Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

QUINDICESIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

L’ACCOGLIENZA

QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

Estratto di “Ucraina. la vera storia”, di Nicolai Lilin (ed. Piemme), pubblicato da “Libero quotidiano” il 15 novembre 2022.

Penso di non sbagliare troppo quando affermo che l'Ucraina era apparsa nel raggio visivo dell'italiano medio, attirandone l'attenzione, quando nel 1995 su diversi canali in tv girò la pubblicità del Corriere della Sera per vendere l'atlante allegato con il giornale. In questo spot un cosmonauta russo atterrando in una campagna dell'Est Europa salutava con felicità la propria patria urlando a squarciagola «Madre Russia!», mentre una contadina impegnata nel proprio orto rispondeva a lui con una certa aria d'insolenza: «Ma quale Russia?! Questa è l'Ucraina!».

Tolti quelli che coltivavano un interesse personale per il paese, l'opinione pubblica occidentale fino all'invasione da parte della Russia di Putin avvenuta il 24 febbraio 2022 non si preoccupava affatto dell'Ucraina. Prima la gran parte degli occidentali avrebbe fatto fatica a indicare persino la collocazione geografica dell'Ucraina, senza parlare delle conoscenze più approfondite legate agli aspetti storici oppure politici di questo paese.

Questo è uno dei grossi problemi di molti cittadini occidentali, la costante rivendicazione del diritto all'ignoranza come viatico per la conquista del benessere economico: un elemento che denota una inconscia mentalità colonialista di stampo anglosassone.

La maggioranza degli italiani, così come la gran parte degli occidentali, disconoscevano i processi politici, economici, culturali e sociali che si susseguivano in Ucraina, e che avevano trasformato quel paese giorno dopo giorno in un territorio cuscinetto votato allo scontro tra la Russia di Vladimir Putin, con le proprie mire geopolitiche, revanscista e desiderosa di prendere il proprio posto tra i paesi leader del pianeta, e i paesi facenti parte del blocco Nato, tra i quali, in primis, la grande egemonia militare statunitense e poi quella britannica. 

Gli osservatori più attenti avevano previsto già nel 2014, subito dopo il colpo di stato avvenuto in Ucraina, finanziato dagli Usa e curato dai loro servizi segreti e dai loro collaboratori esterni, l'inizio di una spirale di violenza tra la Russia e l'Occidente. Io stesso avevo fatto luce su quel possibile scenario, insieme al compianto amico Giulietto Chiesa, durante una serie di interventi pubblici, nel lontano 2015. 

Già all'epoca parlavamo apertamente degli interessi statunitensi di interrompere la fornitura del gas russo ai paesi dell'Ue. Su YouTube si trovano i filmati delle nostre conferenze. 

Ora nel 2022, dopo otto anni dalla loro pubblicazione sul canale, vengono ripresi e ripubblicati da una moltitudine di gente che si meraviglia delle nostre capacità profetiche.

Curioso che molti di quelli che attualmente ci trattano come una sorta di profeti (di sventura) sono gli stessi che neanche un anno fa ci davano dei complottisti solo perché affermavamo che ci sarebbe stata una guerra tra la Nato e la Russia sul suolo ucraino.

Tutto questo ai più suonava come fantapolitica. Molti cittadini non si informano a dovere quando prendono posizione. Ne consegue, in assenza di un'informazione corretta, esaustiva e obiettiva, che l'opinione pubblica perda la capacità di analizzare con logica gli avvenimenti. 

Esiste, purtroppo, una dinamica da tifoseria calcistica, che prende posto nelle trincee ideologiche, pilotata dai diretti interessati per manipolare opinioni, riflessioni e posizioni, promuovendo così i propri obiettivi politici ed economici.

Per questo motivo sulla questione ucraina qui in Occidente è stato creato un mito propagandistico mai visto prima, che rinnega la storia dell'Ucraina, rappresentando gli eventi in modo palesemente univoco, addirittura negando l'esistenza dell'ideologia nazista integrata nel sistema statale ucraino, cancellando dalla storiografia i brutali crimini compiuti dai nazisti ucraini ai danni degli oppositori di sinistra.

