formando su questa pericolosa impossibilità di ricordare qualcosa di encomiabile, e il burocrate modello Kgb era in agguato pronto a sfruttare l'occasione. Putin aveva nell'armadio l'imperialismo zarista e quello, così simile ma molto più efficace, di marca staliniana. Pensare sempre al nemico e scorgere ovunque tradimento e subdola aggressione, la psicologia della fortezza assediata: deve bastare a chi da sempre vive sul chi va là, perché il terremoto può capitare in qualsiasi momento.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 6 maggio 2022.
Ennesimo incendio in una fabbrica in Russia: a prendere fuoco questa volta è stato un palazzo che ospitava gli uffici per l’arruolamento militare russo a Nizhnevartovsk, in Siberia occidentale. Sembra che l’edificio sia stato colpito da diverse bombe molotov mentre si intensificano le speculazioni secondo cui Vladimir Putin dovrebbe introdurre la mobilitazione di massa dell’esercito.
Il gruppo per i diritti umani gulagu.net ha interpretato l'attacco di questa settimana all'ufficio di arruolamento militare come una «protesta contro la guerra».
Secondo fonti filogovernative due bombe molotov sono state lanciate e una terza non ha preso fuoco. «Ma il video mostra un uomo che dà fuoco metodicamente a sette bottiglie molotov una dopo l'altra, le lancia e dà fuoco all'ingresso dell'ufficio di arruolamento militare», ha detto il gruppo. «E questo prima ancora dell'annuncio della mobilitazione parziale o totale.
«La gente è contraria alla guerra: nessuno ha bisogno del massacro, delle uccisioni e dell'autoisolamento della Russia. La protesta si sta radicalizzando. No alla guerra».
È solo l’ultimo incidente in Russia da quando è iniziata la guerra in Ucraina. Lunedì tre donne sono morte in un gigantesco incendio presso il produttore di esplosivi Perm Gunpowder Plant, che rifornisce l'esercito. L'impianto produce sistemi di missili a lancio multiplo Grad e Smerch, utilizzati dalle forze russe in Ucraina, e sistemi di difesa aerea, nonché proiettili di carri armati. Fornisce polvere da sparo per armi leggere. Un testimone oculare ha detto al quotidiano Komsomolskaya Pravda: «L'edificio è appena volato in aria».
Mercoledì, una nave cisterna ferroviaria contenente solventi ha preso fuoco sul territorio dell'enorme fabbrica Kaprolaktam che un tempo produceva armi chimiche, a Dzerzhinsk. E ancora: due settimane fa un impianto di difesa top secret per la progettazione di missili a Tver ha preso fuoco uccidendo 22 persone, tra cui alcuni dei migliori progettisti di missili del paese.
Manila Alfano per “Il Giornale” il 5 maggio 2022.
Ilya Filatov non è un oligarca contro, nè un manager scomodo, eppure il suo nome da ieri si è aggiunto alla lunga lista di defezioni. Ilya è- o meglio è stato- il cameraman personale di Putin fino a quando ha deciso di lasciare. Quanto la scelta sia stata sua o indotta non è dato sapere, ma certo è che i precedenti non mancano, e tra gli indizi più forti per orientarsi è che il cameraman avesse osato esprimere una posizione critica verso la guerra.
Ha registrato il lungo discorso con cui il presidente russo ha annunciato il via «all'operazione special» contro l'Ucraina e poi si è dimesso dal suo prestigioso incarico di cameraman personale del presidente russo. Lo riporta il sito russo «The Insider» spiegando che l'operatore Filatov ha abbandonato la posizione motivando la decisione con la consapevolezza di avere «raggiunto un tetto nella mia professione», ma anche confessando di essere «stanco dopo molti mesi di quarantena».
Infatti, come riferiscono fonti vicine al Cremlino, lavorare con Putin implica un costante isolamento. Altri colleghi del cameraman, tuttavia, parlano di un vero e proprio licenziamento legato alla posizione critica di Filatov sulla guerra contro l'Ucraina.
L'addio dell'operatore personale di Putin si inserisce in una vera e propria emorragia che ha colpito i principali canali televisivi russi. Il 21 aprile, un popolare conduttore tv, Alexander Gurevich, anche lui guarda caso, critico contro il Cremlino si è dimesso da VGTRK, mentre altri giornalisti e presentatori dell'emittente NTV hanno lasciato i propri posti, lamentando le imposizioni «dall'alto».
L'addio più clamoroso è quello di Marina Ovsyannikova, dipendente di Pervyj kanal, il primo canale della tv pubblica, che dopo aver fatto irruzione in una trasmissione in diretta mostrando un cartello contro la guerra è stata fermata e multata di 30 mila rubli. Dopo l'addio alla tv la Ovsyannikova è diventata corrispondente freelance per il tedesco «Die Welt». Poche ore dopo la messa in onda del TG si è diffusa la notizia delle dimissioni della conduttrice e corrispondente da Parigi di Canale 1 Zhanna Agalakova, della conduttrice Lilia Gildeyeva e del giornalista Vadim Glusker, entrambi del canale «rivale» NTV.
È andata diversamente a Lilia Gildeyeva che ha abbandonato la Russia prima di lasciare il suo incarico a NTV dopo quindici anni di attività. Le dimissioni della conduttrice del telegiornale sono state rese pubbliche dal blogger e giornalista russo indipendente Ilya Varlamov a cui Gildeyeva aveva confidato di essere partita prima dell'invio della lettera in cui comunicava la decisione.
Giancarlo Mazzuca per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2022.
Altro che ebrei nazisti! Purghe o non purghe, Putin, dovrebbe stare attento ai dissidenti interni, soprattutto giovani. Infatti sono molti i teenager russi che dicono no alla guerra in Ucraina e che continuano ad aumentare. Se finora avevamo solo avuto sentore di queste voci discordanti, adesso ne abbiamo la conferma grazie ad un sondaggio condotto da Levada Center - indicata dal Financial Times come l'unica società russa del settore indipendente- che fornisce dati piuttosto clamorosi.
Uno, in particolare: solo il 29% dei russi tra i 18 e i 24 anni, una chiara minoranza, si dice favorevole al conflitto a Kiev e dintorni. Ma anche in un'altra fascia d'età, quella tra i 25 e i 39 anni, gli intervistati che dicono sì alla guerra restano in minoranza: il 42%. In altre parole, il Cremlino sembra appoggiato solo dai "senior": dice sì al conflitto il 56% dei cittadini russi compresi tra 40 ed i 54 anni ed il 64% di quelli che vanno dai 55 anni in su.
In altre parole, proprio questi dati potrebbero essere le vere sanzioni comminate all'inquilino numero uno del Cremlino: più i tempi della guerra in Ucraina s' allungano, più Putin, a differenza di Zelensky, perde consensi tra i suoi stessi connazionali. Ecco perché sarebbe il momento giusto, per l'Occidente, per stringere i tempi del negoziato e trovare finalmente una pace con la Russia: se Papa Francesco, dopo aver continuato a ripetere in tutti questi mesi «Fermatevi!», si è dichiarato pronto ad andare a Mosca per cercare di porre fine al conflitto, cosa fanno Biden e i leader europei?
Del resto, diversi osservatori internazionali si trovano ora d'accordo sul fatto che lo stesso Vladimir - al di là delle sue roboanti dichiarazioni che potrebbero far pensare ad una ulteriore escalation della guerra - sia pronto a trattare proprio per il dissenso che, ogni giorno di più, si ritrova a casa sua. E oggi sono ancora molti a non credere che il presidente russo, tra i suoi difetti, sia pure masochista. Quale migliore sanzione per Putin che obbligarlo alla pace, consensi interni alla mano? I "niet" dei suoi stessi connazionali parlano chiaro.
L'insuccesso in Ucraina e la rivolta dell'esercito. Putin finirà come Krusciov, rivolta dell’Armata rossa contro lo Zar. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
La guerra ha tre fronti: quello sul terreno di combattimento, quello dei rapporti internazionali e quello della propaganda che è prevalentemente russa. A questo proposito non si capisce bene perché e sulla base di quali elementi e solo sui media italiani fiorisce il mantra secondo cui “si sa che poi c’è la guerra di propaganda e dunque chi può dire che cosa sia vero o falso visto che entrambe le parti mentono”. Il che è parzialmente vero. Esempio: fino a ieri l’altro il Cremlino ha sostenuto – anche per bocca dell’ineffabile ministro degli Esteri per il quale Hitler era ebreo e gli ebrei sono la vera causa della rovina degli ebrei – che i civili che hanno vissuto nella città sotterranea dell’acciaieria di Mariupol erano ostaggi e scudi umani del battaglione “nazista”, ma quando sono usciti fuori e sono stati portati in salvo, a nessuno di questi poveri profughi che hanno vissuto nelle catacombe è saltato in mente di confermare una tale versione semplicemente perché è falsa.
C’è poi un quarto fronte di cui si parla poco e con prudenza perché si tratta del fronte russo: uno dei modi in cui questa guerra potrebbe finire è con l’allontanamento di Putin, una sua sostituzione e quindi con l’inizio di una credibile diplomazia di pace. Su questo terreno le leggende, i pettegolezzi e le fake news si sprecano. Ma alcuni fatti emergono con prepotenza. Primo: per la prima volta nella storia una grande potenza annuncia al mondo di voler fare una operazione militare nell’orto di casa – come ne fecero gli americani a Granada e a Panama – usando una dizione giuridicamente inesistente ma politicamente chiara: operazione militare speciale. Questa dizione significa: non allarmatevi, è una questione interna di breve durata. Ma non era mai stata usata pubblicamente prima, salvo in via informale e a livello di intelligence: tutte le agenzie sapevano dell’invasione perché erano stati i russi a comunicarla.
Quando Joe Biden, anziché prendere atto dichiarò al mondo di sapere dell’imminente operazione, scelse questa risposta per dire ai russi che gli Stati Uniti non avrebbero avallato il carattere limitato e speciale di una operazione militare in Ucraina. Tutto ciò era noto, ma ciò che non sapevamo era che la formula della “operazione speciale” scelta da Putin comportava limiti che due mesi fa non conoscevamo e che adesso invece siamo in grado di valutare: prima ancora che l’esercito ucraino fosse bene armato dagli occidentali tutto il mondo ha visto che l’operazione speciale di Putin era fallita perché gli ucraini si erano stretti come un sol uomo intorno al loro presidente dimostrando di avere un morale altissimo, cosa che ha dimostrato l’inconsistenza servile dei servizi d’informazione putiniani.
Oggi gli analisti militari scoprono che dopo due mesi e rotti di guerra, l’esercito russo – benché responsabile di atrocità perpetrate per diffondere il terrore come arma di distruzione di massa – non ha attaccato gli obiettivi militari che avrebbero potuto mettere l’Ucraina in ginocchio, o almeno danneggiarla molto seriamente, omettendo di distruggere punti ed autostrade, di colpire in modo distruttivo tutte le infrastrutture intorno a Kiev e rendere impossibile ai leader occidentali di recarsi nella capitale ucraina per incontrare Volodymyr Zelensky che ha potuto mostrarsi televisivamente a tutto il mondo mentre accoglieva i grandi della Terra. Inoltre, contro tutte le previsioni, non c’è stata alcuna guerra cibernetica che avrebbe potuto danneggiare gli Stati europei che sostengono l’Ucraina, e in particolare mettere in difficoltà le loro forniture energetiche.
E poi la guerra sul terremo è stata combattuta con armi inadeguate e vecchie con truppe inesperte nel combattimento ma occasionalmente capaci di mostrare una ferocia disumana con esecuzioni, torture, stupri e l’uso di forni crematori semoventi con cui eliminare i cadaveri e ridurre le prove di crimini contro la popolazione civile.
Tutti gli esperti di questioni militari si sono chiesti se l’esercito, la gloriosa Armata Rossa avesse davvero voglia di combattere questa “operazione militare speciale”. L’altissimo numero di giovani generali russi mandati a morire in prima linea dimostra che questi alti ufficiali sono stati mandati a occupare non dei posti di comando ma fronti in cui la morte fosse più o meno certa. Ecco un sicuro elemento di frattura fra Putin e i servizi militari e di intelligence in questa “operazione speciale”.
Veniamo alle novità. Il 9 maggio, anniversario della vittoria sulla Germania nel 1945, la parata militare si annuncia striminzita. L’idea che era stata ventilata di esporre cinquecento ucraini prigionieri come Cesare faceva esibendo i galli catturati prima di farli trucidare è stata abbandonata. Ma c’è un’altra novità in attesa di conferma. Il Cremlino ha lasciato trapelare voci secondo cui proprio in quel giorno, o forse una settimana più tardi, se la situazione in Ucraina fosse ancora precaria, Putin potrebbe formalmente dichiarare guerra al Paese di cui ha ordinato l’invasione il 24 febbraio scorso. Dichiarare guerra, come non è di moda dalla fine della Seconda guerra mondiale. Se ricordiamo bene, l’ultima volta che uno Strato sovrano ha dichiarato guerra fu quando Hitler dichiarò guerra agli Stati Uniti subito dopo l’attacco giapponese contro la base navale americana all’ancora a Pearl Harbor. Roosevelt dichiarò allora guerra al Giappone ma evitò di farlo con la Germania e fu Berlino a dichiarare formalmente aperte le ostilità. La dichiarazione di guerra costituisce l’unico stato giuridico per cui uno scontro armato si può chiamare guerra, e non attacco o aggressione o invasione. Quando la nostra Costituzione afferma che l’Italia si impegna a non fare la guerra, intendeva (ai tempi in cui fu scritta) a non usare mai la guerra come prosecuzione della politica in tempo di pace.
Ma come mai Vladimir Putin sarebbe costretto a dichiarare guerra a quell’Ucraina in cui sta già combattendo con un corpo di spedizione ridotto molto male e che ha già imbarazzato gli alti comandi militari perché espone la Russia a una umiliazione? I russi sono particolarmente sensibili alle umiliazioni e al prestigio militare. Quando il presidente americano John F. Kennedy vinse il suo duello con Nikita Krusciov ingiungendogli lo smantellamento e il ritiro delle basi missilistiche segretamente allestire a Cuba (accettando di smantellare basi missilistiche americane in Turchia) l’effetto di quella vittoria fu che Nikita Krusciov venne di lì a poco rimosso e le foto lo mostrarono pensionato ai giardini pubblici, mentre dava da mangiare ai piccioni. Le analisi dei think-tank di una tale sequenza dovrebbe essere questa: la classe militare russa che costituisce una delle basi fondamentali del potere politico effettivo di Putin (che ne ha già fatto uso in Cecenia, in Ossezia, in Crimea e in Donbass con reparti speciali senza insegne) e poi in Siria ad Aleppo, non essendo affatto convinta della bontà e della fattibilità dell’intervento in Ucraina, impose a Putin di annunciare pubblicamente i confini di quella operazione: niente guerra distruttiva industriale, no a scontri militari su vasta scala con l’esercito ucraino e un tempo limitato per valutare i risultati e decidere se e come continuare.
Poiché Putin ha usato quell’espressione e ha evitato di far compiere al suo corpo di spedizione operazioni industrialmente distruttive e strategicamente significative come accade quando esiste uno stato di guerra, fatti i dovuti bilanci e di fronte al costante progresso delle capacità del nemico rifornito dagli occidentali, stanno imponendo a Putin di sciogliere la riserva fin qui mantenuta e dichiarare guerra. Lo stato formale di guerra consentirebbe per prima cosa di attaccare con giustificazione formale e valida secondo le leggi internazionali, le linee di rifornimento di quello che a questo punto sarebbe diventato “il nemico” e dunque gli occidentali in Ucraina e le loro linee di rifornimento. Questo passo non implicherebbe alcun rischio ulteriore con la Nato che ha sempre dichiarato di considerare casus belli soltanto il superamento del “filo rosso” che segue la linea dei confini dei Paesi che partecipano all’Alleanza. Ma non potrebbe obiettare in alcun modo a una risposta russa su suolo ucraino contro trasporti di armi e rifornimenti. I russi acquisterebbero anche il diritto giuridico di passare per le armi tutti gli stranieri che combattono a fianco degli ucraini.
Se queste novità trovassero conferma, assisteremmo ad una formalizzazione della guerra che imporrebbe ai russi uno stato di legge marziale di fatto, con restrizioni ulteriori dei filiformi margini di libertà e la legalizzazione della censura. E poi dovrebbero vincere una guerra molto costosa e tecnologica per la quale i russi non sembrano affatto attrezzati, salvo l’esibizione di armi di distruzione di massa di apocalittica potenza, il cui uso richiederebbe decisioni non più individuali ma a collettive.
La previsione secondo cui Putin userebbe la parata della vittoria del 9 maggio per pronunciare un discorso contenente anche la dichiarazione ufficiale di guerra viene dal topo dell’intelligence militare britannica e cioè dallo stesso ministro della Difesa del Regno Unito Ben Wallace. Questo quadro dovrebbe far presumere un incremento della militarizzazione russa in Ucraina, che però non si vede. Tutte le operazioni in corso sono definite in occidente come “estremamente prudenti e tiepide”.
C’è dunque qualcosa che non torna e non è affatto chiara nelle alte sfere del Cremlino. Putin ha persino affermato negli ultimi due giorni di essere disposto ad aprire delle trattative “Se gli occidentali smetteranno di rifornire di armi l’Ucraina”. Dichiarazione che potrebbe preludere a una trattativa che permetta alla Russia di uscire dall’ingranaggio in cui si è cacciata attraverso l’uso di tutte le vie diplomatiche che finora non avevano alcun margine di probabilità a causa del carattere totalmente illegale e sospetto di crimini gravissimi, un collo di bottiglia da cui sarebbe possibile uscire salvando il salvabile senza insistere sulle minacce nucleari e senza far perdere la faccia all’Armata Rossa i cui vertici sono costantemente descritti al limite di una crisi di nervi. I ricorrenti pettegolezzi sulla salute di Putin potrebbero preludere ad una soluzione “sanitaria” con un ricovero per gravi motivi di salute, di un presidente che seguita ad accumulare disfatte diplomatiche militari ed economiche, compresa la sciagurata intervista di Lavrov che ha provocato con i suoi inaccettabili giudizi sugli ebrei il ritiro di Israele da una posizione intermedia fra le parti e che adesso minaccia di mettersi a disposizione dell’Ucraina.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
(ANSA il 29 aprile 2022) - L'intelligence Usa ha concluso che ci sono gli 007 russi dietro l'attacco dell'inizio di aprile contro il premio Nobel per la pace Dmitri Muratov, l'editore del quotidiano russo indipendente Novaya Gazeta che ha criticato la guerra del Cremlino in Ucraina.
Lo scrive il Washington Post citando dirigenti americani protetti dall'anonimato, che tuttavia non hanno fornito alcun dettaglio su come i servizi segreti Usa siano arrivati a questa conclusione. Il 7 aprile Muratov stava viaggiando in treno da Mosca a Samara quando un assalitore lo ha attaccato con un misto di pittura rossa e acetone che ha causato una bruciatura chimica sui suoi occhi. L'aggressore ha gridato "Muratov, eccone uno per i nostri ragazzi", un riferimento ai soldati russi che combattono in Ucraina.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2022.
La verità si può trovare anche nella minestra. Ci sono i messaggi quotidiani del Cremlino, quelli ad uso del mercato interno, dove si sostiene che le sanzioni fanno il solletico, mentre intanto distruggono i Paesi occidentali che le hanno adottate. C'è Elvira Nabiullina, governatrice della Banca di Russia, dissidente a giorni alterni per i media internazionali, fedele alla linea nei fatti, che prevede tempi duri solo per il 2022. Dopo, come prima o quasi.
E poi si entra in supermercato, a comprare il cosiddetto Borshevoj nabor, ovvero gli ingredienti completi che servono a preparare il Borsh, la minestra di barbabietole, per altro di origine ucraina, che costituisce il piatto principale di ogni famiglia russa, e per questo viene considerato il bene più attendibile per valutare l'andamento dei prezzi. Le stime ottimiste sull'economia finiscono alla cassa. Rispetto allo scorso 25 marzo, quando la tendenza era già al rialzo, le cipolle sono salite da 40 a 55 rubli al chilo, le barbabietole da 47 a 69, le carote da 60 a 73, i cavoli da 81 a 99.
Per tacere della carne di manzo, il cui prezzo è triplicato. Anche se il Borsch sarà meno saporito, meglio abbondare di patate, che non mancano mai e hanno subìto un rincaro minimo, da 50 a 53 rubli. E per chi dovesse fare ironie, meglio ricordare che lo stipendio medio di un lavoratore russo ammonta all'equivalente di 400 euro mensili, uno dei livelli salariali più bassi del mondo. Facciamo scorta di frutta, che non si sa mai.
Pure qui il carrello della spesa piange. Il costo delle banane è raddoppiato. Le scatole di mirtilli e lamponi, che sono pur sempre frutti autoctoni, sono passate da 280 rubli ai 690 di oggi. Meno male che non durerà tanto, questa spirale.
La Banca centrale ha corretto al rialzo le previsioni nere del ministero dell'Economia. Il Pil non scenderà più del 12,5 per cento, ma «solo» dell'8%. Certo, l'inflazione annua è stimata intorno al 18-23%, quasi ai livelli della grande crisi del 1992. Ma poi, garantisce la governatrice Nabiullina, andrà subito meglio. Già nel 2023 il prodotto interno lordo calerà solo di un altro 3%, mentre l'inflazione rientrerà nei ranghi, intorno al 5-7%.
A partire dal 2024, si tornerà a crescere. C'è da credere davvero a questa risalita così veloce? Perché a volte sembra che la mano destra della Banca centrale non sappia quel che fa la sinistra. In questo caso, il suo Dipartimento di macroeconomia, che sostiene la necessità di prepararsi a una «nuova era» caratterizzata da un «netto arretramento» nel settore delle tecnologie, dall'addio a due terzi delle esportazioni e delle importazioni, da un tasso di crescita potenziale quasi azzerato.
E come conseguenza di questa nuova «economia ristretta», ci sarà il ritorno al cosiddetto «shuttle trade», il commercio realizzato con le navette che fu proprio dei tremendi anni Novanta, quando i piccoli negozianti erano obbligati ad andare in Turchia, in Cina o in Armenia per acquistare i beni da rivendere poi sulle patrie bancarelle. Come dice il ragazzo alla cassa, forse stanno distillando la realtà in dosi omeopatiche. Se questa sera il Borsch avrà un retrogusto amaro, non sarà soltanto per via delle poche barbabietole.
Quegli strani «incidenti» a catena in Russia che spiazzano i servizi segreti. Marta Ottaviani su Avvenire il 5 maggio 2022.
Depositi di carburante, aziende specializzate nell’industria di difesa. Due giorni fa, anche una delle società editrici più antiche e grosse del Paese. Incendi che scoppiano dal nulla, apparentemente inspiegabili e slegati l’uno dall’altro, ma che provocano un serio danno alla macchina dello Stato russo e sembrano avere un comune denominatore: mettere in difficoltà il presidente Vladimir Putin e boicottare la cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina. Segno che, al di là dell’approvazione ufficiale, c’è un’opposizione nel Paese che non perde occasione per fare sentire la sua presenza.
I colori di tendenza da indossare quest'estate.
Aprile è stato un mese particolarmente difficile per l’Fsb, il potente servizio segreto, che di fatto controlla il Paese ma che al momento si trova in difficoltà perché è impiegato anche sul fronte. Intorno al 20 del mese, in appena 48 ore, sono andati a fuoco un istituto di ricerca a Tver, un impianto di solventi a Dmitrievsky e uno stabilimento di impiantistica a Korolyov.
Nonostante la polizia russa abbia categoricamente escluso l’ipotesi attentato, molti canali Telegram hanno scritto che si è trattato di un attacco hacker pianificato nei minimi particolari, e per di più condotto proprio quando la Russia stava compiendo test per il lancio del missile intercontinentale Sarmat, con il quale il presidente Putin ha minacciato tutto il mondo. Un modo, forse, per fargli capire che un paio di serie minacce rischia di trovarsele anche a casa sua.
Verso la fine di aprile si sono verificate due esplosioni praticamente in simultanea a Bryansk a circa 150 chilometri dal confine con l’Ucraina. Anche in questo caso, il rogo si è sviluppato all’improvviso. Il primo all’interno di una struttura di proprietà della Transneft, compagnia statale russa che gestisce gasdotti lunghi decine di migliaia di chilometri.
Secondo le indagini, non si è trattato di incendio doloso, anche se i video postati sui canali social russi fanno pensare che, almeno in un caso, di possa parlare di sabotaggio. E in ogni caso, il fatto che ci siano state due esplosioni simultanee nella stessa città ha alimentato dubbi sulla versione ufficiale.
Non ci sono stati né vittime né civili, ma di fatto è stato messo fuori gioco un punto di rifornimento importante. Il secondo, ben più serio, si è sviluppato dentro una base. Le fiamme sono partite dai carri armati vicini al deposito, dove erano contenuti razzi e proiettili per l’artiglieria.
Infine, c’è il rogo di due giorni fa alla Prosveshchenie, una delle case editrici più storiche e grosse in Russia, specializzata nella pubblicazione di libri di testo. Le fiamme hanno interessato circa 33mila metri quadrati del 122mila di superficie totale. Nel rogo bruciati migliaia di testi scolastici e materiale per la stampa. Le autorità hanno escluso il dolo, ma un particolare fa pensare che si possa trattare di un altro attacco mirato.
Subito dopo lo scoppio della guerra, un ordine di servizio interno della società editrice aveva stabilito di eliminare dai testi riferimenti inappropriati all’Ucraina e a Kiev, in quest’ultimo caso consentito, ma solo se si parla della Rus di Kiev e comunque citata una volta sola. Nata durante il periodo sovietico, era stata privatizzata nel 2011. Da qualche anno la casa editrice era passata sotto il controllo di Arkady Rotenberg, uno degli uomini più vicini a Putin. La rimozione del termine Ucraina aveva avuto inizio nel 2014. Dal 24 febbraio ha subito un’accelerazione.
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 4 maggio 2022.
Avanti il prossimo. Sette morti strane in due mesi sono tante, tutte di alti manager russi o di Gazprom, o collegati alla rivendita del gas russo, o miliardari che avevano fatto fortuna col gas. Non si sfugge al proprio destino, nella Russia oscura e ominosa di queste ore.
L'ultima della serie - dopo quelle di Sergey Protosenya, Vladislav Avayev, Vasily Melnikov, Mikhail Watford, Alexander Tyulyakov e Leonid Shulman - è quella di Andrei Krukowski, neanche quarant' anni (classe 1984), top manager del resort sciistico di Gazprom non lontano da Sochi, Krasnaya Polyana, volato giù da una scogliera non si capisce assolutamente come.
La comunicazione della Tass fa pensare a un romanzo di Gogol, per quant' è elusiva e enigmatica: «Il direttore generale del resort di Krasnaya Polyana, Andrei Alekseevich Krukovsky, è morto tragicamente. Amava le montagne e vi ha trovato la pace. La tragedia si è verificata lungo il percorso verso la fortezza di Achipsinskaya, a seguito della caduta ha ricevuto ferite mortali». Ma la pace è, ancora una volta nella Russia di Putin, la pace dei cimiteri. Morti sospette, suicidi-omicidi incredibili, o al limite defezioni, per i più fortunati che riescono a giocare d'anticipo, come Igor Volobuev, ex dirigente di Gazprombank, o Ruslan Dostovalov, già direttore esecutivo di Gazprombank.
Krukowski era troppo giovane per aver partecipato alla sistematica spoliazione delle risorse energetiche russe compiuta negli anni del putinismo rampante dagli oligarchi più vicini a Putin, e non era un oligarca, ma neanche un manager qualunque. A 37 anni dirigeva il resort sciistico di Gazprom, il più importante della Russia, a quaranta chilometri da Sochi, praticamente casa di Putin, quello dove Putin stesso va a sciare o porta a sciare amici come il dittatore bielorusso Alexandr Lukashenko. Naturalmente un'indagine è in corso, ma nessuno ci punta mezzo rublo, ovviamente.
Sochi e Krasnaya Polyana non sono posti qualunque, nella storia del putinismo. Nel 2014 Krasnaya ospitò le competizioni principali delle Olimpiadi invernali russe, e ci furono lavori imponenti - appaltati per lo più al braccio di costruzioni di Gazprom, guidato dall'amico di judo di Putin, Arkady Rotenberg, oggi plurisanzionato da Stati Uniti e Unione europea.
Venne realizzata tra le altre cose una nuovissima ferrovia che in quaranta minuti portava i visitatori lì dal Parco Olimpico (prima, per andare da Sochi a Krasnaya ci volevano tre ore di strade in molti punti sterrate). Ci fu solo un piccolo problema, in tutta quella storia che veniva celebrata come l'apoteosi della capacità progettuale putiniana (assieme ai gasdotti, ovviamente): il rifacimento di Krasnaya Polyana costò, da solo, otto miliardi di dollari.
Russian Esquire scrisse che con quei soldi la strada avrebbe potuto essere ricoperta da uno strato di caviale di un centimetro. Tutto il pacchetto Sochi costò 50 miliardi di dollari: la Cina, per i Giochi estivi del 2008, che avevano un numero di eventi tre volte maggiore, osservò il Financial Times, aveva speso sei miliardi in meno. Furono, Sochi e il capitolo Krasnaya Polyana, un gigantesco caso di auto-corruzione del regime di Putin? Di sicuro chiunque studi la cleptocrazia putiniana ha dovuto toccare il buco nero-Sochi.
Krukowski diventa direttore generale del resort sciistico nel 2015, a neanche trent' anni. Ma ci lavora da tre anni prima. È considerato uno dei manager più promettenti della Russia. Tenuto in palmo di mano dai Rotenberg. Una laurea in economia a Mosca, e poi la specializzazione alla London Business School, dove avrebbe mantenuto buoni contatti: non un ottimo biglietto da visita, nei giorni in cui sulle tv del Cremlino si spiega come i missili Sarmat potrebbero incenerire la Gran Bretagna in duecento secondi.
Non si sa se questo è un caso, certo molti dei morti odoravano, agli occhi di Putin, di occidente, e chissà se nel celebre discorso del 16 marzo Putin stesso non abbia fornito una chiave: «Non sto giudicando chi ha ville a Miami o in Costa Azzurra, i russi che non possono vivere senza foie gras e ostriche o i cosiddetti diritti di genere, perché pensano che questo li collochi in una casta superiore. Il problema sono quelle persone che vivono qui in Russia ma mentalmente sono distanti, vivono in Occidente».
La conclusione sembrò una cupa profezia («l'Occidente usa i nostri traditori per distruggere la Russia, ma il nostro popolo sarà sempre in grado di distinguere i patrioti dalla feccia e dai traditori, e sputarli fuori come una mosca che gli è volata accidentalmente in bocca») o forse era quello che già stava accadendo, e ancora non avevamo messo in fila i fatti.
Oligarchi russi morti, "sei decessi in tre mesi". Le indagini sui suicidi: erano dirigenti Gazprom. Giada Oricchio su Il Tempo il 30 aprile 2022.
Sei. Sono sei gli oligarchi russi trovati morti, dalla fine di gennaio al 19 aprile, in circostanze misteriose. A volte con le famiglie. Cosa li accumunava? Erano tutti uomini legati al presidente russo Vladimir Putin. Fortune ha stilato la lista delle vittime, poi ripresa dalla Cnn americana. Ecco chi sono. Il 19 aprile, Sergey Protosenya, 55 anni, è stato rinvenuto senza vita nella villa di Lloret de Mar in Spagna. L’uomo si sarebbe impiccato dopo aver ammazzato a colpi di ascia e coltello moglie e figlia 18enne mentre dormivano. Si è salvato solo il figlio maggiore della coppia, Fedor, perché vive in Francia.
Il 22enne non crede all’omicidio-suicidio e ha dichiarato che la sua famiglia è stata uccisa da una terza persona. Già, ma chi? Ventiquattrore prima era toccato a Vladislav Avayev, 51 anni, uccidersi nel suo appartamento al quattordicesimo piano di un lussuoso condominio di Mosca dopo aver sparato alla moglie incinta e alla figlia di 13 anni. Avayev era stato consigliere del Cremlino e vicepresidente della Gazprombank, uno dei principali canali per i pagamenti di petrolio e gas russo.
Le indagini sono aperte così come sono in corso quelle per il miliardario Vasily Melnikov, la moglie e i due figli. I quattro cadaveri sono stati scoperti nel loro appartamento di Nizhny Novgorod. Secondo i media locali, avevano tutti ferite da taglio e si tratterebbe di un altro omicidio-suicidio. Risalendo nel tempo, il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, Mikhail Watford, russo di origine ucraina, si è impiccato nel garage della magione nel Surrey, Regno Unito. Aveva 66 anni e doveva la sua fortuna al commercio di petrolio e gas dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Anche Alexander Tyulyakov, 61 anni, ex dirigente della Gazprom, è stato trovato impiccato nel garage di casa vicino a San Pietroburgo. Era il 25 febbraio. La scia di morte arriva a gennaio con Leonid Shulman, 60 anni, anche lui alto dirigente di Gazprom. Il suo corpo è stato scoperto nel bagno di casa e vicino c’era un biglietto. Qualche mese prima era stata apertura un’indagine su una presunta frode a Gazprom. Se tre indizi fanno una prova, sei quante ne fanno?
Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 25 aprile 2022.
Chi tocca i fili della corrente, anzi i tubi del gas, muore. L’elenco dei top manager russi legati a Gazprom o altre grandi aziende del gas o ai servizi russi che stanno morendo, in vario modo suicidi o “suicidati” dall’inizio della guerra di Putin in Ucraina fa letteralmente paura. E sono storie ognuna delle quali presenta buchi, cose che non tornano, segni di violenta esterna.
Lunedì 18 aprile Vladislav Avayev, 51 anni, ex consigliere del Cremlino ed ex vicepresidente di Gazprombank, è stato trovato morto per una ferita da arma da fuoco nel suo appartamento di Mosca. Gli investigatori hanno dichiarato che l’ipotesi è che Avayev avrebbe sparato a sua moglie, 47 anni, incinta, e sua figlia, 13 anni, e poi a se stesso.
A duemila miglia di distanza, sulla Costa Brava in Spagna, Sergei Protosenya, ex vicepresidente e capo contabile di Novatek, un'importante compagnia del gas con stretti legami con Gazprombank, è stato trovato impiccato, con la moglie e la figlia accoltellate a morte. È stato trovato con un coltello macchiato di sangue e un'ascia al fianco, ha riferito Telecinco. Il fatto è che invece sugli abiti di Protosenya non c’era una goccia di sangue, secondo quanto hanno riferito diversi media locali, abbondante invece su quelli delle due donne.
Non si tratta, contrariamente a quanto è stato scritto, di veri e propri oligarchi, ma di alti manager di stato sì, persone che certamente conoscevano schemi fiscali, processi di produzione, conti aziendali, flussi finanziari. Erano insomma seduti su una notevole mole di informazioni collegate alla rivendita del gas russo in Europa, che da sempre è lo snodo cruciale dei processi di influenza, e interferenza del Cremlino nelle democrazie e nelle economie occidentali. E’ così che Vladimir Putin ha comprato influenze (e interferenze) nelle democrazie europee. Usando questa leva.
Non sono le uniche morti violente che lasciano temere che qualcosa stia succedendo, dentro il comprato energetico russo che molti in Europa vorrebbero colpire con l’embargo totale sul gas russo, ma altri – specialmente nella Germania del cancelliere Scholz e di Frank Steinmeier – vogliono invece risparmiare.
La mattina del 25 febbraio 2022 il corpo di un altro alto dirigente di Gazprom, Alexander Tyulyakov, 61 anni, era stato ritrovato nella regione di San Pietroburgo, ma la polizia locale venne estromessa dalle scena del crimine da parte del servizio di sicurezza di Gazprom. Tyulyakov era il vicedirettore generale dell'Unified Settlement Center di Gazprom, la cassa dell’azienda, e fu trovato impiccato in un garage annesso alla casa. Più o meno come Protasenya.
E, hanno riportato i pochi media indipendenti, per esempio Novaya Gazeta Europa, la polizia ha lasciato fare sulla scena del possibile delitto la sicurezza aziendale, che addirittura avrebbe spinto fuori i poliziotti, come se quello che succede dentro Gazprom fosse una vita parallela e a se stante del regime di Putin. Schema che è stato messo in discussione invece in Spagna, dove per la morte di Protosenya sta indagando «a tutto campo» la polizia spagnola, ci dice una fonte. Troppe le incongruenze nella scena del crimine per presunta gelosia o affari familiari.
Protasenya ha un patrimonio limitato, “solo” 430 milioni di dollari (non certo un patrimonio da oligarca in senso stretto), ma si trovava in un’azienda anch’essa strategicamente vicina a Putin: Novatek di cui è comproprietario (con il 23,5 per cento) uno degli amici di giovinezza del presidente russo fin dai tempi della Cooperativa Ozero, Gennady Timchenko – il sesto miliardario più ricco della Russia con un patrimonio netto di 22 miliardi, secondo Forbes – che stato anche uno dei principali rivenditori del suo gas (IL, rivenditore, forse) in Svizzera e Francia (a Timchenko l’Italia di Mario Draghi ha appena sequestrato un enorme yacht in Liguria, “Lena”).
Nonché proprietario di un pezzo del tesoro immobiliare della famiglia Putin: Timchenko è stato dal la villa a Biarritz, che secondo il registro immobiliare francese è stata intestata dal 2007 al 2012 l’intestatario della villa a Biarritz, poi trasferita a Kirill Shamalov, allora marito (oggi ex) di Katerina Tikhonova, figlia di Putin. Timchenko, a fine marzo si è dimesso proprio dal boad di Novatek, dopo le sanzioni arrivate il 22 febbraio dal Regno Unito e il 28 dall’Unione europea. Già era in una lista di sanzioni statunitensi per l'annessione della Crimea da parte di Mosca nel 2014. Cosa sta succedendo, nel mondo del gas russo?
Qualcosa, forse molto, non quadra anche nella vicenda Avayev: la pistola che l’ha colpito sarebbe una pistola automatica Stechkin, un’arma che era in dotazione al KGB fin dagli anni settanta e all’intelligence militare sovietica e russa GRU. E che, quand’anche fosse stata posseduta da Avayev, ne esporrebbe contatti piuttosto probabili con i servizi. In tutto questo, il 18 aprile è morto anche Vyacheslav Trubnikov, ex capo del servizio di intelligence estero russo e ambasciatore in India, aveva 77 anni, riporta la TASS, l’agenzia del Cremlino, ma anche qui la causa della morte è sconosciuta.
Vladimir Putin aveva detto, in un celebre discorso tv: «Non giudico quelli con ville a Miami o in Costa Azzurra. O che non possono cavarsela senza ostriche o foie gras o le cosiddette libertà di genere. Il problema è che esistono mentalmente lì, e non qui, con il nostro popolo, con la Russia». E aveva chiesto una «auto-purificazione» della Russia, e in un certo senso queste morti lo sono, auto-inflitte da se stessi o dal regime.
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 28 aprile 2022.
È il 29 gennaio. Il capo del servizio di trasporto di Gazprom-Invest, Leonid Shulman, viene trovato morto a Mosca - con profondi tagli sul corpo insanguinato, sostengono i servizi ucraini. 25 febbraio.
Alexander Tyulyakov, 61 anni, vicedirettore generale dell'Unified Settlement Center di Gazprom, la cassa dell'azienda, viene trovato impiccato in un garage annesso alla casa. Il servizio di sicurezza di Gazprom sloggia via tutti dalla scena, anche la stessa polizia russa. 3 marzo. Mikhail Watford, oligarca russo di origini ucraine (il suo nome era Mikhail Tolstosheya), che aveva fatto fortuna commerciando gas russo, viene trovato impiccato nella sua villa in Gran Bretagna. Gli agenti britannici definiscono le circostanze della morte «inspiegabili». 18 aprile.
Il corpo di Vladislav Avaev, vicepresidente esecutivo di Gazprombank, e di sua moglie e sua figlia, vengono trovati nel loro appartamento di Mosca con ferite da arma da fuoco. È un omicidio suicidio, si affretta a dire Mosca. 19 aprile. Sergei Protosenya, ex vicepresidente e capo contabile di Novatek, un'importante compagnia del gas con stretti legami con Gazprombank, moglie e figlia vengono trovati morti in una villa in Spagna, a Lloret de Mar. Le donne sono insanguinate, lui no. Mosca si affretta a dire, anche qui, che è un omicidio suicidio. Il figlio più giovane, salvo perché era in Francia, dichiara: sono stati uccisi. Il 31 marzo Ruslan Dostovalov, direttore esecutivo di Gazprombank, si dimette per protesta contro la guerra della Russia e la propaganda di odio di NTV e TNT, del conglomerato Gazprom-Media.
Dostovalov dichiara di non poter più lavorare con Alexei Miller. In questo scenario, morti e defezioni, chi può dire quale sia stata ieri la ragione che ha spinto Igor Volobuev, vicepresidente di Gazprombank, ad annunciare (ai reporter russi indipendenti di The Ins, e agli ucraini di Liga) di essere fuggito dalla Russia il 3 marzo per combattere a fianco delle forze ucraine? Fugge davvero per tornare nella sua terra d'origine, l'Ucraina dov'era nato, e dove suo padre veniva ammazzato dall'esercito russo, o fugge - anche - da un destino che Vladimir Putin sta apparecchiando a tutti quelli che, nel terrificante discorso del 16 marzo, definì «le quinte colonne e i traditori», «feccia» che sarà «sputata come moscerini», «auto purificando» la Russia?
«Non potevo più stare in Russia. Sono ucraino di origine, sono nato ad Akhtyrka, non potevo più osservare dall'esterno cosa sta facendo la Russia alla mia patria», spiega Volobuev. «Voglio lavare via il mio passato russo. Voglio rimanere in Ucraina fino alla vittoria.
Questa guerra è un crimine del governo russo ma, di fatto, anche del popolo russo. Perché non è Putin che uccide gli ucraini qui, non è Putin che violenta le donne: è il popolo russo. Mi vergogno di questo, me ne pentirò per tutta la vita».
Volobuev ha raccontato che «i russi stavano uccidendo mio padre, i miei conoscenti e i miei amici intimi».
Sostiene che no, «non c'era alcuna minaccia per la mia vita in Russia. Avevo una situazione materiale molto benestante lì. E se fosse un problema di sicurezza, non andrei da nessuna parte».
Possibile. Ma è altrettanto possibile che abbia giocato d'anticipo, capendo ciò che sarebbe successo di lì a poco. Morti misteriose. Fughe all'estero. Purghe putiniane. È lui stesso a mettere in dubbio gli omicidi suicidi di Avaev e Protosenya: «Penso siano una messa in scena. Come mai? Forse sapevano qualcosa e rappresentavano un pericolo».
Volobuev ha lavorato per Gazprombank per più di sei anni (relazioni istituzionali e asset industriali), e prima aveva già lavorato per Gazprom per 16 anni, di cui nove a capo della comunicazione. Detto prosaicamente: disinfo ops, è questa la parte più interessante della sua confessione: «La guerra all'Ucraina era cominciata venti anni fa».
Ed è Gazprom, dice, ad averla fatta: «L'Ucraina è stata screditata come fornitore di gas affidabile agli occhi dei consumatori europei. Gazprom ha fatto molto, ha investito milioni per questo». Screditare Kiev nel gas significava costruire le basi per sostenere nuovi gasdotti, a cui hanno collaborato tedeschi e italiani.
I russi, dice Volobuev, «sanno come tentarti, come il diavolo». «Questo ha permesso di dichiarare abbastanza ragionevolmente all'Europa che era necessario costruire gasdotti: Nord Stream, Turkish Stream, Nord Stream-2.
Privare l'Ucraina dello status di stato di transito. E il volume del transito di gas russo in Ucraina è davvero diminuito, l'anno scorso è stato di soli 41 miliardi di metri cubi (nel 2011 era stato di 104 miliardi, ci sono stati anni con 140 miliardi di metri cubi e oltre)».
Guerra all'Ucraina con il gas, prima che con i cannoni. L'ex deputato della Duma di Stato, colonnello in pensione dell'FSB Gennady Gudkov, non esclude che molte di queste morti o defezioni siano una resa di conti dentro le principali società statali. Le guerre criminali si fanno in casa e non solo fuori.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2022.
Un rogo in quella che viene considerata come la Cape Canaveral russa non può passare inosservato. Non di questi tempi. Soprattutto se arriva dopo altri due incendi sospetti avvenuti nei giorni scorsi, uno all’Istituto di ricerca per la difesa aerospaziale a Tver e un altro all’impianto chimico Dmitrievsky a Kineshma.
Sono tutti luoghi strategici, per la loro stessa natura. Ma l’incidente di ieri nel polo industriale di Korolyov, alle porte di Mosca, che ospita numerosi stabilimenti legati alla produzione di energia e componentistica aerospaziale, tra cui il Centro scientifico russo dedicato allo sviluppo di razzi e veicoli spaziali, e RKK Energija, ovvero la società che si occupa di attività correlate al volo spaziale, ha un notevole valore simbolico.
E infatti le immagini dei capannoni e degli uffici in fiamme sono state mostrate con una certa soddisfazione da diversi canali social ucraini, che le hanno considerate come la prova definitiva di una azione di sabotaggio antirussa.
Anche fonti vicine al Cremlino non hanno escluso questa ipotesi, e il riserbo con il quale viene trattata la vicenda dai media di Stato, che nella loro opera di propaganda tendono a non dare mai notizie di natura negativa, lascia aperta la porta a ogni possibile interpretazione.
Invece l’istituto di ricerca delle truppe della Difesa aerospaziale di Tver praticamente distrutto dall’incendio, nei mesi scorsi è stato al centro di uno scandalo finito in un’inchiesta condotta dal Comitato investigativo russo sulla cui base è stata aperta una causa penale nei confronti dell’intera dirigenza dell’ente con a capo l’ormai ex direttore generale Sergey Yagolnikov. I vertici dell’istituto con il benestare del dirigente assumevano «anime morte», cioè persone che lavoravano alle ricerche solo sulla carta ma per loro si erogavano invece stipendi veri. Così i truffatori avrebbero intascato quasi 300 milioni di rubli (quasi 4 milioni di euro).
Nei palazzi del potere
L’aria dell’Est non è più serena da tempo. E quella intorno ai palazzi del potere moscovita è quasi irrespirabile, piena com’è di misteri, di contrasti non dichiarati, e di paura. Anche due tragedie in apparenza dovute a motivi personali, come quelle dei due piccoli oligarchi, che hanno sterminato le loro famiglie togliendosi poi la vita, alimentano sospetti di ogni genere. Gennadij Gudkov, ex deputato della Duma e colonnello dell’Fsb, da tempo all’opposizione, è stato lesto a commentarle con una abbondante dose di teoria del complotto.
«Siamo tutti consapevoli che il regime si sta occupando della eliminazione dei propri oppositori e nemici. E allora perché non dovrebbe fare i conti con coloro che sono considerati traditori fuggiti dal sistema. Molte di queste morti sospette assomigliano infatti a una spietata resa dei conti».
Come se fossero un messaggio, questa è la sorte che tocca a chi fugge dalla Russia. Questo intendeva dire Gudkov, questo pensano alcuni dissidenti, senza peraltro avere il coraggio di dirlo apertamente.
Tutto il mondo li sta chiamando oligarchi, ma è una definizione che calzava molto larga per Sergey Protosenya e Vladislav Avayev. Il primo, trovato morto insieme alla moglie e alla figlia tredicenne nella sua villa di Lloret de Mar in Spagna, era in realtà un manager della società Novatek, la quarta società russa nel settore idrocarburi, responsabile della contabilità aziendale.
Uno dei comproprietari è Gennadij Timchenko, amico personale di Vladimir Putin. Anche per questo, sussurrano i maligni, Novatek ha ricevuto un privilegio importante, l’esonero dall’obbligo di vendere i suoi prodotti solo in rubli. Protosenya aveva 56 anni e un patrimonio stimato in quattrocento milioni di dollari. Secondo la Polizia spagnola, avrebbe soppresso i suoi cari a colpi d’ascia, e poi si è suicidato.
L’uomo dei rubli
Avayev ha ucciso la moglie Elena, secondo i giornali moscoviti perché sospettava di un suo adulterio, e poi la figlia tredicenne Maria, che soffriva dalla nascita di paralisi cerebrale infantile. Era un personaggio molto conosciuto nella capitale. È stato vicepresidente della banca Gazprombank e prima ancora vicedirettore di un dipartimento della Tesoreria del Cremlino.
Negli ultimi tempi era co-proprietario della società Carbonics di Kaliningrad che produce impianti ossei, insieme alla figlia del vicecapo della Rostec Nikolaj Volobuyev, società di spicco nel complesso militare-industriale e guidata da Sergey Chemezov, amico di lunga data di Vladimir Putin. Gazprombank è ritenuta uno degli istituti di fiducia dei parenti e degli amici del presidente, e il mese scorso è stata per le esportazioni del metano in rubli. Tutta la valuta ricavata dalla vendita del gas va a finire sui suoi conti.
I sospetti
Alcuni media indipendenti, come il giornale online Baza, hanno fatto notare che queste non sono le uniche morti sospette. All’inizio dell’anno, è stato trovato senza vita nel bagno di casa il corpo del sessantenne Leonid Shulman, capo del servizio trasporti di Gazprom Invest. Accanto c’era un messaggio in cui l’uomo si lamentava di forti dolori alla gamba destra, che si era rotto di recente.
La morte è avvenuta nella cittadina Leninskij della regione di San Pietroburgo, la stessa dove a febbraio è morto all’improvviso Aleksandr Tyuliakov, vicedirettore generale del Centro pagamenti di Gazprom, responsabile della sicurezza aziendale. Prima della sua chiusura, avvenuta a seguito della nuova legge sulla censura, Novaya Gazeta scriveva riferendosi alle fonti dell’istruttoria che il cadavere aveva un cappio al collo, e accanto c’era una nota scritta, il cui contenuto non è stato reso pubblico.
Gudkov conclude così la sua spericolata analisi: «Per i servizi segreti è importante evitare la fuga di topi dalla nave in una quantità troppo grossa perché questi topi sono a conoscenza di molte cose e potrebbero cominciare a parlare». Tanti morti, tanti misteri. Ma intorno al Cremlino, non sono mai mancati, né gli uni né gli altri. Non solo in questi mesi.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 22 aprile 2022.
Dall'inizio di marzo le morti sospette sono state tre. Le ultime due, quelle di Sergey Protosenya e di Vladislav Avayev, sono avvenute nel giro di un paio di giorni. Suicidi apparentemente inspiegabili, intere famiglie sterminate, morti violente la cui dinamica, però, è difficile da ricostruire, a tratti incomprensibile.
Sono gli stessi uomini che, il 16 marzo, il presidente russo Vladimir Putin aveva menzionato - senza mai citarli - in un discorso tv che sembrava un avvertimento: «Non sto giudicando chi ha una villa a Miami o in Costa Azzurra, chi non può fare a meno del foie gras, delle ostriche o delle cosiddette libertà di genere», ma sono persone «pronte anche a vendersi la madre». E ancora: «Il popolo russo li sputerà semplicemente fuori, come un moscerino che gli è volato accidentalmente in bocca».
Il riferimento era agli oligarchi russi che avevano in mente di abbandonare il Paese dopo l'imposizione di sanzioni da parte del Regno Unito e dell'Ue. E adesso sulla morte di alcuni di quelli che Putin aveva definito «traditori nazionali», sono in corso le indagini. Anche se tutte le piste restano aperte - tracolli economici, tradimenti, morti violente legate alla criminalità organizzata, rapine finite male - si tratta di una circostanza quantomeno singolare.
ORRORE NELLA VILLA L'ultimo caso risale a martedì: il cadavere di Sergey Protosenya, cinquantacinquenne vicepresidente del colosso del gas Novatek, è stato trovato insieme a quelli della moglie Natalya e della figlia Maria, appena diciottenne. Erano nella villa di famiglia a Lloret de Mar, in Spagna. L'allarme è stato dato dal figlio maggiore, che non riusciva a mettersi in contatto con i genitori.
Natalya e Maria sono state uccise a coltellate, mentre Protosenya è stato trovato impiccato, accanto a un coltello insanguinato e ad un'ascia. La tesi dell'omicidio-suicidio non è per nulla scontata: sul corpo dell'oligarca non è stata trovata nemmeno una traccia di sangue. Sono invece stati trovati dei calzini insanguinati, che potrebbero essere stati utilizzati come guanti per evitare di lasciare impronte.
Il giorno prima, il lunedì di pasquetta, era stato trovato morto anche Vladislav Avayev, 51 anni, ex consigliere del Cremlino ed ex vicepresidente della Gazprombank. Anche in questo caso, al quattordicesimo piano di un lussuosissimo condominio di Mosca, la scenografia era quella di un omicidio-suicidio.
Avayev aveva in mano una pistola e, accanto a lui, c'erano i corpi senza vita della moglie incinta, Yelena, e della figlia Maria, 13 anni. A trovarli era stata l'altra figlia dell'oligarca, Anastasia, 26 anni. Alcuni vicini, parlando con il Daily Mail, hanno detto che il banchiere poco tempo fa aveva perso il lavoro e che, forse, la moglie aveva iniziato una relazione con l'autista.
All'orrore del grattacielo di Mosca, però, c'è un precedente, che risale al 3 marzo. Mikhail Watford, 66 anni, oligarca di origini ucraine, è stato trovato impiccato nel garage della sua villa da 18 milioni di sterline nel Surrey, in Inghilterra. Ha lasciato una moglie e tre figli. Aveva fatto una fortuna nel settore dell'energia nell'Unione sovietica, prima di creare un impero immobiliare in Gran Bretagna. Il Sun ha definito sospetta la sua morte: nel 2000 aveva cambiato il suo cognome originario, Tolstosheya, e aveva fatto affari nel settore della raffinazione del petrolio in Ucraina.
Intanto ieri si è dimesso il presidente e fondatore di Lukoil, Vagit Alekperov, che ha diretto l'azienda per 30 anni. Si tratta di un vero e proprio impero, con oltre 100mila dipendenti e che produce il 2% del petrolio del mondo. La decisione è arrivata senza nessuna spiegazione ufficiale, dopo la posizione critica assunta da Alekperov sulla guerra in Ucraina. Il Consiglio di amministrazione di Lukoil aveva espresso «solidarietà per tutte le vittime colpite da questa tragedia», chiedendo «un cessate il fuoco durevole».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 aprile 2022.
Il figlio dell'oligarca russo sospettato di aver massacrato la moglie e la figlia adolescente prima di suicidarsi è convinto che l’uomo sia stato assassinato. L'ex multimilionario Sergey Protosenya è stato trovato impiccato nel giardino della sua lussuosa casa per le vacanze in Spagna mentre i corpi di sua moglie Natalya e di sua figlia Maria di 18 anni sono stati scoperti all’interno dell’abitazione. Entrambe sono state uccise con un’ascia.
Le autorità spagnole hanno suggerito che il signor Protosenya, 55 anni, le abbia giustiziate prima di suicidarsi in un insolito impeto di rabbia mentre la famiglia si godeva una pausa pasquale sulla Costa Brava la scorsa settimana.
Ma suo figlio Fedor ha detto che suo padre, che era stato vicepresidente della principale azienda russa del gas Novotek, «non avrebbe mai potuto fare del male» a sua moglie e sua figlia e ha suggerito che tutti e tre i membri della sua famiglia sono stati assassinati. «Mio padre non è un assassino», ha detto Fedor Protosenya a MailOnline.
Il signor Protosenya non ha lasciato un biglietto d'addio e non sono state trovate impronte sulle armi - un'ascia e un coltello – usate per uccidere le due donne. Non c'erano macchie di sangue sul suo corpo.
La polizia spagnola ha rifiutato di rilasciare i risultati degli esami post mortem dei tre corpi che sono stati effettuati nel fine settimana, adducendo il «segreto investigativo della polizia». Fedor, uno studente universitario di 22 anni, non era nella villa perché ha trascorso la Pasqua nella casa di famiglia a Bordeaux, in Francia.
Ha difeso il padre dicendo: «Amava mia madre e soprattutto Maria, mia sorella. Era la sua principessa. Non avrebbe mai potuto fare nulla per danneggiarle. Non so cosa sia successo quella notte, ma so che mio padre non gli ha fatto del male».
Fedor ha detto che la polizia gli aveva detto di non discutere il caso. Ha lanciato l'allarme quando martedì della scorsa settimana non è stato in grado di contattare telefonicamente nessuno dei suoi familiari.
La polizia catalana è andata alla villa e ha trovato il signor Protosenya impiccato nel cortile e i corpi mutilati di sua moglie Natalia, 53 anni, e Maria all'interno. Il capo della polizia regionale, il commissario Josep Milan, ha affermato che le prove suggerivano che le morti fossero il risultato di un duplice omicidio e suicidio con Protosenya come assassino. Ha detto: «Gli investigatori si stanno concentrando su una persona che si è suicidata e due persone che sono state uccise in casa, questo è ciò che stiamo guardando».
Le morti violente hanno suscitato un'onda d'urto nella affiatata comunità russa nella località di Lloret de Mar, sulla Costa Brava spagnola, dove il signor Protosenya aveva acquistato una casa per le vacanze con la famiglia circa dieci anni fa. L'uomo d'affari Anatoly Timoshenko, un caro amico dell'oligarca russo, ha detto a MailOnline: «Sergey non l'ha fatto. Sergey non ha ucciso la sua famiglia. È impossibile. Non voglio discutere di quello che può essere successo a casa quella notte, ma so che Sergey non è un assassino».
Un altro amico Roman Yuravich ha aggiunto: «Sergey non ha ucciso la sua famiglia. Lo conosco da dieci anni. Era un uomo felice. Amava la sua famiglia. Non ha ucciso sua moglie e suo figlio. Sono sicuro».
La morte dell'oligarca è la quarta misteriosa scomparsa dei dirigenti delle aziende del gas russe e delle loro famiglie legate alla cerchia ristretta del presidente russo Vladimir Putin. Pochi giorni prima il corpo di Vladislav Avayev è stato trovato nel suo attico d'élite di Mosca insieme alla moglie Yelena e alla figlia Maria di 13 anni in un altro apparente omicidio-suicidio.
Avayev, 51 anni, era stato in precedenza presidente di Gazprombank, una banca creata per lavorare per il gigante russo del gas Gazprom, ed era stato anche un funzionario del Cremlino. A febbraio i corpi maltrattati e massacrati degli alti dirigenti della Gazprom Alexander Tyulakov e Leonid Shulman sono stati trovati nei loro appartamenti di lusso in un complesso residenziale d'élite vicino a San Pietroburgo.
Anche il gigante russo del gas naturale Novatek, di cui Protosenya era stato vicepresidente prima di ritirarsi con una fortuna di 300 milioni di sterline, ha messo in dubbio che potesse essere lui il responsabile delle brutali uccisioni.
In una dichiarazione Novatek ha dichiarato: «Sergey Protosenya si è affermato come una persona eccezionale e un meraviglioso padre di famiglia, un forte professionista che ha dato un contributo considerevole alla formazione e allo sviluppo dell'azienda. Purtroppo, nei media sono emerse speculazioni su questo argomento, ma siamo convinti che queste speculazioni non abbiano alcuna relazione con la realtà».
I corpi ritrovati in un lago di sangue. Giallo all’ombra del Cremlino, l’ex dirigente di Gazprombank Avayev morto in casa: uccise moglie incinta e figlia. Vito Califano su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Vladislav Avayev è stato ritrovato morto in casa, in un lago di sangue, la pistola in mano. E morte, uccise, sono state ritrovate anche la moglie Yelena, incinta, e la figlia minore della coppia Maria, appena 13anni. Il 51enne era una persona influente, ex alto funzionario del Cremlino ed ex vicepresidente di Gazprombank. La polizia russa ha fatto sapere che tutti e tre i cadaveri presentavano ferite da arma da fuoco. La pista più accreditata al momento è quindi quella dell’omicidio-suicidio, della strage familiare. Per qualcuno però qualcosa non torna, e quindi già si parla di giallo all’ombra del Cremlino.
Avayev era una persona influente, multimilionario, arricchitosi grazie alla sua attività nel campo delle costruzioni. Era stato vicepresidente di Gazprombank, la terza banca del paese, uomo-chiave in uno dei principali canali per i pagamenti di petrolio e gas russo – in questi giorni al centro delle tensioni tra Mosca e l’Occidente dopo l’invasione dell’Ucraina scatenata dal presidente Vladimir Putin. Gazprombank è l’istituto al centro del sistema ideato per far pagare alle aziende europee il gas in rubli, tramite due conti correnti. Secondo alcuni media Avayev aveva mantenuto dei legami – non è ancora chiaro in che modo – con quell’attività nonostante avesse lasciato da tempo l’incarico. Era stato anche vice capo di un dipartimento dell’amministrazione del Cremlino di Putin.
È stato trovato morto in casa, ferito da colpi di arma da fuoco come la moglie e la figlia minore, nel suo appartamento da quasi due milioni e mezzo di euro a Mosca. A trovare i corpi è stata Anastasia, 26 anni, figlia maggiore del milionario. La giovane, ha ricostruito la Tass, non riusciva a mettersi in contatto con la famiglia e quindi si sarebbe recata presso l’abitazione. La porta era chiusa dall’interno: è il particolare che ha spinto la polizia a ipotizzare la strage familiare.
La pista sarebbe confermata dal fatto che la figlia avrebbe trovato una pistola in mano al padre. E quindi è questa la versione ufficiale. Una carneficina forse scatenata da motivi di gelosia. Si legge di una presunta relazione della moglie con l’autista del banchiere, licenziato qualche tempo fa. Il britannico Daily Mail cita un’altra ipotesi, adombrata da una vicina di casa, che richiama in causa una crisi finanziaria scatenata dalle sanzioni occidentali. “Forse si è ucciso per quello, forse era stato travolto dai debiti. Tutti sono depressi, alcuni sono disposti a prendere misure estreme”, ha dichiarato la donna.
Certo il Regno Unito è stato uno dei Paesi più schierati e contrari alle azioni di Putin in Ucraina fin dall’inizio dell’“operazione speciale”. Il tabloid però cita anche un’altra vicina di casa: “Era un uomo intelligente, quasi il capo della Gazprombank. Non aveva motivo di farlo. Era ricco, intelligente. Non è possibile che un uomo del genere possa uccidere. Forse Avayev e la sua famiglia sono stati uccisi”. Al momento sono solo voci. Le autorità locali stanno indagando sulla vita professionale e personale dell’uomo. Hanno già scoperto tredici armi nell’appartamento del massacro.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Lo sfogo del miliardario Tinkov contro la guerra: «L'esercito è una mer.., come tutto in questo Paese corrotto». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.
In un clamoroso post su Instagram, l'imprenditore ribadisce la sua contrarietà a questa guerra, dove «muoiono innocenti e soldati»: «Chi va in giro a disegnare le Z è un idiota, ma gli idioti sono il 10 per cento: il 90% dei russi è contro la guerra».
La presa di posizione più dura contro la cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina è arrivata dall’oligarca che sostiene di non essere un oligarca. E che a causa delle sanzioni occidentali rischia di non esserlo più davvero. «Non vedo nessun beneficiario di questa folle guerra dove muoiono innocenti e soldati. I generali russi, svegliandosi con i postumi di una sbornia, si sono resi conto che avevano un esercito di m… E come può essere buono l’esercito, se tutto il resto è una m… impantanato com’è nel servilismo e nel nepotismo? I funzionari del Cremlino sono scioccati dal fatto che non solo loro, ma anche i loro figli, non andranno nel Mediterraneo questa estate. Gli uomini d'affari stanno cercando di salvare ciò che resta delle proprietà. Certo, ci sono idioti che disegnano "Z", ma gli idioti in qualsiasi Paese sono il dieci per cento. Il 90% dei russi invece è contro questa guerra».
A corredo di questa invettiva su Instagram, c’è una foto che ritrae Oleg Tinkov con i capelli lunghi e gli occhiali da sole, sullo sfondo di un paesaggio di mare che potrebbe essere quello di Forte dei Marmi, dove il magnate russo trascorre ormai gran parte della sua vita. Anche per questo, uno sfogo così violento potrebbe essere considerato come una scelta di vita, addio Russia per sempre. C’è anche una sorta di post-scriptum, questa volta in inglese, e non si tratta certo di un caso. «Caro Occidente, per favore, date al signor Putin una chiara via d'uscita per salvare la faccia e fermare questo massacro. Per favore, siate più razionali e umanitari».
In apparenza, ci siamo. Ci sono voluti oltre cinquanta giorni, e dopo alcune timide dichiarazioni di altri magnati, alcune ritrattate, altre smussate, infine è arrivata una «ribellione» vera e addirittura debordante nei toni da parte di un miliardario russo, anche se l’autore ha sempre rifiutato la patente di oligarca, anche in una recente intervista rilasciata al Messaggero, dove specificava di non essersi mai impossessato dei beni di proprietà dello Stato, a differenza dei veri oligarchi, ma di essere un russo che si è costruito da solo la propria fortuna. E c’è del vero, in questa affermazione. Di umili origini, ex venditore di birra e gnocchi, Oleg Tinkov era diventato una delle storie di successo della nuova Russia fondando la banca digitale Tinkoff, che grazie alla quotazione alla Borsa di Londra lo rese per qualche tempo uno dei primi dieci uomini più ricchi del suo Paese.
Ma proprio per questa sua «indipendenza», Tinkov ha visto evaporare il suo patrimonio con la guerra in Ucraina. Il valore delle sue azioni è sceso del 90 per cento, e il declino del rublo lo ha fatto uscire dal club dei miliardari. Dal fatidico 24 febbraio, giorno di inizio del conflitto, è stato sempre citato come la principale vittima delle sanzioni. Comunque, per lui nulla sarà più come prima, dopo questa intemerata. E Tinkov ci ha messo poco a capirlo. Alle 19.49, ore di Mosca, il canale Telegram della banca Tinkoff ha pubblicato la seguente dichiarazione commentando il post del fondatore: «Tinkoff Bank è formata da 40 mila addetti che quotidianamente e 24 ore su 24 fanno di tutto per rendere la vita dei nostri concittadini migliore dal punto di vista finanziario. Possiamo discutere nella ricerca di soluzioni corrette ma in ogni situazione il cliente per noi è più importante dei dibattiti. Perciò non possiamo commentare e non commenteremo l’opinione personale di Oleg Tinkov enunciata da lui su reti sociali. Oleg Tinkov già da molti anni non è la persona che prende decisioni nelle società del Gruppo Tinkoff, non è manager della Tinkoff, da tempo manca dalla Russia e negli ultimi anni si occupa dei problemi della sua salute. Oleg Tinkov è uno dei 20 milioni dei nostri clienti. Sappiamo che i nostri clienti la pensano in maniera diversa e rispettiamo il loro diritto di avere un’opinione propria indipendentemente dal fatto che noi la sosteniamo o meno».
Nel gennaio 2021 il sito della Borsa di Londra ha fatto sapere che Oleg Tinkov aveva abbassato la sua quota nella TCS Group Holding che controlla la Tinkoff Bank dall’84 al 35% e secondo lo stesso imprenditore questi cambiamenti sono stati un passo importante sulla via della trasformazione della Tinkoff Group in una compagnia pubblica.
In base alla legge approvata lo scorso mese all’unanimità dalla Duma, Tinkov adesso potrebbe essere incriminato per avere diffuso «fake news» sull’esercito russo. Tinkov è molto conosciuto e anche popolare nel suo Paese, per via della sua immagine di uomo che si è fatto da sé, per aver fondato la squadra di ciclismo che porta il suo nome, per aver lanciato una omonima marca di birra. Sarà interessante capire quali provvedimenti adotterà il Cremlino nei suoi confronti. Forse anche i suoi colleghi oligarchi aspettano di capire quale sarà la sua sorte. Di sicuro, la sua dichiarazione, così forte e netta, è una prima volta assoluta. E potrebbe avere conseguenze, in ogni senso.
(ANSA il 21 aprile 2022) - La Duma, la Camera bassa russa, ha confermato l'attuale governatrice della Banca centrale di Russia Elvira Nabiullina per un altro mandato di 5 anni a partire dal prossimo 24 giugno. Lo riferisce l'agenzia Interfax.
L'iter prevede che il presidente russo sottoponga la nomina per la poltrona di governatore alla Duma entro tre mesi dalla scadenza del mandato e la nomina di Nabiullina era stata proposta da Putin il 18 marzo.
La Duma ha quindi confermato la nomina per un nuovo mandato di 5 anni fino al giugno del 2027 attraverso un voto a maggioranza semplice. Nabiullina guida la Banca di Russia dal giugno 2013.
Giorgio Arfaras per “la Stampa” il 19 aprile 2022.
Le sanzioni occidentali, sia statali sia private, hanno messo con le spalle al muro l'economia della Russia. Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca centrale russa, lo ammette con un linguaggio criptato, quando dice che «l'economia non può vivere di riserve all'infinito», e che già nel secondo trimestre del 2022 - cioè, adesso - l'economia russa entrerà in un periodo di «trasformazioni strutturali».
In una relazione alla Duma, ha parlato di «sanzioni che colpiscono soprattutto il mercato finanziario, che però cominciano a farsi sentire su tutta l'economia»: sia quelle decise dagli Stati, come l'uscita dal sistema delle informazioni del sistema finanziario, lo Swift, come il congelamento delle riserve in valuta della Banca Centrale russa, come il blocco delle ricchezze dei pretoriani del regime, sia quelle decise da società private, come il blocco delle esportazioni dì tecnologia, e come la chiusura delle attività delle grandi aziende dal mercato russo.
Sono da qualche tempo disponibili le previsioni della caduta dell'economia russa, stimata intorno al dieci per cento nell'anno in corso, e della ripresa successiva, che sarà, sempre secondo queste stime, molto modesta ancora per molti anni. Le previsioni qualitative, quelle non misurate dal Pil, sono forse peggiori, perché centrate sulla mancanza dei beni di consumo e delle componenti occidentali, e dei viaggi all'estero resi quasi impossibili, che riportano la Russia al passato sovietico.
Mosca ha una reazione duplice: quella politica, direttamente dal presidente Vladimir Putin, che sostiene come l'economia si stia stabilizzando, e che il «blitzkrieg» delle sanzioni occidentali non abbia messo con le spalle al muro la Russia, e quella tecnica, espressa dalla governatrice della Banca Centrale, che conia il nuovo eufemismo di «trasformazioni strutturali» per dire che la Russia non ha più le risorse per andare avanti.
L'economia russa è infatti centrata sulle materie prime, soprattutto quelle dell'energia non rinnovabile. Queste sono una parte cospicua delle entrate dello Stato, che così può tassare poco i cittadini, e una parte ancora più cospicua delle esportazioni, grazie alle quali la Russia può importare ciò che le serve senza essere competitiva con dei prodotti sofisticati.
È la «maledizione delle materie prime», che disincentivano, grazie alla ricchezza che procurano, la formazione dì un'economia diversificata e competitiva. Un obiettivo invocato negli anni ripetutamente da Putin, che però non è raggiungibile per un decreto dall'alto. Chi intraprende un'attività economica che può avere una qualche possibilità dì successo deve avere certezza della proprietà, deve potersi rivolgersi a dei tribunali che abbiano dei giudici indipendenti dal potere politico, deve poter essere rappresentato da una parte politica. Tutte condizioni che si sono formate nei secoli in Europa per poi estendersi a poche altre parti del mondo.
Si hanno così due strategie, quella «conservatrice» di Putin, che sostiene che nulla di grave è accaduto con le sanzioni, e quindi si può andare avanti lasciando le cose come sono, e quella che possiamo definire «riformista» di Nabiullina, che fa capire come l'economia russa debba cambiare per rimediare alla sua vulnerabilità. Putin vuole rassicurare la cittadinanza e alimentare l'orgoglio patriottico, ma assume implicitamente che la Russia possa dare avanti ancora per decenni grazie alle materie prime non rinnovabili, in un mondo sempre più "verde". Nabiullina si rende conto che la Russia ha bisogno di un'economia diversificata e competitiva, che però necessità di un assetto politico più democratico.
Insomma, due strategie politiche, quella della presidenza e quella della Banca Centrale, che non potranno, per ragioni diverse, avere successo. E quindi le «trasformazioni strutturali» di cui parla Nabiullina potrebbero essere non tanto le necessarie riforme, quanto il ridimensionamento di un'economia sempre più sotto schiaffo alle esigenze della guerra che il Cremlino considera necessaria alla sua sopravvivenza politica.
Estratto dell’articolo di huffingtonpost.it il 20 aprile 2022.
Che cosa aspetta Vladimir Putin a cacciare Elvira Nabiullina? Se lo chiedono in molti, anche i diplomatici di servizio presso le ambasciate a Mosca dei Paesi occidentali e non, dopo aver assistito alla recente correzione di rotta che il presidente ha imposto alla governatrice della Banca centrale russa.
Nei giorni scorsi il leader ha sentito l’urgenza di intervenire pubblicamente per sentenziare che il “blitzkrieg economico” lanciato dall’Occidente contro la Russia attraverso le sanzioni “è fallito”. (…)
Per capire lo sgarbo a Putin della Nabiullina bisogna conoscere la storia del marito. Kuzminov, rettore dell'università di Mosca, ha lasciato la direzione perché non voleva sottostare ai diktat del sistema di potere putiniano. Lo zar non può cacciare la governatrice della Banca centrale russa: non è facile da sostituire
Francesco Rigatelli per “La Stampa” il 22 aprile 2022.
Dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina è diventato difficile conoscere le opinioni dei protagonisti della vita economica di Mosca, soprattutto se in dissenso rispetto alla linea di Vladimir Putin, in un sistema di potere opaco che in gran parte si regge su relazioni di mutuo vantaggio tra il Cremlino, gli oligarchi e la nomenklatura dei funzionari di Stato.
Un enigma che riguarda anche Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca centrale che con la guerra e le sanzioni si è trovata ad arginare la caduta rovinosa del rublo, grazie anche alla trovata in tandem col Cremlino di chiedere i pagamenti del gas in moneta nazionale. Ieri su proposta dello stesso Putin, la Duma, la Camera bassa, l'ha riconfermata in carica per cinque anni, smentendo le voci che la davano in rotta di collisione con lo Zar per alcune previsioni negative sulle conseguenze della guerra.
Per fugare ogni dubbio la governatrice ha assicurato che la Russia «non corre alcun rischio di default, perché ha tutte le risorse finanziarie per far fronte ai suoi impegni». Un quadro differente da quello presentato in passato. Lunedì scorso parlando alla Duma aveva tracciato uno scenario più complesso per l'economia russa, in cui le sanzioni «avranno ora un impatto più forte».
Affermazioni che Putin si era affrettato a minimizzare, assicurando che l'economia russa «si sta stabilizzando». Dopo l'inizio della guerra, inoltre, era emerso che Nabiullina avrebbe voluto dimettersi dalla carica di governatrice che ricopre dal 2013, ma lo Zar glielo avrebbe impedito.
L'economista, 58 anni, ex ministra dello Sviluppo economico e del Commercio di Putin, era già stata rinnovata nel 2017 per quattro anni. Tutta la sua famiglia lavora nello stesso campo: suo marito Jaroslav Kuzminov è uno storico dell'Economia noto a Mosca e il loro figlio Vasiliy un analista dell'Università nazionale di ricerca russa.
Da open.online il 20 aprile 2022.
Avere un fondo cassa da 50 miliardi di dollari sarebbe visto ovunque come un salvavita. Ma non in Russia. Perché l’«Operazione Speciale» di Vladimir Putin – e le sanzioni dell’Occidente – stanno davvero portando il paese al collasso. E anche se la propaganda dello Zar nel frattempo paventa conseguenze anche per l’Europa da un fallimento, è Mosca che deve avere paura delle conseguenze economiche della guerra che ha scatenato contro l’Ucraina.
Lo ha fatto capire, pur con tutte le prudenze del caso, la governatrice della Banca Centrale russa Elvira Nabiullina nell’intervento di domenica. Quando, pur con un linguaggio tecnico, ha descritto un quadro complicato per l’economia russa nei prossimi mesi. Preannunciando un nuovo taglio dei tassi di interesse per sostenere il rublo. A costo di lasciar correre l’inflazione, che a marzo è arrivata al 17,4%.
L’oro di Mosca
Gli analisti internazionali prevedono, a seguito della guerra e delle sanzioni, una caduta del Pil a due cifre: la Banca Mondiale parla di un -11% nel 2022, con un rimbalzo tecnico l’anno successivo. E questo anche se Putin, dopo le parole della governatrice, si è sentito in dovere di intervenire per garantire che il «blitzkrieg economico» dell’Occidente nei confronti della Russia «è fallito». Perché il problema oggi non è tanto la crescita. Quanto la possibilità di riuscire a rimanere sui mercati finanziari.
Nei giorni scorsi Standard & Poor’s ha tagliato il rating di Mosca preconizzando un default selettivo sul debito estero. La data chiave è quella del 4 maggio, fine del “periodo di grazia”. Ma il problema è squisitamente tecnico prima che politico. E poggia tutto sulle riserve di Mosca all’estero. La Russia sta scontando il blocco di circa metà delle sue riserve da 600 miliardi di dollari non costituite da oro e yuan, ha detto la governatrice.
Mentre un investimento alternativo delle riserve in valute di riserva non è stato ancora preso, spiega, perché la lista delle monete liquide «è limitata» e formata proprio dai paesi ostili a Mosca (euro, dollaro, yen etc). E questo nonostante Putin torni a chiedere di «accelerare» il passaggio dal dollaro «al rublo e ad altre monete nazionali» nelle transazioni internazionali.
Una mossa che ha garantito alla valuta di Mosca di non crollare e di tornare ai livelli pre-guerra. Ma che potrebbe non bastare a breve. Perché il paese rischia di esaurire le risorse a breve. A spiegarlo è stato Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera: per tamponare la mancanza di liquidi causata dalle sanzioni la Banca Centrale russa ha messo sul piatto 38,8 miliardi di riserve valutarie. Che, unite ai ricavi della vendita di gas e petrolio hanno consentito di attutire il colpo.
Le riserve in esaurimento
E questo perché al 30 giugno 2021, ultima data disponibile prima che le informazioni sparissero dal sito dell’istituto, «il 13,8%, cioè ben 81,5 miliardi di dollari, si trova nelle banche cinesi; il 12,2%, cioè 72,1 miliardi, in Francia; il 10%, 59,1 miliardi, in Giappone; il 9,5%, 56,1 miliardi, in Germania; il 6,6%, 39 miliardi, negli Stati Uniti; il 5,5%, 32,5 miliardi, nelle Istituzioni multilaterali, come il Fondo monetario e la Banca dei Regolamenti internazionali, infine il 4,5%, 26,5 miliardi, nel Regno Unito». La Cina è l’unico paese che consente a Mosca di toccare le sue riserve. Ma avendo impiegato già più di 30 miliardi degli 80 per sostenere il rublo fino ad oggi (come risulta dagli stessi comunicati dell’istituto), Mosca ha soltanto meno di cinquanta miliardi da spendere per fronteggiare una crisi valutaria.
Certo, a quel punto Putin potrebbe vendere le sue riserve in oro, che invece detiene direttamente. Ma mettere sul mercato una massa così imponente prima di tutto provocherebbe un crollo del prezzo. E poi lascerebbe la Russia senza più alcuna difesa. L’economista e direttore della Lettera Economica del Centro Einaudi Giorgio Arfaras su La Stampa oggi va oltre. E spiega che presto l’economia russa dovrà fronteggiare altri problemi difficili, se non impossibili da risolvere. Il blocco dell’import andrà a toccare settori che provocheranno il fermo di servizi essenziali. Mentre il taglio degli investimenti esteri provocherà effetti a catena anche su quelli domestici. Il collasso di Mosca è inevitabile. A meno che Putin non fermi la guerra un attimo prima del default.
“Io, russo, combatto la Russia perché c’è la mano di Putin in tutte le guerre del mondo”. Fabio Tonacci su La Repubblica il 12 aprile 2022.
Volodymir Grotzov sette anni fa ha scelto di sfidare il regime di Putin e arruolarsi nel Battaglione Oun dei nazionalisti ucraini. Ora è in un’unità d’assalto a nord di Kiev.
Volodymir Grotzov è nato in Russia, è cresciuto in Russia e della Russia odia tutto. Un disprezzo viscerale, che è politico e culturale insieme. "Un Paese che non dovrebbe proprio esistere. La cosiddetta Moscova, il cuore dell'impero, è il cancro di una intera nazione". Questo pensiero che oggi ripete con calma seduto alla mensa del Battaglione Oun dei nazionalisti ucraini è il medesimo che sette anni fa lo ha spinto a una scelta definitiva: imbracciare il fucile e puntarlo contro uomini che parlano la sua stessa lingua e hanno lo stesso passaporto.
«Sono esule perché ho parlato contro la guerra. I russi hanno paura, non stanno tutti con Putin». Alberto Flores D'Arcais su L'Espresso l'11 aprile 2022.
«Non credete che la maggioranza dei russi sostenga la guerra. E anche chi la sostiene spesso è vittima della propaganda». Parla Anton Dolin, uno dei più famosi critici cinematografici russi, che sta pagando per aver preso una posizione pubblica contro il conflitto.
«La mia storia è abbastanza semplice. Come milioni di altre persone in tutto il mondo, la mattina del 24 febbraio mi sono svegliato e ho visto su Internet che era iniziata la guerra, quello che non pensavo potesse accadere era accaduto. È stato uno shock». Anton Dolin ha 46 anni ed è uno dei più famosi critici cinematografici russi. Direttore della rivista Iskusstvo Kino (L’Arte del Cinema) ha lavorato per Radio Eco di Mosca (una delle ultime emittenti libere) e per Meduza, il giornale online che gli oppositori del regime di Putin pubblicano dalla Lettonia.
Il giorno dell’invasione dell’Ucraina si trovava in Russia?
«Sì, dovevo incontrare un gruppo di nostri lettori, volare a Samara da Mosca, dove vivo, la mia prima reazione è stata quella di restare a casa. C’era la guerra e non volevo lasciare la mia famiglia. Quando sono arrivato a Samara ho detto agli organizzatori dell’evento che l’unica condizione per la mia partecipazione era quella di iniziare l’incontro con una dichiarazione contro la guerra in Ucraina dal palco. Hanno accettato e l’ho fatta. Eravamo nel più grande cinema della città, c’erano diverse centinaia di persone. Ho detto loro che la guerra che abbiamo iniziato è un crimine e una catastrofe, non solo per l’Ucraina, ma anche per la Russia. E la gente ha fatto un grande applauso».
Poi cosa è successo?
«Il giorno dopo ho deciso che dovevo prendere pubblicamente posizione, che non bastava Facebook. Ho il mio canale YouTube, Radio Dolin, con 150mila abbonati. Così abbiamo fatto un video contro la guerra, dove io e i miei colleghi - cineasti, registi, attori - tutti ci siamo pronunciati apertamente contro la guerra. 40 minuti di dichiarazioni contro la guerra. Lo abbiamo pubblicato, è stato visto in poco tempo da 320mila perone, abbiamo ricevuto un sacco di commenti, di tutti i tipi. Dalla rabbia contro di noi alla gratitudine di semplici cittadini, sia russi che ucraini. Poi ci sono state le leggi contro chi protesta per la guerra e in molti hanno iniziato a lasciare il Paese».
Avete ricevuto minacce?
«Sì, molte. Minacce anonime da Internet e per me una minaccia diretta nella vita reale: una grande lettera Z, il simbolo della guerra, che è stato dipinto sulla porta del mio appartamento dove vivo con la mia famiglia. L’ho vista quando stavo già pensando ai bagagli, a come andare via. Ora siamo in Lettonia ma non eravamo preparati a questo. Non abbiamo conti bancari europei e tutti i conti bancari russi e le carte di credito sono bloccati. Non abbiamo una casa o un passaporto per vivere qui, niente. Viviamo nell’appartamento di un amico ma il futuro è davvero incerto, non sappiamo cosa succederà. Ma non sto emigrando, sto solo andando via dalla Russia perché in questo momento nel mio Paese c’è una tenebra assoluta».
Cosa sanno i russi della guerra?
«Non credete che la maggioranza dei russi sostenga necessariamente la guerra. E anche quelli che la sostengono non sanno davvero cosa sta succedendo perché la propaganda e la tv ufficiale mostrano tutto in modo molto diverso da quello che l’Europa può vedere nei vostri media. Le persone che sono pro-Putin, continuano ad ascoltare Putin. Lui sta dicendo da anni che l’Occidente ci odia e vuole che moriamo, che vuole che la Grande Russia scompaia. Quindi per loro ha senso. Vedono le sanzioni, possono soffrirne o non soffrirne, ma in ogni caso nessuno riesce a fargli cambiare idea su Putin».
Le sanzioni sono inutili?
«No, non sto dicendo questo. credo solo che se vuoi cambiare la mente dei russi con le sanzioni non lo farai. Le sanzioni possono uccidere l’economia della Russia, forse aiuteranno a fermare la guerra, ma non cambierete la mente delle persone che appoggiano Putin. Gente buona e gente cattiva, gente che capisce cosa sta succedendo e gente che non ha idea di cosa stia succedendo. Credete davvero che se milioni di persone scendessero per le strade di Mosca cambierebbe il sistema di potere in Russia? No, perché Putin non si preoccupa della gente nemmeno a Mosca. Ha un enorme esercito, inizierebbe a sparare sul suo popolo, forse sarebbe anche contento di farlo. Non lo sappiamo, ma non riesco a immaginare che un governo che sta conducendo la guerra in Ucraina come la vediamo sia pronto a dire: ok, ce ne andiamo lasciamo a un governo democratico la guida della Russia».
Che futuro ha la Russia?
«Putin è ossessionato dal mito dell’Unione Sovietica e per questo sta creando un nuovo impero. La guerra che ha scatenato in Ucraina può distruggere il governo e il sistema di potere che c’è oggi in Russia. Nessuno di noi sa come fermare la guerra, nessuno, ma parlarne apertamente è già qualcosa. Putin non ci ascolterà, ma forse inizieranno a farlo altre persone che contano nelle decisioni che prende il governo. Quando abbiamo una voce, che è forte, non si dovrebbe mai rimanere in silenzio. La mia unica richiesta a voi occidentali è che capiate che non tutti in Russia sostengono Putin, forse neanche la maggioranza sta con lui. L’Occidente deve capire che il popolo russo ha paura».
Serena Sartini per “il Giornale” l'11 aprile 2022.
Lo «scontro», politico e militare, passa anche dalla religione. Da un lato Papa Francesco lancia l'anatema della «follia della guerra», condannandola e invocando «una tregua pasquale» per «deporre le armi»; dall'altro, il capo della chiesa ortodossa di Mosca e di tutte le Russie, il Patriarca Kirill, invoca unità «contro i nemici, interni ed esterni, di Mosca», benedicendo il conflitto armato.
Posizioni nettamente opposte che creano una frattura tra le due chiese. Il Papa, nella prima Domenica delle Palme in pubblico dopo lo stop di due anni dovuto al Covid, ricorda come «con la follia della guerra si torna a crocifiggere Cristo». «Quando si usa violenza - ammonisce davanti a una folla di almeno 70mila fedeli non si sa più nulla su Dio, che è Padre, e nemmeno sugli altri, che sono fratelli. Si dimentica perché si sta al mondo e si arriva a compiere crudeltà assurde. Lo vediamo oggi nella follia della guerra, dove si torna a crocifiggere Cristo», dice durante l'omelia della messa che ricorda la Passione del Signore.
«Sì - è il grido di dolore di Bergoglio - Cristo è ancora una volta inchiodato alla croce nelle madri che piangono la morte ingiusta dei mariti e dei figli. È crocifisso nei profughi che fuggono dalle bombe con i bambini in braccio. È crocifisso negli anziani lasciati soli a morire, nei giovani privati di futuro, nei soldati mandati a uccidere i loro fratelli. Cristo è crocifisso lì oggi». Il pontefice ricorda quindi l'importanza del perdono.
«Cristo continuamente intercede presso il Padre per noi e, guardando il nostro mondo violento, il nostro mondo ferito, Gesù non si stanca di ripetere e noi lo facciamo adesso con il nostro cuore e in silenzio: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». All'Angelus Francesco lancia un nuovo, forte, appello per la pace. «Si ripongano le armi, si inizi una tregua pasquale. Ma non per ricaricare le armi e riprendere a combattere, no. Una tregua per arrivare alla pace, attraverso un vero negoziato, disposti anche a qualche sacrificio per il bene della gente. Infatti che vittoria sarà quella che pianterà una bandiera su un cumulo di macerie?».
«Nulla è impossibile a Dio, anche far cessare una guerra di cui non si vede la fine - prosegue Bergoglio una guerra che ogni giorno ci pone davanti agli occhi stragi efferate e atroci crudeltà. Preghiamo per questo. Siamo nei giorni che precedono la Pasqua, ci stiamo preparando a celebrare la vittoria del Signore Gesù Cristo sul peccato e sulla morte, non su qualcuno e contro qualcun altro, ma oggi c'è la guerra perché si vuole vincere così, alla maniera del mondo perché così si perde soltanto».
Di tutt' altro respiro è il sermone del Patriarca di Mosca Kirill che torna a incitare alla guerra e invita i sostenitori a unirsi contro il nemico. Fin dall'inizio del conflitto il capo della chiesa ortodossa - da sempre vicino alle posizioni di Putin - non ha mai fatto mistero delle sue posizioni a sostegno dell'operazione militare in Ucraina.
«In questo periodo difficile per la nostra patria, possa il Signore aiutare ognuno di noi a unirci, anche attorno al potere», dice nell'omelia pronunciata nella Chiesa della Protezione della Beata Vergine di Mosca. «È così che emergerà la vera solidarietà nel nostro popolo, così come la capacità di respingere i nemici esterni e interni e di costruire una vita con più bene, verità e amore». A proposito di un viaggio del Papa a Kiev, è intervenuto l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yarush: «In termini militari i russi non faranno niente, ma hanno paura e faranno di tutto per rendere impossibile la visita di Francesco».
Francesco Merlo per “la Repubblica” l'11 aprile 2022.
Sono, le top model russe che distruggono le borse Chanel, come i talebani che distruggono le statue. Entrambi aggrediscono i simboli dell'Occidente che più somigliano alle loro ossessioni. I terroristi dell'Isis si accaniscono sui siti archeologici perché identificano l'Occidente con l'idea stessa di Storia antica e dunque - se potessero - farebbero saltare in aria anche le Piramidi.
Allo stesso modo, le ragazze di Putin si accaniscono sulle borse con le due C incrociate perché identificano l'Occidente non con la moda, di cui non possono liberarsi, ma con il lusso invidiato e "firmato", che è anche l'orizzonte del cattivo gusto. Anche Putin, nell'adunata allo stadio Luzhniki, aveva indossato un bel giaccone blu scuro di Loro Piana, in cachemire, piume d'oca e lana, costoso ma discreto, in stile "ricchezza nascosta". Ma non lo aveva distrutto, non lo aveva condannato all'esecuzione pubblica.
Al contrario, le sue "patriottiche" top model giustiziano le borsette della democrazia, prima tagliando tessuti e pelli con forbici e rasoi, e poi usando tenaglie e persino martelli su metalli e catene. Più cruenti, gli estremisti islamisti, dopo avere cancellato con lo scalpello i volti delle statue, fanno fuoco con i fucili, con le mitragliatrici e con le bombe per finirle nella maniera più spettacolare: pietra su pietra.
Ma davvero è difficile immaginare spot pubblicitari più efficaci di questi post su Instagram dove, proprio perché straziata con le cesoie dalle pop star e dalle influencer del regime, la moda diventa l'insuperabile filosofia dell'epoca, e ci sono perciò Leopardi, Simmel, Benjamin, Barthes e, sullo sfondo, il danaro. C'è infatti l'invincibile economia dell'Occidente nel lusso oltraggiato come spazio dove leggere il tempo, nel vilipendio del più bel "fiore del male" di Baudelaire.
Provate difatti ad aggiungere la voce del poeta alle immagini della russa bella e arrabbiata che distrugge una parte di se stessa: «Mia piccola sorella, /pensa quale dolcezza / andare a vivere laggiù insieme nel paese che ti somiglia», nell'Occidente di Chanel: «tutto laggiù è ordine e beltà / tutto è lusso, calma e voluttà». E si intitola così Lusso calma e voluttà, proprio in omaggio a Baudelaire, anche il quadro di Matisse, fiori e colori del desiderio finalmente soddisfatto.
L'invasione e le barbarie dei russi in Ucraina si accompagnano dunque alla più patetica cancel culture che non mette i brividi come il rogo nazista dei libri degenerati. Erano russi anche i bolscevichi che distrussero le chiese e vendettero agli antiquari le icone greco-ortodosse ed era russo Stalin che volle una piscina al posto della cattedrale di Mosca.
Indimenticabili le guardie rosse di Mao che, mentre impiccavano i professori d'università, demolivano i templi e persino le case antiche, con l'incoraggiamento estasiato dei giovani del mondo occidentale, i sessantottini che gridavano «siamo realisti, chiediamo l'impossibile». Alla fine, sono tutte uguali le cancel culture: chiedono l'impossibile.
Dagotraduzione da dailymail.co.uk il 6 aprile 2022.
Ecco quali sono i veri problemi delle russe: non poter comprare le loro costosissime borsette! Mentre la gente muore e viene torturata in Ucraina, modelle e influencer di Mosca stanno sbroccando per il divieto di fare nuovi acquisti di accessori di lusso a causa delle sanzioni e così si sono messe a tagliuzzare, per protesta, le loro borse Chanel, condividendo poi in rete i video.
Per esempio la modella Victoria Bonya, 42 anni, era incazzata nera e ha detto di non aver "mai visto un marchio agire in modo così irrispettoso nei confronti dei propri clienti".
La presentatrice televisiva e attrice Marina Ermoshkina, 28 anni, ha invece espresso indignazione ai suoi 299.999 follower: "Non un singolo articolo o marchio vale il mio amore per la mia patria e il rispetto di me stessa", ha detto, infierendo sulla sua borsetta con forbici industriali.
L'affascinante DJ e attrice russa Katya Guseva, 45 anni, ha fatto lo stesso: "Per noi donne russe, avere Chanel non è significativo. Siamo stati noi il volto di questo marchio. Fin dall'infanzia abbiamo sognato di acquistare questa borsa. Ma ora basta".
Le influencer russe fanno a pezzi le loro borse Chanel sui social: «Non ce le fanno comprare neanche all’estero, è russofobia». Elisa Messina su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.
Postano su instagram i video mentre distruggono le loro Chanel e invitano a boicottare il brand che a loro non è permesso acquistare in nome «dell’amore per la madrepatria».
«Non una sola borsa, un solo brand vale meno del mio amore per la madrepatria e del rispetto per me stessa» esordisce in un video-proclama postato su Instagram (in modo che sia visto ovunque nel mondo) Marina Ermoshkina, presentatrice della tv russa e influencer di moda e beauty nel paese: una borsa di Chanel in una mano e un paio di grosse cesoie da giardiniere nell’altra, Marina procede quindi a distruggere la borsa per protestare contro la decisione del brand di non vendere i suoi prodotti in Russia e di chiudere le boutique, adeguandosi alle sanzioni previste dalla Ue. «Sono contro la russofobia e contro i brand che supportano la russofobia. Se possedere una Chanel significa svendere la mia madrepatria, non ho bisogno di Chanel» prosegue Ermoshinka nel suo discorso. E, zac! La borsa da 4,5 mila euro va in pezzi.
Dopo lo show social patriottico di Ermoshkina altre influencer russe hanno seguito l’esempio documentando sui loro profili la furia iconoclasta contro le celebri borse di pelle martellata: la deejay Katya Guseva , che già aveva fatto la sua scelta di campo un mese fa postando la Z della «Missione speciale in Ucraina», si è fatta riprendere mentre prende a sforbiciate una grossa Chanel dopo aver fatto il proclama contro «la russofobia del brand». Ultima adesione alla campagna #byebyeChanel quella della modella da 9 milioni di follower Victoria Bonya che, da Monte Carlo dove risiede, posta il video mentre tagliuzza la borsa e dichiara: «Se la maison Chanel non rispetta i clienti perché io dovrei rispettarla? Bye bye».
La propaganda interna in Russia raggiunge ogni pubblico grazie alla tv e ai social, basta leggere ritratto e gesta di Vladimir Solovyov , il conduttore tv più famoso, per capirlo. Quindi niente di strano che anche le influencer siano «reclutate» per alimentare il risentimento nazionale contro le sanzioni imposte da Europa e Stati Uniti in risposta alla guerra in Ucraina. Ma viene da chiedersi perché tanto accanimento proprio contro il brand dalla doppia C, visto che all’embargo hanno aderito anche altri brand di moda prestigio.
A parte il fatto che le borse Chanel sono tra le più amate e sfoggiate dalle russe facoltose, c’è un dettaglio che ha fatto infuriare alcune influencer: oltre alla chiusura delle boutique monomarca in Russia, infatti, alcuni negozi della Maison fuori dal territorio russo avrebbero chiesto alle acquirenti i documenti di identità per provare la loro nazionalità e, nel caso di clienti russe, avrebbero negato l’acquisto o chiesto loro di firmare una dichiarazione di impegno a non indossare i loro acquisti in Russia. Una delle russe che lo ha raccontato è Anna Kalashnikova , showgirl e influencer da 2 milioni e mezzo di follower, parlando, nello specifico di una boutique nel mall di Dubai.
Kalashnikova non si è esibita (ancora) nel taglio social della borsetta ma ha contribuito alla causa della «denazificazione» dell’Ucraina ricordando che la fondatrice della Maison Coco Chanel, secondo alcune recenti biografie, era stata una spia dei tedeschi (nome in codice “Westminster”) durante la II Guerra Mondiale. Finché è stata in vita Madamoiselle ha sempre negato, ma documenti desecretati di recente lo proverebbero.
Questo boicottaggio di lusso sembra sempre di più un input ufficiale che arriva direttamente dal Cremlino visto che la portavoce del ministero degli Esteri in persona, Maria Zakharova, aveva accusato la maison Chanel di alimentare la campagna russofobica nel mondo e puntualizzando che la Russia è impegnata in una campagna contro il nazismo in Ucraina aveva ricordato le simpatie naziste della fondatrice della Maison.
Indignata del divieto all’acquisto anche Yana Rudkovskaya , produttrice musicale, influencer, moglie del campione olimpico di pattinaggio artistico Alexander Plyushenko e grande collezionista di borse di lusso, si è detta «inorridita» per il fatto che le siano negate sue borse preferite, una scelta «umiliante», «uno shock per una donna che da vent’anni compra Chanel e Chanel Haute Couture, e che alle loro sfilate siede in prima fila». Ma al taglio della borsa ha preferito esibirsi in una foto patriottica con marito, figli e bandierine russe: «Orgogliosi di essere russi».
La Maison Chanel, da parte sua, ha confermato la sua policy in linea con le sanzioni europee inasprite dal 15 marzo: «È proibito vendere, fornire, trasferire o esportare, direttamente o indirettamente, beni di lusso a ogni persona fisica o giuridica, ente o corpo in Russia e per uso in Russia».
Propaganda e repressione. Nonostante le perdite sul campo e le atrocità, in Russia il consenso per Putin cresce all’83%. Linkiesta il 5 Aprile 2022.
«Tutte le reti tv mandano in onda solo smentite su Bucha. Dicono che si è trattato di una messinscena», spiega Lev Gudkov, membro dell’istituto di sondaggi indipendente Levada. «Per ogni moscovita ci sono circa 15-17 fonti d’informazione. In provincia, dove vivono circa due russi su tre, ci sono solo due o tre fonti. Lì non hai scelta. Internet arriva a stento. E una famiglia dal reddito di 25-30mila rubli non può permettersi un pc da 60mila»
«La popolarità di Vladimir Putin per ora è in salita. E sempre più gente sostiene l’offensiva in Ucraina». Per Lev Gudkov, membro dell’istituto di sondaggi indipendente Levada, intervistato da Repubblica, la propaganda del Cremlino unita alla repressione sta portando i suoi risultati. «La percentuale di quanti credono che il Paese stia andando verso la giusta direzione è aumentata notevolmente», dice.
Stando all’ultima rilevazione dell’istituto, dichiarato “agente straniero” dalle autorità, in un mese di “operazione militare speciale”, il tasso di approvazione di Vladimir Putin è balzato dal 71% di febbraio all’83% di marzo. Il presidente russo starà perdendo la battaglia sul terreno in Ucraina, ma sta vincendo la battaglia in patria. Neanche le immagini dei morti di Bucha sposteranno l’orientamento della popolazione. «La gente non protesterà per quello che è successo perché è stata convinta che non sia reale», continua Gudkov. «Tutte le reti tv mandano in onda solo smentite. Dicono che si è trattato di una messinscena, di una montatura».
A oltre cinque settimane dal lancio dell’offensiva in Ucraina, consenso e rabbia verso l’Occidente hanno preso il sopravvento. Il messaggio della “lotta al nazismo” ha fatto leva sull’elemento più unificante dell’identità nazionale nel Paese erede dell’Urss che ha battuto Hitler.
Ma molto ha fatto anche la repressione. Dopo l’entrata in vigore della legge sulle fake news e oltre 15mila arresti, in strada non si vedono i cortei delle prime settimane ma solo picchetti solitari. Molti di quanti si opponevano a quello che accade in Ucraina sono andati via dal Paese. E i pochi che restano trovano le porte delle loro abitazioni imbrattate dalla scritta “traditori”.
I più stretti collaboratori di Putin condividono con lui il retroterra ideologico e sono pronti a portare avanti la guerra. E tra le cerchie più ampie delle élite, le sanzioni hanno avuto l’effetto opposto a quello sperato dall’Occidente. «Capiscono che ora le loro vite sono legate solo alla Russia e che devono costruirle qui. Si sentono offesi e non rovesceranno nessuno», spiega la giornalista indipendente Farida Rustamova. Altri, spiega Lev Gudkov, «sono spaventati perché la repressione nei loro confronti si è fatta più dura. In passato veniva arrestato soltanto il 2% dei dirigenti di alto livello: governatori, ministri e loro vice. Negli ultimi cinque-sei anni, invece, il 10-12% della nomenklatura suprema. Perciò stanno zitti».
Secondo il centro statale Vtsiom, il 74% della popolazione sostiene la cosiddetta “operazione militare speciale”. A quanti mettono in dubbio la bontà delle risposte degli interlocutori, alla luce delle leggi sempre più repressive, Gudkov risponde: «Per nascondere la propria opinione, bisognerebbe averne una. Per ogni moscovita ci sono circa 15-17 fonti d’informazione, un numero che, di per sé, crea una certa criticità nei confronti di ogni notizia. In provincia, invece, dove vivono circa due russi su tre, ci sono solo due o tre fonti: un canale tv federale e un canale tv o una radio locale. Lì non hai scelta. Internet arriva a stento. E una famiglia dal reddito di 25-30mila rubli non può permettersi un pc da 60mila».
Ma, secondo Gudkov, non c’è “un effetto Crimea”: «Allora ci fu un vero e proprio slancio, un’euforia, un’estasi nazionalista. Adesso lo sfondo emotivo è diverso: c’è paura, disperazione, depressione, smarrimento e persino indignazione. Ma la gente accetta quello che accade perché ha negli occhi solo il quadro che le mette davanti una macchina propagandistica e demagogica aggressiva e menzognera che opera 24 ore su 24. La gente comprende che sia stata violata qualche norma internazionale, ma crede che sia stato fatto in nome di un bene superiore: la difesa dei “nostri” dai nazisti ucraini che praticavano il genocidio».
Andrà considerato però anche l’effetto delle sanzioni. «Finora sono state percepite solo nelle grandi città che in un mese hanno visto emigrare circa 200mila persone. Un esodo mai visto. Ma presto ci sarà un effetto a catena: crescita della disoccupazione, inflazione, carenza di generi alimentari e farmaci, sospensione delle industrie, ritiro delle aziende occidentali con riduzione del personale. Le conseguenze non si manifesteranno prima della metà dell’estate. E ci vorrà del tempo perché la gente se ne renda conto. I russi, sotto questo punto di vista, sono inerti».
A scuola di indottrinamento. Il "niet" di 5mila prof russi. Gaia Cesare il 27 Marzo 2022 su Il Giornale.
Dalle diapositive alla propaganda anti-ucraina fra i banchi. Ma gli insegnanti iniziano a ribellarsi.
«Per noi insegnanti, la violenza va contro l'essenza stessa della professione. Sosteniamo le proteste contro la guerra e chiediamo un cessate il fuoco immediato». Sono oltre 5mila i docenti russi che hanno firmato una lettera aperta di Teachers Against War per chiedere la fine del conflitto in Ucraina. Il documento (al quale si può ancora aderire inviando un'email a teachershelpnow @gmail.com ) è stato rimosso dal web per cautela, dopo l'introduzione della legge che prevede multe e fino a 15 anni di carcere anche solo per chi chiama «guerra» il conflitto in Ucraina. Troppo rischioso tenerlo on-line: conteneva nomi e località di provenienza dei firmatari.
Ma in Russia la scuola è diventata trincea nella guerra di propaganda di Vladimir Putin, ostinato a diffondere il «pensiero unico» a costo di indottrinare e spiare studenti e insegnanti, fin dalle elementari. Il Cremlino sa che si vince meglio e prima se si comincia dai banchi di scuola. Non a caso Maria Zakharova, direttrice del Dipartimento d'informazione e stampa del Ministero per gli Affari Esteri russo, il 28 febbraio ha convocato una videoconferenza urgente con gli insegnanti di Mosca per spiegare: «Siete in prima linea in questa guerra dell'informazione». Zakharova ha istruito per un'ora e mezza maestri e professori, spiegando che da quel momento avrebbero dovuto discutere dell'Ucraina «con il supporto metodologico» del ministero. Tradotto: è necessario definire la guerra come «operazione di demilitarizzazione per il mantenimento della pace». Bisogna spiegare che Euromaidan, le manifestazioni pro-Europa del 2004 in Ucraina, hanno imposto «il volere della minoranza» e che la rivoluzione che cacciò dell'ex presidente filorusso Yanukovych nel 2014 fu sostanzialmente un colpo di Stato appoggiato dall'Occidente.
Da qualche settimana, sono arrivati nelle scuole russe i due manuali sull'«operazione speciale» in Ucraina destinati agli insegnanti. Nel primo, dedicato alle conversazioni «private» e intitolato «Le risposte a domande difficili sull'operazione militare speciale della Russia in Ucraina», ai prof interrogati dagli alunni se ci sia davvero una guerra in Ucraina, la risposta suggerita è: «Sì, va avanti da otto anni. L'Ucraina la sta muovendo contro i suoi stessi cittadini che vivono nel Donbass». L'altro manuale, dal titolo «Eventi in Ucraina» - entrambi visionati dal sito investigativo russo indipendente The Insider - è quello in cui si istruiscono i docenti a spiegare ai ragazzi, anche con l'uso di diapositive infarcite di «fake news» pro-Mosca, di non credere ai video delle città bombardate o dei civili morti perché «gli ucraini fanno di proposito filmati per denigrare il nostro esercito». Il manuale contiene anche ampi stralci del discorso di Putin alla conferenza per la Sicurezza di Monaco del 2007, considerato il momento di svolta in cui il presidente russo sfida l'Occidente, lamenta l'allargamento a Est della Nato e spiega che Mosca non è più disposta a giocare un ruolo secondario agli Stati Uniti. In alcuni casi - raccontano i docenti - le lezioni sono state filmate alla presenza del preside, in altri ai prof è stato chiesto di registrare di nascosto. Ma i manuali non sono ancora arrivati a tutte le scuole del Paese. E l'indicazione è: divieto di parlare dell'argomento, con l'eccezione di chi si è espresso pubblicamente a favore del presidente Putin, e di farlo solamente dopo essere stati ben istruiti dai manuali.
Molti prof contrari ammettono di tenere il tema fuori dall'aula per evitare problemi. E c'è chi racconta: «Qualche bambino ci chiede a che serve studiare l'inglese e la letteratura internazionale se vivranno in un Paese completamente isolato dal mondo».
Giuseppe Agliastro per “la Stampa” il 25 marzo 2022.
«Affinché tutti gli ospiti abbiano la possibilità di acquistare prodotti di importanza sociale, poniamo temporaneamente un limite alla vendita di alcune merci». È quello che si legge su un cartello in un supermercato della semiperiferia sud-orientale di Mosca: un messaggio che serve a spiegare ai clienti che non è possibile prendere più di cinque chili di zucchero, cinque bottiglie di olio di semi di girasole e cinque confezioni di grano saraceno a testa.
Lo zucchero, almeno in questo supermercato, è terminato. «Arriverà tra un giorno», assicurano. Anche in un altro supermercato in una zona più centrale della capitale russa manca al momento lo zucchero. «Ma lo portano ogni giorno, domattina lo troverà», dicono. «Dovrebbe arrivare già stasera», afferma un'altra persona. Pure qui un cartello spiega che, «per prevenire una domanda speculativa per i beni di prima necessità», è stato «provvisoriamente limitato il volume delle merci vendute per acquirente».
Ogni cliente - spiega l'annuncio - non può quindi prendere più di cinque chili di zucchero, grano saraceno, pollo intero o farina, e non più di due confezioni di pannolini per bambini. La vice premier Viktoria Abramchenko assicura che il Paese è «pienamente autosufficiente per quanto riguarda zucchero e grano saraceno». «Non c'è bisogno di farsi prendere dal panico per comprare questi prodotti, ce n'è abbastanza per tutti», ha dichiarato.
Appare però evidente che le sanzioni imposte alla Russia per l'offensiva in Ucraina stiano avendo pesanti ripercussioni sull'economia russa. Già a inizio mese il governo di Mosca aveva sostenuto i limiti alla vendita di determinati prodotti affermando che l'obiettivo era quello di contenere così le speculazioni sul mercato nero e garantire l'accessibilità economica ad alcune merci.
L'inflazione intanto continua ad accelerare, e nella terza settimana di marzo il dato annuale ha toccato il 14,5%: il livello più alto dal novembre di sette anni fa. Secondo Stephen Innes, managing partner di SPI Asset Management, la principale causa dell'impennata dell'inflazione è il crollo del rublo, che quest' anno ha perso circa un quarto del suo valore. «Tutto ciò che la Russia importa è esponenzialmente più costoso a causa del rublo più debole», ha spiegato l'esperto alla Bbc. Di fronte a questa situazione, già diverse settimane fa la banca centrale russa ha deciso di raddoppiare il tasso di interesse, portandolo dal 9,5 al 20%.
«Tenendo conto dei costi operativi, è evidente che il 20% di tasso di riferimento si trasforma nel 22-23 e forse 24% di tasso di mutuo», aveva spiegato allora l'economista Aleksandr Tsiganov al giornale Rbk. Stando ai dati della scorsa settimana del Servizio Federale russo di Statistica - fanno sapere Bloomberg e Bbc - il prezzo dello zucchero è aumentato mediamente del 14%, ma in alcune regioni è salito vertiginosamente, fino al 37%. Le cipolle costano mediamente il 13,7% in più, ma in certe zone il loro prezzo sarebbe aumentato addirittura del 40%.
I pomodori costano l'8,2% più di prima, le carote il 5,5% e il sale il 4%, mentre i pannolini per bambini sono più cari del 4,4%. La Russia è sempre più isolata sia politicamente sia economicamente. Diverse aziende internazionali hanno sospeso o limitato l'attività nel Paese. Entrando in un grande centro commerciale di Mosca si notano subito i tanti negozi che hanno abbassato la saracinesca. Diversi punti vendita restano aperti, ma la chiusura di tanti negozi di vestiti, cosmetici e abbigliamento sportivo stride con la musica allegra che risuona nei corridoi.
Estratto dell’articolo di Rosalba Castelletti per “la Repubblica” il 24 marzo 2022.
Sulla porta di un giornalista di Kaliningrad contrario all'offensiva in Ucraina, Aleksej Milovanov, martedì mattina è comparso un adesivo giallo: «Qui vive un traditore ». Tre uomini dal volto coperto hanno affisso la stessa iscrizione sull'abitazione di una sua amica, Oksana Akmaeva, che era scesa in piazza un mese fa. «Quando verrà richiesto a tutti coloro che non sostengono questa follia di indossare un adesivo giallo?», ha commentato amaramente il blogger Aleksandr Gorbunov.«veri patrioti » che sanno distinguere «i traditori » e «sputarli come si fa con un moscerino volato accidentalmente in bocca», in Russia si sono spalancate le porte di un mondo orwelliano dove il nemico ti ascolta e il Grande Fratello ti spia. A quasi cent' anni dal Grande Terrore, è tornata la delazione incoraggiata ed avallata dallo Stato. E non ha confini. Secondo la nuova legge che vieta le «notizie false o diffamatorie » sulle forze armate, si viene puniti anche per un foglio bianco, otto asterischi o il «quinto comandamento: non uccidere».
Nella città di Krasnodar un uomo, Aleksandr Kondratiov, è stato condannato per «discredito delle forze armate» perché, mentre era bloccato nel traffico, è sceso dall'auto e ha sputato su un manifesto con una "Z", diventata il simbolo dell'avanzata russa in Ucraina. A denunciarlo è stato un automobilista in coda che aveva ripreso tutta la scena.
Nella capitale la polizia ha fatto irruzione in casa di una famiglia che aveva appeso alla finestra delle luci blu-gialle come la bandiera ucraina: se ne era lamentato il dirimpettaio. E alcuni moscoviti avrebbero trovato nelle cassette delle lettere volantini che li invitavano a denunciare i loro vicini politicamente inaffidabili che «esprimono odio per la Russia e Putin» o fanno donazioni ad Aleksej Navalny. Ma il più delle volte le denunce sono tecnologiche e virtuali. A Kaliningrad l'invito a "informare" sulle attività anti-patriottiche è arrivato via sms dalla protezione civile con un link a un canale sull'app di messaggistica Telegram. (…)
Sono tornate in voga anche le liste di proscrizione. Il sito d'inchiesta Agentstvo e il portale 66 di Ekaterinburg hanno pubblicato una "lista nera" che circolerebbe tra organizzatori di concerti. Contiene i nomi di 22 artisti, tra cui il rapper Oxxxymiron, a cui è vietato esibirsi in pubblico. Persino la televisione si è trasformata in un grande «sotto-dipartimento per la pulizia » come lo aveva battezzato il preveggente Mikhail Bulgakov in Cuore di Cane . Gli ospiti del talk show di Vladimir Soloviov martedì se la sono presa con l'ex vicepremier Arkadij Dvorkovich che aveva condannato l'offensiva. «Venga da noi in onda e si penta». L'auto- epurazione in diretta tv. Tanto che lo stesso Soloviov, soprannominato "il megafono del Cremlino", ha dovuto prendere le distanze: «Attenti a non scivolare nell'anno 1937».
Estratto dell’articolo di Francesca Sforza per “La Stampa” il 24 marzo 2022.
Chi si aspettava che fossero gli oligarchi, o i politici della cerchia più stretta, a lanciare per primi segnali di insofferenza e ribellione a Vladimir Putin ieri ha dovuto spostare lo sguardo in un'altra direzione, verso coloro che hanno a cuore, perché ne conoscono i meccanismi, il destino dell'economia russa.
L'inviato per il clima di Mosca Anatoly Chubays, l'architetto delle riforme economiche del periodo post-sovietico e uomo forte di Boris Eltsin, ha rassegnato le sue dimissioni e ha lasciato la Russia, dicendosi apertamente contrario alla guerra contro l'Ucraina.
È il primo funzionario di rango a lanciare un segnale di inequivocabile presa di distanza dal Cremlino, e anche se il suo peso specifico interno non era ormai più ai livelli del passato, il valore simbolico del suo gesto non è sfuggito all'opinione pubblica russa, anche a quella più martellata dalla propaganda.
Se Chubays se ne è andato, il governatore della banca centrale russa Elvira Nabiullina ha fatto trapelare - attraverso fonti bene informate che ne hanno parlato con Bloomberg - tutto il suo dissenso. Oggi scade il termine per la presentazione delle nomine del prossime governatore della Banca centrale russa, e Putin ha scelto di riconfermarla al suo posto, malgrado tutto il mondo abbia visto la sua espressione di gelo e sconcerto durante il discorso presidenziale in cui veniva annunciata l'invasione all'Ucraina e la capacità della Russia di fronteggiare la scarica di sanzioni occidentali.
Nabiullina, secondo la maggior parte degli analisti, sarà costretta a rimanere: troppo forte è il suo legame con il presidente Putin, troppo pesante sarebbe la condanna che l'attenderebbe nel caso decidesse di passare dalla parte dei «traditori», come il Cremlino ha definito «quelli che fuggono dal loro Paese nel momento della difficoltà». Ma il caso di Nabiullina non è paragonabile a quello di chi se ne va perché troppo affezionato allo champagne, alle vacanze stellate e ai marchi di lusso - sempre per usare le parole di Putin.
(...) Quando prese in mano l'economia russa, subito dopo l'annessione della Crimea nel 2014 e con tutto il carico di sanzioni che le sono seguite, nessuno pensava che il governatore della banca centrale russa Elvira Nabiullina ce l'avrebbe fatta. E invece nel 2015 fu nominata "banchiere dell'anno" da Euromoney, e Christine Lagarde, capo della banca Centrale Europea, come lei amante dell'opera, la definì «un grande direttore d'orchestra».
Soltanto 30 mesi dopo l'annessione della Crimea, infatti, la Russia era tornata sui mercati obbligazionari internazionali. Questa volta però l'impresa deve essere apparsa disperata anche a lei. Putin ha detto a più riprese di essere fiducioso che la Russia supererà le attuali difficoltà economiche e ne uscirà più indipendente, ma gli indicatori economici dicono tutt' altro: si tratta di affrontare un'economia in tempo di guerra, con il Paese isolato e disperatamente bisognoso di investimenti.
Con il crollo del rublo la banca centrale ha più che raddoppiato i tassi di interesse e ha imposto controlli sui capitali per frenare l'emorragia di denaro contante, ma ha dovuto rinunciare a ulteriori interventi difensivi nei confronti del rublo dopo che le sanzioni hanno congelato più della metà dei 643 miliardi di dollari di riserve.
(...) Qualcuno ha notato che dal discorso di Putin in poi, Nabiullina si è sempre vestito di nero, «in segno di lutto e di protesta». Ma al momento sembra difficile che al dress code seguano gesti più politici. A meno che Nabiullina non voglia ritrovarsi come Alexey Ulyukayev, uno dei suoi vice fino al 2013, che per essersi opposto a una decisione del Cremlino si trova oggi a scontare otto anni in una colonia penale in provincia di Tver.
Estratto dell'articolo di Rosalba Castelletti per “la Repubblica” il 24 marzo 2022.
Era sopravvissuto al crollo dell'Urss e al passaggio di testimone da Eltsin a Putin, restando sempre lì, nel cerchio magico di chi tira le fila e comanda, ma davanti all'offensiva russa in Ucraina ha deciso di farsi da parte da solo.
Anatoly Chubais, ex delfino di Boris Eltsin, padre delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta, ha rassegnato le dimissioni come inviato per il clima di Vladimir Putin ed è andato via dalla Russia. Sarebbe già a Istanbul, in Turchia, dove hanno trovato rifugio migliaia di russi fuggiti dal Paese dall'inizio del conflitto.
(…) Si tratta della defezione più alta dall'inizio dell'offensiva un mese fa che potrebbe innescare un effetto a catena ai vertici dello Stato. Del resto il dissenso serpeggia da settimane nei corridoi del potere.
Ieri fonti ben informate avrebbero confermato a Bloomberg che anche la governatrice della Banca centrale Elvira Nabiullina avrebbe provato a dimettersi, come anticipato da Repubblica. (…)
Stando a Bloomberg, prima a dare notizia dell'addio, Chubais si sarebbe licenziato in disaccordo con quella che il Cremlino chiama "operazione militare speciale".
Economista dell'Università di Leningrado, oggi San Pietroburgo, ex leader del partito liberale, Chubais, 66 anni, è stato vicepremier e capo dell'amministrazione presidenziale sotto Eltsin. Si devono a lui le grandi e dolorose riforme degli anni Novanta. Una privatizzazione selvaggia in uno schema di prestiti per azioni che svendette a buon mercato risorse industriali e minerarie statali di enorme valore a una sparuta cricca di oligarchi. La "rapina del secolo", venne chiamata. Tanto che ancora oggi tra i russi si usa dire: «È tutta colpa di Chubais».
Il nostro "governo ladro". Quand'era capo dello staff di Eltsin nel 1996, fu lui a dare il primo lavoro al Cremlino all'allora sconosciuto Vladimir Putin. Che, una volta arrivato al potere, lo ha prima nominato alla guida della rete elettrica statale Rao Ues, poi di Rusnano, l'agenzia statale per la ricerca sulle nanotecnologie, e infine nel 2020 suo inviato speciale per lo sviluppo sostenibile.
(...) In un segnale premonitore, poco dopo il lancio dell'offensiva, Chubais aveva commemorato il settimo anniversario dell'uccisione a due passi del Cremlino dell'ex vice premier diventato oppositore Boris Nemtsov, assassinato a due passi dal Cremlino, pubblicandone una foto sui social.
Nel 2014, protestando contro l'annessione russa della penisola ucraina di Crimea, Nemtsov aveva detto che Putin era «molto malato di mente» e aveva usato il conflitto con l'Ucraina «per tornare ad aprire dittature, campi di concentramento e prigionieri politici». Domenica scorsa, infine, Chubais aveva pubblicato su Facebook la foto del riformatore economico liberale Egor Gaidar e il commento: «Capiva i rischi strategici meglio di me e io mi sbagliavo». (…)
Ucraina: inviato per clima Mosca lascia incarico e Russia.
(ANSA il 23 marzo 2022) - L'inviato per il clima di Mosca, Anatoly Chubais, si è dimesso e ha lasciato la Russia spiegando che la sua decisione è legata all'opposizione alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina. Lo riporta l'agenzia Bloomberg citando alcune fonti. Chubais è conosciuto come l'architetto delle privatizzazioni in Russia degli anni 1990 e con il suo passo indietro è il funzionario di più alto livello a rompere con il Cremlino sull'invasione dell'Ucraina.
Elvira Niubellina, capo della Banca Centrale Russa, sfida Putin: "Hai fatto precipitare l'economia nella fogna". Da globalist.it il 23 marzo 2022.
Elvira Nabiullina, capo della Banca Centrale Russa, è la prima a rompere il silenzio imposto da Putin sulle conseguenze della guerra in Ucraina. E la sua non è una voce di poco conto, ma una delle più potenti in Russia.
Nabiullina sfida direttamente Putin e ha annunciato le sue dimissioni, dicendo che Putin “ha fatto precipitare l’economia in una fogna”.
Elvira Nabiullina si era opposta fermamente a Putin quando ha invaso l’Ucraina e ha già consegnato due volte una lettera di dimissioni, che il Cremlino ha rifiutato di accettare. Anzi, ha rilanciato e ha inviato alla Duma la sua candidatura per la conferma per un terzo mandato a capo della banca centrale russa.
Questo per far capire quanto sia potente Nabiullina, considerata parte della cerchia ristretta del presidente russo, di cui è stata consulente economica prima di diventare banchiere centrale.
Nabiullina ha avvertito che la guerra in Ucraina avrà come conseguenza mesi di recessione e inflazione alle stelle. Questo nonostante la situazione economica russa sembra essere in miglioramento negli ultimi giorni: il cambio del rublo è a 105 sul dollaro, in calo ma distante dai minimi di quasi 180 di pochi giorni fa.
I bond russi restano sotto forte stress, ma si stanno riprendendo dal crollo per la minaccia di default immediato.
Ma gli investitori sono comunque spaventati dalle agenzie di racing che hanno classificato la Russia al più basso livello. La governatrice ha attribuito tutte le responsabilità alla decisione di Putin di invadere l’Ucraina.
Lo Zar perde i pezzi grossi. Via l'ex vicepremier. E la banchiera ci prova. Gaia Cesare il 24 marzo 2022 su Il Giornale.
Per la prima volta dall'invasione russa dell'Ucraina il 24 febbraio, due nomi eccellenti dell'universo putiniano aprono una crepa nel granitico entourage del Cremlino. E lo fanno a causa della guerra a Kiev, segnale da non sottovalutare mentre il dissenso viene soffocato barbaramente in Russia e il regime stringe le maglie contro ogni forma di opposizione al conflitto.
C'è un addio certo, con probabile fuga all'estero, dalla Russia alla Turchia. Ed è quello di Anatoly Chubais, l'economista che è stato l'architetto di fatto delle riforme post-sovietiche, uscito di scena nelle scorse ore dopo aver dato le dimissioni dal suo ultimo incarico di inviato speciale del Cremlino per il clima. E c'è un addio cercato, con dimissioni respinte due volte da Vladimir Putin, ma ancora nell'aria. Ed è quello di Elvira Nabiullina, governatrice della Banca centrale russa, stretta consigliera del presidente russo, che secondo fonti a conoscenza della vicenda, citate da Bloomberg, ha già cercato di lasciare il suo incarico ma sarebbe stata fermata da Putin mentre la Russia è a rischio default, sotto la scure e le turbolenze delle sanzioni occidentali.
Due nomi di primo piano. E di uno c'è la sicurezza che abbia lasciato l'esecutivo di Mosca, diventando il simbolo di un dissenso interno al Cremlino e alla sua guerra, che potrebbe presto allargarsi. Anatoly Chubais, 66 anni, con la decisione confermata dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, diventa il più alto funzionario russo a lasciare un incarico governativo dall'aggressione all'Ucraina. E il suo nome non è uno qualsiasi. Ex vicepremier di Boris Eltsin e padre delle grandi privatizzazioni statali dei primi anni Novanta, dopo la caduta dell'Urss, Chubais fu l'uomo che a metà di quegli anni, come capo dello staff di Eltsin, diede a Putin il primo lavoro al Cremlino e caldeggiò la sua ascesa al potere. «Che se ne sia andato o meno è una questione personale», ha cercato di sminuire Peskov, riducendo a una faccenda privata le ragioni della dipartita. Ma diversi segnali, nel mondo orwelliano che è la Russia dei nostri giorni, lasciano intendere che sia stata proprio la guerra a convincerlo all'addio. Non a caso Chubais, che negli anni ha mantenuto stretti legami con diversi funzionari occidentali, avrebbe deciso anche di lasciare la Russia e sarebbe ora a Istanbul: troppo rischioso restare a Mosca. Il suo dissenso lo aveva manifestato sui social network. Il 27 febbraio, tre giorni dopo la guerra, aveva pubblicato una foto di Boris Nemtsov, ex vicepremier di Eltsin, divenuto oppositore di Putin, nell'anniversario della sua uccisione, avvenuta nei pressi del Cremlino nel 2005. Nemtsov aveva descritto l'involuzione autoritaria della Russia di Zar Vlad. Il messaggio di Chubais era dunque chiarissimo. Come quello postato una settimana fa. Stavolta nell'anniversario della morte di Yegor Gaidar, economista-amico finito in rotta con il presidente. Su Facebook, Chubais ammetteva che il collega «aveva capito i rischi strategici meglio di me e io mi sbagliavo». L'amico Gaidar nel 2006, nel suo libro «Morte di un impero», metteva in guardia sulla nostalgia dell'epoca sovietica.
È incerto invece il destino di Elvira Nabiullina, capo della Banca centrale russa, considerata una delle più abili registe mondiali di politica monetaria. Di lei non si sa ancora quanto resterà al timone. Secondo fonti di Bloomberg, nonostante sia stata nominata dal Cremlino la scorsa settimana per un terzo incarico di 5 anni, Nabiullina ha già cercato di lasciare il suo ruolo a causa della guerra. Ma in entrambi i casi la sua richiesta di dimissioni sarebbe stata respinta da Putin, che l'ha riconfermata. Nonostante l'impegno per salvare il rublo, dopo l'attacco, Nabiullina ha avvertito delle conseguenze: recessione e inflazione alle stelle. Nel suo tentato addio, pare abbia scritto: l'invasione «ha fatto precipitare l'economia in una fogna».
Sparito invece dai radar, da una decina di giorni, il ministro della Difesa Sergei Shoigu. Non appare più in pubblico da quando sono montate, anche dall'interno del Cremlino, le accuse di una cattiva gestione della guerra.
Sergei Shoigu sparito da 12 giorni, "problemi cardiaci"? Non proprio, fonti dal Cremlino: "Era la talpa, che fine ha fatto". Libero Quotidiano il 23 marzo 2022.
È mistero in Russia su Sergei Shoigu. Il ministro della Difesa, considerato un fedele alleato di Vladimir Putin nonché un suo amico di vecchia data, è scomparso dalla circolazione ormai da 12 giorni: in questo arco di tempo non è mai comparso pubblicamente né sui media, con le televisioni che hanno utilizzato immagini di repertorio quando hanno dovuto dare notizie che lo riguardavano.
Ufficialmente Shoigu sarebbe a riposo per non meglio precisati “problemi cardiaci”. Difficile capire cosa sta succedendo: è plausibile che il ministro della Difesa stia fronteggiando un momento difficile dal punto di vista della salute, ma è allo stesso tempo ambiguo che ciò stia succedendo proprio nel bel mezzo dell’invasione russa in Ucraina. Stando a quanto riportano fonti occidentali, il leader del Cremlino avrebbe iniziato una “caccia alle streghe” fra i suoi collaboratori più stretti, con l’obiettivo di individuare la “talpa” che avrebbe fornito informazioni preziose sui piani militari russi a Stati Uniti e Gran Bretagna.
Sempre secondo le stesse fonti, Putin avrebbe iniziato a nutrire dei sospetti nei confronti di Shoigu, che da quasi due settimane è sparito dalla scena pubblica. Lo scorso 18 marzo la tv di stato russa ha riportato la notizia di un incontro tra Putin e il ministro della Difesa, ma del presunto vertice non è stata diffusa alcuna foto né video. Inoltre secondo indiscrezioni provenienti dall’opposizione russa, a finire nel mirino sarebbe stata anche la figlia del ministro, la 31enne Ksenia, che sui social avrebbe pubblicato una foto in cui è vestita di giallo e blu: un chiaro sostegno alla causa dell’Ucraina.
L'allarme della 'talpa' di Mosca. Golpe contro Putin, uno 007 rivela il malcontento nell’Fsb: “Aumenta la possibilità di ribellione”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 24 Marzo 2022.
L’ipotesi sempre auspicata dalle cancellerie occidentali, quella di un golpe interno contro Vladimir Putin, potrebbe realizzarsi? Secondo una talpa dell’intelligence di Mosca la possibilità di un rovesciamento dello Zar, al potere praticamente ininterrottamente da un ventennio, starebbe crescendo giorno dopo giorno per il perdurare della guerra in Ucraina.
La circostanza emergerebbe da alcune lettere scritte da un anonimo agente dell’intelligence di Mosca all’attivista in esilio e fondatore del progetto gulagu.net, Vladimir Osechkin, e successivamente pubblicate online.
Ad aumentare le chance di un golpe nei confronti di Putin è il malcontento che serpeggia nell’Fsb, il servizio di sicurezza federale russo, erede del KGB sovietico.
Osechkin, parlando dalla sua abitazione in Francia della situazione interna al Cremlino col Times, ha spiegato che il fatto stesso che agenti russi stiano parlando apertamente dei problemi interni in un momento di isolamento internazionale è il segno evidente di una crescente rabbia nei confronti del presidente Putin. Malcontento che cresce ogni giorno anche per effetto delle sanzioni internazionali che subiscono gli ufficiali dell’Fsb.
Gli uomini di alto grado del servizio di sicurezza federale russo infatti “non possono più andare in vacanza nelle loro ville in Italia e portare i loro bambini al Disneyland di Parigi”.
Osechkin, in esilio dal 2015, ha riferito al Times che “per 20 anni Putin ha creato stabilita’ in Russia. Ufficiali dell’Fsb, poliziotti, pubblici ministeri e le persone all’interno del sistema hanno potuto vivere una bella vita. Ma ora è tutto finito – ha proseguito -. Riconoscono che questa guerra è una catastrofe per l’economia, per l’umanità. Non vogliono tornare ai tempi dell’Unione Sovietica. Ogni settimana e ogni mese in cui questa guerra continua, aumenta la possibilità di una ribellione da parte dei servizi di sicurezza”.
I SEGNALI DA MOSCA – Segnali di crescenti problematiche interne a Mosca continuano ad emergere giorno dopo giorno. Non solo le purghe del Cremlino contro alti ufficiali dell’esercito e delle forze armate, già documentati nei giorni scorsi.
Ieri sono infatti emerse le dimissioni dalla carica di inviato speciale del presidente russo per il clima Anatoly Chubais, il più alto funzionario ad aver pubblicamente voltato le spalle a Vladimir Putin, che lo aveva personalmente assegnato a quella funzione.
Chubais, fidato consigliere dello Zar e architetto delle riforme russe degli anni Novanta, comprese le privatizzazioni dell’era Eltsin, si troverebbe ora in Turchia e non avrebbe “alcuna intenzione di tornare in Russia”, hanno spiegato fonti vicine all’ormai ex inviato speciale per il clima al sito Rbc.
Sempre nella giornata di mercoledì Putin ha invece bloccato la richiesta di dimissioni da parte della governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina. Contraria all’invasione dell’Ucraina, Putin le avrebbe di fatto imposto di mantenere l’incarico
Le sanzioni occidentali e il loro duro effetto sull’economia russa sarebbero alla base della decisione di Nabiullina, che la scorsa settimana è stata nominata per un nuovo mandato quinquennale.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Crepe al Cremlino, si dimette l’inviato speciale Chubais: rottura per la guerra in Ucraina e ‘fuga’ in Turchia. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Marzo 2022.
Il Cremlino mostra le prime crepe dopo quasi un mese di conflitto in Ucraina, l’operazione militare speciale che per Putin è destinata a “denazificare” il Paese. Si è infatti dimesso dalla carica di inviato speciale del presidente russo per il clima Anatoly Chubais, il più alto funzionario ad aver pubblicamente voltato le spalle a Vladimir Putin, che lo aveva personalmente assegnato a quella funzione.
Le dimissioni di Chubais sono state rivelate da due fonti all’agenzia Bloomberg e poi confermate anche dal Cremlino. Chubais, fidato consigliere dello Zar, si troverebbe ora in Turchia e non avrebbe “alcuna intenzione di tornare in Russia”, hanno spiegato fonti vicine all’ormai ex inviato speciale per il clima al sito Rbc.
Economista 66enne dell’Università di Leningrado, Anatoly Chubais è considerato l’architetto delle riforme in Russia negli anni Novanta, in particolari delle privatizzazioni avvenute durante il governo di Boris Eltsin, di cui era stato vice premier e capo dell’amministrazione presidenziale. Proprio per questo in Russia era criticato per essere tra i responsabili dell’arricchimento degli oligarchi a scapito della popolazione.
Il legame tra Chubais e Putin è di lunga durata: fu lui infatti ad offrire al numero uno del Cremlino il primo incarico di governo. Anche per questo rapporto di fiducia fu praticamente l’unica figura di spicco dell’era Eltsin a restare in ruoli di spicco nel ‘regno’ ventennale di Putin a Mosca: capo del monopolio statale dell’energia elettrica Rao Ues fino al 2008, è stato poi a capo di Rusnano (la corporazione russa per le nanotecnologie), fino a inviato speciale per il clima con l’obiettivo di “raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile”.
Già nei giorni scorsi Chubais aveva lanciato un primo emblematico segnale della divergenza con l’operato del Cremlino, pubblicando una foto dell’ex oppositore del presidente Boris Nemtsov, ucciso nel 2015.
La presa di posizione di Chubais ha una notevole portata dato il ruolo di quest’ultimo: prima dell’inviato speciale per il clima, il funzionario di più alto livello ad essersi espresso contro “l’operazione militare speciale” in corso in Ucraina era stato Arkadij Dvorkovich, presidente della Federazione internazionale degli scacchi (Fide), che aveva rassegnato le dimissioni da capo del Fondo per la tecnologia Skolkovo.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Aldo Montano e la moglie che «appoggia» Putin: «Olga ha preso le distanze da tutto». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2022.
Lo schermidore: «Olga è russa e si trova a vivere qualcosa di particolare, anche perché vediamo immagini che sono di guerra. Al di là degli aspetti geopolitici della vicenda, ci sono fatti non semplici da metabolizzare. Noi ascoltiamo i tg italiani e russi»
«Mia moglie ha preso le distanze da tutto». Ma ha risposto a chi le chiedeva cosa pensasse della sua Russia. E all’improvviso, ecco la bufera. Scatenata dai social e sui social, sottovalutando il fatto che qua vige l’insulto più che il confronto e a maggior ragione se il tema tocca argomenti così sensibili. Comunque, è andata: Olga Plachina, ex quattrocentista e vincitrice del concorso Miss Sport e Miss Best Model, moglie russa di Aldo Montano, olimpionico della sciabola nel 2004 e ritiratosi dopo l’argento a squadre ai Giochi di Tokyo, è finita nella bufera per aver dato corda a chi su Instagram commentava le foto della festa per il suo venticinquesimo compleanno. Qualcuno le ha chiesto come la pensasse sul conto della guerra in Ucraina e lei ha risposto così: «Sono una ragazza russa e sono fiera di esserlo. Vladimir Putin mi è sempre piaciuto come presidente e allo stesso modo il nostro regime».
SPORT E GUERRA
Putin, la moglie di Aldo Montano lo appoggia: la modella russa Olga Plachina nella bufera
Montano, 17 anni più anziano della moglie, dalla quale ha avuto Olympia e Mario, qualche ora dopo si è messo a preparare un documento assieme a suoi consulenti: «Mi sto consultando sul da farsi, la questione è delicata». Nei giorni scorsi aveva avuto modo di raccontare lo scenario non facile che la famiglia sta affrontando, con il martellamento di notizie da varie fonti. «La situazione in Ucraina, per quello che riusciamo a capire, è oggettivamente brutta. E noi siamo in costante apprensione, non la viviamo bene. Olga è russa e si trova a vivere qualcosa di particolare, anche perché vediamo immagini che sono comunque di guerra. Al di là degli aspetti geopolitici della vicenda, ci sono fatti non semplici da metabolizzare». Nella famiglia Montano, tra l’altro, la dialettica sulla visione della Russia riportata dai media occidentali è sempre stata vivace. «A casa – racconta sempre Aldo – siamo sempre abituati a sentire i telegiornali italiani e russi. Constatiamo che le differenze sono notevoli e allora partono le discussioni, che però rimangono sempre all’interno di un sano confronto di idee».
Il legame tra Montano e la moglie
Aldo e Olga sono legatissimi e l’ex schermidore non nasconde di aver fatto di tutto per superare alcuni momenti delicati della loro storia: «Nasco geloso. E rimango geloso se ho modo di preoccuparmi. Anche di mia moglie lo sono stato e lo sono. Non ci siamo mai lasciati, ma qua e là ho dovuto riacciuffarla: quante volte mi sono fiondato a Mosca…». Nella loro vita vissuta c’è anche l’esperienza che Montano ha fatto nell’ultimo Grande Fratello Vip. È stata Olga a persuaderlo che fosse il caso di partecipare: «Mi ha convinto: forse le sfagiolava l’idea di non avere tra i piedi un pensionato rompiballe…» aveva detto prima di cominciare il suo secondo reality dopo aver partecipato, nel lontano 2006, a «La Fattoria». Durante i mesi nella permanenza nella casa è stata lei a spingerlo a non mollare. «Era contenta di quello che stavo facendo, ci siamo sentiti al telefono perché qualche chiamata era ammessa. Mi ha spronato a restare. Lei e i miei… Ma allora non vi manco per nulla, ho detto loro». Aldo è uscito dalla casa poco prima di Natale, sperimentando anche qualcosa di particolare con i due figli: «Il piccolo mi ha sconvolto: aveva 5 mesi quando sono entrato e nel giro di 3 ha fatto un cambiamento enorme, al punto che non lo riconoscevo. Olympia, invece, nemmeno mi ha salutato: forse voleva farmela pagare. Si è sciolta dopo due giorni». La guerra a quel tempo era ancora lontana, la famiglia Montano, «smezzata tra Italia e Russia» come ama dire lui, ancora non immaginava che avrebbe dovuto affrontare una realtà così difficile.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 22 marzo 2022.
«Non potrò tornare nel mio Paese, per anni forse. E qui, in Occidente, resteremo sempre dei criminali. Ci metteremo decenni a farci perdonare quello che abbiamo fatto». Irina è fuggita da Mosca con uno degli ultimi aerei dell'Aeroflot per Istanbul, da lì ha preso un volo per Copenaghen, ha subito un estenuante interrogatorio all'ingresso in Europa, per dimostrare che non era una esponente del regime di Putin in fuga dalle sanzioni. Rilasciata finalmente, è entrata in un negozio per comprare una bottiglia di vino: «Non riuscivo a dormire, avevo davanti agli occhi le bombe che cadevano sull'Ucraina, e nelle orecchie la voce del poliziotto danese che mi chiedeva se sostenevo quella guerra».
Alla cassa, ha scoperto che la sua carta di credito di una banca moscovita aveva già smesso di funzionare: «Il proprietario me l'ha regalata. Mi ha detto che ne avevo bisogno. Un momento che ricorderò per tutta la vita: io, appena fuggita dal mio Paese, con in mano una bottiglia di vino che non posso pagare, e un danese che ha pietà di me, nonostante io sia russa».
Irina a Mosca aveva una galleria d'arte, ma faceva parte di quella «quinta colonna» di russi che Putin accusa di essere «mentalmente di là», in Occidente. Non solo mentalmente, ora: «Non posso vivere in un Paese dove non ho diritto a dire quello che penso. I miei genitori non lo capiscono. E non capiscono che mi vergogno a essere russa».
Una parola che viene pronunciata, tra i pochi e i primi, da Yuri Dud, il video blogger più popolare tra i giovani, che confessa di provare verso l'Ucraina «vergogna e colpa», e raccoglie un milione e 100 mila like su Instagram, e migliaia di insulti. Poi arriva il turno del rapper Face, che dichiara - dopo essere emigrato - di non considerarsi più cittadino russo, di assumersi la colpa della guerra insieme alla «maggior parte del popolo e a tutta intellighenzia», e chiede scusa «a tutto il popolo ucraino perché qualcuno deve farlo, e tocca a me».
Vergogna, colpa, scuse: parole assenti dal vocabolario non solo politico della Russia, che ora lacerano il suo senso di superiorità morale. Mentre star del regime come l'attore Vladimir Mashkov fustigano i «servi dell'Occidente» ed esaltano «l'orgoglio russo», le bombe sul teatro e l'ospedale di Mariupol rendono impossibile non interrogarsi sulle responsabilità collettive. Lo slogan «Putin non è la Russia», che aveva riempito le bacheche anche di molti figli della nomenclatura putiniana, non basta più. Qualcuno deve aver sganciato quelle bombe, puntato quei missili, sparato su quei profughi, e il giornalista Vladislav Davidzon brucia il suo passaporto davanti all'ambasciata russa di Parigi, mentre gli ucraini sbeffeggiano sui social gli amici russi che gli scrivono in privato di vergognarsi del loro Paese: «Dillo ad alta voce, scendi in piazza, mandaci aiuti, fai qualcosa», si indigna Alyona Zhuk, giornalista e illustratrice di Kiev.
La paura è una spiegazione, ma non basta: «Vedo i miei concittadini affollarsi nei negozi per l'ultimo iPhone, e piangere per la chiusura di Instagram, e poi avere paura a scrivere su Facebook, mentre gli ucraini non temono di fermare a mani nude i carri armati russi», si rammarica Vladimir, professore di un'università statale che con la guerra ha preferito riparare a Berlino. «Non ho più speranze, la democrazia in Russia non è possibile. E non so se mai riuscirò a tornare a insegnare la letteratura russa con lo stesso orgoglio», confessa. Colpa del popolo ignorante, un altro classico dell'intelligenzia russa, e i lamenti che accompagnano questo nuovo esodo sembrano ripetere quelli di cento anni fa, quando i bolscevichi mandavano in esilio i «piroscafi dei filosofi».
Maxim Trudolyubov, ricercatore all'istituto Kennan di Washington, inizia però prudentemente un dibattito sacrilego fino a un mese fa, sulla «tendenza della cultura russa di chiudersi in se stessa, di peccare di narcisismo e arroganza verso gli altri popoli». I miti della grande letteratura, del miglior balletto, della lingua più ricca, scrive sulla newsletter Kit, hanno alimentato l'idea di «una grandezza data per scontata», ma oggi l'identità russa si scopre basata semmai «sul complesso di grandezza», mentre il diritto a stare dalla parte giusta passa a quegli ucraini disprezzati perfino dal dissidente e poeta Nobel Iosif Brodskij, che gli dedicò una poesia offensiva.
E mentre Volodymyr Zelensky continua a rivolgersi ai russi in russo, e ad applaudire i pochi che sfidano il regime di Putin, molti ucraini di lingua russa passano alla lingua di Stato, e la distinzione di colpe individuali diventa sempre più faticosa di fronte alle folle che acclamano Putin, per convinzione, per paura o per costrizione, visto da Mariupol non fa una grande differenza. Nastia Kadetova, collaboratrice di Alexey Navalny di Pietroburgo, diffonde i video dei bambini estratti dalle macerie di Kharkiv: «È dura da guardare, ma dobbiamo farlo per accumulare rabbia verso i dementi che hanno coinvolto il nostro Paese in un crimine mostruoso».
La speranza è quella di rompere l'incantesimo della propaganda, svelare la realtà. Da quel processo iniziò la perestroika, e la fine dell'Urss tanto rimpianta da Putin. Ma è faticoso, quasi insopportabile: «La Russia bombarda mia madre», ripete quasi inebetito Oleg, un ucraino etnico con passaporto russo. Vive da anni a Praga, guarda in tv le bombe cadere su Kiev, e poi esplode in un urlo: «È tutto un fake! Dove sono i cadaveri? Dovrebbero essere tanti, non li vedo! È tutto falso!». Una reazione di rifiuto, di fronte a un mondo che sta crollando.
Quella Russia che «aveva salvato l'Europa dal male non esiste più, ora noi siamo quelli che hanno creato, o almeno non hanno impedito, un nuovo male. Siamo falliti come nazione», scrive il giornalista Ilya Krashilshik in un editoriale sul New York Times che ha fatto esplodere la polemica nell'intellighenzia emigrata. Mikhail Gorbaciov era riuscito nel miracolo di far emergere i sovietici dalle rovine del totalitarismo come vittime, e ogni discorso sul pentimento, l'elaborazione della colpa e l'ammissione della responsabilità era stato presto sommerso dall'offesa per essersi scoperti non più grandi, di aver perso l'impero, di essere stati rimandati alla scuola della civiltà. I russi non hanno mai chiesto scusa per aver invaso polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi, finlandesi.
Dovranno farlo ora con gli ucraini, e la critica televisiva Ksenia Larina dice che dopo la guerra i russi «dovranno essere portati sulle rovine dell'Ucraina, per vedere con i loro occhi, come si era fatto con i tedeschi». Il paragone viene finalmente reso esplicito, insieme alla fine dell'illusione che un totalitarismo possa ravvedersi da solo, e Larina chiede una «denazificazione, una deputinizzazione di un Paese impazzito». Ma accanirsi contro il regime non basta, è un modo per sentirsi di nuovo vittime, avverte Krasilshik, mentre è arrivato il momento di crescere, di assumersi la propria responsabilità, di ammettere le colpe e di guadagnarsi il perdono. Una nuova Russia, se un giorno nascerà, potrà ripartire solo da quel senso di vergogna che oggi il dittatore le proibisce di provare.
Dov’è la collera russa? Non è solo la guerra di Putin, purtroppo è la guerra della Russia all’Ucraina. Christian Rocca su L'Inkiesta il 20 Marzo 2022.
Se i cittadini russi avessero soltanto un briciolo del coraggio degli ucraini, scenderebbero in piazza, fermerebbero il paese e costringerebbero il regime a ritirarsi. Ma una nazione di centoquarantaquattro milioni di abitanti per ora ha scelto di ignorare i crimini contro Kiev oppure di scappare all’estero, diventando corresponsabile dell’invasione lanciata dalla cosca criminale del Cremlino.
Se i russi avessero solo un briciolo del coraggio degli ucraini – un briciolo, ne basterebbe soltanto un briciolo – la guerra finirebbe domani e forse non sarebbe mai nemmeno cominciata. Seduti comodamente nei nostri salotti riscaldati dal gas russo, forse anche noi europei e occidentali dovremmo liberarci dall’illusione che l’invasione armata dell’Ucraina sia una trovata impopolare escogitata in solitaria dal criminale del Cremlino e che i russi siano le altre vittime di questa carneficina.
Ovviamente anche i russi sono vittime del despota che si atteggia a Zar, e la lista degli oppositori e dei dissidenti e dei giornalisti uccisi negli ultimi venti anni è più lunga dei tavoli da riunione del Cremlino. Il caso di Alexei Navalny, l’oppositore prima avvelenato e poi incarcerato, è l’esempio più unico che raro dello stato dell’opposizione russa al regime, anche perché la Federazione russa conta la bellezza di centoquarantaquattro milioni di abitanti e di Navalny ce n’è soltanto uno.
Ecco, basterebbe che il dieci per cento o anche solo il cinque per cento di questi centoquarantaquattro milioni di cittadini russi scendesse in piazza, fermasse le fabbriche, occupasse le università per mandare il paese in tilt e costringere gli apparati, i militari e il dittatore a rivedere i piani di annessione dell’Ucraina.
Ma in piazza, nelle fabbriche e nelle università non c’è né il cinque né il dieci e nemmeno l’uno per cento dei russi. Qualcuno protesta, sì. Finisce subito in galera, certo. Ovviamente è facile pretendere una ribellione popolare da Milano o da Parigi o da Berlino. Ma resta il fatto che, senza considerare i sostenitori entusiasti di Putin, tra i cittadini russi prevale il calcolo che sia più conveniente restare zitti e buoni o al massimo scappare all’estero, in Turchia o in Finlandia, a Dubai e finanche in Kazakistan piuttosto che contrastare la cosca putiniana.
Non fare niente, fuggire altrove o al massimo lamentarsi perché Instagram non è più accessibile è una scelta unanime dei cittadini russi, comprensibile quanto si vuole per i rischi che si corrono ma comunque una scelta precisa. E il risultato di questa scelta condivisa è che questa in corso è la guerra dei russi all’Ucraina. Di tutti i russi, non solo di Putin.
Mentre i lasettisti e i retequattristi del bipopulismo televisivo italiano, volenterosi complici rossobruni di Putin, occupano le strisce disinformative giornaliere con personaggi improbabili che imputano alle vittime le responsabilità della guerra e scatenano miserabili mestatori per spiegare agli ucraini come arrendersi chiavi in mano, i russi fanno finta di guardare altrove e gli ucraini difendono le loro case e le loro famiglie dall’assedio dell’esercito invasore e laddove hanno perso il controllo del territorio sfilano ad armi nude e a bandiere spiegate davanti alle armate russe che si fregiano orgogliosamente della nuova svastica a forma di Z.
L’altro giorno, parlando con Yaryna Grusha Possamai, ex “bambina di Chernobyl” adesso cittadina italiana, docente di letteratura del suo paese alla Statale di Milano e da poco nostra collaboratrice, ho capito quanto sia insopportabile per chi ha genitori, parenti e affetti di ogni tipo minacciati dalla mitraglieria dell’esercito russo – e non sa nemmeno se siano vivi o morti, rapiti o affamati – sentirsi dire che i russi non sono come Putin proprio mentre i russi – sia quelli impegnati a sparare sui civili sia quelli che non contestano il regime – evitano meticolosamente di dimostrarlo e non muovono un dito per cambiare il corso delle cose.
È vero che i russi rischiano di finire in carcere anche solo se pensano come gli occidentali, come ha minacciato Putin nel delirante discorso televisivo di mercoledì sera, ma provate a spiegare il rischio del fermo di polizia agli ucraini che dal 2014 rischiano la vita a Maidan e ora al fronte, anzi morivano a Maidan e muoiono al fronte, per affermare il diritto all’indipendenza nazionale dai fantocci del Cremlino e per aderire a un sistema di convivenza civile basato sul rispetto e sul diritto, sulla società aperta, e non sulla società dove vige il buio a mezzogiorno.
Where is the outrage?, dov’è la collera dei russi sui crimini commessi dai connazionali in Ucraina e prima ancora in Bielorussia, in Siria, in Georgia, in Cecenia e anche in Russia? Non c’è.
Si spiega meglio, quindi, quanto è successo ieri all’Arco della Pace di Milano, durante la manifestazione per l’Ucraina. Quando il sindaco Beppe Sala ha detto che «gli ucraini sono nostri fratelli» e anche che «i russi sono nostri fratelli», qualcuno tra i diecimila presenti, qualcuno della comunità ucraina, lo ha interrotto con uno squillante «i russi non sono nostri fratelli».
La storia ucraina del resto è una lunga storia di lotta impari contro la politica coloniale russa, dal Settecento all’invasione del 2014 e di questi giorni, passando per lo sterminio per fame (cinque milioni di morti) noto con il nome di Holodomor e deciso a tavolino da Stalin. Non è che ci si possa stupire oggi del forte spirito nazionalista e indipendentista degli ucraini e della loro necessità vitale di affrancarsi dall’oppressore, di avvicinarsi all’Europa e di sentirsi più sicuri sotto l’ombrello protettivo della Nato.
Nel 1991, tre settimane prima della dichiarazione d’indipendenza ucraina dall’Unione sovietica che avviò la smobilitazione finale dell’impero comunista, George Bush senior al Soviet supremo di Kiev fece un discorso realista, patetico e disonorevole passato alla storia con il nome ingiurioso di ”Chicken Kiev speech” che gli affibbiò William Safire sul New York Times. In quel discorso, l’allora presidente degli Stati Uniti disse che gli americani non avrebbero mai sostenuto coloro che cercavano l’indipendenza «per sostituire una dittatura lontana», quella di Mosca, «con un nazionalismo suicida centrato sull’odio etnico». In quell’occasione Bush si fece messaggero degli interessi del Cremlino e del leader sovietico Gorbaciov che brigava per non far crollare l’Unione sovietica sotto i tellurici movimenti di libertà dei suoi ex sudditi. Secondo gli ucraini di allora, il presidente americano si mostrò più filosovietico degli stessi leader comunisti ucraini.
Insomma, gli americani di Bush senior, in nome della Realpolitik, nel 1991 cercarono di scongiurare la fine dell’impero sovietico e di frenare l’indipendentismo ucraino. Questo per dire quanto siano fallaci le argomentazioni di Putin sull’interferenza americana e occidentale in quell’area di confine e quanto in realtà noi europei dobbiamo agli ucraini. Il loro coraggio antitotalitario si è visto allora, nel 2014 a Maidan e in questi giorni sotto assedio.
La speranza adesso è che prima o poi i russi riusciranno a ribellarsi al loro tiranno e al loro tragico destino, altrimenti sarà improbabile evitare ulteriori catastrofi umanitarie. Ma finché sulla carneficina in Ucraina non ci sarà una mobilitazione all’altezza di questo nome a Mosca e non solo a Mosca, nelle città e nelle campagne, oltre che negli apparati di sicurezza e tra i capibastone dell’azienda Cremlino spa, è comprensibile perché gli ucraini non considerino i russi come fratelli ed è normale che li reputino volenterosi carnefici di Putin, alla pari dei tedeschi comuni raccontati da Daniel J. Goldhagen nel suo famoso saggio sugli anni di Hitler.
Le sanzioni economiche che stanno piegando economicamente la Russia servono soprattutto a questo, a indicare ai russi comuni l’uscita di sicurezza per scongiurare lo sterminio degli ucraini programmato dal Cremlino e dimenticare per sempre l’incubo di un ritorno al passato.
Ilaria Costabile per fanpage.it il 17 marzo 2022.
La prima ballerina del Bolshoi, Olga Smirnova, ha deciso di lasciare la compagnia del noto teatro russo, per entrare a far parte del Balletto Nazionale Olandese di Amsterdam. Una scelta presa a seguito delle conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina. L'artista ha espresso il suo pieno dissenso nei confronti dell'invasione russa e ha annunciato in un comunicato che avrebbe lasciato il teatro moscovita nell'immediato.
L'addio viene a distanza di nemmeno due settimane dall'abbandono del direttore Tugan Sokhiev e, il 7 marzo del primo ballerino, l'italiano Jacopo Tissi, seguito dal ballerino solista David Motta Soares. Una presa di posizione che si fa sentire e che rappresenta una condanna vera e propria messa in atto nel modo più forte possibile, lasciando anche i luoghi della cultura che supportano il nome della Russia nel mondo.
"Mi vergogno per la guerra" ha dichiarato la ballerina che, quindi, è stata accolta dal balletto nazionale olandese il quale fa sapere: "Smirnova è stata esplicita nella sua recente denuncia dell'invasione russa dell'Ucraina che rende insopportabile per lei continuare a lavorare nel suo Paese". L'etoile, poi, aveva scritto sul suo canale Telegram: Non avrei mai pensato che mi sarei vergognata della Russia, sono sempre stata orgogliosa del talento dei russi, dei nostri successi culturali e atletici. Ma ora sento che è stata tracciata una linea che separa il prima e il dopo.
Chi è la ballerina Olga Smirnova
Nata a San Pietroburgo il 6 novembre 1991, Olga Smirnova inizia a studiare danza da bambina all'Accademia Vaganova, dove ha l'opportunità di partecipare ai tour organizzati dalla scuola in Europa e Giappone, facendo il suo debutto da solista nel 2004 alla Royal Ballet School.
Concluso il suo percorso in accademia, nel 2011 è stata assunta dal Bolshoi direttamente come solista, guadagnando di anno in anno, ruoli sempre più importanti all'interno della compagnia, fino ad ottenere il titolo di prima ballerina nel 2016. Tanti i balletti che l'hanno vista protagonista tra repertorio classico e proposte più recenti, che le hanno permesso di girare il mondo, arrivando a ballare anche all'American Ballet Theatre.
Marco Imarisio per corriere.it il 17 marzo 2022.
«Cari cittadini russi, cari amici...». Cominciò così, la guerra. Ancora prima delle bombe su Kiev. Con un discorso andato in onda la sera del 21 febbraio, con il quale Vladimir Putin spiegava le ragioni di quel che sarebbe successo a breve. Da quel momento, apparve chiaro che sarebbe stato solo questione di come e quando l’Ucraina sarebbe stata invasa.
Quel che nessuno sapeva è che nello stesso giorno era stato registrato anche il messaggio di guerra e trasmesso poi a reti unificate all’alba del 24 febbraio. Da allora, ci siamo dentro. Passiamo le nostre ore a immaginare scenari di pace, a illuderci per ogni spiraglio. Poi arriva lui. Che sia per convocare all’altro capo del suo lunghissimo tavolo gli oligarchi o i capi delle Forze armate, che sia per il settimanale incontro a distanza con i suoi ministri.
Ogni volta fa terra bruciata. Con la stessa espressione inerte. Quasi sempre con le stesse parole, che non cambiano mai, e non lasciano spazio a compromessi o speranze. È arrivato forse il momento di comporre un piccolo dizionario del lessico putiniano di queste ultime tre settimane. Perché ci potrebbe servire anche nel prossimo futuro, purtroppo. E i precedenti fanno pensare che non avrà bisogno di molti aggiornamenti.
SPAZIO SPIRITUALE - Non è la più roboante o la più minacciosa delle sue espressioni, ma è una delle più importanti. E infatti la ripete spesso. Nella sua personalissima interpretazione della storia, la Russia, la Grande Madre Russia, è uno spazio spirituale ingiustamente spezzettato in tanti Stati diversi da Lenin e dalla rivoluzione del 1917. Nel suo saggio del luglio 2021 dal titolo “Sull’unità storica di russi e ucraini”, il presidente russo scrive che Russia e Ucraina sono lo stesso spazio storico e spirituale, e il muro che si è innalzato tra loro in questi anni è una disgrazia. Lo spazio spirituale è la password per giungere alla negazione di qualunque identità del popolo ucraino.
DENAZIFICAZIONE - Lo declina in tanti modi diversi, e lo usa sempre. Secondo Putin, l’Ucraina è una nazione governata da nazisti, che attentano alla vita della popolazione filorussa del Donbass, quindi va depurata, denazificata. È un modo per cercare una legittimità storica all’invasione in corso.
Nel 2020, la Costituzione russa ha inserito al suo interno un articolo per «proteggere la verità storica», creando una vera e propria dottrina di Stato, che si basa su un patriottismo portato all’estremo, secondo il quale la Russia è l’unica nazione ad avere sconfitto i nazisti, dopo che le debolezze occidentali avevano consentito a Hitler una avanzata inarrestabile. Il concetto di denazificazione non significa la sconfitta di quella ideologia, ma è solo la sconfitta dei nemici della Russia, che per definizione sono tutti nazisti.
BANDA DI DROGATI - Nella cosmogonia di Putin, non esiste insulto peggiore. Neppure «pedik», il termine dispregiativo riservato agli omosessuali che il presidente utilizza spesso.
Quando il 25 febbraio, dopo la prima notte di bombardamenti, si rivolge ai militari delle forze armate ucraine invitandoli a prendere il potere, perché «con voi sarebbe più facile trovare un accordo che con questa banda di tossicodipendenti e neonazisti», sta mettendo Vladimir Zelenski e il governo di Kiev al livello più basso della sua personalissima scala evolutiva. Il disprezzo di Putin per i tossicodipendenti si riflette sui metodi disumani usati nei loro confronti in Russia, dove peraltro l’eroina è una piaga sociale. Il metadone è quasi illegale, e le terapie si ispirano alle cure psichiatriche del primo Novecento.
REGIME BANDERISTA - Putin ripete spesso che Kiev si trova sotto «un regime banderista». È uno degli insulti più comuni che riserva ai governanti ucraini, ripetuto il 25 febbraio, il 3 marzo e altre volte, e uno dei più misconosciuti da noi. Deriva da Stepan Bandera, fondatore dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini, collaborazionista, criminale di guerra, complice del massacro di migliaia di ebrei polacchi e di decine di soldati dell’Armata rossa. A Putin non sfugge certamente il fatto che Bandera fu assassinato nel 1959 a Monaco di Baviera da un agente del KGB russo. Anzi.
DIFESA - Può sembrare sorprendente, per il resto del mondo che lo considera come l’aggressore. Ma è il vocabolo più utilizzato da Putin durante le sue apparizioni pubbliche, almeno così ha stimato il Levada Center, uno dei pochi centri studi indipendenti russi. Perché «giustifica» la cosiddetta operazione militare speciale e tutto quel che ne consegue.
Dietro questa parola si cela un punto fondamentale della strategia di Putin. Le minoranze russe fuori dai confini nazionali diventano un pretesto per rivendicare l’unità della nazione. Anche se la guerra del 2014 nel Donbass non è mai stata spiegata a dovere, perché il Cremlino sosteneva di non essere coinvolto, il sottotesto era ben chiaro. Difendere i russi. Anche se nessuno li minaccia. E mantenere così la Russia in uno stato di eccitazione patriottica permanente.
GENOCIDIO - Putin ha definito così quel che secondo lui è accaduto nei territori secessionisti filorussi nell’est dell’Ucraina. Da dicembre, quando l’esercito di Mosca ha cominciato ad ammassarsi ai confini, questa accusa infondata ha risuonato di continuo. Non è una novità. La prima volta che Putin usò questo termine fu nel 2008 per giustificare l’intervento in Georgia al fine di «proteggere dal genocidio» la popolazione russofona dell’Ossezia del Sud. «Andiamo in soccorso dei nostri fratelli». Tale e quale. Nel 2008 e nel 2022.
OCCIDENTE - L’ormai celebre «discorso della vittoria», apparso online per errore la mattina del 27 febbraio, scritto da un giornalista fedelissimo di Putin, quindi quasi un apocrifo, contiene un passaggio illuminante. «Questo è un conflitto tra la Russia e l’Occidente, una risposta all’avanzata dell’atlantismo… la Russia non ha solo lanciato una sfida, ha dimostrato che il dominio occidentale è ormai finito. Cina, India, il mondo islamico e l’Africa, il sud est asiatico, tutti hanno capito grazie a noi che ormai l’epoca della dominazione globale dell’Occidente è terminata».
Per Occidente, Putin intende gli Usa, il grande Satana. L’Unione europea non è che una nota a margine, citata solo due volte nell’ultima settimana e sempre accompagnata dal termine «marionetta». Degli Stati Uniti, naturalmente. L’Occidente come un tutt’uno, contenitore di ogni vizio possibile, terra di mollezze e delle «cosiddette libertà di genere», come ha detto mercoledì sera. L’Occidente che vuole trattare, ma intanto trama nell’ombra, crea anti-Russie ai confini, «cercando di mandare in pezzi la nostra società e di distruggere la Russia». Bentornata, guerra fredda.
PULIZIA - Si tratta di un nuovo arrivo. E non riguarda l’Ucraina. Mercoledì sera Putin ha parlato delle necessità di fare pulizia a casa propria, distinguendo i veri patrioti dai bastardi e dai traditori. Ieri mattina il suo fedele portavoce, Dmitrij Peskov, ha rifinito il messaggio. «Molti stanno mostrando la loro essenza: sono traditori. Svaniscono dalle nostre vite. Alcuni lasciano il lavoro, alcuni lasciano il servizio attivo, alcuni lasciano il Paese e si trasferiscono all’estero. Alcuni commettono reati e vengono puniti dai tribunali.
È così che la Russia viene purificata». Mosche, etc. I presunti traditori, ovvero coloro che cercano di lasciare la Russia, non sono persone. Vengono definiti come moscerini, da sputare e schiacciare come quando entrano in gola. Si chiama disumanizzazione del nemico. Putin la usa da sempre. Boris Berezosvkij, l’oligarca ribelle che fuggì a Londra, dove si suicidò nel 2013, era «un verme», l’imprenditore dissidente Michail Chodorkovskij invece «un agnellino capace solo di belare». Mai esseri umani. Sono nemici, quindi animali o insetti.
Il ritratto. Nikolaj Patrushev, il suggeritore di Putin che parla con gli Usa. Rosalba Castelletti La Repubblica il 18 Marzo 2022.
Nikolaj Patrushev, il suggeritore di Putin che parla con gli Usa.
Il segretario russo del Consiglio della sicurezza a colloquio con il suo omologo Sullivan. Classe 1951, una vita nei Servizi
Il colloquio tra Nikolaj Patrushev e Jake Sullivan è tre volte degno di nota. Non solo è stato il primo scambio formale d'alto livello tra Russia e Stati Uniti dal lancio, il 24 febbraio, di quella che Mosca chiama "operazione militare speciale" in Ucraina, ma molti osservatori segnalano che non c'è mai stato vertice russo-americano, come l'incontro tra Vladimir
Putin fa arrestare Shiplyuk, l'uomo dei missili ipersonici: sospetti-choc al Cremlino. Libero Quotidiano il 06 agosto 2022
Giallo in Russia: è stato arrestato uno dei più importanti scienziati russi e tra i massimi esperti di missili ipersonici. Si chiama Alexander Shiplyuk, è il direttore dell'Istituto di meccanica teorica e applicata del ramo siberiano dell'Accademia delle scienze russa, e su di lui pende la pesante accusa di tradimento. Come mai si parla di giallo? Perché si tratta del terzo scienziato russo ad essere arrestato quest'estate con l'accusa di tradimento.
A dare la notizia all'agenzia di stampa russa Tass è stato il direttore scientifico dell'istituto Vasily Fomin, secondo cui Shiplyuk dopo l'arresto sarebbe stato mandato al centro di detenzione preventiva di Lefortovo a Mosca. Prima di lui anche il capo ricercatore dell'istituto, Anatoly Maslov, è stato arrestato. Era il 27 giugno e l'accusa era quella di avere trasferito dati segreti di stato relativi ai missili ipersonici.
Poi il 30 giugno è toccato a un altro scienziato, Dmitry Kolker, ricercatore dell'Istituto di fisica dei laser della filiale siberiana dell'Accademia delle scienze russa. In questo caso l'accusa è quella di una presunta collaborazione con i servizi di sicurezza cinesi, stando a quanto riferito da Reuters. I missili ipersonici - i mezzi di cui si occupavano gli scienziati arrestati - sono armi fondamentali nell'ambito della guerra in Ucraina. Uno dei più importanti in Russia è il missile Tsirkon, sviluppato e prodotto dalla Research and Production Association of Machine-Building a Mosca. Nel 2019 Putin ha dichiarato che quest'arma potrebbe sviluppare una velocità molto elevata e che ha una portata di oltre 1.000 km.
Le epurazioni a Mosca. Putin prepara arresti e processi contro i “traditori di Stato”: il ‘messaggio’ ai magistrati dello Zar pronto ad una stagione di purghe. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Marzo 2022.
Arresti di piazza, purghe tra gli altri gradi delle forze armate e, presto, processi contro i “traditori di Stato”. Il terrore putiniano potrebbe presto farsi strada in Russia dove ‘Mad Vlad’, scottato dall’andamento del conflitto in Ucraina, l’operazione militare speciale che si è trasformata in un pantano per le truppe russe, con costi umani non preventivati.
L’ultimo allarme su una stagione di epurazioni arriva da Daniil Berman, avvocato specializzato nella difesa delle persone arrestate durante le manifestazioni di piazza, difensore tra l’altro delle Pussy Riot e della giornalista di Channel One Marina Ovsyannikova, la redattrice che lunedì nel corso del telegiornale è apparsa alle spalle della conduttrice esponendo un cartello contro l’aggressione in Ucraina.
Berman ha infatti avvertito che, stando a informazioni in suo possesso, gli inquirenti russi del Comitato investigativo avrebbero ricevuto l’ordine di concludere rapidamente tutti i casi riguardanti i crimini economici o metterli in attesa perché “ad aprile saranno tutti sommersi dai casi penali contro i ‘traditori di stato’ e ‘traditori nazionali’“.
Purghe, arresti e minacce
Chi sarebbero i “traditori di Stato” nel mirino delle purghe dal sapore staliniano? L’avvertimento da parte dello Zar Putin era arrivato nell’ultimo messaggio alla nazione, in cui il leader del Cremlino aveva parlato di un popolo russo “capace di distinguere i veri patrioti dai bastardi e dai traditori, e sputare fuori questi ultimi come moscerini finiti per sbaglio in gola”.
Parlando invece delle sanzioni internazionali che hanno preso di mira gli oligarchi, per Putin si trattava di una mossa dell’Occidente per “scommettere una cosiddetta quinta colonna, sui traditori della nazione, su chi guadagna in Russia, ma vive in Occidente”. “Non giudico quelli con ville a Miami o in Costa Azzurra, o chi non può cavarsela senza ostriche o foie gras, o con la cosiddetta libertà di genere, perché pensano che questo li collochi in una casta superiore. Il problema è che esistono mentalmente altrove, e non qui, con la nostra gente, con la Russia”, era stato il messaggio minaccioso dello Zar.
Alle minacce e agli arresti dei manifestanti che domenica scorsa erano scesi in piazza in oltre 30 città per manifestare contro la guerra e il regime del Cremlino sono quindi seguiti alcuni arresti eccellenti tra le fila delle forze armate.
Le purghe a Mosca hanno infatti colpito Serghei Beseda e Anatoly Bolukh, numero uno e numero due della Quinta divisione dell’Fsb, la ‘filiale’ dei servizi segreti specializzata nei Paesi dell’ex Urss. Dietro la ‘purga’ ci sarebbe l’accusa nei loro confronti di aver deliberatamente fornito notizie errate sulla situazione in Ucraina e rubato denaro destinato ad arruolare agenti e organizzare operazioni sovversive.
L’ultimo a finire nel mirino di Putin è stato Roman Gavrilov, vice capo della Guardia nazionale russa, la Rosgvardia, arrestato dall’Fsb. A scriverlo ieri era stato Christo Grozev, giornalista del sito investigativo Bellingcat, che cita “tre fonti indipendenti”. La Rosgvardia è una delle unità dell’esercito che ha subito maggiori perdite nel corso del conflitto in Ucraina, in corso ormai da 23 giorni.
Quanto a Gavrilov, i motivi dietro l’arresto non sono ancora chiari: stando ad una fonte riportata da Grozev sarebbe stato arrestato dal dipartimento di controspionaggio militare dell’FSB per “fughe di informazioni militari che hanno portato alla perdita di vite umane”, mentre altre due fonti sottolineano invece che l’accusa sarebbe di “sperpero dispendioso di carburante“.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Il discorso di Putin: «La Russia distingua i patrioti dai traditori. Questa pulizia ci renderà più forti». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 16 marzo 2022.
Il presidente russo ha attaccato il «nemico interno» con parole che hanno destato ovunque impressione, ricordando le «purghe» staliniane: «L’Occidente usa i nostri traditori per distruggere la Russia. Li sputeremo come moscerini finiti in gola».
Che paura. Quasi come il discorso con il quale annunciò l’inizio della guerra. Questa volta, Vladimir Putin ha attaccato il «nemico interno», la definizione è sua, invitando il popolo russo a fare pulizia al suo interno. Con parole che hanno destato ovunque impressione, anche in Russia, dove il suo incontro con i membri del governo non sempre viene trasmesso in diretta. Mercoledì invece è stato così. Il presidente voleva mandare un messaggio. E lo ha fatto, in un modo che rende impossibile non evocare le purghe di staliniana memoria.
«Non voglio giudicare i nostri connazionali con la villa a Miami o nella riviera francese, e che magari non riescono a vivere senza ostriche, foie gras o le cosiddette libertà di genere». Fino a qui poteva sembrare un semplice ultimatum alla folta tribù degli oligarchi, categoria già poco amata in patria, che non sanno più come prendere le distanze in modo più o meno diretto da quello che sta accadendo. Ma il continuo riferimento alla società russa ha fatto anche sorgere l’impressione che si tratti di una minaccia estesa alle molte persone del mondo culturale che in questi giorni hanno deciso di andarsene, e ai semplici cittadini che stanno cercando un modo per fuggire dal loro Paese, non importa se in treno, in auto o in aereo.
«L’Occidente sta cercando di mandare in pezzi la nostra società speculando sulle perdite russe in combattimento e sulle conseguenze socioeconomiche delle sanzioni, nella speranza di provocare così un ammutinamento della popolazione. E so che sta usando la cosiddetta quinta colonna, i nostri traditori, per raggiungere il suo obiettivo finale, che è la distruzione della Russia». È la prima volta che il Cremlino riconosce l’esistenza di un dissenso strisciante nella società russa.
Ma quel che più conta è la reazione di Putin davanti a questa presa d’atto della realtà. Perché è di una violenza verbale che rende superfluo ogni commento. Basta la traduzione letterale. «Comunque, ogni nazione, soprattutto quella russa, è sempre capace di distinguere i veri patrioti dai bastardi e dai traditori, e sputare fuori questi ultimi come moscerini finiti per sbaglio in gola». L’invettiva si conclude con un appello, che in altri tempi avrebbe avuto il valore di un invito alla delazione. «Sputiamoli per terra», conclude Putin. «Sono convinto che questa naturale ed essenziale opera di pulizia della nostra società finirà per rendere più forte il nostro Paese, la nostra unità e la nostra capacità di rispondere alle sfide». Sono parole poco tranquillizzanti, rivolte non solo agli oligarchi, ma a chi sogna di andare via. Forse, è proprio questo l’obiettivo ultimo di Putin. Dall’inizio della guerra, almeno duecentomila russi hanno lasciato il loro Paese.
Quinta colonna. A chi pensava Putin quando prometteva «purghe» ai traditori. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
Il capo del Cremlino ha pronunciato un discorso diretto ai suoi concittadini, puntando il dito contro un nemico interno: si rivolgeva a quei membri dell’alta società che perlopiù vive nel Paese ma «mentalmente si sente occidentale». Ci sono già almeno 180 fascicoli amministrativi o penali contro chi scredita le forze armate.
Nel suo primo discorso alla nazione, a quasi tre settimane dall’inizio dell’invasione Ucraina, Vladimir Putin ha infarcito di bugie i cittadini russi all’ascolto. Ha detto che «l’operazione si sta sviluppando con successo, in conformità con i nostri piani», poi ha detto che un attacco da parte di Kiev sarebbe arrivato nel giro di poco tempo per giustificare l’aggressione. E ovviamente non poteva non ricordare che il «genocidio» in atto nel Donbass andava fermato.
È stato l’ennesimo discorso carico di retorica nazionalista, dai tratti quasi stalinisti: Putin ha paragonato l’Occidente alla Germania nazista accusandola di aver iniziato una guerra economica contro la Russia con l’obiettivo di «demoralizzare la nostra società»; ha aggiunto anche un paragone tra una campagna d’informazione mediatica e via social – in atto in occidente – e i pogrom antisemiti compiuti dai nazisti in Germania negli anni ’30.
Ancor più dei suoi nemici esterni, però, l’autocrate russo ha parlato al suo Paese, ha rivolto lo sguardo in patria e parlato ai suoi connazionali. Il suo bersaglio principale sono i «traditori della nazione», quella quinta colonna che opera contro il Cremlino e protesta contro la guerra.
«Non sto giudicando chi ha ville a Miami o in Costa Azzurra, i russi che non possono vivere senza foie gras e ostriche o i cosiddetti diritti di genere, perché pensano che questo li collochi in una casta superiore», ha detto Putin. «Il problema sono quelle persone che vivono qui in Russia ma mentalmente sono distanti, vivono in occidente». Poi ci ha infilato un’altra bella dose di populismo: «L’Occidente usa i nostri traditori per distruggere la Russia, ma il nostro popolo sarà sempre in grado di distinguere i patrioti dalla feccia e dai traditori, e sputarli fuori come una mosca che gli è volata accidentalmente in bocca».
È stato un discorso dai tratti tipici della tradizionale narrazione nazionalista. Lo spiega a Linkiesta Anna Zafesova, giornalista esperta di Russia e autrice del libro “Navalny contro Putin”: «Non è niente di nuovo rispetto ai discorsi di matrice sovietica, anzi l’impianto sembra proprio lo stesso. La follia sta nel fatto che lui accusa i russi che sono nel Paese ma mentalmente sono con la testa in Occidente: è andato perfino oltre il reato d’opinione, siamo al reato di pensiero».
Nella nuova dimensione della narrazione “noi contro loro”, la forza ostile è costituita dai russi contrari alle scelte del Cremlino. È per questo che Putin parla di «depurazione» naturale e necessaria della società. È un avvertimento al suo stesso popolo più che al resto del mondo: è la conferma che il suo governo autoritario, e sempre più rigido dal 24 febbraio in poi, possa diventare ancora più repressivo.
Non è un caso che le forze dell’ordine, come scrive l’Associated Press, «hanno già individuato i primi reati dovuti a una nuova legge introdotta lo scorso 4 marzo, che stabilisce una pena detentiva di 15 anni per aver pubblicato quelle “informazioni false” sulla guerra in Ucraina».
Tra gli accusati c’è, ad esempio, Veronika Belotserkovskaya – nota ai suoi 900mila follower come Belonika – influencer, autrice di libri di cucina in lingua russa e blogger (lei però vive all’estero). Tra i suoi post si possono leggere contenuti in cui condanna le azioni di quelli che chiama «cannibali con le fauci insanguinate», e prova «vergogna» verso il proprio Paese.
Ovviamente Belonika non è sola: sono almeno 180 i fascicoli amministrativi o penali aperti contro chi «scredita le forze armate russe».
Lo sfoggio di aggressività di Putin contro i suoi concittadini distoglie l’attenzione dalle cronache dell’invasione, dal momento che l’armata russa non riesce a ottenere i risultati sperati. Ma serve anche a compattare il fronte interno, e intimare all’alta società russa di non cercare fughe all’estero.
«Ormai è noto che l’élite putiniana è contraria alla guerra», sottolinea Zafesova. «Ci sono molte testimonianze private di russi che vanno via dal Paese, ovviamente quelli che possono permetterselo. La maggioranza delle persone che oggi fuggono, fino al 24 febbraio riteneva che il compromesso tra posizione sociale, ricchezza e libertà, per quanto limitata, fosse quanto meno accettabile. Nelle ultime settimane invece ritengono che tutto questo non ci sia più: quel po’ di libertà era comunque legata a economia, consumi, viaggi e altri agi che non ci sono più o che spariranno presto».
Nei giorni scorsi un sondaggio demoscopico – di un istituto russo con legami governativi – rivelava che almeno un quinto della popolazione russa è contro la guerra, e va aggiunto anche un ulteriore 10% di persone che si nascondono dietro l’interlocutorio «non so». Insomma, anche i dati ufficiali dicono che almeno un quinto della popolazione non è soddisfatta del conflitto, ed è una quota altissima per un Paese autoritario come la Russia.
È quello che aveva detto – o predetto – la giornalista Marina Ovsyannikova nel video registrato prima della sua irruzione al telegiornale con tanto di cartellone tra le mani: non è possibile raccogliere tutti i russi con la propaganda, la popolazione è troppo numerosa per pensare di riuscire a reprimere tutti i contrari all’invasione dell’Ucraina.