Nella guerra di propaganda e informazioni ripetute ce n'è una che riguarda la presunta "natura democratica" dell'Ucraina, che viene dipinta come una sorta di baluardo della civiltà, in contrapposizione all'autoritarismo dittatoriale della Russia putiniana che minaccia ogni libertà civile, culturale e politica. 

Per la stragrande maggioranza degli occidentali le elezioni apparentemente libere, vale a dire pilotate dagli oligarchi schierati con la politica statunitense, nelle quali risulta vincitore un personaggio come Volodymyr Zelens' kyj, che fino a ieri si esibiva in svariati show e serie televisive, anche in qualità di attore comico, mentre oggi pretende con arroganza i soldi dagli occidentali per la guerra sanguinosa che ha già distrutto il paese da lui governato, bastano (a torto) per definire l'Ucraina un paese democratico.

Le elezioni svoltesi nel paese dal 2014 sono accompagnate da una guerra fratricida, nella quale il governo centrale, contestato da una parte delle regioni (guarda caso quelle più ricche e industriali), massacra queste ultime utilizzando le milizie neonaziste, armate, addestrate e sostenute dalla Nato, e ultimamente persino integrate ufficialmente all'interno dell'esercito regolare, sotto il vessillo dei simboli risalenti al Terzo Reich, come ad esempio il simbolo del famigerato battaglione Azov, un covo di nazisti della peggior specie, che si sono macchiati dei crimini più atroci contro la popolazione civile ucraina, e che come simbolo di riconoscimento usano la runa nordica wolfsangel, la stessa che usarono i militari della seconda divisione panzer delle SS, "Das Reich".

Lo stesso presidente ucraino Zelens' kyj, nonostante sia di origini ebraiche, si è fatto più volte riprendere dai giornalisti, mentre orgoglioso indossava la maglietta che rappresentava questo simbolo infame, risalente a quei nazisti che in Ucraina durante la Seconda guerra mondiale hanno fatto strage del popolo ebraico e di altri popoli. 

Oltre a glorificare i simboli nazisti, ha partecipato a una diretta televisiva nel tentativo di riabilitare moralmente e storicamente il leader dei nazisti ucraini Stepan Bandera, collaboratore di Hitler che amava fotografarsi con addosso l'uniforme delle SS e che ha guidato le frange più violente del nazismo ucraino durante la Seconda guerra mondiale.

Quando mi parlano della democrazia in Ucraina, io rispondo che il regime autoritario di Putin al confronto è mille volte più democratico, e la mia non è una provocazione, ma un'opinione formata e fondata su fatti concreti. A differenza dell'Ucraina, in Russia non sono proibiti i partiti di sinistra. Mentre il "democratico" Zelens' kyj, con una legge ad hoc ha bandito tutti i partiti d'opposizione, come farebbe un perfetto dittatore.

In Russia non viene glorificato e legittimato il nazismo a livello statale, mentre l'Ucraina sguazza nella propaganda nazista della peggior specie, a partire dai bambini ai quali nelle scuole e nei campeggi estivi insegnano fare il saluto romano e l'esercito, pieno zeppo di nazisti convinti, che portano sulle loro uniformi simboli nazisti ufficializzati dal governo. 

Gli occhi del mondo. Così la forza della verità ha sbriciolato la propaganda russa. Matteo Castellucci su L’Inkiesta il 14 Novembre 2022.

La giornalista ucraina Tanya Kozyreva, finalista al Pulitzer, racconta otto mesi del conflitto. Le storie strazianti dei bambini intrappolanti nella guerra, la missione di testimoniarla e l’orgoglio dei reporter che lottano per la democrazia dal 2010

Dicevano che Kyjiv sarebbe caduta in tre giorni, è ancora lì. L’Ucraina ha dimostrato a Vladimir Putin e agli altri tiranni che non puoi restare impunito quando hai addosso puntati gli occhi del mondo. Le fotografie dal Paese, quelle delle atrocità degli occupanti come quelle festanti dei villaggi liberati, documentate dai giornalisti o da semplici cittadini, hanno disintegrato come un Javelin la propaganda corazzata russa. Sproloquiavamo di «info war»: il Cremlino l’ha persa il primo giorno, come perderà la guerra. La giornalista ucraina Tanya Kozyreva racconta a Linkiesta i suoi mesi a coprire il conflitto.