Attenzione però a considerare questa fase come il preludio alla caduta del regime. La propaganda serve appunto per compattare il fronte attorno al leader, e nelle dinamiche di potere della Russia putiniana i vuoti vengono colmati molto presto. «Putin forse non potrà operare purghe su grandissima scala come promette – dice Zafesova – ma a Mosca c’è sempre qualcuno pronto ad accettare un posto alla corte dello zar, per quanto in questo momento sia meno stabile e ricca e appetibile del solito».
Nemici del popolo. Con il ricordo delle purghe la retorica di Putin ha ripescato Stalin. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
Dopo avere usato gli argomenti di Adolf Hitler per spiegare le ragioni dell’attacco all’Ucraina, il presidente russo ha scelto di far ricorso, a uso interno, alle fasi più buie e feroci della storia russa per mantenere un clima di paura nella popolazione.
Dopo il momento Hitler, è arrivato il momento Stalin. «Il richiamo di Putin alla “auto-purificazione” della società russa può avere solo una intenzione: ricordare ai russi di Stalin e delle sue purghe. Vuole che siano perseguitati da ricordi oscuri e ancestrali, che ricordino le storie dei loro nonni e che siano pietrificati dalla paura».
Lo ricorda Anne Applebaum, che di storia dello stalinismo è una dei massimi esperti mondiali. Nata a Washington da famiglia ebraica, divenuta specialista in Russia dopo una laurea a Harvard e un master alla London School of Economics e studi al St Antony’s College di Oxford, in prima linea a seguire le transizioni nell’Europa dell’Est dal 1988 come corrispondente da Varsavia dell’Economist; sposata dal 1992 con un esponente di Solidarność poi divenuto ministro della Difesa e degli Esteri e oggi tra i leader della centrista Piattaforma Civica, dal 2013 anche lei cittadina polacca, collaboratrice di numerose testate e dal 2002 al 2006 membro del comitato editoriale del Washington Post, del quale è tuttora editorialista; staff writer all’ Atlantic; fellow dell’Agora Institute alla Johns Hopkins University.
Lei è però orgogliosa soprattutto per il Pulitzer per la saggistica vinto nel 2004 col libro “Gulag: storia dei campi di concentramento sovietici”. A proposito di questo saggio, frutto di una ricerca durata sei anni, disse infatti: «Walter Duranty, famoso corrispondente da Mosca per il New York Times, vinse un Pulitzer per una serie di articoli che descrivevano i grandi successi dello stalinismo. Il mio premio sembra quasi una forma di giustizia storica».
Nel 2012 il suo libro “La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est 1944-1956” raccontò la comunistizzazione dell’Europa dell’Est. Nel 2017, con “La Grande Carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina” spiegò proprio l’Holodomor: il genocidio per fame che è diventato parte della identità degli ucraini, e della loro diffidenza verso la Russia. E nel 2020 con “Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo” si era unita al grande dibattito in corso sul grave processo di arretramento del pluralismo che è stato favorito da crisi economica e di cui hanno approfittato autocrati come Putin.
Se dunque il libro del 2017 è un po’ la chiave per spiegare la accanita resistenza cui stiamo assistendo, in quello del 2020 è invece la spiegazione dell’attacco. Come ha lei stessa chiarito, il problema vero per Putin non è che l’Ucraina aderisca alla Nato o alla Ue. Il problema è che inizi a funzionarvi una democrazia certo imperfetta per gli standard occidentali, ma comunque in cui un presidente in carica può perdere le elezioni e passare il potere al successore senza traumi. Come è appunto accaduto tra Poroshenko e Zelensky.
«L’Ucraina è una democrazia, e questo per lui è un pericolo. Putin è spaventato all’idea che a Mosca possa ripetersi quello che è accaduto a Kiev nel 2014. Lo considera una minaccia personale», ha spiegato.
D’altra parte, nella sua analisi proprio al fatto che Putin definisce la democrazia liberale «obsoleta» sono legati molti dei consensi che ha. «Ci sono anche persone – in politica, nei media – che ammirano genuinamente Putin. Ammirano il fatto che distrugga le regole. Che non rispetti la democrazia, i tribunali, i media. Che sia un autocrate».
Anne Applebaum ha spiegato anche come «l’idea che l’Ucraina non sia una vera nazione, che sia stata inventata da Lenin, è veramente strana». Conseguenza di questa stranezza, Putin nel discorso con cui ha aperto le ostilità si è in pratica appellato a Hitler. «Stalin incorporò nell’Urss e trasferì all’Ucraina alcune terre che appartenevano a Polonia, Romania e Ungheria». «Diede alla Polonia parte di ciò che tradizionalmente era terra tedesca come compensazione».
Poiché la parte occidentale dell’Ucraina non ha mai fatto parte dell’Impero Russo ma fu invece annessa all’Urss, negarne l’ucrainità serve a ribadire che sarebbe Ucraina solo quel che è stato per un paio di secoli sotto Mosca. Ma il fatto è che dopo lo sfasciarsi dell’Austria-Ungheria quelle zone erano state spartite tra Polonia, Cecoslovacchia e Romania, non Polonia, Ungheria e Romania.
L’Ungheria la Subcarpazia se la prese in realtà dopo la spartizione hitleriana della Cecoslovacchia. Per cui Putin si è richiamato implicitamente a Hitler, anche se probabilmente in pochi se ne sono accorti. Se vogliamo, l’idea che l’Ucraina non avrebbe il diritto di esistere richiama anche la giustificazione di Mussolini per la guerra in Etiopia.
Ma adesso il linguaggio diventa appunto quello staliniano: «Molte di queste persone sono mentalmente lì e non qui, non con il nostro popolo, non con la Russia. Queste persone sono pronte a vendere le loro madri», dice Putin degli «oligarchi», in sofferenza per vedere esporre i proprio beni e conti correnti all’estero alle sanzioni. «Si sentono parte della casta occidentale».
«Ma qualsiasi nazione, e soprattutto il popolo russo, sarà sempre in grado di distinguere i veri patrioti dalle canaglie e dai traditori, e li sputerà semplicemente fuori, come un moscerino che gli è volato accidentalmente in bocca».
Ecco: è un parallelo, quello con insetti nocivi, che è tipico dello stalinismo, come ricorda Anne Applebaum proprio nel suo libro sui Gulag.
«Anche Lenin e Stalin cominciarono accusando i “nemici” della miriade di fallimenti economici dell’Unione Sovietica: erano “disorganizzatori”, “sabotatori” e agenti di potenze straniere. Dalla fine degli anni Trenta, quando l’ondata degli arresti si intensificò, Stalin portò agli estremi tale retorica, denunciando i “nemici del popolo” come parassiti, inquinatori, “erbacce velenose”. Parlava dei suoi avversari anche come di “immondizia” che andava “continuamente eliminata”, proprio come la propaganda nazista associava gli ebrei all’immagine di parassiti, sanguisughe e malattie infettive».
Un tipo di vocabolario che riecheggiò anche in Italia, quando appunto Togliatti definì i due dissidenti del Pci Cucchi e Magnani «pidocchi nella criniera di un nobile cavallo da corsa».
Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2022.
La chiamano oramai «La grande fuga» perché l'alternativa è essere licenziati per aver espresso la propria contrarietà alla guerra che non si chiama guerra o finire nelle mani della polizia per essere scesi in piazza. Ieri in centinaia hanno fatto vedere e sentire il loro dissenso e sono stati afferrati in malo modo e trascinati da agenti in tenuta antisommossa (quasi mille i fermati; quindicimila dall'inizio della guerra). Una donna aveva semplicemente pensato di passeggiare per le vie del centro di Nizhny Novgorod con un foglio bianco in mano.
Niente da fare, è stata agguantata e portata via. Il nuovo simbolo della protesta è un nastro verde, forse perché zelyonij (verde) ricorda il nome di Zelensky. Allora chi può, chi ha ancora la speranza di ricominciare una vita, se ne va. La Russia che non può esprimere il suo voto nell'urna, visto che, secondo l'opposizione, le elezioni sono falsate, sta votando con i piedi.
In auto o treno verso i Paesi baltici e la Finlandia; in aereo chi può permetterselo. I fortunati che avevano ottenuto un visto Schengen per turismo scelgono l'Europa, ma naturalmente passando per altri scali perché i voli diretti sono tutti bloccati. Gli altri puntano su Stati che ammettono i cittadini della Federazione russa senza richiedere il visto. I ricchi, quelli che hanno già pensato per tempo ad accumulare quattrini all'estero, guardano agli Emirati Arabi che non fanno nemmeno troppe domande sulla provenienza del denaro trasferito nelle loro banche.
La gran massa va nelle ex repubbliche sovietiche «amiche» che hanno accordi di libera circolazione in base ai vecchi trattati sottoscritti dopo lo scioglimento dell'Urss nel 1991. Perfino la Georgia, con la quale Mosca è stata in guerra nel 2008. «Sono almeno 25 mila i russi entrati in queste due settimane», dicono le autorità di Tbilisi. Ma anche Kirgizistan, Armenia, Uzbekistan. In tutti questi Paesi, tra l'altro, si parla comunemente russo.
Altre mete verso le quali si stanno dirigendo grandi flussi di persone che non vogliono avere più nulla a che fare con Vladimir Putin e con i suoi luogotenenti sono il Messico, la Turchia e la Serbia. Belgrado accoglie a braccia aperte i russi, soprattutto se hanno una specifica formazione tecnica. E poi il serbo è pur sempre una lingua slava e farsi capire non è un gran problema. A nord si entra direttamente in auto in Estonia e Lettonia, sia pure con qualche problema. Tantissimi, da Mosca e da San Pietroburgo, puntano sulla Finlandia che si raggiunge pure in treno.
Quattro ore dalla capitale a Piter e poi si sale sull'«Allegro» delle ferrovie finlandesi che assicura due collegamenti quotidiani (la domenica sono tre). Inutile dire che i convogli sono gremiti verso Helsinki e vuoti al ritorno. Sul treno adesso possono salire solo cittadini russi e finlandesi. «Stiamo perdendo i migliori talenti, le persone più dinamiche. Sembra la ripetizione del 1917», dice la cinquantenne Alla Magnitskaya che non se ne può andare da Mosca perché deve assistere i genitori malati. Non possono lasciare la Russia nemmeno due milioni e mezzo di silovikì , vale a dire militari, poliziotti e agenti dei servizi segreti. Per motivi di sicurezza nazionale a loro è vietato da anni l'espatrio.
Francesca Sforza per “la Stampa” il 14 marzo 2022.
Chi può se ne va. E in tanti se ne sono già andati: Istanbul, Dubai, Atene. Poi però ci sono quelli come Cyril, che non si chiama così perché nessuno a Mosca racconta più niente con il suo vero nome, anche se vuole che la sua storia si sappia, e infatti la scrive in una delle tante chat su Telegram che si sono accese in Russia come fiammelle alle finestre (era così che in Belarus dimostravano il dissenso, non potendo più scendere in strada senza finire in carcere). «Io e la mia famiglia abbiamo pensato a emigrare - scrive Cyril - ma non c'è nessun posto dove andare. Dove si può andare se poi non ci puoi stare? Tutti odiano i russi adesso, sarà solo più difficile tornare».
Anche Olga, che fa il notaio a Mosca (non è la stessa cosa che fare il notaio in Occidente, in Russia i notai sono qualcosa a metà tra i ragionieri e gli amministratori di condominio) non se ne può andare: «Dovevo partire prima, mentre stavo ancora portando a termine gli studi, ma allora non ne ho avuto la forza. Adesso ho mia mamma che ha avuto un ictus e un bimbo piccolo di cui occuparmi. E anche un lavoro di cui nessuno all'estero ha bisogno: che possibilità avrei?».
Chi è istruito e ha un buon lavoro (ma non buonissimo) oscilla di continuo nel dubbio se partire o restare. Ivan, che lavora all'università di Yelets, scrive che stava pensando di andarsene, ma non si è sentito a posto con la sua coscienza: «Ho una figlia che vive qui, e la tomba di mia mamma». In alcune famiglie si litiga, c'è chi vorrebbe fuggire e chi no. Come a casa di Marina, che lavora in una galleria d'arte a Mosca: «Vorrei andarmene, ma mio marito è contrario, dice che all'estero senza sapere le lingue e avere delle competenze particolari non troveremmo mai un lavoro. I nostri genitori sono qui e a casa abbiamo una nonna di 92 anni che ha bisogno di essere curata. Come faccio ad andarmene senza la mia famiglia? Sento che andrà tutto molto male, che tornerà la povertà, i banditi, forse una guerra civile. Abbiamo una piccola dacia fuori città - aggiunge - forse andremo lì, ho rinunciato a realizzarmi nel mio lavoro. Quando c'è la guerra nessuno ha più bisogno dell'arte».
Altre famiglie invece si spezzano: «Sono il figlio maggiore - racconta Sergey - mio fratello lavora all'estero, i nostri genitori sono anziani, hanno bisogno di cure, ed è giusto che il più giovane viva in un Paese libero e quello più anziano in uno totalitario». Tra le paure più grandi dei russi c'è quella di non riuscire a trovare più le medicine per i loro malati: circa il 55% dei farmaci venduti in Russia sono importati, e quelli che sono prodotti in patria hanno bisogno di sostanze di importazione per almeno l'80%. Ci si aspetta interruzioni di forniture, scaffali vuoti, malattie che non si possono curare.
E se gli anziani sembrano più rassegnati - ma anche forse più capaci di immaginare il futuro, perché è il loro passato, sanno già come sarà - per i più giovani sembra solo un brutto film: «Ho 30 anni - scrive Liza - vengo da una piccola città della Siberia. E solo di recente ho iniziato a vivere, e non a sopravvivere: mangiare cibi deliziosi, comprare cose buone, fare qualche viaggetto con mio marito E ora il mio Paese mi sta gettando di nuovo nella povertà».
Ruslan vorrebbe andarsene in Georgia, o in un altro Paese della Cis, «ma ho 22 anni, sono in quell'età stupida in cui ho già dei risparmi ma non bastano per mollare tutto e andare a vivere in un Paese in cui non so quando potrò lavorare. Poi ho paura di lasciare mio padre e mia nonna che vivono a Samara. Se la pensione di nonna non sarà più sufficiente ci dovrò pensare io, forse arriverà la fame». Ruslan scrive anche un'altra cosa: «In fondo, non voglio andarmene, questo è il mio Paese, credo che possiamo cambiare qualcosa, soprattutto ora che il regime sembra più vulnerabile».
E' la stessa cosa che pensa Oleg: «Sì, è vero, adesso un nonno impazzito (sono in molti a chiamare così il presidente Putin) rende la vita in questa casa molto peggiore. Ma so perfettamente che la Russia non è lui. La Russia siamo noi. Quando tutto sarà finito ci sarà molto da fare per ricostruire. Voglio essere tra quelli che lo faranno, voglio aspettare l'alba in Russia. Credo che dopo una notte così dura, l'alba che stiamo aspettando sarà incredibilmente bella».
Anna Zafesova per “La Stampa” il 14 marzo 2022.
«Mi ha chiamato "cagna", mi ha sbattuto la testa sul tavolo, ha iniziato a strangolarmi. Diceva qualcosa, ma non ricordo più nulla». Anastasia Kotliar è stata tra i primi manifestanti a venire fermata, a Vladivostok, quando ha deciso di fare da scudo a un amico buttato per terra dai poliziotti: «Pensavo non avrebbero picchiato una ragazza», ha raccontato alla Ong OVD-Info, che assiste i detenuti politici russi.
Ora Anastasia è in ospedale con quella che è probabilmente una commozione cerebrale, una dei quasi 900 russi fermati al momento nella domenica di protesta contro la guerra. Il numero degli arrestati per le manifestazioni in 18 giorni di guerra ha superato le 15 mila persone, e anche ieri è valsa la regola che ormai praticamente tutti quelli che scendono in piazza vengono portati via dalla polizia.
Più di 350 i fermi a Mosca, in piazza del Maneggio ai piedi del Cremlino, 151 arresti a Pietroburgo, forse la città più ribelle negli ultimi giorni, decine a Saratov e Nizhny Novgorod.
Scendere in piazza senza autorizzazione delle autorità in Russia è illegale, ma ora al divieto di manifestare si aggiunge il reato di «discredito dei militari russi», quella legge approvata dalla Duma che proibisce di chiamare la guerra in Ucraina «guerra», pena una multa salatissima la prima volta e un'incriminazione penale fino a 15 anni di carcere se il reato viene reiterato.
In un clima orwelliano, a Nizhny Novgorod i poliziotti si sono scagliati contro una ragazza che teneva in mano un foglio bianco. A Mosca, un manipolo di agenti in assetto antisommossa ha buttato a terra Dmitry Reznikov, che non opponeva alcuna resistenza, tenendo semplicemente un pezzo di cartone con degli asterischi, «*** *****», che ormai tutta la Russia legge come «net voyne», no alla guerra.
A Saratov Irina Filatova è stata arrestata per il manifestino «Nonno prendi le pasticche», correttamente interpretato dagli agenti come un insulto a Vladimir Putin. A Pietroburgo è stata arrestata di nuovo l'84enne Elena Osipova, la sopravvissuta all'assedio nazista diventata ormai un simbolo della protesta: ieri è stata portata via con il cartello «Non vogliamo andare in paradiso morendo per Putin».
Un'altra donna è stata portata via dopo aver gridato al poliziotto che «i vostri hanno ucciso mia nipote in Ucraina»: anche la notizia sulle morti dei civili è considerata «discredito» della Russia.
Una giornata di ordinaria repressione, e l'appello di Alexey Navalny dal carcere a scendere in piazza a migliaia perché «siete voi le persone più importanti che possono fermare questa guerra» è rimasto inascoltato. La paura è troppa, e sembra che la polizia abbia ricevuto l'ordine di terrorizzare ancora di più i cittadini: ieri in piazza del Maneggio a Mosca venivano fermati anche passanti casuali, e molti manifestanti hanno denunciato violenze e minacce.
Molti attivisti sono stati fermati preventivamente, ancora prima di raggiungere le piazze, altri sono stati arrestati per «reati» come sciarpe nei colori giallo e azzurro della bandiera ucraina, o per spillette pacifiste.
La sproporzione tra il numero dei poliziotti - molti dei quali esibivano sugli elmetti e sulle uniformi la Z diventata simbolo dell'operazione russa in Ucraina - e il numero dei manifestanti sembra essere un messaggio ai pochi che osano ancora protestare, così come la brutalità con la quale gli agenti hanno insultato e picchiato, sotto gli occhi delle telecamere e degli altri passanti, chi aveva aderito alla protesta.
Mentre nelle città ucraine occupate dai russi come Kherson e Melitopol ieri migliaia di persone sono tornate in piazza con le bandiere ucraine, sfidando i fucili e i carri armati degli invasori per protestare contro Putin, nelle città russe assembramenti molti più numerosi si registravano ieri sera ai McDonalds.
Nelle ultime ore di funzionamento - la casa madre ha deciso di chiudere da oggi i quasi 870 fast food che operavano in Russia per protesta contro la guerra - decine di persone si sono messe in coda per l'ultimo hamburger, e ai McDrive si sono formate file lunghissime di automobili.
In serata ha cominciato a spegnersi anche Instagram, bloccato dalle autorità russe come uno dei principali network della protesta - Alexey Navalny conta 3,5 milioni di follower che leggono i suoi post dalla prigione - gettando nel lutto centinaia di blogger.
Ucraina, anche la Russia profonda dubita di lui. Vladimir Putin, rovinose indiscrezioni: chi può farlo cadere. Libero Quotidiano il 13 marzo 2022
Qualcosa sta cambiando anche nella "Russia profonda". Le proteste contro Vladimir Putin e la guerra in Ucraina avanzano da Mosca e San Pietroburgo alla immensa provincia. Mentre nelle due città russe "si indossa il lutto per Instagram che sta per spegnersi, e si fa la coda per l'ultimo pranzo da McDonald's", cambiano anche "gli umori della provincia russa", come scrive Anna Zafesova su La Stampa.
Nella provincia che abita "il popolo profondo", quello con il quale "il presidente russo manterrebbe un legame quasi mistico", anche lì si vedono le prime tracce del dissenso. Ora bisogna superare l'idea che lì abiti lo zoccolo duro dell'elettorato putiniano, "quelli che il giornalista d'opposizione pietroburghese Aleksandr Nevzorov definisce sprezzantemente dei 'cafoni da incubo, che non hanno mai viaggiato da nessuna parte, non si sono mai interessati di nulla, non si sono mai preoccupati di nulla".
E se è vero che "l'eccesso di zelo dei burocrati provinciali ha prodotto diversi flashmob che inneggiano alla Z dipinta sui carri russi che hanno invaso l'Ucraina: il più celebre resta quello dei bambini malati nell'hospice di Kazan", negli ultimi giorni, "anche da territori mai apparsi sulla mappa della protesta sono giunte sorprese". A Ivanovo, per esempio, la città tessile dove nacquero i primi Soviet, "un coraggioso cittadino è sceso in piazza, da solo, con un manifesto che recitava, testuale, '*** *****', cosa che non ha impedito alla polizia di arrestarlo dopo aver correttamente decrittato gli asterischi come 'net voyne', no alla guerra". E a Nizhny Novgorod, "una studentessa è stata portata via con un cartello totalmente bianco".
Vladimir Soloviev, orrore contro Paolo Del Debbio: "Italiani canaglie peggio degli ucraini. Le gole tagliate..." Libero Quotidiano il 18 aprile 2022.
"Gli italiani peggio degli Ucraini". È il giudizio tranchant dell'oligarca russo Vladimir Solovyev, conduttore tv più popolare di Mosca, che dal 2018 conduce sul canale Rossija 1 una rubrica dal titolo eloquente: Mosca-Cremlino-Putin. E proprio durante l'ultima puntata del suo programma, il giornalista ha lanciato l'anatema contro l'Italia. "Ho partecipato ad alcuni dibattiti con degli italiani che erano indignati per ciò che succede in Russia", racconta in diretta spiegando: "In un programma serale su Rete 4, abbastanza popolare, gettonato, ci accusavano di tutto. Io dico parliamone: i nazisti di Azov? E loro: i vostri soldati uccidono. Io li fermo: no, fatemi vedere le prove dei crimini dei nostri soldati, se li avete. Faccio notare che i soldati ucraini tagliano le gole ai prigionieri, faccio vedere le foto. E gli italiani fanno finta di non vedere".
Al termine del suo monologo è intervenuta una sua ospite che riassume il pensiero russo: "Il fatto che il mondo occidentale non li vede, anzi fa finta di non vedere, ma vede tutto: questa cosa li trasforma in mostri e canaglie, forse anche più degli ucraini". Il video tratto dalla trasmissione di Solovyev è stato pubblicato su Twitter da ZonaBianca: "Sentite come parla della nostra tv uno dei più famosi conduttori della tv russa, Vladimir Solovyev, dopo essere stato ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio".
Michela Allegri per il Messaggero il 13 marzo 2022.
I russi iniziano a ribellarsi, cercano narrazioni diverse, mentre Mosca ha deciso di bloccare dal 14 marzo l'accesso a Instagram, accusato insieme a Facebook di istigare violenza e odio contro il Paese. Nonostante le leggi che minacciano 15 anni di carcere per chiunque pubblichi «notizie false» sulla guerra - tradotto: notizie non approvate dal Cremlino -, due sere fa in diretta tv due studiosi hanno criticato le azioni di Mosca.
È successo durante una puntata di An Evening with Vladimir Soloviev, uno dei talk show più popolari del Paese e che va in onda sul canale di Stato Russia 1. Gli ospiti si sono rifiutati di sostenere la propaganda del Cremlino sulla guerra in Ucraina e hanno contestato l'invasione, nonostante il tentativo dei conduttori di correggere il tiro, parlando di «operazione speciale» iniziata con lo scopo di «smilitarizzare» il Paese.
A prendere la parola è stato l'accademico Semyon Bagdasarov. «Dobbiamo entrare in un altro Afghanistan, ma anche peggio? - ha detto - Non ne abbiamo bisogno». Mentre invitava il presidente a porre fine all'attacco, avvertendo che anche Paesi come la Cina e l'India potrebbero presto voltare le spalle a Mosca, Vladimir Soloviev, giornalista milionario e filo-Putin al quale la Finanza ha appena sequestrato due ville sul lago di Como, tentava in ogni modo di interromperlo. «Se questo film inizia a trasformarsi in un disastro umanitario assoluto, anche i nostri alleati saranno costretti a prendere le distanze da noi», ha aggiunto l'accademico.
Anche Karen Shakhnazarov, regista e opinionista, ha parlato in diretta durante la stessa trasmissione: ha ribadito che il conflitto in Ucraina rischia di isolare la Russia. «Faccio fatica a immaginare di prendere città come Kiev. Non riesco a immaginare come sarebbe», ha dichiarato, cercando di smentire la narrativa del Cremlino secondo la quale si sta conducendo un'«operazione speciale» limitata alla regione del Donbass. Shakhnazarov ha infatti parlato degli attacchi alla capitale Kiev, sottolineando che «si trova a centinaia di miglia di distanza».
Una presa di posizione netta e coraggiosa, che rischia di costare caro ai due intellettuali. Nei giorni scorsi il conduttore Ivan Urgant, popolarissimo per aver condotto nelle vesti di Giovanni Urganti gli show di Capodanno Ciao 2020 e Ciao 2021, dopo aver preso posizione contro la guerra, è stato sospeso insieme al suo show dall'emittente di Stato, nonostante la larghissima audience.
Il programma è scomparso dal palinsesto subito dopo un post pubblicato dal conduttore su Instagram: «Paura e dolore, nessuna guerra». Urgant ha poi fatto sapere di essere andato in vacanza insieme alla famiglia.
I SOCIAL Intanto la campagna di Mosca prosegue anche sui social. Oltre allo stop a Instagram e a Facebook, annunciato dal Roskomnadzor, l'ente regolare delle telecomunicazioni russo, l'Ue ha deciso di oscurare i siti di Russia Today e Sputnik, «di proprietà statale, in modo che non siano più in grado di diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin», ha dichiarato Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea. Anche YouTube ha annunciato di avere disposto il blocco degli stessi canali.
La guerra russa contro i social del gruppo Meta, di Mark Zuckerberg, è partita dopo la decisione dell'azienda di allentare alcune forme di censura sui post anti-russi, compresi i messaggi che invocano l'uccisione dello zar. «Alla luce dell'invasione dell'Ucraina - ha fatto sapere Meta - abbiamo deciso di permettere alle persone colpite dalla guerra di esprimere i propri sentimenti nei confronti delle forze armate. Anche con espressioni come morte agli invasori russi, che normalmente violerebbero le nostre regole».
Anna Zafesova per la Stampa il 13 marzo 2022.
Padre Ioann Burdin è uno dei primi russi condannati in base alla nuova legge che proibisce di «diffondere fake news volte a screditare i militari russi». Essendo la prima incriminazione, non ha rischiato quindici anni di carcere, ma se l'è cavata con una multa di 35 mila rubli, circa 230 euro.
I suoi parrocchiani hanno già raccolto l'importo, una colletta di solidarietà alla quale forse ha partecipato anche il fedele che l'ha denunciato per la sua predica della pace. Padre Ioann dice al Kommersant che erano una dozzina, nella chiesa della Resurrezione del villaggio Karabanovo della regione di Kostroma, quella domenica in cui ha pronunciato un sermone in cui invitava a pregare per la fine della guerra, e l'incolumità degli ucraini.
Un «intervento in pubblico per mezzo di una funzione religiosa», è stato qualificato dalla polizia, e la prossima volta padre Ioann rischia una condanna al carcere, ma non vuole fare il nome del suo delatore: «Forse se ne andrà dalla mia chiesa, ma ricevo decine di messaggi da sconosciuti che mi dicono che il mio gesto li ha rappacificati con la chiesa ortodossa». Mentre a Mosca, Pietroburgo e altre grandi città russe si indossa il lutto per Instagram che sta per spegnersi, e si fa la coda per l'ultimo pranzo da McDonald's, gli umori della provincia russa restano difficili da mappare.
Il divario tra le capitali da sempre ribelli e le «sterminate distese russe» - un luogo comune di generazioni di cronisti, che nasconde migliaia di chilometri di paesaggi, popolazioni e realtà straordinariamente diverse - è da sempre un cavallo di battaglia della propaganda. È nella provincia che abita «il popolo profondo» inventato dall'ideologo putiniano Vladislav Surkov, quello con il quale il presidente russo manterrebbe un legame quasi mistico, sopra la testa degli intellettuali corrotti delle metropoli.
Sicuramente è lì che abita lo zoccolo duro dell'elettorato putiniano, quelli che il giornalista d'opposizione pietroburghese Aleksandr Nevzorov definisce sprezzantemente dei «cafoni da incubo, che non hanno mai viaggiato da nessuna parte, non si sono mai interessati di nulla, non si sono mai preoccupati di nulla». Il popolo della televisione contro il popolo di Internet, quelli che si bevono la propaganda, e che sarebbero invulnerabili alle sanzioni «perché vivere peggio di quanto vivono è impossibile». Un'idea della Russia profonda tipica delle capitali, che ritengono «provincia» tutto quell'immenso territorio dell'Europa e dell'Asia che si estende ai lati delle tangenziali di Mosca e Pietroburgo. Un pregiudizio confermato anche dalle campagne organizzate dal partito putiniano Russia Unita, con i bambini delle scuole siberiane o del Volga che scrivono al presidente «grazie per aver difeso dalla Nato il nostro villaggio».
L'eccesso di zelo dei burocrati provinciali ha prodotto diversi flashmob che inneggiano alla Z dipinta sui carri russi che hanno invaso l'Ucraina: il più celebre resta quello dei bambini malati nell'hospice di Kazan. Ma negli ultimi giorni anche da territori mai apparsi sulla mappa della protesta sono giunte sorprese. A Ivanovo, la città tessile dove nacquero i primi Soviet, un coraggioso cittadino è sceso in piazza, da solo, con un manifesto che recitava, testuale, «*** *****», cosa che non ha impedito alla polizia di arrestarlo dopo aver correttamente decrittato gli asterischi come «net voyne», no alla guerra. A Nizhny Novgorod, una studentessa è stata portata via con un cartello totalmente bianco, in una scena orwellianamente surreale.
Putinomics. La Russia non è un paese libero, neanche economicamente. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 12 Marzo 2022.
Il settore finanziario è dominato da banche controllate dal Cremlino, gli imprenditori politicamente scomodi vivono con la paura di finire in prigione, e la maggioranza dei russi disapprova il sistema capitalistico. Inoltre il basso debito pubblico non porta chissà quali benefici, dato che le principali agenzie di rating lo hanno recentemente declassato a causa della guerra.
Nell’Indice della libertà economica, realizzato dalla americana Heritage Foundation, la Russia è al 43° posto su 45 paesi europei.
A livello globale, la Russia è solo al 113° posto ed è collocata nella categoria che comprende i paesi per lo più non liberi. La Russia ottiene un punteggio particolarmente basso per gli indicatori “Diritti di proprietà”, “Efficacia della giustizia” e “Corruzione dello Stato”, così come per la “Libertà di investimento” e la “Libertà finanziaria”. Il punteggio più basso lo ottiene però nell’indicatore “Corruzione dello Stato”, dove persino Cuba fa meglio.
Per quanto riguarda il settore finanziario, gli analisti della Heritage Foundation affermano: «Il settore finanziario è dominato da banche controllate dallo Stato». E sotto la voce “Libertà d’investimento”, gli autori del rapporto commentano: «Il commercio e le attività di investimento del settore privato sono minate da vincoli strutturali e istituzionali causati dall’interferenza dello Stato nel mercato».
L’aspetto più importante dell’analisi è che la Russia sarebbe in una posizione peggiore nella classifica se non avesse valutazioni superiori alla media negli indicatori riguardanti la “Pressione fiscale” e la “Solidità del bilancio”, dove ottiene 93,1 e 99,3 punti su 100. Questo è dovuto alle basse aliquote fiscali del paese e al livello molto basso del debito pubblico. Se l’analisi complessiva dovesse escludere la valutazione della “Solidità del bilancio”, la Russia otterrebbe solo 52,1 punti e sarebbe così classificata al 140° posto su 177 paesi, subito dietro l’Angola e appena davanti a Sierra Leone e Mozambico.
Il basso debito pubblico della Russia è ora di scarso beneficio, dato che le principali agenzie di rating hanno recentemente declassato la Russia. Moody’s ha tagliato il rating della Russia a Ca, il secondo gradino più basso della sua scala di rating, citando come causa i controlli sui capitali della banca centrale che probabilmente limiteranno i pagamenti sul debito estero del paese e porteranno al default. Moody’s ha detto che la sua decisione di tagliare il rating della Russia è stata «guidata da gravi preoccupazioni circa la volontà e la capacità della Russia di pagare i suoi obblighi debitori».
Anche se ci sono diritti formali di proprietà privata in Russia, questi diritti sono stati erosi in pratica, perché lo Stato esercita un controllo quasi totale sull’economia. Gli imprenditori politicamente scomodi vivono con la paura di finire in prigione o nei campi di lavoro, come è successo a Mikhail Khodorkovsky, l’ex uomo più ricco della Russia, che ha passato dieci anni in prigione e ora vive in esilio a Londra. La Russia ha ottenuto solo 36,8 punti su 100 possibili nell’indicatore “Diritti di proprietà”, finendo così alla pari con il Togo in Africa. Il punteggio della Cina di 43,7 è di sette punti migliore di quello della Russia in questo ambito.
Grigory Yavlinsky è uno dei riformatori economici russi che volevano trasformare il paese in senso capitalistico negli anni ’90. Nel 2015 ha spiegato in un’intervista perché questo tentativo è completamente fallito: «Le piccole imprese dipendono dai piccoli burocrati, le grandi imprese dai grandi burocrati. Nessuno può sfuggire all’influenza dello Stato in Russia. E tutti vivono nella paura che la loro proprietà gli venga tolta se resistono. Gli affari e il potere statale sono così interdipendenti in Russia in una misura che quasi nessuno in Occidente può davvero immaginare».
Come risultato, la Russia è uno dei paesi meno capitalisti del mondo. Dopo la caduta del regime socialista, una manciata di oligarchi ha dirottato l’economia del paese e stabilito una cleptocrazia. Sono rentiers e vivono in gran parte del business del petrolio e del gas. La conseguenza è quella di avere determinato un sistema economico altamente inefficiente. Il PIL della Russia nel 2020 era di appena 1.500 miliardi di dollari, inferiore ai 1.900 miliardi di dollari dell’Italia. Eppure l’Italia ha una popolazione di poco meno di 60 milioni, rispetto ai 144 milioni della Russia.
A differenza della Polonia, dove la maggior parte delle persone è favorevole al capitalismo e afferma che la situazione economica del loro paese sia oggi migliore di quella vissuta sotto il comunismo, la maggioranza dei russi rifiuta tale sistema economico. In un sondaggio condotto dal Pew Research Center da maggio ad agosto 2019 in 17 paesi, ai cittadini dei paesi ex socialisti è stato chiesto se approvano il passaggio a un’economia di mercato. In Polonia, l’85% degli intervistati si è detto contento del passaggio al capitalismo e solo l’8% lo disapprova. In Russia, al contrario, solo il 38% è a favore di tale sistema economico e il 51% lo disapprova.
Giuliana Ferraino per corriere.it il 10 marzo 2022.
L’impatto delle sanzioni occidentali sull’economia spinge la Russia a un passo dal crac, riportandola indietro di 24 anni. Come nel 1998. Ma alle Borse europee è bastata la notizia dell’incontro tra i ministri degli esteri russo e ucraino, Sergey Lavrov e Dmytro Kuleba, in programma oggi in Turchia, per festeggiare con rialzi record, volendo credere a una soluzione più vicina della crisi in Ucraina, che invece l’accordo in seno Ue sull’inasprimento delle sanzioni contro Mosca pare allontanare.
Dopo il bando all’import deciso martedì dagli Stati Uniti, mercoledì sera l’Eni, che già aveva congelato la sua joint-venture con il gruppo petrolifero Rosneft, ha sospeso la stipula di nuovi contratti relativi all’approvvigionamento di greggio e altri prodotti petroliferi dalla Russia.
Finora le sanzioni avevano risparmiato le esportazioni di energia, da cui dipende soprattutto l’Europa. Ma i piani Ue, concordati al consiglio di Versailles, per eliminare gradualmente la dipendenza dalle importazioni russe di gas, petrolio e carbone rappresentano un nuovo affondo contro l’economia russa, già tagliata fuori dal commercio internazionale e dai mercati finanziari. E sempre più fragile.
Fitch ha declassato per la seconda volta in 6 giorni il debito sovrano di Mosca, che passa da B a C, sei gradini in meno in un sol colpo, appena una tacca prima della bancarotta. E ha avvertito che «il default è imminente».
Per l’economista della Banca mondiale, Carmen Reinhart, «sia la Russia che la Bielorussia sono in territorio default». E le ripercussioni sul settore finanziario, finora limitate, potrebbero crescere se le istituzioni finanziarie europee fossero esposte al debito russo più di quanto si pensi.
Gli investitori stranieri detengono circa metà delle obbligazioni sovrane russe nelle valute più forti e Mosca deve pagare 107 milioni di dollari di cedole su due obbligazioni il 16 marzo. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, le banche straniere hanno un’esposizione di circa 121 miliardi di dollari verso la Russia.
Ad aprire la strada al default è il decreto approvato il 5 marzo per poter rimborsare in rubli i bond in valuta estera dei creditori dei Paesi che hanno imposto le sanzioni contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.
Ma, spiega Fitch, l’esasperazione di queste misure non fa altro che aumentare le probabilità di una risposta del Cremlino, che include almeno «un default selettivo» del debito sovrano.
Se l’ultimo downgrade riflette le conseguenze del crescente isolamento economico, finanziario e politico della Russia, un default darebbe un colpo mortale al Paese, con la fuga non solo di aziende e investitori stranieri, ma anche la fuoriuscita di capitali e talenti russi, peraltro già in corso, come segnala il tutto esaurito sui pochi voli verso destinazioni ancora aperte come Tel Aviv, Istanbul, Baku o Tiblisi.
L’economia russa, però, è già sprofondata nel baratro. La Borsa è rimasta chiusa per la sesta seduta consecutiva dal giorno dell’invasione. Il rublo ha toccato un nuovo minimo storico sulle piazze internazionali, dove viene scambiato a 127 per un dollaro e a 140 per un euro.
Nonostante l’ultima mossa della banca centrale, che per i prossimi 6 mesi limita a 10 mila dollari totali i prelievi dei cittadini con conti in valuta estera. Nemmeno il raddoppio al 20% dei tassi di interesse, annunciato subito dopo l’invasione, riesce a fare da argine alla caduta della moneta. In una sola settimana la svalutazione del rublo ha fatto aumentare del 2,2% l’inflazione, salita al 9,15% a febbraio, il livello più alto da sette anni.
L’esasperazione cresce e potrebbe sfociare nella nazionalizzazione delle società che bloccano le attività in Russia, aderendo alle sanzioni internazionali, come propone Andrei Isayev, parlamentare di Russia Unita, il partito di Putin.
Sui listini europei però, almeno per un giorno, la musica è diversa, con un rimbalzo da oltre 464 miliardi di capitalizzazione, anche se mancano ancora quasi 689 miliardi bruciati negli ultimi giorni. A Piazza Affari il Ftse Mib ha chiuso in rialzo del 6,94%, mettendo a segno la terza miglior prestazione dell’indice dal 2018 a oggi.
A Francoforte il Dax è salito del 7,92%, a Parigi il Cac 40 ha guadagnato il 7,13%, mentre a Londra il Ftse 100 ha segnato +3,25%. Positivi anche i listini Usa: +2% la chiusura del Dow Jones e +3,59% quella del Nasdaq. La tregua si è estesa al petrolio dopo i recenti record: il future aprile sul Wti è sceso del 3,43% a 119,46 dollari al barile, mentre la consegna maggio sul Brent ha perso il 4,02% a 122,81 dollari.
Ma la volatilità è destinata a continuare. E oggi la Bce probabilmente dovrà ammettere che, dopo l’invasione dell’Ucraina, la situazione è troppo incerta e potrebbe pesare più del previsto sulla ripresa, peggiorando le stime sulla crescita.
Potrebbe quindi fermarsi l’accelerazione per normalizzare la politica monetaria, attesa dopo il forte rialzo dell’inflazione, che è volata al 5,8% a febbraio nella zona euro. E probabilmente destinata a salire ancora, a causa del rincaro dell‘energia e delle altre materie prime, invece si rallentare entro fine anno, come aveva indicato dalla Banca centrale europee.
Domenico Quirico per “la Stampa” il 10 marzo 2022.
Mi raccontano che a Baku, in Azerbaigian, gli alberghi di lusso, il Badamdar e il Fairmont, l'Intercontinental, sono da giorni al tripudio del tutto esaurito come non si registrava da prima della vittoriosa spedizione punitiva contro gli armeni. Si respira un clima edonistico, qualche esagerato già parla di età dell'oro. Qui la guerra in Ucraina è semplicemente una benedizione di Allah. Clientela con i portafogli pieni: è tutta russa, e non sono turisti. Voli pieni da Mosca. Sono quelli che noi chiamiamo oligarchi, padroni del vapore e banchieri, tutt' altro che anchilosati dalla stangata economica delle sanzioni occidentali.
Anzi. Sono indaffarati e ottimisti, vanno e vengono dalle banche e dagli studi che si occupano di transizioni finanziare e di avviare nuove attività economiche. Espatriare giova. Mentre noi li immaginiamo alle prese con la carta di credito che non funziona, assordati da domestiche e famiglie che esigono lo stipendio non pagato, loro stanno praticando l'esorcismo di trasferire i loro affari.
Noi attendiamo fiduciosi l'annuncio che la Russia dichiari fallimento. Loro invece: Addio Europa crudele! Si comincia un'altra storia e sempre lucrosa. Intanto un'altra via della seta si apre verso la Cina: anche qui il mediocre impiccio delle sanzioni diventerà uno sgradevole ricordo. Basta invertire il flusso di gasdotti. L'oriente è il nuovo eldorado dei magnati del putinismo.
Obbligatorio per loro, murati con cura nella rigida piramide verticale creata da Putin nel suo ventennio, dar l'addio alla decadente Europa, sempre meno redditizia e alle sue insulse pretese democratiche. L'industria militare non è forse uno dei gioielli delle loro industrie obsolete. Il burro non rende, i cannoni sì. La guerra è un magnifico affare. Qualcuno vorrà prendersi la briga prima o poi di andare oltre la retorica narcisistica del coraggio leonino che l'occidente ha esibito nel decidere «le sanzioni più gigantesche» di tutti i tempi per scoprire quali saranno i loro effetti in Russia.
Non solo sui portafogli ma soprattutto sugli umori e i rancori dei cittadini comuni: c'è il rischio di scoprire che potrebbero determinare l'effetto opposto a quello sperato, ovvero che il popolo, esasperato dalla tribolazione della chiusura del bancomat, assalti il palazzo d'inverno per una precoce primavera antiputiniana. La confisca dello yacht del satrapo russo a Sanremo o della villa a Saint-Tropez, è molto scenografica.
Ma semmai bisogna ragionare, con un po' di salubre empirismo, se funzioni davvero il meccanismo delle sanzioni. Fino ad ora nella storia sono servite soprattutto a sfumare di attivismo la impotenza di chi per molti motivi (ed alcuni erano ottimi come evitare lo scoppio della terza guerra mondiale per esempio) non poteva e voleva fare di più contro i responsabili di dittature e prepotenze. Cade in questa casistica perfino lo straccione imperialismo mussoliniano quando aggredì l'Etiopia poté deridere le «perfide» sanzioni albioniche, implacabili ma in realtà zeppe di buchi distinguo, e omissioni come quelle di oggi.
Forse un buon metodo è quello di mettersi dal punto di vista dei sanzionati, il cittadino russo normale, quello che in questi anni ha sempre votato Putin. Sono loro il problema del signore della guerra russo, non il disamore degli oligarchi che come è regola sotto tutti i climi e le latitudini politiche sanno trovare scorciatoie, nicchie e accomodamenti. Allora il popolo comune. Europei e americani si sono affannati a precisare che il bersaglio sono il presidente e la sua corte, non i russi.
Precisazione giudiziosa ancor più che etica. Sarebbe criminale ripetere l'errore commesso dalle democrazie vincitrici con la Germania nel 1914 quando per la prima volta si affermò che i popoli sono responsabili come i loro capi; e quindi ne dovevano pagare in solido gli errori e i misfatti. Così nacque la pace senza pace di Versailles, le promesse di rivincita di Hitler e la seconda guerra mondiale. Questa volta tutto è chiaro dunque. Chissà.
I regimi autocratici come quello russo sono deprimenti per l'uomo. Ci sono gli eroi, quelli che sono disposti a ogni sacrificio per non abdicare al sopruso, alla corruzione, alla minaccia. Ma sono pochi. Talora in uno di quei grovigli che solo Dio può sciogliere la paura, il desiderio di vita tranquilla, di vantaggi, la umiltà di non pretendere di giudicare meglio della maggioranza, portano ad accettare.
All'inizio, quando Putin era poco più che uno sconosciuto, pensarono che sarebbe passato come era passato Eltsin, qualche anno duro e poi la situazione sarebbe cambiata. E poi.. dall'estero tutti tendevano la mano a Putin, tutto gli lasciavano fare, Cecenia normalizzata a fucilate, Siria, Africa, Crimea, la prosopopea neoimperiale, tutto faceva pensare che il putinismo sarebbe durato in eterno. Su questi russi appena entrati in punta di piedi in una società in cui si comunica anche per mezzo delle cose è piombata addosso la occidentale punizione delle sanzioni.
Di fronte alla realtà brutale, quotidiana di diventare più poveri, di non poter più viaggiare come erano ormai abituati, il ritorno alla vita grama, senza orizzonti, ragionare che questo in fondo è un modo legittimo scelto dall'Occidente per punire solo l'io ipertrofico di Putin e i suoi manutengoli, richiede un livello molto sofisticato di analisi politica, una capacità di distinguo da intellettuale raffinato.
Capacità ancor più complicata in un Paese dove la informazione e la propaganda sono a senso unico, manipolatorie, intossicanti. Ecco allora che le virtuose sanzioni studiate a Bruxelles diventano «inique», un'altra l'ennesima macchiavellica macchinazione per nuocere alla Russia, di ridurla alla rassegnazione degli sfruttati come negli anni bui del disastro sovietico. La propaganda putiniana dell'aggressione trova nuovi argomenti, fa breccia. Il dittatore, invece che indebolito, ne esce rafforzato.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 9 marzo 2022.
«Dove posso scappare, adesso, domani, immediatamente?». Irina Lobanovskaya risponde a migliaia di queste domande ogni giorno. Esperta di IT, cittadina del mondo da anni, da quanto è iniziata la guerra sta gestendo una chat dal titolo «Guida a come rilocarsi dalla Russia». Partita da 20 partecipanti, ora ne conta 40 mila, e ogni giorno si aggiunge un altro migliaio. Il loro obiettivo è uno solo: lasciare la Russia, il prima possibile, prima che il Cremlino chiuda le frontiere, prima che la vita diventi impossibile, prima che la legge sui "fake nei confronti dei militari russi" cominci a funzionare a pieno regime e chi parla di guerra o protesta contro la guerra rischi di venire condannato a 15 anni di prigione. Prima che i loro figli vengano mandati a morire al fronte.
Prima che finisca quel poco che resta di libertà individuale. Nella tragedia immensa dei profughi che scappano dalle bombe russe in Ucraina, il dramma dei russi che fuggono passa quasi inosservato. Ma è un esodo di dimensioni colossali. Qualche giorno fa, l'aeroporto di Erevan ha battuto il record di 42 voli arrivati dalla Russia in un giorno. La frontiera con la Georgia è stata attraversata in due giorni da 20 mila cittadini russi. Il treno da Pietroburgo per la Finlandia ha il tutto esaurito da due settimane.
Gli aerei per Istanbul, Dubai, Tbilisi, le poche destinazioni non ancora bloccate - i voli tra la Russia e l'Europa sono stati chiusi quasi subito dopo l'inizio della guerra - e che non richiedono un visto per i russi, sono stati presi d'assalto, con prezzi per i biglietti che raggiungevano cifre con tre zeri. Molti non avevano il visto, tanti nemmeno il passaporto, posseduto solo dal 28% dei russi, ma dopo due anni di pandemia anche il ceto medio globalizzato di Mosca e Pietroburgo aveva i documenti scaduti.
I giornalisti - in pochi giorni, quasi 200 grandi firme russe e internazionali hanno lasciato la Russia per non correre rischi - raccontano di ristoranti di Tbilisi e Istanbul dove si parla russo, e si discute di dove andare e cosa fare. Gli aerei che atterrano sono pieni di intellettuali, scrittori, designer, attori, che annunciano l'emigrazione sui social. «Siamo partiti per diversi motivi, ma in realtà per uno solo, la criminale guerra in Ucraina», scrive su Instagram Anton Dolin, il più popolare critico cinematografico russo. Sulla porta del suo appartamento era apparsa una grande zeta bianca, il simbolo che marchia i mezzi russi in Ucraina, un avvertimento sinistro ai nuovi "nemici del popolo".
La tolleranza verso il dissenso è sotto zero, lavorare è impossibile, versare aiuti alle vittime della guerra è un crimine, «ho già twittato abbastanza per un processo per alto tradimento», dice Lobanovskaya a Meduza, il giornale online dell'opposizione oscurato in Russia. È la riedizione surreale della grande fuga dalla rivoluzione bolscevica, dei "piroscafi dei filosofi" che salpavano nel 1922 dalla Crimea, con a bordo quelli che Lenin definiva «non il cervello della nazione, ma la sua merda».
Come allora, si fugge spesso con quello che si ha addosso: le banche e le carte di credito sono sotto sanzioni occidentali, il rublo si è svalutato quasi della metà, e Putin ha praticamente bloccato i bonifici per l'estero. Gli oligarchi si erano attrezzati vie di fuga da anni, gli intellettuali scappano con pochi contanti e una valigia. Un gesto disperato, che molti non hanno il coraggio di fare, per non abbandonare i genitori o i figli, perché non hanno i mezzi per sostenersi nemmeno i primi tempi: «Anche se i confini venissero chiusi, non sarebbe per sempre», è il messaggio che Irina lascia a chi le scrive terrorizzato di rimanere nella prigione che la Russia è diventata.
Nelle chat di Linkedin gli informatici trovano proposte di lavoro al volo, ma gli intellettuali legati alla cultura russa non sono molto richiesti dalle multinazionali. La possibilità di farsi finanziare dai lettori/spettatori non esiste più: le carte di credito dei russi sono bloccate, e YouTube ha proibito ai canali russi di monetizzare pubblicità. È una fuga senza gloria infatti, mentre «tutto quello che è associato alla Russia diventa tossico», si rammarica il popolarissimo scrittore Boris Akunin.
Essere russi è diventata una vergogna, e Dolin spiega di essere fuggito anche «per non diventare complice»: «Non avremo né possibilità, né diritto a dimenticare. Siamo marchiati». Il discorso della vergogna è tra i più dolorosi, soprattutto per chi aveva fatto opposizione a Putin per vent' anni. Memorial Italia ha fatto un appello per concedere ai dissidenti russi asilo in Europa come a vittime del regime di Putin. Ma il senso di colpa non si cancella, dice Dolin: «Gli ucraini vinceranno, hanno già vinto... Noi, viviamo una catastrofe morale... La Russia non esiste più».
Da San Pietroburgo a Potenza: «Io russa vi spiego Putin. Ecco perché fa la guerra». «L’Europa indifferente ai crimini nel Donbass. Non siamo isolati». Massimo Brancati su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 marzo 2022.
Russa di San Pietroburgo, ingegnere navale e imprenditrice (in Russia ha una ditta che produce abbigliamento per bambini), sposata con un docente universitario lucano e residente a Potenza da vent'anni. Liudmila Alexeeva trascorre almeno 4 mesi all'anno nella sua terra e in diversi Paesi dell'ex blocco sovietico per curare gli interessi dell'azienda che dirige. Nelle sue parole - dice - è condensato il pensiero della maggioranza dei russi per i quali «Putin sta difendendo la Russia contro l'espansione della Nato e del nazismo ucraino».
La guerra è sempre un errore, andrebbe evitata...
«Ma la guerra non è cominciata oggi. Sono otto anni, da quando cioé in Ucraina è stato fatto un colpo di Stato sostenuto da Washington. L'allora presidente ucraino, ritenuto filo-russo, fu costretto a fuggire a Mosca e subito dopo vennero emanate leggi anti russe in un Paese, che ricordo, è da sempre diviso in due: a ovest ci sono nazionalisti vicini all'Europa, a est e in Crimea no, qui la maggioranza è russa».
A proposito di Crimea, anche lì la Russia ha usato le maniere forti.
«Non è vero. Non è stato sparato un solo colpo di pistola. Proprio perché il territorio è abitato da russi, il passaggio sotto Mosca è arrivato con un referendum plebiscitario. Ve lo posso confermare perché ho diversi amici in questa zona. E loro, vi garantisco, non vogliono tornare in Ucraina».
L'altro fronte caldo è sempre stato il Donbass dov'è cominciata l'invasione. Perché Putin dice che è intervenuto per porre fine a una persecuzione?
«Le cronache di questi giorni ignorano, o meglio, non fanno menzione che lì c'è stata una persecuzione con multe a chi parlava russo e, addirittura, spari su chi pregava in russo. Appena si è insediato Zelensky ha abolito la lingua russa. Ma quelle persone sanno parlare solo russo. Il Donbass è stato teatro di violenti scontri con oltre 14mila morti. Putin ha sempre denunciato questo genocidio ma l'Occidente si è tappato le orecchie. Nel Donbass nessuna delle 5.588 denunce presentate dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani alla Corte europea per i diritti umani è stata accolta. Il doppiopesismo e il pregiudizio sono evidenti. Ma ormai siamo abituati. Da 20 anni sanzioni su sanzioni. E ora si vogliono bandire pure gli sportivi e gli scrittori russi. Ridicolo. Siete contro Putin o contro il popolo russo?».
Putin, comunque, non si è limitato a intervenire su Donbass e Crimea. Alla fine si è spinto su tutta l'Ucraina.
«E cosa poteva fare? Zelensky, su input di Biden, aveva ripreso a bombardare il Donbass per riprenderselo. La Russia ha provato a mediare ma senza ottenere risultati. Tutti replicavano dicendo che l'Ucraina aveva il diritto di entrare nella Nato. L'obiettivo era piazzare lì dei missili, a soli 500 km da Mosca, dopo che già gli Usa avevano sistemato nel territorio ucraino laboratori per produrre armi chimiche e, secondo i servizi segreti russi, anche una bomba atomica».
Sì, ma nulla giustifica una guerra.
«Non vogliamo la guerra, non l'abbiamo mai voluta e la storia testimonia che i russi sono entrati in un conflitto sempre solo per reagire a un attacco, mai per attaccare. Putin ha semplicemente reagito per evitare che si ritrovasse con i nemici storici dentro casa».
Ora il mondo vi ha isolati...
«Metà del mondo ha detto no alle sanzioni. Tutta questa storia finirà per spalancare le porte della Russia agli interessi della Cina che fagociterà produzioni e interessi. L’Europa avrà conseguenze non solo per gas, petrolio e acciaio, con i prezzi insostenibili. Sarà allarme anche per i beni alimentari come il grano. Le sanzioni alla Russia faranno perdere miliardi all’Italia. A chi giova? E ci saranno pure controsanzioni».
Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 7 marzo 2022.
C'è una Russia che si ostina - nonostante arresti di bambini e ottuagenari, e leggi sui media sempre più dure - a manifestare contro la guerra e Putin. Come ogni giorno da che il presidente Putin ha annunciato l'ingresso militare in Ucraina, in decine di città russe è stata una domenica di proteste. Solo ieri si sono contati 4.468 arresti in 56 città, di cui alcuni con la violenza; dal 24 febbraio, giorno dell'invasione, gli arresti sono stati 13.053, in 121 città di tutto il Paese, da San Pietroburgo a Novosibirsk.
Il conto degli arresti - chi è fermato a una manifestazione rischia multe da 20 a 950 euro, e fino a un mese in cella - lo tiene l'osservatorio Ovd-Info, «agente straniero» secondo la legge. «Molti sono stati eseguiti con un uso eccessivo della forza», comunicano gli avvocati del sito, che raccoglie da Telegram i video della protesta: tre teste spaccate da manganelli a San Pietroburgo; una donna presa per i capelli; i più violenti sono i poliziotti in borghese, armati di taser. A Irkutsk il furore censorio colpisce persino un rider in giacca gialla, con lo zaino azzurro di Deliveroo, fermato perché i colori che indossa - quelli della bandiera ucraina - sono segno di protesta. E poi video di pestaggi da Tomsk, Ekaterinburg, Krasnodar, Novosibirsk, Kostroma, Petrozavodsk.
Sui caschi dei poliziotti, spesso, una «Z» disegnata in bianchetto: è il segno che i carri armati russi usano per distinguersi, in Ucraina, ma è sempre di più - anche sui social - un simbolo della Russia in guerra, come una nuova svastica. Solo a Mosca gli arresti sono stati, ieri, 2.500. Tra loro il biologo dissidente Oleg Orlov, tra gli attivisti principali della rete Memorial, che difende i diritti umani e custodisce il più grande archivio di documenti sulla storia dei gulag, e che una legge dello Stato ha sciolto a dicembre.
Gli uffici moscoviti dell'associazione sono stati perquisiti e messi a soqquadro due giorni fa. Orlov, 69 anni, è stato fermato sulla Piazza del Maneggio mentre faceva un picchetto per la pace. Come lui è stata arrestata anche l'attivista Svetlana Gannushkina, matematica, che proprio ieri compiva ottant' anni. Tra i fondatori di Memorial e del partito di opposizione Yabloko, Gannushkina è stata più volte nominata al Nobel per la pace. Un camioncino di polizia con dentro 24 detenuti si rovescia a Mosca; in 14 finiscono in ospedale (cinque poliziotti). In centro, vicino allo storico negozio di giocattoli Detsky Mir, la polizia ferma i passanti, a campione: controlla loro il cellulare, legge i loro messaggi.
Può farlo, per legge? No, ma chi lo chiede viene trattenuto. Chi si oppone viene trattenuto. Chi ha chat che contengano termini come attacco», «invasione» o «guerra», viene trattenuto. Le parole bandite sono le stesse della nuova legge sulla stampa, annunciata il 26 febbraio e approvata venerdì dalla Duma: fino a 15 anni di carcere per i giornalisti che le usano, anziché «operazione difensiva». Tra gli arrestati di ieri ci sono anche 13 giornalisti. La stretta sulla stampa degli ultimi giorni è totale. «Non c'ero, ma tutti i colleghi più anziani concordano: è peggio che ai tempi dell'Urss», spiega al telefono da Istanbul la giornalista del Moscow Times Samantha Berkhead. Come molti colleghi ha lasciato il Paese sabato.
«Informare a queste condizioni è impossibile», e senza un lavoro i giornalisti rimasti a Mosca sarebbero praticamente bersagli mobili. «Scriverò di Russia dalla Germania», twitta Natalia Smolentceva di Deutsche Welle . Alexei Kovalev, reporter del sito di controinformazione Meduza , twitta di aver «attraversato il confine a piedi, nella notte, con il cane in braccio». «Non restano più voci se non la propaganda governativa, e Telegram», spiega Berkhead. I media indipendenti russi sono bloccati dal governo (l'ultimo, ieri, Mediazona); quelli stranieri come la Bbc lavorano dall'estero. Tra le multinazionali in fuga, ieri anche Netflix ha «sospeso i servizi in Russia». Ha sospeso ieri «la produzione di nuovi video dalla Russia» anche la piattaforma TikTok, «in risposta alla legge sulle fake news».
Da sabato anche Facebook e Twitter sono bloccati. Il messaggio dell'oppositore Navalny, che dalla cella invita a «protestare ogni giorno feriale alle 19, e nei weekend alle 14», arriva meno forte. «Presto non saprete che quello che io ne so qui in prigione, cioè nulla. I media indipendenti sono tutti chiusi», ha scritto ieri sui suoi social, a cui ha accesso, ultimamente, grazie a un permesso del giudice. Invita a disobbedire, «informare usando le parole guerra e invasione». Finora ai suoi inviti hanno risposto in migliaia: il prezzo però sembra sempre più caro.
Oltre 1.300 persone arrestate dall'invasione. Manganelli e pistole stordenti sui manifestanti, 4.357 arresti in Russia per le proteste contro la guerra in Ucraina. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Marzo 2022.
Proteste represse tra arresti e violenze in Russia. Secondo la Ong Ovd-Info sono oltre 4.357 le persone arrestate in 56 città in tutto il paese per le manifestazioni contro la guerra in Ucraina. La stessa organizzazione scrive che il dato potrebbe essere calcolato per difetto: ogni dipartimento di polizia può potenzialmente avere più fermati rispetto agli elenchi pubblicati. Ong Ovd Info pubblica solo dati che ritiene certi. Solo nella capitale Mosca sarebbero oltre 1.600 i fermi.
Dall’inizio delle manifestazioni per la guerra propagandata dal Presidente Vladimir Putin come un’operazione militare per “smilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina sono state 13.158 le persone detenute in oltre cento città, tredici delle quali giornalisti. Il dato all’indomani del via alla stretta sui media approvata dalla Duma che ha alzato fino a 15 anni gli anni di carcere per la diffusione di quelle che il Cremlino reputa fake news. In particolare sulla guerra. Le emittenti occidentali con sedi di corrispondenza sul posto hanno praticamente tutte sospeso i servizi giornalistici.
Sui social circolano numerose immagini delle violenze perpetrate dalle forze dell’ordine, con manganelli e pistole stordenti, per reprimere il dissenso. A Mosca è stato arrestato uno dei leader dell’Ong Memorial, Oleg Orlov, e la famosa attivista Svetlana Gannouchkina. Secondo la stessa fonte, almeno 279 persone sono state arrestate anche a San Pietroburgo, dove una delle piazze centrali è stata transennata dalla polizia. I primi arresti sono avvenuti, a causa del fuso orario interno, in estremo Oriente e in Siberia. Più di 200 persone sono state arrestate in particolare nelle grandi città di Novosibirsk e Ekaterinburg. Chi protesta contro la presenza militare russa in Ucraina rischia regolarmente multe, in base a un nuovo articolo del codice amministrativo che vieta le manifestazioni pubbliche che “screditano le forze armate“. Secondo l’agenzia di stampa Ria Novosti, un residente siberiano è stata la prima vittima di questa nuova legge: è stato multato di 60mila rubli (450 euro) per aver indetto manifestazioni contro l’intervento in Ucraina.
Aleksey Navalny, il dissidente di Putin tutt’ora in carcere, scampato a un tentato avvelenamento e salvato in Germania, ha invitato i russi a manifestare ogni giorno nella piazza principale della loro città per chiedere la pace. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha lanciato diversi appelli alla popolazione russa in questi giorni. “Cittadini della Russia per voi non è solo lotta per la pace, ma lotta per il vostro Paese – ha detto oggi il presidente alla guida del Paese sotto assedio – Se rimanete in silenzio ora, solo la vostra povertà parlerà per voi più tardi e solo la repressione risponderà”.
Tantissime sui social le immagini di russi, giovani e adulti, sanguinanti, pestati, presi di forza e allontanati o fermati. Nei giorni scorsi erano stati portati in caserma anche dei bambini: avevano portato in piazza dei cartelloni con dei disegni contro la guerra. Arrestata nei giorni scorsi anche Yelena Osipova, 80 anni, nata durante l’assedio di quella che all’epoca era chiamata Leningrado. Pestate in piazza dagli agenti anche donne, come si vede dalle immagini dai social.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
(ANSA-AFP il 6 marzo 2022) Almeno 2.500 persone che manifestavano contro l'intervento militare in Ucraina sono state arrestate domenica in circa 50 città della Russia. Lo ha reso noto l'Ong Ovd-Info, specializzata nel monitoraggio delle manifestazioni. Secondo la setssa fonte, dal 24 febbraio, data di inizio delle operazioni militari, nel Paese sono stati arrestati quasi 11mila manifestanti.
Nonostante le intimidazioni delle autorità e la minaccia di pesanti pene detentive, le azioni di protesta, seppur limitate, si sono svolte quotidianamente per 10 giorni in diverse città del Paese. Il dissidente tuttora in carcere, Alexei Navalny, fermamente contrario all'intervento in Ucraina, questa settimana ha invitato i russi a manifestare ogni giorno nella piazza principale della loro città per chiedere la pace.
A Mosca, almeno 560 persone oggi sono state arrestate, ha riferito la Ong Ovd-Info: tra loro uno dei leader dell'Ong Memorial, Oleg Orlov, e la famosa attivista Svetlana Gannouchkina. Secondo la stessa fonte, almeno 279 persone sono state arrestate anche a San Pietroburgo, dove una delle piazze centrali è stata transennata dalla polizia. Diversi attivisti stanno pubblicando in queste ore sui social video che mostrano arresti brutali e colpi di manganello.
I primi arresti sono avvenuti, a causa del fuso orario interno, in estremo Oriente e in Siberia. Più di 200 persone sono state arrestate in particolare nelle grandi città di Novosibirsk e Ekaterinburg. Coloro che protestano contro la presenza militare russa in Ucraina rischiano regolarmente multe, in base a un nuovo articolo del codice amministrativo che vieta le manifestazioni pubbliche he "screditano le forze armate". Secondo l'agenzia di stampa Ria Novosti, un residente siberiano è stata la prima vittima di questa nuova legge: è stato multato di 60mila rubli (450 euro) per aver indetto manifestazioni contro l'intervento in Ucraina.
Stefano Stefanini per “la Stampa” il 6 marzo 2022.
«Condanniamo inequivocabilmente le azioni militari della Federazione Russa sul territorio dell'Ucraina». È censura politica, è sdegno morale, quando lo dicono le Nazioni Unite, i leader mondiali, la gente scesa nelle nostre strade e piazze per solidarietà con l'Ucraina aggredita. È straordinario coraggio quando sono i russi a dirlo. Lo hanno fatto ieri i firmatari di una incredibile «lettera aperta al Presidente della Federazione Russa», tutti studenti, ex-studenti e insegnanti della prestigiosa fucina diplomatica russa, l'Istituto Statale di Relazioni Internazionali di Mosca (Mgimo).
Ci hanno abituato al coraggio russo i dissidenti e oppositori del regime putiniano, messi di forza ai margini della vita politica del Paese, sottoposti a violenze della polizia, angherie, carcere sommario quando non eliminati dalla pallottola di un sicario, dal novichok o polonio. Ci hanno abituato i manifestanti manganellati senza cerimonie, i bambini messi dietro le sbarre dei furgoni penitenziari, le vecchiette strattonate per la strada. Il coraggio politico e ideologico di dire di no è altrettanto straordinario per due motivi. Innanzitutto, viene dall'interno del sistema.
Per minoritario che sia rispetto al resto dell'apparato burocratico e governativo, forse a disagio ma allineato e coperto col Cremlino, rivela una sottile crepa nella muraglia di mobilitazione nazionale eretta da Vladimir Putin e dai fedeli "siloviki". Che basta a non far dormire sonni tranquilli al dittatore chiuso in paranoico isolamento. Forse allungherà ancora il tavolo che lo separa dagli interlocutori, negli incontri con russi e stranieri, attualmente calcolato a distanza di sicurezza "von Stauffenberg" (attentatore di Hitler) - la tecnologia, si sa, ha fatto progressi dal ''44.
La politica di meno, prova ne sia Vladimir Putin. La lettera nasce nel cuore istituzionale della Russia. All'Mgimo si forma la élite diplomatica e accademica del Paese. Vi hanno studiato Sergei Lavrov, Ministro degli Esteri di Putin, e Kassim-Jomart Tokayev, Presidente del Kazakistan. Più molti altri, russi e stranieri. Vanta il prestigio accademico di una Harvard bostoniana o di una SciencePo parigina ma è soprattutto la scuola di generazioni di operatori di affari internazionali ai quali è poi affidata la politica estera russa e la tutela degli interessi nazionali.
Che poi portano avanti con altissima professionalità. Non è certo un nido di sentimenti antirussi. In secondo luogo, siamo di fronte a una manifestazione di estrema lucidità politica e diplomatica. La lettera riflette il "mestiere" di chi l'ha scritta. Rivendica valori quali cooperazione internazionale, collaborazione culturale, sicurezza attraverso il dialogo, «importanza di un sistema globale di trattati per la limitazione degli armamenti nucleari», con un giudizio tranciante: l'intervento militare della Russia in Ucraina «ha reso impossibile la realizzazione dei valori che noi abbiamo metabolizzato».
«Non abbiamo paura di dire apertamente» quello che pensiamo «anche se diverge dall'attuale posizione del Ministero degli Affari Esteri e del Governo Russo», conclude la lettera. Chi firma sa di mettere in gioco il proprio presente e futuro. Rischia arresto e imprigionamento. Non sappiamo quanti siano. Forse solo una manciata. Forse solo figure ormai accantonate come Andrei Kozyrev, ex-Ministro degli Esteri di Bori Eltsin, "liberale" messo all'indice dal regime, mentore di un Lavrov che ha fatto altre scelte.
Ma l'esistenza stessa della lettera, che segue una presa di posizione contro la guerra cui ha aderito il fior fiore della scienza russa - circa 300 firme - rivela una profonda crisi di coscienza all'interno della società russa. Vladimir Putin ne ha un inconfessato terrore. Per evitare che la crepa diventi una frattura seria e minacci il suo potere assoluto, vieta che la guerra si chiami guerra ("operazioni speciali"), continua a narcotizzare la popolazione con la televisione di Stato, imbavaglia la stampa, tacita i social media.
Chi lo sfida su questo terreno come i firmatari dell'Mgimo e gli scienziati russi merita tutta la nostra ammirazione, non meno degli eroici ucraini in trincea. La battaglia decisiva per la democrazia in Europa, disse Vaclav Havel, si combatte sempre a Mosca.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 6 marzo 2022.
Il cartello con la scritta «No alla guerra» è talmente grande da coprire Irina Ochirova dai piedi quasi fino al mento, quando lei lo srotola sotto il monumento a Lenin in una delle piazze centrali di Ulan-Ude, la capitale della Buriazia. Suo figlio Sergey, 25 anni di cui 7 nell'esercito russo, è caduto prigioniero in Ucraina, in quella guerra che il Cremlino proibisce di chiamare guerra.
Il video nel quale lui ammette davanti a una telecamera di aver guidato un camion carico di munizioni delle truppe russe che hanno invaso l'Ucraina è finito anche nei social russi, ma è stato bollato dalle autorità come un falso della propaganda di Kiev.
La madre però l'ha riconosciuto. È andata in piazza per dimostrare a tutti che «quello non è un fake, quello è mio figlio». Ma al ministero della Difesa non le hanno risposto, e anche la lettera che ha scritto a Vladimir Putin non ha suscitato nessuna reazione, e Irina teme che suo figlio possa venire archiviato come un «fake». Il numero reale dei caduti e dei prigionieri russi, dopo dieci giorni di guerra, continua a restare un segreto.
Volodymyr Zelensky parla di 10 mila soldati russi uccisi, un'enormità (in dieci anni di invasione dell'Afghanistan le perdite ufficiali dell'Armata Rossa non hanno superato i 15 mila uomini), il ministero della Difesa russo ha ammesso due giorni fa 498 caduti, le Ong che monitorano la stampa russa (posta sotto censura) stimano i caduti menzionati nei media in un migliaio.
Molti vengono dalla Buriazia, una repubblica della Federazione Russa che dista circa 6500 chilometri da Kiev, al confine con la Mongolia: almeno otto militari, quasi tutti della 11sima brigata speciale d'assalto, sono morti e numerosi altri sono stati catturati. Le liste dei militari uccisi o catturati pubblicate dagli ucraini - Zelensky ha ordinato l'istituzione di un numero verde e di un sito dove le madri russe potevano reclamare i loro figli - non sono accessibili in Russia, e spesso le famiglie e gli amici vengono a sapere loro notizie solo quando Kiev pubblica i video dei prigionieri.
Ma chi ha avuto modo di leggerle, come il capo del team d'indagine giornalistica Bellingcat Christo Grozev, ha notato una notevole quantità di cognomi non slavi. Potrebbe ovviamente trattarsi di una coincidenza, ma la quota di soldati catturati o uccisi che non hanno cognomi russi sembra sproporzionata.
Come Rafik Rakhmankulov, un carrista catturato dopo essere stato abbandonato insieme al suo carro rimasto a secco, che ora sua madre Natalia cerca di recuperare dall'Ucraina. Come Nurmagomed Gadzhimagomedov, del Daghestan, Konstantin Mandzhiev, della Calmucchia, e Ilnur Sibgatullin, del Tatarstan, o Viktor Isaikin, della Mordovia, commemorati ufficialmente dai capi delle loro regioni.
Esperti militari ucraini avevano notato che già nel 2014 Mosca cercava di inviare nel Donbass soldati delle minoranze etniche della Russia, preferibilmente di religione musulmana. Il motivo è la parentela, linguistica, culturale, ma spesso anche di sangue tra russi e ucraini: nella parte europea della Russia è difficile trovare qualcuno che non abbia familiari dall'altra parte del confine, e comunque sparare a persone che parlano la stessa lingua può sembrare più faticoso.
La frase di Putin che si è vantato, due giorni fa, di essere «daghestano e ceceno, inguscio e tataro, ebreo, mordvino e osseto», suona inquietante in questo contesto. Anche perché i ragazzi benestanti delle grandi città russe evitano la caserma, o iscrivendosi all'università, o pagando mazzette. Ad andare al fronte, dice Grozev, sono i figli delle province più remote e povere, di famiglie disagiate e poco istruite.
Il politologo Abbas Galyamov scrive di fare fatica a credere a un livello di cinismo che scelga la carne da cannone per etnia, ma ammette che «un piano del genere potrebbe essere efficace: un morto in un villaggio sperduto della Yakuzia farebbe diventare nera di dolore la madre, farebbe ubriacare ai funerali i compaesani, e poi?».
Molte famiglie non avrebbero il coraggio e gli strumenti per protestare, a volte nemmeno per scrivere un post di denuncia. E molte famiglie potrebbero addirittura non ricevere un corpo da piangere: gli ucraini sostengono di non riuscire a restituire le salme dei russi al loro comando.
Da Ansa il 4 marzo 2022.
La polizia russa ha arrestato ieri una nota sopravvissuta all'assedio di Leningrado, la ottantenne Yelena Osipova, durante una protesta contro la guerra tenuta a San Pietroburgo.
Un video dell'arresto di Osipova pubblicato dal Guardian - che finora è stato visto più di 3,7 milioni di volte - mostra due agenti mentre rimuovono l'anziana donna dal corteo mentre centinaia di dimostranti gridano contro gli agenti.
Osipova ha vissuto l'assedio quando San Pietroburgo si chiamava ancora Leningrado e ieri ha partecipato alla protesta stringendo tra le mani due grandi cartelli con scritte di condanna del conflitto in Ucraina.
DAGONEWS il 4 marzo 2022.
Cosa sta succedendo in Russia? Mentre Putin ha affondato la tregua e non alcuna intenzione di fare un passo indietro, i russi subiscono le conseguenze delle scelte di Mad Vlad. Se nel Paese c’è una larga fetta di popolazione obnubilata dalla propaganda del Cremlino, c’è un’altra parte del Paese che assiste sotto choc, con il terrore di scendere in piazza a manifestare e con la certezza di un futuro incerto.
Ed è la paura il sentimento a cui sono relegati milioni di antiputiani che vivono nell’angoscia che un semplice messaggio che racconta ciò che accade nel Paese possa trasformarsi in un boomerang.
Da giorni viene annunciata una nuova legge che isolerebbe completamente la popolazione, tagliando le gambe a ogni possibilità di sapere cosa accade in Russia: si è annunciato, infatti, che entrerà in vigore una nuova norma secondo la quale qualsiasi informazione passata a chi vive in un “paese ostile” può configurarsi come tradimento alla nazione. Il terrore è che possa essere incriminato anche chi invia un semplice messaggio a un amico che non vive sul territorio russo.
Già adesso la Russia ha approvato una legge che modifica il Codice penale per “contenere la diffusione di “fake news” sulle forze armate russe. In due parole non c’è più la possibilità di condividere video e informazioni che non rientrano nella propaganda del Cremlino. Pena: 15 anni di carcere.
Intanto la vita quotidiana in Russia è già stravolta. Molti negozi europei e americani stanno abbassando le saracinesche. Ha chiuso il colosso Ikea, ma anche Apple e Mango hanno lasciato Mosca. Per non parlare dell’inflazione alle stelle che colpisce i generi di prima necessità e che, di questo passo, porterà la popolazione alla fame. Ma sui russi incombe anche lo spauracchio della mobilitazione della popolazione, con gli uomini abili a combattere chiamati a indossare una mimetica e a imbracciare le armi.
Per far digerire ai russi il boccone amarissimo, Putin non può che far leva sull’arma della propaganda. Nel Paese sono stati bloccati i media russi indipendenti. Il rischio è che i russi non avranno più accesso a un’informazione libera. Di contro, sui tg si giustifica l’operazione: “Stiamo liberando il popolo ucraino”. Vietato parlare di invasione, mentre in tv scorrono immagini fake di carri armati che entrano a Kiev. Un lavaggio del cervello che inizia già sui banchi di scuola.
In tutti gli istituti viene trasmesso un video in cui l’Ucraina e la Russia vengono mostrati come amici fino a quando gli ucraini non si macchiano di tradimento: “Vanya e Nikola erano amici; Vanya stava proteggendo Nikola, perché era più forte, ma poi Nikola ha avuto nuovi amici che gli hanno insegnato come ferire gli altri. Vanya ha dovuto prendere il bastone da Nikola perché nessuno si facesse male".
La premio Nobel Svetlana Aleksievich: «Perché oltre il 60 per cento dei russi sostiene Putin». Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.
«Dubito che Putin si fermi soltanto all’Ucraina, se riuscirà a vincere. Spero che l’Europa che si è schierata compatta, dica la sua, e anche gli Usa. Non a caso lui ci spaventa tutti con le armi nucleari»
Svetlana Aleksievich vive in Germania da quando ha dovuto lasciare ancora una volta la sua Bielorussia dopo la repressione delle manifestazioni democratiche del 2020. Ci eravamo sentiti al telefono quando lei aveva denunciato che uomini mascherati stavano tentando di entrare nel suo appartamento. Gli ambasciatori di vari Paesi europei andarono a casa sua fino a che non fu costretta ad andar via. Lukashenko era stato salvato da Putin. «Tutti erano stati arrestati o erano dovuti fuggire all’estero». Il premio Nobel per la Letteratura ricevuto nel 2015 non la proteggeva più.
Le notizie di queste ore sui giovani soldati russi morti in Ucraina e sui loro corpi che iniziano a tornare dalle madri mi ha fatto subito ripensare al suo «I ragazzi di zinco» sui tanti, tantissimi caduti della guerra in Afghanistan che contribuì al crollo del regime sovietico con il suo risultato disastroso.
«Sì, ci ho pensato anch’io. E sul fatto che i miei libri si ostinano a non voler diventare storia. Che la Russia torna sui suoi passi, cammina facendo dei giri. Ci ritroviamo in un punto assolutamente inaspettato della storia. Nessuno di noi pensava che qualcosa del genere fosse possibile».
Cosa le dicevano i sopravvissuti dell’Afghanistan quando li intervistava?
«A che serve il tuo libro? Perché? Come puoi raccontare veramente com’era? I cammelli morti e gli uomini morti in un’unica pozza di sangue. Chi lo vuole sapere?».
Svetlana è figlia di un padre bielorusso e di una madre ucraina. E per lei il coinvolgimento anche di Minsk è particolarmente doloroso.
Molti dicono che Putin sia impazzito, che quello che sta facendo non è razionale.
«È facile lanciare accuse, sarebbe una spiegazione semplice, ma non sappiamo la verità. Temo che le cose stiano diversamente. Sono stati pubblicati dati nuovi: oltre il 60 per cento dei russi sosterrebbero Putin e questa guerra».
Ma sono dati reali o è la propaganda del Cremlino?
«Non abbiamo altri sondaggi, ma è sicuro che molta gente lo appoggia e dice che non si sa niente, che è tutto un cumulo di fake, di notizie inventate. Non può essere, non è realistico... Ma ora, dopo che hanno chiuso la radio Eco di Mosca e la tv Dozhd, in pratica è rimasta solo Novaya Gazeta. Nessuno in Russia saprà la verità, sarà un Paese chiuso. E che cosa avverrà veramente è difficile immaginarlo».
Il presidente russo non è il solo, quindi a nutrire sentimenti di «rivincita»?
«Credo che Putin rispecchi l’opinione dei russi medi che vivono in periferia, di quei russi che non possono tollerare umiliazioni, come dicono loro. Per i miei libri ho viaggiato molto per la Russia e tanti di quelli che ho sentito parlavano di umiliazione più di ogni altra cosa: nessuno ha paura di noi. E come si sono tirati su di morale quando hanno potuto dire che Putin li ha fatti rialzare in piedi dacché erano in ginocchio di fronte al mondo! Temo che questo sentimento di “imperialità” sia molto radicato. Quando c’è stato il crollo dell’Urss nel 1991 abbiamo esultato che tutto fosse successo pacificamente. Abbiamo sopravvalutato la morte del comunismo. Non è per niente vero, nient’affatto. Ce ne stiamo accorgendo. Quest’uomo rosso, l’homo sovieticus, adesso capiamo che è vivo. Molto di quello che c’era ai tempi sovietici ci ha lasciato un’impronta, ha lasciato la menzogna».
È questa l’eredità del comunismo?
«Se guardiamo indietro alla nostra storia, sia quella sovietica che quella post sovietica, è una enorme fossa comune, un bagno di sangue continuo».
Putin oggi fa leva su una maggioranza orgogliosa della rinascita del Grande Paese?
«Sì, penso proprio di sì. Se non sentisse intuitivamente questo appoggio, non farebbe quello che sta facendo. Almeno in questo modo così insolente, aggredire un Paese sovrano parlandone con tanto odio. Mi riferisco a quello che ha detto quando ha fatto una lezione di storia piena di analfabetismo. Ma questa è la sua visione del mondo. Insomma anziché andare verso il futuro si marcia indietro verso il Medioevo».
Quanto lontano potrebbe andare? Quali sono i suoi obiettivi?
«Molto lontano, temo. Dubito che si fermi soltanto all’Ucraina, se riuscirà a vincere. Spero che l’Europa che si è schierata compatta, dica la sua, e anche gli Usa. Non a caso lui ci spaventa tutti con le armi nucleari».
È possibile che si arrivi a tanto?
«È impensabile per noi. Ma nella testa di quegli uomini... Durante la famosa riunione del Consiglio di sicurezza guardavo le facce e non tutti avevano lo stesso entusiasmo di Putin. Tutti capiscono in fondo di essersi spinti troppo. Lo capiscono gli imprenditori, in molti lo capiscono».
Qualcosa potrebbe accadere in Russia?
«L’attuale sistema autoritario rende tutti così coesi che è difficile uscirne fuori. Come diceva l’eroina di un mio libro: ci si sente come una farfalla nel cemento. Sei dissenziente, non lo accetti, ma non ti puoi tirare fuori. Tutti dicono ora, che fare? Che fare? Io penso che bisogna lavorare con quel 60 per cento che sembra sostenere Putin. Bisogna parlare, spiegare. Ci sarà il lutto, ci saranno le bare, e peccato che debba essere questo il prezzo per togliere la benda dagli occhi. Il popolo aprirà gli occhi perché l’arrivo di 5.000 bare è pesante».
Il suo Paese, la Bielorussia, cosa è diventato? Una provincia della Russia?
«È una macchina del tempo, un museo del passato. E ora anche questo: Lukashenko non ha nessuna autonomia, la Bielorussia è piena di truppe russe, e visto che le perdite sono tante, Putin lo costringerà a partecipare alle ostilità».
E la gente cosa pensa?
«È contraria. A differenza di quella russa, la società bielorussa non appoggerà la guerra. I bielorussi hanno sempre visto gli ucraini come fratelli e sorelle, come il nostro popolo fraterno. Non c’è nessun odio come tra russi e ucraini che si danno nomignoli spregiativi, moskal , piccolo moscovita; khokhol , ciuffetto (quello dei cosacchi che scende dalla testa rapata)».
Cosa si aspetta?
«Penso che il mondo e soprattutto i politici devono trovare dei modi per fermare Putin, ma quali non lo so. Lui nelle trattative chiede solo la capitolazione dell’Ucraina e basta. Credo che tutto il mondo debba aiutare l’Ucraina. Ed io appoggio la formazione di una legione straniera con migliaia di persone che sono venute in soccorso e le armi che vengono fornite in Ucraina. Quando ho telefonato a una mia parente dicendole “Tenete duro, adesso arrivano le armi”, mi ha risposto “Svetlana mia, le armi le avremo, ma dove andiamo a cercare i giovani? I nostri ragazzi sono morti a migliaia”. Mi fa molto piacere che in me scorra sangue ucraino. Sono fiera di migliaia di quei ragazzi e di quella gente, bambini, vecchi che nei villaggi si gettano contro i carri armati a mani nude, si mettono in ginocchio per non farli passare. Dio mio, Dio mio!».
Lei ha scritto «Preghiera per Chernobyl» con i racconti dei sopravvissuti e dei parenti dei tanti morti. E ora le notizie dalla centrale di Zaporizhzhia spaventano tutti.
«Usiamo ancora i vecchi concetti lontano-vicino, amici-nemici, ma dopo Chernobyl questo non vuol dire più nulla. Al quarto giorno la nube di Chernobyl sorvolava già l’Africa e la Cina. Noi-loro, amici-nemici non ha più senso perché è il vento che decide dove andare».
Il Popolo. Navalny: russi in piazza, oligarchi sotto accusa. Preti ortodossi in rivolta. Massimo Malpica il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il dissidente (in carcere) incita l'opposizione Presa di distanza dal Patriarcato di Mosca.
C'è un fronte interno anche per Putin e per la sua guerra all'Ucraina. Se non bastavano i quasi settemila russi che si sono fatti arrestare in questa prima settimana per aver scelto di manifestare contro l'invasione dell'Ucraina, ora a mettersi di traverso sono il leader dissidente Alexei Navalny, che incita alla rivolta via Twitter, e i preti ortodossi, che scelgono di condannare la guerra «fratricida». Il tutto mentre, all'estero, le conseguenze dell'aggressione russa ricadono sugli oligarchi che vedono a rischio le loro acquisizioni fuori dai patrii confini.
Navalny, in prigione da oltre un anno, non ha dimenticato il suo ruolo di oppositore al presidente russo, e così ha affidato alla sua portavoce una serie di tweet per invitare i suoi concittadini a manifestare il proprio dissenso alla guerra. «Sono nato in Unione Sovietica. E la frase più importante della mia infanzia era lotta per la pace», ha spiegato il dissidente, dicendosi fiducioso che la Russia non diventi «una nazione spaventata e silenziosa» di «vigliacchi» che fingono di non vedere la guerra voluta da Putin, che «non è la Russia». Quindi, applaudendo i 6.824 russi che si sono fatti arrestare, Navalny ha chiesto «a tutti di scendere in strada e lottare per la pace», «superando la paura» e scendendo nelle piazze principali di ogni città «tutti i giorni feriali alle 19 e alle 14 nei fine settimana e nei festivi». Il rischio di venire arrestati, conclude il dissidente, è il «prezzo da pagare» per non «essere solo contro la guerra», ma «lottare contro la guerra».
E, come detto, ieri anche 230 preti ortodossi di tutta la Russia hanno scritto in una lettera aperta di piangere «il calvario a cui nostri fratelli e sorelle in Ucraina sono stati immeritatamente sottoposti», condannando la guerra «fratricida» e reclamando l'immediato cessate il fuoco. Una presa di posizione distante dal Patriarcato di Mosca, legato al presidente russo, con Cirillo I che finora si è limitato a invitare le parti in conflitto a «evitare vittime civili»: infatti spicca la mancanza, tra le centinaia di firme di chierici, dei gradi più alti della Chiesa ortodossa. E spuntano anche i primi abbandoni: secondo quanto riporta l'Adnkronos, il vescovo di Leopoli e quello di Sumy si sarebbero staccati nelle ultime ore dal Patriarcato di Mosca.
Intanto, all'estero, Usa, Gran Bretagna e Ue valutano di congelare i tanti beni che gli oligarchi russi vicini a Putin vantano in giro per il mondo. Yacht, azioni, palazzi e ville alle quali dar caccia a colpi di espropri e sanzioni economiche. La cartina di tornasole del difficile momento per i magnati russi è Roman Abramovich, ormai ex patron del Chelsea, messo in vendita per 3,3 miliardi di euro. Nei guai anche Alexey Mordashov, sotto il tiro delle sanzioni Ue, che si è dimesso dalla sua carica nel tour operator Tui e ha visto il suo 34% di quote, pari a 1,2 miliardi di euro, congelate. E lo stesso staff di Navalny, ieri, ha partecipato alla caccia con una «soffiata», rivelando al quotidiano online Meduza che la presidente del consiglio della Federazione russa, Valentina Matvienko, sarebbe proprietaria in Italia di una villa di 774 metri quadri con 26 ettari di terreno, affacciata sull'Adriatico.
Da ivolleymagazine.it il 28 febbraio 2022.
Questa pagina vergognosa rimarrà per sempre nella storia del mio paese… Non avrei mai immaginato che la Russia avrebbe attaccato uno stato europeo, bombardato e sparato. Il mondo intero ora è contro la Russia, impone sanzioni.
Non vogliono vederci nei loro paesi, vogliono isolarci. Il nostro governo deve fermarsi il prima possibile. Avrei potuto tacere? Avrei potuto. Ma mi vergogno e ho paura. Sappiate che in Russia ci sono molte persone contrarie a ciò che sta accadendo… Mi dispiace…
Da fanpage.it il 28 febbraio 2022.
Andrey Rublev ha confermato i pronostici nel torneo ATP 500 di Dubai. La seconda testa di serie del tabellone ha superato dopo un match molto combattuto in 3 set il polacco Hurkacz che ai quarti aveva battuto Jannik Sinner. Grande gioia per il tennista russo, che sta vivendo un momento di forma positivo e affronterà in finale il vincente del match tra Shapovalov e Vesely, che ha estromesso a sorpresa Djokovic. Più che il risultato di Rublev a far discutere è stato il gesto compiuto dopo la vittoria, che ha confermato la sua grande sensibilità.
Dopo aver trionfato su Hurkacz, Rublev si è fermato in campo per la classica intervista di rito per commentare il match. Subito dopo il numero 7 della classifica ATP, ha dovuto scrivere la sua dedica speciale sulla telecamera, un rito diventato ormai un grande classico in tutti i tornei. Il tennista russo, ha scritto qualcosa che non ha niente a che fare con il tennis, ovvero un messaggio relativo alla guerra tra la sua Russia e l'Ucraina, scatenatasi dopo l'invasione e i bombardamenti russi sul Paese limitrofo. "No war please", ovvero "No alla guerra per favore". Una richiesta forte in mondovisione quella del giocatore moscovita doc.
Le immagini del bel gesto di Rublev hanno ovviamente fatto il giro del mondo. D'altronde già nella giornata di ieri quello che è il secondo giocatore russo del mondo, dopo il neo numero 1 ATP Daniil Medvedev, aveva parlato chiaro in conferenza stampa ribadendo la necessità di mettere lo sport in secondo piano. La guerra tra la Russia e l'Ucraina spinge tutti a riflettere sulle priorità della vita: "In questo momento ti rendi conto che la partita non è importante. Non mi interessa? Perché quello che sta succedendo è molto più terribile (riferimento ovviamente alla crisi tra Russia e Ucraina, ndr). E come ho detto, ti rendi conto di quanto sia importante avere la pace nel mondo e rispettarsi a vicenda, qualunque cosa accada".
Anna Zafesova per "la Stampa" il 28 febbraio 2022.
In Russia è vietato chiamare la guerra "guerra": è una "operazione militare speciale", e il giornale che usa la parola "guerra", "invasione" o "aggressione" rischia la chiusura. In un totalitarismo la guerra è pace, insegnava Orwell, ma è soprattutto una condizione naturale e permanente. Quando Vladimir Putin ordina ai suoi generali di alzare l'allerta delle forze nucleari, non si rende conto che quello è un passo che lo allontana definitivamente dal resto del mondo, almeno quello non governato dai dittatori, e di quanto la minaccia dell'apocalisse finale gli toglie il sostegno anche di chi era pronto ad ascoltare le sue ragioni.
Il forte minaccia, il debole negozia: quando, anni fa, il presidente russo raccontò il modus operandi delle strade di Leningrado nelle quali si era formato - "se la rissa è inevitabile picchia per primo" - non stava soltanto condividendo un ricordo d'infanzia, stava esponendo il suo credo politico. Erano anni, decenni, che il Cremlino promuoveva il militarismo. Le immagini di Putin che pilotava un caccia, guidava un sottomarino e lanciava missili di vario calibro dovevano promuovere la sua popolarità di uomo forte, e di una nazione invincibile.
Negli anni, l'esaltazione della vittoria nella Seconda guerra mondiale era diventata una religione di Stato, e mentre gli ipermercati vendevano uniformi militari per bambini, sui lunotti delle auto venivano appiccicati adesivi come "In marcia su Berlino" oppure "Possiamo rifarlo". Sembravano sfoghi aggressivo-impotenti di una nazione ferita, ansiosa di recuperare l'unico momento della propria storia recente che l'eroismo e il sacrificio di decine di milioni di persone avevano reso indiscutibile. E intoccabile: il rapper Morgenshtern ha dovuto chiedere scusa solo per essersi lamentato in un'intervista delle spese folli per le sfilate militari in piazza Rossa nel giorno della Vittoria il 9 maggio.
La guerra è diventata la cosa migliore che può accadere, a una nazione e a un cittadino, la misura della potenza e la dimostrazione ultima di stare dalla parte della ragione. Non è casuale che il Cremlino abbia messo a capo della sua delegazione di negoziatori con l'Ucraina non un diplomatico o un militare, ma l'ex ministro della Cultura Vladimir Medinsky, un conservatore che aveva scritto libri e prodotto film propagandistici sulla guerra, pieni di falsi storici: «Non abbiamo bisogno di storia, abbiamo bisogno di leggende sacre», spiegò.
È evidente che Mosca si aspetta dal negoziato con Kiev non soltanto una impossibile resa militare, ma una bandiera bianca ideologica: tra le condizioni per non venire più bombardati ci sarà il riconoscimento della versione russa della storia. Putin, nato nel 1952 da un padre che aveva combattuto al fronte, ha assorbito la versione sovietica della memoria della Seconda guerra mondiale, quella "Grande guerra patriottica" che veniva raccontata nei film come guerra dei russi contro i tedeschi, vinta da Stalin. Ora la sua invidia da ragazzo per non averla combattuta si trasforma nel desiderio di concluderla, non fermandosi a Berlino.
Ma le bombe che sgancia all'alba, senza avvertimento, sulle città ucraine ancora addormentate, ricorda agli ex sovietici, russi e ucraini, il 22 giugno 1941, quando furono i nazisti a bombardare Stalin all'alba dell'invasione. E paradossalmente è Volodymir Zelensky, contrastando l'immagine del presidente russo distanziato di metri dai suoi ministri con i suoi selfie da Kiev, dove rimane insieme al suo popolo, a intercettare con molto più successo la mitologia antifascista della resistenza all'invasore brutale, unificando la nazione intorno a una guerra giusta.
Dagotraduzione dall’Express il 28 febbraio 2022.
Si dice che migliaia di persone stiano cercando di raggiungere gli Stati Uniti per chiedere asilo politico ed evitare di essere costretti a combattere nella guerra con l'Ucraina.
Secondo quanto riferito, gli avvocati statunitensi dell'immigrazione sono stati sopraffatti dalle richieste di uomini russi e delle loro famiglie che chiedevano se l'America garantirà loro protezione politica dopo l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin.
Un numero record di cittadini russi è già entrato negli Stati Uniti dal Messico per chiedere asilo politico negli ultimi mesi, secondo il Telegraph, in risposta alla sempre più brutale repressione dell'opposizione da parte di Putin.
Gli avvocati dell'immigrazione hanno affermato di aspettarsi che i numeri «aumenteranno alle stelle» dopo l'invasione dell'Ucraina, in particolare da uomini in età militare che temono di essere arruolati nell'esercito per combattere gli ucraini. Il governo russo ha già richiamato coscritti e riservisti di età compresa tra i 18 e i 60 anni.
Ma molti russi si sono apertamente opposti alla guerra, con molti che affermano che la battaglia "non è voluta" dal popolo russo. Migliaia di persone si sono unite alle manifestazioni in tutta la Russia la scorsa settimana per protestare contro l'invasione dell'Ucraina, iniziata nelle prime ore di giovedì mattina.
Gli esperti affermano che il numero di persone in fuga dalla Russia in cerca di sicurezza negli Stati Uniti è aumentato drammaticamente negli ultimi mesi.
L'anno scorso, il numero di russi arrestati dai funzionari di frontiera al confine meridionale degli Stati Uniti con il Messico è salito a 9.736, rispetto ai soli 467 del 2020.
L'aumento del numero di russi che cercano di raggiungere l'America è stato collegato alla repressione del dissenso da parte del presidente Putin, che è diventata sempre più spietata da quando sono scoppiate le proteste in tutto il paese l'anno scorso a sostegno del leader dell'opposizione incarcerato Alexei Navalny.
I numeri sono aumentati rapidamente poiché i russi e anche gli ucraini hanno trovato una rotta verso gli Stati Uniti attraversando il confine. Il mese scorso, 1.028 russi e 248 ucraini hanno attraversato il confine meridionale, con la maggior parte che ha attraversato da Tijuana a San Diego, secondo il Telegraph.
Ekaterina Mouratova, un'avvocato di immigrazione russo-americana con sede a Miami, ha affermato di essere stata inondata di e-mail da uomini russi che non vogliono combattere in guerra chiedendo se potevano ottenere protezione negli Stati Uniti per se stessi e le loro famiglie.
Ha detto: «Non siamo mai stati così occupati. Ma il numero sta per salire alle stelle. Ho ricevuto tonnellate di email negli ultimi giorni – centinaia».
«Sono per lo più uomini tra i 20 e i 55 anni che chiedono se possono ottenere protezione dagli Stati Uniti se la Russia effettua una leva militare obbligatoria. Queste persone non vogliono andare in guerra. Le condizioni in Russia stanno diventando sempre più dure e c'è molta instabilità politica nella regione. Sempre più persone cercano una via d'uscita».
Migliaia di russi hanno espresso la loro opposizione alla guerra in Ucraina, rischiando una risposta brutale da parte delle autorità. La repressione del governo sui manifestanti è stata rapida e spietata, con oltre 1500 persone arrestate solo giovedì notte.
La signora Mouratova ha detto che la sua azienda, il Centro per l'immigrazione di Ekaterina Mouratova, ha già a che fare con "dozzine di persone" che sono volate in Messico dalla Russia, dall'Ucraina e dalla vicina Bielorussia.
Ha detto che molti hanno poi preso un percorso da Cancun a Tijuana dove si sono presentati agli agenti di frontiera statunitensi e hanno chiesto asilo politico.
Le rotte legali verso gli Stati Uniti per i russi sono diminuite negli ultimi anni. La pandemia ha limitato i viaggi tra i paesi e ha messo a dura prova i servizi consolari, rendendo difficile per i russi ottenere un visto. Le opzioni sono diventate ancora più limitate con il deterioramento delle relazioni tra i due paesi, con l'ambasciata statunitense a Mosca che non offre più visti turistici.
Ciò ha lasciato ai russi che vogliono raggiungere gli Stati Uniti poca scelta se non quella di prendere la strada dal Messico. Uno dei suoi clienti, Yevgeniy, un direttore di banca di Mosca, ha affermato che c'era stato un crescente risentimento tra il popolo russo per le difficoltà incontrate mentre i politici del paese vivevano nel lusso.
Yevgeniy, che ha fatto il viaggio negli Stati Uniti a settembre con sua moglie, ha detto al giornale: «Quando la gente ha visto lo stile di vita lussuoso che avevano i politici e che non stavano facendo nulla per la gente, molti di noi sono scesi in piazza. Ma le proteste sono diventate violente. Sono stato picchiato e gettato in prigione per darmi una lezione».
Ha detto di essere stato preso di mira dalle autorità dopo aver denunciato i suoi maltrattamenti in prigione. «La gente ha iniziato a minacciare mia madre e ho visto che la polizia stava arrestando persone con false accuse che affermavano che erano estremisti. Un giorno sono venuti nel mio appartamento per sequestrare il mio computer e l'elettronica. Ho detto loro che non c'era niente lì, ma hanno detto che avrebbero sicuramente trovato materiale estremista. Questa non era una minaccia vuota, quindi sono andato a casa di un amico e ho iniziato a cercare dove potevo andare».
Yevgeniy ha avuto l'idea dopo aver visto un video su YouTube pubblicato da un collega russo che aveva fatto il viaggio dalla Russia a San Diego passando per il Messico. Negli ultimi mesi anche un numero crescente di ucraini è fuggito in America attraverso la stessa rotta, facendo viaggi lunghi e costosi in cerca di sicurezza mentre la minaccia della Russia è cresciuta.
La signora Mouratova ha detto che si aspettava che altre migliaia sarebbero venute negli Stati Uniti ora che il loro paese è sotto assedio. Ha detto: «È triste. Ho centinaia di clienti con le stesse storie. Non sono rivoluzionari, sono persone semplici che stanno affrontando conseguenze molto dure. Non sono nemmeno migranti economici. Hanno lasciato tutto alle spalle».
Alessandro Gonzato per "Libero quotidiano" il 28 febbraio 2022.
Lo spettro, tra la gente, è la deoccidentalizzazione. Il ritorno al passato per chi ha vissuto la cortina di ferro. La negazione del futuro per i giovani. L'isolamento. Oggi lo zar è ancora sostenuto dalla maggioranza del suo popolo, e d'altronde 4 anni fa Putin è stato proclamato presidente, col 77% dei voti, per la quarta volta. E però il sentimento popolare, lo testimoniano le manifestazioni di piazza - quasi 3mila gli arresti degli ultimi giorni potrebbe cambiare velocemente, soprattutto a Mosca e San Pietroburgo, nelle grandi città diventate occidentali per stile di vita e che non sono disposte a tornare ai tempi del muro.
Il terrore è di venire tagliati fuori come la Crimea. Nel 2014, con un plebiscito non riconosciuto dalla comunità internazionale, Putin l'ha riportata sotto Mosca. La Crimea era ucraina anche se è sempre stata russa, e la popolazione - basta aver parlato coi cittadini di Yalta, Sebastopoli, o Sinferopoli - voleva tornare tale. Anche allora, prima del voto, nella penisola del Mar Nero entrarono i soldati, ma fu un intervento senza morti o quasi, due, ucraini.
CRIMEA ISOLATA Il 95% degli abitanti - non è mai stato dimostrato alcun broglio - aveva scelto di affrancarsi da Kiev, eppure l'Unione Europea ha imposto alla Russia pesanti sanzioni economiche, che in Crimea, nonostante l'imperioso sviluppo di questi otto anni finanziato da Mosca - infrastrutture, aziende, agricoltura - hanno significato emarginazione dall'Ovest del mondo.
In Crimea le carte di credito occidentali non funzionano. Il telefono va solo con una scheda locale, neppure russa. Dal 2014 ci si può arrivare solo facendo scalo in altri aeroporti della madrepatria. Andare all'estero, per i ragazzi, è complicato. Nelle metropoli russe l'impatto della deoccidentalizzazione sarebbe ancora più pesante.
Diana ha 20 anni, vive a Kitaj-gorod - a pochi passi da Piazza Rossa - e frequenta la facoltà di psicologia all'Università statale di Mosca. A fine marzo dovrebbe andare a Londra per proseguire gli studi ma ha paura di non poter partire, e andrà così. Mikhail di anni ne ha 40, vive a San Pietroburgo dov' è proprietario di un ristorante, e ci dice che è disperato, ché con le nuove sanzioni, gli ulteriori rincari, non potrà che chiudere.
L'Europa ha interdetto alla Russia gli spazi aerei: ieri è stato il turno di Italia e Germania. Mosca ha bloccato alcune funzioni di Facebook, questo perché accusa il colosso americano di censurare i mass media locali. La strategia di Bruxelles è duplice, legata a doppio filo: fiaccare l'economia della Russia e demolirne l'umore in chiave anti-Putin.
Anche lo sport è già stato colpito: la finale di Champions è stata tolta a San Pietroburgo e consegnata a Parigi; la nazionale di calcio rischia l'esclusione d'ufficio dal mondiale del prossimo inverno in Qatar dopo che la Polonia contro cui la Russia avrebbe dovuto giocarsi l'accesso alla competizione il 24 marzo - ha deciso di non scendere in campo, una mossa che mette la Fifa con le spalle al muro; le grandi squadre russe di club saranno obbligate a giocare fuori dal Paese, in campo neutro, le partite di coppa; il Gp di Formula1 in programma a settembre a Soci è stato cancellato dalla federazione internazionale.
«GUERRAFONDAI» Intanto la protesta anti-Putin nelle ultime ore ha coinvolto anche la Bielorussia, il popolo anti-Lukashenko. I serpentoni di ucraini davanti ai bancomat dei primi giorni di crisi hanno cominciato a replicarsi in Russia, nella capitale e nei centri minori. In mattinata la Banca centrale aveva rassicurato i cittadini spiegando che i soldi erano al sicuro e sarebbero stati disponibili in ogni momento.
Ma la gente ha paura, non si fida. Alcuni influenti personaggi dello spettacolo stanno prendendo posizioni dure contro lo zar. In parte della popolazione inizia a farsi largo la preoccupazione di venire etichettati negli anni a venire come guerrafondai. Teme una sorta di razzismo. Gli accordi commerciali con la Cina salveranno la Russia dal tracollo economico, ma potranno poco, sul sentimento popolare, se la Russia verrà ghettizzata dall'occidente.
ROSALBA CASTELLETTI per la Repubblica il 15 aprile 2022.
Un intero promontorio nella penisola sorrentina, una villa all'Olgiata, immobili e terreni a Rimini e Milano, palazzi, negozi e un ristorante a Venezia: vale oltre cento milioni di euro il patrimonio italiano del direttore d'orchestra russo Valerij Gergiev, allontanato dal Teatro della Scala per non aver condannato l'offensiva sferrata in Ucraina dal presidente, e suo mecenate, Vladimir Putin.
A rintracciare i suoi beni da un capo all'altro dello Stivale - che il maestro si guarderebbe bene dal dichiarare - è l'ultima video-inchiesta del team di Aleksej Navalny, l'attivista anti-corruzione condannato a nove anni di carcere, già in cella da oltre 450 giorni. «Un truffatore e un ladro», «un funzionario corrotto », «un codardo», «ipocrita».
L'entourage di Navalny ci va giù pesante nel raccontare come quello che definiscono «l'ambasciatore di Putin nel mondo della cultura» non solo evada le tasse sulle sue immense e dubbie fortune, ma usi i fondi di un'organizzazione di beneficenza a suo nome per arricchire ulteriormente il suo patrimonio e sostenere il suo lussuosissimo stile di vita.
Gergiev possiede un promontorio nel piccolo comune di Massa Lubrense, tra Napoli e Sorrento, per un totale di 5,6 ettari: «mare, rocce, verde: una bellezza incredibile», dicono Maria Pevchikh e Georgij Alburov, responsabili delle inchieste del team di Navalny. Più a Nord, ecco la villa all'Olgiata, periferia Nord di Roma, da 18 camere e piscina. Sulla costa adriatica, a Rimini, Gergiev possiede decine di lotti e fabbricati, un bar, il ristorante "United Tastes of Hamerica' s", campi da baseball, un camping e un luna park per quasi 30 ettari totali.
A Milano il maestro annovera ben 80 ettari di terreni. A Venezia, infine, i possedimenti più lussuosi: il Palazzo Barbarigo con la facciata decorata da mosaici in vetro di Murano e un altro palazzo cinquecentesco da almeno 20 milioni di euro, nonché il ristorante Quadri risalente al 1775 e vari locali in Piazza San Marco.
Questo variegato patrimonio immobiliare da oltre 100 milioni di euro proverrebbe da un lascito fatto, alla sua morte nel 2015, dall'arpista giapponese Yoko Nagae, a sua volta ereditiera del defunto conte Renzo Ceschina, che fu a lungo il benefattore del Teatro Mariinskij diretto da Gergiev.
Alcuni di questi beni (tra cui altre sette case a Milano, già vendute per 47 milioni di euro), sono stati trasmessi al maestro direttamente, altri a società di cui egli sarebbe il principale o unico socio. È il caso, ad esempio, di "Commercio Edilizio Srl" proprietaria dei due palazzi che si affacciano sul Canal Grande. A riprova, il team di Navalny si è procurato gli atti di registrazione presso la Camera di Commercio italiana dove Valerij Gergiev risulta per di più cittadino olandese.
Pevchikh e Alburov si soffermano anche su altre proprietà di Gergiev: un appartamento da 165 metri quadri a New York, un altro a Mosca, tre a San Pietroburgo, una dacia con sala da concerto privata a Repino. Molte Gergiev le avrebbe acquistate stornando soldi da una Fondazione di beneficenza a suo nome che, in quattro anni, ha ricevuto più di 47 milioni di euro da società pubbliche russe come le banche Vtb, Sberbank, Gazprombank, ma anche da Mastercard, Nestlé, Pwc.
Gergiev, ricordano i collaboratori di Navalny, ha diretto i principali eventi musicali organizzati dal Cremlino, anche in teatri di conflitto, come il concerto tra le rovine di Tskhinval dopo l'invasione della Georgia nel 2008 o quello a Palmira dopo l'offensiva aerea russa in Siria. «Ha sostenuto silenziosamente e umilmente l'operazione in Ucraina. ed è stato ricompensato », ricordano Pevchik e Alburov: a fine marzo Putin gli ha assegnato la direzione del Teatro Bolshoj insieme a quella del Mariinskij.
Ecco perché, concludono i due, andrebbe sanzionato. «Il suo talento è subordinato alla guerra, alla morte e alla distruzione».
Irene Soave per il "Corriere della Sera" il 28 febbraio 2022.
Sembra passato un secolo da che Valerij Gergiev dirigeva l'Orchestra Mariinskij a Tskhinvali, capitale dell'Ossezia del Sud in piena guerra: la bandiera russa sul boccascena, i militari nel pubblico, Gergiev aveva tenuto un discorso di plauso all'offensiva contro la Georgia. Era il 2008. Ora Gergiev è espulso dai teatri di mezza Europa: la Wiener Philharmoniker non lo vuole, la Scala lo sostituirà. Vicino a Putin, non ha preso le distanze dall'aggressione all'Ucraina.
È rimasto tra i pochi a non farlo. Sulla stessa ribalta da cui sarà bandito, alla Scala, è salita avvolta nella bandiera gialloblu la mezzosoprano Valentina Pluzhnikova, ucraina. La superstar dell'opera Anna Netrebko, russa, è intervenuta su Instagram: «Mi oppongo a questa guerra, che mi spezza il cuore». Aggiunge: «Ma non è giusto costringere gli artisti a denunciare la propria patria». L'attore e produttore Danila Kozlovsky, non ignoto da noi né a Hollywood ( Vampire Academy , Vikings , McMafia ) ma in Russia davvero superstar, ha postato un celebre «no» alla guerra.
«Ho sempre creduto che patriottismo sia dire la verità (...) Ora è il momento. Mi chiederete: dove sei stato in tutti questi anni? Risponderò: e dove, perdio, siete stati voi?». Come lui tanti si schierano per la prima volta, rischiando di perdere ingaggi con le tv filogovernative (quasi tutte) o nei grandi teatri. Popstar come Valery Meladze e Svetlana Loboda, la rockstar Zemfira Ramazanova, la Miss Russia 2009 Ksenja Shipilova; la presentatrice Anastasia Ivleeva; i suoi colleghi Ivan Urgant e Maksim Galkin, anche marito dell'icona già sovietica Alla Pugacheva, una sorta di Mina nazionale.
Scrivono su Instagram messaggi contro il conflitto, citano parenti e amici in Ucraina, ripetono tutti: "niet voine ", no alla guerra. Tra gli sportivi: la pattinatrice artistica Evgenia Medvedeva, la pallavolista Katya Gamova, i calciatori. Il portiere della Juventus Woycszek Szczesny guida la diserzione della nazionale polacca alle qualificazioni mondiali contro la Russia, il 26 marzo (per ora rischiano di perdere a tavolino).
Il compagno di squadra Lewandowski va in campo da capitano del Bayern con la bandiera ucraina sulla fascia. Meno costoso, ma più visibile, è l'appello di tante star internazionali: Madonna pubblica il remix della sua Sorry dedicando il verso "non sopporto più le tue bugie" a Putin. Milla Jovovich, radici ucraine, si dice «spezzata in due». Meghan Markle e consorte mandano un messaggio di vicinanza al popolo ucraino.
Twittano Jared Leto e Stephen King («quando un bambino grande ai giardinetti ne pesta uno piccolo, non stai a guardare»); Priyanka Chopra e Miley Cyrus solidarizzano su Instagram. Ma i pacifisti più impensabili arrivano dall'establishment vicino a Putin. La prima è Lisa Peskova, figlia 24enne di Dmitriy Peskov, proprio il portavoce del Cremlino.
Poi Sofia, la figlia 27enne di Roman Abramovich, forse il più famoso tra gli oligarchi, scrive che «è Putin, non la Russia, a volere la guerra»; e la figlia di Boris Eltsin Tatiana Yumasheva, 62 anni condanna la guerra su Facebook. Voci che fanno rumore, anche perché silenti fino a poco fa.
Da "il Messaggero" il 28 febbraio 2022.
La repressione della polizia è brutale e non guarda in faccia nessuno. Gli agenti in assetto anti sommossa che presidiano le strade invase dai manifestanti in decine di città russe trascinano via anziani, donne, ragazzi. Intanto la guerra in Ucraina ha dato forse per la prima volta la forza a molti russi, anche famosi, di ribellarsi allo zar.
Dal caso di Sofia Abramovich, figlia dell'oligarca e patron del Chelsea Roman, da sempre ritenuto vicino a Vladimir Putin, al tennista Andrej Rublev, per citare solo alcuni dei più famosi. Dai social comunque rimbalzano le immagini di una protesta coraggiosa contro l'invasione dell'Ucraina che testimonia di un disagio che nemmeno la paura del carcere riesce a fermare.
Con una storia su Instagram la figlia di Abramovich ha attaccato Putin modificando un post che recitava «la Russia vuole la guerra con l'Ucraina» in «Putin vuole una guerra con l'Ucraina». «La bugia più grande e di maggior successo della propaganda del Cremlino è che la maggior parte dei russi è dalla parte di Putin», diceva poi il suo messaggio.. «No war please», niente guerra per favore, ha scritto invece Rublev, numero 7 del mondo, con il pennarello sul vetro della telecamera dell'emittente sportiva canadese Tsn che lo stava intervistando dopo la sua vittoria sui campi di Dubai.
Ma sulla scena della protesta si affacciano cautamente anche altri nomi di insospettabili. «Serve la pace, i colloqui tra Russia e Ucraina devono iniziare il prima possibile!», ha scritto sul suo canale Telegram l'oligarca Oleg Deripaska, molto vicino al presidente russo. Si è addirittura scusato il capodelegazione russo alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite, Oleg Anisimov, definendo «ingiustificabile» l'invasione russa dell'Ucraina.
Dopo la denuncia della guerra da parte di celebrità russe come il seguitissimo anchor Maksim Galkin, la rockstar Zemfira Ramazanova, il cantante Valery Meladze, anche il rapper Oxxcymiron, già in passato critico di Putin, ha cancellato indefinitamente sei concerti già sold out a Mosca e a San Pietroburgo. «Non posso intrattenervi quando i missili russi stanno cadendo sull'Ucraina», ha spiegato. Con un post sul suo account Instagram, si è dissociato pubblicamente anche l'attore Danila Kozlovsky, che definisce la guerra «una catastrofe».
Anche il mondo dell'arte si mobilita. Il Garage Museum of Contemporary Art, conosciuto semplicemente come Garage Museum, galleria di Mosca fondata da Daa ukova e dall'ex marito Roman Abramovich nel 2008, ha pubblicato una immagine nera su Instagram con un messaggio in cui si legge: «La squadra del Garage Museum ha deciso di fermare il lavoro su tutte le esposizioni fino a che la tragedia umana e politica che si sta dispiegando in Ucraina finirà. Non possiamo sopportare l'illusione della normalità quando accadono questi eventi», continuava il post.
Tornando alle manifestazioni, le autorità russe hanno arrestato in tutto 5.794 persone per aver partecipato a proteste contro la guerra in Ucraina. Lo riferisce il sito Ovd-Info, che si occupa di diritti umani. Solo ieri oltre 900 attivisti sono stati fermati durante i cortei che hanno attraversato 44 città della Russia, da Mosca alla Siberia.
«No alla guerra» gridava la gente che per il quarto giorno consecutivo ha protestato invadendo da una parte e dall'altra la Newsky prospekt, centralissima strada di San Pietroburgo, teatro anche ieri di una protesta pacifica sgomberata con violenza dalla polizia.
Segnali di opposizione arrivano intanto anche da dentro l'esercito. Soldati russi da tutte le zone del Paese sono stati ingannati e costretti ad andare al confine ucraino, alcuni anche picchiati se facevano resistenza. È la denuncia del Comitato delle madri dei soldati organizzazione non governativa che si occupa di denunciare le violazioni dei diritti umani all'interno delle forze armate nell'ex unione sovietica.
Anche in Bielorussia, regime vicinissimo a Vladimir Putin, la gente è scesa in piazza contro la guerra e contro il coinvolgimento del regime del presidente Alexandr Lukashenko. E a far rimbalzare la protesta su Twitter, con un video, ci ha pensato la leader dell'opposizione Sviatlana Tsikhanouskaya.
(ANSA il 28 febbraio 2022) - "Oggi voglio parlare a nome di ogni bambino del mondo. Tutti hanno sogni, la loro vita è appena iniziata: i primi amici, le prime grandi emozioni". Il nuovo numero 1 mondiale del tennis, il russo Daniil Medvedev, su Instagram lancia un appello.
"Tutto ciò che sentono e vedono è la prima volta nella loro vita. Per questo - aggiunge il russo - voglio chiedere la pace nel mondo, tra i paesi. I bambini nascono con una fiducia interiore nel mondo, credono in tutto: nelle persone, nell'amore, nella sicurezza e nella giustizia, nelle loro chance. Stiamo insieme e mostriamo loro che è vero: ogni bambino non dovrebbe smettere di sognare".
Da fanpage.it il 3 marzo 2022.
Sono tanti i personaggi del mondo dello spettacolo che in questi giorni stanno esprimendo il loro pensiero sulla situazione tra Russia e Ucraina. Attori e cantanti, italiani e internazionali, si stanno servendo di social media e televisioni per manifestare la loro solidarietà alle popolazioni in difficoltà a seguito dell'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, avvenuta lo scorso 24 febbraio. Tra coloro che hanno condiviso i propri pensieri c'è anche l'attore Steven Seagal, cittadino russo dal 2016, che parlando a Fox News Digital ha fatto sentire la sua voce.
Ai microfoni dell'emittente televisiva, l'attore ha espresso il suo pensiero sulla guerra tra Russia e Ucraina, spiegando di considerare entrambi i Paesi come «un'unica famiglia». Seagal ha ottenuto nel 2016 la cittadinanza russa e nello Stato guidato da Vladimir Putin ha amici e parenti: «La maggior parte di noi ha amici e familiari in Russia e Ucraina. Credo davvero che ci sia un'entità esterna che spende enormi somme di denaro in propaganda per creare disaccordo tra i due Paesi». L'attore spera che presto i due Stati trovino un accordo e cessino i conflitti: «Le mie preghiere sono che entrambi i paesi raggiungano una risoluzione positiva e pacifica in cui poter vivere e prosperare in pace».
Seagal segue molto da vicino la questione tra Russia e Ucraina perché in un certo senso la sua vita si è legata a entrambi gli Stati. Nel 2017, infatti, ha ottenuto la cittadinanza russa da Vladimir Putin in persona, verso cui ha sviluppato una certa ammirazione e con cui è nata un'amicizia. In passato, in un'intervista al quotidiano russo Rossiskaia Gazeta, lo aveva definito uno dei maggiori leader mondiali, quasi un fratello. Sempre nel 2017, il ministro degli Esteri russo l'ha nominato anche ambasciatore per le relazioni culturali con gli Stati Uniti.
Insomma, un rapporto di grande affinità con la Russia, che però gli è costato il divieto di entrare in Ucraina. Per lo Stato guidato ora da Zelensky, la star di Under Siege avrebbe commesso azioni socialmente pericolose, tanto da arrivare a bandirlo dal proprio territorio per cinque anni.
Da secoloditalia.it il 2 marzo 2022.
Oltre 6000 fra studiosi, scienziati e giornalisti scientifici russi hanno firmato un appello per fermare la guerra in Ucraina, esprimendo una durissima condanna nei confronti di Mosca. «La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia», si legge nella lettera aperta, che si conclude chiedendo «l’immediata sospensione di tutte le azioni militari condotte contro l’Ucraina»; «il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dello Stato ucraino»; «la pace per i nostri due Paesi!».
La condanna degli scienziati russi
«Noi, studiosi, scienziati ed esponenti del giornalismo scientifico russi, esprimiamo una decisa protesta contro le azioni di guerra intraprese dalle forze armate del nostro Paese contro i territori dell’Ucraina. Questo passo fatale comporta innumerevoli vite umane e mina le basi del sistema consolidato della sicurezza internazionale», è l’inizio della lettera pubblicata per la prima volta sul sito Troickij variant il 24 febbraio, vale a dire il giorno stesso dell’invasione russa in Ucraina.
«La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia. Per questa guerra non ci sono giustificazioni», si legge ancora nella lettera aperta, rilanciata in Italia, tra gli altri, dall’Accademia dei Lincei, che ha fatto proprio un analogo atto di condanna espresso dall’Allea, l’European Federation of Academies of Sciences and Humanities.
Contro l’Ucraina una guerra «ingiusta e priva di senso»
«I tentativi di sfruttare la situazione del Donbass come occasione per aprire un teatro di guerra non sono per niente credibili. È del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro Paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso», scrivono gli esponenti del mondo scientifico russo, aggiungendo che «l’Ucraina è stata e continua ad essere un Paese a noi vicino».
«Molti di noi hanno parenti, amici e colleghi che condividono le nostre ricerche scientifiche. I nostri padri, nonni e bisnonni hanno combattuto assieme contro il nazismo. L’atto di scatenare una guerra per le ambizioni geopolitiche del governo della Federazione Russa, mosso da dubbie fantasie storiche, rappresenta un cinico tradimento perpetrato alla loro memoria», proseguono gli scienziati, chiarendo di «capire» la scelta europea dell’Ucraina e invocando una soluzione pacifica dei problemi tra Mosca e Kiev.
«La Russia si autocondanna all’isolamento»
«Scatenando questa guerra – si legge ancora nella lettera – la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di Paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri.
L’isolamento della Russia dal mondo comporta un ulteriore degrado, culturale e tecnologico, del nostro Paese e una totale mancanza di prospettive positive». «La guerra con l’Ucraina è un salto nel buio», avvertono dunque gli scienziati russi, che ora, come avevano previsto in anticipo, si trovano a fare i conti con le conseguenze dell’aggressione russa sul loro lavoro.
Guerra in Ucraina, Zelensky: «I soldati russi sono bambini confusi e usati». Il presidente Zelensky nella notte ha assicurato una resistenza feroce da parte dei suoi uomini contro l'invasore russo. «Non avranno pace, li cacceremo». Il Dubbio il 3 marzo 2022.
«Ovunque andranno, saranno distrutti. Qui non avranno calma, non avranno cibo, non avranno un solo momento di tranquillità. Gli occupanti riceveranno solo una cosa dagli ucraini: la resistenza. Una resistenza feroce. Una resistenza tale che ricorderanno per sempre che non rinunciamo a ciò che è nostro, che ricorderanno cos’è una guerra patriottica». Lo afferma il presidente ucraino Volodimir Zelensky in un nuovo messaggio tv.
«Il nostro esercito sta facendo di tutto per spezzare completamente il nemico. Quasi 9.000 russi sono stati uccisi in una settimana. A Nikolaevsk, gli occupanti sono costretti a usare decine di elicotteri per raccogliere i loro morti e feriti – 19 e 20 anni. Cosa hanno visto nella loro vita se non questa invasione? Ma la maggior parte di loro sono lasciati dappertutto. L’Ucraina non vuole essere coperta dai corpi morti dei soldati. Andate a casa. Con tutto il vostro esercito. Dite ai vostri ufficiali che volete vivere. Che non volete morire ma vivere. Dobbiamo fermare la guerra e ristabilire la pace il più presto possibile».
«Sono convinto – conclude Zelensky – che se sono arrivati da qualche parte, allora sarà temporaneamente. Li cacceremo via. Con disonore. Come quella gente comune che scaccia gli occupanti dai negozi di alimentari dove i soldati russi vanno a cercare cibo e qualcosa da mangiare. Questi non sono guerrieri di una superpotenza. Sono bambini confusi che sono stati usati. Portateli a casa».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 marzo 2022.
In lacrime, i prigionieri di guerra russi confessano che non avevano ''idea di essere stati inviati a invadere l'Ucraina'' e che sono stati usati come «carne da cannone» dai loro comandanti che li hanno lanciati in battaglia contro «persone pacifiche che difendevano il loro territorio» dopo che le forze di Vladimir Putin hanno subito pesanti perdite nei giorni di apertura del conflitto.
«Questa non è la nostra guerra. Madri e mogli, richiamate i vostri mariti. Non c'è bisogno di essere qui», ha detto un soldato russo ferito seduto davanti a una bandiera ucraina.
Altri filmati mostrano un prigioniero russo ammanettato che piange, mentre dice: «Non raccolgono nemmeno i cadaveri, non ci sono funerali. Ci hanno mandato a morire».
L'Ucraina afferma che la Russia ha perso 5.840 soldati nei primi giorni del conflitto: gli uomini di Putin volevano ottenere una rapida vittoria ma invece hanno incontrato una dura resistenza da parte delle forze ucraine e hanno subito una serie di sconfitte imbarazzanti.
Da allora l'avanzata della Russia è stata rallentata per dare modo all'apparato. militare di riorganizzarsi, cambiare strategia e rinnovare il loro assalto in quella che ora dovrebbe diventare una guerra di risorse sempre più sanguinosa con gli uomini di Kiev che affrontano difficoltà schiaccianti. Il ministero della Difesa ha affermato che la Russia ha rinnovato la lotta su "tutti i fronti" e «ha subito perdite».
Sebbene sia l'intelligence statunitense che quella ucraina ritengano che il morale all'interno dei ranghi russi sia a terra, Putin e i suoi militari non hanno mostrato alcun segno di ritirata e hanno invece promesso di attaccare ancora di più per cercare di raggiungere gli obiettivi chiave.
Sergey Shoigu, il ministro della Difesa del Paese, ha dichiarato martedì che l'offensiva proseguirà fino al completamento di tutti gli obiettivi.
Volodymyr Zelensky ha affermato che la Russia sta cercando di cancellare l'Ucraina e il suo popolo mentre l'invasione di Vladimir Putin è entrata oggi nel suo settimo giorno con rinnovati attacchi su tutti i fronti, incluso un previsto assalto alla città che ospita la più grande centrale nucleare d'Europa.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 marzo 2022.
Secondo le registrazioni vocali ottenute da una compagnia di intelligence britannica, i soldati russi che prendono parte all'invasione dell'Ucraina sono "allo sbando". I messaggi radio intercettati fanno pensare che le truppe si rifiutino di obbedire agli ordini del comando centrale di bombardare le città ucraine e si lamentino dell'esaurimento delle scorte di cibo e carburante.
Le registrazioni fanno parte di circa 24 ore di materiale ottenuto dalla società di intelligence ShadowBreak dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina. In una delle conversazioni intercettate, ascoltata da The Telegraph, un soldato sembra piangere.
In un altro, si sente un soldato perdere la pazienza quando chiede quando arriverà cibo o carburante. Dice: «Siamo qui da tre giorni! Quando diavolo sarà pronto?».
Un terzo messaggio rivela uno scambio teso in cui lo stesso soldato deve ricordare a un collega che parla da un centro di comando che non possono usare l'artiglieria in un'area finché i civili - che vengono etichettati come "oggetti" - non se ne saranno andati.
Il fondatore di ShadowBreak, Samuel Cardillo, 26 anni, ha detto al Telegraph: «Quello che abbiamo scoperto è che gli operativi russi stanno operando in completo disordine». «Non hanno la più pallida idea di dove stanno andando e di come comunicare davvero tra loro in modo corretto».
Ha aggiunto: «Ci sono stati periodi in cui li abbiamo sentiti [soldati russi] piangere in combattimento, un periodo in cui si insultavano a vicenda, ovviamente non un segno di morale alto». Cardillo ha affermato che alcuni dei messaggi erano anche "prove di crimini di guerra" perché rivelavano l'ordine di lanciare missili nelle aree urbane.
Altre video mostrano soldati russi che si ritirano, mentre un soldato avrebbe inviato un sms alla madre: «L'unica cosa che voglio in questo momento è uccidermi».
In un ulteriore segno che il morale potrebbe essere tetro, martedì un alto funzionario della difesa degli Stati Uniti ha detto al New York Times che alcune truppe hanno «deliberatamente fatto dei buchi» nei serbatoi di benzina dei loro veicoli nella speranza di evitare il combattimento.
Parti dell'esercito russo stanno ancora utilizzando radio ricetrasmittenti analogiche "walkie talkie", rendendole più vulnerabili alle intercettazioni. Si dice anche che le forze ucraine non abbiano avuto problemi a disturbare le comunicazioni russe e ad interromperle con il suono del loro inno nazionale.
Invece, le forze ucraine sono ora al nono giorno di resistenza all'attacco russo e diversi video rivelano civili che affrontano le truppe e i convogli invasori.
Da lastampa.it il 2 marzo 2022.
L'ambasciatore ucraino all'Onu, Sergiy Kyslytsya, durante la riunione speciale di emergenza dell'Assemblea generale, ha letto i messaggi dallo smartphone di un soldato russo morto in guerra.
Alla madre che gli chiedeva delle esercitazioni in Crimea, rispondeva «Mamma ma che Crimea, sono in Ucraina, qui c'è una guerra. Bombardiamo anche i civili» e prosegue «Ci chiamano fascisti mamma, è così difficile, ho paura».
“I nostri figli mandati in guerra con l’inganno”, le proteste delle madri dei soldati russi contro Putin. Vito Califano su Il Riformista l'1 Marzo 2022.
Secondo il sito indipendente OVD-Infogruppo che si occupa della tutela dei diritti umani in Russia sono quasi seimila le persone arrestate nel Paese per le proteste contro l’invasione dell’Ucraina. Non solo: anche le madri dei militari spediti in guerra manifestano contro il Cremlino e il Presidente Vladimir Putin. “Li hanno ingannati – dice Andrey Kurochkin, vicepresidente del Comitato delle madri dei soldati russi, a Il Corriere della Sera – Fanno sempre così. I tempi cambiano, ma la guerra è sempre uguale”.
L’organizzazione era nata alla fine degli anni ’80 dopo che l’Armata Rossa era rimasta impantanata in Afghanistan dopo l’invasione alla fine degli anni ’70. Secondo quanto scrive il quotidiano molti ragazzi si sono ritrovati in guerra a loro insaputa: erano partiti per una esercitazione in Bielorussia della durata di un mese. “Mio figlio è partito per il servizio militare nel dicembre del 2021, e ora sta combattendo in Ucraina”, si legge sul canale Telegram del Comitato. Tanti sarebbero quindi militari di leva, non professionisti. “Due bambini”, i primi due militari russi fatti prigionieri dopo l’invasione del 24 febbraio. Così li aveva descritti Anton Gherascenko, consigliere del ministro ucraino degli Interni. Uno era Rafik Rakhmankulov, 19 anni, di Petrovka.
L’arresto era stato subito bollato come fake news dai media russi. I genitori dei due hanno invece raccontato a BBC e media indipendenti che i loro figli non sapevano di essere destinati all’Ucraina, nonostante la legge russa consenta l’invio dei soldati in zone di combattimento solo dopo quattro mesi dall’inizio del servizio professionale nell’esercito. “Non so se qualcuno ci ascolterà, ma è certo che questa mobilitazione così improvvisa di ragazzi ancora impreparati alla guerra non si era mai vista”, ha commentato Kurochkin che con l’organizzazione raccoglie i dati dei soldati di leva da trasmettere alla procura militare e al ministero della Difesa.
Secondo pareri tecnici militari i russi non hanno ancora spinto al massimo la propria macchina armata. Probabilmente la resistenza ucraina e le forze di Kiev erano stata sottovalutate da Mosca. Si procede al momento soprattutto con l’artiglieria. Al momento un convoglio di circa 60 chilometri delle forze russe è in colonna verso la capitale stamattina. Si potrebbe andare verso un vero e proprio assedio di Kiev. Dopo le sanzioni imposte dall’Unione Europea e dell’Occidente, il Presidente russo Putin ha messo in stato d’allerta le forze di deterrenza russe, vale a dire le forze strategiche dell’esercito che comprendono mezzi e sistemi militari di attacco e di difesa, tra cui le armi nucleari. Secondo le Nazioni Unite dall’inizio del conflitto, sei giorni fa, sono oltre 400 le vittime civili.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Le madri russe: «I nostri figli spediti in guerra con l’inganno». Marco Imarisio, inviato a Mosca, su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
La denuncia del Comitato: «I coscritti vengono in qualche modo obbligati alla firma del contratto militare, e subito dopo vengono spediti al confine con l’Ucraina»
«Li hanno ingannati». Andrej Kurochkin fa una lunga pausa. Poi aggiunge che non si tratta di una novità. «Fanno sempre così. I tempi cambiano, ma la guerra è sempre uguale».
L’ultimo domicilio conosciuto del Comitato delle madri dei soldati russi era appena dietro il palazzo della Lubjanka che fu sede del Kgb. In fondo a un vicolo fangoso, al pianoterra di un cortile, accanto ai bagni comuni. Già non se la passavano bene, poi li hanno anche mandati via, bollati come agente straniero, accusati di ricevere denaro dagli Stati Uniti, infine costretti anch’essi alla diaspora tra Lettonia e Germania. L’organizzazione non governativa, della quale Kurochkin è vicepresidente operativo, è nata alla fine degli anni Ottanta, ai tempi della ritirata dell’esercito sovietico dall’Afghanistan. Arruolamento forzato degli studenti, casi di nonnismo, assistenza ai reduci, lasciati soli da un impero in disfacimento.
Sono rimasti un punto di riferimento. E fin da subito hanno cominciato a ricevere messaggi di famiglie preoccupate per la sorte dei loro figli, militari di leva, non certo soldati professionisti, e in molti casi neppure intenzionati a diventarlo, che all’improvviso si sono ritrovati in prima linea. «I coscritti vengono in qualche modo obbligati alla firma del contratto militare, e subito dopo vengono spediti al confine con l’Ucraina». Molti di loro sono entrati in guerra senza saperlo. Gli era stato detto che il loro ultimo servizio sarebbe stato una esercitazione in Bielorussia della durata di un mese. I ragazzi da poco sotto le armi vengono mandati al confine per le esercitazioni, e all’improvviso chiamano a casa per dire che il loro status di soldato è cambiato, così come la loro missione. Alcune conferme affiorano anche dal web. «Mio figlio è partito per il servizio militare nel dicembre del 2021, e ora sta combattendo in Ucraina» scrive una donna sul canale Telegram del Comitato.
A far crescere l’angoscia e il panico delle famiglie c’è anche l’inevitabile propaganda di guerra al tempo dei social. Il 24 febbraio, primo giorno dell’invasione, Anton Gherascenko, consigliere del ministro ucraino degli Interni, ha pubblicato su Facebook la foto dei primi due militari russi fatti prigionieri. «Due bambini» ha commentato. E non aveva torto. Uno di loro si chiamerebbe Rafik Rakhmankulov, diciannovenne di Petrovka, nella regione di Saratov. I canali federali della televisione russa hanno subito bollato come fake news questa notizia. Ma le televisioni indipendenti hanno parlato con il padre del ragazzo, mentre il servizio russo della Bbc ha intervistato una donna che sostiene di essere la madre del secondo soldato, anche lui diciannovenne. Entrambi hanno detto che i loro figli non sapevano di essere destinati all’Ucraina. La legge russa consente l’invio dei soldati in zone di combattimento solo dopo che sono trascorsi quattro mesi dall’inizio del loro servizio professionale nell’esercito. Quindi, né i coscritti né i soldati di prima firma dovrebbero trovarsi al fronte. Altre testimonianze raccontano di un avvicinamento repentino a quello che sarebbe diventato il fronte. Due giorni prima dell’invasione, sarebbe stato trasferito nella regione di Belgorod, vicino al confine ucraino. E da lì, sono entrati.
«Stiamo raccogliendo i dati dei soldati di leva per trasmettere queste informazioni alla procura militare, al ministero della Difesa, e ad altri ministeri» dice Kurochkin con un tono di voce poco convinto. «Non so se qualcuno ci ascolterà, ma è certo che questa mobilitazione così improvvisa di ragazzi ancora impreparati alla guerra non si era mai vista». Anche lui si chiede se sia dovuta a una guerra decisa in fretta, oppure se sia un segno di debolezza del sistema militare. L’unica certezza è che le voci delle famiglie dei coscritti cadranno nel vuoto. Le autorità russe hanno problemi più urgenti. Ieri il comando generale dell’esercito ha dovuto ammettere di aver subito perdite umane in Ucraina. Un comunicato di poche righe, senza alcuna cifra, senza alcun riferimento a morti o feriti.
Giuseppe Agliastro per “La Stampa” il 26 febbraio 2022.
(…) Secondo l'ong Ovd-Info, oltre 900 manifestanti sono stati fermati giovedì a Mosca e, in totale, più di 1.800 in tutta la Russia. «Per legge, questi cittadini non hanno il diritto di tenere manifestazioni ed esprimere il loro punto di vista a meno che non rispettino determinate procedure»: è stata questa la spiegazione del portavoce di Putin, Dmitry Peskov.
«Ci possono essere picchetti in solitaria - ha aggiunto - ma tali eventi, li definirei massicci, che coinvolgono un certo numero di persone, semplicemente non sono consentiti dalla legge». Vietato protestare insomma.
E in un Paese in cui il dissenso viene represso sempre più duramente, il rischio è quello di essere arrestati. I tribunali russi stanno già emettendo le prime sentenze. Kirill Goncharov, numero due della sezione moscovita del partito d'opposizione Yabloko, è stato per esempio condannato a dieci giorni di arresto con l'accusa di aver partecipato all'organizzazione della manifestazione pacifista di giovedì nel centro di Mosca. Mentre - secondo la testata Rbk - al direttore di una fondazione medica di San Pietroburgo sono stati inflitti 20 giorni di arresto.
(…) In Russia ci sono intellettuali, attivisti e persone comuni che si sono subito schierati contro la guerra. Una petizione online contro l'invasione dell'Ucraina ha raccolto oltre mezzo milione di firme in appena un giorno. «Prendete parte al movimento contro la guerra, opponetevi alla guerra.
Fate questo per mostrare al mondo intero che in Russia c'erano, ci sono e ci saranno persone che non accetteranno le bassezze perpetrate dalle autorità», recita il testo. Un messaggio chiaro: una netta presa di distanza dalla decisione di Putin di attaccare l'Ucraina e portare la guerra nel cuore dell'Europa. Yelena Kovalskaya, direttrice del teatro statale Meyerhold di Mosca ha annunciato le sue dimissioni affermando che è «impossibile lavorare per un assassino e ricevere lo stipendio da lui».
«Paura e dolore. No alla guerra», ha scritto su Instagram il conduttore Ivan Urgant, e si è schierato sulla stessa linea anche l'attore Maksim Galkin: «Come è possibile tutto ciò?», ha scritto. «Non può esserci una guerra giusta. No alla guerra!». (…)
Da tg24.sky.it il 25 febbraio 2022.
Almeno 1830 persone sono state fermate ieri in decine di città della Russia per avere manifestato contro l'intervento militare in Ucraina, secondo quanto riferisce il sito dell'opposizione Ovd-Info
Proteste contro la guerra in Ucraina si sono svolte dal pomeriggio in 53 città del Paese, rende noto il sito indipendente Ovd-Info, denunciando l'arresto di 1830 persone. A Mosca alcune centinaia di manifestanti si sono radunati vicino al monumento a Pushkin gridando 'no alla guerra’. La piazza è stata poi chiusa
Numerosi anche gli arresti a San Pietroburgo, dove i manifestanti si erano raccolti presso Gostiny Dvor
Era dal ritorno e del successivo arresto di Aleksei Navalny in Russia nel gennaio dello scorso anno che non si svolgevano proteste così diffuse in tutto Paese. L'arresto allora di migliaia di persone, così come l'avvio di procedimenti giudiziari a carico degli attivisti e l'inserimento di diverse organizzazioni nell'elenco delle ong estremiste e terroriste,, avevano costretto gli organizzatori delle manifestazioni a chiedere la fine delle proteste
Manifestare contro le politiche del governo in Russia comporta serie conseguenze dopo le dure leggi introdotte per scoraggiare l'opposizione di piazza
Per questo, la protesta ieri correva sui social: molti utenti russi hanno cambiato la loro foto profilo con un quadrato nero in simbolo di lutto o hanno aggiunto la bandiera ucraina sotto la loro immagine
Alcuni volti noti del mondo dello spettacolo, come il conduttore Ivan Urgant, hanno postato messaggi come "Paura e dolore. No alla guerra", senza mai nominare il presidente Vladimir Putin, ma in un gesto che in Russia può portare a ritorsioni
Il direttore della Novaya Gazeta Dmitry Muratov, che l’anno scorso ha vinto il premio Nobel per la Pace, ha anche detto che pubblicherà l'edizione di domani del giornale sia in russo che in ucraino. Ha scritto: "Non riconosciamo l'Ucraina come un nemico e la lingua ucraina come la lingua del nemico. E non lo ammetteremo mai"
Dmitry Peskov: «Ci sono cittadini che possono avere il proprio punto di vista. Ma questi cittadini non hanno il diritto per legge, senza seguire le procedure appropriate, di organizzare azioni per indicare il loro punto di vista. Se possono fare picchetti singoli, ma non di massa o eventi con la partecipazione di un certo numero di persone - semplicemente non sono consentiti dalla legge. E così sono state prese alcune misure. Il Presidente ascolta il parere di tutti e comprende, diciamo, le ragioni di chi ha un punto di vista diverso, e di chi è solidale con operazioni così forzate».
Da lastampa.it il 26 febbraio 2022.
E' diventato virale un video risalente a lunedì scorso dove Putin riferisce sull'imminente decisione riguardo all'indipendenza delle due repubbliche separatiste ucraine. Il capo dei servizi di intelligence esterni, Sergei Naryshkin, si era "spinto" anche oltre parlando di una loro annessione alla Russia, ma è stato subito richiamato all'ordine da Putin con uno scambio di battute gelide. Putin aveva dichiarato che non si stava discutendo di questo ma della loro indipendenza.
Putin ha estromesso il suo capo di Stato maggiore Gerasimov? Paolo Mauri su Inside Over il 26 febbraio 2022.
Negli ultimi minuti si sono rincorse voci sulla possibile estromissione, da parte del presidente russo Vladimir Putin, del generale Valery Vasilyevic Gerasimov, attuale capo di Stato maggiore delle Forze armate della Federazione russa. Gerasimov, uno dei maggiori strateghi militari di Mosca, è noto per il suo famoso articolo sulla Hybrid Warfare pubblicato nel 2013 su Voenno-Promyshlennyj Kuryer (traducibile come “il corriere militare-industriale”) The value of science is in the foresight: new challenges demand rethinking the forms and methods of carrying out combat operations che dettaglia ulteriormente il modello di Guerra Ibrida precedentemente messo a punto dai generali Gareev e Slipcenko aggiungendo un mix di componenti diplomatiche, pressione economica e politica e altre ingerenze non militari (facendo tesoro quindi della metodologia occidentale) per riuscire ad annientare il nemico, magistralmente messo in atto durante il colpo di mano in Crimea (ma molto meno riuscita in Donbass).
Media ucraini riportano che Oleksiy Goncharenko, deputato di European Solidarity, ha affermato, citando una fonte, che Putin avrebbe paura che la sua cerchia ristretta possa rimuoverlo dal potere. “Ci sono informazioni da una buona fonte. Putin ha licenziato il capo di stato maggiore russo. Putin è isterico. Si è trasferito nel bunker. Non comunica con la sua cerchia ristretta per paura che cercheranno di rimuoverlo dal potere”, ha scritto Goncharenko su Telegram.
Se davvero fosse confermato che il generale Gerasimov è stato estromesso, sarebbe un pessimo segnale per quanto riguarda i rapporti di forza al Cremlino: da parte occidentale verrebbe interpretato come la mancanza di coordinamento e unità tra il leader di Mosca e le sue forze armate, ma soprattutto come un tentativo di accentramento di potere. Non abbiamo modo di confermare l’indiscrezione, che proviene sempre da una fonte di parte, anche perché il Cremlino è sotto attacco informatico e i siti di alcuni uffici, tra cui quello del Ministero della Difesa, non sono online attualmente. Soprattutto potremmo pensare che sia una mossa per incrinare il morale dei russi, e anche per gettare ombre sulla lucidità del Cremlino in queste ore.
Mosca ha infatti fatto sapere che si prepara alla stretta finale su Kiev: alle truppe, che combattono in città da stanotte, potrebbe venire dato ordine di procedere con decisione per conquistare la città, aprendo così uno scenario di guerra urbana che, probabilmente, trasformerebbe la capitale ucraina in una Grozny o Aleppo.
L’agenzia stampa russa Interfax riporta che Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha affermato poco fa che “siccome, in effetti, la parte ucraina ha rifiutato di negoziare, l’avanzata delle principali forze russe è ripresa questo pomeriggio secondo il piano operativo”. Parlando coi giornalisti riuniti in conferenza stampa, Peskov ha anche affermato che l’avanzata delle truppe era stata sospesa il giorno prima per ordine del comandante supremo (Putin). Mosca quindi ha ordinato di riprendere l’offensiva “a tutto campo” dopo che – afferma Mosca – il governo di Kiev ha rifiutato i negoziati. “Attualmente, tutte le unità hanno ricevuto l’ordine di ampliare l’offensiva in tutte le direzioni, in accordo con il piano di attacco” ha dichiarato il Ministero della Difesa russo in un comunicato
L’offensiva russa prosegue non solo nella capitale: arrivano notizie che Melitopol, anche grazie allo sbarco anfibio avvenuto nella notte, sia caduta in mani russe, mentre Mariupol continua a resistere. Sul fronte nord la direttrice russa, dopo aver accerchiato la capitale, si sta spostando verso Lviv, evidentemente per tagliare le linee di rifornimento ucraine da occidente, mentre nel settore centrale e orientale è avvenuto un sostanziale sfondamento delle linee che sta portando a una fusione dei vari fronti. Dalla Crimea la puntata oltre la foce dello Dnepr continua, sebbene incontri resistenza, pertanto si sta configurando una manovra generale che dai confini, anche marittimi, si spinge verso l’interno.
La situazione, a livello internazionale, continua a peggiorare: quasi tutti i Paesi dell’Europa Orientale hanno chiuso i loro spazi aerei ai voli russi, e anche la Finlandia sta per fare lo stesso. Quest’oggi un comunicato del Ministero della Difesa Russo ha affermato, per la prima volta, che durante un attacco di motovedette e motomissilistiche ucraine effettuato contro navi della Flotta del Mar Nero avvenuto ieri – molto probabilmente per cercare di contrastare l’operazione anfibia – , i veicoli aerei senza pilota strategici statunitensi RQ-4 Global Hawk e MQ-9A Reaper che pattugliavano l’aerea “è molto probabile” che siano stati utilizzati per dirigere “le barche ucraine contro le navi della flotta russa”.
È la prima volta da quando è cominciata questa guerra che Mosca chiama in causa direttamente gli Stati Uniti e la Nato: un segnale da non sottovalutare. Si ricorda, infatti, che quando l’Iran abbatté un drone da ricognizione statunitense, nel giugno del 2019, la reazione militare statunitense fu fermata quasi all’ultimo minuto.
Cosa succederebbe, oggi, se i russi dovessero abbattere volontariamente uno degli RQ-4 che, quotidianamente, pattugliano i cieli del Mar Nero? La risposta è di quelle che fa paura. Su tutto si aggiunge il giallo di un possibile blocco del Bosforo da parte turca: il presidente Zelensky afferma di essere riuscito a strappare ad Ankara questa possibilità, ma la Turchia, che già ieri aveva affermato che non potrebbe proibire alla Russia il ritorno delle sue navi alle basi secondo il documento di Montreux – un modo per dire che non intendono farlo – per ora non ha smentito ufficialmente quanto affermato dal leader ucraino.
Le crepe del Cremlino e la strana “scomparsa” del procuratore russo. L’ufficio propaganda di Putin cancella l’intervento di Krasnov. Lo “zar” è più isolato di quanto voglia far apparire e gli oligarchi non vogliono la guerra. Davide Varì su Il Dubbio il 26 febbraio 2022.
Sono ore decisive in Ucraina, a Kiev si vive su un’altalena sfibrante, passando in modo repentino dalla speranza alla paura. Al centro della scena c’è sempre lui: zar Putin. Grazie alla studiata iconografia messa in piedi dal Cremlino, il presidente russo continua a mostrarsi come l’uomo forte al comando. Eppure, dietro questo potere così esibito, appaiono inequivocabili segnali di una fronda robusta, più di quanto il regime di Mosca non voglia far apparire. E c’è un giallo in queste ore che agita i sonni degli uomini più vicini a Putin. Una sbavatura nel rigido sistema di propaganda messo in piedi dal presidente russo, che ha creato più di qualche imbarazzo al Cremlino.
Il Dubbio ha infatti potuto visionare in esclusiva il video della surreale riunione del consiglio di sicurezza convocato da Putin lo scorso 21 febbraio che presenta più di una stranezza e dà l’idea di una inedita fragilità dello “zar” di San Pietroburgo. Nel momento in cui Putin congeda il primo ministro Mishustin – e siamo al punto 1.18.19 – e chiama a parlare Sergey Naryshkin, ecco in quel preciso istante si nota distintamente la presenza di un uomo in divisa che lascia il palchetto allestito dal cerimoniale di Putin ma che poi sparisce nel nulla. Dalle immagini è chiaro che l’uomo in divisa aveva appena finito di parlare, eppure del suo discorso non v’è traccia nel video. Un video che naturalmente era stato registrato e mandato in onda due ore più tardi il suo reale svolgimento. Ma chi è quell’uomo? E come mai l’ufficio propaganda del Cremlino ha organizzato in tutta fretta una censura così grossolana?
Iniziamo col dire che quella sagoma furtiva è Igor Krasnov, procuratore generale della Russia, l’uomo più potente del sistema giudiziario moscovita. Almeno fino a qualche giorno fa. Quello che invece non sappiamo è il motivo di tanto zelo nel rimuovere, cancellare, far sparire il suo intervento. Non appena il responsabile comunicazione del Cremlino si è accorto della falla nel montaggio, ha infatti ordinato l’immediata rimozione del video che a quel punto è stato sostituito da un filmato tagliato in modo impeccabile, così da far sparire nel nulla il procuratore Krasnov. Ma non finisce qui: nei giorni immediatamente successivi l’incontro del consiglio di sicurezza, le apparizioni di Krasnov si sono limitate a comunicati ufficiali che, in linea teorica, possono essere stati redatti da qualsiasi altro funzionario della giustizia. Insomma, un vero mistero.
Ma quella del caso Krasnov non è l’unica crepa apparsa nella fortezza propagandistica di Putin. Due giorni dopo il consiglio di sicurezza, il presidente russo ha avuto un incontro assai più complicato. Ci riferiamo allo scambio di battute, per così dire, con i più potenti oligarchi russi. In quel caso Putin ha dovuto raccogliere la forte preoccupazione e il forte disagio di uomini colpiti al cuore delle proprie finanze dalle sanzioni di Bruxelles e Londra. A cominciare dalla temutissima sospensione del famigerato sistema Swift, che se venisse applicata sarebbe una vera catastrofe economica. Ma non solo per la Russia a dire il vero. Insomma, gli oligarchi avrebbero fatto presente a Putin le drammatiche conseguenze della guerra all’Ucraina sulla rampante finanza di Mosca.
Nelle stesse ore intellettuali e giornalisti hanno inondato i social con messaggi di dissenso nei confronti della guerra e del regime putiniano. Una protesta durata solo poche ore: i vertici delle emittenti pubbliche hanno infatti intimato ai giornalisti di rimuovere qualsiasi commento su quanto stava accanto in Ucraina. Pena: l’immediato licenziamento. Insomma, Putin è davvero così forte e saldo, oppure queste reazioni scomposte sono segnali di debolezza nei confronti di un dissenso crescente anche da parte di chi governa davvero l’economia russa?
DAGOREPORT il 24 febbraio 2022.
Come mai questa notte – ore 3.51 in Italia - la situazione ucraina è precipitata? Fonti autorevoli dell’intelligence internazionale affermano che l’apparato militare russo abbia prevalso su Putin. L'arma che più ha messo in difficoltà Mad Vlad, sputtanandolo davanti ai generali, si chiama "Global Hawk", i super droni americani ad altissima tecnologia che decollano dalla base di Sigonella, in Sicilia, diretti sui cieli dell’Ucraina capaci di intercettare pure quando i russi vanno al bagno.
Sono velivoli con congegni sofisticatissimi, pilotati da remoto che hanno in dotazione un radar a scansione, in grado di intercettare la qualsiasi e di vedere anche sotto le nuvole e attraverso le foreste, dotati di un sensore all’infrarosso misura le differenze di calore per scoprire oggetti e persone e poi approfondisce i dettagli. L’enorme autonomia degli "Global Hawk" consente di restare in volo per 24 ore e coprire anche 100mila km quadrati di territorio (un terzo dell'Italia).
Risultato: tutte le mosse e decisioni dello stato maggiore russo venivano anticipate e spiattellate quasi in tempo reale dall’intelligence americana e, attraverso la Cia, veicolati sulla stampa americana. A quel punto, stanchi di essere stanati, le pressioni dell’apparato militare di Mosca hanno costretto Putin a dare il via all’invasione.
Da una parte, dall’altra c’è stato il fallimento della diplomazia europea. Mad Vlad si aspettava di incassare una vittoria sbandierando una dichiarazione della Nato che specificava che l’Ucraina non sarebbe mai entrata tra i paesi del Patto Atlantico. Macron e Scholz nei loro incontri moscoviti con Putin lo avevano ribattuto ampiamente, ma un conto è dirlo, un altro scriverlo.
Una volta portata la richiesta sotto il nasino di Biden, che nella Nato fa quello che vuole attraverso il segretario norvegese Stoltenberg, la proposta europea è finita nel cestino: tutti i paesi sono liberi di chiedere l’ingresso nella Nato. Altro ‘’americanata’’: oggi il previsto incontro a Ginevra con il ministro degli Esteri Lavrov è stato disdetto dal segretario di Stato Usa Blinken. A quel punto Putin non poteva più permettersi di dimostrarsi rammollito, pena la cacciata.
E per dare il via all’invasione fa un discorso più pazzo che ridicolo che tira in ballo nientemeno che la “denazificazione dell’Ucraina”, dimenticando che il presidente Zelensky è ebreo. L’ex comico ha infatti subito risposto: “Sono ebreo, come potrei essere nazista?”. Di più: come Israele, l’Ucraina è l’unico paese a essere guidato da un presidente e da un premier ebrei.
A questo punto, anche le chiacchere sulle sanzioni sono un buffetto all’Orso russo: l’unica vera misura che potrebbe far incazzare davvero Putin, la cosiddetta “arma nucleare”, è l’esclusione della Russia dal sistema finanziario SWIFT (che potrebbe causare miseria in Russia ma anche perdite miliardarie per le banche europee). Si tratta di uno stratagemma già utilizzato (con buoni risultati) contro l’Iran.
Intanto, tutti si domandano quale sarà l’atteggiamento del governo cinese. Per ora, Pechino tira il freno della neutralità. Xi Ping ha fatto sapere che non offrirà assistenza militare “a una delle parti in conflitto”, quindi ha aggiunto che la Cina “segue da vicino gli ultimi sviluppi e sollecita tutte le parti a esercitare moderazione e a evitare che la situazione vada fuori controllo”. Infine, pensando all’agognata Taiwan, rifiuta di pronunciare la parola “invasione”: “Si tratta di un uso preconcetto delle parole e del tipico stile di fare domande dei media occidentali” (ciao core…).
Putin minaccia i media: usate solo fonti ufficiali. Altrimenti pesanti ritorsioni…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Febbraio 2022
Davanti al proliferare di immagini e notizie sull’invasione all’Ucraina le autorità russe cercano di mettere un ulteriore bavaglio alle poche voci di informazione indipendenti.
Come riporta l’emittente moscovita Tv Rain ripresa dall’ agenzia Adnkronos, il Roskomnadzor, cioè il ‘ Servizio federale per la supervisione della comunicazione di massa’ russo, ha osservato che il numero di casi di diffusione di “informazioni non verificate e inesatte” è “significativamente aumentato” nelle ultime ore. Ricordato che i media dovrebbero stabilire l’accuratezza delle informazioni le autorità ribadiscono che sono solo “le fonti di informazione ufficiali russe ad avere e diffondere informazioni affidabili e aggiornate”.
Il Roskomnadzor ha comunicato poi che per la diffusione di informazioni false (secondo il Governo Russo) sono previste multe fino a cinque milioni di rubli (oltre 50 mila euro) e il sequestro dei materiali.
Diversi media russi, almeno sette, hanno dichiarato di essere stati costretti recentemente a cancellare articoli relativi alle inchieste legate all’oppositore Alexey Navalny dopo le pressioni delle autorità russe, in particolare i testi e i video relativi all’indagine ribattezzata “il palazzo di Vladimir Putin”. Gli organi di stampa russi Dojd, Meduza, Znak, Eco di Mosca, Svobodnye Novosti, The Village, Boumaga hanno reso noto di aver ricevuto una richiesta formale da parte dell’autorità delle telecomunicazioni Roskomnadzor per rimuovere decine di contenuti, relativi o collegati alle inchieste sulla corruzione del team di Navalny, in prigione da oltre un anno e inserito nella lista dei “terroristi” come la sua organizzazione. Redazione CdG 1947
I russi in piazza contro la guerra in Ucraina: si schierano i vip, 1.400 arresti. Greta Sclaunich e Irene Soave su Il Corriere della Sera il 24 Febbraio 2022.
Manifestazioni senza precedenti a San Pietroburgo e Mosca, un corteo anche a Novosibirsk. La polizia: «Non scendete in piazza». Pioggia di adesioni da cantanti e personalità tv.
Una mobilitazione come quella di giovedì nelle città russe, contro la guerra in Ucraina, non si vedeva da molto tempo: nemmeno dopo l'arresto del leader dell'opposizione Aleksej Navalny erano scesi in piazza in tanti, con cartelli e slogan pacifisti ma anche contro il presidente Vladimir Putin. Ieri in «43 città almeno», così l'ong OVD-Info, ci sono stati cortei e picchetti contro l'invasione dell'Ucraina: folle, come a San Pietroburgo, o picchetti solitari subito finiti in arresti. Circa 1.400 persone, comunica la stessa ong, sono state arrestate giovedì in tutto il Paese. La metà di loro a Mosca, nella manifestazione di piazza Pushkin subito resa «zona rossa» dalla polizia; 378 a Pietroburgo, seconda metropoli del Paese e città natale del presidente Putin.
La polizia politica russa ha avvertito con una nota stampa i cittadini: «non partecipate» a proteste «che non sono autorizzate e sono associate alle tensioni in un Paese straniero». La repressione dei cortei è stata puntuale: sui social si moltiplicano i video degli arresti, eseguiti rapidamente e con la forza dalla polizia che in alcuni casi «ha fermato dissidenti già sulla porta di casa, e prima che raggiungessero le piazze», scrive — su Twitter — il giornalista Anton Barbashin.
Anche diverse personalità russe del mondo dello spettacolo hanno preso posizione, come riporta Liza Fokht, corrispondente della Bbc in Russia e moglie di Max Seddon, corrispondente a Mosca del Financial Times che ha raccolto in un thread su Twitter alcuni di questi nomi. Nessuno di loro, sottolinea Seddon, ha menzionato Putin nel proprio intervento ma rischiano comunque di non poter più esibirsi nella tv di stato per tutta la vita.
Tra loro c’è la popstar Valery Meladze, che in breve video su Twitter ha detto: «Oggi è successo qualcosa che non dovrebbe mai succedere. La storia giudicherà. Ora voglio chiedervi di smettere le azioni miliari e sedervi a negoziare».
La pattinatrice artistica Evgenia Medvedeva ha twittato «Spero che tutto questo finisca prima possibile, come succede con gli incubi».
La popstar Svetlana Loboda su Instagram ha pubblicato una foto di un campo di girasoli con i colori della bandiera ucraina e ha scritto «il mio cuore è spezzato. Sono in contatto con le persone che amo dalle 5 del mattino. Come è possibile? Dio, ferma tutto questo! Sto piangendo».
Maxim Galkin, cantante e marito della più grande celebrity russa Alla Pugacheva, su Instagram ha postato una foto nera con la scritta «sto parlando con amici e parenti in Ucraina da stamattina. Non riesco a trovare le parole per dire ciò che provo. Com’è possibile tutto questo, non c’è nessuna giustificazione per la guerra. No alla guerra!».
E infine il conduttore tv Ivan Urgant, sempre su Instagram, ha commentato: «Paura e dolore. No alla guerra».
Guerra Ucraina, il coraggio dei russi che protestano contro l’invasione di Putin: “2.000 arresti”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Febbraio 2022
Migliaia di persone in piazza, in oltre cinquanta città, e più di 1.800 arrestati. C’è anche una Russia che scende in piazza, contro la decisione del Presidente Vladimir Putin di invadere l’Ucraina. I combattimenti sono in corso, le notizie caotiche e confusionarie come succede negli scenari di crisi: ma la battaglia infuria su Kiev. Secondo Bloomberg la capitale ucraina potrebbe cadere nel giro di alcune ore. Circa 100mila persone sono fuggite ieri dalla città.
Nessuno sconto ai russi che sono scesi nelle strade a manifestare contro le operazioni militari annunciate in televisione ieri notte, mentre si riuniva il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non un’occupazione, operazioni per “demilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina, aveva assicurato Putin. Le proteste in Russia contro la decisione del Presidente sono partite subito. Non si assisteva a una mobilitazione così grande nel Paese dal gennaio dell’anno scorso, dall’esplosione del caso del dissidente Aleksey Navalny: avvelenato, curato in Germania, estradato e incarcerato. Il dato di 1.817 arresti è stato comunicato dalla Ong Ovd-Info. Almeno 700 soltanto nella capitale Mosca. Soprattutto giovani i manifestanti russi scesi in piazza. “Niet voyné”, “No alla guerra” lo slogan.
In tanti protestavano individualmente, staccati dai gruppi: le manifestazioni di massa non sono autorizzate in Russia. Lo stesso Navalny si è schierato: “Sono contrario a questa guerra. Credo che questo conflitto tra Russia e Ucraina sia condotto per insabbiare la rapina ai danni dei cittadini russi e per distrarre la loro attenzione dai problemi del Paese, dal degrado dell’economia”. Parole dure anche da parte del Premio Nobel per Pace Dmitry Muratov, direttore di Novaya Gazeta: “Siamo a lutto. Il nostro Paese per ordine del presidente Putin ha iniziato una guerra con l’Ucraina. E non c’è nessuno che possa fermare la guerra. Quindi, insieme al dolore, noi proviamo vergogna. Nelle sue mani il comandante in capo rigira il pulsante nucleare come il portachiavi di una macchina di lusso”.
Tante anche le famiglie spezzate, dilaniate da un conflitto tra due Paesi legati profondamente – nel suo discorso di riconoscimento delle Repubbliche autoproclamate del Donbass, Putin aveva di fatto negato la sovranità del vicino. Circa 50 membri dell’Accademia delle Scienze russa e altri 130 scienziati, ricercatori e giornalisti scientifici hanno firmato una lettera contro la guerra. “Questo passo fatale – si legge nel documento riportato da Ansa – comporterà un’enorme quantità di vite umane e mina le fondamenta del sistema della sicurezza internazionale”.
Appelli che non hanno scalfito la repressione del dissenso. La guerra ha sconvolto il mondo. Si è manifestato anche in Germania: circa 3.000 le persone alla Porta di Brandeburgo a Berlino, proteste anche davanti all’ambasciata russa. Altre manifestazioni si sono tenute in tutto il mondo: da New York a Madrid, da Varsavia a Roma, da Bucarest a Londra.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Yevgeny Prigozhin, il “cuoco di Putin” che guida i mercenari per la Russia. Ha iniziato con un chiosco di hot dog per poi aprire ristoranti di lusso. E, dopo aver conosciuto Vladimir Putin, ha finanziato la disinformazione e preso la presidenza del gruppo Wagner che controlla le forze paramilitari per il Cremlino. Federica Bianchi su L'Espresso il 24 Febbraio 2022.
Da venditore di hot dog a oligarca della ristorazione russa. Da detenuto per frode e rapina a organizzatore della più grande rete di attacchi ibridi al servizio di Vladimir Putin. Nessuno meglio di Yevgeny Prigozhin, classe 1961, incarna il modello di guerra ibrida, non lineare, insidiosa che Putin ha ingaggiato da una decina di anni contro l'Occidente, dopo lo smacco subito in Libia nel 2011, e che oggi ha preso nuovamente di mira i confini orientali dell'Europa.
Alexander Gabuev, ex portavoce di Medvedev: «A Mosca gli oligarchi sono terrorizzati ma non hanno potere». Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2022.
Alexander Gabuev, 36 anni, già fra i portavoce di Dimitri Medvedev quando era al Cremlino al posto di Vladimir Putin, oggi è senior fellow alla sede di Mosca del Carnegie Endowment for International Peace. Da lì Gabuev vede lo sconcerto degli oligarchi che hanno prosperato nel regime putiniano, ma ora temono di perdere ricchezze con la guerra. Sente il nervosismo nei quartieri residenziali di Mosca, dove in tanti stanno correndo in banca per cambiare rubli in euro o dollari prima che le sanzioni affondino del tutto la valuta russa.
Gabuev, lei pensa che le ritorsioni occidentali infliggeranno molti danni all’economia russa? «Ne dovremo vedere la portata e la sequenza, dopo le misure di questi giorni. Credo però che l’embargo sul petrolio e sul gas sia fuori discussione. La tensione degli ultimi mesi sul mercato dell’energia è stata utile a Putin, fa capire perché questa crisi arrivi proprio ora. Gli aumenti della benzina negli Stati Uniti, quelli dell’elettricità e del gas in Europa mettono sotto pressione i governi occidentali di fronte alle loro opinioni pubbliche».
Ma le sanzioni possono funzionare? «Alcune sono poderose. E il problema non è che qualcuno degli uomini del Consiglio di sicurezza russo perda l’accesso alla sua villa sul Lago di Como. Invece un blocco alle vendite di semiconduttori può creare grandi difficoltà. A Mosca c’è chi spera che la Cina possa supplire con i suoi chip, ma non è affatto scontato. E colpire le banche farà dei danni. I pagamenti interni funzioneranno ancora, mentre alcune banche perderanno accesso alle operazioni in dollari e in euro. Ciò svaluterà il rublo, innescando ancora più inflazione».
E lo stop a NordStream2? «Spiacevole, non significativo. In fondo quel gasdotto non aveva mai funzionato e comunque gli amici di Putin hanno già fatto i loro miliardi costruendolo. Nel complesso ho l’impressione che nel breve e medio periodo le sanzioni siano dure, ma non tanto da far saltare il regime. Ci si può sopravvivere. Anche perché le banche russe non possono essere tagliate fuori dai mercati esteri del tutto, perché gli occidentali vogliono continuare a comprare gas e petrolio russi».
Che effetti avrà questa dinamica sugli equilibri interni? «Accresce l’importanza degli insider vicini a Putin, perché aumenta l’autarchia e dunque il loro affarismo nel procacciare i prodotti che l’Occidente non vende più. Invece gli outsider sono terrorizzati, depressi. Gli oligarchi temono la svalutazione del rublo, si sentono in trappola e magari possono anche andare dall’analista, ma non hanno potere».
Lunedì anche i membri del Consiglio di sicurezza, nel dire sì alla fuga in avanti sul Donbass in mondovisione, sembravano terrorizzati… «Lo erano. Putin ha chiesto loro di assumersi la responsabilità collettiva di una decisione che lui aveva già preso. È stato una specie di rito mafioso, come i primi omicidi degli affiliati. Così nessuno potrà più tirarsi indietro, hanno dovuto mettere tutti la loro firma».
Ma come la pensa la gente comune? «Non c’è euforia, come nel 2014 quando fu annessa la Crimea. Nei quartieri residenziali vedo la gente che va in banca a liquidare i rubli. Non pensano affatto che andrà tutto bene, ma non hanno scelta. Quanto ai ceti popolari, sopravvivono a fatica. L’inflazione in arrivo renderà la gente ancora più povera, ma Putin distribuirà dei sussidi grazie alle entrate in moneta forte dalla vendita del petrolio e del gas».
Non è tipico di un regime ultra-nazionalista? «Già. Putin ricorda molto Mussolini, ma un Mussolini con la bomba atomica… Per fortuna siamo lontani da uno scenario di Terza guerra mondiale, ma sta assumendo dei rischi enormi».
Che personalità ha, Putin? «Non sono uno psicologo, ma l’ora di lezione di storia dell’altro giorno per annunciare il riconoscimento del Donbass non era normale. È chiaro che passa molto tempo sui documenti d’archivio, anche mentre dovrebbe combattere la pandemia. Poi il Covid ha approfondito il suo isolamento: chi vuole vederlo, prima deve stare in quarantena per due settimane. E non molti ne hanno voglia».
Oligarchi, generali e banchieri. Chi sono gli uomini di Putin colpiti dalle sanzioni dell'Ue. Angelo Allegri su Il Giornale il 24 Febbraio 2022.
È un vecchio cavallo di battaglia di Alexey Navalny, il più famoso degli oppositori incarcerati da Vladimir Putin: niente sanzioni economiche indiscriminate contro la Russia (mettono sullo stesso piano cittadini e governo), ma interventi mirati contro uomini o società chiave del regime. E dalla mezzanotte di ieri, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione, sono 555 i cittadini russi con divieto d'accesso e patrimoni congelati in territorio europeo a cui si aggiungono una cinquantina di società che non possono fare affari con la Ue. Nell'infornata di ieri sono finiti i 351 deputati della Duma che hanno riconosciuto le regioni secessioniste del Donbass (compreso Piotr Tolstoy, vice-presidente e bis-bis nipote dello scrittore), i vertici militari che stanno stringendo d'assedio l'Ucraina guidati dal Ministro della Difesa, l'impenetrabile Sergey Shoigu, uomini di governo come il potente e invisibile Anton Vaino, capo di gabinetto di Putin. Ci sono poi un paio di propagandisti del regime: Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri, protagonista di movimentate trasmissioni e conferenze stampa e Margarita Simonyan, numero uno di Rt (ex Russia Today), braccio informativo internazionale del Cremlino.
Quanto agli uomini d'affari nella lista figurano i vertici di Vtb Bank, uno dei maggiori istituti di credito del Paese ma soprattutto c'è Yevgeny Prigozhin, l'uomo dei mercenari del gruppo Wagner e della società Internet Reasearch Agency di San Pietroburgo, accusata di seminare con i suoi troll disinformazione e fake news nell'infospazio.
Per tutti loro, come ha scritto, il ministro degli Esteri Ue, in un tweet poi cancellato, «Basta shopping a Milano, feste a Saint Tropez e diamanti ad Anversa». E in effetti l'impossibilità di varcare i confini europei sarà per molti tra i soggetti presi di mira la conseguenza più immediata della decisione di Bruxelles. Quanto ai patrimoni, di solito i soldi dei ricchi russi sono schermati dietro tali e tanti paraventi sparsi tra Cipro, Panama e qualche isola caraibica, da rendere difficile un blocco effettivo. Nel mirino però ci sono anche i beni immobiliari, e quelli sono più difficile da nascondere.
Tra i circa 190 cittadini russi che erano già oggetto di sanzioni europee (nella maggior parte dei casi la tagliola era scattata subito dopo il 2014, data della prima invasione dell'Ucraina) molti hanno dovuto fare i conti con il problema. Nel gruppo figuravano già uomini dei servizi di sicurezza (compreso Sergey Narishkin, capo dello spionaggio estero, trattato come uno scolaretto da Putin durante la riunione del Consiglio di sicurezza che ha riconosciuto le repubbliche secessioniste), alti funzionari del Cremlino e oligarchi. Tra questi ultimi i più noti sono Arcady Rotenberg, compagno di judo di Putin e protagonista di una spettacolare scalata al successo imprenditoriale subito successiva all'approdo dell'amico al Cremlino. Rothenberg possiede secondo le indagini fatte a suo tempo dalla Guardia di Finanza un patrimonio immobiliare da decine di milioni di euro tra la Sardegna e la Toscana. Stretti legami con l'Italia hanno anche Yuri Kovalciuk, altro appassionato di judo diventato prima azionista di Bank Rossiya e Kostantin Malofeev, fondatore e principale socio del Marshall Fund. Per loro la vita potrebbe farsi più dura. Anche Londra ha fatto scattare nuove sanzioni. Qui solo le società russe quotate in Borsa sono 31.
IL NAZIONALISMO.
Nazionalismo veleno dei popoli. Ben prima dell’invasione, insomma, ucraini e russi avevano cominciato ad odiarsi. Come è potuto accadere, tra due popoli per secoli fratelli e di identica matrice culturale? Gianni Di Cagno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Maggio 2022.
Qualche sera fa ho ascoltato in TV, incredulo, una parlamentare ucraina sostenere che non il solo Putin, ma l’intero popolo russo era responsabile dell’invasione, in quanto rifiuterebbe di riconoscere la peculiarità dell’identità nazionale ucraina. Sull’altra sponda, del resto, solo un viscerale disprezzo di tanti russi verso gli ucraini può spiegare gli orribili crimini commessi dall’Armata. Ben prima dell’invasione, insomma, ucraini e russi avevano cominciato ad odiarsi. Come è potuto accadere, tra due popoli per secoli fratelli e di identica matrice culturale? La risposta sta in un tragico fenomeno ricorrente nella storia europea: come già trent’anni in Jugoslavia, il più becero nazionalismo è stato utilizzato per conseguire contingenti fini politici. Così, i russi hanno trovato nel nazionalismo la risposta alle umiliazioni degli anni ’90 del secolo scorso, mentre proprio sul nazionalismo gli ucraini hanno ritenuto di fondare la costruzione della loro giovane nazione. E così popoli confinanti, invece di vivere come una ricchezza l’inevitabile contaminazione tra le rispettive culture, sono stati eccitati dai rispettivi nazionalismi a considerare anche modeste specificità linguistiche (tipo chiamare una città Kharchov ovvero Kharchyiv) alla stregua di invalicabili muri. Attenzione, esiste una differenza abissale tra amor di patria e nazionalismo. Amare il proprio Paese, la propria cultura, le proprie tradizioni, infatti, non implica il rifiuto della cultura e delle tradizioni di altri Paesi. Il nazionalismo, invece, ritiene il proprio Paese superiore a tutti gli altri, e non a caso l’inno tedesco si apriva con quel «Deutschland uber alles» (Germania sopra tutti) che fu foriero dei lutti infiniti del ‘900. Il nazionalismo, insomma, considera la propria cultura e la propria identità uniche al mondo, sempre migliori e superiori rispetto a quelle dei propri vicini, così diffondendo i germi del suprematismo e del razzismo, e dunque della guerra: per dirla con Bergman, il nazionalismo è davvero l’uovo del serpente.
Tutto questo va tenuto ben presente a proposito tanto dell’Unione Europea quanto dell’Italia. L’idea dell’Europa Unita nasce proprio come antidoto contro i rischi dei sempre risorgenti nazionalismi. E non dovrebbe essere tollerato, allora, che paesi membri dell’UE, quali la Polonia, in nome dell’orgoglio nazionale si spingano a bandire per legge verità scomode come il concorso di tanti polacchi alla Shoà. Ricordiamocelo, prima di allargare la Ue a Paesi ove alligna il nazionalismo più spinto. Ma il problema riguarda anche l’Italia. Ormai da anni è in corso una campagna culturale, alimentata dalla Destra e passivamente subìta a Sinistra, mirante al recupero di cascami di un nazionalismo che ritenevamo definitivamente superato. Così, si è arrivati a celebrare come una sorta di festa nazionale la battaglia di Nikolaiewka del 26 gennaio 1943, fatto d’arme che rese meno tragica la ritirata di italiani e tedeschi nell’ansa del Don, ma pur sempre episodio di una spietata guerra di aggressione impregnata di nazionalismo e razzismo. Per non parlare della «giornata del ricordo» della tragedia delle foibe, che si celebra assurdamente il 10 febbraio senza che nessuno rifletta sul senso di quella data. I massacri di italiani in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia avvennero essenzialmente nell’autunno del ’43 (dopo il crollo dell’amministrazione fascista) e nella primavera-estate del ’45 (dopo l’occupazione da parte delle truppe iugoslave): che c’entra, allora, il 10 febbraio? In realtà, quello è il giorno in cui nel 1947, a Parigi, fu sottoscritto il Trattato di pace tra le potenze Alleate e l’Italia, con cui Istria e Dalmazia, terre di confine quant’altre mai, vennero assegnate alla Jugoslavia (perché quando si aggrediscono paesi confinanti, prima o poi c’è un conto salato da pagare, proprio come succederà alla Russia di Putin). Insomma, il messaggio che ogni anno viene tramesso a noi italiani è che non la guerra di aggressione perduta, non l’occupazione fascista all’insegna del più becero nazionalismo, e neppure il contrapposto e altrettanto becero nazionalismo sloveno-croato, sono all’origine degli orrori delle foibe, bensì quel Trattato di pace che pure aveva riammesso l’Italia nel consesso dei popoli civili. Non c’è che dire, una vera vittoria culturale del nazionalismo nostrano, che alla lunga rischia di erodere le fondamenta stessa della Repubblica.
Discutendo dell’aggressione della Russia all’Ucraina, allora, torniamo a denunciare i veleni del nazionalismo. Perché non sull’orgoglio nazionale, inevitabilmente di parte, ma solo su valori universali può essere costruita una pace duratura tra popoli confinanti. «La libertà sconfiggerà la schiavitù», scrive in Vita e destino Vasilij Grossman, il cantore della sconfitta nazista, sino a ieri sempre considerato russo ma originario del Donbass, oggi ucraino. È stato un grande scrittore, il Tolstoj del ‘900: cosa importa se era nato da una parte o dall’altra di un fiume?
La nazione sono io: nazionalismo e patriottismo nel nuovo numero di Scenari. Il Domani il 12 maggio 2022.
Da venerdì 13 maggio e fino al 19 maggio in edicola e in digitale un nuovo numero di SCENARI, venti pagine di approfondimenti firmati da Gabriele Natalizia, Francesco Strazzari, Mara Morini, Giovanni Savino e tanti altri, oltre a contributi internazionali e le mappe a cura di Fase2studio Appears
Il nuovo numero di Scenari, la pubblicazione geopolitica di Domani, è questa settimana dedicato al tema del nazionalismo. In venti pagine, gli approfondimenti inediti firmati da Gabriele Natalizia, Francesco Strazzari, Mara Morini, Giovanni Savino e altri ricercatori e studiosi analizzano il concetto di nazione, un termine a metà strada tra liberazione e tragedia. Le mappe curate dai cartografi Bernardo Mannucci e Luca Mazzali (faseduestudio/Appears) aiutano a capire le evoluzioni sul campo della guerra in Ucraina e come questo paese sia cambiato dal 16esimo secolo a oggi.
COSA C’È NELL’ULTIMO NUMERO
Il politologo Gabriele Natalizia spiega come la Russia, dopo il crollo dell’Unione sovietica, da paese “vinto” abbia rinnovato le proprie pretese egemoniche sull’area di influenza «per chiarire alle altre potenze i limiti invalicabili oltre i quali non spingersi», scrive Natalizia nell’articolo L’invenzione e il fallimento putiniano del “Russkij Mir”. L’idea che la Russia non sia un paese come tutti gli altri è centrale nel gruppo dirigente spiccatamente nazionalista come quello putiniano. Ma l’invasione dell’Ucraina mostra come il progetto di Putin di reinventare l’eccezionalismo russo sia fallito.