Finalista al Pulitzer nel 2021 quando lavorava a BuzzFeed e menzione speciale quest’anno come i suoi colleghi ucraini, Kozyreva ha ricevuto una Nieman Fellowship ad Harvard. Negli Stati Uniti, le elezioni di metà mandato hanno fatto temere che si incrinasse la linea pro Ucraina, ma la «marea rossa» agognata dai trumpiani non c’è stata. I diritti da difendere, su tutti quello di abortire, hanno mobilitato l’elettorato dem. Oltre alla democrazia di cui ha parlato Barack Obama, una visione divisiva dell’economia ha portato Kyjiv sulle schede.

«Molti repubblicani incolpano Joe Biden per l’inflazione, ma non capiscono chi l’ha causata e perché – spiega la giornalista –. Non gli interessa chi ha cominciato la guerra in Ucraina e attaccano il presidente per il supporto a Kyjiv. La politica americana è molto polarizzata, alle Midterm c’è stato un testa a testa. Molti erano preoccupati, ma il Dipartimento di Stato ha rassicurato che il sostegno all’Ucraina resterà bilaterale, anche se numerosi repubblicani l’hanno strumentalizzato».

Come in Europa, per non citare l’Italia delle interviste esclusive a Lavrov e delle dissonanze cognitive dei finti pacifisti, anche in America c’è chi ha speculato per mistificare una questione che non può essere più semplice di così: ci sono un invasore e un invaso. Perché? «L’influenza del denaro russo è enorme. Persino qui a Boston c’è un oligarca russo. Si chiama Len Blavatnik. È originario dell’Ucraina, ma ha legami con Vladimir Putin. Noi lo consideriamo russo perché i suoi soldi, i suoi investimenti e la sua visione politica sono russi, ma qui in America non fanno questa distinzione. Pensano sia un oligarca ucraino e così può promuovere il suo programma, che è totalmente pro Russia».

La settimana scorsa è stato confermato che i canali diplomatici tra Washington e il Cremlino sono rimasti aperti. L’amministrazione Biden, in forma privata, ha fatto pressioni su Volodymyr Zelensky perché si mostri disponibile a una trattativa. «Non dipende dall’Ucraina quando i negoziati di pace cominceranno, ma alla Russia – ricorda Kozyreva –. Non dovete convincere gli ucraini, sta a Putin decidere quando vorrà trattare, ma non mi sembra molto proattivo, non offre incontri a Zelensky né ritira le sue truppe, almeno non completamente».

Mantenere in vita il dialogo, però, può avere una valenza. «I contatti diplomatici si tagliano solo in situazioni estreme, come una guerra. Come hanno fatto i russi, quando hanno lasciato le ambasciate in Ucraina. Per uno Stato non coinvolto nel conflitto, penso che mantenere relazioni diplomatiche possa servire a cercare una soluzione. Anche perché è molto difficile capire quali siano le vere richieste della Russia. Quelle di prima della guerra erano false. Volevano il ritiro delle forze Nato dall’Est Europa, ma come si faceva a chiedere all’Ucraina qualcosa che non poteva decidere lei? In quel periodo, un ingresso della Nato non era neppure all’ordine del giorno».

Nel frattempo, è arrivata la liberazione di Kherson. Secondo la giornalista, va letta con cautela: «Una settimana fa Putin ha menzionato specificamente che la popolazione della provincia doveva andarsene perché sarebbe diventata “una delle zone di conflitto più pericolose”. Ora l’intelligence americana svela che prepara i sottomarini con testate nucleari a un test. Putin non parla mai di civili, ma in base alle leggi internazionali vanno avvisati quando rischiano di essere coinvolti. È solo una mia teoria: spero che la Russia non usi mai la bomba atomica o qualsiasi altra arma vietata, anche chimica, ma ho trovato preoccupante che la notizia dei sommergibili uscisse negli stessi giorni della ritirata da Kherson».