«L’energia che muove il popolo russo è nel culto del passato, di cui si recuperano ulteriori idee e interpretazioni in grado di servire da orientamenti e da giustificazioni», scrivono la politologa Mara Morini e lo storico Giovanni Savino, che analizzano il risorgimento passatista promosso dal presidente russo, una combinazione di elementi tradizionalisti e omissioni.
Come scrive Adriano Dell’Asta, vicepresidente della Fondazione Russia cristiana e docente di Lingua e letteratura russa, le giustificazioni putiniane della guerra in corso non resistono nemmeno «alla più semplice ed elementare analisi storica», ma costituiscono una «lotta tra la realtà e la surrealtà».
Anche Andrew Wilson, analista dello European Council on Foreign Relations, guarda alla giustificazione intellettuale dell’invasione russa dell’Ucraina, osservando come gli ideologi di Putin abbiano rielaborato lo schema del filosofo nazista Carl Schmitt, ossia la riduzione di tutta la politica a una distinzione “amico-nemico”. «Putin ha glorificato la sua personale autocrazia come lo “stato d’eccezione” di Schmitt», scrive Wilson.
Ma il nazionalismo non basta a spiegare guerre e tensioni internazionali: nell’articolo Non di solo nazionalismo vivono le invasioni armate, lo storico Lorenzo Castellani approfondisce il concetto di nazionalismo e la sua trasformazione tra l’Ottocento e il Novecento, quando si è reso protagonista di due guerre mondiali.
Timothy Snyder, storico e docente all’università di Yale, ragiona poi sul ruolo chiave che l’Ucraina ha avuto fin dall’epoca medievale. Nessun’altra regione ha attirato così tanta attenzione coloniale in Europa, dall’imperialismo russo al nazismo. Anche Putin, nel 2013, ha accennato al modello per cui l’Ucraina era un organo inseparabile dal corpo russo vergine.
Cambiano i secoli, ma per il nazionalismo russo la storia si ripete, come scrive l’analista Matteo Pugliese: nello schema di conflitti «cambiano i nomi degli avversari, ma si fondono in un paradigma universale in cui il popolo russo è la vittima e affronta un nemico superiore sino alla vittoria». E l’esercito gioca un ruolo importante, elevandosi a collante ideologico della nazione. C’è «una precisa volontà del Cremlino di forgiare forze armate leali al regime», spiega Pugliese, con l’obiettivo dichiarato di contrastare «la propaganda occidentale anti russa condotta dagli Stati Uniti».
Rimanendo sul piano militare, l’articolo del politologo Francesco Strazzari mostra il cambio del paradigma militare: «Se oggi è presto per trarre conclusioni circa la fine dell’èra del carro armato», scrive Strazzari, «è tuttavia possibile sottolineare l’errore russo», che risiede nell’«eccesso di fiducia nelle proprie truppe corazzate».
Kateryna Kibarova, economista ucraina che vive nella città di Bucha, racconta in un articolo pubblicato sulla testata online Persuasion e tradotto su Scenari, le conseguenze di quel militarismo russo, che ha trasformato l’aria di Bucha riempiendola «di morte e piombo», nei suoi tredici giorni di orrore in un rifugio della città.
Luca Sebastiani ha poi intervistato il filosofo, scrittore e giornalista ucraino Volodymyr Yermolenko, direttore della pubblicazione in lingua inglese Ukraine World. Si parla dell’identità del popolo ucraino, delle differenze culturali e politiche con la Russia, del rapporto fra Kiev e l’ethos democratico e del tentativo disperato di Putin di restaurare una visione imperiale della Russia.
LA CHIESA
Nel nuovo numero di Scenari, il filosofo e filologo Adalberto Mainardi spiega come la guerra in Ucraina sia «rapidamente uscita dal perimetro dei conflitti regionali per assumere i connotati di una guerra di religione. Le chiese sembrano adeguarsi a logiche geopolitiche», scrive. Accompagnato da una mappa di Luca Mazzali che mostra la distribuzione dei fedeli della chiesa ortodossa russa, l’articolo di Mainardi analizza la progressiva convergenza, dagli anni 2000, della chiesa russa con il potere politico, su alcuni temi.
SCENARI CULTURALI
Julia Kristeva, scrittrice e filosofa, nell’articolo L’accelerazione digitale risveglia demoni totalitari invita a riscoprire Dostoevskij per riconquistare la libertà di pensare in Europa e nel mondo. Lo stesso Dostoevskij che, come racconta lo scrittore Michel Eltchaninoff nel suo libro Nella testa di Vladimir, è stato spesso chiamato in causa da Putin: prima della svolta conservatrice del 2013 come moderato e filo europeo, poi come feroce ideologo anti occidentale.
Il giornalista Aart Heering approfondisce la radice del pensiero geopolitico dell’ideologo del Cremlino, Aleksandr Dugin: la Cronaca di Oera Linda, una saga medievale che racconta la storia millenaria del popolo frisone, un falso storico.
SCENARI – LA NAZIONE SONO IO. Il filosofo Yermolenko: «Il patriottismo dell’Ucraina è radicato nello spirito democratico». LUCA SEBASTIANI su Il Domani il 13 maggio 2022
La società ucraina è una struttura che va dal basso verso l’alto, che quindi parte dalla pluralità di comunità diverse e arriva poi alla leadership. La cultura politica russa, al contrario, parte dall’alto, dipende dal leader o dallo zar.
Essere ucraini significa lottare contro il Putinismo, un ibrido tra fascismo e stalinismo, per la propria indipendenza e sovranità, lottare per l’Europa. Significa porsi di fronte a una questione amletica: essere o non essere.
Il patriottismo ucraino non è solo il voler difendere il nostro paese. Gli ucraini stanno combattendo contro un autoritarismo che ignora i diritti. In Ucraina non abbiamo solo uno spirito patriottico, ma anche un sentimento democratico.
LUCA SEBASTIANI. Giornalista praticante, laureato in Storia e con un master in Geopolitica e sicurezza globale. Scrive di esteri e politica internazionale.
SCENARI – LA NAZIONE SONO IO. Il culto nazionalista di Putin e il tradimento della storia. MARA MORINI E GIOVANNI SAVINO su Il Domani il 13 maggio 2022
Il risorgimento passatista promosso dal presidente è una combinazione di elementi tradizionalisti piena di omissioni
La narrazione dell’ultimo decennio fa leva sulla superiorità della purezza russa sui popoli dell’“estero vicino” e piega alle esigenze del potere il dibattito fra occidentalisti ed eurasiatici, denunciando anche i presunti errori di epoca sovietica.
Si esprime su diversi fronti, non necessariamente collegati alla propaganda mediatica, con vari compiti, tra cui la legittimazione delle scelte politiche attraverso l’identificazione con modelli e parole d’ordine estrapolate dal passato russo. MARA MORINI E GIOVANNI SAVINO
Quando la Cia era preoccupata per il nazionalismo ucraino. Marco Petrelli su Inside Over il 9 agosto 2022.
All’alba della Guerra fredda operavano in Ucraina almeno tre grandi gruppi nazionalisti attivi contro l’Unione sovietica. Gruppi che avevano attirato l’attenzione di Langley, interessata ad eventuali operazioni speciali nel territorio della Repubblica socialista d’Ucraina.
Che l’Ucraina fosse patria di sognatori indipendentisti InsideOver ve lo ha già raccontato nel servizio dedicato a Lugansk. E se nell’est del Paese (in quelle province oggi contese a Kiev da Vladimir Putin) già dal 1919 spiravano venti di autonomismo, anche nelle aree centrali ed occidentali la prospettiva di una nazione libera dal giogo delle grandi potenze si era diffusa sin dai primi anni del XX Secolo.
Le persecuzioni russe negli anni Trenta e, poi, l’occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale rappresentarono una sorta di linfa per le realtà indipendentiste, di cui Stepan Bandera è forse il nome ed il volto più noto in Ucraina ed in Occidente. Qui, è diventato “famoso” dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022.
Bandera fu, in effetti, elemento di primo piano della lotta per l’identità ucraina prima, durante e dopo il Secondo conflitto mondiale. Attenzione, scriviamo identità e non libertà perché, come “partigiano”, Bandera lo è sui generis. Nazionalista, anti comunista; alleato, prigioniero e di nuovo collaboratore dei tedeschi, Bandera tentò di sfruttare l’occupazione nazista dei territori ucraini per fondare uno Stato ucraino indipendente.
Figura storica che oggi definiremmo “equivoca”, malgrado la sua condotta rifletta il carattere dei popoli dell’Europa orientale e balcanica: la difesa del gruppo etnico di appartenenza è superiore a qualunque ideologia, credo politico, equilibrio internazionale. Elemento questo sfruttato dalle grandi potenze, nel caso di Bandera dal Terzo Reich ai danni dei sovietici e loro alleati, degli ebrei e dei polacchi. E che, nel nuovo scenario della Guerra fredda, era seguito con interesse anche da Washington.
Nel 1957, dunque, la Central intelligence agency (Cia) classifica come “segreto” un voluminoso focus sull’Ucraina, analisi dettagliata ed approfondita della Repubblica socialista ucraina su storia, geografia e fattori economici ed attività anti-sovietiche.
Lo scopo è nel titolo del rapporto: Resistance factors and special forces area. Ricostruendo l’attività partigiana nella Seconda guerra mondiale, la Cia identifica quattro aree nelle quali la resistenza era più forte: Poles’ye (attuale Bielorussia), la Volinia meridionale, l’area dei Carpazi e le montagne della Crimea. L’origine geografica influenza, inoltre, l’orientamento politico dei gruppi: nell’Ucraina orientale si concentrano i filo-sovietici (ucraini fedeli a Mosca e soldati dell’Armata rossa tagliati fuori dalla ritirata), in quella occidentale i gruppi nazionalisti come ad esempio in Volinia dove, nel 1943, i nazionalisti ucraini perseguitarono duramente i polacchi onde evitare che, a fine conflitto, la Polonia potesse mai rivendicare territori a maggioranza polacca ma di fatto sentiti dagli ucraini come propri. Un esempio è la città di Leopoli, oggi Ucraina ma dalla forte tradizione polacca.
Diverse sono anche le prospettive: i filorussi sostengono Mosca e l’Armata rossa, mentre i nazionalisti hanno come obiettivo la nascita di una entità indipendente da tedeschi e sovietici, con una cultura ed una lingua ucraine.
I documenti sottolineano altresì come alcune zone, densamente boschive, si presterebbero bene a forme di guerra non convenzionale, poiché le forze russe avrebbero difficoltà a penetrarle.
Resistance factors and special forces area è sia un’analisi del terreno sia un occhio sulle capacità dei gruppi di resistenza locali che, inseguito alla riconquista dell’Ucraina da parte dell’Armata rossa, hanno tenuto testa alla Nkvd e alla Mvd tra il 1945 ed il 1954.
Quello ucraino non è un episodio isolato. Nei territori riconquistati od occupati dall’Armata rossa e dai suoi alleati, infatti, partigiani anti sovietici hanno operato per decenni.
Nella Repubblica socialista di Jugoslavia vi erano i kraziri (crociati, Nda) che raccoglievano l’eredità del nazionalismo croato ustascia; al sud, in Kosovo, l’indipendentismo kosovaro darà filo da torcere a Belgrado sino alla morte di Josip Broz, ed anche oltre.
Sulle sponde del Mar Baltico, invece, estoni lituani e lettoni si ritrovarono a combattere sia contro i nazisti, sia contro i sovietici o, in altri casi, combatterono dapprima i sovietici al fianco dei tedeschi per poi continuare la lotta, anche a guerra conclusa.
Nessuno di loro, probabilmente, era convinto nazista: l’auspicio di una patria indipendente, di una identità che non fosse schiacciata dai nuovi dominatori russi, animò l’alleanza con Berlino prima e, nel dopoguerra, la guerriglia nelle foreste contro i reparti dell’ Nkvd di Berija.
Non è un caso quindi se, nel primo decennio della Guerra fredda, gli Stati Uniti seguissero con attenzione tali realtà. “Le unità baltiche delle Waffen SS devono essere considerate come separate e distinte nei propositi, nell’ideologia, nelle attività e nella qualificazione dai membri dalle SS tedesche, pertanto la commissione ritiene che esse non siano un movimento ostile al governo degli Stati Uniti”, è la conclusione cui giunsero i membri di una commissione incaricata di valutare i crimini perpetrati dalle Waffen SS nel corso della guerra.
Era il 1950 e le ferite, specie fra le vittime delle persecuzioni naziste, ancora fresche. Eppure la principale nazione Alleata giunse alla conclusione che le SS baltiche fossero una realtà distinta rispetto alle altre, con il probabile fine di potere sfruttare l’azione dei veterani per contenere il potere sovietico sulle sponde del Baltico.
Una cosa simile, se ci pensiamo, a quanto accaduto di recente con alcuni reparti schierati contro i russi in Ucraina: malgrado il forte sospetto di simpatie naziste, sono stati sostenuti ed armati dagli Usa e dai loro alleati occidentali per far fronte all’esercito di Mosca.
Anche nel caso di Bandera, gli analisti di Langley sorvolano aspetti poco cristallini del suo passato concentrandosi sulle capacità delle tre principali organizzazioni antisovietiche: Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun), Esercito insurrezionale ucraino (Upa), Supremo Consiglio di liberazione dell’Ucraina (Uhvr), tutte e tre “strettamente associate con una leadership che assume la forma di un ‘interlocking directorate’ (direttorio ad incastro) con gli stessi elementi che si trovano ai vertici di ogni organizzazione”.
Ciò che invece è meno chiaro è il fatto che la Cia riconosca come Oun, Upa e Uhvr siano stati di fatto messi ko dalla polizia segreta sovietica sin dal 1954. Che senso ha allora stilare un rapporto così dettagliato se i potenziali alleati in loco sono fuori gioco?
La risposta è nella storia recente della politica estera degli Stati Uniti. Gli Usa hanno infatti fornito supporto sia ad unità molto combattive (Contras, Viet Minh in chiave anti giapponese, mujaheddin), sia a realtà che non avrebbero mai avuto modo di sconfiggere sul campo le forze avversarie, come i montagnard vietnamiti, l’Alleanza del Nord fra il 1992 ed il 2001 ed i curdi. L’interesse, in questo caso, non è vincere il confronto con il nemico sul breve periodo, semmai di sfiancarlo e di logorarlo, costringendolo ad impegnare risorse e mezzi sempre maggiori per reprimere le forze anti-governative.
Ciò che restava di Oun, Upa e Uhvr avrebbe potuto essere riorganizzato da operatori sul campo, così da riprendere l’attività guerriglia anti-russa dopo la botta d’arresto del 1954.
Una strategia decennale e da milioni di dollari, in fondo simile a quella cui assistiamo oggi in Ucraina, conflitto destinato a durare ancora molto tempo e ad evolversi in uno scontro a bassa intensità fra Kiev e la Russia. Ed inviare armi e mezzi ha proprio lo scopo di tenere impegnata Mosca il più possibile, con la speranza che si verifichi, ancora una volta, il miracolo dell’Afghanistan: ritiro dell’Urss del 1989 e crollo dell’Unione nel 1991.
Peccato che, ammainata la Bandiera Rossa sul Cremlino, sia la Russia sia l’Afghanistan abbiano attraversato un periodo di lunghissima instabilità che, nel caso afghano, dura tutt’ora…
La partita della morte, 80 anni fa il match che ispirò «Fuga per la vittoria»: come andarono (davvero) le cose. Alessandro Vinci su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022
Il 9 agosto 1942 lo stadio Zenit di Kiev fu teatro dell’incontro dal quale è stato liberamente tratto il noto film di John Huston: una storia ben diversa da quella rappresentata sul grande schermo
La rovesciata di Pelé e il rigore parato da Sylvester Stallone. I cameo di altri illustri campioni del mondo del calcio e il sospirato lieto fine allo stadio Colombes di Parigi. Fuga per la vittoria, kolossal hoollywoodiano del 1981 targato John Huston, è tra i film sportivi più celebri della storia del cinema. Ambientato durante la Seconda guerra mondiale attingendo a piene mani da Due tempi all’inferno, pellicola ungherese del 1962, come noto ai suoi cultori è ispirato a un fatto realmente accaduto: la cosiddetta «partita della morte», svoltasi a Kiev esattamente 80 anni fa, il 9 agosto 1942. Un incontro che però, a dispetto del nome con cui viene oggi ricordato, con la morte non ebbe nulla a che fare. Ecco come andarono (davvero) le cose.
La nascita dello Start
A seguito della presa della capitale ucraina da parte dei nazisti, datata 19 settembre 1941, il direttore di un panificio industriale di nome Josef Kordik intravide le condizioni giuste per realizzare il suo più grande sogno da calciofilo: allestire una squadra che riunisse i migliori giocatori della città. Approfittando dello stop del campionato e della necessità di questi ultimi di avere di che vivere durante l’occupazione, offrì dunque lavoro a un’abbondante dozzina di componenti o ex componenti della Dinamo Kiev e della Lokomotiv Kiev. Vide così la luce lo Start, formazione che disputò il suo primo match il 7 giugno 1942 contro il Ruch, altra neonata compagine della capitale ma contraddistinta da una chiara matrice politica di stampo collaborazionista. 2-0 il risultato finale: fu il primo di una lunga serie di successi mietuti dallo Start, che vinse tutte le dieci partite giocate nelle settimane successive (sette delle quali contro rappresentative militari delle forze occupanti). Si trattava di eventi autorizzati dai tedeschi allo scopo di riportare la vita della città a un’apparente normalità, offrendo alla popolazione novanta minuti di svago settimanale. In quest’ottica, nulla di anomalo venne mai segnalato né in campo né sugli spalti durante i vari incontri.
La partita
Come accennato, la gara che sarebbe passata alla storia come la «partita della morte» fu quella del 9 agosto. Teatro della sfida fu lo stadio Zenit, oggi chiamato Start Stadium in memoria di quanto accadde in quella surreale estate 1942. Avversaria dello Start era la Flakelf, squadra composta prevalentemente da ufficiali della Lutwaffe che appena tre giorni prima era stata sonoramente sconfitta per 5-1 proprio dagli uomini di Kordik. Stando a quanto riportavano le locandine dell’epoca, si presentò perciò alla rivincita «in formazione rinforzata».
Com’è normale che fosse, di certo i tedeschi non avrebbero gradito rimediare un secondo k.o. davanti ai circa 2 mila spettatori accorsi per l’occasione, ma il clima prepartita non si poteva assolutamente definire teso. A testimoniarlo, una fotografia giunta fino ai nostri giorni che ritrae le due squadre posare addirittura insieme, con il sorriso sulle labbra, a pochi istanti dal calcio d’inizio. Niente poliziotti pronti a scaricare i mitra e sguinzagliare i cani, dunque, né tantomeno ricatti più o meno velati: «Prima della partita nessuno dell’amministrazione fece pressione su di noi perché giocassimo in modo tale da perdere», ricordò anni più tardi il forte attaccante Makar Goncarenko, come riportato nel documentato saggio di Mario Alessandro Curletto I piedi dei Soviet – Il futbol dalla Rivoluzione d’Ottobre alla morte di Stalin (Il Melangolo, 2010).
Dopo essere passato in svantaggio per 1-0, lo Start chiuse la prima frazione avanti 3-1 grazie a una doppietta dello stesso Goncarenko e a un gol, forse, di Kuzmenko. Più equilibrato invece il secondo tempo, che si concluse sul 5-3 in favore della sempre imbattuta squadra ucraina. Non trovano credibili conferme né un presunto arbitraggio filonazista né un gol intenzionalmente fallito da Klimenko in segno di scherno nei confronti dell’avversario negli ultimi minuti del match. «Fu tutto molto sportivo e corretto – dichiarò in un’intervista rilasciata nel 2002 alla Komsomol’skaja Pravda l’ex giocatore del Ruch Vladimir Nogacevskij, tra gli organizzatori di quelle sfide –. Sulle tribune c’erano molti soldati e ufficiali della Wehrmacht, e applaudivano i gol dei russi. La maggior parte delle partite fu arbitrata da un tenente maggiore di nome Erwin, che prima della guerra aveva fatto parte di una società sportiva in Germania. Al minimo fallo espelleva chiunque se lo meritasse». E interrogato sulle presunte differenze tra la «partita della morte» e quelle che la precedettero rispose: «Non si differenziò assolutamente in nulla. I tedeschi persero ancora una volta».
Dopo il triplice fischio, poi, nessuna fucilazione, nessun arresto. Anzi, il figlio di Michail Putistin, uno dei giocatori dello Start, ricordò che il padre e i suoi compagni «festeggiarono subito la vittoria: brindarono negli spogliatoi e fecero uno spuntino». Dopodiché si spostarono nella casa di un tifoso, dove si trattennero fino a sera.
Quando il pallone smise di rotolare
Nessuno poteva ancora immaginare che quella sarebbe stata la penultima partita dello Start. Facile sarebbe supporre che ciò avvenne per interrompere gli ormai numerosi successi di Goncarenko e compagni, sempre più beniamini del pubblico, ma in realtà fu una diretta conseguenza della più restrittiva politica di occupazione inaugurata dal nuovo Stadtkommissar della città, Berndt. Il quale, parallelamente alle difficoltà incontrate dalla Wehrmacht sul fronte orientale, ridusse le occasioni di svago a beneficio della popolazione e intensificò la ricerca di eventuali soggetti ancora in libertà compromessi con i sovietici.
Il 18 agosto il definitivo calo del sipario: sette giocatori dello Start — Klimenko, Kuzmenko, Putistin, Balakin, Komarov, il portiere Trusevic e il capitano Sviridovskij — vennero arrestati con l’accusa di essere spie dell’Nkvd. Pochi giorni più tardi la stessa sorte toccò a Tjutcev e Goncarenko, che quella mattina non erano di turno. Motivo della retata? Tutti tranne Balakin (che non a caso venne rapidamente rilasciato) avevano militato nella Dinamo Kiev. In Unione Sovietica, infatti, il professionismo sportivo non era formalmente contemplato, per cui occorreva che i calciatori risultassero stipendiati da un ente diverso dalla propria società di appartenenza. E nel caso del club biancoblù tale ente era proprio il Commissariato del popolo per gli affari interni, che lo aveva fondato nel 1927. Un’ambiguità su cui, visto il più severo regime di controllo istituito sulla città, evidentemente i tedeschi ritenevano fosse arrivato il tempo di fare chiarezza.
Su questo punto è comunque interessante dare conto della versione di Goncarenko, secondo cui a lanciare pesanti accuse di intelligenza con i sovietici nei confronti degli arrestati fu nientemeno che il proprietario del Ruch Georgij Svecov, ex giocatore della Lokomotiv Kiev e in stretti legami con le forze di occupazione. In riferimento all’ultima partita della breve ma gloriosa epopea dello Start l’ex cannoniere ricordò infatti: «Non facemmo sconti al Ruch – si legge sempre nel saggio di Curletto –, gliele suonammo con tutta l’anima: 8-0. Questo accadde il 16 agosto (dunque soli due giorni prima dell’inizio degli arresti, ndr). E subito Svecov andò a lamentarsi che non stavamo alle regole, che facevamo la bella vita, e non solo, facevamo anche propaganda per lo sport dei Soviet. In poche parole, ci denunciò».
Ancora repressione
Una volta prigionieri, non fu comunque difficile per i calciatori dell’ormai defunto Start avere salva la pelle dimostrando di non essere iscritti al Partito Comunista e di non essere mai stati membri attivi dell’Nkvd. L’unico componente della rosa a corrispondere a tale identikit era infatti Nikolaj Korotkich, che cadde nelle mani della Gestapo soltanto il 6 settembre successivo. Morì dopo tre settimane di torture, mentre gli altri arrestati vennero trasferiti nel campo di concentramento di Syrec, alle porte della città. In un primo momento incontrarono condizioni detentive relativamente miti fungendo perlopiù da manovali, calzolai ed elettricisti, con addirittura la possibilità di incontrare i parenti più volte alla settimana.
Dopo la disfatta tedesca a Stalingrado, però, le maglie della repressione ripresero a stringersi. Fu così che il 24 febbraio 1943, a seguito – sembra – del mero furto di un salame da parte di un prigioniero, un intero gruppo di lavoro venne messo davanti al plotone d’esecuzione. Si trattava di una cinquantina di uomini in tutto, tra i quali figuravano Klimenko, Kuzmenko, Trusevic e Tjutcev: uno su tre sarebbe stato ucciso. La sorte risparmiò il solo Tjutcev, che qualche tempo dopo riuscì a scappare da Syrec. In un secondo momento sfuggirono al controllo nazista anche Goncarenko, Sviridovskij e Putistin, mentre Komarov lasciò l’Ucraina con i tedeschi in ritirata nell’autunno successivo, senza fare più ritorno in Unione Sovietica.
Nessuna correlazione
Stando così le cose, la «partita della morte» che ha ispirato Fuga per la vittoria non sembra in alcun modo riconducibile alla morte dei quattro calciatori. Prendendo per buona la versione di Goncarenko avrebbe al massimo potuto esserlo, seppur in maniera del tutto indiretta, quella del 16 agosto contro il Ruch di Svecov. Ma anche in questo caso, qualora l’obiettivo dei nazisti fosse stato quello di vendicare le sconfitte subite, non solo non avrebbero eliminato che una piccola parte della squadra, ma non avrebbero nemmeno atteso per oltre sei mesi circostanze tanto casuali e rocambolesche per sbarazzarsi di Klimenko, Kuzmenko e Trusevic insieme a detenuti che con lo Start non avevano mai avuto nulla a che fare. Quanto invece a Korotkich, appare evidente come a condannarlo a morte non furono le sue gesta sul terreno di gioco bensì, al contrario, il suo impegno extracalcistico nei quadri dell’Nkvd. A queste conclusioni giunse anche un’inchiesta condotta negli anni Settanta dalla procura di Amburgo e riaperta, nuovamente senza trovare alcuna valida correlazione tra la scomparsa delle quattro vittime e la «partita della morte», tra il 2002 e il 2005.
Il Piano. La dottrina dell’Universo russo e l’ideologia velenosa di Vladimir Putin. Elena Kostioukovitch su Linkiesta l'8 aprile 2022.
Come spiega Elena Kostioukovitch nel suo ultimo libro, a motivare le scelte del presidente russo è anche un pensiero pericoloso forgiato da studiosi come Anatolij Fomenko e Aleksandr Dugin che propone una rivisitazione della storia irrazionale e paranoica nel nome di un assolutismo magico.
Tutto il mondo si chiede con grande curiosità: cosa passa nella testa di Putin? Qual è il vero scopo dei suoi discorsi intimidatori alla televisione, pieni di incoerenze, a giustificazione dell’invasione dell’Ucraina?
Per cercare di scoprirlo, può essere utile affidarsi alle analisi dei politologi, con le loro fonti colte e il loro metodo efficace. Ed è validissimo pure l’approccio storico-biografico, cerebrale, di matrice psicanalitica, che si concentra sull’analisi del suo linguaggio. In tal modo si evidenziano persino le parentele del suo vocabolario con il lessico del Terzo Reich. Basti notare che il leader russo, parlando di “soluzione finale” della questione ucraina, ha auspicato una okonchatelnoe reshenie (equivalente russo dell’Endloesung tedesco), richiamando proprio la “soluzione finale” prospettata dai nazisti contro gli ebrei a partire dalla Conferenza di Wannsee (1942).
C’è però un’altra via, abbastanza inedita, per cercare di comprendere i recenti avvenimenti. Si tratta di recuperare nel substrato storico-antropologico e di analizzare alcuni concetti del pensiero post sovietico, come la nozione di “Universo russo” (Russkij Mir), utili ad aggiungere un elemento nuovo al dibattito culturale.
Per esempio, emerge che la politica di Putin si appoggia su specifiche formulazioni storiche, o per meglio dire pseudostoriche, come la Nuova cronologia: una corrente di pensiero sconosciuta agli europei, ma estremamente popolare in Russia, nonostante le evidenti stranezze che presenta (o forse proprio per queste).
Analizzando nel dettaglio queste tendenze di pensiero, scopriremo il lato irrazionale della mentalità dello stesso leader russo, Vladimir Putin, e potremo ragionare sui suoi legami con un certo “assolutismo magico”. Ci troveremo a muoverci tra invenzioni storiografiche, falsificazioni, cospiratori di regime e personaggi che sembrano usciti da unо dei romanzi d’appendice tanto cari a Umberto Eco, scrittore di cui ho tradotto tanti libri in lingua russa. E, a tal proposito, non possono non pensare a romanzi come Il pendolo di Foucault e Il cimitero di Praga, costruiti proprio sulla contraffazione della Storia.
Da anni gli analisti osservano come Putin sia vicino a una ideologia molto attuale in Russia che si basa su una corrente filosofica nota come Noomachia (“Guerra tra civiltà”) e su la dottrina politica già citata di Russkij Mir (“Universo russo”). Quest’ultimo termine è stato scelto per definire l’utopia di uno stato ideale che unisca tutti i territori nei quali vivono, o hanno vissuto, etnie russe. Ivi comprese le terre dove vissero in tempi remoti, nell’era della mitica “civiltà primordiale slava”. È da qui che ha origine l’ossessione dei russi per la penisola di Crimea. Secondo il concetto di Russkij Mir, le terre “ancestrali slave” prima o poi si concentreranno attorno alla poderosa Terza Roma, ossia Mosca, seguendo la profezia del mitico eremita Filoteo (1533 circa).
Per comporre i pezzi di questa Russia ideale, bisogna che nasca un superuomo, un moderno Messia. Un canone arcano gli impone, prima di agire, di aspettare la data fatale: il momento in cui sarà finita una grande peste, la Morte Nera che falcerà i popoli, come indicato nell’Apocalisse.
Ormai la messe è pronta. Il “Raccoglitore di tutte le terre russe” è l’appellativo che spetta al mitico condottiero, consacrato a ciò che nel suo ambiente è noto come “il Piano”.
Parlando ai giornalisti, nel corso di una conferenza stampa con Olaf Scholz il 15 febbraio 2022, Putin malignamente profetizzò enigmatico: «Tutto procederà secondo il Piano». Alla domanda sulla consistenza del Piano si rifiutò di rispondere, tuttavia ribadì con insistenza: «Il Piano, noi sappiamo qual è».
Nel suo nuovo discorso rivolto alla nazione russa ha poi ribadito: «Noi procediamo secondo il Piano». Il Piano, come possiamo vedere oggi, a quanto pare prevedeva bombardamenti di civili, orfani, vedove, incendi, bambini uccisi, prevedeva braccia e gambe strappate ai giovani soldati russi freschi di leva. Prevedeva che la centrale atomica di Zaporizhia si trasformasse in una bomba a orologeria, che le scorie atomiche di Chernobyl fossero minacciate dai colpi dei razzi, e gli abitanti dell’Europa ostaggi dei ricatti russi.
La cosa peggiore è proprio che si tratta di un piano, cioè di un disegno redatto a priori e indipendente da qualsiasi trattativa, concessione o lusinga. È il Piano del Grande Capo, che i suoi servitori non possono discutere. Non ha quindi senso, verrebbe amaramente da concludere, sperare che le trattative funzionino.
Tanto più che a guida della delegazione russa c’è Vladimir Medinsky, un piccolo funzionario troppo in basso nei ranghi della nomenclatura. Non è un militare, non è un diplomatico, ha fatto studi di Storia ed è stato più volte smascherato su lacune nella preparazione, diventate ormai sapidi aneddoti. Stalinista. In più, cosa peggiore di tutte, sfegatato adepto dell’idea del Russkij Mir, legata alla Nuova cronologia teorizzata dal professor Anatolij Fomenko.
Fomenko parte da una supposizione totalmente fantasiosa, secondo la quale tutta la storia umana sarebbe stata falsificata a bella posta nel sedicesimo secolo da cronisti europei capeggiati da Giuseppe Giusto Scaligero. Proprio così, falsificata materialmente: sarebbero stati rimpiazzati tutti i libri in tutte le biblioteche del mondo, mettendo al loro posto «libri falsi, prodotti da conoscitori della calligrafia antica, con l’utilizzo di pergamene invecchiate e di inchiostri diluiti per farli sembrare pallidi, con l’apposizione di sigilli contraffatti». Astutamente, i regnanti di quell’Occidente chiassoso e frammentato si sarebbero messi in combutta con i Romanov, una «dinastia di veri impostori e falsari di stirpe tedesca», e con la loro complicità sarebbero riusciti a falsificare i libri di Storia, cancellando il glorioso passato dei russi. In tal modo fu inculcato ai russi un complesso di inferiorità che segnò da allora in poi tutti gli eventi della storia moderna e contemporanea.
Ora è arrivato il tempo di ripristinare la giustizia e porre fine all’umiliazione storica del «grande popolo russo». E incombe la minaccia che questa delirante “cronologia” possa persino entrare a fare parte dei programmi di studio della scuola dell’obbligo nella Federazione russa!
da “Nella mente di Vladimir Putin”, di Elena Kostioukovitch, La Nave di Teseo, pagine 36, euro 1,99 (e-book)
Vladimir Putin, Antonio Socci contro la sinistra: "Figlio del comunismo, chi è davvero lo Zar". Il sovranismo c'entra nulla. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 21 marzo 2022.
Certi "compagni" italiani sono stupefacenti. Crolla il comunismo sovietico e il Pci, dopo aver sventolato per 70 anni la bandiera rossa con falce e martello dell'Urss (il Pci nacque dallo slogan "facciamo come in Russia"), fischiettando cambia casacca e di colpo si dice liberale. Oplà. Nel '98 in Italia il primo (post)comunista, Massimo D'Alema, diventa premier e il suo governo passa alla storia per aver partecipato, come fidato membro della Nato, al bombardamento della Serbia (contro il compagno Milosevic). Nel 2006 è eletto presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che era già dirigente del Pci al tempo di Togliatti (e Stalin) ed è rimasto comunista fino al crollo del Muro di Berlino. A Washington la sua presidenza è stimata. Nel corso del suo mandato l'Italia partecipa alla guerra alla Libia. Ora, con l'invasione russa dell'Ucraina, certe personalità che arrivano dal mondo comunista si mostrano come zelanti sostenitori delle posizioni atlantiste più bellicose, contro il nuovo Impero del Male impersonato da Vladimir Putin. Infine - e a questo punto il rovesciamento delle parti è completo - si arriva ad affibbiare Putin al centrodestra italiano, il quale è così confuso e afono di questi tempi da non saper reagire. Il premio per la disinvoltura spetta a Michele Serra, che è stato una firma simbolo dell'Unità, il quale su Repubblica di giovedì scorso scrive trionfale che, con la guerra Russia/Ucraina «la destra» è investita «in pieno, direttamente» da «una tempesta ideologica devastante». Repubblica, ripete, in questi giorni, lo stesso concetto di Serra il quale chiama tutti a «difendere la democrazia da un tiranno reazionario», Putin, che colloca, appunto, nel pantheon della «destra».
Ma è davvero questa l'identità politica di Putin? Dopo aver sentito per settimane questa disinvolta narrazione, vorremmo sommessamente far presente che la Russia attuale ci pare tuttora governata dalla vecchia Nomenklatura del Partito Comunista e del Kgb da cui proviene lo stesso Putin. Si tratta di ex o post comunisti, proprio come quelli di casa nostra. Lo stesso ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, che vediamo spesso in questi giorni, è un uomo che proviene direttamente dall'apparato del regime sovietico. Per dirla tutta, Michele Serra, che s' iscrisse al Pci nel 1974 e cominciò a lavorare all'Unità nel 1975, ha certamente una storia politica assai più vicina a Putin, che s' iscrisse al Pcus negli anni dell'Università, di quella dei politici o dei giornalisti di centrodestra. La Russia, dopo il 1989, dopo Gorbacev che era capo del Pcus, è stata guidata da Eltsin, per anni dirigente del partito comunista e ministro del governo sovietico. E poi da Putin, anch' egli membro del Pcus e poi del Kgb. Oggi a Putin viene imputata questa affermazione: «La dissoluzione dell'Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». Ma è un'affermazione "di destra" o "di sinistra"? Sarebbe interessante conoscere la risposta di Serra perché se la qualificasse "di destra" ne deriverebbe che sono stati di destra milioni di comunisti italiani che hanno creduto nell'Urss con tutta la dirigenza storica del Pci. Del resto Nicola Zingaretti, diventando segretario del Pd nel 2019, pubblicò un libro, "Piazza grande", dove si legge: «Fino al 1989 la presenza di grandi potenze, internamente fradice e dittatoriali, ma alternative al capitalismo, aveva costituito un oggettivo deterrente a costruire un mondo unidimensionale e senza difese rispetto alle forme più estreme di sfruttamento. Spero che ora nessuno mi attribuisca in malafede nostalgie filosovietiche se rilevo che probabilmente nel dopoguerra, non ci fosse stata l'Unione Sovietica, ciò che è avvenuto in Grecia con la strage di tutti i comunisti sarebbe avvenuto in tutta Europa. Non sarebbero state possibili le lotte dei partiti di sinistra e democratici né il compromesso sociale che oggi in Europa è un esempio per tutto il mondo civilizzato».
DISAGIO SOCIALE - Poi Zingaretti rilevava che le «forze progressiste» con il crollo dell'Urss erano diventate «subalterne» all'«egemonia culturale e pratica del campo avversario», quello liberista e capitalista, «fino a mutuare luoghi comuni, tabù, atteggiamenti e linguaggi che ci hanno allontanato dalla sensibilità popolare». Lo stesso Massimo D'Alema, il leader più rappresentativo della sinistra post-Pci, nel 2020, nel libro "Grande è la confusione sotto il cielo", notava che «la Russia ha vissuto, in seguito al crollo dell'Impero sovietico, un drammatico disagio sociale, l'aumento delle insicurezze e della violenza, ma anche umiliazione ed emarginazione sulla scena internazionale. Non è un caso» proseguiva «che da questa crisi emerga la personalità di Vladimir Putin, un uomo che rappresenta innanzitutto la riscossa nazionalistica della Russia, che proviene dagli apparati militari e di sicurezza sovietici, ricostruendo così anche il senso di una continuità storica che l'89 sembrava avere spezzato». D'Alema ricorda una frase di Putin: «Chi volesse restaurare l'Urss e il comunismo sarebbe un uomo senza cervello. Ma chi non ne ha rimpianto e nostalgia è un uomo senza cuore». E commenta: «Putin rappresenta esattamente questo approccio realistico, talora spietato, alla logica della competizione nel capitalismo globale; ma anche la nostalgia verso il ruolo dell'Urss come grande potenza mondiale. Per questa ragione la nuova leadership nazionalista russa si è sforzata di recuperare il senso della continuità e l'orgoglio anche dei passaggi fondamentali della storia sovietica. Innanzitutto della grande guerra patriottica, rivalutando persino il ruolo di Stalin, non certo in quanto dittatore, ma come capo dell'Armata Rossa. Per questo credo che la parola nostalgia sia molto importante per interpretare lo spirito russo. Putin» prosegue D'Alema «garantisce il ritorno all'ordine, un maggiore dinamismo economico, ma anche la ripresa di una politica di potenza. Nello stesso tempo è forte l'impegno per ricostruire dalle radici l'identità russa». Ed ecco la proposta di D'Alema: «Sarebbe realistico riconoscere che ormai la Russia è un interlocutore essenziale se si vogliono avviare finalmente a soluzione i conflitti ancora aperti... e si vuole ricostituire un quadro di coesistenza e di stabilità... Ritengo che servirebbe un cambio di strategia anche da parte dell'Europa, il che non significa, ad esempio, accettare l'aggressività russa in Ucraina o giustificare le responsabilità del governo di Mosca nell'annessione della Crimea. Bisogna tuttavia rendersi conto che la politica di allargamento della Nato fino ai confini russi ha alimentato la percezione di uno stato d'assedio che il Cremlino non può ragionevolmente accettare. Sarebbe stato più saggio collocare anche queste scelte nel quadro di una rinnovata architettura di coesistenza e sicurezza in Europa che avrebbe dovuto essere negoziata dopo la fine della guerra fredda». In conclusione D'Alema prospetta «una nuova strategia verso la Russia che si proponga di ricondurre la potenza russa nel quadro di equilibri accettabili e di norme di comportamento condivise, ma dubito che lo si otterrà attraverso le sanzioni e l'escalation del conflitto: ritengo necessario procedere con un nuovo negoziato che sia inclusivo e non venga percepito come umiliante per una grande potenza come la Russia di Putin».
NO AI DEM CON L'ELMETTO - Considerazioni simili ha fatto nei giorni scorsi Pierluigi Bersani - un altro ex segretario del Pd - ponendosi agli antipodi del Pd lettiano: «Non mi piace la Ue con l'elmetto», «dopo il 1991 dovevamo coinvolgere la Russia nel nuovo equilibrio continentale». Lo fece Berlusconi, nel 2002, portando Putin e Bush al trattato di Pratica di Mare: la sinistra dovrebbe riconoscergli questo merito (essa non ne fu capace). Purtroppo poi gli Usa hanno invertito la rotta tornando alla guerra fredda. E il Pd lettiano segue a ruota la Casa Bianca. Ma, con buona pace di Serra, Putin appartiene alla storia comunista. È una delle sue evoluzioni (e oggi involuzioni).
È nato il sovranismo europeo. Marco Gervasoni il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.
Malissimo hanno fatto quei grillini e quei leghisti, assenti ingiustificati durante il discorso di Mario Draghi, forse per non doverlo approvare - cosi come ha fatto bene l'opposizione di Fratelli d'Italia a sostenerlo.
Malissimo hanno fatto quei grillini e quei leghisti, assenti ingiustificati durante il discorso di Mario Draghi, forse per non doverlo approvare - cosi come ha fatto bene l'opposizione di Fratelli d'Italia a sostenerlo. Gli assenti avrebbero potuto imparare una lezione di filosofia della storia, impartita dal premier. Che ha capito benissimo, quanto il 24 febbraio, giorno dell'invasione dell'Ucraina, sia una data di svolta, dopo la quale nulla è più come prima. È finito il post guerra fredda, l'età della globalizzazione e dell'illusione che il mercato e gli scambi avrebbero inglobato la politica, a cominciare da quella di potenza degli stati. Non a caso nel discorso del premier la parola «illusione» è ricorsa più volte: ci siamo illusi in particolare che la guerra fosse uscita dall'orizzonte della storia, che la democrazia e la libertà fossero al sicuro. Per la verità, la crisi del 2011, poi la Brexit e molto altro avevano incrinato questo ordine: che però ora crolla anche sul piano delle relazioni internazionali. È una nuova epoca di iron and blood, sangue e acciaio, diversa anche dalla guerra fredda, dotata di regole non scritte, che il neo imperialista Putin ha violato. In questa nuova era, la prima cosa da non fare è cedere ai ricatti imperialistici russo (e, dietro, cinese). Concedere, soprattutto ora, sarebbe fatale. Lo ha ben rimarcato Draghi, che appare così il premier della Ue più vicino alle ragioni dell'anglosfera, alla Uk di Boris Johnson e agli Usa di Biden. Mentre Macron e Scholz sembrano ancora riluttanti, come sospinti da un vento che loro, e soprattutto il tedesco, sono costretti a seguire per inerzia ma che non hanno capito ancora dove conduca. Già, dove conduce? Questo Draghi non l'ha detto ma è facile capire in che direzione. Si va e si deve andare verso l'aumento delle spese militari, e soprattutto verso la costruzione di una forza di difesa europea. Si va e si deve andare verso l'abbandono definitivo del patto di stabilità. Quando sei in un'epoca di guerra, e fai fronte a una minaccia di carattere espansionistico come quella russa, non puoi guardare ai bilanci. L'epoca della guerra fredda fu anche quella della grande spesa pubblica, non per caso. Si va e si deve andare verso il superamento della contrapposizione tra europeisti e euroscettici, appartenente a un'altra epoca. Dopo il 24 febbraio i sovranisti devono diventare europeisti, e i vecchi europeisti, sovranisti. Come Draghi nel discorso di ieri.
Trent’anni fa a Sarajevo partì l’assedio. Io c’ero. Nella notte tra 1 e 2 marzo i primi spari nelle strade della capitale bosniaca. Era l’inizio di una guerra che sarebbe costata 12 mila morti e 50 mila feriti. Tra segnali sottovalutati e spietate profezie, il racconto di chi seguì quella guerra dal campo. Gigi Riva su L'Espresso il 28 febbraio 2022.
Fu nella notte tra il 1° e il 2 marzo del 1992 che sentii bussare insistentemente alla porta della mia camera all’hotel Holiday Inn di Sarajevo. Era Alberto Negri, inviato del Sole 24 ore, che alle mie rimostranze per il sonno interrotto replicò sarcastico: «Scusa se ti disturbo, ma qui sotto ci sarebbe una piccola guerra». Alberto era reduce da una cena in centro perché il suo giornale l’indomani non usciva, io ero tornato in albergo a scrivere un articolo per l’ultima ribattuta del mio, Il Giorno, dovevo dare conto del risultato del referendum sull’indipendenza, onorato dai croati e musulmani di Bosnia e boicottato dai serbi.
Sarajevo è intrappolata nel passato. E i giovani scappano via. Le divisioni etniche, la disoccupazione e la burocrazia pesano sui più giovani. Alcuni resistono e cercano di mantenere viva la città, ma la maggioranza va all’estero. Linda Caglioni su L'Espresso il 28 febbraio 2022.
La struttura del principale campus universitario di Sarajevo è un reticolato fatto di vecchi edifici, con i muri quasi interamente scrostati dagli anni. Sulla parete interna di uno di quegli stabili un po’ fatiscenti sono ritratti due occhi gialli, il dettaglio di un murale più ampio dedicato al volto di una donna sotto il cui sguardo di tempera si riunivano fino a poco tempo fa i ragazzi del Drustvo Kulturni Centar, il centro culturale-sociale di Sarajevo.
111. Ricordi di un europeo. Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.
«La più intima missione cui per quarant’anni avevo dedicata ogni energia, la pacifica federazione dell’Europa, era andata in rovina; quello che io avevo temuto più che la mia stessa morte, la guerra di tutti contro tutti, era ormai scatenata». Parole scritte allo scoppio della Seconda Guerra mondiale da uno scrittore che amo, Stefan Zweig, nel suo capolavoro del 1941 Il mondo di ieri: ricordi di un europeo. Pochi mesi dopo, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, fu trovato morto a Petropolis, in Brasile, dove si era rifugiato. Viennese, apolide da quando Hitler aveva preso l’Austria, i suoi libri erano stati bruciati e lui perseguitato. Quella notte di 80 anni fa, marito e moglie si erano suicidati, anche se alcuni sostengono che «siano stati suicidati» dai nazisti. Zweig aveva chiamato «Europa» la sua villa a Salisburgo, dove aveva scritto memorabili biografie e racconti di personaggi di tutte le nazioni europee (Balzac, Dostoevskij, Nietzsche, Freud...) proprio per cogliere il genio di ognuna: sognava un’Europa unita dai suoi fondatori spirituali. Nei Ricordi la narrazione si ferma simbolicamente il 1° settembre del 1939, giorno dell’invasione della Polonia da parte dei Tedeschi: era finito il sogno umanistico dell’Europa unita. Affido alle sue parole (la coincidenza del giorno della sua morte con l’invasione dell’Ucraina mi ha portato a farlo) il requiem per un’Europa che, unita apparentemente dalla moneta, è stata in questi anni incapace, per mancanza di cultura della pace, di respirare con i suoi due polmoni, occidente e oriente, dall’Atlantico agli Urali. Perché? «Sono stato contemporaneo delle due più grandi guerre dell’umanità. Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero. Tutti i cavalli dell’Apocalisse hanno fatto irruzione nella mia vita, carestie e rivolte, inflazione e terrore, epidemie ed emigrazione; ho visto crescere e diffondersi sotto i miei occhi le grandi ideologie delle masse, il bolscevismo in Russia, il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, e anzitutto la peste peggiore, il nazionalismo che ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea». La peste dell’Europa viene, per Zweig, dal male comune a tutte queste ideologie: il nazionalismo, corruzione del sano amor di patria che permette alle nazioni di cooperare (mettere in comune il meglio) e non di competere (affermare la propria potenza). Ci riempiamo la bocca della parola pace, ma poi a partire dal nostro sistema educativo costruiamo la cultura sulla competizione e non sulla cooperazione. Per educare alla pace bisogna prima che ciascuno scopra la sua unicità e poi che capisca che, per realizzarla, la strada migliore è metterla a disposizione di altri. Se tutto è invece centrato sull’affermazione della propria potenza, sin da bambini impariamo a vedere accanto a noi ostacoli, non alleati necessari a raggiungere obiettivi più grandi di quelli perseguibili da soli. Questo vale per gli studenti di una classe come per le nazioni di un continente: non saranno unite dalla stessa moneta ma solo dalla qualità delle loro relazioni. Papa Francesco ha affermato in una recente intervista che se per un anno si smettesse di produrre armi si potrebbe dare cibo ed educazione a tutto il mondo gratuitamente. Ma può farlo solo chi smette di affrontare la paura di non esistere con la ricerca della propria autoaffermazione (i nazionalismi costruiscono narrazioni abnormi sull’identità proprio perché non ce l’hanno). La crisi attuale sta portando invece verso nuovi armamenti: non è cambiato nulla in decenni di pace apparente, perché non ci si è realmente avvicinati agli altri. Proprio ciò che portò alla Prima Guerra mondiale un’Europa illusa dal proprio benessere: «Nessuno credeva a guerre, rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale e violenza apparivano impossibili nell’età della ragione... In questa commovente fiducia c’era una presunzione pericolosa. L’Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso il migliore dei mondi possibili. Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l’umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Tale fede in un «progresso» ininterrotto ed inarrestabile ebbe per quell’età la forza di una religione. Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei... I nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza. Oggi è facile deridere l’illusione ottimistica di quella generazione accecata dal suo idealismo: illusione che il progresso tecnico dovesse immancabilmente avere per effetto un non meno rapido miglioramento morale». Le parole di Zweig sembrano profetiche ma sono soltanto attuali perché siamo fermi lì: il progresso tecnico e il benessere a cui affidiamo sempre di più le nostre ansie di salvezza ci dà l’illusione di diventare migliori, ma non è così. L’uomo non si salva grazie al progresso esteriore ma grazie a quello interiore: quando, per esistere, smette di cercare il potere e quindi la potenza, e si mette a servire. A tal proposito per me sono centrali le parole e la vita di Cristo: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10). Utopia? Nell’ultimo capitolo del Mondo di ieri, intitolato «L’agonia della pace», Zweig racconta la sua amicizia con Freud: «Avevo parlato spesso con Freud dell’orrore del mondo hitleriano e della guerra. Non era per nulla stupito da simile spaventoso scoppio di bestialità. L’avevano sempre accusato, mi diceva, di essere un pessimista, perché aveva negato il predominio della civiltà sugli istinti; ora si poteva vedere orrendamente confermata la sua affermazione, essere cioè indistruttibile nell’animo umano l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento. Forse nei secoli futuri si sarebbe potuta trovare una forma per domare tali istinti, almeno nella vita sociale dei popoli, ma essi permanevano nella vita quotidiana e nella natura più intima quali energie indistruttibili e forse anche necessarie al mantenimento della tensione vitale». Non sembra possibile domare (con il diritto, le armi, le sanzioni, le organizzazioni internazionali...) questi istinti nelle relazioni tra i popoli, proprio perché questi istinti appartengono a tutti, da chi guida nel traffico a chi governa una nazione. Questi istinti sono necessari alla tensione vitale, come dice Freud, ma non è vero che questa tensione si realizza meglio nella competizione che nella cooperazione (lo dice anche la biologia). Credo che qui stia l’enorme vuoto educativo della nostra cultura e la sfida per il futuro: per unirci non basteranno mai le soluzioni tecniche (dalla moneta agli eserciti) che non sono altro che maschere della competizione. Allo scoppio della Seconda Guerra mondiale di cui ignorava l’esito finale Zweig scrive: «Mi fu chiaro: ancora una volta il passato era morto, il lavoro compiuto distrutto, l’Europa, la nostra patria per la quale avevamo vissuto, era distrutta e per un tempo che andava ben al di là della nostra vita. Si iniziava qualcosa di nuovo, un’altra epoca, ma quanti inferni e quanti purgatori era necessario attraversare per giungere sino a lei!». Io non so quanto questa guerra ci toccherà da vicino, ma non posso ignorare che a noi è affidato il compito e il coraggio di aprire un’epoca nuova sulle macerie dell’attuale che poi sono le stesse del mondo di ieri. Lì dove siamo, oggi, a partire da come tratteremo chi ci sta accanto, da come collaboreremo con colleghi, da come staremo nel traffico. Solo questo potrà liberarci dal pessimismo che attanaglia il nostro cuore.
Storia di una dottrina. Il nazionalismo di Kedourie e i pericoli della politica moderna. Antonella Besussi su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.
Lo studioso britannico mette in luce, analizzando la genesi dell’ideologia, le sue radici kantiane e le distorsioni che sono sopravvenute. In particolare il suo accostamento al razionalismo, che avrebbe dato vita a vere e proprie patologie del pensiero
Ringrazio Alberto Mingardi per avermi coinvolto in questa presentazione altrimenti non avrei forse avuto occasione di leggere un libro brillante, sontuosamente servito dalla sua introduzione né di incontrare un temperamento intellettuale eccentrico e tough-minded che non conoscevo (confesso una certa preferenza per i tough-minded rispetto ai tender-minded).
Credo che Kedourie abbia ragione quando dice che la filosofia politica è la sua materia e la storia del Medio-Oriente un hobby. Questa è per me una circostanza fortunata perché so poco di storia del Medio Oriente e qualcosa di filosofia politica. In questo libro è evidente la propensione a confrontarsi teoricamente – e con profonda conoscenza di causa – con alcuni snodi concettuali decisivi nel passaggio mai abbastanza indagato tra illuminismo e romanticismo. Il nazionalismo diventa in questo senso un’occasione per fare i conti con il razionalismo della politica moderna.
Razionalismo che è molte cose insieme in una linea Burke-Oakeshott: una metafisica politica che sacrifica la realtà all’ideologia, l’esperienza a principi prestabiliti; una tesi filosofica secondo cui la teoria ha priorità sulla pratica; un approccio che alimenta il bovarismo politico degli intellettuali. Sono proprio queste le caratteristiche che secondo Kedourie fanno del nazionalismo uno stile politico razionalista, che fa valere ideologia contro storia, astrazione contro immersione, monismo contro pluralismo.
Filosofie scadenti distorcono il principio kantiano dell’autodeterminazione, individualistico e universalistico, mettendolo al servizio del particolarismo linguistico, etnico e culturale e quindi dei vincoli comunitari. La nazione è una forma politica costrittiva, o sei dentro o ne sei espulso, come mostra l’esperienza degli ebrei a Baghdad vissuta da Kedourie in prima persona.
Che l’invenzione del nazionalismo tradisca le intenzioni di Kant è innegabile, ma Kedourie fa anche riflettere su cosa nell’impianto kantiano offre risorse a questa impresa.
Citerei tre aspetti: a) l’allineamento tra il razionalismo etico e la rivoluzione, quindi l’idea che eventi politici trovino la giustificazione in filosofie; b) la pubblicizzazione della filosofia, cioè l’idea che gli accademici devono uscire dalle aule, dove Burke vorrebbe riportarli (si è spesso tentati di dargli ragione e senza dubbio Kedourie lo fa); c) la subordinazione della politica alla moralità, il moralismo, che prevede la politica debba essere governata da criteri esterni alle sue dinamiche. Sono tre ami che potremmo dire hanno pescato molti pesci, e di varie specie.
Il nazionalismo è uno di questi pesci. Estendendo la portata dell’autodeterminazione a un soggetto collettivo modellato da specifici fatti contingenti si offre giustificazione a eventi politici che vogliono affermarlo; si offrono opportunità di intervento pubblico a burocrati e intellettuali che vogliono rappresentarlo; si radica l’appartenenza politica in fatti affettivi in modo da rendere la conformità un fenomeno automatico. Ne viene fuori un costrutto dottrinario esportabile, che impone lessico e aspirazioni occidentali a esperienze e dinamiche politiche inadatte a sopportarli, con esiti distruttivi.
La costellazione di nozioni a prima vista eterogenee che Kedourie riconduce al nazionalismo trova su questo sfondo una ricomposizione. Romanticismo, idealismo, moralismo sono categorie che usa per descrivere i tratti patologici dello stile razionalista applicato alla nazione.
L’idea che la ragione non solo permette, ma richiede di cambiare il mondo secondo principi di giustizia alimenta esperimenti politici anche in contesti dove quei principi sono parole vuote; porta coloro che si percepiscono come funzionari dei suoi imperativi a agire politicamente come predicatori o ideologi, ma anche come cavalieri o soldati dell’ideale; alimenta l’aspettativa che la politica non sia una pratica autonoma e limitata, ma una missione salvifica.
Il ritratto magistrale – anche se fin troppo ostile – del colonnello Lawrence come eroe della nazione araba sintetizza bene questi tratti patologici in una sola persona. Devo dire però che aggiungere a questi tratti patologici il liberalismo mi è parso improbabile per quanto l’uso del termine sia idiosincratico. Lawrence sarebbe liberale in quanto sottovaluta la distanza tra i principi e le pratiche: non piace a Kedourie il suo ricorso alla politica come strumento di salvezza, che ne fa un romantico idealista, ma soprattutto l’attivismo correttivo cieco alle realtà caratteristico di coloro che “sognano di giorno”.
L’attivismo correttivo, però, può prendere diverse forme, non tutte idealistiche, romantiche o moralistiche.
Il nazionalismo che Kedourie avversa è un’invenzione tedesca, non c’è in Inghilterra e Stati Uniti, che non intendono la lealtà istituzionale come un imperativo culturale. Inglesi e americani ragionano sullo sfondo di libertà civili e religiose che l’autogoverno deve tutelare, mentre per i continentali è la nazionalità a garantire la libertà dei membri e l’autodeterminazione è attributo di un’identità condivisa. Un conto è pensare che la questione del governo deve essere decisa dai governati, un conto è invece dissolvere il rapporto tra governanti e governati in un costrutto comunitario che ai governati non lascia alcuna libertà se non quella di rappresentarlo.
Ignorando deliberatamente queste sfumature che ben conosce Kedourie respinge nel nazionalismo una manifestazione della modernità politica in quanto tale, trattandola come un monolite ingombrante e pericoloso, al quale si può forse soltanto girare intorno. Restando reattivo, quindi con lo sguardo rivolto all’indietro, il conservatorismo di Kedourie esclude qualsiasi possibilità propositiva e prende l’aspetto di una posizione malinconica che non riesce a elaborare il lutto della fine di principi di ordine superati. Il suo argomento resta comunque un ottimo antidoto alla politica assoluta dalla quale la modernità può essere tentata.
Voltare pagina. Tutti dovrebbero leggere “Nazionalismo” di Kedourie, anche gli avversari politici. Sergio Scalpelli su L'Inkiesta il 18 Febbraio 2022.
È un’analisi potente e precisa, ripubblicata dalla benemerita casa editrice Liberlibri, che aiuta a orientare il dibattito su un tema che sembra tornato d’attualità. Uno strumento utile soprattutto per chi combatte questa ideologia
Se un fantasma si aggira per l’Europa, negli ultimi anni è stato quello del nazionalismo. Inframmezzato ai più diversi motivi populisti, travestito da “sovranismo” per evitare il richiamo a un’idea di nazione spesso usurata nella società globale, il nazionalismo sembrava morto, consegnato al cimitero delle idee del secolo passato. E invece è più presente che mai, entra quotidianamente nella comunicazione di leader diversissimi, per cui popolo e nazione sono formule totalizzanti, armi puntate contro l’Europa delle élite e la globalizzazione dei banchieri.
Quando un’idea sopravvive a tempi tanto diversi, e quando ritorna ciclicamente anche nella discussione pubblica più minuta e puntuale, vuol dire che di un’idea forte si tratta. Magari sbagliata, ma forte.
Nelle scorse settimane Liberlibri, benemerita casa editrice di Macerata che tanto ha fatto per dare a questo Paese una cultura liberale degna del sostantivo, ha pubblicato in traduzione “Nationalism” di Elie Kedourie. È un libro del 1960, forse quello dopo il quale si riaccende la discussione sul tema, riferimento per Ernest Gellner (il cui “Nazioni e nazionalismo”, con la sua interpretazione funzionalista e, in realtà, para-marxista del nazionalismo, fu invece prontamente tradotto da Editori Riuniti). Il libro prende il nazionalismo sul serio, lo inquadra nell’idealismo tedesco dell’Ottocento, lo interpreta (per usare una felice espressione di Alberto Mingardi, che ha tradotto e introdotto il volume) come “romanticismo in politica”.
I romantici sono schiavi di alcuni assunti, come il primato dell’autenticità. E l’autentico, in politica come nella vita, è totalizzante, fa piazza pulita degli artifici e di quanto di più artificiale ci sia: cioè le regole complesse di quell’impresa complessa che è il vivere civile.
Abbiamo ospitato una presentazione del libro al Centro Brera (potete rivederla su Radio Radicale) e ospitiamo su Linkiesta gli interventi, bellissimi, di Sergio Belardinelli, Antonella Besussi e Fiona Diwan.
Si capisce che rispetto ai nazionalisti noi stiamo sull’altra barricata. Ma qualsiasi cultura politica che si rispetti studia e cerca di comprendere il suo avversario. Così dobbiamo fare. Il libro di Kedourie è uno strumento potente e speriamo lo sia anche il dibattito di cui come Linkiesta abbiamo dato conto e che speriamo prosegua.
Storia di un’idea. Quando il nazionalismo era ancora una novità. Elie Kedourie su L'Inkiesta il 28 Gennaio 2022.
È un concetto nato in tempi recenti: sorto dalle argomentazioni dei philosophes francesi, è cresciuto con lo scoppio della Rivoluzione francese, fino a imporsi insieme al nuovo ordine politico nato in quel periodo.
Il nazionalismo è una dottrina inventata in Europa all’inizio del Diciannovesimo secolo. Essa pretende di fornire un criterio per la determinazione dell’unità di popolazione più adatta ad avere un proprio governo per l’esercizio legittimo del potere nello Stato, e per l’organizzazione corretta di una società di Stati.
In estrema sintesi, tale dottrina ritiene che l’umanità sia divisa naturalmente in nazioni, che tali nazioni siano conosciute in virtù di certe caratteristiche che possono essere verificate e che l’unico tipo legittimo di governo sia l’autogoverno nazionale. Non è il minore dei trionfi di questa dottrina che tali proposizioni siano ormai comunemente accettate e ritenute di per sé evidenti, e che persino la parola “nazione” sia stata dotata dal nazionalismo di un significato e di una importanza che era ben lungi dall’avere sino alla fine del Diciottesimo secolo.
Queste idee sembrano ora pressoché naturali nella retorica politica dell’Occidente della quale ci si è poi appropriati in tutto il mondo. Ma ciò che ora appare naturale un tempo era tutto fuorché familiare, doveva essere spiegato tramite argomenti, facendo ricorso alla persuasione, portando prove di tipo diverso; quello che oggi sembra semplice e trasparente è in realtà oscuro e macchinoso, ed è l’esito di circostanze ormai dimenticate e di preoccupazioni ormai accademiche, il residuo di sistemi metafisici talora incompatibili e persino contraddittori. Per spiegare questa dottrina è necessario interrogarsi sul destino di alcune idee nella tradizione filosofica dell’Europa e domandarsi perché abbiano occupato il centro della scena in un particolare momento storico.
La fortuna delle idee, come quella degli uomini, dipende tanto dal caso quanto dal loro valore e dal loro carattere, e se la dottrina del nazionalismo divenne tanto rilevante al volgere del Diciottesimo secolo, ciò accadde non soltanto a causa dei dibattiti dei filosofi, ma anche in ragione degli eventi che ammantarono le questioni filosofiche di un rilievo immediato ed evidente.
La filosofia dell’Illuminismo prevalente in Europa nel Diciottesimo secolo riteneva che il mondo fosse governato da una legge di natura uniforme e che non ammetteva variazioni. Per il tramite della ragione l’uomo poteva scoprire e comprendere questa legge, e affinché regnassero pace e felicità bastava che la società fosse ordinata secondo i suoi dettami. Questa legge era universale, ma ciò non significava che non ci fossero differenze fra gli uomini; significava invece che tutti avevano qualcosa in comune, che contava di più delle loro differenze. Si poteva dire che tutti gli uomini erano nati eguali, che tutti avevano un diritto alla vita, alla libertà e a perseguire la propria felicità o, in alternativa, che gli uomini erano soggetti a due padroni, Dolore e Piacere, e che le migliori disposizioni sociali erano quelle capaci di massimizzare il piacere e minimizzare il dolore.
Quale che sia il modo in cui questa dottrina viene presentata, se ne possono trarre alcune conseguenze. Lo Stato, in questa visione filosofica, è un insieme di individui che vivono assieme affinché meglio possano assicurare il proprio benessere, ed è dovere dei governanti produrre il massimo benessere possibile per gli abitanti del loro territorio, facendo uso di mezzi messi a punto dalla ragione.
È questo il patto sociale che unisce gli uomini gli uni agli altri, e che definisce diritti e doveri di sovrani e sudditi. Questa non era soltanto la prospettiva dei philosophes, che ne rivendicarono la validità universale, ma anche la dottrina ufficiale dell’assolutismo illuminato.
Secondo tale dottrina il sovrano illuminato regola le attività economiche dei sudditi, fornisce loro un’istruzione, si cura dell’igiene e della salute, garantisce una giustizia equanime e veloce, e in generale si preoccupa del benessere dei suoi sudditi, anche contro i desiderî di questi ultimi se necessario, poiché la grandezza dello Stato è la gloria del sovrano e uno Stato può diventare grande solo in proporzione alla popolazione e alla sua prosperità. In questo senso va intesa la massima di Federico il Grande di Prussia (1712-1786), secondo cui un re è il primo servitore dello Stato.
Un’operetta costruita nella forma di uno scambio di lettere fra Anapistemone e Filopatro, scritta da Federico stesso, le “Corrispondenze sull’amore della patria” (1779), può ben illustrare queste idee. L’autore vuole mostrare che l’amor patrio è un sentimento razionale e rifiutare l’idea, attribuita a «qualche enciclopedista», che siccome la Terra è la casa comune della razza umana l’uomo saggio dev’essere cittadino del mondo. È vero, Filopatro ammette di buon grado che gli uomini sono fratelli e debbono amarsi l’un con l’altro; ma questa vasta benevolenza di per sé richiama l’esistenza di un dovere più pressante e più specifico, quello, cioè, verso quella società particolare alla quale l’individuo è legato dal contratto sociale. «La buona società», Filopatro informa Anapistemone, «è la tua. Senza accorgertene, tu sei così fortemente legato alla patria che non puoi né isolarti da essa né separartene senza patire le conseguenze del tuo errore. Se il governo è lieto, tu prosperi; se esso soffre, la sua sfortuna ricade su di te. Similmente, se i cittadini godono di un’onesta prosperità, il sovrano prospera, mentre se i cittadini sono travolti dalla povertà anche la condizione del sovrano sarà miserevole. L’amor patrio non è dunque un mero concetto della ragione, esso esiste nella realtà».
Non a caso Filopatro arriva a suggerire che l’integrità di tutte le province dello Stato tocca direttamente il cittadino. «Non vedi», chiede, «che se il governo dovesse perdere tali province, esso finirebbe per indebolirsi, e perderebbe le risorse che ne ha tratto, e pertanto sarebbe meno efficace nell’aiutarti, in caso di bisogno?».
In questa prospettiva, dunque, la coesione dello Stato, e la lealtà verso di esso, dipendono dalla sua capacità di assicurare il benessere dell’individuo, mentre per quest’ultimo l’amor patrio è una funzione dei beneficî ricevuti. Accanto all’argomento del re, possiamo osservare quello di un privato cittadino. Goethe, recensendo nel 1772 un libro intitolato appunto “Sull’amore della patria”, scritto per promuovere la lealtà agli Asburgo nel Sacro romano impero, aveva questo da dire: «Ce l’abbiamo noi una patria? Se abbiamo un luogo dove possiamo stare in pace coi nostri possessi, un campo per cibarci e una casa per ripararci, non è quella la nostra patria?»
Tale era l’opinione corrente in Europa quando divampò la Rivoluzione francese. È essenziale rammentare il significato di quest’evento. Non fu soltanto un rivolgimento civile, un coup d’état, che sostituì un certo gruppo di potenti con un altro. Eventi simili erano del tutto usuali in Europa, e da principio furono in molti a considerare la Rivoluzione francese alla stregua di sommovimenti simili, o comunque un tentativo di realizzare quello stesso programma di riforme che l’assolutismo illuminato aveva fatto proprio.
Ma divenne sempre più evidente che la Rivoluzione francese aveva introdotto nuove possibilità nell’uso del potere politico e trasformato i fini riconosciuti legittimi per i governanti. Se i cittadini di uno Stato non approvavano più le istituzioni politiche della loro società, essi avevano il diritto e il potere di sostituirle con altre più soddisfacenti; come recitava la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino: «Il principio di ogni Sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa».
Ecco il prerequisito senza il quale una dottrina come il nazionalismo non sarebbe concepibile. Tale dottrina vuole stabilire il modo migliore nel quale una società può condurre i suoi affari politici, e realizzare i suoi scopi, se necessario attraverso cambiamenti radicali: la Rivoluzione francese aveva dimostrato, in modo clamoroso, che un’impresa di tal fatta era possibile. Così, essa aveva grandemente rafforzato una tendenza all’irrequietezza politica implicita nelle riforme predicate dall’Illuminismo e in apparenza fatte proprie dall’assolutismo illuminato. Tali riforme dovevano essere realizzate secondo un piano; e l’afflato riformista non doveva cessare fino a che tutta la società e le sue parti finalmente non si fossero adattate a quel piano.
Crebbe così un’inesauribile aspettativa di cambiamento, un pregiudizio in favore del cambiamento stesso e una convinzione che lo Stato si trovasse a essere stagnante fintanto che non fosse immerso in un costante processo di riforma. Un tale clima di pensiero era necessario per lo sviluppo e la diffusione di idee come quelle nazionaliste.
di Elie Kedourie, “Nazionalismi” (a cura di Alberto Mingardi), Liberlibri, 2022, pagine 195, euro 20
Sovranisti per caso. Marco Gervasoni il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale.
La notte buia della politica. Dove tutti sono sovranisti. E se il sovranismo fosse stato solo un equivoco? Se dietro a questa parola si celasse poco o niente, non solo oggi, quando è quasi sparita dal vocabolario politico, ma anche nel suo momento di massimo fulgore in Italia, tra il 2016 e il 2020? Anche dopo aver letto il volume di recentissima pubblicazione del politologo Thomas Guénolé, Le souverainisme (Parigi, Presses Universitaries de France, 9 euro) che avrebbe il principale obiettivo di spiegarci cosa esso sia, l'impressione è questa. Ci pare che collegata a questa parola alla fine non vi sia realmente una «cosa», cioè che il sovranismo non sia riuscito ad essere né una teoria né una ideologia politica (giusta la classica distinzione di Michael Freeden).
È stato soprattutto, almeno in Italia, un marchio per farsi spazio nel marketing politico, oltre che uno straordinario strumento polemico per gli avversari. I sovranisti avevano qualche difficoltà a definirsi, mentre per i loro avversari fu compito facile catalogarli per delegittimarli. Che il sovranismo non sia né una teoria né una ideologia politica è chiaro appunto dalla lettura del libro dello studioso, che non è certo ostile, visto che è stato consigliere di Jean Luc Mélenchon. Egli infatti finisce per classificare alla stregua di sovranismo una cosi grande varietà di esperienze da produrre il classico effetto hegeliano di notte in cui tutte le vacche sono nere. Sovranisti, gli indipendentisti del Quebec francese, che in effetti negli anni Sessanta il termine l'hanno inventato. Sovranisti gli autonomisti di ogni tipo, compresi scozzesi e catalani, ma anche zapatisti in Messico. Sovranisti i gollisti che nel 1992, diversamente dall'apparato di partito, condussero la campagna per il no a Maastricht. Sovranisti, i comunisti sopravvissuti. E trasformatisi in Podemos in Spagna e in Syrizia in Grecia. Sovranisti i socialisti di Jean Pierre Chevenement che si staccarono a loro volta da Mitterrand ed erano per il no alla Ue. Sovranisti i Le Pen. Più avanti nel tempo sovranisti i Brexiteers, ma non sovranista Trump. Sovranisti, ovvio, i 5 stelle fino al 2019.
A questo punto tanto varrebbe riprendere la categoria di anti europeisti, che è del tutto insoddisfacente, visto che ognuno di questo attori giurava essere non esser contro l'Europa ma contro questa Europa, cioè la Ue. Ma che almeno fa chiarezza perché, se c'era un elemento comune, forse il solo, a tenere assieme esperienze, culture, teorie e ideologie cosi diverse, è stata proprio la ostilità alla Ue. Ma era un fascio di forze puramente negative, esistevano solo per contrapporsi a qualcosa, perché poi, quanto a proposte di riforma dell'Europa, ognuno ne aveva una diversa.
Per fare un po' di ordine Guénelé distingue tra sovranismo civico, sovranismo etnico, sovranismo economico: il primo è quello della sinistra, il secondo quello della destra, il terzo è concentrato contro la moneta unica. Ma il sovranismo economico, come mostra chiaramente l'autore, possiede matrici nettamente di sinistra, di stampo socialista e keynesiano: il sovranismo di destra, privo di una sua dottrina economica, è stato costretto a prenderle in prestito. Ecco perché, durante gli anni d'oro della campagna anti euro, a sentire parlare Marine Le Pen o sovranisti di altri paesi, sembrava di ascoltare un vetero socialdemocratico. Nella sua definizione, Guénelé poi non riesce a spiegare in cosa differisca il sovranismo dal nazionalismo. E a noi pare infatti che siano la stessa cosa, solo che nell'Europa continentale, diversamente che nel mondo anglosassone, la parola nazionalismo era diventata tabù per varie ragioni: serviva un eufemismo, un termine che lo addolcisse, ed ecco il concetto di sovranismo. Non a caso, diversamente dai grandi ismi della contemporaneità, liberalismo, socialismo, popolarismo, conservatorismo, la parola esiste solo nel vocabolario politico italiano e francese ed è del tutto assente nel mondo anglosassone. Nello stesso tempo, mentre i partiti del passato spingevano a costituire una loro cultura politica, che fosse socialista, popolare, conservatrice, liberale, i cosiddetti sovranisti adottarono il registro anti intellettualistico del populismo: che non lascia molto spazio alla riflessione.
Ecco perché, a tutt'oggi, non esistono che tre quattro volumi che cerchino di definire la specificità del sovranismo. Insomma, forse era impossibile edificare sopra questa parola una cultura politica, ma nessuno tra gli attori politici ha neppure tentato di provarci. Sta di fatto che, con la pandemia, molti spunti critici provenienti dalla protesta sovranista sono stati recepiti dall'establishment europeo: ad esempio la fine della austerità finanziaria e il controllo delle frontiere. In tal modo, visto che la Ue era diventata sovranista, i partiti cosiddetti sovranisti sono rimasti senza proposte. Ecco perché sarà il caso di riprendere le antiche categorie di destra e di sinistra, e le vecchie e care culture politiche. E di domandare, a quelli che ancora si definiscono sovranisti, di capire esattamente chi sono e cosa vogliono, per poi collocarsi in una di esse. Marco Gervasoni
Totalitarismo cristiano, eurasiatismo e neonazismo. Le radici intellettuali dell’attacco di Putin all’occidente liberale. Christian Rocca su L'Inkiesta il 27 Febbraio 2022.
Da molti anni, il dittatore criminale del Cremlino è l’attore protagonista del caos globale, in America e in Europa, in Siria e in Ucraina, con invasioni, cyber attacks, omicidi, campagne omofobiche e sostegno ai movimenti anti sistema in giro per il mondo. Un capitolo di Chiudete Internet, uscito nel 2019
Di seguito il capitolo ”La strategia di Putin” tratto da Chiudete Internet, edito da Marsilio Editori nel 2019
L’attore protagonista del caos globale è Vladimir Putin. È lui che si serve di Internet per promuovere disordine e destabilizzare le società aperte. È lui il punto di congiunzione tra il populismo e il maoismo digitale.
Un formidabile libro americano, The Road to Unfreedom, scritto dallo storico di Yale Timothy Snyder, esplora la mente del presidente russo e spiega la sofisticata strategia illiberale del Cremlino nei confronti dell’Occidente. La tesi del saggio è questa: quando Putin ha capito che, per mancanza di risorse e incapacità di innovare, la Russia non avrebbe potuto tenere il ritmo di quello che un tempo si chiamava «mondo libero», si è convinto di una cosa semplice e cioè che se la Russia non può diventare come l’Occidente, allora bisogna che l’Occidente si trasformi in una specie di Russia.
Intorno a questo principio di relativismo strategico, Putin ha scatenato la sua offensiva globale contro la democrazia rappresentativa, contro i diritti civili, contro l’Unione Europea, contro gli Stati Uniti, contro la Nato. E, così, la guerra in Georgia, l’invasione dell’Ucraina, l’annessione della Crimea, i cyber attacks agli Stati baltici, i finanziamenti ai leader estremisti, i patti politici con i partiti populisti, le campagne omofobiche, il sostegno al despota Bashar al-Assad in Siria, la fabbricazione di fake news, comprese quelle di Stato diffuse in inglese dalla tv RT, la scuderia di hacker informatici, la protezione di WikiLeaks e di Edward Snowden, i tentativi di manipolazione dei processi elettorali nel Regno Unito, in Germania, in Francia, in Italia e ovviamente in America, più qualche avvelenamento a Londra, sono tutti elementi della stessa strategia di diffusione del caos e di russizzazione dell’Occidente che sfrutta le debolezze della società aperta, abusa delle innovazioni tecnologiche americane e approfitta della mollezza del mondo libero.
Putin si ispira alle idee del filosofo fascista Ivan Il’in, che negli ultimi anni è stato il protagonista di una spettacolare riabilitazione intellettuale a Mosca. Negli anni venti e trenta, Il’in era noto nei circoli europei per le simpatie nazifasciste e per la sua avversione all’Unione Sovietica (parte, quest’ultima, ignorata dal neorevisionismo putiniano), ma soprattutto perché teorizzava il ruolo della Russia come l’unica nazione che avrebbe potuto salvare il cristianesimo dall’immoralità occidentale.
L’altro intellettuale che ispira Putin è il filosofo Lev Gumilëv, il figlio della poetessa Anna Achmatova, morto nel 1992, teorico della visione eurasiatica della storia e sostenitore dell’idea che la Russia non deve cedere alle tendenze filo-slave, e tantomeno filo-occidentali, ma piuttosto esaltare la connessione storica e culturale con i popoli mongoli che rifondarono Mosca in un ambiente protetto, eccola che torna, dall’immoralità occidentale. Il destino della Russia moderna è quello di trasformare l’Europa nella Mongolia, perché è la cultura mongola ad aver temprato il carattere russo. La versione più aggiornata di questa tesi è quella che, alla condanna della corruzione occidentale, aggiunge la malvagità degli ebrei, secondo l’interpretazione di un intellettuale fascista, Alexander Dugin, molto ascoltato in Russia e ora anche nell’Italia populista.
Quindi, le fonti intellettuali dell’attacco di Putin all’Occidente sono il totalitarismo cristiano di Il’in, l’eurasiatismo di Gumilëv e il neonazismo di Dugin. Lo strumento è Internet.
I governi occidentali e le grandi aziende della Silicon Valley non sono riusciti a evitare gli attacchi di agenti stranieri ai processi democratici del 2016 e degli anni successivi, ma gli americani si sono difesi meglio nel 2018. Si può discutere sull’impatto reale di queste ingerenze sulle elezioni dell’Occidente libero, e se effettivamente siano state decisive per far uscire il Regno Unito dall’Europa, per eleggere Trump alla Casa Bianca, per fermare le riforme italiane, per disarcionare i governi liberal e sostituirli con maggioranze populiste, ma il dato certo è che le intromissioni ci sono state. Lo sostengono diciassette agenzie americane di sicurezza nazionale e quelle di buona parte dei paesi europei, lo dicono i governi dell’Unione finiti sotto attacco e anche quello britannico. Queste ingerenze sono state di natura digitale ma anche di natura analogica, sotto forma di elargizioni di denaro, di patti politici, di complicità e di propaganda vecchio stile.
Il mondo occidentale non ha ancora elaborato una risposta cogente, anche perché in alcuni casi a governare sono i beneficiari di questa strategia destabilizzatrice, ma perlomeno ora c’è maggiore presa di coscienza della dottrina del caos elaborata da Putin.
L’ex vicepresidente americano Joe Biden, con un articolo del gennaio 2017 su «Foreign Affairs», ha spiegato bene le mire del Cremlino, ma da numero due dell’amministrazione Obama non aveva fatto molto di più che accorgersi delle ingerenze russe e l’assenza di una denuncia perentoria di quanto stava accadendo intorno alla sfida Trump-Clinton rimarrà una delle macchie dell’eredità politica di Obama. La Casa Bianca di allora era convinta che nonostante tutto Hillary avrebbe prevalso su Trump e quindi ha scelto di agire sotto traccia contro i russi, per evitare di essere accusata di favorire il candidato del Partito democratico. Non è andata così. Gli ex membri dell’amministrazione Obama, soprattutto quelli che spingevano per una risposta dura agli attacchi russi, ma anche le colombe che hanno sostenuto la linea morbida del presidente, lo hanno riconosciuto. Ben Rhodes, viceconsigliere per la Sicurezza nazionale di Obama, nel suo libro The World as It Is, ha raccontato che Barack Obama e Matteo Renzi durante un colloquio alla Casa Bianca hanno parlato anche delle interferenze esterne sul voto italiano: «Stanno facendo in Italia le stesse cose che fanno qui», ha detto Renzi a Obama, il quale avrebbe offerto all’alleato italiano un sostegno dell’amministrazione altrettanto blando quanto lo sforzo per fermare l’attacco russo agli Stati Uniti. Lo stesso Renzi, nel suo libro Un’altra strada, ha confermato di aver sollevato il problema direttamente con Putin, oltre che con gli alleati Obama, Cameron e Merkel.
Contro Putin e la sua strategia digitale del caos sono state mantenute le sanzioni economiche adottate dopo l’invasione russa dell’Ucraina e poi rinnovate con maggiore forza; sono stati espulsi alcuni diplomatici del Cremlino; è stato impedito l’ingresso in Gran Bretagna a cittadini russi; la politica americana discute dei rapporti tra Mosca e il team Trump; sono state bloccate le trame oscure di Cambridge Analytica; è stata approvata una direttiva dell’Unione Europea contro l’abuso dei dati personali in possesso dei social network; è stato avviato un grande dibattito politico, sociale e culturale sull’impatto delle piattaforme digitali sulle società libere, con tanto di audizioni pubbliche dei vertici di Facebook al Congresso americano e al Parlamento europeo. Ma non c’è ancora una strategia unitaria di governi e industria digitale e la reazione non è sufficiente a scongiurare un altro attacco al cuore dell’Occidente. I due player più importanti di questa vicenda, quelli con potenziale e risorse in grado di prevenire e respingere gli attacchi, la Silicon Valley e il governo americano, continuano a restare disconnessi e a non lavorare insieme per evitare che l’influenza russa o di qualche altro attore straniero possa ripetere l’exploit del passato anche in occasione delle prossime tornate elettorali.
Il sistema americano è ancora vulnerabile: nella Silicon Valley pensano che la responsabilità sia delle agenzie di intelligence che non si fidano in pieno dei colossi tecnologici e non condividono con loro le informazioni necessarie a prevenire l’ingerenza straniera. A Washington, invece, credono che Facebook e Google siano meglio equipaggiati dei servizi segreti per monitorare le attività sospette sulle loro piattaforme e lamentano di non avere accesso ai dati a loro disposizione.
Questo rimpallo di responsabilità arriva direttamente al cuore della Casa Bianca: sia le aziende della Silicon Valley sia i servizi americani credono che manchi una grande risposta strategica nazionale da parte di un’amministrazione Trump molto restia, se non addirittura contraria, a riconoscere la gravità del problema; perché considerare seriamente la minaccia russa in fondo metterebbe in discussione la legittimità del voto del 2016 e dell’elezione stessa di Trump.
Tutto questo conferma quanto sia paradossale che l’Occidente democratico non abbia gli strumenti giuridici per difendersi da chi utilizza tecnologie e piattaforme digitali per attaccare le fondamenta della società aperta.
Dottrina Putin. La guerra d’Ucraina ci riguarda perché è un assalto ai valori dello Stato di diritto. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.
Il caso Navalny insegna all’Europa cosa potrebbe accadere a chi finisce nella sfera d’influenza del Cremlino: distruggere gli avversari con gli strumenti della democrazia liberale inquinati col veleno della mistificazione e della falsa propaganda
Nel 1939, sulle pagine del giornale di centro “L’Oeuvre”, Marcel Déat, esponente della destra sociale francese che finirà collaborazionista filonazista, poneva retoricamente il quesito se avesse senso «morire per Danzica».
Allora, esattamente come oggi per il Donbass, ci si illudeva che le pretese di Adolf Hitler si limitassero a un corridoio conficcato in territorio tedesco ma sotto il governo polacco. Hitler invase tutta la Polonia, così come l’anno prima si era annesso l’Austria e poi la Cecoslovacchia dopo aver all’inizio preteso “solo” i Sudeti, anch’essi enclave tedesca.
La storia purtroppo non sempre si ripete sotto forma di farsa e i meccanismi psicologici delle menti criminali tendono a presentare tratti comuni.
Sappiamo quali fossero i disegni di Hitler e di come avesse pianificato di creare la fortezza Europa e di come solo il sacrificio di milioni di russi, americani e inglesi abbia evitato un destino tragico al nostro continente. Ma oggi si deve morire per Kiev?
Ci possiamo illudere che Putin sia diverso, ma intanto non vi è dubbio quale sia il bersaglio oltre ai paesi che nei suoi piani dovrebbero costituire la cintura protettiva della Russia: lo Stato di diritto.
Non è una mera affermazione da giuristi fuori dal mondo, preoccupati del misero orticello intellettuale: tutto ciò che accomuna le più grandi minacce alla democrazia è la concezione del superamento di quei principi (divisione dei poteri, uguaglianza, checks and balance, giusto processo, principio di legalità) che costituiscono l’essenza dello Stato liberale.
Non è un caso che, come Stalin ai tempi delle purghe di un secolo fa, anche adesso si cerchi di reprimere il dissenso ricorrendo alla tragica parodia di processi che con gli istituti del vero diritto occidentale hanno in comune solo il nome.
La legalità formale è solo un involucro con cui svuotare di senso il rispetto delle garanzie fondamentali e dei principi che regolano le libertà individuali.
Putin, esattamente come il suo modello ideale, ricorre a processi farsa per reprimere il dissenso, senza disdegnare le vie di fatto all’occorrenza (vedasi i tentativi di avvelenamento più o meno riusciti degli oppositori).
Il caso più esemplare è quello di Alexej Navalny, avvocato e fondatore del Partito del Progresso, bollato diffamatoriamente come un movimento neo-fascista, guarda caso la stessa etichetta affibbiata ai resistenti ucraini
Peraltro la stessa accusa di nazismo è stata rivolta a Vladimir Zelensky, il capo dello Stato ucraino, ex attore, ebreo discendente di una famiglia sterminata dal nazismo. Navalny ha subito decine di processi, è detenuto ed è stato bersaglio di un tentativo di avvelenamento.
Eppure non stiamo parlando di un ricco autocrate, di un magnate della stampa, ma di un legale che come Ralph Nader, il difensore dei diritti dei consumatori americani, comprando piccole partecipazioni azionarie nelle partecipate pubbliche interviene nelle assemblee, pone fastidiose domande. Parliamo di un militante democratico che riesce a far circolare sul web inchieste come quelle sul villone di Putin. E per questo dà fastidio e diviene un bersaglio.
Ma il caso Navalny è anche un eccellente esempio della volontà di Putin, e di quelli come lui, di distruggere gli avversari tramite gli strumenti della democrazia liberale inquinati col veleno della mistificazione e della falsa propaganda.
Solo tra il 2012 e il 2014, l’avvocato di San Pietroburgo ha subito sette processi ed è stato condannato più volte. Ma altrettante volte tali sentenze sono state oggetto dell’intervento della Corte europea dei diritti umani: ad esempio quella con cui Navalny veniva subdolamente condannato per un accusa di frode fiscale, un classico di ogni regime populista-dittatoriale, tramite un’interpretazione estensiva e innovativa di una norma del codice di penale che inquadrava una procedura di ordinaria detrazione fiscale come un reato.
Il pretesto era costituito dal fatto che, insieme con il fratello, Navalny gestiva un servizio postale per due grandi aziende frazionandole tra più società per motivi fiscali e probabilmente per sottrarsi al sabotaggio dello Stato.
Il processo fu instaurato dopo la denuncia presentata da un dirigente di una delle aziende clienti, il quale lamentò una presunta truffa per essergli stato celato il subappalto e si concluse con la condanna dei due fratelli a tre anni e mezzo di reclusione per i reati di frode commerciale e di riciclaggio di denaro del Codice penale russo, avendo «ricevuto indebitamente circa 26 milioni di rubli dalla società Yves Rocher Vostok e altri 4 milioni di rubli dalla società MPK» per le quali svolgeva il servizio.
La condanna è stata annullata dalla Corte europea di Strasburgo per violazione del principio di legalità ai sensi dell’art. 7 Convenzione europea.
In sostanza i due imputati erano stati condannati sulla base di una libera interpretazione della norma sul reato di frode commerciale operata per la prima volta da una corte russa stravolgendo il concetto di abuso di fiducia, in quanto nessun danno concreto era derivato agli utenti dalla condotta degli imputati né alcuna norma vietava espressamente la struttura societaria da loro adottata.
Fallito il tentativo di eliminazione per via giudiziaria, Putin ha pensato di ricorrere alle maniere forti avvelenando Navalny prima e poi arrestandolo: nuovamente è intervenuta la Corte europea ordinando alla Russia in via di urgenza di liberare provvisoriamente Navalny per sottrarlo a un pregiudizio irreparabile. Ovviamente Putin ha fatto spallucce, ma Navalny è ancora vivo e riesce a far uscire dal carcere i suoi editoriali come quello sull’invasione dell’Ucraina: «Un tentativo di Putin per far dimenticare le sue ruberie».
Dunque in un Occidente che rifugge il rischio del ricorso alle armi può essere lo Stato di diritto a fungere da deterrente? Ad esempio, ipotizzando l’incriminazione del leader russo per crimini contro l’umanità, stendendo intorno alla Russia una cortina sanitaria d’isolamento legale oltre che finanziaria.
Quello che sta avvenendo e i precedenti come quelli di Navalny dimostrano la necessità che l’Occidente mantenga intatto il suo ultimo vero tratto distintivo, quel complesso di norme e di principi che tutelano la divisione dei poteri, il principio di legalità, il giusto processo, l’autonomia della magistratura e l’indipendenza dei giudici. In una parola: la democrazia che non ha nulla a che vedere con il populismo giustizialista, spacciato per governo del popolo.
Non è un compito facile: come bene ha osservato Sergio Fabbrini in un recente editoriale, lo Stato di diritto ha feroci nemici anche all’interno dell’Unione europea dove paesi come Ungheria e Polonia sono stati sanzionati reiteratamente dalla Corte di Strasburgo e di recente dalla Corte di Giustizia per aver violato il principio di autonomia della magistratura, introducendo norme per consentire al governo di controllare le nomine dei giudici.
Ciò che è notevole è il contenuto di due sentenze emesse entrambe il 16 Febbraio scorso dalla Corte del Lussemburgo (Ungheria/Parlamento e Consiglio, C-156/21, Polonia/Parlamento e Consiglio, C-157/21 con cui ha autorizzato la Commissione europea a non trasferire i fondi previsti dai piani economici di assistenza come Next Generation ai paesi che non rispettano la Rule of the Law. È la prima volta che un organismo giurisdizionale abbina il concetto di solidarietà economica e di corretto uso delle comuni risorse economiche al pieno rispetto dello Stato di diritto.
In un mondo che ha perso la fede nella religione resiste solo quella laica del diritto, ed ecco perché la guerra d’Ucraina ci riguarda tutti: perché essa è anche l’assalto allo Stato di diritto e alla libertà dell’Occidente.
GLI OLIGARCHI.
Liscio, gassato o Yukos. Report Rai PUNTATA DEL 13/06/2022 di Luca Chianca
Collaborazione di Alessia Marzi e Goffredo De Pascale
Report ha incontrato l’ex oligarca russo, Mikhail Khodorkovsky.
Agli inizi del 2000 era considerato l'uomo più ricco della Russia. Ex proprietario della Yukos, una delle più grandi compagnie petrolifere private russe di fine anni ‘90, viene arrestato durante l'ascesa al potere di Putin e la sua azienda viene messa all'asta. Gli viene contestata la frode fiscale, ma per molti analisti è tutto legato al potere che si sta delineando nella nuova Russia di Putin. Tra le poche società occidentali coinvolte nella vendita di Yukos compaiono anche le nostre Eni ed Enel, che dopo aver acquisito asset per il valore di oltre 5 miliardi di dollari, li rivendono a Gazprom nel giro di pochi anni: avrebbero così dato vita a una vera e propria operazione di portage finanziario.
Le versioni integrali delle risposte inviate alla redazione di Report:
- Eni SpA
- Presidente Silvio Berlusconi
- On. Valentino Valentini
- Centrex Italia S.p.A.
LISCIO, GASSATO O YUKOS di Luca Chianca collaborazione Alessia Marzi e Goffredo De Pascale immagini di Fabio Martinelli, Dario D’India, Davide Fonda, Alfredo Farina Montaggio Serena Del Prete
MILANO – 21 MAGGIO 2022 MANIFESTANTI We are unstoppable, another world is possible…
MARTINA COMPARELLI – PORTAVOCE FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Cosa vogliamo?
MANIFESTANTI Giustizia climatica!
MARTINA COMPARELLI – PORTAVOCE FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Quando la vogliamo?
MARTINA COMPARELLI – PORTAVOCE FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Ora!
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Milano, sede della Centrex Italia, società di Gazprom il più grande gruppo produttore ed esportatore di gas russo al mondo. Un centinaio di ragazzi di Fridays For Future si raduna per protestare contro le perquisizioni avvenute qualche giorno fa nei confronti di tre loro attivisti.
MARTINA COMPARELLI – PORTAVOCE FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Hanno sequestrato per prima cosa i telefoni poi i computer e poi hanno preso abiti, scarpe, bandiere
MARTINA COMPARELLI – PORTAVOCE FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA L'azione consisteva nello scrivere sul muro di Centrex il gas fossile uccide, basta
LUCA CHIANCA Questo
MARTINA COMPARELLI – PORTAVOCE FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Sì
LUCA CHIANCA Diciamo non si fa, non si scrive sui muri però il messaggio era chiaro, era questo
MARTINA COMPARELLI – PORTAVOCE FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA In questo caso abbiamo voluto far notare come molti conflitti si leghino al mercato dei fossili e quindi anche alla crisi climatica.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Questa è la manifestazione contestata e questa la scritta sul muro della società di proprietà di Gazprom per distribuire e vendere gas in Italia.
MIRKO MAZZALI - AVVOCATO ATTIVISTI FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Viene contestato il reato di deturpamento aggravato. L'effetto è stato surreale, hanno sequestrato una maglietta con scritto no alla guerra che un po’...anche voglio dire questa cosa qua…
LUCA CHIANCA Tu sei uno dei ragazzi che è stato perquisito?
ATTIVISTA FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Sì, qui non stiamo parlando di aver fatto violenza verso qualcuno, su quel muro è stato scritto che bisogna smettere di fare affari con i dittatori
LUCA CHIANCA Cioè il tema per voi è quello?
ATTIVISTA FRIDAYS FOR FUTURE ITALIA Tutti i soldi che diamo a Gazprom finiscono in questo momento a finanziare l'industria bellica di Putin e della Russia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora si tratta di una ragazzata, i ragazzi hanno imbrattato le mura di una società di Gazprom che però vende e distribuisce gas in Italia, la Centrex, che però ci ha scritto e dice di non aver denunciato i manifestanti. Bene. Però come è arrivata a vendere e distribuire gas in Italia? Bisogna riavvolgere il nastro e risalire a una storia di 15 anni fa, ai rapporti tra Putin, Berlusconi e l’Eni, guidata da Scaroni. Insomma bisogna risalire all’arresto di Mikhail Khodorkovsky, un oligarca che era proprietario della Yukos, una compagnia petrolifera provata molto importante della Russia degli anni 90. Viene arrestato, su mandato di Putin, con l’accusa di non pagare le tasse. L’azienda è stata fatta fallire, è stata fatta a pezzettini ed è stata messa all’asta. Un lotto è stato comprato dalla nostra Eni e da Enel, che però subito dopo l’hanno rivenduto a Gazprom. Kodorkovsky e i suoi legali ipotizzano che quell’asta fosse finta, fittizia, che ci fosse a monte un accordo. Ora dopo tanti anni un tribunale, la corte permanente per l’arbitrato internazionale dell’Aja ha decretato che quello della Yukos fu un vero e proprio esproprio ai danni di Khodorkovsky e ha condannato la Russia a risarcire gli azionisti della cifra monstre di 50 miliardi di dollari. Il nostro Luca Chianca.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Incontriamo Mikhail Khodorkovsky nel suo quartier generale al centro di Londra. L’ex oligarca russo, Khodorkovsky, agli inizi del 2000 è considerato l'uomo più ricco della Russia. Entrato in conflitto con Putin, nel 2003 viene sbattuto in carcere in Siberia, da dove uscirà dopo ben 10 anni. Da allora non ha mai abbandonato la sua attività di contrasto al governo di Putin.
LUCA CHIANCA Lei non ha paura?
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 Niet
LUCA CHIANCA Niet è no?
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 No, è stato come vivere sulle montagne russe. Su 10 anni di carcere, 6 li ho passati nelle baracche. Nella stessa stanza con chi ha ucciso i miei vicini di letto. Hanno pugnalato anche me di notte. Crede che potrei mantenere la lucidità se avessi paura di tutto questo?
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dopo il suo arresto il governo guidato da Putin mette la Yukos all'asta. Gli azionisti della vecchia Yukos fanno ricorso e la corte arbitrale dell'Aja che dà loro ragione anche se l'arbitrato non è ancora definitivo.
LUCA CHIANCA Che cosa dicono esattamente i giudici?
TIM OSBORNE - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO GML - AZIONISTA YUKOS Hanno affermato che la Russia aveva violato il trattato sulla carta dell'energia espropriando Yukos senza pagare i suoi azionisti.
LUCA CHIANCA I giudici individuano una responsabilità in capo al presidente Putin in questa sorta di esproprio?
TIM OSBORNE - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO GML - AZIONISTA YUKOS Riconoscono che il presidente Putin sia l'architetto di questa espropriazione e che la Russia deve pagarci poco più di 50 miliardi di dollari.
LUCA CHIANCA Come fate a recuperare tutti questi soldi?
TIM OSBORNE - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO GML - AZIONISTA YUKOS Il trattato internazionale di New York, ci autorizza a confiscare i beni che la Russia ha in qualsiasi altro paese del mondo.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La convenzione di New York è stata firmata da circa 170 paesi e consente di confiscare le proprietà e gli investimenti che gli stati hanno all’estero.
TIM OSBORNE - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO GML - AZIONISTA YUKOS Non possiamo prendergli le sedi delle ambasciate, non possiamo bloccare i conti bancari delle ambasciate, ma se hanno un molo di una nave commerciale a Rotterdam possiamo confiscarglielo. La Russia ha enormi quantità di risorse in tutto il mondo, in particolare qui a Londra e nelle principali città degli Stati Uniti. Molti sono immobili di alto valore.
LUCA CHIANCA Avete già un'idea su un asset da prendergli qui in Inghilterra per esempio?
TIM OSBORNE - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO GML - AZIONISTA YUKOS Abbiamo identificato delle risorse a Londra, ma teniamo queste informazioni top secret perché altrimenti potrebbero venderle o spostarle altrove.
LUCA CHIANCA In Italia?
TIM OSBORNE - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO GML - AZIONISTA YUKOS Non abbiamo ancora fatto indagini in Italia ma ci scommetterei che abbiano investito anche da voi.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dopo la caduta del muro di Berlino c'è stata una svendita del patrimonio pubblico russo e pochi grandi imprenditori sono riusciti a prendere asset strategici, Khodorkovsky è uno di quelli.
LUCA CHIANCA Lei a metà anni '90 prende la Yukos a soli 318 milioni di dollari circa il valore della società però era di ben 5 miliardi di dollari
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 Dipende esclusivamente dal momento storico in cui viene valutata.
LUCA CHIANCA Ma lei rappresentava uno degli oligarchi, ai tempi di Eltsin, si riconosce in questa definizione?
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 I veri oligarchi sono arrivati ai tempi di Putin. Signori come Igor Sechin hanno governato lo stato russo insieme a Putin per anni, ma oggi neanche loro hanno un vero e proprio potere perché in Russia ora c'è una dittatura.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Khodorkovsky nel 2003, affronta pubblicamente Putin al Cremlino. Davanti a politici e imprenditori, solleva il tema della corruzione. Le parole di Khodorkovsky irritano Putin che risponde sollevando le presunte irregolarità della Yukos.
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004
TAVOLA ROTONDA SULLA CORRUZIONE - 19 FEBBRAIO 2003 L'entità della corruzione in Russia è stimata dagli esperti di quattro organizzazioni diverse in circa 30 miliardi di dollari, parliamo del 10% del Pil
VLADIMIR PUTIN - PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA Ci sono compagnie petrolifere private, come la Yukos, che hanno riserve in eccesso. Come le hanno ottenute? Questa domanda secondo me ha a che fare con il pagamento delle tasse e l'evasione fiscale. Ne abbiamo già discusso di recente perché la tua azienda, diciamo, ha avuto problemi proprio con il pagamento delle tasse.
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 Questo rapporto sulla corruzione ha fatto infuriare Putin, perché come si è scoperto in seguito, lui non solo era coinvolto personalmente negli episodi di corruzione ma ha consentito che la corruzione diventasse la spina dorsale del suo sistema di amministrazione.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Passano pochi mesi e a ottobre 2003 Khodorkovsky viene incarcerato con l'accusa di frode fiscale. Finiscono in carcere anche i soci, e così comincia un sistematico smembramento della Yukos che viene accompagnata al fallimento.
LUCA CHIANCA Qual è l'interesse del governo di Putin a smembrare Yukos?
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 Doveva dimostrare che lui era il padrone assoluto e appagare l'appetito del suo entourage.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Secondo Khodorkovsky e i suoi avvocati chi dà una mano allo smembramento di Yukos mettendo all'asta interi asset dell'azienda è Igor Sechin. Ex agente segreto, nei primi anni 90 è capo dello staff di Vladimir Putin, poi vice primo ministro e amministratore della Rosneft, la compagnia petrolifera nelle mani del governo russo. Nel 2007, Prodi è al governo, ma Eni ed Enel, guidate da Paolo Scaroni e Fulvio Conti, manager nominati dal precedente Governo Berlusconi, danno vita a un consorzio che si aggiudica la gara per l'acquisizione del «Lotto 2» di Yukos, per un prezzo totale di circa 5,8 miliardi di dollari.
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 Tutte le aste che riguardavano Yukos sono state eseguite in modo completamente fraudolento, in completa violazione delle leggi.
ANDREA GRECO – GIORNALISTA LA REPUBBLICA Le società italiane furono le uniche occidentali accreditate, i rilanci furono pochi e sembrava acquisito il fatto che poi dopo poco tempo queste aziende sarebbero tornate nell'alveo della Gazprom che stava diventando sempre più grande.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Robert Amsterdam è l’ex avvocato di Khordorkovsky, ha seguito tutte le sue vicende fin dal primo arresto.
LUCA CHIANCA Nel 2007 lei rilascia un'intervista al Corriere Della Sera prima che venga aggiudicata l'asta. E lei già dice che probabilmente vincerà l'Eni e che probabilmente poi venderà tutto a Gazprom. Che faceva il veggente?
ROBERT AMSTERDAM - EX AVVOCATO MIKHAIL KHODORKOVSKY Era molto chiaro che tutti gli attori che hanno acquistato gli asset lo facessero su richiesta del signor Putin. Era chiaro che Putin avrebbe cercato importanti compagnie straniere che avevano già relazioni personali con lui. È una spia e lavora per capire le debolezze dei suoi avversari. E con Berlusconi c'è riuscito perfettamente.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quale sarebbe stato il ruolo di Berlusconi? Allora Mikhail Khodorkovsky nel 2003, a febbraio, al Cremlino davanti politici e imprenditori accusa Putin di tenere bassa la guardia sulla corruzione. Putin si irrita, e accusa Khodorkovsky, anzi l’azienda di Khodorkovsky, la Yukos, di non contribuire alle tasse del paese. E poi, dopo qualche mese, a ottobre, Khodorkovsky verrà arrestato. Un commando irrompe sul suo jet mentre è posteggiato sulle piste di un aeroporto in Siberia. Finisce così l’epopea di un uomo che partendo da una caffetteria era arrivato a essere, secondo Forbes, l’uomo più ricco della Russia, il 14esimo uomo più ricco del mondo con un patrimonio stimato in 15 miliardi di dollari. Ora, adesso, un tribunale internazionale dell’arbitrato internazionale, con una sentenza che non è ancora definitiva, però, dice che quello fu un esproprio e fu architettato proprio da Putin. Chi è che aiutò Putin?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora parliamo della vicenda Yukos, la compagnia petrolifera privata russa, negli anni 90 il titolare era Mikhail Khodorkosky, che nel 2003 viene arrestato da Putin con l’accusa di non pagare le tasse. Poi la Yukos viene destinata al fallimento, viene spacchettata in numerosi lotti. Il lotto numero 2 viene acquistato da un consorzio formato dalla nostra Eni e Enel, al costo di 5,83 miliardi di dollari. Saranno le uniche società destinate a partecipare all’asta che però Khodorkosky e i suoi legali reputano finta. Pensano che ci sia stato a monte un accordo tra Putin e i nostri colossi energetici. Ora ipotizzano che sia stata sostanzialmente un’operazione di portage, cioè quando tu prendi da un corso d’acqua un’imbarcazione, la carichi sulle spalle, passi gli ostacoli, e la rimetti in un altro corso d’acqua. Perché questo dubbio. Insomma ci viene anche a noi. Abbiamo raccolto in esclusiva le dichiarazioni, il nostro Luca Chianca le ha raccolte, di Vittorio Mincato, cioè l’amministratore delegato di Eni dell’epoca. Il dubbio viene perché poi Eni ha rivenduto a Gazprom Yukos, il lotto che aveva acquistato. Gazprom non poteva acquistare direttamente Yukos, ha fatto sì che l’acquistasse una società straniera perché venisse legittimata l’operazione. Il sottotitolo è che se il governo italiano dà l’ok a un’operazione del genere significa che è tutto a posto. Però per fare un’operazione di questo tipo devi avere un governo e un intermediario, compagnia, amica.
LUCA CHIANCA Perché l’Italia si è prestata a questa operazione?
ROBERT AMSTERDAM - EX AVVOCATO MIKHAIL KHODORKOVSKY Senta, ero andato al ministero per capire perché l'Italia si stava comportando in questo modo. Ma dopo un po', pur avendo un appuntamento, mi hanno afferrato fisicamente e sono stato allontanato dal Ministero degli Affari Esteri italiano. Da avvocato non mi era mai successa una cosa del genere. Rimasi scioccato.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'allora ministro degli esteri è Massimo D'Alema, mentre il presidente del consiglio è Romano Prodi
GIORGIO MOTTOLA Perché sembra che ci fossero gli interessi di Berlusconi dietro poi alla fine, che ci fosse un accordo anche di…
ROMANO PRODI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2006-2008 Lo chieda a Berlusconi
GIORGIO MOTTOLA Però poi Eni ha acquistato le quote nel 2007 quando c'era lei al governo
ROMANO PRODI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2006-2008 Ma vabbè questo era un semplice rapporto fra imprese…
GIORGIO MOTTOLA Ma Scaroni gliene parlò all'epoca
ROMANO PRODI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2006-2008 Certamente notificava le cose che faceva ecco. Però non ho seguito perché non ero più non ero più, non ero più…
GIORGIO MOTTOLA Presidente del Consiglio.
ROMANO PRODI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2006-08 Presidente del Consiglio, ecco.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il governo Prodi ratifica ciò che il governo Berlusconi aveva iniziato. Un fatto documentato anche dall'ex amministratore delegato di Eni, Vittorio Mincato, defenestrato proprio da Silvio Berlusconi e sostituito da Paolo Scaroni. Quella che segue è la ricostruzione di un nostro colloquio inedito avuto con lo stesso Mincato.
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Nel 2005 c'erano queste aste di Yukos. Incontrai Miller, il capo di Gazprom, sul Mar Nero a Sochi. Mi disse che loro erano interessati a cedere degli asset russi in cambio di altri asset, cosa che io scartato immediatamente, nello spazio di un mattino.
LUCA CHIANCA Ma perché Miller di Gazprom le propone di prendere parti di Yukos?
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 I russi non volevano soldi ma avere in cambio asset occidentali, entrare nel mercato occidentale, dove noi operavamo e ci offrivano in cambio asset della Yukos.
LUCA CHIANCA Quindi giacimenti?
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Giacimenti, sì, cosa che non mi interessava perché noi volevamo espanderci senza dover cedere asset a nessuno, mentre loro in quel periodo dei primi anni del 2000 volevano entrare in maniera più penetrante in Europa.
LUCA CHIANCA Utilizzando Yukos come cavallo di troia?
VITTORIO MINCATO - EX AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Più che come cavallo di troia, come moneta di scambio
LUCA CHIANCA Non le hanno mai detto poi te li ricompriamo questi asset.
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Scherziamo e che faccio il portage?
LUCA CHIANCA Eh, però quello che poi hanno fatto dopo, Eni comunque comprerà all'asta nel 2007 e poi a partire dal 2009 inizia a rivendere tutto a Gazprom.
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Io non c'ero più, era un altro tipo di gestione. Comprare asset della Yukos per Eni era una buona operazione che dava la possibilità di crescere molto e raggiungere i francesi, quello che non si capisce è perché la partecipazione viene restituita ai russi
LUCA CHIANCA Questo è il punto?
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Eh sì, perché l’Eni prima compra e poi vende?
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel 2009 la stessa domanda l'ha posta al governo Berlusconi anche Maurizio Turco, oggi segretario del partito radicale. Per avere una risposta scritta, Turco dovrà aspettare 15 mesi sollecitando ben 9 volte i due ministeri competenti
MAURIZIO TURCO – SEGRETARIO PARTITO RADICALE Sostanzialmente il governo stesso ci dice vi giriamo quanto ci ha comunicato l'Eni
LUCA CHIANCA Ecco che dice l'Eni nella risposta al governo?
MAURIZIO TURCO – SEGRETARIO PARTITO RADICALE Praticamente loro partecipano a questa gara sapendo già che non avrebbero potuto portare a compimento l'oggetto del loro interesse. Questi problemi con chi li risolviamo? Con Gazprom.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E non era il primo accordo tra Eni e Gazprom. Nello stesso periodo, infatti si tenta di realizzare il south stream per portare gas direttamente dalla Russia, facendo fuori l'Ucraina, dove ancora oggi è costretto a passare il gas russo per arrivare in Europa. Costo dell'opera: quasi 24 miliardi di dollari.
ANDREA GRECO – GIORNALISTA LA REPUBBLICA Sì, l'Eni si è piuttosto allineata ai voleri e agli interessi della Russia di Putin in quegli anni.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'alternativa molto più economica c'era e si chiamava Nabucco, un gasdotto che però avrebbe fatto fuori proprio la Russia, perché portava il gas dalla Georgia. Un duro colpo a questo progetto viene dato nell'estate del 2008 dalla guerra tra Russia e Georgia. E Berlusconi, da poco tornato al Governo sostiene il suo amico Putin a Smirne.
12 NOVEMBRE 2008 - CONFERENZA STAMPA SMIRNE SILVIO BERLUSCONI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2008-2011 Consideriamo che ci siano state delle provocazioni alla federazione russa con il progetto di dare collocazione a dei missili in Polonia e nella Repubblica Ceca e poi con il riconoscimento unilaterale del Kosovo e poi ancora con l'accelerazione di un processo nei confronti della Georgia e dell'Ucraina per la loro entrata nella Nato, nell'Alleanza atlantica.
ROBERT AMSTERDAM - EX AVVOCATO MIKHAIL KHODORKOVSKY Quello che è importante da capire è che anche la guerra in Ucraina oggi ha radici in tutte quelle attività in cui società come Eni per esempio hanno chiuso gli occhi davanti al comportamento criminale del Cremlino. Dobbiamo comprendere che la legittimità della Russia è stata garantita dall'Occidente e dalle sue compagnie.
LUCA CHIANCA Che cosa dovrei pensare però allora io dei rapporti che l'Italia ha con la Russia di Putin che ogni accordo nasconde qualcos'altro?
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 Se paghi Gazprom, hai pagato Putin, perché da Gazprom può prendere quanto vuole.
LUCA CHIANCA Cioè i soldi che entrano a Gazprom, è come se entrassero nelle sue tasche
MIKHAIL KHODORKOVSKY - PROPRIETARIO COMPAGNIA PETROLIFERA YUKOS 1996-2004 Se paghi Gazprom paghi Putin personalmente.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma appena tornati a Roma ci contatta una persona vicina a Khodorkosky. Vuole raccontarci un fatto inedito avvenuto quando l'ex oligarca era in carcere e rischiava un'altra condanna. Tra i protagonisti c'è Valentino Valentini, deputato, uno dei più fidati collaboratori di Berlusconi. Parla correntemente il russo, per questo diventa un punto di riferimento per il Cavaliere nei suoi incontri con Vladimir Putin.
COLLABORATORE MIKHAIL KHODORKOVSKY Valentino Valentini, l'ho incontrato due volte. La prima credo nel 2010, qualche settimana prima della seconda condanna di Khodorkosky. L'ho incontrato nella residenza ufficiale del presidente del Consiglio
LUCA CHIANCA Palazzo Grazioli?
COLLABORATORE MIKHAIL KHODORKOVSKY Sì, si chiamava così, salii al terzo piano e incontrai Valentini
LUCA CHIANCA Cosa avete chiesto a Valentini esattamente?
COLLABORATORE MIKHAIL KHODORKOVSKY Di parlare con Berlusconi del caso Khodorkosky.
LUCA CHIANCA E poi?
COLLABORATORE MIKHAIL KHODORKOVSKY E poi mi ha detto di tornare dopo qualche giorno Valentini che avrebbe parlato con Berlusconi ma mi sa che Berlusconi non voleva chiedere favori personali a Putin.
LUCA CHIANCA Ma loro sono, erano ottimi amici?
COLLABORATORE MIKHAIL KHODORKOVSKY Quello che ho detto anche io, ma evidentemente per Berlusconi sono solo affari
LUCA CHIANCA E che tipo di affari hanno fatto si sa?
COLLABORATORE MIKHAIL KHODORKOVSKY Ah è impossibile saperlo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il deputato di Forza Italia Valentino Valentini ammette di avere incontrato i legali di Khodorkovsky, ma anche di non aver assunto nessuna iniziativa di governo. Circostanza che ci è stata anche confermata dai legali del cavalier Berlusconi che ci scrive che: “Una sua richiesta di grazia in favore di Khodorkovsky avrebbe rappresentato un’ingerenza negli affari interni di un paese straniero, e sarebbe stata priva di effetti“. Inoltre precisa che “il buon rapporto personale con Putin, è stato funzionale esclusivamente all'interesse nazionale di Italia e Russia, alla stabilità delle relazioni internazionali e all’avvicinamento della Russia all'Europa”. Ecco però questi erano rapporti che preoccupavano gli Stati Uniti. Questa preoccupazione emergerà dai dispacci segreti pubblicati da Wikileaks. Nel 2009 l’ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, manda una nota al dipartimento di Stato, diretto allora da Hillary Clinton e scrive “Berlusconi avrebbe dato voce a opinioni e dichiarazioni che gli sarebbero state passate direttamente da Putin come nel caso della Georgia”. Ora Berlusconi su nostra sollecitazione e richiesta smentisce: “Nel 2008 non ho sostenuto l’intervento del Presidente Putin in Georgia. Anzi mi sono battuto, attraverso lunghe telefonate, con successo, affinché venisse sospeso l’intervento militare”. Ora noi abbiamo ascoltato le sue parole quando parlava di provocazione nei confronti della Russia da parte della Nato per aver installato missili in Polonia e in Repubblica Ceca. Sempre nei dispacci segreti però i diplomatici Usa ipotizzavano che “Berlusconi e persone a lui vicine avrebbero potuto approfittare personalmente degli accordi sull’energia tra Italia e Russia”. Ora Berlusconi smentisce qualsiasi interesse personale nella vicenda Yukos e dice che “ENI ed ENEL si sono sempre mosse in maniera autonoma”. E la stessa Eni ci scrive che “l’intera operazione si è conclusa complessivamente con una plusvalenza significativa per Eni”, e che ,"le intese stabilite preventivamente con Gazprom prevedevano anche che qualora Eni avesse acquisito gli asset di Yukos, i russi avrebbero avuto il diritto di rilevarne il 51%”. Le risposte di questi protagonisti le trovate nella loro versione integrale sul nostro sito. Però una sera dell’ottobre del 2003, a Milano, in un albergo, nel Westin Palace, che cos’è accaduto? Che c’erano seduti a tavola tre uomini dell’Eni e uno della Gazprom. Eni voleva prolungare i contratti in scadenza del gas del 2012, prolungarli di 25-30 anni. Però, insomma, Gazprom da parte sua voleva distribuire e vendere gas direttamente in Italia. E dice, ad un certo punto, il dirigente di Gazprom, tirando fuori un bigliettino dalla tassca, dice: “Abbiamo anche identificato il socio italiano”. E sul bigliettino c’è scritto Bruno Mentasti. Sconosciuto a tutti in quel momento, si tratta dell’ex socio di Berlusconi in Tele+, l’ex proprietario delle acque San Pellegrino.
DA REPORT DEL 16/12/2012 MARIO REALI – RESPONSABILE ENI IN RUSSIA FINO AL 2005 A un certo momento il russo che era con noi al tavolo, c’era Mincato accanto a me, tira fuori un bigliettino e disse: “bisogna dare due miliardi a questo qui”. Lessero, Mincato disse a chi era vicino: “ma che c’è scritto?” e si lesse il nominativo di questo…
PAOLO MONDANI Di questo Mentasti?
MARIO REALI – RESPONSABILE ENI IN RUSSIA FINO AL 2005 …di questo Mentasti. E nessuno sapeva niente!
PAOLO MONDANI Imprenditore delle acque?
MARIO REALI – RESPONSABILE ENI IN RUSSIA FINO AL 2005 Minerali San Pellegrino. Ma quella sera, non si sapeva niente!
PAOLO MONDANI Che si occupava di acqua, non di petrolio e di gas.
MARIO REALI – RESPONSABILE ENI IN RUSSIA FINO AL 2005 Sì, ma quella sera non sapevamo neppure di cosa si occupasse: per noi era uno sconosciuto! Tant’è vero che Mincato nel corridoio disse: “col cazzo”…scusate il termine “che gli do il gas a questo. E chi è?!”
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Bruno Mentasti è l'ex proprietario della San Pellegrino già socio di Berlusconi in Telepiù. Per trovarlo bisogna andare sul Lago Maggiore.
LUCA CHIANCA Volevo capire lei come era stato coinvolto nella trattativa, nell'operazione?
BRUNO MENTASTI - IMPRENDITORE Io l'ho creata io, i giornalisti quello che han scritto, han scritto tutte delle fesserie, Berlusconi non Berlusconi.
LUCA CHIANCA Però perché Eni doveva rinunciare a quella quota di gas da distribuire e vendere in Italia a favore di Mentasti e Gazprom che all'epoca era un famosissimo imprenditore però con il gas nulla aveva a che fare, no?
BRUNO MENTASTI - IMPRENDITORE Sono andato là proprio per cercare dei settori nuovi la Russia usciva da una grande crisi ed era il momento di intervenire e qual è l'unica cosa che loro hanno? È il gas e il petrolio
LUCA CHIANCA A un certo punto
BRUNO MENTASTI - IMPRENDITORE No basta, no
LUCA CHIANCA Il suo nome compare in una cena indicato da Gazprom con l'allora vertice di Eni, i russi dicono dobbiamo lavorare con Mentasti
BRUNO MENTASTI - IMPRENDITORE Questo qui non lo so, questa è una cosa che io non conosco, non so di questo incontro, non so niente
LUCA CHIANCA Quindi lei esclude che gli avesse dato una mano Berlusconi attraverso Putin.
BRUNO MENTASTI - IMPRENDITORE Lo escludo.
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Appresi il nome di Mentasti nella “cena del bigliettino” ed ebbi poi con lui un paio di colloqui che furono inconcludenti. Le pochissime volte in cui il presidente Berlusconi mi parlò incidentalmente dell’accesso del gas russo in Italia da parte di Gazprom, lo fece dicendomi che Putin ci teneva molto.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il Cremlino spingeva per trasformare Gazprom in una grande azienda mondiale dell'energia e secondo le cronache dell'epoca l’Eni avrebbe dovuto cedere a un’impresa mista tra Mentasti e Gazprom una quota delle proprie importazioni di metano dalla Russia, consentendo ai russi di entrare nel mercato della distribuzione in Italia, rinunciando però ai suoi margini.
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Presi in mano la questione per evitare che i nostri rapporti con i russi si guastassero, si trovò un accordo a Vienna: l'Eni avrebbe lasciato spazio nel gasdotto a favore di Gazprom e loro avrebbero prorogato alcuni contratti in scadenza, senza aumentare di prezzo.
LUCA CHIANCA Però poi con lei ancora alla guida di Eni, l'accordo definitivo non viene siglato?
VITTORIO MINCATO - AMMINISTRATORE DELEGATO ENI 1999- 2005 Non ebbi il tempo di verificare i benefici per l'Eni, e quindi di sottoporre l’accordo al consiglio di amministrazione perché poi andai via.
LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il progetto va avanti con Paolo Scaroni che subentra a Mincato, ma Mentasti salta per i suoi rapporti troppo stretti con Berlusconi e l’anonimato dei suoi soci.
ANDREA GRECO – GIORNALISTA LA REPUBBLICA Solo un terzo delle azioni facevano capo a Mentasti tutto il resto era schermato dietro società di paesi offshore come Cipro, Malta che probabilmente rivelavano interessi o russi o forse anche italiani che nessuno l'ha mai potuto appurare anche perché questo progetto poi è naufragato a sua volta
LUCA CHIANCA Ha rimpianti su quella operazione?
BRUNO MENTASTI - IMPRENDITORE Guardi meno male perché poi dopo subito dopo che sono uscito c'è stato il crollo del gas, quindi se fossi rimasto lì dentro avrei perso tanti di quei soldi …devo ringraziare i giornalisti che mi avevano attaccato incredibile.
LUCA CHIANCA Incredibile BRUNO MENTASTI - IMPRENDITORE Incredibile ma vero
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Incredibile si. Insomma, è mai possibile che i russi accettino di fare una joint venture con un imprenditore con il burqa, che possiede solo un terzo delle azioni, il resto è schermato da società cipriote e maltesi, e che a sua volta Eni ceda a un imprenditore del genere una quota del suo gas da vendere in Italia? Insomma, chi è che ha ispirato il nome di Bruno Mentasti? Che ci fosse qualcosa di anomalo lo aveva capito l’amministratore delegato dell’epoca di Eni, Mincato, che però poi fu sostituito da Scaroni, nominato dal governo Berlusconi. Comunque poi l’affare salta, anche perché interviene l’antitrust, secondo cui un accordo con il produttore più importante di gas da parte di Eni, che poi era anche il produttore, avrebbe leso in qualche modo i principi della concorrenza, il mercato in un settore che era stato appena liberalizzato. Poi nel 2006 un accordo simile viene stipulato tra Eni e Gazprom alla quale viene consentito di vendere e distribuire in Italia attraverso società, tra cui la Centrex, proprio quella società le cui mura erano state imbrattate dalla scritta “il gas uccide”. I pacifisti sottintendevano che proprio per il mercato dei fossili avvengono i conflitti.
Il "re" del nichel salvo dalle sanzioni: perché è impossibile da colpire. Alessandro Ferro il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Vladimir Potanin, quasi omonimo dello Zar, condivide con lui ricchezza, furbizia ed essere scampato alle sanzioni occidentali: ecco perché l'oligarca russo continua a farla franca.
Fatta la legge, trovato l'inganno: il detto popolare ben si addice ad alcuni oligarchi russi proprietari di super yacht che sembrano ville gallegianti sul mare i quali, furbescamente (ma non troppo), sono riusciti a farla franca scappando verso i paradisi terresti (es. Maldive) disattivando il sistema di identificazione automatica (AIS) di bordo per far perdere le tracce e risparmiare dal sequestro le lussuose imbarcazioni. Accanto a loro ci sono gli oligarchi a cui è stato confiscato di tutto e poi ce n'è uno, il secondo uomo più ricco di Russia, che continua a vivere come nulla fosse: si tratta di Vladimir Potanin, oligarca di Mosca il cui nome e cognome forse gli portano bene quanto ad assonanza con il presidente russo, al quale non è stato confiscato neanche il televisore.
Cosa si nasconde dietro Potanin
Il suo patrimonio è stimato in circa 30 miliardi di dollari, ha sempre appoggiato Putin (anche nelle gare di hockey) e, nonostante tutto, non fa parte dei sanzionati di Unione europea e Stati Uniti. Come mai? Il Corriere della Sera ha spiegato che Potanin è azionista di maggioranza della nichel, l'azienda siberiana che produce il metallo bianco e argenteo del quale possiede il 15% e, contemporaneamente, anche il 40% del palladio, metallo che serve a trasformare gli inquinanti in anidride carbonica e vapore acqueo. Come si può facilmente intuire, i due composti chimici servono alla costruzione di microchip e auto, indispensabili costantemente e per tutto il mondo. Fosse sanzionato Potanin, adesso, significherebbe un boomerang incredibile sia per il prezzo dei due metalli ma anche e soprattutto per l'industria automobilistica.
Il Cremlino "respira"
L'attività di Potanin è una manna dal cielo per Mosca che, soltanto grazie a lui, riesce a riprendere il controllo di molte banche crollate a picco dopo che le multinazionali occidentali hanno deciso di venderle all'indomani del 24 febbraio. Il gruppo Interros, di sua proprietà, ha già riacquistato Rosbank da Société Générale a cui l’aveva ceduta nel 2008. E se l'oligarca Oleg Tinkov, sanzionato e costretto a vendere il 35% della sua banca, Tinkoff Bank, dopo essersi dissociato dalle azioni di Putin definite "schifose", Potanin la ha acquistata praticamente gratis, "per un prezzo ridicolo, il 3% del suo valore reale", ha dichiarato un arrabbaiato Tinkov.
L'impero dell'oligarca
Potanin è la classica gallina dalle uova d'oro: figlio di un funzionario del ministero del Commercio dell'Unione Sovietica, possiede anche Uneximbank, banca di riferimento della nuova Russia che fece un salto di capitale da 300 milioni di dollari nel 1992 a 2 miliardi nel 1994. Ebbe l'astuzia, poi, di prestare al governo russo miliardi di dollari assieme ad altri oligarchi ottenendo importanti proprietà statali quando ci fu il default a fine anni '90. Ecco perché si ritrovò ad avere l'azienda Norilsk Nichel, acquistata per 170 milioni di dollari e guadagnati 3,3 miliardi di dollari nemmeno un anno dopo. Fu anche vicepremier nel governo Eltsin per due anni. Con Putin, poi, i rapporti furono sempre ottimi grazie all'obbedienza di non stare più in politica: accettò quanto deciso dallo Zar e campa sereno fino ad oggi con proprietà e miliardi a palate.
Anche se il nichel ha provocato disastri in Siberia scaricando su alcuni fiumi tonnellate di scorie, con i soldi ha potuto pagarsi anche la multa da due miliardi di dollari, versati in un'unica soluzione come fossero bruscolini. Ad oggi, nonostante guerra e sanzioni, è lui che nel suo "piccolo" ha il coltello dalla parte del manico nei confronti dell'Occidente. Che, purtroppo, è costretto a chiudere occhio, orecchie e bocca come le tre scimmiette.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.
Sono tempi in cui le colombe svaniscono nel nulla. E se poi volavano sul Cremlino, possibile che abbiano fatto una brutta fine. Pomeriggio del 21 febbraio. Dmitry Kozak è uno degli uomini più forti della verticale russa del potere. Vladimir Putin li ha riuniti tutti al Cremlino, al vertice del Consiglio di sicurezza, per annunciare loro l'intenzione di riconoscere le due autoproclamate repubbliche del Donbass.
È il momento in cui il mondo capisce che non deve più chiedersi se l'Armata rossa entrerà in Ucraina, ma solo quando lo farà. Quella riunione passa alla storia recente per il modo brusco in cui il presidente zittisce e umilia il capo dei servizi segreti Sergey Naryskhin, che chiedeva più tempo per evitare un intervento militare.
Ma poco prima c'era stata un'altra vittima. Kozak è il vicedirettore dello staff di Putin. Ma il legame tra i due esula da ogni incarico ricoperto dall'ex soldato dei Corpi speciali. Il presidente lo ha sempre avuto con sé da quando entrambi erano consiglieri del sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak, affidandogli ruoli molto delicati.
Per questo, da cinque anni, lo ha messo a capo dell'operazione speciale, che a quella data significava solo la gestione dei rapporti con l'Ucraina. Quando inizia a parlare, Kozak spiega come il governo di Kiev non abbia fatto alcun passo in avanti verso la Russia. Fa una sorta di mea culpa, dicendo che dal 2015 esiste una situazione di stallo anche se qualche progresso sarebbe ancora possibile per via diplomatica.
Ma c'è qualcosa che non va. Fuori dall'inquadratura, si sente uno «spasiba», un grazie detto ad alta voce da Putin.
Basta così, non c'è bisogno di aggiungere altro. Kozak invece prosegue, mentre il presidente tamburella con la mano sul tavolo, visibilmente spazientito. Lo «spasiba» questa volta risuona ancora più perentorio.
Da allora, più nessuna notizia di una delle personalità più in vista e più vicine al presidente russo. Una corsa del gambero, fino alla smaterializzazione. Il 24 febbraio, Kozak viene rimosso da ogni incarico. A cominciare da quello di capo dei negoziatori con Kiev.
Il suo nome viene anche tolto dall'agenda informativa quotidiana, come se non esistesse più. Lo scorso 22 maggio fonti ucraine hanno riferito di un suo arresto per collaborazionismo, circostanza che è stata rilanciata da alcuni media indipendenti russi, ma senza nessuna conferma ufficiale.
A Mosca, gli esperti danno una spiegazione quasi naturale della sua innegabile caduta in disgrazia. Il presidente ha perso la pazienza con lui, dopo aver riposto fiducia nel buon esito dei negoziati che gli era stato prospettato. E per ogni fallimento, specialmente se lungo otto anni, serve un colpevole.
Poco importa se è un amico di lunga data dai tempi di San Pietroburgo, due volte ministro, due volte capo della sua campagna presidenziale, un uomo di rappresentanza, tra le altre cose il più alto in grado a ricevere Matteo Salvini durante uno dei suoi celebri viaggi in Russia. E poi Kozak, che negli ambienti della diplomazia era soprannominato il gatto del Cheshire per via del suo sorriso ambiguo, sconta una pena doppia. È nato e cresciuto in Ucraina, dove ha mantenuto i suoi affari, che lo hanno reso anche bersaglio della prima tornata di sanzioni internazionali dopo la prima guerra nel Donbass.
Era il filo diretto tra il Cremlino e l'oligarca Viktor Medvedchuk, amico personale di Putin, catturato lo scorso aprile dall'esercito ucraino mentre, così recita la versione ufficiale, tentava di fuggire dagli arresti domiciliari ai quali era costretto dal maggio 2021.
Una volta uscito di scena il personaggio che il Cremlino aveva designato come architrave di un eventuale cambio di regime a Kiev, forse anche l'utilità di Kozak è venuta meno. Tanto più che il suo nome è divenuto oggetto di una propaganda al contrario. «Mitya, ma tu davvero sei d'accordo con il massacro del tuo popolo?».
L'intervista alla sua prima maestra, che lo chiama con il nomignolo confidenziale che gli era stato attribuito da bambino in Ucraina, è solo un esempio. Sono stati fatti parlare suoi amici, conoscenti, parenti di terzo grado. Tutti a chiedergli perché. Ma ovunque si trovi, Kozak l'ucraino ormai è lontano. E di sicuro non può permettersi di rispondere.
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.
Sono tempi duri per gli oligarchi russi. Le sanzioni occidentali ne restringono la libertà di movimento e congelano i favolosi patrimoni all'estero: ville e yacht sequestrati, carte di credito bloccate, conti bancari irraggiungibili. Gli Stati Uniti, l'Unione europea e il Regno Unito li puniscono per la vicinanza e il sostegno politico e finanziario a Vladimir Putin e alla sua guerra di aggressione.
Eppure non tutti gli oligarchi sono uguali, agli occhi dell'Occidente. Ce ne sono alcuni più uguali degli altri. E a fronte dei quasi 40 plurimiliardari sanzionati, ce ne sono almeno altrettanti che rimangono ancora fuori dalla lista nera. Una combinazione un po' ipocrita di valutazioni politiche, economiche e geostrategiche spinge infatti i Paesi occidentali a risparmiarli.
Di tutti, il caso più clamoroso è quello di Vladimir Potanin, 61 anni e un patrimonio che prima dell'inizio della guerra era valutato sopra i 30 miliardi di dollari, il che fa di lui il secondo uomo più ricco della Russia. Eppure, parliamo di un fedelissimo dello Zar, che ha lealmente appoggiato sin dagli inizi, sempre pronto a esaudirne i desideri e a giocare secondo le sue regole, perfino quando nelle partite di hockey - una delle passioni che condivide con Putin insieme allo sci - bisognava farlo segnare e vincere.
Ma nonostante questo, Potanin continua a viaggiare, godersi i suoi due super yacht, agire sui mercati, anche per conto del Cremlino, come se non ci fosse alcuna guerra. Per completezza d'informazione, il suo nome figura nella lista dei sanzionati approvata da Australia e Canada, ma né gli Stati Uniti, né l'Ue hanno alcuna intenzione di aggiungerlo alle loro. Perché?
La risposta è semplice: Potanin è azionista di maggioranza di Norilsk Nickel, azienda mineraria siberiana che produce il 15% del nichel e il 40% del palladio usati nel mondo, due materie prime indispensabili rispettivamente per la fabbricazione dei microchip e delle automobili.
Sanzionarlo rischierebbe di far esplodere il prezzo dei due metalli, con conseguenze devastanti sulle forniture per l'industria automobilistica e quella dei semiconduttori.
L'esenzione di Potanin dalle sanzioni è una benedizione per il Cremlino, che grazie a lui sta riprendendo il controllo di una serie di banche, svendute frettolosamente dai gruppi occidentali che hanno lasciato la Russia dopo il 24 febbraio o da altri oligarchi che hanno osato criticare la guerra.
Così, il suo gruppo Interros ha riacquistato Rosbank da Société Générale, cui l'aveva venduta nel 2008. E quando il miliardario russo residente a Londra, Oleg Tinkov, è stato costretto dal Cremlino a vendere il suo 35% della florida Tinkoff Bank per aver definito su Instagram «schifosa» l'azione dell'esercito russo in Ucraina, Potanin è stato pronto a rilevarlo. «Per un prezzo ridicolo, il 3% del suo valore reale», accusa Tinkov.
Nato da una famiglia della nomenklatura comunista, Potanin seguì il padre in una carriera privilegiata da funzionario del ministero del Commercio dell'Urss fino al 1990, anno in cui approfittò del caos della perestrojka gorbacioviana per fondare Interros con un capitale di 10 mila dollari prestatigli da organizzazioni statali. Due anni dopo, la sua Uneximbank diventò banca di riferimento del nuovo Stato russo: da 300 milioni di dollari nel 1992, le sue attività passarono a 2 miliardi nel 1994.
Ma il suo capolavoro lo fece l'anno seguente. Fu lui, infatti, a ingegnare il «furto del secolo», lo schema passato alla storia con il nome di loans for shares, prestiti per azioni.
Con Boris Eltsin sempre più impopolare nel Paese e la certa prospettiva di perdere le elezioni del 1996, il gruppo dei sei oligarchi originali «prestò» al governo miliardi di dollari (in realtà depositati nelle loro banche dal governo stesso) ottenendo come collaterali le proprietà statali e sapendo che non sarebbero mai stati ripagati.
Quando il Paese, secondo l'accordo, andò in default sui prestiti, gli oligarchi si ritrovarono proprietari dei pezzi più pregiati dei beni pubblici. A Potanin, mente del piano, toccò appunto la Norilsk Nickel: la pagò 170 milioni di dollari, lo stesso anno in cui l'azienda registrò introiti per 3,3 miliardi di dollari.
In cambio, gli oligarchi spesero senza limiti per sostenere la campagna di Eltsin, schierando le loro televisioni, assumendo squadre di strateghi americani o più semplicemente comprando milioni di voti. Eltsin venne rieletto. Come ulteriore premio, Potanin diventò vicepremier, carica che tenne per due anni.
Quando Vladimir Putin arrivò al Cremlino, nel 2000, Potanin giurò fedeltà al nuovo zar, ne accettò il diktat di rimanere fuori dalla politica e fu uno dei pochi oligarchi delle origini a sopravvivere, tenendosi le proprietà e continuando ad arricchirsi.
Fece anche di più, assecondando i sogni di grandezza di Putin: investì per primo in una stazione di sci a Sochi e fu il principale lobbysta della campagna che portò nella città sul Mar Nero i Giochi olimpici invernali del 2014.
Nel frattempo, curava la sua immagine in Occidente, finanziando generosamente l'Università di Oxford e facendosi eleggere a suon di milioni nel board della Fondazione Guggenheim, cariche che ha lasciato dopo il 24 febbraio. Potanin ha cercato anche di «pulire» la reputazione di Norilsk Nickel, una delle aziende più inquinanti del mondo, che nel 2020 con i suoi scarichi ha fatto diventare color amaranto due fiumi in Siberia.
Il disastro gli valse una pubblica reprimenda di Putin e una multa di 2 miliardi di dollari, che versò all'erario russo senza fiatare. Il 24 febbraio Potanin era fra i 40 oligarchi convocati da Putin al Cremlino e non è stato fra quelli che hanno espresso timori per le proprie attività. All'evidenza, si sentiva sicuro. Per lui, niente sanzioni e ancora grandi affari.
Russia, altri due manager morti in un strano incidente: è giallo. Redazione Tgcom24 il 7 giugno 2022.
Ancora un incidente, ancora nomi legati alla dirigenza russa tra le vittime: la lista di oligarchi e manager di Mosca, molti dei quali vicini al Cremlino, che hanno perso la vita negli ultimi mesi si allunga. Gli ultimi nomi sono quelli di Vladimir Gabrielyan e Sergei Merzlyakov, rispettivamente vice amministratore delegato e alto dirigente del maggiore social network del Paese, VKontakte.
La dinamica dell'incidente - Entrambi morti in un tragico incidente: i due stavano partecipando a una spedizione nella regione autonoma di Nenets, nell'Artico russo, quando i fuoristrada anfibi su cui viaggiavano si sono ribaltati nel fiume Bolshaya Bugryanitsa. Trascinati in mare non hanno avuto scampo, mentre gli altri membri della spedizione, fra cui la moglie di Gabrielyan, sono stati soccorsi e salvati.
Gli altri casi di morti sospette - I dettagli sono ancora pochi e molti sono i dubbi che si sia trattato solo di un incidente, anche alla luce delle vicende che hanno coinvolto altri dirigenti russi. Come la morte di Andrei Krukowski, manager di un villaggio turistico di Gazprom, caduto da una scogliera a Sochi a inizio maggio. E, soprattutto, come i suicidi dei dirigenti di Gazprom Leonid Shulman, a gennaio, e Alexander Tyulyakov, trovato impiccato nel garage il giorno dopo l'inizio dell'invasione ucraina, insieme a quello del magnate dell'energia Mikhail Watford, morto tre giorni dopo Tyulyakov. Sospetti sono stati sollevanti anche per l'ex presidente dell'azienda di gas, Novatek, Sergey Protosenya, del miliardario Vasily Melnikov e dell'ex vicepresidente di Gazprombank Vladislav Avayev: tutti ritrovati senza vita insieme alle loro famiglie, in apparenti omicidi-suicidi.
Oligarchi russi e quelli italiani, Vittorio Feltri: ecco perché in verità c'è poca differenza. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 07 giugno 2022.
Da quando è iniziata, oltre cento giorni orsono, la guerra tra Russia e Ucraina, anche sui giornali italiani si ciarla di oligarchi, eppure ho l'impressione, anzi la certezza, che pochi lettori conoscano il significato di tale termine, ovvero "oligarchia". La parola in questione deriva dal greco antico, "olígoi" e "archía", ossia "governo di pochi". L'oligarchia non è una specialità russa, contrariamente a quanto si crede, l'abbiamo
Oggi parliamo di questa sorta di casta, vicina al potere politico, come fosse una banda di profittatori che sostiene Putin per motivi di interesse. Può darsi che ci sia del vero in questa interpretazione. Tuttavia dobbiamo aggiungere che pure nel nostro Paese il sistema di comando romano si è avvalso in passato, e forse altrettanto ora, dell'appoggio non gratuito di una lobby industriale attiva e massiccia. In proposito ricordo che la Fiat, all'epoca di Gianni Agnelli, veniva finanziata dai governi. Non mi risulta che il popolo abbia protestato, e neppure i partiti dell'opposizione.
Attualmente, invece, gli oligarchi russi non soltanto sono considerati quasi dei banditi, ma addirittura vengono perseguiti fiscalmente in modo brutale persino nella nostra Repubblica. Molti di questi hanno acquistato ville prestigiose nella nostra penisola, nonché imbarcazioni di lusso, e le nostre autorità per motivi oscuri, infondati, hanno sequestrato tutto il loro patrimonio. Con quale giustificazione? Trattasi di ricchezze appartenenti ad amici di Putin. È talmente evidente che siamo davanti a provvedimenti illegittimi che Draghi dovrebbe cancellare immediatamente.
Chi compra per vie legali un immobile in Italia ha la sacrosanta libertà di non vederselo espropriato, sia un nostro connazionale sia uno straniero. Stravolgere il diritto per sanzionare in modo scorretto la Russia e i suoi cittadini è una operazione indegna che grida vendetta. A me degli oligarchi e delle loro abbondanti proprietà non importa nulla, ma, se sul nostro territorio non commettono reati, non capisco perché debbano essere vituperati e castigati. Caro presidente del Consiglio, si dia una mossa almeno lei.
Andrea Galli per corriere.it il 5 giugno 2022.
Le 14.40 dello scorso venerdì 4 marzo. Lo studio di un notaio di Treviglio, in provincia di Bergamo. La Russia ha invaso l’Ucraina da otto giorni quando l’unica azienda italiana (almeno ufficialmente) riconducibile all’oligarca kazako Viktor Kharitonin, amico dell’altro miliardario Roman Abramovic (insieme classificati dagli Usa quali pezzi dirimenti del «cerchio magico» di Putin già nel 2018), passa di mano.
Dal notaio, come da documento acquisito dal Corriere, la storica azienda agricola «Monzio Compagnoni» di Adro, nel Bresciano, viene salvata da uno studio milanese di architettura e ingegneria della zona di via Santa Sofia: l’immissione nelle casse aziendali di un milione di euro permette di coprire, avanzando denaro per ulteriori investimenti, il mezzo milione di buco. Nell’ufficio di Treviglio, Kharitonin è collegato in audioconferenza.
La riunione prosegue senza intoppi. Nessuno avanza obiezioni a cominciare dal partner dell’oligarca nella «Monzio Compagnoni», cantina della Franciacorta, ovvero Andrey Toporov, peraltro già con i suoi guai per un’altra storia; nessuno avanza obiezioni quando vi sarebbero già delle anomalie a guardare le coordinate di base.
La lettera ai soci
Il gruppo di architetti e ingegneri fa capo a una 40enne italiana. Ebbene, interrogando l’identità di questa donna, che vive a trenta chilometri da Milano, emerge un episodio datato ottobre 2018 e relativo a un assegno irregolare di 5.472 euro.
S’ignora se sia stato un errore di distrazione magari in una giornataccia stressante, oppure un atto voluto; ma quell’episodio rimane «incastrato» nei database nazionali che includono chi fa impresa in Italia, marchiandone di fatto lo status.
Ora, una premessa doverosa: nessuno dei protagonisti al momento risulta gravato da provvedimenti giudiziari di qualsiasi tipo, essendo la nostra una semplice narrazione dei fatti (comprovati). Di conseguenza, ognuno può farsi le domande che vuole (ed eventualmente, possono esercitare l’opzione anche gli organi inquirenti). Procediamo. C’è un interrogativo, quasi fisiologico. Anzi due.
Il vino
Il primo: per quale motivo uno studio di architetti e ingegneri cambia radicalmente settore andando a depositare consistente denaro in un’azienda vinicola per di più gravata da un significativo passivo?
Risposta: le strade degli affari sono infinite, magari i professionisti di Santa Sofia hanno intravisto opportunità sul medio termine che sfuggono agli occhi dei comuni mortali.
Secondo interrogativo: possibile che un uomo esperto quale Kharitonin, proprietario di una potente casa farmaceutica tedesca, già salvatore della società che controlla il circuito di Formula 1 del Nürburgring sempre in Germania (nazione dove l’oligarca gode di enormi crediti), abile a trasferire basi legali a Cipro (nello specifico, come emerge da un documento americano, la «Augment Investment» nella città di Limassol), non si sia voluto informare e, magari ottenute le notizie, non abbia posto dei veti?
A meno che, stante il pericolo delle sanzioni contro gli oligarchi, non gli interessasse andarsene e basta, pur ricordando che mantiene ancora quote nella «Monzio Compagnoni».
Insieme al sopra menzionato Toporov, il quale, in una comunicazione a tutti i soci prima dell’incontro dal notaio di Treviglio il 4 marzo, aveva scritto: «... proprio per proseguire nel percorso di riorganizzazione aziendale e raggiungere gli obiettivi di crescita... si rendono necessarie ulteriori risorse finanziarie fresche...».
A processo
Come ricostruito due mesi fa sul Corriere da Andrea Priante, Toporov è stato rinviato a giudizio con l’accusa di abusi edilizi relativi all’abbattimento dell’«Hotel Ampezzo», nel centro di Cortina, in quel territorio centrale per le Olimpiadi invernali del 2026 organizzate insieme a Milano. Secondo la tesi dei magistrati, i lavori (comunque autorizzati) avrebbero dovuto riguardare una ristrutturazione senza demolizione quando invece sarebbe accaduto l’esatto contrario.
Il 50enne Toporov, che si giura innocente, presiede la «Lajadira», società proprietaria dell’omonimo elitario albergo sempre a Cortina; nella sua carta d’identità, la «Lajadira» rimanda come controllata a un’azienda del Lussemburgo sulla quale, come da prassi, è missione ardua reperire perfino le minime informazioni. In aiuto di Toporov, cioè ai vertici della società, c’è la signora Irina, che ha residenza a Pordenone e risulta essere la 48enne moglie di Kharitonin. Tornando a Toporov, nel 2015 era andato in causa con la famiglia Benetton dopo aver voluto eliminare un filare di abeti intorno all’hotel «Lajadira». La mossa aveva innescato la furia civica di Gilberto Benetton.
Business immobiliari
Se la geografia italiana di Viktor Kharitonin è (sarebbe) circoscritta in via esclusiva all’azienda vinicola della Franciacorta, Toporov ci porta, fra le tante, a una società vicino a piazza del Duomo e specializzata in attività immobiliari. Una società dalla scarsa fortuna: nell’ultimo bilancio depositato, c’è un buco prossimo al milione e mezzo di euro. Un periodo di passivi, per Toporov, il quale, nella lettera ai soci della «Monzio Compagnoni», aveva correlato le perdite alla scomparsa nel 2020 del 54enne Marcello Monzio Compagnoni, stimato fondatore dell’azienda.
Da corriere.it il 23 giugno 2022.
L'epurazione anti-russa del Chelsea — seguita all'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe di Mosca — non ha chiuso soltanto l'era di Roman Abramovich al timone del Blues, dove è subentrato Todd Boehly, presidente e amministratore delegato di Eldridge, e Clearlake Capital Group, per 5 miliardi, ma anche quella del direttore esecutivo Marina Granovskaia, cui subentrerà proprio lo stesso Boehly ad interim.
Granovskaia era fondamentalmente l'alter ego del magnate russo, e prendeva le sue decisioni da sola. Classe 1975, top manager sportiva emersa come outsider anni fa dal milieu imprenditoriale dello zar Roman, fu assunta nel 1997 per collaborare Sibneft, la compagnia petrolifera (poi ceduta alla galassia-Gazprom per 13 miliardi di dollari).
Nel 2003, al momento dell'acquisto del Chelsea, venne confermata a sorpresa. E, solo nelle ultime 10 stagioni, ha gestito qualcosa come 2,4 miliardi di euro in trasferimenti, il più caro il ritorno di Romelu Lukaku per 115 milioni —. In totale, ha vinto cinque Premier League, cinque FA Cup, due Europa League, tre Coppe di Lega e un Mondiale per club. Quindici anni dopo la rivista Forbes la inseriva al quinto posto tra le 100 donne più potenti nel dello sport; prima nel calcio.
Un’origine canadese, una preparazione variegata e raffinata come il suo aspetto curato, ma acqua e sapone. Laureata in lingue straniere a Mosca, una carriera nella danza abbandonata per una delle scrivanie più prestigiose, è stata definita (semplificando troppo) Zarina del Chelsea. Ma, al netto delle banalità, è sempre stata una donna che decide (bene), parla (poco; non concede mai interviste) e agisce – austera e silenziosa- col fare di chi non cede alla vanità del potere, ma lo gestisce. Non twitta, non fa post Instagram e nemmeno su Facebook.
Uno fra i tanti a dover riconoscerne la capacità è stato l’ex capitano John Terry. Al suo ultimo rinnovo: «O firmi questo o ti levi dalle...» gli fece Marina, mentre il difensore già scriveva. Una donna decisa, che non ha bisogno di tante telefonate o decine di mail per dire qualcosa. «Va dritta al punto», raccontò l’agente del difensore Kourt Zouma.
Uno dei suoi exploit fu il munifico contratto di sponsorizzazione con Nike 66 milioni l’anno dal 2016 fino al 2032. Soldi importanti; mattoni per una stabilità economica e una credibilità sportivo-gestionale, appoggiata su trend significativi. Solo nel 2018 – penultima annata ante-pandemia – l’esercizio del Chelsea fu chiuso alla voce ricavi con un +27% (rispetto all’anno precedente). Da 360 a più di 442 milioni di sterline.
Poi le sue scelte, per esempio quelle degli allenatori: sì al ritorno di Mourinho (dal 2013 al 2015; vinta una Premier e una Fa Cup); no a Luis Enrique, definito arrogante; «ni» ad Antonio Conte, con cui ri-vince la Premier nel 2016-17 ma poi litiga sul trattamento di fine rapporto (ha vinto l'allenatore). Quindi la preferenza (discussa) a Sarri, che non porta il gioco-champagne sperato, ma un’Europa League, una finale di Fa Cup ed un terzo posto in Premier (nell’unica stagione 2018-19). Spietata infine con l’ex bandiera Frank Lampard, quando prende Thomas Tuchel in panchina.
Col brivido di chi a volte ritorna sugli stessi (prestigiosi) obiettivi: nel 2012 quando la banda Di Matteo arrivò sul tetto d’Europa – manco a dirlo – lei c’era già. Adesso, per i prossimi trofei, i Blues non conteranno su di lei, che solo lo scorso 13 dicembre aveva vinto il «Best Club Director» del calcio europeo.
Da gazzetta.it il 25 maggio 2022.
Il Chelsea comincia una nuova era. Il governo britannico ha dato il via libera alla cessione del club londinese che passa dalle mani di Roman Abramovich a quelle del fondo di investimento statunitense guidato da Todd Boehly, co-proprietario dei Los Angeles Dodgers. Un affare da 5 miliardi di euro, anche se nelle tasche del magnate russo non finirà un centesimo. Tutto il ricavato verrà devoluto ad una associazione benefica che si occupa delle vittime della guerra in Ucraina. Il club è stato valutato poco meno di 3 miliardi di euro - soldi che saranno destinati appunto in beneficenza - e i proprietari si sono impegnati a investire ulteriori 2 miliardi nei prossimi anni tra stadio, squadra maschile e femminile e le strutture della società.
Si chiude così una vicenda che ha tenuto col fiato sospeso i tifosi blues. Il 31 maggio infatti scade la licenza speciale concessa dalle autorità inglesi per continuare a operare, tenendo il club in vita. L'iscrizione alla Premier va fatta entro il 9 giugno e negli stessi giorni la Federazione inglese deve comunicare all'Uefa le squadre in possesso della licenza per le prossime coppe europee (il Chelsea è qualificato per la Champions). Decisivo e tempestivo il placet del governo britannico: l'esclusione dalla Premier pare scongiurata e ora il club potrà tornare ad operare sul mercato, pianificando la prossima stagione.
Marco Bresolin per "La Stampa" il 25 maggio 2022.
L'Unione europea vuole mettere le mani sul tesoro degli oligarchi russi, passando dal sequestro alla confisca delle loro proprietà.
Per poi venderle in modo da reperire le risorse necessarie alla ricostruzione dell'Ucraina, esattamente come succede in Italia con i beni strappati alla mafia. Oggi la Commissione metterà sul tavolo una proposta di direttiva che potrebbe infatti aprire la strada alla confisca dei beni sequestrati agli oligarchi, mentre alcuni Paesi chiedono di estendere la misura agli asset della Banca centrale russa.
Un tesoro che potenzialmente vale fino a 350 miliardi. Ma diversi governi, tra cui quello tedesco, frenano perché temono incompatibilità con le rispettive leggi nazionali. Intanto la macchina Ue delle sanzioni si è letteralmente inceppata sul petrolio.
Un blocco che a questo punto sembra ormai definitivo, visto che Viktor Orban ha avvertito i suoi colleghi di non voler nemmeno discutere la questione al Consiglio europeo di lunedì e martedì perché ritiene impossibile un accordo.
E così, se da un lato l'Ue continua a finanziare la Russia attraverso l'acquisto di gas e petrolio, dall'altro cerca il modo di far pagare a Mosca i costi della ricostruzione dell'Ucraina.ssibile, l'utilizzo degli asset russi», ha minacciato ieri Ursula von der Leyen dal forum economico di Davos. Per questo la Commissione ha messo a punto un nuovo strumento normativo.
Il documento - visionato da "La Stampa" - spiega che la direttiva punta a «garantire uno standard minimo comune per le misure di congelamento e confisca in tutti gli Stati membri». Non solo: «In circostanze in cui il bene congelato è deperibile, si deprezza rapidamente o i cui costi di manutenzione sono sproporzionati rispetto al valore previsto al momento della confisca - si legge -, gli Stati membri dovrebbero consentire la vendita di questa proprietà».
La questione è estremamente scivolosa perché alcuni Paesi temono rischi di incompatibilità con il diritto internazionale: per far scattare la confisca è necessario che sia stato commesso un reato.
Per questo la Commissione propone di aggiungere ai reati oggetto del provvedimento (terrorismo, riciclaggio, tratta di esseri umani...) anche quello relativo alla «violazione del diritto dell'Unione in materia di misure restrittive» che verrà identificata come «un ambito di criminalità particolarmente grave con una dimensione transfrontaliera».
La Germania chiede però di limitarsi agli asset sovrani, per esempio quelli della Banca centrale russa, escludendo i beni dei privati. Il tema sarà oggetto di dibattito al Consiglio europeo della prossima settimana: nell'ultima bozza di conclusioni c'è un'apertura in questo senso.
Il documento che sarà approvato dai leader ha un ampio capitolo dedicato all'Ucraina, ma l'Italia si è lamentata perché nel testo non è stato inserito alcun riferimento alla necessità di arrivare a un cessate il fuoco immediato né all'esigenza di garantire una pace duratura nella regione.
Una posizione sostenuta anche dall'Ungheria, che sul fronte delle sanzioni continua a mantenere il veto. Fonti diplomatiche avevano letto questo atteggiamento di Viktor Orban come una chiara strategia per alzare il prezzo del suo "sì" in modo da presentarsi all'incasso al Consiglio europeo della prossima settimana.
Ma ieri il premier ungherese ha fatto una mossa che per certi versi ha sorpreso molti addetti ai lavori, ormai rassegnati al fatto che il via libera di Budapest potrebbe non arrivare mai: Orban ha scritto a Charles Michel per chiedergli di non inserire nell'ordine del giorno del vertice la discussione sull'embargo petrolifero: «Farlo in assenza di un consenso sarebbe controproducente - si legge nella lettera spedita al presidente del Consiglio europeo - perché evidenzierebbe solo le nostre divisioni interne senza offrire una possibilità realistica di risolvere le differenze».
Il messaggio è chiaro: l'Ungheria non intende cedere e quindi per evitare una figuraccia sarebbe più conveniente sorvolare. Ursula von der Leyen, in un'intervista a Politico, ha subito messo le mani avanti: «Non mi aspetto un'intesa al summit. È inutile alimentare false aspettative».
Ma è molto probabile che il polacco Mateusz Morawiecki o i leader dei Paesi baltici si facciano avanti al summit per mettere Orban con le spalle al muro.
Il punto è che l'Ungheria continua a chiedere compensazioni economiche, ma la soluzione individuata dalla Commissione non scioglie i nodi: con il piano "RePowerEU", l'esecutivo Ue ha messo sul piatto 20 miliardi di sovvenzioni e i 200 miliardi di prestiti del Next Generation EU per investimenti nel settore dell'energia.
Potrebbero essere usati per riconvertire le raffinerie o per costruire nuovi oleodotti, ma questi interventi andranno integrati nei Recovery Plan nazionali e quello ungherese non è stato ancora approvato per via dello scontro sullo Stato di diritto. In sostanza si tratta di fondi ai quali Budapest non avrebbe accesso.
A questo punto, per cercare di salvarsi la faccia, l'Ue ha davanti a sé due opzioni: adottare un embargo a 26 oppure stralciare il capitolo petrolio dal sesto pacchetto di sanzioni.
Gabriele Rosana per “il Messaggero” il 26 maggio 2022.
Finanziare la ricostruzione dell'Ucraina con la vendita degli asset confiscati agli oligarchi russi che cercano di sottrarsi alle sanzioni Ue. Un tesoro, dalle ville agli yacht fino ai conti correnti, dal valore di 200-300 miliardi di euro che, secondo le intenzioni di Bruxelles, dovrà essere impiegato per risarcire le vittime e rimettere in piedi le città distrutte dall'invasione, un po' come avvenuto nelle scorse ore nel Regno Unito con la vendita del Chelsea che fu di Roman Abramovich.
L'Europa, nonostante le divisioni al suo interno, ci crede e va dritto per la sua strada, proponendo un nuovo quadro di regole per passare dal sequestro alla vera e propria confisca e vendita all'asta, da parte delle autorità giudiziarie nazionali, dei beni delle élite russe che si trovano nell'Unione.
Sulle orme di Canada e Stati Uniti, che si sono già dotati di una cornice normativa analoga, ieri la Commissione europea ha presentato la proposta di direttiva sul recupero e la confisca delle proprietà, accompagnata da una comunicazione che dettaglia invece il piano di Bruxelles per inserire la violazione delle sanzioni nella lista dei reati comunitari gravi e caratterizzati da una dimensione transfrontaliera - dal terrorismo al traffico di essere umani -, così da creare uno standard minimo comune a tutti gli Stati membri e avvicinare le varie legislazioni penali sulla base delle quali procedere all'esproprio.
Sono questi i due pilastri della strategia della «massima pressione su Putin e il suo cerchio magico» che l'esecutivo Ue è determinato seguire, ha precisato ieri su Twitter la presidente della Commissione Ursula von der Leyen: «Chi viola le sanzioni deve essere assicurato alla giustizia. Non lasceremo che gli oligarchi prosperino grazie alla macchina da guerra russa. I loro beni devono essere sequestrati e, dove possibile, impiegati per la ricostruzione del Paese».
Più facile a dirsi che a farsi, tuttavia, mettono in guardia a Bruxelles, visto che - come evidenziato pure da uno studio realizzato dal Parlamento europeo qualche anno fa - negli ultimi 15 anni l'Ue ha spesso perso davanti alla giustizia europea nei ricorsi presentati contro le sue sanzioni individuali.
Per questa ragione, fra i governi - a cominciare dalla Germania - prevale per ora la linea della cautela in assenza di una chiara base legale per l'adozione della misura, con Berlino che ancora alla vigilia della presentazione del pacchetto predisposto dall'esecutivo Ue faceva filtrare la propria contrarietà alla confisca dei patrimoni privati (preferendo semmai optare per le riserve estere della Banca centrale russa). I leader dei Ventisette torneranno a parlarne al summit in programma lunedì e martedì prossimi a Bruxelles.
Finora gli Stati membri hanno sequestrato asset per circa 10 miliardi di euro. L'Italia, da sola, ha messo il sigillo a beni per poco meno di 2 miliardi. Oltre a numerose ville sul lago di Como e in Sardegna, la Guardia di finanza ha bloccato anche il superyacht Scheherazade, formalmente intestato a Eduard Khudaynatov, ma che in realtà apparterrebbe a Vladimir Putin in persona e che da solo vale 650 milioni.
A competere con lo yacht di Putin, c'è anche quello di Andrey Igorevich Melichenko, il SY A, in rimessaggio a Trieste, del valore di 530 milioni. Nel mirino della Commissione non finiscono solo coloro i quali «traggono vantaggio dalla violazione delle sanzioni, ma anche quanti favoriscono le condotte criminali, «dagli avvocati ai dirigenti di banca. Servirà perseguire anche loro». Troppo presto, invece, per dire se il pagamento del gas con l'apertura del conto in rubli - secondo lo schema seguito da molte compagnie, tra cui l'Eni - rientrerà nell'elenco di sanzioni per cui si procederebbe alla confisca, ha aggiunto Reynders, «ma è ovviamente possibile».
Fuori dall'Ue, intanto, la cessione del Chelsea che per quasi un ventennio è stato di proprietà di Abramovich ha ricevuto la luce verde da parte delle autorità del Regno Unito. Il club, acquistato da un consorzio americano per quasi 5 miliardi di euro dopo le sanzioni che hanno colpito l'oligarca per la sua vicinanza al Cremlino, continuerà a gareggiare in Premier League. L'intero ricavato dell'operazione sarà destinato a un ente benefico che si occupa delle vittime della guerra in Ucraina.
VALERIA DI CORRADO per il Messaggero il 20 maggio 2022.
Dopo gli yacht, le ville e i conti correnti congelati agli oligarchi russi inseriti nella black-list dell'Unione europea, il Comitato di sicurezza finanziaria del ministero dell'Economia ha congelato beni per circa 150 milioni di euro, tra i quali 5 aerei, alla Superjet International Spa, una joint venture tra Leonardo e Sukoi con sede a Venezia. Il provvedimento è stato eseguito dal nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza nei confronti della Pjsc United Aircraft Corporation, società aerea russa inserita nell'elenco dei sanzionati, alla quale sono riconducibili i beni della Superjet International. Le quote aziendali di Leonardo sono invece libere.
Finora i finanzieri, su disposizione del Mef, hanno congelato in totale agli oligarchi russi beni per circa un miliardo e 750 milioni di euro.
Secondo alcune indiscrezioni, il Governo avrebbe pensato di stanziare un capitolo di spesa ad hoc nel bilancio dello Stato - pari a circa 400 milioni di euro - per gestire la manutenzione di queste proprietà.
Ecco l'elenco: a Oleg Savchenko è stata congelata la seicentesca Villa Lazzareschi, in provincia di Lucca, del valore di 3 milioni di euro. A Vladimir Soloviev immobili sul lago di Como per 8 milioni. A Gennady Timchenko lo yacht Lena, ormeggiato a Sanremo, del valore di 50 milioni.
Ad Alexey Mordaschov il panfilo Lady M localizzato a Imperia che vale 65 milioni e un complesso immobiliare in località Portisco (a Olbia) da 105 milioni. Ad Alisher Usmanov una villa sul Golfo del Pevero ad Arzachena del valore di 17 milioni. Ad Andrey Melichenko il mega yacht a vela SY A in rimessaggio al porto di Trieste da 530 milioni di euro. A Petr Aven una porzione di una villa a Punta Sardegna da 4 milioni. Ad Alisher Usmanov sei veicoli societari, italiani ed esteri, per un valore totale di 66 milioni. A Dmitry e Nikita Mazepin una villa ad Arzachena di circa 105 milioni. A Eduard Khudainatov (ma il suo nome non è ancora nella black list) è stato congelato lo Scheherazade, il super yacht di 140 metri ormeggiato a Marina di Massa che varrebbe 650 milioni di euro. A questi si sommano i 5 aerei congelati ieri.
«I lavoratori dell'azienda non hanno percepito alcuno stipendio a partire dallo scorso mese di aprile.
Nonostante le azioni intraprese nei confronti delle banche, tuttora in corso, i conti correnti della società sono ancora bloccati a seguito delle sanzioni Ue nei confronti della Federazione Russa», spiega la società Superjet.
LA STRETTA DI BRUXELLES Intanto il Parlamento Ue vuole sanzionare gli europei che siedono nei consigli d'amministrazione delle principali società russe. In una risoluzione di indirizzo sostenuta da tutti i principali gruppi dell'emiciclo (popolari, socialdemocratici, liberali e verdi), approvata ieri per alzata di mano, gli eurodeputati premono perché l'Unione europea ampli la black-list di individui colpiti dalle restrizioni, e insieme a oligarchi e membri dell'élite vicina al Cremlino «ricomprenda anche quei cittadini Ue che continuano a far parte dei board delle compagnie russe e quei politici che ricevono ancora soldi da Mosca».
Un riferimento non casuale: è lo stesso paragrafo del testo a fare nomi e cognomi. Uno su tutti, quello dell'ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, al potere tra il 1998 e il 2005, fino all'avvento di Angela Merkel, quando cambiò cappello e si trasformò in lobbista per le società energetiche di Mosca, da cui incassa circa un milione di euro l'anno.
Una personalità ingombrante per i suoi stessi compagni di partito della Spd, tornati alla guida del governo sei mesi fa con Olaf Scholz, e che adesso chiedono restituisca la tessera. Ieri intanto è stato il Bundestag a decidere di togliergli l'ufficio che gli spetta come ex capo dell'esecutivo.
A differenza di altri politici europei di primo piano, tra cui l'ex premier francese François Fillon o l'ex cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel, che si sono fatti da parte e hanno abbandonato gli incarichi, Schröder, molto vicino a Vladimir Putin, è ancora oggi nel board della compagnia petrolifera Rosneft e ha da poco ricevuto l'offerta di entrare nel consiglio di amministrazione della monopolista di Stato del gas Gazprom. Insieme a Schröder, l'Eurocamera mette di fronte al bivio «dimissioni o sanzioni» anche l'ex ministra degli Esteri austriaca Karin Kneissl, esponente dell'ultradestra, ricordata per i passi di danza con Putin il giorno del suo matrimonio.
Estratto dell’articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 10 maggio 2022.
[…] Qualche giorno prima dell'assalto russo all'Ucraina, in uno degli eremi più famosi al mondo, un uomo sussurra a un monaco che «qualcosa di grande accadrà molto presto. Ma non sia allarmato, preoccupato o spaventato. Finirà in un paio di giorni». La profezia si avvera: la Russia invade l'Ucraina.
Ma sulla durata, il misterioso uomo della rivelazione sbaglia clamorosamente. Due mesi dopo l'aggressione di Putin, le truppe ucraine continuano a combattere valorosamente contro l'Orso russo. Il luogo dell'anticipazione-bomba, dei sussurri allo spaventato monaco ortodosso, è il Monte Athos, la penisola greca abitata esclusivamente da monaci ortodossi e famosa perché le donne non possono metterci piede.
Da anni la Russia ha trasformato questo posto dedicato alla preghiera, questo promontorio sacro affacciato sul mare che ospita una ventina di monasteri e decine di chiese e che è sempre stato uno dei maggiori simboli della spiritualità ortodossa, in un buco nero di riciclaggio, corruzione, incontri corsari tra oligarchi del Cremlino e traffici illegali.
Lo rivelano un abate e un rapporto segreto delle autorità greche citati dalla Bild . E l'inquietante profezia sull'invasione dell'Ucraina è stata consegnata all'abate proprio da un oligarca russo. Pochi giorni dopo, sull'isola protetta da uno statuto speciale di autogoverno, è sbarcato un gruppo di nazionalisti che ha sventolato bandiere russe.
Vladimir Putin ha visitato spesso quest' eremo dove vivono circa 2mila religiosi attoniti. […] Secondo sospetti che si inseguono da anni e le accuse esplicite dell'abate e dei documenti visionati dalla Bild , la penisola degli atoniti viene usata da Mosca per riciclare denaro sporco, per traffici di droga e armi.
[…] Spesso gli oligarchi più vicini al Cremlino «lasciavano mogli e figli in vacanza nelle isole dell'Egeo e si davano appuntamento ad Athos». Molti sono stati colpiti ora dalle sanzioni occidentali. Ma dato lo statuto speciale del Monte Athos, è molto difficile per le autorità europee avere accesso a informazioni e condurre indagini nell'eremo.
Le autorità greche hanno aperto comunque un'inchiesta, scrive Bild , e hanno stilato un rapporto dettagliato con i nomi degli oligarchi che hanno visitato il Monte Athos, i monasteri che li hanno ospitati e che i russi hanno gonfiato di generosi finanziamenti.
La conclusione del documento è che «il Cremlino approfitta della nostra comune religione ortodossa per ottenere i suoi obiettivi. Funzionari di Mosca e oligarchi garantiscono finanziamenti a determinati monaci e monasteri per rafforzare la presenza russa sull'isola». Che è diventata un'inquietante enclave russa nel cuore dell'Unione europea.
Chris Bonface per “Verità & Affari” il 10 maggio 2022.
Avvistato no, ma segnalato sì. L'ultima volta che si è avuta notizia di Igor Kolomoisky, l'oligarca ucraino più vicino al presidente Volodymyr Zelensky, è stato a fine marzo, quando il sindaco di Dnipro, Boris Filatov, ha sostenuto di averlo visto in una sinagoga della regione. Poi più nulla, ufficialmente scomparso.
Non risulta all'estero, e d'altra parte è difficile che si possa fare vedere a Londra o New York dove è subissato di azioni giudiziarie sul presunto riciclaggio di denaro della PrivatBank, l'istituto fondato da Kolomoisky in partnership con un altro oligarca, Gennadiy Bogolyubov, ma poi nazionalizzato nel 2016 dal presidente ucraino Petro Poroshenko, predecessore dell'attuale.
All'udienza londinese di una delle tante cause ai primi di aprile il legale di Kolomoisky, Andrew Lafferty, ha spiegato alla corte britannica di non essere in grado di esercitare la difesa in questo momento per l'impossibilità di mettersi in contatto con il suo cliente e pure con il pool legale che lo assisteva a Kiev, e che nessuno sapeva dove potesse trovarsi in quel momento nonostante fosse da tempo sotto sorveglianza anche sei servizi segreti americani.
È stato cercato anche a Ginevra, dove vive e lavora la sorella Larisa Chertoka, finita però nel mirino proprio a inizio di quest'anno del SRC, il servizio segreto federale svizzero che si è opposto così alla concessione della cittadinanza che lei aveva chiesto alla fine del 2021.
Insomma, Kolomoisky è ufficialmente scomparso dopo essersi defilato anche finanziariamente dalla guerra in corso. E il mistero si infittisce, perché l'oligarca era stato fino al febbraio scorso - quando si è fatto vedere in pubblico in occasione del suo 59° compleanno, una delle persone più vicine a Zelensky, con un legame così stretto da avere impedito con la sua sola presenza al presidente ucraino parte delle riforme e soprattutto la totale de-oligarchizzazione promessa sia agli elettori che ai partner occidentali.
Kolomoisky è stato in chiaro il grande finanziatore della campagna elettorale che ha portato alla presidenza ucraina Zelensky, e secondo inchieste giornalistiche era stato anche il finanziatore assai meno in chiaro del sistema di società off shore dell'attuale presidente ucraino che aveva al suo centro una società anonima con sede nelle isole Vergini britanniche che fungeva da holding per altre proprietà mobiliari e immobiliari (fra cui tre appartamenti a Londra)
La rete di affari di Zelensky nei paradisi fiscali era stata scoperta nell'autunno scorso dal pool di giornalisti internazionali che scovarono i Pandora papers, e fece un certo scandalo ovviamente anche in patria dove il presidente provò a difendersi sostenendo di avere dovuto proteggere i suoi beni dai filorussi del suo paese.
La sparizione di Kolomoisky è temporalmente coincisa con profonde modifiche nella squadra dei diretti collaboratori di Zelensky, il cui ruolo strategico via via è aumentato durante le settimane di conflitto.
Due sono i collaboratori chiave: Ivan Bakanov e David Arakhamia. Il primo è amico di infanzia del presidente ucraino ed è ora alla guida del SBU, il servizio di intelligence interna, anche se non ha professionalmente quella esperienza: era il capo dello Studio Kvartal 95 che produceva film e serie tv in cui il presidente faceva l'attore.
Il secondo è un imprenditore georgiano che si occupava di attrarre capitali esteri nel paese ed è poi diventato leader del partito di maggioranza oggi delegato ad occuparsi di questioni militari e di sicurezza.
Allo stesso livello dei due c'è Oleksi Reznikov, nella sua vita precedente avvocato arbitrale ed oggi ministro della Difesa con poteri sempre più estesi. Fanno parte dell'entourage stretto anche un blogger e youtuber ora consulente della comunicazione come Olexiy Arestovich, che fino a gennaio collaborava con l'Osce, incarico da cui si è dimesso e un ex giornalista, Mikhailo Podolyak, con buoni contatti in Occidente.
E infine Andriy Yemark che guida l'ufficio presidenziale della Bankova e affianca quasi sempre nelle apparizioni il presidente.
Articolo del “New York Times” - dalla rassegna stampa estera di “Epr Comunicazione” il 9 maggio 2022.
Potrebbero volerci anni prima che i beni russi sequestrati dagli Stati Uniti siano definitivamente confiscati e venduti a beneficio del popolo ucraino. L'amministrazione Biden vuole accelerare il processo.
Il governo degli Stati Uniti era così soddisfatto del suo rapido sequestro dello yacht da 255 piedi di un oligarca russo nell'isola di Maiorca il mese scorso che ha postato un video su YouTube del momento in cui gli agenti dell'FBI e le autorità spagnole si sono arrampicati sulla passerella.
Lo yacht da 90 milioni di dollari di Viktor Vekselberg, chiamato Tango, è stato il primo grande trofeo del governo in una campagna contro i miliardari con stretti legami con il Cremlino – scrive il NYT.
Il Tango è solo una scheggia del miliardo di dollari in yacht, aerei e opere d'arte - per non parlare delle centinaia di milioni in contanti - che gli Stati Uniti hanno identificato come appartenenti a ricchi alleati del presidente della Russia, Vladimir V. Putin, dall'invasione dell'Ucraina.
Il giudice magistrato degli Stati Uniti Zia M. Faruqui, che ha approvato il sequestro, ha definito l'inseguimento dello yacht da parte di una nuova squadra del Dipartimento di Giustizia chiamata task force cleptocapture "solo l'inizio della resa dei conti che attende coloro che agevolerebbero le atrocità di Putin".
La resa dei conti potrebbe richiedere un po' di tempo. Sequestrare i beni, che sia uno yacht o un conto bancario, è la parte facile. Per confiscarli definitivamente, il governo deve di solito navigare in un processo potenzialmente complicato noto come confisca civile, che richiede di dimostrare a un giudice che i beni sono stati ottenuti dai proventi di un crimine o attraverso il riciclaggio di denaro. Solo allora il governo possiede effettivamente i beni e ha il potere di liquidarli.
Tutto questo può richiedere anni, specialmente se l'ex proprietario è incline a combattere l'azione di confisca in tribunale.
Sperando di accelerare le cose - e ottenere rapidamente i proventi dei beni sequestrati consegnati al governo ucraino - la scorsa settimana la Casa Bianca ha annunciato un piano che renderebbe più facile per le autorità statunitensi perseguire alcuni beni degli oligarchi attraverso una procedura amministrativa guidata dal Dipartimento del Tesoro.
Anche se non ha fornito i dettagli del suo piano, i funzionari dell'amministrazione hanno detto che la nuova procedura fornirà un processo adeguato e permetterà una revisione "accelerata" da parte di un tribunale federale.
La proposta della Casa Bianca cambierebbe significativamente il modo in cui il governo gestisce i sequestri di beni di alto valore. Generalmente, la confisca amministrativa è usata in casi di basso profilo, destinati a beni del valore di 500.000 dollari o meno.
Tali sforzi non sono davvero progettati per case di lusso o yacht massicci, per non parlare delle enormi somme di denaro che i ricchi russi si crede abbiano nascosto nei conti bancari degli Stati Uniti o investito con hedge fund e società di private equity.
"L'idea di uno yacht o di un jet del valore di centinaia di milioni sequestrato e liquidato amministrativamente è un nuovo territorio", ha detto Franklin Monsour Jr, un ex procuratore federale e un avvocato della difesa dei colletti bianchi con Orrick a New York.
Monsour ha detto che l'amministrazione e il Congresso possono contare sul fatto che molti oligarchi russi non si opporranno legalmente a un nuovo processo accelerato, perché questo rischierebbe di sottoporsi alla giurisdizione degli Stati Uniti.
"Con ogni probabilità non ci sarà alcuna sfida", ha detto. "E il governo lo sa". Anche se i procuratori sono costretti a procedere in alcuni casi attraverso il più tipico processo di confisca civile, il contenzioso potrebbe andare più veloce del normale per quella stessa ragione, ha detto Monsour.
Ci sono indicazioni che il ritmo dei sequestri sta aumentando. Giovedì, i procuratori hanno detto che le autorità delle Fiji che lavorano con la task force hanno sequestrato un mega yacht da 300 milioni di dollari appartenente a Suleiman Kerimov, un magnate russo dell'oro.
Più beni costosi il governo sequestra, più ragioni ha per accelerare il processo di confisca: I beni di lusso devono essere adeguatamente mantenuti, altrimenti il loro valore scenderà prima che possano essere venduti a qualcun altro nel piccolo gruppo di persone che possono permetterseli.
"Per gli yacht che rimangono a languire nei porti, ci saranno beni spesi per mantenere i veicoli", ha detto Daniel Tannebaum, un esperto di crimini finanziari presso la società di consulenza Oliver Wyman ed ex funzionario del Tesoro. "Alcuni di questi beni possono rimanere per un tempo estremamente lungo".
Ma le autorità degli Stati Uniti stanno cercando di fare di più che spogliare gli oligarchi dei loro beni preziosi. Elizabeth Rosenberg, assistente segretario per il finanziamento del terrorismo e i crimini finanziari al Tesoro, ha detto che un obiettivo è quello di "minare l'architettura finanziaria che la Russia usa per spostare il denaro".
Nel corso degli anni, la Russia e i suoi oligarchi sono diventati abili a utilizzare una parata di società di comodo in luoghi come le Isole Vergini Britanniche per spostare denaro da Cipro alle Isole Cayman a Jersey, nelle Isole del Canale, tutti luoghi con una storia di essere considerati dagli investitori come paradisi fiscali.
La task force cercherà prove di oligarchi che hanno fatto passi per evadere illegalmente le sanzioni trasferendo surrettiziamente denaro e proprietà a una persona o entità commerciale non autorizzata.
Proprio il mese scorso, i procuratori federali di Manhattan hanno presentato accuse penali contro Konstantin Malofeyev per aver trasferito illegalmente 10 milioni di dollari da una banca statunitense a un socio in affari in Grecia.
Malofeyev, che recentemente ha descritto l'invasione russa dell'Ucraina come una "guerra santa", è stato oggetto di un ordine di sanzioni da parte del Dipartimento del Tesoro nel 2014 dopo l'invasione della Crimea, una parte dell'Ucraina che alla fine ha annesso.
In ottobre, gli agenti federali hanno fatto irruzione in una villa appartenente al miliardario russo Oleg Deripaska a Washington e hanno sequestrato una vasta gamma di beni, tra cui un dipinto di Diego Rivera.
Le autorità hanno agito in risposta ai sospetti che il signor Deripaska abbia cercato di eludere le sanzioni spostando alcuni dei suoi soldi, ha riferito Bloomberg il mese scorso.
Le autorità statunitensi hanno perseguito i beni appartenenti al signor Deripaska, un industriale con stretti legami con il signor Putin, da un ordine di sanzione nel 2018 che era in parte in risposta all'ingerenza della Russia nelle elezioni presidenziali del 2016.
Un anno dopo, il signor Deripaska ha fatto causa al governo degli Stati Uniti, sostenendo che la designazione delle sanzioni era basata su voci e lo aveva reso "radioattivo" nella comunità degli affari. Sei settimane fa, una corte d'appello federale ha respinto le sue richieste.
Da quando le forze russe hanno invaso l'Ucraina a febbraio, il Dipartimento del Tesoro ha imposto sanzioni a più di 530 russi connessi. Andrew Adams, il procuratore federale che dirige la nuova task force di cleptocapture, ha detto che gran parte del lavoro iniziale della sua squadra ha coinvolto la condivisione "senza precedenti" di informazioni su questi individui con le imprese finanziarie degli Stati Uniti, i funzionari del Tesoro e i sistemi di polizia d'oltremare.
Anche senza prendere possesso di un bene, la task force può rendere difficile per il proprietario di farne uso, ha detto il signor Adams, un procuratore federale veterano a Manhattan che si è concentrato sul riciclaggio di denaro e casi di confisca dei beni.
"In passato, avrei considerato una vittoria ottenere una condanna", ha detto il signor Adams. "Ora potrebbe essere convincere una compagnia di assicurazioni a cancellare la copertura della polizza per lo yacht di un oligarca".
Anche se è possibile per il governo sequestrare i beni come parte di un caso penale, il signor Adams ha detto, il governo è improbabile che prenda questa strada. Farlo richiederebbe l'arresto e la condanna dei loro proprietari - un processo ancora più scoraggiante del processo civile o della procedura amministrativa accelerata che la Casa Bianca sta considerando.
Ma anche il processo civile di confisca richiede che il governo mostri le prove di una condotta criminale.
Nell'approvare il sequestro del Tango, il giudice Faruqui ha detto che le autorità federali avevano mostrato una causa probabile che il signor Vekselberg aveva acquistato lo yacht - tenuto attraverso una serie di società di comodo - con "proventi illeciti e fondi riciclati".
La confisca permanente richiederà ai pubblici ministeri di stabilire che il signor Vekselberg ha effettivamente commesso una frode bancaria, riciclaggio di denaro o qualche altro crimine.
Anche se gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni ai ricchi russi subito dopo l'invasione, gli sforzi globali per sequestrare i loro beni si sono svolti principalmente in Europa e nei Caraibi.
L'Unione Europea ha congelato circa 30 miliardi di dollari di beni riconducibili agli oligarchi russi da febbraio. Qualche settimana fa, i funzionari britannici hanno detto di aver congelato circa 13 miliardi di dollari in beni legati a uno solo di loro: Roman Abramovich.
Mr. Abramovich, uno degli uomini più ricchi della Russia e il proprietario di lunga data del Chelsea Football Club di Londra, ha affrontato una significativa pressione da parte dei funzionari britannici.
Ha accettato di lasciare la squadra a marzo, mentre le autorità si stavano muovendo per imporre sanzioni, e il club ha detto venerdì di aver accettato un'offerta di 3 miliardi di dollari da un consorzio di acquirenti. Il ricavato della vendita - il prezzo più alto nella storia per una squadra sportiva - sarà messo in un conto bancario britannico congelato.
Abramovich, che ha investito miliardi di dollari con fondi offshore gestiti da aziende statunitensi e ha un interesse in diverse acciaierie negli Stati Uniti, non è stato sanzionato da funzionari americani, in parte perché ha servito come intermediario nei negoziati tra Ucraina e Russia. Il signor Adams, il leader della task force di cleptocapture, ha rifiutato di discutere la questione.
Ma ha offerto una spiegazione del perché gli oligarchi russi su cui si concentra la sua squadra sembrano avere meno beni negli Stati Uniti che in altri paesi: Le sanzioni che il Tesoro ha imposto dopo l'invasione della Crimea da parte della Russia sette anni fa hanno spaventato alcuni.
"Abbiamo avuto sanzioni in atto dal 2014", ha detto il signor Adams. "Non siamo stati un paese amico in cui parcheggiare i vostri soldi".
Inside Berna. I problemi della Svizzera nel sanzionare gli oligarchi russi. Lucio Palmisano su L'Inkiesta il 14 Maggio 2022.
La Confederazione ospiterebbe almeno 190 miliardi di euro appartenenti ai magnati vicini al Cremlino, e rimane ancora piuttosto opaca su molte questioni fiscali. Per molti Paesi occidentali il governo dovrebbe fare di più per congelare queste ricchezze.
Centonovanta miliardi di euro. È la fortuna degli oligarchi russi custodita in Svizzera secondo l’Associazione Svizzera dei Banchieri. La maggior parte di questa ricchezza sarebbe nelle casse dei due maggiori istituti di credito, Ubs e Credit Suisse, che detengono ciascuno decine di miliardi di franchi.
Eppure la stima sembrerebbe essere stata fatta per difetto. «Se loro riconoscono di avere questa fortuna, allora possiamo facilmente raddoppiare l’importo», ha affermato il banchiere anglo-americano Bill Browder, che alle spalle ha una truffa subita dalla Russia e una lunga storia di indagini per svelare la scia di soldi lasciata dal Cremlino in tutto il Continente.
La dichiarazione è stata rilasciata in occasione dell’udienza presso la Commissione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, nota anche come Commissione Helsinki, un organismo del Congresso americano composto da 18 parlamentari statunitensi e rappresentanti dei Dipartimenti di Stato, Difesa e Commercio degli Stati Uniti. Durante l’udienza sono state lanciate pesanti accuse nei confronti della Svizzera, rea di non fare abbastanza per bloccare i fondi degli oligarchi russi, che ovviamente hanno indispettito, non poco, Berna.
Le accuse degli Stati Uniti
La riunione della Commissione dello scorso 7 maggio non è stata particolarmente tenera nei confronti del governo federale. «Da tempo conosciuta come una destinazione per i criminali di guerra e i cleptocrati per nascondere il loro bottino, la Svizzera è uno dei principali sostenitori del dittatore russo Vladimir Putin e dei suoi compari. Dopo aver saccheggiato la Russia, Putin e i suoi oligarchi usano le leggi svizzere sul segreto per nascondere e proteggere i proventi dei loro crimini», ha dichiarato l’organismo.
Un esempio lo ha fornito nella sua testimonianza alla Commissione Helsinki Mark Pieth, esperto svizzero in anticorruzione. «Guardiamo al caso del violoncellista russo Sergei Roldugin, un compagno di scuola di Putin: ha improvvisamente ottenuto un quarto della Banca Rossiya e un quarto di un’azienda russa che produce carri armati: le persone che lo aiutano ad accedere e nascondere questi beni sono note e lavorano in uno studio legale di Zurigo. Tali strutture però impediscono alle banche e alle autorità di determinare i veri titolari effettivi delle attività e sono un vero pericolo per il successo del regime di sanzioni contro la Russia».
Dopo un’iniziale reticenza il governo della Confederazione svizzera si è deciso a imporre lo stesso regime di sanzioni applicato dall’Unione europea, anche se in modo molto più blando. Fino a inizio maggio ad essere congelati erano stati soltanto 7,5 miliardi di franchi (7,15 miliardi di euro), una cifra pari ad appena il 3,76% delle fortune stimate degli oligarchi russi.
La stima poi è stata addirittura rivista al ribasso: come ha dichiarato Erwin Bollinger, capo della Divisione Relazioni economiche bilaterali presso la Segreteria di Stato dell’economia, la cifra è scesa a 6,3 miliardi di franchi, equivalenti a poco più di 6 miliardi di euro, e ad essere bloccate sono soltanto 11 proprietà, nonostante 72 segnalazioni da parte di banche, società o autorità locali.
I sospetti della Commissione restano perciò piuttosto fondati, in particolare quelli di Roger Wicker, senatore repubblicano del Mississippi, che si alterna con il democratico Ben Cardin alla presidenza a seconda di come oscilla la maggioranza al Congresso. Wicker sospetta da tempo che le forze dell’ordine svizzere siano nell’orbita del regime russo.
Nel 2020 e nel 2021, ad esempio, ha protestato contro il modo in cui la procura federale svizzera ha proceduto nei procedimenti di riciclaggio di denaro nel caso Magnitsky, avvocato russo di Bill Browder morto in carcere a Mosca, ed è arrivato addirittura a protestare direttamente con Jacques Pitteloud, rappresentante della Confederazione elvetica negli Stati Uniti, perché un ex dipendente del procuratore federale Michael Lauber era andato a caccia di orsi in Russia.
La risposta di Berna
L’accusa non è andata giù al governo federale, che ha denunciato «pressioni inaccettabili». Il presidente e ministro degli esteri Ignazio Cassis ha telefonato al segretario di Stato americano Anthony Blinken chiedendo spiegazioni in merito a queste accuse. «La Svizzera applica tutte le sanzioni decise dal Consiglio federale e dall’Unione europea, non ha motivo di vergognarsi del modo in cui applica le sanzioni rispetto alla comunità internazionale», ha dichiarato il portavoce del Consiglio federale André Simonazzi.
Eppure le pressioni verso il governo non mancano: «Le nostre autorità si comportano come se volessero preservare i rapporti tra la piazza finanziaria svizzera e le grandi fortune russe, perché un giorno la guerra finirà e sarebbe un peccato privarci di questo settore che ha portato così tanto. Il ministero dell’Economia, ad esempio, non ha istituito una struttura specifica per identificare i fondi russi, e non partecipa agli sforzi di Washington e dell’Ue», ha dichiarato il deputato dei Verdi Nicolas Walder al quotidiano francese Le Monde.
E mentre l’ong Public Eye ha pubblicato le carte da gioco con i 32 oligarchi russi non ancora perseguiti dalle autorità elvetiche (che possiedono un patrimonio complessivo di oltre 282 miliardi di euro), dai parlamentari svizzeri arriva una richiesta sempre più pressante. «Visto che la Svizzera ospita un numero superiore alla media di fortune russe sanzionate credo sia giusto che questi soldi vadano a beneficio del Paese che attualmente viene distrutto da Putin», ha sottolineato la parlamentare Mattea Mayer con riferimento alle spese che Kiev dovrà affrontare quando la guerra sarà finita.
Le persone finora sanzionate dalle autorità confederali sono soltanto mille, anche se non tutte presenti nel territorio svizzero. Tra queste non c’è ancora Alina Kabaeva, rimasta finora intoccabile: colei che si ritiene essere l’amante di Putin, e madre di quattro suoi probabili figli, tutti cittadini svizzeri, vive in uno chalet ben controllato sulle Alpi ticinesi.
Ritenuta finora inavvicinabile persino dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, che vedono eventuali sanzioni nei suoi confronti come un attacco troppo personale nei confronti di Putin, qualcosa sembra però essere cambiato negli ultimi tempi: il nome dell’ex ginnasta russa è stato di recente incluso nel nuovo pacchetto di sanzioni, che però non è stato ancora approvato definitivamente.
I problemi irrisolvibili della Svizzera
Nonostante abbia abolito da tempo il segreto bancario, la Svizzera resta ancora piuttosto inaccessibile per quanto riguarda altre questioni fiscali. Un esempio citato da Public Eye riguarda Suleyman Kerimov, oligarca del Daghestan, proprietario del club di calcio Anzhi Makhachkala, consigliere del presidente Putin e proprietario di una fortuna stimabile in poco più di 14 miliardi di euro. In Svizzera, Kerimov ha una fondazione che gestisce il suo patrimonio, la Suleyman Kerimov Foundation, non ancora sequestrata perché intestata a un tatuatore svizzero che non conosce ovviamente una parola di russo.
Altro esempio è il patriarca russo Kirill, dalla fortuna non meglio precisata e grande amante della Svizzera, dove possiede uno chalet offerto da un amico e da dove spesso è passata l’attività finanziaria della Fondazione Ortodossa del Patriarcato di Mosca: negli anni ’90 l’accusa di riciclaggio di denaro contro la società RAO MES di Vitali Kirillov, posseduta al 40% proprio dalla Chiesa russa, cadde nel vuoto per assenza di collaborazione da parte del Cremlino.
A nulla è servita l’inchiesta giornalistica “Swiss Secrets”, a cui hanno partecipato 48 testate giornalistiche da tutto il mondo, che ha svelato come Credit Suisse abbia detenuto per decenni i fondi di clienti dalla storia non proprio limpida: a inizio maggio la Commissione Economia e diritti d’autore del Consiglio nazionale, la camera bassa del parlamento svizzero, ha deciso di non procedere con la modifica dell’articolo 47 della legge bancaria svizzera, che rende la rivelazione di fughe di dati bancari un reato punibile con cinque anni di reclusione. Tutto cambia perché tutto resti com’è.
Stefano Graziosi per “la Verità” l'1 maggio 2022.
Due paperoni vicini ad Hunter, di cui uno già punito dai britannici, esclusi dalle sanzioni
La linea dura di Joe Biden contro Mosca è un po' a targhe alterne. Alcuni oligarchi russi sono stati messi sotto sanzioni dalla Casa Bianca, altri no. Uno che l'ha scampata è il miliardario Vladimir Yevtushenkov: come sottolineato dal New York Post, costui non è finito nel mirino del Dipartimento del Tesoro americano, pur essendo stato sanzionato dalla Gran Bretagna.
Sarà un caso, ma questo oligarca ebbe un incontro con il figlio di Biden, Hunter, il 14 marzo 2012 presso l'hotel Ritz-Carlton vicino a Central Park: ricordiamo che all'epoca Joe era vicepresidente degli Stati Uniti. Fonti ascoltate dal New York Post hanno rivelato che il meeting avvenne «nell'ambito di un viaggio di lavoro di routine (di Yevtushenkov, ndr) negli Usa per esplorare potenziali opportunità di investimento».
Da sottolineare che l'oligarca è il fondatore di Sistema, conglomerato russo attivo in numerosi settori. Ebbene, Reuters ha riferito che «la Gran Bretagna ha imposto il congelamento dei beni a Yevtushenkov mercoledì (13 aprile, ndr) come parte di un tentativo occidentale di punire Vladimir Putin per l'invasione dell'Ucraina».
La domanda che sorge è: perché Londra ha sanzionato questo magnate e Washington no? Una tale domanda pone due questioni. A livello generale, emerge il problema - già trattato da questo giornale - delle sanzioni scoordinate: un nodo che, come riferito alcune settimane fa da Bloomberg, rischia di rendere inefficace la risposta occidentale alla Russia, danneggiando i Paesi più deboli del blocco euroatlantico (come l'Italia).
L'altra domanda riguarda la misteriosa ragione per cui Yevtushenkov non è stato sanzionato da Washington. Una stranezza che andrebbe chiarita, visto che qualcuno in malafede potrebbe arrivare a ipotizzare un conflitto di interessi, che tiri in ballo i controversi affari di Hunter. D'altronde, questo non è l'unico bizzarro collegamento tra il figlio di Biden e la Russia.
Il Washington Post ha rivelato che Hunter prese 4,8 milioni di dollari dall'allora colosso cinese Cfec: colosso che, secondo un rapporto dei senatori repubblicani, intratteneva legami con l'esercito popolare di liberazione e con lo stesso Cremlino. Il Wall Street Journal ha inoltre confermato che nel 2014 Rosemont Seneca (società co-fondata da Hunter) ricevette oltre 142.000 dollari da Kenes Rakishev: oligarca kazako che, secondo Le Media, sarebbe amico intimo di un ferreo sostenitore di Putin, come il leader ceceno Ramzan Kadyrov.
Infine, i senatori repubblicani nel 2020 riferirono che Hunter nel 2014 avrebbe ricevuto 3,5 milioni di dollari dalla moglie dell'ex sindaco di Mosca, Elena Baturina. E qui c'è un piccolo giallo. Come riportato dal New York Post, un cablogramma del governo americano pubblicato da Wikileaks riferì che la Baturina era la cognata di Yevtushenkov. Una circostanza che è stata però smentita alla stessa testata da un portavoce di Sistema.
Chi dice la verità? Come che sia, quando, nell'ottobre 2020, Donald Trump accusò i Biden di aver preso soldi dalla Baturina, fu Putin a scendere in campo in loro difesa: era il 25 ottobre 2020, quando il capo del Cremlino disse di non essere a conoscenza di attività illegali di Hunter in Russia e Ucraina. In tutto questo, i deputati repubblicani hanno chiesto al Dipartimento del Tesoro per quale motivo la (ricchissima) Baturina non sia sotto sanzioni americane. Per carità: checché ne possano pensare i maligni, anche qui si tratterà di un caso. Ma quelli che ogni tre per due accusavano Trump di essere un agente russo non hanno proprio nulla da dire?
(ANSA il 9 maggio 2022) - Un'altra misteriosa morte tra i miliardari russi: l'ex ad di Lukoil, il miliardario Alexander Subbotin, è morto dopo essersi sottoposto ad un trattamento con veleno di rospo, durante una seduta con uno sciamano a Mytiszcze.
Lo riporta il sito polacco Onet, citando una notizia del Moscow Times. Subbotin sarebbe morto lo scorso weekend sottoponendosi, con la moglie, ad un trattamento - cui faceva regolarmente ricorso - che prevedeva delle ferite, provocate da tagli, in cui iniettare veleno di rospo per rafforzare il sistema immunitario.
Dopo che si era sentito male lo sciamano e la moglie non hanno voluto chiamare i soccorsi - riportano i media - decidendo di ricorrere ad un sedativo a base di erbe naturali.
Leonard Berberi per il “Corriere della Sera” il 10 maggio 2022.
Ci mancavano soltanto gli sciamani ad arricchire l'elenco delle morti più o meno misteriose che sembrano colpire gli alti dirigenti (o ex) dei colossi energetici russi. Domenica Alexander Subbotin, 43 anni, ex top manager del gruppo petrolifero Lukoil, è morto alle porte della capitale dopo un trattamento «non tradizionale» secondo l'agenzia Tass.
Subbotin si sarebbe recato dagli sciamani Alexei Pindyurin (noto come «Magua Flores») e Kristina Teikhrib (soprannome: Tina Cordoba) a nord-est di Mosca, per curare «la dipendenza da alcol», raccontano alcuni giornali locali (altri parlano di «postumi da sbornia»). Gli sciamani avrebbero usato veleno di rospo da iniettare nelle ferite per rafforzare il sistema immunitario. Il rito prevede che in parallelo vengano chiamati gli «spiriti» sacrificando dei galli.
Poco dopo le iniezioni Subbotin avrebbe avuto «problemi cardiaci». I due sciamani non avrebbero chiamato i soccorsi, ma somministrato un sedativo a base di erbe nel seminterrato. Il dirigente è comunque morto. Queste ricostruzioni, però, fino a ieri sera non erano state confermate dalle forze dell'ordine locali. Sulle cause indaga la polizia che effettuerà anche l'autopsia. Gli sciamani avrebbero spiegato che la vittima si è presentata sabato «in uno stato di grave intossicazione da alcol e droghe».
Subbotin - il cui patrimonio viene stimato in «diversi miliardi» - era stato membro del consiglio di amministrazione di Ooo Trading House Lukoil, filiale del gigante petrolifero. Poi è diventato proprietario di «New Transport Company» con sede a Vysotsk, a pochi chilometri dalla Finlandia. La società è stata acquistata nel 2020 dal fratello Valery, ex vicepresidente per l'approvvigionamento e le vendite di petrolio di Lukoil e visto come successore del numero uno, Vagit Alekperov, che però il 21 aprile si è dimesso da Lukoil dopo oltre trent' anni alla guida.
Proprio Alekperov a marzo aveva auspicato una «rapida fine» del conflitto in Ucraina.
Con Subbotin da inizio anno salgono ad almeno otto le morti sospette che hanno coinvolto i dirigenti russi. Il 30 gennaio, Leonid Shulman, capo del dipartimento logistico di Gazprom Invest, è stato trovato morto nel bagno di casa sua. Nella vasca - racconta la stampa locale - è stato trovato un biglietto in cui «il defunto lamentava un dolore insopportabile alla gamba rotta». Il 25 febbraio, Alexander Tyuyakov - che ha lavorato come vicedirettore nel dipartimento finanziario di Gazprom - secondo le autorità locali si sarebbe suicidato nel garage. Il 28 febbraio Mikhail Watford, oligarca russo di origine ucraina, è stato trovato impiccato nel garage della sua tenuta nel Surrey, nel Regno Unito, in modo «inspiegabile» secondo la polizia.
A fine marzo sono morti l'imprenditore Vasily Melnikov e la sua famiglia secondo il quotidiano russo Kommersant . Il 18 aprile a Mosca, Vladislav Avayev, ex vicepresidente di Gazprombank, è stato trovato senza vita nel suo appartamento assieme alla moglie Elena e alla figlia Maria di 13 anni. Tre giorni dopo nella villa a Lloret de Mar, in Spagna, sono stati trovati i corpi del top manager della Novatek, il secondo più grande produttore di gas naturale della Russia, Sergei Protosenja, della moglie e della figlia di 18 anni. Il 3 maggio Andrei Krukowski, direttore di un resort sciistico di proprietà di Gazprom, è morto «cadendo da una scogliera».
(ANSA il 27 aprile 2022) - Igor Volobuev, vicepresidente della Gazprombank di proprietà statale, ha annunciato di essere fuggito dalla Russia per combattere a fianco delle forze ucraine, diventando così il quarto alto dirigente o funzionario noto ad aver fatto una brusca uscita dal paese. Lo scrive The Moscow Times.
Volobuev ha precisato di aver lasciato la Russia il 2 marzo e di essersi unito alle forze di difesa territoriale ucraine. "Non riuscivo a guardare quello che la Russia stava facendo alla mia patria", ha detto Volobuev, nato nella città ucraina nord-orientale di Okhtyrka.
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 27 aprile 2022.
Gli oligarchi sono gli uomini d'affari che hanno approfittato delle confuse privatizzazioni degli anni Novanta per impadronirsi delle maggiori risorse della Russia. Nel romanzo «Limonov», Emmanuel Carrère racconta la loro origine: «Il primo settembre 1992 erano stati spediti per posta a ogni russo con più di un anno di età buoni per il valore di diecimila rubli, il che corrispondeva alla quota di ogni cittadino nell'economia del Paese.
Dopo settant' anni in cui in teoria nessuno aveva avuto il diritto di lavorare per sé ma soltanto per la collettività, l'idea era quella di stimolare l'interesse personale e favorire la nascita di imprese e proprietà private, insomma del mercato.
Purtroppo, però, a causa dell'inflazione, appena recapitati i buoni non valevano più niente. I beneficiari hanno scoperto che ci si poteva comprare tutt' al più una bottiglia di vodka. Così li hanno rivenduti in massa ad alcuni furbetti, che in cambio hanno offerto loro l'equivalente, diciamo, di una bottiglia e mezzo».
In Russia iniziava l'era del capitalismo selvaggio, senza regole del gioco, senza leggi, senza sistema bancario e fiscale. Report (Rai3) ha insistito sul fatto che gli oligarchi sono frutto in buona parte dell'Occidente, solo perché gli affari si fanno dove esiste il mercato. Inchiesta dunque sulle società off-shore, sui passaporti facili rilasciati da Cipro, sull'aeroporto di Grosseto in mano a un oligarca, sul marchio «Crazy Pizza» di Briatore (dove però c'è anche una partecipazione di Danilo Iervolino, il nuovo proprietario dell'Espresso ) e così via.
Gli oligarchi sono dei traditori o sono rimasti amici di Putin? Questa la vera domanda, perché se gli oligarchi fossero un prodotto dell'Occidente avrebbero tutto l'interesse a disarcionare Putin, a convincerlo di porre fine alla guerra. A quanto pare, però, il legame economico è ancora così forte che il più «occidentale» di tutti pare proprio Putin.
Chiara Barison per corriere.it il 2 maggio 2022.
«Ho capito che la Russia, come Stato, non esiste più». Oleg Tinkov, l’imprenditore “indipendente” dal Cremlino, è tornato a far parlare di sé. Questa volta ha scelto il New York Times, la cassa di risonanza fornita da Instagram non basta più. Dopo aver definito «folle» la guerra in ucraina poco più di due settimane fa, ora è stato costretto a cedere le quote della holding che detiene la Tinkoff Bank — da lui stesso fondata — a Vladimir Potanin, oligarca di fede putiniana indiscussa, nonché secondo uomo più ricco di Russia.
È stata proprio la Interros Capital di Potanin a rendere nota l’acquisizione del 35% delle azioni del Tcs Group Holding. Una transazione che sfiorerebbe il valore di 2,4 miliardi di dollari. «Non ho potuto discutere il prezzo», ha dichiarato Tinkov, «ero in ostaggio, ho preso ciò che mi è stato offerto». L’impreditore sostiene di aver ricevuto il 3% del valore di mercato della sua quota.
«Ho capito subito che il regime di Putin fosse una cosa negativa», racconta, «ma, ovviamente, non avevo idea che avrebbe avuto una deriva così catastrofica». E’ la prima volta che il magnate russo decide di concedersi alla stampa dallo scorso 24 febbraio, giorno dell’invasione. Tinkov parla da un luogo che non ha voluto rivelare per la sua sicurezza.
Lui stesso ammette di aver assunto delle guardie del corpo, dopo che alcuni amici in contatto con i servizi segreti russi gli hanno detto che avrebbe dovuto temere per la sua incolumità. A 54 anni, dopo essere sopravvissuto alla leucemia, a sconfiggerlo potrebbe essere proprio il Cremlino.
Da lastampa.it il 2 maggio 2022.
«Putin deve essere processato e impiccato. Ma solo in conformità con la legge». Le parole molto dure contro il presidente russo sono pronunciate all’ex vicepresidente di Gazprombank, Igor Volobuev, al Telegrah. Volobuev la settimana scorsa ha lasciato la Russia dichiarando di combattere l’aggressione all’Ucraina, e di volere raggiungere appunto l’Ucraina, suo paese d’origine, dove la sua famiglia soffriva direttamente l’aggressione.
Ora aggiunge altri dettagli interessanti. «La vita che avevo prima della guerra non esiste più e non mi dà davvero fastidio», ha detto. «Per otto anni sono stato in questo tumulto interno: non ho lavorato solo in Russia, ma ho lavorato per Gazprom. Ho lavorato per lo stato russo». Volobuev afferma di essere tutt'altro che l'unico magnate russo scontento delle azioni del Cremlino: «Conosco persone le cui opinioni sono molto diverse da quelle che dicono pubblicamente sul loro lavoro».
Ripete di aver sentito il bisogno di «pentirsi» per i suoi decenni di lavoro per lo stato russo, ora vuole persuadere gli investitori stranieri ad aiutare a ricostruire la sua città natale, Okhtyrka, che è stata decimata dai bombardamenti.
Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 3 maggio 2022.
Di coraggio ne ha da vendere, Oleg Tinkov, 54 anni, tra i quindici uomini più ricchi della Russia con un patrimonio di 9 miliardi di dollari. Combatte da anni contro la leucemia e oggi anche contro Putin. Le sue critiche al Cremlino, nelle interviste (l'ultima al New York Times ) e sui social gli sono già costate carissime. Negli affari e nella vita privata.
La scorsa settimana è stato costretto a vendere la sua quota della banca che aveva fondato perché il Cremlino aveva minacciato, in caso contrario, di nazionalizzarla. Sul piano personale teme per la sua incolumità e soprattutto per quella della sua famiglia, moglie e figli. Da anni vive in Toscana e si muove tra l'Italia e la Svizzera. La nostra intervista inizia da qui.
Mister Tinkov, dopo le critiche rivolte al Cremlino si dice che i servizi segreti russi si stiano interessando alla sua persona. Non ha paura?
«Non ho paura per la mia persona. Della vita che potrei perdere sono relativamente preoccupato dopo l'esperienza che ho avuto con la malattia perché adesso vedo le cose in maniera diversa. Ma temo molto per la mia famiglia, però non potevo fare a meno di esprimermi nei confronti del governo del mio Paese».
Negli ultimi tre mesi sono morti in circostanze drammatiche sei uomini di affari russi. Crede che dietro ci sia l'ombra di Putin?
«Non sono informato e dunque non posso muovere accuse, sarebbe soltanto speculazione. Dico però che è molto importante proteggersi».
Lei lo sta facendo?
«Confido molto nei servizi segreti italiani. So che sono molto bravi, lavorano bene, e sono sicuro che garantiranno la mia sicurezza e quella della mia famiglia».
Ma lei non ha anche un apparato di sicurezza privato?
«Non lo avevo mai avuto in vita mia e non mi ero mai posto il problema. Ma oggi le cose sono cambiate e in questi giorni sto selezionando delle persone che mi proteggano perché ho capito che adesso è indispensabile averle, purtroppo».
Lei vive in Toscana da tempo e si cura anche negli ospedali toscani. Ha mai avuto problemi dopo ciò che è successo in Ucraina in quanto cittadino russo? Ha percepito di essere considerato quasi un nemico?
«No, mai. Non ho mai avuto problemi in Toscana. Anche oggi trovo gente splendida, molto amichevole, molto disponibile. E non solo coloro che mi conoscono ma anche persone che non avevo mai visto prima. Non esiste una fobia russa. Tutti parlano di pace e io quando sento questa parola sono molto contento».
E con le banche ha avuto problemi?
«Sì, qui i problemi ci sono stati, non per me ma per mia moglie che per quindici giorni si è vista bloccare i conti correnti».
Perché sua moglie?
«Perché è un'imprenditrice ha una società a Forte dei Marmi, un albergo importante e non ha potuto pagare fornitori e dipendenti. Neppure il general manager che, ironia della sorte, è un cittadino ucraino. Noi stiamo accogliendo i rifugiati ucraini ma il fratello del manager non può arrivare in Italia perché il manager non ha potuto ricevere la paga».
Sua moglie è russa?
«No è lettone, con passaporto russo. Si è sempre dichiarata contro la guerra. Credo che non ci sia alcun motivo che un'imprenditrice, con una società italiana che lavora e dà lavoro a tante persone, abbia i conti bancari bloccati. La società di mia moglie ha fatto anche una donazione di 50 mila dollari per l'accoglienza dei rifugiati. E in cambio non le fanno pagare gli stipendi ai dipendenti, anche ucraini».
E dopo i 15 giorni di blocco il problema si è risolto?
«Su alcune banche sì. Un istituto di credito ha invece fatto chiudere il conto alla società e noi non abbiamo capito il motivo. Non esiste spiegazione plausibile».
Lei ha dichiarato di sentirsi ostaggio in Russia. Perché?
«Perché sono un uomo d'affari e sono abituato a negoziare. E invece sono stato obbligato (dopo le critiche al Cremlino, ndr ) a vendere la banca che ho fondato e uscire totalmente dall'azionariato per non danneggiare l'istituto di credito e i suoi dipendenti».
Che cosa pensa di questa guerra?
«Non c'è una risposta a questa domanda. Non sono mai stato un politico, non mi azzardo a dire che cosa bisogna fare».
In realtà la risposta a questa domanda l'ha già data, sui social. Ha scritto di non vedere nessun beneficiario in questa folle guerra nella quale muoiono persone innocenti e criticato pesantemente il potere del Cremlino.
Da ansa.it il 3 maggio 2022.
Andrei Krukowski, direttore del resort sciistico del gigante russo Gazprom, è morto 'cadendo da una scogliera' a Sochi.
Lo rendono noto i media internazionali sottolineando che l'episodio è stato considerato un incidente ma ricordando che - scrive il sito polacco Onet - che diversi manager legati a Gazprom o al Cremlino sono tragicamente morti negli ultimi tempi.
Le circostanze dell'incidente sono al vaglio degli inquirenti, proseguono i media.
Morto un altro oligarca russo legato Gazprom, Andrei Krukowski giù dalla scogliera. La serie di decessi misteriosi. Valentina Bertoli su Il Tempo il 03 maggio 2022.
Un altro oligarca nell'orbita di Gazprom, colosso russo dell'energia, ha perso la vita in circostanze che hanno sollevato sospetti. Il manager e direttore del resort sciistico di proprietà di Gazprom, Andrei Krukowski, è caduto da una scogliera a Sochi, città sulle rive del mar Nero. Secondo la ricostruzione dei fatti, secondo quanto riporta il sito polacco Onet citando l'agenzia russa Tass, la morte dell’uomo trentasettenne, economista che aveva ottenuto incarichi di rilievo, è il frutto di un incidente.
Il caso si aggiunge, però, alla lunga lista di decessi misteriosi e gialli irrisolti che da settimane si verificano tra funzionari e oligarchi legati in qualche modo al Cremlino. Questa vicenda si ricollega, infatti, ad altri strani decessi, sui quali Igor Volobuev, ex vice-presidente di Gazprombank, aveva già sollevato dubbi, ma solo dopo aver lasciato la Russia per unirsi ai combattenti di Kiev. Altri due manager legati al colosso russo dell'energia si sarebbero uccisi dopo aver sterminato la famiglia.
I funerali di Krukowski sono stati celebrati oggi, martedì 3 maggio, a Krasnava Polyana, proprio dove sorge la struttura sciistica e dove la carriera dell’uomo si era stabilizzata. Le circostanze dell’incidente saranno oggetto di un'inchiesta ma la misteriosa linea di decessi continua a sollevare sospetti.
"Caduto da una scogliera". Mistero sulla morte di un altro manager russo. Marco Leardi il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.
Andrei Krukowski, un dirigente russo legato del gruppo Gazprom, ha perso la vita in un misterioso incidente a Sochi. Continua la strage dei manager vicini al colosso russo del gas.
Un'altra morte sospetta. Un altro incidente fatale avvenuto in circostanze poco chiare. Un altro giallo all'ombra del Cremlino. Per Andrei Krukowski, direttore di un resort sciistico del gigante russo Gazprom, non c'è stato nulla da fare. "Caduto da una scogliera" a Sochi, riferiscono i media locali, che derubricano l'accaduto come una ineluttabile sciagura. Eppure, sulla scomparsa del dirigente 37enne si allungano già inquietanti ombre: da fine gennaio a oggi, infatti, sarebbero almeno cinque i funzionari legati al colosso del gas russo che hanno perso la vita in maniera accidentale.
La lunga scia di sangue, tra presunti suicidi e incidenti, porta sino al più recente dramma. "Il direttore generale del resort di Krasnaya Polyana, Andrei Alekseevich Krukovsky, è tragicamente scomparso. Amava le montagne e vi trovava la pace. La tragedia è avvenuta sulla strada per la fortezza di Akzepsinskaya", ha comunicato l'agenzia stampa Tass, senza fornire particolari dettagli sulla tragedia. L'incidente, stando a quanto riferito, è avvenuto il 1° maggio scorso. Il top manager del gruppo russo controllato dal governo, dopo la misteriosa caduta nel dirupo, era stato soccorso e trasportato d'urgenza in ospedale, dove era stato constatato il suo decesso. Sulla base dei rapporti del Comitato investigativo del Krasnodar Krai, i media russi hanno comunicato che sulla salma di Krukowski è già stata disposta un'autopsia.
Il resort che il 37enne dirigeva si trova in una delle località sciistiche più famose della Russia e nel 2014 faceva parte del complesso olimpico dei Giochi Invernali di Sochi. Il giovane manager era un economista e tra gli anni 2001 e 2014 aveva ricoperto incarichi di rilievo in società commerciali. Nel 2012 si era trasferito da Mosca a Sochi e tre anni dopo aveva iniziato a lavorare nella località di Krasnaya Polyana. Lì, la sua carriera nell'azienda governativa si era consolidata.
La sua scomparsa improvvisa, ora, aumenta i sospetti che già ruotavano attorno alle recenti morti di uomini vicini al gruppo Gazprom. A metà aprile, l'ex vicepresidente di Gazprombank, Vladislav Avayev, era stato trovato senza vita nel suo appartamento a Mosca insieme alla moglie e alla figlia. L'oligarca Sergei Protuchinya (ex dirigente del produttore di gas Novatek, controllata da Gazprom) era stato invece trovato impiccato nella sua villa di Lloret de Mar, vicino Barcellona. Anche in quel caso, morte pure la moglie e la figlia. Il 23 marzo scorso, poi, quattro morti erano stati rinvenuti nell'appartamento di Vasily Melnikov, proprietario dell'azienda medica Medstom.
Su quei decessi anche Igor Volobuev, ex vice-presidente di Gazprombank, aveva mosso dei dubbi, insinuando perplessità sulle dinamiche di alcuni presunti suicidi. L'ex dirigente, prima di esprimere quei sospetti, aveva però lasciato la Russia per andare a combattere con Kiev.
È giallo sui decessi. La morte sospetta di Andrei Krukowski: “E’ caduto dalla scogliera”, è il quinto dirigente Gazprom scomparso da gennaio. Roberta Davi su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Andrei Krukowski era il direttore del resort sciistico di Gazprom. È morto a 37 anni, cadendo da una scogliera a Sochi.
A riportare la notizia sono i media internazionali, che sottolineano però un altro dettaglio: la morte di Krukowski è solo l’ultima di una serie di decessi, avvenuti in situazione poco chiare, associati al colosso russo del gas.
L’incidente fatale
“Il direttore generale del resort di Krasnaya Polyana, Andrei Alekseevich Krukovski, è tragicamente scomparso. Amava le montagne e vi trovava la pace. La tragedia è avvenuta sulla strada per la fortezza di Akzepsinskaya” si legge in un tweet dell’agenzia di stampa russa Tass risalente al 1 maggio.
Le circostanze dell’incidente sono al vaglio degli inquirenti, proseguono i media: il manager è morto in seguito alle ferite riportate, a nulla è servito il ricovero in ospedale. I media russi hanno comunicato che, stando ai rapporti del Comitato investigativo del Krasnodar Krai, è già stata disposta un’autopsia.
Krukowski, che si era laureato con lode presso l’Istituto di economia, politica e diritto di Mosca nel 2006, aveva iniziato a lavorare presso il resort nel 2015 e quattro anni dopo ne era diventato il direttore. Krasnaya Polyana è una delle località sciistiche più famose dell’intera Russia: nel 2014 faceva parte del complesso olimpico dei Giochi invernali a Sochi.
Il giallo
L’episodio è stato considerato un incidente, ma in realtà diversi manager e oligarchi legati a Gazprom o al Cremlino sono morti in circostanze misteriose o particolarmente drammatiche negli ultimi tempi. Prima della notizia della morte di Krukowski, la Cnn ne aveva indicati 6 da gennaio a oggi, di cui 4 associati al gigante del gas.
I casi più recenti risalgono ad aprile. Vladislav Awajew, ex vicepresidente della Gazprombank, è stato trovato senza vita nel suo appartamento di Mosca, insieme a sua moglie e sua figlia: tutti e tre con ferite da arma da fuoco. Secondo la polizia russa Awayev avrebbe sparato a sua moglie e sua figlia per poi suicidarsi.
L’oligarca russo Sergey Protosenya, ex presidente di Novotek, è stato trovato impiccato nella sua villa a Lloret de Mar, vicino Barcellona, in Spagna. Accanto a lui, i corpi di moglie e figlia diciottenne massacrate a colpi d’ascia. Anche in questo caso si è parlato di omicidio-suicidio, ma il figlio sopravvissuto non crede a questa tesi: “Mio padre non è un assassino” ha dichiarato al Mail Online. A marzo era stata la volta di Vasily Melnikov, proprietario di MedStom, una compagnia di forniture mediche, trovato senza vita insieme a moglie e due figli con ferite da taglio. Vicini di casa e amici hanno dichiarato di non riuscire a credere che l’uomo abbia potuto uccidere la sua famiglia.
Tra fine gennaio e febbraio i corpi di altri due alti funzionari di Gazprom, Aleksandr Tyulyakov e Leonid Shulman, erano stati rinvenuti nelle loro residenze nei pressi di San Pietroburgo. Mentre Mikhail Watford, vero cognome Tolstosheya, nato in Ucraina ma diventato ricco grazie al petrolio e al gas dopo il crollo dell’Urss, si sarebbe impiccato nella sua casa nel Regno Unito il 28 febbraio.
Con la morte di Andrei Krukowski il giallo intorno alla tragica scomparsa di questi uomini d’affari s’infittisce ulteriormente. Quasi tutti si sarebbero tolti la vita durante la guerra in Ucraina: che sia solo una coincidenza? Roberta Davi
Flavio Pompetti per “il Messaggero” l'1 maggio 2022.
Il primo è stato Leonid Shulman, capo della sezione Trasporti della Gazprom, il gigante energetico russo. Il 30 gennaio di quest' anno è stato trovato morto nel bagno della sua abitazione, con delle escoriazioni sul polso destro. Accanto al corpo c'era una nota nella quale l'uomo lamentava l'insopportabile dolore alla gamba che aveva subito una frattura mesi prima, e sul bordo della vasca da bagno c'era un pugnale, troppo lontano dal cadavere per concludere che fosse stata usata da lui stesso per togliersi la vita.
Nonostante questo, il referto della polizia moscovita recita: suicidio. L'ultimo è stato il multimiliardario Sergej Protosenya, morto impiccato in una villa che aveva affittato sulla Costa Brava per celebrare le festività pasquali con la sua famiglia. La polizia spagnola sospetta che l'imprenditore 53enne abbia ucciso a colpi d'ascia la moglie e l'amatissima figlia tredicenne in un impeto d'ira prima di togliersi la vita. Ma sul suo corpo non c'erano tracce di sangue, e l'ascia era stata impugnata da una mano protetta da una sorta di guanto, in modo da non lasciare impronte digitali. Negli ultimi tre mesi sei oligarchi russi sono morti in circostanze misteriose.
Quattro di loro erano dirigenti della Gazprom. Tutti i casi sono stati rubricati come suicidio, nonostante l'evidenza di fatti che sembrano condurre a una diversa conclusione. L'incoerenza non è nuova: in Russia la percentuale delle armi circolanti rispetto alla popolazione è pari al 10% di quelle presenti negli Usa, ma il numero di omicidi a fine 2021 è stato quasi identico, intorno ai 20mila. Le autorità nascondono il dato dichiarando una buona parte di questi decessi «suicidi».
Le morti violente degli oligarchi in un periodo così breve e così a ridosso della guerra, generano però il sospetto che ci sia in gioco questa volta un elemento nuovo, e che le sparizioni siano un segno dello scollamento in corso tra Vladimir Putin e i membri della classe dirigente russa, molti dei quali sono stati colpiti dalle sanzioni economiche imposte dai paesi occidentali.
Un mese dopo la morte di Shulman, uno dei vicepresidenti di Gazprom, Alexander Tyulakov, è morto impiccato nello stesso quartiere moscovita di Leninskij, nel garage della sua dacia. Tre giorni dopo, il 28 di febbraio, è stata la volta Mikhail Watford, nato con il nome Toltosheya nel '55 in quella che era al tempo l'Ucraina sotto il regime sovietico. Il tycoon si era trasferito a vivere in Inghilterra dopo la morte nel 2013 del suo amico, l'oligarca Boris Berezovsky, che Watford riteneva essere stato assassinato dai servizi russi.
Negli ultimi due anni lui stesso diceva di essere entrato nelle mire omicide di Putin, e di recente la crescente paura lo aveva spinto a rinforzare i sistemi di sicurezza della sua villa da 23 milioni di dollari, nella ricca contea di Surrey a sud di Londra. Il giardiniere l'ha trovato impiccato ad una trave del garage, mentre il resto della famiglia, moglie e bambini, sono stati risparmiati. È andata peggio all'inizio di marzo al proprietario della società di servizi sanitari Medstom, Vasily Melnikov.
Era appena tornato da una vacanza familiare alle Maldive, destinazione improbabile per chi pianifica un massacro. Eppure i suoi due figli di dieci e quattro anni sono stati accoltellati nella dacia in prossimità di Nizhny Novogord, prima che la stessa arma gli togliesse la vita. Il copione si è ripetuto il 18 di aprile nell'appartamento moscovita del vice presidente della Gazprombank Vladislav Avayev, questa volta con l'uso di una pistola di ordinanza dell'Fsb, l'agenzia spionistica che ha rimpiazzato il Kgb.
Avayev era a conoscenza dei movimenti finanziari dei potenti moscoviti, inclusi forse quelli dello stesso Putin. C'è un filo rosso che collega queste morti, oltre all'evidente traccia di sangue che hanno lasciato, e che pesa sui sogni dell'élite russa? Forse dietro la compattezza dei sondaggi, che attribuiscono alla campagna militare in Ucraina l'80 dei consensi tra la popolazione, il presidente russo è impegnato su un fronte interno di misteriosa, per quanto micidiale violenza.
Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 27 aprile 2022.
Fare l'oligarca russo non porta bene, ultimamente: una serie di uomini d'affari più o meno legati al regime di Vladimir Putin ha incontrato di recente una brutta fine. E i sospetti si alimentano e si rincorrono.
L'ultimo sventurato è Sergey Protosenya, ex presidente di Novotek, azienda russa del gas, trovato impiccato giorni fa nella sua villa in Spagna accanto ai corpi della moglie e della figlia diciottenne, massacrate a colpi d'ascia. Per gli inquirenti spagnoli si tratta di un caso di omicidio-suicidio: ma il figlio sopravvissuto non ci crede affatto.
«Mio padre non è un assassino», ha detto il giovane Fedor Protosenya al Mail Online : e ha suggerito che i suoi familiari siano stati piuttosto assassinati da una mano misteriosa. «Amava mia madre e soprattutto Maria, mia sorella - ha aggiunto il 22enne Fedor -. Lei era la sua principessa e lui non avrebbe mai fatto loro del male. Non so cosa è accaduto quella notte, ma so che mio padre non le ha colpite».
Il figlio dell'oligarca è scampato al massacro perché ha trascorso la Pasqua nella casa di famiglia a Bordeaux, in Francia, mentre padre, madre e sorella si trovavano nella residenza di Lloret de Mar, in Costa Brava. Fedor ha lanciato l'allarme martedì della scorsa settimana, quando non è riuscito a contattare per telefono i parenti.
Ma in effetti le circostanze del loro ritrovamento destano qualche sospetto: Protosenya non ha lasciato nessun biglietto di suicidio né sono state trovate impronte digitali sull'accetta e sul coltello usati per uccidere le due donne, così come non c'erano tracce di sangue sul corpo dell'oligarca.
La polizia spagnola si è rifiutata di rivelare i dettagli dell'autopsia condotta nel weekend sui resti delle vittime, citando il segreto investigativo. E ha ammonito Fedor a non discutere del caso in pubblico. La polizia catalana aveva trovato il 55enne Sergey impiccato in giardino e i corpi mutilati della 53enne Natalya e della giovane Maria all'interno della casa. Il figlio, però, non è l'unico a non credere alla versione dell'omicidio-suicidio: «Sergey non lo ha fatto, non ha ucciso la sua famiglia, è impossibile - ha detto sempre al Mail Online Anatoly Timoshenko, un uomo d'affari russo amico stretto dei Protosenya -. Non voglio discutere di cosa potrebbe essere successo in casa quella notte, ma Sergey non è un assassino».
E un altro amico, Roman Yuravih, ha aggiunto: «Conoscevo Sergey da dieci anni, era un uomo felice , amava la sua famiglia. Non ha ucciso sua moglie e sua figlia, ne sono sicuro». Il mistero resta: ma quel che è certo è che c'è una scia di sangue che si allunga da Mosca. Pochi giorni prima del delitto in Costa Brava il corpo di un altro oligarca, Vladislav Avayev, era stato ritrovato nel suo lussuoso attico nella capitale russa, assieme a quelli della moglie e della figlia 13enne: anche in questo caso si era parlato di omicidio- suicidio.
Avayev, 51 anni, era stato presidente di Gazprombank, il braccio finanziario di Gazprom, il colosso russo del gas. E in febbraio i corpi massacrati di altri due alti funzionari di Gazprom, Alexander Tyulakov e Leonid Shulman, erano stati rinvenuti nelle loro esclusive residenze alle porte di San Pietroburgo. Con la guerra che insanguina l'Ucraina e il regime di Putin annegato nella sua folle paranoia, solo una serie di sfortunate coincidenze?
I 6mila fedelissimi dello Zar. Nella lista anche un italiano. Angelo Allegri su Il Giornale il 28 aprile 2022.
È una specie di enciclopedia del potere russo: 6mila persone senza le quali il regime non andrebbe avanti un giorno. La radiografia del nocciolo duro dell'élite putiniana è opera della Fondazione contro la corruzione del dissidente Alexei Navalny, in carcere ormai da più di un anno. Il suo team di lavoro ha diffuso ieri l'elenco dei «complici» del leader del Cremlino, chiedendo sanzioni per tutti (oggi quelli colpiti dai provvedimenti occidentali sono circa 900). «Non è mai successo che si pensi a sanzioni per 6mila persone? Se è per questo non c'è mai stata nemmeno una guerra in Ucraina», ha scritto il braccio destro di Navalny Leonid Volkov. «Tempi estremi richiedono soluzioni estreme. Vogliamo essere sicuri che tutti i responsabili della guerra siano chiamati a rispondere delle loro responsabilità».
Gli elenchi sono divisi in varie categorie: si va dagli uomini degli apparati della sicurezza ai militari, fino ai funzionari corrotti. Molti nomi sono scontati e già oggetto di provvedimenti da parte di Europa e Stati Uniti. Altri sono più sorprendenti. Tra i potenziali «sanzionandi», c'è perfino un italiano: Lanfranco Cirillo, l'architetto dell'ormai famoso «palazzo di Putin», gioiello miliardario sulle rive del Mar Nero. Cirillo, che ha anche la cittadinanza russa, vive gran parte del suo tempo a Mosca, da dove gestisce le sue attività immobiliari e finanziarie attraverso delle società cipriote. Altro straniero dell'elenco è il tedesco Matthias Warnig, l'ex spia della Stasi a cui Putin ha affidato la presidenza del Gasdotto North Stream 2, bloccato dall'inizio della guerra.
Quanto ad altri nomi conosciuti in Italia, in primo piano c'è quello dell'astronauta Valentina Tereskova, 84 anni, prima donna a viaggiare nello spazio nell'ormai lontano 1963. La Tereskova, che figura nell'elenco insieme alla figlia Yelena, è diventata negli ultimi anni uno dei personaggi immagine del partito di Putin. Secondo gli uomini di Navalny, possiede delle proprietà in Italia che sarebbero intestate ad alcuni familiari.
Quello di parenti e prestanome è uno dei capitoli più lunghi e curiosi. Secondo la Fondazione anti-corruzione non c'è uomo del potere russo che non affidi la titolarità delle proprie ricchezze a genitori, cugini, perfino alle suocere. Tra i beni da congelare ci sono per esempio quelli della cognata di Serghei Shoigu, a cui sarebbero intestate buona parte delle proprietà del Ministro della difesa. Lo stesso si può dire della mamma del presidente della Duma Viacheslav Volodin. Si potrebbe continuare all'infinito e Putin non fa eccezione. Il movimento di Navalny segnala il ricco patrimonio della ginnasta Alina Kabaeva, secondo diffusi rumors attuale compagna del presidente. Anche in questo caso alcuni beni sarebbero in realtà intestati alla suocera, Lyubov. Lo stesso si può dire di Svetlana Krivonogikh, altro passato flirt attribuito a Putin, da cui avrebbe avuto anche una figlia.
Nel capitolo dei propagandisti non mancano i nomi che attirano l'attenzione. Primo tra tutti quello di Ksenya Sobchack, figlia di Anatoly, sindaco di San Pietroburgo nei primi anni Novanta, lo scopritore di Putin. Nel 2018 la Sobchack, si è presentata candidata, con scarso successo, alle elezioni presidenziali in contrapposizione allo stesso Putin. Ma proprio questo sarebbe stato il servizio reso al regime: interpretare un facsimile di opposizione. Centinaia, come ovvio, sono i dirigenti e i giornalisti dei canali televisivi di proprietà pubblica o semi-pubblica messi sotto accusa. Ci sono nomi noti solo in Russia e c'è anche chi si è fatta notare sulle tv italiane. Una di queste è Nadana Friedrichson, combattiva protagonista di alcune trasmissioni di Lilli Gruber, commentatrice di Zvezda tv, emittente di proprietà del Ministero della Difesa: gli uomini di Navalny la indicano come una delle più fedeli interpreti del verbo putiniano.
I Kremlin kids. Report Rai PUNTATA DEL 25/04/2022 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini
Collaborazione di Lidia Galeazzo, Eva Georganopolou, Ilaria Proietti
Per rispondere alla guerra in Ucraina, l'occidente ha cercato di colpire l'establishment russo nelle sue finanze.
Oltre a banche e prodotti russi, a finire sotto sanzioni sono stati i cosiddetti oligarchi. Cioè quegli uomini d'affari, spesso con un passato nelle forze di sicurezza o nel KGB, che hanno fatto le loro fortune appropriandosi dei beni pubblici russi e grazie alla loro lealtà a Putin. Report racconterà come questi oligarchi sono però un prodotto in buona parte occidentale. Così sono diventati ancor più potenti e intoccabili in patria. Sino a un mese e mezzo fa i ricconi di Mosca e San Pietroburgo facevano girare un sacco di soldi e i colletti bianchi di mezzo mondo facevano affari d'oro fornendogli consulenze milionarie. Alcuni Paesi come Cipro o il Regno Unito, con leggi fin troppo favorevoli e avvocati specializzati, hanno dato a questi uomini - e ai loro familiari - un passaporto europeo e la possibilità di costruire impenetrabili schermi che rendono difficilissimo attaccarne le ricchezze. Altri Paesi come l'Italia hanno corteggiato per anni il turismo di lusso dei russi e i loro investimenti in Sardegna e in Toscana. Oggi rischiamo di danneggiare la nostra stessa economia e non riuscire nemmeno a scalfire gli interessi degli oligarchi, proprio perché grazie all'occidente hanno da tempo preso precauzioni. La caccia al tesoro è iniziata. Ma chi è il vero pirata?
Un ringraziamento a Valentina Varisco per la rappresentazione degli schemi societari.
I KREMLIN KIDS di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella e di Lidia Galeazzo, Eva Georganopolou, Ilaria Proietti Ricerche immagini di Alessia Pelagaggi Immagini di Paolo Palermo – Alfredo Farina Montaggio di Maurizio Alfonso, Marcelo Lippi, Andrea Masella
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora se l’Occidente aveva in mente di scalfire il consenso intorno a Putin, di colpire quegli oligarchi che fanno parte del cerchio magico, l’Occidente ha sottovalutato, l’abilità dei propri professionisti, quelli che con i loro uffici legali hanno abilmente nascosto le fortune degli oligarchi - e non solo degli oligarchi - e li hanno resi difficilmente aggredibili. Ecco, ha sottovalutato l’Occidente in questi anni il proliferare di quegli studi che con la distrazione dell’Europa, ma anche con la complicità di leggi favorevoli, di quei potentati economici e di quelle giurisdizioni offshore, ha acconsentito il proliferare di società fantasma e di prestanomi. L’Europa ha tollerato la presenza di quei paesi come Malta e Cipro che hanno fatto della poca trasparenza il miglior biglietto da visita. Ne hanno subito approfittato quei furbacchioni degli oligarchi, non solo ovviamente loro, ma forse è per questo, perché sapevano al sicuro i loro beni che potevano sorridere a una barzelletta che ha raccontato un insolito Putin qualche anno fa.
VLADIMIR PUTIN - PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA – 19/10/2017 Ho visto Petr Aven tra il pubblico e vi voglio raccontare la storia su un oligarca che perde tutto. No no, non è Aven… Lui è ok. Parleremo poi degli sviluppi di Alpha Group. Ma può accadere di andare in bancarotta, no? Allora questa è una vecchia storiella, quindi… Un oligarca va in rovina e parla con la moglie: “Sai, dovremo vendere tutto, le auto di lusso e comprare un’utilitaria”. E lei: “Sì, sì va bene.” Lui: “Dovremo anche lasciare le ville e la dacia e andare ad abitare in periferia”. E la moglie: “Va bene, va bene”. L’oligarca: “Ma tu, cara, mi amerai ancora, vero?”. E la moglie risponde: “Ti amerò, certo… E mi mancherai tanto”.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Era il 2017. Altri tempi, altro clima. Oggi gli oligarchi russi sono alle prese con le sanzioni dell’Occidente. Ma possono continuare a ridere sotto i baffi. La ciambella di salvataggio gliel’hanno lanciata proprio i Paesi che oggi li sanzionano e che in realtà poi li tutelano attraverso i loro studi legali e le leggi favorevoli.
DIRIGENTE GRUPPO EVRAZ Dopo l'annessione della Crimea del 2014, abbiamo intuito che ci sarebbero state ripercussioni e abbiamo deciso di dare più sostanza alla nostra struttura a Cipro. Se prima avevamo letterbox companies, cioè scatole vuote, poi ci abbiamo messo davvero risorse umane.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A parlare è un manager di primo piano del gruppo Evraz, il conglomerato minerario russo da 13 miliardi di dollari, attivo dal Kazakistan al Canada, quello che fa riferimento a Roman Abramovich, il patron del Chelsea, scelto per sedere al tavolo negoziale tra Russia e Ucraina. Ma anche ad Alexander Frolov e Alexander Abramov. Ci dà appuntamento al porto di Limassol, a Cipro, e ci chiede assoluta riservatezza sulla sua identità.
DIRIGENTE GRUPPO EVRAZ Ci sono tantissimi russi a Limassol, ma non solo per la questione della cittadinanza, quella alcuni la prendono anche a Malta. A Cipro, oltre alla tassazione conveniente, c’è un ecosistema di servizi legali e finanziari per aprire società.
GIULIO VALESINI Quindi qua ci si viene soltanto per aprire società di comodo e poi intestarle a prestanome di turno?
DIRIGENTE GRUPPO EVRAZ Nulla di illegale, o comunque al massimo ai confini della legge. A Cipro ci sono in pratica le fiduciarie GIULIO VALESINI Quindi tutti questi super ricchi, oligarchi, senza studi legali, senza consulenti finanziari non riuscirebbero a fare tutto quello che fanno?
DIRIGENTE GRUPPO EVRAZ Io personalmente ho staccato assegni da milioni di sterline per professionisti a Londra, e a Cipro avvocati…
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I palazzi di Cipro custodiscono i segreti di molti oligarchi russi. A Limassol, c’è la sede del prestigioso studio legale fondato dall’avvocato Nicos Anastasiades, diventato presidente della Repubblica di Cipro. Per evitare problemi di conflitto di interesse, lo fa gestire dalle sue due figlie. E i giornalisti non sono graditi.
IMPIEGATO STUDIO LEGALE ANASTASIADES AND PARTNERS Andate via! Non potete fare riprese.
GIULIO VALESINI Qual è il problema? Sono un giornalista italiano, posso riprendere, sono sulla strada pubblica!
IMPIEGATO STUDIO LEGALE ANASTASIADES AND PARTNERS Vattene. Chiamo la polizia!
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma poi sbuca il volto rassicurante di Theophanis Philippou: è il socio che manda avanti le pratiche più sensibili dello studio legale del Presidente. Come quelli degli oligarchi Abramov o Leonid Lebedev, ex parlamentare della Duma con affari nel mondo petrolifero.
GIULIO VALESINI Voi avete seguito la cittadinanza di Abramov?
THEOPHANIS PHILIPPOU - SOCIO STUDIO LEGALE ANASTASIADES AND PARTNERS Le informazioni sono riservate.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bene, è questa la loro forza, la riservatezza. Poi quello è uno studio particolarmente pesante, ha un grosso peso politico perché fa riferimento all’attuale presidente della repubblica cipriota. È rimasto anche lui coinvolto nella passaportopoli, uno scandalo per il quale è stata anche istituita una commissione d’inchiesta che con molta difficoltà ha fatto anche emergere delle criticità e alla fine è spuntata anche una lista con i nomi degli oligarchi dentro, non solo loro, ma che è stata però secretata. Tuttavia, Report è riuscita a recuperarla, senza gli omissis, e vedremo anche chi c’è dentro. Nel corso della nostra inchiesta, però, i nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella hanno anche trovato una serie di clienti, frequentatori prestigiosi di questi studi legali ma anche presenti in istituti finanziari, che insomma hanno degli inconfessabili intrecci, uomini di potere, oligarchi, uomini della finanza, tutti insieme al punto da far sembrare un’ipocrisia la scelta delle sanzioni. In guerra fuori, in affari nell’offshore. Ecco, tra questi clienti è spuntato anche il nome di Alisher Usmanov, un oligarca molto vicino a Putin e molto vicino anche all’ex presidente russo Medvedev. Ha un patrimonio intanto stimato di circa 22,6 miliardi di dollari, è stato per 14 anni direttore generale della Holding Gazprom Invest, ha investito in passato in Facebook, Apple, Alibaba. Ora Usmanov è a capo di un gruppo imprenditoriale che ha siti, possiede siti minerari e anche dei giornali. Ma c’è una foto che sintetizza in maniera esemplare il personaggio ed è quella del suo aereo privato che non è un jet qualsiasi ma un Airbus 340, talmente grande che non entra nell’hangar dell’aeroporto in Costa Smeralda dove Usmanov ha pesantemente investito. Poi, nel corso dell’inchiesta è anche spuntato dall’offshore la sua cassaforte riservata, quella alla quale fanno riferimento gran parte dei possedimenti che ha in Europa. E poi, seguendo quello che ci ha detto una fonte, Usmanov avrebbe anche le mani in pasta, o meglio nell’impasto di una importante catena di pizzerie, e sarebbe il socio di imprenditori vecchie conoscenze di Report.
ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO Gli oligarchi cosiddetti hanno fatto queste enormi fortune nelle privatizzazioni delle immense ricchezze del sistema industriale, ma anche nel sistema delle materie prime della Russia nel passaggio da Gorbaciov a Eltsin. GIULIO VALESINI L'origine di questi soldi è davvero così opaca?
ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO No, allora, l'origine di queste ricchezze non è opaca: è un sequestro di tipo privato di ricchezze nazionali russe. Chi era più introdotto nel sistema politico ha potuto… GIULIO VALESINI Si è preso le risorse russe…
ALFONSO SCARANO - ANALISTA FINANZIARIO Sul figlio, sul nipote o su lui stesso, ad accaparrarsi privatamente di queste ricchezze.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche se sotto Putin si fa un balzo in avanti, non si tratta più solo di miliardari, ma i più potenti sono anche gli uomini dei servizi segreti.
AGNIESZKA LEGUCKA - ANALISTA ISTITUTO POLACCO DI AFFARI INTERNAZIONALI In Occidente se hai denaro, influenzi il potere; in Russia è il contrario: prima acquisisci potere, entri nel cerchio magico di Putin, e poi avrai yacht, soldi, tutto.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel cerchio magico c’è Shoigu, il generale ministro della guerra, ma con partecipazioni nelle più grandi aziende russe; poi Igor Sechin che, dai servizi segreti è arrivato a capo della Rosneft, la compagnia petrolifera russa. In Italia fino al 2016 era seduto nel CDA di Pirelli, a fianco di Tronchetti Provera. E se gli Stati Uniti lo hanno sanzionato nel 2014 dopo l’occupazione russa della Crimea, l’Italia l’ha premiato: nel 2017 il presidente della Repubblica lo ha nominato commendatore al merito.
AGNIESZKA LEGUCKA - ANALISTA ISTITUTO POLACCO DI AFFARI INTERNAZIONALI Igor Sechin è vicinissimo a Putin, uno dei suoi amici più stretti: è l’ultimo di cui Putin potrebbe fare a meno.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da quando Di Maio è alla guida degli Esteri, abbiamo premiato 22 oligarchi russi anche poche settimane prima dell'invasione. Si va da Andrey Kostin, detto il banchiere di Putin, a Michail Mishustin, attuale primo ministro russo, passando per Inga Karimova, figlia di Igor Sechin e il doppiamente decorato Aleksej Paramonov, che ha attaccato di recente il ministro Guerini. Ma attestati di stima sono stati tributati anche sotto il governo Renzi ad Alisher Usmanov, uno degli uomini più ricchi al mondo, con business che vanno dalle miniere di rame ai giornali, per aver favorito i buoni rapporti tra Italia e Russia; e sotto il governo Gentiloni a Dmitry Peskov, che dal 2012 è il portavoce di Putin.
GIULIO VALESINI Che legami ci sono tra queste onorificenze?
MASSIMILIANO IERVOLINO – SEGRETARIO RADICALI ITALIANI È poco trasparente perché su alcune ci sono delle spiegazioni e delle motivazioni, su altre, molte no. Dopo di che se uno vede la lista si rende che molte di queste onorificenze vanno a persone che si occupano di petrolio, vanno a persone che si occupano di gas, vanno a persone che comunque sono il cerchio tra virgolette magico di Putin o persone che si occupano in Russia di banche.
GIULIO VALESINI Che effetto le fa sapere che Sechin, Usmanov in Italia hanno ricevuto onorificenze?
AGNIESZKA LEGUCKA - ANALISTA ISTITUTO POLACCO DI AFFARI INTERNAZIONALI Penso sia una cosa vergognosa. Se per violazioni del diritto internazionale Putin finisse alla sbarra in un’inchiesta della Corte Penale dell’Aja, in quel caso il primo coimputato sarà Shoigu e appena dopo lui ci sarà Sechin. E poi forse anche Usmanov.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alisher Usmanov è uno dei fedelissimi di Putin e ha un patrimonio di oltre 22 miliardi di dollari. In Italia ha acquistato meravigliose ville in Sardegna, ad Arzachena, nel cuore della Costa Smeralda, e per questo al suo destino è legato anche un pezzo della nostra economia.
ANGELO COSSU - ARTIGIANO Due settimane prima di iniziare la guerra abbiamo iniziato un lavoro perché stava arrivando un bonifico l’indomani dell’acconto: non è arrivato domani, non è arrivato dopodomani; è arrivata la guerra… Abbiamo perso due settimane di lavoro. Abbiamo fatto un inizio lavori…
GIULIO VALESINI E basta.
ANGELO COSSU - ARTIGIANO E basta. Però quello che mi disturberà molto quest’anno è che alla fine quel ciclo lavorativo in quella villa lì era 250 mila euro!
GIULIO VALESINI Tu quant’è che sei qui in zona?
ANGELO COSSU - ARTIGIANO Dal ’79.
GIULIO VALESINI E tu le hai viste tutte queste.
ANGELO COSSU - ARTIGIANO Ho visto i passaggi di quattro popoli diversi: arabo, italiano, tedesco, il russo, adesso chi viene, il cinese?
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In questi giorni gli operai edili lavorano nelle lussuose ville della Costa Smeralda per consegnarle entro l'estate ai proprietari, in molti casi russi, ma con le sanzioni e i venti di guerra molti contratti stanno saltando.
GINO SALARIS - IMPRENDITORE E PRESIDENTE CONFAPI GALLURA Sono delle belle commesse perché negli anni hanno sempre garantito di tutelare anche gli imprenditori, in questo dobbiamo essere, dobbiamo essere onesti
GIULIO VALESINI Lavorando con gli oligarchi russi, ma si può dire, eh! Non è mica…
GINO SALARIS - IMPRENDITORE E PRESIDENTE CONFAPI GALLURA Beh… oligarchi qua ce n’è uno…
GIULIO VALESINI Usmanov!
GINO SALARIS - IMPRENDITORE E PRESIDENTE CONFAPI GALLURA Sì, esatto, ce n’è uno.
GIULIO VALESINI Lei dice: i soldi non hanno odore poi alla fine.
GINO SALARIS - IMPRENDITORE E PRESIDENTE CONFAPI GALLURA Assolutamente, ben vengano clienti come il signor Usmanov!
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Usmanov in Costa Smeralda ha investito parecchio. All’oligarca russo sono riconducibili un compendio immobiliare a Golfo del Pevero da 17 milioni di euro con accesso al mare; e sei veicoli societari, italiani ed esteri, con in pancia ville come questa di Punta Capaccia da 30 vani e una dimora più modesta a Romazzino da soli 12 vani. Da queste parti dicono sia riservata agli amici che vengono in visita per un valore complessivo di 66 milioni di euro. E poi c’è una Maybach s650 a prova di kalashnikov ed esplosivi: vale 530 mila euro. I beni sono congelati a seguito delle recenti sanzioni perché, secondo l’Unione Europea, Usmanov e gli altri oligarchi sarebbero complici di Putin nella guerra all’Ucraina. Nel 2018 il sindaco di Arzachena gli ha conferito la cittadinanza onoraria per avere dato lustro e visibilità internazionale al territorio.
ALISHER USMANOV – ARZACHENA (SS) 19/09/2018 Posso dire che adesso come cittadino di Arzachena, ho acquisito un’altra patria. Vi ringrazio per l’onore che mi avete concesso. Vi garantisco che non vi siete sbagliati: io sono uno di voi.
GIULIO VALESINI Lei ha dato la cittadinanza onoraria a Usmanov.
ROBERTO RAGNEDDA - SINDACO DI ARZACHENA (SS) Sì: un mecenate che ha fatto crescere anche la cultura, ha garantito anche la presenza di capi di stato nel nostro territorio.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Durante le fasi più tragiche della pandemia, Usmanov ha donato 500 mila euro in respiratori agli ospedali sardi. Con un’altra donazione di 500 mila euro ha finanziato il restauro della fontana dei Dioscuri davanti al Quirinale e anche la sala degli Orazi e Curiazi ai musei capitolini, come aveva promesso al sindaco di Roma Ignazio Marino. Insomma, è un filantropo.
GIULIO VALESINI Il fatto che Usmanov sia stato sanzionato dall’Unione Europea cambia il suo giudizio nei confronti?
ROBERTO RAGNEDDA - SINDACO DI ARZACHENA (SS) No, noi abbiamo sempre conosciuto una persona vicina ai territori, pacifica…
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Usmanov nel trasparente mare sardo prende il largo con Dilbar, lo yacht da 150 metri registrato alle Cayman. È stato sequestrato presso il porto di Amburgo. Risultava intestato alla sorella dell’oligarca, Ismailova, anche lei finita nell'elenco dei sanzionati. Vale 600 milioni di euro. Ha due aree di atterraggio per elicotteri, una scala d’oro da 30 milioni di dollari, una sauna, una palestra, due piscine.
GIULIO VALESINI Ha dato lustro ad Arzachena.
ANGELO COSSU - ARTIGIANO No, secondo me no: ha dato del denaro per avere qualcos'altro.
GIULIO VALESINI Lei l’onorificenza non la ritira.
ROBERTO RAGNEDDA - SINDACO DI ARZACHENA (SS) In questo momento diciamo che le priorità sono ben altre.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma dietro alle meravigliose ville in Costa Smeralda di Usmanov c’è una società offshore, una specie di cassaforte di cui Report ha ottenuto documenti interni: la Pauillac, con sede all’isola di Bermuda, che spunterà più volte nel corso della nostra inchiesta, come anche alcune holding con sede a Cipro e a Belize.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma lei mi dirà: “ma perché Usmanov vuole l’anonimato?”. Si vede che non vuol far sapere tutti i soldi che ha.
GIULIO VALESINI Ma nessuno ha alzato il dito dicendo: “ma…”
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Noi abbiamo da più di 30 anni una normativa antiriciclaggio che obbliga le banche, i commercialisti, i notai, gli agenti immobiliari di segnalare l’operazione sospetta quando i denari arrivano da posti ignoti o quando le catene societarie finiscono in posti ignoti.
GIULIO VALESINI Come in questo caso.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Certo, questa roba era da segnalare!
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Vicino alla villa di Usmanov in Costa Smeralda, c’è villa Valkirie - 600 metri quadrati, valore oltre 70 milioni di euro - riconducibile attraverso un intricato schema offshore al re dell'acciaio russo Oleg Deripaska: un patrimonio stimato di oltre tre miliardi di dollari. Il dipartimento del tesoro americano lo ha messo in black list nel 2016 per la sua vicinanza al Cremlino. Ora le sanzioni rischiano di bloccare un indotto vitale per l’economia della Costa Smeralda.
PAOLO MANCA - PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Nel momento in cui si prendono delle posizioni giustissime, corrette, che sposiamo, legittime…
GIULIO VALESINI Lei dice le sanzioni…
PAOLO MANCA - PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Le sanzioni, occorre pensare alle conseguenze. Nel momento in cui si chiedono gite in barca, si chiedono servizi negli aeroporti, si chiedono feste in esclusiva, c’è tutta una filiera di centinaia e centinaia di lavoratori e di aziende che vivono organizzando questo tipo di attività. Nel momento in cui queste attività diventano il 20% in meno, beh, è palese che le aziende con un 20% di calo del fatturato di solito falliscono.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Porto Cervo è anche la casa di Flavio Briatore che da queste parti ha lo storico locale Billionaire. Una fonte del mondo finanziario ci racconta che Usmanov, oltre che condividere la passione per la Costa Smeralda, avrebbe investito con Briatore nella catena internazionale Crazy Pizza, con locali a Milano, a Londra, Montecarlo e Ryiad, passando a Roma, nell’evocativa Via Veneto. Il menu offre una ricercata selezione di pizze gourmet. Quella al Pata Negra, per i palati più sofisticati, costa solo 60 euro. Nel prezzo è incluso anche lo show del pizzaiolo e gli amici di sempre, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, nel locale di Brera, a Milano, apprezzano.
SILVIO BERLUSCONI Per Flavio Briatore, hip hip urrà, Hip hip urrà, urrà urrà.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La società nata nel 2018 con il nome TM Limited, ha sede in Lussemburgo ma Briatore detiene solo una parte di Crazy Pizza. Il resto delle quote è diviso fra soci di livello internazionale.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Però è tutta una struttura offshore, chiaramente, non è che…
GIULIO VALESINI Ma chi sono i soci di Briatore?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO A novembre del 2020 entrano due italiani che lavorano a Londra nella finanza, che si chiamano D’avanzo e Cerchione, noti…
GIULIO VALESINI Li abbiamo già conosciuti.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Sì, noti a Report perché erano apparentemente i proprietari del Milan.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Gianluca D’Avanzo e Salvatore Cerchione sono nati a Napoli, dove ha origine la loro ascesa nel mondo finanziario. Uno dei primi investimenti è nella società Beta Skye srl che a partire dal 2006 acquista circa 12 milioni di euro di crediti che vantano alcune strutture accreditate presso il servizio sanitario della regione Campania. D’Avanzo e Cerchione in passato sono intervenuti per tirare fuori dai guai il prestigioso bar di Hemingway, l'Harry’s di Venezia, della famiglia Cipriani quando nel 2012 rischiava di chiudere i battenti. Nell’operazione che ha traghettato il Milan dal cinese Li nelle mani del fondo Elliott, i due sono stati protagonisti con un ruolo mai del tutto chiarito: nelle carte lussemburghesi recuperate da Report, figuravano tra i titolari effettivi delle quote che controllano a cascata il Milan. E ora li ritroviamo soci di Briatore in Crazy Pizza.
GIULIO VALESINI Che fanno nella vita?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma, fanno operazioni diciamo finanziarie. Sono quelli che danno più soldi di tutti: dan tre milioni e mezzo. Subito dopo entra un iraniano, un iraniano che risiede a Montecarlo, tale Moshiri, noto per essere uomo di riferimento di un importante, noto oligarca, oligarcone, chiamiamolo così…
GIULIO VALESINI In tutti i sensi.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Oligarcone russo molto vicino a Putin.
GIULIO VALESINI Voci insistenti del mondo finanziario londinese a noi ci han detto “guardate che se cercate dentro le società di Briatore in questa operazione Crazy Pizza, troverete tracce di Usmanov”.
GIAN GAETANO BELLAVIA- ESPERTO DI RICICLAGGIO Dirette non ce n’è. C’è Moshiri, ma Moshiri è da dieci anni che è nominato, indicato anche nei fatti come uomo di Usmanov, che investe probabilmente per conto di Usmanov. In questa iniziativa della pizza mette un milione e mezzo circa. Il giorno dopo entra una società di Riad. Mettono quasi tre milioni anche gli arabi.
GIULIO VALESINI Anche loro.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Non avevo ancora visto gli arabi che entrano insieme ad un iraniano in un’attività. Loro sono molto confliggenti tra di loro. Questo unisce iraniani, arabi, finanzieri napoletani: cioè, unisce di tutto. Cioè, Briatore bisognerebbe dargli oggettivamente il premio Nobel per la Pace!
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A dicembre scorso al tavolo della Crazy Pizza si siede un altro socio. È schermato però da una fiduciaria milanese, che a sua volta controlla le quote di una società lussemburghese. È Danilo Iervolino, il fondatore dell’università telematica UniPegaso e proprietario della Salernitana, nonché nuovo editore dello storico settimanale L’Espresso.
GIULIO VALESINI Quanto ci ha messo Iervolino?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Due milioni.
GIULIO VALESINI È un dream team della finanza, che si è messo insieme a fare la pizza.
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Oddio, è un team, non so se dream, ma insomma.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un team, insomma, Crazy Pizza nasce con un capitale sociale di circa 20mila euro che è in pancia al Billionarie Lifestyle di Briatore, il locale che è in Costa Smeralda come la villa di Usmanov. Ora che cosa accade? Che a novembre del 2020 investono in Crazy Pizza anche Cerchione e Davanzo, 3 milioni di euro. Si tratta di due imprenditori che lavorano spesso dal Lussemburgo, vecchie conoscenze di Report, li avevamo trovati mentre traghettavano l’acquisto del Milan dal controverso cinese Li al fondo Elliott. E, in base alle carte lussemburghesi, avevamo anche scoperto che erano stati gli effettivi proprietari del Milan. Poi dopo Elliot ha formalizzato in Lussemburgo. Ora, lo stesso giorno, Cerchione è rimasto ancora oggi nel board del Milan, lo stesso giorno ha investito anche Moshiri, Farhad Moshiri che è un inglese di nazionalità, di origine iraniana, residenza a Montecarlo. Secondo una fonte accreditata che Report ha incontrato, sarebbe il prestanome di Usmanov nell’affare Crazy Pizza. In effetti dalle carte emerge che Usmanov e Moshiri sono stati soci per trent’anni, hanno acquisito insieme anche le quote dell’Arsenal poi dopo Moshiri ha venduto la sua parte a Usmanov e ha acquistato l’Everton. Poi dopo si sono aggiunti anche gli arabi di Modern Food. Insomma, una bella comitiva. Ultimo ad entrare è stato l’imprenditore Andrea Iervolino, Danilo Iervolino. Danilo Iervolino che è un imprenditore che ha fondato Pegaso, l’università telematica, ha acquistato poi da Lotito la Salernitana e ha acquistato poi per ultimo l’Espresso dal gruppo Gedi. Ora, va detto che tutte queste operazioni sono state fatte prima delle sanzioni, poi noi abbiamo scritto ai soci e i soci ci smentiscono, ci scrivono che non sanno, negano la presenza di Usmanov, dell’oligarca nella società. Ci hanno scritto poi anche Usmanov e Moshiri e dicono che la partecipazione di Moshiri in Crazy Pizza è a titolo completamente personale. Però Moshiri ammette di essere ancora oggi, contrariamente alla sua volontà, socio di Usmanov in Usm perché non riesce a liberarsi delle azioni per via del congelamento da parte del governo russo questa volta della posizione degli azionisti britannici. Ora, le risposte integrali le potete trovare sul nostro sito e sui nostri social. Perché Usmanov è stato sanzionato? Perché si ritiene che con le sue ricchezze abbia in qualche modo contribuito a finanziare la guerra di Putin in Ucraina. Comunque, il suo è il classico esempio, quello da manuale, dell’oligarca che investe in occidente. Ha aperto società e conti nell’offshore da Belize a Cipro ma anche nell’impenetrabile Londra. Ma è soprattutto nell’isola cipriota che molti oligarchi si recano perché è un’isola che è in grado di darti con la cittadinanza, pagando anche due milioni di euro, puoi comprare anche il passaporto. Insomma, ed è anche in grado di creare quelle strutture societarie che schermano le effettive proprietà, anche quando si tratta di asset strategici come quelli di un aeroporto.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L'aeroporto civile di Grosseto è all’interno della base militare che ospita il quarto stormo dell'aeronautica. Da qui decollano gli eurofighter militari che fanno la ricognizione per la difesa del nostro spazio aereo.
FRANCESCO LIMATOLA - PRESIDENTE PROVINCIA DI GROSSETO Tra l’altro, tra i più importanti del nostro Paese.
GIULIO VALESINI Quindi è un aeroporto strategico.
FRANCESCO LIMATOLA - PRESIDENTE PROVINCIA DI GROSSETO È un aeroporto strategico.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’aeroporto civile è posseduto dalla Seam, una società misto pubblico-privata. Il privato Ilca srl ha il 35% - la quota più alta - e nomina il presidente del consiglio di amministrazione. La Regione Toscana ha il 7%, mentre la provincia possiede il 25% delle quote.
GIULIO VALESINI Lei lo sa chi è il proprietario di Ilca?
FRANCESCO LIMATOLA - PRESIDENTE PROVINCIA DI GROSSETO No, non so. Fa parte di una serie di società… AEON se non mi sbaglio?
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO AEON è del russo Roman Trotsenko ma in realtà le quote dell’aeroporto sono in possesso della Plutoworld, che ha sede in questa anonima palazzina di Nicosia, capitale di Cipro, dove troviamo perfino la Lukoil, la più grossa compagnia petrolifera russa. Ma è qui che c’è il socio principale dell’aeroporto. Al secondo piano troviamo l’amministratore armeno-cipriota Tigran Aristakesyan.
TIGRAN ARISTAKESYAN - AMMINISTRATORE PLUTOWORLD Sì?
GIULIO VALESINI Stiamo cercando la società Plutoworld che in Italia possiede un aeroporto tramite la Ilca srl.
TIGRAN ARISTAKESYAN - AMMINISTRATORE PLUTOWORLD Non posso parlare con te perché non sono autorizzato. Lasciami il tuo numero, parlo con chi di dovere e ti farò sapere. Ma sei della tv pubblica Italia?
GIULIO VALESINI Ma perché ridi?
TIGRAN ARISTAKESYAN - AMMINISTRATORE PLUTOWORLD Io amo l’Italia!
GIULIO VALESINI Ma me lo dice chi è il vero proprietario della Plutoworld?
TIGRAN ARISTAKESYAN - AMMINISTRATORE PLUTOWORLD Vuoi avere informazioni? In un’intervista? Ti chiamo io entro domani.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Abbiamo scoperto che la quota dell’aeroporto non è intestata a Roman Trotsenko, bensì alla moglie Sofia, che si occupa di arte contemporanea e musei. Il nome di Roman era sulle carte solo tra il 2014 e il 2015, il periodo successivo all’invasione della Crimea e forse, intestarlo alla moglie, è servito a prevenire eventuali sanzioni.
GIULIO VALESINI Sa a chi è intestata in realtà la società?
FRANCESCO LIMATOLA - PRESIDENTE PROVINCIA DI GROSSETO No.
GIULIO VALESINI Lei dice Trotsenko. Invece non è Trotsenko, è la moglie di Trotsenko.
FRANCESCO LIMATOLA - PRESIDENTE PROVINCIA DI GROSSETO Questo è un ulteriore elemento di valutazione che lei mi sta, mi sta dando.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nell’aeroporto di Grosseto ha investito anche Lupo Rattazzi, il figlio di Susanna Agnelli, è il vicepresidente del consiglio di amministrazione dell’aeroporto.
LIDIA GALEAZZO Noi ci stiamo occupando della situazione dell’aeroporto di Grosseto e ci chiedevamo, essendo la società, la Seam, gestita per il 35% da Roman Trotsenko…
LUPO RATTAZZI - VICEPRESIDENTE CDA AEROPORTO DI GROSSETO Il comune di Grosseto per guadagnare un miserabile milione di euro si è venduto il suo 35%. L’ho trovata una cosa assolutamente impropria quella di vendere una quota così importante di un’infrastruttura strategica ad un cittadino extracomunitario, per di più russo. L’unico affare con i russi l'ha fatto il signor Bonifazi che era il sindaco di Grosseto, a suo tempo.
EMILIO BONIFAZI - SINDACO DI GROSSETO 2006-2016 Ora, io non mi ponevo il problema se era russo o cinese. Non è che io ho un'intelligence dentro il Comune che mi permette di fa’ una valutazione del genere. Se avessi avuto qualche cosa contraria da parte del ministero della Difesa mi sarei messo più prudente, no? L’aeroporto passa dentro una base militare…
GIULIO VALESINI E questo è uno dei problemi che infatti viene sollevato, no?
EMILIO BONIFAZI - SINDACO DI GROSSETO 2006-2016 Ma questo è un problema della, della, del, del ministero della Difesa.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Roman Trotsenko controlla 14 aeroporti in varie regioni russe. Ha un patrimonio stimato di due miliardi di euro. Non è stato colpito dalle sanzioni dopo la guerra Ucraina, ma nel 2018 fu inserito dal dipartimento del tesoro americano nella cosiddetta “Putin list”: l’elenco di imprenditori e politici considerati molto vicini a Vladimir Putin. Parcheggiato il suo aereo privato all’aeroporto di Grosseto, può raggiungere velocemente anche la sua splendida villa acquistata a Punta Ala nel 2014 con accesso esclusivo alla spiaggia di Cala Civetta.
LIDIA GALEAZZO Come è possibile che gli abbiano permesso di nominare il presidente con solo il 35%?
LUPO RATTAZZI - VICEPRESIDENTE CDA AEROPORTO DI GROSSETO Bella domanda. È una domanda che mi sono fatto tante, tante volte.
LIDIA GALEAZZO E lei che risposta si è dato?
LUPO RATTAZZI Che chiami il sindaco di Grosseto che era prima era presidente della provincia, Vivarelli Colonna.
GIULIO VALESINI Perché intestare una società alla moglie e la sede legale a Cipro? Non è strano?
ANTONFRANCESCO VIVARELLI COLONNA - SINDACO DI GROSSETO È strano, sì…
GIULIO VALESINI L’aeroporto è un’opera strategica di un paese. Dovrebbe essere tutto molto trasparente.
ANTONFRANCESCO VIVARELLI COLONNA - SINDACO DI GROSSETO Onestamente non lo so, sono fatti di Trotsenko, sono fatti suoi.
GIULIO VALESINI Quindi lei mi conferma: l’aeroporto è di Trotsenko, di Roman Trotsenko, non della moglie
ANTONFRANCESCO VIVARELLI COLONNA - SINDACO DI GROSSETO L’aeroporto è della moglie di Roman Trotsenko, in separazione dei beni. Mi domando io: se non vi fosse stata la guerra di Putin, se non ci fosse stata questa situazione, se non ci fosse stata l’invasione dell’Ucraina, se ne sarebbe parlato? Concentriamoci, allora, sulla figura di Roman: una persona con la quale io ho collaborato, egregiamente, è un benefattore, un mecenate, fa…
GIULIO VALESINI Perché è un benefattore?
ANTONFRANCESCO VIVARELLI COLONNA - SINDACO DI GROSSETO Perché, diciamo, si occupa di arte, si occupa di cultura, si occupa di accrescimento culturale, si occupa di bonifiche del territorio
GIULIO VALESINI Senta, benefattore che cosa ha fatto?
ANTONFRANCESCO VIVARELLI COLONNA - SINDACO DI GROSSETO Ora, nel dettaglio sinceramente non mi vorrei addentrare anche perché non conosco proprio squisitamente…
GIULIO VALESINI Lei quasi lo ammira Trotsenko
ANTONFRANCESCO VIVARELLI COLONNA - SINDACO DI GROSSETO Ma io non è che ammiri nessuno, io ammiro Gesù Cristo e mio padre che non c’è più, purtroppo, e lo saluto
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tuttavia Roman Trotsenko nel 2021 proprio perché reputato il vero proprietario dell’aeroporto di Grosseto ha ricevuto dall’ambasciatore italiano a Mosca Pasquale Terraciano l’onorificenza di ufficiale dell’ordine della Stella d’Italia.
GIULIO VALESINI Quindi l’onorificenza data a Trotsenko è sbagliata? Chiedo, veramente.
ANTONFRANCESCO VIVARELLI COLONNA - SINDACO DI GROSSETO Ma… Trotsenko è il cognome che li accomuna, probabilmente si ritengono una famiglia. Io, per esempio, con mia moglie ho un rapporto in cui quello che fa lei, quello che ottiene lei lo ottengo anch’io e viceversa.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il vicino di ombrellone di Trotsenko è German Khan, fondatore di Alpha Group, e inserito nella black list dell’Unione Europea. All’Argentario ha comprato Villa Feltrinelli: 34 stanze, una torre saracena, 26 ettari di terreno, eliporto, rifugio antiaereo. Poco distante hanno una tenuta anche i fratelli Rotenberg, Boris e Arkady, fondatori di SGM, il principale costruttore di oleodotti e gasdotti e amici personali di Vladimir Putin. Anche loro sanzionati. In Toscana, a Marina di Carrara, era ormeggiato anche lo Scheherazade: uno yacht da 600 milioni con piste di atterraggio per elicotteri, cinema, sauna e varie piscine. Gli indizi indicano un proprietario davvero importante: Vladimir Putin. Il gruppo di indagine di Navalny ha scoperto infatti che molti membri dell’equipaggio lavoravano per il Servizio di protezione federale, cioè l'agenzia che sorveglia la sicurezza del presidente russo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, gli enti locali, il comune e la provincia di Grosseto vendono un asset strategico a un oligarca russo. È strategico perché quell’aeroporto civile è ospite di uno militare. Trotsenko al momento non è sanzionato, ma se lo dovesse essere, è al sicuro, perché il titolare effettivo delle quote dell’aeroporto risulta la moglie. Ora, gli oligarchi non è che vanno a Cipro esclusivamente per creare le loro matrioske ma con un investimento di due milioni di euro, con la cittadinanza riescono anche a incassare il passaporto europeo. Insomma, basta aderire a un programma del governo del 2007, poi rilanciato nuovamente nel 2013, quando l’isola era in preda a una crisi finanziaria e il governo aveva bisogno di incassare. Insomma, il bengodi è andato avanti fino a quando dei colleghi, quelli di Al Jazeera, hanno fatto emergere lo scandalo dei passaporti d’oro. Ha coinvolto Bulgaria, Malta e Cipro ed è andato avanti questo scandalo nella distrazione, nella tolleranza della comunità europea e quando è emerso poi l’Ue ha detto ai paesi: fate attenzione, insomma, buttate un occhio. E così Cipro ha dovuto istituire una commissione d’inchiesta che ha fatto emergere delle criticità. Dentro c’è finito anche lo studio legale potentissimo che fa riferimento al presidente cipriota Anastasiades. Però, insomma, questa commissione è stata osteggiata, alla fine è anche emersa una lista di nomi con dentro gli oligarchi, e non solo, ma è stata secretata. Ora Report è riuscito invece ad averla ugualmente senza gli omissis e vedremo anche chi c’è dentro. Comunque, tra i clienti degli studi legali e anche degli istituti finanziari ciprioti, alla fine sono emersi degli intrecci inconfessabili. Insomma, c’è chi fa la guerra fuori e gli affari nell’offshore. C’era anche il nome di qualche persona coinvolta nel Russiagate americano. Ecco, tutto ha origine quando Putin ha cominciato a manifestare l’intenzione di aggredire i beni degli oligarchi.
STELIOS ORPHANIDES - GIORNALISTA CONSORZIO INVESTIGATIVO OCCRP C’è una data in cui l’offshore cipriota ha attratto un esodo di massa di capitali russi: è il 2003, quando Putin ha fatto arrestare il capo del gigante Yukos, Michail Chodorkovskij. Lui ha perso tutto, si è fatto dieci anni di carcere e la società è andata a rotoli. Allora i paperoni russi hanno capito il messaggio: se Putin ha fatto questo a uno degli uomini più potenti di tutta la Russia, può tranquillamente farlo a me. E allora ha iniziato ad aprire società e conti correnti a Cipro, che gli garantiva l’affidabilità dei tribunali locali e delle leggi europee.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Cipro è il luogo ideale, basta girare per le strade di Nicosia. È pieno di studi legali e fiduciarie che hanno aiutato gli oligarchi, ma non solo, a creare strutture finanziarie che sono veri e propri scudi per blindare il patrimonio e pagare meno tasse in Occidente. A Ledra House, a Nicosia, c’è lo studio legale Christodoulos Vassiliades, forse il più legato a Mosca sull’isola. Il fondatore è anche un manager della filiale cipriota di Sberbank, ovvero la più grande istituzione finanziaria russa, finita sotto sanzioni. A questo indirizzo ci sono molte tracce di oligarchi compreso Usmanov, che qui ha domiciliato le immobiliari che hanno in pancia le sue splendide ville.
GIULIO VALESINI Siamo giornalisti italiani.
CHRISTODOULOS G. VASSILIADES – FONDATORE STUDIO LEGALE CHRISTODOULOS G. VASSILIADES & CO. LLC Non avete appuntamento? Uscite immediatamente dai miei uffici! Mandateli fuori.
GIULIO VALESINI Possiamo farle una domanda?
CHRISTODOULOS G. VASSILIADES – FONDATORE STUDIO LEGALE CHRISTODOULOS G. VASSILIADES & CO. LLC No.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Lo studio ha gestito le pratiche per il rilascio dei passaporti a importanti oligarchi. A Cipro ha la cittadinanza anche il re dell’acciaio Oleg Deripaska che sull’ isola è stato socio in affari di Paul Manafort, il capo della campagna elettorale di Donald Trump, poi finito in un’inchiesta del Senato americano che ha scoperto che passava informazioni di alto interesse strategico proprio ai russi. In quest’altro ufficio ha la sede legale VIY MANAGEMENT, riferibile ad Andrey Yakunin, proprietario di una catena internazionale di hotel, con importanti investimenti anche in Umbria, mentre il padre è un ex agente del KGB poi messo a capo delle Ferrovie Russe.
VERA LYSSIOTIS- TITOLARE LYSSIOTIS GROUP Noi non possiamo dire niente perché non conosciamo.
GIULIO VALESINI Ma le avete aperte voi però, la sede legale è qui.
VERA LYSSIOTIS- TITOLARE LYSSIOTIS GROUP Non abbiamo niente da dire.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Wilbur Ross, il segretario al commercio americano all’epoca di Trump, aveva quote nella Banca di Cipro, un istituto noto per misure anti-riciclaggio lassiste, di cui era azionista anche il magnate russo Viktor Veselberg, vicinissimo a Putin. Ma ci sono anche gli oligarchi ucraini amici di Zelensky e lo stesso presidente ucraino ha una società a Cipro con la quale detiene una villa da quattro milioni di euro acquistata in Versilia. Sono presenti anche molti affaristi cinesi e israeliani. Tante lingue e nazionalità diverse, ma un unico passaporto: quello di Cipro, quindi europeo. Quasi ottomila concessi dal governo in questi anni a ricchi investitori sbarcati sull’isola. Ma dietro il rilascio dei passaporti ci sono parecchie ombre.
GIULIO VALESINI Lei, nella sua relazione finale, ha chiesto la revoca di molte cittadinanze.
MYRON NICOLATOS - PRESIDENTE DELLA CORTE SUPREMA DI CIPRO 2014 - 2020 Circa il 53%. Ora non è facile revocare tutte le cittadinanze concesse illegalmente.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Myron Nicolatos è l’ex presidente della Corte Suprema di Cipro. L’anno scorso è stato chiamato dalle autorità a guidare una commissione di indagine sui passaporti facili. L’inchiesta si è chiusa puntando il dito anche contro lo studio legale del presidente della Repubblica Anastasiades.
MYRON NICOLATOS - PRESIDENTE DELLA CORTE SUPREMA DI CIPRO 2014 - 2020 Questo studio legale ha trattato un certo numero di casi. Il presidente Anastasiades è venuto davanti alla commissione d'inchiesta come testimone e ha detto che prima di diventare presidente non ha avuto alcun coinvolgimento e che, dal momento in cui è diventato presidente, non ha avuto alcun interesse nel suo ex studio legale. Tuttavia, in questo studio legale le sue due figlie hanno circa il 50% delle azioni.
GIULIO VALESINI È vero che nella lista che lei ha analizzato c’erano anche parecchie situazioni criminali?
MYRON NICOLATOS - PRESIDENTE DELLA CORTE SUPREMA DI CIPRO 2014 - 2020 Abbiamo suggerito di indagare su circa 85 casi.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche l’ufficio del Revisore Generale di Cipro ha voluto indagare ma ha trovato parecchi ostacoli.
MARIOS PETRIDES - PORTAVOCE DEL REVISORE GENERALE DI CIPRO C'era una nota del funzionario del ministero degli Interni che ci potevano essere alcune questioni riguardanti il riciclaggio di denaro, candidati di alto profilo a rischio, frode, evasione fiscale e così via.
GIULIO VALESINI Voi non avete avuto accesso a tutti i documenti.
MARIOS PETRIDES - PORTAVOCE DEL REVISORE GENERALE DI CIPRO Sì, è vero. Abbiamo il registro generale senza i nomi.
GIULIO VALESINI Voi avete subito pressioni e minacce in seguito alla vostra indagine?
MARIOS PETRIDES - PORTAVOCE DEL REVISORE GENERALE DI CIPRO Minacce? Sì, e abbiamo letto su alcuni rapporti che il Governo stava pensando di provare a licenziare il Revisore Generale dalle sue funzioni.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E quando ha pubblicato la sua relazione, la Commissione Nicolatos ha dovuto cancellare i nomi degli imprenditori coinvolti.
GIULIO VALESINI In questa lista c'erano anche alcuni oligarchi russi?
MYRON NICOLATOS - PRESIDENTE DELLA CORTE SUPREMA DI CIPRO 2014 - 2020 Non so dirle quanti considerati oligarchi. Ma ho capito che c'erano alcuni russi con molti soldi.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una copia senza censure della relazione della commissione d'inchiesta la otteniamo a Londra da un consulente di un oligarca russo: l’ha recuperata per verificare se conteneva informazioni compromettenti per la reputazione del suo cliente. Nella lista ci sono 195 nomi, non solo russi, ma con problemi legali e reputazionali. Tra le pratiche più sensibili c’erano i passaporti di Abramov e Frolov, i due soci in Evraz di Abramovic. Così come quello di Leonid Lebedev, l’ex parlamentare della Duma: anche sulla sua pratica sono emerse ombre. Dossier seguiti proprio dallo studio fondato dal presidente della repubblica di Cipro, Nicos Anastasiades.
THEOPHANIS PHILIPPOU - SOCIO STUDIO LEGALE ANASTASIADES AND PARTNERS La questione è stata chiusa definitivamente, ma solo perché noi siamo associati al nome del presidente della Repubblica siamo finiti nel mirino.
GIULIO VALESINI Rispetto alle sanzioni che l’Unione Europea sta decidendo, come vi state muovendo?
THEOPHANIS PHILIPPOU - SOCIO STUDIO LEGALE ANASTASIADES AND PARTNERS Il nostro ufficio compliance fa delle verifiche quotidiane e se c’è qualcosa da segnalare noi lo segnaliamo a chi di dovere.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel rapporto segretato c’è anche Igor Kesaev, il re del tabacco russo che risulta finito in indagini dell’Interpol e che sarebbe anche legato ai servizi segreti. C’è poi Oleg Deripaska: possiamo rivelare che gli Stati Uniti avvisarono il Governo che grazie al passaporto europeo l’imprenditore dell’acciaio avrebbe potuto aprire conti correnti, movimentare denaro, insomma, aggirare le sanzioni. Proprio un manager del gruppo Evraz, che fa riferimento a Roman Abramovich, ci racconta come funziona questo tipo schema.
GIULIO VALESINI Ma i soldi sono qui a Cipro?
DIRIGENTE GRUPPO EVRAZ Le società cipriote hanno tutte i conti bancari in Svizzera. Diciamo che noi qui, durante la crisi del 2013, non abbiamo perso niente, perché avevamo al massimo 100mila euro in una banca locale, per gli stipendi. Poi i soldi spesso sono tenuti al sicuro nei trust delle giurisdizioni legate alla corona britannica, tipo l'Isola di Man.
GIULIO VALESINI Che però fanno capo alla grande piazza di affari londinese.
DIRIGENTE GRUPPO EVRAZ A Londra ci sono i servizi finanziari di livello e soprattutto è la piazza per i mercati delle materie minerarie.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cipro usata come cavallo di Troia per fare affari indisturbati nell’occidente. I russi portano i soldi e il presidente Anastasiades sostanzialmente da anni spinge perché vengano allentate le sanzioni nei confronti della Russia. Ora, nell’ambito del suo primo mandato, è andato tre volte a Mosca, è stato l’unico presidente di paese europeo a partecipare all’anniversario, alle celebrazioni per l’anniversario della vittoria della Russia nella Seconda guerra mondiale contro i nazisti. Poi bisogna anche dire che la Marina militare russa ha utilizzato le basi cipriote per le loro, per le sue operazioni militari in Siria. Alla luce di tutti questi fatti, Cipro saprà osservare alla lettera le sanzioni emanate dall’Ue perché per esempio per quel che riguarda la filiale cipriota della Banca commerciale russa, che poi fa capo alla moscovita VTB, insomma, ha lasciato un mese di tempo perché chiudesse in pace le sue operazioni dall’inizio del conflitto in Ucraina. Ora, il nostro Giulio Valesini è andato presso lo studio del presidente Anastasiades, lo studio legale che aveva trattato delle pratiche più sensibili degli oligarchi russi, ha fatto qualche domanda, insomma, è stato in qualche modo un po’ osteggiato, poi alla fine quando si è trattato di ripartire è stato fermato all’aeroporto di Larnaka perché è stato colpito, lui, da una segnalazione per un’attività presunta criminale. Valesini! Insomma, però, alla fine, è stato fatto anche un interrogatorio che è stato condotto da una persona non ben identificata che dal telefono, da Limassol, faceva la domanda: “Perché avete ripreso il palazzo del presidente?”. Ora, il presidente aveva smentito che quello fosse il suo studio legale, viene di fatto smentito dai suoi stessi agenti. Poi, insomma, il nostro Giulio è riuscito a partire e ha recuperato a Londra la lista con i nomi omissati, però senza omissis questa volta, di coloro che avevano ottenuto il passaporto a Cipro. Londra che è quella città dove ci sono anche dei detective finanziari al contrario: cioè l’oligarca va là e gli chiede: scusa, puoi verificare se sono stato bravo a nascondere il mio patrimonio perché non venga aggredito? E gli investigatori dicono: sì, sei stato bravo oppure devi correggere qualcosa.
VLADIMIR PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA - 16 MARZO 2022 L’Occidente scommette sulla cosiddetta Quinta colonna: i traditori della nazione. In quelli che guadagnano i soldi qui, con noi, ma vivono lì. Non giudico affatto chi ha una villa a Miami o sulla Riviera francese, chi non riesce a fare a meno del foie gras, delle ostriche o delle cosiddette libertà di genere. … Per loro, significa appartenere ad una casta superiore, ad una razza superiore. L’Occidente sta cercando di dividere la nostra società, speculando sulle perdite militari, sulle conseguenze socio-economiche delle sanzioni, cercando di causare un conflitto civile in Russia e usando la “quinta colonna” proprio per raggiungere l’obiettivo. Ma tutti, e ancor più il popolo russo, dovrebbero distinguere i veri patrioti dalla feccia e dai traditori e dovrebbero semplicemente sputarli fuori come un moscerino entrato accidentalmente in bocca. Sputarli sul pavimento.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È la fatwa di Putin contro gli oligarchi dissidenti ma tace su quelli del suo cerchio magico che, come abbiamo visto, si sono infiltrati perfettamente nel modello occidentale, sono funzionali al soft power russo, si sono infiltrati passando per Londra nella capitale mondiale dei professionisti finanziari e legali. I colletti bianchi della City hanno aiutato per anni i russi a impiantarsi in Europa, registrare società offshore, aprire conti bancari, pagare meno tasse sui jet privati.
THOMAS MAYNE - ESPERTO IN ANTICORRUZIONE - CHATHAM HOUSE È il centro del riciclaggio di denaro nel mondo, e non solo per i territori offshore come le Isole Vergini Britanniche, le Isole Cayman, Jersey, Isola di Man che aiutano il sistema.
GIULIO VALESINI Il sistema qua sembra costruito apposta per eludere i controlli. È vero che nei registri societari inglesi tu puoi registrare le società a nome di persone senza che nessuno controlli nulla, e che è successo che persone si siano trovate titolari di società a loro insaputa?
THOMAS MAYNE - ESPERTO IN ANTICORRUZIONE - CHATHAM HOUSE Costa circa 12 sterline registrare una società. C’è chi ha registrato società con il nome di Hitler o di Giuda Iscariota. Allora abbiamo introdotto l’obbligo di indicare nel registro il nome della persona che ha il controllo effettivo. Ma siccome la soglia per la divulgazione del nome è del 25%, basta mettere cinque proprietari con il 20% ciascuno e rimane anonima.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO C’è poi un mondo poco raccontato di brillanti professionisti della compliance e delle investigazioni finanziarie, che offrono indagini sul cliente stesso. Cioè l’oligarca russo chiede all’investigatore di verificare se è rintracciabile l’origine della sua ricchezza, o la titolarità della sua mega-villa o di capire se qualcuno può aggredire i suoi beni.
JESSICA MILLER – FONDATRICE STRELA ADVISOR Si può fare tipo protezioni di proprietà, perché c'è molta gente, per esempio, che vogliono proteggere la loro privacy.
GIULIO VALESINI Tu hai fondato una boutique di investigazione finanziaria.
JESSICA MILLER – FONDATRICE STRELA ADVISOR Immagina insomma un'enorme caccia al tesoro, se tu mi devi per esempio miliardi di dollari tocca a me di trovare dov'è e poi di capire la struttura attraverso la quale qualcuno ha questa proprietà.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Jessica Miller è alla guida della Strela Advisory, parla cinque lingue, tra cui ovviamente il russo ed è considerata una fuoriclasse nel suo settore.
GIULIO VALESINI Tu hai molti clienti russi, no?
JESSICA MILLER – FONDATRICE STRELA ADVISOR Sì, sì sono specializzata. Ho cominciato in questo business un modo in cui c'è stato tantissimo lavoro dalla Russia ma anche per l'investitore occidentale che voleva trovare opportunità in Russia.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma i problemi si possono prevenire, ci sono società che fanno analisi di rischio, cioè aiutano il cliente a capire se il soggetto con cui fa affari è finito sotto sanzioni oppure come gestire l’impatto sociale di un progetto minerario.
LIVIA PAGGI - PARTNER GPW Facciamo il quadro molto chiaro da dove vengono soldi o la reputazione di un partner, in Russia o in un altro paese, o guardiamo quanto è esposto un progetto politico, sociale, che impatto sociale può avere un progetto. E poi sta all’azienda di vedere se vogliono fare l’affare o no, ecco.
GIULIO VALESINI Non aiutate il cliente a pulire la reputazione?
LIVIA PAGGI - PARTNER GPW No, assolutamente no, no. Quello a Londra lo chiamano spesso un public relations company, ecco, infatti se vedi ci sono degli oligarchi che sono riusciti a prendere pezzi nel Financial Times e in grossi giornali che si stanno giustificando, non so perché sono sanzionato, perché…
GIULIO VALESINI Ma chi li aiutati poi a nascondere i soldi, la City londinese?
LIVIA PAGGI - PARTNER GPW Non solo la City londinese.
GIULIO VALESINI Ho capito, siamo a Londra.
LIVIA PAGGI - PARTNER GPW È il sistema finanziario globale.
GIULIO VALESINI Occidentale.
LIVIA PAGGI - PARTNER GPW Occidentale.
GIULIO VALESINI Che oggi li punisce. Cioè, noi oggi stiamo impazzendo a cercare lo yacht, la villa di Putin quando li abbiamo aiutati noi a nasconderli. Questo è un po’… o no?
LIVIA PAGGI - PARTNER GPW Non so.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La caccia al tesoro degli oligarchi è iniziata proprio da Londra dove dimore storiche e ville imperiali sono il fiore all’occhiello della presenza russa. C’è la raffinatissima Beechwood House e la gigante Sutton Place in mano alla famiglia di Usmanov. Poi c’è Abramovich che nemmeno troppo metaforicamente possiede mezza Londra e la dimora di Kensington Palace Gardens, nota come la “via dei miliardari”, con cartelli che invitano a non fare neanche fotografie. E infine c’è anche Oleg Deripaska, a cui dei manifestanti hanno occupato in segno di protesta il bel palazzetto d’epoca a Belgravia. Ma i soldi e le quote sono nascosti, intestati a figli, mogli, concubine, trust e prestanome. Agnieszka Legucka, dell'Istituto Polacco di Affari Internazionali, aveva intuito il meccanismo anni fa. Aveva individuato una cerchia di figli e parenti dell’elite russa che si intestano le quote ma veri e propri rappresentanti, procuratori dei loro più noti famigliari. Li ha definiti i Kremlin kids.
AGNIESZKA LEGUCKA – ANALISTA ISTITUTO POLACCO DI AFFARI INTERNAZIONALI Non sono semplicemente dei figli degli oligarchi, sono proprio uno strumento politico per i loro genitori.
GIULIO VALESINI I ragazzi del Cremlino, i Kremlin Kids, hanno un ruolo anche nel mantenimento e nella gestione degli affari degli oligarchi vicino a Vladimir Putin?
AGNIESZKA LEGUCKA - ANALISTA ISTITUTO POLACCO DI AFFARI INTERNAZIONALI Praticamente sono dei prestanome e dei delegati. Si piazzano nei CDA di società come Rosneft o Gazprom oppure si dedicano direttamente al riciclaggio di denaro così mettono in sicurezza le loro famiglie dai pericoli interni e le schermano dalle sanzioni dall’esterno. Prendi il caso di Ksenia Frank che lo ha fatto per il padre Gennady Timchenko: lui nel 2014, ai tempi delle sanzioni per l’annessione della Crimea, le ha “venduto” una quota del 12,5% di SOGAZ, la più importante assicurazione russa. In altri casi si sono intestati le proprietà immobiliari di famiglia all’estero in posti come Londra, la Francia, l’Italia.
GIULIO VALESINI Lei ci sta descrivendo una rete molto stretta fatta di amicizie, di familiarità, rapporti familiari, di soldi, finanza, intorno a Valdimir Putin dove anche i matrimoni hanno un ruolo importante.
AGNIESZKA LEGUCKA - ANALISTA ISTITUTO POLACCO DI AFFARI INTERNAZIONALI La lealtà si costruisce anche con i legami familiari, proprio come nella mafia. E per questo si fanno dei matrimoni all’interno di questa casta. Pensa alla figlia di Vladimir Putin, Khaterina Tikonova, che si è sposata con Kirill Shalamov, ossia il figlio di un amico di lunga data di Putin.
GIULIO VALESINI Dove li han portati i beni secondo lei? Dove li hanno nascosti?
GUIDO ASCHERI - FONDATORE STUDIO ASCHERI & PARTNERS - LONDRA Le fonti più attendibili che ho io è tutto a Singapore.
GIULIO VALESINI E lì è impossibile andarli a beccare.
GUIDO ASCHERI - FONDATORE STUDIO ASCHERI & PARTNERS - LONDRA Anche perché si erano messi d'accordo prima. Non penserà mica che questi prima che cominciasse l'invasione non sapessero che ci sarebbe stata l'invasione e non sapevano che una delle possibili sanzioni era la confisca dei beni, visti i precedenti in cui è stata fatta? Lo sapevano.
GIULIO VALESINI Certo, è difficile vendere tutte le ville, tutte insieme…
GUIDO ASCHERI - FONDATORE STUDIO ASCHERI & PARTNERS- LONDRA Han detto: questo glielo lasciamo e il resto ce lo portiamo via tranquillamente.
GIULIO VALESINI Così l'opinione pubblica è contenta, daje al russo…
GUIDO ASCHERI - FONDATORE STUDIO ASCHERI & PARTNERS - LONDRA Tutti felici e contenti, hai visto il russo come lo abbiamo castigato?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quando poi un governo riesce a congelare qualche bene, si tratta di briciole per loro. Poi se si tratta di beni come yacht oppure ville bisogna anche avere l’accuratezza di mantenerle bene, quindi di spendere per la manutenzione. Se poi aggredisci delle quote di società, parti di società che fanno parte di aziende, si rischia anche che queste aziende chiudano, e lascino per strada gli operai e sarà ancora una volta lo Stato che deve prendersi cura pagando loro la cassa integrazione. Ora, si rientra poi di questi soldi, di questi costi? Sarà complicato perché bisognerà dimostrare, per arrivare alla confisca dei beni congelati, dimostrare che questi oligarchi abbiano contribuito con la loro ricchezza a finanziare la guerra di Putin in Ucraina.
Russia, si dimette il fondatore di Lukoil Alekperov per salvare la società dalle sanzioni. Rosalba Castelletti, Andrea Greco su La Repubblica il 22 aprile 2022.
Il miliardario è stato anche vice ministro del petrolio nell’Urss. L’azienda aveva chiesto la fine rapida del conflitto.
Si è dimesso Vagit Alekperov, fondatore, comproprietario, direttore generale e membro del cda di Lukoil, il secondo produttore russo di petrolio dopo Rosneft e il più grande non statale. L'ex viceministro sovietico del petrolio e del gas aveva preso le redini di Lukoil sin dalla sua privatizzazione nel 1993. La sua lunga carriera si è conclusa ieri, una settimana dopo che il miliardario era finito nel mirino delle sanzioni di Regno Unito e Australia, con una breve dichiarazione diffusa dalla società.
Trovato impiccato in Spagna il magnate russo Sergey Protosenya: «Avrebbe ucciso moglie e figlia con un'ascia». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.
Ex vicepresidente di Novatek, aveva un patrimonio stimato intorno ai 400 milioni di euro. Il premier Sanchez su Twitter parla di violenza di genere.
Prima «avrebbe ucciso con un'ascia la moglie Natalia e la figlia di 18 anni mentre dormivano. In seguito si sarebbe impiccato in giardino». Questa, secondo il canale tv spagnolo Telecinco, la ricostruzione di quanto accaduto al magnate russo Sergey Protosenya, trovato morto martedì nella sua villa di Lloret de Mar, in Costa Brava. Accanto al corpo dell'uomo, per sette anni vicepresidente del colosso russo del gas naturale Novatek e dal patrimonio stimato in circa 400 milioni di euro, le forze dell'ordine hanno rinvenuto un coltello e, appunto, un'ascia con tracce di sangue: le armi di cui si sarebbe servito per togliere la vita alle due familiari.
Stando a quanto emerso, i tre si sarebbero recati in Spagna in occasione della settimana Santa. Un altro figlio sarebbe invece rimasto nella residenza abituale della famiglia in Francia. Ancora da chiarire le ragioni del gesto, ma il premier Pedro Sanchez si è già sbilanciato parlando di violenza di genere: «Un uomo uccide la moglie e la figlia a Girona – ha scritto su Twitter – due vite portate via da un problema strutturale che dobbiamo estirpare».
Sempre a martedì risale una vicenda simile che ha coinvolto un altro nome illustre della società russa: l'ex vicepresidente di Gazprombank Vladislav Avayev, trovato morto nel suo appartamento di Mosca, accanto ai corpi della moglie Yelena, 47 anni, e della figlia più giovane, Maria, 13. Secondo le informazioni diffuse dalla polizia russa, l'uomo aveva una pistola in mano, e tutti e tre i cadaveri presentavano ferite da arma da fuoco.
Dagotraduzione da Newsweek il 21 aprile 2022.
Il mistero circonda le notizie sulla morte di un oligarca russo del gas e della sua famiglia all'interno della loro villa spagnola.
Secondo quanto riferito, gli investigatori stanno cercando di capire se l'incidente sia stato un omicidio-suicidio domestico o un colpo organizzato. I loro corpi sono stati scoperti solo un giorno dopo che un altro boss russo del gas è stato trovato morto insieme alla sua stessa famiglia a Mosca, in circostanze simili.
Il sito di notizie spagnolo El Punt Avui ha riferito che i corpi di Sergey Protosenya, sua moglie e sua figlia sono stati trovati martedì 19 aprile nella loro casa nella località balneare di Lloret de Mar in Catalogna.
A lanciare l'allarme è stato il figlio maggiore della coppia, che vive in Francia, quando non è riuscito a raggiungerli. Il sito web ha riferito che la madre e la figlia sono state accoltellate a morte, mentre Sergey Protosenya si era apparentemente impiccato. Altri siti di notizie hanno detto che la moglie di Protosenya, Natalya, aveva 53 anni e la loro figlia aveva appena compiuto 18 anni.
Le notizie dell'incidente arrivano tra rapporti simili da Mosca, di un altro dirigente legato a una compagnia del gas che avrebbe ucciso sua moglie e sua figlia prima di suicidarsi. L'ex funzionario del Cremlino e vicepresidente della Gazprombank Vladislav Avayev, 51 anni, è stato trovato morto lunedì nel suo lussuoso appartamento a Mosca dalla figlia di 26 anni, ha detto la polizia. Sono stati scoperti anche i corpi di sua moglie Yelena, 47 anni, e della figlia minore Maria, 13 anni. Tutti avevano riportato ferite da arma da fuoco.
Secondo il sito spagnolo El Punt Avui, la fortuna stimata di Protosenya era di 440 milioni di dollari. Secondo quanto riferito, si era formato come ingegnere ed economista ed era il direttore finanziario della compagnia petrolifera Tarkosaleneftegaz e capo contabile di un altro gigante petrolifero, Novatek. Novatek-Tarkosaleneftegaz è stata fondata nel 1994 e gestisce giacimenti di petrolio e gas.
Tuttavia, una pagina archiviata sul sito web di Novatek, risalente a marzo 2015, e vista da Newsweek, nomina Sergey Protosenya vicepresidente dopo una riorganizzazione del consiglio di amministrazione.
Il «Cardinale», Surkov è stato l’ideologo del putinismo. È vittima della macchina che ha creato?. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2022.
Anche il suo arresto, un po’ come tutta la sua vita, è ammantato di mistero e di ambiguità. Sarebbe ai domiciliari perché dopo anni di contrasti, i militari, dalle cui fila peraltro Vladislav Surkov proviene, sarebbero riusciti a fargliela pagare. Ma la stessa fonte che ha dato questa notizia all’ex deputato di opposizione Ilya Ponomariov non esclude un’altra variante: «Che a quelli della Difesa piacerebbe tanto vedere Surkov in carcere. Sarebbe il loro sogno trasformato in realtà». Insomma, i dubbi sul reale destino dell’ex consigliere numero uno di Putin non si dissipano, anche perché conferme da altre fonti non ne sono arrivate.
L’accusa sarebbe quella di essersi intascato i quattrini che il Cremlino elargiva a valanga dopo il 2014 per russificare il Donbass, a partire dalle due repubbliche di Donetsk e Lugansk che avevano dichiarato unilateralmente l’indipendenza. Surkov, il «cardinale grigio» dietro i piani di Putin per l’Ucraina, già allora teorizzava che bisognasse fare di tutto per continuare a destabilizzare l’ex Paese fratello.
La strategia
Due mesi fa, dieci giorni prima dell’invasione, Surkov aveva elaborato e dato forma compiuta alle sue idee che stavano dietro alla strategia russa. La Russia di oggi, è la sua idea, è ingabbiata nei confini che vennero imposti ai bolscevichi vittoriosi in patria ma sconfitti dagli imperi centrali nel 1918 con la pace di Brest-Litovsk: «È stupefacente ma il confine occidentale della Russia di oggi coincide quasi perfettamente» con la linea fissata da quella che Surkov chiama come i comunisti di allora, la «pace indecente». Per l’ideologo, dopo tanti anni il Paese «è di nuovo ricacciato indietro». E questo, «senza perdere una guerra, senza ammalarsi di una rivoluzione; sono bastate per sgretolare l’impero sovietico una ridicola perestrojka e una torbida glasnost». Con la solita sua prosa contorta, Surkov sostiene nell’articolo che ci sarà da agire nel campo geopolitico, anche in senso «pratico» e «perfino di contatto». Parole minacciose che sembrano preannunciare quello che di lì a poco il Cremlino avrebbe fatto.
Personaggio ambiguo, politologo con un trascorso nel Gru, lo spionaggio militare (lui sostiene che faceva solo il servizio di leva), ma anche scrittore di romanzi di fantapolitica. Perfino la sua data di nascita è ambigua: 1962 secondo alcune fonti e 1964 secondo altre. Figlio di un padre ceceno (il suo vero cognome è lo stesso del presidente della Cecenia indipendente degli anni Novanta, Dudayev) e di una madre russa. Dopo essere stato con l’Armata Rossa in Ungheria negli anni Ottanta, entrò negli affari. Prima con Mikhail Khodorkovskij, l’oligarca più ricco di Russia che poi ruppe con Putin e finì in galera. Quindi con un altro oligarca, Mikhail Fridman, patron dell’Alfa Bank. E un passaggio alle pubbliche relazioni della tv Ort, di un altro oligarca Boris Berezovskij, poi morto in Inghilterra. Infine nel governo e quindi nel ruolo di vice responsabile dell’amministrazione presidenziale e di ideologo capo.
La Cecenia
È stato Surkov a indirizzare la politica russa su alcune delle questioni più importanti. La Cecenia, ad esempio. Sarebbe stata sua l’idea di portare alla presidenza il giovane e manesco Ramzan Kadyrov, figlio del precedente leader assassinato. E di affidare la repubblica come un feudo completamente indipendente al nuovo signore. Che effettivamente l’ha completamente pacificata (con i suoi metodi) togliendo a Putin una ricorrente preoccupazione. Quando Dmitrij Medvedev prese il posto di Putin che non poteva rimanere al Cremlino per un terzo mandato consecutivo, furono avviate timide riforme per liberalizzare e modernizzare la Russia. Nel 2009 Surkov fece sentire la sua voce forte e chiara. Le riforme portavano una gravissima instabilità che avrebbe finito «per fare a pezzi la Russia».
Teorico della «democrazia guidata»
Ma il suo vero cavallo di battaglia era stato il concetto di democrazia guidata teorizzato già in precedenza fra il 2005 e il 2007. Lui l’aveva definita «democrazia sovrana», basata però sulla verticale del potere. Vale a dire che ogni decisione doveva discendere dall’alto. Tutto, dalle elezioni ai partiti politici serviva a dare questa idea di democrazia completa. Altri meccanismi, però, avevano poi il compito di tenere ogni cosa sotto controllo, affinché il sistema continuasse immutato.
Le proteste di piazza
Dal 2013 aveva iniziato a occuparsi a tempo pieno dell’Ucraina e della regione caucasica, con un occhio particolare su Ossezia del Sud e Abkhazia. Il suo nome era venuto fuori anche durante le proteste di piazza Maidan a Kiev del 2015, quando cecchini spararono sulla folla. Gli ucraini accusarono gli uomini di Surkov dell’accaduto, anche se secondo altre fonti, il fuoco proveniva da estremisti nazionalisti. Nel 2020 il cinquantasettenne consigliere perse il posto al Cremlino, almeno ufficialmente. Questo dopo che un gruppo di hacker di Kiev aveva reso pubbliche migliaia di lettere nelle quali Surkov parlava dei piani per destabilizzare l’Ucraina. Via dal Cremlino, dunque, ma forse non dal cuore di Vladimir Putin.
L'ideologo di Putin resta professore a Venezia. Il Senato accademico dice di no alla revoca. Angelo Allegri il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il nazionalista Medinskij, capo della delegazione russa ai negoziati di pace, è docente onorario dal 2014. Memorial Italia protesta: "Intervenga il Ministro".
È uno degli uomini più vicini a Vladimir Putin, nei suoi libri rivaluta Stalin e teorizza la superiorità russa («abbiamo un cromosoma in più») rispetto alle decadenti democrazie liberali dell'Occidente. Eppure Vladimir Medinskij, ex ministro della cultura e attuale capo della delegazione di Mosca ai colloqui di pace con l'Ucraina, resta, per il momento, tra i docenti onorari dell'Università Ca' Foscari di Venezia.
Dopo una lunga riflessione e qualche dubbio, il Senato Accademico veneziano, guidato dalla sinologa Tiziana Lippiello, ha stabilito di limitarsi a sospenderlo. E, anzi, gli ha rivolto un invito da colleghi a collega: «Il Senato accademico auspica che il professor Medinskij possa contribuire, nel ruolo politico che attualmente riveste, a far prevalere la ragione e a far tacere le armi, lasciando spazio al dialogo e alla riconciliazione».
La decisione ha suscitato le proteste del ramo italiano di Memorial, l'associazione per i diritti umani fondata in Russia da Andrei Sacharov (e messa fuorilegge da Putin qualche mese fa): «Esprimiamo tutta la nostra indignazione», spiega il presidente Andrea Gullotta, docente di Studi Russi all'Università di Glasgow. «E ci rivolgiamo al Ministero dell'Università e a quello degli Esteri perchè revochino la Honorary Fellowship concessa nel 2014».
Già allora l'onorificenza provocò un'ondata di proteste. «Medinskij sostiene tesi e interpretazioni inaccettabili, in più è stato al centro di una serie di casi di plagio», prosegue Gullotta. «Ci si chiede, tanto più oggi, se un'istituzione pubblica debba farsi portavoce di posizioni illiberali».
Nel 2014, subito dopo l'invasione dell'Ucraina, per dribblare le contestazioni di docenti e studenti, si mosse la pro-rettrice in persona, Silvia Burini: con un gesto davvero inconsueto, volò a Mosca per consegnare personalmente a Medinskij il titolo. Travolta dalle polemiche, la Burini, che a Ca' Foscari dirige, oggi come allora, il Centro Studi sulle Arti della Russia (CSAR), dovette dare le dimissioni da pro-rettrice. Qualche mese dopo ebbe la soddisfazione di essere premiata da Vladimir Putin, che in una cerimonia al Cremlino le consegnò la prestigiosa medaglia Pushkin.
In quegli anni Medinskij, con l'incarico di Ministro, aveva il compito di epurare e normalizzare le istituzioni culturali del Paese: licenziò anche il curatore del padiglione russo alla Biennale dell'architettura di Venezia che aveva espresso dubbi sulla politica di Mosca in Ucraina.
A fine 2019 ha lasciato il Ministero ed è stato chiamato a dirigere la Società di Storia militare, l'ente incaricato di riscrivere l'identità nazionale russa con nuovi testi e nuovi curriculum scolastici. Anche grazie a Medinskij Putin ha maturato la sua visione sul grandioso destino imperiale della Russia. Ora i professori di Ca' Foscari sperano che si converta, folgorato sulla via di Damasco.
Estratto dell’articolo di Anna Zafesova per “la Stampa” l'8 luglio 2022.
E ieri il sito Dossier ha rivelato che l'ex presidente Dmitry Medvedev, diventato negli ultimi mesi il più radicale portavoce del regime, sarebbe stato lasciato da sua moglie Svetlana: «Il divorzio potrebbe essere stato provocato dal suo stato psichico instabile rispecchiato dai suoi post», dicono le fonti dei giornalisti russi.
Medvedev, indiscrezione drammatica sull'ex presidente russo: "Avrebbe tentato il suicidio". Giada Oricchio su Il Tempo il 28 giugno 2022
L’ex presidente russo Dmitry Medvedev avrebbe tentato il suicidio. Verità clamorosa o propaganda? La notizia è riportata dal canale Telegram General Svr, gestito da un ex luogotenente dei servizi segreti esteri russi.
Nel lungo post si legge che ieri sera è stato sventato un tentativo di suicidio di Dmitry Medvedev: “Mentre puliva l'ufficio, una donna delle pulizie ha notato diversi fogli di carta sul tavolo e sul pavimento e ha scoperto cinque varianti di un biglietto d'addio scritto con la calligrafia ampia di Dmitry Anatolyevich. La donna ha informato immediatamente le guardie che in effetti hanno trovato Medvedev ubriaco e con una pistola nella mano destra”.
In verità, i dettagli sembrano tratti da una spy story hollywoodiana, ma tant’è. Sempre secondo la ricostruzione, dopo un’attività di persuasione, Medvedev ha consegnato l’arma carica di proiettili veri. Tutto è stato subito riferito al presidente russo Vladimir Putin che ha ordinato di non dare più alcol a Medvedev e di controllarlo a vista finché non prenderà una decisione speciale.
Nel biglietto di addio, Dmitry Medvedev avrebbe ammesso di essere stanco di essere un burattino e che “non poteva più sopportare l'umiliazione e il disagio emotivo, si sentiva una persona senza valore, incapace di qualsiasi cosa, odiava la guerra e coloro che la scatenavano incolpando il presidente russo Vladimir Putin, Yuri Kovalchuk, Nikolai Patrushev, Alexander Bortnikov e Igor Sechin per la sua morte”.
Il post di General Svr si conclude evidenziando che il messaggio è di natura caotica ed emotiva e apparentemente è stato scritto in stato di ebbrezza. Poi fa notare: “Se il suicidio di Medvedev fosse riuscito, come ne sarebbe uscita la leadership russa?”. In queste settimane le dichiarazioni dell’ex presidente russo contro gli occidentali (“bastardi, voglio farli sparire, li odio”) avevano stupito per la violenza e la brutalità del linguaggio.
Medvedev: «L’Ue potrebbe sparire». La Tass: diversi comandanti del battaglione ucraino Azov, che si sono arresi a Mariupol, sono stati portati nel centro detentivo di Lefortovo a Mosca. Il Dubbio il 19 giugno 2022.
L’ex premier ed ex presidente russo Dmitri Medvedev si scaglia nuovamente contro l’Europa. L’Ucraina non potrà entrare nell’Ue prima «della metà del secolo» e se allora l’Ue fosse «scomparsa»?, si è chiesto su Telegram il vice presidente del Consiglio di sicurezza della Federazione russa. «Che scandalo sarà dopo i sacrifici fatti sull’altare dell’adesione all’Ue e quale inganno per le aspettative degli sfortunati ucraini», ha proseguito Medvedev paragonando la prospettiva europea dell’Ucraina a quella della realizzazione, mai avvenuta, del comunismo in Urss. «Non è successo e l’Urss è crollata», ha commentato.
Intanto, l’agenzia di stampa russa Tass ha riferito che diversi comandanti del battaglione ucraino Azov, che si sono arresi a Mariupol, sono stati portati nel centro detentivo di Lefortovo a Mosca. La Tass cita una fonte nelle forze di sicurezza, senza specificare le identità dei detenuti. Già in precedenza era stato rivelato che il vice comandante di Azov, Svyatoslav Palamar, chiamato “Kalina”, e il comandante della 36esima brigata dei marines ucraini, Sergey Volynsky (“Volyn”), erano stati trasferiti in Russia.
Secondo quanto riferito dalla Tass russa, Palamar, prima della guerra in Donbass, aveva già partecipato alle proteste a Maidan e alla Rivoluzione arancione nel 2004-2005. Volynsky è diventato un volto noto alla stampa internazionale per i suoi appelli al presidente americano Joe Biden, al Papa e al premier Boris Johnson durante l’assedio russo della fabbrica Azovstal. Sono oltre un migliaio i soldati ucraini catturati a Mariupol che sono stati trasferiti in Russia e un’altra parte dei prigionieri di guerra ucraini dovrebbe essere portato nella Federazione a breve, ha aggiunto la fonte alla Tass, sostenendo che potrebbero essercene più di 100 a Mosca, inclusi mercenari stranieri che si sono arresi alla Azovstal.
(ANSA il 17 giugno 2022) - "I fan europei di rane, salsicce di fegato e spaghetti" amano visitare Kiev "con zero utilità". Nuovo attacco su Twitter di Dmitry Medvedev, ex presidente russo che insulta con metafore culinarie i leader Ue Draghi, Macron e Scholz oggi in visita a Kiev. Medvedev dice che i leader Ue prometteranno all'Ucraina "l'adesione all'Ue e vecchi obici, si leccheranno i baffi con l'horilka" (una vodka ucraina, ndr) e torneranno a casa in treno, "come 100 anni fa". "Tutto va bene. Ma non avvicinerà l'Ucraina alla pace. Il tempo scorre", conclude.
Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.
Essendomi infine convinto ad abbracciare la causa della complessità, ho rinfoderato i pregiudizi che nutrivo nei confronti degli statisti russi e mi sono messo umilmente in ascolto delle loro profonde riflessioni geopolitiche.
Ho pensato di andare sul sicuro cominciando con Dmitry Medvedev, cara vecchia lenza dalla faccia d’angelo, amante del rock britannico e della campagna toscana, eterno numero due in lista d’attesa che sta a Putin come il principe Carlo alla regina Elisabetta, ma senza neanche la soddisfazione di poterlo chiamare «mammà».
Vi devo confessare che sono rimasto un po’ deluso. Non tanto dai suoi toni di ex colomba precipitata in una pozzanghera di testosterone, ma dalla sconcertante mancanza di complessità.
Pensate che, nel dileggiare il viaggio a Kiev di Macron, Scholz e Draghi, il buon «Med» si è riferito a loro chiamandoli «mangiatori di rane, salsicce e spaghetti». No, dico: e i crauti, le lumache, la pizza? Come si può essere così poco complessi da dimenticare la pizza? Non pretendo il mandolino e le kartoffeln, anche se l’immagine di un Draghi che per ridurre lo spread suona il mandolino alla Lagarde mentre sfila una patata con la senape dal piatto del presidente della Bundesbank sarebbe stata di ammirevole complessità.
E comunque mi sa che una cosa complessa l’ho capita persino io: gli statisti russi non mangeranno spaghetti, ma prima di parlare bevono parecchia vodka.
Giordano Bruno Guerri per “il Giornale” il 17 giugno 2022.
Con quella sua aria da capo cameriere che non ritiene di essere abbastanza valorizzato dal locale in cui serve, Medvedev si è esibito in un logoro insulto gastronomico verso Macron, Scholz e Draghi, «mangiatori di rane, salcicce di fegato e spaghetti». A costo di essere accusato di chi sa quali nostalgie, mi sembra sia stato molto più elegante e originale Mussolini, quando definì gli inglesi «popolo dei cinque pasti», e la Gran Bretagna «perfida Albione».
È che il populismo, dominante anche dove non ce lo si aspetterebbe, assume di necessità il linguaggio del popolo, raramente raffinato nel definire gli avversari: basti pensare al «macellaio» rivolto da Biden a Putin e al «bastardi» regalato a tutti gli occidentali dallo stesso Medvedev. Una volta intrapresa questa strada, non si torna indietro, in una gara a chi la dice più grave e greve, non con lo scopo di ottenere risultati politici, ma attenzione mediatica.
Del resto il fenomeno non è nuovo, al di là del populismo. Winston Churchill, spodestato dalla carica di primo ministro da Clement Attlee, lo definì «Una pecora in abiti da pecora». Non era certamente un complimento la definizione di «Stati canaglia», usata per la prima volta da Ronald Reagan nel 1980, attenuata da Bill Clinton con un pudico «Stato da seguire con attenzione» e ripresa da George W. Bush: il quale ebbe in risposta da Hugo Chavez, presidente del Venezuela, la definizione di «diavolo in persona», poi arricchito con «ignorante, asino, vigliacco, assassino, genocida, alcolizzato, ubriacone e bugiardo».
Fu più elegante il dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe, quando definì il primo ministro inglese Gordon Brown «solo un piccolo puntino in questo mondo» e Tony Blair un «ragazzetto in calzoncini corti», imitato dai diplomatici cinesi che poco tempo fa hanno definito il primo ministro canadese Justin Trudeau un «ragazzino», con l'aggravante di avere trasformato il Canada nel «cagnolino degli Stati Uniti».
Il più diretto di tutti è stato, nel 2016, Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, che alle critiche dell'Unione Europea rispose con un clamoroso «fuck you», corrispondente al nostrano «vaffanculo»: detto da Beppe Grillo fa sorridere, detto da Sergio Mattarella farebbe un altro effetto.
«Gli uomini si vergognano, non delle ingiurie che fanno, ma di quelle che ricevono. Però ad ottenere che gli ingiuratori si vergognino, non v' è altra via, che di rendere loro il cambio», scrisse Giacomo Leopardi (Pensieri, 1845). Così, non resta che aspettare i prossimi insulti, sperando che siano più originali e fantasiosi di quelli, modestissimi, di Medvedev.
Dmitri Medvedev "il più estremista di tutti": voci inquietanti sul super-falco di Putin, "cosa è pronto a fare per lo zar". Libero Quotidiano il 12 aprile 2022.
Chi è davvero Dimitri Medvedev, l'ex presidente della federazione russa, quello che fu di fatto un "prestanome" di Vladimir Putin al Cremlino negli anni in cui non poteva essere rieletto prima del cambio della Costituzione? Per certo, Medvedev è uno dei super-falchi dello zar: fedelissimo, da sempre e per sempre. Tanto da essere, in questi giorni di guerra, tra i più accesi sostenitori della linea dura nella guerra in Ucraina. O meglio, per dirla con le parole dei russi, dell'"operazione militare speciale", una delle più ridicoli perifrasi della storia moderna.
Di Medvedev, Putin si fida ciecamente. E sarebbe rimasto uno dei pochissimi a godere della fiducia quasi incondizionata dello zar. E Medeved, secondo il Corriere della Sera, guida oggi la pattuglia dei falchi, dove la sfida sarebbe quella di mostrarsi più estremisti di tutti, ovviamente per compiacere il capo. Per il quale sarebbe pronto a tutto.
Insomma, Medvedev è uno che fiuta il vento, sempre pronto a cambiare linea e convinzioni in base a come muta le opinioni Putin. E a tal proposito, il Corsera ricorda un caso del 2008, quando Medvedev fu fatto eleggere presidente e rimase al Cremlino per quattro anni. All'epoca sembrava essere il rappresentante di punta dei riformisti e dei democratici. Tanto che diede la sua prima intervista a Novaya Gazeta, il quotidiano di opposizione costretto a chiudere qualche giorno fa, quello in cui lavorava Anna Politkovskaya. "La stabilità e una vita prospera non possono assolutamente prendere il posto dei diritti e delle libertà politiche", disse Medvedev in quell'occasione.
E ancora, solo un anno dopo tenne un discorso durissimo contro le repressioni staliniane, tanto che radio Eco di Mosca lo paragonò a quello che Krusciov tenne nel 1956 e che svelò i crimini del dittatore georgiano. Medvedev riteneva le sanzioni contro l'Iran "inefficaci ma «con un certo senso". Eppure, oggi, attacca ad ogni occasione possibile l'Occidente, bolla le sanzioni come "atto di aggressione internazionale, una forma di guerra ibrida". E ancora, ha sbandierato la minaccia nucleare. E ha parlato di quello che, a suoi dire, sarebbe il vero piano di Putin: "Ricostruire l'impero russo, un impero che vada da Vladivostock a Lisbona".
Da corriere.it il 7 giugno 2022.
Dmitry Medvedev, alleato di lunga data del presidente russo Vladimir Putin e attualmente vicepresidente del consiglio di sicurezza della Russia , questa mattina non ha usato mezzi termini su Telegram. Ha appena pubblicato questo post: «Mi viene spesso chiesto perché i miei post su Telegram sono così duri. La risposta è che li odio. Sono bastardi e secchioni. Vogliono la morte per noi, Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire».
L'Aria che Tira, “Medvedev burattino di Putin”. Federico Rampini di fuoco a L'Aria che Tira. Il Tempo il 07 giugno 2022
“Odio l’Occidente, sono dei bastardi”. Le pesanti parole di Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza ed ex presidente della Russia, sono al centro del dibattito della puntata del 7 giugno de L’Aria che Tira, talk show di La7 condotto da Myrta Merlino, che interroga Federico Rampini, giornalista del Corriere della Sera, sulla questione russa: “Medvedev si è distinto con dichiarazioni violentissime con l’Occidente, sono parole interessanti per due ragioni. La prima è che non è un personaggio banale, è stato un po' il burattino di Vladimir Putin, quando guidava la Russia, sappiamo bene chi comandava davvero. Al tempo stesso Medvedev cumulava su se stesso le figure di politico di regime e di oligarca. È un uomo profondamente legato agli interessi dell’industria energetica russa, è molto molto ricco, con l’Occidente ha fatto un sacco di soldi, evidentemente il suo odio per l'Occidente è un fenomeno piuttosto recente. Vuole vedere sparire l’Occidente, lo dice in modo esplicito, ma sono cose che Putin ha teorizzato da tempo. E così la Cina di Xi Jinping”.
A proposito di Cina Merlino legge al suo ospite una notizia di una dichiarazione di Volodymyr Zelensky, presidente dell’Ucraina, che chiede a Pechino di mediare per far finire la guerra: “Zelensky fa benissimo - sottolinea Rampini - a cercare di stanare e smuovere la Cina, che ha sempre sostenuto, fin da prima dell’inizio dell’invasione, il 4 febbraio Putin vedeva Xi ai giochi olimpici invernali. Ma questa di Zelensky è una pia illusione. Xi parlò di un’amicizia illimitata all’ultimo incontro, un aggettivo imprudente da parte di una super-potenza come la Cina. Secondo me - chiosa il giornalista - ha sbagliato in quell’occasione a parlare così del legame tra i due paesi”.
Da open.online l'8 giugno 2022.
Yulia Tymoshenko è stata per due volte premier dell’Ucraina e protagonista della Rivoluzione Arancione. Oggi è un membro della Verchovna Rada, il parlamento di Kiev e si colloca all’opposizione del presidente Zelensky. E in un’intervista al Corriere della Sera parla della guerra e della Russia che conosce bene. A partire da Dmitry Medvedev, che ha detto di voler vedere sparire l’Occidente: «Lui non è un politico, è uno schiavo. Non è uno che può parlare liberamente. L’unico che conta a Mosca è Putin. E a lui non importa sapere come la pensi chi lo circonda». Quanto a lei, è pronta al peggio: «Se i russi entrassero a Kiev, so che sarei uccisa subito. Come Zelensky e gli altri leader. Ma fin dal primo giorno, quando m’è stato consegnato il mio fucile automatico, io ho deciso di non andarmene. Son capace di sparare, mi sono addestrata, perché non ho idea di quanto tempo mi darebbero per andarmene».
Tymoshenko non sembra avere molta fiducia nei negoziati di pace: «In Occidente dicono che ci sono due opzioni, per far finire questa guerra. Una, è la sconfitta dei russi. L’altra, è un accordo di pace che salvi la faccia a Putin. Ma io conosco bene la situazione e voglio essere chiara: non ci sono due opzioni. Ce n’è una sola, vincere. Guardi che cosa chiedono i russi: una smilitarizzazione e garanzie sulla sicurezza, che significano niente Nato e disarmo unilaterale delle nostre forze. E in cambio? Gli ucraini riceverebbero garanzie di sicurezza dal Paese aggressore e dovrebbero rifiutare la protezione d’un sistema di difesa come la Nato: è assurdo! Non c’è un politico responsabile che possa accettarlo. Comunque non è una questione che riguardi solo il presidente Zelensky, che sia o no d’accordo: gli ucraini sanno che l’unica garanzia di sicurezza sono armi strapotenti. E un ombrello di difesa come la Nato». E pronostica una possibile fine della guerra per il 2022 «ma a varie condizioni: una vittoria formale sulla Russia, armi più efficienti all’Ucraina, nessuna assistenza economica a Mosca. Era Churchill a dire “dateci i mezzi e noi faremo la nostra parte”. Ecco, dateci le armi e noi finiamo la guerra entro il 2022: sono sicura che ad agosto, quando arriveranno, ci sarà il punto di svolta».
Medvedev, l’ex presidente russo gentile diventato uno dei falchi di Putin. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2022.
Quando nel 2009 subentrò a Putin al Cremlino, illuse la Russia su una svolta liberale. Ormai ha gettato la maschera. Ecco il ritratto di questo uomo di potere cresciuto all’ombra dello Zar
Il 12 novembre 2009, nella sala di San Giorgio al Cremlino, il presidente della Russia parlò di «rinnovamento e valori democratici». Promise una «società di uomini liberi» con pieno accesso all’informazione al posto di «una società arcaica, dove il capo pensa e decide per tutti». E disse che avrebbe chiesto aiuto anche a esperti stranieri «per modernizzare le strutture arcaiche dell’economia russa». Dmitrij Medvedev era stato eletto poco più di un anno prima al posto di Vladimir Putin, costretto a lasciare dalla limitazione del doppio mandato prevista dalla Costituzione.
E il suo arrivo al Cremlino aveva suscitato grandi speranze dentro e fuori la Russia: «La libertà è meglio della non libertà», aveva detto in campagna elettorale. Alla timida liberalizzazione interna, si era accompagnato il celebre «Reset» con la nuova Amministrazione di Barack Obama, che aveva dato l’illusione di una nuova era di dialogo culminata con la firma del Trattato New Start che tagliava drasticamente gli arsenali nucleari di Russia e Usa. Sorridente, quasi timido, per nulla aggressivo nei toni, grande fan dei Deep Purple, Medvedev divenne per un periodo l’immagine della nuova Russia.
Facciamo un salto di 13 anni e ritroviamo il nostro con la stessa aria giovanile. Ma sono i suoi discorsi a essere radicalmente cambiati. Non c’è più traccia dei toni liberali di allora. Oggi Medvedev, 56 anni, vice-presidente del Consiglio per la Sicurezza nazionale, è uno dei falchi del Cremlino e spesso la sua retorica è ancora più minacciosa di quella di Putin. Attivissimo e prolisso su Telegram, difende a spada tratta la guerra. Chiede la reintroduzione della pena di morte. Minaccia le imprese occidentali di confiscare i loro beni. Accusa gli Stati Uniti di voler «umiliare, ridimensionare, dividere e distruggere» la Russia. Ma avverte che questa «ha il potere di annientare tutti i suoi peggiori nemici», vantandone il potenziale nucleare. Attribuisce alla falsa propaganda dell’Occidente e dell’Ucraina le notizie sui crimini di Bucha , «fabbricate ad arte da media ben pagati». Parla dei nazisti e delle «bestie» di Kiev da eliminare. E sogna, grazie alla «denazificazione e smilitarizzazione» dell’Ucraina «un’Eurasia aperta da Lisbona a Vladivostok». Dulcis in fundo, lo ha fatto ieri, definisce Zelensky «un mostriciattolo».
Clamorosa per quanto possa sembrare, la metamorfosi di Medvedev si spiega in modo relativamente semplice, con il suo rapporto di totale fedeltà e sudditanza nei confronti di Vladimir Putin, che conobbe nel 1990, quando entrambi si ritrovarono a lavorare per l’allora sindaco di San Pietroburgo, Anatoly Sobchak. Da allora non si sono più lasciati. Otto anni più grande, Putin è sempre stato la figura dominante, in una dinamica che non è mai cambiata in trent’anni. Giusta la definizione coniata da un ex ambasciatore americano in Russia, secondo la quale Medvedev sta a Putin come Robin sta a Batman.
Fu la sua incondizionata lealtà che convinse Putin, nel 2008, a scegliersi lui come successore temporaneo alla presidenza, diventando il suo primo ministro. In quei mesi, un dispaccio dell’ambasciata americana di Mosca inviato a Washington, raccontò la barzelletta che circolava in città: «Medvedev è seduto in un’auto nuova di zecca al posto del guidatore. C’è tutto: il cruscotto, il cambio, l’acceleratore, il freno. Manca lo sterzo. Allora si gira verso Putin che sta seduto dietro e chiede: Vladimir Vladimirovich, dov’è lo sterzo? Putin tira fuori un telecomando dalla tasca e dice: nessun problema, guido io». L’aneddoto è crudele. Ma illustra bene il punto: Medvedev non è mai uscito dall’ombra del suo master.
Eppure, le speranze sollevate tra i liberali russi furono reali. Medvedev diede perfino un’intervista alla Novaya Gazeta, il giornale di opposizione ora chiuso dalle autorità. Raccontano che per un breve periodo egli coltivasse anche l’idea di un secondo mandato, spinto dai collaboratori più liberali come Gleb Pavlovsky. Ma nei fatti, nonostante i discorsi progressisti, cambiò poco. E nell’estate del 2011, dopo una riunione di Putin con gli oligarchi in Crimea, l’illusione e la ricreazione finirono. Putin e Medvedev annunciarono la famosa rokirovka, lo scambio di posizioni: il primo tornò al Cremlino, l’altro divenne il suo obbediente premier, di fatto il suo parafulmine. Fino al 2020, quando Putin lo destituì, anche perché nel frattempo le accuse di corruzione lo avevano indebolito e reso uno dei personaggi politici più osteggiati dai russi. In un video su YouTube visto da 40 milioni di persone, Aleksej Navalny documentò le proprietà illegali di Medvedev: palazzi, yacht, una proprietà vinicola in Italia, asset finanziari per oltre un miliardo di dollari.
Ora Dmitrij Medvedev ha definitivamente gettato la maschera. «Si esprime come se fosse da sempre un ultranazionalista antioccidentale e forse lo è sempre stato», scrive la Nezavisimaya Gazeta. A Mosca circola la voce che potrebbe prendere la guida del Partito liberaldemocratico, la formazione di estrema destra nazionalista orfana del suo capo e fondatore Vladimir Zhirinovsky, scomparso nei giorni scorsi, per rilanciarsi alle elezioni della Duma del 2024. Sempre con il benestare di Batman-Putin, ovviamente.
Marco Ventura per il Messaggero l'8 giugno 2022.
«Odio chi è contro la Russia, farò di tutto per eliminarli». L'ultima sparata di Dmitrij Medvedev nasce dalla volontà di spiegare perché i suoi tweet siano sempre così velenosi, e il risultato è che ne formula uno che li supera tutti, quanto a violenza: verbale ma non solo se la narrativa dell'odio è fondata su quella che Mosca si ostina a chiamare «operazione militare speciale».
«Mi viene spesso chiesto scrive l'ex presidente russo e da sempre braccio destro del leader Putin, oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione perché i miei post su Telegram sono così duri. La risposta è che li odio Sono bastardi e degenerati. Vogliono la nostra morte, quella della Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire». In tutti i resoconti il riferimento è agli «occidentali». In generale a chi odia, disprezza, fa la guerra alla Russia. Il paradosso è che a esprimersi così è lo stesso Medvedev che qualche giorno fa sosteneva che la Russia era disposta al dialogo, «purché vi sia il rispetto».
Ma già il giorno dopo, il 4 giugno, definiva le sanzioni occidentali contro i parenti dei politici russi «degni della Ndrangheta e di Cosa Nostra». E l'altro ieri Medvedev si rivolgeva agli «imbecilli europei» per commentare le sanzioni contro la Russia, che colpirebbero gli stessi cittadini europei quasi fossero nemici «al pari dei russi». Una vera «idiozia». Di qui la spiegazione chiesta e data oggi su Twitter, circa insulti che tuttora hanno un suono strano per chi ha conosciuto Medvedev negli anni in cui era presidente della Russia (e per via dell'alternanza Putin era il premier).
Medvedev è sempre stato l'uomo di fiducia dello Zar, al punto di sedere sul trono del Cremlino con Putin in un ruolo (solo) in teoria subalterno. Le uscite sopra le righe del n. 2 del regime sono considerate in linea con le scelte estreme di Putin. A metà maggio, Medvedev aveva anche agitato lo spettro dell'arma atomica, dichiarando che cresceva il rischio di un conflitto Nato-Russia e, quindi, della «guerra nucleare».
LE REAZIONI La risposta italiana è affidata al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.
«Sono parole inaccettabili, che ci preoccupano fortemente», dice il nostro capo-diplomazia. «Non è un segnale di dialogo, non è un'apertura verso un cessate il fuoco, non è un tentativo di ritrovare la pace, sono parole inequivocabili di minaccia verso chi sta cercando con insistenza la pace». E stavolta la durezza dei termini coglie di sorpresa pure Salvini. «È chiaro che non ci siamo», parole come quelle di Medvedev «sono le ultime che servono». All'avvio di un negoziato, intende il leader della Lega. Per Mara Carfagna, ministro per il Sud e la Coesione territoriale, sono dichiarazioni «che si commentano da sole. In quell'Occidente che tanto odia, in un Paese libero e democratico, un signore come lui non sarebbe certo a capo del Consiglio di sicurezza».
E per il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, si tratta di parole «gravissime, pericolose, peraltro chiaramente rivolte agli ucraini proprio perché hanno scelto i valori della democrazia». Altri preferiscono non prendere troppo sul serio i toni esagitati dell'ex presidente russo. Il leader di Azione, Carlo Calenda, su Twitter invita sarcasticamente a considerare che «hanno ragione Conte e Salvini, la leadership russa è pervasa da uno spirito di conciliazione e pacificazione, siamo noi a essere guerrafondai», mentre il senatore del Pd Andrea Marcucci riconosce nella sparata di Medvedev l'insoddisfazione per come procede la campagna militare. «Le sue parole violente danno la misura del nervosismo che pervade il cerchio stretto di Putin. Evidente che la guerra non sta andando come volevano, e che l'attacco all'Ucraina si sta confermando molto più lento e gravido di conseguenze per la Russia. Da qui l'odio per gli Occidentali».
IL CASO MOSKVA Che la situazione in Ucraina stia a dir poco innervosendo il Cremlino è un dato di fatto. Al punto che Mosca avrebbe anche imposto il silenzio assoluto ai familiari dei marinai rimasti uccisi nell'attacco delle forze ucraine che ha affondato l'incrociatore russo Moskva lo scorso 13 aprile nel Mar Nero. Secondo l'intelligence di Kiev un gruppo di psicologi, medici e avvocati sta lavorando con i parenti dei marinai, soprattutto per prevenire eventuali fughe di notizie sul numero dei morti e dei dispersi. In particolare, le famiglie vengono persuase a non parlare con nessuno sulla sorte dei loro figli e mariti pena il mancato ricevimento del risarcimento per la perdita dei loro cari, oltre alla denuncia penale. Ma. Vent.
Dagonews l'8 giugno 2022.
L'affondo muscolare di Medvedev contro gli occidentali ("Bastardi, degenerati, voglio farli sparire") è un tentativo di convincere i russi duri e puri che puo' ancora essere il vero "erede" di Putin, la carta di riserva del Sistema russo ("Mad Vlad" gli lasciò, prima di riprenderselo, l'incarico di presidente della Federazione russa tra il 2008 e il 2012). Solo che per prendere il trono, chi lo occupa deve passare a miglior vita o essere eliminato. E a Putin non farà piacere la rinnovata ambizione di Medvedev. A meno che non presti ascolto alle voci che descrivono il suo ex delfino come uno abituato ad alzare i toni dopo aver alzato il gomito...
Angelo Allegri per “il Giornale” l'8 giugno 2022.
«Beh, come posso non essere d'accordo...». Il primo a dare ragione a Dmitri Medvedev sui social russi è stato Konstantin Malofeev, oligarca e ideologo spesso citato per i buoni rapporti con l'ala filorussa della Lega. La sua tv, Tsargrad, da tempo dedica grande attenzione al nuovo corso dell'ex presidente.
«Oggi abbiamo davanti a noi, almeno a giudicare dalle sue parole, un Dmitri Anatolievich completamente diverso», commentava qualche giorno fa il sito dell'emittente. I suoi sono «discorsi patriottici» che colgono temi importanti: «In questo momento il patriottismo e il ritorno alle radici spirituali e storiche dei russi sono la forza trainante della nostra società... e con l'inizio dell'operazione speciale in Ucraina, si è creata una divisione definitiva e irrevocabile tra la Russia e l'Occidente collettivo».
Tsargrad è la portavoce dell'ala, per così dire, mistica e imperiale del potere moscovita, che spiega gli avvenimenti più recenti come un episodio dell'eterna lotta tra la Santa Madre Russia e le forze del male. Pur con qualche diffidenza vede con favore la conversione dell'ex liberale, ex europeista, ex modernizzatore Medvedev.
Per molti osservatori neutrali, però, le violente tirate anti-occidentali di Medvedev hanno più a che fare con gli interessi che con le convinzioni. Andrei Pertsev, analista del sito Meduza (russo ma pubblicato in Lettonia), parla di una classe dirigente divisa tra partito del silenzio (maggioritario), partito della pace (minuscolo, sulla difensiva) e partito della guerra.
Gli esponenti più in vista di quest' ultimo gruppo, come Medvedev, Vyacheslav Volodin, presidente della Duma, Andrei Turchak, segretario di Russia Unita, il partito di governo, hanno tutti qualcosa in comune: una carriera politica che sembra incagliata e che gli interessati stanno cercando di ravvivare usando il conflitto. I loro discorsi «esaltano il sentimento occidentale diffuso nella società russa. Questo rafforza la posizione di Putin, che così si sente in grado di alzare la posta», dice Pertsev.
Per Medvedev le difficoltà durano da anni. Nel 2012, quando Putin si è ripreso l'incarico, ha lasciato la poltrona da presidente; nel gennaio del 2020, il giorno stesso in cui è stata annunciata la riforma che consente allo stesso Putin di rimanere al potere a vita, ha dato le dimissioni da premier; nel 2021 ha cercato di diventare numero uno della Duma, ma, sostiene Pertsev, è stato lo stesso inquilino del Cremlino a stopparlo. L'unico incarico che gli è rimasto è quello di vice-presidente del Consiglio di sicurezza. Un'etichetta senza poteri, visto che il presidente è Putin e il segretario è il potentissimo Nikolai Patrushev.
L'ambizioso Medvedev cerca insomma la sua strada e in un Paese che sembra aver chiuso tutte le porte e in cui l'unica cosa che conta è il favore di Putin, la via più diretta verso il potere è quella dei falchi e dei toni alti.
Quanto alle idee, l'importante è saperle cambiare al momento giusto. Sergei Guriev, noto economista, da anni all'estero, ha collaborato con il governo nel periodo in cui Medvedev era presidente: «Allora parlava sempre di democrazia, libertà, stato di diritto», ha detto al Giornale. «Oggi sappiamo che la sua vera preoccupazione era un'altra: accumulare denaro. Il suo impegno era del tutto ipocrita. Probabilmente non pensa nemmeno quello che dice adesso».
La cosa vale probabilmente anche per i giudizi sull'occidente. La moglie, Svetlana, fino a qualche tempo fa era una presenza fissa alle settimane della Moda di Milano. Dmitri della civiltà occidentale ha sempre apprezzato auto e yacht. Un'inchiesta del dissidente Alexey Navalny gli attribuisce un patrimonio da 1,2 miliardi e innumerevoli proprietà, tra cui una in Italia: la Fattoria dell'Aiola, splendida tenuta nel Chianti che un tempo apparteneva al leader liberale Giovanni Malagodi. Il prestanome (che smentisce) sarebbe Ilya Eliseev, compagno di università di Medvedev.
Sebastiano Messina per “la Repubblica” l'8 giugno 2022.
Militanti contro il Pensiero Unico Anti-Russia, attenti! Vogliono farci credere che l'ex presidente Medvedev abbia scritto che odia noi occidentali perché siamo «degenerati». In realtà, lui ha usato una parola - "vyrodki" - che ha tanti significati: vermi, farabutti, bastardi, fetenti, criminali, feccia, gentaglia e figli di puttana. Ribelliamoci contro le mistificazioni!
Anna Zafesova per la Stampa l'8 giugno 2022.
Dopo lunghi e intensi sforzi, Dmitry Medvedev è finalmente riuscito a riguadagnare, dopo un decennio, le prime pagine dei giornali internazionali. Il suo post su Telegram su quanto odia l'Occidente è stato ripreso e discusso da migliaia di commentatori in mezzo mondo.
Poche righe, affisse nel canale Telegram dell'ex presidente russo al mattino di martedì, che hanno raccolto milioni di visualizzazioni in poche ore, e messo in un certo imbarazzo il Cremlino, con il portavoce Dmitry Peskov costretto a rispondere alle domande dei giornalisti sull'esternazione dell'ex delfino di Vladimir Putin.
Perché nel lessico russo - quello utilizzato ai vertici della politica come nelle chiacchierate in cucina dei cittadini comuni - i non meglio precisati "loro" verso i quali Medvedev dichiara il proprio odio sono gli occidentali, gli europei e gli americani, gli altri, gli eterni nemici che da sessant' anni, dall'epoca di Nikita Krusciov e dei suoi missili a Cuba, nessuno a Mosca dichiarava di voler «far sparire», almeno non pubblicamente.
Un cambiamento a 180 gradi, per l'uomo che, da presidente, era considerato il leader dei liberali del regime: twittava dal suo iPhone, mangiava hamburger con Obama, andava in pellegrinaggio da Steve Jobs e aveva osato dichiarare che «la libertà è meglio della non libertà», frase che nel lessico politico russo suonava quasi sovversiva.
Non rincorrendo al veto all'Onu, aveva permesso di fatto l'operazione in Libia, uno dei gesti di rottura che gli era costato il "licenziamento" da parte di Putin, che l'ha cacciato brutalmente dalla poltrona di presidente che gli aveva fatto occupare dal 2008 al 2012 (per poi licenziarlo anche dal governo). Epoca ormai lontana: erano mesi, in realtà, che l'ex presidente si stava distinguendo per dichiarazioni in un linguaggio estremamente violento.
Soltanto una settimana prima aveva minacciato, in un'intervista ad Al Jazeera, il ricorso della Russia alle bombe atomiche. Aveva promesso di lanciare missili sui palazzi del potere di Kyiv, e di Washington, e di piazzare Iskander con testate nucleari puntati su Finlandia e Svezia. Aveva dato del "salame" a Olaf Scholz e della "zia" a Ursula von der Leyen. Aveva chiamato gli europei "grassoni", "imbecilli" ed "eredi dei nazisti", governati da «nonni in preda alla demenza e nonne esaltate». Ha accusato i polacchi insieme ai tedeschi di «sognare la gloria di Hitler» e di voler invadere e conquistare l'Ucraina. Su questo sfondo le sue idee su Zelensky, "ladro" e "drogato", una "marionetta americana" che governa "nazisti impazziti", appaiono quasi nella media della propaganda russa.
Il problema è che Medvedev non è un conduttore televisivo: l'ex presidente ed ex premier è stato declassato nella gerarchia del regime, ma occupa pur sempre la carica di leader del partito di governo Russia Unita, e di vicesegretario del Consiglio di sicurezza, l'organismo dei massimi gerarchi con il quale Putin si consulta.
È vero che il peso reale di Medvedev anche all'interno del partito che ufficialmente guida è inferiore alle apparenze, e l'hashtag #penoso che gli si è appiccicato dopo che il licenziamento, ha messo una croce sopra le sue ambizioni molto più delle denunce di Alexey Navalny sulle sue splendide ville e vigneti toscani.
Uno dei motivi per cui le esternazioni al limite dello scandalo di Medvedev non avevano guadagnato i titoli nemmeno dei media russi è che viene considerato ormai espulso dal cerchio magico putiniano: il politologo Stanislav Belkovsky, per esempio, ritiene che sia mosso dal "risentimento", e il post sull'odio verso gli occidentali è apparso dopo che gli Usa hanno cancellato il visto lavorativo a suo figlio Ilya. E il politologo Abbas Galyamov scrive che il leader di Russia Unita, ormai conscio di essere fuori dal grande gioco politico, punta a occupare invece il ruolo mediatico del nazionalista folle che incanta il "popolo profondo", lasciato vacante dalla morte di Vladimir Zhirinovsky.
Il clamore suscitato dal post di ieri però potrebbe essere un segnale non soltanto del disagio di un politico in declino, con i social russi che fanno esplicite insinuazioni sul suo abuso di alcol.
Secondo Aleksey Venediktov, l'informatissimo ex direttore della radio Eco di Mosca, l'escalation verbale di Medvedev punta a sfidare il capo della Duma Vyacheslav Volodin, prescelto come "delfino" di Putin dai "falchi". L'ex presidente sarebbe tornato il lizza tra i papabili anche secondo le fonti del solitamente ben informato sito Meduza, e in questo caso è possibile che cerchi di farsi perdonare il passato da "liberale" sorpassando i reazionari a destra con una retorica paranoica - «Ci odiano tutti! Le decisioni occidentali sono dettate dall'odio verso la Russia e i russi!», ha scritto pochi giorni fa - che potrebbe venire gradita da Putin.
Fonti moscovite dell'agenzia ucraina Unian ritengono invece che il turbonazionalismo dell'ex moderato sia dovuto al piano di Putin di liquidarlo definitivamente, dopo averlo accusato del collasso dell'economia, per consegnare la leadership di Russia Unita a sua figlia Katerina. Voci impossibili da verificare, che però vertono tutte intorno a un passaggio di potere al Cremlino, forse non tanto imminente quanto desiderato da molti.
Marco Ventura per il Messaggero l'8 giugno 2022.
«Odio chi è contro la Russia, farò di tutto per eliminarli». L'ultima sparata di Dmitrij Medvedev nasce dalla volontà di spiegare perché i suoi tweet siano sempre così velenosi, e il risultato è che ne formula uno che li supera tutti, quanto a violenza: verbale ma non solo se la narrativa dell'odio è fondata su quella che Mosca si ostina a chiamare «operazione militare speciale».
«Mi viene spesso chiesto scrive l'ex presidente russo e da sempre braccio destro del leader Putin, oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione perché i miei post su Telegram sono così duri. La risposta è che li odio Sono bastardi e degenerati. Vogliono la nostra morte, quella della Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire». In tutti i resoconti il riferimento è agli «occidentali». In generale a chi odia, disprezza, fa la guerra alla Russia. Il paradosso è che a esprimersi così è lo stesso Medvedev che qualche giorno fa sosteneva che la Russia era disposta al dialogo, «purché vi sia il rispetto».
Ma già il giorno dopo, il 4 giugno, definiva le sanzioni occidentali contro i parenti dei politici russi «degni della Ndrangheta e di Cosa Nostra». E l'altro ieri Medvedev si rivolgeva agli «imbecilli europei» per commentare le sanzioni contro la Russia, che colpirebbero gli stessi cittadini europei quasi fossero nemici «al pari dei russi». Una vera «idiozia». Di qui la spiegazione chiesta e data oggi su Twitter, circa insulti che tuttora hanno un suono strano per chi ha conosciuto Medvedev negli anni in cui era presidente della Russia (e per via dell'alternanza Putin era il premier).
Medvedev è sempre stato l'uomo di fiducia dello Zar, al punto di sedere sul trono del Cremlino con Putin in un ruolo (solo) in teoria subalterno. Le uscite sopra le righe del n. 2 del regime sono considerate in linea con le scelte estreme di Putin. A metà maggio, Medvedev aveva anche agitato lo spettro dell'arma atomica, dichiarando che cresceva il rischio di un conflitto Nato-Russia e, quindi, della «guerra nucleare».
LE REAZIONI La risposta italiana è affidata al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.
«Sono parole inaccettabili, che ci preoccupano fortemente», dice il nostro capo-diplomazia. «Non è un segnale di dialogo, non è un'apertura verso un cessate il fuoco, non è un tentativo di ritrovare la pace, sono parole inequivocabili di minaccia verso chi sta cercando con insistenza la pace». E stavolta la durezza dei termini coglie di sorpresa pure Salvini. «È chiaro che non ci siamo», parole come quelle di Medvedev «sono le ultime che servono». All'avvio di un negoziato, intende il leader della Lega. Per Mara Carfagna, ministro per il Sud e la Coesione territoriale, sono dichiarazioni «che si commentano da sole. In quell'Occidente che tanto odia, in un Paese libero e democratico, un signore come lui non sarebbe certo a capo del Consiglio di sicurezza».
E per il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, si tratta di parole «gravissime, pericolose, peraltro chiaramente rivolte agli ucraini proprio perché hanno scelto i valori della democrazia». Altri preferiscono non prendere troppo sul serio i toni esagitati dell'ex presidente russo. Il leader di Azione, Carlo Calenda, su Twitter invita sarcasticamente a considerare che «hanno ragione Conte e Salvini, la leadership russa è pervasa da uno spirito di conciliazione e pacificazione, siamo noi a essere guerrafondai», mentre il senatore del Pd Andrea Marcucci riconosce nella sparata di Medvedev l'insoddisfazione per come procede la campagna militare. «Le sue parole violente danno la misura del nervosismo che pervade il cerchio stretto di Putin. Evidente che la guerra non sta andando come volevano, e che l'attacco all'Ucraina si sta confermando molto più lento e gravido di conseguenze per la Russia. Da qui l'odio per gli Occidentali».
IL CASO MOSKVA Che la situazione in Ucraina stia a dir poco innervosendo il Cremlino è un dato di fatto. Al punto che Mosca avrebbe anche imposto il silenzio assoluto ai familiari dei marinai rimasti uccisi nell'attacco delle forze ucraine che ha affondato l'incrociatore russo Moskva lo scorso 13 aprile nel Mar Nero. Secondo l'intelligence di Kiev un gruppo di psicologi, medici e avvocati sta lavorando con i parenti dei marinai, soprattutto per prevenire eventuali fughe di notizie sul numero dei morti e dei dispersi. In particolare, le famiglie vengono persuase a non parlare con nessuno sulla sorte dei loro figli e mariti pena il mancato ricevimento del risarcimento per la perdita dei loro cari, oltre alla denuncia penale. Ma. Vent.
Jena per “La Stampa” il 9 giugno 2022.
Lunga vita a Putin, altrimenti arriva Medvedev
Anna Zafesova per “La Stampa” il 9 giugno 2022.
«Ci odiano! Odiano la Russia e i russi, tutti gli abitanti! Ci hanno odiati praticamente per tutta la nostra storia». Il grido di rabbia di Dmitry Medvedev verso l'Occidente è stato scritto su Telegram quasi contemporaneamente all'annuncio che suo figlio Ilya è stato privato dalle autorità statunitensi del suo visto di lavoro americano, e che avrebbe dovuto lasciare Miami, dove - secondo gossip moscoviti che per ora nessuno ha smentito - possiederebbe una società.
Intanto il suo megayacht Universe da 74 metri è ormeggiato a Sochi, dopo essere stato portato via da Imperia transitando a Istanbul, al sicuro dalle sanzioni internazionali. L'altro yacht più piccolo, Fotinia, di appena 32 metri, al momento dello scoppio della guerra era ancora bloccato dai ghiacci in un porto finlandese, e per tutelarlo dal sequestro una delle società che lo possedevano, legata a un compagno di università di Medvedev - uno dei suoi tradizionali prestanome, secondo le indagini di Alexey Navalny - l'ha venduto a un'altra compagnia di oscure origini.
I vigneti toscani dell'ex presidente russo sono anche loro bloccati dalle sanzioni, e il suo iPhone - Medvedev è celebre per la sua passione verso la Apple, ed era andato in pellegrinaggio a Cupertino per incontrare Steve Jobs - non riesce più ad aggiornarsi e scaricare app in Russia.
Attribuire il desiderio di un ex presidente e premier russo di scrivere su Telegram agli occidentali «Li odio, devono sparire!» alle sanzioni contro le sue ricchezze e la sua famiglia è sicuramente troppo semplicistico: l'idea complottistica che l'Europa e gli Stati Uniti «per tutta la storia» non hanno fatto che tramare per annientare la Russia è radicata nel nazionalismo russo da almeno tre secoli, e lo stesso Vladimir Putin l'ha espressa pubblicamente diverse volte, anche se con un vocabolario meno infuocato di Medvedev.
Ma sicuramente quella che il politologo Stanislav Belkovsky chiama con la definizione nietzschiana di "risentimento" è un'emozione molto diffusa tra quelli che, come Medvedev, indossavano vestiti firmati da Brioni e Hugo Boss, riempivano le cantine delle dacie di Sassicaia e Chateau Lafitte, collezionavano Mercedes e Ferrari e mandavano le mogli a vivere a Parigi e i figli a studiare in Inghilterra.
Erano la gioia delle griffe del lusso e delle riviste patinate, davano lavoro a migliaia di stilisti, viticoltori e ristoratori, ma rappresentavano paradossalmente anche una speranza politica.
Quando oggi molti si chiedono come mai il militarismo nazionalista russo sia stato così sottovalutato come pericolo, si potrebbe rispondere che Europa e Stati Uniti avevano seguito il principio del "follow the money", seguire i soldi: era impossibile immaginare che una élite così innamorata di tutto quello che era occidentale, dai vestiti al cinema, avrebbe mai lanciato una guerra che un ex presidente - cioè un uomo che per quattro anni aveva posseduto la "valigetta nucleare" - dichiara essere una guerra contro l'Occidente che «deve sparire».
La speranza che i pargoli dei ricchi e potenti russi - da Liza Peskova, la figlia del portavoce del Cremlino, che era cresciuta in Francia e aveva lavorato come stagista all'Unione Europea, alle stesse figlie di Putin, che avevano vissuto con i loro compagni nei Paesi Bassi e in Germania - avrebbero rappresentato l'anello di congiunzione tra la nomenclatura ancora sovietica e la classe dirigente occidentale - si è rivelata infondata.
L'Istituto per gli affari internazionali della Polonia nel 2019 aveva dedicato un'intera ricerca ai "figli del Cremlino", per stabilire che «i valori occidentali come la supremazia della legge e la trasparenza solo raramente vengono abbracciati dalla seconda generazione» dei putiniani.
L'ossessione consumista, la sete di lusso sfrenato, lo snobismo da nuovi ricchi sono una sindrome fin troppo comprensibile per gli ex sovietici cresciuti tra gli scaffali vuoti, in un mondo di povertà e squallore. Quello che nessuna scuola per pargoli ricchi insegna è che non è una questione di soldi: se sono stati guadagnati con la corruzione, in un Paese che conduce guerre, avvelena oppositori, uccide giornalisti e impoverisce milioni di persone, nemmeno l'acquisto di squadre di calcio, o il finanziamento di musei e teatri, permetterà di acquistare un biglietto d'ingresso nei salotti buoni.
I ministri e gli oligarchi russi, e i loro figli, hanno vissuto la stessa cocente delusione che nei decenni precedenti avevano sperimentato molti ricchi arabi al primo incontro con l'Europa: vestire, mangiare, bere e guidare occidentale non fa diventare occidentali. È una sorta di sindrome di bin Laden, e negli ultimi anni molti russi colti e benestanti avevano cominciato a nutrire verso l'Occidente dal quale si sono sentiti respinti lo stesso odio divorante di Medvedev.
L'opposizione di Navalny si era scelta come slogan quello di una "Russia europea", nel senso di Stato di diritto, libere elezioni e diritti civili. Molti russi, non solo gli oligarchi, utilizzavano però il prefisso "euro" soltanto per distinguere merci di qualità superiore (dagli "eurosanitari" alle "eurofinestre").
E oggi, la prontezza con la quale perfino i governi di Paesi come la Gran Bretagna - dove gli oligarchi russi erano stati cruciali per il mercato immobiliare e finanziario, oltre ad aver coltivato importanti amicizie politiche - hanno sequestrato magioni e yacht, non farà che accrescere il numero di quelli che, come l'ex presidente Medvedev, non riescono a capire come funziona il mondo nel quale per anni hanno speso i loro soldi.
Congelati beni per 105 milioni di euro al pilota russo Mazepin e al padre in Sardegna. Il Domani l'11 aprile 2022
Al 23enne pilota e a suo padre, proprietario della società Uralkali, produttrice ed esportatrice di potassio, è stato congelato un complesso immobiliare del valore di circa 105 milioni di euro
In provincia di Olbia la guardia di finanza ha congelato beni per un valore di circa 105 milioni di euro all’oligarca russo Dmitry Arkadievich Mazepin e al figlio Nikita Dmitrievich Mazepin, pilota di Formula 1, che aveva corso per la scuderia Haas fino al 5 marzo scorso.
Il provvedimento riguarda un complesso immobiliare a uso residenziale a Portisco, in provincia di Olbia, intestato a una società estera che era riconducibile ai due.
Il congelamento dei beni è conseguenza delle sanzioni disposte nei confronti di magnati russi vicini al presidente Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina. In particolare la misura rientra nell’ambito degli accertamenti per l’individuazione delle risorse economiche riconducibili ai soggetti che sono stati inclusi nell’allegato I del Regolamento (Ue) n. 269/2014.
Lo scorso 5 marzo, il team di Formula 1 statunitense Haas aveva licenziato «con effetto immediato» il pilota russo Nikita Mazepin e interrotto la partnership con lo sponsor Uralkali, società russa produttrice ed esportatrice di potassio, di proprietà del padre.
Dagotraduzione dal Wall Street Journal l'8 aprile 2022.
La Turchia sta rapidamente diventando un paradiso per i soldi russi, dagli oligarchi che parcheggiano i loro superyacht sulle coste del paese ai giovani dissidenti e ai tecnici che volano da Mosca con contanti nelle valigie.
L'afflusso di denaro russo evidenzia come la Turchia si sia opposta all'invasione dell'Ucraina fungendo da intermediario tra i due paesi. L'alleato strategico degli Stati Uniti e stato membro della NATO ha condannato l'invasione e venduto armi all'Ucraina, scegliendo di non imporre sanzioni alla Russia, una decisione che protegge anche l'economia turca dalle peggiori ricadute della guerra. I leader turchi hanno agito anche da mediatori nella crisi.
Da quando Mosca ha lanciato la sua invasione dell'Ucraina a febbraio, migliaia di russi sono andati in Turchia, uno dei pochi paesi in cui possono ancora volare direttamente, e molti hanno scelto di restarvi. Alcuni di questi russi si stanno trasferendo nella cosmopolita Istanbul o in città turistiche costiere come Antalya, che prima della guerra era una popolare destinazione turistica per i russi e che sta diventando una casa permanente per alcuni.
I russi stanno usando una varietà di mezzi per superare le sanzioni occidentali che hanno tagliato fuori alcune banche russe dal sistema di pagamento Swift e i controlli sui capitali imposti da Mosca che limitano la quantità di valuta estera che i russi possono inviare fuori dal paese. Tra i più comuni ci sono le società russe di trasferimento di contanti che operano in Turchia, le criptovalute oppure più semplicemente il trasporto a mano di migliaia di dollari in contanti attraverso gli aeroporti.
Il governo turco ha detto che non fermerà l'afflusso di fondi russi, neanche quello proveniente dagli oligarchi, fintanto che il denaro sarà legale. La Turchia ha un disperato bisogno di valuta estera dopo una crisi economica dello scorso anno che ha fatto perdere alla sua valuta, la lira, circa il 45% del suo valore rispetto al dollaro in meno di tre mesi. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e l'Unione Europea hanno imposto sanzioni agli oligarchi russi con presunti legami con il presidente Vladimir Putin durante la guerra in Ucraina.
«Se intendi che gli oligarchi possano continuare a fare affari in Turchia, valuteremo se si tratta di affari che sono conformi alla legge e al diritto internazionale», ha detto il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, parlando a una conferenza internazionale a Doha, in Qatar, il 26 marzo.
Il governo degli Stati Uniti ha taciuto sul fatto che i russi trasferiscano i loro soldi, e Washington che ha elogiato il ruolo di Ankara nell'ospitare i colloqui di pace russo-ucraini.
Gli afflussi di denaro russo potrebbero già aiutare le finanze della Turchia.
La banca centrale turca ha incassato circa 3 miliardi di dollari in soli due giorni a metà marzo a seguito di scambi con banche nazionali, secondo i dati pubblicamente disponibili. Quel denaro era probabilmente in gran parte composto da depositi russi, ha affermato Omer Gencal, economista ed ex dirigente di HSBC Turchia e di altre importanti banche turche.
«Questo denaro è stato versato nelle banche turche e l'hanno trasferito alla banca centrale tramite accordi di swap», ha affermato Gencal. «Vedono la Turchia come un porto sicuro», ha detto dei russi.
L'invasione dell'Ucraina da parte di Mosca ha portato a un aumento dei russi che acquistano proprietà in Turchia: alcuni hanno investito più di 250.000 dollari ciascuno per acquistare un passaporto turco nell'ambito del programma di cittadinanza attraverso gli investimenti del paese, hanno affermato gli agenti immobiliari.
Gül Gül, amministratore delegato della società immobiliare di Istanbul Golden Sign, ha detto che nell'ultimo mese i russi hanno iniziato a superare in numero la sua base di clienti precedente, che proveniva principalmente da paesi arabi. I russi appena arrivati stanno acquistando fino a quattro appartamenti alla volta, di solito in contanti, per investire i 250.000 dollari necessari per la cittadinanza.
«Attualmente, su 10 appartamenti che vendiamo, sei o sette vengono acquistati da russi», ha detto la signora Gül. «Sono per lo più uomini d'affari, ricchi, alcuni di loro oligarchi».
Tra gli oligarchi che hanno parcheggiato i loro beni in Turchia c'è Roman Abramovich, che nelle ultime settimane ha trasferito due dei suoi superyacht nei porti turchi, anche se da allora uno se ne è andato. Abramovich è emerso inaspettatamente come un attore nei negoziati di pace russo-ucraini mediati dalla Turchia. Abramovich si è presentato ai negoziati formali tra Russia e Ucraina a Istanbul il 29 marzo, ma non ha risposto a una richiesta di commento.
Un altro yacht di proprietà dell'ex presidente russo Dmitry Medvedev, una nave di 74 metri chiamata Universe, ha attraccato a Istanbul la scorsa settimana, secondo i dati di localizzazione della nave disponibili al pubblico.
All'inizio dell'invasione dell'Ucraina, il governo turco ha esaminato attentamente il flusso di denaro russo. Secondo banchieri e analisti, anche gli istituti di credito turchi, in particolare le banche private, sono stati diffidenti nei confronti delle sanzioni occidentali. Le banche hanno applicato rigorosamente le regole del governo, ad esempio l'obbligo di ottenere un permesso di soggiorno prima di aprire un conto bancario, secondo le persone che hanno familiarità con le regole.