Da gennaio ad agosto Kozyreva ha lavorato come giornalista nel suo Paese. Ha cominciato a gennaio, prima dell’invasione, perché in autunno c’era stato un leak dei servizi segreti americani. Andava nelle regioni di confine a chiedere agli abitanti se fossero preoccupati, se il governo locale li avesse avvisati. «La gente non era pronta, non concepiva nemmeno l’idea di una guerra. È stato orribile perché, quand’è cominciata, molti avevano sottovalutato la minaccia, come molti politici e lo stesso Zelensky. La gente era disorientata, non sapeva cosa fare o dove andare. Completamente persa. Ricordo gli scaffali vuoti nei negozi, quei primi giorni a Kyjiv. I media internazionali dicevano che avremmo resistito solo per tre giorni, ma dopo nove mesi siamo ancora qui».

Poi Leopoli, con milioni di persone in coda verso la frontiera, per fuggire in Europa, e il traffico immenso, giù fino a Dnipro, lungo una nazione intera. La tappa successiva è Odessa. Il dramma di un orfanotrofio che non può evacuare i suoi ospiti disabili. Non ci sono più autobus, figuriamoci le ambulanze. A Mykolaïv ha visto i crateri delle esplosioni nella periferia della città. E le pile di cadaveri, non tutti soldati. «La madre di uno di loro si è presentata per identificare il figlio e, quando lo ha trovato, ha cominciato a urlare».

La fuga in massa da Dnipro. A Mariupol’ i bombardamenti cominciano mentre fanno interviste. A Zaporizhia incontra la storia più dura. «In un ospedale pediatrico, ho visto con i miei occhi i bambini che avevano sofferto per la guerra. Mi ha colpito una ragazzina. Milena. Stava sfollando con la sua famiglia, a un checkpoint i russi hanno iniziato a sparare. Un proiettile l’ha colpita sulla mandibola. Era in condizioni terribili. Mentre eravamo lì, penso che per un secondo sia finito l’effetto dei sedativi. Ha aperto gli occhi e ha cominciato a soffocare. È stato straziante, ho pensato sarebbe morta. Due mesi dopo, i medici ci hanno detto che stava meglio. Ha una grande cicatrice sul volto, ma sta bene, più o meno».

Kozyreva è stata anche in Donbas, ha girato tutta l’Ucraina. Una costante, di tutti i conflitti: «Le storie dei bambini sono quelle che mi hanno segnato di più. Ho parlato con molti altri reporter di guerra, che sono stati in Afghanistan e così via. Quasi tutti sono d’accordo con me: sono le storie più difficili da raccontare per noi giornalisti. Quando scoppia un conflitto, gli adulti possono scegliere se arruolarsi, fare volontariato, evacuare, ma i bambini non hanno scelta. Sono intrappolati nella guerra».

“Opinione pubblica” è un’espressione abusata. Ma i volti di quei bambini, quelli dei cittadini trucidati per strada, le aberrazioni di Bucha e Irpin’, la scia di stupri, esecuzioni sommarie e di orrori lasciata dietro di sé dalle truppe di occupazione, sono indelebili nella retina degli spettatori di tutto il mondo. Non hanno retto un secondo le falsificazioni del Cremlino, che mente sapendo di farlo, fa il tiro al bersaglio sugli obiettivi civili e si è macchiato dei più indicibili crimini contro l’umanità dalla Seconda guerra mondiale.

«Dico sempre che è sufficiente raccontare la verità, non serve nessun tipo di propaganda. Per l’Ucraina basta questo. Quando a migliaia fuggono da Mariupol’ e rilasciano la stessa testimonianza, non ti serve essere là per capire quanto sia grave la situazione. È impossibile fabbricare immagini o mentire, come puoi convincere migliaia di persone della stessa cosa? Numerosi giornalisti internazionali sono venuti qui, i media hanno investito molte risorse, e hanno raccontato le atrocità. È stato cruciale per il sostegno finanziario e militare anche dei governi inizialmente riluttanti. La Russia e le altre dittature devono ancora capirlo: non puoi fare quello che vuoi quando è l’intero mondo a guardarti».

Le falle nel regime di Putin. Crepe nella propaganda russa sulla guerra, l’ex ufficiale e deputato Kartapolov si ribella: “Basta bugie, nostra gente non è stupida”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Ottobre 2022 

Un secondo esponente del Parlamento russo prende ufficialmente posizione contro la propaganda del Cremlino e del ministero della Difesa sull’andamento del conflitto in Ucraina. Si tratta di Andrey Kartapolov, presidente della Commissione Difesa della Duma, la camera bassa dell’Assemblea federale della Federazione Russa, ma soprattutto ex viceministro della Difesa dal 2018 al 2021, che ha esortato i vertici militari del Paese a dire la verità ai cittadini, già chiamati alle armi nei giorni scorsi con la “mobilitazione parziale” voluta dal Cremlino, sugli sviluppi sul terreno dell’invasione in Ucraina.

“Dobbiamo smetterla di mentire sulla situazione al fronte, il nemico è sulla nostra terra. Tutti i villaggi di confine della regione di Belgorod (territorio russo al confine con l’Ucraina, ndr) sono praticamente distrutti. Lo apprendiamo da chiunque, dai governatori e dai corrispondenti militari. Ma i rapporti del ministero della Difesa non cambiano. La gente lo sa. La nostra gente non è stupida e vede che non vogliono dirle nemmeno una parte della verità: ciò può portare a una perdita di credibilità”, ha detto Kartapolov.

Come noto dai report delle intelligence occidentali, le truppe ucraine da settimane ormai stanno continuando una lenta ma costante avanzata nei territori occupati fino a poco tempo fa dall’esercito russo, in particolare lungo il nord-orientale e meridionale del Paese, in quelle Regioni passate sotto il controllo del Cremlino con i referendum farsa di annessione alla Federazione Russa.

Quella di Kartapolov non è l’unica uscita di questo tipo da parte di deputati russi. Nei giorni scorsi parole simili erano state pronunciate dal ‘collega’ Andrey Gurulyov, ex vice comandante del distretto militare meridionale della Russia, che parlando ad una tv russa aveva definito una “mistificazione della realtà” quella in corso in Russia sull’andamento del conflitto in Ucraina, in particolare sulla propaganda del Cremlino sulla città di Lyman, riconquistata dalle truppe di Kiev. Proprio mentre denunciava questo sistema di bugie, Gurulyov era stato disconnesso dalla trasmissione televisiva.

Non solo. Nella giornata di martedì, durante il briefing giornaliero del ministero della Difesa di Mosca sulla “operazione militare speciale”, è stata inavvertitamente mostrata una mappa che mostrava le reali perdite territoriali subite dalle truppe russe nella regione ucraina di Kherson, ‘tecnicamente’ annessa dalla Federazione con il referendum.

L’uscita di Kartapolov arriva proprio nel giorno in cui il presidente russo Vladimir Putin ha firmato le quattro leggi che ratificano la l’annessione alla Federazione Russa delle regioni ucraine occupate di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson. Il testo, citato dall’agenzia Tass, recita: “I confini dei nuovi soggetti della Federazione, come risulta dai trattati, saranno determinati dai confini che esistevano il giorno della loro formazione e accettazione nella Federazione Russa. Fino all’elezione dei capi delle nuove regioni saranno guidate da funzionari temporanei ad interim nominati da Putin. Le forze russe non controllano pienamente nessuna delle quattro aree”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Marco Imarisio per corriere.it il 3 ottobre 2022.

«Buongiorno Russia! Subito un po’ di musica per affrontare con il sorriso questi tempi così difficili». Se lo dice anche la Nostra Radio, l’emittente che si rivolge a una platea matura proponendo solo vecchi successi degli anni Settanta-Ottanta, allora è vero. Le cose non stanno andando bene. E nel muro innalzato dalla propaganda dei media di Stato a separare la realtà dalla sua rappresentazione trionfale, si intravede qualche crepa. 