Quelle restrizioni iniziali hanno presto lasciato il posto a un approccio più permissivo al denaro russo. In una sola filiale di una banca statale a Istanbul, i russi hanno aperto più di 600 conti nelle ultime settimane, secondo una persona a conoscenza dei conti.
Molti di quelli che fuggono dalla Russia sono giovani tra cui artisti, operatori tecnologici, accademici e altri che si sono opposti all'invasione dell'Ucraina o temono di poter essere arruolati nell'esercito. Molti se ne sono andati portando centinaia o migliaia di dollari in contanti a causa dei controlli sui capitali imposti dal governo russo.
«Non voglio che i miei soldi vengano usati per uccidere gli ucraini», ha detto Ruslan Vovchenko, un grafico di 25 anni che si è recato a Istanbul da Mosca a marzo dopo aver protestato contro la guerra. «Se non posso cambiare il sistema, mi rimuoverò dal sistema».
L'esodo di giovani russi ha costretto una serie di aziende russe e straniere ad adeguarsi a perdere una parte significativa della loro forza lavoro.
La società del motore di ricerca Yandex, il sito di annunci economici Avito, la banca commerciale Tinkoff e la società di software DataArt hanno visto volare via collettivamente più di 1.000 lavoratori in Turchia, secondo persone che hanno familiarità con la questione. Circa 900 lavoratori Yandex sono volati in Turchia poco dopo l'inizio della guerra, anche se solo circa 300 di loro se ne sono andati, ha detto una persona che ha familiarità con la questione.
Yandex ha affermato che «offre l'opportunità di lavorare da remoto e alcuni dipendenti lavorano da luoghi diversi, inclusa la Turchia. Non regoliamo la loro ubicazione». DataArt ha detto che sta uscendo dalla Russia e si aspetta che diverse centinaia di dipendenti lascino il paese entro questa estate, ma non ha commentato il numero di persone che andrà in Turchia.
Le sanzioni occidentali e le decisioni di Visa Inc. e Mastercard Inc. di chiudere le operazioni in Russia hanno spinto i russi a essere creativi su come spostare i loro soldi. Un'opzione è il sistema di pagamento Mir russo, che funziona in alcune località della Turchia. I cartelli "Accettiamo Mir" hanno iniziato a spuntare nei negozi di alimentari di Istanbul.
I russi della classe media hanno portato per lo più poche migliaia di dollari alla volta, in contanti o utilizzando società di bonifici russi che continuano ad operare in Turchia. Un servizio popolare è KoronaPay, che consente alle persone di trasferire denaro dalla Russia e prelevare denaro in Turchia e in una serie di altri paesi. La società consente trasferimenti per un valore superiore a 15.000 euro, a condizione che i clienti verifichino la propria fonte di reddito, secondo il sito Web dell'azienda.
«Sono pagati in rubli, quindi portano rubli», ha detto Volkan Celikyurek, un cambiavalute nel quartiere Laleli di Istanbul, frequentato da commercianti russi e una delle poche aree in cui gli uffici di cambio comprano e vendono rubli.
«Ho comprato al massimo 100.000 rubli alla volta. Ma c'è chi ha comprato milioni», ha detto.
Como, l'oligarca russo Solovyev nel mirino: incendiata la sua villa, "atto doloso". Libero Quotidiano il 06 aprile 2022.
La villa di proprietà dell'oligarca russo Vladimir Solovyev a Loveno di Menaggio, sul Lago di Como, è stata incendiata nella notte. Ignoti hanno appiccato l'incendio dando fuoco ad alcuni pneumatici. La villa era in ristrutturazione e nella parte alta del paese, panoramica sul lago, e non vi sono stati gravi danni causati dalle fiamme appiccate alla struttura. L'incendio è stato notato da alcuni passanti che hanno avvisato i vigili del fuoco e i carabinieri. Il rogo è stato subito spento.
I carabinieri hanno acquisito le immagini delle telecamere di sorveglianza del paese per ricostruire l'accaduto. Sul posto anche il sindaco Michele Spaggiari. Che ha detto: "L'incendio sembrerebbe essere un atto dimostrativo". Di fatto "la villa è un cantiere", aggiunge, "solo le pareti all'esterno sono intonacate, dentro i lavori sono in corso. Quello che è certo è che sono stati trovati bruciati degli pneumatici". Quanto alla presenza del facoltoso presentatore televisivo, che ha un'altra villa sul lago, a Pianello, Spaggiari dice che "fino a un mese fa la maggior parte dei miei concittadini non sapeva chi fosse e delle sue simpatie per Putin. Si camuffava tra i turisti, non può essere paragonabile come popolarità a un George Clooney. Sappiamo che andava a fare acquisti in qualche negozio. L'ultima volta, che io sappia, è venuto l'estate scorsa".
Vladimir Solovyev, 58 anni, anchorman russo molto vicino a Vladimir Putin, risulta proprietario di tre immobili sul lago di Como sottoposti a sequestro. Provvedimento del quale Solovyev stesso si era pubblicamente lamentato in una trasmissione televisiva.
Claudia Osmetti per “Libero Quotidiano” il 21 aprile 2022.
È che uno fa presto a dire "sanzioni". Ma poi chi le paga? Anzi, chi le garantisce?
Perché qui sembra il gioco delle matrioske, e le matrioske c'entrano pure un po' troppo. Prendi la Sy A. È un mega yacht da tre alberi e 530 milioni di euro, la Sy A.
Attraccata lì dov'è, cioè al porto di Trieste, si mangia da sola un'intera banchina. Roba che pare una nave da crociera. Una di quelle ultra-lusso, tra l'altro. Appartiene all'oligarca russo Andrey Igorevich Melnichenko, ma da metà marzo è rimasta bloccata con i sigilli della Guardia di Finanza.
Colpa della guerra. Dell'invasione di Putin in Ucraina. È stata sequestrata assieme ai beni dei magnati del Cremlino. La conosciamo a memoria, la storia. Quello che non conosciamo è che Sy A, per starsene a mollo dove sta, ci costa un occhio della testa.
Almeno (ma almeno) 150mila euro al giorno tra spese per l'ormeggio, piccole (si fa per dire) manutenzioni, personale di bordo (undici uomini più il comandante che non possono manco scendere a terra), elettricità e acqua potabile.
È tutto a carico nostro, ed è un carico di quelli belli grandi. Che se non ci stai attento son dolori. Tanto che addirittura l'Agenzia del demanio (che dovrebbe amministrarla, la Sy A) se ne sbarazzerebbe volentieri. E infatti ci stanno provando, a disfarsene.
Lo yacht, fino a un mese fa, batteva bandiera russa. Adesso non più. Sarebbe logico, visto che occupa uno stallo di Fincantieri, che passasse a sventolare l'italico tricolore. Invece no.
Rischia (nel senso che l'ipotesi è al vaglio in questi giorni, nulla di fatto ma neanche di intentato) di finire nella flotta della Mongolia. Un Paese tra la Cina e la "Grande madre Russia" che, non sfuggirà l'ironia, non ha nemmeno un affaccio sul mare. Perché? Perché per noi sarebbe troppo oneroso tenercela.
E allora la vedi lì, ancorata a Trieste, senza vele issate e che galleggia in un mare di incertezze. Mica è la sola. La lista di beni sequestrati agli oligarchi del cerchio magico moscovita è un elenco che, in confronto, il decalogo di Leporello nel Don Giovanni di Mozart è cosa spiccia.
C'è la Lady M, attraccata ad Imperia, di Alexey Mordashov: valore di mercato 65 milioni di euro. C'è il Lena, fermo nel porto di Sanremo, di Gennady Nikolayevich Timchenko: altri 50 milioni tondi tondi.
Ci sono le ville in Sardegna di Alisher Usmanov (17 milioni di euro), quelle a Como di Vladimir Rudolfovich Soloviev (otto milioni di euro), quella a Lucca di Oleg Savchenko (tre milioni). E giusto per citare le prime che vengono in mente.
Chiariamoci: colpire Putin dove potrebbe averne più danno (ossia in quegli amici sparsi per mezzo mondo che gli garantiscono, a suon di rubli, potere e impunità) è doveroso. Forse persino sacrosanto. Però il rovescio della medaglia è che, almeno nell'immediato, quelli con le brache bucate siamo noi.
Che stiamo sborsando fior di milioni (la manutenzione di una villa tipo di quelle che i russi tengono sulle coste sarde o liguri o toscane costa al Demanio, all'incirca, 350mila euro all'anno).
Il congelamento dei beni degli oligarchi è possibile grazie alle decisioni prese dall'Ue a fine febbraio, quando sono state adottate le prime misure. Da noi se ne occupa il Csf, al secolo il Comitato di sicurezza finanziaria del ministero dell'Economia (Mef) e i passaggi (burocratici) sono più o meno questi.
Primo, il Mef decide cosa congelare e a chi. Secondo: il nucleo speciale di Polizia valutaria delle Fiamme gialle attua la decisione. E terzo: l'Agenzia del demanio si occupa della successiva manutenzione.
Perché (ed è questo il punto) a chi sequestra compete "la custodia, l'amministrazione e la gestione delle risorse" (lo dice un decreto legislativo, il 109, del 2007). Significa, in pratica, che lo Stato fa da curatore e deve essere in grado, nel momento (futuro) in cui restituirà il bene al suo proprietario, di ridarglielo in condizioni ottimali.
D'accordo, a quel punto potrà riavvalersi delle spese sostenute proprio con lui, ma 1) deve trovarlo disposto a riprenderselo (tra parentesi: Melnichenko, quello del Sy A, da qualche giorno, assieme ai suoi legali, sta valutando un ricorso al Tar contro il provvedimento di congelamento e se si mettono di mezzo pure i tribunali, i faldoni e la magistratura campacavallo) e 2) nel frattempo il portafoglio l'ha già aperto e persino di parecchio. L'Agenzia del Demanio deve ogni tre mesi inviare al Csf una relazione sullo stato dei beni confiscati. Mica è uno scherzo.
Abramovich e gli altri, cosa succede ai beni congelati agli oligarchi amici di Putin. VITALBA AZZOLLINI su Il Domani il 28 marzo 2022
I beni di molte persone legate al regime russo, e in particolare a Putin, sono oggetto di congelamento, nell’ambito delle sanzioni adottate dall’Unione europea a seguito dell’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia.
In Italia la competenza ad attuare il congelamento delle risorse economiche è del Comitato di sicurezza finanziaria, istituito presso il Mef.
Il congelamento non è una sanzione penale, poiché può essere disposto indipendentemente dall’apertura di un’indagine o di un procedimento giudiziario, ma produce gli stessi effetti.
VITALBA AZZOLLINI. Giurista, lavora presso un'Autorità indipendente. È autrice di articoli e paper in materia giuridica, nonché di contributi a libri per IBL. A titolo personale.
Estratto dell'articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 4 aprile 2022.
Uno dei tre alberi è stato smontato per motivi di sicurezza, ma adesso il "Sy A" non ha più bandiera né assicurazione. E dunque non può essere spostato di un millimetro. Un bel problema per il più grande e costoso degli yacht tra quelli ai quali la Guardia di finanza ha messo i sigilli.
Dal bacino dell'Arsenale San Marco del porto di Trieste deve assolutamente andar via entro la fine della settimana per far posto alla Norwegian Prima, una nave da crociera che Fincantieri deve ultimare per la consegna all'armatore nei tempi previsti, per evitare una penale di 600.000 euro per ogni giorno di ritardo.
Soldi ne occorrono tanti, e subito, non solo per spostare il più grande veliero al mondo (143 metri di lunghezza, 12.000 tonnellate di stazza, valore 530 milioni di euro) del magnate Andrej Melnichenko ma per gestire tutti i beni (quasi 1 miliardo di euro) congelati agli oligarchi russi dal governo italiano.
Attenzione, congelati e non sequestrati. E non è una questione di lana caprina, perché i sigilli a yacht, ville, complessi immobiliari, auto di lusso, sono stati messi non su ordine della magistratura ma del ministero dell'Economia in base a una normativa europea.
Un provvedimento amministrativo, dunque non penale, eseguito dalla Guardia di finanza sulla scorta di una blacklist dei magnati vicini a Putin con la "consegna" dei beni all'Agenzia del Demanio.
A cui passa la palla della difficilissima e onerosissima gestione di questo patrimonio che va mantenuto nelle condizioni in cui viene preso in carico, in attesa di una eventuale e futura restituzione ai proprietari che saranno (ma solo dopo ave riavuto le chiavi) chiamati a pagare le spese. Che intanto sono a carico nostro.
Per capire di cosa stiamo parlando, torniamo a Trieste. Solo per le piccole spese quotidiane di manutenzione del più grande veliero al mondo alto come un palazzo di otto piani - piazzola per elicotteri, pavimenti in teak, alberi in fibra di carbonio - ci vogliono almeno 1.000 euro al giorno, a cui vanno aggiunti i costi dell'ormeggio e gli stipendi dell'equipaggio (11 uomini più il comandante) che devono rimanere a bordo perché imbarcazioni di questo genere devono sempre essere tenute funzionanti, anche se sembra che in quattro siano già spariti.
E siamo già sui centomila euro al mese. Ma il problema più grosso è la polizza di assicurazione: la Lloyd's register dopo il congelamento ha cancellato la "Sy A" e adesso per spostare la barca occorre che qualcuno faccia una nuova polizza, non certo economica visto che il veliero ha un valore di 530 milioni di euro. Tutte spese a carico dell'Agenzia del Demanio che deve ancora fare un inventario accurato di tutto quello che c'è a bordo.
Le conseguenze del conflitto in Ucraina. La caccia ai tesori degli oligarchi è populismo bellico: Rousseau tradito dal comunismo di guerra. Michele Prospero su Il Riformista il 29 Marzo 2022.
La novità di questa guerra è la comparsa di un populismo bellico che, accanto alla rappresentazione del tragico mostrato nei suoi corpi straziati, vede il capo della resistenza collegarsi in tempo reale con i parlamenti, i vertici internazionali e rivolgersi direttamente alle opinioni pubbliche mondiali per sollecitare azioni, nuove armi, strategie di lineari escalation. Come ogni populismo, anche quello bellico prevede celeri intrecci tra tecniche della comunicazione e risposte esemplari di carattere emozionale che rischiano di condurre ad una inestricabile rete di automatismi che sfugge al controllo della razionalità politica.
Chi altri, tra i personaggi oggi in scena, può attirare nella sensibilità del pubblico forme di maggiore ripugnanza di coloro che sono etichettati come gli oligarchi? Il populismo bellico prevede il loro ingresso sul teatro di guerra come il ceto macchiato dalla colpa e destinatario perciò di una esemplare vendetta. Con una sorta di comunismo di guerra, le potenze occidentali danno la caccia ai beni dei ricchi russi e i loro yacht diventano un oggetto facile su cui indirizzare uno sbrigativo immaginario di vendetta. Senza reati, inadempimenti contrattuali, illeciti civili o amministrativi, e senza che l’Europa sia ufficialmente entrata in guerra, persone giuridiche e fisiche di nazionalità russa attirano delle sanzioni senza processo e comminate nel segno della assoluta imprevedibilità dei rapporti economici. Il comunismo di guerra varato dall’occidente si allontana dalle forme del diritto in nome della urgenza di punire comunque gli spregevoli oligarchi nei loro pacchiani simboli di opulenza.
Che si tratti di figure rozze e ripugnanti nella loro estetica dell’oro sfacciato, nel loro consumo smodato, pochi sono i dubbi. Eppure il diritto conferma la sua grande forza civilizzatrice proprio nelle situazioni più estreme e nei confronti delle condizioni umane più degradate. Quando la civilissima Inghilterra d’imperio liquida di fatto una società di calcio prestigiosa solo perché di proprietà russa o quando in ogni paese europeo vengono sequestrati beni di oligarchi senza un accertamento di colpa si lambisce con le confische simboliche qualcosa che somiglia all’eccezione economica, alla regressione civile. Che i grandi beni (non solo quelli russi) suppongano spesso grandi latrocini è acclarato. Ma non è per far valere il principio proudhoniano secondo cui la loro proprietà è un furto (di beni pubblici e comuni) che avviene la mobilitazione contro la tanta roba accumulata dagli oligarchi. È un clima di intolleranza civile che si diffonde e contraddice la cultura europea nelle sue conquiste più importanti sul terreno delle garanzie, del costituzionalismo, dei diritti dei privati.
Si può aprire il Contratto sociale di Rousseau per orientarsi su certe ambigue vicende di oggi: “La guerra non è affatto una relazione fra uomo e uomo, ma una relazione fra Stato e Stato nella quale i privati sono nemici accidentalmente, per nulla come uomini e neppure come cittadini, ma come soldati”. Gli inviti di Zelensky a cacciare i vacanzieri russi, ad espellere ovunque delle lecite attività civili e commerciali, la richiesta di sindaci ed accademie rivolta ad artisti, sportivi, ricercatori di pronunciare una professione pubblica di fede (che prevede una condanna del loro governo in modo da poter continuare ad esibirsi nel vecchio continente) appartengono ad una proclamazione per cui ogni cittadino privato in quanto tale (cioè senza riferimento alcuno ad una fattispecie di reato) è un nemico. Si intende in questo modo aderire alla guerra civile mondiale?
Ancora Rousseau è di aiuto per dipanare il problema: “Ogni Stato non può avere come nemici se non altri Stati e non uomini singoli, dato che fra cose di natura diversa non si può fissare alcun vero rapporto”. Lo Stato che con una operazione forte di sovranità liquida una società di calcio, blocca beni, attività, proprietà rende nemico il soggetto privato. L’Europa che avvia la caccia grossa ai beni degli oligarchi sembra rinunciare ad alcune delle sue acquisizioni culturali più importanti. Le ribadisce Rousseau: “Anche in piena guerra un principe giusto si impadronisce sì, in un paese nemico, di tutto ciò che è proprietà pubblica, ma egli rispetta le persone e i beni dei privati: rispetta i diritti sui quali sono fondati anche i suoi”.
Questo dualismo (pubblico-privato, Stato-società civile) è il principio costitutivo della società borghese moderna alla quale anche l’Ucraina intende ora aderire rimuovendo limiti ancora sussistenti alla circolazione dei beni, ai modi della autonomia contrattuale e commerciale. L’autonomia dell’economico, che anche Rousseau evocava nelle sue pagine, viene intaccata dal comunismo di guerra con punizioni improvvise sollecitate dal copione teatrale scritto dai registi del populismo bellico. Michele Prospero
Putin, i fedelissimi con affari, figli e onori in Occidente. Domenico Affinito, Milena Gabanelli e Francesco Tortora per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2022.
Chi sono gli uomini di Putin, quelli che eseguono, quelli con cui si consulta, e che blindano il suo potere?
Poco più di una decina: ex agenti del Kgb diventati potenti e ricchissimi, giornalisti, politici e imprenditori fedelissimi.
Partiamo dai gradi più alti, quelli che insieme a Vladimir hanno i codici di lancio dei missili a testata nucleare. Sergey Shoigu, 66 anni, ministro della Difesa, origini ucraine da parte di madre, una carriera negli apparati sovietici prima e russi poi: non ha mai svolto il servizio militare (è ingegnere), ma indossa la divisa da quando è ministro. L’11 febbraio 2022, incontrando il Segretario di Stato per la difesa britannico Ben Wallace, ha dichiarato che la Russia non stava pianificando alcuna invasione dell’Ucraina. È l’uomo che al momento gode di maggior ascolto al Cremlino: secondo gli analisti è la personalità chiave del conflitto. Nel 2012 ha ricevuto presso l’ambasciata d’Italia a Mosca la Gran Croce dell’Ordine di Malta. Valery Gerasimov, 66 anni, capo di Stato Maggiore, ha partecipato alla Seconda Guerra Cecena, gestito l’intervento russo nella guerra civile siriana e l’occupazione della Crimea nel 2014.
La delegazione che tratta con Kiev
Nella delegazione che tratta con Kiev ci sono l’ex ministro della Cultura e capodelegazione Vladimir Medinsky, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, il presidente della commissione Esteri Leonid Slutsky, il viceministro della Difesa generale Aleksander Fomin, il viceministro degli Esteri Andrei Rudenko e l’ambasciatore russo in Bielorussia Boris Gryzlov. Lavrov, 71 anni, ha conosciuto Putin quando era viceministro degli esteri sotto Eltsin. La stampa internazionale ne elenca le proprietà: una palazzina di tre piani a Zhukovka al confine con la Bielorussia e un appartamento nel centro di Mosca per un valore, prima del crollo del rublo, di oltre 7 milioni di euro e, infine, 12 milioni di beni intestati alla sua amante, l’attrice Svetlana Polyakova. Slutsky, 54 anni, è proprietario, insieme alla moglie, di un edificio residenziale, tre appartamenti, immobili commerciali e gira con una Bentley. È amico personale di Alberto II di Monaco. Medinsky, 52 anni, giornalista, è proprietario di due dacie e un attico a Mosca. La moglie ha un reddito di quasi un milione di euro che deriva dall’affitto di immobili commerciali per 3.000 mq nel centro di Mosca.
Lavrov (...) le proprietà: una palazzina di tre piani a Zhukovka, un appartamento nel centro di Mosca per oltre 7 milioni di euro e 12 milioni di beni intestati alla sua amante
Gli ex del Kgb
Sono i fedelissimi e consiglieri. Nikolay Tokarev, 71 anni, ex agente del KGB a Dresda come Putin, oggi a capo di Transneft, il più grande operatore mondiale di oleodotti: tutto il petrolio russo passa dai suoi tubi. Igor Panarin, politologo 63 anni, ex agente del Kgb, sostenitore della «dedollarizzazione» dell’economia russa e dell’alleanza con la Cina. Nikolai Patrushev, 70 anni, ex direttore dell’Fsb dopo Putin. Tutti e tre fidati consiglieri. E poi Sergey Chemezov, 69 anni, ex generale del Kgb di stanza in Germania dell’Est e ora membro dell’establishment militare e dell’intelligence russo: è amministratore delegato di Rostec Corporation, holding statale con sede a Mosca, specializzata nel consolidamento di aziende nazionali strategiche nel settore della difesa e dell’hi-tech. L’inchiesta giornalistica Pandora Papers ha rivelato nell’ottobre 2021 che la sua famiglia è proprietaria di diverse proprietà immobiliari di lusso in Spagna e di un vasto network di società offshore con almeno 400 milioni di dollari di patrimonio che fanno capo, soprattutto, alla seconda moglie Ekaterina e alla figliastra Anastasia.
Chi sono gli uomini di Putin, quelli che eseguono, quelli con cui si consulta, e che blindano il suo potere? Poco più di una decina: ex agenti del Kgb diventati potenti e ricchissimi, giornalisti, politici e imprenditori fedelissimi
Gli amici stretti
Nella rosa degli oligarchi che hanno accesso al cuore del Cremlino c’è Gennady Timchenko, 69 anni, proprietario del gruppo di investimenti Volga Group e amico intimo di Putin fin dagli inizi degli anni ‘90 quando faceva trading di carburanti a San Pietroburgo. Nel 1991, come capo del Comitato per le relazioni con l’estero della città di San Pietroburgo, Putin gli concesse una licenza per l’esportazione di carburanti che diede origine alla sua fortuna economica. Ha anche la cittadinanza armena e finlandese. È nella lista delle sanzioni statunitensi dal 2014 e ha un patrimonio di oltre 22 miliardi di dollari. Yevgeny Prigozhin, 60 anni, è il fondatore della società privata di sicurezza Wagner, utilizzata nell’occupazione della Crimea, nel Donbass, in Libia e Siria. Proprietario della Megaline che costruisce e restaura basi militari. Tre sue società sono accusate di ingerenza nelle elezioni statunitensi del 2016 e del tentativo di influenzare le elezioni di medio termine negli Stati Uniti del 2018. Dmitry Peskov, 54 anni, ex diplomatico è il portavoce di Putin. L’ultima moglie, l’ex campionessa olimpica di danza sul ghiaccio Tatiana Navka, è stata proprietaria di una società registrata nelle Isole Vergini britanniche, la Carina Global Assets, con un patrimonio di oltre 1 milione di dollari liquidata dopo le nozze. Sergei Roldugin, 70 anni, imprenditore nel campo petrolifero e dei media. È considerato il miglior amico di Putin: è stato lui a presentargli la moglie Lyudmila ed è padrino della loro figlia maggiore Maria. Secondo l’inchiesta Panama Papers è il custode segreto della ricchezza nascosta di Putin, mentre The Guardian lo ha accusato di essere, dietro un compenso di 69 milioni di dollari, l’architetto di un network di 75 società offshore che avrebbero riciclato 9 miliardi di dollari dell’elite russa. Igor Shuvalov, politico 55enne, è stato vice primo ministro e poi presidente della statale Veb, una delle più grandi società di investimento e principale istituto di sviluppo in Russia con asset per 50 miliardi di dollari nel 2020. La moglie Olga Viktorovna è proprietaria di diverse società che operano nella compravendita immobiliare di terreni e nel commercio di azioni di società di materie prime russe. In realtà la signora si dedica solo all’allevamento dei cani Corgi e tutti gli affari sono riconducibili al marito. E poi ci sono i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris: rispettivamente compagno di allenamento e allenatore di Judo di Putin. Sono i proprietari Stroygazmontazh il principale costruttore russo di oleodotti e gasdotti e della banca Smp. Patrimoni valutati in miliardi di dollari, Boris ha da tempo anche cittadinanza finlandese e, a differenza del fratello, non è sottoposto alle sanzioni dell’Ue. Arkadi è stato ministro dei Trasporti dal 2004 al 2012 e dopo l’annessione della Crimea del 2014 sono stati congelati i suoi beni, anche quelli in Italia, posseduti tramite la società cipriota Olpon Investments Limited e valutati 40 milioni di euro: il Berg Luxury Hotel di Roma, due ville in Costa Smeralda e una nel sud della Sardegna, una villa a Tarquinia, ma si sospetta possieda tramite società offshore anche due ville al mare in Toscana.
I garanti della propaganda
Tra i giornalisti più vicini al presidente russo c’è Vladimir Soloviev, 58 anni, presentatore televisivo del talk show «The Evening». Secondo la fondazione anti-corruzione di Aleksej Navalny, Soloviev possiede in Russia un patrimonio immobiliare di oltre 17 milioni di dollari, e due ville sul Lago di Como. Prima che fossero imposte le sanzioni, beneficiava di un diritto di soggiorno permanente in Italia. Margarita Simonyan, 42 anni, consigliera di Putin: frequenta la High School a Bristol, negli Usa, tornata in patria a 18 anni copre la seconda guerra contro la Cecenia (2000) come giornalista. Ad appena 25 anni prende il comando del canale in lingua inglese filo-Cremlino Russia Today. Nel 2017 è stata indicata da Forbes come la 52esima donna più influente del mondo.
Disprezzo per l’Occidente, ma ci mandano i figli a scuola
Tutti compatti nella crociata contro quello che il presidente ha definito «l’Impero della Menzogna». Salvo prenderne i benefici che Mosca non dà. La figlia più grande del presidente Commissione Esteri Leonid Slustky si è laureata ad Harvard, mentre Lida, la più piccola, 11 anni, frequenta dallo scorso settembre la American School in Switzerland (Tasis), retta da 88 mila dollari, mentre lui dichiara nel 2020 un reddito da 77 mila. Maya, la figlia del consigliere Nicolai Tokarev, vive a Cipro e ha cittadinanza cipriota. Con il marito Andrei Bolotov è proprietaria di diverse società in ambito immobiliare a Mosca, in Lettonia e in Croazia. Ekaterina, figlia del ministro degli esteri Lavrov, laureata alla Columbia University, è sposata con Alexander Vinokurov, laurea in economia a Cambridge, oggi presidente di Marathon Group, gruppo di investimento russo che ha in gestione il marchio americano Kfc in Russia. Yelizaveta, figlia del portavoce Peskov, si è laureata a Parigi ed è stata assistente al Parlamento europeo di Aymeric Chauprade, eurodeputato francese di estrema destra. Alexander, uno dei figli del giornalista Soloviev, ha studiato al London College Communication e lavora a Londra come regista tv. Il figlio maggiore di Boris Rotenberg, Roman, ha studiato alla European Business School di Londra e oggi è vicepresidente di Gazprombank. Mentre sua cugina Lilija, figlia dello zio Arkadj, è medico, risiede in Germania, ma è anche comproprietaria del TPS Nedvižimost, gruppo di investimento che possiede centri commerciali e complessi di intrattenimento nelle città di Mosca e Soči.
Destinazioni preferite: Londra e Svizzera
Victoria, figlia di Leonid Mikhelson (principale azionista di Novatek), ha studiato a New York e a Londra. Anche Maria, figlia di Igor Komarov (uomo d’affari e prima a capo dell’agenzia spaziale russa), ha studiato nella capitale inglese dove vive e fa la stilista, così come Elena e Olga Luzhkova, figlie dell’ex sindaco di Mosca: Elena ha una proprietà da 25 milioni di sterline a Holland Park. Elsina, modella figlia del parlamentare putiniano Rinat Khayrov, ha un appartamento da 10 milioni di sterline in un complesso a Knightsbridge, e una casa di campagna da 22 milioni di sterline nel Surrey. Come Natalia Rotenberg, ultima moglie di Arkadi: vive tra una villa del Surrey da 35 milioni di sterline e un appartamento da 8 milioni di sterline a Londra insieme ai due figli avuti dal magnate russo. Londra è anche la casa di Anastasia, stage alla Bbc: è la figlia dell’ex vicepresidente della Duma Sergei Zheleznyak, coautore della legge del 2012 sugli «agenti stranieri», che colpisce le Ong che accettano finanziamenti esteri. Due delle sue figlie hanno studiato in Svizzera, come i figli e i nipoti dell’ex ad delle ferrovie russe Vladimir Yakunin e i nipoti di Vladimir Žirinovskij, deputato ed ex vicepresidente della Duma. Studi a Oxford, anche per la figlia di Leonid Fedun, vicepresidente del gruppo Lukoil, principale produttore petrolifero russo. Mentre Pavel Astakhov, ex delegato per i diritti dei bambini della Presidenza russa, ha un master in legge conseguito nel 2002 all’università di Pittsburgh negli Usa: dal 2013 la moglie e i tre figli vivono a Monaco e il più grande Anton ha studiato all’Oxford College e alla New York School of Economics. L’esclusivo College Le Rosey a Ginevra (retta 130.000 dollari all’anno), è la destinazione più popolata dei rampolli russi, e non necessariamente meritevoli. Oggi sono almeno un migliaio i figli della nomenclatura e classe dirigente russa iscritti nei più prestigiosi e costosi college occidentali. Sarebbe un gesto coerente da parte di queste Università, figlie dell’impero della menzogna rimandarli a studiare in Patria. È una sanzione che potrebbe spingere i loro padri a prendere posizione contro il presidente Putin.
(...) sono almeno un migliaio i figli della nomenclatura e classe dirigente russa iscritti nei più prestigiosi e costosi college occidentali. Sarebbe un gesto coerente da parte di queste Università, figlie dell’impero della menzogna rimandarli a studiare in Patria
Le onorificenze italiane
Altrettanto coerente sarebbe per la Francia il ritiro della Legion d’Onore a Putin, e da parte del nostro paese le onorificenze conferite a banchieri, imprenditori, politici e ministri russi.
Si va dall’Ordine al merito della Repubblica italiana, il più alto degli ordini della Repubblica italiana, conferito dal Presidente della Repubblica per ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione, all’Ordine della stella d’Italia, concessa a cittadini che hanno acquisito particolari benemerenze nella promozione dei rapporti di amicizia e di collaborazione tra l’Italia e il Paese in cui operano. Dal 2014, anno di invasione della Crimea e delle prime sanzioni alla Russia, l’Italia ne ha distribuite 30 ai maggiorenti del regime russo. Tra queste, nel 2016, quella di commendatore ad Alisher Usmanov, proprietario del colosso industriale Metalloinvest e del quotidiano Kommersant. La stessa conferita nel 2017 al portavoce di Putin Dmitry Peskov e all’ex Kgb Igor Sechin, oggi a capo della compagnia petrolifera Rosneft. Nel 2020 Alexander Grushko, viceministro degli Esteri è diventato Grande Ufficiale, Herman Gref, ex ministro dello Sviluppo Economico e oggi amministratore delegato di Sberbank Commendatore, come Oleg Belozerov, ex viceministro dei Trasporti e amministratore delegato delle ferrovie russe. Premiati anche il ministro dell’Industria e del Commercio Denis Manturov (Cavaliere di Gran Croce) e il suo vice Viktor Evtukhov (Commendatore) e il primo ministro russo Mikhail Mishustin (Cavaliere di Gran Croce).
Le ultime le abbiamo conferite a dicembre 2021, a un passo dalla guerra (qui l’elenco completo). Andrebbero revocate subito, almeno a chi non si è pubblicamente dissociato dall’invasione russa. La Norvegia aveva conferito al ministro degli Esteri Lavrov la laurea honoris causa, Il Cio il collare d’oro dell’ordine olimpico a Putin: revocate il 28 febbraio.
Tutti gli uomini di Putin: chi comanda davvero in Russia. Davide Bartoccini il 14 Marzo 2022 su Il Giornale.
Vecchi amici, ex agenti del Kgb diventati magnati del petrolio e del settore che rifornisce la Difesa, ma anche esperti di comunicazione e consiglieri particolari: gli uomini e le donne dello zar hanno studiato e frequentato a lungo l'Occidente che ora li fronteggia come "nemici".
Chi sono gli uomini di Putin? Il presidente della Federazione Russa che si è reso zar e ambisce posare, forse come ultimo desiderio prima di lasciare il Cremlino, la prima pietra della riedificazione di un impero post-sovietico.
L'ex agente del Kgb, al secolo scorso il Comitato per la Sicurezza dello Stato, ossia i servizi segreti interni all'Unione Sovietica, poi vertice dell'Fsb (attuale servizio segreto russo per gli affari interni, ndr), Vladimir Vladimirovič Putin, fin dal suo oscuro insediamento si è circondato di una cricca di fedelissimi. Un entourage di ex agente del Kgb e oligarchi cui deve la garanzia della sua sicurezza e del suo potere, che nel passato recente ha rasentato il semi-assolutismo, e a cui loro devono la loro sproporzionata ricchezza. Quella stessa ricchezza che oggi viene intaccata dalle contromisure dissuasive del nuovo/vecchio modo di fare la guerra dell’Euroccidente, e che tutti sperano possa pesare sulle loro tasche al punto di fermare l’espansionismo di Mosca.
Cuore sovietico e passioni occidentali, i fidati dello zar, coloro che eseguono i suoi ordini, che negoziano e fanno affari a suo nome, sono ex agenti segreti che hanno saputo farsi spazio nella libera impresa un minuto dopo la fine della perestrojka, all’inizio di quella che chiamarono "terapia choc" dell’economia russa. Amici fedelissimi, compagni d'armi, compagni di judo, ma anche politici della nuova era, giornalisti, esperti di comunicazione, e ovviamente, vertici delle Forze armate che detengono i famosi codici delle armi nucleari. Da digitare nelle loro spietate valigette nere.
Alcuni di loro, come i rampolli della Repubblica popolare cinese, e come lo stesso grande leader della Corea del Nord Kim Jong-un, hanno studiato e mandano a studiare i loro figli in Occidente, nelle migliori università britanniche e della Ivy League statunitense. Le stesse che formano i politici che siedono al Congresso degli Stati Uniti, nella Casa Bianca, all’Eliseo. Ma non scelgono queste istruzioni in virtù del vecchio adagio “Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura" del riesumato Sun Ztu. Le scelgono perché i delfini della nuova Russia possono e hanno potuto permettersi il “meglio", a differenza dei loro costretti e controllati ascendenti sovietici. E il meglio, sia nella formazione accademica sia nel tempo libero, si trova ancora a ovest della vecchia cortina di ferro in via di restaurazione. Non è un caso infatti, se la proposta di essere eletto "presidente" della Federazione Russa, Putin la riceve propio in un tranquillo pomeriggio d'estate a Biarritz, sofisticata località balneare francese dove lo raggiunse in jet l'oligarca tradito Boris Berezovskij.
Una vera e propria nomenclatura, scrive Milena Gabanelli sul Corriere della Sera. Che prende forma attraverso i commilitoni che hanno servito con lui nel Kgb, come Nikolay Tokarev, vertice della società statale Transnef, che gestisce oltre 70mila chilometri di gasdotti e oleodotti, e dalla quale passa il 90% del petrolio russo; Igor Panarin, consigliere particolare ed artefice dell’asse politico-economico con Pechino, e Sergei Chemezov, ceo della holding statale Rostec, fondata dallo stesso Putin nel 2007 e specializzata nel consolidamento di aziende strategiche, con una particolare propensione al settore della difesa e dell'hi-tech. A questi, si aggiungono il fondatore dell'agenzia di sicurezza privata Wagner, ossia colui che comanda le brigate di mercenari di Mosca, Yevgeny Prigozhin; Sergei Roldugin, miglior amico dello zar noto alle cronache per essere un businessman con due passioni: il violoncello e i conti off-shore dove tiene al sicuro il portafoglio di Putin; e i fratelli Rosenberg, Boris e Arkady, judoka e imprenditori del gas.
Poi vengono i politici di grande esperienza, anch'essi devoti e fidatissimi. Come ministro degli Esteri Sergej Lavrov, negoziatore per la Russia nelle questioni più delicate, come l'annessione della Crimea. Il portavoce dello zar, Dimitry Peskov. Il presidente della commissione esteri della Duma, Leonid Slutsky. Tutti e tre, vantano patrimoni da capo giro all'estero, amicizie altolocate tra notabili e di principi, come Alberto di Monaco, e amanti o ex mogli facoltose che gestiscono patrimoni immobiliari e seguono la formazione dei figli in rinomati collegi svizzeri.
Le armi del Cremlino invece, non sono affidate esclusivamente ai militari di alto rango come Sergey Shoigu e Valery Gerasimov, rispettivamente ministro della Difesa e capo dello Stato Maggiore - gli uomini che posseggono i codici nucleari e gli unici che potrebbero eseguire l'ordine di Putin -, ma anche agli esperti di comunicazione. Giornalisti televisivi come Vladimir Soloviev, che ha gestito sempre la propaganda di Putin come un moderno Goebbels, anche dalle sue magioni in riva al lago di Como; e la sua consigliera Margarita Simonyan, anch'essa giornalista, direttrice di Russia Today. Entrambi hanno ricevuto la loro una raffinazione culturale in paesi anglosassoni.
La grande contraddizione in questa nuova fase della Guerra Fredda - a differenza della vecchia, come l'abbiamo studiata - è proprio nel rapporto che lega l’Occidente e quel Vicino Oriente russo; che hanno iniziato a scambiarsi, ad appena pochi anni dalla caduta del muro di Berlino e poi dell'Urss interno, ricchezze, risorse, menti ed encomi. La nomenclatura russa che oggi siede a corte dello zar Putin e sostiene la crociata ortodossa in Ucraina; quella pronta a disprezzare l’Occidente che voleva portare la minaccia della Nato fino ai campi di grano del giardino di casa di Mosca, ha studiato nei college americani, ha stabilito i suoi interessi nelle banche svizzere, ha comprato case di famiglia, ville per le vacanze, attici da sogno per le amanti, in Europa e nei suoi vecchi ed esotici domini coloniali. Gli stessi dove l'estate spiccano i profili titanici dei loro yacht da almanacco dei record. Quelli che vengono fotografati come mostri marini nel nostro bel Mar Mediterraneo.
Le élites occidentali hanno saputo imparare ad apprezzarli, conferendo loro onorificenze, lauree ad honorem e posizioni di rilievo nelle maggiori società. Forse è per questo nuovo legame, che si appellano al loro buon senso: sperano che tutti gli uomini di Putin possano convincerlo insieme a fermare la guerra in Ucraina per non dover rinunciare a ciò che hanno ottenuto. È un modo di riflettere molto occidentale. Per adesso l’unico. Ci auguriamo sia la strategia giusta. E che il loro cuore sia meno "imperialista" di quanto non vorremmo scoprire.
Putin, i fedelissimi con affari, figli e onori in Occidente. Domenico Affinito, Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.
Chi sono gli uomini di Putin, quelli che eseguono, quelli con cui si consulta, e che blindano il suo potere?
Poco più di una decina: ex agenti del Kgb diventati potenti e ricchissimi, giornalisti, politici e imprenditori fedelissimi.
Partiamo dai gradi più alti, quelli che insieme a Vladimir hanno i codici di lancio dei missili a testata nucleare. Sergey Shoigu, 66 anni, ministro della Difesa, origini ucraine da parte di madre, una carriera negli apparati sovietici prima e russi poi: non ha mai svolto il servizio militare (è ingegnere), ma indossa la divisa da quando è ministro. L’11 febbraio 2022, incontrando il Segretario di Stato per la difesa britannico Ben Wallace, ha dichiarato che la Russia non stava pianificando alcuna invasione dell’Ucraina. È l’uomo che al momento gode di maggior ascolto al Cremlino: secondo gli analisti è la personalità chiave del conflitto. Nel 2012 ha ricevuto presso l’ambasciata d’Italia a Mosca la Gran Croce dell’Ordine di Malta. Valery Gerasimov, 66 anni, capo di Stato Maggiore, ha partecipato alla Seconda Guerra Cecena, gestito l’intervento russo nella guerra civile siriana e l’occupazione della Crimea nel 2014.
La delegazione che tratta con Kiev
Nella delegazione che tratta con Kiev ci sono l’ex ministro della Cultura e capodelegazione Vladimir Medinsky, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, il presidente della commissione Esteri Leonid Slutsky, il viceministro della Difesa generale Aleksander Fomin, il viceministro degli Esteri Andrei Rudenko e l’ambasciatore russo in Bielorussia Boris Gryzlov. Lavrov, 71 anni, ha conosciuto Putin quando era viceministro degli esteri sotto Elstin. La stampa internazionale ne elenca le proprietà: una palazzina di tre piani a Zhukovka al confine con la Bielorussia e un appartamento nel centro di Mosca per un valore, prima del crollo del rublo, di oltre 7 milioni di euro e, infine, 12 milioni di beni intestati alla sua amante, l’attrice Svetlana Polyakova. Slutsky, 54 anni, è proprietario, insieme alla moglie, di un edificio residenziale, tre appartamenti, immobili commerciali e gira con una Bentley. È amico personale di Alberto II di Monaco. Medinsky, 52 anni, giornalista, è proprietario di due dacie e un attico a Mosca. La moglie ha un reddito di quasi un milione di euro che deriva dall’affitto di immobili commerciali per 3.000 mq nel centro di Mosca.
Lavrov (...) le proprietà: una palazzina di tre piani a Zhukovka, un appartamento nel centro di Mosca per oltre 7 milioni di euro e 12 milioni di beni intestati alla sua amante
Gli ex del Kgb
Sono i fedelissimi e consiglieri. Nikolay Tokarev, 71 anni, ex agente del KGB a Dresda come Putin, oggi a capo di Transneft, il più grande operatore mondiale di oleodotti: tutto il petrolio russo passa dai suoi tubi. Igor Panarin, politologo 63 anni, ex agente del Kgb, sostenitore della «dedollarizzazione» dell’economia russa e dell’alleanza con la Cina. Nikolai Patrushev, 70 anni, ex direttore dell’Fsb dopo Putin. Tutti e tre fidati consiglieri. E poi Sergey Chemezov, 69 anni, ex generale del Kgb di stanza in Germania dell’Est e ora membro dell’establishment militare e dell’intelligence russo: è amministratore delegato di Rostec Corporation, holding statale con sede a Mosca, specializzata nel consolidamento di aziende nazionali strategiche nel settore della difesa e dell’hi-tech. L’inchiesta giornalistica Pandora Papers ha rivelato nell’ottobre 2021 che la sua famiglia è proprietaria di diverse proprietà immobiliari di lusso in Spagna e di un vasto network di società offshore con almeno 400 milioni di dollari di patrimonio che fanno capo, soprattutto, alla seconda moglie Ekaterina e alla figliastra Anastasia.
Chi sono gli uomini di Putin, quelli che eseguono, quelli con cui si consulta, e che blindano il suo potere? Poco più di una decina: ex agenti del Kgb diventati potenti e ricchissimi, giornalisti, politici e imprenditori fedelissimi
Gli amici stretti
Nella rosa degli oligarchi che hanno accesso al cuore del Cremlino c’è Gennady Timchenko, 69 anni, proprietario del gruppo di investimenti Volga Group e amico intimo di Putin fin dagli inizi degli anni ‘90 quando faceva trading di carburanti a San Pietroburgo. Nel 1991, come capo del Comitato per le relazioni con l’estero della città di San Pietroburgo, Putin gli concesse una licenza per l’esportazione di carburanti che diede origine alla sua fortuna economica. Ha anche la cittadinanza armena e finlandese. È nella lista delle sanzioni statunitensi dal 2014 e ha un patrimonio di oltre 22 miliardi di dollari. Yevgeny Prigozhin, 60 anni, è il fondatore della società privata di sicurezza Wagner, utilizzata nell’occupazione della Crimea, nel Donbass, in Libia e Siria. Proprietario della Megaline che costruisce e restaura basi militari. Tre sue società sono accusate di ingerenza nelle elezioni statunitensi del 2016 e del tentativo di influenzare le elezioni di medio termine negli Stati Uniti del 2018. Dmitry Peskov, 54 anni, ex diplomatico è il portavoce di Putin. L’ultima moglie, l’ex campionessa olimpica di danza sul ghiaccio Tatiana Navka, è stata proprietaria di una società registrata nelle Isole Vergini britanniche, la Carina Global Assets, con un patrimonio di oltre 1 milione di dollari liquidata dopo le nozze. Sergei Roldugin, 70 anni, imprenditore nel campo petrolifero e dei media. È considerato il miglior amico di Putin: è stato lui a presentargli la moglie Lyudmila ed è padrino della loro figlia maggiore Maria. Secondo l’inchiesta Panama Papers è il custode segreto della ricchezza nascosta di Putin, mentre The Guardian lo ha accusato di essere, dietro un compenso di 69 milioni di dollari, l’architetto di un network di 75 società offshore che avrebbero riciclato 9 miliardi di dollari dell’elite russa. Igor Shuvalov, politico 55enne, è stato vice primo ministro e poi presidente della statale Veb, una delle più grandi società di investimento e principale istituto di sviluppo in Russia con asset per 50 miliardi di dollari nel 2020. La moglie Olga Viktorovna è proprietaria di diverse società che operano nella compravendita immobiliare di terreni e nel commercio di azioni di società di materie prime russe. In realtà la signora si dedica solo all’allevamento dei cani Corgi e tutti gli affari sono riconducibili al marito. E poi ci sono i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris: rispettivamente compagno di allenamento e allenatore di Judo di Putin. Sono i proprietari Stroygazmontazh il principale costruttore russo di oleodotti e gasdotti e della banca Smp. Patrimoni valutati in miliardi di dollari, Boris ha da tempo anche cittadinanza finlandese e, a differenza del fratello, non è sottoposto alle sanzioni dell’Ue. Arkadi è stato ministro dei Trasporti dal 2004 al 2012 e dopo l’annessione della Crimea del 2014 sono stati congelati i suoi beni, anche quelli in Italia, posseduti tramite la società cipriota Olpon Investments Limited e valutati 40 milioni di euro: il Berg Luxury Hotel di Roma, due ville in Costa Smeralda e una nel sud della Sardegna, una villa a Tarquinia, ma si sospetta possieda tramite società offshore anche due ville al mare in Toscana.
I garanti della propaganda
Tra i giornalisti più vicini al presidente russo c’è Vladimir Soloviev, 58 anni, presentatore televisivo del talk show «The Evening». Secondo la fondazione anti-corruzione di Aleksej Navalny, Soloviev possiede in Russia un patrimonio immobiliare di oltre 17 milioni di dollari, e due ville sul Lago di Como. Prima che fossero imposte le sanzioni, beneficiava di un diritto di soggiorno permanente in Italia. Margarita Simonyan, 42 anni, consigliera di Putin: frequenta la High School a Bristol, negli Usa, tornata in patria a 18 anni copre la seconda guerra contro la Cecenia (2000) come giornalista. Ad appena 25 anni prende il comando del canale in lingua inglese filo-Cremlino Russia Today. Nel 2017 è stata indicata da Forbes come la 52esima donna più influente del mondo.
Disprezzo per l’Occidente, ma ci mandano i figli a scuola
Tutti compatti nella crociata contro quello che il presidente ha definito «l’Impero della Menzogna». Salvo prenderne i benefici che Mosca non dà. La figlia più grande del presidente Commissione Esteri Leonid Slustky si è laureata ad Harvard, mentre Lida, la più piccola, 11 anni, frequenta dallo scorso settembre la American School in Switzerland (Tasis), retta da 88 mila dollari, mentre lui dichiara nel 2020 un reddito da 77 mila. Maya, la figlia del consigliere Nicolai Tokarev, vive a Cipro e ha cittadinanza cipriota. Con il marito Andrei Bolotov è proprietaria di diverse società in ambito immobiliare a Mosca, in Lettonia e in Croazia. Ekaterina, figlia del ministro degli esteri Lavrov, laureata alla Columbia University, è sposata con Alexander Vinokurov, laurea in economia a Cambridge, oggi presidente di Marathon Group, gruppo di investimento russo che ha in gestione il marchio americano Kfc in Russia. Yelizaveta, figlia del portavoce Peskov, si è laureata a Parigi ed è stata assistente al Parlamento europeo di Aymeric Chauprade, eurodeputato francese di estrema destra. Alexander, uno dei figli del giornalista Soloviev, ha studiato al London College Communication e lavora a Londra come regista tv. Il figlio maggiore di Boris Rotenberg, Roman, ha studiato alla European Business School di Londra e oggi è vicepresidente di Gazprombank. Mentre sua cugina Lilija, figlia dello zio Arkadj, è medico, risiede in Germania, ma è anche comproprietaria del TPS Nedvižimost, gruppo di investimento che possiede centri commerciali e complessi di intrattenimento nelle città di Mosca e Soči.
Destinazioni preferite: Londra e Svizzera
Victoria, figlia di Leonid Mikhelson (principale azionista di Novatek), ha studiato a New York e a Londra. Anche Maria, figlia di Igor Komarov (uomo d’affari e prima a capo dell’agenzia spaziale russa), ha studiato nella capitale inglese dove vive e fa la stilista, così come Elena e Olga Luzhkova, figlie dell’ex sindaco di Mosca: Elena ha una proprietà da 25 milioni di sterline a Holland Park. Elsina, modella figlia del parlamentare putiniano Rinat Khayrov, ha un appartamento da 10 milioni di sterline in un complesso a Knightsbridge, e una casa di campagna da 22 milioni di sterline nel Surrey. Come Natalia Rotenberg, ultima moglie di Arkadi: vive tra una villa del Surrey da 35 milioni di sterline e un appartamento da 8 milioni di sterline a Londra insieme ai due figli avuti dal magnate russo. Londra è anche la casa di Anastasia, stage alla Bbc: è la figlia dell’ex vicepresidente della Duma Sergei Zheleznyak, coautore della legge del 2012 sugli «agenti stranieri», che colpisce le Ong che accettano finanziamenti esteri. Due delle sue figlie hanno studiato in Svizzera, come i figli e i nipoti dell’ex ad delle ferrovie russe Vladimir Yakunin e i nipoti di Vladimir Žirinovskij, deputato ed ex vicepresidente della Duma. Studi a Oxford, anche per la figlia di Leonid Fedun, vicepresidente del gruppo Lukoil, principale produttore petrolifero russo. Mentre Pavel Astakhov, ex delegato per i diritti dei bambini della Presidenza russa, ha un master in legge conseguito nel 2002 all’università di Pittsburgh negli Usa: dal 2013 la moglie e i tre figli vivono a Monaco e il più grande Anton ha studiato all’Oxford College e alla New York School of Economics. L’esclusivo College Le Rosey a Ginevra (retta 130.000 dollari all’anno), è la destinazione più popolata dei rampolli russi, e non necessariamente meritevoli. Oggi sono almeno un migliaio i figli della nomenclatura e classe dirigente russa iscritti nei più prestigiosi e costosi college occidentali. Sarebbe un gesto coerente da parte di queste Università, figlie dell’impero della menzogna rimandarli a studiare in Patria. È una sanzione che potrebbe spingere i loro padri a prendere posizione contro il presidente Putin.
(...) sono almeno un migliaio i figli della nomenclatura e classe dirigente russa iscritti nei più prestigiosi e costosi college occidentali. Sarebbe un gesto coerente da parte di queste Università, figlie dell’impero della menzogna rimandarli a studiare in Patria
Le onorificenze italiane
Altrettanto coerente sarebbe per la Francia il ritiro della Legion d’Onore a Putin, e da parte del nostro paese le onorificenze conferite a banchieri, imprenditori, politici e ministri russi.
Si va dall’Ordine al merito della Repubblica italiana, il più alto degli ordini della Repubblica italiana, conferito dal Presidente della Repubblica per ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione, all’Ordine della stella d’Italia, concessa a cittadini che hanno acquisito particolari benemerenze nella promozione dei rapporti di amicizia e di collaborazione tra l’Italia e il Paese in cui operano. Dal 2014, anno di invasione della Crimea e delle prime sanzioni alla Russia, l’Italia ne ha distribuite 30 ai maggiorenti del regime russo. Tra queste, nel 2016, quella di commendatore ad Alisher Usmanov, proprietario del colosso industriale Metalloinvest e del quotidiano Kommersant. La stessa conferita nel 2017 al portavoce di Putin Dmitry Peskov e all’ex Kgb Igor Sechin, oggi a capo della compagnia petrolifera Rosneft. Nel 2020 Alexander Grushko, viceministro degli Esteri è diventato Grande Ufficiale, Herman Gref, ex ministro dello Sviluppo Economico e oggi amministratore delegato di Sberbank Commendatore, come Oleg Belozerov, ex viceministro dei Trasporti e amministratore delegato delle ferrovie russe. Premiati anche il ministro dell’Industria e del Commercio Denis Manturov (Cavaliere di Gran Croce) e il suo vice Viktor Evtukhov (Commendatore) e il primo ministro russo Mikhail Mishustin (Cavaliere di Gran Croce).
Le ultime le abbiamo conferite a dicembre 2021, a un passo dalla guerra (qui l’elenco completo). Andrebbero revocate subito, almeno a chi non si è pubblicamente dissociato dall’invasione russa. La Norvegia aveva conferito al ministro degli Esteri Lavrov la laurea honoris causa, Il Cio il collare d’oro dell’ordine olimpico a Putin: revocate il 28 febbraio.
Gli oligarchi russi ora si allontanano da Putin: miliardi in fumo. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.
Le perdite di dieci soltanto di questi campioni del capitalismo russo dall’inizio delle nuove sanzioni ammontano a 77 miliardi di euro, 3 volte il valore di una legge di Bilancio del nostro Paese.
Abramovich
Anche gli oligarchi piangono. E sono le loro lacrime a far crescere ipotesi golpistiche e teorie cospiratorie intorno al Cremlino. «Non so più come fare a vivere» si lamenta con il Financial Times Piotr Aven, azionista di Alpha Bank, considerato parte del circolo ristretto di Vladimir Putin, che in soli otto giorni dall’inizio della guerra ha visto il suo patrimonio personale da 4,1 miliardi di euro assottigliarsi di 786 milioni. «I miei affari sono distrutti, tutto quel che ho costruito in trent’anni non esiste più».
Anche questo grido di dolore rimarrà inascoltato dal suo presidente. Putin ha tentato di mettere al riparo il popolo russo dall’effetto delle sanzioni, aumentando le pensioni e tenendo chiusa la Borsa di Mosca per settimane. Ma per i ricchi di Russia cresciuti all’ombra del suo potere, non può certo fare molto. La loro fortuna si nasconde nelle banche off shore e non solo di tutto il mondo, i loro beni si trovano a Londra, New York, in Italia, nelle località turistiche più esclusive.
L’inchiesta
Ognuno per sé, quindi. L’effetto delle sanzioni sta separando dal loro nume tutelare il destino dei miliardari, che contribuiscono senz’altro alle fortune del loro Paese. Nel 2020 valevano il 35% del Pil, primo posto nel mondo per questo indicatore. Adesso c’è un numero che riassume tutte le loro pene. Le perdite di dieci soltanto di questi campioni del capitalismo russo dall’inizio delle nuove sanzioni ammontano a 85 miliardi di dollari, che al cambio attuale fanno 77 miliardi di euro, tre volte il valore di una legge di Bilancio del nostro Paese.
A fare i conti in tasca a questa porzione ben rappresentativa dei 36 imprenditori «puri» colpiti dall’Occidente, è una inchiesta condotta dal sito poligon.media, sorto sulle ceneri del giornale MBKh fondato e sponsorizzato dall’ex oligarca dissidente Mikhail Khodorkovskij. Stiamo parlando di persone che hanno accumulato fortune immense e certo non moriranno in miseria. Ma le perdite che stanno subendo non possono lasciare indifferenti neppure loro, come dimostra lo sfogo di Aven, uno dei nomi esaminati dalla testata indipendente online.
Dal 24 febbraio, primo giorno di guerra, Aleksej Mordashov, presidente di Rossiya Bank e proprietario di Severstal, colosso del settore minerario e dell’energia, ha perso 3,184 miliardi di euro, per tacere del suo yacht sequestrato in Italia. Roman Abramovich , l’oligarca più famoso del mondo anche per ragioni calcistiche, ci ha rimesso il suo Chelsea e altri quattro miliardi di euro. Il più colpito sembra essere Gennadij Timchenko, amico di vecchia data di Putin, per la comune passione del judo, e perché le sue società esportavano il petrolio da una raffineria vicino a San Pietroburgo con l’autorizzazione dell’attuale presidente, che all’inizio degli anni ‘90 era il responsabile dei rapporti economici internazionali della città. Dall’inizio dell’anno, ha visto andare in fumo dieci miliardi e 371 milioni di euro, quasi metà del suo patrimonio personale, mentre le azioni della sua Novatek, esportatore privato di metano, si sono deprezzate di 4 volte il valore iniziale.
Distanze dal Cremlino
Tutto si tiene. Colpita nel portafoglio, la classe dirigente dell’economia russa si allontana per forza di cose dal Cremlino. Lo dimostrano le timide prese di distanza dalla guerra del proprietario di Alpha Bank Mikhail Fridman (meno 5 miliardi) e del re dell’alluminio Oleg Deripaska, che ha visto ridursi di 6 miliardi la capitalizzazione della sua holding UC Rusal. Anche la fuga del loro padre putativo, quell’Anatolij Chubais che alla fine degli anni ‘90 consegnò le più grandi aziende pubbliche ai privati, è un segno. Ma per arrivare a una vera resa dei conti, serve il potere politico che gli oligarchi non hanno, e non possono comprare. Neppure con 77 miliardi di euro.
Da ilmessaggero.it il 27 marzo 2022.
L'ucraino Taras Ostapchuk per 10 anni è stato l'ingegnere capo del "Lady Anastasia", yacht super lusso dell'oligarca Alexander Mikheev, attualmente sotto sequestro per le sanzioni e ormeggiato a Port Adriano, in Spagna.
Ha lavorato con passione e orgoglio, fin quando la Russia ha cominciato a bombardare il suo Paese. Dopo aver visto video e immagini della devastazione - in particolare quelle di un razzo che ha distrutto un palazzo a Kiev -, il marinaio ha provato a vendicarsi contro il suo datore di lavoro e ha tentato di affondare l'imbarcazione, dal valore di 6.5 milioni di dollari.
Taras Ostapchuk ha aperto una valvola principale nella sala macchine e una seconda, più piccola, all'interno degli alloggi dell'equipaggio. Quindi chiuse le valvole del carburante, ha staccato tutta l'elettricità e ha detto all'equipaggio (tutti ucraini) di abbandonare la nave, perché il loro Paese è sotto attacco.
La nave è quasi affondata, ma gli altri marinai sono riusciti a salvarla in tempo. «È stato un bel lavoro il mio, ho avuto un ottimo stipendio. Ma adesso voglio lottare per la mia nazione», ha detto ai media.
«Oligarchi responsabili della guerra»
In un'intervista con la CNN dall'Ucraina, Ostapchuk, 55 anni, ha affermato di aver collegato la distruzione nella sua città natale direttamente all'uomo che chiama il proprietario del "Lady Anastasia": l'oligarca russo Alexander Mikheev.
È l'amministratore delegato della compagnia di armi russa Rosoboronexport, che vende di tutto, dagli elicotteri, ai carri armati, ai sistemi missilistici, ai sottomarini. «Ho spiegato alla polizia che ho cercato di affondare la barca come protesta politica contro l'aggressione russa», ha detto.
«Devi scegliere. O sei con l'Ucraina o no. Devi scegliere, l'Ucraina o avere un lavoro... Non ho bisogno di un lavoro se non ho l'Ucraina».
«Ora servo nell'esercito e spero che il mio servizio possa essere utile e aiutarci nella vittoria - ha detto -. Gli oligarchi? Dovrebbero essere ritenuti responsabili, perché sono loro che, con il loro comportamento, con il loro stile di vita, con la loro inestinguibile avidità, hanno portato proprio a questo».
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 27 marzo 2022.
Alisher Usmanov, personaggio importantissimo in Italia, che ha donato due milioni alla Sardegna nella fase di aiuti russi per il Covid, e fu finanziatore del restauro di una parte del Campidoglio, oltre alla villa al Pevero già sequestrata (valore 19 milioni) possiederebbe altre 5 case nella costa di Arzachena, a Romazzino, valore totale attorno ai 45 milioni.
È uno dei risultati di una investigazione del consorzio giornalistico OCCRP, incrociata con fonti investigative italiane, che consente di tracciare una mappa (provvisoria) di alcune cose al vaglio dell’Italia.
I rappresentanti di Usmanov spiegano che la proprietà della maggior parte degli immobili e delle proprietà è stata trasferita molto tempo fa alla sua famiglia, e Usmanov può solo usarli affittandoli.
Due ville a Romazzino sono intestate a Gulbakhor Ismailova, sua sorella. Una terza si trova su una tenuta intestata alla sorella, appartiene a una società da poco cancellata registrata sull'Isola di Man (Le Mimose), la quale a sua volta appartiene a Pauillac Property Limited, società alle Bermuda riconducibile a Usmanov secondo OCCRP.
Una quarta appartiene a Delemar SRL, una società italiana a sua volta posseduta da Pauillac Property Ltd. Una quinta alla società italiana Punta Capaccia, che rimonta sempre a Pauillac Property Ltd.
Rappresentanti di Usmanov dicono: non abbiamo mai beneficiato del governo russo né della privatizzazione di beni statali e il suo capitale è stato ottenuto solo con investimenti trasparenti.
L'Ue è di avviso diverso: «Alisher Usmanov - si legge nel testo che lo sanziona - è un oligarca filo-Cremlino con legami particolarmente stretti con il presidente russo Vladimir Putin. È stato indicato come uno degli oligarchi preferiti di Vladimir Putin.
È considerato uno degli uomini d'affari-funzionari russi, a cui è stato affidato il servizio di flussi finanziari, ma le loro posizioni dipendono dalla volontà del presidente. Usmanov si è schierato per conto del presidente Putin e ha risolto i suoi problemi di affari. Secondo i FinCEN files, ha pagato 6 milioni di dollari all'influente consigliere di Vladimir Putin, Valentin Yumashev.
Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia e ex presidente e primo ministro della Russia, ha beneficiato dell'uso personale di residenze di lusso controllate dal signor Usmanov. Pertanto ha attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell’Ucraina».
Oleg Deripaska controllerebbe di fatto tre case a Porto Cervo, attraverso una società delle Isole Vergini britanniche collegata a Starmark Holdings Ltd., di proprietà di Deripaska tramite Tangril Equities.
Deripaska è stato sanzionato nel 2018 dagli Stati Uniti, che lo accusano di aver minacciato la vita di rivali aziendali, corrotto un funzionario russo e aver ordinato l'omicidio di un uomo d'affari. Tutte accuse che i suoi portavoce negano, sostenendo sia vittima di una caccia alle streghe. Deripaska è anche in decine di pagine del Mueller report, sull'interferenza nelle elezioni Usa 2016 a favore di Donald Trump, con il suo lobbista Paul Manafort, che poi divenne capo della campagna presidenziale di Trump (prima di venire arrestato e condannato e poi graziato da Trump).
Igor Shuvalov, ex vice primo ministro, oggi presidente di Vnesheconombank, VEB, una delle banche di sviluppo di stato della Russia più colpite dalle sanzioni, è oggetto di ulteriori controlli per una proprietà in Toscana intestata a società italiane e austriache, di proprietà di un'entità del Liechtenstein, Weitried Anstalt, che fino al 2017 era di un'azienda delle Isole Vergini britanniche di proprietà di Evgeny Shuvalov, l'allora figlio 24enne di Shuvalov.
Ma la sua attuale proprietà è sconosciuta. OCCRP ha geolocalizzato un jet privato di una compagnia legata a Shuvalov che di recente è volato in aeroporti limitrofi, "il che potrebbe suggerire che lui o la sua famiglia continuino a utilizzarla”.
Vladimir Solovyov, propagandista del Cremlino sulla tv1 russa, possiederebbe altre due ville nel comasco, oltre alle due che gli sono state sequestrate. Lo ha mostrato un'inchiesta di Navalny: ma non sono intestate a lui: Villa Maria a Tremezzina, e un'altra nel comune di Menaggio, intestata a sua madre. Spetta al governo italiano decidere cosa fare di ville poste dentro queste strutture societarie offshore.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 7 aprile 2022.
«È una faccenda esistenziale... Stiamo conducendo un'operazione speciale non contro l'Ucraina, ma contro l'intero Occidente». A modo suo Vladimir Solovyov, il propagandista in chief della prima tv del Cremlino, Channel 1, è sincero: dice esattamente quello che sta pensando il regime, trasforma i pensieri di Putin in realtà senza neanche bisogno che Putin li esprima. Ci pensa lui. Solovyov. In prime time. E così capiamo la verità, se di verità qui si può anche larvatamente parlare.
Se c'è una trimurti che bisognava tenere d'occhio in questi anni per capire dove stava andando il regime russo, e quali piani guerrafondai avesse, quella trimurti era: Alina Kabaeva, la presunta amante di Putin diventata boss di Nmg, National Media Group, il più grande gruppo statale di media russo di proprietà di un vecchio amico di Putin, Yuri Kovalchuk, il ceo Konstantin Ernst e lui, l'anchorman principe del Cremlino: Solovyov. Julia Ioffe, una delle più brave osservatrici della Russia, dice: «Solovyov è il Tucker Carlson russo, dice in onda qualcosa che ho sentito spesso da fonti di Mosca in questi giorni». Ossia che la guerra di Putin è all'Occidente, e non si fermerà.
58 anni, autore di libri dai titoli come Siamo russi, Dio è con noi o Nemici della Russia e Putin, guida per gli empatici, inserito a fine febbraio nella lista delle sanzioni più severe dell'Unione europea, che prevedono il sequestro di tutti gli asset e il divieto di viaggio in Europa, due ville sul lago di Como per otto milioni di euro già sequestrate dal governo di Mario Draghi (ieri a una è stato appiccato il fuoco da ignoti, con modesti danni e un'altra è stata imbrattata con vernice rossa), Solovyov è stato per anni, tutti i giorni, due ore al giorno, il martello pneumatico e il lavaggio del cervello costante dell'opinione pubblica russa.
Ogni narrazione del Cremlino è passata dalla sua bocca. A volte con più estremismo e virulenza dei troll anonimi su internet. I leitmotiv che portano all'invasione in Ucraina erano tutti, ogni sera, nel Solovyov show. La superiorità della Russia come civiltà. Un neonazionalismo russo quasi religioso.
La decadenza e la corruzione dell'Occidente. La lotta ai gay.
La mobilitazione per la guerra. Ogni giorno, un diluvio tv di purissimo fascismo e etno-nazionalismo putiniano.
Il nemico non è l'Ucraina, è l'Occidente. L'Ucraina non esiste, è Russia. «Quello che l'Ucraina non riesce a capire è che le persone all'estero non pronunceranno nemmeno la parola Ucraina, in Occidente siamo tutti russi», diceva ancora l'altra sera. «Draghi, uno dell'alta finanza, è sotto il controllo dell'Unione europea e degli americani». «Di Maio non deve tornare in Russia. Ah è vero, è quello che vende le bibite. Bibitaro, ah ah ah. Oh mio dio. Buonasera, ci vediamo, addopo» (parlando in italiano).
Questo è Solovyov: il nazionalpopolare che diventa neonazionalismo. Il sorriso che si fa carro armato. Con la Z sul pc inquadrato in diretta.
Il 31 marzo, racconta Kyra Yarmysh, la portavoce di Alexey Navalny, «Solovyov in tv considerava la cessazione delle ostilità un tradimento e chiedeva di uccidere quante più persone possibile». Testuale. C'è il video, se non ci si crede. Il 27 febbraio pianse in tv all'annuncio delle sanzioni: «Mi è stato detto che l'Europa è la cittadella dei diritti, che tutto è permesso, questo è quello che hanno detto. So per esperienza personale qualcosa sui cosiddetti "diritti di proprietà sacra" dell'Europa.
Con ogni transazione portavo documenti che dimostravano il mio stipendio ufficiale, il reddito, ho fatto tutto. L'ho comprato, pagato una quantità pazzesca di tasse, ho fatto tutto. E all'improvviso qualcuno decide che questo giornalista è ora nell'elenco delle sanzioni... influirà immediatamente sul mio patrimonio». Ma il pianto non inganni, perché poi oltre al pianto c'era la minaccia, sempre all'Occidente, e all'Europa in particolare: «Con sanzioni come queste perché dovremmo fermarci ai confini dell'Ucraina?». «Gli eredi della Germania nazista stanno imponendo sanzioni a un giornalista (ebreo)».
Usando senza scrupoli ogni trucco e ogni inganno. Eppure quanto piace, agli oligarchi come ai propagandisti, godere della bella vita nell'Europa un po' nazista un po' corrotta. Secondo il team Navalny, Solovyov possiede altre due ville nel comasco, oltre alle due che gli sono state sequestrate (ma non sono intestate a lui: Villa Maria a Tremezzina, e un'altra nel comune di Menaggio, intestata a sua madre).
Secondo The Insider ha acquistato un'altra proprietà in Italia e iniziato lavori di ristrutturazione per trecentomila euro nella villa principale proprio alla vigilia della guerra. E non sembri strano che sulla bocca del propagandista della guerra di Putin risuonino, anche, le narrazioni che poi ritroveremo sulla bocca di pacifisti usati dal Cremlino quando sono all'estero (in patria li arrestano): «Una cosa è chiara. L'Occidente non è interessato alla cessazione del conflitto in Ucraina, che ha scatenato lui stesso, e su cui soccomberà».
Da corriere.it il 25 marzo 2022.
Alisher Usmanov — multimiliardario russo azionista e sponsor (scaricato mercoledì) dell'Everton in Premier League — è tra gli oligarchi più importanti e vicini a Putin e, in quanto tale, nell'ambito delle sanzioni conseguenti all'attacco russo dell'Ucraina, ha subito anche lui il congelamento dei beni. Tra questi c'è un mega yacht del valore di 537 milioni di euro (600 in dollari), il «Dilbar» che, come riporta Forbes, è stato sequestrato dalle autorità tedesche nel porto di Amburgo dove si trovava da ottobre per alcuni lavori di manutenzione presso il cantiere Blohm+Voss. Al momento né Usmanov né Blohm+Voss hanno rilasciato commenti a proposito.
Acquistato nel 2016
Usmanov ha acquistato il Dilbar nel 2016 per 600 milioni di dollari dal costruttore navale tedesco Lürssen, che lo ha creato su misura per lui in 52 mesi. L'azienda lo definisce «uno degli yacht più complessi e impegnativi mai costruiti, sia in termini di dimensioni che di tecnologia».
Il più grande del mondo
Con 15.917 tonnellate, è lo yacht a motore più grande del mondo per stazza lorda e ha un equipaggio monstre di 96 persone. Possiede fra l'altro due aree di atterraggio per elicotteri, una sauna, un salone di bellezza e una palestra. Per i suoi interni lussuosi si contano più di mille cuscini per divani. Può ospitare fino a 40 persone in 20 suite.
Salone con piscina
Cominciamo il viaggio all’interno del Dilbar dal salone con la piscina esterna
Una piscina mai vista
Il Dilbar di Usmanov, fra le altre caratteristiche, può disporre di due diverse piscine,. Una quella esterna l’abbiamo vista prima. L’altra quella coperta è considerata la più grande piscina mai installata su uno yacht. Esiste pure un account Instagram di suoi fan: ha 10mila follower, vi si trovano anche immagini prese da molto vicino lungo i mari del mondo.
La scala d’oro da 35 milioni
Altra particolarità una scalinata placcata d’oro da 35 milioni di euro.
Le stanze da letto
A bordo ci sono 20 suite in grado di ospitare 40 ospiti. Le stanze sono di dimensioni ed arredamento differenti. Eccone una
Sale da pranzo
Diverse anche le sale da pranzo eccone un esempio
Sala bar
Non poteva mancare naturalmente anche una sala bar
Sala da musica
Per rilassarsi gli ospiti hanno a disposizione anche una sala dove ascoltare musica dal vivo
Sala cinema
Se poi c’è l’esigenza di vedere un film ecco la sala cinema
L’ufficio
Se poi ci fosse la necessità di lavorare c’è anche un ufficio fornito di tutto, con tanto di tavolo per le riunioni
Due elicotteri
Tra le dotazioni di bordo, oltre a diversi motoscafi, non potevano mancare ben due elicotteri Airbus H175 da circa 20 milioni di euro l’uno
Gli oligarchi e gli yacht
Usmanov non è naturalmente l'unico miliardario russo con un megayacht: Forbes e gli esperti di valutazione degli yacht VesselsValuene hanno rintracciati 32. Tra questi c'è anche Roman Abramovich, al centro delle cronache in questi giorni per il suo ruolo di mediatore nei colloqui Russia-Ucraina e per la cessione del Chelsea: lui possiede il Solaris, yacht da 140 metri nel porto di Barcellona, e l’Eclipse ormeggiato invece al sicuro a Saint Martin nei Caraibi.
Una fortuna immensa
Lo yacht di Usmanov fa parte della sua fortuna multimiliardaria che comprende partecipazioni nel colosso del ferro e dell'acciaio Metalloinvest, nella società di elettronica Xiaomi e in altre aziende nel settore delle telecomunicazioni, minerario e dei media. Usmanov, uno dei primi investitori in Facebook insieme al collega miliardario Yuri Milner, possiede anche beni immobiliari in Occidente che vanno da due proprietà nel Regno Unito, Beechwood House a Londra e Sutton Place nel Surrey, per un valore complessivo di 280 milioni di dollari, alle case di lusso a Monaco di Baviera, Losanna, Svizzera, Monaco e Sardegna. Usmanov ha venduto la sua quota del 30% nella squadra di calcio inglese dell'Arsenal nel 2018 per quasi 700 milioni di dollari in contanti, ma fino a questa settimana aveva legami con il calcio attraverso le sue Usm Holdings e le sponsorizzazioni MegaFon dell'Everton: il club inglese ha dichiarato mercoledì che avrebbe sospeso gli accordi proprio alla luce dell'attacco della Russia all'Ucraina
Mario Gerevini per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2022.
In una splendida villa in Costa Azzurra, si incrociano le storie di Vladimir Lisin, 65 anni, il più ricco degli oligarchi russi, e quella di Licio Gelli, l'oscuro burattinaio della lista P2 morto nel 2015 a 96 anni.
In una riservata finanziaria di Cipro si intrecciano gli affari dello stesso oligarca, re dell'acciaio, con quelli di un vero principe: Lorenz Otto Carl Habsburg-Lothringen, 66 anni, membro della famiglia reale belga, cognato del re Filippo.
Ma i legami di Lisin con il Belgio, attraverso il gruppo siderurgico russo Novolipetsk (Nlmk), sono anche industriali, e stretti. Può questa alleanza aver «salvato» finora l'oligarca numero uno (26,9 miliardi di dollari secondo Forbes) dalla black list europea degli amici di Putin?
Intanto l'oligarca si muove con un passaporto diplomatico di San Marino di cui è console onorario a Mosca dal 13 maggio 2002. Il gruppo Nlmk, di cui Lisin ha il 79%, vende acciaio per 16 miliardi di dollari (bilancio 2021), il 40% in Russia.
Poi c'è una ferrea joint venture con lo Stato belga al 51%, la Nlmk Belgium, numero uno nel Paese. Secondo i documenti raccolti a Nicosia, alla data del 10 marzo, nella Fletcher, cassaforte di famiglia al vertice del gruppo, l'unico amministratore «esterno» è il principe Lorenz del Belgio, sposato con Astrid, sorella di re Filippo.
Da quasi 40 anni lavora in una piccola private bank di Basilea, la Gutzwiller & Cie, che gestisce patrimoni, forse anche quello di Lisin. Il principe, interpellato sulla mail della banca, non ha risposto al nostro messaggio.
L'ex saldatore diventato il russo più ricco non è nella lista nera dei sanzionati e ha anche preso posizione, morbida, contro il «conflitto armato». Ma allora Lisin è davvero così lontano dal regime di Mosca? Ha creato il suo impero nei decenni di Russia a «trazione» Putin.
E l'acciaio è materia prima fatta di ferro, carbonio e politica. Nella «Putin list» americana delle sanzioni 2018, Vladimir Lisin c'era. Oggi in un contesto ben più drammatico non compare nella lista Ue.
Il figlio, Yuri, ha una quota nella cassaforte di Cipro attraverso la lussemburghese Riskinvest Holding che ha tra i gestori l'avvocato svizzero, Alain Bionda, lo stesso che due anni fa, curò gli interessi legali del miliardario Gennady Timchenko, vicinissimo a Putin.
Dove si gode i soldi il numero uno degli oligarchi? Si sapeva di un castello in Scozia. Ma alcune transazioni di Liudmila Zalesskaya, moglie di Lisin, ci hanno condotto nella esclusiva Baia Espalmador in Costa Azzurra, dove anche i Rothschild hanno una casa.
Lisin ne ha prese due. Dai documenti depositati a Nizza si deduce che Villa Flora è stata acquistata nel 2008 e la contigua Villa Espalmador un paio d'anni prima. Licio Gelli è stato a lungo il proprietario di Villa Espalmador, mai dichiarata al fisco. L'oligarca più ricco, viaggia sempre con il suo passaporto diplomatico in tasca, la dichiarazione prêt-à-porter contro la guerra, il castello in Scozia, le sontuose ville in Costa Azzurra e il principe belga nella cassaforte.
Da ilgazzettino.it il 28 marzo 2022.
Mentre la popolazione soffre le pesanti conseguenze delle sanzioni occidentali a causa della guerra, fa scandalo in Russia la lussuosa festa di compleanno del miliardario russo Kirill Shamalov, ex genero di Putin che ha festeggiato i suoi 40 anni a Dubai, presso la torre del Burj Al Arab insieme alla sua nuova fidanzata, Anastasia Zadorina, figlia di un generale dell'Fsb (i servizi segreti russi).
La notizia della festa esclusiva è stata diffusa tramite il canale Telegram VChK-OGPU che ha aggiunto che si trattava di un party «solo per l'élite che e si è svolto in condizioni di maggiore segretezza, visti gli eventi attuali in Ucraina». Un fatto che ha suscitato scalpore in tutta la Russia dove la popolazione è in ginocchio per le sanzioni, l'inflazione fuori controllo e le restrizioni dovute alla guerra.
Kirill Shamalov è un azionista miliardario del gigante petrolchimico russo Sibur ed è uno degli oligarchi russi colpito dalle sanzioni occidentali varate come ritorsione per la Russia a seguito dell'invasione dell'Ucraina.
Il padre di Kirill, Nikolay Shamalov, 72 anni era un dentista durante l'era sovietica ed è uno dei migliori amici del presidente Putin, considerato membro del "cerchio magico": erano vicini di casa vicino a San Pietroburgo negli anni '90. Il giovane miliardario Shamalov aveva sposato la seconda figlia del presidente, Katerina Tikhonova, ballerina di rock'n roll di 35 anni. Dopo la separazione tra i due l'oligarca aveva avuto una relazione con Zhanna Volkova, 44 anni e ora avrebbe una nuova fiamma: Anastasia Zadorina, figlia di un generale dell'FSB.
Secondo quanto riporta il Daily Mirror, la relazione con Anastasia Zadorina sarebbe nata poco dopo il divorzio con Volkova e ora «le fonti dicono che presto ci sarà un matrimonio». Zadorina è figlia del potente colonnello dell'Fsb Mikhail Shekin e si è laureata presso l'Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca (MGIMO), un campo di addestramento per futuri alti diplomatici e spie.
Inoltre, è la fondatrice di un marchio di haute couture "AnastasiAZadorina" e del marchio "ZASPORT", sponsor ufficiale della squadra olimpica russa. Nelle prime ore della guerra è stata anche autrice di alcune magliette di propaganda patriottica russa in cui si leggeva la scritta: «Topol non ha paura delle sanzioni», riferendosi al missile balistico intercontinentale russo chiamato Topol, e «Sanzioni? Non prendere in giro i miei Iskander».
Se prima dello scoppio della guerra i miliardari russi avevano come principale meta Londra, ora è Dubai il luogo dove lasciarsi andare a una vita nel lusso e a feste sfrenate lontani da occhi indiscreti. Kirill sarebbe partito per gli Emirati Arabi Uniti in compagnia di Zadorina poco meno di una settimana fa e secondo il canale telegram VChK-OGPU la coppia di super ricchi attende la fine della guerra e di questi tempi difficili «riposandosi sulla spiaggia al mattino e divertendosi al karaoke la sera».
Milano, russi e ucraini ricchi scappati dalla guerra: per loro continua lo shopping di lusso nel Quadrilatero. Stefania Chiale su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
Da due anni, con le restrizioni della pandemia, non si facevano vedere. Ora però chi ha le possibilità economiche fugge in Italia: «Da due settimane abbiamo visto un ritorno di alcuni clienti facoltosi russi e ucraini».
Entrando nella boutique del celebre marchio italiano del lusso, prima azienda artigianale al mondo nella lavorazione del cashmere scelta anche da Vladimir Putin per la sua adunata patriottica lo scorso 18 marzo, è impossibile non pensarci: dove sono i ricchi russi che fino a due anni fa riempivano gli indirizzi della moda milanese? Scomparsi, o quasi. Nel Quadrilatero che raccoglie via Monte Napoleone e le strade profumate e proibitive racchiuse tra via Manzoni, via della Spiga e corso Venezia, i volti sono cambiati con le restrizioni della pandemia prima e con la crisi ucraina e relative sanzioni a Mosca dopo. Ma in questo angolo di Milano invidiato e osannato in tutto il mondo i segnali di un loro ritorno (e di una ripresa del settore) iniziano ad arrivare.
«Non serviva la guerra: è da oltre due anni che non vediamo russi qui», premette Guglielmo Miani, presidente del Montenapoleone district. Il blocco dei voli dalla Russia non ha fatto che fossilizzare una mancanza che si respirava già prima per via delle restrizioni a causa della pandemia. Con una differenza: «Da due settimane però abbiamo visto un ritorno di alcuni clienti russi e ucraini»: aggirato il divieto di volo verso l’Unione europea i primi, riusciti a scappare i secondi. «Osserviamo l’inizio di un nuovo arrivo di clientela dai due Paesi in guerra: quella che ha scelto, nel caso russo, o che è riuscita, in quello ucraino, a lasciare il Paese». D’altronde, parlando dei primi, «in molti l’hanno fatto subito: le case in Costa Smeralda sono tutte occupate da russi, esclusi quelli inseriti sulla lista “nera” e colpiti dalle sanzioni». Qualcuno «era già in Italia e ci è rimasto», gli altri aggirano i divieti di volo, passando per esempio dalla Turchia.
Negli ultimi due anni e mezzo la top ten dei clienti del distretto della moda milanese ha cambiato bandiere sul suo podio: «Prima guidavano la classifica Cina, Russia e Stati Uniti. Oggi al primo posto ci sono gli italiani, gli europei, gli americani e gli arabi». Nei negozi non è raro sentire commesse parlare arabo per mettere più a loro agio le clienti. Un cambiamento nella classifica geopolitica degli scontrini staccati che, ormai stabilizzato, non ha danneggiato l’economia del lusso, certifica Miani: «Nonostante la situazione molto triste per via della guerra, economicamente parlando il clima qui è molto positivo». Anzi: «Alcuni marchi hanno risultati superiori ai livelli pre-2020. Il motivo? L’aumento della clientela italiana ed europea». Che per alcuni marchi era già prevalente e grazie alla quale oggi questi risentono meno della mancanza dei moscoviti: «Gran parte della nostra clientela è locale — raccontano dalla boutique di Tod’s —, questa è la nostra fortuna. Altri brand la cui clientela era prevalentemente costituita da russi e cinesi stanno risentendo di più dei contraccolpi».
Non solo i russi (nonostante qualche arrivo nelle ultime settimane): sono soprattutto i cinesi, infatti, quelli che continuano a mancare all’appello. «Fino al prossimo anno non li vedremo — dice Miani —: è vero che da metà marzo Pechino ha aperto i visti in uscita, ma al rientro i cittadini devono fare un mese di quarantena in un hotel e due settimane a casa. Sono pochi quelli che vengono in Italia». I turisti russi a Milano fino allo scoppio della pandemia erano cresciuti costantemente, superando i 185mila nel 2019 e con uno scontrino medio di 2mila euro nei negozi della città, secondo i dati elaborati da Confcommercio. La guerra in Ucraina e le conseguenti sanzioni a Mosca impatteranno pesantemente sull’economia regionale e cittadina considerando che nel 2021 ammontava a circa 3 miliardi di euro l’interscambio tra Lombardia e Russia, e a 1,5 quello fra Milano e Russia. Mentre l’import-export tra Lombardia e Ucraina valeva circa 820 milioni, e 450 quello tra il capoluogo e il Paese invaso.
Volodymyr Zelensky e quella chiamata a sorpresa a Joe Biden: niente sanzioni a Roman Abramovich. Il Tempo il23 marzo 2022.
All'inizio di marzo i funzionari del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti hanno elaborato una serie di sanzioni per punire Roman Abramovich, tra i più importanti oligarchi russi, dopo l’invasione della Russia in Ucraina. Ma quando è arrivato il momento di annunciare queste sanzioni, che erano state progettate per uscire in contemporanea con le sanzioni del Regno Unito e dell'Unione Europea, il Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca ha detto al Tesoro di aspettare. Il motivo è svelato dal Wall Street Journal: il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky ha consigliato al presidente Biden in una telefonata di aspettare a sanzionare l'oligarca, che potrebbe rivelarsi importante come intermediario con la Russia per aiutare nei negoziati per la pace.
Il presidente Biden aveva consultato il presidente dell'Ucraina su una serie di sanzioni, tra cui quelle sanzioni previste contro Abramovich. Non hanno seguito la stessa strada il Regno Unito e l’UE, che hanno sanzionato Abramovich all'inizio di questo mese per i suoi legami con Putin, congelando i suoi beni nelle loro giurisdizioni. Diversi funzionari britannici ed europei hanno detto di non essere a conoscenza del fatto che il presidente Zelensky abbia richiesto specificatamente ai loro leader di non imporre sanzioni all’ex presidente del Chelsea. Ma in realtà diversi funzionari ucraini e funzionari di altri governi occidentali sono molto scettici su quanto veramente Abramovich sia coinvolto nei colloqui di pace.
Abramovich è stato l'unico oligarca a dire pubblicamente che sta cercando di spingere Mosca a trovare una soluzione pacifica al conflitto. Anche i funzionari statunitensi che hanno parlato con il Wall Street Journal hanno sottolineato che non hanno motivo di credere che Abramovich sia stato particolarmente utile nei colloqui tra i governi in guerra e le valutazioni di intelligence hanno, infatti, suggerito il contrario. Le persone vicine a lui dicono però che stia spendendo una quantità significativa di tempo per un processo di pace.
Da fanpage.it il 23 marzo 2022.
Roman Abramovich ha messo al sicuro i due super yatch, My Solaris ed Eclipse, in Turchia. Due giorni prima che scattassero le sanzioni economiche inflitte alla Russia e agli oligarchi, Roman Abramovich aveva già fatto partire l'ordine: bisognava mettere al sicuro le ‘ammiraglie' della flotta, due super-yacht extralusso del valore complessivo di oltre 1 miliardo e 300 milioni di dollari.
Solaris ed Eclipse i nomi delle corazzate che in queste settimane hanno solcato i mari servendosi dei mezzi di navigazione e sistemi di sicurezza tra i più sofisticati e tecnologici, cambiando il loro stato da "crociera panoramica" a "in attesa di ordini".
Lo hanno fatto spesso, tracciando rotte sicure, lontane dalle acque perigliose dell'Unione Europea, a costo di girare a vuoto per giorni, provando così a confondere gli osservatori del traffico marittimo sulla loro destinazione. Israele o addirittura gli Emirati Arabi erano gli altri approdi ipotizzati ma quando gli yatch si sono avvicinati progressivamente al territorio turco è stato chiaro che avrebbero trovato riparo lì, nel Paese che non si è unito all'UE e agli Stati Uniti nell'infliggere restrizioni e congelamento dei beni ai ricchi uomini d'affari vicini al Cremlino.
Lo stesso jet di Abramovich ha anche effettuato almeno due scali in Turchia da quando è iniziata l'operazione Zeta per l'invasione dell'Ucraina. Il tracciamento dei voli ha individuato l'aereo privato del magnate russo tra Israele, Istanbul e Mosca.
Solaris ed Eclipse sono stati localizzati definitivamente tra ieri e oggi, lunedì 21 e martedì 22 marzo: entrambi hanno attraccato nel sud-ovest della Turchia, nelle zone turistiche esclusive pronte ad aprire le braccia ai miliardari.
Il primo è arrivato a Bodrum dopo un viaggio iniziato da Barcellona (dove si trovava in rimessaggio da fine 2021 in un cantiere navale) e che, dopo una tappa nel Montenegro, è proseguito a lungo fino a quando non ha ricevuto il segnale di via libera. Il secondo era partito da St. Martin nei Caraibi a fine febbraio e, dopo 28 giorni di traversata e un giro intorno all'isola di Creta, è giunto a Marmaris.
C'è di tutto a bordo delle fortezze sulle onde di proprietà dell'ex presidente del Chelsea. Non solo comfort e optional senza badare a spese, curati nei dettagli più preziosi che li rendono grandiosi e impressionanti, ma anche sistemi di difesa accurati e molto efficaci.
Sia Solaris sia Eclipse sono stati allestiti anche con apparecchiature radar per localizzare e abbattere droni, hanno passaggi segreti a prova di pirata, un sistema antimissilistico, finestre antiproiettile e cabine blindate, uno scudo laser, una capsula di salvataggio, un sottomarino e tre elicotteri, l'intera superficie è corazzata. E per assicurare che la privacy non sia violata (nemmeno) dalla furbizia paparazzi, pronti scattare clic per lo scoop, adottano laser per rilevare le fotocamere digitali e renderle inoffensive.
Abramovich, altri due maxi yacht a rischio sequestro (ad Antigua). Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera l'1 Aprile 2022.
Non solo Solaris ed Eclipse. Ci sarebbero altri due yacht riconducibili a Roman Abramovich, il miliardario russo coinvolto nelle negoziazioni tra Russia e Ucraina e tra gli oligarchi colpiti dalle sanzioni occidentali. Sanzioni, che ricordiamo, includono il congelamento dei beni e il divieto di viaggio in Europa e in Regno Unito. Nel mirino di Londra potrebbero ora ricadere due panfili ormeggiati nel porto di Falmouth Harbour nella zona sud di Antigua. Secondo quando riporta il Financial Times il governo locale avrebbe stabilito che i due yacht ormeggiati nell’isola caraibica appartengono al magnate russo. Si tratta, nel dettaglio di Halo, uno yacht da 38 milioni di dollari e di Garçon da 20. Imbarcazioni di lusso che ora sono a rischio sequestro.
Le indagini
In una lettera all’alto commissario britannico a Barbados, visionata dai giornalisti del quotidiano inglese, il ministro degli affari esteri di Antigua, Paul Chet Greene, scrive infatti che il governo dell’isola ha raccolto informazioni sulla proprietà dei due yacht. Panfili che risultano nelle disponibilità della Wenham Overseas Ltd. Nel documento si legge poi che secondo la Financial Investigation Agency delle Isole Vergini Britanniche «il proprietario effettivo di Wenham Overseas Ltd è Roman Abramovich». Più funzionari britannici hanno poi confermato al Financial Times che il governo era già in contatto con le autorità di Antigua e Barbuda che si sono dette disposte a collaborare.
La flotta di Abramovich
Resta ora da capire cosa ne sarà dei due yacht ormeggiati ad Antigua posto che i colossi di Abramovich, Solaris ed Eclipse, si trovano in porti «amici» al sicuro dalle sanzioni occidentali.
Eclipse, panfilo tra i più grandi al mondo con i suoi 163,5 metri e dal valore record di 700 milioni di dollari, secondo i dati di Marine traffic si trova a Marmaris in Turchia. In un porto limitrofo ci sarebbe anche Solaris, che vale oltre 600 milioni di dollari ed è lungo circa 140 metri.
(AGI il 22 agosto 2022) – Il magnate russo Roman Abramovich ha spostato anche le due barche che ancora non vi si trovavano in Turchia, dove ora si trova la sua intera flotta personale, nel tentativo di evitare le sanzioni con cui i Paesi occidentali hanno colpito la Russia. Gli ultimi due yacht giunti in acque turche sono il 'Garcon' e 'Halo', scampati alle sanzioni dal porto di Falmouth, ad Antigua e Barbuda, dove erano stati ormeggiati dopo l'inizio della guerra e dove hanno rischiato di essere confiscati dalle autorita' britanniche.
A salvare le due imbarcazioni sono state le norme del Paese caraibico, che non effettua confische di yacht a meno che il proprietario non si sia macchiato di un reato. Tali circostanze hanno permesso a 'Halo' e 'Garcon' di fare rotta verso il porto turco di Gocek, dove sono arrivati pochi giorni fa, non lontano da dove sono ormeggiati gli altri due yacht dell'ex patron del Chelsea. Queste erano giunte in Turchia a marzo scorso seguendo dei percorsi studiati appositamente per evitare acque internazionali e sanzioni.
Il piu' grande dei due, 'Eclipse', del valore di 600 milioni di dollari e' rimasto nei primi mesi del conflitto ancorato a Mugla, in provincia di Marmaris non lontano da dove si trova 'My Solaris', del valore di 780 milioni di dollari. Entrambi sono registrati alle Maldive. Tuttavia il fatto che 'My Solaris' fosse rimasto nel 'Cruise Port' di Bodrum, nota localita' marittima turca, ha attirato le attenzioni degli studi legali inglesi, che hanno notato che il porto turistico stesso e' quotato al mercato azionario londinese.
La notizia e' trapelata sui media britannici, con l'ipotesi di una violazione delle sanzioni del Regno Unito; questo ha spinto il magnate russo a spostare un'altra volta i suoi due yacht, che hanno lasciato i porti in cui erano ancorati da marzo e hanno fatto rotta vero Gocek. La storia potrebbe ripetersi nei prossimi mesi, considerando che, in base a quanto riportato dai media turchi, gli yacht saranno costretti a lasciare l'area con l'arrivo dell'autunno.
Secondo il sito Lloyd's Intelligence List infatti, lo yacht 'My Solaris', di 140 metri, ha abbandonato il porto di Barcellona l'8 marzo scorso, si trovava al largo della Sicilia due giorni dopo, quando sono entrate in vigore le sanzioni della Gran Bretagna, per poi attraccare il 12 marzo a Tivat, in Montenegro e da la' prendere il largo verso il porto di Bodrum, nel sud della Turchia.
Lo yacht ha seguito una rotta che, senza mai entrare in acque greche, gli ha permesso di evitare le sanzioni europee, scattate il 15 di quel mese. L'altra barca, 'Eclipse', lunga 140 metri con due piste per l'atterraggio degli elicotteri e un mini sottomarino annesso, e' partita dalle Antille il 3 marzo per poi giungere in Turchia, nel porto di Marmaris, il 22 del mese, attraverso un percorso che gli ha permesso di evitare le sanzioni.
La decisione del governo turco del presidente Recep Tayyip Erdogan di non applicare sanzioni economiche nei confronti della Russia e lasciare aperto lo spazio aereo ha reso la Turchia una delle poche mete a disposizione dei russi che hanno deciso di lasciare il Paese.
Tra questi, circa 20 mila da quando e' iniziato il conflitto in Ucraina, vi sono dissidenti, giornalisti, accademici, e anche alcuni oligarchi tradizionalmente vicini al presidente russo Vladimir Putin hanno fatto tappa nel Paese.
Abramovich, considerato in grado, per la sua vicinanza con il presidente russo Putin, di mediare con il Cremlino, era presente il 29 marzo a Istanbul, quando le delegazioni di Russia e Ucraina si sono incontrate per portare avanti il negoziato precedentemente iniziato in Bielorussia.
Carlotta Scozzari per repubblica.it il 23 marzo 2022.
Effetto Abramovich sul pagamento di cedole per 18,9 milioni di dollari da parte di Evraz, gruppo dell'acciaio di cui è primo azionista l'oligarca russo nonché proprietario del Chelsea. In una nota del 21 marzo, la società ha fatto sapere che, in relazione al regolamento di interessi in calendario per lo stesso giorno su obbligazioni da 704 milioni di dollari in scadenza nel 2023, "ha effettuato un pagamento regolare, ma l'ammontare, come comunicato dalla banca agente Bank of New York Mellon, sede di Londra, non è stato processato sino a oggi (21 marzo appunto, ndr) ed è rimasto bloccato presso la banca corrispondente, Societe Generale New York".
In altri termini, per Evraz sembra riproporsi un copione per certi aspetti simile a quello visto la scorsa settimana con la stessa Russia: il pagamento è stato ordinato, ma il denaro è rimasto bloccato e non è riuscito, almeno fino a ora, a raggiungere gli obbligazionisti. Tecnicamente, il gruppo emittente di un'obbligazione si appoggia a una banca corrispondente - in questo caso Societe Generale New York - che a sua volta trasferisce le risorse a un soggetto cosiddetto "agente" - Bank of New York Mellon - chiamato, in ultima analisi, a distribuire il denaro tra i possessori dei bond.
La società, proprietaria tra l'altro di una delle più grandi miniere in Russia, aggiunge di avere ricostruito che il mancato pagamento è legato alle "incertezze recentemente emerse dopo la decisione dell'Ufficio per l'implementazione delle sanzioni finanziarie (Ofsi) di includere uno degli azionisti, Roman Abramovich, con una quota del 28,64%, nella lista delle sanzioni. La società - prosegue Evraz - continua a ribadire che Abramovich non esercita un effettivo controllo sul gruppo".
Non è, invece, stato colpito da sanzioni il secondo azionista di Evraz, ossia l'uomo d'affari russo Alexander Abramov, che ha il 19,32% della società quotata sul listino azionario di Londra Lse, seguito da Alexander Frolov (9,65%) e da Gennady Kozovoy (5,74% delle azioni). L'11 marzo l'azienda russa, dopo essersi dichiarata "profondamente preoccupata e rattristata" dal conflitto ucraino, nella speranza che "giunga presto a una risoluzione pacifica", aveva annunciato le dimissioni dal consiglio di amministrazione di Abramov e Frolov e di tutti gli altri amministratori non esecutivi.
Anche questa mossa aveva seguito le sanzioni che hanno colpito il proprietario dei "blues", finito nel mirino del governo britannico di Boris Johnson per i suoi rapporti con il presidente russo Vladimir Putin. Abramovich, così, non può più fare affari nel Regno Unito, né mettere piede sul suolo britannico, senza contare che sono state congelate tutte le sue attività, incluso il Chelsea, che aveva messo in vendita.
Nella nota sul mancato pagamento delle obbligazioni, che tecnicamente in gergo finanziario prelude a un "potential event of default", un episodio che preannuncia la possibilità di non potere onorare il debito, Evraz, che nel 2021 ha realizzato ricavi per 14,16 miliardi di dollari, aggiunge di "avere la sufficiente liquidità necessaria per completare il pagamento delle cedole" e di "essere pienamente impegnata a risolvere la situazione al più presto con tutte le proprie forze".
A Londra fanno i conti in tasca al cerchio magico di Putin: “Patrimonio di 15 miliardi di euro”. La Stampa il 22 marzo 2022. Si chiama 'Russian Asset Tracker' ed è l'iniziativa lanciata dal britannico Guardian in collaborazione con l'Organized Crime and Corruption Reporting Project e altri organi di informazione internazionali per setacciare i tanti beni sparsi nel mondo riconducibili a figure di spicco del 'cerchio magico' di Vladimir Putin. La ricerca si è aperta oggi con la prima pagina del quotidiano progressista che parla di oltre 17 miliardi di dollari (15 miliardi di euro) in asset - inclusi conti bancari offshore, yacht, jet privati e proprietà di lusso a Londra, in Toscana e in Costa Azzurra - collegati a 35 oligarchi e funzionari russi che hanno stretti legami col leader del Cremlino, in base alla lista di nomi indicata dall'oppositore Alexei Navalny. Sono i primi risultati di una vasta inchiesta dalla quale emergeranno altri dettagli nelle prossime edizioni. Nel mirino sono finiti gli oligarchi più in vista, come Roman Abramovich, Alisher Usmanov e Oleg Deripaska, oltre ad altri supermiliardari, ex alti funzionari, e boiardi delle aziende di Stato, quasi tutti già sanzionati da Ue, Stati Uniti e Gran Bretagna dopo l'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe di Mosca. Le loro fortune complessive note sono comunque largamente superiori ai 17 miliardi di dollari. Allo stato attuale, il Russian Asset Tracker ha scovato più di 145 beni costituiti da 35 palazzi, 43 appartamenti e altri 27 immobili, sette yacht, più 11 jet privati ed elicotteri. Proprio oggi la Bbc ha rivelato che sembrano essere state sottratte alla mannaia delle sanzioni britanniche le lussuose proprietà possedute a Londra e nella contea inglese del Surrey da Usmanov, miliardario uzbeko-russo e uno dei principali oligarchi del business moscovita presi di mira come funzionali al sistema di potere del presidente russo. L'emittente pubblica cita l'entourage dello stesso uomo d'affari - in passato indicato come il più ricco contribuente residente nel Regno Unito, dove ha svolto anche attività da filantropo e investitore nel mondo del calcio, ma ormai lontano dall'isola - secondo cui le due magioni, il cui valore è stimato in 82 milioni di sterline (quasi 100 milioni di euro) complessive, non sono formalmente più nella sua disponibilità. Il suo nome era finito nella lista nera allungata dei sanzionati dal governo di Boris Johnson il 3 marzo ma le case di Usmanov sembrano al momento irraggiungibili dalle autorità del Regno dopo che sono state trasferite sotto il controllo di un trust.
Dagotraduzione dal Guardian il 22 marzo 2022.
Più di 17 miliardi di dollari (13 miliardi di sterline) di asset globali – tra cui conti bancari offshore, yacht, jet privati e proprietà di lusso a Londra, in Toscana e in Costa Azzurra - sono stati collegati a 35 oligarchi e funzionari russi che si presume abbiano stretti legami con Vladimir Putin.
Il Guardian, in collaborazione con Organized Crime and Corruption Reporting Project e altri organi di informazione internazionali, svela la ricerca iniziale in un progetto in corso per tracciare la ricchezza degli operatori più potenti della Russia.
Il progetto per tracciare gli asset russi (“Russian asset tracker”) inizierà concentrandosi su un elenco di 35 uomini e donne nominati lo scorso anno come presunti facilitatori di Putin dal leader dell'opposizione, oggi in carcere, Alexei Navalny. Registrerà le risorse al di fuori della Russia lì dove i nostri partner hanno raccolto prove che le collegano a queste persone.
L'organizzazione di Navalny ha scritto ai governi occidentali chiedendo che i nomi nella sua lista fossero presi in considerazione per sanzioni e da allora tutti tranne uno sono stati inseriti nella lista nera da Stati Uniti, UE, Regno Unito o Canada.
Nell’elenco ci sono quattro degli oligarchi più ricchi, oltre a capi di società controllate dallo stato, importanti emittenti televisive, capi di agenzie di spionaggio, ministri, consiglieri politici e governatori regionali. Sono stati elencati al Congresso degli Stati Uniti da legislatori che chiedevano sanzioni più severe per l'élite russa e al parlamento del Regno Unito dal portavoce dei liberaldemocratici per gli affari esteri, Layla Moran.
Moran ha detto alla Camera dei Comuni: «Gli amici di Putin devono essere soggetti alle sanzioni più severe possibili, perché è attraverso di loro che Putin e la sua cerchia ristretta mantengono la loro ricchezza. Se andiamo dietro ai suoi compagni, andiamo dietro a lui. In realtà, siamo in una posizione piuttosto unica per farlo, perché loro hanno scleto Londra. Vivono qui: per loro è 'Londograd'».
Il “Russian asset tracker” ha identificato proprietà o appezzamenti di terreno nel Regno Unito - per un valore complessivo di oltre mezzo miliardo di dollari - collegati tramite società, trust o parenti a quattro figure di spicco nell'elenco di Navalny: Roman Abramovich, Alisher Usmanov, Oleg Deripaska e Igor Shuvalov. Il Guardian riferirà su questi risultati nei prossimi giorni.
La ricerca finora ha raccolto prove, la maggior parte dal 2020 ad oggi, che i nomi siano collegati a più di 145 beni tra cui 35 palazzi, 43 appartamenti e altri 27 immobili. Sette yacht e 11 tra jet privati ed elicotteri, per un valore complessivo di 2 miliardi di dollari, sono stati identificati come collegati a sole sei persone.
Alcune delle risorse del tracker sono di pubblico dominio, tra cui la villa di Belgrave Square di Deripaska nel centro di Londra, che è stata occupata da abusivi la scorsa settimana, così come i superyacht Dilbar, Lena e Amore Vero, collegati agli oligarchi Usmanov, Gennady Timchenko e Igor Sechin rispettivamente.
Altri possedimenti sono passati in gran parte inosservati, o talvolta sono esistiti in una segretezza quasi totale. Il mese scorso, il Tesoro degli Stati Uniti ha evidenziato i problemi della proprietà opaca affermando: «Oligarchi sanzionati e potenti élite russe hanno utilizzato i membri della famiglia per spostare beni e nascondere la loro immensa ricchezza».
Al di fuori del Regno Unito, il Russian asset tracker ha scoperto:
• Ventisei beni apparentemente collegati a Deripaska, che si dice sia l'industriale preferito di Putin. Tra questi miliardi di dollari in azioni, un hotel nelle Alpi austriache, un superyacht, una nave appoggio di 60 metri con eliporto e proprietà di lusso a Londra, Parigi, Washington DC e New York, e quattro ville in Sardegna.
• Due jet privati – un Gulfstream G650 da 65 milioni di dollari e un Bombardier Global Express – collegati a Shuvalov, l'ex vice primo ministro russo e ora presidente della società di sviluppo statale. Shuvalov è anche collegato a tre proprietà di lusso per un valore complessivo di circa 35 milioni di dollari situate nel Salzkammergut, in Austria, in Toscana in Italia e a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti.
• Holding di proprietà legate alle famiglie di Nikolay Tokarev, il presidente della società di oleodotti statale Transneft, nonché dell'addetto stampa presidenziale, Dmitry Peskov. Le società Tokarev sembrano possedere proprietà di lusso sull'isola croata di Lussino, un noto hotspot per i ricchi russi, mentre l'azienda Peskov è collegata a un costoso appartamento parigino.
Molte delle attività meno note sono detenute tramite società di comodo con sede in giurisdizioni segrete offshore e fondi fiduciari, il che le rende più difficili da rintracciare. Altre sono di proprietà di parenti o associati delle persone nell'elenco Navalny, il che solleva dubbi sulla fonte dei fondi utilizzati per acquisire tali beni.
Sono stati controllati utilizzando prove che vanno da fonti pubblicamente disponibili, dati dai database di fughe offshore del Consortium of Investigative Journalists, i file FinCEN di segnalazioni di transazioni bancarie sospette e fonti di intelligence umana.
Il tracker funge da istantanea nel tempo e include risorse solo dove i giornalisti hanno visto prove documentali o altre informazioni affidabili che li collegano ai 35 di Navalny. Alcuni possedimenti ampiamente collegati a determinati oligarchi devono ancora essere confermati.
Abramovich, Tokarev, Peskov e Shuvalov devono ancora rispondere alle richieste di commento.
Un portavoce di Deripaska ha dichiarato: «Non è chiaro come la pubblicazione di questo tipo di 'inventario delle risorse' possa servire all'interesse pubblico. A meno che, ovviamente, per "interesse pubblico" non si intenda incoraggiare gli squatter ad occupare proprietà private, come hanno fatto con una casa londinese appartenente ai parenti del signor Deripaska.
Tutte le proprietà e i beni che possiede sono stati acquisiti con mezzi equi. La frenesia mediatica in corso, per quanto deplorevole, non dà certamente a nessuno il diritto di chiamare il signor Deripaska un cleptocrate. La caccia alle streghe in Russia di cui il signor Deripaska è diventato una vittima è guidata interamente da motivazioni politiche».
Un portavoce di Usmanov ha aggiunto: «L'intero capitale di Usmanov è stato costruito attraverso investimenti di successo, a volte rischiosi, nonché attraverso una gestione efficace dei suoi beni, che è l'essenza del business. Pertanto, definire la fonte del suo denaro come "non trasparente" è intrinsecamente errato e danneggia la reputazione di Usmanov come imprenditore onesto e filantropo».
Il sistema predisposto dall'Ue. Sanzioni contro gli oligarchi, c’è qualcosa che non torna. Baldassarre Lauria su Il Riformista l'11 Marzo 2022.
Il sistema sanzionatorio predisposto dall’Unione Europea, per l’invasione illegittima dell’Ucraina, nei confronti dei presunti fedelissimi del presidente russo, Vladimir Putin, al di là di ogni considerazione circa l’opportunità e/o l’efficacia persuasiva di queste misure, sul piano strettamente giuridico rischia di essere un vero e proprio atto di “prepotenza legale”. I provvedimenti di congelamento dei beni eseguiti nei confronti di cittadini della Federazione Russa pongono, infatti, una serie di interrogativi in ordine alla natura giuridica e alla riconducibilità di essi a una “base legale”, compatibile con il diritto comunitario e costituzionale. Nei comunicati diffusi dalle Autorità nazionali, i detti provvedimenti hanno riguardato soggetti appartenenti all’Elite Economica russa, nei confronti dei quali non è stata mossa alcuna specifica contestazione fra quelle contemplate dai Trattati UE, valorizzando così una sorta di “pericolosità sociale da posizione”.
Si tratta di decisioni significativamente incidenti sulle libertà personali, ancor prima di una formale contestazione e indipendentemente dall’apertura di un’indagine, di fatto uno strumento sostitutivo dell’azione militare. In una prospettiva strettamente giuridica, però, si tratta della negazione dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di confisca dei beni nei confronti dei soggetti pericolosi. L’art. 215 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nell’ambito di poteri assegnati dall’art. 29 allo scopo di determinare scelte politiche degli Stati extra-UE, prevede che il Consiglio possa adottare misure restrittive (rectius sanzioni) nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o di entità non statali. Le anzidette sanzioni, dunque, possono essere adottate come misure proprie dell’Unione, o al fine di attuare Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nei casi in cui paesi extra-UE o persone fisiche o giuridiche non rispettano il diritto internazionale o i diritti umani, o pongono in essere azioni tendenti a violare la pace.
In siffatto contesto giuridico-convenzionale ci si interroga, allora, sulla compatibilità di dette sanzioni con i principi che ne governano il funzionamento quando esse riguardano persone estranee alle contestate violazioni del diritto internazionale. Se, da un lato, v’è un evidente deficit di “giurisdizionalizzazione”, dall’altro lato sono plurime le incertezze legate al giudizio sanzionatorio che ispirano il congelamento dei beni. Il vuoto di tutela che grava sul soggetto destinatario di dette misure spinge, poi, a domandarsi se la misura sia espressione di un adeguato e legittimo bilanciamento tra finalità politica e libertà individuali. Le misure restrittive relative ad azioni che minacciano l’integrità territoriale dell’Ucraina e la sua sovranità trovano il loro antecedente nelle sanzioni adottate nei confronti di alcune persone ai sensi della Decisione Quadro 2014/145/PESC e del Regolamento UE n. 269/2014, strumenti questi ultimi che confermano come il “congelamento” non operi alla stregua di una sanzione, pur determinandone gli effetti. E del resto non potrebbe esserlo, infatti non è contestato alcun fatto illecito specifico, non è richiesta alcuna pertinenzialità del bene congelato rispetto a un qualsiasi reato, non è prevista l’attivazione di un procedimento. Insomma, una vera e propria finzione giuridica che sotto le vesti di misure ad personam cela una vera e propria sanzione economica diretta a uno Stato sovrano per le politiche “criminali” del suo governante.
Tale impostazione, però, non appare compatibile con i principi della Convenzione EDU, cui aderisce anche la Federazione Russa. Proprio, l’art 1 della Convenzione riconosce il diritto di ogni persona al rispetto da parte degli Stati delle proprie libertà individuali, mentre l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU protegge il diritto di proprietà di ogni persona fisica o giuridica al rispetto dei suoi beni. Sicché, appare evidente come la nobile causa che ispira la repressione della violazione dell’ordine internazionale attraverso il sistema delle sanzioni ai cittadini russi, solo perché tali, in assenza di alcun giudizio di colpevolezza di qualsivoglia natura, colloca le stesse misure in un’area giuridica assai incerta e di dubbia costituzionalità, per difetto di precisione e determinatezza del paradigma normativo che configura la fattispecie oggetto di sanzione. Non sfugge allora come l’anzidetto “sistema sanzionatorio”, espressione del c.d. diritto penale ad alta velocità, rischi di piegare la storica sensibilità giuridica dell’Unione Europe alla logica della guerra, quella indiretta attuata con le sanzioni all’economia dello Stato aggressore, e ciò in assenza della dichiarazione dello stato di guerra da parte dei singoli Stati. Baldassarre Lauria
Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2022.
Sigilli alla villa di un altro oligarca russo legato a Putin. È il terzo sequestro in Sardegna: la residenza è di Petr Olegovich Aven, patrimonio valutato 15 miliardi di dollari, domina la baia di Punta Sardegna, sull'arcipelago de La Maddalena.
Aven, 68 anni, banchiere e finanziere, è fra i primi nomi della lista nera dell'Unione europea. Ha licenziato custodi e addetti alle manutenzioni, come hanno fatto Alisher Usmanov e Alexei Mordachov.
Villa Mareena - valore 15 milioni, Aven ne possiede un terzo - è stata costruita poco dopo il 1960 a Porto Raphael (dal nome del fondatore, l'eclettico Raphael Neville conte di Berlanga), borgo nato prima che l'Aga Khan progettasse la Costa Smeralda.
Aven l'ha acquistata nel 2007; nel 2015 la moglie Elena morì d'infarto mentre cercava di ritornare a nuoto da uno yacht all'ancora nella rada.
Francesco Bechis per formiche.net il 17 marzo 2022.
A volte ritornano. Nella “Grande Russia” ortodossa, reazionaria, eurasiatica che Vladimir Putin cerca di comporre invadendo l’Ucraina c’è spazio anche per Kostantin Malofeev.
Quarantasette anni, barba folta e occhi vitrei, l’oligarca e tycoon televisivo russo è un volto noto alle cronache italiane. Il suo nome era finito nelle carte dello scandalo Metropol, la rete di incontri e relazioni russe della Lega e di Matteo Salvini culminata nella visita dell’allora vicepremier a Mosca nell’ottobre del 2019 e poi finita nelle carte di un’inchiesta della procura di Milano dagli esiti ancora incerti.
Oggi Malofeev è tornato agli onori delle cronache, ma per altre ragioni. C’è anche lui nella lista “prioritaria” di ventisette oligarchi pubblicata mercoledì dal Tesoro americano in risposta all’invasione russa. Insieme a Putin saranno nel mirino della nuova task force transatlantica Repo (Russian elites, proxies and oligarchs) di cui farà parte anche l’Italia.
Un tempo relegato alle seconde file nella gerarchia del potere russo, Malofeev ritrova nella campagna nazionalista e revisionista di Putin una seconda ascesa agli altari. Ne è riprova l’attenzione che i “caccia-teste” americani ed europei alla ricerca di yacht, ville e conti in banca degli oligarchi russi gli stanno dedicando.
Sotto sanzioni già dal 2014 con l’accusa di aver finanziato i separatisti russi nel Donbas, il miliardario è di nuovo nell’occhio del ciclone. A inizio marzo la procura di Manhattan ha incriminato un ex produttore tv con un passato a Fox News, John Hanick, per aver ricevuto soldi da Malofeev violando le sanzioni.
L’accusa del Dipartimento di Giustizia, che ha appena inaugurato una sua task force per dare la caccia agli oligarchi, “Klepto capture”, è di aver violato le sanzioni lavorando con un uomo “fortemente legato all’aggressione russa in Ucraina”. Non che il diretto interessato smentisca, anzi. Tre giorni fa, con un post sul social network russo VKontakte, Malofeev applaudiva l’invasione militare, “una nuova fase nella vita di una Russia millenaria”.
Per capire il momento d’oro dell’oligarca vicino alla Lega basta rispolverare il suo curriculum. Moscovita, classe 1974, ha fondato nel 2005 Marshall Capital Partners, società di private equity. Un affare riuscito, che nei primi anni 2000 gli ha fatto accumulare un discreto patrimonio: 2 miliardi di dollari.
Convertito all’ortodossia, ha dato alla causa religiosa un potente megafono fondando Tsagrad Tv, canale apprezzato negli ambienti ultra-conservatori che non di rado fa scolorire al confronto i più “moderati” giornali ufficiali della propaganda russa, Sputnik e RT (messi al bando da Ue e Usa dopo l’invasione in Ucraina).
L’identikit di “patriottico, ortodosso, imperialista” (copyright suo) lo ha accreditato come un punto di riferimento dei movimenti di ultradestra e dell’integralismo cattolico europeo, inciampati nello “Tsagrad Group of Companies”, il consorzio con cui Malofeev rimpingua le casse di decine di organizzazioni caritatevoli russe votate alla promozione della cristianità, tra cui la nota Saint Basil the Great. Nella rete di contatti, tra gli altri, è finito il Rassemblement National (ex Front National) di Marine Le Pen.
Con la Lega e Salvini i contatti sono stati sporadici. Ma intorno all’oligarca russo hanno ruotato personaggi chiave della stagione sovranista a via Bellerio, quando il “Capitano” lanciava il cuore oltre l’ostacolo preferendo la leadership di Putin a quella di Angela Merkel.
È il caso di Claudio d’Amico, ex parlamentare leghista e consigliere del segretario, presente alla firma del memorandum tra Lega e Russia Unita, il partito di Putin, nel marzo 2017 (rinnovato tacitamente due settimane fa, anche se considerato “nullo” dai leghisti).
L’altro trait d’union ha il nome di Alexey Komov, braccio destro di Malofeev e già presidente onorario dell’associazione “Lombardia Russia” animata da Gianluca Savoini, il mediatore dei rapporti tra Carroccio e Mosca.
Acqua sotto i ponti, forse. Quella stagione leghista è oggi rinnegata, ma intanto Malofeev ha acquisito peso e rispetto nell’inner circle del Cremlino, complici le sanzioni occidentali che da quelle parti sono medaglie al petto.
I continui attacchi all’ “ideologia gender”, gli occhiolini alla retorica omofoba e la difesa dei “valori tradizionali”, che negli anni scorsi hanno trovato ospitalità in arene ultra-conservatrici in Italia come il “Congresso delle famiglie” di Verona, vedono ora Malofeev e il suo impero mediatico in sintonia con la retorica che da anni giustifica agli occhi delle élites russe l’invasione e la guerra in Ucraina. La stessa agitata dal patriarca Kirill nella sua “benedizione” della crociata russa contro il Paese vicino.
Non è un caso se un ospite frequente delle tv di Malofeev sia Alexander Dugin, filosofo e ideologo apprezzato da Putin e dal Cremlino negli anni ’90, tra i padri del nuovo pensiero “eurasiatico” che riaffiora ancora una volta nella campagna propagandistica del governo russo intorno all’invasione ucraina. Un’altra sponda alla “nuova Russia” sognata da Putin che così nuova non è.
Da liberoquotidiano.it il 17 marzo 2022.
Il russo Vladimir Strzhalkovsky non è uno degli oligarchi sanzionati dall'Unione europea e dagli Stati Uniti, ma da giorni il suo yacht Ragnar è comunque bloccato in Norvegia. senza carburante. Nessuno infatti vuole rifornirlo. Ex membro del Kgb, la famigerata polizia segreta dell'Unione sovietica, collega e amico del futuro presidente Vladimir Putin, diventato miliardario ed ex presidente del colosso minerario Norilsk Nickek, Strzhalkovsky è un pezzo grosso della nomenklatura di Mosca, con amicizie potentissime al Cremlino e intrecci finanziari all'estero.
Nonostante questo, come detto, il suo nome non nella black list degli amici dello Zar con i beni congelati. L'equipaggio si è visto negare il carburante dai fornitori norvegesi, in più che rigoroso rispetto delle normative occidentali.
Secondo quanto riferito dal sito SuperyachtNews, una autorità per quanto riguarda le imbarcazioni da mille e una notte e i loro movimenti nei mari di tutto il mondo, l'equipaggio, composto da 16 persone ha dovuto addirittura affrontare l'ostilità della folla, che si sarebbe radunata sul molo una volta saputo che il suo proprietario è non solo un oligarca russo, ma pure membro del Kgb. Anche i ricchi (di Mosca) piangono.
Anna Falchi e Ricucci? Che brutta fine la villa delle loro nozze da sogno (grazie a Vladimir Putin). Libero Quotidiano il 16 marzo 2022.
Caccia grossa agli oligarchi russi. Nella lista nera della Ue è stato inserito anche German Khan, importante azionista di Alfa Group, che comprende Alfa Bank. Come ricorda Il Tempo, si tratta della banca che ha finanziato un progetto di beneficenza gestito da Maria Putina, la figlia maggiore di Vladimir Putin. Khan è considerata "una delle persone più influenti della Russia". E ora i Paesi Ue potranno congelare i suoi beni.
E tra questi, ecco Villa Cacciarella, all'Argentario, nel comune di Porto Ercole e detta anche Villa Feltrinelli. L'oligarca russo la comprò all'asta nel 2012 per circa 18 milioni di euro. In precedenza era proprietà di Stefano Ricucci, che la usò nel 2005 come location da sogno per le sue nozze con Anna Falchi. Insomma, la villa di quel matrimonio fa due volte una brutta fine: prima all'asta per i guai di Ricucci, ora "congelata" per la guerra di Putin.
Per inciso, a pagare dazio, anche l'oligarca Viktro Rashnikov, proprietario del colosso siderurgico Mmk: il suo patrimonio netto viene stimato in circa 13 miliardi di dollari. Tra i suoi averi, il jet privato Guefstream G650 e uno yacht da 140 metri, Ocean Victory costruito nel 2014 da Fincantieri, avvistato nei pressi di Capri lo scorso agosto. Fino al primo marzo il "gioiellino" si trovava alle Maldive, oggi invece è stata persa ogni traccia dello yacht.
Articolo del “Financial Times” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 16 marzo 2022.
I power broker di Washington hanno tagliato i legami con clienti di alto profilo dopo l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin. Un gruppo di lobbisti e avvocati ben collegati a Washington hanno guadagnato milioni di dollari negli ultimi otto anni lavorando per clienti russi con legami con il Cremlino, secondo un'analisi del Financial Times.
I dati pubblici raccolti da OpenSecrets ed esaminati dal FT mostrano che i mediatori di potere di Washington hanno guadagnato quasi 50 milioni di dollari dal 2014 rappresentando clienti russi di alto livello. Molte aziende stanno ora cancellando tali contratti sulla scia delle sanzioni occidentali introdotte dopo l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin.
Gli attivisti si sono chiesti se avrebbero dovuto lavorare con i clienti in prima istanza, soprattutto perché alcuni sono stati a volte soggetti a sanzioni dopo che la Russia ha annesso la Crimea nel 2014.
Anna Massoglia, responsabile delle indagini presso OpenSecrets, che tiene traccia delle spese di lobbying negli Stati Uniti, ha detto: "Agenti stranieri e lobbisti hanno preso milioni di dollari da clienti russi prima di cercare di prendere le distanze dopo l'invasione della Russia in Ucraina, nonostante le accuse crescenti di violazioni dei diritti umani".
I dati analizzati dal FT provengono da due fonti: il Senato degli Stati Uniti e il Dipartimento di Giustizia, entrambi i quali mantengono registri delle attività di lobbying. Le rivelazioni incluse in questi database mostrano che alcune delle aziende più potenti di Washington hanno rappresentato gli interessi russi per anni.
Due noti gruppi di lobbying in particolare hanno svolto un lavoro lucrativo per clienti russi negli ultimi anni: Mercury e BGR.
Il partner di Mercury Bryan Lanza, che è stato consigliere dell'ex presidente Donald Trump, ha guadagnato 2,3 milioni di dollari dal 2014 rappresentando due grandi clienti russi: Sovcombank, una banca russa di medie dimensioni, e EN+, il gruppo metallurgico fondato da Oleg Deripaska.
Gli archivi del Senato mostrano che David Vitter, un ex senatore repubblicano e ora partner della società di lobbying Mercury, stava scrivendo lettere ai legislatori già il mese scorso, esortandoli a non imporre sanzioni a Sovcombank.
Farlo sarebbe stato "estremamente controproducente", ha avvertito, a causa dei "profondi legami della banca con le istituzioni statunitensi e occidentali".
Lo sforzo di lobbying non ha funzionato, tuttavia: solo poche settimane dopo, l'amministrazione Biden ha congelato i beni della banca che toccano il sistema finanziario statunitense e ha vietato ai cittadini statunitensi di trattare con il prestatore.
Mercury ha lavorato per EN+ per anni, e ha svolto un ruolo cruciale nel sostenere la rimozione delle sanzioni dalla società nel 2018. Mentre la società era sotto sanzioni, Mercury ha elencato come cliente Greg Barker, l'ex ministro conservatore britannico che era allora il suo presidente non esecutivo. Barker si è dimesso dalla società all'inizio di questo mese.
Mercury ha nelle ultime settimane cancellato entrambi i contratti. Ha rifiutato di commentare ulteriormente.
BGR nel frattempo, ha rappresentato il gasdotto Nord Stream 2 tra la Russia e la Germania, e Uranium One, una società mineraria di proprietà della società nucleare statale russa Rosatom.
BGR è nota a Washington per rappresentare i governi stranieri, compresi quelli del Bangladesh, Bahrain e Kazakistan. Uno dei suoi fondatori, Haley Barbour, era un ex governatore repubblicano del Mississippi.
BGR ha cancellato i contratti. Non ha risposto a una richiesta di commento.
Altri grandi contratti sono andati a individui ben introdotti piuttosto che ad aziende.
Uno di questi è Vin Roberti, un donatore che ha dato 683.000 dollari ai democratici dal 2018 e che ha rappresentato per anni Nord Stream 2, guadagnando 9,1 milioni di dollari nel processo. È presidente della società di politica pubblica Roberti Global.
Il Nord Stream 2, che è una filiale della società energetica russa Gazprom, è stato controverso per anni, con il governo degli Stati Uniti che ha avvertito che minacciava di minare la sicurezza energetica dell'Europa.
I documenti del Senato mostrano che Roberti ha fatto pressione sui membri del Congresso sulla minaccia di potenziali sanzioni americane già a gennaio.
Il mese scorso, tuttavia, Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, ha messo in pausa il progetto dopo che Mosca ha riconosciuto due regioni secessioniste dell'Ucraina come repubbliche indipendenti. Tre giorni dopo, Roberti Global ha terminato il contratto. L'azienda ha rifiutato di commentare.
Adam Waldman nel frattempo, un avvocato di Washington la cui lista di clienti stellati ha incluso l'attore Johnny Depp, ha lavorato direttamente per Deripaska.
Deripaska è stato sanzionato insieme ad altri sei ricchi uomini d'affari nel 2018 a causa dei suoi stretti legami con il Cremlino. Il Tesoro degli Stati Uniti ha notato all'epoca che era stato indagato per riciclaggio di denaro e accusato di aver minacciato la vita di rivali commerciali.
Deripaska ha respinto le accuse l'anno scorso come "congetture, voci e sciocchezze".
Waldman ha rappresentato i suoi interessi negli Stati Uniti, assumendo anche una commissione direttamente da Sergei Lavrov, il ministro degli esteri russo, nel 2010 per fare pressione sugli Stati Uniti per concedere un visto a Deripaska. Lavrov scrisse a Waldman all'epoca: "Credo che il coinvolgimento della vostra azienda contribuirà agli sforzi in corso volti a raggiungere una risoluzione positiva di questo problema".
Waldman non ha risposto a una richiesta di commento.
I lobbisti hanno difeso privatamente il loro lavoro, sottolineando che la Russia non era considerata dagli Stati Uniti come uno stato paria fino a poco tempo fa.
Uno di essi ha detto: "A volte si rifiuta il lavoro perché troppo controverso, ma fino alle ultime settimane, molti di questi clienti non rientravano in questa categoria. Siamo stati tutti sorpresi dalla velocità con cui questa situazione si è mossa, e abbiamo dovuto rispondere di conseguenza".
Manila Alfano per “il Giornale” il 16 marzo 2022.
I momenti drammatici e la tensione che emerge anche nelle questioni che potrebbero essere le più semplici: quello dei premier in visita a sostegno dell'Ucraina doveva essere un segnale da inviare ma sta diventando l'ennesimo caso di spaccatura interna alla Ue.
Il premier di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia, si sono recati ieri a Kiev per incontrare il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Mateusz Morawiecki, Petr Fiala e Janez Jansa «andranno a Kiev come rappresentanti del Consiglio europeo, per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il primo ministro Denys Chmygal», si legge nella nota del governo polacco. «La tua lotta è la nostra lotta e insieme vinceremo» ha detto Jansa.
«Lo scopo della visita è confermare l'inequivocabile sostegno dell'intera Unione Europea alla sovranità e all'indipendenza dell'Ucraina e presentare un ampio pacchetto di sostegno allo Stato e alla società ucraini».
«Dobbiamo fermare questa tragedia al più presto» ha aggiunto Morawiecki. Il vicepremier polacco, Yaroslav Kaczynski, ha proposto di inviare una missione Nato o una missione internazionale più ampia in Ucraina «per portare aiuti e pace» ma che sia «in grado di difendersi».
Eppure la Ue resta fredda sul viaggio a Kiev dei primi ministri partiti in treno. Obiettivo dei tre leader: rendere visibile anche sul piano personale il sostegno alla popolazione ucraina. Il premier polacco aveva indicato che la visita era stata concordata con la Ue e che l'iniziativa era in rappresentanza dell'Unione. In realtà il Consiglio è stato informato dell'iniziativa, ma non c'è alcun mandato europeo affidato ai tre leader nazionali. Di qui la freddezza del Consiglio.
Un alto funzionario del Consiglio Ue ha indicato che il presidente Charles Michel era stato informato la settimana scorsa da Morawiecki del viaggio a Kiev e che aveva fatto presente i rischi per la sicurezza.
Anche il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, è giunto in visita a Kiev, mentre il commissario europeo all'Ambiente, il lituano Virginijus Sinkevicius, si è recato a Leopoli in Ucraina in solidarietà con la popolazione.
«Sono in Ucraina perché non ho paura. Uomini e donne in Ucraina non hanno paura dei ricatti e delle minacce del Cremlino, lituani ed europei non ne hanno paura. Psicologicamente l'Ucraina ha già vinto questa guerra. Ora dobbiamo aiutarla tutti a vincere sul campo», ha scritto il commissario in un post.
Intanto si combatte anche con le sanzioni. La nuova lista nera arriva a 370 nomi in più, se si includono una ventina di politici, funzionari e figure del business bielorussi. E porta a oltre 1000 il totale d'individui, entità, aziende e filiali russe colpite dal governo Tory di Boris Johnson dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina.
Fra i russi, entrano a far parte dell'elenco dei sanzionati britannici pure il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, e quella del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, bollati come megafoni della «disinformazione» e della propaganda del «regime di Putin»; oltre a familiari di oligarchi e politici «alleati» del presidente russo.
Colpita inoltre la Internet Research Agency, che Londra definisce «famigerata fabbrica russa di troll». Liz Truss, ministra degli Esteri di Johnson, ha formalizzato l'iniziativa precisando che la corsa alle sanzioni, calibrata di concerto con gli alleati, non si fermerà qui grazie agli strumenti normativi resi disponibili dall'approvazione finale al Parlamento di Westminster della riforma legislativa del cosiddetto Economic Crime Act.
Sono 15 persone in più e 9 entità i nuovi soggette inclusi nelle sanzioni Ue sull'invasione russa all'Ucraina pubblicate ora nella Gazzetta ufficiale europea. L'agenzia Tass riferisce che Mosca ha vietato al presidente degli Starti Uniti Joe Biden di entrare in Russia e vieta l'ingresso anche al premier canadese Justin Trudeau.
Estratto dell'articolo di Francesca Basso per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2022.
«È chiaro che l'Ucraina non è un membro della Nato. Lo capiamo questo. Per anni abbiamo sentito parlare di presunte porte aperte, ma abbiamo sentito dire che non possiamo entrarci. E questo è vero, e dobbiamo ammetterlo».
ary Force (Jef), il gruppo di lavoro guidato dal Regno Unito lanciato al vertice Nato in Galles nel 2014, composto dalle forze armate britanniche e da nove nazioni partner: Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Islanda. […]
La Nato anche ieri ha confermato il sostegno all'Ucraina attraverso «equipaggiamento militare e assistenza finanziaria e umanitaria» e ha ribadito il «diritto fondamentale all'autodifesa» di Kiev. Per ora sono le sanzioni e le contro-sanzioni a prevalere sul dialogo tra Russia e Occidente. Il quarto pacchetto dell'Ue è entrato in vigore ieri così come quello della Gran Bretagna.
Mosca ha risposto al pacchetto di misure del G7 sanzionando il presidente Usa Joe Biden, il segretario di Stato Antony Blinken e il capo del Pentagono Lloyd Austin, il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, la portavoce Jen Psaki, il capo della Cia William Burns e il capo degli Stati Maggiori Riuniti, Mark Milley. Anche il figlio Hunter Biden e Hillary Clinton sono finiti nella lista.
«Nessuno di noi sta programmando viaggi in Russia o ha conti correnti bancari in Russia, quindi andiamo avanti», ha risposto Psaki a una domanda sulle misure russe. Il presidente Biden verrà invece in Europa la prossima settimana per partecipare giovedì a Bruxelles al vertice Nato straordinario e al Consiglio europeo con l'obiettivo di riaffermare l'impegno «ferreo» degli Stati Uniti verso gli alleati. E annuncerà anche aiuti militari per 800 milioni di dollari all'Ucraina. Nella lista nera di Mosca ci sono anche 313 cittadini canadesi tra cui il premier Justin Trudeau e le ministre degli Esteri e della Difesa, Melanie Joly e Anita Anand.
Diana Calvalcoli per il corriere.it il 10 marzo 2022.
Alla fine le sanzioni sono arrivate anche per il patron del Chelsea, Roman Abramovich. Secondo quanto riporta Reuters, il Regno Unito ha aggiornato nella giornata del 9 marzo la lista degli oligarchi russi sanzionati in quanto ritenuti vicini al presidente Vladimir Putin. Il governo guidato da Boris Johnson ha fatto sapere di aver imposto il congelamento dei beni per Roman Abramovich, Igor Sechin, Oleg Deripaska e Dmitri Lebedev. «Non ci possono essere porti sicuri per coloro che hanno sostenuto il feroce assalto di Putin all’Ucraina», ha detto il primo ministro britannico Boris Johnson.
Le sanzioni contro Abramovich
Nel dettaglio ad Abramovich sarà vietato fare affari con persone residenti in Regno Unito e con aziende inglesi, in più non potrà viaggiare nel paese. Le sanzioni erano prevedibili tanto che il miliardario nelle ultime settimane aveva cercato di ‘liberarsi’ dei suoi asset. Pochi giorni fa il 55enne aveva annunciato la vendita del Chelsea Football Club e di voler donare il ricavato alle vittime della guerra in Ucraina.
Il deputato britannico, Chris Bryant, aveva poi dichiarato pubblicamente come Abramovich stesse cercando di vendere la sua villa di 15 camere da letto a Kensington Palace Gardens per evitare le sanzioni. In parallelo, lo yacht Solaris da 600 milioni di dollari legato ad Abramovich ha lasciato il cantiere navale di Barcellona dove era stato sottoposto a riparazioni. Anche Eclipse, l’altro superyacht da 163 metri dell’oligarca, attualmente si trova nei pressi delle Isole Vergini britanniche. Ben lontano da possibili sequestri.
Colpito anche Deripaska, il re dell’alluminio
Tra i sanzionati in Regno Unito anche il «re dell’alluminio» Oleg Deripaska che si era dichiarato contrario alla guerra in Ucraina. Il magnate che ha costruito la sua fortuna da 3,8 miliardi sulle materie prime russe ed è l’ex genero dell’ex presidente russo Boris Eltsin, aveva chiesto la fine della guerra in un post su Telegram. Il fondatore di Basic Element, gruppo industriale russo con interessi in alluminio, energia, costruzione, agricoltura, aveva scritto: «Il mondo è molto importante! I negoziati devono iniziare il più presto possibile».
Una posizione che non gli ha però risparmiato le sanzioni in Regno Unito. Colpito anche Dmitri Lebedev, presidente di Bank Rossiya, Alexei Miller, l’amministratore delegato della società energetica Gazprom, e Nikolai Tokarev, presidente della società statale di gasdotti Transneft.
Da leggo.it il 12 marzo 2022.
La barca a vela più grande del mondo è stata congelata dalla Guardia di finanza. Si tratta dell'imbarcazione «Sailing yacht A» dell'oligarca russo Andrey Igorevich Melnichenko dal valore di circa 530 milioni di euro: l'iniziativa è nell'ambito delle misure prese nei confronto degli oligarchi russi inseriti nella black list dell'Unione europea. Secondo quanto si apprende l'imbarcazione era in rimessaggio nel porto di Trieste.
Melnichenko è stato incluso, insieme ad altri 13 suoi connazionali, nella black-list che ora conta 862 persone fisiche e 53 persone giuridiche. La barca è stata costruita nel 2017 nei cantieri di Nobiskrug, in Germania, è lunga 142 metri, ha un albero maestro di 90 metri e la parte emersa alta come un palazzo di 8 piani. Protagonista, neanche a dirlo, è il lusso: al suo interno una piscina, un osservatorio subacqueo e anche una pista per l'atterraggio degli elicotteri degli eventuali ospiti.
Nuova raffica di sanzioni americane agli oligarchi russi e al circolo ristretto di Vladimir Putin. Nel mirino del Tesoro finiscono 10 componenti del consiglio di amministrazione della banca VTB, 12 membri della Duma e la famiglia del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.
La fine di Londongrad. Abramovich, le sanzioni inglesi ‘sequestrano’ il Chelsea: nel mirino di Londra altri 6 oligarchi per un ‘colpo’ da 15 miliardi. Redazione su Il Riformista il 10 Marzo 2022.
Che sia arrivata la fine di Londongrad, come in maniera dispregiativa viene chiamata la capitale inglese che da anni è meta preferita degli oligarchi russi? Le ultime mosse del governo britannico di Boris Johnson vanno certamente in questa direzione, con nuove pesanti sanzioni nei confronti degli imprenditori arricchitisi grazie ai rapporti privilegiati col Cremlino e Vladimir Putin.
Il governo di Sua Maestà ha annunciato oggi di aver congelato i beni e imposto il divieto di spostamento a 7 oligarchi russi nell’ambito delle sanzioni imposte contro individui ed entità russe in risposta all’operazione militare di Mosca contro l’Ucraina.
Chi sono gli oligarchi sanzionati
Tra questi ci sono nomi noti anche in Italia: spicca infatti quello di Roman Abramovich, proprietario del Chelsea, il club di Londra e detentore della Champions League. Con ci sono poi l’imprenditore Oleg Deripaska, che ha partecipazioni in En+ Group, l’amministratore delegato di Rosneft Igor Sechin, il presidente della banca Vtb Andrey Kostin, l’amministratore delegato di Gazprom Aleksej Miller, il presidente della compagnia di oleodotti di proprietà statale russa Transneft, Nikolai Tokarev, e il presidente del Consiglio di amministrazione della Rossija Bank, Dmitrj Lebedev.
Per questo motivo, verranno congelati i loro beni nel Regno Unito e sarà vietato loro l’ingresso nel Paese e nessun cittadino o azienda del Regno Unito potranno fare affari con le persone nella lista. Un ‘colpo’ da 15 miliardi di sterline, quasi 18 miliardi di euro, quello inferto dal governo britannico agli oligarchi russi.
“Non possono esserci rifugi sicuri per coloro che hanno sostenuto il feroce assalto di Putin all’Ucraina. Le sanzioni di oggi sono l’ultimo passo nel sostegno incrollabile del Regno Unito al popolo ucraino. Saremo spietati nel perseguire coloro che consentono l’uccisione di civili, la distruzione di ospedali e l’occupazione illegale di alleati sovrani“, ha spiegato il premier britannico Boris Johnson.
Da parte sua la ministra degli Esteri Liz Truss ha aggiunto: “Le sanzioni di oggi mostrano ancora una volta che oligarchi e cleptocrati non hanno posto nella nostra economia o società. Con i loro stretti legami con Putin sono complici della sua aggressione“. Secondo Truss, “il sangue del popolo ucraino è nelle loro mani” e quindi “dovrebbero chinare la testa per la vergogna“.
Il caso Chelsea
Le sanzioni disposte dal governo britannico avranno grosse ripercussioni sul Chelsea, che Roman Abramovich aveva messo in vendita nei giorni scorso dopo le prime sanzioni sancite dall’occidente nei confronti della Russia.
Il processo di cessione del club è stato infatti temporaneamente sospeso. Abramovich, che è l’ottavo uomo più ricco di Russia con un patrimonio stimato in 13 miliardi di euro, aveva comprato la società nel 2003 e ne aveva annunciato la vendita con l’intenzione di devolvere i ricavi alle vittime della guerra ucraina.
Ora però l’operazione viene bloccata e il governo inglese ha garantito al club una speciale deroga che consentirà di disputare le partite, di pagare il personale e fare assistere alle partite i possessori di biglietti, privando invece Abramovich della possibilità di beneficiare della sua proprietà del club.
Il Chelsea da parte sua ha reso noto che intende “avviare discussioni con il governo in merito alla portata della licenza“, “al fine di consentire al club di operare nel modo più normale possibile. Cercheremo inoltre – si legge ancora – indicazioni dal governo sull’impatto di queste misure sulla Chelsea Foundation e sul suo importante lavoro nelle nostre comunità“.
Roman Abramovich, "prove false": la polizia indaga sulla concessione della cittadinanza, c'è già un arresto. Libero Quotidiano il 12 marzo 2022.
Nuovi guai per Roman Abramovich? Dopo le sanzioni europee in risposta all'invasione russa dell'Ucraina, ecco che l'ex patron del Chelsea deve fare i conti con un'altra questione: l'arresto di Daniel Litvak. L'uomo, rabbino capo di Porto, terza città del Portogallo, è stato arrestato nell'ambito di una indagine per frode sulla naturalizzazione del miliardario russo. Litvak, riferisce oggi l'agenzia stampa Lusa, è stato arrestato giovedì. Voleva rifugiarsi in Israele. Il religioso - aggiunge l'agenzia - sarebbe stato interrogato nella giornata di sabato 12 marzo per due ore. Nel frattempo gli è stato sequestrato il passaporto e si prevede che otterrà la libertà condizionale.
Il rabbino è sospettato di aver avallato false prove sulla discendenza di Abramovich da ebrei portoghesi, grazie alle quali il miliardario ha ottenuto l'anno scorso la cittadinanza portoghese, oltre a quella russa e israeliana. Le autorità portoghesi stanno anche indagando su vari membri della comunità ebraica di Porto, accusati di corruzione, falsificazione di documenti, riciclaggio di denaro sporco, evasione fiscale e associazione a delinquere, per aver aiutato illegalmente diversi ebrei a ottenere la cittadinanza portoghese.
Non solo, perché grazie alle carte presentate, Abramovich ha ottenuto l'ambita cittadinanza europea nell'aprile 2021. Il tutto sulla base di una legge che offre la naturalizzazione ai discendenti degli ebrei sefarditi che furono espulsi dalla penisola iberica durante l'Inquisizione medievale. Le genealogie dei candidati sono controllate dagli esperti di uno dei centri ebraici portoghesi di Lisbona o Porto. Il centro di Porto, dove Litvak è il rabbino, era responsabile del processo di Abramovich. I pubblici ministeri hanno aperto così l'inchiesta a gennaio e, a seconda di come si evolve l'indagine, potrebbero decidere la revoca della cittadinanza al magnate russo.
"Indagato il suo rabbino": cosa rischia adesso Abramovich. Samuele Finetti il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il rabbino portoghese che ha valutato la richiesta di cittadinanza è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e frode. Il patron del Chelsea rischia di perdere il suo status di cittadino.
Nuova tegola per il miliardario russo Roman Abramovich, fino a pochi giorni fa proprietario del Chelsea. Daniel Litvak, il rabbino che ha aiutato l'oligarca (nato nella città russa di Saratov 55 anni fa) a ottenere la cittadinanza del Portogallo, è stato arrestato con l'accusa di riciclaggio di denaro, corruzione, frode e falsificazione di documenti nell'ambito di questi procedimenti burocratici. E Abramovich rischia di perdere il titolo di cittadino del paese iberico.
Al centro delle indagini delle autorità portoghesi sono una serie di concessioni di cittadinanza rilasciate ai discendenti di ebrei sefarditi (ovvero ebrei che abitavano nella penisola iberica), tra cui l'ex patron del club londinese di calcio. Abramovich, infatti, ha ottenuto la cittadinanza portoghese nell'aprile del 2021 in base a una legge che garantiva la naturalizzazione ai discendenti degli ebrei vissuti in Spagna e Portogallo ed espulsi alla fine del XV secolo per volere di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia. Chiunque richieda la cittadinanza portoghese attraverso questo percorso viene sottoposto a una valutazione, condotta da alcuni esperti delle comunità ebraiche di Porto o Lisbona e basata su approfondite verifiche genealogiche. Litvak è il rabbino della comunità di Porto ed era stato lui a valutare la richiesta del paperone russo, nato da una famiglia di origini ebraiche. Litvak è stato fermato mentre stava partendo per Israele: ha dovuto consegnare il proprio passaporto ed è stato sottoposto all'obbligo di presentarsi se convocato dalla polizia.
Anche Abramovich nella "lista nera": "Congelati tutti i beni nel Regno Unito"
La comunità ebraica della città portoghese ha respinto le accuse e ha affermato di essere oggetto di una "campagna diffamatoria". Eppure l'inchiesta procede da alcune settimane - almeno da gennaio - e una fonte del governo portoghese, interrogata dall'agenzia inglese Reuters, ha detto che ad Abramovich "potrebbe essere revocata la cittadinanza a seconda dell'esito dell'indagine". L'oligarca è uno dei sette miliardari russi colpiti dalle nuove sanzioni imposte dall'Occidente: i suoi beni sono stati congelati e gli sono stati vietati alcuni spostamenti. All'inizio di marzo ha ceduto la gestione del Chelsea Football club a una fondazione, diciannove anni dopo aver acquistato la squadra.
Roman Abramovich aggira le sanzioni: yacht nel paradiso degli oligarchi nel cuore dell'Europa. Libero Quotidiano il 12 marzo 2022.
Alla fine Roman Abramovich ha fregato tutti. Dopo la fuga martedì 8 marzo dal porto di Barcellona, in Spagna, dove era in riparazione, il suo mega yacht My Solaris è approdato questa mattina 12 marzo al porto di Teodo in Montenegro, dove non sono in vigore sanzioni né confische contro gli oligarchi russi. Secondo l'app Marine Traffic, infatti, il natante da 600 milioni di euro, lungo 140 metri e consegnato l'anno scorso dal cantiere navale Lloyd Werft di Bremerhaven in Germania, è arrivato a Porto Montenegro, una marina per super yacht, appunto, diventata la meta prediletta dei magnati amici di Putin.
Insomma, dopo aver vagato per giorni nel Mediterraneo, apparentemente senza una meta e dopo le voci che voleva lo yacht diretto nelle Seychelles o alle Maldive dove non esiste l'estradizione né alcun provvedimento contro i magnati vicini al presidente russo, il My Solaris ha fregato tutti ed è rimasto "sano e salvo" nel cuore dell'Europa. Una vera e propria beffa.
Intanto, Elipse, l'altra imbarcazione di lusso di Abramovich, lunga addirittura 163 metri, partita nei giorni scorsi dalle Isole Vergini britanniche, in queste ore sta invece attraversando lo stretto di Gibilterra e potrebbe avere la stessa destinazione. Il Montenegro è infatti considerato il "porto sicuro" per molti oligarchi russi. Sono disposti a sborsare anche 450 mila euro per ricevere la cittadinanza montenegrina, mettendo così in sicurezza il proprio patrimonio, ha scritto nei giorni scorsi il quotidiano viennese Kurier.
Abramovich, l’oligarca vicino a Putin, vola a Mosca per evitare le sanzioni. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2022.
Fotografato in aeroporto a Tel Aviv prima di tornare in Russia: anche la Ue lo inserisce tra gli uomini d’affari vicini al Cremlino. E Londra prepara la confisca di una casa da 150 milioni di dollari. Un uomo in fuga: Roman Abramovich, l’oligarca russo più famoso in Occidente, è stato costretto a riparare a Mosca, inseguito dal cappio delle sanzioni. Il magnate è stato fotografato lunedì pomeriggio all’aeroporto di Tel Aviv, in Israele: solo soletto, in jeans e felpa, aspettava di imbarcarsi sul suo jet privato, un Gulfstream da 55 milioni di euro, in procinto di volarsene prima a Istanbul e di lì in Russia. Poco prima, il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, aveva detto che il suo Paese non si sarebbe prestato a diventare «una rotta per bypassare le sanzioni».
La scorsa settimana il governo britannico aveva congelato tutti i beni di Abramovich e imposto un bando all’oligarca: in questo modo era stata anche di fatto bloccata la vendita della sua squadra di calcio, il Chelsea, che il magnate aveva messo sul mercato nel tentativo di aggirare le sanzioni in arrivo. Abramovich, con una mossa di pubbliche relazioni che non aveva convinto nessuno, aveva anche annunciato che avrebbe donato i proventi della cessione alle vittime della guerra in Ucraina: e qualche giorno prima aveva addirittura tentato di accreditarsi come improbabile mediatore fra Kiev e Mosca.Ma la verità è che Abramovich è uno degli oligarchi più vicini a Putin: la ministra degli Esteri britannica, Liz Truss, lo ha accusato di avere «le mani sporche di sangue», perché secondo Londra le sue acciaierie servono a costruire i carri armati impiegati dal Cremlino nella devastazione dell’Ucraina. E una giornalista inglese, Catherine Belton, lo aveva in passato accusato di aver comprato il Chelsea su ordine diretto di Putin: anche se Abramovich aveva poi fatto causa per diffamazione e vinto.
Lunedì anche l’Unione Europea lo ha colpito con le sanzioni: e l’oligarca è dovuto correre ai ripari per mettere al sicuro il proprio tesoro. Il suo superyacht Solaris, che vale oltre mezzo miliardo, è stato fatto salpare in tutta fretta la scorsa settimana da Barcellona, prima ancora che fossero finite le riparazioni in programma: ma lunedì ha dovuto levare l’ancora pure dal Montenegro, dove si era riparato, dopo che il Paese balcanico ha annunciato che si sarebbe adeguato alle sanzioni europee. Ora il Solaris è diretto verso la Turchia, mentre l’altra megabarca di Abramovich, l’Eclipse , è fuggita dall’isola caraibica di Saint Martin (che è parte della Ue) e si è portata in acque internazionali.
Ma adesso a rischiare la confisca è la magione da 150 milioni che l’oligarca possiede a Londra, in Kensington Palace Gardens, la cosiddetta «via dei milionari» a due passi dalla residenza di William e Kate. Abramovich, in virtù di quella residenza, è tecnicamente un inquilino della regina Elisabetta, che ha la proprietà dei terreni: l’oligarca deve pagare alla sovrana decine di migliaia di sterline l’anno, ma ora a causa delle sanzioni gli è vietato fare trasferimenti di danaro. Quindi il palazzo potrebbe essere requisito per inadempienza.
Già nel 2018 ad Abramovich era stato rifiutato da parte di Londra il «visto d’oro» che viene concesso ai grandi investitori. Lui allora, che è di origine ebraica, aveva preso il passaporto israeliano per potere andare liberamente in Gran Bretagna: ma intanto nel 2020 si è comprato una proprietà di 9.500 metri quadri giusto fuori Tel Aviv. Nella stessa città il magnate possiede anche una casa da 35 milioni e un ufficio su cinque piani da 70 milioni. Investimenti che non sono bastati a «ripulirlo»: la scorsa settimana lo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, ha sospeso i rapporti con l’oligarca, che aveva fatto una donazione.
Roman Abramovich, la fidanzata segreta Alexandra Korendyuk è un’attrice di origini ucraine. Simona Marchetti Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.
Secondo la giornalista di gossip russa Bozhena Rynsk, il 55enne oligarca amico di Putin frequenterebbe da un anno Alexandra Korendyuk, 25enne attrice e imprenditrice nel settore musicale. Abramovich ha divorziato dalla terza moglie nel 2018.
A causa dei suoi stretti legami con Vladimir Putin, il governo inglese gli ha congelato i beni e la Premier League lo ha fatto fuori dalla gestione del Chelsea, ma ora tocca alla vita privata di Roman Abramovich essere messa in piazza. L’oligarca russo ha infatti una relazione segreta con la 25enne Alexandra Korendyuk, la cui famiglia ha origini ucraine. A scoprire (e rivelare) l’altarino del 55enne oligarca, ottavo uomo più ricco di Russia, è stata la giornalista russa Bozhena Rynska, che ha una rubrica di gossip e che per prima nel 2008 scrisse che Abramovich stava per sposare la sua terza moglie, Dasha Zhukova, com’è poi in effetti accaduto.
IL RITRATTO DELL’OLIGARCA
Chi è Abramovich: Putin, il Chelsea, lo yacht, i tre divorzi, il patrimonio
Per la verità, le prime voci di una storia fra il tycoon amico di Putin e la bella imprenditrice e star televisiva (è apparsa in due episodi della serie russa «You’re All P***ing Me Off») avevano iniziato a girare già lo scorso ottobre, ma ora si sono intensificate, e per il momento non sono state smentite. «La nuova ragazza di Roman Abramovich è molto interessante — racconta la Rynska nella sua rubrica rilanciata da molti media inglesi, dal Times al tabloid Sun — . All’inizio dell’anno si diceva che il cuore dell’oligarca fosse stato conquistato da Alexandra Korendyuk. Ci sono pochissime informazioni sulla ragazza, ma si dice sia la fondatrice di un’azienda nel settore musicale e che si sia anche cimentata come attrice».
Come riporta il Sun , pare che la Korendyuk sia effettivamente la fondatrice dell’Institute of Music Initiatives, che aiuta i musicisti emergenti, mentre una fonte non meglio specificata ha sottolineato al tabloid che il cognome della ragazza sarebbe legato a radici familiari ucraine. «È ironico che Abramovich sia collegato a una donna di origini ucraine, proprio mentre viene sanzionato economicamente a causa della guerra e della sua vicinanza a Putin — ha commentato l’insider — . È facile capire cosa ci veda in lei e questa è una relazione che dura apparentemente da un anno». Dopo il divorzio dalla Zhukova nel 2018, si diceva che Abramovich — che ha sette figli — si fosse innamorato della 45enne ballerina russa Diana Vishneva, ma all’epoca il suo portavoce smentì la storia, definendola «una sciocchezza».
Dagotraduzione dal Daily Mail l'11 marzo 2022.
Il congelamento dei beni e il divieto di viaggio comminato a Roman Abramovich non mette fine solo alla sua vita di lusso, ma anche a quella dei suoi sette figli.
La più nota della stirpe è l’affascinante Sofia, 27 anni, laureata alla Royal Holloway e cavallerizza esperta, che ha recentemente festeggiato con i Beckham e i Ramsay. È la terza dei cinque figli nati dal secondo matrimonio di Abramovich con l'ex assistente di volo Irina, insieme ad Anna, 30 anni, laureata in filosofia che vive negli Stati Uniti, e all'uomo d'affari in erba Arkadiy, 28, mentre i fratelli Arina, 21, e Ilya, 19, preferiscono stare fuori dai riflettori.
Abramovich ha anche due figli dal matrimonio con la terza moglie, Dasha Zhukova. Il figlio Aaron, 12 anni, e la figlia Leah Lou, otto anni, vivono con la madre a New York.
Il feed Instagram di Sofia è pieno di scatti di vacanze a Ibiza, alle Maldive e a St. Barts, dove Abramovich ha una tenuta di 70 acri. In altre foto si allena o prende parte a gare di salto ostacoli; ha rappresentato la Russia a Londra nel 2014.
Sofia divide il suo tempo tra Londra, la Fyning Hill Estate di 425 acri della famiglia a Petersfield, nel West Sussex, diventata di Irina dopo il divorzio insieme a 150 milioni di sterline in contanti.
La scorsa settimana Sofia ha pubblicato un'immagine sulle Stories di Instagram con la frase "La Russia vuole una guerra con l'Ucraina", dove la parola Russia era barrata e sostituita con "Putin". Un secondo post diceva: «La bugia più grande e di maggior successo della propaganda del Cremlino è che la maggior parte dei russi sta con Putin». Ha anche condiviso un'immagine di Putin con una linea rossa su di lui.
Resta da vedere se i post saranno sufficienti a salvare Sofia dalla stessa sorte toccata a Ivanka Trump, che dopo l’elezione del padre è stata tratta con freddezza dalla maggior parte dell'alta società di New York.
L'affascinante Sofia ha sei fratelli e fratellastri dai vari matrimoni di suo padre. Sua madre Irina, una ex hostess e seconda moglie di Roman, è stata sposata con lui per 16 anni e gli ha dato cinque figli: Anna, 30 anni, Arkadiy, 28, Sofia, Arina, 21 e Ilya, 19.
Anna, che ha studiato filosofia alla Columbia University di New York e continua a vivere negli Stati Uniti, ha fatto notizia quando si è fidanzata a 18 anni (in seguito si sono separati) e in precedenza ha festeggiato con Calum Best e il figlio di Ronnie Wood, Jamie.
Arkadiy sta seguendo le orme del padre e sta costruendo il proprio impero commerciale in Russia. A 21 anni ha già la sua società di investimento, ARA Capital.
Quando è stato annunciato il suo divorzio da Irina, Roman era stato avvistato numerose volte con la futura signora Abramovich, Darya Zhukova, un'ex modella nota come Dasha, con la quale ha due figli, Aaron, 12, e Leah Lou, otto. La coppia ha divorziato nel 2017.
Da liberoquotidiano.it il 10 marzo 2022.
Esattamente come ci si aspettava, My Solaris, il super-yacht di Roman Abramovich, è salpato dal porto di Barcellona. Una vera e propria fuga, che in realtà i media ipotizzavano da giorni, per mettere l'imbarcazione da 500 milioni di euro in sicurezza da eventuali provvedimenti contro i patrimoni degli oligarchi russi in Europa.
In questo momento stando all'app Marine Traffic, la barca extra lusso del magnate russo nelle scorse ore ha lasciato la città spagnola e sta viaggiando a una velocità di 14,6 nodi a nord delle isole Baleari.
My Solaris, realizzato dal cantiere navale Lloyd Werft di Bremerhaven in Germania, è stato consegnato solo l'anno scorso ad Abramovich. Il natante è lungo 140 metri e dispone di 48 cabine.
Negli ultimi giorni al porto di Barcellona erano stati notati dei movimenti sull'imbarcazione che ha fatto pensare a un imminente partenza. Anche Eclipse, l'altro super-yacht da 163 metri dell'oligarca, attualmente risulta in viaggio nei pressi delle Isole Vergini britanniche. Entrambe le imbarcazioni viaggiano sotto bandiera delle Bermuda.
Intanto, gli ambasciatori dell'Ue, riuniti nel Coreper II, hanno approvato nuove sanzioni contro i leader e gli oligarchi russi e i loro familiari coinvolti nell'aggressione russa contro l'Ucraina. Lo riferisce la presidenza di turno francese del Consiglio.
In particolare, le misure approvate mirano a escludere tre banche bielorusse dal sistema Swift. Chiariscono la questione delle criptovalute e completano l'elenco delle tecnologie e dei beni che non possono essere esportati.
Tali sanzioni saranno formalmente adottate dal Consiglio mediante procedura scritta in vista della loro rapida pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.
Estratto dell'articolo di Brunella Giovara per “la Repubblica” l'11 marzo 2022.
I russi, che diavoli. Mille ne pensano, anche di imbavagliare i loro lavoranti come questo Gigi, giardiniere fisso in grande tenuta di oligarca innominabile: «Vorrei urlare contro il padrone, mi ha appena licenziato, quello str», dice sulla strada per Porto Cervo, appoggiato al furgone con scale e attrezzi e schiumante rabbia.
«Mi chiamano venerdì: la proprietà è sotto sequestro, il tuo contratto si ferma lunedì». Uno dei tanti, Gigi che non si chiama Gigi, come tutti ha firmato la clausola di riservatezza quindi «non posso dire per chi lavoravo, né quello che so e ho visto. Sono invisibile». Le sanzioni hanno colpito i russi anche in Costa Smeralda, dove migliaia di ettari sono loro, e da anni.
È la caduta degli dei, i miliardari e le corti di ospiti e servitù viaggiante tra Mosca, Ginevra, Londra, Gstaad, e nella caduta si trascinano dietro centinaia di sardi che su questo campavano.
Il lusso, le tenute sul mare della Gallura, un tempo si chiamava jet set, oggi è un sistema che sembrava eterno come il granito di queste parti, ma è franato in un paio di giorni. È il mondo che va all'incontrario, «più che la chiusura di McDonald's mi colpisce quella dei negozi di Prada. Se chiude Prada in Russia, è la rivoluzione!», dice una signora sciocchina, seduta davanti allo spritz.
La guerra è così lontana da qui, dove è tempo di potature, si preparano le ville per Pasqua, si bagnano i prati. Non quelli russi, dove sono rimasti solo i vigilantes. «I russi non verranno a Pasqua, e neanche d'estate. Torneranno? Mah. La nostra preoccupazione è altissima», dice Roberto Ragnedda, seduto sul trono di sindaco di Arzachena. Nel suo reame ci sono Cannigione, Baia Sardinia, Porto Cervo, 90 chilometri di costa.
Alle sue spalle sta appesa la cittadinanza onoraria concessa a Peter Gabriel, poi c'è quella ad Alisher Usmanov, oligarca uzbeco che qui ha sei ville. «Tutte congelate, e noi pure, congelati da questa crisi geopolitica dove al primo posto sta la tragedia dell'Ucraina. Poi ci sono le ricadute sul territorio».
Un migliaio di persone, forse più. Le ville (una quarantina, le russe) sono attività produttive, come gli yacht. Il Dilbar di Usmanov, ora sequestrato ad Amburgo, ha un equipaggio di cento persone. Idem per la tenuta nel golfo del Pevero. A Porto Cervo si affitta o si vende villa Walkirie (2900 metri quadri) di Valentina Petrovna, madre del re dell'alluminio Oleg Deripaska.
DAGONEWS il 10 marzo 2022.
Le riprese aeree mostrano la decadenza della tenuta londinese dell'oligarca russo Andrey Guryev.
Guryev è uno stretto collaboratore del presidente Vladimir Putin e l’oligarca che ha fondato il più grande produttore europeo di fertilizzanti fosfatici, la Phosagro. Attualmente la villa è nell'elenco delle sanzioni dell'Unione Europea e si stima che valga 5,66 miliardi di dollari. Guryev ha acquistato la proprietà di 25 camere da letto tramite la famiglia del presidente siriano Bashar al-Assad.
La villa Witanhurst, a nord di Londra, viene spesso definita la seconda casa privata più grande della città. Le sue enormi dimensioni sono superate solo da Buckingham Palace.
Elena Perminova, lo modella moglie dell'oligarca "graziata" da Londra: perché è "intoccabile". Libero Quotidiano il 09 marzo 2022
Non solo Putin. Anche gli oligarchi russi, uomini ricchi e potenti e generalmente molto vicini allo zar, stanno diventando centrali nel racconto della guerra in Ucraina. Si tratta infatti di una delle categorie maggiormente colpite dalle sanzioni imposte dall'Occidente. Tra di loro c'è anche Alexander Lebedev, ex spia del Kgb e proprietario di parte del quotidiano russo Novaya Gazeta, oltre che di due giornali britannici: l'Evening Standard e The Independent. Questi ultimi, però, pare non siano stati colpiti da alcuna sanzione.
Di Lebedev, inoltre, si è parlato anche per via della sua seconda moglie, la modella russa Elena Perminova. I due sono sposati dal 2005 e hanno quattro figli. La donna è molto attiva sui social, dove pubblica spesso foto con i suoi piccoli e non solo. Tra i momenti di vita che condivide con i suoi fan ci sono anche i dietro le quinte dei servizi fotografici e i viaggi.
Tornando al marito, l'oligarca Lebedev, si sa che fino al 2008 aveva un patrimonio di oltre 3 miliardi di dollari che però poi si è ridotto nel tempo. L'uomo è noto soprattutto perché suo figlio Evgeny è stato il primo russo a diventare membro della camera dei Lord, nel 2020. I Lebedev, tra l'altro, fino a poco tempo fa vantano rapporti di amicizia col premier inglese Boris Johnson e con il suo predecessore David Cameron. Senza contare che hanno relazioni più che cordiali con il Cremlino.
Estratto dell'articolo di Jacopo Iacoboni per "La Stampa" l'8 marzo 2022.
Una straordinaria proprietà sulla costa di Pesaro, 26 ettari di territorio, 650 metri di costa disponibile e totalmente privatizzata, casa di 774 metri quadrati. Può mai una funzionaria pubblica – per quanto presidente del Consiglio della Federazione Russa (la camera alta del parlamento) – «permettersi una cosa del genere?»
La domanda segue una investigazione aperta di reporter, partita dal team di Alexey Navalny, e viene posta da Maria Pevchikh, capo delle investigazioni della “Anti-Corruption Foundation”, la fondazione creata dal dissidente avvelenato dall’Fsb di Vladimir Putin in Siberia, e ora rinchiuso in carcere con accuse fabbricate.
Da liberoquotidiano.it il 21 aprile 2022.
Bomba al veleno su Sergey Lavrov, il potentissimo ministro degli Esteri russo, la lunga mano di Vladimir Putin nelle trattative, sempre più difficili, con l'Occidente sulla guerra in Ucraina. L'americano New Lines Magazine, sito specializzato in politica estera (Medio Oriente e Asia in particolare) rilancia una vecchia foto del 2018 che ritrae il ministro a Tokyo in compagnia dell'oligarca russo Oleg Deripaska, sanzionato perché molto vicino al Cremlino, Svetlana Polyakova che secondo il gossip di Mosca è l'amante e compagna-ombra di Lavrov e la giovane Ekaterina Lobanova.
Chi è? Si tratta di una "sex worker" molto famosa in Russia, che conta una "prolifica" carriera nel mondo delle foto erotiche su siti come Naked.me e Peasex.com (dove viene definita, testualmente, "una vera put***a che vuole essere sc***ta con tenerezza"). La foto, verificata, risale al 20 o 21 marzo 2021, quando Lavrov e Deripaska erano "in missione" insieme a un altro importante magnate del settore energetico, Gennady Rovner, per incontrare Angelo Koo, il numero uno della China Development Foundation of Taiwan, «un Paese - sottolinea il magazine - con cui la Russia non ha relazioni ufficiali».
Ovviamente, l'attenzione più piccante è per la presenza della Lobanova. «Insieme a The Insider - si legge - New Lines l'ha identificata come una modella erotica russa. Non sarebbe la prima modella por***o con cui Deripaska ha girato il mondo ma sarebbe la prima con cui è stato fotografato».
.Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera per repubblica.it l'11 marzo 2022.
"Perché non punite anche la figliastra di Sergej Lavrov?", ossia il ministro degli Esteri russo e fedelissimo di Vladimir Putin? È la richiesta di Maria Pevchikh, a capo delle inchieste della Fondazione Anti Corruzione "Fbk" creata dal dissidente Alexej Navalnij, da molti mesi in carcere in Russia e sopravvissuto anche a un tentativo di avvelenamento con mandante molto probabilmente il presidente russo in carica.
Veronica Cursi per ilmessaggero.it il 24 marzo 2022.
Nel suo appartamento milionario a Kensington, una delle zone più esclusive di Londra, erano noti i party da mille e una notte. D'altronde Polina Kovaleva, bellissima e biondissima 26enne, figlia dell'amante del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, non ne faceva mistero postando su Instagram (fino a poco tempo fa) immagini di abiti sfarzosi, viaggi, cene nei ristoranti più alla moda.
La sua casa, da 5 milioni di euro, era stata acquistata in contanti e senza mutuo, ma lei (così come la madre) non aveva alcun reddito. E ora proprio Polina - al pari degli oligarchi russi - è finita nella lista de bersagli delle sanzioni anti-Mosca imposte dal governo di Boris Johnson in risposta all'invasione dell'Ucraina.
L'amante "ufficiale"
La storia di Polina era diventata un caso e da tempo si chiedeva il sequestro del suo appartamento a Kensington. Polina infatti non è ufficialmente legata tramite parentela a Lavrov. Il ministro degli Esteri ha una prima famiglia "ufficiale" nota ai media. Sebbene non si veda in pubblico da molto tempo, Maria Lavrova è la sua consorte da 50 anni. Il matrimonio parallelo di Lavrov con Svetlana Polyakova, madre di Polina, non è mai stato un mistero.
La donna vive a Londra insieme alla figlia 26enne: entrambe dispongono di una collezione di automobili e, appunto, un appartamento di lusso. Nonostante i rapporti noti con Lavrov, per la Gran Bretagna Svetlana è una donna single e disoccupata, così come sua figlia Polina.
Ma queste nuove sanzioni registrano un cambio di rotta che andrebbe a colpire anche quei beni "nascosti" riconducibili agli oligarchi russi. Lo sottolinea via Twitter la ministra degli Esteri inglese, Liz Truss, precisando che l'elenco comprende ora «più di 1000 fra individui e aziende» ritenuti in un modo o nell'altro legati al sistema di potere del presidente Vladimir Putin.
Truss scrive che fra persone fisiche e giuridiche gli ulteriori sanzionati «sono 65», e non 59 come inizialmente riferito. Vi sono incluse banche e imprese finora non colpite, ma pure - a livello
individuale - amministratori delegati di strutture già prese di mira a livello societario. Truss cita fra gli esempi più
significativi delle aggiunte odierne la società di arruolamento di «mercenari Wagner Group, la figliastra del ministro degli Esteri, Lavrov e il ceo della maggiore banca» della Russia.
Le ricchezze "inspiegabili"
Polina Kovaleva è laureata in marketing ed economia e con un master all'Imperial College di Londra. Non è sposata e il padre non è un milionario. La madre, moglie di Lavrov, non ha un lavoro. Secondo il team di Navalnyj gran parte dei soldi spesi da Kovaleva arriverebbero proprio dal patrigno Lavrov e per questo andavano sanzionati. La giovane ha lavorato per Gazprom e altri colossi legati a Mosca e in passato avrebbe vissuto in un'abitazione di Holland Park, West London, di proprietà dell'ambasciata russa.
E' stata passeggero sull’aereo del ministero degli Esteri almeno 60 volte, a volte con la madre a volte con la nipote, e con la mamma è proprietaria di un appartamento a Mosca, valutato 6-8 milioni di dollari, una dacia nella regione di Mosca, e di almeno due auto di lusso. Intanto dai Instagram è scomparso il suoi profili social.
La casa di Londra
Condivide l'appartamento con un uomo, ritenuto il suo partner, che ha anche una partecipazione del 10% nella società di investimento che ora gestisce. La struttura fa parte di uno sviluppo pluripremiato che offre piscina, palestra, spa, cinema, simulatore di golf, sala giochi e viste su Kensington e Holland Park.
Il ministero degli Esteri britannico ha affermato che prendere di mira Polina "invia un forte segnale che coloro che beneficiano dell'associazione dei responsabili dell'aggressione russa rientrano nell'ambito delle nostre sanzioni". In pratica, le sanzioni impediranno ai cittadini e alle imprese del Regno Unito di "trattare con fondi o risorse economiche di proprietà, detenute o controllate" da Polina. Inoltre impediranno che il denaro venga fornito a Polina o che venga fornito a suo vantaggio.
Da iene.mediaset.it il 24 marzo 2022.
Molti russi stanno cercando casa e stabilità fuori dal loro paese. Con Joe Bastianich vi raccontiamo come lo stanno facendo in tanti a Dubai, negli Emirati arabi uniti. Oggi non vi parliamo di oligarchi e milionari, ma di comuni cittadini. E vi parliamo anche della comunità, ucraina e non solo, che qui sta aiutando chi fugge dalle bombe.
Elizaveta Peskova, il grottesco sfogo della figlia del portavoce di Putin: "Non posso più andare a New York", gelo al Cremlino. Libero Quotidiano il 19 marzo 2022.
Elizaveta Peskova, la figlia 24enne di Dmitrij Peskov, portavoce del presidente Vladimir Putin, si ribella alle sanzioni. Nonostante la giovane età, si tratta già di una donna in carriera: ha fondato una società di comunicazione ed è direttrice di una fondazione con un master in relazioni internazionali. Per non parlare poi della sua poplarità: vanta quasi 250mila follower su Instagram.
La sua famiglia, così come quelle di altri oligarchi russi, è stata colpita dalle sanzioni imposte dall'Occidente a seguito dell'invasione dell'Ucraina. Stando agli Stati Uniti, la stessa Elizaveta andava sanzionata visti i vantaggi legati all'immenso potere di cui godono i suoi familari, il padre in particolare. Intervistata da Business Insider, la Peskova si è lamentata di essere stata presa di mira dalle sanzioni: "Per me, è totalmente ingiusto e infondato. Sono rimasta davvero sorpresa perché è strano introdurre sanzioni su qualcuno che ha 24 anni e non ha nulla a che fare con la situazione".
La 24enne, comunque, ha detto che il problema più grande non riguarda lei ma la Russia intera, che di fatto viene tagliata fuori dal sistema finanziario globale: "Questo vuol dire che non ci saranno più viaggi in luoghi come New York, dove ricordo di aver visitato Times Square con mio padre quando avevo nove anni. Sono arrabbiata perché mi piacerebbe viaggiare e amo culture diverse". La ragazza, tra l'altro, aveva criticato la guerra in una diretta Instagram nelle prime ore dell'invasione, salvo poi cancellare tutto. Adesso la didascalia dell'ultimo post, che risale a sei giorni fa, dice solo "Pace". "Non dovrei essere ritenuta responsabile dell'invasione - ha detto infine -. Penso che tutti siano rimasti sorpresi e non c'è niente di cui vergognarsi. Io sono per la pace, non solo in Ucraina ma in tutto il mondo".
Le figlie degli oligarchi russi si ribellano per la pace: le prime fratture al Cremlino. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2022.
Non sono affari di famiglia, ma di un intero Paese. Sembravano la conseguenza di un’onda emotiva, i primi «No alla guerra» scritti sui social dalle figlie degli oligarchi russi. Infatti, due delle eredi più celebri, come Sofia Abramovich, nota per postare su Instagram ogni dettaglio della sua vita sontuosa, e poi Elizaveta Peskova, primogenita del potente Dmitry, portavoce di Vladimir Putin, avevano subito fatto marcia indietro, cancellando le tracce della loro presa di posizione sul web.
Disagio
Ma adesso altre defezioni illustri stanno trasformando queste piccole e altolocate ribellioni nell’unità di misura del disagio. Non certo della società russa, basta guardare il tenore di vita delle figlie in questione per capire la distanza che le separa dalla vita quotidiana della Russia profonda, ma di quelle élite che devono molto, quasi tutto, al Cremlino. E che in questi vent’anni di relativa briglia sciolta si sono trasformate in una immagine lussuosa della Russia cosmopolita, che considera ancora Mosca e San Pietroburgo come un affaccio sul resto del mondo al quale sentono di appartenere. Perché a mettere in fila l’elenco delle defezioni dall’ortodossia putiniana emerge il sospetto che si sia davvero aperta una linea di frattura, forse non solo generazionale. Non solo padri allineati e muti contro figlie, e anche qualche figlio, loquaci e dissenzienti. Ma anche giovani che forse parlano a nome e delle loro famiglie, e in qualche modo vengono utilizzati per mandare un messaggio. Non si spiega altrimenti la lista sempre più lunga dei distinguo via social operati dai giovani rampolli dell’oligarchia russa. E l’ultima definizione va presa in senso esteso. Non solo quella economica, ma anche quella politica, che per almeno per cognome dovrebbe appartenere al cerchio ristretto di Putin.
Su Instagram
Prendiamo ad esempio Ksenija Sobchak, popolare conduttrice della televisione statale e di Instagram, professione ufficiale influencer, definita fino a poco tempo fa la Paris Hilton russa per via del suo stile di vita non propriamente sobrio. Una, due, tre volte contro la guerra, con dichiarazioni, post e applausi alla mamma, la senatrice Ljudmila Narusova, una dei due componenti della Duma — su 411 — ad avere espresso la sua contrarietà all’«operazione militare speciale». «Sono fiera di lei» ha detto Ksenija. Sempre da Mosca, dove ancora risiede. Suo padre era l’ex sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak, scomparso nel 2000, nientemeno che l’uomo sotto la cui ala sono cresciuti Putin e il suo ormai ex alter ego, il sempre fedelissimo Dmitrij Medvedev.
Il clan del Cremlino
Quello che ancora oggi viene considerato come il clan del Cremlino, i cui membri controllano le principali aziende statali, vedi alla voce Gazprom, nasce grazie a lui. L’insistenza della figlia nel proprio «No» sembra quasi sottolineare il fatto che le cose siano cambiate, ormai gli antichi patti di sangue tra padri non valgono più. Vale lo stesso per Maria Yumasheva, che di russo ormai ha poco, essendo nata a Londra 19 anni fa, munita com’è di passaporto austriaco e poi russo. Ma è pur sempre la figlia dell’oligarca Valentin Yumashev, ramo immobili, proprietario di buona parte della «City» di Mosca, nonché nipote di Boris Eltsin, che di Putin fu mentore e principale sponsor, anche se i rapporti tra le due famiglie viaggiano spesso a corrente alternata. Nel 2000, Tatjana, la madre di Maria, venne allontanata dallo staff del Cremlino per fare posto a Dmitry Peskov, il portavoce di Putin che cominciò allora la sua ascesa non solo politica, e che oggi si ritrova anch’esso alle prese con una figlia ribelle.
Salto generazionale
Sono legami all’apparenza indissolubili, sui quali è stata costruita la storia recente della Russia, che oggi alla prova del salto di generazione appaiono meno scolpiti nel marmo di quanto si pensava. In casa di ogni falco sembra annidarsi una colomba. Anche del più rapace di tutti, come può esserlo il ministro della Difesa Sergej Sojgu, l’uomo che ha assecondato e forse incoraggiato la scelta ucraina. Alexej Stolyarov, marito di Ksenja, la sua seconda figlia, ha risposto agli auguri di compleanno con un messaggio nel quale sostiene che il miglior regalo possibile sarà la pace. Senza ricorrenze da festeggiare, Karina Boguslasvkj ha scritto su Instagram che occorre chiamare «i nostri cari, compagni, amici», chiunque possa porre fine «a questa tragedia». Sembra quasi un messaggio ricolto a papà Irek, deputato di Russia Unita e amico personale di Putin. Se son colombe, un giorno fioriranno. Anche dalle parti del Cremlino.
Veronica Cursi per ilmessaggero.it l'8 marzo 2022.
Gli oligarchi russi sono nel mirino. Ventisei i mega-miliardari, colpiti dalle misure decise dall'Europa contro la Russia per l'invasione dell'Ucraina, con beni sequestrati in Italia ma anche in altri Paesi europei.
Magioni in Sardegna, Como e Toscana, ma anche yacht in Francia e Liguria. Con loro, però, c’è anche un mondo di "figli di" e "mogli di" fedelissimi, dentro e fuori dal perimetro delle sanzioni, che in queste settimane sono al centro delle attenzioni. Chi sono le mogli (o ex mogli) dei magnati russi? E cosa cambierà per il loro patrimonio personale?