I celebri talk show televisivi, il più potente megafono a disposizione del Cremlino, vanno avanti come se nulla fosse. Con qualche notevole eccezione. Ieri era domenica, quindi c’erano tutti. Sul Primo Canale suonava la marcia trionfale del corrispondente di guerra Dmitry Kulko. «La linea del fronte sta diventando un enorme cimitero di soldati ucraini». Su NTV, Anatoly Mayorov sposava in modo neutro la versione data pochi giorni fa dal ministero della Difesa. «È in atto una ritirata, ma solo per evitare l’accerchiamento».

La sorpresa è arrivata da Rossiya 1, dove Dmitry Kiselyov, che insieme Vladimir Solovyov, ormai famoso anche dalle nostre parti, è il conduttore russo più popolare e più zelante, ha ammesso che nel Donbass «la situazione sta diventando molto difficile». 

Il suo inviato in Ucraina ha avuto l’ardire di aggiungere che le forze armate russe stanno costruendo nuove linee «di difesa» per impedire all’esercito ucraino di «costruire sui successi raggiunti finora». 

Le crepe si vedono meglio leggendo i giornali.

È appena il caso di ricordare che dallo scorso 24 febbraio, il concetto di stampa indipendente è quasi del tutto svanito. Nezavisimaya Gazeta, il quotidiano fondato nel 1999 dell’oligarca poi caduto in disgrazia Boris Berezovkij, scrive in prima pagina che «la resa di Lyman sta diventando un problema politico». 

E questo costituisce senz’altro una novità. È un problema, «perché ha causato una nuova ondata di critiche allo Stato maggiore e ai vertici dell’esercito non solo dagli esperti ma anche da parte di molti esponenti politici. Non è chiaro come reagirà il Cremlino, e se farà dei cambiamenti».

Ci sono nomi e cognomi dei principali critici, e anche questo rappresenta un inedito. Vengono citati il leader ceceno Ramzan Kadyrov, e il capo della Brigata Wagner Evgenij Prigozhin, che si dichiarano molto scontenti del Capo di Stato Maggiore Valerij Gerasimov e vorrebbero l’introduzione della legge marziale nelle aree di confine, oltre all’uso delle armi nucleari tattiche. 

Anche la Komsomolskaya Pravda, uno dei giornali più vicini al Cremlino, riporta le dichiarazioni dei due «dissidenti», senza alcun commento. Ma in alcuni passaggi ammette che «adesso il nemico cercherà di trarre vantaggio dai propri successi».

«Banda di idioti». Ieri proprio Solovyev, più furente del solito, se l’è presa con la burocrazia del suo Paese, che a suo dire impedisce un corretto rifornimento di armi e risorse al fronte. 

Anche il suo rivale Kiselyov ha dato la colpa alla farraginosità delle gerarchie militari, «un residuo dell’Urss», sposando così in qualche modo le tesi di Kadyrov e Prighozin. 

Sia nei talk show che sui giornali, questa presa di coscienza delle difficoltà si traduce in una ulteriore colata di retorica antioccidentale e anti Nato, condita dai consueti insulti.

Quello che manca è qualunque accenno di critica ai vertici, insomma al Cremlino. Vladimir Putin viene citato nei titoli con le frasi del suo discorso sull’annessione delle quattro regioni ucraine. «Sono nostri cittadini e lo saranno per sempre». «Non vogliono una Russia libera e forte. Noi invece la vogliamo». 

Cercasi con urgenza un capro espiatorio, per fare fronte all’irruzione della realtà. Ma comunque, anche questo risveglio è un inizio. O un segno dei tempi.

 “Basta vomitare propaganda sulle sanzioni. Ecco i dati nascosti da Putin”. Martina Piumatti su Il Giornale il 23 settembre 2022. 