Marina Mordashov
Qualcuna, strano ma vero, dalle sanzioni sembrerebbe persino averci guadagnato. Come Lady M, Marina Mordashov, terza moglie di Alexei Mordashov, la prima nella lista Forbes della Russia.
Secondo alcuni Marina era una modella, secondo altri una cameriera. A lei è dedicato lo yacht Lady M, di 65 metri, sequestrato a Imperia al presidente del gruppo siderurgico russo Severstal che, secondo il Guardian Mordashov, è l'uomo più ricco di tutta la Russia. Il valore dello yacht è stimato in circa 65 milioni di euro.
Secondo quanto riportato da Bloomberg, Alexei Mordashov ha trasferito a sua moglie il controllo di una partecipazione di 1,1 miliardi di dollari in una compagnia mineraria. Marina Aleksandrovna Mordashova è diventata "una persona con un controllo significativo" di Nordgold lunedì, secondo i documenti britannici di questa settimana inclusi nel rapporto di Bloomberg.
Secondo i documenti, Mordashova detiene ora tra il 50 e il 75% dei diritti di voto in Nordgold. Mordashov, la persona più ricca della Russia, secondo Forbes, si è dimesso dalla carica di direttore di Nordgold martedì, affermano i documenti. Ora detiene fino alla metà delle azioni di Nordgold, affermano i documenti.
Irina Usmanov
Alisher Usmanov - re dei fertilizzanti con interessi in svariati settori di business - è stato azionista importante della squadra di calcio dell'Arsenal e fino a ieri, sponsor di riferimento dell'Everton.
Sua moglie è l'ex ginnasta ebrea Irina Aleksandrovna Viner, con cui è sposato dal 1992. Irina è capo allenatore della nazionale russa di ginnastica ritmica, presidente della Federazione Russa di Ginnastica Ritimica, anche ex vice presidente della Federazione Internazionale di Ginnastica.
La coppia non ha figli biologici ma Usmanov ha cresciuto il figlio della moglie, Nathan, che è diventato un investitore immobiliare. Mercoledì sera, Forbes ha riferito che il superyacht Dilbar di Usmanov da 600 milioni di dollari, 84 membri di equipaggio a tempo pieno che contiene la più grande piscina coperta installata su un superyacht, è stato sequestrato dalle autorità tedesche ad Amburgo.
Gi Usmanov possiedono la villa Tudor Sutton Place di 120 ettari (300 acri) nel Surrey, acquistata per 10 milioni di sterline nel 2004. E Nel 2008 hanno acquistato Beechwood House, una proprietà di 4,5 ettari (11 acri) di terreno nel sobborgo londinese di Highgate dallo sceicco qatariota Hamad bin Khalifa Al Thani per 48 milioni di sterline.
Secondo quanto riferisce il Mail sembra che il magnate abbia provato a vendere questa villa prima che il governo britannico gli imponesse sanzioni. Ma i tentativi di Usmanov sembrano essere falliti dopo che il governo ha rivelato che la proprietà era tra i suoi beni. Usmanov possiede anche una proprietà di 12 ettari a Mosca e una villa sull'isola italiana della Sardegna.
Olga Shuvalov
È la moglie dell'ex vicepremier Igor Shuvalov. Fu durante i suoi anni da studentessa che Olga, 56 anni, conobbe Igor. Si sposarono nel 1992. Insieme hanno 4 figli.
È stata una figura importante d'affari impegnata nella vendita di immobili nell'attività offshore dello Skolkovo Innovation Center e nella negoziazione di azioni di società russe di materie prime. La famiglia Shuvalov ha una casa in Austria e un appartamento nel Regno Unito.
Secondo la dichiarazione del 2012 depositata e pubblicata sul sito web del governo della Federazione Russa, Igor Shuvalov è il membro più ricco del governo. Il suo reddito era di 226.386.929 rubli. Nello stesso anno sua moglie Olga ha guadagnato 1.927.958,61 euro.
Ekaterina Potanina
Nel 2014, dopo uno scandaloso divorzio, Vladimir Potanin (secondo nella lista di Forbes della Russia) ha celebrato un matrimonio con Catherine. La loro storia d'amore in ufficio divenne la ragione del divorzio dalla loro prima moglie.
Catherine non è affatto una bambola glamour, non le piacciono molti cosmetici e gioielli. Una donna intelligente e di successo che, ancor prima di incontrare Potanin, era ferma in piedi ed era finanziariamente indipendente.
Larisa Alekperova
La moglie del presidente di Lukoil Vagit Alekperov (il quarto posto nella lista di Forbes della Russia) è con lui da molti anni, da quando non aveva ancora nulla. Ha dato alla luce un figlio, Yusuf, che ha seguito le orme di suo padre.
Larisa ama viaggiare, ama il calcio, è tifosa dello Spartak, il cui attuale proprietario è suo marito. L'hobby più grande è collezionare banconote e monete rare. Il suo hobby è una delle tre più grandi collezioni numismatiche del paese.
Lyudmila Mikhelson
Leonid Mikhelson (quinto posto nell'elenco Forbes della Russia) ha incontrato sua moglie durante gli anni della scuola. Nel loro ultimo anno di college, si sono sposati.
Lyudmila ha dato alla luce una figlia, Victoria, che gestisce la galleria Samara ed è a capo della fondazione di beneficenza. Lyudmila non è una persona pubblica, non partecipa a eventi sociali, vive in Inghilterra.
Le ex mogli di Abramovich
Abramovich, l’imprenditore miliardario ex proprietario del Chelsea, ha sette figli e tre matrimoni alle spalle. Il suo primo matrimonio è stato nel 1987 con Olga Yurevna Lysova ed è finito con una separazione avvenuta nel 1990.
Con la seconda moglie Irina Malandina, dalla quale ha divorziato nel 2007, ha avuto cinque figli (Ilya, Arina, Sofia, Arkadiy e Anna). La famiglia di Irina viveva modestamente. I genitori lavoravano come camerieri.
A due anni, la ragazza è rimasta senza padre, quindi non è stato facile per la mamma crescere un figlio da sola. A ventitré anni, la ragazza, grazie all'aiuto di sua zia, riuscì a trovare un lavoro come hostess su compagnie aeree internazionali.
Il suo divorzio con Abramovich nel 2007 è stato uno dei più costosi di sempre: 300 milioni di dollari. Oltre agli assegni di mantenimento per gli eredi. Irina ha ottenuto quasi sei miliardi di sterline, metà del patrimonio immobiliare dell'ex coniuge nel Regno Unito, un castello francese.
Può usare indefinitamente lo yacht Pelorus e il jet privato Boeing-737. Grazie alla "dote" ricevuta la donna era nella lista delle spose inglesi benestanti. Ha diversi luoghi di residenza: Londra, il sud della Francia, la Svizzera e la Russia.
Roman si è poi sposato per la terza volta nel 2008 con Daria Zhukovacon, ma si è divorziato nel 2018. Anche con lei ha avuto altri due figli, Aaron Alexander e Leah Lou.
Katerina Peskova
Ha 45 anni ed è l'ex moglie di Dmitry Peskov, il portavoce di Putin. È una studiosa di filologia e con la figlia Elizaveta Peskova, 24 anni, abita in una lussuosa casa di quattro piani con vista sull’Arco di Trionfo, intestata alla loro società francese Sirius.
Elizaveta è stata stagista all’Europarlamento del deputato francese Aymeric Chauprade, ex Front National. Entrambe russe, vivono a Parigi dal 2012. Elizaveta e la madre hanno postato una story su Instagram con lo schermo nero e l’hashtag #noallaguerra.
Valentina Petrovna
Valentina Petrovna, 83 anni, residenza a Mosca a pochi minuti dalla Piazza Rossa, è la madre di Oleg Deripaska, il re dell’alluminio, tra i finanzieri più vicini a Putin. Il figlio le ha «venduto» una società in Costa Azzurra, la Sci Winberg, titolare di una villa a St Tropez: valore imprecisato ma gigantesco visto che solo la ristrutturazione è costata 15 milioni.
La mamma ha pagato la villa 1.509,75 euro: un affarone o una compravendita fittizia. Buona parte del patrimonio di Oleg è intestato alla madre e al cugino Pavel Ezubov.
Come Villa Walkirie a Porto Cervo, uno spettacolo di 2.900 metri quadrati. Pochi giorni fa Deripaska su Telegram ha chiesto la fine della guerra.
Svetlana Abramov
È la moglie di Alexander Abramov, presidente e azionista di Evraz, uno dei maggiori produttori di acciaio al mondo. Si sono conosciuti quando erano entrambi studenti all'università di fisica.
Insieme hanno 3 figli (Yegor Abramov, Natalya Abramova, Alexander jr Abramov). Alla famiglia Abramov è stato sequestrato il mega yacht Titann da 100 milioni di dollari. Ma un modo per fare le vacanze lo troveranno sicuramente, visto il patrimonio da 5,8 miliardi del marito.
Elena Perminova
Il suo ultimo post su Instagram è una pagina nera con la didascalia: «Molto spaventoso.. VOGLIAMO LA PACE!!!!». Elena, detta Lena, 2,4 milioni di follower, è sposata con Alexander Lebedev, 57 anni.
Presidente del Consiglio di Amministrazione "National Reserve Corporation", co-proprietario di diverse condizioni giornali: 400 milioni di dollari (188 posto della classifica Forbes' 200 più ricchi uomini d'affari della Russia "). Ha 4 figli.
Sandra Melnichenko
A lei è dedicata l’imbarcazione da 460 milioni di dollari del marito, l'oligarca russo Andrey Melnichenko. “Sailing Yacht A è lo yacht privato a vela più grande del mondo (143 metri di lusso).
Aleksandra Nikolic è una ex modella e cantante pop. Il marito, oligarca dell'energia e filantropo, è uno degli uomini più ricchi della Russia e del mondo. Appassionato di barche, se le fa disegnare da Philippe Starck.
Aleksandra ha incontrato Andrey Melnichenko nel sud della Francia nel 2003. Si sono sposati nel settembre 2005 sulla Costa Azzurra. Whitney Houston e Christina Aguilera avrebbero dovuto esibirsi all'evento. Secondo quanto riferito, Jennifer Lopez si è esibita alla festa del suo trentesimo compleanno.
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 22 marzo 2022.
Lo yacht, stando all'ultima geolocalizzazione, che è stata compiuta da La Stampa incrociando due siti di geolocalizzazione ieri sera alle 19, si trova ancora nel porto italiano di Marina di Carrara, accanto a Forte dei Marmi, una delle destinazioni preferite dagli oligarchi russi, ma anche molto vicino alla Costa Smeralda, amatissima dai russi, per uno yacht che può superare facilmente i diciotto nodi.
Un'inchiesta del New York Times apparsa a inizio marzo aveva già sostenuto, con fonti di intelligence americane, che lo "Scheherazade" sarebbe di Vladimir Putin, ma la società italiana che lo ha in gestione al porto, The Italian Sea Group, aveva completamente smentito: «In funzione della documentazione di cui dispone e a seguito di quanto emerso dai controlli effettuati dalle autorità competenti, dichiara che lo yacht di 140 metri Scheherazade, attualmente in cantiere per attività di manutenzione, non è riconducibile alla proprietà del presidente russo Vladimir Putin».
Giorni fa, uomini della Finanza e probabilmente dell'intelligence italiana erano saliti a bordo, a prelevare tuti i documenti. Ora una nuova inchiesta della Fondazione Anticorruzione di Alexey Navalny, coordinata da Maria Pevchikh e Georgy Alburov, pubblica nuovi documenti che sembrano dimostrare in modo difficilmente controvertibile che il presidente russo è il reale beneficiario finale dello yacht.
In questo caso toccherebbe al governo italiano - al quale la Fondazione Navalny sta per consegnare tutti i documenti - decidere se sequestrare o meno l'imbarcazione.
Lo Scheherazade, 140 metri con una stazza da 10.167 tonnellate, sei piani, due eliporti, e ogni genere di lusso a bordo, secondo l'inchiesta ha tutto l'equipaggio composto da russi tranne il primo capitano (britannico) ma soprattutto - e questo è il punto dirimente - più della metà di questi sono agenti del Fso, il Servizio di Guardia Federale della Russia, lo speciale servizio segreto presidenziale a cui è specificamente affidata la sicurezza del presidente del Cremlino, «un equivalente dell'americano Usss", spiega Roman Borisevich, del Clamp_k (Committee for Legislation Against Moneylaundering in Property by _ Kleptocrats).
Il numero due dello yacht si chiama Sergey Grishin, registrato nelle rubriche telefoniche di diverse altre persone come Sergei G del Fso.
Subito dopo Anatoly Furtel, residente in via Furmanova 10, a Sochi (che è la sede dell'ufficio dell'Fso che garantisce la sicurezza della residenza del presidente). Alexander Pechurkin, registrato come Sanya Fsb. Alexander Fso e Alexander Graysful ("Graceful" è il nome di un altro yacht che è considerato di Putin, e fu spostato dal porto di Amburgo, direzione Kaliningrad, pochi giorni prima della tornata di sanzioni dell'Ue.
Graceful è attualmente intestato a Gennadi Timchenko, amico di Putin dai tempi della Cooperativa Ozero, già capo di Gunvor, azienda di rivendita di commodities legate a gas e petrolio della Russia). Ma nei documenti dell'equipaggio ci sono altri nomi di uomini dei servizi russi, Evgheny Schvedov, "ufficiale di sicurezza per l'unità militare 38974" (ossia l'Fso per il Caucaso, e con residenza sempre in via Furmanova 10, a Sochi).
Stessa posizione per Aleksandr Khristoforov. Nei giorni scorsi La Stampa ha raccontato che lo yacht, secondo fonti investigative italiane, sarebbe di proprietà di Eduard Yurievich Khudainatov, presidente di una società russa nell'oil & gas, ex presidente di Rosneft (il gigante petrolifero di stato), attraverso una società offshore che risulta essere una scatola vuota alle Isole Marshall.
Due delle sue società, Ipc e Nnk-Promirnefteproduct, sono state sanzionate dagli Usa nel 2017 per aver venduto petrolio alla Corea del Nord violando l'embargo, ma lui non è personalmente sotto sanzioni.
Impossibile però che pezzi così ampi dei servizi segreti russi come equipaggio possano essere mobilitati per una figura come la sua. Piccola nota finale, gli uomini del Fso che avevano in carico lo yacht come "equipaggio" sono sempre entrati e usciti dall'Italia attraverso l'aeroporto di Milano. Italia, terra di pascolo per le spie russe.
Veronica Curis per ilmessaggero.it l'11 marzo 2022.
Lo yacht più grande del mondo, ormeggiato in Italia a Marina di Carrara, lungo 140 metri e del valore stimato in circa 700 milioni di dollari non apparterebbe al presidente Putin, come invece aveva fatto intendere il New York Times.
Lo Scheherazade - così si chiama il mega yacht - è «al vaglio della polizia italiana». Il suo capitano, il britannico Guy Bennett-Pearce, ha riferito che gli inquirenti sono saliti a bordo venerdì scorso e ne hanno esaminato la documentazione ma The Italian Sea Group, la società di costruzione, smentisce che il proprietario sia il presidente russo: «In funzione della documentazione di cui dispone e a seguito di quanto emerso dai controlli effettuati dalle autorità competenti, lo yacht di 140 metri Scheherazade, attualmente in cantiere per attività di manutenzione, non è riconducibile alla proprietà del Presidente russo Vladimir Putin».
Chi è il proprietario
Ma allora di chi è questo gigante dei mari? Il proprietario sarebbe comunque un cliente russo ma il nome resta ancora un mistero. Su Vesselfinder, sito web che – unicamente a scopo informativo – traccia e fornisce la posizione delle imbarcazioni nel mondo attraverso il sistema AIS (sistema di identificazione automatica) si legge che lo yacht è stato costruito nel 2020 e naviga attualmente sotto la bandiera delle Isole Cayman.
Il proprietario registrato è Bielor Asset Ltd, società con sede nelle Isole Marshall. «Alla data odierna - si legge ancora in un comunicato di The Italian Sea Group - è in essere soltanto un contratto con un cliente russo. In particolare, la Società deve ancora incassare 6 milioni di euro relativi al saldo consegna nave, prevista nei primi mesi del 2023. Si evidenzia comunque che il soggetto contraente non rientra tra quelli colpiti da sanzioni internazionali».
Dunque chiunque abbia la fortuna di poter navigare su questo gioiello non sarebbe uno degli oligarchi russi colpiti dalle sanzioni avviate in seguito al conflitto in Ucraina. Tanto che The Italian Sea Group «conferma che la produzione delle commesse in progress e le attività di refit proseguono senza alcun rallentamento, nonostante le sanzioni introdotte dall'Unione Europea nei confronti della Russia. Alla data odierna, nessun ordine è stato cancellato e non si è manifestato alcun ritardo nei pagamenti degli Stati di Avanzamento Lavori contrattuali in essere. Si rammenta che TISG lavora esclusivamente su commessa per armatori con il supporto di società di broker internazionali, con contratti che prevedono pagamenti anticipati relativi ai SAL, e in caso di inadempienza, è prevista in estrema ratio per il cliente la perdita degli acconti versati; nel merito, la proprietà della nave resterebbe di TISG, dando alla Società l'opportunità di rivendere immediatamente lo yacht e realizzare interessanti plusvalenze».
Com'è lo yacht
L'interno del yacht è progettato da Zuretti Yacht Design. È in grado di ospitare almeno 18 ospiti e un crew di 40. Secondo quanto si legge sul sito Superyachtfan ha una piattaforma di atterraggio per elicotteri, una piscina con copertura a scomparsa che si trasforma in una pista da ballo, la palestra attrezzata e gli infissi dorati nei bagni. Oltre a un cinema e diverse aree di intrattenimento. Ha anche un sistema di crash dei droni, che letteralmente schianta i droni dall'aria.
Il capitano della nave, Guy Bennett-Pearce, cittadino britannico, ha negato allo storico e prestigioso quotidiano di New York che Putin possedesse o fosse mai stato sullo yacht: «Non l'ho mai visto. Non l'ho mai incontrato». Ha aggiunto, in un’intervista telefonica dallo yacht, che il suo proprietario non era in nessuna lista di sanzioni. Non ha escluso che il proprietario potesse essere russo, ma non ha voluto fornire altri dettagli sulla sua identità, essendo vincolato a un accordo di riservatezza.
Marco Gasperetti per il Corriere della Sera il 23 marzo 2022.
La prova regina che lo Scheherazade, lo yacht da 700 milioni di dollari, sia di Putin ancora non c'è. Ma ogni giorno che passa aumentano gli indizi che il panfilo ormeggiato nei cantieri di Marina di Carrara della Italian Sea Group sia veramente la nave del leader del Cremlino. L'ultimo in ordine cronologico è arrivato ieri.
Il segretario della Cgil di Massa Carrara, Paolo Gozzani, ha rivelato «anomali movimenti sullo yacht» e soprattutto ha detto che «una settimana fa è stato sostituito l'intero equipaggio che prima era quasi tutto russo e adesso è composto solo da inglesi». Gozzani ha poi aggiunto che la sua preoccupazione da sindacalista è esclusivamente sotto il profilo occupazionale ma è chiaro che la sostituzione dell'intero personale, se accertata, getta una nuova ombra sul reale padrone della nave.
Anche perché, ieri mattina durante il suo intervento al Parlamento italiano, anche il presidente ucraino Zelensky aveva citato lo Scheherazade come lo yacht di Putin e lunedì alcuni collaboratori di Aleksei Navalny, l'attivista politico russo avversario di Putin prima avvelenato e poi imprigionato nelle carceri di Mosca, avevano rivelato che nella lista dei 23 nomi dell'equipaggio apparivano almeno una decina di nomi di guardie del corpo e di ufficiali che lavorano per l'Fso, il servizio della Federazione russa incaricato di proteggere Putin e a organizzare la sua vita privata in sicurezza.
Il super yacht non è stato sequestrato e i lavori di manutenzione procedono a pieno ritmo. La società nautica che lo ospita e che non ha nessuna eventuale responsabilità nella vicenda, da giorni si è messa a disposizione degli investigatori fornendo tutta la documentazione anche sulla proprietà, che ufficialmente non risulta essere di Putin. Resta il sospetto di un prestanome ed è su questa ipotesi, tutta da verificare, che la Guardia di Finanza di Massa Carrara sta facendo laboriosi e difficili accertamenti. Il nome dell'imbarcazione, Scheherazade, apre le porte a due piste.
La prima fa riferimento alla fanciulla protagonista delle Mille e una Notte e porterebbe a uno sceicco che l'avrebbe fatta costruire con rifiniture in oro, saloni lussuosi, un'enorme piscina, cinema, palestre e sala giochi. La seconda pista, più attendibile, è invece russa e effettivamente farebbe pensare a qualcuno molto in alto all'interno della nomenclatura del Cremlino. Scheherazade è infatti anche una suite sinfonica composta nel 1888 dal compositore russo Rimskij-Korsakov. Lo yacht inoltre avrebbe dotazioni da capo di Stato: due piattaforme di atterraggio per elicotteri e un sistema per intercettare i droni.
Michele Serra per “la Repubblica” il 23 marzo 2022.
Lo yacht da settecento milioni di euro ormeggiato a Marina di Carrara è mio. Lo prova il fatto che, dopo settimane di inchieste e interrogazioni e indagini, nessun altro ne ha rivendicato la proprietà. Perché, dunque, non approfittarne? Ne chiedo l’assegnazione legale per legittima usucapione: sono l’unico al mondo che si è fatto avanti. Agli inquirenti dirò che l’ho comperato con i punti del Conad, sarà comunque una giustificazione meno ridicola di quelle che reggono lo strascico ai mostruosi patrimoni degli oligarchi, russi e non solo. Certo, i cinquanta milioni all’anno di mantenimento costituiscono un problema.
La cifra eccede di quarantanove milioni e 995 mila euro il mio potenziale budget nautico, ma confido in un crowdfunding (in italiano: colletta) per rimediare. Confido anche nel soccorso (gratuito) di amici architetti per il durissimo compito di de-burinizzare gli interni, difficile in ogni panfilo, quasi impossibile in quelli degli oligarchi russi. Dopodiché, il barcone sarà donato a Emergency perché ne ricavi un ospedale. A patto che venga mantenuta operativa, e in mia piena disponibilità, la sala biliardo, ognuno ha le sue debolezze.
Al netto di questa storiella, la domanda, serissima, è: ma è possibile che i miliardi non abbiano nome? L’opacità della ricchezza, il sistema di scatole cinesi che rimanda sempre ad altro indirizzo, i prestanome, le società off-shore, fanno pensare, massimamente, che il denaro sia una cosa sporca. Se lo pensano anche i miliardari, chi vorrà mai prenderne le difese, povero denaro che tutti rinnegano? E povera barca, povero equipaggio, lasciati alla deriva dal loro oscuro armatore.
Il super yacht a Marina di Carrara sarebbe di Putin, secondo gli Stati Uniti: «Ci sono i primi indizi». di Marco Gasperetti e Redazione Online su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.
Secondo diversi esponenti dell’intelligence lo Scheherazade, uno yacht da 700 milioni di dollari ormeggiato da settembre a Marina di Carrara, potrebbe essere del presidente russo.
La certezza ancora non c’è. Ma le agenzie di intelligence statunitensi hanno trovato «i primi indizi» che porterebbero a dire che sì, il super yacht Scheherazade ancorato nel porto di Marina di Carrara è riconducibile a Vladimir Putin.
L’informazione — riportata dal New York Times — arriva dopo che lo stesso quotidiano aveva dato la notizia delle indagini da parte delle autorità italiane sulla proprietà del lussuoso panfilo, lungo 140 metri, con una stazza di 10.167 tonnellate e un valore di almeno 700 milioni di dollari. In una nota successiva a quelle prime notizie, The Italian Sea Group — società della nautica di lusso con sede in Toscana — aveva invece smentito che lo yacht fosse del presidente russo, e aveva spiegato di dover ancora «incassare 6 milioni di euro relativi al saldo consegna nave, prevista nei primi mesi del 2023» e che «il soggetto contraente non rientra tra quelli colpiti da sanzioni internazionali».
Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina
Al momento, dunque, la proprietà dello yacht — che l’equipaggio chiamerebbe «la nave di Putin» — resta misteriosa: né la società che cura la manutenzione, né la guardia di finanza hanno comunicato ad ora chi sia il suo padrone e neppure la sua nazionalità.
Lo Scheherazade — un nome che fa riferimento alla protagonista delle Mille e una Notte, ma anche a una suite sinfonica composta nel 1888 dal compositore russo Rimskij-Korsakov — si trova attualmente in cantiere per attività di manutenzione, e avrebbe dotazioni da capo di stato: una piattaforma di atterraggio per elicotteri e un sistema per intercettare i droni.
Dagotraduzione da Dnyuz l'8 marzo 2022.
Dai porti tedeschi del Mare del Nord alla Costa Azzurra, è stata dichiarata l'apertura della stagione dei superyacht. In tutta Europa, le autorità stanno dando la caccia alle navi di lusso legate agli oligarchi russi nel tentativo di infliggere dolore agli alleati del presidente Vladimir V. Putin.
A Marina di Carrara, una cittadina italiana sulla costa toscana, uno dei superyacht più grandi, nuovi e costosi del mondo, chiamato Scheherazade, è al vaglio della polizia italiana. Quasi quanto un cacciatorpediniere missilistico guidato degli Stati Uniti, domina il lungomare.
Lo yacht, stimato dal sito web SuperYachtFan per un costo di circa 700 milioni di dollari, ha due ponti per elicotteri ed è tempestato di cupole satellitari. All'interno c'è una piscina con una copertura a scomparsa che si trasforma in una pista da ballo. Poi c'è la palestra completamente attrezzata e gli infissi dorati nei bagni.
Nel mondo rarefatto dei più grandi superyacht (sono solo 14 quelli lunghi almeno 140 metri), lo Scheherazade è l'unico il cui probabile proprietario non è stato identificato pubblicamente. Ciò ha stimolato la speculazione che potrebbe essere un miliardario mediorientale o un russo, addirittura il signor Putin.
Il capitano della nave, Guy Bennett-Pearce, cittadino britannico, ha negato che il signor Putin possedesse o fosse mai stato sullo yacht. «Non l'ho mai visto. Non l'ho mai incontrato», ha detto. Ha aggiunto, in un'intervista telefonica dallo yacht, che il suo proprietario non era nell'elenco delle sanzioni. Non ha escluso che la persona potesse essere russa, ma ha rifiutato di dire di più sull'identità del proprietario, citando un «accordo di non divulgazione a tenuta stagna».
Il capitano Bennett-Pearce ha detto che gli investigatori italiani sono saliti a bordo venerdì e hanno esaminato alcuni dei documenti di certificazione della nave. «Stanno cercando molto. Stanno esaminando ogni aspetto», ha detto. «E non sono i poliziotti locali, questi sono uomini in abito scuro». Una persona esperta della materia, parlando a condizione dell'anonimato perché non autorizzato a discuterne, ha confermato che la guardia di finanza italiana aveva aperto un'inchiesta.
Lunedì sera, il capitano Bennett-Pearce ha detto che «non aveva altra scelta» che consegnare i documenti che rivelano l'identità del proprietario alle autorità italiane. Ha detto che lo avrebbe fatto martedì e gli era stato detto che sarebbero stati trattati con «riservatezza».
«Non ho alcun dubbio nella mia mente che questo ripulirà la nave da tutte le voci e speculazioni negative», ha scritto in un messaggio a un giornalista del New York Times.
Il mistero sull'armatore della nave è sorto perché, anche per il mondo iper-riservato del superyacht, c'è un insolito grado di segretezza che circonda questa nave. Non solo appaltatori e membri dell'equipaggio firmano accordi di riservatezza, come su molti superyacht, ma la nave ha anche una copertura che ne nasconde la targhetta. E quando è arrivata per la prima volta al porto, gli operai hanno eretto un'alta barriera metallica sul molo per oscurare in parte lo yacht agli spettatori. Alcuni locali hanno osservato di non aver mai visto nulla di simile messo in piedi per altre barche.
Il presidente Biden la scorsa settimana ha annunciato una task force congiunta con la Gran Bretagna e l'Unione Europea per dare la caccia ai beni, compresi gli yacht, che potrebbero essere di proprietà di oligarchi vicini a Putin e che rischiano sanzioni in risposta all'invasione russa dell'Ucraina. Sono state imposte sanzioni contro centinaia di persone e l'elenco continua a crescere.
La scorsa settimana, le autorità francesi hanno sequestrato lo yacht Amore Vero vicino a Marsiglia mentre si preparava a partire, sostenendo che fosse di proprietà di un uomo in quella lista: Igor Sechin, il capo della compagnia petrolifera statale russa Rosneft. In Italia, la polizia di Sanremo ha sequestrato Lena, uno yacht di Gennady Timchenko, un amico di Putin che controlla una compagnia di esportazione di petrolio. Nella vicina Imperia, la polizia ha anche sequestrato il Lady M, uno yacht di proprietà di Alexei Mordashov, l'uomo più ricco della Russia. Il destino del Dilbar, uno degli yacht più grandi del mondo che secondo gli Stati Uniti appartiene all'oligarca Alisher Usmanov, non è chiaro. È ad Amburgo e funzionari tedeschi hanno affermato che la nave non potrebbe partire senza una rinuncia all'esportazione, ha riferito Bloomberg News.
Alcuni dei più grandi superyacht sono di proprietà di russi che non sono nell'elenco delle sanzioni. Il secondo più grande del mondo, Eclipse, che ha un sistema di difesa missilistica e un mini sottomarino, è di proprietà di Roman Abramovich, il miliardario che sta vendendo la sua quota di proprietà nella squadra di calcio britannica Chelsea. Andrey Melnichenko, un miliardario barone del carbone, possiede Sailing Yacht A.
Determinare la proprietà dei beni che i ricchi vogliono tenere nascosti è difficile, soprattutto senza un mandato, perché sono spesso custoditi con zelo da banchieri privati e avvocati e nascosti in oscure società di comodo in paradisi segreti offshore. La Scheherazade ha una bandiera nelle Isole Cayman e il suo proprietario, Bielor Assets Ltd., è registrato nelle Isole Marshall. La società di gestione dello yacht, che secondo il capitano Bennett-Pearce è registrata alle Isole Cayman, lavora dalla nave e usa la sua villa in affitto nella vicina Lucca come indirizzo.
Un sito web commerciale, che si autodefinisce «l'autorità globale nel superyacht», afferma che il proprietario della nave è «noto per essere un miliardario mediorientale». La Scheherazade condivide il nome della narratrice de "Le mille una notte" e ha fatto una breve incursione nel Mar Rosso nel settembre 2020, facendo scalo nel porto egiziano di Hurghada. Ma per lo più rimane a Marina di Carrara, dove è ormeggiata dallo scorso settembre.
La gente del posto ha la propria teoria sulla proprietà della nave. Alcuni hanno sentito persone a bordo parlare russo. E Scheherazade è anche il titolo di una sinfonia del compositore russo Nikolai Rimsky-Korsakov.
«Lo chiamano tutti lo yacht di Putin, ma nessuno sa di chi sia», ha detto Ernesto Rossi, impiegato in pensione che venerdì stava facendo una passeggiata sul lungomare del porto turistico. «È una voce che gira da mesi».
In Italia, la frase “Lo yacht di Putin” è diventata l'abbreviazione di una nave misteriosa e ultralussuosa. È anche uno scherzo tra le dozzine di membri dell'equipaggio, ha detto il capitano Bennett-Pearce. «Ho sentito le stesse voci».
Un'altra nave più piccola, la Graceful, è stata a lungo legata al presidente russo ed è conosciuta come "lo yacht di Putin". È stata rintracciato mentre lasciava la Germania per il porto russo di Kaliningrad poche settimane prima dell'invasione dell'Ucraina. (I funzionari del governo degli Stati Uniti sottolineano che il signor Putin possiede ben poco; molte delle lussuose case o navi che usa sono di proprietà di oligarchi).
Il signor Putin sembra avere un debole per le grandi barche da diporto. Durante il suo periodo come leader della Russia, è stato fotografato su yacht dal nord della Russia al Mar Nero. Lo scorso maggio, lui e Alexander Lukashenko, il presidente della Bielorussia, hanno fatto una crociera su uno yacht nella località turistica di Sochi, sul Mar Nero.
Il costruttore della Scheherazade, Lurssen Group, il cui sito web promette ai clienti la «completa riservatezza», ha rifiutato di commentare la sua proprietà. Fino a giugno 2020, quando la nave completata ha lasciato il molo di Brema, in Germania, aveva il nome in codice "Lightning". La stessa azienda ha costruito il superyacht, ancora più grande, il Dilbar. Un gigantesco yacht, nome in codice "Luminance", è ora in costruzione a Lurssen, e il suo completamente è programmato per il prossimo anno.
«Ovviamente, tutti gli ordini e i progetti del Gruppo Lurssen e delle sue sussidiarie sono trattati in conformità con le leggi e i regolamenti applicabili», ha affermato Oliver Grun, portavoce dell'azienda.
Circa il 70 per cento dell'equipaggio della Scheherazade è russo, ha detto il capitano Bennett-Pearce. E durante ciascuna delle ultime due estati, è salpato per Sochi, l'ultima volta all'inizio di luglio 2021, secondo MarineTraffic, uno dei principali fornitori di analisi marittime. La costruzione della nave è stata gestita da Imperial Yachts, una società di Monaco che, secondo Reuters, gestisce l'Amore Vero, lo yacht sequestrato dal signor Sechin. Nick Flashman, che sovrintende alla costruzione di grandi navi presso Imperial Yachts, ha rifiutato di commentare.
Un ex membro dell'equipaggio, che ha parlato in condizione di anonimato a causa dell'accordo di non divulgazione, ha affermato che i compagni di bordo lo chiamavano "lo yacht di Putin". La persona ha detto che la nave era presidiata da un equipaggio internazionale durante i periodi di "sgancio del capo"; in presenza del "capo", l'equipaggio è stato sostituito da uno staff tutto russo. Nelle settimane precedenti il viaggio della Scheherazade nel Mar Nero nel 2020, l'equipaggio straniero è stato licenziato, ha detto la persona.
L'ex membro dell'equipaggio ha fornito foto di elenchi di membri dell'equipaggio sia internazionali che russi. Il Times ha contattato, tramite social media, telefono o e-mail, almeno 17 di loro. Pochi hanno risposto.
Uno dei russi ha detto solo di aver lavorato alla Scheherazade, citando un accordo di non divulgazione. Un'altra persona ha detto che sarebbe pericoloso parlare. Un uomo ha negato di prestare servizio sulla nave; un altro ha detto che non lavorava in mare da 25 anni.
Il capitano Bennett-Pearce ha detto «categoricamente non c'è un equipaggio europeo che entra e un equipaggio russo che entra». Molti degli alti ufficiali della nave provengono da Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Spagna. Molti membri dell'equipaggio internazionale sono stati licenziati nel 2020, sostituiti da russi che non richiedevano gli alti stipendi e i benefici che avevano i loro predecessori, ha detto il capitano. «Si trattava di economia», ha detto.
Data l'antipatia che le persone al di fuori della Russia hanno nei confronti del signor Putin, se il presidente russo fosse davvero il proprietario o l'utente principale dello yacht, mantenere membri dell'equipaggio senior non russi come lui nello staff non avrebbe senso, ha affermato il capitano Bennett-Pearce.
Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 7 marzo 2022.
È sempre impressionante la rapidità dei voltafaccia, l'inversione di rotta con cui i salamelecchi di benvenuto si trasformano in grida che incitano i cani. È sempre una sorpresa, la mezza giornata in cui cambia di segno il cosiddetto "comune sentire", ma questa volta è sbalorditivo.
La caccia agli oligarchi è il nuovo padel: non c'è chi non si eserciti una mezz' ora, anche da fermo, ad additare la tal villa sul lago di Como, quel certo stabilimento balneare in Versilia, lo yacht ormeggiato all'Argentario, anzi una dozzina, li conosco di persona, ho fatto io il rogito, ero l'autista della delegazione, mia cugina gli puliva casa il giovedì.
Io, devo ammetterlo, per un certo periodo mi sono distratta - negli anni scorsi - ed è stato quando la compravendita di pezzi di Paese ai mega miliardari russi che neanche venivano di persona a vedere l'acquisto è diventata talmente una prassi che prima finiva nelle brevi di cronaca, poi nemmeno in quelle, alla fine era la norma. Il brusio di fondo.
Ma prima, prima di distrarmi dico, ricordo benissimo certe cerimonie tragicamente lunghe, certi inviti in carta intestata di enti locali e capitani d'impresa affinché i cronisti venissero alla conferenza stampa in cui si dava notizia dell'importante investimento immobiliare, il rilevamento della quota di maggioranza, la cogestione del progetto.
Non è che gli oligarchi non fossero allora quello che sono oggi: gente che ha fatto i miliardi grazie a un tipo che sparava ai giornalisti, torturava ed eliminava i dissidenti col polonio, per restare ai dettagli vistosi. Quindi o non era chiaro allora, a chi si vendevano industrie spiagge e ville, o conveniva stare zitti e prendere i soldi. Non saprei cosa preferire.
Sarina Biraghi per “La Verità” il 7 marzo 2022.
«Cornuti e mazziati» direbbero in modo colorito a Napoli, ma in effetti la russofobia ha colpito il nostro Paese, dai libri al teatro, dalle mostre di gatti a quelle di fotografia. E ora i sigilli sui beni patrimoniali dei Paperoni moscoviti rischiano di farci cadere nel paradosso. L'Italia, che si sta muovendo nel solco delle sanzioni durissime decise dall'Unione europea, comincia infatti a vedere in soldoni i primi risultati.
Che non sono le macro conseguenze del conflitto Ucraina-Russia legate al rincaro di gas, grano o petrolio, ma quelle più immediate che costringono il governo a sborsare subito danaro contante, dopo aver intrapreso la campagna sequestri dei beni degli oligarchi russi. Sabato il nostro ministero dell'Economia, come accaduto in Francia e Germania, ha annunciato il via ai provvedimenti di sequestro di yacht e ville di proprietà di uomini super ricchi molto vicini allo zar come Alexei Mordashov, Gennady Timchenko e Alisher Usmanov, oltre al presentatore della televisione russa Vladimir Soloviev.
Lucchetti alle ville in costa Smeralda o sulle colline di Capannori, sigilli ai maxi-yacht nel porto di Sanremo o di Imperia in un'operazione da 140 milioni di euro. Obbligo di uno Stato che sequestra un bene è non farlo deprezzare, sia nel caso che venga restituito sia nel caso venga venduto.
Epperò bloccare in porto una mega imbarcazione di lusso, come ha raccontato ieri Il Messaggero, ha dei costi non indifferenti che alla fine della fiera paga lo Stato, ovvero paghiamo noi. Infatti mentre una norma del 2007, già applicata dal Comitato di sicurezza finanziaria, presieduto dal direttore generale del Tesoro come misura di contrasto del terrorismo, che viene eseguita dalla Guardia di Finanza, il decreto legislativo 109 disciplina tutto l'iter ma anche la gestione, la custodia e l'amministrazione del bene congelato. Ovvero, spese vive.
Nel caso degli yacht, il primo costo è l'ormeggio nel porto, che per imbarcazioni che vanno dai 50 ai 90 metri, (dai 50 ai 70 milioni di valore) ha un prezzo tra i 400 e i 500 euro al giorno senza considerare le utenze. Inoltre, non essendo delle «pilotine», c'è un problema di sicurezza che va gestito, secondo le norme nautiche, dal personale di bordo.
In particolare deve sempre essere presente un capitano, che in caso di natanti superiori alle 500 tonnellate deve avere una specializzazione e percepisce uno stipendio medio tra i 12.000 e i 15.000 euro al mese; poi un direttore di macchina, anche lui abilitato per motori superiori ai 500 Kw, con uno stipendio di circa 8.000 euro al mese; infine quattro uomini di equipaggio, che hanno uno stipendio medio mensile di circa 4.000 euro.
Gestione e custodia del bene sono compito dell'Agenzia del demanio che può provvedere direttamente o nominare un amministratore, affrontando le spese in due modi: se il bene sequestrato è redditizio si usano quei fondi, se invece dal fermo non si ricava denaro allora il Demanio o l'amministratore attingeranno ad un apposito fondo nel bilancio dello Stato «con diritto di recupero nei confronti del titolare del bene in caso di cessazione della misura di congelamento». Nella speranza che la guerra finisca al più presto, quei circa 60.000 euro al mese di spese dei super yacht russi ormeggiati le paga l'Italia.
Pagare panfili rischia di essere una specialità italiana visto cosa accaduto con lo yacht di Flavio Briatore, 63 metri, tre piani, 200.000 euro di affitto a settimana, sequestrato a maggio del 2010 dalla guardia di finanza perché l'imprenditore era accusato di frode fiscale. Senza aspettare la sentenza, arrivata dopo 12 anni per la verità, che ha assolto Briatore, il «Force Blue» è stato svenduto un anno fa per 7,5 milioni di euro contro un valore di mercato di circa 20 milioni.
Ad aggiudicarselo una vecchia conoscenza di Briatore: Bernie Ecclestone, ex patron della Formula 1. Ora Briatore avrà diritto ai 7,5 milioni di euro di ristoro ma non è detto che riesca a recuperare la differenza rispetto al valore di mercato. Tornando ai russi ricconi, paghiamo subito il «salvataggio» di un oligarca (uno dei 26 nel mirino delle sanzioni) in fuga nel Mediterraneo a bordo del suo Quantum Blue.
Il russo Sergei Galitsky, fondatore di Magnit, una delle più grandi catene di supermercati in Russia, per sfuggire alle sanzioni europee ed americane era scappato qualche giorno fa dal porto di Monaco. Da sabato sera, però, Alarm Phone, la piattaforma che aiuta i migranti nel Mediterraneo, ha lanciato un Sos per una imbarcazione «alla deriva da 10 ore» nel Mediterraneo con 26 migranti a bordo affiancata alla «Quantum Blue». La Ong ha chiesto alle autorità di coordinare il salvataggio perché «l'imbarcazione è ancora a rischio di ribaltarsi al largo della Libia» a causa di «grandi onde». Chissà se il porto di Lampedusa può accogliere il Quantum Blue.
Chi è Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri di Putin: equilibrista, zelante, capace di mentire. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
Erede della grande scuola sovietica, in «carriera» da quando aveva 22 anni. Fumatore, calciatore, poeta. Ha guidato da 30 anni tutte le crisi. Non quest’ultima. Quando qualche anno fa al Med, il Forum sul Mediterraneo organizzato dall’Ispi, gli chiesi se la Russia si sentisse poco rispettata nel mondo, Sergej Lavrov rispose con un proverbio russo: «Se mi temi, mi rispetti». Dell’universo misterioso e secluso di Vladimir Putin, Lavrov ha finora incarnato la finestra sul mondo, l’uomo incaricato di tradurre e lucidare nella grammatica della diplomazia le ambizioni geopolitiche e le ossessioni revansciste dello Zar. Lo ha fatto sempre con riconosciuta professionalità, alternando durezza e blandizie, minacce e aperture, a volte riuscendo a tenere a freno alcuni eccessi del capo e arrivando perfino a passare per una «colomba», cosa che lui non è mai stato. Non c’è dubbio però che la crisi ucraina gli abbia tagliato le gambe, spezzando la corda sulla quale come un bravo equilibrista si era sempre mosso nei lunghi anni alla guida della politica estera russa. Lo sanno tutti, a Mosca e nelle cancellerie occidentali, che Lavrov era contrario all’azione militare. E che i suoi dubbi siano stati ignorati da Putin e dal ministro della Difesa, Sergej Shoigu. Nei primi giorni dell’invasione, lui sempre onnipresente, Lavrov è come sparito dalla scena. Ma quando ieri è riapparso, per dire che una «soluzione si troverà», ha avallato tutto, sposando anche la menzogna che vorrebbe rovesciare sulle mani dell’Occidente il sangue versato dai bombardamenti russi contro le città dell’Ucraina.
La vecchia scuola
Sergeij Viktorovich Lavrov è un puro prodotto della vecchia scuola diplomatica moscovita, che è stata zarista, sovietica e russa. Ha 72 anni ed è entrato in carriera nel 1972, dopo essersi laureato al prestigioso MGIMO, l’Istituto di Relazioni Internazionali dell’Università di Mosca, vera fucina della diplomazia del Cremlino. Parla perfettamente l’inglese, il francese e il singalese, che studiò e imparò per il suo primo incarico all’estero, in Sri Lanka. Quando arrivò allo Smolensky, la sede del ministero degli Esteri russo, il ministro era Andreij Gromyko, che era stato vice di Viaceslav Molotov sotto Stalin e sarebbe passato alla storia della Guerra Fredda come Mr. Nyet, signor no. Un soprannome che nella sua lunga esperienza internazionale anche Lavrov si è guadagnato sul campo. Ma più che Gromyko, il suo modello di riferimento è stato Alexander Gorchakov, ministro degli Esteri e cancelliere dell’impero zarista nella seconda metà dell’Ottocento, che Lavrov una volta ha descritto come «impegnato a restaurare l’influenza della Russia in Europa dopo una guerra perduta, non con le armi ma con la diplomazia». Una situazione secondo Lavrov molto simile a quella dopo la fine della Guerra Fredda, nonostante le azioni del Cremlino negli ultimi anni, dalla Crimea alla Siria e soprattutto a quella attuale in Ucraina, parlino soprattutto il linguaggio della forza. Di questo linguaggio, Sergej Viktorovich è stato traduttore diplomatico fedele e secondo i suoi critici fin troppo zelante. «Non puoi fare un tango con Lavrov, non è autorizzato a ballare», disse di lui nel 2017 l’allora segretario di Stato americano Rex Tillerson.
La passione per lo sport
Prima di essere nominato da Putin ministro degli Esteri nel 2004, Lavrov è stato per dieci anni ambasciatore alle Nazioni Unite. Grande conoscitore dei migliori whisky, accanito fumatore, molti ricordano la battaglia ingaggiata con il segretario generale Kofi Annan, che aveva deciso di proibire il fumo nel Palazzo di Vetro. Ma le troppe sigarette non gli impediscono di fare molto sport: la partita settimanale di calcio con gli amici appartiene alle sue abitudini domenicali quando non è in giro per il mondo. Del beautiful game Lavrov è anche appassionato tifoso. Racconta che riesce a resistere a lunghe notti di negoziati pensando alla sua squadra, lo Spartak di Mosca.
Le poesie
Quando gli hanno chiesto se fosse più difficile per Mosca l’era di Ronald Reagan, quando l’Urss era «l’impero del male», ovvero quella attuale, Lavrov ha indicato senza esitare quest’ultima: «C’erano due imperi, che aizzavano conflitti l’uno contro l’altro in Paesi terzi, ma mai direttamente. Nessuno dei due ha mai varcato i confini di ciò che era permesso. Oggi non ci sono più regole». Sembra una buona fotografia, solo che all’evidenza le regole vengono sistematicamente violate dalla sua parte. D’altronde, spesso la verità e Lavrov sono agli opposti: suscitò molta ilarità nel 2015, alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, quando affermò che in Crimea la Russia non aveva fatto nulla di illegale. Sarcastico e capace di battute fulminati, Lavrov non è ingessato come molti suoi predecessori. In più occasioni ha perso poco diplomaticamente la pazienza, come nel 2008, quando al telefono con il collega britannico David Miliband gli disse: «Stai cercando di darmi una fottuta lezione?». O quando, mentre ascoltava il collega saudita durante una conferenza stampa congiunta, si lasciò scappare un «idioti», non si capisce riferito a chi. Ma forse l’aspetto più sorprendente di Lavrov è il suo amore per la poesia. Il ministro degli Esteri russo compone versi, alcuni dei quali sono stati anche pubblicati sulla rivista letteraria Russkij Pioner. In una di queste poesie, parla di un Paese che è stato spazzato via dalla storia: «Non c’è più questo Paese, ma un po’ d’orgoglio rimane. Ora è tempo di tornare a casa». Se solo avesse il coraggio di dirlo all’esercito russo.
Mr. Niet. Chi è Sergej Lavrov, il capo della diplomazia russa. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta l'11 Marzo 2022.
Il ministro degli Esteri del Cremlino è una delle figure di maggior esperienza al servizio di Putin e le sue abilità politiche sono riconosciute nelle cancellerie di tutto il mondo. Non è un mistero che fosse contrario all’invasione dell’Ucraina, così oggi sembra essersi allontanato dalla cerchia ristretta del presidente.
«Non abbiamo in programma di attaccare altri Paesi, non abbiamo nemmeno attaccato l’Ucraina». Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov si è presentato alla conferenza stampa al Regnum Carya Hotel di Antalya, in Turchia, con la faccia del giocatore di poker, come se queste settimane fossero un passaggio normale nella storia della Russia, dell’Europa, del mondo. Sembra di riascoltare le sue stesse parole alla Conferenza di Monaco, nel 2015, quando disse che in Crimea la Russia non aveva fatto nulla di illegale.
In un altro giorno potenzialmente decisivo che poi non si è rivelato tale – come praticamente tutti i precedenti – Lavrov si è limitato a ribadire la posizione del suo Paese – «abbiamo risposto a una minaccia alla Federazione russa» – e ha accusato la controparte Occidentale, sottolineando che il Pentagono ha creato laboratori in Ucraina «per sviluppare armi biologiche». Accusa ovviamente già smentita dagli Stati Uniti.
Avrebbe mentito di nuovo dicendo che «lo sforzo per i corridoi umanitari della Russia resta», perché sono giorni che ogni tentativo di far evacuare i civili deraglia sotto i colpi dell’artiglieria russa.
Lavrov è come l’allenatore di calcio aziendalista che difende le scelte del club anche quando gli vendono il centravanti prediletto. È uno degli uomini di fiducia di Vladimir Putin, guida il ministero degli Affari esteri dal marzo 2004 e sa sempre cosa chiede il presidente. Ma è ormai di pubblico dominio la notizia che lo vedrebbe quanto meno scettico sull’invasione dell’Ucraina.
Per uno abituato a fare l’equilibrista tra gli eccessi del Cremlino e l’etichetta dei vertici internazionali, l’offensiva verso l’Ucraina rappresenta uno scossone difficile da assimilare. E infatti fin primi giorni dell’invasione la sua presenza si è fatta sempre più sbiadita, per poi riapparire perfettamente allineato al regime: non che ci siano molte alternative, alla corte di Putin.
Negli ultimi due decenni Lavrov è stato l’uomo incaricato di tradurre nel linguaggio della diplomazia le ambizioni geopolitiche dello zar. A volte grazie alle sue capacità qualcuno lo ha fatto passare per una colomba piuttosto che un falco, probabilmente prendendo una cantonata. Il ministro russo ha sempre saputo dialogare con l’Occidente nonostante le divergenze apparentemente insormontabili. In un articolo del 2013 il New York Times scriveva di lui: «È un burocrate, è un buon diplomatico e non dirà mai nulla che contraddica la linea ufficiale del Cremlino».
Diplomatici e ministri degli esteri di tutto il mondo lo dipingono come un diplomatico duro, affidabile ed estremamente sofisticato, dedito al lavoro.
Nel diario in cui racconta i suoi anni alla Farnesina e a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni lo definisce «sornione e spiritoso […] l’uomo più intelligente mai conosciuto» (“La sfida impopulista”).
L’ex ministro degli Esteri austriaco, Ursula Plassnik, ha definito Lavrov «uno degli attori di politica estera più informati e rispettati nel panorama globale», uno che durante la sua prima visita a Mosca l’aveva accolta con un mazzo di rose gialle. E sono ormai famose le sue lunghe chiacchierate – passeggiando o accomodati in poltrona – con l’ex Segretario di Stato americano John Kerry, con cui di certo non può dire di condividere visioni politiche.
Tuttavia, maneggiare l’arte della diplomazia significa anche sapersi costruire una posizione di forza al momento del faccia a faccia. Nella cassetta degli attrezzi di Sergej Lavrov non mancano i toni duri e le accuse dirette. E a volte deve essere impassibile più di ogni altra persona nella stanza: dopotutto il soprannome di Mr. Niet (Mr. No) non gli sta così male.
È passato appena un mese da quando ha tentato di ridicolizzare il ministro degli Esteri britannico Liz Truss per la sua scarsa conoscenza della geografia russa. E circa un anno fa aveva voluto umiliare l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, espellendo dalla Russia un gruppo di diplomatici europei – colpevoli di aver partecipato a manifestazioni a sostegno di Aleksej Navalny – poco prima di un incontro bilaterale.
Sergej Viktorovič Lavrov è nato a Mosca il 21 marzo 1950 e ha iniziato la carriera nel 1972 dopo essersi laureato all’Istituto di Relazioni Internazionali dell’Università di Mosca, centro di formazione d’eccellenza della scuola diplomatica moscovita.
Il primo lavoro è stato quello di segretario nella sezione per le relazioni economiche internazionali dell’Unione sovietica; poi Consigliere sovietico all’Onu per quasi un decennio, negli anni ’80. E nella neonata Federazione russa ha iniziato come viceministro degli Affari esteri, prima di tornare all’Onu nelle vesti di ambasciatore della Russia. Poi dal 2004 è diventato ministro di Putin. Basterebbe il suo curriculum per intuire che non rientra nello stereotipo del funzionario pubblico sovietico appiattito sulle idee del partito.
Lavrov parla perfettamente quattro lingue: inglese, francese e singalese, che imparò per il suo primo incarico all’estero, in Sri Lanka, oltre il russo. Ha una passione per il rafting, il calcio, la poesia, il whisky e ovviamente i sigari, che lo portarono allo scontro con il segretario generale dell’Onu Kofi Annan, che aveva deciso di proibire il fumo nel Palazzo di Vetro.
Per Lavrov la diplomazia può essere un’arma fondamentale per un Paese grande e militarizzato come la Russia. D’altronde era lo strumento prediletto di uno dei suoi punti di riferimento della storia politica russa: il Principe Aleksandr Gorčakov, ministro degli esteri al servizio dello zar dal 1856 al 1882, era riuscito, nelle parole di Lavrov, «a gestire il ripristino dell’influenza russa in Europa dopo la sconfitta nella guerra di Crimea, e lo fece senza ricorrere alle armi ma esclusivamente attraverso la diplomazia».
Oggi però il suo atteggiamento pare averlo reso quasi un outsider nel governo russo, ai margini della cerchia di Putin. Oltre al danno anche la beffa: è sembrato ancora più debole politicamente quando, la settimana scorsa, la maggior parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha disertato la sala mentre Lavrov cercava di difendere l’invasione della Russia durante un collegamento video.
Probabilmente in questa fase il ministro degli Esteri sta semplicemente aspettando che passi la marea, in attesa del suo turno.
Sa che non può interferire con le dinamiche del Cremlino, non può remare in direzione opposta a quella di Putin, così accetta di ridurre il suo incarico a quello di portavoce di decisioni già prese. Allora per adesso Lavrov mette la sua esperienza al servizio di strategie che – con buona probabilità – non condivide, o non del tutto. Da ultimo lo dimostrano le dichiarazioni del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba dopo l’incontro a porte chiuse in Turchia con Lavrov. «Mi ha detto, guardandomi negli occhi, che le foto delle donne incinte scattate in mezzo alle macerie erano fasulle, e che la Russia aveva colpito l’ospedale pediatrico perché l’esercito russo era assolutamente sicuro che era sotto il controllo dell’esercito ucraino».
Mikhail Watford, la morte "inspiegabile" dell'oligarca russo a Londra: "Mentre Putin attaccava l'Ucraina...". Pista inquietante. Libero Quotidiano il 04 marzo 2022.
Giallo nel Regno Unito, dove un oligarca di origini ucraine, Mikhail Watford, è deceduto a 66 anni in circostanze sospette lunedì scorso. La polizia ha fatto sapere che sarebbe morto in maniera "inspiegabile". Lo riporta il Daily Mail. Il suo corpo è stato trovato nel garage della sua esclusiva magione, nella campagna inglese del Surrey. Lascia una moglie di origine estone e tre figli.
Watford ha iniziato ad arricchirsi grazie al lavoro nel settore dell’energia nell’Unione sovietica, poi ha creato un vero e proprio impero immobiliare in Gran Bretagna. La guerra in Ucraina, comunque, non lo aveva danneggiato dal punto di vista economico, visto che le sanzioni applicate ad altri oligarchi non lo riguardavano. Il suo nome non appariva nella lista dei "puniti" da parte del governo britannico.
L'elenco degli oligarchi sanzionati, tra l'altro, stando a quanto annunciato dal premier Boris Johnson, molto presto si allungherà. Tornando al caso Watford, il tabloid inglese Sun ha riportato la voce di un amico di famiglia secondo cui lo stato mentale dell'oligarca sarebbe stato travolto in maniera violenta e pesante dal conflitto scoppiato in Ucraina. In ogni caso, il fatto che la sua morte sia avvenuta contemporaneamente a quanto sta succedendo a Kiev non sarebbe considerato come una coincidenza.
DAGONEWS il 3 marzo 2022.
I figli dei ricchi oligarchi russi e dell'élite del Paese chiedono la pace in Ucraina e si scagliano contro Vladimir Putin per lo spargimento di sangue.
A mostrare sostegno all’Ucraina c’è anche Maria Yumasheva, figlia del consigliere del governo Valentin Yumashev. Suo padre è stato fondamentale per far salire Putin al potere dopo essere stato uno delle persone più fidate di Boris Eltsin. Ma la 19enne ha sfidato il padre e nella parte superiore del suo feed di Instagram ha postato una bandiera del Paese con accanto la scritta “No War”.
Sofia Abramovich, figlia dell’oligarca Roman, si è scagliata direttamente contro Putin: «La bugia più grande e di maggior successo della propaganda del Cremlino è che la maggior parte dei russi è al fianco di Putin»
Ed Elizaveta Peskova, 24 anni, figlia del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, ha postato "No alla guerra" su Instagram. Ma il post è sparito dopo un’ora.
Tonia Mastrobuoni per repubblica.it il 9 marzo 2022.
I loro padri hanno accumulato ricchezze inaudite giurando fedeltà a Vladimir Putin, loro hanno studiato nelle università più esclusive, girano il mondo in jet privati e alberghi di lusso e postano spensierate foto delle Maldive e delle loro feste annaffiate da fiumi di champagne. E forse una vita da pariah e la prospettiva di trascorrere le prossime vacanze sul Mar Nero o in Siberia le alletta poco. La loro rabbia trapela ancora di rado, sotto forma di post su Instagram che vengono cancellati in un batter d’occhio. Ma dall’inavvicinabile olimpo dei boiardi di Putin sembra trapelare, almeno sui social, un timido dissenso.
Mentre l’aggressione militare russa contro l’Ucraina si inasprisce e l’Occidente risponde con una stretta finanziaria senza precedenti e congelando gli incommensurabili patrimoni dei fedelissimi del Cremlino, le figlie degli oligarchi cominciano a uscire dai loro nascondigli dorati. Complice una guerra che secondo Bloomberg ha già bruciato 80 miliardi di dollari, un terzo delle ricchezze dei 20 miliardari russi più facoltosi. Da giorni le cronache dei loro mega yacht sequestrati in ogni angolo del mondo hanno conquistato le prime pagine dei giornali.
La figlia del più famoso oligarca russo del mondo è stata la prima a uscire allo scoperto. Sofia Abramovich è la figlia di Roman. E prima ancora che il padre, che siede su un patrimonio da 11,7 miliardi di euro, annunciasse che venderà il Chelsea e donerà i proventi alle vittime della guerra in Ucraina, la ventisettenne ha postato su Instagram un cartello in cui si legge che “Putin vuole una guerra contro l’Ucraina” e che “la bugia più grande e più efficace della propaganda del Cremlino è che la maggioranza dei russi stia con Putin”.
Per un’ora scarsa anche la figlia dello storico portavoce di Putin, Dmitrij Peskov è riuscita a esprimere il suo disagio su Instagram. Elisaveta ha scritto “no alla guerra”, poco dopo il post è sparito. Da venerdì il suo account da 238mila follower è diventato privato, inaccessibile. Ma la crisi in famiglia non era scontata: Elisaveta ha postato spesso immagini del padre, i due sono legatissimi.
Maria Yumasheva è invece la nipote dell’ex presidente russo Boris Eltsin e dell’attuale consigliere di Cremlino, Valentin, uno dei grandi kingmaker di Putin. La diciannovenne ha postato addirittura una foto della bandiera ucraina e la didascalia “no alla guerra” e la scorsa settimana ha sfilato a Londra con i manifestanti pacifisti. Il suo compagno è Fedor Smolov, il primo calciatore della Nazionale russa ad essersi espresso contro l’invasione russa.
Ksenia Sobchak - figlia di Anatoly Sobchiak, l'ex sindaco di San Pietroburgo che ha sdoganato Putin politico assumendolo al Comune con un ruolo di responsabilità e della senatrice in carica Ludmila Narusova, una delle poche voci in dissenso con questa guerra - ex candidata alle presidenziali, è scappata in Turchia con suo figlio. Su Instagram ha ammesso di essere spaventata e ha rivolto un appello a Putin perché fermi la guerra.
E’ difficile capire quanto il loro neo pacifismo possa smuovere l’insondabile inner circle di Putin. Abramovich, ad esempio, sembra in sintonia con la figlia: la notizia che abbia deciso di vendere il Chelsea per devolvere i proventi a chi soffre per il conflitto in Ucraina ha sorpreso molti.
Ma a prescindere dalla mini ribellione delle rampolle, qualcosa si muove anche nelle immediate vicinanze del Cremlino. Il fondatore di Alfa Bank, Mikhail Friedman, finito sulla lista degli oligarchi colpiti dalle sanzioni occidentali, è stato il primo a esprimersi pubblicamente contro il onflitto, definendolo una “tragedia” e una “carneficina” in una lettera ai dipendenti. Anche il magnate dell’acciaio Alekseij Mordashov ha parlato di una “tragedia di due popoli fraterni” lagnandosi delle restrizioni occidentali imposti ai suoi patrimoni.
Il miliardario russo preferito dall’ex presidente americano Donald Trump, Oleg Deripaska, si è svegliato pacifista dopo le sanzioni che lo hanno preso di mira. Ha scritto su telegram che “i negoziati devono cominciare subito”. Mentre il fondatore di Tinkoff Bank Oleg Tinkov, che si sta sottoponendo in queste settimane alla chemioterapia, ha chiesto che si spendano soldi per la ricerca sul cancro “invece che per la guerra”.
Forse è solo questione di tempo finché la minuscola crepa nel sistema si possa trasformare in qualcosa di più serio. Ma le ricchezze degli oligarchi che continueranno a squagliarsi come neve al sole sotto il peso delle sanzioni, sicuramente aiuteranno.
Luca Piana per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 15 marzo 2022.
Il telefono squilla a lungo, risponde una donna: «L'albergo in questa stagione è chiuso, mi dispiace. La signora Ljubov Orlova? Non è qui. Va bene, provi a lasciare un numero, vedrò se può richiamare, buona giornata».
Alla fine la risposta non arriverà e la curiosità rimarrà insoddisfatta. Un peccato, perché dai dati societari traspare una storia che potrebbe rivelarsi avvincente: Ljubov Orlova, nata a Mosca nel 1972, porta il nome e il cognome di una delle più celebri attrici del cinema sovietico, premio Stalin in ben due occasioni, nel 1941 e nel 1951.
È la presidente del consiglio di amministrazione della società che gestisce il Don Diego, un albergo quattro stelle dagli ottimi giudizi su Tripadvisor che si affaccia sull'isola Tavolara, due piscine a pochi passi dal mare e la spiaggia privata in una baia incantevole. Non è l'unica azionista: al suo fianco figura una società di Cipro, tradizionale e riservato punto di transito dei capitali russi che fino a ieri affluivano in Italia.
Per farsi raccontare come da Mosca sia approdata sulle coste della Sardegna, bisognerà attendere un'altra volta, magari alla riapertura. Non è un caso isolato. Stando ai dati elaborati da Infocamere, la società dei servizi digitali delle Camere di Commercio, nelle aziende italiane ci sono ben 8.622 cariche ufficiali ricoperte da persone nate in Russia.
Non sono quasi mai oligarchi, perché i pezzi grossi della nomenclatura economica che ruota attorno a Vladimir Putin si sono fatti da parte o mimetizzati già dopo l'invasione della Crimea del 2014.
Molti dei russi d'Italia, al contrario, sono persone con attività imprenditoriali spesso normali, che hanno trovato lavoro qui o si sono fermate dopo gli studi. Le più numerose sono attività professionali, quindi piccole.
Le società di capitale, invece, controllate interamente da soggetti russi sono circa 500, mentre quelle con azionisti apparentemente di altre nazionalità ma gestite da cittadini russi salgono a cinque volte tanto, circa 2.500.
Nel totale non mancano i casi più importanti, come i manager del colosso petrolifero Lukoil che amministrano la raffineria siracusana Isab, la casa vinicola astigiana Gancia, l'impianto per la produzione di alluminio Eurallumina di Portovesme - da tempo impelagato in un difficile piano di salvataggio - oppure il produttore milanese di sistemi metallici Dkc Europe, nel quale imprenditori basati a Mosca possiedono una rilevante quota di minoranza attraverso una holding chiamata Adventus International.
Nel complesso, tuttavia, i dati mostrano che le attività preferite dai russi d'Italia si concentrano nel commercio, nel settore immobiliare e nei servizi, spesso legati al turismo. Chi ha voluto esporsi in prima persona dopo l'invasione dell'Ucraina è Andrey Yakunin, classe 1975, nato a Leningrado, come si chiamava allora San Pietroburgo, oggi cittadino britannico.
Il cognome non può passare inosservato: il padre Vladimir, ex Kgb, ha ricoperto in passato importanti ruoli sotto il dominio di Putin, compreso quello di presidente delle ferrovie. Andrey vive a Londra ed è il fondatore di una società lussemburghese di gestione degli investimenti che si chiama Venture Investment & Yield Management (Viym).
Una società che oggi fa riferimento a Viym, la Northern Lights Investment, nel 2013 aveva cominciato a rilevare delle quote nell'azienda italiana che possiede il campo da golf e il castello medievale di Antognolla, uno di quegli angoli dell'Umbria che strappano il cuore ai viaggiatori.
Il bilancio rivela che la Northern Lights ha già investito nell'operazione 55 milioni di euro ma il grosso deve ancora venire: proprio questo mese dovrebbero partire lavori per 100 milioni che trasformeranno la rocca in un resort di lusso, in grado di dare lavoro a 300 persone.
Yakunin si è subito schierato contro la guerra scatenata da Putin. In varie interviste ha ribadito che i capitali impiegati in Umbria arrivano da diversi investitori europei e che Vladimir, il padre, non ha mai avuto niente a che fare con la Viym o con il progetto umbro.
Un altro profilo è quello dell'architetto Dmitry Kulish, uno dei russi d'Italia più attivi. Se si cerca sul web "Villa Capponi" ci si imbatte nel sito attraverso il quale due venditori di grande prestigio - Sotheby's International Realty e Knight Frank - illustrano l'antica proprietà sui colli di Firenze della famiglia che diede i natali al celebre Pier Capponi, appena restaurata e trasformata in residenze di lusso.
A firmare il progetto è proprio Kulish, che si è laureato in architettura a Firenze nel 2012 ed è titolare di una società di design con uffici sul Lungarno e sede a Sansepolcro.
Contattato, in questo momento Kulish ha preferito non rispondere a domande sulle sue attività. Le società di cui è azionista o amministratore mostrano che i progetti immobiliari nei quali è attivo coprono un raggio molto ampio, dall'Ogliastra in Sardegna a castelli e dimore storiche di grande notorietà tra l'Umbria e la Toscana.
L'architetto non opera da solo, perché in alcune delle sue iniziative compare come azionista di maggioranza una società d'investimenti con sede anch'essa in Lussemburgo, la Accent Investments, a sua volta costituita nel 2014 da una società delle Isole Vergini Britanniche e gestita attualmente da Alexei Semenov, imprenditore nato a Leningrado nel 1969 e domiciliato a Limassol, a Cipro.
Va detto che non tutte le imprese dei russi d'Italia godono di grande salute. Vale sia per i colossi che per le operazioni minori. La Lukoil, il cui consiglio di amministrazione il 3 marzo scorso si è schierato apertamente contro la guerra con una nota ufficiale molto esplicita, ma che è stata comunque colpita dalle sanzioni, da tempo tenta di vendere la raffineria Isab di Priolo Gargallo, vicino a Siracusa.
La Fratelli Gancia di Canelli, conosciuta per l'Asti Spumante e acquistata nel 2011 dal tycoon Roustam Tariko, ha impiegato lunghi anni per essere risanata e ha ceduto parte delle tenute originali, quelle dove produceva vini fermi. Su scala certamente minore, le delusioni non sono mancate nemmeno nell'immobiliare. Poco a Sud di Ancona, dove iniziano le scogliere calcaree del Conero, c'è una villa costruita in una posizione stupenda, proprio a picco sul mare.
Il valore di bilancio dell'immobile contabilizzato nella società che ne custodisce la proprietà, la Stamira Immobiliare, è di 6,8 milioni di euro. La società è amministrata da una signora russa che ha la cittadinanza italiana e per professione si occupa di gestire pratiche consolari. Il vero proprietario, però, non figura di persona: il 98 per cento della Stamira è custodito da una fiduciaria marchigiana, il resto è nelle mani di una holding di Cipro. In ogni caso, sul Conero, pare non si faccia vedere da tempo: la villa può essere affittata attraverso uno specifico sito web.
Altro mare, il Tirreno, sulla costa rocciosa di Castiglioncello. La dimora questa volta è storica, si chiama Villa Godilonda, e deve il suo nome a Gabriele D'Annunzio. A lungo disabitata, era stata acquistata nel 2014 da un imprenditore russo di nome Timur Zaynutdinov, che aveva promesso di farne un resort di lusso e che in Italia risulta amministratore di ben tre società immobiliari diverse.
Tutto però è rimasto fermo per anni, forse a causa delle liti fra Zaynutdinov e i suoi soci di minoranza. Risultato, il degrado si è fatto sempre più strada, al punto che da rifugio del Vate la villa è diventata una discarica abusiva.
Enea Conti per corriere.it il 15 marzo 2022.
Oltre un miliardo di euro di beni (non solo i soliti yacht ma anche ville e immobili) sono stati sequestrati in Italia agli oligarchi russi dopo le sanzioni imposte per la guerra in Ucraina. E non è finita qui, le liste sono ancora in fase di compilazione e all’appello mancherebbe anche una villa che sorge nel cuore dal Parco del San Bartolo, nelle Marche.
A Pesaro tutti la chiamano «Villa Rudas» (era di Tibor Rudas, tra i manager di Luciano Pavarotti che pure soggiornò spesso da queste parti a Villa Giulia di sua proprietà) ma all’ingresso di questa tenuta quasi nascosta nel verde delle colline che si affacciano sull’Adriatico nella pietra è scolpita una scritta «Villa M», dove la M sta per Matvienko, la famiglia della terza carica dello Stato russo, la presidente del consiglio federale (che è la camera alta del parlamento), la settantaduenne Valentina Matvienko, già sindaca di San Pietroburgo.
Non una persona qualunque ma una delle più fidate di Vladimir Putin, tra le personalità più potenti del Paese che il sito della fondazione Aleksej Navalny, l’organizzazione legata all’omonimo dissidente politico ora incarcerato, definisce il «braccio destro di Putin» anche e soprattutto nell’ambito del conflitto russo-ucraino, nonché «esempio di corruzione e arricchimento goduto grazie alla sua vicinanza al presidente».
L’acquisto
Ad accendere i riflettori della stampa sulla villa è stata proprio una piccola inchiesta portata avanti dalla fondazione Navalny: alcuni reporter sono andati di persona a Pesaro a ripercorrere le vicende «italiane» dell’oligarca russa.
Che a Pesaro era già più o meno nota ma che alla luce del conflitto in corso sono ritornate in auge non senza l’imbarazzo di molti cittadini. Bisogna tornare indietro al 2009 per capire come – più o meno - siano andate le cose. Durante l’amministrazione dell’allora futuro presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli, Valentina e Sergey Matvienko acquistarono l’ex Villa Rudas per sette milioni di euro.
Al Comune marchigiano favorirono anche un assegno da 20.000 euro per coprire le spese (o parte delle spese) per finanziare lo spettacolo pirotecnico della seicentenaria festa del porto, molto sentita dai cittadini e ingraziarsi la città che li avrebbe ospitati perlomeno per le vacanze.
I soggiorni Sergey Matvienko
Va detto che l’habituè della villa finì per essere il figlio della «zarina» (come è soprannominata dalla fondazione Navanly e pare anche da qualche pesarese), negli ultimi anni anche in compagnia della moglie.
I reporter della fondazione russa hanno diffuso alcune foto pubblicate sul suo account Instagram raffrontandole con alcune riprese aeree fatte a Pesaro di recente: dai dettagli ambientali, pare che la coniuge della figlia dell’oligarca russa abbia soggiornato a «Villa M» almeno fino all’estate del 2019.
I lavori della discordia
Al di là della villa le cronache ricordano anche altri episodi, non privi di polemiche. Qualche anno dopo l’acquisto – la villa è formalmente di proprietà di una società immobiliare sconosciuta – i Matvienko tentarono in tutti i modi di conquistare il loro angolo di paradiso immerso nel Parco San Bartolo: immaginando uno sbocco privato sul mare e un eliporto: partirono lavori di disboscamento (per costruire la strada) e di costruzione dell’eliporto ma fu tutto bloccato dall’amministrazione di Pesaro.
Gli altri oligarchi
Pochi anni dopo la Matvienko, a Pesaro arrivò anche un noto industriale russo del settore farmaceutico, Boris Spiegel. Anche lui acquistò una villa ma sul colle Ardizio, altra terrazza sul mare marchigiano. Gli costò quattro milioni di euro.
Ma l’oligarca sparì ben presto: di recente Spiegel è stato arrestato in Russia per corruzione anche se la stampa locale parla di divergenze con Putin per la produzione del vaccino Sputnik, quello arrivato a migliaia di dosi poco più in là di Pesaro in cima al Monte Titano, a San Marino, che da Pesaro quando il cielo è terso non si fatica a intravedere all’orizzonte.
Vladimir Putin, caccia agli oligarchi italiani: nomi, proprietà e ruolo nella guerra in Ucraina. Libero Quotidiano il 07 marzo 2022.
Dopo che la Russia è stata estromessa dal circuito Swift, l'Italia ora sequestra 140 milioni di euro agli oligarchi russi. Un passo ulteriore nel tentativo di strangolare economicamente Putin in seguito all'attacco alla Ucraina, che però non è ancora una mossa indiscriminata verso i cittadini russi. La prima misura, infatti, si applica solo alle banche russe. Colpisce dunque un italiano che ci abbia un conto, ma non un russo che abbia un conto su una banca italiana.
La seconda è invece una lista nominativa di 680 persone individuate dalle sanzioni europee, e tra di loro 26 super-ricchi, in base al «listato nel Regolamento Ue 202/336 del Consiglio del 28.02.2022». «Sono in corso di adozione provvedimenti di congelamento sul territorio italiano di beni mobili e immobili appartenenti a soggetti russi presenti nelle liste dei regolamenti europei per circa 140 milioni di euro», ha riferito il ministero dell'Economia e Finanze. «Una prima operazione è stata già perfezionata e riguarda un'imbarcazione del valore di 65 milioni di euro. Altri provvedimenti sono in corso di adozione». All'inizio si era pensato per il costo allo yatch da 88 metri di Igor Sechin, patron del colosso statale del petrolio Rosneft: una imbarcazione che nel nostro Paese è stata avvistata spesso. Ma poi si è visto che la Finanza ha invece "congelato" nel porto di Imperia il maxi yacht Lady M: imbarcazione di 65 metri dell'oligarca russo Alexei Mordashov, presidente del gruppo siderurgico Severstal, e inserito nella lista nera europea.
PROPRIETÀ DA SOGNO - La stessa sorte è toccata a Villa Lazzareschi in provincia di Lucca, che vale 3 milioni di euro ed è riconducibile a Oleg Savchenko, oligarca anche membro della Duma di Stato che ha votato a favore della risoluzione n. 58243-8 relativa all'appello dell'Assemblea federale della Federazione russa per il riconoscimento di Luhabsk e Donetsk. Uguale destino per il Lena: panfilo da 52 metri e 50 milioni di dollari ormeggiato a Sanremo e appartenente a Gennady Timchenko. Oltre a essere proprietario della potente holding Volga Group, è amico personale di Putin. Nella lista è anche Alisher Usmanov, proprietario del gigante dell'alluminio Metalloinvest. Possiede in Italia Villa Merloni a Romazzino, Villa Maramozza a Lerici e altre sette o otto abitazioni di lusso tra cui una da 17 milioni sul Golfo del Pevero già sequestrata. Eduard Khudaynatov, ex-presidente di Rosneft e proprietario di Villa Altachiara a Portofino. Arkady e Boris Rotenberg: attivi nel settore del petrolio e considerati vicinissimi al presidente Vladimir Putin, sono proprietari della Tenuta Olmo nel Comune di Monte Argentario.
Proprio per gestire la decisione il ministero dell'Economia e delle Finanze ha riunito il comitato di sicurezza finanziaria, da cui è arrivata la richiesta della Uif di Bankitalia a banche e operatori finanziari di comunicare «non appena possibile» le «misure di congelamento di fondi e risorse economiche» dei soggetti russi colpiti dalle sanzioni europee. A differenza di quanto affermato da un post virale su Telegram, non è invece in corso alcun blocco sui conti di tutti i cittadini di nazionalità russa. È una bufala, che nasce dal fatto che vari cittadini russi in Italia si appoggiano su conti in Russia e dopo l'estromissione della Russia dal sistema Swift stanno affrontando il blocco del circuito Visa e Mastercard. È successo in particolare a turisti venuti per la Milano Fashion Week. In Italia al primo gennaio 2021 risultavano residenti 39.746 cittadini russi: 7553 uomini e 32.193 donne. La sproporzione indica un certo numero di italiani sposati con russe, che però possono così acquisire la cittadinanza italiana, oltre a conservare la propria. Cosa che vale anche per italiane sposate con russi. Anche in caso di provvedimenti verso i cittadini russi, al momento non in agenda, prevarrebbe la cittadinanza italiana. Nel 2020 le russe erano la terza cittadinanza tra le straniere sposate da italiani con il 7,5% del totale: le ucrainE erano però il 14,9%, contro il 18% delle romene e il 5,9% delle brasiliane.
Gli oligarchi russi Smyshlyaev a Como, il padre filo-Putin e il figlio oppositore in prigione in Russia. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2022.
Andrey Smyshlyaev in carcere dal 2019 nella città di Ufa: è accusato di una bancarotta da 40 mila euro. Il padre, imprenditore delle telecomunicazioni, è nel «cerchio magico» di Vladimir Putin. Alla famiglia è collegata una villa sul lago di Como.
Gli oligarchi Smyshlyaev: il padre, boss delle telecomunicazioni, è un uomo del «cerchio magico» di Putin; il figlio, rintracciato dalla nostra polizia nel 2019, è da tempo un oppositore e infatti sta in prigione in Russia. A entrambi, in un ampio elenco di proprietà, è collegata una villa sul lago di Como.
La Finanza nelle ville dei magnati russi
Dunque, il lago di Como: la stessa zona dove la Guardia di finanza ha appena congelato i beni del presentatore Solovjev; dove ulteriori proprietà di ulteriori russi sono al centro di cambiamenti last minute (intestazioni a prestanome oppure direttamente vendite); e dove bisognerà capire se e come verrà aggredita anche la lussuosa dimora degli Smyshlyaev. La lista nera contro gli oligarchi, del resto, è in continua evoluzione. Bruxelles invia gli elenchi nei Paesi membri dell’Unione europea, e ognuno si attiva a modo suo. Qui il carico del lavoro, che ci dicono stia procedendo a ritmi intensissimi, finisce alla Finanza. Analisi, localizzazioni, esami incrociati, provvedimenti.
L’arresto per bancarotta
Degli Smyshlyaev, dobbiamo ricordare non tanto i trascorsi del padre, uguali a quelli di mille altri, bensì il passato del figlio, che si chiama Andrey (la prigione è nella città di Ufa, nella parte verso il Kazakistan: s’ignorano il regime detentivo e le condizioni di salute). Contro di lui, su innesco di Putin, pendeva un mandato di cattura internazionale per il reato di bancarotta, ma per una distrazione di soldi pari a 40mila euro: il nulla se confrontato all’impero di famiglia. Nonostante le argomentate opposizioni legali, e potendo ragionare su precedenti casi simili che avevano evidenziato una mera azione di regime a scopi punitivi, l’Italia aveva comunque concesso l’estradizione, e Smyshlyaev (il figlio, ché il padre prosegue a girare il mondo su barche ancorate ai Caraibi) era stato rispedito in Russia.
Jacopo Iacoboni Gianluca Paolucci per "La Stampa" il 6 marzo 2022.
Roustam Tariko, re della Vodka, cittadino onorario di Olbia, ha Villa Minerva a Porto Rotondo che comprò nel 2006 per 15 milioni - da Veronica Berlusconi. Vasily Anisimov, amico di Berlusconi, è il proprietario della villa Il Tulipano, a Porto Cervo. La società Terra Services, con sede a Londra, controlla le proprietà di lusso di Oleg Deripaska in tutto il mondo attraverso una rete di società sussidiarie (Deripaska è il magnate dell'alluminio già plurisanzionato negli Stati Uniti per vicende collegate all'interferenza estera della Russia nelle elezioni americane che portarono all'elezione di Donald Trump).
Queste case includono splendide ville a Saint-Tropez e, in Sardegna, la villa Walkirie a Porto Cervo. Villa Merloni a Romazzino è di Alisher Usmanov, al quale da venerdì è stata messa sotto sequestro una proprietà di lusso al Pevero, e che sarebbe - secondo il Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky - il proprietario ultimo di altre otto ville in Sardegna e di Villa Maramozza, sulla punta della caletta di Lerici. E poi ancora yacht, ville, tenute in Toscana, quote societarie.
La mappatura dei beni e delle proprietà italiane degli oligarchi russi sanzionati dalla Ue - e di quelli che potrebbero esserlo nei prossimi giorni - sta impegnando la Guardia di finanza in questi giorni, tra reti di scatole societarie offshore, nascoste in paradisi fiscali e costituite proprio per nascondere il reale proprietario e la reale provenienza del denaro. Un lavoro che sarebbe più semplice se l'Italia avesse istituito il Registro dei beneficiari ultimi, come richiesto da una normativa europea alla quale l'Italia non ha ancora dato applicazione.
Quella di venerdì scorso è solo la prima ondata dei sequestri di beni degli oligarchi. Nei prossimi giorni, dicono fonti incrociate a La Stampa, dovrebbero arrivare altri provvedimenti. I beni - congelati per sei mesi con provvedimenti amministrativi emanati dal Mef - saranno gestiti all'Agenzia del Demanio. Almeno 143 milioni di euro il valore degli asset colpiti dal provvedimento, che oltre alla villa del Pevero di Usmanov ha riguardato anche lo yacht di Alexei Mordashov, presidente della società Severgroup, azionista della Rossiya, definita dal Tesoro Usa «la banca di Putin», che ha avuto un ruolo importante nel processo di annessione della Crimea e nella guerra in Ucraina.
E quello di Gennadij Timchenko, amico di Putin dai tempi di San Pietroburgo e diventato straordinariamente ricco con la sua ascesa al potere. Congelate anche le ville sul lago di Como di Vladimir Soloviev, presentatore della tv pubblica russa, noto per le sue arringhe anti-occidente e contro i gay, volto della propaganda del Cremlino che dopo l'annuncio delle sanzioni si mise a piangere in tv per il fatto che avrebbe dovuto rinunciare alle sue dimore italiane. Sarebbe invece al sicuro in Uzbekistan da qualche giorno l'enorme Airbus A340-300 adattato ad aereo privato da Usmanov, che spesso staziona all'aeroporto di Olbia.
Nel testo delle sanzioni l'Ue scrive che Usmanov «si è schierato agendo per conto del presidente Putin e ha risolto i suoi problemi di affari. Secondo i Fincen files ha pagato 6 milioni di dollari all'influente consigliere di Vladimir Putin, Valentin Yumashev. Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia ed ex presidente e primo ministro della Russia, ha beneficiato dell'uso personale di residenze di lusso controllate dal signor Usmanov. Pertanto ha attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina».
Un ritratto distante da quella che è (era) la sua immagine pubblica in Italia, costruita finanziando il restauro della Sala degli Orazi e Curiazi ai Musei capitolini, dell'Ambasciata italiana a Mosca, Villa Berg, o donando un milione alla Regione Sardegna all'inzio della pandemia Covid. Nel 2017 ha ricevuto l'Ordine al merito della Repubblica italiana. Uno dei tanti oligarchi che il Belpaese ha creduto filantropi e mecenati.
Alisher Usmanov, l'oligarca russo e gli intrecci con Virginia Raggi: l'indagine, tam-tam in procura. Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.
Alisher Usmanov è un magnate russo-uzbeko con un legame speciale con Roma. Adorato da due sindaci completamente diversi come Ignazio Marino e Virginia Raggi, l’oligarca adesso deve fare i conti con la Guardia di Finanza, che sta indagando su tutti i suoi beni che si trovano in Italia e quindi anche nella sua amata Capitale che ha contribuito a migliorare con alcune ricche donazioni.
Una delle più famose risale al 2017, quando Usmanov staccò un assegno da 300mila euro per il restauro della sala degli Orazi e Curazi dei Musei Capitolini. “È grazie anche ai mecenati come lui che possiamo ricominciare a fruire di questi spazi - dichiarò all’epoca la sindaca Raggi - il mecenatismo è qualcosa che fa bene a chi lo fa e ai cittadini che ne beneficiano”. Stando a quanto ricostruito da Il Tempo, il magnate russo-uzbeko aveva donato altri 200mila euro per finanziare il restauro della Fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale e prima ancora aveva contribuito con quasi due milioni a diversi lavori, tra cui quelli al Foro di Traiano.
All’epoca il sindaco era Marino, che tra l’altro ha dovuto difendersi in tribunale per presunte spese illecite, accuse dalle quali è stato assolto con formula piena. L’ex primo cittadino era stato a cena con Usmanov, che pagò il conto da 3.540 euro, e pare che proprio in quell’occasione l’oligarca russo espresse per la prima volta l’intenzione di farsi carico delle spese della sala degli Orazi e Curazi.
Caccia all'oro russo. Yacht e mega-ville: gli oligarchi pagano pegno. E parte la ricerca di conti e depositi. Una crisi senza fine: la guerra mette in ginocchio l'economia italiana. Draghi ha paura. Luigi Garbato su Il Tempo il 05 marzo 2022.
«È grazie anche ai mecenati come Usmanov che possiamo ricominciare a fruire di questi spazi. Il mecenatismo è qualcosa che fa bene a chi lo fa e ai cittadini che ne beneficiano». Era il 2017 quando l’ex sindaco di Roma Virginia Raggi pronunciava queste parole in riferimento alla donazione di 300mila euro del filantropo russo-uzbeko per il restauro della sala degli Orazi e Curiazi dei Musei Capitolini. Ma il forte legame che ha l’oligarca Alisher Usmanov con la Capitale è stato dimostrato nel tempo anche con un’altra donazione da 200mila euro, questa volta per finanziare l’intervento di restauro della Fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale.
Il rapporto con la città eterna risale a qualche anno prima, al periodo cioè in cui era primo cittadino Ignazio Marino. Il sindaco aveva infatti annunciato il contributo di quasi due milioni di euro da parte dell’industriale russo, soldi che sarebbero stati utilizzati anche per lavori al Foro di Traiano. La pioggia di denaro che è scesa sulla Capitale potrebbe però interrompersi, poiché la Guardia di Finanza sta indagando su tutti i suoi beni che si trovano in Italia. Le Fiamme Gialle, infatti, dopo aver congelato una villa in Costa Smeralda dal valore di 17 milioni all’azionista di maggioranza di Metalloinvest ed ex direttore generale di Gazprom Invest, amico di Vladimir Putin, non hanno ancora chiuso gli accertamenti nei suoi confronti sul territorio nazionale, compresa la città eterna, con la quale Usmanov ha un solido legame. Il suo nome, tra l’altro, finì anche nell’inchiesta che aveva coinvolto l’ex sindaco Marino per presunte spese illecite, accuse dalle quali fu poi assolto con formula piena.
L’oligarca, infatti, andò a cena in un noto roof garden nella Capitale con l’ex primo cittadino. Nell’elenco delle spese, che durante l’indagine erano state definite dagli inquirenti «non istituzionalmente giustificate», c’era pure la cena da 3.540 euro con Usmanov.
L’ex sindaco Marino aveva affermato che «all’inaugurazione della sala degli Orazi e Curiazi la sindaca (Raggi ndr.) ha fatto l’elogio del mecenatismo e dell’importanza della ricerca di donazioni private. Chissà se ha scritto una lettera con un biglietto d’invito per l’evento ad Alisher Usmanov. Il Movimento 5 Stelle nel 2015 mi denunciò per le mie cene di rappresentanza e negli atti delle indagini della procura tra tutte le spese per le cene di rappresentanza del mio mandato di 28 mesi venne elencata, ovviamente, anche la cena offerta l’11 aprile 2014 ad Alisher Usmanov...fu Alisher Usmanov a offrirsi di farsi carico delle spese (della sala degli Orazi e Curiazi ndr.) dopo che gliene parlai nell’autunno 2014. Usmanov è un personaggio straordinario, con una vita così singolare da meritare un romanzo».
La Finanza, intanto, avrebbe chiuso gli accertamenti in Italia nei confronti di Oleg Savchenzo, Vladimir Roudolfovitch Soloviev, Gennady Nikolayevich Timchenko e Alexey Alexandrovits Mordaschov, colpiti con il blocco dei beni poiché inseriti nella lista nera dell’Unione europea dopo l’invasione dell’Ucraina. L’unica posizione invece ancora in piedi, e sulla quale i finanzieri voglio fare piena luce, è proprio quella del magnate che ha dimostrato negli anni «beneficienza» nei confronti della Capitale. È quindi ancora caccia aperta ad altri beni che uno degli uomini più ricchi della Russia e del mondo potrebbe avere sul territorio italiano e nella città eterna.
Jacopo Iacoboni Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 5 marzo 2022.
Due megayacht, riconducibili a Gennadij Timchenko e Alexey Mordashov, sono stati sequestrati ieri dalla Guardia di finanza. Sono i primi atti concreti delle misure messe in atto in Italia delle sanzioni decise in ambito europeo.
Ieri sera le pattuglie del Nucleo Mobile delle Fiamme Gialle di Imperia messo i sigilli al «Lady M», ormeggiato nel porto della città ligure. Lo yacht, 60 metri, è di proprietà di Alexey Mordashov, 56 anni, titolare del pacchetto di maggioranza di Severstal, società che opera nel settore energia, siderurgia e delle miniere.
Nonché azionista di Rossiya Bank, detta «la banca di Putin», stimato di un patrimonio personale - aggiornato da Forbes a ieri - di 18 miliardi di dollari. Secondo le sanzioni Ue, Mordashov «è responsabile di aver fornito supporto materiale e finanziario e di aver beneficiato dell'annessione della Crimea e la destabilizzazione dell'Ucraina» Stessa sorte per il «Lena», lo yacht dell'oligarca Gennady Timchenko, magnate dell'energia e delle infrastrutture, socio di Novatek e di Sibur Holding nonché amico personale del presidente russo Putin dai tempi del municipio di San Pietroburgo.
Il quaranta metri è attraccato alla banchina di Portosole, a Sanremo. Ieri, due passaggi essenziali per arrivare ai primi provvedimenti: l'Ufficio di informazione finanziaria (Uif) di Bankitalia ha chiesto alle banche italiane di comunicare «le misure di congelamento applicate ai soggetti» colpite dalle sanzioni decise in ambito comunitario nei giorni scorsi in seguito all'invasione dell'Ucraina.
L'Uif ha chiesto «ogni possibile anticipo rispetto al termine massimo di 30 giorni» indicato dalla legge. Bankitalia chiede agli istituti di indicare anche «denominazioni dei soggetti coinvolti, l'ammontare e la natura dei fondi o delle risorse economiche». La comunicazione «deve essere effettuata anche al Nucleo speciale polizia valutaria della Guardia di Finanza». Sempre ieri si è riunito anche il Comitato di sicurezza finanziaria presso il Mef.
Nella riunione, si legge in una nota del Mef, «è stata condotta una ricognizione delle misure di congelamento di fondi, risorse economiche mobili e immobili, sinora adottate nei confronti delle persone ed entità russe» colpite dalle sanzioni. Il comitato è composto da rappresentanti del Mef, dell'Interno, della Giustizia, degli Affari Esteri, della Banca d'Italia, della Consob, dell'Isvap, dell'Unità di informazione finanziaria, della GdF, della Dia, dei Carabinieri e della Direzione nazionale antimafia.
Al momento, oltre ai due yacht in Liguria, sono stati sequestrati beni per circa 140 milioni di euro, che comprendono, si apprende, «beni mobili e immobili» di proprietà di alcuni dei 26 soggetti colpiti dalle sanzioni Ue. La Finanza, tra gli alti, ha messo i sigilli alla villa in toscana di Oleg Savchenko. Della lista, hanno immobili riconducibili in Italia, oltre a Mordashov, anche Alisher Usmanov, Petr Aven e Mikhail Fridman. Mario Draghi sta poi promuovendo un'altra iniziativa: è riuscito a convincere, in seno al G7, alla creazione del «registro mondiale degli oligarchi» anticipato nel suo discorso al Parlamento di lunedì scorso.
Bruxelles sta ora valutando l'adozione di un nuovo pacchetto di sanzioni. Tra le possibili misure in discussione: altri oligarchi sulla black list, altre banche fuori dal circuito Swift, lo stop alle importazioni di alcuni prodotti e il blocco dei porti alle navi russe (come fatto per lo spazio aereo). Reuters parla inoltre di una mossa Usa-Ue per impedire alla Russia di beneficiare dei suoi diritti di prelievo speciali presso l'Fmi, mentre sullo sfondo resta la possibilità di ampliare le sanzioni al settore energetico, in particolare per quanto riguarda la compravendita di petrolio e gas.
Sanzioni contro la Russia sono arrivate anche dalla Svizzera, tradizionale «rifugio» finanziario e non solo di molti oligarchi russi. Ieri alle 18 le autorità elvetiche hanno bloccato i conti bancari riconducibili ad alcuni oligarchi, e l'esportazione in Russia di tutti i beni che potrebbero contribuire al rafforzamento militare e tecnologico del Cremlino o allo sviluppo del suo settore di difesa e di sicurezza. Inoltre, non sono più consentite le transazioni con la Banca centrale russa.
DAGONEWS il 3 marzo 2022.
Il Regno Unito si prepara a sequestrare i beni degli oligarchi russi legati a Vladimir Putin, senza pagare loro un indennizzo. Secondo il Financial Times, il piano preparato dal ministro Michael Gove avrebbe l’avvallo di Boris Johnson. Le proprietà potrebbero essere usate per
ospitare i rifugiati ucraini dopo che il primo ministro ha promesso di farsi carico di migliaia di ucraini costretti a scappare a causa della guerra nel loro Paese.
Il provvedimento potrebbe applicarsi a nove oligarchi sanzionati dal Regno Unito, tra cui Kirill Shamalov, l'ex genero di Vladimir Putin.
Attualmente lo Stato può congelare i beni delle persone soggette a sanzioni, ma non può prenderne possesso senza indennizzo.
E infatti è probabile che il piano vada incontro a non poche difficoltà, tra le quali quelle di dover affrontare dei processi per aver leso il fondamentale diritto alla proprietà.
Ma i parlamentari inglesi oggi hanno criticato il Regno Unito per non essere riuscito ad accaparrarsi una singola villa o un solo bene dagli oligarchi vicini a Putin dando tempo ai miliardari russi di trasformare i loro soldi in Bitcoin. Solo oggi le autorità francesi hanno sequestrato “Amore Vero”, il megayacht legato al boss della Rosneft Igor Sechin, stretto alleato di Vladimir Putin.
Mario Gerevini e Giampiero Rossi per corriere.it il 3 marzo 2022.
Le ville e gli yacht sono in Costa Smeralda, Toscana e Liguria. Ma è a Milano che l’economia russa produce fatturati a sette cifre. Non è come «Londongrad», ma la città ospita sia i colossi, simbolo e traino della ricchezza russa, sia tantissime piccole imprese, professionisti, mediatori.
Il punto di riferimento finanziario ambrosiano di Mosca è una palazzina di piazzale Principessa Clotilde, dove condividono gli uffici Afc e Vtb, due società registrate alla Camera di commercio.
Sono avamposti e appendici della finanza alle dirette dipendenze di Vladimir Putin. Dietro di loro c’è il Cremlino, davanti il muro delle sanzioni che ha escluso dal sistema Swift, le rispettive case madri, Vnesheconombank (Veb) per Afc e Vtb Bank.
Il fantasma Afc
Afc srl è una sorta di fantasma, creata a Milano direttamente da Veb, cioè dalla più importante istituzione finanziaria russa, che gestisce i fondi pensione statali, ha progetti con imprese del settore della difesa e il presidente (oggi Igor Shuvalov) è nominato direttamente da Putin.
È nata formalmente per fornire consulenze commerciali a operatori russi, ma dal 2013 non presenta consuntivi e negli otto anni precedenti i tre consiglieri di amministrazione (tutti di Mosca) hanno firmato bilanci senza un solo euro di ricavi e con decine di migliaia di euro di perdita.
Perché non è stata chiusa? È una sorta di persona giuridica «dormiente» che, tra l’altro, già da tempo è passata sotto il controllo della non meglio identificata Dorstroyservice di Mosca. Al medesimo portone c’è un ufficio di rappresentanza della Vtb, seconda più importante banca russa, controllata dal governo.
Gazprom e Centrex
Si affacciano in periferia, invece, gli uffici di Gazprom. Il cuore pulsante e bandiera dell’economia russa muove circa 230 milioni di fatturato italiano da via Boncompagni, al Corvetto.
E poco distante, in via Lorenzini, c’è la base della controllata Centrex Italia, una trentina di dipendenti, che con il trading di gas ed energia elettrica totalizza a sua volta poco meno di 800 milioni diretti. Un miliardo in totale sui 105 del gruppo a livello mondiale.
Mir Capital, Crotril, Gesa e Gesco
Ma nell’area metropolitana ricadono anche iniziative targate Gazprombank, istituto di credito russo finora non colpito dalle sanzioni: insieme a Intesa Sanpaolo ha creato Mir Capital, che controlla quote di minoranza in due società con base nell’area milanese: Cotril di Bollate, 61 dipendenti e 16 milioni di fatturato, nel settore dei cosmetici di lusso per capelli, e Gesa, che possiede Cioccolati italiani e le pizzerie Italia Express.
«Oltre filiali commerciali e di servizi che in qualche modo fanno parte della galassia di Gazprom, nell’area milanese ci sono una quindicina di realtà di dimensione industriale — osserva il professor Marco Mutinelli, docente di ingegneria gestionale a Brescia ed esperto di internazionalizzazione d’impresa —. Per esempio dal 2012 è partecipata dalle ferrovie russe la Gesco Italia, che opera nella logistica e ha circa 170 dipendenti».
Problemi in vista per le sanzioni? «L’impatto complessivamente è modesto, si tratta di quote minoritarie per le quali i soci italiani non soffriranno certo. E poi tutti si sono già cautelati sul fronte bancario».
Gli investimenti
Parla russo anche un importante azionista della Pirelli, la lussemburghese Tacticum Investments (2,8% del capitale). A chi appartiene? Secondo alcuni documenti il 19,5% fa capo a Ivanovich Arkadiy Mutavchi, russo ex dipendente pubblico, il 17,7% a Carl Mackinder, inglese con residenza a Cipro, il 17,7% ad Anna Avraam, nata a Mosca residente a Cipro ma di nazionalità australiana, il 14,3% a Oxa Kuchura cipriota di origini ucraine e il 30,6% al russo-cipriota Dmitry Klenov.
Le imprese individuali
Ma accanto ai colossi dell’economia globale, Milano ospita anche tante ditte individuali di russi: 169, secondo i dati del registro imprese, e danno lavoro a 157 addetti. Erano 89 ditte a fine 2011, +90% in dieci anni. Una cinquantina impegnate nel commercio al dettaglio (28) e all’ingrosso (27), 15 in attività professionali, scientifiche e tecniche, 14 nei lavori di costruzione specializzati e altre 14 nei servizi per la persona. Colpisce un dato: le donne titolari sono 129 su 169 aziende.
Il nodo del rublo
Come stanno vivendo questo momento? Non risponde la Camera di commercio Italo-russa, squillano a vuoto i telefoni alla Vtb bank, ma da San Pietroburgo — dove è rimasta bloccata durante un viaggio di lavoro — racconta la situazione Ella Falian, che vive a Milano ed esporta tecnologia italiana per il settore petrolifero russo: «Già dal 2014 esistono limitazioni negli scambi con la Russia, sempre dovute a sanzioni internazionali, ma ora c’è il problema del rublo: se io fossi una turista russa a Milano tutto mi costerebbe tantissimo. Ora non conviene né depositare né prelevare un centesimo dal conto russo. E poi la carta di credito collegata a quella banca mi è già stata rifiutata».
Anche Elmira Abykhanova, consulente legale ormai milanese, spiega: «Le cose cambiano continuamente, non ci sono certezze, salvo una: il rublo ha perso il 30 per cento. E tutto il sistema economico soffre per questo e per l’impossibilità di fare trasferimenti di denaro dalla Russia all’estero. Però le merci italiane arrivano».
L’Italia traccia cinquecento oligarchi. Già sequestrati beni per 143 milioni. Giuliano Foschini su La Repubblica il 5 Marzo 2022.
Ville e yacht sono finiti nel mirino della Guardia di Finanza, si indaga sui rapporti di commercialisti con Cipro e Malta. La sponda degli Usa sulla proposta di un registro dei patrimoni. L’intelligence europea segnala capitali in fuga verso Dubai.
Un elenco di 680 nomi, consegnato dall’Unione Europea. Un secondo appunto, tutto italiano, con poco più di 500 persone con, verosimilmente, affari in Italia. Diretti in pochissimi casi. Schermati da società e trust nella stragrande maggioranza. Sequestri per 143 milioni scattati nelle ultime ore a cinque oligarchi, ma l’idea che si possa intervenire in tempi brevissimi dieci volte più alti almeno.
Abusi, elicotteri e feste: la comitiva in fuga della zarina di Pesaro. Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 5 Marzo 2022.
Valentina Matvienko, fedelissima di Putin, è stata la prima di una serie di milionari ad arrivare in città. Nell’estate del 2009 si presentarono nell’ufficio del sindaco Luca Ceriscioli per dire che Pesaro sarebbe diventata la loro casa. Poi, a dimostrazione dei buoni rapporti che intendevano intrattenere, firmarono un assegno da 20 mila euro per finanziare i fuochi d’artificio della festa del porto. Valentina Matvienko e il figlio Sergey lo spettacolo pirotecnico se lo sarebbero goduto dalla terrazza della villa appena comprata sul San Bartolo, il colle che sovrasta la città.
Chi è Vladimir Soloviev, il presentatore russo filo-Putin a cui sono state congelate due ville sul lago di Como. Luca De Vito su La Repubblica il 5 Marzo 2022.
La Guardia di finanza ha dato esecuzione alle sanzioni contro gli oligarchi, così è arrivata alle due dimore da 8 milioni a Menaggio. Padre di 5 figli, 58 anni, giornalista e scrittore, sui social fa propaganda martellante con video e testi motivazionali.
Ma chi è Vladimir Soloviev, il milionario a cui la Guardia di Finanza ha congelato due ville sul lago di Como in seguito alla stretta sui beni degli oligarchi russi? Un "fantasma" nel comasco - né il sindaco di Menaggio né la maggior parte della gente del paese ha mai avuto a che fare con lui - in realtà gode di una notevole fama in Russia, dove è un volto noto della tv.
A Saint Moritz lacrime e litigi. Via gli oligarchi senza cash. Brunella Giovara su La Repubblica il 3 Marzo 2022.
Dopo le sanzioni carte di credito bloccate ai turisti in vacanza sulla neve in Svizzera. Ma c’è una fascia di super ricchi “intoccabili” che ha cittadinanza e accesso ai conti.
Alle sette della sera si stappano le bottiglie di champagne, nella hall del Grand Hotel des Bains Kempinski. Ma è una comitiva di allegri sciatori inglesi, appena arrivati in Engadina per la loro settimana bianca categoria extralusso, un Gin Tonic 30 franchi, il Mumm non sappiamo. I russi? Spariti come la neve al sole — e pensare che qui di neve ce n’è così tanta — e sono scomparsi da tempo, gli ultimi li hanno visti qualche giorno fa e avevano la faccia nera, non per l’abbronzatura di alta quota, ma in quanto umiliati nel loro legittimo orgoglio di ricchi: il ristorante che rifiuta la carta di credito, e l’albergo anche, al momento...
Oligarchi russi, dalle ville in Costa Smeralda agli yacht milionari: il catalogo dei beni congelati. Giuliano Foschini, Raffaele Ricciardi su La Repubblica il 5 Marzo 2022.
Il complesso di Usmanov ad Arzachena ha ospitato capi di Stato, mecenati e anche un concerto di Sting: vale 17 milioni. Sigilli anche per la seicentesca Villa Lazzareschi di Lucca (di Savchenko) e i possedimenti sul Lago di Como del presentatore Soloviev. L'altro pezzo grosso è il vascello di Timchenko.
La sera di Ferragosto del 2012 ci ha suonato Sting, con un parterre blindatissimo che - secondo le ricostruzioni di stampa di allora - tra duecento ospiti comprendeva anche il 'vicino' di vacanze, Silvio Berlusconi. La location di lusso è in Costa Smeralda, vista golfo del Pevero, ad Arzachena. Il titolare è il magnate russo-uzbeko del metallo Alisher Usmanov, che lì ha un compendio di lusso da 17 milioni di euro.
Enrica Roddolo per corriere.it il 3 marzo 2022.
«Procedure di congelamento di fondi e sanzioni economiche». Per Monaco, da anni meta di turismo di lusso russo, una presa di posizione che vale molto economicamente.
«Conformemente al suo impegno internazionale, il Principato ha adottato e messo in atto, senza esitazione, procedure di congelamento di fondi e sanzioni economiche, identiche a quelle adottate dalla maggior parte degli stati europei». Il principe Alberto II di Monaco, alla guida dal 2005 del regno ereditato dal padre Ranieri - enclave di ricchi e ricchezze - annuncia che anche Monaco, con il quartiere del jet set Montecarlo con circa 750 residenti russi, farà la sua parte.
E per Monaco — nella Belle Epoque approdo di principi russi e aristocrazia zarista, poi culla dei Balletti russi di Serge de Diaghilev — da anni ormai meta di turismo di lusso anche dalla Russia (come da Cina, dagli Stati Uniti, dal Sudamerica come da Londra) è una presa di posizione che può valere molto. Economicamente. Tanto più proprio adesso, l’indomani della crisi pandemica che per un Principato basato sul turismo è stata pesante.
Senza contare che la squadra di calcio, l’AS Monaco fa capo al russo Dmitri Rybolovlev, con il numero due Oleg Petrov. Ha azionariato russo pure la squadra di basket monegasca.
Quanto alle misure europee prese l’indomani dell’attacco russo in Ucraina, va detto che tecnicamente Monaco, Paese a fiscalità “douce”, dolce - ma il principe ha fatto uscire il Principato sin dal 2009 dalla lista dei paradisi dell’Ocde - ha una rappresentanza permanente presso il Consiglio d’Europa.
Alberto II ha sempre perseguito una politica estera nel segno di stretti legami con le grandi democrazie internazionali. «Siamo piccoli, ma questo non vuol dire che non possiamo avere un ruolo, dare il nostro contributo alla comunità internazionale», ripete sempre il principe, ora appena rientrato dai Giochi invernali di Pechino (fa parte del Cio).
Non arriva dunque a sorpresa la sua «condanna ferma dell’invasione dell’Ucraina». E la sua «solidarietà verso la popolazione ucraina vittima di operazioni militari e di bombardamenti ». Che fa il paio con il suo sostegno agli appelli in favore di un «cessate il fuoco immediato».
«Il Principato di Monaco riafferma il suo attaccamento al rispetto del diritto internazionale alla sovranità e integrità e indipendenza degli stati». E, auspica il principe, «una soluzione del conflitto con le armi del dialogo e della democrazia».
In fondo è la lezione di Alberto I, del quale proprio quest’anno il Principato celebra i cento anni dalla morte. L’avo dell’attuale principe Alberto II, proprio in questa enclave stretta tra Francia e Italia, gettò infatti le basi di quella che sarebbe poi evoluta e diventata la Società delle Nazioni. Antesignana delle Nazioni Unite. Radunò attorno a un tavolo in una delle sue ville affacciate sulla costa azzurra principi e capi di stato per provare a trovare soluzioni di pace alternative all’uso delle armi. Al tempo una chimera. Nella quale però il «principe navigatore» gettò tutto il suo entusiasmo.
La statua del «principe navigatore» Alberto I veglia oggi dall’alto della Rocca il mare di Monaco nel quale da anni attraccano yacht e panfili (anche russi). Ma ora non più.
Lorenzo Nicolao per corriere.it il 3 marzo 2022.
C’era anche lui in collegamento da remoto con il socio di maggioranza iraniano Farhad Moshiri per confrontarsi con il probabile futuro allenatore dell’Everton Frank Lampard. Alisher Usmanov possiede tuttora quote importanti nella squadra di calcio inglese, ma in queste stesse ore quanto sta accadendo in Ucraina si è riflettuto pesantemente sulla sua posizione, con il congelamento dei suoi beni così come di quelli di tutti gli altri oligarchi vicini a Putin.
Proprio oggi Forbes ha dato notizia che, ad Amburgo, gli è stato sequestrato lo yacht Dilbar, un’imbarcazione di 156 metri, dal valore di 600 milioni di dollari (537 milioni di euro), acquistata nel 2016 da un costruttore tedesco, e che in genere viene gestita da un equipaggio di 96 persone.
Usmanov rientra tra gli oligarchi che giocano un ruolo chiave per le aziende europee, tra queste le squadre di calcio. Stando a quanto rivela il quotidiano inglese Telegraph, la sua partecipazione alle decisioni sulla futura guida tecnica dell’Everton adesso fa storcere il naso a molti Oltremanica: non mancano gli imbarazzi tanto che il club ha deciso di interrompere le sponsorizzazioni con tutte le aziende russe. «Tutti all’Everton sono scioccati e rattristati dagli eventi spaventosi che si stanno svolgendo in Ucraina – si legge nella nota ufficiale —. Questa tragica situazione deve finire al più presto e ogni ulteriore perdita di vite umane deve essere evitata. I giocatori, lo staff tecnico e tutti coloro che lavorano all’Everton stanno fornendo pieno supporto al nostro giocatore Vitalii Mykolenko e alla sua famiglia e continueranno a farlo. Il Club può confermare di aver sospeso con effetto immediato tutti gli accordi di sponsorizzazione commerciale con le società russe USM, Megafon e Yota».
Per quanto non fosse il principale proprietario della squadra (il nipote Sarvar ne è stato direttore, ma si è dimesso nel 2018 per motivi di salute), Usmanov aveva appena investito oltre 36 milioni di euro per la costruzione del nuovo stadio dei Toffees, oltre alla denominazione del loro centro di allenamento con il titolo di una delle sue aziende. Questi sono solo gli ultimi di tanti investimenti a favore della società.
Usmanov è da tempo oggetto di critiche in Inghilterra per la sua simpatia nei confronti del capo del Cremlino. Aveva detto in passato «di essere orgoglioso della sua amicizia, per quanto la figura del presidente russo non potesse piacere a tutti». Ora meno che mai, nonostante l’oligarca 69enne di origini uzbeke si sia per anni distinto come imprenditore e uomo di sport, soprattutto in Europa. Conosciuto come filantropo, si è distinto come leader dell’industria pesante (è socio di maggioranza del gigante Metalloinvest), delle telecomunicazioni e del settore informatico in Russia, poi come direttore generale di Gazprom Invest e come dirigente sportivo, forte dei suoi 20 miliardi di euro di patrimonio netto (stima di Forbes).
Nel 2018 aveva venduto delle quote dell’Arsenal, circa il 30% della società, mentre ha mantenuto fino ad oggi quelle dell’Everton, rilevate nel 2019. Il Times ha ricordato come l’oligarca cercasse in ogni modo di conquistare la simpatia dei media inglesi, perfino invitando i giornalisti sul suo jet privato per raccontare loro le prospettive dei suoi investimenti nel Regno Unito.
Dimissioni nella scherma
Ben più forte la sua influenza sulla scherma mondiale, dal momento che l’imprenditore ne è presidente dal 2008, per un totale di quattro mandati, fino alle dimissioni di questi giorni dettate dall’aggravarsi del conflitto. Nel corso di tre cicli olimpici, Usmanov ha investito nella Federazione Internazionale (Fie) oltre 77 milioni di euro, permettendo al movimento della disciplina di crescere notevolmente negli ultimi anni. Una dedizione costante al mondo dello sport che gli ha permesso di prendere parte al comitato olimpico che ha organizzato i Giochi invernali di Sochi nel 2014. «Ho scelto di sospendere l’esercizio delle mie funzioni con effetto immediato fino al ripristino della giustizia», aveva detto motivando la scelta presa dopo l’imposizione delle sanzioni. «Reputo le restrizioni ingiuste per come mi sono comportato fino ad ora, soprattutto perché motivate da un insieme di accuse false e diffamatorie che ledono il mio onore».
Confermata la cittadinanza sarda
La figura dell’oligarca viene vista con sospetto in Inghilterra, ma non manca chi in Italia ne ha apprezzato le iniziative, al di là di ogni legame con il Cremlino. Nel 2017 ha ricevuto dal Presidente Sergio Mattarella l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana per alcuni progetti di restauro dei monumenti architettonici.
Poi tante iniziative di solidarietà e sostegno al terzo settore in Sardegna, regione alla quale Usmanov aveva donato molti fondi, anche durante la pandemia. Già nel 2018 gli era stata riconosciuta la cittadinanza onoraria del comune sardo di Arzachena, nella Costa Smeralda, anche per la donazione di un’ambulanza e altri strumenti all’ospedale cittadino. I russi che vanno in vacanza in quest’isola italiana sono tantissimi e anche lo stesso Roman Abramovich ne è un frequentatore abituale. Nonostante le misure punitive adottate dall’Unione europea, il sindaco locale ha dichiarato di non voler rimuovere la cittadinanza all’oligarca uzbeko. «Confidiamo che la sua posizione possa giocare un ruolo rilevante all’interno dei negoziati di pace». Queste le speranze del primo cittadino di Arzachena.
Dagotraduzione da Forbes il 3 marzo 2022.
Il miliardario russo Alisher Usmanov è stato sanzionato lunedì dall'Unione Europea. Due giorni dopo, Forbes ha appreso da tre fonti nel settore degli yacht che uno dei suoi preziosi beni, lo yacht Dilbar di 156 metri, del valore di quasi 600 milioni di dollari, è stato sequestrato dalle autorità tedesche nella città settentrionale di Amburgo.
La nave era nei cantieri navali di Amburgo della ditta tedesca di costruzioni navali Blohm+Voss dalla fine di ottobre per un lavoro di refitting. Fonti che hanno parlato con Forbes hanno affermato che il governo tedesco ha congelato la risorsa e che, probabilmente di conseguenza, i dipendenti Blohm+Voss che avevano lavorato sullo yacht non si sono presentati al lavoro mercoledì. I rappresentanti di Blohm+Voss e Usmanov non hanno risposto immediatamente a una richiesta di commento.
Usmanov ha acquistato Dilbar nel 2016 per un costo dichiarato di 600 milioni di dollari dal costruttore navale tedesco Lürssen, che lo ha fabbricato su misura per lui in 52 mesi. L'azienda lo definisce «uno degli yacht più complessi e impegnativi mai costruiti, sia in termini di dimensioni che di tecnologia». Con 15.917 tonnellate, è lo yacht a motore più grande del mondo per stazza lorda ed è tipicamente presidiato da un equipaggio di 96 persone. Dilbar vanta la più grande piscina mai installata su uno yacht, oltre a due elicotteri, una sauna, un salone di bellezza e una palestra. I suoi interni lussuosi hanno più di 1.000 cuscini per divani e può ospitare fino a 24 persone in 12 suite.
Lo yacht fa parte della fortuna multimiliardaria stimata di Usmanov, che comprende partecipazioni nel gigante del minerale di ferro e dell'acciaio Metalloinvest e nella società di elettronica di consumo Xiaomi, oltre a partecipazioni minori nel settore delle telecomunicazioni, minerario e dei media. Usmanov, uno dei primi investitori in Facebook insieme al collega miliardario Yuri Milner, possiede anche vasti beni immobiliari in Occidente, che vanno da due proprietà nel Regno Unito, Beechwood House a Londra e Sutton Place nel Surrey, per un valore complessivo di 280 milioni di dollari, dino alle case di lusso a Monaco di Baviera, in Germania; Losanna, Svizzera; Monaco; e Sardegna.
Usmanov ha venduto la sua quota del 30% nella squadra di calcio inglese dell'Arsenal FC nel 2018 per quasi 700 milioni di dollari in contanti, ma fino a questa settimana aveva legami con il calcio attraverso le sue partecipazioni USM e le sponsorizzazioni MegaFon dell'Everton FC. La squadra della Premier League ha dichiarato mercoledì che avrebbe sospeso gli accordi alla luce dell'attacco russo all'Ucraina.
Non è l'unico miliardario russo con un megayacht: Forbes e gli esperti di valutazione degli yacht VesselsValue ne hanno rintracciati 32. Nonostante lunedì sia stato colpito dalle sanzioni dell'UE, Usmanov deve ancora commentarle così come non si espresso sulla guerra in Ucraina.
Alessandro Logroscino per Ansa il 3 marzo 2022.
La caccia in Occidente agli oligarchi del business russo, e alle fortune prosperate o conservate all'ombra del putinismo, diventa senza quartiere. L'invasione dell'Ucraina ordinata da Vladimir Putin minaccia ormai di fare terra bruciata attorno a loro, quale che sia l'influenza sul leader del Cremlino; e non risparmia neppure Aleksei Mordashov, 56 anni, accreditato da Forbes nel 2021 come l'uomo più ricco di Russia - con un patrimonio stimato a oltre 29 miliardi di dollari, il quadruplo di Silvio Berlusconi e 13 volte John Elkann per avere qualche termine di paragone - preso di mira da una nuova raffica di sanzioni firmate Ue.
L'obiettivo di Bruxelles, come di Washington o di Londra, appare evidente al di là della sovrapposizione non ancora piena delle differenti liste di proscrizione: non solo e non tanto mettere sotto tiro proprietà da mille una notte, yacht, beni vari e conti bancari custoditi all'estero dalle elite moscovite, dopo anni in cui tutto questo flusso di denaro era stato accolto senza troppi filtri; bensì soprattutto usare le sanzioni come una sorta di leva politica.
Una leva che si vorrebbe in grado di contribuire a destabilizzare presto o tardi il sistema di potere che da 20 anni ruota attorno a Vladimir Vladimirovic. Se non lo zar in persona e il suo cerchio magico più stretto. In questo senso il nome di Mordashov ha un peso simbolico. Un avvertimento: la conferma che nessuno, per florido che sia, è più al sicuro. In ballo nel suo caso ci sono interessi tentacolari, che dalla Russia si allungano all'Europa continentale e al Regno Unito.
Nato in una famiglia operaia della regione di Vologda ed emerso dal nulla come altri nel far west delle privatizzazioni degli anni '90 fino a farsi padrone dei ciclopici impianti siderurgici targati ora Severstal, nel Grande Nord, Aleksei Alekstandrovic è oggi un modello di businessman globalizzato. Uno dei re dell'acciaio a livello planetario, ma non solo. È di casa nella City; ha rilevato in Germania in piena pandemia quasi il 35% del colosso turistico internazionale Tui divenendone il maggior azionista; possiede giacimenti d'oro; fa affari in India e Cina; viaggia su un jet privato Bombardier Global 6000 tracciato di recente in volo fra Londra e Pechino e poi fra le Seychelles e Mosca.
E naturalmente ha il suo bel panfilo da favola, il Nord, 144 metri di lunghezza, mandato secondo il Guardian a svernare fuori tiro nell'Oceano Indiano. In Italia ha una villa in Sardegna e una quindicina di anni orsono fu protagonista dell'acquisizione delle storiche acciaierie bresciane del Gruppo Lucchini, alla fine liquidato.
L'Unione Europea lo ha inserito nella sua black list per le quote che detiene in seno a Rossiya Bank, additata come 'la banca personale' di molti papaveri della nomenklatura che avrebbero beneficiato dell'annessione della Crimea. Lui si difende affermando di non avere "assolutamente nulla a che fare" con quella che definisce "l'attuale tensione geopolitica", giurando di non volere la guerra ("una tragedia fra due popoli fratelli") e deplorando le sofferenze e la morte di tanti "ucraini e russi".
Ma oggi ha dovuto dimettersi dal consiglio di amministrazione di Tui Ag, come annunciato dai vertici societari del mega tour operator tedesco. E le sue quote, con un valore di mercato di poco inferiore agli 1,2 miliardi di euro, sono state congelate. A Londra, per il momento, non è nel novero dei sanzionati. Ma le conseguenze sembrano inevitabili.
Tanto più che il governo Tory di Boris Johnson, già in prima fila sul fronte della linea dura della rappresaglia anti Mosca e degli aiuti militari a Kiev, si appresta ad ampliare ulteriormente le ritorsioni senza precedenti adottate per la propria parte: promettendo persino - in nome della "trasparenza" - la pubblicazione di un inedito elenco collettivo d'individui e aziende "associate" a qualsiasi titolo al "regime di Putin" nel Regno.
Anche sotto la spinta di un'opposizione laburista che insiste a sfidarlo a intensificare la pressione proprio sui miliardari o gli ex notabili russi più radicati oltre Manica, come il magnate uzbeko-moscovita Aliser Usmanov, il banchiere benefattore della comunità ebraica Mikhail Fridman o l'ex vicepremier Igor Shuvalov.
E come il patron del Chelsea, Roman Abramovich, in apparenza deciso ormai, volente o nolente, a mollare definitivamente l'isola e a vendere tutto ciò che ha accumulato qui: anche se non gli sarà facile incassare i 3,3 miliardi di sterline che, a dar retta ai tabloid, ha fissato come prezzo-base della sola squadra di calcio.
Massimo Gramellini per “il Corriere della Sera” il 4 marzo 2022.
Alla ricerca di indizi sul carattere dell'uomo che tiene un dito sul pulsante nucleare, sono andato a rileggermi l'ultimo capitolo di «Limonov», capolavoro di Carrère. Vi si racconta di quando, nell'estate 1999, con Eltsin ancora al potere, il miliardario moscovita e burattinaio in capo Boris Berezovskij si recò a Biarritz, dove il capo dei servizi segreti Vladimir Putin trascorreva le vacanze con la famiglia, per convincerlo a entrare in politica.
L'impresa si rivelò complicatissima, perché Putin oppose una discreta resistenza. Sostenne di non sentirsi all'altezza e di non avere ambizioni di quel genere. «In realtà sai chi vorrei essere, Boris Abramovic?», disse a Berezovskij. «Dimmi, Vladimir Vladimirovic, chi vorresti essere?». «Te».
Berezovskij tornò a casa tutto felice e riunì la cupola degli oligarchi, annunciando loro che aveva trovato l'uomo giusto. Un mediocre senza personalità. «Vedrete, ci verrà a mangiare in mano». Solo il vecchio Eltsin, in un barlume di lucidità, bofonchiò: «Io quel piccoletto al Cremlino non ce lo voglio».
Poi gli fecero cambiare idea. Un anno e mezzo dopo, Eltsin era in pensione e Berezovskij in esilio. La capacità di fingersi debole per non spaventare i più forti è stato l'indubbio talento di questo principe machiavellico. Ma gli anni passano anche sui caratteri e la speranza è che adesso Putin, per spaventare quelli che ritiene deboli, si stia fingendo più forte di quanto non sia. La Storia ha una certa predilezione per i ribaltamenti di ruolo.
Ville, alberghi, locali storici: il tesoro italiano degli oligarchi di Putin. Nascosto in società anonime. Le proprietà in Toscana dei Rotenberg, i finanziatori segreti di Putin. Le case di lusso in Costa Smeralda di Usmanov e Abramovich. I miliardari russi controllano decine di immobili e aziende in Italia. Ma i soldi e le azioni sono al sicuro nelle offshore nei paradisi fiscali. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 4 Marzo 2022.
Tutti al mare, in Sardegna, come ogni anno. Anche la scorsa estate i più importanti oligarchi russi, da sempre legatissimi a Vladimir Putin, si sono radunati per le vacanze in Costa Smeralda. L'elenco dei super miliardari di Mosca che controllano ville spettacolari in questo paradiso per vip è lungo: i più famosi sono i fratelli Arkady e Boris Rotenberg, i magnati dell'industria Oleg Deripaska e Alisher Usmanov, il re della vodka Roustam Tariko, l'ex patron del Chelsea Roman Abramovich.
Roman Abramovich ha portato Putin al potere: "Lo aveva raccomandato lui". L'oligarca, il Cremlino e i miliardi: l'indiscreto rivelatore. Libero Quotidiano il 05 marzo 2022.
E' uno degli oligarchi russi più potenti e vicini a Vladimir Putin: Roman Abramovich è oggi al centro delle cronache per via del conflitto in Ucraina e della sua presunta partecipazione ai negoziati. L'ex patron del Chelsea, infatti, sarebbe stato invitato a presenziare su richiesta di Kiev. Per quanto riguarda il suo rapporto con lo zar, è stato lui stesso l'anno scorso a smentire di essere il "cassiere" di Putin in Occidente. In ogni caso, come riporta il Daily Mail citato da Dagospia, sarebbe ancora visto come uno dei suoi "facilitatori". Basti pensare che sarebbe stato lui a raccomandare Putin come presidente a Boris Eltsin, prima che lo zar assumesse l'incarico nel 2000.
La sua storia comincia 55 anni fa a Saratov, nel sud-ovest della Russia. La sua infanzia non è stata delle migliori: dopo aver perso entrambi i genitori da piccolo, ha trascorso gran parte della sua vita in Siberia insieme ai nonni, entrambi provenienti dall'Ucraina e fuggiti durante la guerra. La sua prima attività è stata quella di vendere bambole di plastica su una bancarella del mercato di Mosca dopo aver abbandonato due college. La vera fortuna però è arrivata solo con la Perestrojka, il periodo di riforme guidate da Mikhail Gorbaciov. Grazie al nuovo corso, infatti, Abramovich è riuscito a ottenere 55 petroliere di diesel.
Il salto è avvenuto dopo aver conosciuto Boris Berezovsky, oligarca molto vicino all'allora presidente Boris Eltsin. Poi, quando Putin - da primo ministro - ha messo su il proprio governo nel 1999, è stato Abramovich a esaminare i candidati al ruolo di ministro o consigliere. Negli anni sarebbe comunque rimasto uno dei più stretti alleati di Putin. Particolarmente importante anche l'acquisto della squadra di calcio del Chelsea nel 2003.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 marzo 2022.
Chi è veramente Roman Abramovich? In Gran Bretagna è conosciuto come il proprietario della squadra di calcio del Chelsea, ma alle spalle ha una lunga storia e oggi è considerato uno dei più ricchi oligarchi russi e grande amico del presidente Vladimir Putin. Il suo nome è finito nella lista degli oligarchi da sanzionare del Regno Unito.
In passato è stato interrogato sui suoi legami con il presidente russo, e l'anno scorso ha negato in tribunale di essere il "cassiere" di Putin in Occidente, ma è ancora visto come uno dei suoi "facilitatori". Si dice che sia stata la prima persona a raccomandare Putin come presidente a Boris Eltsin, prima che Putin assumesse l'incarico nel 2000.
Fino a poco tempo ha vissuto per lo più la sua vita privilegiata in pace, a bordo dei suoi superyacht, nelle sue dimore o su uno dei jet privatiche compongono il suo impero da 10 miliardi di euro. Ha anche trovato il tempo per creare una famiglia numerosa: ha sette figli - Ilya, Arina, Sofia, Arkadiy, Anna, Aaron e Leah - da due delle sue tre ex mogli.
Ma ora si è trovato costretto a vendere i suoi beni per evitare che venissero congelati, il che ha rapidamente portato richieste - finora inascoltate - di sanzionarlo.
L'uomo d'affari, 55 anni, è nato senza un soldo a Saratov, nel sud-ovest della Russia. Entrambi i suoi genitori sono morti quando lui era giovane, ed è stato cresciuto dai nonni a Komi, in Siberia, dall'età di quattro anni. Entrambi i suoi nonni, Vasily e Faina, provenivano dall'Ucraina e fuggirono durante la guerra.
Sua madre, Irina, è morta all'età di 28 anni poco dopo la nascita di Abramovich. Suo padre Arkady è rimasto schiacciato da una gru in un cantiere edile nel 1969. Nonostante la sua precoce perdita, il miliardario - che è ebreo e detiene la cittadinanza russa, israeliana e portoghese - non si è mai lamentato della sua infanzia. «Nella tua infanzia, non puoi confrontare le cose: uno mangia carote, uno mangia caramelle, entrambe hanno un buon sapore. Quando sei bambino non puoi conoscere la differenza», ha detto una volta.
Abramovich ha iniziato per la prima volta a fare soldi vendendo bambole di plastica su una bancarella del mercato di Mosca dopo aver abbandonato due college alla fine degli anni '80. Secondo la biografia “Roman Abramovich: The Billionaire” ha continuato vendendo paperelle di gomma dal suo appartamento di Mosca.
Nel 1987, i genitori della prima moglie di Abramovich gli donano loro 2.000 rubli come regalo di nozze, e gli permettono di ampliare la gamma di prodotti, aggiungendo deodoranti e profumi. Ma i soldi veri arrivano durante la Perestrojka, il periodo di riforme guidate da Mikhail Gorbaciov. Grazie al nuovo corso Abramovich riesce a ottenere 55 petroliere di diesel. Nel 1992 viene accusato di aver utilizzato documenti falsi per ottenere il ricco bottino, ma le accuse vengono poi ritirate.
Parlando di quell’incidente, nel 2011, ha detto di «non aver mai falsificato alcun documento. Nessuna delle persone a me vicine ha mai falsificato un documento. Se retrodatare i documenti è qualcosa che non è molto etico, allora forse potremmo essere accusati di questo. Questa pratica esisteva in Russia e, di sicuro, dobbiamo averlo fatto. In questo caso diciamo che certi documenti sono stati firmati con due giorni di anticipo».
La sua fortuna è esplosa quando si è unito a Boris Berezovsky, a capo della società di concessionari di automobili nazionali Lada, ma anche vicino all’allora presidente Boris Eltsin. Quest’amicizia ha dato al nascente uomo d'affari l'accesso chiave, che era fondamentale per fare ingenti somme nella Russia post-sovietica, e gli ha consentito anche di vivere in un appartamento al Cremlino.
Si dice che Abramovich sia stato l'uomo che per primo ha raccomandato Vladimir Putin a Eltsin come suo successore alla presidenza della Russia. Quando Putin ha formato per la prima volta il suo gabinetto come Primo Ministro nel 1999, Abramovich ha intervistato tutti i candidati prima che ricevessero l'approvazione.
Negli anni successivi sarebbe rimasto uno dei più stretti alleati di Putin e nel 2007 Putin si sarebbe consultato con lui prima di scegliere il suo stesso successore. Anche Dmitry Medvedev - che è stato presidente dal 2008 al 2012 prima che Putin tornasse al ruolo - è stato raccomandato personalmente da Abramovich.
Quando le industrie dell'URSS sono state spartite, Abramovich era lì a guadagnare i suoi primi miliardi, principalmente grazie alla compagnia petrolifera Sibneft. Insieme a Berezovsky ha acquistato l'azienda per soli 100 milioni di sterline utilizzando il controverso programma di prestiti per azioni, quando si stima che la società valesse circa 600 milioni di sterline.
È iniziata così l'enorme ricchezza del magnate: solo dalla vendita di Sibneft ha recuperato circa 1,8 miliardi di sterline. La maggior parte della ricchezza britannica di Abramovich si trova in Evraz, un gigante siderurgico e minerario quotato alla borsa di Londra, di cui è il maggiore azionista.
Oltre agli affari, Abramovich ha lavorato anche in politica, diventando governatore della regione dell'estremo oriente della Chukotka nel 2000 - dopo aver ottenuto il 92% dei voti - e investendo 180 milioni di sterline. È apparso per la prima volta sul radar dei normali britannici quando ha acquistato la squadra di calcio del Chelsea nel 2003 e ha messo sul tavolo abbastanza soldi per renderla competitivi.
Nonostante sia molto riservato e preferisca una vita fuori dai riflettori, il miliardario ha condotto uno stile di vita sfarzoso, con superyacht e aerei privati in abbondanza. I suoi due jet sono personalizzati e all'interno ospitano uno studio e una camera da letto con uno specchio sul soffitto, che non ha scopi sessuali ma «mi permette di radermi a letto».
Abramovich possiede anche numerose proprietà immobiliari: a Londra, a Saint Tropez, in Sardegna, in Francia, nelle Indie occidentali e negli Stati Uniti, anche se ne ha perse alcune dopo il divorzio dalla seconda moglie Irina.
Durante i suoi matrimoni Abramovich ha dovuto combattere con una serie di controversie che hanno minacciato di farlo cadere. Nel 2011 all'Alta Corte si è dovuto difendere dall’accusa di aver usato l'oligarca Boris Berezovsky come suo "padrino politico" per aiutarlo a condurre affari in un paese in cui la polizia era "corrotta" e i tribunali "aperti alla manipolazione".
La Corte ha sentito che il proprietario del Chelsea credeva che fosse suo "obbligo morale" consegnare al signor Berezovsky 1,3 miliardi di sterline per finanziare il suo stile di vita sontuoso. Ha dato il denaro al suo ex amico perché sentiva che faceva parte del "codice d'onore" che aveva sostituito lo stato di diritto in Russia dopo il crollo del comunismo. E nel 2012 Abramovich ha vinto la causa.
Nel 2008 è stato accusato di corruzione. C'è stato anche un reclamo in Svizzera in cui veniva accusato di avere legami con una società che aveva utilizzato di un prestito multimiliardario del FMI come fondo nero. Nel 2005, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo ha dichiarato che lo avrebbe citato in giudizio per 9 milioni di sterline, ma ha affermato che il prestito era già stato rimborsato.
Più recentemente, Abramovich è stato collegato a controverse organizzazioni di coloni israeliani. Un'indagine della BBC ha scoperto che le società controllate dall'uomo d'affari hanno donato circa 74 milioni di sterline a Elad a Gerusalemme.
Ma il dibattito odierno sull'opportunità di sanzionare il magnate è la pressione più dura che ha subito, e ieri sera ha consegnato il Chelsea FC agli amministratori della fondazione di beneficenza del club. Gli amministratori delle Chelsea Foundations sono Bruce Buck, John Devine, Emma Hayes, Piara Powar, Seb Coe e Hugh Roberston.
La sua mossa è arrivata dopo che in Parlamento è stato accusato di essere collegato al regime di Vladimir Putin e di «associazione pubblica con attività e pratiche corrotte».
Downing Street non lo ha ancora nominato tra quelli da punire, ma è stato comunque colpito dalle turbolenze create nei mercati globali. Le azioni delle società minerarie Evraz e Polymetal International sono diminuite tra un quarto e un terzo. Abramovich è il maggiore azionista di Evraz e le sue azioni sono crollate fino a chiudere il 30% in meno, cancellando quasi 300 milioni di sterline dalla sua partecipazione.
Negli ultimi giorni ha affrontato una rinnovata attenzione alle sue attività commerciali, ma ha sempre negato qualsiasi illecito o motivo per essere sanzionato. Il deputato laburista Chris Bryant ha utilizzato il privilegio parlamentare per condividere un documento del Ministero dell'Interno trapelato alla Camera dei Comuni: «Sono passati quasi tre anni e tuttavia è stato fatto molto poco in relazione a questo. Sicuramente il signor Abramovich non dovrebbe più essere in grado di possedere una squadra di calcio in questo paese?».
Luigi Ippolito per il Corriere della Sera il 3 marzo 2022.
Londra Impero di oligarca vendesi: Roman Abramovich si prepara a liquidare le sue proprietà londinesi e soprattutto la squadra di calcio del Chelsea, perché è «terrorizzato» - dicono a Londra - dall'ipotesi di essere colpito dalle sanzioni del governo britannico. E dunque ieri sera il magnate russo ha rotto il silenzio e ha annunciato ufficialmente la cessione della squadra londinese: prezzo richiesto, 3 miliardi di sterline (oltre 3 miliardi e mezzo di euro). Ma c'è di più: i proventi della vendita andranno «a beneficio di tutte le vittime della guerra in Ucraina.
Questo include provvedere fondi per i bisogni urgenti e immediati così come per il sostegno alla ricostruzione a lungo termine». Slancio umanitario o mossa di pubbliche relazioni? Abramovich, considerato uno degli uomini più vicini a Putin - anche se lui nega - non è stato finora inserito nella «lista nera» della Gran Bretagna e dell'Unione europea: ma a Londra tutti gli occhi sono puntati su di lui e sulle prossime mosse del governo di Boris Johnson.
È per questo che l'oligarca avrebbe già messo sul mercato anche la sua residenza di Kensington Palace Gardens - detta anche «la via dei miliardari», accanto al palazzo di William e Kate e dove si trova pure l'ambasciata russa -: si tratta di una magione di 15 stanze da letto valutata quasi 200 milioni di euro. Agenti immobiliari d'élite sarebbero stati già contattati e ci sarebbe un potenziale acquirente cinese.
Abramovich avrebbe intenzione di disfarsi anche della sua altra proprietà a Londra, una casa di tre piani a Chelsea acquistata nel 2018 per circa 25 milioni di euro. Ma è la notizia della cessione della squadra di calcio quella che ha fatto più sensazione. Già nei giorni scorsi l'oligarca aveva annunciato che avrebbe passato la guida del Chelsea alla fondazione di beneficenza del club: una mossa che era stata bollata come priva di vero valore legale ma che ora viene vista come il primo passo verso la vendita della squadra.
Secondo i giornali inglesi, ci sarebbero già tre investitori pronti a fare un'offerta in settimana per rilevare il Chelsea: ma il tempo stringe, perché se Abramovich fosse colpito dalle sanzioni, l'affare si rivelerebbe difficile da condurre in porto. Johnson ha lanciato martedì un chiaro avvertimento: «A quegli oligarchi che hanno connessioni col regime di Putin e che traggono beneficio dall'associazione con lo Stato russo sveleremo le loro proprietà e le confischeremo».
E Abramovich è stato fin dagli anni Novanta un personaggio chiave nelle vicende della Russia: arricchitosi grazie al «far west» delle privatizzazioni selvagge seguite al crollo dell'Unione Sovietica, era considerato uno dei principali finanziatori del presidente Boris Eltsin e della sua famiglia. La sua fortuna, valutata in 13 miliardi di euro, comprende stravaganze come due megayacht del valore di oltre mezzo miliardo ciascuno e un Boeing privato da 300 milioni. Ma una giornalista inglese lo aveva accusato di aver comprato il Chelsea su ordine di Putin, di cui sarebbe poco più che un prestanome: Abramovich ha fatto causa e ha vinto.
L'opposizione laburista sta intensificando la pressione su Johnson perché agisca contro il magnate. Lui è stato di fatto già messo al bando da Londra: il ministero dell'Interno ha avuto istruzioni di non concedergli un visto di residenza. L'oligarca nel 2018 si era già visto rifiutare il visto speciale da investitore e dunque decise di acquisire la cittadinanza israeliana - Abramovich è di origine ebraica - che gli consente di venire a Londra come turista: ma non può più risiedervi legalmente.
Nei giorni scorsi l'oligarca era stato indicato come possibile mediatore nelle trattative russo-ucraine: un annuncio che sembrava più che altro una mossa pubblicitaria per distogliere l'attenzione dalle sue difficoltà. Per lui, sembra davvero arrivato il momento di tagliare la corda.
Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 3 marzo 2022.
Il segnale è netto: Lukoil, terzo gruppo industriale della Russia, ha pubblicato ieri sul proprio sito internet un comunicato attribuito al consiglio d'amministrazione, nel quale la società si dice «preoccupata per i tragici eventi in Ucraina». Inoltre, «sosteniamo una rapida fine del conflitto armato e sosteniamo pienamente la sua risoluzione attraverso un processo di negoziazione e mezzi diplomatici». Una prima crepa «interna» nel monolite del Cremlino: Lukoil è un gigante presente in vari paesi del mondo - anche in Italia - ma con il centro dei suoi affari saldamente in Russia. Finora, a dissociarsi dalla guerra in Ucraina e quindi dal Cremlino sono stati gli oligarchi della «diaspora».
Da Roman Abramovich, che ha annunciato la vendita del Chelsea e la volontà di devolvere il ricavato a una fondazione per le vittime della guerra in Ucraina. Fino ad Andrei Yakunin, figlio di Vladimir, ex alto ufficiale del Kgb, vicinissimo a Putin fino a quando, multimiliardario, non ha lasciato le Ferrovie russe per godersi il proprio patrimonio a Londra. Il caso di Lukoil è diverso: oggi è il terzo gruppo della Russia, il primo indipendente dopo i colossi pubblici Sberbank e Rosneft. Al momento Lukoil, sotto sanzioni Usa dal 2014, non è tra le società colpite dalle misure restrittive varate dai paesi occidentali dopo l'invasione dell'Ucraina.
Ma molti osservatori nei giorni segnalavano la possibilità che venisse inserita nella lista, data la sua importanza per l'economia russa. Il suo numero uno è Vagit Alekperov, uno degli oligarchi della prima ondata, diventati ricchissimi col crollo dell'impero sovietico e non di quelli cresciuti nell'entourage di Putin. Lavorava nei pozzi di petrolio sul Mar Caspio, diventa vice ministro dell'energia con l'Unione sovietica già traballante. E col collasso dell'Urss, compra tre giacimenti di petrolio e diventa in breve multimiliardario.
Secondo Forbes, il suo patrimonio personale ammonta a 18,6 miliardi di dollari e figura al numero 66 della classifica dei multimiliardari mondiali. Risiede a Mosca, è uno dei soci principali della squadra di calcio dello Spartak, ma è socio anche del porto turistico di Barcellona e dei cantieri navali olandesi Heesen Yachts. Da dove è uscita la Galactica Super Nova, superyacht di 70 metri che in un sito specializzato risulta adesso in vendita per la bella somma di 75 milioni di euro.
Comunque un prezzo d'occasione, per una imbarcazione pluripremiata e tra le più veloci della sua categoria. Nei giorni scorsi lo yacht era segnalato nel porto di Tivat, in Montenegro. Lo scorso 24 febbraio, Alekperov era tra i 36 oligarchi convocati al Cremlino per ascoltare Vladimir. Nessuno ha parlato di Ucraina, anche su tutti apparivano piuttosto preoccupati. Significativamente, all'incontro mancavano alcuni dei fedelissimi. Dai fratelli Rotemberg a Yurij Kovalchuk fino a Gennadij Timchenko. Nei giorni successivi, tutti i presenti - e anche gli assenti - hanno visto le proprie fortune perdere cifre a nove zeri.
Nel primo giorno dell'invasione, ha calcolato Forbes, i primi 116 miliardari russi hanno perso complessivamente 39 miliardi di dollari. E da allora, con le sanzioni, le cose sono ulteriormente peggiorate. Ieri, l'annuncio di una nuova ondata di sanzioni contro oligarchi e funzionari del Cremlino da parte di Usa e Gran Bretagna. Tra i colpiti Alisher Usmanov e i fratelli Rotemberg. Nella speciale classifica delle perdite del primo giorno di guerra, proprio Alekperov figurava al numero uno: 3,8 miliardi di patrimonio in meno. E forse non è un caso che sia stato anche il primo a schierarsi.
Usmanov e lo yacht Dilbar da 600 milioni sequestrato: 156 metri, 12 suite, 2 elicotteri e la piscina più grande del mondo. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.
L'imbarcazione sequestrata all'oligarca russo, azionista e sponsor dell'Everton che con lui ha appena sospeso i rapporti, è una delle più grandi, attrezzate e tecnologiche del mondo. Per completarlo nei cantieri di Amburgo ci sono voluti 52 mesi.
Il mega yacht sequestrato
Alisher Usmanov — multimiliardario russo azionista e sponsor (scaricato mercoledì) dell'Everton in Premier League — è tra gli oligarchi più importanti e vicini a Putin e, in quanto tale, nell'ambito delle sanzioni conseguenti all'attacco russo dell'Ucraina, ha subito anche lui il congelamento dei beni. Tra questi c'è un mega yacht del valore di 537 milioni di euro (600 in dollari), il «Dilbar» che, come riporta Forbes, è stato sequestrato dalle autorità tedesche nel porto di Amburgo dove si trovava da ottobre per alcuni lavori di manutenzione presso il cantiere Blohm+Voss. Al momento né Usmanov né Blohm+Voss hanno rilasciato commenti a proposito.
Acquistato nel 2016
Usmanov ha acquistato il Dilbar nel 2016 per 600 milioni di dollari dal costruttore navale tedesco Lürssen, che lo ha creato su misura per lui in 52 mesi. L'azienda lo definisce «uno degli yacht più complessi e impegnativi mai costruiti, sia in termini di dimensioni che di tecnologia».
Il più grande del mondo
Con 15.917 tonnellate, è lo yacht a motore più grande del mondo per stazza lorda e ha un equipaggio monstre di 96 persone. Possiede fra l'altro due aree di atterraggio per elicotteri, una sauna, un salone di bellezza e una palestra. Per i suoi interni lussuosi si contano più di mille cuscini per divani. Può ospitare fino a 24 persone in 12 suite.
Una piscina mai vista
Il Dilbar di Usmanov, fra le altre caratteristiche, può disporre inoltre della più grande piscina mai installata su uno yacht. Esiste pure un account Instagram di suoi fan: ha 10mila follower, vi si trovano anche immagini prese da molto vicino lungo i mari del mondo.
Una fortuna immensa
Lo yacht di Usmanov fa parte della sua fortuna multimiliardaria che comprende partecipazioni nel colosso del ferro e dell'acciaio Metalloinvest, nella società di elettronica Xiaomi e in altre aziende nel settore delle telecomunicazioni, minerario e dei media. Usmanov, uno dei primi investitori in Facebook insieme al collega miliardario Yuri Milner, possiede anche beni immobiliari in Occidente che vanno da due proprietà nel Regno Unito, Beechwood House a Londra e Sutton Place nel Surrey, per un valore complessivo di 280 milioni di dollari, alle case di lusso a Monaco di Baviera, Losanna, Svizzera, Monaco e Sardegna. Usmanov ha venduto la sua quota del 30% nella squadra di calcio inglese dell'Arsenal nel 2018 per quasi 700 milioni di dollari in contanti, ma fino a questa settimana aveva legami con il calcio attraverso le sue Usm Holdings e le sponsorizzazioni MegaFon dell'Everton: il club inglese ha dichiarato mercoledì che avrebbe sospeso gli accordi proprio alla luce dell'attacco della Russia all'Ucraina
Caccia agli oligarchi: congelate le azioni di Mordashov, Fridman e Aven. Ma in Costa Smeralda è allarme occupazione. Viola Giannoli, Giovanni Pons La Repubblica il 2 marzo 2022.
Costituita la task force americana con dieci procuratori coordinati dal dipartimento di Giustizia. In Europa si muovono anche la Bce e la Banca d'Italia che chiedono agli istituti di credito di ricostruire le catene societarie.
La caccia agli oligarchi russi entra nel vivo e si presenta come un'operazione di livello internazionale. Dopo le dichiarazioni del presidente Usa Biden nel suo primo discorso sullo Stato della Nazione, l'amministrazione ha creato una task-force composta da dieci procuratori per perseguire gli oligarchi russi "corrotti", ha annunciato il dipartimento della giustizia Usa per bocca del procuratore generale Merrick Garland, e chi viola le sanzioni imposte sulla Russia per l'invasione in Ucraina". "Il Dipartimento di Giustizia userà tutta l'autorità in suo potere per confiscare i beni di individui e enti che violano queste misure - ha spiegato Garland in un comunicato annunciando la nascita della task force 'KleptoCapture'. Non lasceremo nulla di intentato nei nostri sforzi per indagare, arrestare e perseguire quegli atti criminali che permettono al governo russo di continuare questa guerra ingiusta".
Ma anche sul fronte europeo affiorano i primi segnali della discesa in campo delle istituzioni finanziarie per cercare di ricostruire le ragnatele societarie degli oligarchi e delle loro società. "Ricostruire le catene di controparti riconducibili a soggetti russi". Questo, secondo fonti di mercato raccolte dall'agenzia Radiocor, l'obiettivo della richiesta di informazioni alle banche italiane che e' arrivata, a inizio di settimana, dalle Autorità di vigilanza attraverso i team di vigilanza per le grandi banche "significant" vigilate dalla Bce e dalla Banca d'Italia per le banche "less significant".
Le prime conseguenze non si sono fatte attendere. In Gran Bretagna Roman Abramovich, patron del Chelsea, sta cercando di vendere la squadra e lo stadio prima di essere travolto dalle sanzioni, mentre Mikhail Fridman e Petr Aven, secondo il Financial Times, hanno annunciato un passo indietro da LetterOne, fondo di private equity con sede a Londra, dopo le sanzioni imposte loro dall'Unione europea. LetterOne e' stata creata circa un decennio fa dai due imprenditori russi con i 14 miliardi di dollari derivanti dalla vendita delle loro quote detenute in TNK-BP a Rosneft e da allora investe in tutta Europa nei settori energia, retail e telecomunicazioni. Lord Mervyn Davies, un ex ministro laburista, prenderà il controllo del gruppo, mentre Fridman e Aven - che hanno complessivamente poco meno del 50% del capitale (cosa che ha evitato sanzioni dirette anche alla societa') - lasceranno il cda. Le loro quote saranno "congelate" e non avranno diritto a dividendi o diritti di voto.
Lo stesso sta capitando a un altro oligarca russo di spicco, Alexey Mordashov, tra i destinatari delle sanzioni dell'Unione Europea, che si è dimesso dal consiglio di sorveglianza del tour operator tedesco Tui, tra i più grandi gruppi turistici mondiali, e le sue quote, pari al 34% del capitale e con un valore di mercato di poco inferiore agli 1,2 miliardi di euro, sono state sottratte alla sua disponibilità. Lo scopo delle sanzioni, riferiscono dalla società tedesca, è "impedire" a Mordashov di vendere i titoli e "realizzare qualsiasi incasso o profitto dal suo investimento".
Mordashov, presidente e principale azionista del gruppo siderurgico e minerario russo Severstal, è accreditato dall'indice dei miliardari di Bloomberg di una ricchezza di 25,8 miliardi di dollari, che ne fa la quarta persona più ricca della Russia. E' anche comproprietario di Rossiya Bank, una delle sette banche russe escluse dal sistema Swift. L'oligarca è azionista di Tui da circa 15 anni. Le sanzioni, specifica Tui, riguardano la persona di Mordashov e non la società, verso cui "non hanno alcun impatto".
La caccia agli oligarchi, tuttavia, non mancherà di creare ripercussioni sul mercato del lavoro, in quando i capitali russi per anni sono stati investiti in attività nei mercati occidentali e i consumatori russi hanno spesso rappresentato grossi fatturati per i marchi del lusso e della moda. Il primo grido d'allarme arriva dalla Costa Smeralda dove gli oligarchi erano di casa soprattutto d'estate, con i loro mega yacht e i loro enormi aerei privati. E dove le loro ville davano da lavorare a molti manutentori, giardinieri, addetti alla sicurezza, amministratori che ora rischiano di rimanere senza impiego.
"Nelle ultime ore abbiamo ricevuto decine di segnalazioni da parte di lavoratori ai quali è stato comunicato che non c’è più bisogno di loro, che da lunedì non dovranno più recarsi al lavoro", spiega Mirko Idili, segretario territoriale della Cisl Gallura. “Prima l’sms di un operaio, poi chiamate, racconti, altri casi venuti fuori da persone che lavorano nelle stesse ville o negli stessi cantieri e che ora sono in grande allarme. È l’onda lunga della guerra che arriva anche qui, in Costa Smeralda”.
In Gallura, secondo l'Osservatorio Sardegna turismo, trascorrono le vacanze oltre 40 mila russi, per un totale di 220 mila presenze. "Il 2020 in Gallura è stato l'anno nero per l'occupazione, meno 60% di assunzioni rispetto all'anno precedente, dovute alla pandemia. Il rischio che anche per il 2022 si possa prefigurare una stagione con una grave flessione di occupati è fortemente concreto. “Siamo in un territorio in cui ci sono in continuazione cantieri edili per le riqualificazioni di ville faraoniche. Ora sono almeno quattro le grandi proprietà in ristrutturazione. Oltre agli operai ci sono i lavoratori assunti tutto l’anno: giardinieri, manutentori, addetti alla vigilanza. E da marzo vengono chiamati a lavorare anche gli stagionali: governanti, cuochi, camerieri. Parliamo di centinaia di lavoratori locali per ogni oligarca russo, come Usmanov che tra villa e yatch si dice abbia circa 150 dipendenti al seguito - osserva Idili -. Abbiamo chiesto un incontro con il sindaco di Arzachena, Roberto Ragnedda, e con tutte le istituzioni competenti che si terrà venerdì per mettere in atto le conseguenti azioni di tutela nell'interesse di questi padri e madri di famiglia".
Stefano Ambu per ansa.it il 2 marzo 2022.
Un'Isola che tifa pace. E che non avrebbe mai voluto la guerra. Non solo per motivi umanitari, per solidarietà e perché ospita una numerosa comunità ucraina, circa seimila persone. Ma anche perché rischia di non vedere più il miliardario russo-uzbeko Alisher Usmanov, colpito dalle pesanti misure dell'Ue dopo l'invasione. Lui, di casa in Sardegna, è considerato un benefattore dopo che ha regalato alla Regione fondi - mezzo milione di euro - per combattere il Covid.
Non solo: qualche anno prima aveva donato un'ambulanza al comune di Arzachena. C'è un altro motivo di preoccupazione per la Sardegna: senza i russi in vacanza, c'è il pericolo di perdere circa 80 milioni assicurati dai ricchi turisti di Mosca e San Pietroburgo che, soprattutto in Costa Smeralda, d'estate non badano a spese con feste da catering di oltre mille euro a persona. Per non parlare degli investimenti: uno dei più noti resort di lusso al mondo è il Forte Village di Santa Margherita di Pula, dei fratelli Bazhaev, ceceni.
No, nonostante le misure punitive adottate dall'Ue la Sardegna continua a fare una precisa distinzione tra imprenditori e Putin. Ad Arzachena, il comune della Costa Smeralda, almeno la pensano così: nessuna revoca alla cittadinanza onoraria concessa nel 2018 a Usmanov.
"Per quanto attiene l'inserimento nella black list dell'Ue di numerosi oligarchi russi - spiega il sindaco Roberto Ragnedda - tra cui il nostro cittadino onorario Alisher Usmanov, auspichiamo che questa misura sia uno stimolo ulteriore e immediato alla ricerca del dialogo e della pace". Sardegna, quasi una seconda patria per il miliardario russo: nelle coste dell'Isola si vede spesso il mega yacht Dilbar, il quarto più lungo del mondo con 156 metri.
E - come aveva spiegato il sindaco giustificando la concessione della cittadinanza onoraria - Usmanov nelle sue proprietà "ospita regolarmente capi di Stato, mecenati, uomini d'affari e personalità che rivestono ruoli fondamentali nel campo dell'economia, della cultura e della politica a livello mondiale".
Tra loro anche Sting, protagonista dieci anni fa di un concerto nella villa del magnate russo in onore della sorella di Putin. Una esibizione che aveva scatenato le proteste del web. Il senso della rivolta di fans e non fans: "Come, difende le Pussy Riot e poi suona per Putin? Dalle cause giuste alle ospitate per soldi".
Usmanov, ma non solo. Il mercato russo delle vacanze vale in termini di presenze solo l'1,5 per cento, 220mila a stagione. Ma per soldi lasciati sull'Isola scala la classifica. Federalberghi spiega che solo per l'ospitalità in hotel i russi spendono 40 milioni. Più altri 40 di indotto tra ormeggi, feste, cene.
"Troppo presto per disperarsi ma troppo presto per dire che non succederà niente - chiarisce all'ANSA il presidente Paolo Manca - Ma la preoccupazione esiste: il turismo sardo pagherà sicuramente, non si sa in che misura ma pagherà. Inevitabile immaginare che le presenze diminuiranno. E che chi verrà tenderà magari a mantenere un profilo, anche per le spese, più basso del solito".
Vacanze russe soprattutto nel nord. E investimenti nel sud. "La situazione contingente desta preoccupazione e incertezza per quanto riguarda il mercato russo - dichiara all'ANSA Lorenzo Giannuzzi, general manager del Forte di Santa Margherita, da alcuni anni nelle mani dei Bazhaev - mentre pensiamo che sugli altri mercati il flusso di prenotazioni sarà superiore a quello dello scorso anno".
Una struttura conosciuta in tutto il mondo che ha ospitato tra l'altro l'avvio del ritiro degli azzurri poi diventati campioni d'Europa e un torneo internazionale di tennis Atp 250. Si era parlato anche di un possibile interessamento dei Bazhaev per il Cagliari calcio. Ma proprio oggi il presidente Tommaso Giulini ha smentito: "Mai contattati, solo gossip".
Vladimir Putin, Davide Serra e gli oligarchi: "Alcuni sono veri gangster". Il terrore delle torture. Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.
Vladimir Putin "non vincerà mai in Ucraina", e "sta distruggendo la Russia". Davide Serra, fondatore di Algebris e re italiano della finanza mondiale, intervistato dalla Stampa commenta la guerra fornendo il punto di vista della City, il cuore finanziario di Londra e dell'Europa. Il presidente russo, in Ucraina, "si troverà gente pronta a morire per la Patria. Basta che sia uno su quattro, ed ecco dieci milioni di soldati. Se saranno armati, i russi non li vinceranno mai. Con i giusti mezzi, sarà un Vietnam alla decima potenza". I problemi per lo Zar arriveranno però dal punto di vista interno: "Presto il suo unico asset, gli idrocarburi, non varranno nulla. Li venderà a Cina e Corea del Nord a basso prezzo. Putin sta distruggendo la Russia, l'ha già distrutta. Ora tutti sanno che è un pazzo". Londra è stata la più dura nelle sanzioni a Putin e ai suoi fedelissimi: "Una versione nucleare delle ordinarie misure finanziarie - sottolinea Serra -. La banca centrale russa ha 650 miliardi di riserve ma, di queste, 400 sono in Germania. Bloccate. Vuol dire che non possono fermare la caduta del rublo, precipitato da 70 a 110 col dollaro". Il russo medio "s'è visto bruciare il 40% del potere di acquisto di beni globali in una settimana. Mai visto". Di fatto, una "tassa Kiev".
L'Occidente confida nella rivolta degli oligarchi, i più colpiti dalle sanzioni, e in un "golpe bianco" in grado di rovesciare il presidente. Serra però sembra scettico: "Staranno zitti. Hanno paura di essere presi e torturati da Putin. Cosa che lui fa regolarmente". Lui, a Londra, li ha visti da vicino: "E' su di loro che Putin si è sempre appoggiato. Alcuni sono veri gangster che hanno rubato asset pubblici e anche ucciso. Hanno ottenuto il potere a condizione che obbedissero al presidente. Chi si lamenta o si oppone viene fatto fuori, metaforicamente e no, come capitato a Khodorkovsky o Litvinenko".
"Il giorno che hanno fatto fuori Litvinenko - ricorda il finanziere genovese, naturalizzato britannico - ero nel sushi bar in cui era andato a mangiare. Mi ha chiamato il MI5 per farmi il test del polonio. Tutto bene, fortunatamente. Ma questa è Londongrad. È qui che gli oligarchi alimentano il loro potere di corruzione e riciclaggio".
Russia, il sistema di potere a Milano: Gazprom, le società fantasma di Putin, banche e milioni di fatturato. Mario Gerevini e Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 3 marzo 2022.
Le ville e gli yacht sono in Costa Smeralda, Toscana e Liguria. Ma è a Milano che l’economia russa produce fatturati a sette cifre. Non è come «Londongrad», ma la città ospita sia i colossi, simbolo e traino della ricchezza russa, sia tantissime piccole imprese, professionisti, mediatori. Il punto di riferimento finanziario ambrosiano di Mosca è una palazzina di piazzale Principessa Clotilde, dove condividono gli uffici Afc e Vtb, due società registrate alla Camera di commercio. Sono avamposti e appendici della finanza alle dirette dipendenze di Vladimir Putin. Dietro di loro c’è il Cremlino, davanti il muro delle sanzioni che ha escluso dal sistema Swift, le rispettive case madri, Vnesheconombank (Veb) per Afc e Vtb Bank.
Afc srl è una sorta di fantasma, creata a Milano direttamente da Veb, cioè dalla più importante istituzione finanziaria russa, che gestisce i fondi pensione statali, ha progetti con imprese del settore della difesa e il presidente (oggi Igor Shuvalov) è nominato direttamente da Putin. È nata formalmente per fornire consulenze commerciali a operatori russi, ma dal 2013 non presenta consuntivi e negli otto anni precedenti i tre consiglieri di amministrazione (tutti di Mosca) hanno firmato bilanci senza un solo euro di ricavi e con decine di migliaia di euro di perdita. Perché non è stata chiusa? È una sorta di persona giuridica «dormiente» che, tra l’altro, già da tempo è passata sotto il controllo della non meglio identificata Dorstroyservice di Mosca. Al medesimo portone c’è un ufficio di rappresentanza della Vtb, seconda più importante banca russa, controllata dal governo.
Gazprom e Centrex
Si affacciano in periferia, invece, gli uffici di Gazprom. Il cuore pulsante e bandiera dell’economia russa muove circa 230 milioni di fatturato italiano da via Boncompagni, al Corvetto. E poco distante, in via Lorenzini, c’è la base della controllata Centrex Italia, una trentina di dipendenti, che con il trading di gas ed energia elettrica totalizza a sua volta poco meno di 800 milioni diretti. Un miliardo in totale sui 105 del gruppo a livello mondiale.
Mir Capital, Crotril, Gesa e Gesco
Ma nell’area metropolitana ricadono anche iniziative targate Gazprombank, istituto di credito russo finora non colpito dalle sanzioni: insieme a Intesa Sanpaolo ha creato Mir Capital, che controlla quote di minoranza in due società con base nell’area milanese: Cotril di Bollate, 61 dipendenti e 16 milioni di fatturato, nel settore dei cosmetici di lusso per capelli, e Gesa, che possiede Cioccolati italiani e le pizzerie Italia Express. «Oltre filiali commerciali e di servizi che in qualche modo fanno parte della galassia di Gazprom, nell’area milanese ci sono una quindicina di realtà di dimensione industriale — osserva il professor Marco Mutinelli, docente di ingegneria gestionale a Brescia ed esperto di internazionalizzazione d’impresa —. Per esempio dal 2012 è partecipata dalle ferrovie russe la Gesco Italia, che opera nella logistica e ha circa 170 dipendenti». Problemi in vista per le sanzioni? «L’impatto complessivamente è modesto, si tratta di quote minoritarie per le quali i soci italiani non soffriranno certo. E poi tutti si sono già cautelati sul fronte bancario».
Gli investimenti
Parla russo anche un importante azionista della Pirelli, la lussemburghese Tacticum Investments (2,8% del capitale). A chi appartiene? Secondo alcuni documenti il 19,5% fa capo a Ivanovich Arkadiy Mutavchi, russo ex dipendente pubblico, il 17,7% a Carl Mackinder, inglese con residenza a Cipro, il 17,7% ad Anna Avraam, nata a Mosca residente a Cipro ma di nazionalità australiana, il 14,3% a Oxa Kuchura cipriota di origini ucraine e il 30,6% al russo-cipriota Dmitry Klenov.
Le imprese individuali
Ma accanto ai colossi dell’economia globale, Milano ospita anche tante ditte individuali di russi: 169, secondo i dati del registro imprese, e danno lavoro a 157 addetti. Erano 89 ditte a fine 2011, +90% in dieci anni. Una cinquantina impegnate nel commercio al dettaglio (28) e all’ingrosso (27), 15 in attività professionali, scientifiche e tecniche, 14 nei lavori di costruzione specializzati e altre 14 nei servizi per la persona. Colpisce un dato: le donne titolari sono 129 su 169 aziende.
Il nodo del rublo
Come stanno vivendo questo momento? Non risponde la Camera di commercio Italo-russa, squillano a vuoto i telefoni alla Vtb bank, ma da San Pietroburgo — dove è rimasta bloccata durante un viaggio di lavoro — racconta la situazione Ella Falian, che vive a Milano ed esporta tecnologia italiana per il settore petrolifero russo: «Già dal 2014 esistono limitazioni negli scambi con la Russia, sempre dovute a sanzioni internazionali, ma ora c’è il problema del rublo: se io fossi una turista russa a Milano tutto mi costerebbe tantissimo. Ora non conviene né depositare né prelevare un centesimo dal conto russo. E poi la carta di credito collegata a quella banca mi è già stata rifiutata». Anche Elmira Abykhanova, consulente legale ormai milanese, spiega: «Le cose cambiano continuamente, non ci sono certezze, salvo una: il rublo ha perso il 30 per cento. E tutto il sistema economico soffre per questo e per l’impossibilità di fare trasferimenti di denaro dalla Russia all’estero. Però le merci italiane arrivano».
Stefano Boldrini per “il Messaggero” il 2 marzo 2022.
Cominciarono con il commercio di jeans e personal computer, importati clandestinamente e rivenduti a peso d'oro. Poi misero le mani sulle immense ricchezze dell'Unione Sovietica al collasso, passando dal ruolo di funzionari a quello di proprietari. Oggi possiedono multinazionali, squadre di calcio, patrimoni d'arte, aerei, yacht di ultima generazione. Sono gli oligarchi russi e occhio al significato della parola, di origine greca, oligarkia: comando di pochi.
Nelle classifiche specializzate dei super benestanti, appaiono ben 117 nomi e tra questi, i primi tre hanno avuto, o hanno, legami profondi con il calcio. Nell'ordine: Alisher Usmanov, 18,4 miliardi di patrimonio, acciaio e telecomunicazioni; Suleyman Kerimov, 15,8 mld, uomo d'affari; Roman Abramovich, 14,5 mld e quattro passaporti, acciaio, energie e attività varie.
Attenzione al secondo, Kerimov: nel 2004 cercò di acquistare la Roma dei Sensi. L'accordo sembrava raggiunto, ma qualcosa, o qualcuno, fece saltare tutto. Mistero e leggenda accompagnano da allora questa storia, in pieno stile oligarchi.
Il numero uno per eccellenza è Roman Abramovich, dal 2003 proprietario del Chelsea, portato in vetta al pianeta appena 18 giorni fa, nella finale del mondiale per club vinta 2-1 contro il Palmeiras. In questi 19 anni, l'oligarca di Saratov ha speso oltre 2 miliardi di euro e conquistato 22 trofei. Ai dipendenti dei Blues, allenatori compresi, è vietato pronunciare il suo nome: bisogna chiamarlo boss.
Abramovich, coinvolto due giorni fa tra i mediatori dei colloqui Ucraina-Russia, vive protetto da un esercito di guardie del corpo. I suoi yatch sono equipaggiati con batterie missilistiche. Parla poco l'inglese e da quando nel 2018 il governo britannico rifiutò di concedergli il visto rimediò all'istante ottenendo il passaporto israeliano -, solo un paio di volte è stato avvistato allo Stamford Bridge. Sabato, per prevenire il congelamento del Chelsea, asset di prima grandezza, ha affidato il club alla fondazione dei Blues, ma ora l'organismo che lo dirige chiede precise garanzie.
Abramovich ha avuto una relazione speciale con Alexander Tsjigirinski, proprietario del Vitesse Arnhem dal 2013 al 2018. Dal 2018 il club olandese, avversario della Roma nel prossimo turno di Conference, è nelle mani di Valery Oyf, russo di origine ucraina. E' però con il suo predecessore che Abramovich fece affari, utilizzando il Vitesse come centro di sviluppo dei giovani: Nemanja Matic e Mason Mount i talenti più importanti.
Oyf e Maxim Denim, proprietario del Bournemouth (Championship), non sono collegati direttamente a Putin, al contrario di Abramovich, considerato uno degli uomini più vicini al presidente russo. In Francia impera dal 2011 Dmitry Rybolovlev, magnate del Monaco, 6,7 mld dollari di patrimonio e collezione d'arte da urlo: Gauguin, Modigliani, Picasso, Matisse, Monet, Van Gogh e il Salvator Mundi di Leonardo da Vinci. Possiede persino un'isola in Grecia.
Altri oligarchi sono più defilati nel mondo del calcio, ma presenti quando si tratta di aprire il portafoglio: è il caso di Usmanov. Dal 2007 al 2018 fu uno dei principali azionisti dell'Arsenal. Dal 2019 la sua holding USM è sponsor dell'Everton. L'Inghilterra, Londra in particolare, è il paese di riferimento dei riccastri russi.
Nel calcio, però, sono stati via via superati da americani, emiri e sceicchi. Si consolano con altri lussi. Possiedono appartamenti da urlo e castelli. Usano aerei privati ed elicotteri per gli spostamenti. Spendono e spandono. La City, del resto, è una formidabile centrifuga di denaro: in quei 2,9 kmq, il money non puzza mai.
Diana Cavalcoli per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2022.
I costi dell'invasione in Ucraina e le sanzioni varate da Ue, Stati Uniti e Regno Unito contro Mosca stanno danneggiando il patrimonio dei grandi oligarchi della Russia. Non si parla però solo di conti correnti e risparmi congelati.
A rischiare il sequestro sono anche i maxi yacht, i colossi del mare che ogni estate si fanno notare nei porti italiani da Portofino alla Costa Smeralda. In queste ore il ministro degli Esteri francese, Bruno Le Maire, ha fatto sapere che la Francia si prepara a sequestrare i beni di funzionari e imprenditori russi.
Nel mirino attività finanziarie, immobili, yacht e auto di lusso. Anche il Regno Unito farà lo stesso. Il segretario ai Trasporti, Grant Shapps, ha detto di aver scritto a tutti i porti del Paese chiedendo loro di vietare l'accesso alle navi battenti bandiera russa o a imbarcazioni registrate, di proprietà, controllate, noleggiate o gestite da russi.
Per molti di questi giganti del mare è così scattato il «fuggi fuggi» dall'Occidente. Il primo a dare il via alle grandi manovre delle super imbarcazioni è stato lo stesso presidente russo, Vladimir Putin.
Con i suoi 80 metri di lunghezza, «Graceful», lo yacht personale di Putin, è stato spostato da Amburgo a Kaliningrad appena due settimane prima dell'invasione russa in Ucraina. L'ultima posizione nota dello yacht, secondo il sito MarineTraffic, è infatti nel porto della città, storico snodo commerciale di quella che fu la provincia della Prussia Orientale. Ma non è solo Putin a preoccuparsi dei suoi asset sul mare.
Il patron del Chelsea, Roman Abramovich, che ha rinunciato al controllo del club, punta a trasferire il suo «My Solaris», lo yacht da 140 metri, dal porto di Barcellona per evitare che venga bloccato. L'altro gioiello dell'imprenditore, l'«Eclipse», è ormeggiato invece al sicuro a Saint Martin nei Caraibi. Il magnate russo Andrey Melnichenko avrebbe poi dato al comandante del mega panfilo «Sailing Yacht A» - nel porto di Trieste per manutenzioni - l'ordine di salpare al più presto possibile. Lontano dalle sanzioni.
Gli oligarchi. Abramovich mediatore: l’ha chiamato un produttore ucraino suo amico. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
Il proprietario della squadra del Chelsea, oligarca alleato di Putin bandito da Londra, sarebbe volato in Bielorussia per tentare una mediazione per una soluzione pacifica.
Londra È l’oligarca russo più famoso all’estero: e adesso è anche l’improbabile mediatore nella crisi ucraina.
Roman Abramovich, il proprietario (tra le altre cose) della squadra di calcio inglese del Chelsea, sarebbe già in Bielorussia per facilitare i colloqui di pace fra le due parti: un portavoce del club ha detto ieri di «poter confermare che Roman Abramovich è stato contattato dagli ucraini per cercare di raggiungere una soluzione pacifica e che sta cercando di dare il suo aiuto».
La casa da 150 milioni
La rivelazione è arrivata nel momento in cui una delegazione guidata dal ministro della Difesa di Kiev si è incontrata con gli emissari di Vladimir Putin a Gomel, una cittadina bielorussa a 30 chilometri dal confine ucraino: ma l’improvvisa mediazione di Abramovich viene svelata nel momento in cui il magnate moscovita è sempre più sotto pressione da parte delle autorità di Londra, ansiose di stringere il cappio attorno a «Londongrad», il groviglio di affari e interessi russi sul Tamigi.
Da più parti, nei giorni scorsi, si erano levate richieste a favore di una confisca dei beni di Abramovich, che possiede anche una magione da 150 milioni vicino a Kensington palace: l’oligarca, come contromossa, ha annunciato sabato di aver ceduto a una fondazione la gestione — ma non la proprietà — del Chelsea. Una decisione che è stata definita «una mossa di pubbliche relazioni» senza nessun valore legale.
Unità per i casi speciali
Il coinvolgimento di Abramovich nei colloqui di pace sarebbe avvenuto su richiesta di un suo amico, il produttore cinematografico ucraino Alexander Rodnyansky, che vive a Mosca: lui sostiene che è stata la comunità ebraica di Kiev a fare appello all’oligarca, che è di origine ebraica e ha la cittadinanza israeliana, oltre a quella russa. «Se questo avrò un impatto o no, non lo so — ha detto il produttore —. Ma io stesso sono in contatto con lo staff di Zelensky e so che gli sono grati per i suoi sforzi genuini». Nei giorni scorsi i giornali inglesi hanno rivelato che Abramovich è stato bandito di fatto dalla Gran Bretagna: la sua posizione è gestita direttamente dall’«Unità per i casi speciali» del ministero dell’Interno, che ha ricevuto istruzioni affinché il magnate russo non possa legalmente fare base nel Regno Unito.
La lista degli oligarchi
L’oligarca, che siede su una fortuna di oltre 12 miliardi, manca da mesi da Londra: l’ultima volta ci era stato brevemente di passaggio a ottobre, grazie al suo passaporto israeliano, che gli consente visite turistiche: ma se volesse tornare a vivere in Gran Bretagna, dovrebbe ottenere un visto. Fonti del governo hanno però fatto sapere che «ogni tentativo sarebbe respinto». E ieri la ministra degli Esteri britannica, Liz Truss, ha illustrato in Parlamento la legge che mira a fare luce sulle proprietà russe a Londra: «Abbiamo una lista di bersagli fra gli oligarchi», ha detto. In cima, potrebbe esserci proprio Abramovich.
Lorenzo Paleologo per “La Verità” l'1 marzo 2022.
Immettendo Roman Abramovich nella delegazione Ucraina, designata per le trattative in Bielorussia con i rappresentanti di Vladimir Putin, i servizi segreti inglesi, che sarebbero gli artefici dell'operazione, potrebbero aver deciso di mandare un chiaro segnale di benevolenza dell'Occidente nei confronti degli oligarchi russi, sottoposti a forti pressioni dalle sanzioni decise la settimana scorsa dal mondo Nordatlantico.
Il padrone del Chelsea, che proprio a causa di tali misure ha dovuto intestare la proprietà formale del club a una fondazione, si è trovato catapultato al tavolo negoziale non quale fine conoscitore della mentalità russa, dato che in questo gli ucraini non necessitano certo di aiuto, ma quale garante di una possibile soluzione politica per le élite benestanti, in maggioranza, come Abramovich di religione ebrea, e che a Mosca si foraggiano grazie alla presenza al potere di Putin.
L'Occidente, nei giorni scorsi, ha visto aprirsi una crepa nel muro di relativa omertà che fin dalle sanzioni del 2014, lanciate dall'Ue e da Washington in seguito all'annessione della Crimea, caratterizzava i miliardari russi e ha pensato di approfittarne.
Mikhail Friedman, fondatore di Alfa, la maggiore banca privata del Paese, i cui genitori vivono in Ucraina, è stato il primo, domenica scorsa, a parlare di una tragedia inutile, a proposito dell'azione militare lanciata da Putin.
Lo ha seguito a ruota l'industriale del settore minerario Oleg Deripaska, pretendendo immediati negoziati, con un post sul canale social Telegram. Tuttavia, nonostante queste prime manifestazioni di contrarietà, il cordone sanitario dei magnati rimane abbastanza solido intorno al capo del Cremlino.
Nel 2000, non appena eletto, Putin ha chiarito che i miliardari sarebbero potuti restare tale se si fossero estromessi volontariamente dalla politica. Chi non ha accettato il diktat è stato incarcerato, si è suicidato oppure, nel migliore dei casi, è stato invitato a emigrare. Putin ha ribaltato lo schema.
Non doveva più essere lui, come furono i suoi predecessori, a dipendere dai facoltosi concittadini, ma loro da lui. Friedman e Deripaska appartengono alla categoria di coloro che hanno accettato le nuove regole del gioco e certamente non sono tra le persone più amate dalla popolazione russa, sia per la loro esagerata ricchezza, sia per la loro distanza dalla religione della maggioranza.
Friedman, tra i king maker di Boris Eltsin, sentendo montare la narrativa antisemita per l'eccessivo accumulo di ricchezze, si affrettò, negli anni Novanta, a fondare il Congresso ebreo russo, in modo da attutire l'immagine negativa sua e dei suoi colleghi oligarchi. Successivamente accettò anche la cittadinanza israeliana, mentre Deripaska ha preso quella cipriota nel 2017.
In Russia esistono tre tipi differenti di oligarchi. La prima categoria è rappresentata dagli amici personali di Putin, legati a quest'ultimo dalla società Ozero Dacha; la seconda categoria è quella dei cosiddetti silovarki, un misto di siloviki (dirigenti statali) e oligarchi, mentre alla terza appartengono tutti gli altri super ricchi.
Gli amici personali, gli unici ad avere accesso personale a Putin, sono i meno ricettivi alle sirene delle sanzioni, in quanto completamente dipendenti dall'esistenza del capo. I siloviki, dirigenti dei servizi segreti e delle altre strutture statali, potrebbero in parte comprendere l'opportunità di un colpo di Stato, ma non possono mettere in salvo all'estero, anticipatamente, i loro beni, in quanto verrebbero intercettati e fino ad ora non hanno avuto bisogno di isolare Putin per l'esistenza del tacito accordo, sulla base del quale eventuali perdite di rendita causate dalle sanzioni vengono parzialmente compensate da nuovi benefici interni.
Pertanto Bruxelles e Washington, se desiderano innescare l'insoddisfazione delle élite russe, possono verosimilmente contare solo sulla categoria degli indipendenti, sui vecchi oligarchi rinnegati e su quei pochi che hanno deciso apertamente di rimanere in patria opponendosi al regime, come Aleksander Lebdev e Mikhail Prokhorov.
Ma, anche se indipendenti, gli oligarchi, non hanno un grande appiglio presso la popolazione, che alla fine dovrebbe legittimare un cambio di regime e garantire la loro continuità di fortune.
L'oligarca medio russo, alle incertezze della democrazia, fino ad ora ha dimostrato di preferire le zone grigie garantire dal regime autoritario. Lebdev, ex agente Kgb, banchiere e comproprietario di giornali russi e inglesi, e Prokhorov, comproprietario di società Usa, sono invece visti come cavalli di Troia di un sistema straniero a cui comunque il russo medio non intende prostrarsi.
Vittorio Sabadin per “Il Messaggero” l'1 marzo 2022.
Roman Abramovich ha preso uno dei suoi aerei privati ed è andato a Gomel, in Bielorussia, a partecipare alle trattative tra la delegazione ucraina e quella di Mosca. Non l'ha invitato il suo amico Putin: a volerlo al tavolo dei colloqui è stato il governo di Kiev.
Tutti si domandano che cosa c'entri Abramovich, uno degli uomini più ricchi (e più discussi) del mondo, con la guerra in corso, e perché un russo con cittadinanza israeliana che vive a Londra sia considerato importante ai fini di un accordo.
Ogni volta che al Parlamento britannico lo tirano in ballo come il cassiere di Putin nel Regno Unito, Roman Abramovich smentisce subito ogni rapporto con lui. Ma sua figlia Sophia ha postato un commento contro l'invasione e ha dovuto rettificarlo subito dopo, probabilmente dopo una telefonata del padre.
Una parte di Londra, quella che tifa per il Chelsea, gli vuole bene. Ha acquistato la squadra nel 2003: ha ingaggiato Mourinho, ha speso molti soldi e ha vinto in 19 anni 22 trofei, comprese due Champions e cinque Premier.