Minaccia di usare l’atomica ma per combattere ruba i chip dai frogoriferi. Anche l’ultima escalation impressa da Vladimir Putin si ridimensiona parecchio davanti ai dati (secretati) sugli effetti disastrosi delle sanzioni sull’economia russa. “Se a lungo termine Pil, export e salari in picchiata trascineranno la Russia verso la catastrofe economica, - ci spiega Jeffrey Sonnenfeld, il professore della Yale School of Management autore del report sull’impatto choc delle sanzioni sull’economia russa - la difficoltà a reperire componenti militari ne sta già minando la tenuta di fronte alla riscossa ucraina. E la mobilitazione militare parziale annunciata dallo zar è solo la conferma di quanto sia disperato”. 

Putin ha detto: “Non abbiamo perso e non perderemo a causa delle sanzioni”. Sta bluffando?

“Se c'è qualcosa che dovremmo aver imparato, è non prendere mai per oro colato ciò che Putin dice. Dire che l'economia russa non ha perso nulla è una bluff tale che non ci crederebbero nemmeno i suoi più accaniti sostenitori in Russia. Gli effetti delle sanzioni sono chiari e visibili: l'inflazione è alle stelle, la disoccupazione è in aumento, la produzione industriale va a rilento, i centri commerciali sono pieni di negozi chiusi e Putin è stato costretto a secretare i dati economici e le statistiche sull’andamento del reddito. In più anche le esportazioni di greggio via mare di settembre sono precipitate e le stime per ottobre fanno presagire un ulteriore colpo alle entrate di Mosca”.

Secondo un documento segreto del governo russo, reso noto da Bloomberg, la decrescita del Pil sarebbe “grave”.

“Era ora che anche in Russia si rendessero conto della situazione disastrosa invece di vomitare la solita propaganda. Dal Fondo monetario internazionale ci hanno riferito che a breve ridurranno drasticamente le previsioni del Pil russo per i prossimi trimestri. Gli effetti della ritirata in massa delle imprese straniere e delle sanzioni hanno impattato su ogni leva produttiva. E la mobilitazione militare parziale, con cui Putin ha ufficialmente cominciato a preparare il suo paese alla guerra, è la conferma e il segno tangibile di quanto sia disperato”.

Però con il ricatto del gas Putin sta stritolando l’Europa.

“La guerra del gas voluta da Putin si sta rivelando un disastroso e autodistruttivo errore di calcolo. L’unico obiettivo era distruggere l'unità europea, che invece ha retto alle minacce e la Russia ha perso il suo più importante acquirente. Il mercato europeo costituiva l'89% delle esportazioni totali di gas, mentre l'Europa è arrivata a un massimo di dipendenza del 43%. Nonostante la fiducia di Putin nel "pivot verso est", è impossibile reindirizzare le esportazioni di gas verso l'Asia, dal momento che il gas russo è per il 90% condutturato, non liquefatto. Con un solo gasdotto che collega la Russia alla Cina - che ha 1/10 della capacità del sistema europeo di gasdotti - Mosca vedrà i suoi profitti ridursi drasticamente. In più Putin sta scoprendo che l’amicizia "senza limiti" con Xi Jinping ha parecchi limiti. Non solo Pechino è riluttante a finanziare nuovi gasdotti, ma inviando il proprio Gnl in eccedenza in Europa depotenzia in parte il ricatto dello zar”.

Cosa servirebbe per sgonfiare definitivamente il ricatto del Cremlino?

“Il tetto al prezzo del petrolio è già un duro colpo. La Russia è il produttore di petrolio più inefficiente del mondo, tanto che, vendendolo a prezzi ultrascontati a India, Cina e Indonesia, riesce a malapena a pareggiare i costi. Le stime del Dipartimento del Tesoro e del Dipartimento di Stato usa, in merito alla proposta del G7 sul tetto al prezzo del petrolio, prevedono una contrazione ulteriore delle entrate russe non in grado di intaccare la stabilità del mercato globale”.

Molti critici delle sanzioni sostengono che Mosca sarà in grado di fare a meno del mercato europeo.