Sabato scorso, quando sono scattate le pesanti sanzioni di Boris Johnson il magnate ha fatto la voce grossa. Di più, ha ceduto la presidenza della squadra alla fondazione benefica del club, giusto poco prima che il governo lo obbligasse a lasciarla.
Nato 55 anni fa in Russia da genitori di origine ebraica, Abramovich è rimasto orfano a quattro anni. Senza un soldo, tirato su dagli zii e dai nonni in Siberia, ha venduto bambole al mercato, ha fatto qualche lavoretto, ha lasciato per due volte la scuola.
Con l'arrivo di Gorbaciov e della Perestrojka è riuscito a farsi strada a gomitate, acquistando a poco prezzo quello che lo Stato vendeva. Con l'arrivo di Eltsin, e grazie all'amicizia con Boris Berezovsky, il primo miliardario russo, ha comprato la compagnia petrolifera Sibneft per 150 milioni di dollari quando ne valeva 800 e l'ha rivenduta nel 2002 a Gazprom per 13 miliardi
Tutti quei soldi, o quasi, li ha spesi per acquistare Evraz, una compagnia mineraria che ora ha perso quasi il 40% in borsa, cosa che forse ha contribuito a consigliargli di prendere l'aereo per volare verso la Bielorussia.
A convincerlo è stato anche il suo grande amico, il produttore cinematografico ucraino Alexander Rodnyansky, che ha parenti ed amici a Kiev, anche lui ebreo. La notizia del viaggio, non sembra un caso, è stata data per primo dal Jerusalem Post: Abramovich, infatti, è ben conosciuto nelle comunità ebraiche dell'Ucraina e della Russia, che si sono dimostrate contrarie alla guerra.
Di certo, le sanzioni hanno creato molti problemi agli oligarchi russi che affollano quella che ormai veniva chiamata Londongrad. Roman Abramovich da tempo aspettava un permesso di soggiorno permanente, e invece gli è stato notificato che non potrà più tornare in Gran Bretagna, dove possiede tra le altre cose una casa da 150 milioni di sterline vicino a Kensington Palace e ha un garage con due Ferrari, due Maybach, una Porsche e una Rolls-Royce, che ora si copriranno di polvere.
Ha anche due aerei con camera da letto, e specchio sul soffitto per non annoiarsi durante i voli. È stato sposato tre volte, ha sette figli da due mogli e il divorzio dalla seconda, Melandina, gli è costato un patrimonio immobiliare.
Può darsi che sia andato a Gomel perché Israele vuole fare un tentativo per la pace con una persona che sia amica degli ucraini e anche di Putin. Può darsi anche che sia stato il leader del Cremlino a chiederglielo, visto che è impantanato in una guerra più difficile del previsto e ha bisogno di qualcuno che faccia il poliziotto buono e trovi una soluzione che gli salvi la faccia.
Può darsi infine che ci sia andato solo perché il suo impero traballa, e vuole accreditarsi agli occhi di Boris Johnson come uno che combatte i cattivi.
Abramovich è stato arrestato una volta ed è comparso spesso nei tribunali di Londra. Un giudice ha detto di lui: «È un testimone intrinsecamente inaffidabile, il quale considera la verità un concetto transitorio e flessibile che può essere modellato per adattarsi ai suoi scopi». Esattamente l'uomo che ci vuole per trattare con uno come Putin.
Perché Abramovich è stato scelto dall’Ucraina come “mediatore” ai colloqui tra russi e ucraini (e perché gli conviene). Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
Il milionario russo-israeliano è «stato richiesto dall’Ucraina per aiutare nei colloqui e ha viaggiato fino in Bielorussia per partecipare alle discussioni» riferisce il Jerusalem Post.
Dopo la finale della Carabao Cup (la Coppa di Lega inglese), persa ai rigori contro il Liverpool, le dichiarazioni del presidente Roman Abramovich sembravano aver sciolto almeno il principale nodo extracampo che affliggeva il Chelsea. L’imprenditore russo, proprietario dei Blues dal 2003, aveva espresso la volontà di affidare la gestione della società ai vertici della fondazione benefica del club. Tutto questo per impedire che le sanzioni economiche imposte agli oligarchi vicini al presidente Vladimir Putin possano in qualche modo coinvolgere la squadra, evitando parte degli imbarazzi che si erano generati negli ultimi giorni a causa del conflitto in Ucraina. «Lo faccio per il bene dei Blues. Da quando sono alla guida del club ho sempre difeso i suoi interessi. Per questo mi sfilerò dalla carica attuale, affidando i principali compiti manageriali agli amministratori della Chelsea Foundation».
E per accreditarsi come «uomo di pace» Abramovich, secondo il «The Jerusalem Post» (il magnate russo aveva trasferito la residenza da Londra a Israele tempo fa) è in Bielorussia ai colloqui tra russi e ucraini su richiesta dell’Ucraina, per fungere da mediatore. Come sappiamo infatti, delegazioni dalla Russia e dall’Ucraina sono arrivate alla città bielorussa di confine di Gomel e hanno iniziato i colloqui volti a trovare un modo per porre fine ai combattimenti in Ucraina. Abramovich ha stretti legami con le comunità ebraiche in Ucraina e Russia. L’ambasciatore dell’Ucraina in Israele, Yevgen Kornichuk, non ha commentato in modo specifico il coinvolgimento di Abramovich nei colloqui, ma ha affermato di apprezzare «chiunque possa aiutare, se ha abbastanza influenza».
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In Gran Bretagna però le cose per Abramovich si complicano: il magnate russo pensava di potersi limitarsi a cedere la gestione del Chelsea alla Fondazione benefica, ma il passaggio non è così semplice. La Fondazione, stando a quanto riportano Bbc e Sky Sports Uk, ha chiesto approfondimenti legali. Al momento sarebbe già al lavoro un team di avvocati che sta valutando accuratamente la compatibilità dell’operazione con le norme vigenti, prima di dare l’ok alla scelta del presidente. Sulla fattibilità stanno facendo le dovute considerazioni sia il presidente esecutivo della squadra, che guida anche la fondazione, l’avvocato americano Bruce Buck, sia altre figure di spicco dei Blues, tutti componenti del board della Chelsea Foundation. Tra gli altri, ci sono anche Emma Hayes, team manager della squadra femminile, il direttore del settore finanziario Paul Ramos e Sir Hugh Robertson, già presidente dell’associazione olimpica britannica.
Il tema ha acceso recentemente un dibattito anche nella politica nazionale perché Abramovich rimarrebbe comunque in una posizione di rilievo. Una condizione che non metterebbe al riparo l’imprenditore dalle accuse del parlamento inglese, in particolare della sponda laburista, dalla quale si sono già alzate molte voci che contestavano non solo il ruolo di presidente, ma anche i suoi asset economici e la permanenza sul suolo inglese, considerato che Abramovich era già stato allontanato nel 2018 per la vicenda della spia Sergei Skrypal.
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Per allontanare i sospetti, pur senza menzionare direttamente il conflitto, l’imprenditore aveva lasciato intendere quanto fosse grave la situazione e la necessità di pregare affinché la guerra possa presto cessare. I canali ufficiali del Chelsea in questi giorni hanno frequentemente promosso la pace e la solidarietà verso il popolo ucraino, con striscioni e manifestazioni da parte dei tifosi anche durante le ultime partite giocate.
(ANSA il 2 marzo 2022) - Il proprietario del Chelsea, Roman Abramovich, ha confermato che il club di Premier League è in vendita. L'oligarca russo, che non è stato ancora colpito dalle sanzioni che il governo britannico ha imposto ad altri magnati ritenuti vicini a Vladimir Putin, ha dichiarato che "tutti gli utili" della cessione, al netto dei costi, "verranno interamente devoluti ad una fondazione di cui beneficeranno le vittime della guerra in Ucraina".
Nel comunicato stampa in cui annuncia la decisione di voler cedere il club londinese, Abramovich, che aveva acquistato il Chelsea nel 2003, ha affermato che "è nel miglior interesse del club la vendita".
Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 marzo 2022.
Roman Abramovich ha iniziato una "svendita" del suo vasto portafoglio londinese mentre cerca di scaricare il Chelsea FC per £ 3 miliardi e £ 200 milioni di proprietà - con un parlamentare che afferma che il miliardario russo sta agendo rapidamente per impedire che i suoi beni vengano congelati.
Chris Bryant dei laburisti, usando il privilegio parlamentare per evitare azioni legali, ha affermato che il magnate sta vendendo la sua casa e un appartamento perché è «terrorizzato di essere sanzionato», aggiungendo che temeva che il governo avrebbe esaurito presto il tempo per agire.
Abramovich vale 10,4 miliardi (12,5 miliardi di dollari), secondo Forbes, e possiede una villa da 150 milioni di sterline a Kensington, un attico da 22 milioni di sterline e oltre 1,2 miliardi di sterline di yacht, jet privati, elicotteri e supercar con sede in Gran Bretagna e in tutto il mondo.
Il Chelsea FC è la sua risorsa britannica più preziosa, dopo che l'oligarca ha trasformato la in un gigante della Premier League con l'aiuto di Jose Mourinho e grandi acquisti come Didier Drogba, quindi la sua vendita sarà un duro colpo per l'industriale miliardario.
Oggi, il leader laburista Sir Keir Starmer ha sollecitato il Primo Ministro sul motivo per cui Abramovich non è stato sanzionato, sostenendo che aveva «legami con lo stato russo» e «associazione pubblica con attività e pratiche corrotte».
Il signor Johnson ha affermato che non è "appropriato" per lui commentare i singoli casi. Il ministro degli Esteri Liz Truss ha precedentemente affermato di avere una "lista dei risultati" di oligarchi da prendere di mira, ma non li ha nominati tutti.
I miliardari legati al Cremlino stanno anche affrontando nuove minacce di sequestro di beni dagli Stati Uniti, con Joe Biden che ha usato il suo discorso sullo stato dell'Unione per dire che l'America stava arrivando a «sequestrare i tuoi yacht, i tuoi appartamenti di lusso, i tuoi jet privati».
Abramovich non ha mai avuto la cittadinanza britannica e ha fatto fortuna vendendo beni acquistati dallo stato quando l'URSS si è sciolta. Nega con veemenza di essere vicino al Cremlino o di fare qualcosa che meriterebbe sanzioni.
Secondo quanto riferito, i funzionari dell'immigrazione hanno ricevuto istruzioni per impedirgli di stabilirsi nel Regno Unito. Il controllo dei parlamentari e il suo status di oligarca russo più famoso della Gran Bretagna lo rendono ancora più vulnerabile.
Abramovich ha sette figli da due delle sue ex mogli. La maggiore, Anna, 29 anni, è una laureata in filosofia alla Columbia University che vive a New York, mentre Arkadiy, 27 anni, è un magnate industriale con ingenti investimenti in petrolio e gas.
Sofia, 26 anni, vive a Londra e la 'bambina selvaggia'' della famiglia, ha recentemente postato su Instagram un messaggio in cui attacca Vladimir Putin per la sua invasione dell'Ucraina. Meno si sa di Arina, 20 anni, e Ilya, 18 anni, o Aaron, 11 anni e Leah Lou, 7 anni, entrambi nati a New York dalla sua terza moglie, Dasha.
L'attuale posizione di Abramovich è sconosciuta, ma di recente è stato in Bielorussia per "cercare di aiutare" a negoziare la fine della guerra della Russia contro l'Ucraina in seguito alla sua invasione illegale del paese.
Il conflitto è entrato oggi nel suo settimo giorno, con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky che ha avvertito che la Russia stava cercando di cancellare l'Ucraina e il suo popolo dopo che i funzionari hanno affermato che 2.000 civili erano stati uccisi.
Mentre cresce la pressione per punire chiunque sia stato visto aver aiutato il regime di Putin, ecco una carrellata dei beni di Abramovich in Gran Bretagna, così come yacht, automobili e aerei sparsi per il mondo.
Da calciomercato.com il 2 marzo 2022.
La continua escalation della guerra di invasione portata avanti dalla Russia in Ucraina per volere di Vladimir Putin sta già provocando pesanti ripercussioni anche per gli uomini politicamente ed economicamente più vicini al presidente.
Gli stati membri dell'Unione Europea e gli Stati Uniti hanno varato e sono intenzioni ad adottare nuove e sempre più stringenti sanzioni nei confronti degli oligarchi che hanno finanziato negli anni il regime di Mosca e tra i soggetti più esposti c'è anche il proprietario del Chelsea Roman Abramovich.
Dopo essersi visto negare per una seconda volta il visto per accedere in Inghilterra - la prima volta era accaduta nel 2018 dopo l'avvelenamento della spia russa Sergei Skripal - il magnate avrebbe deciso di liberarsi di tutti i suoi possedimenti in Gran Bretagna.
A svelarlo è il Times, che riporta le parole del deputato laburista Chris Bryant, che riferisce del terrore di Abramovich di vedere i suoi beni congelati e della scelta di affrettare i tempi della cessione della sua maestosa villa da 15 stanze o la palazzina di tre piani situati a Londra.
Ma i nuovi clamorosi scenari riguardano il futuro stesso del Chelsea, che potrebbe finire ufficialmente sul mercato. L'incredibile scenario, impensabile fino a poco tempo fa, viene delineato dal miliardario svizzero Hansjörg Wyss, che ha annunciato di aver presentato la prima proposta formale per l'acquisizione del club campione d'Europa, riscontrando però una valutazione giudicata eccessiva.
Dal 2003 ad oggi, il Chelsea ha contratto un debito di circa 2 miliardi di euro con Abramovich e, non essendo la società inglese nelle condizioni di restituire questa cifra, i soggetti eventualmente interessati a rilevare la società dovrebbero anche ripagare questo debito all'uomo d'affari russo.
Che viene tuttavia descritto come disponibile - come mai prima d'ora - a valutare qualsiasi scenario e che avrebbe manifestato il forte desiderio di liberarsi del Chelsea. Wyss, che detiene un patrimonio personale di 4,3 miliardi di sterline, ha confessato nell'intervista concessa al quotidiano svizzero Blick che sul tavolo di Abramovich sarebbero arrivate offerte da almeno altri tre investitori.
Il valore attribuito però alla squadra londinese rimane proibitivo e per questa ragione Wyss sta prendendo in considerazione l'ipotesi di farsi affiancare da altri soci, qualora nei prossimi giorni il proprietario del Chelsea dimostrasse l'interesse a portare avanti una trattativa per il passaggio di mano.
È doveroso ricordare come, dopo i primi provvedimenti adottati dai Paesi dell'Unione Europea nei suoi confronti e degli altri uomini di potere russi invisi alla comunità internazionale, Abramovich aveva ceduto ufficialmente la gestione ordinaria del club ai trustee della charitable foundation.
Questi ultimi hanno però avanzato forti dubbi e perplessità su questa operazione, in quanto timorosi di essere chiamati a rispondere in futuro di questioni legate ad un possibile conflitto di interessi e soprattutto di eventuali problemi arrecati alla società in virtù degli ultimi sviluppi.
Da leggo.it il 2 marzo 2022.
Il miliardario svizzero Hansjorg Wyss ha confermato l'interessamento all'acquisto del Chelsea, l'imprenditore 86enne ha ammesso di pensare a rilevare il club di Stamford Bridge da Roman Abramovich ma solo all'interno di un consorzio con altri partner.
Dall'Inghilterra intanto filtra la notizia che il magnate russo vorrebbe mantenere la proprietà dei 'blues', opzione impraticabile se il governo di Londra imponesse sanzioni ad Abramovich alla guida della società nel 2003.
Wyss, fondatore della società di dispositivi medici Synthes Usa, ha ammesso che esaminerà i dettagli di un eventuale accordo per l'acquisto del Chelsea, il prezzo richiesto potrebbe aggirarsi attorno ai 2 miliardi di sterline, 2,6 miliardi di dollari.
«Abramovich sta cercando di vendere tutte le sue ville in Inghilterra, vuole anche sbarazzarsi rapidamente del Chelsea», ha detto Wyss al quotidiano svizzero 'Blick'. «Io e altre tre persone martedì abbiamo ricevuto un'offerta per l'acquisto del Chelsea da Abramovich - prosegue l'imprenditore elvetico -.
Devo aspettare dai quattro ai cinque giorni ora. Abramovich al momento sta chiedendo troppo. Ad oggi, non conosciamo il prezzo di vendita esatto. Se dovessi acquisire il Chelsea, allora lo farei con un consorzio composto da 6-7 investitori».
Dopo l'invasione dell'Ucraina da parte dei russi, sabato Abramovich ha fatto un passo indietro lasciando la presidenza del club affidando la gestione agli amministratori della fondazione di beneficenza del club, operazione che ha sollevato critiche in Gran Bretagna.
Da ilmessaggero.it il 2 marzo 2022.
Roman Abramovich continua ad avere un ruolo centrale nella guerra d'Ucraina. L'ormai ex patron del Chelsea, oltre alla sua vicinanza storica a Putin e gli interessi economici a Kiev, ha una partecipazione nell'azienda siderurgica russa i cui materiali sono usati per fabbricare i carri armati impiegati nell'invasione, riporta il "Daily Mail".
Secondo gli analisti, per evitare sanzioni da Londra avrebbe trasferito le azioni di Evraz (il nome dell'azienda siderurgica, seconda per importanza in Russia), otto giorni prima che Vladimir Putin ordinasse l'invasione dell'Ucraina. E ora teme una guerra prolungata, che potrebbe costargli economicamente carissima, per i suoi business strettamente legati a tutte le parti in causa.
Gli interessi di Abramovich
Grzegorz Kuczynski, direttore del Programma Eurasia presso l'Istituto di Varsavia, ha dichiarato: «C'era il rischio che questa società offshore diventasse oggetto di sanzioni. L'acciaio Evraz viene utilizzato, tra le altre cose, per costruire carri armati. L'azienda è importante per l'industria delle armi russa, in questo senso. È importante per i piani di guerra della Russia, anche per quanto riguarda l'Ucraina».
È questo uno dei motivi per cui l'oligarca, chiamato come mediatore ai primi colloqui tra Russia e Ucraina a Gomel, continua a essere tra i più bersagliati dalle sanzioni. Un portavoce di Abramovich ha affermato che Evraz in Russia produceva solo acciaio per «ferrovie e costruzioni».
In un documento del 2017 prodotto da Evraz come parte di un'indagine sull'importazione di acciaio negli Stati Uniti, si legge che le sue operazioni a Chicago hanno prodotto «diversi prodotti fondamentali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, come piastre corazzate per le forze armate statunitensi».
Abramovich vende gli asset a Londra
Secondo quanto riporta il "The Times", per evitare ulteriori colpi dal Regno Unito, ha messo in vendita tutti gli asset detenuti a Londra. Un giro d'affari di circa 200 milioni di sterline, che Abramovich si sta apprestando a cedere prima che i suoi beni vengano congelati.
In vendita anche il Chelsea, al momento commissariato alla sua associazione di charity, la Chelsea Foundation. Per la squadra di calcio potrebbe ricevere le prime offerte già questa settimana.
Guido De Carolis per il “Corriere della Sera” il 7 marzo 2022.
Perso uno Zar farne un altro non sarà facile. L'annuncio di Roman Abramovich di voler vendere il Chelsea apre un interrogativo sul futuro del club. Quando il magnate russo lo acquistò nel 2003, per 160 milioni di euro, i Blues avevano un appeal inferiore al Parma anni 90, oggi sono campioni d'Europa e in 19 anni di presidenza Abramovich ha collezionato 17 trofei.
Nell'ultima stagione prima del suo arrivo, l'acquisto più oneroso del Chelsea fu lo sconosciuto portoghese Felipe Oliveira, costò meno di 1 milione di euro. L'estate scorsa Abramovich ha speso 115 milioni per Romelu Lukaku, durante il suo regno ha investito circa 2.350 milioni. Lo Zar ha cambiato il calcio, ha vinto tutto, ora se ne va e chissà cosa succederà al Chelsea, se resterà protagonista o tornerà comprimario.
La rosa vale 885 milioni e ha un monte ingaggi sopra i 200 milioni, con una parata di stelle: da Lukaku al portiere Kepa, passando per Kanté, Jorginho, Thiago Silvia, Havertz, Kovacic. A sentire la rivista Forbes, nel mondo ci sono solo 1.063 persone così ricche da potersi permettere di pagare i 3,5 miliardi di euro per acquistare il club di Abramovich. Tra questi non compare l'irlandese Conor McGregor.
La star mondiale di arti marziali miste, nell'ultimo anno si è messo in tasca 162 milioni, dice di aver già presentato un'offerta di 1,5 miliardi, la metà di quanto chiesto dal magnate russo. I tabloid non l'hanno ancora derubricata a spacconata, ma sa tanto di boutade. Chi non scherza per niente è il turco Mushsin Bayrak, con un patrimonio stimato di 11 miliardi e con alle spalle il gruppo AB, attivo nel campo delle cripto valute, delle costruzioni, di turismo e energia.
«Stiamo discutendo i termini dell'acquisto del Chelsea con gli avvocati di Abramovich. Presto sventoleremo bandiera turca a Londra». Criticati dal tecnico dei Blues Thomas Tuchel per aver rotto il silenzio del minuto di raccoglimento per l'Ucraina intonando cori per Abramovich, i tifosi di Stamford Bridge vorrebbero come nuovo proprietario Sir Jit Ratcliffe, l'uomo più ricco del Regno Unito, dopo la Regina, of course.
Ratcliffe, guida la Ineos, quarto gruppo chimico del pianeta, ha una fortuna personale di 20 miliardi di dollari, ne aveva già offerti 2,2 qualche anno per il club, pur essendo tifoso del Manchester United, ma Abramovich rifiutò. La lista di pretendenti è lunga e annovera l'americano Tod Boehly, pure lui si era fatto sotto con due offerte da 2,5 miliardi, cestinate.
Lo svizzero Hansjörg Wyss, 86 anni, nel 2012 ha venduto la Synthes, multinazionale di dispositivi medici, per 20,2 miliardi, poi è scoperto filantropo. È interessato «ma Abramovich chiede troppo, deve scendere a 2 miliardi», dice. «Il calcio inglese attira i furfanti», sentenzia invece il Times , il Chelsea si augura di non passare da Babbo Natale a zio Paperino e di non tornare a essere il Parma d'Inghilterra.
La fine di un'era per i Blues. Quanto vale il Chelsea, Abramovich vende i Blues: “Ricavato alle vittime della guerra in Ucraina”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Marzo 2022.
Roman Abramovich ha deciso di vendere il Chelsea. La conferma è arrivata oggi, nel tardo pomeriggio, dopo giorni di pettegolezzi proprio dallo stesso magnate russo, patron della squadra dei Blues di Londra. “È stata una decisione incredibilmente difficile, ma l’ho presa nell’interesse della società. Non sarà una cessione super veloce, ma necessiterà dei suoi tempi”, si legge nel comunicato diffuso. La notizia nella notizia però, in questi giorni di guerra tra Russia e Ucraina riguarda il fatto che Abramovich ha “dato mandato al mio team di costituire un ente benefico al quale verranno devoluti tutti gli utili derivanti dalla cessione del club. La nuova fondazione sarà a favore di tutte le vittime della guerra in Ucraina“.
Abramovich non è stato colpito dalle sanzioni imposte dal Regno Unito, dall’Unione Europea e dall’Occidente a Mosca per l’invasione dell’Ucraina. Quindi l’annuncio non può essere apparentemente e direttamente collegato all'”operazione militare” annunciata dal Presidente Vladimir Putin per “smilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina. La settimana scorsa, dopo l’inizio delle operazioni, non era passato inoltre inosservato un post su Instagram della figlia Sofia, critico con l’invasione. Il magnate ha sempre negato di essere molto vicino a Putin, com’è stato spesso definito, ma comunque non ha rilasciato alcun commento pubblico. A sorpresa era comparso nella delegazione dell’Ucraina ai negoziati di pace in Bielorussia: la sua presenza era stata voluta da Kiev. I colloqui riprenderanno domani tra le due delegazioni. Non è stato chiarito se ci sarà anche il patròn dei Blues.
Abramovich aveva comprato il Chelsea per 150 milioni di euro nel 2003. Quell’acquisto era stato l’inizio di una nuova era per i Blues e anche per la Premier League inglese. La squadra è diventata tra i top club al mondo, si è potuta permettere campagne acquisto faraoniche coronate da cinque titoli nazionali e da due vittorie in Champions League – l’ultima proprio nella stagione 2020-2021, i Blues sono campioni in carica della massima competizione continentale.
Era trapelata recentemente la voce secondo la quale Abramovich avesse intenzione di cedere la gestione ordinaria del club aglli amministratori fiduciari dell’ente benefico legato allo stesso club. La smentita di un’imminente cessione era stata subito seguita dalle parole del milionario svizzero Hansjorg Wyss. “Come tutti gli oligarchi russi, (Abramovich) è nel panico – ha detto il milionario, titolare di un patrimonio personale di quasi cinque miliardi di euro -, sta cercando di vendere tutte le sue residenze in Inghilterra, e vuole anche liberarsi del Chelsea alla svelta. Io, come altre tre persone, abbiamo ricevuto un’offerta da Abramovich per acquistare il Chelsea. Al momento Abramovich sta chiedendo troppo, potrei immaginare di entrare nel Chelsea con altri partners, ma prima dovrei esaminare le condizioni generali“.
Proprio Wyss sarebbe uno dei primi interessati all’acquisto, secondo i media inglesi. Altro nome che è circolato è quello di Jim Ratcliffe, imprenditore della chimica considerato l’uomo più ricco del Regno Unito. Secondo la stampa britannica il prezzo del club si aggirerebbe intorno ai tre miliardi di euro, per Kpmg il valore sfiorerebbe invece i due miliardi. La valutazione non è stata comunque specificata da Abramovich, il quale ha già assicurato di non voler chiedere la restituzione dei prestiti accesi per i Blues. Si parla di rivoluzione in Premier League inglese considerando anche l’addio del Manchester United allo sponsor russo Aeroflot e la rinuncia dell’Everton alle sponsorizzazioni di tre società russe (USM, Megafon e Yota) dell’oligarca Alisher Usmanov, tutte nel mirino delle sanzioni.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Roman Abramovich, "cosa ha fatto 8 giorni prima dell'invasione". Miliardi e tank, inchiodato: la mossa sporca dell'oligarca. Libero Quotidiano il 02 marzo 2022.
Il ruolo chiave di Roman Abramovich nella guerra di Ucraina. Il patron russo del Chelsea, che le indiscrezioni indicano in procinto di vendere il club londinese anche per effetto delle pesantissime sanzioni europee contro gli oligarchi vicini a Vladimir Putin, è stato chiamato a sorpresa in Bielorussia dal governo ucraino per partecipare alle negoziazioni. Secondo il tabloid britannico Daily Mail, però, sotto ci sarebbe dell'altro: Abramovich avrebbe anche "una partecipazione nell'azienda siderurgica russa i cui materiali sono usati per fabbricare i carri armati impiegati nell'invasione".
Anche per questo, riferisco gli analisti britannici (Londra, storicamente "capitale" degli investimenti dei ricchissimi magnati russi, è in prima fila sul fronte delle sanzioni), Abramovich avrebbe trasferito le azioni di Evraz (questo il nome dell'azienda siderurgica, la seconda più importante di tutta la Russia) otto giorni prima che il presidente Putin ordinasse l'invasione dell'Ucraina. E ora il timore di Abramovich, così come degli altri oligarchi, è che quella che sembrava dover essere una guerra-lampo per far cadere il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (troppo filo-Ue e filo-Nato) si trasformi in un conflitto prolungato, dalle conseguenze economiche e finanziarie pesantissime.
"C'era il rischio che questa società offshore diventasse oggetto di sanzioni - conferma al Daily Mail Grzegorz Kuczyński, direttore del Programma Eurasia presso l'Istituto di Varsavia -. L'acciaio Evraz viene utilizzato, tra le altre cose, per costruire carri armati. L'azienda è importante per l'industria delle armi russa, in questo senso. È importante per i piani di guerra della Russia, anche per quanto riguarda l'Ucraina". Non solo Russia, comunque: secondo un documento del 2017 pubblicato dalla stessa Evraz, attiva anche a Chicago, si sottolineava come il colosso avesse prodotto "diversi prodotti fondamentali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, come piastre corazzate per le forze armate statunitensi".
Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 2 marzo 2022.
Yad Vashem, il memoriale e museo ufficiale dell'Olocausto in Israele, è coinvolto in numerose polemiche dopo aver tentato di intervenire nelle sanzioni pianificate contro il miliardario russo israeliano Roman Abramovich, proprietario della squadra di calcio della Chelsea Premier League e sostenitore di lunga data del presidente russo Vladimir Putin.
In una lettera all'ambasciatore statunitense Tom Nides, Yad Vashem, insieme al rabbino capo ashkenazita David Lau e al direttore dello Sheba Medical Center Yitshak Kreiss, ha chiesto che gli Stati Uniti non sanzionassero Abramovich, uno dei principali donatori del memoriale e di altre cause ebraiche. Hanno detto che sanzionarlo danneggerebbe le istituzioni ebraiche che fanno affidamento su di lui per le donazioni, ha affermato il presidente di Yad Vashem, Dani Dayan, che ha affermato che Abramovich era il secondo donatore privato del museo, dopo il defunto Sheldon Adelson e la sua vedova, Miriam.
«Il Sig. Abramovich ha contribuito a cause meritevoli per più di un decennio», ha detto Dayan. «Per quanto ne so, il signor Abramovich non ha alcun legame con il signor Putin».
Israele ha camminato sul filo del rasoio diplomatico nella sua risposta alla guerra in Ucraina. Funzionari israeliani hanno affermato di sostenere l'Ucraina, un paese con l'unico altro capo di stato ebraico al mondo e quello che chiamano un alleato democratico liberale. Ma sono cauti nel provocare la Russia, che sostiene il regime siriano al confine settentrionale di Israele e ha permesso ufficiosamente a Israele di compiere attacchi contro gli sforzi per trasferire armi a Hezbollah, un gruppo sciita sostenuto dall'Iran, in Libano.
Gerusalemme ha rifiutato diverse richieste del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, compreso il trasferimento di equipaggiamento militare.
L'ambiguità di Israele sull'invasione dell'Ucraina è emersa mercoledì, quando i leader israeliani e tedeschi si sono riuniti al memoriale di Yad Vashem giurando di prevenire la perdita di vite umane in Ucraina, senza menzionare pubblicamente la Russia.
«La nostra responsabilità è fare tutto il possibile per prevenire spargimenti di sangue. Non è troppo tardi», ha detto il primo ministro israeliano Naftali Bennett in una dichiarazione congiunta con il cancelliere tedesco Olaf Scholz. «La nostra politica è misurata e responsabile».
Bennett inoltre non ha menzionato il missile russo che si è schiantato contro il memoriale dell'Olocausto dell'Ucraina a Kiev la notte prima. L’attacco ha ucciso almeno cinque persone.
Lo stesso Yad Vashem aveva emesso una "condanna veemente" dell'attacco missilistico martedì notte.
La visita di Scholz arriva una settimana dopo che Yad Vashem e Roman Abramovich hanno annunciato una nuova partnership per finanziare la ricerca e contribuire a nuovi progetti, tra cui due nuove versioni del Libro dei nomi.
La donazione era di "otto cifre", secondo il portavoce di Yad Vashem Simmy Allen.
Domenica, il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha messo in guardia i ministri dall'offrire assistenza agli oligarchi ebrei russi che sono stati presi di mira da sanzioni internazionali o che potrebbero essere sanzionati in futuro, secondo una persona presente all'incontro.
Lapid ha detto ai ministri che gli Stati Uniti e i paesi europei stavano pianificando di applicare sanzioni agli oligarchi russi ritenuti parte della cerchia ristretta di Putin, incluso un numero di ebrei che hanno interessi in Israele. Lapid ha affermato che i ministri che hanno promesso loro favori potrebbero causare danni diplomatici a Israele, ha aggiunto la persona, che ha parlato a condizione di anonimato per la delicatezza dell'argomento.
Sabato, Abramovich ha annunciato di aver deciso di cedere il controllo del Chelsea agli amministratori della fondazione di beneficenza del club. La squadra non è in vendita.
Lunedì, l'Unione Europea ha sanzionato il banchiere miliardario russo di origine ucraina Mikhail Fridman, che vive a Londra e possiede la cittadinanza israeliana.
Durante il fine settimana, Fridman ha descritto la guerra come una "tragedia" e ha affermato che la guerra "non può mai essere la risposta". Ma in una conferenza stampa con i giornalisti a Londra, ha detto che non avrebbe criticato direttamente l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin per evitare rappresaglie contro i suoi dipendenti.
Dopo l'annessione da parte della Russia della penisola di Crimea in Ucraina nel 2014, una comunità di ricchi cittadini russi israeliani è immigrata in Israele in parte per evitare le conseguenti sanzioni americane.
Sophie Shulman, una giornalista israeliana russa che ruota intorno alla comunità oligarchica in Israele, ha affermato che gli oligarchi ebrei russi hanno acquisito la cittadinanza israeliana, acquistato case e investito in società tecnologiche israeliane, ma di solito non vivono permanentemente in Israele. Molti vengono a celebrare la Pasqua nel deserto del Negev, ha detto Shulman.
«Vedono Israele come il posto dove stare nel caso in cui il loro mondo crolli intorno a loro», ha detto.
Roman Abramovich, "dove finiscono i miliardi che incassa per il Chelsea": l'ultimo grave sospetto. Libero Quotidiano il 18 maggio 2022
Il passaggio del Chelsea dal magnate russo Roman Abramovich al concorso americano Todd Boehly potrebbe saltare clamorosamente. L'ipotesi l’ha fatta trapelare una fonte del governo britannico, interpellata dalla Bbc. Il rischio è che l’accordo di 5 miliardi di euro non vada più in porto: “Rimangono due grandi punti critici: dove saranno collocati esattamente i proventi della vendita e quali garanzie legali verranno fornite al governo sul denaro destinato in beneficenza”, le sue parole.
A questo punto, così, potrebbe non arrivare entro fine mese (data limite per la vendita) la licenza speciale necessaria per consentire la cessione del club londinese al coproprietario dei Los Angeles Dodgers. Roman Abramovich, infatti, dopo il congelamento dei suoi beni in relazione all'invasione russa in Ucraina, non ha ancora dato tutte le garanzie richieste sulla destinazione dei proventi della cessione del Chelsea. E senza la cessione, il club rischia di rimanere bloccato anche sul mercato in vista della prossima stagione.
Il nodo che sta facendo slittare la fumata bianca sarebbero le assicurazioni richieste dal governo Johnson sulla destinazione dei due miliardi e mezzo di sterline, che saranno versate per l'acquisto delle azioni. Il Dipartimento per Digitale, Cultura, Media e Sport, che sta trattando con Abramovich per la nuova licenza, vuole la garanzia che venga cancellato il prestito da un miliardo e mezzo di sterline concesso dal magnate alla holding che controlla il club, Fordstam. Senza un accordo entro le scadenze della Football Association, il Chelsea rischia di essere escluso dalle competizioni della prossima stagione e il commissariamento.
Abramovich vende il Chelsea ma il centro del potere è l’acciaieria Evraz. La fuga dai paradisi fiscali. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.
Roman Abramovich è il principale azionista (28,6%) del gruppo Evraz, il primo produttore d’acciaio russo, uno dei più grandi al mondo, fornitore della materia prima anche per i mezzi militari dell’esercito di Putin. Un ulteriore 30% del capitale è intestato a due società di Cipro di altri russi (Alexander Abramov e Alexander Frolov). I tre soci, legati fra loro, hanno il controllo.
La partita dell’acciaio
Evraz, che ha tra i suoi top manager l’italiano Giacomo Baizini, è quotato alla Borsa di Londra dove il titolo sta collassando. Abramovich è noto come proprietario della squadra di calcio del Chelsea. E infatti è questo l’asso di cuori su cui punta la sua comunicazione, temendo il congelamento dei beni. Ieri l’uomo d’affari ha detto che venderà il club. Ma forse è un’arma di distrazione. Tutto sommato il futuro del Chelsea, fuori da Stamford Bridge, è di scarso interesse strategico. La vera partita si gioca su Evraz, 70 mila dipendenti, 12 miliardi di ricavi d’acciaio con il 38% delle vendite in Russia.
Paradisi e paura
Poco si sa, invece, del patrimonio di Abramovich alle British Virgin Islands (Bvi) e cioè delle società Camberly International Investments Limited (che finanzia il Chelsea) o della Greenleas Holdings (che ha investito in Evraz). Lì in mezzo al Mar dei Caraibi fino a oggi ha custodito, ben protetti, i suoi miliardi. Ma il mondo sta cambiando e i paradisi fiscali rischiano diventare un inferno per gli oligarchi vicini al Cremlino. Tanto più se sono protettorati britannici. Le mosse recenti su Evraz raccontano quanto Abramovich tema per il suo patrimonio.
Il crollo di Evraz
Il gruppo è crollato in Borsa in poche settimane da 600 a 60 sterline e parallelamente è precipitato di tre miliardi anche il valore del pacchetto in mano ad Abramovich. Cioè più o meno il doppio di quanto ha investito in 9 anni al Chelsea. L’acciaieria ha comunicato la settimana scorsa che distribuirà un maxi-dividendo da 1,2 miliardi di sterline, una boccata d’ossigeno che porterà circa 600 milioni nel portafoglio dei tre russi al controllo. L’azienda avverte però che l’ottimo bilancio 2021 potrebbe non essere ripetibile a causa delle sanzioni economiche imposte a Mosca. Questo è il quadro.
La mossa del 16 febbraio
Ora andiamo a pagina 156 del bilancio appena depositato. C’è un’invisibile notarella di una riga. Segnala che Roman Abramovich ha trasferito la sua partecipazione pari a quasi un terzo del capitale dalla Greenleas delle Isole Vergini «a un suo conto personale». L’operazione è stata segnalata dal finanziere alla società il 16 febbraio, vale a dire una settimana prima che Putin ordinasse l’invasione dell’Ucraina e che l’occidente imponesse le sanzioni economiche a Mosca. Una mossa studiata? Fiuto?
I passaporti dell’oligarca
Abramovich è forse il più “occidentale” e conosciuto dei miliardari cresciuti all’ombra dello zar del Cremlino. Alle frontiere fino al 2016 dichiarava cittadinanza russa ma «usuale residenza svizzera», poi residenza solo in Russia nel 2018, quindi passaporto israeliano quando la Gran Bretagna gli ha sbarrato l’ingresso, infine passaporto portoghese per essere anche cittadino Ue. Insomma un abile velista tra i venti del business e della politica. E quando ha capito che l’autostrada dei suoi interessi rischiava di diventare un vicolo cieco ha tentato di convincere tutti con la mossa della volpe: mi sgancio dal Chelsea e lascio la gestione in mano alla fondazione. Un fuoco artificiale ad effetto. Tentativo fallito perché la fondazione è una charity e non può gestire il club (basta leggere il suo statuto). Quindi per sganciarsi può solo vendere come ha poi annunciato. Ma nella galassia Chelsea c’è un altro soggetto chiave: la Camberly delle Isole Vergini Britanniche che contribuisce a finanziare la squadra. “Britanniche” e non russe. Abramovich è in buona e numerosissima compagnia. Lo sanno anche i bambini degli oligarchi dove sono i soldi di papà: nei paradisi fiscali e non a Mosca. E tra quelli gettonatissimi ci sono le British Virgin Islands (Bvi), Cayman, Bermuda ecc, là dove sconosciuti politici locali governano in nome del loro “protettore” che non è Putin ma la Regina Elisabetta d’Inghilterra; infatti sono protettorati britannici. Ecco, adesso l’epoca dell’ipocrisia, ovvero i Paesi che ospitano (guadagnando) quelli a cui dicono di dare la caccia, potrebbe chiudersi.
I 38 miliardi nascosti
Gli oligarchi russi, secondo un rapporto del 2020 della Ong Global Witness, hanno messo al sicuro almeno 38,6 miliardi di euro (pari a 34 miliardi di sterline) nei paradisi fiscali e societari sotto il controllo della Gran Bretagna. È una cifra cinque volte superiore ai soldi investiti direttamente da cittadini russi nel Regno Unito. Più di 30 di questi 34 miliardi di sterline sono stati investiti nelle Bvi. Insieme a Cipro e Olanda, i territori britannici d’oltremare sono il luogo più utilizzato dai russi per mettere al sicuro i propri soldi.
Il muro scricchiola
Lo storico muro contro cui hanno sbattuto generazioni di giudici e investigatori fiscali ora potrebbe cadere. «Riveleremo e confischeremo le proprietà di quegli oligarchi che hanno connessioni col regime di Putin e che traggono beneficio dall’associazione con lo Stato russo», ha detto il leader britannico Boris Johnson che forse ha già fatto una telefonata ai suoi colleghi d’Oltremare John Rankin (Bvi) e Martyn Roper (Cayman). Abramovich per ora non è nella lista nera (l’oligarca più ricco di Russia, Mordashov, invece è finito nel mirino della sanzioni Ue) ma, fiutando il vento, il 16 febbraio ha ritirato dalle Isole Vergini il suo asset strategico e miliardario (Evraz) trasferendolo in un conto titoli di chissà quale banca e giurisdizione. E poi ha raccontato al mondo quanto dolore gli ha dato e quanto sia stata «incredibilmente difficile» la decisione di mettere in vendita il Chelsea.
La spunta il consorzio di Todd Bohely. Chelsea, la guerra in Ucraina chiude l’era Abramovich: “Accordo di cessione per 4 miliardi”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Maggio 2022.
Fine dell’era Abramovich: il Chelsea cambia proprietà. Lo stesso club londinese di Stamford Birdge ha diffuso un comunicato in cui si rende pubblico l’accordo per la cessione al gruppo Clearlake Capital guidato da Todd Bohely. La notizia è stata data dal The Telegraph. Mancano gli ok di governo e lega ma la cessione sembra orami cosa fatta. L’accordo è stato raggiunto per 4,25 miliardi di sterline dopo una settimana di intense trattative. L’oligarca russo aveva deciso di vendere il club dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che ha portato a numerose sanzioni da parte dell’Occidente per imprese e uomini d’affari russi.
Le sanzioni avevano messo in difficoltà anche la società che non aveva potuto vendere biglietti per un periodo di tempo ed che ha avuto difficoltà nella movimentazione delle risorse economiche. L’annuncio della vendita era arrivato a inizio marzo. “È stata una decisione incredibilmente difficile, ma l’ho presa nell’interesse della società. Non sarà una cessione super veloce, ma necessiterà dei suoi tempi”, si leggeva nel comunicato. Abramovich aveva “dato mandato al mio team di costituire un ente benefico al quale verranno devoluti tutti gli utili derivanti dalla cessione del club. La nuova fondazione sarà a favore di tutte le vittime della guerra in Ucraina”.
Boehly è un imprenditore statunitense. Possiede già il 20% dei Los Angeles Dodgers, storica franchigia della Major League Baseball, e alcune quote dei Los Angeles Lakers, altra gloriosa società ma della NBA di pallacanestro. Sembra proprio che la cordata abbia quindi sorpassato gli altri due contendenti per l’acquisto: i gruppi statunitensi guidati da Stephen Pagliuca, co-proprietario dei Boston Celtics e nuovo azionista di maggioranza dell’Atalanta, e i co-proprietari dei Philadelphia 76ers, Josh Harris e David Blitzer.
Il consorzio è composto anche da Mark Walter, anch’egli nella proprietà dei Dodgers, e il miliardario svizzero Hansjoerg Wyss. “La vendita dovrebbe concludersi a fine maggio, fatte salve tutte le necessarie approvazioni normative, maggiori dettagli saranno forniti in quel momento”, si legge in un comunicato della società. Il Chelsea ha spiegato che i nuovi proprietari pagheranno 2,5 miliardi di sterline per l’acquisto di azioni mentre impegneranno altri 1,75 miliardi di sterline nello stadio, nella squadra femminile, nell’accademia e nella Chelsea Foundation. Il Chelsea ha confermato che le somme saranno depositate in un conto bancario congelato nel Regno Unito.
La palla, è il caso di dirlo, ora passa al governo britannico e alla Premier League, il campionato di calcio inglese, che dovranno dare il via libera definitivo all’operazione. Abramovich aveva comprato il Chelsea per 150 milioni di euro nel 2003. Quell’acquisto era stato l’inizio di una nuova era per i Blues e anche per la Premier League inglese. La squadra è diventata tra i top club al mondo, si è permessa campagne acquisto faraoniche coronate da cinque titoli nazionali e da due vittorie in Champions League – l’ultima proprio nella stagione 2020-2021, i Blues sono campioni in carica della massima competizione continentale. Il magnate era stato voluto da Kiev ai tavoli delle trattative di pace con la Russia e il mese scorso si era diffusa la notizia di un suo avvelenamento che era diventato un giallo.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Dal Chelsea ai tavoli di 'pace'. Chi è Roman Abramovich, l’oligarca russo scelto dall’Ucraina come mediatore nel conflitto con la Russia. Fabio Calcagni su Il Riformista il 28 Febbraio 2022.
Nelle foto pubblicate sui social del tavolo delle trattative lui non c’era, ma anche il suo portavoce da Londra ha confermato il suo impegno nel negoziato tra Ucraina e Russia, pur senza fornire dettagli specifici sul ruolo nelle trattative.
A tentare di trovare una soluzione diplomatica al conflitto in corso in Ucraina, col Paese invaso dai tank e dalle truppe armate di Mosca, da questa mattina c’è a sorpresa anche il miliardario russo Roman Abramovich. La sua presenza, come anticipato dal quotidiano israeliano Jerusalem Post, è stata richiesta da Kiev: “Gli ucraini hanno chiesto ad Abramovic di aiutarli a portare avanti i colloqui e lui è giunto in Bielorussia per partecipare alla discussione”, ha scritto la testata israeliana.
“Posso confermare che Roman Abramovich è stato contattato dalla parte ucraina per il sostegno al raggiungimento di una soluzione pacifica e che da allora ha cercato di prestare aiuto”, ha confermato il suo portavoce, che non ha chiarito l’effettiva presenza di Abramovich al Rumyantsev-Paskevich Residence di Gomel, dove si stano tenendo i negoziati.
Guerra Ucraina-Russia, bombardamenti in corso sulla capitale. Mosca alla Ue: responsabile delle armi consegnate a Kiev
“L’Ucraina è tornata in Russia”, l’articolo di Ria Novosti sull’annessione di Kiev pubblicato e poi rimosso dal web
Chi sono gli oligarchi russi, i miliardari fedelissimi di Putin nel mirino delle sanzioni per la guerra in Ucraina
Chi è Abramovich
Quello di Abramovich è un nome ben noto agli appassionati di calcio. L’oligarca russo è dal 2003 il proprietario del Chelsea, club di Londra che grazie agli ingenti investimenti del suo proprietario, ben superiori al miliardo di dollari, è riuscito a conquistare 5 campionati inglesi e due Champions League.
L’acquisto del club inglese è avvenuto grazie all’immensa ricchezza dell’imprenditore, che secondo le stime di Forbes nel 2020 aveva un patrimonio di 13,8 miliardi di dollari, cifra che lo ha reso l’uomo più ricco di Israele (ha cittadinanza israeliana, ndr) e il 113° al mondo.
La nascita della sua fortuna
Le sue fortune economiche sono legate in particolare a tre personaggi: l’imprenditore Boris Berezovsky e i due presidenti russi Boris Eltsin e Vladimir Putin.
Col primo era socio in Sibneft, una delle compagnie petrolifere russe più ricche e potenti degli anni ’90 e 2000. Abramovich nasce come imprenditore negli anni Ottanta, fondando una serie di aziende specializzate nel settore del petrolio e derivanti.
La svolta arriva grazie al sostegno di Berezovsky, che da poco aveva ottenuto il controllo del principale canale tv russo: quest’ultimo infatti, vicino al presidente Eltsin, riesce a convincere il leader del Cremlino ad appoggiare il progetto di Abramovich di fusione di due aziende petrolifere e della loro privatizzazione nella Sibneft. La promessa in cambio era il sostegno della campagna elettorale del 1996 col network televisivo.
La fortuna di Abramovich cresce esponenzialmente dal 1999 in poi, quando Eltsin si dimette e alla presidenza della Federazione russa arriva Vladimir Putin, con rapporti praticamente ‘simbiotici’ tra i due. Nel 2005 il magnate vende Sibnet al gigante del petrolio russo Gazprom, di proprietà statale, per 13 miliardi di dollari.
Le sanzioni
La mossa dell’Occidente contro la Russia di Putin è stata quella delle sanzioni, che hanno colpito le banche, i politici (tra cui lo stesso Putin) e anche gli oligarchi come Abramovich.
Per questo il magnate nei giorni scorsi ha comunicato la cessione della guida del club agli amministratori della Fondazione di beneficenza del Chelsea. Una mossa per staccarsi dalla società per via delle questioni legate al conflitto tra Russia e Ucraina.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Chi sono gli oligarchi russi, miliardari e fedeli a Putin? Veronica Ortolano il 28/02/2022 su Notizie.it.
Ecco chi sono gli oligarchi russi, che hanno approfittato del disfacimento dell’Unione Sovietica per riuscire ad accumulare immense ricchezze.
Con il termine oligarchi russi ci si riferisce ai magnati economici delle ex repubbliche sovietiche che hanno velocemente accumulato grandi quantità di ricchezze durante l’era della privatizzazione russa in seguito allo scioglimento dell’Unione Sovietica negli anni ’90.
Oligarchi russi: ecco chi sono i fedeli di Putin che possiedono patrimoni eccezionali
Oggi questi uomini rischiano molte sazioni dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dalla Gran Bretagna proprio a causa dell‘invasione della Russia in Ucraina.
Il loro è un patrimonio personale impressionante: contando soltanto i primi 20, nelle loro mani vi sono circa 300 miliardi di dollari. C’è da dire molti di loro devono la sua fortuna allo sfruttamento delle materie prime, in particolare petrolio e gas.
Tuttavia, dopo il crollo del rublo russo, la rivista Forbes stima che i miliardari russi hanno visto scivolare via più di 126 miliardi di dollari dalle loro ricchezze dal 16 febbraio.
Gli oligarchi più noti: Abramovich
Il più noto di tutti in Occidente è certamente Roman Abramovich, anche grazie all’acquisto nel 2003 del Chelsea. Tutto ebbe inizio con la collaborazione con Boris Berezovsky: i due crearono la Sibneft, compagnia petrolifera che nasce e si sviluppa anche grazie all’appoggio dell’allora presidente, Eltsin. Nel 2005 verrà venduta per 13 miliardi di euro alla Gazprom, l’azienda di stato del settore energetico. Stando sempre a ciò che scrive Forbes, oggi l’ex proprietario di Sibneft ha un patrimonio di 13 miliardi di dollari.
Fedelissimo di Putin è Gennady Timchenko, azionista della banca Rossiya. La rivista Forbes afferma che egli è proprietario della holding privata Volga, possiede quote di alcune tra le più grandi compagnie russe, tra cui Novatek, settimo produttore mondiale di gas naturale, e Sibur, gigante petrolchimico. Timchenko è anche presidente della federazione russa di hockey su ghiaccio.
Un altra quantità enorme di patrimonio è concentrato nelle mani della famiglia Rotenenber: Boris assieme al fratello Arkady possiede la banca Smp che ha beneficiato di contratti per miliardi di dollari con Gazprom.
Mentre, Igor Rotenenber, nipote di Boris e figlio di Arkadt, controlla la compagnia di estrazione petrolifera Gazprom Bureniye.
Gli oligarchi più noti: da Tinkov a Mikhelson
Fondatore della banca russa Tinkoff, è Oleg Tinkov, condannato lo scorso anno per false dichiarazioni dei redditi al pagamento di oltre mezzo miliardi di dollari al governo statunitense. Tuttacvia, prima di ciò, nel 2014 fu classificato come la 15esima persona più ricca della Russia, con un patrimonio netto stimato di 8,2 miliardi di dollari.
Non ci si può dimenticare di Mikhail Fridman: vive tra Mosca e Londra e Forbes stima che il suo patrimonio si aggiri sui 15,5 miliardi di dollari.
Altro oligarca dal patrimonio eccezionale è Leonid Mikhelson, presidente e principale azionista della società russa del gas Novatek, che si dice possieda circa 25 miliardi di dollari.
Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 28 febbraio 2022.
«Bisogna condividere». Mikhail Maratovich Fridman è un sopravvissuto. Quando pronunciò questa frase con tono minaccioso alla fine del suo primo mandato, davanti a sé Vladimir Putin aveva i quattro cavalieri. Così all'inizio furono soprannominati gli oligarchi originari. Sappiamo che fine hanno fatto gli altri tre. Mikhail Khodorkovsky, che a quel tempo era l'uomo più ricco di Russia, a capo del gigante petrolifero Yukos, pagò con dieci anni di carcere il suo rifiuto di adeguarsi e soprattutto l'idea, ingenua con il senno di poi, di fare carriera politica finanziando i partiti di opposizione.
Vladimir Gusinskij si era illuso di poter fare informazione indipendente, e perse tutto. Boris Berezovskij si è tolto la vita nel 2013. «Sono nato in Ucraina e ci ho vissuto fino all'età di diciassette anni. I miei genitori abitano ancora a Leopoli, la mia città preferita. Ma ho trascorso la maggior parte della mia vita come cittadino russo, costruendo e facendo crescere le mie aziende. Amo questi due popoli, e ritengo l'attuale conflitto una tragedia per entrambi».
Fridman è l'ultimo superstite di quei quattro cavalieri che beneficiarono delle privatizzazioni a rotta di collo varate da Boris Eltsin. Nel 2019, il quotidiano Times ha stimato che fosse il più ricco abitante di Londra, oggi può vantare ancora un patrimonio personale stimato in 11,7 miliardi di dollari. La lettera ai dirigenti Fridman sa cosa significa mettersi in rotta di collisione con Putin.
Vent'anni fa, fu il solo ad assecondare l'invito alquanto pressante del presidente russo a non occuparsi in alcun modo di politica e a fare spazio ai suoi fedelissimi di San Pietroburgo, cedendo loro quote di potere e di proprietà. Proprio per questo, la lettera che ha scritto ai dirigenti della sua società di investimenti finanziari LetterOne ha un doppio valore. Il finanziere russo-ucraino, di origini ebraiche e dotato di passaporto israeliano, non è certo un nome del passato senza più legami con l'attuale potere. Ha solo 57 anni, ha creato e controlla Alpha Bank, la più grande banca privata russa, da sempre sul punto di essere acquistata dallo Stato.
Appena una settimana fa, sembra già passato un secolo, il suo storico socio Pyotr Aven era tra i 36 uomini d'affari convocati al Cremlino dal presidente russo. Dunque, è la prima volta che un oligarca manifesta in modo aperto dissenso rispetto alle decisioni del presidente. Quella lettera è scritta da una persona che se ha fatto un passo del genere, è perché giudica davvero grave la situazione, oppure sa di poterselo permettere.
«Non faccio dichiarazioni politiche» afferma nella lettera rivelata dal Financial Times . «Ma sono convinto che la guerra non potrà mai essere la risposta. Questa crisi costerà vite e danneggerà due nazioni che sono affratellate da centinaia di anni. Posso solo unirmi a coloro che desiderano la fine di questo bagno di sangue».
Sono passate poche ore, ed è arrivata un'altra dissociazione, chiamiamola così. Forse di minor peso, ma di significato quasi uguale. Ieri pomeriggio un altro oligarca di vecchia data, secondo la vulgata popolare amico personale di Putin, ha scritto poche righe sul suo account di Telegram. «La pace è molto importante! Gli accordi vanno avviati al più presto!». Nel 2008, alla fine del secondo mandato dell'attuale presidente, il re dell'alluminio Oleg Deripaska possedeva 28 miliardi di dollari, primo nella classifica degli uomini più ricchi di Russia e nono al mondo.
La sua fortuna è poi declinata, fino agli attuali tre miliardi, con un portafoglio diversificato tra energia, metalmeccanica e aeroporti tra i quali quelli di Sochi e Krasnodar. Il magnate di Dzerinsk è considerato un amico personale di Putin, al punto di finire nel 2018 nella cosiddetta lista del Cremlino punita con le sanzioni degli Usa. Dal 2001 al 2018 è stato sposato con la figlia di Valentin Yumashev, lo storico consigliere politico di Eltsin nonché l'uomo che gli presentò l'allora sconosciuto funzionario del Cremlino reduce del Kgb. Anche qui, la fine è nota.
Ora tutti si chiedono cosa significhi questa timida ribellione. Siamo ancora lontani dagli oligarchi di maggior spessore, come il finanziere Gennady Timchenko o Yuri Kovalchuk, considerato il banchiere personale di Putin, per tacere di Gazprom o di Roman Abramovich. Sono proprio questi fedelissimi a dover fronteggiare le perdite maggiori. Secondo le stime di Forbes , l'invasione dell'Ucraina è costata finora 128 miliardi di dollari agli uomini di affari russi più in vista. Forse è vero che senza Putin gli oligarchi non sono nessuno. Ma anche lui, se perde il loro appoggio, non diventa certo più forte.
(ANSA il 15 febbraio 2022) Torna a far parlare di sé Villa Altachiara, la residenza costruita dal conte di Carnavon incastonata sul promontorio di Portofino teatro della misteriosa morte della contessa Francesca Vacca Agusta avvenuta nel 2001.
Oggi le polemiche riguardano la ristrutturazione e taglio delle alberature commissionati dal magnate russo Eduard Khudaynatov che nel 2015 acquistò la villa per oltre 25 milioni di euro. Il capogruppo regionale di Linea Condivisa Giovanni Pastorino ha presentato un'interpellanza in Consiglio regionale per denunciare che i lavori in corso rischiano di "comportare una devastazione dell'ambiente e delle sue ricchezze naturalistiche ed ecosistemiche protette all'interno di Rete Natura 2000 e dalle norme a tutela del Parco nazionale di Portofino.
"A seguito della vendita della villa nell'ex Parco regionale di Portofino sono stati effettuati numerosi tagli di alberi e arbusti, è stato effettuato un ingente movimento terra e sono stati costruiti muri in cemento - denuncia Pastorino - Sarebbe prevista la posa di tubazioni e cavi elettrici al di sotto della strada già esistente ma questo non giustificherebbe lo scempio documentato dagli ambientalisti.
E pare siano previsti lavori per la realizzazione di un ascensore che condurrebbe direttamente alla villa partendo da Portofino e che questo comporterebbe lavori oltre che per la realizzazione del pozzo dell'ascensore anche del tunnel per raggiungerlo e, verosimilmente, un parcheggio sotterraneo vicino al tunnel.
Tutto questo appare incompatibile con la delicatezza del sito dove possono essere causati movimenti franosi o intercettate sorgenti o falde - ha concluso - e ove si potrebbe compromettere l'attuale paesaggio".
L'assessore regionale ai Parchi Alessandro Piana ha replicato: "l'Ente Parco ha rilasciato alcuni nullaosta per gli interventi in corso di realizzazione e le autorizzazioni e i permessi di costruire sono di competenza del Comune di Portofino, che deve controllare la corretta esecuzione degli interventi".
Sechin, Usmanov, Fridman: l’Unione europea blocca gli asset e vieta i viaggi degli oligarchi più attivi in Italia. Jacopo Iacoboni per lastampa.it l'1 marzo 2022.
Facevano bene, ad avere paura. Ieri sera – 28 febbraio del 2022 – l’Unione europea ha aggiunto 26 oligarchi alla lista di sanzioni in tutto simili a quelle americane, che prevedono cioè il sequestro di tutti gli asset e il divieto di viaggio in Europa: una misura gravissima che adesso riguarderà altri nomi davvero top del Putin’s circle, Alisher Usmanov, Mikhail Fridman, Pyotr Aven, Alexei Mordashov, Igor Sechin, il violoncellista Sergei Roldugin, ritenuto da molti uno dei prestanome personali di Vladimir Putin.
Il documento europeo è molto importante perché da oggi, di diritto, queste persone non possono più mettere piede nei paesi dell’Unione europea, a meno che qualche singolo governo – o gli organizzatori di eventi privati, ma a questo mettendosi loro stessi a rischio e pericolo – decida di chiudere tutti e due gli occhi disapplicando e sanzioni.
Il testo della norma fornisce identikit e profili, e dà definizioni degli oligarchi che, fino a poco tempo fa, comportavano il rischio concreto di cause legali per chi avesse definito così questi uomini del potere economico e quasi statuale del regime di Putin.
Alisher Usmanov, per esempio, viene definito testualmente: «È un oligarca filo-Cremlino con legami particolarmente stretti con il presidente russo Vladimir Putin». Etichetta per cui in passato Usmanov minacciava querele. «Alisher Usmanov – scrive il Consiglio europeo – è un oligarca filo-Cremlino con legami particolarmente stretti con il presidente russo Vladimir Putin. È stato indicato come uno degli oligarchi preferiti di Vladimir Putin.
È considerato uno degli uomini d'affari-funzionari russi, a cui è stato affidato il servizio di flussi finanziari, ma le loro posizioni dipendono dalla volontà del presidente. Usmanov si è schierato come front del presidente Putin e ha risolto i suoi problemi di affari.
Secondo i FinCEN files, ha pagato 6 milioni di dollari all'influente consigliere di Vladimir Putin, Valentin Yumashev. Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia e ex presidente e primo ministro della Russia, ha beneficiato dell'uso personale di residenze di lusso controllate dal signor Usmanov. Pertanto ha attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina».
Usmanov ha interessi enormi che spaziano dei minerali ai social media all'editoria. Attivissimo in Italia, Si considera "un filantropo, non un oligarca".
Usmanov ha interessi in società di minerale di ferro e acciaio, media e Internet. La sua più grande partecipazione è il gigante dell'acciaio Metalloinvest: «Quando Usmanov ha preso il controllo del quotidiano economico Kommersant, la libertà della redazione è stata ridotta e il giornale ha assunto una posizione manifestamente pro-Cremlino.
Kommersant, sotto la proprietà di Usmanov, ha pubblicato un articolo propagandista anti-ucraino di Dmitry Medvedev, in cui l'ex presidente della Russia sosteneva che non aveva senso impegnarsi in colloqui con le attuali autorità ucraine, che a suo avviso erano sotto il diretto controllo straniero. Pertanto ha sostenuto attivamente le politiche di destabilizzazione dell'Ucraina del governo russo».
Inutile ricordare che Usmanov trascorre solitamente tre o quattro mesi estivi in Sardegna, ha fatto feste faraoniche in costume veneziano con ospiti italiani (tra cui Silvio Berlusconi, dal quale a un certo punto voleva comprare il Milan, poi per un periodo puntò sull’Arsenal), finanziò il restauro di una parte molto ampia dl Campidoglio, ha donato fondi alla Sardegna per il Covid, ha sempre detto «sono un filantropo, non un oligarca». Usmanov è attualmente insignito di onorificenza della repubblica italiana.
Piotr Aven, comproprietario di Alpha Bank, viene definito «uno dei circa 50 ricchi uomini d'affari russi che si incontrano regolarmente con Vladimir Putin al Cremlino. Non opera indipendentemente dalle richieste del Presidente. (...) è anche noto per essere un amico personale particolarmente intimo del capo dei Rosneft Igor Sechin, un alleato chiave di Putin.
La figlia maggiore di Vladimir Putin, Maria, ha gestito un progetto di beneficenza, Alfa-Endo, finanziato da Alfa Bank». Nel 2018 Aven assieme a Mikhail Fridman andò a Washington in una missione non ufficiale per trasmettere un messaggio del governo russo sulle sanzioni statunitensi, e sulle contro-sanzioni della Federazione Russa. Nessun dubbio per l’Ue che sia una figura statuale del Cremlino. Di Mikhail Fridman, il fondatore e presidente di Apha Bank, si dice che «è riuscito a coltivare forti legami con l'amministrazione di Vladimir Putin e è stato indicato come uno dei massimi finanziatori russi e facilitatore della cerchia ristretta di Putin. Riuscì ad acquisire beni statali attraverso collegamenti con il governo».
Gennady Timchenko, amico di Putin dia tempi della Cooperativa Ozero, fondatore di Volga Group, è anche sanzionato per essere uno dei principali azionisti di Bank Rossiya, che ha avuto un ruolo centrale nell’annessione della Crimea, e «ha importanti partecipazioni nel National Media Group, che a sua volta controlla le stazioni televisive che supportano attivamente le politiche di destabilizzazione dell'Ucraina del governo russo». Un percorso parallelo è quello di Alexey Mordaschov, che con il suo SeverGroup è in Bank Rossiya, e ne condivide le avventure belliche e propagandistiche. Un sistema in cui – secondo questo documento Ue – tutto letteralmente si tiene.
Nelle sanzioni (dopo che già erano state inserite Maria Zakharova, portavoce degli Esteri, e Margarita Simonyan, capa di RT) viene inserito il propagandista in capo del Cremlino, Dmitry Peskov, e l’Europa mette agli atti che è ha mentito ripetutamente favorendo la guerra, per esempio «ha affermato, contrariamente ai fatti, che non c'erano truppe russe nel Donbass.
Ha anche trasmesso il messaggio che le sanzioni occidentali non hanno alcun effetto reale sulla Russia. Ha minacciato che la Russia avrebbe emesso contro-sanzioni in risposta». Cose che possono sembrare banali, ma che quando venivano scritte da reporter erano spesso contestatissime e fonti di attacchi dalla Russia ai giornali (tra i propagandisti viene colpito anche Tigran Keosayan, anchorman del talk guerrafondaio e anti-ucraino “International Sawmill with Tigran Keosayan”, e Olga Skabeyeva, che tiene il talk politico più famoso della Russia, “60 minutes”, sulla tv Rossiya-1, di un altro oligarca chiave, Yuri Kovalchuk).
È rilevante che si colpiscano con le misure più rigide anche Irek Faizullin, membro del board delle Ferrovie russe, una società colpevole di aver aiutato attivamente la logistica per la guerra: «Sia il personale militare che l'equipaggiamento militare delle forze armate russe sono stati trasportati nelle aree vicino al confine ucraino dalle ferrovie russe di cui Faizullin è membro del consiglio di amministrazione».
Un capitolo a parte merita Igor Sechin, il capo di Rosneft, di cui si sa tutto. Ex del Kgb, ex portaborse di Putin a San Pietroburgo, ospite fisso in Italia del Forum eurasiatico italo-russo di Verona (quello organizzato da Antonio Fallico, il capo di Banca Intesa Russia), a rigore Sechin non può più mettere piede in Europa da ieri. L’Ue dice però due cose nuove: uno, il carburante per la guerra in Crimea fu pagato da Rosneft Aero, una sussidiaria di Rosnfet. E due, «la Rosneft di Igor Sechin è stata coinvolta nel finanziamento dei vigneti del complesso del palazzo vicino a Gelendzhik, considerato utilizzato personalmente dal presidente Putin». Ossia il celebre palazzo di Putin raccontato nell’ultima inchiesta di Alexey Navalny, prima di finire in carcere. «Pertanto – conclude l’Europa – Sechin ha attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente e ha beneficiato dei decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina».
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 4 marzo 2022.
Igor Sechin, il potentissimo capo di Rosneft, ex agente del Kgb, uno degli oligarchi russi più coccolati e riveriti in Italia in tutti questi anni, uno dei sodali più stretti di Vladimir Putin, ieri si è visto sequestrare lo yacht in Costa azzurra, uno yacht con un nome italiano, "Amore vero", dopo che il 28 febbraio il suo nome era stato inserito nella lista di sanzioni più dure dell'Unione europea: sequestro di tutti gli asset e divieto di viaggio in Europa.
Alisher Usmanov, potentissimo oligarca dei metalli russi (Metalloinvest), ex grande azionista di Facebook, editore di Kommersant e poi proprietario anche del social network russo V Kontakte, si vede bloccare ad Amburgo il suo yacht, Dilbar, il più grande del mondo, 156 metri per 34 (lo yacht non è ancora formalmente sequestrato, ma non può muoversi dal porto), dopo che il 28 febbraio anche il suo nome era stato inserito nella lista di sanzioni più dure dell'Europa: a rigore, non potrà più mettere piede in Italia.
Il fatto è che Sechin - solidi rapporti in Italia, tra gli altri, con Marco Tronchetti Provera, i Moratti, il capo di Banca Intesa Russia Antonio Fallico - è anche, con decreto del 29 settembre 2017, commendatore della Repubblica italiana, «per i servizi resi all'Italia». E anche Usmanov, amico di Berlusconi (da cui a un certo punto voleva comprare il Milan, poi si diresse sull'Arsenal), ma anche finanziatore dei restauri di una sala del Campidoglio di Ignazio Marino, il 12 marzo 2017 ha ricevuto la più alta onorificenza culturale della Repubblica italiana, l'Ordine al Merito.
Pratiche di solito istruite dalla Farnesina, o meglio, dall'ambasciata italiana a Mosca. Imbarazzo. Il Belpaese si trova così nella strana situazione di veder estromessi dal consesso economico-sociale europeo personaggi che in Italia hanno sempre prosperato. Di Sechin, l'Ue dice due cose nuove: uno, il carburante per la guerra in Crimea (2014) fu pagato da Rosneft Aero, una sussidiaria di Rosneft. E due, «la Rosneft di Igor Sechin è stata coinvolta nel finanziamento dei vigneti del complesso del palazzo vicino a Gelendzhik, considerato utilizzato personalmente dal presidente Putin».
Quello raccontato da Alexey Navalny. Di Usmanov, il testo sulle sanzioni Ue dice tra l'altro che «ha sostenuto attivamente le politiche di destabilizzazione dell'Ucraina del governo russo». Colpirne gli yacht significa mandare un messaggio: non siete più invincibili. E sono tanti, gli oligarchi che hanno i beni di lusso in Europa e in Italia, e tremano.
Solo nel Belpaese, tra Sanremo e Genova c'è il Lena di Gennady Timchenko, sempre ben accetto in Italia, fortuna stimata nel 2021 a 19,5 miliardi di dollari, sesto uomo più ricco di Russia, compagno di Putin fin dai tempi remoti della "Cooperativa Ozero", fondatore di Gunvor, gigante nella rivendita di petrolio e beni legati all'energia, secondo alcuni un passato nel Kgb (Timchenko nega).
Risulta sia stato consigliato informalmente di non lasciare il porto ligure anche anche il Lady M di Alexey Mordashov, grande azionista di Rossiya Bank (la banca considerata dal Tesoro americano «banca di Putin»). Ma in Liguria c'è anche Ice, di Suleiman Kerimov (90 metri per 16), fortuna stimata 15 miliardi, interessi che hanno spaziato dalle banche del Cremlino a Gazprom a Polys Gold, il gigante dell'oro russo.
A Trieste c'era ancora ieri l'altro il Sailing yacht A. di Andrey Melnichenko (143 metri per 25). Cosa interessante, aveva sempre navigato sotto bandiera delle Bermuda, mentre ora naviga sotto quella Uk. Non ci è chiaro il motivo. Il Galactic Super Nova di Vagit Alekperov (il capo di Lukoil, anche lui attivissimo in Italia con tanti amici) ieri è stato invece avvistato al largo della costa sudorientale della Sicilia. L'Italia imiterà Francia e Germania, e li andrà a prendere?
Ai Paperoni russi la guerra di Putin è già costata 90 miliardi di dollari. LUCA LA MANTIA su Il Quotidiano del Sud il 28 Febbraio 2022.
LA GUERRA fa male agli affari, anche a quelli di chi il conflitto lo provoca. Così scopriamo da Forbes che la campagna militare in Ucraina è già costata 90 miliardi di dollari ad alcuni dei più famosi oligarchi russi. Colpa delle sanzioni in particolare, che limitano l’export di materie prime – dal gas all’oro passando per il carbone – principale core business degli uomini più ricchi della federazione.
Ha perso 3,8 miliardi di dollari, per esempio, Vagit Alekperov che con 21,4 miliardi di dollari di patrimonio personale occupa il 66esimo posto nella classifica dei paperoni mondiali, aggiornata in presa diretta da Forbes. Il suo campo d’azione è l’oro nero, è infatti presidente di Lukoil la più grande compagnia petrolifera della Russia.
Di acciaio, invece, si occupa Alexey Mordashov (quasi 30 miliardi di dollari in cassaforte) come azionista di maggioranza della compagnia Several. Con il conflitto ha registrato una perdita da 3,3 miliardi. Decisamente più giù – nel ranking mondiale – troviamo Suleiman Kerimov. Nel 2003, quando era a capo della Nafta Mosca, fu a un passo dall’ingresso nel nostro campionato di calcio, con l’acquisto della Roma, ma la trattativa sfumò misteriosamente quando si era arrivati alle firme, con grande disappunto dei tifosi giallorossi. Oggi si occupa di oro tramite la compagnia Polyus e la guerra gli è costata ben 2,6 miliardi.
Il 59esimo uomo più ricco del mondo risponde al nome di Vladimir Lisin, presidente di Nlmk società leader nella manifatturiera dell’acciaio. I suoi guadagni, quando sono esplose le prime bombe, sono scesi di 2,5 miliardi. Ma con un patrimonio da 26,5 non si starà strappando i capelli.
Fra i più “poveri” c’è Oleg Tinkov, fondatore della Tinkoff Bank – quotata a Londra dal 2013 – che ha registrato perdite per 2 miliardi. Non ha bisogno di presentazioni Roman Abramovich che, proprio sull’onda della crisi ucraina, ha da un paio di giorni annunciato le sue dimissioni da patron del Chelsea, club che ha acquisito nel 2003 e ha saputo portare – a suon di investimenti milionari – nel gotha del calcio mondiale. Con la guerra Abramovich ha visto sfumare 1 miliardo di dollari, a fronte dei 13,5 di patrimonio personale.
Dalla caduta dell’Urss gli oligarchi sono il vero motore dell’economia russa. I più ricchi, secondo Forbes, sono Mordashov, Vladimir Potatin (attivo nel campo dei metalli) e Lisin. Nella top 10 troviamo anche Gennady Timchenko, considerato molto vicino a Putin. Il suo campo? Gas – è azionista di Novatek – e petrolchimico (Sibur Holding). I suoi averi superano i 22 miliardi di dollari.
Alisher Usmanov, invece, ha cominciato a far soldi ai tempi dell’Urss producendo sacchetti di plastica, ora è fra i principali investitori (detiene il 49%) del gigante dell’acciaio Metalloinvest. Ma il suo business guarda anche alla tecnologia: ha investito in Facebook e Xiaomi. La prima impresa commerciale di Andrey Melnichenko (patrimonio: circa 18 miliardi di dollari) è stata invece una catena di sportelli per il cambio valuta fondata negli anni ’90. Oggi possiede partecipazioni nel produttore di fertilizzanti Eurochem e nella società di energia del carbone Suek.
Pavel Durov, da parte sua, è considerato lo Zuckerberg russo per aver creato l’app di messaggistica Telegram, principale competitor di Whatsapp a livello mondiale. In precedenza, a soli 22 anni, Durov aveva sviluppato il social network Vk, il più diffuso in Russia, dalla cui direzione si è dimesso nel 2014.
Curioso, però, che il russo più facoltoso non appartenga alla cricca e viva felicemente in Occidente. Parliamo di Sergey Brin, ottavo nella classifica mondiale del magazine Usa con un patrimonio personale da 104,9 miliardi di dollari. Nato a Mosca, da anni si trova negli Stati Uniti (di cui ha acquisito la cittadinanza) e insieme a Larry Page ha fondato Google. E Putin? Per Forbes resta uno dei leader più potenti e influenti della Terra. Ma sulla sua ricchezza vige il massimo riserbo. Tanto che nemmeno il magazine americano è mai riuscito a calcolarne l’entità.
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Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.
Putin, "come quando si tentò di uccidere Hitler": voci su colonnelli e oligarchi russi. Rivolta in vista? su Libero Quotidiano il 27 febbraio 2022.
Anche se Vladimir Putin riuscisse a impossessarsi dell'Ucraina, la Russia dovrebbe fare i conti con altre difficoltà. D'altronde dal punto di vista militare le cose non stanno andando proprio come il presidente russo immaginava. La resistenza ucraina si è dimostrata tale, da riuscire a evitare il peggio anche nella sua capitale: Kiev.
Il timore che aleggia al Cremlino è quello che il Giornale definisce "un boomerang". "E se la guerra che ha scatenato si trasformasse in un gigantesco boomerang proprio contro di lui? Vediamo perché questa ipotesi può rivelarsi fondata", si legge. Il popolo ucraino è infatti filoccidentale, con un esercito valido e soprattutto un popolo motivato a difendersi. Da qui il presentimento che sconfiggere un Paese così chiederà enormi costi. Punto secondo: esiste un fronte interno russo, che ha più facce.
Se infatti siamo abituati a vedere quella popolare, la stessa che sta scendendo in piazza per fermare la guerra. Ce n'è anche una che si mostra molto meno: è quella degli oligarchi. Quest'ultimi, che si sono arricchi grazie allo Zar, temono ora di perdere tutto a causa delle sanzioni. Non è escluso che di fronte a una situazione di questo tipo Putin scelga di giocarsi il tutto per tutto e trascinare la Russia in una guerra non più fredda con l'Occidente. "A quel punto - conclude Il Giornale - si aprirebbe l'incubo di una tragedia europea, l'imprevisto più orribile come nel 1914 dopo Sarajevo. A meno che qualche colonnello od oligarca russo non decida che il rischio è troppo alto: e come nel 1944 si tentò di uccidere Hitler, lo stesso potrà esser fatto con Putin".
Ecco chi è il primo oligarca russo contro la guerra in Ucraina. Francesco Curridori il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Mikahil Fridman è il primo oligarca a dichiararsi pubblicamente contrario alla guerra voluta da Vladimir Putin in Ucraina.
"La guerra non potrà mai essere la risposta". Mikahil Fridman è il primo oligarca a esprimersi contro la guerra voluta da Vladimir Putin in Ucraina.
Fridman, come si legge sul Financial Times, ha inviato una lettera al suo staff nella sede di Lodra della sua società di private equity LetterOne in cui ha definito da guerra una "tragedia" e ha chiesto la fine del "bagno di sangue". "Sono nato nell'Ucraina occidentale e ho vissuto lì fino all'età di 17 anni", scrive Fridman ricordando che i suoi genitori sono ucraini e attualmente vivono a Leopoli, la sua città preferita. L'oligarca, però, riconosce di aver fatto fortuna "come cittadino russo" e aggiunge:"Sono profondamente legato ai popoli ucraino e russo e vedo l'attuale conflitto come una tragedia per entrambi". Fridman precisa: "Non faccio dichiarazioni politiche, sono un uomo d'affari con responsabilità nei confronti delle mie migliaia di dipendenti in Russia e Ucraina". Il noto imprenditore, che secondo Forbes ha un patrimonio stimato in 15,5 miliardi di dollari, finora aveva sempre evitato di esporsi esprimendo le sue posizioni politiche, ma stavolta è stato chiaro e netto:"Sono convinto però che la guerra non potrà mai essere la risposta. Questa crisi costerà vite e danneggerà due nazioni che sono affratellate da centinaia di anni". Poco dopo, anche un altro oligarca, Oleg Deripaska, uno dei più fieri sostenitori di Putin, ha scritto che "la pace è molto importante, e le negoziazioni dovrebbero iniziare al più presto".
Intanto l'Unione Europea, gli Stati Uniti d'America e la Gran Bretagna hanno attivato pesanti sanzioni contro gli oligarchi russi che in questi anni hanno fatto affari in Occidente. "Lavoreremo per proibire agli oligarchi russi di utilizzare i loro asset finanziari nei nostri mercati", ha detto il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel corso di un punto stampa. Queste prese di posizioni hanno avuto subito un primo effetto: il miliardario Roman Abramovich a lasciare la presidenza del Chelsea. Il presidente americano Joe Biden, d'altronde, ha sostenuto con fermezza che le sanzioni sono l'unica arma a disposizione per contrastare Vladimir Putin. L'unica altra alternativa sarebbe lo scoppio della terza guerra mondiale che tutti sperano di evitare. Nel frattempo, però, se da un lato da Mosca arrivano notizie di un possibile negoziato di pace in terra bielorussa, dall'altro lato Putin ordina "di porre le forze di deterrenza dell'esercito russo in regime speciale di servizio da combattimento". In pratica, il capo del Cremlino ha allertato il sistema difensivo nucleare russo. Di certo non un bel viatico verso la pace.
Estratto dell'articolo di Gianluca Di Feo per repubblica.it il 27 Febbraio 2022.
(...) Oggi negli sviluppi della guerra ucraina gli esperti di politica moscovita leggono un altro segnale preoccupante: il declino di Sergej Lavrov, il più longevo ministro degli Esteri russo e dell’intero pianeta. Con un’estrema semplificazione, Lavrov può essere considerato “la colomba” della corte di Putin mentre il titolare della Difesa, Sergei Shoigu, è il “falco”.
Il primo rappresenta la diplomazia e il secondo la forza, tanto che a Mosca circola una battuta: “Quelli che non vogliono ascoltare Lavrov dovranno vedersela con Shoigu”. Esattamente quello che sta accadendo adesso. Lunedì scorso dopo il proclama in cui il nuovo Zar negava l’esistenza dell’Ucraina, al suo fianco è comparso il ministro della Difesa. La porta del negoziato si è chiusa e la parola è passata alle armi.
Formalmente Lavrov è ancora al suo posto e due giorni fa ha pronunciato frasi dure contro Kiev. Una carriera straordinaria - è entrato in diplomazia nel lontano 1972 e guida il ministero dal 2004 – e finora una sintonia totale con Putin. Li unisce la stessa visione della patria: Lavrov è di padre armeno ma ha scelto il cognome russo della madre e sminuisce qualsiasi legame con il genitore “straniero”.
(...) Lavrov non è mai stato intimo del nuovo Zar. Non è uno dei silovki formati nei ranghi del Kgb, né uno dei vecchi amici di San Pietroburgo. Non ne condivide nemmeno le passioni: al judo e all’hockey su ghiaccio preferisce il calcio.
Ma da diciotto anni ne ha fedelmente declinato il verbo in tutte le trattative internazionali, traducendo le pretese del Cremlino nel linguaggio della diplomazia. Tanto che pure i suoi avversari riconoscono: “Lavrov è in grado di presentare la politica estera più brutta nella maniera più civilizzata”.
Il 14 febbraio, la tv statale ha trasmesso un siparietto tra i due sulla questione ucraina. Putin gli ha chiesto: “C’è una possibilità di trovare un accordo o è solo il tentativo di incastrarci in un negoziato infinito?”. Il ministro ha risposto: “Non andranno avanti ad oltranza. Suggerirei di proseguire e aumentare gli sforzi diplomatici”. “Bene”, ha replicato il presidente, permettendo al mondo di tirare un breve sospiro di sollievo.
Era una messinscena per guadagnare tempo? Oppure la reale manifestazione di una profonda differenza di vedute?
(...) L’invasione dell’Ucraina sia lontana dal pensiero di Lavrov. Che contrariamente agli altri cortigiani di Putin, ha vissuto dieci anni a New York e conosce quanto sia pericoloso sfidare il mondo intero.
Per questo la sua momentanea scomparsa dal palco del Cremlino potrebbe non essere solo un escamotage - la prosecuzione dello schema del poliziotto buono interpretato da Lavrov e di quello cattivo impersonato da Shoigu - bensì la fine della stagione del dialogo.
Si sussurra che la sua poltrona possa passare a Anatoly Antonov, altro ambasciatore di lungo corso ora a Washington ma in precedenza numero due sia degli Esteri che della Difesa, proprio a fianco del “falco” Shoigu: forza e diplomazia diventerebbero una cosa sola. Quello che avviene oggi in Ucraina.
Roberto Saviano, l'Ucraina e la mafia: la sua ossessione non è in malafede, ma offende. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.
Se fossero soltanto le divagazioni provinciali di un facoltoso influencer di Rai3 potremmo anche soprassedere: ma c'è qualcosa di più grave e distorto nella lettura "antimafia" con cui Roberto Saviano pretende di spiegare che la guerra in Ucraina trova causa in un conflitto tra organizzazioni criminali delle due parti, unite nell'avvantaggiarsene. Intendiamoci: in ogni urgenza di crisi ben può darsi l'insinuazione di interessi illeciti, ma non è questo il punto. Il punto è che c'è qualcosa di ossessivo e di pervertito nel vagheggiare di mafia mentre i civili scavano trincee e raccolgono schioppi e bottiglie incendiarie per contrastare sessanta chilometri di linee corazzate nemiche.
Non c'è malafede in queste investigazioni del romanziere anticamorra, ma restano offensive per come trascurano e dunque sviliscono, il fatto concreto di un popolo in armi contro un'operazione militare che non diventerebbe più giusta se non desse profitto alla criminalità, proprio come quella resistenza non dovrebbe essere giudicata in un modo o nell'altro secondo che faccia o no l'obliquo interesse di un'altra cosca. A Saviano «dispiace» ha detto proprio così, rilanciando con un video quel che ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera- che nel dibattito pubblico, attardato su questi dettagli che sono i bombardamenti, la moltitudine dei profughi, le città che si preparano all'assedio, non ci sia abbastanza spazio per l'esegesi dei pizzini in cirillico. Lì dove c'è la guerra hanno dispiaceri più immediati.
Da sussidiario.net il 2 marzo 2022.
Roberto Saviano: “Guerra in Ucraina? Colpa della mafia”. La risposta di Anne Applebaum
In studio a Che tempo che fa, oltre a Roberto Saviano, per trattare il tema della guerra in Ucraina, c’era come ospite anche Anne Applebaum, giornalista e scrittrice che ha vinto il premio Pulitzer nel 2004.
La saggista americana, attraverso un post su Twitter, inizialmente aveva attaccato il collega. “Sono appena stata in un programma televisivo italiano in cui qualcuno ha ipotizzato che tutta questa guerra sia una battaglia tra la mafia russa e la mafia ucraina. Intuisco che tutti noi vediamo gli eventi attraverso una lente nazionale”, aveva scritto.
A distanza di qualche ora, tuttavia, ha cancellato il tweet e ne ha pubblicato uno di rettifica. “Il giornalista italiano: Era Roberto Saviano, un vero e coraggioso esperto di criminalità organizzata. Le sue parole mi sono state tradotte male. Stava spiegando che la Crimea e il Donbas sono stati letteralmente colonizzati dalla mafia russa, il che è ovviamente vero”. Successivamente ha condiviso un articolo in cui vengono proposti i suddetti argomenti.
Lo scrittore ha infine confermato il disguido: “Solita disinformazione cialtrona: Anne Applebaum (bastava verificare) ha avuto una traduzione sbagliata. Ci siamo chiariti per email, mi ha invitato a continuare a scrivere di ciò che ho realmente detto, si è dispiaciuta e infatti ha cancellato il tweet nato dal fraintendimento”, ha scritto.
Le mafie. L'ossessione di Saviano: vede le mafie pure in guerra. Paolo Bracalini l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.
E il "premio Pulitzer" stana la lettura troppo provinciale: "Analisi con una lente nazionale...".
Dopo anni passati sotto scorta e la fama ottenuta dai libri sulla criminalità organizzata è comprensibile che Roberto Saviano veda l'ombra della mafia un po' ovunque, anche dietro la guerra in Ucraina. Per il pubblico italiano non sorprende l'analisi che lo scrittore ha fatto l'altra sera, ospite di Fazio in Rai. «Tutta questa vicenda ha un grande assente, ossia la mafia russa che da sempre è gemella con le organizzazioni criminali ucraine - ha spiegato Saviano -. Questo è davvero l'oggetto che manca dal dibattito, perché la negoziazione avvenuta prima della rivolta di Maidan del gas tra Ucraina e Russia era fatta dalla più grande organizzazione mafiosa russa, governata da Semion Mogilevich, la Solncevskaja bratva, che significa brigata del sole». Saviano le ha definite «prove reali» del fatto che «Semion Mogilevich è il vero capo, ucraino, di una organizzazione russa», e che il gas che veniva venduto all'Ucraina era intermediato dalla mafia russa. Sarebbe stata la rivolta di Maidan a far saltare tutto.
«Crimea e Donbass sono territori completamente governati da organizzazioni criminali. Non sto raccontando nulla che scopriamo ora, eppure nel dibattito non c'è. Le truppe in questo momento sono affiancate dalle organizzazioni criminali. Le organizzazioni criminali ucraine e quelle russe sono gemelle e infatti sostenevano il Presidente prima della rivolta di piazza Maidan. Lì, quando il popolo ucraino è insorto, sono saltati gli accordi con la società che vendeva il gas all'Ucraina». Per questo, sostiene lo scrittore, non si può spiegare la guerra tra Mosca e Kiev senza parlare della mafia. «Nel dibattito che stiamo facendo non possiamo tenere fuori una forza non solo così eclatante, ma che aveva determinato l'equilibrio in Ucraina filo-russo fino a quando non c'è stata la rivolta della piazza europeista. E l'Europa, invece, continua a raccogliere i soldi degli oligarchi sulle proprie piattaforme finanziarie. È su questo che deve accendersi il focus nuovo sul racconto di questa guerra» ha concluso l'autore di Gomorra.
Collegata nello stesso momento c'era anche la giornalista americana Anne Applebaum, premio Pulitzer per la saggistica con il libro Gulag. Lì per lì la scrittrice non ha detto niente, ma poco dopo sui social ha fatto capire di essere rimasta stupita della chiave di lettura mafiologica di Saviano. «Sono appena stata in un programma televisivo italiano in cui qualcuno ha ipotizzato che tutta questa guerra sia una battaglia tra la mafia russa e la mafia ucraina. Intuisco che tutti noi vediamo gli eventi attraverso una lente nazionale». La Applebaum ha usato la cortesia di non citare direttamente Saviano, ma di fatto lo ha asfaltato accusandolo di dare una lettura provinciale dell'invasione russa dell'Ucraina. Del resto anche per la pandemia Saviano aveva tirato in ballo la mafia («La pandemia aiuta l'economia criminale», scrisse).
Le mafie gemelle di Ucraina e Russia e i traffici di droga, gas e oro. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
Guardare come si comportano i clan significa capire la guerra. Per decenni ciò che ha tenuto uniti i due Paesi è la criminalità organizzata, con proventi miliardari. Le commistioni con la politica e i metodi di Putin per controllare lo strapotere dei boss.
Quando nel marzo 2016 chiesi a Garry Kasparov, uno dei più grandi scacchisti della storia, il ruolo della mafia russa, lui rispose: «Tanto, sulle questioni fondamentali agiscono sempre su ordine del vertice». E chi è il vertice, mi affrettai a chiedere? «Ovviamente, Vladimir Putin», mi rispose Kasparov, stupito di doverlo ribadire. Mi chiedo come sia possibile che nel dibattito internazionale sia del tutto assente la domanda fondamentale: qual è il ruolo delle organizzazioni mafiose in questa guerra? Nessuno che si chieda come sia possibile che, in un territorio da sempre completamente egemonizzato dai cartelli criminali, questi non siano né citati, né conosciuti, né considerati dai reporter e dal dibattito politico. Ciò che per decenni ha tenuto unite Ucraina e Russia è la mafia. E questa guerra è una guerra che ha la sua vocazione mafiosa dietro il mascheramento geopolitico del conflitto con la Nato con l’Europa. Guardare come si stanno comportando i clan mafiosi significa capire la guerra. È così sempre: in Afghanistan, nella guerra in Jugoslavia, in Siria, in Congo. Identifica le mafie, osservale e scoverai i veri interessi.
«Michas» e «The Brain»
Nonostante la memoria dell’Holodomor, il terribile olocausto della fame che il governo bolscevico russo ha perpetrato sugli ucraini tra il 1932 e il 1933 (ammazzando di stenti sei milioni di persone) la criminalità organizzata russa e ucraina da sempre sono state gemelle. La più importante organizzazione mafiosa russa, la Solncevskaja bratva, ossia la Brigata del Sole, è governata da una diarchia: il russo Sergej Michajlov, detto «Michas», e l’ucraino Semyon Mogilevich, detto «The Brain». Per comprendere d’immediato la loro potenza economica riporto di seguito alcuni dati provenienti da diversi studi condotti fra il 1996 e il 2011 dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine: 1 miliardo di dollari è il guadagno annuale dall’esportazione di eroina in Cina, 8 miliardi di dollari sono i proventi della mediazione della vendita dell’eroina afghana, 620 milioni di dollari il profitto ricavato dal legname russo tagliato illegalmente per il mercato cinese delle costruzioni. Questi elencati sono solo la superficie della loro attività. La massa di soldi che l’organizzazione ricava, li ricicla e investe in Europa, negli Usa e in Israele. Solo nel 2018, per esempio, ha riciclato 50 milioni di euro di beni immobili in Spagna, meta prediletta dagli affiliati della Solncevskaja insieme alla Svizzera, dove Michajlov «Michas» è proprietario di una lussuosa villa (del resto su Wikipedia è segnalato come businessman; quello che è considerato il capo di una delle organizzazioni più potenti del mondo dal 1991 al 1994 ha lavorato alla Parma Foods, una joint venture russo-italiana).
L’alleanza del gas
Cos’è che ha permesso nei decenni passati che si creasse la grande alleanza politica russo-ucraina delegandola nelle mafie? La risposta è: il gas. La società di intermediazione di gas, RosUkrEnergo ( che ha sede in Svizzera e il cui 50% delle azioni è del colosso del gas russo Gazprom), fu creata nel 2004 dall’ex presidente ucraino Leonid Kuchma e da Vladimir Putin. Trasportava il gas dal Turkmenistan alla Naftogaz, la società nazionale ucraina di petrolio e gas; Naftogaz doveva comprare da questa società di intermediazione russa e doveva vendere solo in Ucraina il gas. La RosUkrEnergo che vendeva gas agli ucraini (e non solo, anche a diversi paesi dell’Est) lo vendeva a un prezzo più alto rispetto a quello di mercato, e informalmente obbligando tra l’altro a darlo gratuitamente alle zone filorusse di Crimea e Donbass. L’alleanza si basava sostanzialmente sui tre pilastri: Mogilevich, il boss ucraino ai vertici della mafia russa, l’appoggio di Vladimir Putin e quello di Dmytro Firtash. Quest’ultimo era l’intermediario tra il governo ucraino, Gazprom e il primo ministro ucraino (dal 2002 al 2007 e poi dal 2010 al 2014) Viktor Janukovyč. Nel 2009 ufficiali del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) fecero un’indagine sull’appropriazione indebita di 6,3 miliardi di metri cubi di gas naturale di transito accusando Naftogaz Ukrainy di aver rubato quei 6,3 miliardi di metri cubi di gas. Sì, perché l’alleanza mafiosa sotto il potere della Solncevskaja bratva non garantiva solo la distribuzione dei dividendi della RosUkrEnergo (dal 2005 al 2007 1.753 miliardi di dollari) ma, rubando il gas in transito attraverso l’Ucraina verso altri Paesi permetteva alle varie bratva mafiose di venderlo di contrabbando alle società di importazione gas di mezzo mondo. Guadagnavano dal gas legale e dal gas rubato (che andava a carico dei contribuenti ucraini che dovevano pagarlo).
Il mediatore in fuga
L’Ucraina era trattata come una colonia da cui estrarre grandi rendite senza pagare le tasse; i fondi venivano depositati in paradisi fiscali offshore. Dymitri Firtash, il grande mediatore del gas è fuggito dall’Ucraina, rifugiandosi in Austria per evitare l’estradizione, ed è accusato negli Stati Uniti di corruzione per 500 milioni di dollari. Firtash era legato al presidente della campagna di Trump, Paul Manafort, e ha come avvocato a sua disposizione Rudolph Giuliani, legale di Trump condannato nel 2021 per aver «comunicato dichiarazioni manifestamente false e fuorvianti a tribunali, legislatori e all’opinione pubblica in generale (…) in relazione al fallito tentativo di rielezione di Trump nel 2020». È Firtash stesso ad aver svelato che l’alleanza russo-ucraina si basava su un accordo mafioso, e questo lo sappiamo grazie ai preziosi documenti pubblicati da Wikileaks: durante un incontro riservato con l’ambasciatore USA William Taylor, nel 2008, ammise che era Mogilevich il vero potere della società di intermediazione. L’Ucraina, ha affermato, è «governata dalle leggi della strada». All’ambasciatore americano Firthas descrisse che era impossibile avvicinarsi a qualsiasi funzionario governativo ucraino senza incontrare contemporaneamente anche un membro della criminalità organizzata. Tutte queste confessioni, Firtash le face nell’ottica di mostrare all’amministrazione americana, che sapeva da tempo impegnata a indagare su di lui, che agiva solo su «costrizione», che era la prassi balcanica agire sempre in concordanza con la mafia e che senza il boss Mogilevich niente si poteva muovere nel gas, pur specificando più volte che con lui non aveva mai avuto rapporti diretti. Ovviamente, uscito il cablogramma, Firtash spaventato di essere stato involontariamente la prova che il mondo cercava sulle informazioni su RosUkrEnergo ha negato al mondo intero di aver detto nulla del genere.
L’«imprevisto» Maidan
Cosa ha interrotto questo schema del gas mafioso che ingabbiava l’Ucraina? L’imprevisto che persino Solncevskaja bratva non poteva prevedere è stata la rivoluzione di piazza Maidan del 2014, quando l’Ucraina in rivolta denunciò i brogli elettorali di Janukovyč, costringendolo a scappare a Mosca. L’inaspettata insurrezione del popolo ucraino legato al desiderio europeista fece saltare il banco dell’accordo mafioso: «Va detto — afferma il politologo britannico Taras Kuzio, tra i maggiori esperti mondiali delle dinamiche che stiamo descrivendo — che l’Ucraina, prima della rivolta di Maidan del 2014, era diventata uno stato mafioso neo-sovietico». L’Europa, sotto il ricatto del gas russo, lasciò sola l’Ucraina in questa nuova stagione di indipendenza ma soprattutto di liberazione dal potere mafioso. Anzi, le banche europee e svizzere accolsero i soldi dell’Organizacija (termine con cui viene definito l’insieme delle diverse organizzazioni russe). L’Austria accoglie Firtash. Il sostegno europeo all’Ucraina è stato più di forma che reale, in questa dinamica lo spazio che la Nato e gli USA vedono per poter portare avanti la propria politica internazionale.
Contrabbando sul Mar Nero
I vory (padrini) stanno approfittando della tensione al confine tra Ucraina e Russia per aumentare il proprio potere. La Crimea è il centro del contrabbando tra Europa e Russia: traffico di droga e merce chiamata per anni «la Sicilia ucraina» (riferendosi al potere di Cosa Nostra). Mark Galeotti, uno dei maggiori studiosi della mafia russa, ha scritto: «La Crimea è la prima conquista della storia condotta da gangster che lavorano per uno Stato». I famosi soldati senza insegne che fanno scorribande non sono altro che membri della Solncevskaja bratva di Mogilevich e Michas. Viktor Shemchuk, ex procuratore capo della regione, ricorda: «Ogni livello del governo di Crimea è mafiosizzato. Non era insolito che una sessione parlamentare iniziasse con un minuto di silenzio in onore di uno dei ‘fratelli’ (affiliati) assassinati». Il Mar Nero e Odessa sono i grandi spazi in cui si articolano diversi traffici: circolano la benzina venduta di contrabbando, tonnellate di carbone scavato illegalmente caricato su navi pronte a dirigersi in mezzo mondo, eroina, oro. Tutto ciò che può evadere il peso del fisco in cambio di una tassa ai vory mafiosi. Tutto ciò che deve entrare illegalmente in Europa passa da questi luoghi. Buco nero di merci, eroina, materie prime. La giornalista russa Yuliya Polukhina fa una sintesi chiara: «I beneficiari di questa guerra sono i politici, gli oligarchi e i gangster. Carbone, oro, benzina e tabacco. Questo è ciò per cui si battono nell’Ucraina orientale». La conquista del Donbass e della Crimea è servita soprattutto a proteggere gli affari. Gli affiliati hanno innescato un’insurrezione per poter creare repubbliche autonome a Donetsk e Lugansk, ma non sono altro che repubbliche di mafiosi, governate per procura da Mosca. I leader della rivolta, come riporta Galeotti, hanno tutti nickname che avevano quando erano dentro la bratva: Motorola, Batman, Shooter.
Putin e «i drogati»
Il 17 aprile 2015, Radio Svoboda intervista un volontario russo che aveva creduto alla propaganda di Putin, all’illusione di andare a combattere contro i fascisti ucraini: «Quando arrivi lì, ti rendi subito conto che non si tratta di unità militari, ma di vere e proprie bande» L’ex generale della polizia ucraino Vladimir Ovchinsky commenta: «Ora si sta verificando una sorta di nazionalizzazione della mafia». Eppure Putin nell’accusa alle autorità ucraine le definisce «banda di drogati e neonazisti». Quel passaggio sui «drogati» è chiaramente riferito al ruolo che l’Ucraina svolge come transito del narcotraffico ma ignora che è la mafia russa ad organizzarlo. Ma potrebbe esserci di più, forse i cartelli ucraini si stanno sfilando dalla storica alleanza con le bratva di Mosca? La mafia ucraina è in scissione come il Paese? Ha deciso di non sottostare ai gruppi crimeani? Di sottrarsi al dominio delle famiglie di Donetsk? Questo è il vero tema da comprendere nelle prossime ore. Mark Galeotti nel libro The Vory: Russia’s Super Mafia scrive: «L’Ucraina è … un Paese in cui tutte le principali organizzazioni criminali russe hanno interessi, operazioni, partner e persone, e dove anche la cultura del vory è ancora presente. Solntsevo ha un rapporto di lunga data con il “clan Donetsk” criminale-politico, che era la base di potere dell’ex presidente Viktor Janukovyč».
Il patto tra Stato e criminali
Le strutture criminali ucraine sono simili a quelle russe, sebbene su scala ridotta e in un territorio in cui la maggioranza delle organizzazioni opera a livello locale: allo stesso modo, però, sono in simbiosi con una classe politica profondamente corrotta e mirano al controllo oligarchico dell’economia. «Il flusso di droga attraverso Donbass, verso l’Ucraina, e poi verso l’Europa, non si è ridotto di un solo punto percentuale, anche mentre i proiettili volano avanti e indietro attraverso la linea del fronte», dichiara un ufficiale dell’SBU a Mark Galeotti, parlando degli scontri del 2014 nella regione. Il crimine organizzato russo si compone di diversi livelli. Putin, già dalla fine del 1999, ha smesso di portare avanti la politica della lotta al crimine, che pure l’aveva animato nei primi anni al potere. Un livello di strada viene genericamente perseguito, ci sono processi, arresti, se c’è stupro, se ci sono omicidi che allarmano la popolazione e perseguito lo spaccio in strada se compromette la pace sociale, ma in carcere sostanzialmente le organizzazioni governano tutto, continuano ad affiliare e proteggono i loro detenuti uccidendone i rivali. Chi si muove al livello più alto di organizzazione invece diventa interlocutore privilegiato con un unico vincolo: non deve mai creare problemi allo Stato e al suo capo. Se creano problemi al governo o si alleano con oppositori volendo sostituirlo verrebbero considerati come nemici dello Stato e sarebbero semplicemente annientati con l’aiuto di tribunali, polizia, sentenze. In realtà, la mafia russa non coincide completamente con lo Stato, la mafia russa è una delle infinite articolazioni del potere istituzionale russo, con cui è in dialettica. Solncevskaja bratva di Mosca, la Bratski Krug (circolo dei fratelli) di San Pietroburgo e la Tambov Gang, i grandi nemici della Solncevskaja, sono le anime che dominano affari e vita della Russia insieme ai loro satelliti in Georgia, Kazakistan, Cecenia, Ungheria, Serbia, Bulgaria, Cekia.
Tagliare teste e punire
Putin usa ed è usato dalle organizzazioni criminali, i vory sono fondamentali per la sua internazionale criminale con cui sabota i nemici o influenza gli amici. Non solo nelle operazioni in Donbass, ma anche in Montenegro, quando avvenne tramite cartelli criminali locali alleati delle bratva un tentativo di colpo di Stato nel 2016, per evitare che l’area aderisse alla Nato. Ciclicamente lo stesso Putin teme lo strapotere dei membri dell’Organizacija, contro cui agisce solo quando gli creano problemi, quando non riesce a schermarli dalle magistrature occidentali che trovano prove dei loro affari mettendo a rischio la reputazione del governo o peggio quando agiscono sostenendo i suoi rivali politici. Per tenere sotto controllo, Putin deve ciclicamente tagliare teste e punire. Nel 2016, per esempio, la polizia russa ha fatto irruzione nell’appartamento di uno dei suoi alti ufficiali, il colonnello Dmitry Zakharchenko, che era a capo di un dipartimento all’interno della sua divisione anticorruzione. Lì hanno trovato 123 milioni di dollari: così tanti che gli investigatori hanno dovuto sospendere le ricerche mentre cercavano un contenitore abbastanza grande da trasportare tutto quel denaro. In realtà non erano soldi suoi, era solo il custode del fondo comune, l’obshchak, di una banda di «Lupi mannari»: così sono chiamati gli uomini della mafia dentro la polizia.
Mafia e politica
Putin deve ricordare ai vory che è lui che dà l’autorizzazione alla loro vita; ovviamente sa benissimo che sarà finita quando il suo potere dipenderà dai vory. Per ora questo equilibrio è mantenuto perché le bratva russe e i vory continuano a fare affari sulle risorse naturali e sulle concessioni date dallo Stato: questa è la «dipendenza» della mafia russa dal potere politico in cui si mischia e confonde. Gestiscono cose il cui profitto devono smezzare con le istituzioni e tra l’altro delegare alle organizzazioni spesso significa permettere un’efficienza verticale che nessun’altro potrebbe garantirti. Come descrive bene Taras Kuzio nel libro Ukraine: Democratization, Corruption, and the New Russian Imperialism il ruolo dei vory è sempre solo quello di risolvere problemi, chiedi e ti sarà dato. La realtà della Solntsevo negli anni ha stretto alleanze e levigato attriti con le già fiorenti mafie locali ucraine: «L’Ucraina — scrive Galeotti — è un buon esempio, un Paese in cui tutte le principali associazioni russe hanno interessi, operazioni, partner e persone, e dove anche la cultura vory è ancora presente. Solntsevo ha un rapporto di lunga data con il “clan Donetsk” criminale-politico, che era la base di potere dell’ex presidente Viktor Janukovyč, per esempio». Il rapporto tra mafia e politica è talmente stretto che persino eventi traumatici, come l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014 e i successivi scontri nel Donbass, avvengono con il sostegno attivo dei vory locali. Se potessi chiedere a Semyon Mogilevich come finirà questa guerra, avrei certamente l’opinione più aggiornata, più utile, più profonda che potremmo ottenere, che nessun analista, nemmeno le informazioni che i Servizi americani hanno fatto trapelare ai giornali, riuscirebbero a dare. Osservare le dinamiche criminali, in questo caso, significa guardare al cuore pulsante delle questioni. Guarda la mafia, vedi il crimine; guarda attraverso la mafia, vedi il destino dell’economia del tuo tempo.
Donatella Miliani per lanazione.it/umbria l'1 marzo 2022.
Castelli e antiche dimore sulle colline dell’Umbria hanno attirato da tempo l’interesse degli oligarchi russi. Nel “cuore verde d’Italia” hanno fatto consistenti investimenti sia Evgeny Lebedev, che Andrei Yakunin, entrambi figli di ex militari del Kgb molto vicini a Putin.
Il primo è proprietario del castello di Procopio (situato sopra al paesino di Migiana sul Monte Tezio), una dimora privata dove Lebedev ha ospitato noti personaggi britannici a cominciare da Boris Johnson all’epoca in cui era segretario agli affari esteri e del Commonwealth del Governo May.
Il giovane Lebedev, 41 anni, nato a Mosca ma vive spesso a Londra, è anche proprietario di Palazzo Terranova, esclusivissima struttura ricettiva a Roni in Altotevere (oggi divenuta privata) in cui la privacy degli ospiti era protetta da personale solo straniero e, pare, con contratto di lavoro in cui ci si impegnava a non rivelare nulla circa il Resort.
Evgeny è figlio di Aleksandr Evgen’evic Lebedev, ex tenente colonnello del Kgb, che è stato socio del quotidiano russo Novaya Gazeta e, con il figlio Evgeny, anche di due giornali britannici: l’Evening Standard e The Independent. Per la cronaca, nel 2020 Evgeny Lebedev è diventato anche membro della Camera dei Lord del Regno Unito.
Andrei Yakunin invece, figlio di Vladimir Yakunin, ex generale del Kgb, ex banchiere ed ex presidente delle ferrovie russe, ha acquistato Antognolla destinato a diventare un Resort lussuosissimo. A finanziare i lavori il Fondo Viy Management, locato a Bruxelles, con uffici a Londra.
A illustrare alla stampa il faraonico progetto che, una volta ultimato sarà gestito dall’operatore Six Senses Hotel Resort Spas e darà lavoro a 300 impiegati diretti e a oltre 600 addizionali, è stato nell’ottobre scorso a Perugia Yakunin in persona. La somma totale dell’investimento non è stata rivelata, ma guardando all’insieme del complesso ci si può fare un’idea: 109 camere di lusso e 77 villette dislocate lungo tutta la tenuta che aprirà, questo almeno l’annuncio, nel 2024 (rumors parlano di oltre 100 milioni di euro).
Curiosità, nel campo da golf a 18 buche vicinissimo peraltro alle proprietà di Lebedev, ha giocato (ma non è mai stato socio del circolo) anche l’attuale premier Mario Draghi quando era ancora a capo della Bce. Draghi, che ha il suo buen retiro a Città della Pieve, manca però dai green di Antognolla dal 2018.
L’interesse e la presenza degli oligarchi russi in Umbria è entrata comunque in un’informativa dei Servizi segreti italiani, e ha finito con l’ispirare un libro-inchiesta edito da Laterza: “Oligarchi. Come gli amici di Putin stanno comprando l’Italia“ scritto da due giornalisti de La Stampa, Jacopo Iacoboni e Gianluca Paolucci. \"L’idea – spiega Paolucci a La Nazione –, è scaturita dopo alcuni articoli scritti per il giornale e dopo aver appreso dell’informativa dei Servizi italiani in cui si evidenziava come tra Umbria e Toscana ci fosse una sorta di ’centrale’ per l’influenza degli interessi russi in Italia.
E singolare da subito ci è sembrato – continua Paolucci che a La Stampa è approdato dopo aver lavorato alla Reuters e che si occupa proprio di Economia e Finanza –, che ci fossero signori come Lebedev e Yakunin a pochi chilometri l’uno dall’altro in Umbria. Di lì il lavoro di ricerca durato oltre un anno e pubblicato poi nell’ottobre del 2021 nel saggio-inchiesta\".
Da “il Giornale” l'1 marzo 2022.
La guerra totale contro una nazione nella quale molti hanno legami strettissimi; le sanzioni occidentali che minacciano il rublo, l'economia russa tout court e i loro patrimoni siderali; ora persino l'ombra dell'incubo nucleare.
Fra gli oligarchi moscoviti del business - quelli arricchitisi durante le privatizzazioni selvagge degli anni '90, ma anche quelli venuti alla luce o rimasti a galla nel ventennio del potere di Vladimir Putin - c'è chi incomincia a non poterne più della guerra in Ucraina.
Non è ancora una rivolta in piena regola, sul modello di quella costata la galera e l'esproprio a inizio anni 2000 a figure come l'ex patron dell'ormai defunto colosso petrolifero Yukos, Mikhail Khodorkovski. Ma i nomi che si allineano nell'elenco di chi stavolta appare deciso a esporsi in una presa di distanza dallo zar del Cremlino e dalla sua corte di uomini provenienti dai ranghi dei siloviki - i veterani dei servizi, delle forze armate, degli apparati russi - sono importanti.
Le prime critiche esplicite di super miliardari storici portano la firma di due pesi massimi come Oleg Deripaska e Mikhail Fridman: pronti addirittura a strizzare l'occhio alle proteste di piazza di questi giorni, sfociate nella solita raffica di arresti. Mentre più sfumata appare la posizione dell'astutissimo Roman Abramovich.
E sono quasi 6.000 le persone fermate dalla polizia in tutta la Russia dopo il quarto giorno di proteste contro la guerra. Lo riferisce il sito indipendente Ovd-Info, precisando che le persone fermate sono 5.942 persone, 2.802 delle quali domenica nelle manifestazioni non autorizzate in 57 città del Paese. A Mosca domenica sono state fermate 1.275 persone.
Jacopo Iacoboni per lastampa.it l'1 marzo 2022.
All’incontro del 24 febbraio – in una imprecisata località degli Urali – di Vladimir Putin con gli oligarchi mancavano i sei oligarchi forse a lui più vicini: Roman Abramovich, Gennady Timchenko, Arkady e Boris Rotenberg, Oleg Deripaska e Alisher Usmanov. Tutti con fortissima presenza, o investimenti, o ville, o megayacht, in Italia e nell’economia italiana.
Erano assenti giustificati, comunque sia non c’erano. Rispetto a queste riunioni, che di solito arrivano a circa 50 oligarchi, i presenti erano “soltanto” 36, ha fatto notare Anders Aslund uno dei massimi studiosi delle dinamiche nella cleptocrazia russa. Come se qualcosa stesse succedendo, tra quei “businessmen” che devono integralmente le loro fortune al favore del Cremlino, o le hanno potute mantenere grazie alla non ostilità di Putin, Figure spesso quasi statuali, almeno le più importanti (loro ovviamente negano).
I segnali però si sono rinforzati domenica, quando è stata pubblicata dal Financial Times una lettera scritta da Mikhail Fridman, 15,5 miliardi di dollari di patrimonio, ai soci del suo fondo di private equity, LetterOne, con sede a Londra: «Non faccio dichiarazioni politiche, sono un uomo d'affari con responsabilità nei confronti delle mie migliaia di dipendenti in Russia e Ucraina. Sono convinto però che la guerra non potrà mai essere la risposta. Questa crisi costerà vite e danneggerà due nazioni che sono fratelli da centinaia di anni. Anche se una soluzione sembra spaventosamente lontana, posso solo unirmi a coloro il cui fervente desiderio è che lo spargimento di sangue finisca. Sono sicuro che i miei partner condividono la mia opinione».
Non una parola, ovviamente, su chi questa guerra ha voluto e pianificato, ossia Vladimir Putin. Ma un appello “pacifista” è stato vissuto da tutti gli osservatori come una presa di distanza significativa dal Cremlino.
Nelle stesse ore un altro oligarca potentissimo, ospite fisso da anni in Toscana (dove si intratteneva già ai tempi di Peter Mandelson, il consigliere di Tony Blair), a Forte dei Marmi e in Sardegna, Oleg Deripaska, magnate dei metalli e grande investitore in Italia (per esempio in Sardegna, con la sua Rusal), ha scritto su Telegram: «La pace è molto importante! Le trattative devono iniziare il prima possibile!».
Naturalmente si tratta di “pacifisti” assai particolari, con un occhio alle sanzioni devastanti che stanno alla fine ricevendo. Fridman è presidente di Alpha Banka, la più grande banca privata della Russia, colpita dalle sanzioni americane già giovedì – quelle emesse da Joe Biden prima che Italia e Germania si acconciassero all’uscita “selettiva” da SWIFT di alcune grandi banche russe.
Già solo la sanzioni Usa hanno provocato il crollo del titolo di Alpha Bank (anche se non ai livelli di Sberbank). Quanto a Deripaska, Bloomberg ha rivelato – per fare solo un esempio – che appena una settimana prima dell’inizio dei bombardamenti a Kiev esponenti dell’amministrazione italiana e russa si sono incontrati per trattare alcuni investimenti e partnership italo-russe, legate soprattutto all’energia, ma uno dei colloqui riguardava un investimento di 200 milioni di euro (225 milioni di dollari) dal gruppo di alluminio Rusal (di Deripaska) in uno stabilimento di sua proprietà in Sardegna e un recente accordo tra società di tecnologia mineraria (Rusal ha rifiutato di commentare).
Deripaska, riferisce Afp, adesso ha addirittura detto che è giunto il momento di porre fine a «tutto questo capitalismo di stato», e di cambiare le politiche mentre l'economia della Russia vacilla per gli effetti delle sanzioni.
Ecco perché questi oligarchi hanno paura: hanno paura di cosa stanno inesorabilmente per perdere (Deripaska peraltro è già plurisanzionato negli Stati Uniti nell’inchiesta sull’interferenza russa sulle elezioni americane del 2016 che portarono all’elezione di Trump).
La chiusura della Borsa di Mosca, che attende le decisioni della Banca Centrale Russa, non impedisce la vendita di azioni legate al Paese sui mercati internazionali: a Londra c'è la corsa a liberarsi dei titoli di Sberbank (-63%), Rosneft Oil (-42%), Lukoil (-55%), Gazprom Neft (-25%) e PhosAgro (-65%). Gli oligarchi letteralmente tremano.
Roman Abramovich ha ceduto la presidenza del Chelsea Football Club alla Fondazione di beneficenza del club, e molti (tra i più significativi, la reporter Catherine Belton, autrice di un libro fondamentale sulla materia) si sono chiesti: lo fa perché ha paura che le sanzioni colpiscano o eventualmente sequestrino le finanze del club?
La frase di Abramovich, «cedo il club per il suo bene», nel giorno successivo all’aggressione di Putin è parsa acquistare un significato di (molto velata) espressione di disaccordo. È un fatto che Abramovich non potrà più riavere il visto per tornare a vivere stabilmente a Londra, e per tempo si era del resto attrezzato, disponendo sia di cittadinanza israeliana sia di (recentissima) cittadinanza portoghese (quindi europea). Assai contestata (vedi la foto) dalla popolazione di Lisbona.
Abramovich è presente in Bielorussia perché gli ucraini ne avrebbero richiesto la presenza ai presunti “negoziati”, in funzione di aspirante mediatore. La figlia di Abramovich, Sofia si era già pronunciata contro la guerra di Putin, come del resto anche la figlia di Dmitry Peskov, il portavoce del Cremlino.
La ventisettenne Sofia Abramovich aveva scritto su Instagram: «Lui (Putin) vuole la guerra con l'Ucraina, non i russi, la bugia più grande e di maggior successo della propaganda del Cremlino è che la maggior parte dei russi sta dalla parte di Putin». Poco dopo è arrivata per una riscrittura: «La Russia vuole la guerra con l'Ucraina», una versione molto più soft. Paura delle sanzioni, ma anche paura di Putin, ancora.
Da dove arriva questo “pacifismo” nell’élite russa? Più che dalla lettura delle opere del mahatma Gandhi, dal terrore di perdere gli stili di vita di quell’Occidente contro il quale il regime dei loro padri tuona, e ha fatto spesso fortuna? Le sanzioni hanno del resto iniziato a colpire appunti i “figli di": Biden ha emesso sanzioni dirette sugli asset e divieti di viaggio ai figli di Nikolaj Patrushev (il capo di tutti i servizi segreti russi), di Sergei Ivanov (ex capo di staff del Cremlino) – il figlio è amministratore delegato della compagnia statale russa di estrazione di diamanti Alrosa e membro del consiglio di Gazprombank –, al figlio di Igor Sechin, boss di Rosneft.
Sechin ossia l’uomo che quasi tutti gli ultimi anni è stato ospite d’onore del forum italo-russo di Verona organizzato da “Conoscere Eurasia”, l’associazione di Antonio Fallico, l’uomo che guida Banca Intesa Russia. Sechin è già dal 2014 sotto sanzioni americane e travel ban americano. L’Occidente avrebbe già dovuto stabilire un cordone attorno a lui, senza aspettare le bombe a Kiev?
Grazie a mappe e foto satellitari, è anche diventato più difficile per gli oligarchi nascondere i propri yacht, ma anche i jet privati. Il solo Abramovich possiede sei jet privati, come del resto Deripaska. Alisher Usmanov (presenza fissa in Italia) ne ha tre. Vagit Alekperov (Lukoil) ne ha quattro.
Vladimir Potanin ne ha due. Sappiamo tutto di questi aerei, come sono targati, dove vanno, dove atterrano. Uno dei sei jet di Abramovich è atterrato ieri sera vicino a Riga, in Lettonia. Vivono in occidente, si muovono in occidente, fanno bella vita da noi. Ma non possono più tanto nascondersi o celarsi, come i burocrati dell’èra sovietica. Vediamo molto, quasi tutto, di loro.
Certo, non bisogna illudersi su una loro resipiscenza. Ma una collaborazione forzata al regime change a Mosca diventerà forse possibile? Certo, uno come Mikhail Fridman è un personaggio particolare: «Sono nato nell'Ucraina occidentale e ho vissuto lì fino all'età di 17 anni. I miei genitori sono cittadini ucraini e vivono a Leopoli, la mia città preferita. Ma ho anche trascorso gran parte della mia vita come cittadino russo, costruendo e facendo crescere imprese. Sono profondamente legato ai popoli ucraino e russo e vedo l'attuale conflitto come una tragedia per entrambi».
Ma sembra che qualcosa si stia muovendo, tra i miliardari russi legati al Cremlino. Quasi certamente è solo la paura. Ma è la paura che spesso motiva le azioni e le ribellioni, dettate dal puro interesse e istinto di salvezza.
Oleg Deripaska, l'oligarca che guida la fronda contro Vladimir Putin: chi è l'uomo dei resort (in cui lo Zar andava a sciare). Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.
In questi giorni in Russia il tono dei siti degli organismi e dei media governativi russi è cambiato, da trionfante a preoccupato. La polizia russa arresta migliaia di persone che scendono in piazza contro la guerra ogni giorno e ai piani alti del regime sono tanti i volti perplessi per la strategia adottata da Putin in Ucraina. "Lo scontento forse più sorprendente è l'oligarca Oleg Deripaska, nei cui resort Putin era solito andare a sciare, e sui cui yacht facevano le crociere i responsabili della politica estera russa", scrive la Stampa. "Non riusciremo a resistere stringendo i denti, come nel 2014", avverte Deripaska.
L'oligarca è preoccupato per il tasso della Banca centrale balzato al 20%, quello dei mutui ipotecari salito al 15%, demolendo il mercato immobiliare e per il rublo in caduta libera. Dai bancomat russi sono stati prelevati trilioni di rubli, ma non si trovano dollari ed euro, mentre "la forbice del prezzo di vendita e di acquisto di valute occidentali ha raggiunto il 50%: in altre parole, nessuno vende moneta forte in cambio di rubli che rischiano di diventare i soldi del Monopoli. Le sanzioni occidentali, e le contromisure di Mosca, stanno svuotando le tasche dei russi, oligarchi come ceto medio", sentenzia sempre la Stampa.
Per gli oligarchi è stato introdotto l'obbligo di vendere allo Stato l'80% della valuta incassata dalle esportazioni. Molti di loro ritengono si tratti di un sequestro forzato per sostenere quelle riserve che sembravano enormi in tempi di pace, ma potrebbero durare poco in tempo di guerra. Anche i figli dei fedelissimi del regime, come Ayshat Kadyrova, il cui padre Ramzan sta scagliando i guerrieglieri ceceni su Kiev, scrivono nei social “No alla guerra”. Secondo la stampa, "non è più la rivolta dell'intellighenzia dissidente, che tifa Alexey Navalny: sono i moderati, gli intellettuali organici, che si rendono conto del baratro che si sta spalancando". .
Russia, gelo e terrore della banchiera di Mosca: come reagisce di fronte a Putin. Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.
Le sanzioni che l'Occidente sta imponendo a Putin e alla Russia stanno creando non pochi problemi al Paese, che adesso si trova ad affrontare una vera e propria crisi finanziaria. Non è la prima volta che Elvira Nabiullina, governatrice della Banca centrale russa, è costretta ad affrontare problemi del genere. Questa volta però è diverso: le durissime sanzioni contro Mosca - come spiega il Corriere della Sera - prevedono la paralisi della banca centrale, oltre al bando di un certo numero di istituti di credito dal sistema di pagamenti internazionali Swift e la confisca dei beni degli oligarchi russi in Europa.
Il nervosismo della Nabiullina è venuto fuori in maniera evidente nel corso dell'ultima riunione sull’economia, convocata ieri da Putin. L'economista era scura in volto e spesso cercava di nascondersi nel dolcevita nero che indossava. A volte, invece, si tormentava la bocca con le mani. Nel corso della riunione, era seduta in fondo, accanto a Maxim Oreshkin, ex ministro dello Sviluppo economico e da gennaio 2020 consigliere economico di Putin. Mentre gli altri partecipanti guardavano spesso lo zar, lei invece non lo avrebbe mai fatto.
Questa situazione rischia di minare il suo prestigio e la sua reputazione come banchiera. Basti pensare che nel 2015 il mensile inglese Euromoney l’aveva nominata banchiera centrale dell’anno. E sotto la sua guida la Banca di Russia ha dato grandi risultati. Forbes invece l'aveva inserita, nel maggio 2014, tra le donne più potenti del mondo per aver gestito bene il cambio del rublo durante la prima crisi ucraina, finita poi con l’annessione russa della Crimea. Adesso invece è la catastrofe: il rublo crolla del 30% mentre i russi si mettono in fila davanti agli sportelli per ritirare contanti.
Dagospia l'1 marzo 2022. Da dailymail.co.uk.
Gli oligarchi stanno navigando con i loro yacht verso porti sicuri internazionali come le Maldive mentre l'Occidente inasprisce le sanzioni per l'invasione dell'Ucraina - come ha detto Boris Johnson: "Penso che il loro silenzio sia inspiegabile".
Uno yacht di lusso appartenente a un miliardario sanzionato dagli Stati Uniti ha raggiunto oggi le Maldive, secondo i funzionari, con altre barche di proprietà russa dirette nell'arcipelago dell'Oceano Indiano in cerca di un rifugio sicuro da possibili sequestri di beni.
Molteplici sanzioni internazionali sono state imposte alla Russia sulla scia dell'invasione della vicina Ucraina, aumentando la prospettiva della confisca degli yacht appartenenti ai suoi miliardari, molti dei quali sono vicini al presidente Vladimir Putin.
La Maldives Ports Limited, gestita dallo stato, ha confermato che l'imbarcazione da diporto Clio, titolare della registrazione 9312535 dell'Organizzazione marittima internazionale (IMO), ha gettato l'ancora vicino alla capitale Male lunedì.
La nave registrata alle Isole Cayman è di proprietà del magnate dell'alluminio Oleg Deripaska, che è stato sanzionato dagli Stati Uniti nel 2018. Un totale di 20.973 russi hanno visitato le Maldive a gennaio, il gruppo più numeroso, mentre gli ucraini erano sesti con 7.210.
Un rapporto della CNBC afferma che almeno altre due navi di proprietà di oligarchi russi si stavano dirigendo alle Maldive, che non hanno trattato di estradizione con gli Stati Uniti. Maldives Ports ha anche confermato ad AFP che il superyacht Titan, con il numero IMO 1010478 e di proprietà del magnate dell'acciaio Alexander Abramov, era ancorato a Male.
Oligarchi russi, lo strano caso dei loro yacht in Italia: terrorizzati, ma... cosa proprio non torna. Libero Quotidiano il 02 marzo 2022.
Gli oligarchi russi sono finiti nel mirino dell’Occidente, con le sanzioni che colpiscono duramente una lista sempre maggiore di persone vicine a Vladimir Putin. Da lunedì 29 febbraio altri 26 oligarchi sono stati inseriti nella “black list”: per loro scatta anche il congelamento dei beni, compresi quindi i super yacht ormeggiati in tutta Europa.
In totale sono cinque le imbarcazioni extra-lusso ormeggiate nei porti italiani: le più costose sono quelle di Gennady Timchenko (50 milioni, si trova a Sanremo) e di Alexey Mordashov (65 milioni, Imperia). In Liguria ci sono anche altri due yacht riconducibili ad oligarchi russi: uno è di Vladimir Potanin e l’altro di Sulejman Kerimov. A Trieste è invece segnalata la presenza dell’imbarcazione di Andrey Melnochenko. Si tratta di cinque imprenditori tra i più ricchi del mondo e soprattutto molto vicini al leader del Cremlino.
Per il momento, però, non si hanno notizie di interventi da parte delle forze dell’ordine italiane, che in teoria dovrebbero sequestrare queste imbarcazioni. Da giorni i russi si stanno muovendo per salvare i loro yacht di lusso: lo stesso Vladimir Putin ha spostato la sua imbarcazione dalla Germania al porto di casa, e lo ha fatto ovviamente due settimane prima di invadere l’Ucraina.
JACOPO IACOBONI per la Stampa il 15 aprile 2022.
Pilatustrasse 53, Lucerna, Svizzera. Una delle più grandi reti offshore di società caraibiche in mano alla cerchia putiniana ha un piccolo nodo anche qui, dietro queste vetrate ad angolo accanto a una crêperie. Dentro, parquet, sgabelli, lettini per tatuaggi, pareti azzurre, lampade d'acciaio e pareti in mattoncini. Elegante, contenuto. Nessuno penserebbe a oligarchi russi e Putin. E invece.
Tre miliardi di dollari sono stati spostati in tre anni in un giro di società offshore connesse a Suleiman Kerimov, uno degli oligarchi più vicini alla cerchia di Putin, e in passato già collegato alle reti che sono ritenute parte della ricchezza personale del presidente russo. Ma nei satelliti di questa storia - se immaginiamo che Putin sia al centro di questo sistema solare - entra anche un tatuatore di origini italiane e una società che ha spostato 300 milioni a società riconducibili a Kerimov.
È quanto emerge da una serie di documenti - messi a disposizione dal Consorzio ICIJ e alcuni media internazionali - i cosiddetti "Pandora Papers Russia", integrati con documenti bancari leakati nel 2020 nell'ambito dei Fincen Files. Secondo carte che hanno la data del 2016, Renato Coppo sarebbe stato il titolare di Fletcher Ventures - una società registrata nelle Isole Vergini britanniche, ma amministrata in Svizzera da Swiru Holding (di proprietà del consulente Alexander Studhalter).
Coppo è un artista del tatuaggio che dice nel curriculm online «la mia passione è l'arte asiatica», e non sembra poter possedere queste ricchezze. Fatto sta che una società intitolata al tatuatore è stata coinvolta in transazioni rilevantissime, segnalate come sospette dalla Bank of New York Mellon al Tesoro Usa.
Nel 2013 Fletcher trasferisce 100 milioni di dollari alla LT Trading Ltd. Il titolare effettivo di LT Trading, stando a documenti societari consultati da ICIJ, era il nipote di Kerimov, Nariman Gadzhiev (proprio come Fletcher Ventures, la società è stata amministrata in Svizzera da Swiru Holding). Un'altra transazione fu questa: nel 2013 Fletcher Ventures spostò 202 milioni di dollari a LLC Gilia a Mosca, società che aveva legami con una società d'investimento di Kerimov.
Studhalter, lo svizzero al centro di queste e tante altre operazioni, firmò una lettera in cui sosteneva che Coppo era il vero titolare di Fletcher.
Ma a ICIJ ha detto ora di averla firmata per errore, e che era lui il vero proprietario, Coppo solo «un dipendente». Coppo, quando i reporter del Consorzio e della Bbc sono andati a cercarlo per verificarne l'identità, ha risposto rimandandoli a Studhalter.
Il legame tra lo svizzero e Kerimov emerse nel 2016: furono indagati in Francia per riciclaggio ed evasione fiscale per l'acquisto di una mega villa (Villa Hier) a Cap d'Antibes nel 2016 (l'acquisto figurava per 27 milioni, la villa ne valeva almeno cento di più). In udienza il giudice - atti pubblici del tribunale francese - disse: «Il beneficiario effettivo ed esclusivo delle ville è il signor Kerimov e la sua famiglia». Studhalter negò tutto e disse di essere «l'unico titolare di queste proprietà, e Kerimov solo un inquilino di una delle ville, ma non ha mai avuto alcuna proprietà». Le accuse furono archiviate (con il pagamento di una multa di 1,4 milioni) dopo che il Cremlino intervenne esponendo addirittura Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, in favore di Kerimov. Dissero che Kerimov aveva copertura diplomatica. Per dire di quanto fosse importante non farlo cadere.
Nei Pandora Papers, ha scritto il Washington Post, è emerso un documento che descrive quasi 3 miliardi di dollari di prestiti tra il 2012 e il 2015 da una società delle Isole Vergini britanniche chiamata Fren Global Corp., riconducibile a Studhalter, a una società controllata dalla famiglia di Kerimov. Studhalter ha dichiarato che la sua firma era stata «alterata elettronicamente», e di aver venduto Fren a Nariman Gadzhiev, il nipote di Kerimov. Il quale ha confermato.
Un rappresentante dello svizzero ha anche dichiarato che «Studhalter non ha né creato né mantenuto società offshore per il signor Kerimov», Studhalter e Kerimov «hanno investito in progetti congiunti, e dalla cessazione delle attività del signor Studhalter in Russia nel 2017, tutte le sue società offshore sono state gradualmente liquidate e nessuna esiste oggi».
Kerimov, senatore fin dai primi anniDuemila, è oggi secondo Forbes il nono uomo più ricco di Russia. Ha una fortuna di 14,5 miliardi di dollari. L'ha fatta investendo in Gazprom e Sberbank e poi, nel 2012, prendendo Polyus, il più grande produttore russo di oro. Nel 2016 dai Panama Papers emerse che società legate a Kerimov avevano pagato 200 milioni di dollari a entità offshore legate a Sergei Roldugin, il celebre violoncellista e amico di famiglia di Putin (Roldugin rispose che erano donazioni di russi ricchi per comprare strumenti ai musicisti bisognosi). Nel 2018 Kerimov fu sanzionato dagli Usa.
Il 15 marzo scorso si sono aggiunti Regno Unito e Unione europea, che scrive: «Kerimov è un membro della cerchia ristretta degli oligarchi vicini a Putin». Una settimana fa Polyus ha comunicato che il maggiore azionista, il figlio di Kerimov, Said, ha venduto il suo 30 per cento della società, facendo scendere la famiglia al di sotto del 50 per cento nel tentativo di aggirare le sanzioni.
Proprio ieri, alle Fiji, gli Usa hanno sequestrato uno yacht che gli apparterrebbe, Amadea, 106 metri, valore 325 milioni di dollari. Kerimov possiede naturalmente - oltre alle case a Londra (una delle più grandi mansion con terrazzo della città, in Regent' s street) e in Francia - un altro yacht, Ice, che in questo momento attende la sua sorte, geolocalizzato ieri sera nel porto Genova. Quanto piace l'Italia agli oligarchi.
Jet privati dei miliardari russi, ecco dove volavano gli oligarchi: ora sono a Dubai e Abu Dhabi. Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.
Le rotte più affollate con i jet privati tra Russia ed Europa a gennaio 2022
Gli oligarchi russi volavano soprattutto in Svizzera, in Francia e nel Regno Unito, in particolare in questo periodo invernale, mentre nelle prossime settimane sarebbero stati attesi pure in Sardegna e in Sicilia. Destinazioni però ormai off limits per i loro jet (ed elicotteri) privati, mentre dentro la Commissione europea — stando a quanto apprende il Corriere da fonti di Bruxelles — c’è chi si chiede se non sia il caso di prendere una misura simile anche per i loro yacht ormeggiati nei porti Ue o in circolazione nel Mediterraneo.
I numeri
Nell’ultimo mese tra Mosca-San Pietroburgo ed Europa si sono registrati circa 1.200 voli privati, cioè una quarantina al giorno di media, al netto dei collegamenti dentro l’Ue degli stessi miliardari russi. Incrociando i database specializzati il Corriere calcola che in Europa ci sono in attività almeno 47 jet privati di proprietà diretta di 21 oligarchi. Nelle ultime ore diversi di questi velivoli — compresi quelli di Roman Abramovich — sono stati spostati fuori da Mosca, verso gli Emirati Arabi Uniti, Israele, la Germania, la Lettonia, la Svizzera.
Gli approdi «sicuri»
Non è chiaro, in questo momento, se a bordo ci siano stati anche i famigliari dei miliardari o se si è trattato soltanto di una mossa per mettere in salvo i propri velivoli e qualche effetto personale. Così come è impossibile tracciare gli spostamenti di tutti i ricchi russi dal momento che alcuni preferiscono farlo noleggiando jet di proprietà di società specializzate, senza comprarli direttamente loro. Quello che, però, sta emergendo, è che in questi giorni Dubai, Abu Dhabi e Tel Aviv si stanno rivelando degli approdi sicuri per loro.
Le rotte più frequentate
Nel gennaio 2022, stando ai documenti raccolti, ci sono stati circa 1.200 voli tra Russia ed Europa: 530 di questi — una media di 17 ogni ventiquattro ore — risultano concentrati su sette direttrici che vedono un unico aeroporti russo di riferimento (Mosca Vnukovo) e collegamenti frequenti con Ginevra (122 voli), Chambery-Savoia (98), Nizza (87), Riga, Zurigo, Londra Luton, Belgrado.
Nell’ultimo mese
Per quanto riguarda febbraio secondo il database specializzato WingX ci sono stati 2.181 voli privati in Russia: il 61% ha riguardato tratte internazionali, il 39% interne. Tra questi ci sono anche gli spostamenti del Boeing 787-8 di Roman Abramovich, uno dei suoi cinque velivoli privati (oltre a un elicottero) che ha un valore di listino di circa 250 milioni di dollari, al netto dell’installazione degli optional interni.
Invasione in Ucraina, da Sechin a Mordaschov: tutti gli oligarchi finiti nella rete delle sanzioni Ue. La Repubblica l'1 marzo 2022.
Ci sono petrolieri e industriali dell'acciaio, fondatori di gruppi bancari e finanziari. Ma anche il portavoce di Putin, attori e giornalisti della sua propaganda. E il violoncellista con cinque società offshore. Draghi rilancia: "Creare un registro internazionale per chi ha più di 10 milioni". Ecco i nomi e le motivazioni per il bando di Bruxelles
Pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea e operativo da oggi il provvedimento che sanziona altri 26 oligarchi russi, tra cui i vertici delle principali società energetiche del Paese, ma anche giornalisti attivi nella propaganda del Cremlino e soggetti (c'è anche il violoncellista Roldugin, con le sue cinque società offshore, e il portavoce del Cremlino) vicini al presidente Putin. Diventano così 680 in totale, con 53 società e istituzioni, le persone colpite dalle sanzioni Ue. Per loro scatta il congelamento dei beni e il divieto di entrare o transitare per il territorio dei Paesi Ue. Presto, per altro, potrebbe arrivare una nuova stretta: il premier Draghi ha spiegato in Senato che "L'Italia è pronta a ulteriori misure restrittive, ove fossero necessarie. In particolare, ho proposto di prendere ulteriori misure mirate contro gli oligarchi". Una proposta è già sul tavolo: "L'ipotesi è quella di creare un registro internazionale pubblico di quelli con un patrimonio superiore ai 10 milioni di euro", ha detto il presidente del Consiglio, oltre a indicare di "intensificare ulteriormente la pressione sulla Banca centrale russa e di chiedere alla Banca dei Regolamenti Internazionali, che ha sede in Svizzera, di partecipare alle sanzioni".
Ecco i nomi, il ruolo e le motivazioni messe nere su bianco dal Consiglio Ue che ha fatto scattare il bando.
Igor Ivanovich SECHIN
Ad di Rosneft, amico personale di Putin
Igor Sechin è amministratore delegato di Rosneft, compagnia petrolifera dello Stato russo e uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio greggio. È uno dei consiglieri più fidati e più stretti di Vladimir Putin, nonché suo amico personale. È stato in contatto con il presidente russo quotidianamente. È considerato uno dei membri più potenti dell'élite politica russa. I suoi legami con Vladimir Putin sono di lunga data e profondi. Ha lavorato con il presidente presso l'ufficio del sindaco di San Pietroburgo negli anni 1990 e sin da allora ha dimostrato la sua fedeltà. Nel 1999 Sechin è diventato vice capo dell'amministrazione di Vladimir Putin, nel 2008 vice primo ministro e nel 2012 amministratore delegato di Rosneft. È uno degli oligarchi russi che operano in partenariato con lo Stato russo. È tra le persone della cerchia di Putin che ricevono profitti finanziari e importanti incarichi in cambio di subordinazione e fedeltà. È stato incaricato dal presidente di svolgere compiti importanti e difficili ed è stato ricompensato con la guida di Rosneft e con grandi ricchezze. La Rosneft di Igor Sechin è stata coinvolta nel finanziamento dei vigneti del complesso del palazzo vicino a Gelendzhik, che si ritiene sia utilizzato personalmente dal presidente Putin.
Ha pertanto attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina e ha tratto vantaggio dagli stessi. Inoltre, Rosneft Aero, una controllata di Rosneft, di cui Sechin è amministratore delegato, fornisce carburante avio all'aeroporto di Sinferopoli, che fornisce collegamenti aerei tra il territorio della Crimea illegalmente annessa e Sebastopoli e la Russia. Sostiene pertanto il consolidamento dell'annessione illegale della penisola di Crimea alla Federazione russa, il che a sua volta compromette ulteriormente l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina.
Nikolay Petrovich TOKAREV
Ad Transneft, ha servito con Putin al Kgb negli anni Ottanta
Nikolay Tokarev è amministratore delegato di Transneft, una delle principali società russe nel settore del petrolio e del gas. È una conoscenza di vecchia data di Vladimir Putin e suo stretto collaboratore. Ha servito insieme a Putin nel KGB negli anni 1980. Tokarev è uno degli oligarchi dello Stato russo che negli anni 2000 hanno assunto il controllo delle grandi attività statali mentre il presidente Putin consolidava il suo potere, e che operano in stretto partenariato con lo Stato russo. Tokarev è stato responsabile di Transneft, una delle più importanti società russe controllate dal governo, che trasporta una notevole quantità di petrolio russo attraverso una rete di oleodotti ben sviluppata. La Transneft di Nikolay Tokarev è uno dei principali sponsor del complesso del palazzo vicino a Gelendzhik, che si ritiene ampiamente sia utilizzato personalmente dal presidente Putin. Trae vantaggio dalla sua vicinanza alle autorità russe. Parenti stretti e conoscenti di Tokarev si sono arricchiti grazie ai contratti firmati con le società di proprietà statale. Ha pertanto attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina e ha tratto vantaggio dagli stessi.
Alisher USMANOV
Oligarca con molti interessi finanziari, principalmente acciaio. Ha un patrimonio di 19,7 miliardi di dollari (Bloomberg Billionaires Index)
Alisher Usmanov è un oligarca pro-Cremlino che ha legami particolarmente stretti con il presidente russo Vladimir Putin. È stato indicato come uno degli oligarchi. favoriti di Vladimir Putin. È considerato uno dei funzionari-uomini d'affari russi che sono stati incaricati di gestire i flussi finanziari, ma la loro posizione dipende dalla volontà del presidente. Usmanov sarebbe stato referente del presidente Putin e avrebbe risolto i suoi problemi d'affari. Secondo i fascicoli FinCEN ha pagato 6 milioni di dollari all'influente consigliere di Vladimir Putin Valentin Yumashev. Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia ed ex presidente e primo ministro della Russia, ha beneficiato dell'uso personale delle residenze di lusso controllate da Usmanov. Ha pertanto attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina. Usmanov ha interessi in società nei settori del minerale di ferro e dell'acciaio, dei media e di internet. La sua principale holding è il gigante dell'acciaio Metalloinvest. Quando Usmanov ha assunto il controllo del quotidiano d'affari Kommersant la libertà della redazione è stata limitata e il giornale ha assunto una posizione manifestamente favorevole al Cremlino. Il giornale Kommersant di proprietà di Usmanov ha pubblicato un articolo propagandistico anti-ucraino di Dmitry Medvedev, in cui l'ex presidente russo sosteneva che era inutile avviare colloqui con le autorità ucraine in carica, che a suo parere erano sotto il controllo diretto dell'estero. Ha pertanto attivamente sostenuto le politiche di destabilizzazione dell'Ucraina del governo russo.
Petr Olegovich AVEN
Oligarca vicino a Putin. Uno dei principali azionisti di Alfa Group
Petr Aven è tra gli oligarchi più vicini a Vladimir Putin. È un importante azionista di Alfa Group, che comprende una delle principali banche russe, Alfa Bank. Rientra tra i circa 50 ricchi uomini d'affari russi che incontrano regolarmente Vladimir Putin al Cremlino. Non opera indipendentemente dalle richieste del presidente. La sua amicizia con Vladimir Putin risale ai primi anni 1990. Quando era ministro delle Relazioni economiche con l'estero, e successivamente in qualità di vicesindaco di San Pietroburgo, ha aiutato Vladimir Putin in relazione all'indagine della commissione Sal'ye. È noto anche per le sue relazioni personali particolarmente strette con il capo di Rosneft Igor Sechin, un alleato fondamentale di Putin. La figlia maggiore di Vladimir Putin, Maria, ha gestito un progetto di beneficenza, Alfa-Endo, finanziato da Alfa Bank. Il sig. Aven ha beneficiato dei suoi legami con il governo. Ha scritto una lettera a Vladimir Putin in cui lamentava la decisione della Corte arbitrale di Mosca nella causa giudiziaria concernente gli interessi di una delle sue società. Vladimir Putin ha incaricato il procuratore generale della Russia di indagare sulla questione. Vladimir Putin ha ricompensato Alfa Group per la sua fedeltà alle autorità russe fornendo assistenza a livello politico ai piani di investimento esteri di Alfa Group. Il sig. Aven e il suo partner commerciale Mikhail Fridman hanno partecipato agli sforzi del Cremlino per far revocare le sanzioni occidentali irrogate in risposta alla politica aggressiva russa nei confronti dell'Ucraina. Nel 2016 Vladimir Putin ha messo in guardia il sig. Aven circa la possibilità di ulteriori sanzioni da parte degli Stati Uniti nei confronti di Aven e/o di Alfa Bank e gli ha suggerito di adottare misure per proteggere sé stesso e Alfa Bank, suggerimento seguito dal sig. Aven. Nel 2018 il sig. Aven si è recato in visita, insieme al sig. Fridman, a Washington D.C. in una missione non ufficiale per trasmettere il messaggio del governo russo sulle sanzioni degli Stati Uniti e sulle controsanzioni della Federazione russa. Ha pertanto attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina e ha tratto vantaggio dagli stessi. Ha inoltre sostenuto azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina.
Mikhail Maratovich FRIDMAN
Fondatore e azionista di Alfa Group, conglomerata finanziaria che ha una delle principali banche russe. Ha un patrimonio di 10,6 miliardi di dollari
Mikhail Fridman è il fondatore e uno dei principali azionisti di Alfa Group, che comprende la principale banca russa, Alfa Bank. È riuscito a coltivare forti legami con l'amministrazione di Vladimir Putin ed è stato definito uno dei principali finanziatori e facilitatori russi della cerchia ristretta di Putin. Grazie ai suoi legami con il governo è riuscito ad acquisire attività statali. La figlia maggiore di Vladimir Putin, Maria, ha gestito un progetto di beneficenza, Alfa-Endo, finanziato da Alfa Bank. Vladimir Putin ha ricompensato Alfa Group per la sua fedeltà alle autorità russe fornendo assistenza a livello politico ai piani di investimento esteri di Alfa Group. Il sig. Fridman e il suo partner commerciale Petr Aven hanno partecipato agli sforzi del Cremlino per far revocare le sanzioni occidentali irrogate in risposta alla politica aggressiva russa nei confronti dell'Ucraina. Nel 2018 il sig. Fridman si è recato in visita, insieme al sig. Aven, a Washington D.C. in una missione non ufficiale per trasmettere il messaggio del governo russo sulle sanzioni degli Stati Uniti e sulle controsanzioni della Federazione russa. Ha pertanto attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina e ha tratto vantaggio dagli stessi. Ha inoltre sostenuto azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina.
Sergei Pavlovich ROLDUGIN
Violoncellista. Uomo d'affari, amico stretto di Putin
Il sig. Roldugin è un uomo d'affari che ha legami stretti con Vladimir Putin. Fa parte del sistema finanziario di rete di Putin. Possiede almeno cinque entità offshore e detiene le sue attività presso Bank Rossiya (oggetto di sanzioni dell'Unione), nota a Mosca come il "portafoglio di Putin". Secondo l'inchiesta condotta dal consorzio internazionale dei giornalisti d'inchiesta, il sig. Roldugin è responsabile di aver "trasferito" almeno due miliardi di USD attraverso banche e società offshore nel quadro della rete finanziaria segreta di Putin. Ha partecipato anche al "Troika Laundromat" e ha convogliato miliardi di USD attraverso il sistema. Ha inoltre ricevuto più di 69 milioni di USD attraverso società nel quadro del "Troika Laundromat". È pertanto responsabile di sostenere attivamente, materialmente o finanziariamente, i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina.
Dmitry Sergeyevich PESKOV
Addetto stampa di Putin
Dmitri Peskov è l'addetto stampa del presidente Putin. Ha difeso pubblicamente la politica aggressiva della Russia nei confronti dell'Ucraina, compresa l'annessione illegale della Crimea e di Sebastopoli da parte della Federazione russa. In numerose dichiarazioni ha sottolineato che il territorio della Crimea e di Sebastopoli fa parte integrante della Russia e che la ripresa dello stesso da parte dell'Ucraina non è realizzabile. Ha definito le azioni ucraine volte a porre fine all'occupazione russa della penisola di Crimea una rivendicazione territoriale contro la Russia. Ha giudicato impossibili i negoziati con le autorità ucraine, sottolineando che queste ultime non sono considerate un partner dalla parte russa. Ha dichiarato, contro ogni evidenza, che non vi erano truppe russe nel Donbass. Ha inoltre trasmesso il messaggio che le sanzioni occidentali non hanno alcun effetto sulla Russia. Ha minacciato l'irrogazione di controsanzioni da parte della Russia. Pertanto ha sostenuto attivamente azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Dmitry Nikolaevich CHERNYSHENKO
Vice primo ministro della Russia incaricato dello sport, del turismo, della cultura e delle comunicazioni; è nel cda delle ferrovie russe
Dmitry Chernyshenko è vice primo ministro della Russia incaricato dello sport, del turismo, della cultura e delle comunicazioni e membro del consiglio di amministrazione delle ferrovie russe, nominato a tale carica dal governo della Federazione russa. Dall'ottobre 2021 la Russia ha preceduto a un incremento di forze militari senza precedenti alla frontiera ucraina o nelle vicinanze e all'interno della regione di Crimea occupata dell'Ucraina. Le forze armate russe vi hanno condotto esercitazioni militari di massa. Ciò ha condotto all'escalation del conflitto ed esercitato pressioni destabilizzanti sull'Ucraina. Sia il personale militare che il materiale militare delle forze armate russe sono stati trasportati nelle zone vicino alla frontiera ucraina dalle ferrovie russe del cui consiglio di amministrazione il sig. Chernyshenko è membro. Il 24 febbraio 2022la Russia ha avviato un'aggressione militare nei confronti dell'Ucraina su vasta scala. Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Irek Envarovich FAIZULLIN
Membro del cda delle ferrovie russe; ministro dell'Edilizia e delle politiche abitative della Federazione russa
Il sig. Irek Faizullin è ministro dell'Edilizia e delle politiche abitative della Russia e membro del consiglio di amministrazione delle ferrovie russe, nominato a tale carica dal governo della Federazione russa. Nell'ottobre 2021 la Russia ha avviato un incremento senza precedenti delle forze militari al confine ucraino o nelle vicinanze e all'interno della regione di Crimea occupata dell'Ucraina. Le forze armate russe vi hanno condotto esercitazioni militari di massa. Ciò ha condotto all'escalation del conflitto ed esercitato pressioni destabilizzanti sull'Ucraina. Sia il personale militare che il materiale militare delle forze armate russe sono stati trasportati nelle zone vicino alla frontiera ucraina dalle ferrovie russe del cui consiglio di amministrazione il sig. Faizullin è membro. Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Vitaly Gennadyevich SAVELYEV
Membro del cda delle ferrovie russe; ministro dei Trasporti della Russia dal 2020, ex ad dell'Aeroflot
Vitaly Savelyev è ministro dei Trasporti della Federazione russa e membro del consiglio di amministrazione delle ferrovie russe, nominato a questo incarico dal governo della Federazione russa. È l'ex amministratore delegato dell'Aeroflot. Nell'ottobre 2021 la Russia ha avviato un incremento senza precedenti delle forze militari al confine ucraino o nelle vicinanze e all'interno della regione di Crimea occupata dell'Ucraina. Le forze armate russe vi hanno condotto esercitazioni militari di massa. Ciò ha condotto all'escalation del conflitto ed esercitato pressioni destabilizzanti sull'Ucraina. Sia il personale militare che il materiale militare delle forze armate russe sono stati trasportati nelle zone vicino alla frontiera ucraina dalle ferrovie russe del cui consiglio di amministrazione il sig. Savelyev è membro. Inoltre, l'Aeroflot sotto la guida del sig. Savelyev ha fornito regolare trasporto aereo di passeggeri tra gli aeroporti russi e l'aeroporto internazionale di Sinferopoli, e pertanto ha sostenuto il consolidamento della penisola di Crimea annessa illegalmente nella Federazione russa, il che in compenso ha ulteriormente compromesso l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina.
Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Andrey Anatolyevich TURCHAK
Segretario del Consiglio generale del partito Russia unita; primo vice presidente del Consiglio federale
Andrey Turchak è segretario del Consiglio generale del partito Russia unita e primo vice presidente del Consiglio federale. Il suo successo politico è associato a suo padre, Anatoly Turchak, che ha praticato judo con Vladimir Putin e i fratelli Rotenberg. Ha promosso un atteggiamento positivo al riconoscimento delle cosiddette "Repubbliche popolari" separatiste di Donetsk e Luhansk.
Ha esortato le autorità russe a fornire armamenti avanzati alle forze separatiste filorusse nella regione del Donbas. Ha dichiarato pubblicamente che era impossibile risolvere il conflitto nel Donbas in modo pacifico con le autorità ucraine. Ha espresso affermazioni infondate circa un'offensiva militare ucraina pianificata nel Donbas. Ha guidato i negoziati con Denis Pushilin, capo della cosiddetta "Repubblica popolare" separatista "di Donetsk". Ha visitato un punto di mobilitazione delle forze armate separatiste nella zona di prima linea del Donbas per congratularsi personalmente con i soldati della cosiddetta "Repubblica popolare" separatista "di Donetsk" il giorno della festa nazionale ("Defender of the Fatherland Day"). Ha difeso pubblicamente la decisione della Russia di riconoscere le "repubbliche" separatiste del Donbas. Ha dichiarato che la Russia è indifferente alle sanzioni occidentali. Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Tigran Edmondovich KEOSAYAN
Attore e regista, ospite dello show televisivo di propaganda sugli affari politici "International Sawmill with Tigran Keosayan" sul canale NTV
Il sig. Tigran Keosayan è un regista e giornalista che ha diffuso propaganda anti-ucraina nei media russi. Nel suo show televisivo finanziato dallo Stato "International Sawmill with Tigran Keosayan" (segheria internazionale con Tigran Keosayan), ha costantemente ritratto l'Ucraina come un paese debole e corrotto, che si manteneva solo grazie all'aiuto occidentale. Ha suggerito che le autorità ucraine non erano legittime. Ha ripetutamente dichiarato che la Crimea apparteneva alla Russia e che il Donbas non faceva parte dell'Ucraina. Il sig. Keosayan ha partecipato al forum "Donbas russo" che è stato organizzato dalle autorità della cosiddetta "Repubblica popolare di Donetsk" nel Donetsk con lo scopo di diffondere la dottrina del "Donbas russo". Ha pubblicamente accusato l'Ucraina dell'escalation del conflitto.
Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina. Lo show televisivo "International Sawmill with Tigran Keosayan" ha ricevuto finanziamenti da società russe di proprietà dello Stato, il che non era giustificato per motivi commerciali, ma era concesso come ricompensa al sig. Keosayan per i suoi sforzi propagandistici e per la sua lealtà a Vladimir Putin. Il sig. Keosayan ha diretto un film di propaganda "The Crimean Bridge. Made with Love!" (Il ponte di Crimea. Fatto con amore!) che ha celebrato il ponte di Crimea che collega il territorio della penisola di Crimea annessa illegalmente con la Russia. Si dice che il film sia stato concepito come dono per il presidente Putin. Alexei Gromov, primo vice capo dell'amministrazione presidenziale, ha contribuito a garantire al film finanziamenti statali, grazie ai quali il sig. Keosayan ha ottenuto un profitto finanziario. Pertanto ha tratto vantaggio dai decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina.
Olga Vladimirovna SKABEYEVA
Cofondatrice e caporedattrice del portale REGNUM; giornalista della stazione televisiva di proprietà dello Stato Rossiya-1, conduce il talk- show politico più popolare in Russia, "60 minuti" (insieme al marito Yevgeniy Popov)
Olga Skabeyeva è una giornalista della stazione televisiva di proprietà dello Stato Rossiya-1. Insieme al marito Yevgeniy Popov, ospita il talk-show politico più popolare in Russia, "60 minuti", dove ha diffuso la propaganda anti-ucraina, e promosso un atteggiamento positivo all'annessione della Crimea e alle azioni dei separatisti nel Donbas. Nel suo show televisivo ha ripetutamente ritratto la situazione in Ucraina in modo parziale, dipingendo il paese come uno Stato artificiale, sostenuto sia militarmente che finanziariamente dall'Occidente e pertanto - un satellite dell'Occidente e uno strumento nelle mani della NATO. Ha inoltre sminuito il ruolo dell'Ucraina a un'"anti-Russia moderna". Inoltre, ha frequentemente invitato ospiti come il sig. Eduard Basurin, addetto stampa del comando militare della cosiddetta "Repubblica popolare di Donetsk" e il sig. Denis Pushilin, capo della cosiddetta "Repubblica popolare di Donetsk". Ha espulso un ospite che non rispettava le linee narrative della propaganda russa, in quanto ideologia "mondiale russa". La sig.ra Skabeyeva sembra essere consapevole del suo ruolo cinico nella macchina della propaganda russa, insieme al marito. Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Alexander PONOMARENKO
Oligarca, presidente del consiglio di amministrazione dell'aeroporto internazionale di Sheremetyevo
Alexander Ponomarenko è un oligarca russo, presidente del consiglio di amministrazione dell'aeroporto internazionale di Sheremetyevo. Il sig. Ponomarenko ha stretti legami con altri oligarchi associati a Vladimir Putin, nonché con Sergey Aksyonov, leader della cosiddetta "Repubblica di Crimea" nel territorio della penisola di Crimea annessa illegalmente. È stato coinvolto nel finanziamento del complesso del palazzo vicino a Gelendzhik, che si ritiene sia utilizzato personalmente dal presidente Putin. Ha pertanto attivamente sostenuto materialmente o finanziariamente i decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina.
Modest Alexeyevich KOLEROV
Cofondatore e caporedattore del portale REGNUM, specializzato nell'area post-sovietica; dal 2005 al 2007 ha lavorato presso l'amministrazione presidenziale
Modest Kolerov è cofondatore e caporedattore del portale REGNUM, di cui si è avvalso per diffondere una narrazione propagandistica aggressiva e parziale contro l'Ucraina e per promuovere un atteggiamento positivo nei confronti dell'annessione della Crimea e delle azioni dei separatisti nel Donbas. Ha spesso raffigurato l'Ucraina come un paese fascista o neo-nazista e come una marionetta filo-occidentale. Ha affermato che l'Ucraina è stata creata artificialmente da Lenin e Stalin. Secondo le sue pubblicazioni, l'Ucraina deve la propria indipendenza alla Russia e, pertanto, non merita il diritto di essere uno Stato sovrano. Ha inoltre suggerito che la Russia ponga fine all'esistenza dell'Ucraina.
Inoltre, ha proposto di dividere l'Ucraina tra i suoi vicini, sostenendo che un'Ucraina indipendente costituirebbe una minaccia per la Russia. Ha attivamente sostenuto il riconoscimento della cosiddetta "Repubblica popolare di Donetsk" e della cosiddetta "Repubblica popolare di Luhansk" nonché ulteriori azioni russe a favore dei separatisti nell'Ucraina orientale. Ha negato le prove del sostegno militare russo ai separatisti e raffigurato la missione dell'OSCE in Ucraina orientale come di parte e subordinata a Kiev. Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina, e di ostacolare l'operato delle organizzazioni internazionali in Ucraina.
Roman Georgievich BABAYAN
Giornalista, conduttore della trasmissione televisiva "Own Truth" (La propria verità) sul canale NTV e di "Right of Voice" (Diritto di opinione) su TV Cent. È inoltre caporedattore della radio "Qui Mosca". È altresì membro della Duma della Città di Mosca.
Il sig. Roman Babayan è giornalista e membro della Duma della Città di Mosca. Conduce la trasmissione televisiva "Own Truth" (La propria verità) sul canale NTV e la trasmissione "Right of Voice" (Diritto di opinione) su TV Cent. È inoltre caporedattore della radio "Qui Mosca". Ha diffuso una propaganda anti-ucraina e promosso un atteggiamento positivo nei confronti delle azioni dei separatisti nel Donbas.
In un'intervista rilasciata per Ukraina.ru ha affermato chiaramente che ogni abitante del Donbas preferirebbe che la regione si unisse alla Russia, e ha messo in discussione il diritto dell'Ucraina sui propri territori. Inoltre, ha accusato le autorità ucraine di persecuzioni basate sulla nazionalità nel Donbas e di un genocidio de facto, affermando che gli ucraini avevano ucciso bambini e anziani nel Donbas. Ha inoltre sostenuto la narrazione russa sul "regime fascista" in Ucraina. A tal fine ha presentato una registrazione sfocata di soldati che portavano la bandiera navale della Germania nazista, descrivendolo come ucraini. Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Yevgeniy Nikolaevich PRILEPIN
Giornalista, scrittore, copresidente del partito "Una Russia giusta - Patrioti - Per la verità", attivista.
Il sig. Prilepin è un attivista russo, giornalista, scrittore e copresidente del partito "Una Russia giusta - Patrioti - Per la verità". Ha espresso pubblicamente il proprio sostegno ai separatisti russi in Crimea e nel Donbas. Ha inviato aiuti a Donetsk e fornito consulenza ai leader separatisti. Ha partecipato al conflitto nel Donbas dalla parte dei separatisti, in veste di vicecomandante di uno dei battaglioni separatisti, e ha descritto nel dettaglio il suo coinvolgimento. Ha inoltre utilizzato la propria fama e reputazione come famoso scrittore per diffondere una propaganda anti-ucraina e per promuovere un atteggiamento positivo nei confronti dell'annessione della Crimea e delle azioni dei separatisti nel Donbas. Il sig. Prilepin ha raffigurato le autorità ucraine come corrotte, incolpandole dell'escalation del conflitto, ha definito Kiev una città russa e affermato che il fine ultimo della Russia dovrebbe essere quello di conquistare Kiev. Ha partecipato al film documentario propagandistico russo "Crimea: The Way Home" (Crimea: Verso casa), in cui si glorifica l'annessione illegale della penisola di Crimea da parte della Russia.
Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Anton Vyacheslavovich KRASOVSKY
Attivista, giornalista, propagandista, conduttore di un talk show dal titolo "Gli antonimi" su RT, il canale televisivo russo finanziato dallo Stato.
Il sig. Anton Krasovsky è un giornalista, che conduce il talk show "Gli antonimi" su RT, il canale televisivo russo finanziato dallo Stato. Ha diffuso propaganda anti-ucraina. Ha definito l'Ucraina una terra russa e denigrato gli ucraini come nazione. Ha inoltre minacciato l'Ucraina di un'invasione russa qualora si fosse avvicinata l'adesione dell'Ucraina alla NATO. Ha avvertito che, come conseguenza di tale azione, la Costituzione dell'Ucraina sarebbe stata "portata via" e "bruciata sulla Khreshchatyk". Inoltre, ha suggerito che l'Ucraina aderisca alla Russia.
Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Arkady Viktorovich MAMONTOV
Giornalista e presentatore televisivo, conduttore della trasmissione televisiva "Programma d'autore di Arkady Mamontov" sul canale televisivo Rossiya-1, autore di film documentari.
Il sig. Arkady Mamontov conduce la trasmissione televisiva "Programma d'autore di Arkady Mamontov" ed è autore di film documentari per la TV russa. Ha diffuso propaganda anti-ucraina. Ha diretto un film di propaganda a sostegno dell'annessione illegale della Crimea e di Sebastopoli, in cui ha raffigurato il governo ucraino precedente all'annessione illegale come caotico e pieno di anarchia. Nei suoi film ha raffigurato l'Ucraina come un centro di sentimenti neonazisti, fascisti, nazionalisti e anti-russi. Ha esagerato il ruolo delle organizzazioni di estrema destra in Ucraina. Ha accusato l'Ucraina di politiche discriminatorie nei confronti della cultura e della lingua russa in Ucraina. Ha compromesso la credibilità e la legittimità delle autorità ucraine indicando Euromaidan come un colpo di Stato ispirato dall'estero e il governo ucraino come dipendente dagli Stati Uniti d'America. Pertanto, è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Sergei Mikhailovich PINCHUK
Viceammiraglio, primo vicecomandante in capo della flotta del Mar Nero
Sergey Pinchuk è viceammiraglio e primo vicecomandante in capo della flotta del Mar Nero, subordinata al distretto militare meridionale delle forze armate russe, ed è stato coinvolto in azioni militari contro l'Ucraina. Dalla metà di ottobre 2021 le forze militari russe hanno preceduto a un incremento di forze militari senza precedenti alla frontiera ucraina o nelle vicinanze e all'interno della regione di Crimea occupata dell'Ucraina. A tale riguardo molti osservatori e responsabili politici hanno espresso preoccupazione in merito a un'eventuale nuova invasione russa dell'Ucraina o ad altre azioni aggressive. Forze della flotta del Mar Nero hanno partecipato a esercitazioni militari di massa vicino alle frontiere ucraine e al loro interno. nell'elencoA seguito della decisione di Vladimir Putin di riconoscere le cosiddette "Repubblica popolare di Donetsk" e "Repubblica popolare di Luhansk", soldati del distretto militare meridionale sono entrati nel territorio delle due autoproclamate repubbliche. Quando il 24 febbraio 2022la Russia ha avviato un'invasione militare dell'Ucraina su vasta scala, le truppe russe della flotta del Mar Nero hanno effettuato un'operazione di sbarco a Mariupol e Odessa. Pertanto, Sergei Pinchuk è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Alexey Yurevich AVDEEV
Tenente generale, vicecomandante del distretto militare meridionale
Alexey Avdeev è vicecomandante del distretto militare meridionale della Russia, che è stato coinvolto nelle azioni militari contro l'Ucraina.
Di recente l'Ucraina è diventata l'obiettivo principale del distretto militare meridionale. Per tale motivo è stata costituita la nuova ottava armata ed è stata estesa la presenza del distretto sul territorio della penisola di Crimea illegalmente annessa. Dalla metà di ottobre 2021 le forze militari russe hanno preceduto a un incremento di forze militari senza precedenti alla frontiera ucraina o nelle vicinanze e all'interno della regione di Crimea occupata dell'Ucraina. A tale riguardo molti osservatori e responsabili politici hanno espresso preoccupazione in merito a un'eventuale nuova invasione russa dell'Ucraina o ad altre azioni aggressive. Truppe del distretto militare meridionale hanno condotto esercitazioni militari in zone circostanti all'Ucraina e hanno portato artiglieria e gruppi tattici di battaglione nella penisola di Crimea. A seguito della decisione di Vladimir Putin di riconoscere le cosiddette "Repubblica popolare di Donetsk" e "Repubblica popolare di Luhansk", soldati del distretto militare meridionale sono entrati nel territorio delle due autoproclamate repubbliche. Il distretto militare meridionale ha anche supervisionato le esercitazioni militari delle forze armate delle "repubbliche" separatiste. Pertanto, Alexey Avdeev è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Rustam Usmanovich MURADOV
Tenente generale, vicecomandante del distretto militare meridionale
Rustam Muradov è Tenente generale e vicecomandante del distretto militare meridionale, che è stato coinvolto nelle azioni militari contro l'Ucraina. Di recente l'Ucraina è diventata l'obiettivo principale del distretto militare meridionale. Per tale motivo è stata costituita la nuova ottava armata ed è stata estesa la presenza del distretto sul territorio della penisola di Crimea illegalmente annessa. Dalla metà di ottobre 2021 le forze militari russe hanno preceduto a un incremento di forze militari senza precedenti alla frontiera ucraina o nelle vicinanze e all'interno della regione di Crimea occupata dell'Ucraina. A tale riguardo molti osservatori e responsabili politici hanno espresso preoccupazione in merito a un'eventuale nuova invasione russa dell'Ucraina o ad altre azioni aggressive. Truppe del distretto militare meridionale hanno condotto esercitazioni militari in zone circostanti all'Ucraina e hanno portato artiglieria e gruppi tattici di battaglione nella penisola di Crimea. Il distretto militare meridionale ha anche supervisionato le esercitazioni militari delle forze armate delle "repubbliche" separatiste. A seguito della decisione di Vladimir Putin di riconoscere le cosiddette "Repubblica popolare di Donetsk" e "Repubblica popolare di Luhansk", soldati del distretto militare meridionale sono entrati nel territorio delle due autoproclamate repubbliche. Il 24 febbraio 2022la Russia ha avviato un'invasione militare dell'Ucraina su vasta scala. Pertanto, Rustam MURADOV è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Andrey Ivanovich SYCHEVOY
Tenente generale, comandante dell'ottava armata combinata della Guardia del distretto militare meridionale
Andrey Sychevoy è Tenente generale e comandante dell'ottava armata combinata della Guardia del distretto militare meridionale, che è stata coinvolta nelle azioni militari contro l'Ucraina. Di recente l'Ucraina è diventata l'obiettivo principale del distretto militare meridionale. Per tale motivo è stata costituita la nuova ottava armata ed è stata estesa la presenza del distretto sul territorio della penisola di Crimea illegalmente annessa. Dalla metà di ottobre 2021 le forze militari russe hanno preceduto a un incremento di forze militari senza precedenti alla frontiera ucraina o nelle vicinanze e all'interno della regione di Crimea occupata dell'Ucraina. A tale riguardo molti osservatori e responsabili politici hanno espresso preoccupazione in merito a un'eventuale nuova invasione russa dell'Ucraina o ad altre azioni aggressive. Truppe del distretto militare meridionale hanno condotto esercitazioni militari in zone circostanti all'Ucraina e hanno portato artiglieria e gruppi tattici di battaglione nella penisola di Crimea. Il distretto militare meridionale ha anche supervisionato le esercitazioni militari delle forze armate delle "repubbliche" separatiste. A seguito della decisione di Vladimir Putin di riconoscere le cosiddette "Repubblica popolare di Donetsk" e "Repubblica popolare di Luhansk", soldati del distretto militare meridionale sono entrati nel territorio delle due autoproclamate repubbliche. Il 24 febbraio 2022 la Russia ha avviato un'invasione militare dell'Ucraina su vasta scala. Pertanto, Andrey Sychevoy è responsabile di sostenere attivamente o realizzare azioni o politiche che compromettono o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina, nonché la stabilità e la sicurezza in Ucraina.
Gennady Nikolayevich TIMCHENKO
Proprietario del gruppo di investimento privato Volga Group. Ha un patrimonio di 11,1 miliardi di dollari
Gennady Timchenko è una conoscenza di vecchia data del presidente della Federazione russa Vladimir Putin ed è ampiamente descritto come uno dei suoi confidenti. Trae vantaggio dai suoi legami con decisori russi. È fondatore e azionista del Volga Group, un gruppo di investimento con un portafoglio di investimenti in settori chiave dell'economia russa. Il Volga Group contribuisce in modo significativo all'economia russa e al relativo sviluppo. È inoltre azionista della Banca Rossiya, che è considerata la banca personale degli alti funzionari della Federazione russa. Dall'annessione illegale della Crimea, la Banca Rossiya ha aperto filiali in tutta la Crimea e a Sebastopoli, consolidando pertanto la loro integrazione nella Federazione russa. Inoltre, la Banca Rossiya detiene importanti quote azionarie nel National MEDIA Group, che a sua volta controlla emittenti televisive che sostengono attivamente le politiche di destabilizzazione dell'Ucraina condotte dal governo russo. È pertanto responsabile del sostegno ad azioni e politiche che compromettono l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina.
È altresì responsabile di fornire sostegno finanziario e materiale ai decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina e di trarre vantaggio dagli stessi.
Alexey Alexandrovits MORDASCHOV
Presidente di Severstal e Severgroup. Ha un patrimonio di 21,9 miliardi di dollari
Alexey Mordaschov trae vantaggio dai suoi legami con decisori russi. È presidente della società Severgroup, la quale è azionista della Banca Rossiya, di cui Mordaschov deteneva circa il 5,4 % delle quote nel 2017, considerata la banca personale degli alti funzionari della Federazione russa. Dall'annessione illegale della Crimea, la Banca Rossiya ha aperto filiali in tutta la Crimea e a Sebastopoli, consolidando pertanto la loro integrazione nella Federazione russa. Inoltre, Severgroup detiene importanti quote azionarie nel National MEDIA Group, che a sua volta controlla emittenti televisive che sostengono attivamente le politiche di destabilizzazione dell'Ucraina condotte dal governo russo. Severgroup è anche proprietaria della società JSC Power machines, che è responsabile della vendita di quattro turbine eoliche alla penisola di Crimea occupata. È pertanto responsabile del sostegno ad azioni e politiche che compromettono l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina. È altresì responsabile di fornire sostegno finanziario e materiale ai decisori russi responsabili dell'annessione della Crimea e della destabilizzazione dell'Ucraina e di trarre vantaggio dagli stessi.
Peter Mikhaylovich FRADKOV
Presidente della PJSC Promsvyazbank
Petr Fradkov è presidente della PJSC Promsvyazbank e l'unico organo esecutivo della banca. Promsvyazbank è una banca statale russa che fornisce sostegno finanziario al settore della difesa russo e all'esercito russo, che è responsabile dello spiegamento massiccio di truppe russe lungo il confine con l'Ucraina e della presenza di truppe russe nella penisola di Crimea. Promsvyazbank riceve istruzioni dirette dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin e fornisce pertanto sostegno finanziario e materiale ai decisori russi responsabili della destabilizzazione dell'Ucraina e dell'annessione illegale della Crimea. Promsvyazbank opera nella penisola di Crimea. In quanto presidente della Promsvyazbank, è pertanto responsabile del sostegno ad azioni e politiche che compromettono l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina.
Roman Abramovich, chi è il magnate russo: Putin, il Chelsea, lo yacht, i tre divorzi, il patrimonio. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.
Il 55enne petroliere russo-israeliano, che partecipa ai negoziati tra Russia e Ucraina, è da anni al centro delle cronache politiche, giudiziarie e sportive: l’investimento nel calcio, l’amicizia con Putin, la carriera politica, i sospetti degli inglesi. E una vita privata turbolenta
Il nuovo ruolo di Abramovich e il sospetto avvelenamento
C’è stato anche lui al tavolo dei negoziati di Gomel (Bielorussia) per una possibile risoluzione diplomatica del conflitto in Ucraina. Il nome di Roman Arkadyevich Abramovich in questi anni si è legato spesso con il calcio, soprattutto con il suo Chelsea, a volte con qualche controversia politica, a volte con il gossip per via della sua vita sentimentale turbolenta e dei suoi divorzi, ma mai era stato una figura diplomatica cruciale per quello che potrebbe essere un accordo di pace fondamentale per il futuro dell’Ucraina.
Nel round di discussioni di Kiev, invece, ha accusato sintomi che potrebbero essere riconducibili a un avvelenamento. Il Wall Street Journal, che ha pubblicato lo scoop lunedì 28 marzo 2022, parla di occhi arrossati, lacrimazione continuata e dolorosa e pelle del viso che si squama. Ne hanno sofferto Abramovich e almeno altri due negoziatori. Il quotidiano cita fonti vicine al magnate che si professa ignaro di chi abbia preso di mira il gruppo. Esperti occidentali stanno valutando se si sia trattato di un agente chimico, biologico o di un qualche tipo di attacco elettromagnetico o radioattivo.
L’amicizia con Putin
Il 55enne petroliere miliardario russo-israeliano di Saratov, nella Russia sud-occidentale, ha infatti ottimi legami con Vladimir Putin ed è stato considerato un uomo ideale per trovare un compromesso, anche grazie alle spinte della comunità ebraica di Kiev, non a caso la stessa alla quale appartiene anche il presidente Volodymyr Zelensky. «Proverò a dare una mano», ha detto Abramovich attraverso il suo portavoce, «ma non posso dire di più. Il momento è molto delicato». Dietro l’influenza che può esercitare l’oligarca ci sono vari motivi, che nella sua storia personale intrecciano interessi economici, politici e potenziali vantaggi sia l’Europa sia per i Paesi coinvolti nel conflitto.
Il patrimonio
Dopo aver perso entrambi i genitori di origini ebraiche prima che potesse compiere cinque anni, il piccolo Roman fu cresciuto da uno zio paterno, poi da un altro zio che viveva a Mosca. Dopo aver studiato in un Istituto tecnico industriale nella cittadina russa di Uchta, ebbe però modo di avviare diverse attività imprenditoriali grazie a una riforma del presidente Michail Gorbachev, che permetteva di fare impresa a costi molto ridotti. Come molti altri russi appartenenti a quella generazione si specializzò nell’import-export del petrolio e dei suoi derivati, fino alla vendita delle sue quote a Gazprom per la cifra equivalente a 11,5 miliardi di euro. Oggi è tra gli uomini più ricchi del pianeta con il patrimonio netto di oltre 13 miliardi di euro.
La politica
Il magnate, grazie alla sua vicinanza al presidente russo, ha avuto anche incarichi politici, come quello della Chukotka, un Circondario autonomo nell’area orientale della Russia (più vicina all’Alaska che a Mosca), grazie al quale ha ricevuto nel 2006 l’Ordine d’Onore per il contributo allo sviluppo socio-economico della regione. Abramovich ne è stato il governatore dal 2001 al 2008 e nei cinque anni successivi ha ricoperto il ruolo di presidente del suo parlamento.
Il Chelsea
Abramovich è molto più popolare di altri oligarchi sicuramente per la sua passione per il calcio, un interesse che lo ha portato ad acquistare nel 2003 il club londinese del Chelsea per circa 160 milioni di euro, quando la squadra non era una delle più blasonate d’Inghilterra. Sotto la sua gestione i Blues hanno spezzato il dominio del Manchester United allenato da Alex Ferguson e vinto negli anni cinque Premier League, due Champions League, nel 2012 e nel 2021, due Europa League, nel 2013 e nel 2019, una Supercoppa europea, un Mondiale per Club, cinque FA Cups e tre Coppe di Lega. Un’amministrazione economicamente molto dispendiosa, che ha portato anche al licenziamento di 11 dei 13 tecnici che hanno allenato la sua squadra. Tra questi figurano anche José Mourinho e gli italiani Claudio Ranieri, Carlo Ancelotti, Roberto Di Matteo, Antonio Conte e Maurizio Sarri. In queste ore, per ragioni di opportunità, ha ceduto la gestione del club alla Chelsea Foundation, ma l’operazione è al centro delle polemiche e dei dubbi legali perché, di fatto, Abramovich non ha venduto il club e ne mantiene il pieno controllo.
Skripal e altre controversie
Abramovich in Inghilterra è stata sempre una figura guardata con sospetto. Nel 2011 il Times aveva rivelato la richiesta alle autorità britanniche da parte di un ex generale del Kgb di indagare sui metodi, ritenuti criminali, con i quali nel 1995 l’oligarca aveva acquisito Sibneft. Poi, nel 2018, Londra non gli aveva rinnovato il visto per via del caso di Sergej Skripal, che vide il miliardario coinvolto nella dura reazione di Downing Street nei confronti del Cremlino, a seguito dell’avvelenamento da gas nervino dell’ex spia e di sua figlia. Dietro la vicenda ci sarebbe secondo le autorità inglesi lo stesso Vladimir Putin, dal momento che l’ex agente era stato condannato a Mosca per alto tradimento e per aver favorito i servizi segreti britannici.
I tre divorzi
Si è sposato tre volte e tutte le relazioni sono terminate con un divorzio, a volte costosissimo. Nel 1987 le nozze con Olga Yurevna Lysova, un rapporto durato tre anni. Nel 1991 con Irina Malandina, che le aveva dato cinque figli e dalla quale ha divorziato nel 2007, pagandole la cifra equivalente di 8 miliardi di euro. Una separazione che lui, invano, aveva provato a compiere in gran segreto, dopo aver negato ai media i problemi coniugali. Nel 2008 il matrimonio, durato dieci anni, con Daria Zhukova, con la quale aveva avuto i figli Aaron Alexander e Leah Lou. Per il magnate ci sarebbe stata una relazione anche con la ballerina russa 41enne Diana Vishneva, che nel 2018 aveva avuto un bimbo e che secondo il gossip sarebbe di Abramovich. Recentemente il magnate è stato molto più discreto dal punto di vista sentimentale, anche se la cronaca rosa è sempre alla ricerca di qualche nuova fiamma che possa salire a bordo del Solaris e con la quale possa essere paparazzato.
Yacht extralusso
La scorsa estate ha fatto il suo esordio nel Mediterraneo l’ultimo dei suoi gioielli, Solaris, uno superyacht di 140 metri di lunghezza del valore 500 milioni di euro, a bordo del quale Abramovich ha attraversato il Mediterraneo. Avvistato al largo di Cap d’Antibes, in Costa Azzurra, ha poi spopolato sui social dopo il suo arrivo in Costa Smeralda, in Sardegna. Ognuna delle 48 cabine presenti al suo interno è equiparabile a un miniappartamento, oltre alle Spa e alle piscine che possono accogliere, insieme agli otto ponti, quasi cento persone. C’è anche un garage interno che ospita un elicottero.
Valentina Errante per “il Messaggero” l'11 marzo 2022.
«Non ci possono essere posti sicuri per chi ha appoggiato l'attacco di Putin all'Ucraina», così ha sentenziato Boris Johnson e il pugno di ferro del Regno Unito ha colpito anche Roman Abramovich, «persona non gradita nel Paese», e il suo patrimonio, a partire dal Chelsea, per il quale l'oligarca russo aveva avviato da qualche settimana una trattativa di svendita per circa 4 miliardi di sterline.
La cessione, ha lasciato intendere il segretario alla Cultura, Nadine Dorries, probabilmente ci sarà, ma a una condizione: che Abramovich non incassi un solo penny. Inoltre il ricavato potrebbe essere devoluto all'Ucraina. Intanto la squadra sarà sottoposta a vincoli durissimi. Secondo il governo del Regno Unito Abramovich ha un patrimonio netto pari a 9,4 miliardi di sterline ed è «uno dei pochi oligarchi degli anni 90 ad avere mantenuto il potere sotto Putin».
Tra i beni congelati anche la partecipazione da 1,4 miliardi (valore del 2021) nel colosso siderurgico Evraz, ieri il prezzo delle azioni, prima della sospensione alla Borsa di Londra, aveva avuto un crollo del 13 per cento. E nella società Norilsk Nickel, la villa con 15 stanze da letto sul Kensington Palace Gardens, nel cuore di Londra, acquistata per 90 milioni di sterline nel 2009, e un attico a Chelsea con vista sul fiume Tamigi, acquistato nel 2018 per 22 milioni di sterline.
Restano invece nella disponibilità dell'oligarca lo Château de la Croe, il castello da 100 milioni di euro, a Cap d'Antibes in Costa Azzurra, che un tempo fu dei reali britannici, il Solaris, yacht di 140 metri, che può ospitare 36 persone e vale 600 milioni di dollari. Salpato da Barcellona, attualmente si troverebbe in Sicilia. Oltre un Boeing 787-8 Dreamliner, che si troverebbe a Mosca. Le sanzioni significano che Abramovich non sarà in grado di vendere alcuna quota di Evraz, una società siderurgica costituita a Londra ma con attività principalmente russe.
Sarà il governo a vigilare sulla vendita del Club, possibile soltanto a condizione che Abramovich non incassi il ricavato. L'obiettivo di fatto, è costringere l'oligarca a cedere a costo zero il Chelsea, che ha oltre un miliardo di debiti. Ed è probabile che Abramovich accetti, anche per prendere le distanze dal presidente russo, che, nel 2003, lo aveva spinto ad acquistarlo.
Il governo ha adottato una serie di misure che di fatto impediscono ogni possibile attività della società: ha stabilito che il Club non possa offrire nuovi contratti a staff e giocatori, partecipare al mercato, né in entrata né in uscita, anche per quanto riguarda la squadra femminile. Vietato vendere biglietti e fare merchandising. Sospesi anche i contratti di sponsorizzazione.
Viaggi e trasferte, invece, non potranno costare più di 20mila sterline a partita e sono stati proibiti i lavori di rifacimento del centro sportivo o dello stadio. Secondo alcune fonti l'ipotesi è che il ricavato della vendita possa essere devoluto all'Ucraina, mentre la squadra continuerà a giocare le partite con una licenza temporanea.
Secondo il ministero degli Esteri britannico, Abramovich non solo ha «ricevuto concessioni e un trattamento preferenziale» dal Cremlino, ma avrebbe attivamente «contribuito alla destabilizzazione dell'Ucraina, minacciando l'integrità territoriale e la sovranità» del Paese. Evraz, avrebbe fornito acciaio per la produzione di carri armati per l'esercito russo.
Chelsea, sanzioni contro Abramovich: 5 calciatori via gratis. Fra loro Rudiger, Christiansen e Azpilicueta. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.
Pesanti le decisioni del governo del Regno Unito nei confronti degli oligarchi russi. I Blues potranno sì giocare ma il club non potrà generare profitto
Il blocco dei rinnovi contrattuali
Saranno pesanti le sanzioni del governo del Regno Unito nei confronti di Roman Abramovich (e degli altri oligarchi coinvolti). I beni del magnate russo sono congelati e naturalmente anche il Chelsea ne risentirà. I Blues potranno sì giocare – grazie a una licenza speciale – ma il club non potrà generare profitto. Per questo saranno vietate la vendita di biglietti per le partite, la vendita del merchandising e congelati i trasferimenti in entrata e uscita della squadra. Ma attenzione: sono bloccati i rinnovi dei contratti. Quindi, il Chelsea perderà a parametro zero cinque giocatori. Tra loro, il capitano Cesar Azpilicueta, ma anche Antonio Rudiger, Andreas Christensen, Charly Musonda Jr e Saul Niguez. Sono i primi tre a preoccupare maggiormente il Chelsea e il suo allenatore, Thomas Tuchel.
Cesar Azpilicueta
Terzino destro, veloce e abile nei cross e nei dribbling, lo spagnolo piace molto al Barcellona. Nella Liga Azpilicueta ha giocato nell’Osasuna fino al 2010, per poi trasferirsi in Francia, al Marsiglia. Esperienza che dura due anni perché dal 2012 Azpilicueta gioca nel Chelsea, a Stamford Bridge. Ben 461 presenze (15 gol) e ha vinto due Premier, una Fa Cup, una Coppa di Lega inglese, una Champions, due Europa League, una Supercoppa Europea e un Mondiale per club.
Antonio Rudiger
L’ex Roma piace al Manchester United, al Real Madrid e alla Juventus, ma il tedesco non aveva escluso la possibilità di prolungare il suo contratto con il Chelsea. Le cose, però, appunto sono cambiate. Rudiger è stato acquistato dai Blues nel 2017, dopo due anni alla Roma (che a sua volta lo aveva acquisito dallo Stoccarda). È stato pagato dai londinesi ben 39 milioni di euro (35 più quattro di bonus) e ha conquistato una Fa Cup, una Champions, un’Europa League, una Supercoppa Europea e un Mondiale per club.
Andreas Christensen
Il danese è arrivato a 18 anni al Chelsea, giocando nelle giovanili dei Blues. Nel 2015 Christensen è andato in prestito, per due anni, in Bundesliga, al Borussia Moenchengladbach. Nel 2017 il ritorno a Londra, in Inghilterra, diventando un giocatore importante per il Chelsea. Piace anche lui al Barcellona, ma non aveva mai ipotizzato un suo addio. Le presenze con la maglia dei Blues sono 140, con un gol realizzato.
Charly Musonda Jr
Centrocampista zambiano, di origine belga, nel 2014-2015 è stato uno dei grandi protagonisti del Chelsea Under 19 nella vittoria della Youth League, la Champions dei giovani. È stato il migliore in campo nella finale contro lo Shakhtar. Poi un giro di prestiti tra Celtic, in Scozia, e Vitesse, in Olanda, e il ritorno a Londra nel 2020. Andrà via a parametro zero e avrebbe comunque detto addio.
Saul Niguez
A differenza degli altri quattro, Saul è in prestito al Chelsea dall’Atletico Madrid. Versati nelle casse dei Colchoneros, nella scorsa estate, cinque milioni di euro con riscatto fissato a 40. Ma al di là delle poche gare giocate dallo spagnolo con la maglia dei Blues, questo diritto di riscatto non sarà esercitato dalla dirigenza londinese.
Dagotraduzione dal Daily Mail su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.
Il Chelsea oggi chiederà al governo di allentare le sanzioni contro la squadra per salvarsi dal default: il club potrebbe fallire in 15 giorni. Per questo, i ministri stanno considerando di forzare la vendita del club senza avere l’assenso di Abramovich e senza che lui incassi il ricavato.
Ieri durante il match contro il Norwich City, i tifosi, spaventati che il club non riesca a finire la stagione, hanno intonato il nome di Abramovich. L'allenatore Thomas Tuchel ha elogiato i suoi giocatori, dichiarando: «Possiamo fidarci l'uno dell'altro e questo non cambierà. Finché avremo abbastanza magliette e un autobus per andare alle partite, saremo lì e gareggeremo duramente».
Ma il monte stipendi dei giocatori è di 28 milioni di sterline (33 milioni di euro) al mese, mentre le riserve del club ammontano solo a 16 milioni di sterline (19 milioni di euro), una cifra che potrebbe bastare al massimo per 17 giorni considerato che il club non può incassare i soldi dai biglietti e dal merchandising. E che anche gli sponsor hanno abbandonato il club: Three ha sospeso il suo accordo di sponsorizzazione del valore di 40 milioni di sterline (47 milioni di euro) e Nike, Hyunday e la società di consegne alimentari Zapp stanno per seguire il suo esempio.
Il ministro della tecnologia inglese Chris Philp ha criticato i tifosi del Chelsea che hanno cantato cori a sostegno di Roman Abramovich, il proprietario del club sanzionato per l'invasione russa. Il governo afferma che Abramovich ha ricevuto vantaggi finanziari dal Cremlino, comprese le agevolazioni fiscali per le sue società, l'acquisto e la vendita di azioni da e verso lo stato a tassi favorevoli e i contatti in vista della Coppa del Mondo 2018 in Russia».
«Io stesso sono un tifoso di calcio, sono un tifoso del Palace, nel sud di Londra. Quindi, capisco perché i fan sono molto legati alle loro squadre di calcio. Ma Roman Abramovich è stato sanzionato ora, ieri mattina, per i suoi strettissimi legami con Vladimir Putin e il regime di Putin».
«Dico solo rispettosamente ai tifosi del Chelsea, so che ha fatto molto per il club, ma la situazione umanitaria in Ucraina e quello che il regime russo sta facendo ai civili - bombardando gli ospedali per la maternità e sparando ai civili che stanno fuggendo lungo i corridoi umanitari - questo è più importante del calcio». Ha aggiunto che chiunque voglia acquistare il club può «avvicinarsi al governo».
Ha detto: «Ma Abramovich mon può beneficiare dei proventi di alcuna vendita».
I dirigenti del club dovrebbero incontrare oggi il Dipartimento per il digitale, la cultura, i media e lo sport, per dire loro che il divieto di vendere i biglietti è insostenibile e che così dovranno affrontare la decimazione finanziaria.
Stephen Taylor Heath, Head of Sports Law presso JMW Solicitors, ha dichiarato: «Potrebbe essere possibile, con il coinvolgimento del governo, che il club venga venduto senza Abramovich. Sarebbe come vendere un club in amministrazione controllata: l'amministratore si occupa dell'acquirente e il club si collega con l'organo di governo. Se ciò dovesse accadere, però, l’'"amministratore" dovrebbe avere un'autorità legale sufficiente per vendere il club. Potrebbe essere necessario che il governo gli conceda tale autorizzazione. E questo può essere oggetto di impugnazione legale».
In questo scenario, è probabile che il governo prenda il controllo della vendita e il ricavato venga congelato o destinato a un fondo di beneficenza, possibilmente per le vittime della guerra in Ucraina. Questo lascia ad Abramovich due opzioni: accettare le condizioni del governo e perdere il club senza ricavarne nulla, o lasciare che il Chelsea marcisca lentamente.
Le guerre della Russia, dalla caduta dell’Urss a oggi. Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.
Dalla Cecenia alla Georgia, gli interventi militari di Mosca dalla caduta dell’Unione sovietica all’invasione dell’Ucraina.
Trent’anni di storia, diciannove conflitti. Un intervento militare ogni diciotto mesi. Quando si dice che la Guerra Fredda finì con la morte dell’Unione Sovietica, bisogna aggiungere che la nascita della Russia ha comportato decine d’altre guerre congelate o al calor bianco. Dichiarate, segrete, mascherate, per procura. Ufficialmente, tutte mosse dal desiderio di restaurare l’orgoglio imperiale, di sedare scontri fra etnie, di proteggere minoranze russe, d’instaurare governi amici.
«Abbiamo sempre un’adeguata risposta militare a qualsiasi avventurismo», ricordò Vladimir Putin un giorno del 2015, conversando d’Ucraina con Angela Merkel . E la Cancelliera capì bene a che cosa si riferisse: che stia a simboleggiare la vittoria («Za Pobedy»), la pace («Za Mir») o il popolo («Za Nashikh»), la «Z» bianca dello Zar che oggi i soldati di Putin portano sui blindati e sulle divise è la sintesi – perfetta - delle motivazioni che hanno sempre spinto Mosca a organizzare le sue «operazioni militari speciali». Pura propaganda, naturalmente: in Georgia, i russi andarono per aiutare i fratelli osseti minacciati di genocidio, in Cecenia per difendere la cristianità dall’Islam, in Kazakistan per riportare l’ordine sociale. Ovunque, sono regolarmente corsi a chiarire che (sempre parole del leader) «nessuno deve avere l’illusione di poter ottenere una superiorità militare sulla Russia, di poterci mettere un qualche tipo di pressione».
In principio fu la Georgia. Quando due mesi dopo la dissoluzione dell’Urss, all’alba dell’era Eltsin, comincia a rumoreggiare la regione filorussa dell’Ossezia del Sud. È l’inizio d’una guerra civile che dura tre anni, fra i sostenitori del presidente eletto e di quello imposto, coi separatisti osseti che non accettano il nuovo corso di Tbilisi e nel febbraio 1992 ottengono i primi, sporadici appoggi militari di Mosca: l’Orso s’è svegliato, le cancellerie mondiali prima si stupiscono e poi s’allarmano, e pur d’evitare uno scontro aperto con la Russia suggeriscono alla Georgia d’accettare subito una tregua, sottoscrivendo il «pattugliamento» delle truppe russe. È la prima missione all’estero del nuovo Cremlino de-sovietizzato.
Pochi mesi, ed ecco esplodere anche l’altra regione separatista, l’Abkhazia: è una guerra in cui Eltsin si dichiara neutrale, alternando però proposte di negoziato a un vero sostegno bellico agli abkhazi. «Guerra moldo-russa» è invece il nome che, nel ’92, viene dato allo scontro in Transnistria fra le milizie cosacche armate da Mosca e il governo della neonata Repubblica di Moldova: una fulminea guerra che scoppia quasi in contemporanea con un’altra, nell’Ossezia del Nord-Alania, che farà 700 morti e spingerà la Russia a impegnare il più grande dei suoi contingenti, 1.500 uomini. Sono gli anni turbolentissimi d’un impero in frantumi. Del risveglio delle spaccature etniche, delle divisioni religiose, delle aspirazioni democratiche. E le operazioni militari del Cremlino servono, nella maggior parte dei casi, a tamponare braci d’odio che la repressione sovietica aveva tenuto sotto la cenere per più di settant’anni. Com’è nella guerra civile del Tagikistan, oggi dimenticata, ma che provoca cinque anni di devastazioni, quasi 50mila morti, l’esilio d’un tagiko su cinque: il primo conflitto aperto di Mosca, che sostiene la vecchia guardia post-sovietica, contro movimenti islamici organizzati e ispirati dal vicino Afghanistan.
Il primo Vietnam (o Afghanistan) russo è però la Cecenia. «La vergognosa avventura», com’ebbe a definirla l’ultimo leader sovietico, Mikhail Gorbaciov. «La follia allo stato puro», secondo le parole del cancelliere tedesco Helmut Kohl. Che nel suo primo round (1994-1996) si risolve in una sonora sconfitta e nel secondo (1999-2009) si trasforma in una feroce vittoria. La Prima guerra cecena si presenta come molte altre: in tutta l’ex Urss, c’è un 70 per cento d’etnie russe che deve vedersela con un centinaio d’altre nazionalità e con una miriade di repubblichette indipendenti. In Cecenia, la sfida è alla proclamata Repubblica di Ichkeria, 1.600 chilometri a sud di Mosca, che trascina Eltsin in una campagna militare fra le più sanguinose della sua storia. Centomila civili ammazzati, diecimila guerriglieri morti, e nessuno ha mai saputo quanti soldati russi: 5.500 (fonte ufficiale) o quindicimila? Da Pietro il Grande a Stalin, la Cecenia è sempre stata la spina nel fianco russo e questa guerra non fa eccezione, quando l’ex generale sovietico Dzochar Dadaev butta giù dalla finestra il capo locale del Partito comunista e si proclama primo presidente indipendente. La fronda interna, gli attentati, i tentati avvelenamenti non danno risultati e nemmeno quelli che Eltsin spera siano solo «attacchi chirurgici»: il conflitto degenera in una bolgia di missili, prese d’ostaggi, scudi umani, diserzioni, gas, decapitazioni e crimini di guerra assortiti. I ceceni e i vicini ingusci chiamano a raccolta jihadisti da mezzo mondo, molto più motivati delle reclute russe e di un’opinione pubblica che a Mosca è sempre più contraria alla carneficina: «Sarà un bagno di sangue, un altro Afghanistan», prevede prima di dimettersi un viceministro della Difesa, Boris Gromov, e la sua si rivela una profezia facilissima. Su Grozny s’abbatte, nel 1995, la peggiore pioggia di bombe in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale e di Dresda: 35mila civili uccisi, cinquemila dei quali bambini. Le ferita cecena è l’emorragia di Eltsin.
Mentre la repubblica indipendente precipita in un triennio d’anarchia, razzie, mafie locali, rapimenti e regolamenti di conti, a Mosca comincia il countdown. E quando uno Eltsin azzerato dall’alcol e nei consensi consegna il Cremlino a Putin, nell’estate 1999, il primo pensiero del nuovo Zar è chiudere i conti con la Cecenia, col Dagestan (la prima campagna militare di Mad Vlad, vinta in meno d’un mese), con l’Inguscezia e con quanti hanno minato l’orgoglio imperiale. La Seconda guerra cecena è un deserto che Putin, a tutt’oggi, chiama pace: una tempesta di fuoco martellante e senza sconti; una prima linea sceltissima di Spetsnaz, corpi speciali molto più preparati dei fantaccini di Eltsin; un’impotente resistenza di guerriglieri che ci provano solo con ii kamikaze e gli assassinii mirati; un nuovo attacco a Grozny, così devastante da spingere l’Onu a definirla «la città più devastata del mondo». Oggi in Cecenia c’è una dittatura zitta e Mosca, obbediente e fedele, dove sono stati aboliti sia l’incarico di primo ministro, sia i diritti civili. Qualcuno ricorda ancora che la Seconda guerra cecena cominciò nel ’99 – Putin s’era insediato da un mese - con una strana serie d’attentati a Mosca e nelle città russe. Qualcuno non dimentica che la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex spia Alexander Litvinenko rivelarono come ci fosse l’Fsb, l’ex Kgb, dietro quegli attentati. Anna e Alexander, li ammazzarono: e chi parla più della Cecenia, ormai?
C’è una parola che torna sempre nei discorsi di Putin: Kosovo. L’ha pronunciata per giustificare l’intervento a sostegno delle repubbliche russofile del Donbass, come la pronunciò nel 2008 prima d’entrare in Georgia. In Kosovo, i russi c’erano: furono i primi a entrare a Pristina, più veloci degli americani a piantare bandiera su una vittoria che non era la loro. Ma il Kosovo è sempre stata l’extra-dose di sale sull’orgoglio ferito di Mosca: l’indipendenza strappata a un Paese slavo e fratello, la Serbia, un riconoscimento che l’Occidente concesse senza chiedere troppi pareri in giro, men che meno al Cremlino. «Interveniamo in Georgia a sostegno dei russofoni – dice Putin nell’estate del 2008 –, esattamente come la Nato è intervenuta in Kosovo in aiuto degli albanesi». La prima guerra del XXI secolo è rapidissima, fa seguito al bombardamento di Tbilisi sull’Ossezia del Sud (centinaia di morti) e all’accendersi delle ostilità anche in Abkhazia. Sei giorni, e la mediazione francese di Sarkozy ferma i tank russi a pochi chilometri dalla capitale georgiana. Un mese, e la Russia (unica al mondo) riconosce le repubbliche osseta e abkhaza, quel che già fece per la Transnistria: «Ho copiato la soluzione Kosovo», chiude Putin.
Quante divisioni ha Mad Vlad? Viene da chiederselo, ripercorrendo tutti gl’interventi armati di questi decenni, dalla contesa del Batken fra kirghizi e tagiki (1999), agli scontri etnici nel sud del Kirgizistan (2010). Perché c’è stata anche la guerra all’Isis nel Caucaso settentrionale (209-2017), quasi 4mila morti e lo smantellamento dell’Emirato che voleva portare il jihad anti-russo dall’Azerbaigian alla Cabardino-Balcaria. Per non dire dell’alleanza in Siria al fianco di Assad, prima con gli attacchi aerei e poi con le truppe sul campo. Undici anni di guerra, 400mila morti, undici milioni di profughi: fu grazie a Putin che il dittatore di Damasco, ormai allo stremo, riuscì a ribaltare il fronte e a ricacciare fazioni ribelle e jihadisti. Quante divisioni ha Putin, dunque? La comparsa dei mercenari del Gruppo Wagner ha spiegato molte cose: Mosca li schiera un po’ ovunque, dalla Crimea alla Libia, dal Mali al Centrafrica, consiglieri militari senza bandiere e senza mostrine, «omini verdi» che esonerano il Cremlino dall’onere di dichiarare perdite e sconfitte, ma intanto preparano il terreno a (eventuali) interventi più massicci. Li fece esordire in Ucraina, nel 2014, quando invase Sinferopoli e Sebastopoli senza sparare un colpo, per preparare l’invasione di oggi dei soldati con la Z. Stava per mandarli in Kazakistan a gennaio, quando la folla inferocita ha cacciato il dittatore filorusso Nazarbayev. Poi ci ha ripensato: meglio usare le truppe regolari. In Kazakistan è stato un blitz, una decina di giorni, per chiudere veloci la pratica. Sbrigarsi, fu l’ordine perentorio agli omini con la «Z»: c’era solo un mese di tempo, per invadere l’Ucraina.
L’Ucraina in 100 secondi. La seconda lezione di Paolo Mieli. Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 26 febbraio 2022.
Una sola volta un’invasione della Russia nella storia ha avuto un successo pieno: stiamo parlando dell’ “l’orda d’oro”, l’invasione dei mongoli a metà del XIII secolo che rasero al suolo la città di Kiev modificandone a loro modo la storia. Il metropolita greco ortodosso si spostò a Mosca dove rinacque la Russia. Quando finì nel 1480 la storia dell’«orda d’oro», l’Ucraina fu lasciata dai russi volontariamente in preda a chi se la prendeva.
Il conflitto e la storia ucraina spiegati in 100 secondi. La quarta delle lezioni di Paolo Mieli. Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
1917, Rivoluzione d’ottobre: Lenin e Stalin concedono all’Ucraina di essere una delle repubbliche socialiste sovietiche. E’ su questo tema che Putin ha più volte insistito. Lenin e Stalin litigarono a morte su che natura dovesse avere l’Ucraina: Stalin ne volle fare uno stato schiavo e quando ebbe bisogno delle risorse naturali dell’Ucraina tra il 1929 e il 1931 provocò una carestia immane, l’Holodomor, che causò milioni e milioni di morti. Una carestia provocata, punitiva, nei confronti dei fenomeni di ribellione che si intravedevano in Ucraina.
Vittorio Feltri e l'Ucraina: "Le guerre americane sono giuste e quelle russe sbagliate? Una grande sciocchezza". Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022.
"Tutti dicono di odiare la guerra, ma non fanno che combatterla". Vittorio Feltri, direttore di Libero, inizia così il suo video editoriale di oggi in cui spiega che "nel secolo scorso ci furono addirittura due guerre mondiali che lasciarono sul campo migliaia e migliaia di morti". "In questi giorni si parla di guerra per la vicenda di Vladimir Putin e di Joe Biden" continua il direttore che ci tiene a ricordare che "gli americani, che sono così contrari alla guerra negli ultimi cinquanta anni, anche di più, non hanno fatto altro che combattere". "A parte la Seconda Guerra Mondiale", puntualizza Feltri, "gli americani le hanno perse tutte le guerre che hanno cominciato, quindi non si capisce perché continuino questa passione per le armi". Feltri fa un esempio clamoroso. "Vorrei rammentare la vicenda di J.F. Kennedy, che è stato il presidente più amato. Ebbene nel 1962, davanti al fatto che i russi volevano installare degli armamenti a circa mille chilometri di distanza da Cuba, Kennedy fece una prova di forza e mandò delle forze armate potentissime per scongiurare l'ipotesi che la Russia potesse mettere quegli armamenti". "Fu una prova di forza", ribadisce il direttore, "esattamente come quella che vuole fare Putin oggi il quale è assediato dalle truppe della Nato che sono schierate a 500 chilometri da Mosca". "La stessa identica cosa che fece Kennedy la sta facendo Putin", tuona Feltri facendo notare che "se la fa Kennedy va bene, applausi, feste, elogi senza fine all'America; se la fa la Russia di Putin solo critiche, sanzioni". "Se a voi sembra un modo di pensare e di agire giusto", conclude Feltri, "a me sembra una grande sciocchezza".
Ucraina, Vittorio Feltri: se la attacchi, la Russia vince sempre. "Non facciamo idiozie con Vladimir Putin". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022.
Per cominciare sorvolerei sui motivi del conflitto annunciato in Ucraina, che merita un piccolo approfondimento che faremo tra poco. Si dà il caso che coloro che hanno combattuto contro la Russia abbiano sempre rimediato sconfitte brucianti. Il primo a buscarle di brutto fu Carlo XII contro l'Impero di Pietro il Grande. Rimediarono lui e i suoi eserciti botte da orbi. Poi fu la volta di Napoleone, che non era un tipo disorganizzato eppure fu battuto dai colbacchi e fu costretto a tornarsene a casa incerottato e con le pive nel sacco, sorvolando su migliaia di morti ammazzati. Il più impavido, o più cretino, dipende dai punti di vista odi svista, fu Hitler con la complicità di Mussolini, altro fesso che tentò velleitariamente di invadere la steppa e dintorni subendo una immensa figura di palta. I fatti storici sono questi e bisogna tenerne conto, facendo tesoro degli insegnamenti che hanno fornito.
In base ai precedenti ricordati consigliamo a Biden (detto Rimbambiden) di non essere un ganassa e di non sfidare Putin che è pronto a fargli un mazzo così. Rammento che le guerre non piacciono a nessuno, ma tutti le combattono, specialmente l'America, la quale da quando esiste è sempre stata in battaglia contro qualcuno anche se non ha mai vinto uno scontro, se si esclude la seconda lotta armata mondiale. Prima di fare a botte con Putin, gli Stati Uniti dovrebbero riflettere sull'esito dei numerosi scontri che li hanno visti sconfitti e umiliati. La Russia è un colosso militare e non fosse che per questo andrebbe rispettata, anzi temuta.
Purtroppo però è noto che gli americani sono bauscia e si credono imbattibili pur non essendo tali. Nel caso, spero improbabile, di uno scontro a cannonate tra cowboy e cosacchi sappiamo già come andrebbe a finire, con il trionfo dei secondi. Pertanto invitiamo gli occidentali alla prudenza, rammentando loro che sono predisposti a farsi prendere a schioppettate.
Infine una riflessione cui ne seguirà un'altra. Nel 1962, se non sbaglio, l'allora padrone di Washington, Kennedy, inviò numerose forze armate verso Cuba per scoraggiare l'Unione Sovietica a installare una linea di fuoco nei pressi dell'Isola che avrebbe minacciato gli Usa. Cosicché i russi furono costretti a ritirarsi tra gli applausi di mezzo mondo. Il presidente, che poi fu assassinato, venne esaltato come un eroe. Ebbene, oggi Putin agisce allo stesso modo di Kennedy: la Ucraina è circondata da mezzi militari della Nato che distano 500 chilometri da Mosca e ciò è poco rassicurante per il presidente russo, il quale pertanto reagisce con forza. Allora, quando l'America a Cuba si comportò come abbiamo detto, venne elogiata; adesso che il capo del Cremlino fa la stessa cosa è giudicato un usurpatore. Due pesi e due misure sono inaccettabili.
Seconda e ultima riflessione. L'Italia è preoccupata ma aderisce alle sanzioni europee contro la Russia sul piede di guerra. Così facendo rischia di non ricevere più gas da quel Paese in subbuglio. Le ritorsioni in campo internazionale sono all'ordine del giorno. Noi già siamo in crisi per l'energia perché da idioti abbiano rinunciato a produrla. Se ci poniamo in condizioni di non poterla neanche acquistare all'estero, che fine faremo? Senta Draghi, almeno lei non faccia pirlate.
Lo sterminio comunista degli Ucraini. Di Andrea Lombardi su Culturaidentita.it il 25 Febbraio 2022
Inedite per la maggior parte in Italia e qui presentate per la prima volta nel loro insieme grazie all’Ucrainica Research Institute di Toronto (Canada) che ci ha permesso di riprodurle, pubblichiamo queste rarissime fotografie della carestia pianificata e della collettivizzazione forzata sovietica dell’Ucraina del 1932-1933, e delle sue vittime, e a corredo del testo riprendiamo un approfondimento storiografico a cura di Riccardo Michelucci (“Avvenire”) su questo importante avvenimento “dimenticato” del ‘900, tornato ora tragicamente alla ribalta.
Poco più di trent’anni fa, il grande storico inglese Robert Conquest inaugurò gli studi sul cosiddetto “Holodomor”, il più imponente sterminio della storia europea del XX secolo dopo l’Olocausto. Nel suo monumentale lavoro pionieristico Harvest of Sorrow (tr. it Raccolto di dolore), uscito nel 1986 – prima del crollo dell’Unione Sovietica -, riuscì a documentare il disegno criminale di Stalin che causò la morte per fame di milioni di ucraini, nei primi anni ’30. Da allora il dibattito ha visto gli storici dividersi non tanto sulle cause della carestia, quanto per stabilire se sia corretto o meno definirla «un atto di genocidio», con le implicazioni politiche che ne deriverebbero.
Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima dello stesso Conquest, era stato Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniò il termine genocidio e si batté per inserirlo nel diritto internazionale. Un riconoscimento ufficiale del dramma ucraino è stato però finora sempre ostacolato dall’opposizione prima dell’Unione Sovietica, poi della Russia. Un contributo importante in questo dibattito arriva adesso dal saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2004 per un libro sui gulag dell’era sovietica. Editorialista del Washington Post e grande esperta di storia russa, Applebaum si è avvalsa di una gigantesca mole di fonti documentarie inedite provenienti da archivi locali e nazionali russi e ucraini (alcuni dei quali aperti per la prima volta negli anni ’90), nonché testimonianze orali dei sopravvissuti pubblicate dall’Istituto ucraino della memoria nazionale.
Com’è stato sottolineato da altri storici, la brutale collettivizzazione delle terre voluta da Stalin scatenò e poi intensificò quella carestia, che non colpì soltanto l’Ucraina ma interessò anche altre parti dell’Unione Sovietica. Nelle lettere private degli archivi di stato russi, i leader sovietici parlano di «spezzare la schiena alla classe contadina», e la stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan.
Non v’è dubbio, però, che i maggiori danni e il più alto numero di vittime sia stato registrato proprio in Ucraina, dove le radici storiche di quei fatti, come racconta Applebaum, affondano nei secoli precedenti. I territori che gli zar avevano confiscato agli ottomani e ai cosacchi nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere considerati parte essenziale dell’impero russo fin dall’ascesa della dinastia Romanov. Durante la guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica, la classe contadina ucraina, essenzialmente conservatrice e anti comunista, non volle mai sottomettersi al nuovo potere e resistette strenuamente alle armate di Lenin. Sul finire degli anni ’20 i contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre per aderire alle fattorie collettive dello stato. Gran parte di essi si opposero duramente alla collettivizzazione, rifiutandosi di cedere il grano, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il politburo sovietico lo considerò un atto di ribellione e, pur di fronte alla sempre più grave carenza di cibo nelle campagne, mandò gli agenti e gli attivisti locali del partito a requisire tutto quello che trovavano, compresi gli animali. Al tempo stesso fu creato un cordone attorno al territorio ucraino per impedire la fuga.
Il risultato fu un’immane catastrofe: almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Urss non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, circa quattro milioni erano ucraini. Stalin rifiutò qualsiasi forma di aiuto dall’esterno, accusò i contadini che stavano morendo di fame di essere loro stessi colpevoli di quanto stava accadendo e promulgò leggi draconiane che esacerbarono la crisi. Chiunque veniva trovato in possesso anche solo di una buccia di patata era passato per le armi.
Applebaum spiega che la carestia non fu causata dalla collettivizzazione, ma fu il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, delle feroci liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi. Il capitolo sulle conseguenze della carestia è a dir poco agghiacciante: dopo aver citato un rapporto riservato nel quale il capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale di quegli anni di terrore che vide anche brutali persecuzioni antireligiose, con la sconsacrazione e la distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava un’antica tradizione popolare.
Lo sguardo della studiosa statunitense si sofferma su tutti gli aspetti della vicenda, analizzando anche il modo in cui l’identità nazionale dell’Ucraina post-sovietica sia stata costruita attorno a essa, e approfondisce il tema delle coperture nazionali e internazionali che hanno consentito di celarla agli occhi del mondo. Non solo l’Unione Sovietica non la riconobbe mai, ma soffocò qualsiasi forma di dissenso e manipolò le statistiche demografiche, secondo le quali nel 1937 circa otto milioni di persone risultavano svanite dal Paese. Quanto ai corrispondenti a Mosca dei giornali stranieri, con la sola eccezione dell’eroico giornalista gallese Gareth Jones, non si sognarono di raccontare quei fatti. William Henry Chamberlin del “Christian Science Monitor” scrisse che i cronisti «lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa».
Ma l’Holodomor fu davvero un atto di genocidio? Applebaum non ha dubbi e ritiene che quanto accadde tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di Lemkin, ma resta purtroppo escluso dalla formulazione redatta nel 1948 con la “Convenzione sul genocidio”. Non a caso l’Unione Sovietica vi contribuì in modo decisivo proprio al fine di escludere l’olocausto ucraino. Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato in tal senso, l’Holodomor continuerà dunque a rimanere formalmente escluso dalla lista dei genocidi.
Quali Stati hanno invaso la Russia nel corso dei secoli? GEORGY MANAEV su it.rbth.com il 5 agosto 2019.l Paese ha subito diverse occupazioni, ma non è mai stato sconfitto, in attacchi che vanno dal gioco tataro-mongolo fino ai nazifascisti
1. L’Orda d’Oro
In origine, lo Stato dell’Orda d’Oro faceva parte dell’Impero mongolo. Nel 1237, Batu Khan, il sovrano dell’Orda d’Oro, invase la Rus’ di Kiev, bruciando e saccheggiando le sue città principali: Kiev, Vladimir, Rjazan, Chernihiv e altre. All’epoca, l’esercito mongolo era estremamente più forte dei russi.Dopo l’invasione, i mongoli si ritirarono nella steppa, perché il loro obiettivo non era quello di annettere nuovi territori. Lasciarono sempre che i russi decidessero da soli quali prìncipi dovessero governare le loro città, ma per salire in carica i monarchi dovevano pagare all’Orda d’Oro dei tributi e ottenere l’approvazione. I russi furono costretti a questa sottomissione all’Orda d’Oro, anche dopo il 1259, quando questa divenne un khanato separato dall’Impero mongolo. Questo sistema di dipendenza era chiamato “igo”; il “giogo” tataro-mongolo.Il “giogo” ha fortemente influenzato la cultura russa. La tecnologia, l’alfabetizzazione e ogni tipo di produzione sono notevolmente peggiorate durante questo periodo di dominazione straniera. Tuttavia, nel 1380, il principe moscovita Demetrio di Russia (Dmitrij Donskoj; “del Don”) sconfisse l’esercito dell’Orda nella Battaglia di Kulikovo, iniziando la tanto attesa liberazione delle terre russe. Il giogo si concluse formalmente nel 1480, quando Ivan III (il Grande) di Mosca respinse gli eserciti tatari dopo lo stallo sul fiume Ugrà. Le terre russe erano tornate indipendenti.
2. La Confederazione polacco-lituana Parti di quella che alla fine sarebbe diventata la Confederazione polacco-lituana erano state in guerra contro le terre russe fin dal XV secolo. Nel 1569 si formò la Confederazione tra terre polacche e lituane, rendendo l’unione molto più forte.Dopo l’inizio del Periodo dei Torbidi, una grave crisi dinastica in Russia, la Confederazione polacco-lituana, insieme alla Svezia, invase le terre dello Zarato di Moscovia. Nel 1610, nella Battaglia di Klushino, l’esercito polacco sbaragliò le forze russe. Presto il governo auto-organizzato dei Sette Boiardi invitò Ladislao IV di Polonia (Władysław IV Waza) a diventare il sovrano russo. Per due anni, Mosca fu controllata dagli invasori polacchi, fino a quando nel 1612, un corpo di volontari russi, guidati dal mercante Kuzma Minin e dal principe Dmitrij Pozharskij, liberò la capitale dagli occupanti. Poco dopo, salì sul trono il primo esponente della dinastia Romanov, Michele di Russia; Mikhail I.
3. La Svezia
Le armate svedesi conquistarono brevemente Novgorod nel 1611, ma nel 1617 furono costrette a lasciarla. Tuttavia, a causa delle condizioni del Trattato di pace del 1617, la Russia perse l’accesso al Mar Baltico.Più tardi, durante la Grande Guerra del Nord (1700-1721), l’esercito svedese invase i territori allora russi della Bielorussia, conquistando la città di Mogilev. Gli svedesi tentarono di assediare la giovanissima San Pietroburgo nel 1708 (ma la città, la cui prima pietra era stata posta solo cinque anni prima, resistette). Carlo XII di Svezia guidò un esercito per invadere i territori intorno a Smolensk, ma alla fine non riuscì a prendere la città, che era sempre stata considerata “la chiave per conquistare Mosca”. Quindi con il suo esercito si diresse a sud, verso l’Ucraina.Nel giugno del 1709, vicino alla città di Poltava, Pietro il Grande distrusse l’esercito svedese in una battaglia epica e Carlo XII riparò in Turchia.
4. La Francia di Napoleone
Durante la campagna russa del 1812, oltre 600 mila soldati dell’esercito francese, guidati da Napoleone, invasero l’Impero russo attraversando il fiume Nemunas e attaccando Riga. Le sue forze proseguirono poi per Smolensk. I francesi costrinsero ad arretrare l’esercito russo, bruciarono Smolensk e marciarono verso Mosca.Nella battaglia di Borodinò, vicino a Mosca, entrambi gli eserciti subirono gravi perdite, ma Napoleone conquistò Mosca (che cadde in mano straniera per l’ultima volta nella storia della città). Tuttavia, questo non portò a nulla. Alessandro I di Russia non accettò la pace, soprattutto non “senza condizioni”, come chiedeva il disperato imperatore francese, abbandonato con il suo esercito decimato in una Mosca bruciata. Quando l’esercito francese iniziò a ritirarsi, il popolo russo lanciò una guerriglia partigiana, che, insieme alle azioni dell’esercito regolare, soffocò le forze francesi e poi le ricacciò a Parigi, fino alla completa sconfitta.
5. Gli interventi stranieri del 1918
Questo intervento senza precedenti avvenne durante la Guerra civile in Russia (1917-1921), mentre lo Stato sovietico era ancora agli inizi. Dopo il trattato di Brest del marzo 1918, che poneva fine al coinvolgimento della Russia nella Prima guerra mondiale, diversi Stati iniziarono a occupare militarmente vari territori russi. In particolare, la Germania aveva occupato parti della Russia europea, la Gran Bretagna (anche con battaglioni indiani, australiani e canadesi) occupava Arkhangelsk, Murmansk, Sebastopoli e la Crimea; Francia e Grecia controllavano parzialmente Odessa; Italia e Gran Bretagna presero parte all’invasione dell’Estremo Oriente russo e la Finlandia occupò il territorio della Carelia. In totale, 14 diversi Stati occuparono la Russia durante questo periodo (oltre a quelli già citati: Giappone, Cina, Romania, Polonia, Stati Uniti, Serbia, Impero Ottomano e Impero Austro-ungarico) Ma nel 1919, a causa delle azioni militari e diplomatiche del governo bolscevico, la maggior parte delle forze straniere aveva già lasciato i territori russi.
6. La Germania nazista e suoi alleati
L’attacco della Germania nazista alla Russia durante la Seconda guerra mondiale fu la più grande e mortale operazione militare nella storia dell’umanità. I tedeschi lanciarono il loro attacco in varie direzioni, occupando l’Ucraina (allora territorio dell’Urss), assediando Leningrado (ora San Pietroburgo), puntando verso Kursk a sud e Arkhangelsk a nord, e Voronezh. L’invasione, a cui presero parte anche l’Italia fascista e altri alleati del Terzo Reich (Romania, Finlandia,Ungheria e Slovacchia), si estese su gran parte del territorio della Russia europea, raggiungendo Stalingrado (ora Volgograd) nel sud, ma dopo la devastante Battaglia di Stalingrado, l’esercito di Hitler fu respinto a Kursk e costretto a ritirarsi in Germania, dove fu infine sconfitto. Proprio come l’Impero russo aveva marciato su Parigi nel 1814, l’Urss conquistò Berlino nel 1945, schiacciando il mostruoso regime nazista, con l’aiuto degli alleati della Seconda Guerra Mondiale.
Le guerre passate della Russia: un rapido sguardo alla storia. Sascha Picciotto su sakeritalia.it il 5 Gennaio 2015.
Il numero di commentatori, politici, blogger e osservatori ben informati che prevedono una guerra – o almeno di un grave rischio di guerra – tra la Russia e gli Stati Uniti è nettamente in aumento. Anche se io stesso sono piuttosto incline a credere che gli Stati Uniti utilizzeranno la giunta ucraina per attaccare la Russia piuttosto che rischiare un confronto diretto, non mi spingerei a dire che trovo impossibile una guerra diretta USA-Russia. Se non altro perché molte guerre non sono avviate deliberatamente, ma piuttosto ci si casca dentro. Per tutti questi motivi, credo, è il momento di guardare il resoconto storico delle guerre della Russia.
Scopriamo che uno storico militare in Russia ha già fatto tutto il lavoro per noi. Nikolaj Shefov è autore di 10 libri sulla storia russa tra cui uno intitolato “Le battaglie della Russia”, in cui guarda non solo a ogni guerra, ma in realtà a tutte le principali battaglie combattute in tutte le guerre della Russia tra il 1700 e il 1940 (si ferma alla guerra sovietico-finlandese e non include la seconda guerra mondiale). Ecco le sue scoperte:
Tra il 1700 e il 1940 la Russia/URSS ha combattuto in 34 guerre e ne ha vinte 31 e in 392 battaglie e ne ha vinte 279. Potremmo dire che la Russia ha vinto il 91% delle sue guerre e il 71% delle sue battaglie. Gli oppositori della Russia includono: svedesi, francesi, tedeschi, turchi, polacchi, tartari, finlandesi, caucasici, giapponesi, cinesi, austriaci, ungheresi, inglesi, italiani e asiatici centrali.
A parere dell’autore, la Russia ha perso solo tre guerre: quella di Crimea, quella russo-giapponese e quella contro la Polonia nel 1920. Egli ritiene che la Russia abbia vinto la prima guerra mondiale, perché nessun nemico ha mai messo piede in qualsiasi parte del territorio russo (se siete interessati, ecco un un link al libro originale in russo, un articolo che riassume il libro, e una traduzione automatica di questo articolo in italiano).
Vorrei solo aggiungere che la guerra di Crimea fu combattuta contro quella che io chiamo una “grande coalizione ecumenica” (tra cui anglicani inglesi, latini francesi e musulmani turchi) e che i russi erano in inferiorità numerica di oltre 200.000 persone (c’era quasi un milione di “attaccanti ecumenici” contro poco più di 700.000 difensori russi). Ma sì, la Russia ha perso questa guerra.
La Russia ha perso la guerra contro il Giappone? Direi che sicuramente la flotta russa è stata sconfitta dalla marina giapponese, ma gli storici giapponesi hanno una visione molto diversa di quello che è successo e considerano che il potenziale militare del Giappone si fosse ormai esaurito al momento in cui è stato redatto il trattato di pace (da parte russa, tra l’altro) e che il Giappone sia stato costretto ad accettare condizioni pessime. Per lo meno, definirei questo un pareggio.
Per quanto riguarda la guerra russo-polacca, sì, i sovietici l’hanno persa alla grande. Ma guardiamo il tipo di Unione Sovietica che c’era nel 1920: un paese nel mezzo di una guerra civile, con molte insurrezioni in atto, con un “esercito” di “lavoratori-contadini” senza veri ufficiali e guidato da commissari incompetenti. Così, anche se il risultato è stato una sconfitta, le circostanze di quella sconfitta sono, penso, così uniche da essere irrilevanti.
Ma qualunque siano le finezze e i diversi punti di vista del significato dei singoli risultati, credo che questi dati suggeriscano fortemente che attaccare la Russia è un’idea estremamente cattiva, anche se si considerano solo guerre convenzionali. Attaccare la Russia mentre questa ha il più potente arsenale nucleare del pianeta è follia assoluta.
Speriamo che questo breve promemoria arrivi ad almeno uno dei pazzi che pensano che un gioco con la Russia al pollo che indietreggia per primo sia una politica sana, e che i russi “indietreggeranno per primi”, impressionati dal valore militare USA / NATO.
Guerra in Afghanistan (1979-1989). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La guerra in Afghanistan del 1979-1989, talvolta indicata anche come guerra sovietico-afghana, fu un conflitto intercorso tra il 24 dicembre 1979 e il 15 febbraio 1989 nel territorio dell'Afghanistan, e che vide contrapposte da un lato le forze armate della Repubblica Democratica dell'Afghanistan (RDA), sostenute da un massiccio contingente di truppe terrestri e aeree dell'Unione Sovietica, e dall'altro vari raggruppamenti di guerriglieri afghani collettivamente noti come mujaheddin, appoggiati materialmente e finanziariamente da un gran numero di nazioni estere; il conflitto viene considerato parte della guerra fredda nonché prima fase della più ampia guerra civile afghana.
Il conflitto ebbe inizio con l'invasione del paese a opera delle forze dell'Armata Sovietica, intenzionate a deporre il presidente della RDA Hafizullah Amin per rimpiazzarlo con Babrak Karmal; l'intervento militare dell'URSS provocò una recrudescenza della guerriglia afghana contro il regime della RDA, già da tempo molto estesa nel paese: i combattenti mujaheddin, divisi in più schieramenti e partiti che mai nel corso del conflitto ebbero una guida unitaria, intrapresero quindi una lunga campagna di guerriglia a danno delle forze sovietico-afghane, spalleggiati in questo senso dagli armamenti, dai rifornimenti e dall'appoggio logistico fornito loro (in modo non ufficiale) da paesi come gli Stati Uniti, il Pakistan, l'Iran, l'Arabia Saudita, la Cina e il Regno Unito.
Dopo più di nove anni di guerra, che provocarono vaste distruzioni all'Afghanistan nonché ampie perdite di vite civili, l'intervento sovietico nel conflitto ebbe termine con una ritirata generale delle proprie truppe conclusa il 15 febbraio 1989, dopo la firma degli accordi di Ginevra tra RDA e Pakistan; gli scontri tra mujaheddin e truppe governative proseguirono nell'ambito della guerra civile afghana, fino alla caduta del governo della RDA nell'aprile del 1992.
Viene definito da alcuni storici come il "Vietnam sovietico", tracciando un parallelo con la guerra del Vietnam intrapresa dagli Stati Uniti.
Quattro fatti poco noti sulla guerra più disastrosa per la Russia, quella contro il Giappone. BORIS EGOROV su it.rbth.com il 7 febbraio 2019.
Il conflitto del 1904-1905 dette solo amarezze all’Impero russo e destabilizzò il Paese, favorendo l’acuirsi delle tensioni rivoluzionarie
La marina russa subì la sua più grande sconfitta di sempre
La più terribile sconfitta navale della storia russa avvenne nello stretto di Tsushima, tra il Giappone e la Penisola coreana, il 27-28 maggio del 1905. La Seconda flotta del Pacifico, composta da 38 navi da guerra, fu completamente annientata dalla flotta giapponese, che poteva contare su 89 unità in più.
Tuttavia, i numeri non erano l’unico elemento a vantaggio dei nipponici. La maggior parte delle loro navi erano due volte più veloci di quelle russe e più moderne e avanzate. Inoltre, i marinai giapponesi avevano un’esperienza di combattimento di gran lunga maggiore rispetto ai colleghi russi.
Come risultato della battaglia, 21 navi russe furono affondate, sette furono catturate, sei ripararono in porti neutrali, dove furono bloccate (solo poche riuscirono poi a fuggire).
A causa della catastrofe di Tsushima, l’Impero russo cessò di essere una superpotenza navale. Per decenni, la parola “Tsushima” divenne sinonimo di sconfitta totale, come “Caporetto” nella lingua italiana o “Bérézina” in francese.
La spedizione era partita sotto una cattiva stella: per un errore marchiano all’inizio del lungo trasferimento delle navi dal Baltico al Pacifico, la Russia rischiò di entrare in guerra anche contro la Gran Bretagna!
Il Montenegro, alleato della Russia, rimase in guerra con il Giappone per oltre un secolo
Per ringraziare la Russia per il suo sostegno politico ed economico di lunga data, il Principato del Montenegro dichiarò guerra al Giappone. Fu un gesto di natura più che altro simbolica, dal momento che nessuna unità militare montenegrina fu inviata in Estremo Oriente per combattere contro i giapponesi (a parte pochi volontari).
Tuttavia, quando la Russia e il Giappone firmarono il trattato di pace nel 1905, il Montenegro fu snobbato, e quindi tecnicamente rimase in guerra.
Dopo la Prima guerra mondiale il Paese perse la sua sovranità per quasi un secolo. Durante il suo breve periodo di “indipendenza” come stato fantoccio italiano, il Regno del Montenegro, durante la Seconda guerra mondiale, non fu riconosciuto dai giapponesi, e un trattato di pace non venne firmato.
Solo nel 2006, dopo che il Montenegro ha divorziato dalla Serbia ed è apparso nuovamente sulla mappa del mondo, i due Paesi hanno messo in ordine i loro rapporti. La “guerra” montenegrino-giapponese è ufficialmente finita dopo 101 anni.
La Russia non vinse neanche una singola grande battaglia
Non una sola grande battaglia della guerra russo-giapponese fu vinta dalle truppe russe, non una singola offensiva o incursione ebbe successo, e persino l’eroica lunga difesa della fortezza di Port Arthur terminò con la sua resa.
Tuttavia, non tutti gli episodi della guerra furono catastrofici per l’esercito russo. Durante la Battaglia di Mukden (21 febbraio-11 marzo 1905), la più grande e sanguinosa della guerra, le perdite giapponesi furono due volte quelle russe (15 mila contro 8 mila). Anche se l’esercito russo fu costretto ad abbandonare Mukden e si ritirò, i giapponesi definirono questa battaglia una “vittoria insicura”, che minò significativamente il loro spirito bellico.
Il successo non fu raggiunto in aperta battaglia, ma con astuzia da parte dei marinai russi. Durante l’assedio di Port Arthur, scoprirono che due navi da guerra giapponesi, la Hatsuse e la Yashima, usavano la stessa rotta ogni giorno durante le missioni di pattuglia. Il posamine Amur approfittò della nebbia per disseminare di nascosto il percorso di mine e le due navi furono distrutte il giorno seguente.
Un generale giapponese conquistò una roccaforte russa, ma, invece di sentirsi un eroe, si suicidò
La terza armata giapponese, guidata dal generale Nogi Maresuke, assediò la fortezza russa di Port Arthur nella provincia cinese di Liaoning nel luglio 1904. La lunga difesa durò fino al 2 gennaio 1905 e costò ai giapponesi 56 mila morti, compresi due dei figli di Nogi.
Quando alla fine la fortezza si arrese, Maresuke fu proclamato eroe nazionale del Giappone. Tuttavia, lui vedeva questi eventi in una luce completamente diversa.
Il generale riferì personalmente all’imperatore Meiji della presa della fortezza. Ma poi ruppe in pianto e chiese perdono per la perdita di tanti soldati giapponesi.
Maresuke chiese al sovrano di permettergli di mettere fine alla sua vita con un suicidio rituale: il seppuku. Meiji si rifiutò di incolpare il generale e la richiesta fu rifiutata, finché l’imperatore restò in vita.
Nogi Maresuke tornò alla vita civile, diventando un mentore per il futuro imperatore Hirohito e costruendo ospedali per invalidi di guerra e memoriali per i caduti del conflitto.
Tuttavia, poco dopo la morte dell’Imperatore, Maresuke si considerò libero dal volere di quest’ultimo, e si suicidò assieme a sua moglie il 13 settembre 1912.
Le cinque peggiori sconfitte militari della Russia nella storia. BORIS EGOROV su it.rbth.com il 13 novembre 2017.
Guerra di Crimea (1853-1856)
L’esercito russo non conta solo gloriose vittorie, ma anche dolorose disfatte. Alcune di esse, non solo sono costate un grande sacrificio di vite umane e pesanti rinunce territoriali, ma hanno rischiato di mettere addirittura in forse la stessa esistenza futura del Paese
Invasione mongola (1237-1240)
All’inizio del XIII secolo gli eserciti mongoli trovarono lo Stato russo frammentato e incapace di resistere agli invasori asiatici, uniti e coesi. Uno per uno, i principati caddero sotto l’assalto mongolo, che fu accompagnato da enormi saccheggi, distruzioni e dall’annientamento di gran parte della popolazione.
Per i secoli successivi, i principati russi furono politicamente ed economicamente dipendenti dall’impero mongolo e ci vollero decine di anni per ripristinare un’economia e una cultura in rovina. La Russia subì una grave battuta d’arresto nel suo sviluppo, restando indietro rispetto ai Paesi europei.
L’invasione riscrisse completamente la mappa politica dello Stato russo. Kiev, che fu presa dai mongoli nel 1240, non riacquistò mai il suo status di città principale, che aveva avuto nell’antica Rus’. I principati slavi occidentali, come Smolensk, Kursk e i territori dell’Ucraina moderna e della Bielorussia, caddero sotto la sfera di influenza del rafforzato Stato lituano, che li assorbì.
Ma questa sarebbe diventata una bomba a orologeria, perché queste terre diventarono il pomo della discordia e la ragione di numerose guerre tra lo Stato russo e la Confederazione polacco-lituana. Anche nel XX secolo, le controversie tra la Polonia e l’Urss riguardavano molti di questi territori.
Prima guerra del Nord o Guerra di Livonia (1558-1583)
Ivan IV, conosciuto come Ivan il Terribile, scatenò una guerra contro la Confederazione della Livonia (un’unione di cinque Paesi sul territorio delle attuali Lettonia ed Estonia) per conquistare i suoi porti principali e ottenere uno sbocco al mare sulla costa baltica per il Granducato di Moscovia. Questo era molto importante per il crescente Stato russo, perché il suo accesso al Mar Baltico era stato limitato a un piccolo e per lo più poco sviluppato pezzo di terra sulla costa del Golfo di Finlandia.
Il primo periodo della guerra fu segnato dal successo per Ivan IV, e le sue truppe occuparono grossa parte della Confederazione della Livonia. Altre grandi superpotenze dell’epoca, però, decisero di scendere in campo, preoccupate dalla crescente potenza del loro vicino orientale. Per molti anni la Russia dovette quindi vedersela con l’Impero di Svezia, il Regno di Danimarca e Norvegia, il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania, che nel 1569 si unì alla Polonia.
Una guerra estenuante proseguì per più di 20 anni e si concluse con una grande sconfitta per lo Stato russo. L’economia del Paese era in rovina e i territori nordoccidentali quasi completamente spopolati. Tutte le terre originariamente prelevate dalla Livonia furono perse e restituite. Peggio ancora, la Moscovia perse i territori in Finlandia e la maggior parte dei suoi possedimenti costieri sul Golfo di Finlandia. Solo un piccolo pezzo di terra sull’estuario della Neva rimase in possesso della Russia, ma non poteva fornire un accesso adeguato al mare.
Ora, invece della debole Confederazione della Livonia, la Russia aveva nuovi e potenti nemici sul suo confine occidentale: la Confederazione Polacco-Lituana e il Regno di Svezia. Ci vollero molti anni e risorse per affrontare questi problemi più tardi, durante la Grande guerra del Nord (1700-1721).
Guerra russo-ottomana (1710-1713)
Pietro il Grande riuscì dove Ivan il Terribile aveva fallito: schiacciò la Svezia e annetté le sue terre lungo il Baltico orientale (Estonia, Livonia e Ingria) ai sensi del Trattato di Nystad del 1721.
Ma nel 1711, la guerra era ben lungi dall’essere vinta e lo zar (si sarebbe autoproclamato Imperatore solo dieci anni più tardi) si trovò in una situazione pericolosa che per poco non si concluse con la distruzione completa del suo esercito.
Dopo la vittoria spettacolare della Russia a Poltava nel 1709, il re svedese sconfitto, Carlo XII, si ritirò nella città di Bendery, in Bessarabia (attuale Repubblica di Moldova), e ottenne asilo in terra ottomana. I negoziati difficili tra lo zar e il Sultano Ahmed III sul destino del re svedese arrivarono a una situazione di stallo e di crescente tensione.
Il Sultano voleva espellere i russi dalla fortezza di Azov sulla costa del Mare d’Azov, conquistata da Pietro il Grande nel 1695-1696 per dare accesso alla Russia sul Mar Nero attraverso lo Stretto di Kerch.
Nel 1710, gli Ottomani dichiararono a sorpresa guerra alla Russia, conflitto che culminò con la campagna del fiume Prut da parte dello zar. Nel 1711, tuttavia, l’esercito russo, con Pietro il Grande a capo di 38 mila uomini, fu circondato da 190.000 soldati ottomani e truppe della Crimea, in Bessarabia. Per evitare la distruzione, Pietro fu costretto ad accettare le condizioni umilianti del Sultano, che furono codificate dal Trattato del Prut due anni più tardi.
La Russia cedette Azov all’Impero Ottomano, distruggendo tutte le fortezze sulla costa del Mar d’Azov, perdendo così l’accesso al Mar Nero. Inoltre, per quasi vent’anni, la Russia perse il controllo sui cosacchi zaporoghi, che caddero sotto il dominio ottomano.
Tuttavia, la peggiore conseguenza della sconfitta fu forse l’annientamento della prima flotta della Russia; la flottiglia del Mare d’Azov. Centinaia di grandi e piccole navi furono distrutte; alcune furono vendute e il destino di altre rimane sconosciuto. Per quanto riguarda la sua politica estera e i suoi interessi strategici verso Sud, per la Russia fu l’anno zero.
Guerra di Crimea (1853-1856)
In un certo senso, la guerra di Crimea fu simile alla guerra di Livonia: la Russia avviò con successo un combattimento con un nemico debole, ma concluse il conflitto con la sconfitta per mano di una coalizione di grandi potenze.
Secondo il trattato di Parigi (1856), la Russia non perse molto territorio, ma perse il diritto di avere una flotta sul Mar Nero. Così, fu costretta ad abbandonare le sue pretese di proteggere i cristiani dell’Impero Ottomano, cedendo quel diritto alla Francia. Perse anche l’influenza su Moldavia, Valacchia e Serbia. In generale, la guerra minò severamente la posizione internazionale della Russia.
Ma fu il sistema finanziario dell’Impero a subire le peggiori conseguenze. Per via degli enormi debiti di guerra, la Russia si vide costretta a emettere titoli non garantiti, che portarono a un drastico deprezzamento del rublo. Solo nel 1897 il governo stabilì il tasso di cambio adottando il gold standard. Tuttavia, la guerra di Crimea costrinse il governo a lanciare importanti riforme militari ed economiche, come l’abolizione della Servitù della gleba nel 1861.
Prima guerra mondiale (1914-1918)
La Grande Guerra, come la Prima guerra mondiale era chiamata dai contemporanei, fu un grave disastro per l’Impero russo, che portò al suo crollo nel 1917. Il milione e settecentomila morti del conflitto furono solo l’inizio di un massacro ancora più grande. Anche se la Russia uscì dalla guerra con il Trattato di Brest-Litovsk il 3 marzo 1918, la Guerra civile immerse il Paese in ancora più violenza e distruzione.
A causa della sua pace separata con gli Imperi Centrali, la Russia non ebbe un posto nei colloqui di pace, anche se il suo impatto sulla vittoria era stato significativo, soprattutto nelle fasi iniziali della guerra. Alla fine, la Russia perse circa 842.000 chilometri quadrati di territorio (15,4% della sua area totale pre-guerra), che ospitavano 31,5 milioni di persone (23,3% della popolazione pre-guerra dell’Impero).
Il crollo dell’Impero portò alla nascita di nuovi Stati. L’indipendenza della Polonia venne ripristinata e Lettonia, Estonia, Lituania e Finlandia la ottennero per la prima volta nella storia. Inoltre, la Romania sfruttò l’opportunità per annettersi la Bessarabia.
Anche oggi, la situazione geopolitica dell’Europa dell’Est è caratterizzata da relazioni difficili e complicate tra i Paesi sorti sulle ceneri dell’impero russo nel 1918.
Guerra russo-persiana (1722-1723). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La guerra russo-persiana del 1722-1723, conosciuta nella storiografia russa come la campagna persiana di Pietro il Grande, fu una guerra tra l'Impero russo e la Persia, scatenata dal tentativo dello zar di espandere l'influenza russa nelle regioni del Caspio e della Transcaucasia, in maniera tale da impedire al suo rivale, l'impero ottomano, conquiste territoriali ai danni dei Safavidi, ormai in declino.
Prima della campagna, Pietro il Grande strinse un'alleanza con il re georgiano Vakhtang VI e con il catholicos d'Armenia Asdvadzadur. Questi regnanti cristiani stavano cercando l'aiuto russo nella loro lotta contro le due potenze espansioniste musulmane (Turchia e Persia).
Nel luglio del 1722, l'esercito imperiale russo, forte di circa 22 000 uomini, si imbarcò ad Astrachan' sulle navi della appena costruita Flottiglia del Caspio, condotta dall'ammiraglio Fëdor Apraksin; a loro si aggiunsero successivamente i cosacchi che marciarono via terra partendo da Caricyn. Il 23 agosto 1722 l'esercito russo catturò Derbent, nel Daghestan meridionale, ma le tempeste autunnali nel Mar Caspio costrinsero Pietro il Grande a tornare ad Astrachan' lasciando le guarnigioni russe a Derbent e Svjatoj Krest; nel settembre del 1722, Vakhtang VI si era accampato a Ganja con un esercito combinato georgiano-armeno di 40.000 uomini per unirsi alla spedizione russa, ma dopo aver ricevuto la notizia del ritorno ad Astrachan' di Pietro il Grande, fece ritorno a sua volta a Tbilisi in novembre.
Nel dicembre del 1722 l'esercito e la marina russi, al comando del maggior generale Michail Matjuškin, catturarono Rasht e nel luglio del 1723 procedettero alla conquista di Baku. I successi militari russi e l'invasione turca dei possedimenti persiani nel Transcaucaso nella primavera del 1723, costrinsero il governo di Tahmasp II a firmare il 12 settembre 1723 un trattato di pace a San Pietroburgo il quale cedeva Derbent e Baku, nel Caucaso, nonché le province di Shirvan, Gilan, Mazandaran ed Astrabad, situate lungo il litorale meridionale del mar Caspio, alla Russia; per i successivi 12 anni il Mar Caspio divenne un lago interno all'Impero russo.
Nel 1735, alla vigilia della guerra russo-turca, l'imperatrice Anna Ioannovna restituì tutti i territori alla Persia come prerequisito per costituire un'alleanza contro la Turchia ottomana.
Guerra russo-persiana (1796). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La guerra russo-persiana del 1796, conosciuta anche come la Spedizione persiana di Caterina la Grande, assieme alla Spedizione di Pietro il Grande, fu una delle guerre russo-persiane che non comportarono conseguenze durature per entrambi i belligeranti.
Gli ultimi decenni del XVIII secolo furono segnate da una lotta continua tra i rivali pretendenti al Trono del pavone, Caterina II approfittò della situazione per consolidare il suo controllo sul debole Caucaso: nel 1783 Eraclio II firmò il trattato di Georgievsk, che faceva diventare la Georgia un protettorato russo ed in base al quale l'imperatrice prometteva di difenderla in caso di attacco persiano; il suo esempio venne seguito tre anni dopo dagli Shamkal di Tarki.
Nel 1794, con la salita al trono di Agha Mohammad Khan come Shah di Persia, il clima politico cambiò: pose fine ad un periodo di lotte dinastiche e procedette al rafforzamento del Caucaso tramite la battaglia di Krtsanisi (1795) che ridusse in cenere la capitale della Georgia, Tbilisi; questo spinse Caterina II, seppur tardivamente, ad una spedizione punitiva nei confronti dello Shah.
Sebbene ci si aspettasse che l'armata (forte di 13.000 uomini) venisse condotta da un generale esperto (Gudovič), l'imperatrice seguì il consiglio del suo amante, il Principe Zubov, e diede il comando al di questi fratello minore, conte Valer'jan Zubov. Le truppe russe partirono da Kizljar nell'aprile del 1796 ed assaltarono la fortezza strategica di Derbent il 10 maggio; l'evento venne glorificato dal poeta di corte Deržavin in una sua famosa ode.
A metà giugno le truppe di Zubov invasero senza incontrare alcuna resistenza la maggior parte dell'odierno Azerbaigian, incluse le tre città principali Baku, Şamaxı e Ganja; a novembre l'esercito si appostò alla confluenza dei fiumi Aras e Kura, con la prospettiva di invadere l'Iran.
Il conflitto prese una piega completamente diversa con l'improvvisa morte di Caterina, avvenuta a metà novembre: il suo successore Paolo I, che detestava gli Zubov ed aveva altri piani bellici, ordinò alle truppe di ritirarsi e tornare in Russia. Questa mossa fece innescare la frustrazione e l'ostilità degli Zubov e degli ufficiali che prendevano parte alla campagna: molti di loro sarebbero poi stati tra i cospiratori che architettarono l'assassinio di Paolo I cinque anni dopo.
Guerra russo-persiana (1804-1813). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La guerra russo-persiana del 1804-1813 fu una guerra tra l'Impero russo e quello persiano.
Il conflitto ebbe per causa una disputa territoriale: il re persiano Fath Ali Shah voleva consolidare i territori settentrionali dell'impero, ovverosia le terre sulla sponda sud occidentale del Caspio (l'attuale Azerbaigian) e la Transcaucasia; analogamente alla sua controparte persiana, lo zar Alessandro I era anch'egli nuovo al trono ed egualmente determinato a controllare i territori contesi.
Premesse storiche
Nel 1779, dopo la morte di Karim Khan, il leader della tribù Qajar Agha Mohammad Khan aveva intenzione di riunificare la Persia; nel 1794, tutti i suoi rivali erano stati eliminati (incluso Lotf Ali Khan, l'ultimo della dinastia Zand) ed aveva riaffermato la sovranità persiana sugli ex dominii in Georgia e nel Caucaso. Agha Mohammad venne assassinato nel 1797 (dopo essere stato formalmente incoronato come shah l'anno precedente). A lui succedette il nipote Fath Ali Shah, che tentò di mantenere la sovranità acquisita, ma venne disastrosamente sconfitto dalla Russia in due guerre.
La Persia a quel tempo rivendicava i khanati di Karabakh, Shirvan, Talysh e Shaki (tutti situati nell'odierno Azerbaigian); tali rivendicazioni, però, apparivano traballanti dopo l'annessione della Georgia (a sua volta territorio conteso) da parte dell'Impero russo nel 1801. Quest'ultimo, bramoso di estendere e consolidare il suo vantaggio, si spinse avanti militarmente, pianificando di espandere i propri confini fino all'Aras, ai confini della moderna Turchia.
Le forze in campo
I russi erano impossibilitati a dedicare una consistente parte delle truppe al Caucaso, in virtù delle concomitanti guerre con la Francia, l'Impero ottomano, e la Svezia; di conseguenza, l'impero era costretto ad affidarsi su una superiore tecnologia, addestramento e strategia, vista anche la preponderante differenza numerica (alcune stime asseriscono che il rapporto tra le forze persiane e quelle russe fosse di cinque a uno). L'erede dello Shah Fath Ali, Abbas Mirza, provò a modernizzare l'esercito, cercando l'aiuto di esperti francesi (attraverso l'alleanza franco-persiana) e successivamente inglesi, ma questo servì solamente a ritardare la sconfitta persiana.
Le battaglie
I comandanti russi Gudovič e Čičagov provocarono lo scoppio della guerra attaccando l'insediamento persiano di Echmiadzin, celebre per essere la città più sacra dell'Armenia; Gudovič però non ebbe successo nell'impresa, stante la mancanza di truppe, e si ritirò a Erevan dove proseguì un altro assedio, anch'esso poi rivelatosi fallimentare. Malgrado questi insuccessi, i russi mantennero il vantaggio per la maggior parte del conflitto, grazie alla superiore qualità strategica e delle truppe; l'incapacità di schierare più di 10.000 uomini, però, consentì ai persiani di allestire una discreta resistenza, seppur composta da cavalleria irregolare di bassa qualità.
Col proseguire delle ostilità i persiani aumentarono i loro sforzi, proclamando una guerra santa contro la Russia imperiale nel 1810, ma la cosa non sortì risultati apprezzabili; la situazione non cambiò nemmeno con l'invasione russa di Napoleone (alleato del persiano Abbas Mirza, ma che fornì poco aiuto concreto): persino con Mosca occupata dai francesi, le truppe non vennero ritirate ma continuarono la loro offensiva, che culminò con le vittorie del generale Kotljarevskij ad Aslanduz e Lenkoran, rispettivamente nel 1812 e 1813. La guerra si concluse con il trattato di Gulistan, che cedeva la maggioranza dei territori contesi all'Impero russo; questo portò alla decimazione dei khan che si ritrovarono impoveriti e costretti a dover pagare tributi alla Russia.
Guerra russo-persiana (1826-1828). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La guerra russo-persiana del 1826-1828 fu l'ultimo principale conflitto tra l'Impero russo e quello persiano.
Dopo che il trattato di Gulistan, nel 1813, aveva concluso la precedente guerra, il Caucaso restò in pace per tredici anni.
Fath Ali Shah, costantemente bisognoso di aiuti stranieri, si affidò ai consigli degli agenti britannici, che lo spinsero a riconquistare i territori persi e gli promisero supporto per l'azione militare; la questione venne decisa nella primavera 1826, quando una fazione bellicosa di Abbas Mirza prevalse ed il ministro russo Aleksandr Sergejevič Menšikov venne messo agli arresti nella sua casa.
Campagna del 1826
Sebbene non ci fosse una dichiarazione formale di guerra, il 16 luglio del 1826 un esercito di 35.000 persiani, condotto da Abbas Mirza, attraversò il confine ed invase i khanati di Talysh e Karabakh, che cambiarono rapidamente bandiera; inoltre le città principali (Lankaran, Quba e Baku) si arresero. Aleksej Petrovič Jermolov, il governatore generale del Caucaso, sentendo che non aveva risorse sufficienti per contrastare l'invasione, si rifiutò di impegnare le truppe in battaglia ed ordinò di abbandonare Ganja, la città più popolosa della Transcaucasia, mentre a Şuşa una piccola guarnigione russa riuscì a resistere fino al 5 settembre, quando arrivarono i rinforzi del generale Madatov che costrinse i persiani sulle rive del fiume Shamkhor e riprese Ganja. Venuto a sapere dell'accaduto, Abbas Mirza lasciò l'assedio di Şuşa e marciò verso Madatov, al quale si erano unite nuove truppe sotto il comando di Ivan Paskevič (intervenuto in sostituzione di Jermolov) che, forti di 8.000 uomini, respinsero i persiani oltre l'Aras.
Campagna del 1827 e fine della guerra
Il clima invernale portò ad una sospensione delle ostilità fino a maggio del 1827, quando Paskevič avanzò conquistando Echmiadzin, Nakhichevan e Abbasabad, per poi giungere a Erevan, che venne assaltata e catturata dopo sei giorni di assedio (1º ottobre); quattordici giorni dopo, il generale Eristov fece il suo ingresso a Tabriz, costringendo lo Shah a chiedere la pace.
Lo scoppio della guerra russo-turca risvegliò le speranze persiane e ostacolò i negoziati di pace, che erano condotti tra gli altri da Aleksandr Sergeevič Griboedov; infine, nel gennaio 1828, un distaccamento russo raggiunse le rive del lago di Urmia, mandando in panico lo Shah. Su sua esortazione, Abbas Mirza rapidamente firmò il trattato di Turkmenchay (2 febbraio 1828) che concluse la guerra.
Conseguenze
Coerentemente con i termini del trattato, i khanati di Erevan e Naxçıvan passarono alla Russia, lo Shah promise di pagare un'indennità di 20 milioni di rubli d'argento e autorizzò i suoi sudditi armeni ad emigrare nei territori russi senza nessun impedimento. In aggiunta a questo, garantì ai vincitori il diritto esclusivo di mantenere una forza navale nel Mar Caspio nonché il diritto per i mercanti russi di commerciare liberamente in tutto il territorio della Persia.
Nel breve termine, il trattato andò a minare la posizione dominante dell'Impero britannico in Persia e segnò una nuova fase nel grande gioco tra gli imperi. A lungo termine, il trattato assicurò la dipendenza del Caucaso verso la Russia, rendendo di conseguenza possibile la nascita dei moderni stati di Armenia e Azerbaigian nei territori conquistati durante la guerra.
Grande ritirata (Russia). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Fronte orientale
1914-1917 La grande ritirata è il nome con cui è nota la ritirata delle truppe russe dalla Galizia e Polonia durante la prima guerra mondiale.
Contesto
All'inizio del 1915 il massiccio afflusso di rinforzi sul fronte orientale favorì lo schieramento delle Potenze Centrali. Furono formate quattro nuove armate tedesche: la 11ª, la 12ª, l'Armata del Niemen e l'Armata del Bug, pertanto si modificò l'equilibrio sul fronte orientale, poiché contro le tredici armate austro-tedesche erano schierate solo 9 armate russe. Sotto pressante richiesta del Kaiser, il capo di stato maggiore Falkenhayn si piegò alla volontà di Hindenburg e Ludendorff di continuare l'offensiva.
A fronte di questi sviluppi, la Stavka russa decise di mettere in atto una ritirata strategica al fine di guadagnare il tempo necessario a mettere il potenziale industriale russo in grado di sostenere lo sforzo bellico. Nonostante il potenziale bellico messo in campo dai tedeschi, il problema più grave per l'esercito russo nella primavera 1915 era la carenza di armi e munizioni, pertanto un gran numero degli uomini che erano stati mobilitati nel 1914 era senza armi.
Da un punto di vista militare, la capitale della Polonia, Varsavia, era della massima importanza: la città era una delle migliori fortezze dell'epoca, il perno del gruppo di fortezze detto il Triangolo Polacco, composto a sud da Ivangorod sulla Vistola, ad est da Brest-Litovsk, oltre che da Varsavia stessa. Il sistema fortificato, completato dalla fortezza di Novo Georgievsk, doveva confrontarsi con tre fronti di guerra, due tedeschi (al nord ed al centro) ed uno austriaco (a sud).
L'offensiva tedesca
Dopo l'offensiva di Gorlice-Tarnów dell'inizio di giugno 1915, le armate di Mackensen attraversarono il fiume San e conquistarono Przemyśl. Il 20 giugno l'alto comando russo ordinò la ritirata dalla Galizia ed il 22 giugno i tedeschi occuparono Lvov, la capitale della regione[8]. La ritirata dalla Galizia provocò gravi conseguenza a tutte le popolazioni di diverse etnie che abitavano la regione: agli ebrei fu rifiutato il permesso di trasferirsi in altri territori dell'impero russo, permesso che invece fu accordato ai galiziani di religione ortodossa, che avevano anche l'opportunità di acquisire la cittadinanza russa nel caso si fossero trasferiti nelle regioni asiatiche. Numerosi tedeschi della Galizia erano già stati trasferiti nella regione della Volinia alla fine del 1914[8]. Durante la grande ritirata russa dell'estate 1915, centinaia di migliaia di ebrei, tedeschi e polacchi della Galizia furono brutalmente evacuati e trasferiti dalla zona di guerra verso oriente.
Grazie alla conquista di Leopoli il generale Mackensen fu promosso feldmaresciallo, comandante di un gruppo di 4 armate austro-tedesche. Tra il 23 ed il 27 giugno i tedeschi attraversarono anche il fiume Dniester, infine l'offensiva fu fermata all'inizio di luglio a causa dei contrattacchi dei russi.
Il 13 luglio le armate delle Potenze Centrali ripresero l'offensiva, da sud verso nord, sull'intero fronte galiziano. In inferiorità numerica e non perfettamente posizionata, la linea delle unità russe andò in crisi e fu ritirata su nuove posizioni difensive (Ivangorod-Lublino-Chełm).
La situazione era resa ancora più grave dal fatto che anche la 10ª e l'Armata del Niemen stavano spingendo sul settore nord del fronte, con il rischio di provocare un ampio aggiramento dell'intero schieramento russo. Il 13 luglio tutto il settore sud dello schieramento russo era indietreggiato di altri 150 chilometri verso il Buh Occidentale, lasciando in mano russe solo una piccola porzione di Polonia, attorno alle fortezze di Varsavia e Ivangorod. Il 22 luglio le armate degli imperi centrali attraversarono la Vistola. In agosto la 4ª Armata russa abbandonava la fortezza di Ivangorod. Con il procedere della ritirata russa anche Varsavia venne lasciata e la 12ª Armata tedesca (comandata da Gallwitz) ebbe l'occasione di occuparla fra il 4 ed il 5 agosto 1915.
Varsavia era la seconda grande città europea a cadere in mani tedesche, ad un anno esatto dalla conquista di Bruxelles, inoltre, per la prima volta dalla caduta di Napoleone, la Russia perdeva il controllo della capitale polacca. Mentre proseguiva l'avanzata dei tedeschi ad oriente di Varsavia, i russi affidavano alla guarnigione della fortezza di Novogeorgievsk, situata alla confluenza dei fiumi Buh e Vistola, il compito di frenare in qualche modo il nemico[.
Nuovi attacchi di tre armate tedesche (la 8ª, la 10ª e la 12ª) dalla Prussia Orientale in direzione sud causarono ben presto il collasso anche sul settore settentrionale, costringendo i russi ad arretrare le posizioni in modo da formare una linea quasi retta in direzione nord-sud. Al termine dell'offensiva i tedeschi conquistarono Brest-Litovsk (il 25 agosto) e Vilnius (19 settembre).
Conseguenze
Il 1915 fu un anno disastroso per la Russia, la perdita della Polonia e dei territori sul confine polacco-tedesco, il gran numero di prigionieri ed il collasso nel sistema dei rifornimenti, provocarono una grave crisi politica interna, mentre crollava il morale delle truppe, costrette alla ritirata.
Un'altra grave decisione presa dall'alto comando russo fu la politica della "terra bruciata", adottata nei confronti dei territori abbandonati, che si accompagnava alla evacuazione forzata delle popolazioni, in modo da evitare che potessero supportare il nemico occupante.
Guerra russo-giapponese. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La guerra russo-giapponese (in russo: Русско-японская война?, Russko-japonskaja vojna; in giapponese 日露戦争 Nichirosensō?; 8 febbraio 1904 — 5 settembre 1905) oppose le ambizioni imperialistiche dell'Impero russo e dell'Impero giapponese per il controllo della Manciuria e della Corea. I principali teatri di operazione furono la Manciuria meridionale, in particolare le zone intorno alla penisola di Liaodong e a Mukden e i mari che circondano la Corea, il Giappone e il Mar Giallo.
La Russia cercava di ottenere un porto libero dai ghiacci nell'oceano Pacifico, come base militare, così come per il commercio marittimo. Vladivostok era utilizzabile solo durante la stagione estiva, ma Port Arthur poteva essere utilizzato tutto l'anno. Dalla fine della prima guerra sino-giapponese al 1903 i negoziati tra la Russia e il Giappone si dimostrarono inconcludenti. Il Giappone si offriva di riconoscere l'influenza russa sulla Manciuria in cambio del riconoscimento della Corea nella sfera di influenza giapponese. La Russia rifiutava questo riconoscimento, così il Giappone decise di scendere in guerra per contrastare quella che definiva come aggressione russa in Asia.
Dopo la rottura dei negoziati nel 1904 la Marina imperiale giapponese iniziò la guerra attaccando la flotta orientale russa a Port Arthur, una base navale nella provincia di Liaotung affittata alla Russia dalla Cina. La campagna militare che seguì, nella quale le forze armate giapponesi sconfissero i russi in una serie di battaglie navali e terrestri, fu una sorpresa per gli osservatori militari che la seguirono. Nel tempo le conseguenze di queste battaglie trasformarono la bilancia del potere nell'Asia orientale, dando sempre maggior peso all'ingresso del Giappone sulla scena della storia.
Guerra sovietico-polacca. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Guerra sovietico-polacca
La guerra sovietico-polacca (in polacco: Wojna polsko-bolszewicka; in russo: Советско-польская война?, traslitterato: Sovetsko-pol'skaja vojna), nota anche come guerra polacco-bolscevica, fu un conflitto armato che vide contrapposti, tra il 1919 ed il 1921, da una parte la Repubblica di Polonia, appena ricostituitasi come stato indipendente dopo più di un secolo di dominazione straniera, e il governo nazionalista ucraino in esilio, e dall'altra la Russia sovietica già in lotta contro le armate controrivoluzionarie.
La guerra ebbe inizio con l'invasione polacca di Lituania, Bielorussia e Ucraina allo scopo di ricreare una Grande Polonia; tuttavia, l'Armata Rossa sovietica si riorganizzò e passò alla controffensiva infliggendo pesanti sconfitte all'esercito polacco, liberando i territori occupati e avanzando nel cuore della Polonia in direzione di Varsavia. Quando ormai la caduta della capitale polacca sembrava imminente e l'avanzata delle truppe bolsceviche russe inarrestabile, una controffensiva polacca portò alla sconfitta dei sovietici alle porte di Varsavia e consentì alla Polonia di riguadagnare una parte del terreno perduto. La guerra si concluse con un compromesso tra le parti sancito dal trattato di Riga del marzo 1921 che portò a una spartizione della Bielorussia e dell'Ucraina tra la Russia sovietica e la Polonia. Alla neonata repubblica di Lituania, invece, i polacchi riuscirono a strappare la capitale, Vilnius.
Antefatti
I motivi del conflitto
Il conflitto scoppiò pressoché contemporaneamente alla decisione del febbraio 1919 dell'Oberkomando-Ostfront, l'alto comando dell'esercito tedesco dislocato lungo i confini orientali stabiliti dal trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918 fra l'Impero tedesco e la Russia bolscevica, di smobilitare facendo seguito all'armistizio di Compiègne dell'11 novembre 1918, i circa 500000 uomini schierati lungo i 2 400 km di frontiera, fra il golfo di Finlandia e il mare d'Azov, lasciando vasti territori della Bielorussia e dell'Ucraina privi di controllo.
Il 6 novembre del 1916, nel pieno della prima guerra mondiale, l'Austria-Ungheria e l'Impero tedesco, nel tentativo di controllare il risorgente nazionalismo polacco, si erano accordati per la creazione di un "Regno di Polonia" autonomo nell'ex-territorio russo del Regno del Congresso, che era stato occupato dagli Imperi centrali. Il 7 ottobre 1918, con gli Imperi centrali in via di disfacimento e la Russia precipitata nel caos della guerra civile seguita alla rivoluzione, il Consiglio di reggenza del "Regno di Polonia" a Varsavia proclamò l'indipendenza polacca con la riunificazione delle tre porzioni di territorio che prima della guerra erano sotto dominazione tedesca, russa e austro-ungarica, chiamando alla presidenza del nuovo stato Józef Klemens Piłsudski che assunse subito dopo il grado di maresciallo e il ruolo di comandante in capo delle forze armate. Alla conferenza di Versailles l'assenza della Russia, per via della pace separata conclusa da Lenin con la Germania a Brest-Litovsk e del mancato riconoscimento della Russia sovietica da parte delle potenze vincitrici, impedì un accordo sulle frontiere orientali del nuovo stato polacco.
Nella visione politica del neo-presidente polacco Piłsudski, la Polonia per poter sopravvivere nel nuovo ordine europeo, sorto sulle rovine della guerra, avrebbe dovuto diventare una potenza regionale: «La Polonia sarà una grande potenza, oppure non potrà esistere»[9] Egli pensava di poter raggiungere questo obiettivo legando a sé le piccole nazionalità che si estendevano ad est e nord-est (Lituania, Bielorussia e Ucraina), le quali dovevano essere sottratte all'orbita d'influenza russa e portate in quella polacca.[9] Per raggiungere tale obiettivo, Piłsudski tentò di far risorgere l'idea, cara al nazionalismo romantico polacco, della Confederazione polacco-lituana fondata nel XIV secolo dai re della dinastia degli Jagelloni: nell'idea di Piłsudski avrebbe dovuto nascere una nuova federazione, detta Międzymorze, formata dalle repubbliche indipendenti di Ucraina, Bielorussia e Lituania unite alla Polonia sotto il predominio di quest'ultima.
Questa ambiziosa idea naufragò immediatamente: i lituani, che nell'antica confederazione medievale erano la controparte politica della Polonia, erano animati da forte nazionalismo e per nulla disposti a rinunciare all'appena acquisita indipendenza; l'Ucraina era in uno stato di guerra civile e di caos istituzionale, segnato dall'esistenza di più entità statali separate con continui cambi di fazioni al potere, e teatro della lotta fra le truppe bolsceviche e le armate controrivoluzionarie, mentre i bielorussi erano poco interessati sia all'idea dell'indipendenza che alle proposte di unione di Piłsudski.
Con sorprendente simmetria rispetto al diverso atteggiamento che gli storici polacchi e tedeschi avevano nei confronti della Drang nach Osten (la spinta dell'espansionismo tedesco verso oriente), a partire dal XIX secolo, mentre ucraini e bielorussi sottolineavano il carattere aggressivo e colonizzatore della spinta espansionista polacca, i polacchi ponevano l'accento sulla loro missione civilizzatrice nelle terre orientali, poco sviluppate e in ritardo rispetto al resto d'Europa. Sotto la Confederazione polacco-lituana, l'aristocrazia polacca aveva colonizzato quella ucraina facendone scaturire due modelli di civiltà: quella signorile (polonizzata) e quella contadina (ruteno-ucraina).[12] Ma, nell'Impero russo, il risorgimento nazionale delle popolazioni ucraine e bielorusse coincise con la rivolta delle masse contadine contro la classe dei proprietari terrieri, polacchi o "polonizzati" se di origine lituana e ruteno-ucraina; per cui, mentre da una parte si faceva strada all'inizio del XX secolo un rinnovato sentimento polacco che trascendeva le frontiere imposte da Austria-Ungheria, Russia e Prussia, dall'altra venivano meno i rapporti tra le diverse nazioni precedentemente unite nell'Unione della Corona polacca e del Granducato di Lituania che rifiutavano questo nuovo processo di "polonizzazione" appunto perché invadeva il processo di maturazione della coscienza nazionale ucraina, lituana e bielorussa Questo carattere aggressivo del nazionalismo polacco sarebbe stato confermato già a partire dalla Costituzione polacca del 1921, per la quale i non polacchi erano formalmente cittadini a pieno titolo, ma de facto venivano considerati cittadini di serie B, con meno diritti dei polacchi veri e propri. Col passare degli anni i governi polacchi combatterono in modo sempre più fermo gli ucraini e i bielorussi che aspiravano a sviluppare la propria cultura: agli ucraini e ai bielorussi venne proibito di servirsi delle loro lingue nelle scuole. Le riforme agrarie nei territori orientali vennero bloccate dal timore che la redistribuzione delle terre avrebbe potuto avvantaggiare ucraini e bielorussi a danno dei proprietari terrieri polacchi. Agli ebrei venne preclusa la possibilità di accedere ai diritti collettivi come minoranza e vennero respinte le rivendicazioni autonomistiche ucraine nella Galizia orientale.
Oltretutto, la proposta di Piłsudski era alquanto ambigua: egli non precisò mai che cosa intendesse effettivamente realizzare, per cui la sua idea di federazione restò qualcosa di astratto, una specie di sogno trasferito nel nuovo secolo direttamente dal nazionalismo romantico polacco dell'Ottocento, come lo era d'altra parte la sua idea di "nazione polacca", slegata sia dal concetto di etnia che da quello di territorio. Nell'idea di Piłsudski le due entità della vecchia confederazione, Polonia e Lituania, avrebbero dovuto avere in comune difesa e politica estera mantenendo la propria indipendenza amministrativa, ma una tale idea aveva ben poca attrattiva per i lituani, gli ucraini e i bielorussi contemporanei di Piłsudski che in essa videro semplicemente una maschera dell'imperialismo polacco. Infatti, molti di loro sospettarono che la proposta di federazione, alla fine, non fosse altro che scambiare la tutela delle grandi potenze con qualcosa che li avrebbe tutelati meno rendendoli nel contempo mero "oggetto" di una sfera d'influenza polacca.
D'altra parte Piłsudski, nei fatti, era ben poco romantico quanto piuttosto molto realista e ben conscio che le frontiere all'interno degli ex imperi russo, tedesco e austro-ungarico sarebbero state decise con la forza delle armi. Nel 1919 scrisse all'amico Leon Wasielewski:
«Mi aspetto che nei prossimi giorni sarò in grado di spalancare le porte della nostra politica lituana-bielorussa. Tu conosci la mia visione su questa questione, che si riduce al fatto che non voglio essere né un federalista né un imperialista finché posso parlare di queste cose un po' sul serio - con una pistola in tasca.»
E riguardo alla Russia:
«Chiusa entro le frontiere del XVI secolo, tagliata fuori dal Mar Nero e dal Mar Baltico, privata della terra e delle risorse minerarie del sud e del sud-est, la Russia potrebbe facilmente essere portata allo stato di una potenza di secondo ordine. La Polonia, in quanto il più grande e il più forte dei nuovi stati, potrebbe facilmente stabilire una propria sfera d'influenza estendentesi dalla Finlandia al Caucaso»
In più, gli Alleati occidentali erano contrari alla proposta di Piłsudski, nella quale intravedevano null'altro che il tentativo della Polonia di espandersi a spese della Russia. Sia i francesi sia i britannici chiesero ai polacchi, almeno in un primo momento, di limitare le frontiere orientali a quelle corrispondenti a una divisione etnica, vedendo nella Russia bolscevica solo uno stato temporaneo di cose che presto sarebbe stato spazzato via dalle armate bianche da essi attivamente supportate.
Sul versante sovietico, non esistendo una definita strategia di politica estera su base nazionale, la situazione era molto più fluida: la sopravvivenza stessa della rivoluzione era a rischio e per molti i polacchi, in collusione con le armate bianche e le potenze occidentali, tentavano di distruggere militarmente la Russia bolscevica o quantomeno di privarla di un'ampia parte del suo territorio al fine di indebolirla economicamente e ridurla alla mercé degli stati confinanti: correlato a questo timore, era il desiderio di spingere le frontiere il più lontano possibile dal centro della Russia. Invece, quella parte dell'élite sovietica che non credeva nella possibilità della rivoluzione di sopravvivere senza diffondersi, vide nell'invasione polacca e nella susseguente guerra l'opportunità di esportare la rivoluzione in Europa. Questi obiettivi in qualche modo contrastavano l'uno con l'altro: il desiderio di espandere la rivoluzione incoraggiò l'assunzione di posizioni rischiose e precluse il consolidamento delle posizioni territoriali raggiunte; le preoccupazioni riguardo alla sopravvivenza del regime esacerbarono i sospetti sui reali obiettivi polacchi e sulla possibilità di una grande coalizione antibolscevica minando la possibilità di raggiungere un accordo.
In sostanza, mentre la Russia era indebolita dalla guerra civile, la Polonia intravide l'opportunità di espandersi verso est: i polacchi colsero l'occasione e avanzarono; mentre per i sovietici la guerra fu sia una risposta all'aggressione polacca che un'opportunità di esportare ad ovest la rivoluzione.[22]
La situazione geo-politica
Dopo il crollo dell'Impero russo a seguito della rivoluzione, in Ucraina venne istituita una Rada Centrale che proclamò, il 25 gennaio 1918, la nascita della Repubblica Popolare Ucraina, mentre a sud si formava la Repubblica Sovietica del Donec-Krivoj Rog; dopo la pace di Brest-Litovsk fra Russia bolscevica e Germania, l'intero territorio venne occupato dai tedeschi che insediarono al potere l'etmano Pavlo Skoropad'skyj. Dopo il crollo della Germania, i socialisti ucraini istituirono il Direttorato che, nel gennaio 1919, si unì formalmente con la Repubblica Popolare dell'Ucraina Occidentale, o "Repubblica Nazionale dell'Ucraina Occidentale", nata nel territorio della Galizia orientale che era stato sotto dominazione austro-ungarica. Fra il 1918 e il 1920, in una situazione di totale caos, si affrontarono in Ucraina ben undici eserciti fra armate bianche, bolsceviche, polacche, anarchiche, forze autonomiste e truppe della Triplice intesa (queste ultime inviate a sostegno delle armate bianche), mentre a seguito della guerra polacco-ucraina il territorio dell'Ucraina Occidentale venne incorporato nella Polonia nel luglio del 1919. Nel 1920 il Paese era diviso in varie entità statali distinte, ognuna controllata da una diversa fazione: Piłsudski scelse di appoggiarsi a quella guidata dal capo cosacco Simon Petljura, socialista ma accesamente antirusso e antibolscevico. Le forze di Petljura, leader della Repubblica popolare ucraina, erano state scacciate verso i confini occidentali ucraini da quelle del generale bianco Denikin ed avevano trovato rifugio in Polonia. Il patto, firmato il 1º aprile 1920, sembrava molto vantaggioso per i polacchi: Piłsudski avrebbe potuto sostenere di voler appoggiare le rivendicazioni nazionaliste ucraine e inoltre, in cambio dell'aiuto polacco per recuperare il potere a Kiev, Petljura avrebbe riconosciuto l'annessione alla Polonia della Galizia orientale con la città di Leopoli;
In Bielorussia, il 25 marzo 1918, sotto occupazione tedesca, era stata proclamata la nascita della Repubblica Popolare Bielorussa, a cui era seguita, dopo la ritirata tedesca, la nascita della Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa nel gennaio 1919.
La Lituania si era dichiarata indipendente nel febbraio del 1918, sotto occupazione tedesca, e dopo la fine della guerra, il 4 aprile 1919, si era costituita in repubblica rivendicando come capitale Vilnius, capitale storica del Granducato di Lituania. Vilnius era rivendicata anche dalla Polonia, in quanto la maggioranza della popolazione della città era ebraica ma i polacchi costituivano di gran lunga la minoranza più numerosa. L'infiltrazione bolscevica portò allo scoppio della guerra lituano-sovietica e alla nascita nella parte meridionale del paese, nel dicembre del 1919, della Repubblica Socialista Sovietica Lituana con capitale Vilnius, che, nel febbraio 1919, si unì con la RSS Bielorussa a formare la Repubblica Socialista Sovietica Lituano-Bielorussa.
La geografia del teatro d'operazioni
La geografia dell'Europa centrale e orientale ebbe un ruolo significativo nella guerra sovietico-polacca. Il teatro d'operazioni era immenso: il fronte si estendeva per più di mille chilometri, circa la metà dei quali erano utilizzabili per le maggiori operazioni, ed era limitato a nord dal mar Baltico, a sud dai Carpazi, a ovest dalla Vistola e a est dal Dnepr, un'area di forma triangolare con Varsavia, Smolensk e Charkiv ai vertici. Quest'area è attraversata da una serie di ostacoli naturali: un sistema di fiumi, come il Narew (che confluisce nella Vistola da nord-est) e il Bug (che scorre verso nord prima di piegare a ovest presso Brėst per confluire nel Narew); la regione boscosa dei laghi Masuri a nord; le paludi del Pryp"jat' al centro. Queste paludi rappresentano il maggior ostacolo naturale agli spostamenti: in genere sono considerate insuperabili e sdoppiano il percorso che da est conduce verso Varsavia in due settori separati: a nord la cosiddetta porta della Rutenia bianca, un corridoio di cinquecento kilometri che collega Minsk a Varsavia; a sud la cosiddetta porta di Volinia, un corridoio di trecento kilometri lungo l'asse Kiev-Lublino-Varsavia. A ovest, le Paludi del Pryp"jat' si aprono in una pianura dove i due settori convergono in prossimità di Brėst: quest'area non solo canalizza gli spostamenti lungo la direttrice est-ovest, ma limita la libertà di movimento lungo l'asse nord-sud fornendo ai difensori prevedibili vie di approccio su cui impostare le difese in profondità. Le ferrovie erano l'unico mezzo di trasporto affidabile su larga scala, ma il loro utilizzo era problematico a causa della varietà degli scartamenti ferroviari presenti (tedesco, austriaco e russo). Le strade erano incapaci di sostenere le linee di comunicazione di un esercito: a est del Bug vi erano solo due strade asfaltate, in pratica a una sola corsia di marcia; le vie secondarie variavano, a seconda delle condizioni meteorologiche, fra l'essere una palude di fango in primavera e una distesa polverosa piena di buche in estate; i ponti erano scarsi o danneggiati come risultato delle operazioni militari della prima guerra mondiale.
Forze in campo
L'esercito polacco
L'inizio della nascita dell'esercito polacco può essere fatta risalire al 1910, quando Piłsudski incominciò a creare le "Formazioni polacche di fucilieri" (Polskie Drużyny Strzeleckie, o PDS) che avrebbero dovuto servire come base per la rinascita di un esercito nazionale polacco; queste formazioni erano segretamente supportate dal Partito Socialista Polacco (Polska Partia Socjalistyczna, o PPS) e dall'Unione per la lotta armata attiva (Związek Walki Czynnej, o ZWC), un'organizzazione militare segreta, e fornivano un addestramento militare di base.
Durante la prima guerra mondiale contingenti polacchi combatterono negli eserciti russo, tedesco, austro-ungarico e francese. Sotto il controllo austro-ungarico furono formate le Legioni polacche, come brigate indipendenti, nella tradizione di quelle che avevano combattuto durante le guerre napoleoniche: nel 1916 le tre brigate delle Legioni polacche contavano 12 000 uomini. Dopo la fine della guerra le unità polacche si sbandarono e gli uomini tornarono alle loro case per poi passare nell'esercito polacco.
Il Comitato Nazionale Polacco (Komitet Narodowy Polski, o KNP) costituì un piccolo esercito polacco in Francia reclutando uomini fra i polacco-americani, gli immigrati che vivevano in Francia, disertori degli Imperi centrali e prigionieri di guerra. Alla fine del 1918 l'Armata Blu, chiamata così dal colore delle uniformi francesi che indossava, era comandata dal generale Józef Haller e ammontava a 15 000 uomini oltre a un reggimento di settanta carri armati: questi uomini raggiunsero la Polonia nella primavera del 1919 prendendo parte alla guerra polacco-ucraina nella Galizia orientale, ed erano la forza meglio addestrata dell'esercito polacco.
Quando nel novembre del 1918 Piłsudski, dopo essere stato imprigionato dalle autorità austro-ungariche, ritornò a Varsavia, prese il comando dell'esercito. All'epoca l'esercito polacco poteva contare su tre reggimenti di fanteria e su tre squadroni di cavalleria provenienti dalla Polnische Wehrmacht, le formazioni militari polacche create dai tedeschi nel 1917 formalmente come esercito del Regno di Polonia, per un totale di circa 9 000 uomini.[28] Ben presto uomini e ufficiali provenienti dai vari fronti si unirono all'esercito: in giugno la Divisione polacca del generale Lucjan Żeligowski, partendo da Odessa sul Mar Nero, raggiunse Leopoli dopo una marcia di tre mesi attraverso i Balcani; un distaccamento polacco da Murmansk, nel nord della Russia, raggiunse la Polonia alla fine del 1919 e i 10 000 sopravvissuti della Divisione siberiana del colonnello Kazimierz Rumsza, provenienti da Vladivostok, raggiunsero il porto di Danzica nel luglio del 1920.[28]
La coscrizione obbligatoria, introdotta nel marzo 1919, moltiplicò in breve gli uomini disponibili: includendo volontari e coscritti, l'esercito raggiunse una forza di 740 000 uomini nella primavera del 1920, organizzati in ventuno divisioni di fanteria e sette brigate di cavalleria. In generale la leadership delle forze armate era debole e non godeva di molta fiducia, fatta eccezione per pochi uomini come Piłsudski, Haller e il capo dello stato maggiore, generale Tadeusz Rozwadowski.
La sfida maggiore che dovette affrontare Piłsudski nella creazione dell'esercito polacco fu riuscire ad amalgamare, equipaggiare e addestrare a combattere insieme uomini provenienti da ogni parte d'Europa, che parlavano lingue diverse e avevano ricevuto un addestramento diverso a seconda dell'esercito in cui avevano combattuto.Sotto il comando polacco era anche l'Esercito del popolo russo, una formazione composta da controrivoluzionari russi organizzata da Boris Savinkov, ex viceministro della guerra nel Governo Provvisorio Russo (nato in seguito all'abdicazione dello Zar nel 1917) e capo del Comitato politico russo antibolscevico a Varsavia.
L'equipaggiamento prevedeva almeno quattro differenti tipi di fucile: il Lebel francese, il Mannlicher austro-ungarico, il Berdan russo o il Mauser tedesco, ognuno con un differente munizionamento, mentre per l'artiglieria il cannone da 75 mm francese era l'equipaggiamento standard benché vi fosse una carenza di munizioni. L'addestramento era molto carente: solo alcune unità d'élite erano in grado di ingaggiare battaglia, mentre la maggior parte delle formazioni erano in grado solo di eseguire compiti di base; nel tentativo di fornire una migliore coesione, la Francia inviò una missione composta da quattrocento ufficiali per addestrare i quadri, ma il loro arrivo non fu uniformemente ben visto. L'esercito polacco utilizzava anche treni blindati, provvisti di cannoni di grosso calibro, che operavano come navi da battaglia terrestri e servivano anche a trasportare artiglieria pesante, cavalli e aeroplani. Vi era una piccola forza aerea nella quale militavano in gran numero veterani della prima guerra mondiale e volontari stranieri, in modo particolare statunitensi che avevano servito in Francia nella Squadriglia Lafayette. Fra gli aeroplani dell'eterogenea aviazione polacca vi erano venti caccia italiani Ansaldo A.1 "Balilla" che equipaggiarono la famosa squadriglia Kościuszko a partire dal giugno 1920. La presenza di questa piccola ma ben addestrata forza aerea diede un decisivo vantaggio ai polacchi nella ricognizione e, in modo più limitato, nel supporto alle truppe.
L'Armata Rossa
L'Armata Rossa nacque il 18 gennaio 1918 sotto la direzione di Lev Trotsky:[38] all'inizio Trotsky non aveva un'idea certa su come formare il nuovo esercito, le forze a disposizione erano composte da poche truppe lettoni dell'armata zarista a cui si aggiungevano uomini delle Guardie rosse e alcuni battaglioni dei marinai della base di Kronstadt; ben presto arrivarono volontari da ogni parte della Russia per completare i ranghi, e in aprile già erano circa 100 000 gli uomini a disposizione, che crebbero ulteriormente dopo la decisione di Trockij di istituire la leva obbligatoria. Poiché la maggior parte degli uomini non aveva alcun addestramento militare, si ricorse agli ex ufficiali dell'armata imperiale zarista emanando, il 29 luglio 1918, l'ordine n. 228 che comandava la generale mobilitazione degli ex ufficiali zaristi; stessa procedura fu usata per reclutare i sottufficiali e il personale amministrativo. Nell'agosto del 1920, 48 000 ufficiali, 214 000 sottufficiali e 10 000 unità di personale amministrativo, provenienti dall'armata zarista, erano in servizio nell'Armata Rossa.
Per essere sicuro della fedeltà degli ex ufficiali zaristi, Trotsky istituì un sistema centrale di controllo composto da commissari politici che operavano al loro fianco, in una gerarchia parallela che duplicava la catena di comando. Per reclutare e istruire gli ufficiali fu istituito un corso nel febbraio 1918, ma comunque, fino alla guerra sovietico-polacca, il miglior addestramento per gli uomini dell'Armata Rossa fu l'esperienza fatta nella guerra civile: la guerra diede l'opportunità a molti giovani ufficiali di provare il loro talento e la loro genuina fede nella rivoluzione, e fra questi si distinsero Tuchačevskij e Egorov, che comandarono i fronti durante la guerra sovietico-polacca, e Čujkov e Žukov, futuri marescialli durante la seconda guerra mondiale
Inoltre, la guerra civile fu per l'Armata Rossa una scuola di combattimento che alterò la percezione tradizionale sulla relazione esistente fra spazio e disposizione delle forze: la guerra fu caratterizzata dal movimento, enfatizzando l'importanza delle linee di comunicazione e del comando centralizzato. Grazie alla sua mobilità, la cavalleria riguadagnò la propria posizione di arma decisiva, in contrasto con ciò che era avvenuto nella prima guerra mondiale. La natura fluida della guerra aumentò l'importanza dell'avere a disposizione una riserva principale per bloccare le penetrazioni avversarie e contrattaccare, e inoltre portò alla formazione di un efficace stato maggiore, capace di pensare concettualmente su grande scala in modo da saper pianificare le operazioni e controllare e posizionare le forze entro un teatro d'operazioni geograficamente molto ampio.[42]
Al contrario dell'esercito polacco, l'Armata Rossa aveva una singola arma di base: il fucile Mosin-Nagant, del quale vi era una grande disponibilità, sia come armi che come munizioni lasciate dall'armata zarista, e due fabbriche che ancora lo avevano in produzione; sebbene poco preciso sulla lunga distanza, si trattava comunque di un'arma robusta e affidabile. Dal 1920, comunque, la rapida espansione dell'Armata Rossa aveva reso insufficiente la produzione di armi e munizioni per poter equipaggiare l'intera forza armata ma, con la progressiva sconfitta delle armate bianche, erano state catturate grandi quantità di armamenti di produzione francese e britannica. Nelle operazioni mobili che caratterizzarono la guerra civile, due armi giocarono un ruolo fondamentale: la variante russa della mitragliatrice Maxim, prodotta come PM M1910, un'arma robusta e pressoché indistruttibile che poteva sparare per lunghi periodi senza necessità di manutenzione, e la Tachanka, un carro a molle trainato da cavalli e armato con una mitragliatrice, in grado di offrire una combinazione di mobilità e volume di fuoco molto importante durante gli attacchi e le ritirate. A differenza dell'esercito polacco, l'Armata Rossa non aveva una propria componente aerea significativa, limitandosi perlopiù ad operazioni di osservazione per l'artiglieria per mezzo di palloni frenati che si dimostrarono facili bersagli sia per il fuoco da terra che per gli aerei polacchi anche perché, non avendo mai dovuto confrontarsi con un'aviazione avversaria, i sovietici non avevano sviluppato un'effettiva artiglieria antiaerea.
All'inizio della guerra sovietico-polacca, l'Armata Rossa si era evoluta in una forza da combattimento credibile: l'armata, nata dalla rivoluzione, aveva una propria dottrina e una propria tattica sull'impiego delle forze, una sufficiente esperienza di combattimento e una base industriale in via di sviluppo a proprio supporto.
Svolgimento del conflitto
L'invasione polacca
«Facemmo di corsa tutta la strada per Kiev, e di corsa facemmo tutta la via del ritorno.» (Un veterano polacco)
Preannunciata da alcuni scontri di frontiera all'inizio del 1919 (battaglia di Bereza Kartuska - febbraio 1919), anche se una frontiera certa non esisteva, la guerra iniziò con l'avanzata dell'esercito polacco verso Vilnius (occupata in aprile), da cui fu espulso il governo sovietico della RSS Lituano-Bielorussa, e verso Minsk (conquistata l'8 agosto), e precipitò nella primavera successiva con il dilagare dell'esercito polacco, fiancheggiato dalle truppe ucraine dell'atamano Simon Petljura, in Ucraina e la conquista, l'8 maggio 1920, della città di Kiev, che in tal modo cambiava padrone per la quindicesima volta in tre anni.
L'Armata Rossa, già impegnata su almeno quindici fronti contemporaneamente (le armate bianche di Judenič davanti Pietrogrado, di Kolčak in Siberia e di Denikin sul Volga; le truppe britanniche ad Arcangelo, Murmansk e nel Caucaso; quelle francesi a Odessa; quelle statunitensi e giapponesi a Vladivostok), praticamente si ritirò senza combattere.
Poiché nella primavera del 1919 c'erano solo pochi reparti dell'Armata Rossa disponibili sul fronte occidentale, la gran parte dell'esercito polacco venne dislocata lungo le zone di confine contese con la Galizia, la Cecoslovacchia e la Germania. Così, l'attacco polacco contro Lituania e Bielorussia, fu condotto inizialmente da una forza di soli 10 000 uomini, al comando del generale Stanisław Szeptycki, organizzati in dodici squadroni di cavalleria, dodici battaglioni di fanteria e tre compagnie di artiglieria. Da parte sovietica, a presidiare quel settore, c'erano la Divisione occidentale a Lida (a sud-ovest di Vilnius) e la Divisione di Pskov a Vilnius. Piłsudski arrivò al fronte il 15 aprile portando con sé due divisioni di fanteria e una brigata di cavalleria in rinforzo. Facendo affidamento sulla sorpresa e grazie a una finta verso la città di Lida, i polacchi distrassero una parte delle difese sovietiche da Vilnius, quindi, utilizzando la cavalleria, riuscirono a interdire le vie di comunicazione isolando le difese sovietiche sia a Lida sia a Vilnius e avanzando nel vuoto fra le linee che si era così creato. I polacchi riuscirono ad occupare Vilnius in soli tre giorni. Con l'arrivo in rinforzo dell'armata di Poznań all'inizio di luglio, i polacchi iniziarono a manovrare per attaccare Minsk, verso cui aveva ripiegato la Divisione occidentale sovietica. La battaglia per la conquista della città occupò la prima settimana di agosto e, similmente a quanto fatto a Vilnius, i polacchi dapprima condussero incursioni con la cavalleria nelle retrovie sovietiche, tagliando le vie di comunicazioni in modo da isolare la città, e poi l'attaccarono direttamente. Con l'occupazione di Vilnius e Minsk, per la metà di agosto 1919, i polacchi si erano assicurati il raggiungimento dei propri obiettivi strategici in Lituania e in Bielorussia.
Alle prese con pressanti problemi militari (il 19 settembre l'armata controrivoluzionaria del generale Denikin aveva occupato Kiev) ed economici (il blocco economico imposto dall'Intesa che per circa un anno impedì alla Russia boscevica qualsiasi commercio con l'estero aggravando la situazione della popolazione, colpita dal tifo e da altre epidemie, per la carenza di cibo, vestiario e medicinali) che consigliavano di evitare una nuova guerra, per di più contro un nemico esterno, il governo sovietico si mostrò disposto a trovare un accordo con i polacchi anche a prezzo di generose concessioni territoriali. Tuttavia, per ogni evenienza, il comando militare iniziò a preparare un piano di operazione da usare nel caso fosse scoppiata la guerra con la Polonia. Il 22 dicembre 1919 una nota con un'offerta di pace fu inviata dal Commissario per gli affari esteri Georgij Čičerin al governo polacco ma non ricevette alcuna risposta. Il 28 gennaio 1920, una dichiarazione ufficiale venne inviata al governo polacco da Lenin, Trockij e Čičerin in nome del Consiglio dei Commissari del popolo; nella dichiarazione si avvertiva il governo polacco sui pericoli insiti nella guerra con la Russia sovietica nella quale gli Alleati stavano trascinando la Polonia, si riaffermava "incondizionatamente" il riconoscimento dell'indipendenza e della sovranità della Repubblica di Polonia, si affermava che la Russia bolscevica non aveva intenzioni aggressive, che l'Armata Rossa non sarebbe avanzata oltre la linea di frontiera esistente e che il governo sovietico non aveva concluso accordi con la Germania o con qualsiasi altra nazione ostile alla Polonia. Come unico risultato, la dichiarazione ottenne il recepimento e una promessa di replica da parte del ministro degli esteri polacco Patek. Nuove offerte di pace sovietiche furono inviate il 2 febbraio e il 6 marzo senza risultato. Finalmente, il 27 marzo, Patek informò Čičerin che la Polonia era pronta a iniziare negoziati di pace con la Russia bolscevica. Čičerin propose come sedi negoziali Mosca, Varsavia oppure una località neutrale in Estonia, ma Piłsudski, deciso a sfruttare la situazione di vantaggio anche a scopo propagandistico, pretese che le trattative avessero luogo nella piccola città di Borisov, nel bel mezzo del fronte polacco, e rifiutò la proposta sovietica di un armistizio per la durata dei negoziati concedendo solo una tregua di ventiquattro ore nel settore di Borisov: giusto il tempo e lo spazio per permettere il passaggio della delegazione sovietica attraverso le linee polacche. L'inflessibilità polacca insieme all'evidente richiamo alle condizioni umilianti in cui si era svolta la pace di Brest-Litovsk, convinse Lenin e Trotsky dell'insincerità della proposta polacca. Secondo il conte Aleksander Skrzyński, successivamente ministro degli esteri e primo ministro polacco: «Le proposte di pace [sovietiche] non vennero prese in seria considerazione… Dato però che una politica parlamentare e democratica non consentiva di lasciarle senza una risposta, la questione del luogo ove i negoziati avrebbero potuto esser tenuti venne prospettata in modo così offensivo, che tutto si arrestò a quel punto.»
L'arrivo delle truppe polacche a Kiev.
Nella primavera del 1920 le sorti della guerra civile in Russia stavano decisamente volgendo a favore dei bolscevichi, Piłsudski decise che fosse il momento di agire per sferrare un colpo decisivo all'Armata Rossa prima che potesse riorganizzarsi e trasferire forze in massa sul fronte occidentale. Piłsudski poteva disporre di circa 120 000 uomini: la 1ª, la 4ª e la 7ª armata vennero lasciate a presidiare il fronte in Bielorussia, mentre le forze mobilitate per l'invasione dell'Ucraina erano state concentrate in quattro raggruppamenti: a nord la 4ª divisione di fanteria era in contatto con la 4ª armata in Polesia; al centro, supportate da una divisione di cavalleria e da tre plotoni di autoblindo, erano schierate la 3ª armata a Novograd e la 2ª armata a Šepetivka, insieme alle forze ucraine di Petljura; infine a sud la 6ª armata era posizionata sul Dnestr. A fronteggiare i polacchi vi erano la 12ª armata a Kiev e la 14ª armata sul Dnestr, entrambe sottorganico e surclassate numericamente dai polacchi (secondo fonti sovietiche, a 52000 polacchi, le due armate sovietiche potevano contrapporre solo 12000 uomini; in particolare la 14ª armata non raggiungeva la consistenza di una divisione.), a ciò si aggiunsero l'ammutinamento di due brigate galiziane, una delle quali passò interamente dalla parte dei polacchi, e le incursioni delle bande di Machno nelle retrovie sovietiche che causarono il massacro di diversi reparti, la distruzione di ponti e riserve di rifornimenti nonché l'interruzione del sistema di trasporti e comunicazioni. Piłsudski lanciò l'offensiva contro Kiev il 25 aprile incontrando una debole resistenza da parte delle truppe sovietiche: la 14ª armata si ritirò dopo aver messo in atto una serie di azioni di retroguardia per tentare di rallentare l'avanzata polacca e il 6 maggio la 12ª armata lasciò Kiev che venne occupata dai polacchi due giorni dopo. I polacchi dopo aver occupato Kiev e una piccola striscia sulla riva sinistra del Dnepr, si volsero immediatamente su posizioni difensive.
Tatticamente l'operazione fu un successo per i polacchi, ma strategicamente fu un fallimento: supponendo erroneamente che il grosso dell'Armata Rossa fosse a sud, Piłsudski aveva concentrato le sue forze contro l'Ucraina nella speranza di infliggere al nemico un colpo mortale, ma le poche forze sovietiche nell'area riuscirono a sfuggire all'annientamento e Piłsudski ottenne solo di estendere il fronte e disperdere le sue forze. Inoltre l'alleanza con Petljura si rivelò controproducente in quanto ormai il leader nazionalista ucraino non era più in grado di attrarre un vasto seguito. Piłsudski sperava anche che l'arrivo delle truppe polacche avrebbe indotto la popolazione ucraina a sollevarsi contro i bolscevichi, ma non vi fu alcuna sollevazione: se i sovietici avevano il sostegno di almeno una parte della popolazione, viceversa i polacchi non suscitavano alcun entusiasmo.
La controffensiva dell'Armata Rossa
L'occupazione polacca dell'Ucraina e la perdita di Kiev provocò inizialmente costernazione e smarrimento fra i dirigenti sovietici, essendo giunta del tutto inaspettata, ma ben presto volse la situazione in loro favore: la Polonia aveva occupato un territorio incontestabilmente russo e sulla scena internazionale ora rivestiva chiaramente il ruolo dell'aggressore giustificando così una drastica risposta militare. Inoltre l'attacco polacco suscitò la solidarietà delle classi lavoratrici europee e provocò un'ondata di passione patriottica in Russia che la necessità del momento spinse i leader bolscevichi a sfruttare ripiegando su una nuova versione del patriottismo russo che faceva appello sia ai valori rivoluzionari della lotta di classe e dell'internazionalismo sovietico sia a quelli tradizionali della difesa della madrepatria: il 29 aprile 1920, il Comitato Centrale del Partito Comunista lanciò un appello, non solo ai lavoratori sovietici, ma a tutti i "cittadini d'onore" di Russia per non permettere "alle baionette dei magnati polacchi di determinare il destino della Grande nazione russa", mentre il KP(b)U (Partito Comunista Bolscevico Ucraino) denunciava il pericolo che l'invasione polacca minacciasse l'esistenza di una madrepatria ucraina. L'appello al patriottismo si rivelò molto più produttivo in termini di morale e mobilitazione della popolazione che non la propaganda basata sulla lotta di classe, ma alienò alla causa bolscevica il sostegno di parte dei lavoratori polacchi, anche se vi fu sempre attenzione nella propaganda sovietica a non cadere nello sciovinismo e a fare una netta distinzione riguardo ai polacchi fra proprietari terrieri e capitalisti da una parte e operai e contadini dall'altra.
L'attacco polacco in Ucraina alterò significativamente la situazione militare ed il piano d'operazione inizialmente preparato dal comando sovietico dovette essere modificato. Il Comandante supremo dell'esercito, generale Sergei Kamenev, riorganizzò le forze sovietiche a occidente su due fronti: il fronte occidentale (a nord) e il fronte sud-occidentale (a sud).[nota 2] Il nuovo piano prevedeva due azioni: l'attacco principale doveva essere portato dal fronte occidentale in Bielorussia; al fronte sud-occidentale era assegnato un attacco di supporto assecondando la direzione generale dell'offensiva, da Rivne a Brest-Litovsk; i due fronti dovevano cooperare il più strettamente possibile e sebbene al fronte sud-occidentale fosse stato assegnato un ruolo sussidiario, la sua azione era ritenuta di particolare importanza, per questo gli venne assegnata come rinforzo una delle forze di maggior impatto offensivo a disposizione dell'Armata Rossa: la Prima armata di cavalleria del generale Semën Budënnyj. Il 29 aprile 1920, l'allora appena ventisettenne generale Michail Tuchačevskij fu posto al comando del fronte occidentale e delle sue quattro armate (15ª, 3ª, 16ª e 4ª armata). Il fronte sud-occidentale, con la 12ª e la 14ª armata di fanteria e la Prima armata di cavalleria, fu posto invece sotto il comando del generale Aleksandr Egorov. I due fronti sovietici potevano contare su circa 160 000 uomini.
Il generale Tuchačevskij lasciò il Caucaso e arrivò al suo nuovo quartier generale di Smolensk, al confine con la Bielorussia, il 7 maggio, trovando una situazione piuttosto critica: le unità sovietiche erano solo in parte organizzate e, anche se nominalmente superiori in numero ai polacchi, solo una delle quattro armate era in grado di combattere; in più vi era il rischio che i polacchi dirottassero in Bielorussia una parte delle divisioni che avevano occupato Kiev. Per avere una propria forza di cavalleria, Tuchačevskij assemblò due divisioni di cavalleria e una brigata di fanteria creando così il III Corpo di cavalleria (Kavkor), affidato al comando del generale Gaja Gaj. L'offensiva sovietica era stata fissata per il 15 maggio e, secondo i piani dell'alto comando, prevedeva un attacco principale che doveva essere condotto dalla 16ª armata in direzione di Igume-Minsk, mentre alla 15ª armata, operante più a nord, era affidato un ruolo di supporto. Questo piano venne modificato da Tuchačevskij quando si rese conto dell'impossibilità di portarlo a termine, sia per le precarie condizioni delle unità ai suoi ordini che per l'inadeguatezza del sistema di approvvigionamento che rendevano non perseguibile un'offensiva continuata in profondità. Tuchačevskij disponeva di una forza totale di circa 92400 uomini e, dopo una rapida preparazione, lanciò un primo attacco con la 15ª armata, la sola già in grado di affrontare la battaglia, impadronendosi del nodo ferroviario di Molochevski. L'azione precedette di poco un analogo attacco polacco, diretto contro Žlobin e Mogilёv, che se avesse avuto successo avrebbe interrotto le comunicazioni ferroviarie fra le forze sovietiche schierate a nord e a sud e disturbato non poco i preparativi sovietici. Questa azione segnò l'inizio della prima delle due offensive del fronte occidentale.
La prima offensiva (battaglia della Beresina) fu lanciata il 15 maggio: un attacco diversivo venne portato contro l'ala destra dello schieramento polacco, mentre la 15ª armata, attraversata la Dvina, portava l'attacco principale verso nord-ovest, contro l'ala sinistra polacca, riuscendo a sfondare le linee nemiche, per poi ripiegare verso sud-ovest tentando di ricacciare i polacchi verso le paludi del Pryp"jat'; tre giorni dopo all'offensiva si unì la 16ª armata che, oltrepassata la Beresina, occupò Borisov. Ad opporsi alle forze sovietiche c'erano la 1ª, la 4ª e la 7ª armata polacche sotto gli ordini del generale Stanisław Szeptycki, con la 4ª armata schierata lungo la Beresina e la 7ª mantenuta come riserva strategica. L'offensiva colse di sorpresa i polacchi: per due settimane le truppe sovietiche avanzarono ricacciando all'indietro quelle polacche; all'inizio di giugno, con una serie di contrattacchi dopo oltre cento chilometri di ritirata ininterrotta, l'esercito polacco riuscì a contenere l'offensiva sovietica lungo una linea di difesa che correva dalle foreste intorno alla città di Kazjany (Казяны), a nord, al lago di Pelic, a sud. A questo punto, avendo temporaneamente allontanato la minaccia di un'offensiva polacca in Bielorussia e non essendo in grado di sfruttare appieno il successo raggiunto, Tuchačevskij preferì fermarsi per riprendere la riorganizzazione delle sue forze e l'8 giugno ordinò alle proprie truppe di ritirarsi sulle rive occidentali dei fiumi Avuta (Авута) e Beresina; tanto più che lo sfondamento della Prima armata di cavalleria a sud aveva dirottato l'attenzione polacca sul fronte meridionale.
La controffensiva sovietica a sud
«Se avessi avuto i trecentomila cavalleggeri dell'armata zarista, avrei calpestato l'intera Polonia e avremmo attraversato rumorosamente le piazze di Parigi prima della fine dell'estate.» (Semën Budënnyj )
L'offensiva del fronte sud-occidentale per la riconquista dell'Ucraina iniziò il 26 maggio. Le direttive inviate da Kamenev a Egorov prevedevano che la 12ª e la 14ª armata attaccassero le posizioni polacche, rispettivamente, a nord e a sud di Kiev; mentre alla Prima armata di cavalleria era assegnato il compito di condurre l'attacco frontale. Il collegamento col fronte occidentale di Tuchačevskij era assicurato dal Gruppo Mozyr, la cui scarsa consistenza, che ammontava a meno di due divisioni, era in parte compensata dal fatto di essere schierato a presidiare un tratto del fronte (che sconfinava nelle paludi del Pryp"jat') caratterizzato da un terreno che rendeva difficile i movimenti delle truppe. All'epoca dell'invasione polacca, la Prima armata di cavalleria del generale Budënnyj, la famosa Konarmiia, disponeva di circa 16000 uomini e si trovava nel Caucaso settentrionale (nel Kuban'), dove aveva combattuto contro l'esercito del generale Denikin. Partita dalla città di Majkop, si riorganizzò nella città di Uman', in Ucraina a sud-est di Kiev, che raggiunse dopo una marcia di trasferimento di 1 200 chilometri, quasi tutti coperti cavalcando in trenta giorni e al prezzo di cinquanta cavalli azzoppati o morti al giorno.
Il 31 maggio iniziò l'attacco del fronte sud-occidentale. Alla mobilità e alla forza dirompente della Prima armata di cavalleria era affidato il compito di sfondare le linee della 3ª armata polacca, a sud di Kiev, avanzando verso nord-ovest in modo da tagliarne le vie di comunicazione, mentre la 12ª armata, attraversato il Dnepr a nord di Kiev, doveva procedere verso sud-ovest in modo da completare l'accerchiamento. La 14ª armata avrebbe coperto il fianco sinistro della Prima armata contro la 6ª armata polacca e, alla sua destra, il Gruppo Fastov, forte di due divisioni di fanteria, era posizionato per un attacco parallelo in direzione dell'incrocio ferroviario di Fastiv, circa 40 km a sud-ovest di Kiev.
Inizialmente, gli sforzi fatti per rompere le linee polacche utilizzando l'assalto in massa della cavalleria, una tattica che aveva frequentemente avuto successo contro le armate bianche, non diede i risultati sperati contro le ben trincerate e relativamente disciplinate forze polacche. Egorov allora cambiò tattica: l'attacco della Konarmiia fu sostenuto da quello della fanteria e condotto sfruttando la superiorità dell'artiglieria sovietica; la Konarmiia stessa fu scaglionata su più linee d'attacco (la prima linea era composta dalla 4ª divisione, la seconda dalla 14ª e dalla 11ª divisione e la terza dalla 6ª divisione). L'assalto generale fu lanciato all'alba del 5 giugno e quattro giorni dopo le fanterie sovietiche riuscirono a sfondare le linee polacche occupando Fastiv e aprendo un varco nello schieramento avversario attraverso il quale si riversò rapidamente la cavalleria. La Konarmiia, avanzando rapidamente lungo la ferrovia ad ovest di Fastiv, portò la breccia nel fronte polacco ad un'ampiezza di 40 km. L'intento di Egorov era quello di tagliare rapidamente la linea della ritirata ai polacchi, ma la Konarmiia, che avrebbe dovuto chiudere la tenaglia intorno alla 3ª armata polacca convergendo verso nord sulla ferrovia Kiev-Korosten', per difetto di comunicazione e confusione negli ordini, avanzò invece in direzione di Žytomyr, contro le posizioni della 2ª armata polacca. La Konarmiia era la sola unità a disposizione di Egorov in grado di compiere rapide manovre; la fanteria sovietica, invece, faticò a tenere il passo della propria cavalleria e delle truppe polacche in ritirata. La mancanza di forze di riserva mobili fece fallire il tentativo di Egorov di accerchiare e distruggere i polacchi, che poterono così ritirarsi in relativo ordine lungo la ferrovia per Korosten' preservando forze che, per quanto provate, altrimenti sarebbero state distrutte. Il 13 giugno l'Armata Rossa entrò a Kiev, abbandonata dai polacchi in ritirata.
Dopo dieci giorni di attacchi, il fronte sud-occidentale era riuscito a spezzare le linee polacche dando inizio a un'avanzata che proseguì ininterrotta per dieci settimane, costringendo i polacchi a ritirarsi precipitosamente verso il Bug alla velocità media di dieci km al giorno. Il successo dell'avanzata fu determinato in gran parte dall'abilità della Konarmiia di trovare continuamente punti deboli nello schieramento polacco, penetrando rapidamente attraverso di essi nelle retrovie, o di aggirare i polacchi sui fianchi nel terreno aperto della pianura ucraina, mentre tutti i contrattacchi polacchi vennero facilmente respinti. Durante l'avanzata la Prima armata di cavalleria fu divisa in due gruppi: Budënnyj, con la 6ª e la 11ª divisione, si diresse verso Žytomyr, il Commissario politico dell'armata, Kliment Vorošilov, con la 4ª e 14ª divisione marciò in direzione di Korosten'.
Caddero, l'una dopo l'altra, Korosten', Berdyčiv, Žytomyr e Rivne, sede del comando del maresciallo Piłsudski. Entro la fine di giugno gran parte dell'Ucraina era stata liberata e per il 10 luglio i polacchi si erano ritirati sulla linea che tenevano nell'agosto 1919. Tuttavia, le tre armate di Egorov si erano di molto allontanate l'una dall'altra nella vastità della pianura ucraina, perdendo coesione: la 12ª armata e la Konarmiia, dopo aver oltrepassato il fiume Zbruč, stavano muovendo verso nord-ovest, ma la 12ª armata, avvicinandosi alle posizioni del fronte occidentale, si era impantanata nel terreno paludoso che divideva i due fronti; mentre, la minaccia al fianco meridionale del fronte sud-occidentale rappresentata dalle truppe rumene che avevano occupato la Bessarabia, costrinse Egorov a mantenere più a sud la 14ª armata.
La controffensiva sovietica a nord
«Le truppe arruolate sotto la Bandiera rossa sono ora pronte a combattere fino alla morte le forze dell'Aquila bianca; vendicare il disonore di Kiev e affogare il governo criminale di Piłsudski nel sangue dell'esercito polacco annientato. Il destino della rivoluzione mondiale sarà deciso sul fronte occidentale. La via della conflagrazione mondiale passa sui corpi dei soldati polacchi.
Il 4 luglio Tuchačevskij, dopo un'estesa preparazione materiale e ideologica delle truppe, diede l'avvio alla seconda grande controffensiva del fronte occidentale: all'alba, dopo una pesante preparazione di artiglieria, lanciò all'attacco le sue quattro armate contro la 1ª e la 4ª armata polacca lungo l'asse della ferrovia Smolensk-Brest-Litovsk. Al tramonto i polacchi si erano dovuti ritirare per 25 km subendo pesanti perdite sotto la continua minaccia di essere aggirati e accerchiati dalla cavalleria sovietica. Piłsudski scrisse che l'avanzata dell'Armata Rossa dava «l'impressione di qualcosa di inarrestabile, una grande e mostruosa nube che nessun ostacolo può fermare... gli uomini tremavano e il cuore dei soldati cominciava a cedere». Il 7 luglio i polacchi incominciarono a ritirarsi sull'intero fronte. Per il 10 luglio, i sovietici avevano raggiunto le frontiere precedenti l'invasione polacca e iniziarono a lanciare continui attacchi con il III Corpo di cavalleria per aggirare lo schieramento polacco e tentare di distruggere le linee di comunicazione avversarie, ma, come già accaduto a Egorov sul fronte meridionale, la mancanza di forze di riserva dotate di sufficiente mobilità per penetrare in profondità lo schieramento nemico non permise a Tuchačevskij di sfruttare in pieno il successo di queste operazioni, mentre i polacchi riuscirono a conservare compatto il nucleo della propria forza anche se avevano dovuto ritirarsi rinunciando a posizioni strategiche.
L'11 luglio l'Armata Rossa entrò a Minsk e il 14 luglio oltrepassò Vilnius: fra il 4 e il 20 luglio l'esercito polacco fu costretto ad arretrare di oltre 300 km. Alla fine di luglio, l'Armata Rossa prese Hrodna dopo un'accanita battaglia, ma di nuovo Tuchačevskij non riuscì ad accerchiare e distruggere le forze polacche che invece sfuggirono all'accerchiamento ritirandosi oltre la linea dei fiumi Bug e Narew. Il 1º agosto l'Armata Rossa era a Brest-Litovsk e il 12 agosto il III Corpo di cavalleria raggiunse la riva orientale della Vistola a soli 50 km da Varsavia.
Parve in quel momento che i bolscevichi russi fossero sul punto di seguire l'esempio dei giacobini francesi, affidando ai loro eserciti il compito di diffondere la rivoluzione in Europa. Durante la precipitosa ritirata le truppe polacche si abbandonarono a ogni genere di violenza contro le popolazioni delle regioni attraversate, compresa l'organizzazione di pogrom,[nota 3] e nuove brutalità si ebbero al passaggio delle truppe bolsceviche.[nota 4][nota 5]
La Polonia, che vedeva messa in forse la sua stessa sopravvivenza come nazione indipendente, chiese aiuti militari ed economici a Francia e Regno Unito, che tuttavia tardarono ad arrivare perché la Germania aveva proclamato la propria neutralità e aveva rifiutato il permesso di transito ai rifornimenti provenienti dalla Francia; i ferrovieri cecoslovacchi ispezionavano tutti i treni diretti in Polonia e non lasciavano passare quelli che trasportavano armi; i portuali britannici minacciavano lo sciopero se costretti a caricare le navi con le armi destinate ai polacchi, così come quelli tedeschi del porto di Danzica se costretti a scaricarle. Cionondimeno alcuni rifornimenti poterono giungere in Polonia attraverso il porto peschereccio di Gdynia, nel corridoio polacco, mentre il carico delle navi francesi che sostavano al largo di Danzica fu trasferito, con l'impiego di truppe britanniche, su barconi e trasportato lungo la Vistola fino a Dirschau ("Tczew" in polacco), da dove fu caricato su treni merci per Varsavia. In tal modo, il ministro della guerra Kazimierz Sosnkowski riuscì a rifornire, entro il 1º luglio, l'esercito polacco con 73 nuove batterie d'artiglieria, 200 cannoni da campagna, 1 000 mitragliatrici e 20 000 cavalli; inoltre furono arruolati 100 000 nuovi volontari. La distruzione sistematica delle ferrovie, operata dai polacchi, costrinse l'Armata Rossa a trasportare i rifornimenti su carri o automezzi, e quella delle linee telegrafiche ad affidarsi ai portaordini a cavallo per mantenere le comunicazioni fra i reparti e i comandi.
A questo punto, con la Polonia seriamente in pericolo e la possibilità che i bolscevichi riuscissero a collegarsi direttamente con i movimenti operai comunisti tedeschi portando la rivoluzione nell'Europa centrale, il governo del Regno Unito, per mezzo del proprio ministero degli esteri George Nahaniel Curzon, l'11 luglio inviò via radio al governo bolscevico una nota invitandolo a cessare le ostilità contro la Polonia, a riconoscere il confine fra Polonia e Russia sovietica costituito dalla linea di demarcazione fissata dal Supremo Consiglio Alleato l'8 dicembre del 1919 (la cosiddetta "Linea Curzon" che passava per Suwałki, Hrodna, Brest-Litovsk e poi per il medio corso del fiume Bug fino a Sokal' e che era già stata rifiutata da Piłsudski in dicembre) e a inviare immediatamente a Londra una delegazione per partecipare a una conferenza di pace. I sovietici rifiutarono argomentando nella risposta ufficiale, data da Čičerin il 18 luglio, che non vedevano alcun motivo per cui i negoziati avrebbero dovuto svolgersi sotto la supervisione anglo-francese, né perché avrebbero dovuto estendersi anche agli stati baltici - con i quali al tempo erano in corso colloqui bilaterali che avevano già portato alla stipula di accordi di pace con l'Estonia (2 febbraio 1920) e con la Lituania (12 luglio 1920) - né era accettabile la condizione di un armistizio con il generale "bianco" Vrangel' (alle cui truppe doveva essere garantita la possibilità di restare in Crimea per tutta la durata dei negoziati), che avrebbero trattato direttamente con i polacchi, quando questi sarebbero stati disposti a un negoziato ufficiale diretto, lamentandosi del tardivo intervento della diplomazia britannica e di come l'anno precedente i polacchi avessero rifiutato offerte di pace ben più generose di quelle prospettate dal piano britannico.
Il piano del generale Kamenev, approvato dal Politburo del Comitato centrale il 28 aprile, prevedeva che il fronte sud-occidentale, una volta liberata l'Ucraina, avanzasse in direzione di Brest-Litovsk e, raggiunto il confine occidentale delle paludi del Pryp"jat' e preso contatto con la 16ª armata a nord, passasse poi sotto il controllo del fronte occidentale per l'avanzata finale verso Lublino e Varsavia.[83] Tuttavia, poiché la linea di demarcazione della frontiera, che nella versione del dicembre 1919 era applicata solo al territorio formalmente russo, nella nota inviata da George Curzon era stata estesa verso sud attraverso la Galizia dove passava a soli 80 km a est di Leopoli, Lenin decise di spingere più a fondo l'offensiva del fronte sud-occidentale in direzione della Galizia dando ordine a Egorov e Stalin (nominato Commissario politico del fronte sud-occidentale) di trasferire la forza principale della Prima armata di cavalleria, allora diretta verso nord-ovest, in direzione di Dubno e della ferrovia Rivne-Leopoli per sostenere un'avanzata della 14ª armata verso Leopoli.[84]
Sospinti dagli Alleati i polacchi, infine, accettarono di trattare direttamente con i sovietici. I colloqui avrebbero dovuto svolgersi a Minsk a partire dal 10 agosto. I sovietici erano disposti a trattare sulla base della Linea Curzon A, che portava entro i confini della Russia sovietica la città di Leopoli (in sostanza l'unica zona a maggioranza polacca del territorio conteso) e i campi petroliferi della Podolia, sebbene con correzioni territoriali a favore della Polonia nelle zone di Białystok e Chełm; l'esercito polacco doveva essere ridotto a una consistenza di 60000 uomini, le armi in soprannumero dovevano essere cedute all'Armata Rossa, l'industria bellica smantellata e i polacchi dovevano garantire il diritto di libero transito per le merci e i passeggeri provenienti dalla Russia lungo la ferrovia Volkovysk-Grajewo. Ma nel documento preliminare con le condizioni sovietiche trasmesso al primo ministro britannico Lloyd George, il generale Kamenev aveva omesso due ulteriori richieste: una zona di disarmo, che avrebbe dovuto essere sorvegliata da una "milizia operaia" di 200000 uomini, e un risarcimento per le famiglie delle vittime di guerra polacche attraverso la concessione di terre libere. Queste due ultime richieste, più che termini di pace sembravano costituire propaganda rivoluzionaria ed era ovvio che sarebbero state inaccettabili per qualsiasi governo "borghese" polacco, ma i sovietici, sull'onda dell'entusiasmo delle vittorie militari, in quel momento non volevano la pace più di quanto la volessero i polacchi in marzo. Lloyd George invitò i polacchi ad accettare le proposte sovietiche, ma il negoziato non ebbe mai luogo sia perché i polacchi disertarono i colloqui sia per l'evolversi della situazione militare.
La battaglia di Varsavia
Poster sovietico di propaganda della guerra sovietico-polacca del 1920. La scritta recita: "Così si concluderà l'avventura dei magnati polacchi". E sulla bandiera rossa: "Lunga vita alla Polonia sovietica!"
Alla fine di luglio i sovietici sembravano vicini alla vittoria. Una parte dei dirigenti sovietici nutriva un forte ottimismo e si credeva possibile organizzare una nuova Polonia sovietica; dopo Varsavia l'obiettivo sarebbe stato il ricongiungimento con i rivoluzionari tedeschi e Lenin si spinse a ipotizzare un'"Unione bolscevica" comprendente anche la Polonia, la Germania e l'Ungheria: il leader sovietico aveva fiducia in un'insurrezione generale del proletariato europeo. Nell'estate del 1920 a Pietrogrado si svolse il II Congresso dell'Internazionale comunista in un'atmosfera di grande euforia: i lavori si aprirono il 19 luglio, si parlò di "rivoluzione socialista europea" e su una grande carta geografica i delegati potevano osservare l'avanzata dell'Armata Rossa verso occidente.
Un Polrevkom (Comitato rivoluzionario provvisorio polacco), formato da bolscevichi di origine polacca, venne creato a Smolensk il 24 luglio, e poi spostato successivamente a Minsk, Vilnius e, finalmente, a Białystok il 30 luglio: si sperava che esso avrebbe potuto formare il primo nucleo di un futuro governo sovietico polacco;[89] il primo atto del Polrevkom fu un manifesto in cui si proclamava la nazionalizzazione delle fabbriche, delle foreste e della terra, ma si dichiaravano inviolabili le proprietà contadine. Tuttavia l'ottimismo di Lenin non era unanimemente condiviso all'interno del Politburo del Comitato centrale: Trockij e Stalin dubitavano della possibilità d'innescare una rivoluzione fra le masse popolari polacche e ritenevano più probabile un movimento nazionalista polacco sostenuto anche dalle masse operaie; inoltre Trockij vedeva con preoccupazione l'avanzata verso Varsavia, ritenendo che l'estendersi delle operazioni militari avrebbe imposto un insostenibile sforzo alle risorse e alle capacità economiche della Russia. Alla fine, però, prevalse la strategia di Lenin e il Politburo votò a favore dell'offensiva su Varsavia.
Ai primi di agosto, dal suo quartier generale di Minsk, a 500 km da Varsavia, il generale Tuchačevskij incominciò a formulare i piani per l'assalto alla capitale polacca. Le forze a sua disposizione, come comandante del fronte occidentale, consistevano in quattro armate (la 3ª, la 4ª, la 15ª e la 16ª), ognuna composta da quattro divisioni di fanteria, il III corpo di cavalleria (due divisioni) del generale Gaja Gaj, e il Gruppo Mozyr del generale Tichon Chvesin (circa 8 000 uomini fra cavalleggeri e fanti, equivalente quindi a due divisioni, a cui era affidato il non facile compito di coprire il fianco sinistro del fronte mantenendo il contatto con il fronte sud-occidentale).[92] In totale Tuchačevskij poteva disporre di una forza di circa 104 900 uomini.[nota 6]. Errori nei rapporti delle pattuglie di ricognizione, che non riuscirono a determinare la posizione effettiva delle difese polacche (oltre al molto tempo impiegato dai rapporti stessi per raggiungere Minsk a causa della distruzione delle linee telegrafiche), e nella ricognizione aerea, ostacolata dal cielo nuvoloso, portarono Tuchačevskij a convincersi che il grosso delle difese polacche fosse posizionato davanti a Varsavia[94] (le unità polacche riuscirono a celare i loro movimenti, lungo i 300 km di fronte, grazie alla fitta nebbia e agli spostamenti effettuati in piccoli gruppi).
Il piano di Tuchačevskij era di attaccare e distruggere le forze polacche schierate a nord per poi aggirare lo schieramento polacco sul fianco sinistro. Secondo il piano di battaglia formulato l'8 agosto, i compiti assegnati alle unità erano i seguenti:[96]
III corpo di cavalleria: attraversare la Vistola a nord e tagliare le vie di comunicazione con Danzica;
4ª armata: attraversare la Vistola a Płock;
15ª armata: avanzare verso Modlin, alla confluenza del Narew con la Vistola, e insieme alla 3ª armata circondare Varsavia da nord;
16ª armata: attaccare frontalmente le forze avversarie schierate a Radzymin, davanti a Varsavia;
Gruppo Mozyr: avanzare verso Deblin a sud.
L'attacco generale era fissato per il 14 agosto. Il maggior difetto di questo piano era di non prevedere forze di riserva; in effetti il generale Kamenev, preoccupato dalla posizione del fianco meridionale dello schieramento di Tuchačevskij, aveva già stabilito di unificare, sotto il comando del fronte occidentale, tutte le forze del fronte occidentale e di quello sud-occidentale, facendo convergere le unità di quest'ultimo verso Lublino per poter sferrare l'attacco contro Varsavia con tutte le truppe disponibili. La decisione, che era stata approvata il 2 agosto dal Politburo del Comitato centrale su iniziativa di Lenin e resa esecutiva il 5 agosto, venne però sabotata dal comandante del fronte sud-occidentale, Egorov, e dal Consiglio rivoluzionario militare presieduto da Stalin, che sostanzialmente rifiutarono di mettersi agli ordini di Tuchačevskij. Facendo ricorso al proprio prestigio e alla propria autorità, Tuchačevskij riuscì a ottenere dal Comando supremo lo spostamento della 12ª armata e della Prima armata di cavalleria dal fronte sud-occidentale lungo la direttrice di Vladimir-Volynskij; questa volta fu il comando della Prima armata di cavalleria (Budënnyj e Vorošilov) a fare resistenza e a ignorare le disposizioni superiori. La mancata unificazione dei due fronti, dovuta al comportamento di Egorov, Stalin, Budënnyj e Vorošilov, lasciò Tuchačevskij senza una riserva e con il fianco sinistro esposto a un eventuale contrattacco polacco.
Preparativi polacchi
Con il progredire dell'avanzata di Tuchačevskij, il governo polacco incominciò a traballare e, ancor prima di cominciare, l'attacco della Prima armata di cavalleria portò la paura nell'alto comando militare polacco: in una conferenza nel palazzo del Belweder, la residenza ufficiale del maresciallo Piłsudski, il capo di stato maggiore dell'esercito, generale Szeptycki, affermò che la guerra era ormai perduta e che era necessario raggiungere la pace a qualsiasi costo.[98] Quando poi l'Armata Rossa giunse alle porte di Varsavia, la paura si tramutò in panico e la situazione politica polacca si deteriorò rapidamente: il governo conservatore di Leopold Skulski si dimise all'inizio di giugno e, mentre il potere di Piłsudski perdeva consenso, cresceva quello del suo principale oppositore Roman Dmowski; dopo quindici giorni di trattative fu istituito un governo con a capo Wladisław Grabski, che si dimise il 24 luglio per essere sostituito da Wincenty Witos a capo di un governo di coalizione nazionale. La speranza di Lenin era che i lavoratori polacchi considerassero l'esercito sovietico come il loro liberatore dal giogo capitalistico e quindi lo accogliessero insorgendo contro lo stato borghese, ma come l'Armata Rossa si avvicinò a Varsavia, minacciando la sopravvivenza della Polonia indipendente, il tradizionale spirito patriottico polacco si risvegliò. Gli operai polacchi risultarono assai più sensibili al richiamo del sentimento nazionale che a quello della solidarietà di classe, e il nazionalismo, unito alla tradizionale ostilità nei confronti della Russia, fu decisivo nello spingere i lavoratori polacchi a difendere la loro patria dal rischio di una dominazione straniera.
La propaganda di guerra polacca fece ampio uso di temi e motivi antisemiti. Numerosi volantini e cartoline postali raffigurarono gli ufficiali sovietici con le fattezze fisiche che la propaganda antisemita attribuiva agli ebrei. Anche la Chiesa cattolica polacca si allineò su queste posizioni: i vescovi polacchi lanciarono al resto del mondo cattolico un appello in cui il conflitto era interpretato in chiave escatologica e antisemita:
«Il vero obiettivo del bolscevismo è la conquista del mondo. La razza che tiene in mano la direzione del bolscevismo ha già in passato soggiogato il mondo intero per mezzo dell'oro e delle banche, e ora, spinta dall'eterna cupidigia imperialista che scorre nelle sue vene, mira già a sottomettere definitivamente le nazioni al suo giogo... L'odio del bolscevismo è diretto contro Cristo e la sua Chiesa, soprattutto perché quelli che sono i capi del bolscevismo portano nel sangue l'odio tradizionale per il cristianesimo. Il bolscevismo è infatti la personificazione e l'incarnazione dello spirito dell'anticristo in terra.»
Un volantino di propaganda polacca inteso a spaventare i fedeli ortodossi delle regioni orientali. Si notino la stella di David, sovrapposta alla stella rossa, e le croci bizantine sui campanili. Il testo polacco recita: "Di nuovo nelle mani degli ebrei? No, mai più!".
Dopo le dure sconfitte subite dall'esercito polacco in giugno e luglio, Piłsudski capì che occorreva cambiare strategia. Durante l'offensiva dell'Armata Rossa, l'esercito polacco aveva utilizzato la tattica della difesa in linea, alla quale era stato addestrato dai consulenti militari francesi, ma che aveva disperso le unità polacche lungo un fronte che si estendeva per 1 500 km; questa tattica risultò inefficace contro un nemico che era solito portare successivi attacchi in punti diversi dello schieramento avversario per poi irrompere attraverso le brecce così create seminando il panico nelle retrovie. Piłsudski decise di adottare una strategia, che egli stesso definì in francese come "la stratégie de plein air" ("la strategia dello spazio aperto"), [nota 7] basata sulla mobilità e sulla velocità, allo scopo di attaccare i punti deboli del nemico con forze costantemente in movimento.
La situazione per i polacchi era difficile: a nord le armate di Tuchačevskij erano ammassate intorno a Varsavia; a sud le armate di Egorov e la cavalleria di Budënnyj stringevano verso Leopoli. Tuttavia Piłsudski aveva un vantaggio: l'Armata Rossa si era molto allontanata dalle sue basi e conseguentemente le sue linee di rifornimento si erano allungate; la distruzione delle linee ferroviarie costringeva i sovietici a dipendere dai trasporti su strada che avvenivano in condizioni molto difficili. I due fronti sovietici, quello occidentale di Tuchačevskij e quello sud-occidentale di Egorov, erano collegati da uno schieramento molto debole incentrato su Lublino[103] A poco erano valse le pressanti richieste di Tuchačevskij al comandante supremo Kamenev affinché spostasse verso nord le truppe operanti a sud per compattare lo schieramento: occorse più di una settimana affinché Kamenev, dopo molteplici discussioni con Tuchačevskij, Egorov, Budënnyj e Stalin (che secondo Trotsky «Voleva, a qualunque costo, entrare a Leopoli nello stesso momento in cui Smilga [Commissario politico del fronte occidentale] e Tuchačevskij entravano a Varsavia. La gente ha di queste ambizioni!» [104]), si decidesse a ordinare in modo deciso a Egorov, il 13 agosto, di far convergere la Konarmiia e la 12ª armata verso nord: troppo in ritardo perché potessero arrivare in tempo. Inoltre, l'alto comando sovietico fu distratto dallo sviluppo della guerra civile sul fronte meridionale: infatti, approfittando della guerra sovietico-polacca, le forze bianche di Vrangel' avevano attaccato in Crimea avanzando rapidamente verso nord. Per la fine di giugno Vrangel' si era impadronito della Tauride settentrionale distruggendo la 13ª armata sovietica inviata da Egorov a contrastarne l'avanzata. Questa improvvisa minaccia interna alla sopravvivenza stessa della Russia sovietica fece passare in secondo piano l'obiettivo di portare la rivoluzione nel centro dell'Europa, e quindi la stessa battaglia per la conquista di Varsavia, dirottando risorse e truppe verso il Don proprio nel momento cruciale della battaglia, e Stalin, che era stato incaricato di sovrintendere alla formazione di un fronte meridionale per contrastare Vrangel', sfruttò una certa ambiguità e confusione negli ordini, dovuta anche all'inadeguatezza del sistema di comunicazione radio, come espediente per mantenere sotto il suo controllo la Prima armata di cavalleria e la 12ª armata in attesa del loro trasferimento a sud.
Il piano di Piłsudski era basato sulla possibilità di riuscire a contenere l'assalto delle armate sovietiche, mentre un rapido contrattacco portato da sud-ovest verso nord-est, sul fianco sinistro dello schieramento sovietico proprio nell'ampio spazio vuoto esistente fra i due fronti sovietici (presidiato solo dal Gruppo Mozyr), avrebbe potuto penetrare in profondità nelle retrovie nemiche.[108] Per molto tempo si è creduto che Piłsudski non fosse a conoscenza della disposizione e delle intenzioni dell'Armata Rossa, ma documenti trovati nel 2004 negli archivi della Polizia militare polacca sembrerebbero provare il contrario: le comunicazioni radio cifrate dell'Armata Rossa erano state decrittate dai polacchi e ciò potrebbe aver avuto un ruolo fondamentale nella vittoria polacca. Questi archivi erano stati sequestrati dei tedeschi nel 1939, erano passati ai sovietici nel 1944 ed erano ritornati alla Polonia a metà degli anni cinquanta.
Il famoso "ordine n. 8385/III" fu emanato dal Comando supremo polacco il 6 agosto. L'esercito polacco fu riorganizzato su tre fronti: il fronte nord, al comando del generale Józef Haller, con la 1ª, la 2ª e la 5ª armata; il fronte sud, al comando del generale Wacław Iwaszkiewicz, con la 6ª armata e, al centro, lo stesso Piłsudski con la 3ª e la 4ª armata. In totale circa 117 400 uomini.
Al fronte nord, che era schierato a difesa di un settore dove la mobilità delle forze era ridotta dalla natura del terreno e che doveva fronteggiare l'attacco dell'Armata Rossa con l'unico compito di mantenere le posizioni, furono assegnate la maggior parte delle riserve. Il fronte sud ebbe risorse simili e il compito di impedire ogni possibilità di comunicazione fra i due fronti sovietici. Alle armate schierate al centro fu data la priorità per la disponibilità delle truppe e il supporto logistico, così come ogni mezzo disponibile per aumentarne la mobilità e quindi la forza d'urto.
In pratica l'ordine prevedeva di:
stabilire una linea di difesa lungo la Vistola da Płock a Dęblin;
trasferire dal sud il maggior numero possibile di unità per formare una "forza d'attacco", lasciando nel contempo abbastanza forze di copertura per tenere il nemico bloccato a Leopoli;
concentrare la 3ª e la 4ª armata vicino a Dęblin per aggirare lo schieramento sovietico e attaccarne le retrovie lungo la direttrice di Minsk;
difendere Modlin, Varsavia e la Vistola con le armate del fronte-nord: la 5ª armata a Modlin per impedire al nemico di aggirare lo schieramento polacco da nord, la 1ª armata in difesa della testa di ponte di Varsavia e la 2ª armata a difesa del fronte fra Varsavia e Dęblin.
La paternità di questo famoso "ordine" è stata oggetto di grande dibattito fra gli storici. Infatti, secondo taluni non sarebbe opera di Piłsudski ma del generale francese Maxime Weygand che, a capo di una missione militare francese, giunse in Polonia alla fine di luglio per prendere il comando dell'esercito polacco, dato che le potenze dell'Intesa poco si fidavano della capacità dei generali polacchi di riuscire ad arrestare l'avanzata dell'Armata Rossa.
Fra il 6 e il 13 agosto l'esercito polacco si preparò alla battaglia: le truppe, già stremate dalla lunga ritirata, dovettero essere riposizionate lungo il fronte arrivando a percorrere anche 300 km sotto la costante pressione dell'Armata Rossa.
Battaglia di Varsavia: il contrattacco polacco.
Il 13 agosto Tuchačevskij lanciò l'Armata Rossa all'attacco: la 16ª armata avanzò verso Varsavia da sud, mentre la 3ª, la 4ª e la 15ª armata attaccarono da nord le posizioni tenute dalla 5ª armata polacca. Durante le settimane precedenti le difese intorno alla città erano state rinforzate con l'artiglieria e diverse cinture difensive e poterono quindi facilmente resistere all'attacco iniziale, ma fra il 14 e il 15 agosto l'Armata Rossa intensificò l'attacco avvicinandosi fino a 25 km da Varsavia e mentre la 5ª armata polacca, con una serie di contrattacchi, cercava di mantenere disperatamente le posizioni mettendo in campo tutte le proprie riserve sotto il rischio costante di essere aggirata e accerchiata, la 1ª armata polacca riuscì a respingere l'assalto sovietico portando un contrattacco con l'appoggio di quarantasette carri armati. Il successo risollevò il morale dei polacchi.
Alle 04.00 del mattino del 16 agosto, Piłsudski ordinò la mossa decisiva: la 3ª e la 4ª armata polacca si lanciarono all'attacco verso nord-est puntando contro il Gruppo Mozyr e penetrando in profondità nel debole fianco sinistro dello schieramento avversario, anche se a rischio di essere a loro volta accerchiate; ma la mossa colse di sorpresa l'Armata Rossa e le truppe polacche penetrarono nelle retrovie sovietiche quasi senza opposizione. Con la distruzione del Gruppo Mozyr e la fuga dei suoi resti l'intero fianco sinistro del fronte sovietico collassò: la 16ª armata, attaccata sul fianco e alle spalle incominciò a ripiegare nel disordine più totale; rimasta a sua volta scoperta sul fianco sinistro, la 3ª armata sovietica organizzò rapidamente una nuova linea di difesa per parare la minaccia, ma, con il conseguente assottigliarsi dello schieramento, i polacchi riuscirono ad inserire un cuneo fra la 4ª e la 15ª armata separandole. Attraverso la breccia irruppe la cavalleria polacca che, penetrata nelle retrovie della 4ª armata sovietica, occupò il quartier generale dell'armata e catturò l'unico apparecchio radio a disposizione del comando dell'armata e di quello del III Corpo di cavalleria, per cui, le due unità, perso ogni contatto con il quartier generale, non furono più in grado di adeguarsi alla mutata situazione e si dispersero verso la frontiera tedesca per evitare la cattura. Lo stato pietoso delle vie di comunicazione impedì a Tuchačevskij l'invio di rinforzi, mentre Budënnyj solo il 20 agosto si decise a lasciare la via di Leopoli e a dirigersi a nord verso Lublino: comunque troppo tardi per poter intervenire.
Battaglia di Komarów.
Il 18 agosto Tuchačevskij fu costretto a ordinare la ritirata generale; ritirata che si trasformò ben presto in rotta: inseguita dalle truppe polacche, in una situazione di generale confusione, con alcuni reparti che fuggivano o si sbandavano, mentre altri continuavano coraggiosamente a combattere, l'Armata Rossa fu costretta a ritirarsi di 500 km oltre il Bug. Le perdite subite dall'Armata Rossa furono enormi: i polacchi catturarono fra i 50 000 e i 66 000 prigionieri e ingenti quantità di armi, cavalli e veicoli; i morti furono circa 5 000 e i feriti 10 000. Circa 20 000 soldati appartenenti alla 4ª armata, intrappolati a nord fra la Polonia e la Prussia orientale, sconfinarono in territorio tedesco, dove furono internati; stessa sorte toccò agli uomini del III Corpo di cavalleria, nonostante il generale Gaja Gaj combattesse con tenacia ed abilità al fine di scongiurare la sconfitta e la resa. In un modo o nell'altro il fronte occidentale aveva perso circa 100 000 uomini, anche se molti di essi erano rappresentati da sbandati o personale ausiliario impiegato nelle retrovie. Le perdite polacche furono all'incirca di 40 000 uomini, di cui 5 000 morti, 22 000 feriti e il resto dispersi.
Delle 21 divisioni inizialmente a sua disposizione, solo sette erano ancora in grado di combattere quando Tuchačevskij si ritirò oltre il Niemen. Con il rinforzo di alcune unità i sovietici ricostituirono la 4ª armata e, in settembre, Tuchačevskij stabilì una linea di difesa che correva dalla frontiera con la Lituania alla Polesia e faceva centro su Hrodna in Bielorussia. Ma nella battaglia del fiume Niemen, combattuta fra il 15 e il 25 settembre, i polacchi aggirarono il fianco destro dell'Armata Rossa entrando in territorio lituano e costrinsero i sovietici a ritirarsi dopo alcuni giorni di intensi combattimenti. La ritirata fu arrestata temporaneamente su una nuova linea di difesa stabilita in corrispondenza delle trincee russo-tedesche della prima guerra mondiale, però il 2 ottobre i polacchi sfondarono le difese sovietiche al primo assalto e la ritirata si trasformò in rotta: la ricostituita 4ª armata si disintegrò (due divisioni di fanteria di dettero alla fuga, una terza si arrese e una divisione di cavalleria si unì ai polacchi); la 3ª armata fu circondata e cessò di esistere come entità organizzata; la 15ª e la 16ª armata sopravvissero alla ritirata.
A sud, le forze del fronte sud-occidentale sovietico che avanzavano verso Leopoli furono rallentate dall'accanita resistenza polacca. Fra il 30 agosto e il 2 settembre, la Prima armata di cavalleria che stava tentando di correre in aiuto delle truppe sovietiche a nord, dopo essere stata separata dalla 12ª armata che avrebbe dovuto coprire il suo fianco destro, fu accerchiata dalla 3ª armata polacca. Il 31 agosto la Konarmiia si scontrò con la cavalleria polacca nella battaglia di Komarów (nei pressi di Zamość) nel più grande scontro tra truppe montate mai combattuto dal 1813: nella battaglia si scontrarono due brigate di cavalleria polacche contro unità dell'11ª e della 6ª divisione della Konarmiia; la vittoria arrise ai polacchi ma entrambe le parti soffrirono molte perdite. La Konarmiia, a dispetto delle perdite e del logoramento causato dagli attacchi aerei e dall'incessante bombardamento delle artiglierie polacche, riuscì a rompere l'accerchiamento ricongiungendosi con la 12ª armata e ritirandosi verso est. La 14ª armata sovietica fu respinta dalla 6ª armata polacca e dalle forze ucraine di Petljura che, il 18 settembre, presero il controllo della riva sinistra del fiume Zbruč per poi muovere ad est verso il Dnestr. Il 15 ottobre i polacchi presero Minsk e avanzarono fino a 150 chilometri da Kiev, ma tre giorni dopo entrava in vigore l'armistizio, questa volta accettato da Piłsudski che, nonostante i successi, non si faceva illusioni sulla possibilità di riprendere Kiev.
Trattati di pace e conseguenze
Variazioni territoriali della Polonia nel 1920
Dopo la battaglia del fiume Niemen, Lenin avanzò proposte di pace alla Polonia; il 26 settembre i polacchi accettarono la richiesta di Lenin e il 18 ottobre fu firmato l'armistizio. Dopo una serie di altri scontri minori fra i due eserciti, si arrivò infine alla firma di un trattato di pace, noto come "Pace di Riga", che fu steso nel marzo del 1921 e firmato il 20 ottobre dello stesso anno. Le truppe di Petljura, schierate sulla riva sinistra del Zbruč, vennero attaccate dall'Armata Rossa il 21 novembre 1921 e ricacciate nel territorio controllato dai polacchi dove vennero internate.
Sul piano politico e territoriale la guerra si concluse con una soluzione di compromesso. Da una parte la Polonia dovette abbandonare l'idea di poter restaurare le passate glorie della Confederazione polacco-lituana del XVIII secolo ma, dopo lo spavento dell'Armata Rossa alle porte di Varsavia, riuscì a conservare la propria indipendenza e a veder in parte riconosciute le proprie aspirazioni territoriali annettendo parte della Lituania, della Bielorussia e dell'Ucraina. Sull'altro fronte, anche se aveva dovuto cedere vasti territori a ovest e rinunciare al sogno, caro a Lenin, di potersi collegare direttamente con i movimenti operai europei, la Russia sovietica conservava la maggior parte dell'Ucraina e parte della Bielorussia, imponeva uno stop all'unico stato confinante che avrebbe potuto seriamente minacciarla, ma, soprattutto, nonostante gli attacchi interni ed esterni, faceva vivere la rivoluzione: di lì a poco, in novembre, la sconfitta definitiva delle armate bianche del generale Vrangel' in Crimea avrebbe posto fine alla guerra civile in Russia.
La lezione del conflitto
L'esperienza della guerra sovietico-polacca ebbe una fondamentale importanza nello sviluppo della dottrina militare sovietica. L'analisi della battaglia di Varsavia rivelò che l'offensiva sovietica era stata condotta con riserve inadeguate, supporto logistico carente e inefficace controllo delle operazioni. I teorici militari sovietici — Tuchačevskij, Svechin, Triandafillov e Frunze — arrivarono alla conclusione che la complessità della guerra moderna aveva sostanzialmente cambiato il modo in cui la guerra stessa poteva essere condotta e che, fra tattica e strategia, era necessario un livello operativo intermedio.[124] Nel suo libro La campagna della Vistola, Tuchačevskij scrisse: «... l'impossibilità, data dall'ampiezza dei fronti odierni, di annichilire un esercito nemico con un unico attacco, rende necessario usare una serie di operazioni graduali... [le quali], collegate da un perseguimento continuo del fine, possono soppiantare la battaglia di annientamento, la migliore forma di scontro negli eserciti del passato». Venne quindi introdotto nella dottrina militare sovietica un livello operativo intermedio, denominato "operazionale", definito da Svechin come «... una serie di operazioni divise nel tempo da pause più o meno lunghe, comprendenti differenti settori del teatro di guerra e differenziate nettamente come conseguenza di differenti fini intermedi».
I progressi dell'industria meccanica fra gli anni venti e trenta portarono allo sviluppo di forze mobili corazzate o meccanizzate (così come dell'aviazione tattica), come il mezzo più efficace per condurre la guerra di manovra in aderenza alla nuova dottrina militare. Inoltre, un esame delle procedure logistiche e amministrative dell'Armata Rossa rivelò che non vi era stata una scarsità di vettovaglie per supportare l'avanzata verso Varsavia: le reti logistiche dell'Armata Rossa erano state semplicemente inabili nel rifornire l'esercito. La campagna rivelò l'importanza del trasporto ferroviario del vettovagliamento e dei rinforzi: la dipendenza dai carri ippotrainati e dai veicoli a motore, in mancanza di una rete stradale adeguata, si era rivelata letale. La battaglia di Varsavia mise anche in luce l'importanza della relazione fra spazio e tempo nel comando e nel controllo delle unità in una guerra manovrata condotta su un fronte molto ampio: siccome Tuchačevskij restò a Minsk, a 500 km dalla battaglia, occorsero da diciotto a ventiquattro ore affinché le informazioni raggiungessero il suo quartier generale, e altrettante perché, in risposta, i suoi ordini raggiungessero i vari comandi operativi; gli fu perciò impossibile dirigere le sue forze in relazione allo svilupparsi della battaglia; Lo stesso accadde per Egorov e Stalin, che stabilirono il loro quartier generale a Char'kov, a oltre 800 km dalle forze impegnate contro Leopoli.
All'infuori di qualche attenzione da parte di teorici militari tedeschi, la guerra sovietico-polacca venne sostanzialmente ignorata dalle potenze occidentali, le cui dottrine militari restarono ancorate al concetto di "guerra di posizione" della prima guerra mondiale.
Paradossalmente, chi trasse meno profitto dall'esperienza della guerra fu proprio la Polonia. Gli eventi della guerra avrebbero dovuto consigliare ai dirigenti polacchi di avere una visione più modesta del ruolo che la rinata Polonia poteva avere nella nuova Europa. Infatti, la Polonia aveva vinto, ma la controffensiva sovietica era stata fermata quando ormai l'Armata Rossa era già nel cuore dell'Europa e la cavalleria sovietica alla frontiera della Prussia orientale. Inoltre, il proditorio attacco polacco aveva fatto sì che i sospetti che già la Russia imperiale nutriva nei confronti della Polonia fossero ereditati anche dalla nuova Russia sovietica. Ma la lezione che i governanti polacchi scelsero di trarre dalla guerra fu diversa: la Polonia aveva sconfitto l'Armata Rossa e la cavalleria polacca aveva battuto quella sovietica. Dalla folgorante vittoria conseguita discese un grande compiacimento e una sopravvalutazione della propria forza, nell'opinione pubblica ma soprattutto nella casta dei militari che andarono al potere dopo il colpo di Stato di Piłsudski del 1926.[9] Dopo la morte di Piłsudski nel 1935, succedendogli alla guida della Polonia, i militari polacchi si illusero di potersi mantenere in equilibrio fra le due potenze confinanti in rapida ascesa (Germania e URSS) e, quando la minaccia nazista divenne sempre più evidente, rifiutarono recisamente ogni possibilità di accordo politico-militare con l'Unione Sovietica, allorché, fra il 1934 e il 1939, Stalin cercò invano di stabilire un'alleanza con le democrazie europee in funzione anti-nazista.
Note
Note al testo
^ Il numero degli effettivi, così come quello delle perdite, soprattutto dalla parte sovietica, è di difficile determinazione. Secondo John Erickson (Cfr. Erickson, p. 101.) l'Armata Rossa nel 1920 poteva nominalmente disporre di più di 5000000 uomini, di questi però solo 700000/800000 erano effettivamente a disposizione del comando sovietico. Sul fronte occidentale potevano essere mobilitati 581000 uomini: 360000 per il fronte occidentale di Tuchačevskij e 221000 per quello sud-occidentale di Egorov; ma in realtà i combattenti effettivamente a disposizione dei due fronti erano valutabili in 160000. Le incertezze sono dovute anche alle continue diserzioni di massa in ambo gli schieramenti; ad esempio il bollettino nº 823 della 16ª armata segnalava che, dal 14 maggio al 15 giugno 1920, 24615 uomini avevano disertato, di questi 10357 erano stati ripresi e 14258 si erano consegnati spontaneamente; mentre il 26 giugno il 29º reggimento polacco cercò di passare dalla parte sovietica attraversando le linee al canto de L'Internazionale (Cfr. Erickson, p. 93 e Davies, p. 151.).
^ La parola fronte (in russo фронт) nella terminologia militare sovietica equivale a gruppo d'armate.
^ «Zitomir, 3.6.20... Il pogrom di Zitomir, organizzato dai polacchi, e dopo, naturalmente, sono arrivati i cosacchi. Dopo la comparsa delle nostre avanguardie i polacchi sono entrati in città e ci sono rimasti per 3 giorni. Un pogrom di ebrei, hanno tagliato le barbe, e questa è un'abitudine, al mercato hanno preso 45 ebrei, li hanno portati al mattatoio, li hanno torturati, hanno tagliato loro la lingua, grida fin sulla piazza. Hanno bruciato 6 case... guardo intorno chi si è salvato dalla mitraglia, hanno infilzato con la baionetta il portinaio nelle cui braccia una madre aveva gettato il figlioletto da una finestra in fiamme, un prete ha appoggiato una scala al muro posteriore, e così si sono salvati... Komarov, 28.8.20... Voci di orrori. Vado nella cittadina. Terrore e disperazione indescrivibili. Mi raccontano. Di nascosto nella piccola casa, hanno paura che ritornino i polacchi. Qui ieri ci sono stati i cosacchi dell'esaul Jakovlev. Pogrom». Nota 86 al Diario: «...facevano parte della brigata cosacca dell'esaul Jakovlev anche truppe di polacchi bianchi.» Cfr. Babel'.
«Il passaggio di questa brigata nelle cittadine ebraiche fu segnato da violenti pogrom. Nel villaggio di Komarov seppellimmo intere famiglie di ebrei, tutti sgozzati da questi "combattenti". Nello stesso villaggio furono violentate più di cento donne e fanciulle.»
Cfr. S. Orlovskij Il grande anno. Diario di un cavalleggere, Mosca, 1930, cit. in: Babel', nota 86 al diario.
^ «18.7.20... È arrivato l'ordine dal fronte sud-occidentale, quando andremo in Galizia - per la prima volta le truppe sovietiche passano il confine - comportarsi bene con la popolazione. Noi non andiamo ad occupare un paese, il paese appartiene ai lavoratori e ai contadini galiziani e soltanto a loro, noi andiamo per aiutarli a instaurare il potere sovietico. Un ordine importante e ragionevole, lo osserveranno questi predoni? No». Cfr. Babel'.
La 6ª divisione di cavalleria, a cui era aggregato Babel', venne smobilitata il 10 ottobre 1920 nella regione di Rakitino, per ordine di Lenin, a causa dei sempre più frequenti casi di banditismo, vandalismo e saccheggi che si verificarono in essa, e la Prima armata venne posta in riserva. Sulla drammatica smobilitazione della 6ª divisione di cavalleria esiste la testimonianza del segretario del Consiglio rivoluzionario militare della Prima armata di cavalleria, S. Orlovskij, che la imputa ai numerosi casi di banditismo e diserzione, nonché quella del generale Budënnyj che, in un documento ufficiale, testimonia come i crimini imputati ai cosacchi della 6ª divisione fossero autentici.
Cfr. S. Orlovskij, Il grande anno. Diario di un cavalleggere, Mosca, 1930, cit. in: Babel', nota 78 al diario.
^ Lo scrittore Isaak Babel' partecipò alla guerra aggregandosi alla 6ª divisione della Prima armata di cavalleria con il nome di battaglia di Kirill Ljutov — "Cirillo il crudele" — in qualità di corrispondente dell'Agenzia telegrafica russa e come redattore del giornale Il cavalleggere rosso, organo ufficiale della stessa Prima armata
^ Secondo Norman Davies (Cfr. Davies, p. 200.), Tuchačevskij disponeva di 108 000 uomini quando iniziò l'offensiva in luglio, ma il numero degli uomini effettivamente disponibili per il combattimento si era ridotto a 40 000 quando le sue forze raggiunsero la Vistola, per cui l'iniziale superiorità numerica dell'Armata Rossa si era trasformata in una smaccata inferiorità al tempo della battaglia di Varsavia.
^ "...una strategia in cui vi sia più aria che truppe negli spazi; una strategia dove lupi, pernici e lepri si possano liberamente spostare senza essere disturbati dal lavorio della guerra".
Guerra russo-turca (1787-1792). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Guerre russo-ottomane
La guerra russo-turca dal 1787 al 1792 scoppiò indirettamente a causa dell'annessione della Crimea all'Impero russo. Dopo che l'Impero ottomano aveva intrapreso una guerra preventiva, il successo arrise decisamente alle potenze militari europee coinvolte.
Tuttavia la situazione internazionale – innanzitutto la dichiarazione di guerra da parte dell'Impero russo e l'alleanza dei prussiani con i turchi – impedì la realizzazione dell'ambizioso obiettivo della guerra, di annientare l'impero ottomano.
Premesse
Dopo la conclusione della pace del 1774 fra Russia ed Impero ottomano, che poneva fine all guerra iniziata nel 1768, la Crimea fu posta come un Khanato indipendente sul quale il Sultano mantenne come califfo solo una sovranità religiosa.
L'Impero ottomano aveva in effetti perso la sua influenza sulla Crimea, senza che al suo posto fosse subentrata la Russia. Nel 1782 il nuovo favorito della zarina Caterina II di Russia, l'allora conte Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, la convinse a far occupare la Crimea. A pretesto dell'impresa furono prese le liti che dilaniavano la famiglia del Khan. L'azione fu condotta nel 1783 dallo stesso Potëmkin: la Russia appoggiava il Khan nei suoi contrasti con gli altri familiari e fu lui stesso a cedere alla zarina il khanato. L'impero ottomano era troppo debole per impegnarsi in una guerra ma contava soprattutto sull'intervento dell'Austria.
L'annessione fu ufficialmente proclamata l'8 gennaio 1784 e Potëmkin iniziò senza por tempo in mezzo la costruzione dei porti militari di Sebastopoli e di altre città. La stessa zarina, con la sua corte e i ministri plenipotenziari esteri, compì un fastoso viaggio fino in Crimea.[2] Al viaggio partecipò anche, in incognito, l'imperatore Giuseppe II e i due monarchi prepararono in quell'occasione il progetto di un intervento bellico comune contro l'impero ottomano. La situazione internazionale pareva infatti favorevole poiché, dopo il decesso di Federico II di Prussia, non c'erano da attendersi intoppi.
Gli scopi della guerra
I piani degli alleati prevedevano niente di meno che la cancellazione dell'Impero ottomano. Serbia, Bosnia ed Erzegovina dovevano cadere entro il dominio austriaco, mentre Bessarabia, Moldavia e Valacchia avrebbero dovuto formare uno Stato unitario.
Nella restante parte dell'Impero ottomano la Russia avrebbe avuto mano libera. In proposito furono formulati a San Pietroburgo piani per la ricostituzione di un Impero bizantino. A Costantinopoli questi piani tuttavia erano sicuramente noti. Contro gli indugi iniziali del sultano Abdul Hamid I si formò un partito favorevole alla guerra: questo ebbe successo e il 13 agosto 1787 l'impero ottomano dichiarò guerra alla Russia.
Gli eventi bellici
All'inizio riuscì al comandante in capo russo Suvorov di aver ragione delle truppe turche. Tuttavia la flotta militare russa del Mar Nero fu messa fuori combattimento da una tempesta, dopo una serie di sconfitte. Nel febbraio 1788 entrò in guerra anche l'Austria, le cui truppe furono guidate inizialmente dallo stesso imperatore Giuseppe II, tuttavia esse non ottennero né in Serbia, né in Transilvania alcun successo significativo. È vero che la Russia riuscì nel giugno 1788 ad occupare la Moldavia e la sua flotta sconfisse quella turca nella battaglia di Limans (dal 17 al 23 giugno 1788), ma questi successi si rivelarono effimeri.
Nel nord Europa poi la situazione diplomatica della Russia cambiò inaspettatamente. Il re Gustavo III di Svezia cedette alle pressioni dell'Inghilterra e della Prussia in favore dell'Impero ottomano e dichiarò nel giugno 1788 guerra alla Russia. Le truppe svedesi minacciarono Kronstadt ma dovettero tuttavia ritirarsi nuovamente in patria a causa di disordini.
Nel teatro di guerra si verificò il congiungimento delle truppe austriache con quelle russe. Esse ottennero insieme, sotto il comando del Suvorov importanti vittorie ad agosto presso Focșani e in ottobre presso Rymnik. A dicembre cadde in mano russa dopo lungo assedio la fortezza di Očakov. Potëmkin occupò alcune città sul fiume Dnestr, inclusa la fortezza di Bender, marciò attraverso la Bessarabia e conquistò altre città sul Danubio. Belgrado si consegnò al feldmaresciallo austriaco Ernst Gideon von Laudon. I russi e gli austriaci occuparono congiuntamente Bucarest.
La guerra però si riaccese al nord, anche se l'armata svedese ottenne solo modesti risultati. Tuttavia la flotta russa fu sconfitta nel giugno 1790, il che costituì una minaccia per San Pietroburgo. La capitale russa fu salvata a quel punto dalla dichiarazione di guerra contro la Svezia da parte della Danimarca. Nell'agosto 1790 fu sottoscritto fra russi e svedesi un trattato di pace che non comportava alcun cambiamento territoriale.
Tuttavia il re di Prussia Federico Guglielmo II aveva già deciso fin dal gennaio un'alleanza offensiva con il sultano. Lo scopo principale della Prussia era quello di distogliere l'Austria dalla guerra e quindi dall'alleanza con la Russia. Dopo la morte dell'imperatore Giuseppe II, avvenuta il 19 febbraio 1790, il suo successore Leopoldo II cedette alle pressioni prussiane.
Perciò si giunse il 4 agosto 1791 ad una pace separata a Sistova fra l'Impero ottomano e l'Austria: quest'ultima dovette restituire al primo la città di Belgrado e le fu riconosciuta solo una piccola striscia di territorio nel nord della Bosnia. In Russia il ritiro dell'Austria fu percepito come un rinnovato tradimento dopo l'analogo ritiro nella guerra russo-turca del 1735-1739.
I russi proseguirono però nella loro offensiva. A Suvorov riuscì la conquista dell'importante fortezza di Izmaïl sul delta del Danubio, che era stata costruita dal famoso ingegnere militare francese Vauban e ritenuta imprendibile.
Nel giugno 1791 i russi attraversarono il Danubio e batterono i turchi ancora varie volte. Il sultano regnante Selim III iniziò quindi a mostrare segni di voler la pace, e contro il volere del principe Potëmkin, Caterina II decise di accettare. Morto Potëmkin, la guerra terminò con il Trattato di Iași che riconosceva alla Russia l'annessione del khanato di Crimea del 1793 e la fondazione nel 1794 della città fortificata e base navale di Sebastopoli da parte del principe Grigorij Potëmkin. La Russia ottenne inoltre la fortezza di Očakov, situata sulla riva destra della foce del Dnepr (circa 90 km ad ovest di Cherson), già militarmente occupata quasi due anni prima, e il litorale del Mar Nero fra il fiume Bug Meridionale e la foce del Dnestr. La frontiera caucasica fra i due imperi rimase segnata dal fiume Kuban'. La struttura di difesa costruita nel 1781 da ingegneri francesi per conto dell'impero ottomano nella città di Anapa come fortezza di confine, che era stata occupata dalle truppe russe, fu restituita ai turchi.
Effetti sull'impero ottomano
La guerra aveva nuovamente messo in evidenza l'inferiorità del sistema politico e militare dell'Impero ottomano. Questo spinse il sultano Selim III a prendere provvedimenti drastici per migliorare l'amministrazione statale dando luogo ad una riforma delle forze armate e fece armare nuove unità strutturate sul modello degli eserciti europei.
Questo cosiddetto Nuovo Ordine condusse ad un maggior carico fiscale. Inoltre le tradizionali unità di giannizzeri si sentirono trascurate. Tutto ciò provocò una pesante crisi negli anni 1807 e 1808. Con la istituzione di ambasciate permanenti presso le capitali Londra e Vienna (1794), Parigi (1795) e Berlino (1796) l'Impero si allineò anche formalmente al sistema di stati europei.