“È ridicolo. Oltre al gas, la Cina e l'India stanno già acquistando maggiori volumi di petrolio dalla Russia, ma più di tanto non possono comprare. Entrambi hanno gli stoccaggi pieni e devono ritirare gli acquisti. L'unica speranza per Putin è trovare un modo per far bere olio al suo popolo. Può continuare a vendere fiumi di petrolio a Cina e India, ma con il price cap ricaverà pochi centesimi per barile, mentre le spese per la guerra e per tamponare il collasso economico continueranno a crescere”.

​Allora si può dire che è la Russia a dipendere dall'Europa e non viceversa?

“La Russia ha bisogno di vendere le sue materie prime - carburante e cibo - al mercato globale, ma nessuno ha bisogno di ciò che la Russia vende. È una sorta di stato vassallo con solo materia prima senza valore aggiunto. Rappresenta meno del 7% del mercato energetico mondiale, ma per Mosca l’export di energia rappresenta il 65%. Prima della guerra vendeva l'89% del gas all'Ue, che ora compra soprattutto dagli Stati Uniti e dalla Norvegia con il gas russo ormai ridotto a meno del 10% del totale. Tra sei settimane in Europa scatterà l’embargo del petrolio grezzo e dopo altre sei dei prodotti petroliferi raffinati provenienti via nave dalla Russia. Ma l’India nonostante i prezzi stracciati non potrà più acquistare il petrolio russo, perché avrà gli stoccaggi pieni”.

Le sanzioni pesano anche sulle difficoltà militari della Russia in Ucraina?

“Certo. Come emerso dai rapporti dei militari ucraini, all’interno delle armi russe recuperate sul campo sono stati trovati addirittura semiconduttori presi dai frigoriferi, segno di quanto sia disperata la Russia e di come ormai non riesca ad assicurarsi nemmeno i componenti essenziali. La Cina ha tagliato le esportazioni di oltre il 50% e Mosca ha dovuto ripiegare su forniture militari scadenti provenienti dall'Iran e dalla Corea del Nord. Questo significa che Putin è alla canna del gas ”.

Perché la storia del pensionato che ha abbattuto un Sukhoi russo non regge. Paolo Mauri il 7 Settembre 2022 su Inside Over.

La stampa italiana ha rilanciato la notizia, diffusa originariamente dal quotidiano britannico Daily Mail, secondo la quale il governo Kiev ha consegnato una medaglia a un pensionato ucraino che, lo scorso marzo, avrebbe abbattuto un cacciabombardiere russo tipo Sukhoi Su-34 colpendolo col suo fucile da caccia.

Valeriy Fedorovych, questo è il nome del “cecchino” ucraino, è stato premiato lo scorso 22 agosto dalle guardie di frontiera ucraine per la sua impresa compiuta nei dintorni di Chernihiv, in una fase del conflitto in cui le forze aerospaziali russe (le Vks – Vozdushno-Kosmicheskiye Sily) erano impegnate attivamente nel sostegno all’avanzata terrestre lungo il fronte settentrionale, poi abbandonato dalle forze di Mosca per concentrarsi sul Donbass e nel settore meridionale.

Il pensionato ucraino, in un video mostrato dalla propaganda di Kiev, mostra orgogliosamente anche alcuni detriti del Su-34 insieme al fucile che avrebbe usato per abbatterlo, e il Daily Mail non esita a definire la storia come una delle tante di “straordinario eroismo” da parte dei civili ucraini davanti “alla barbarica invasione di Putin”.

La storia, a nostro giudizio, è stata inventata per scopi propagandistici in un momento in cui l’esercito ucraino si trova impegnato in un’operazione nel fronte meridionale che sta incontrando molta resistenza, nell’attesa di sferrare quella che sarà la vera e propria controffensiva.

Una storia che, probabilmente, serve per il morale delle truppe (che risulta essere comunque abbastanza alto) e dei civili, questi ultimi prostrati ormai da più di sei mesi di conflitto. Una storia, però, che fa acqua da tutte le parti e per affermarlo basta guardare ai dati tecnici del Su-34 insieme al particolare profilo di volo che si tiene durante una missione di attacco terrestre.

Il Su-34, chiamato “Fullback” in codice Nato, è un velivolo progettato per l’attacco al suolo derivato dal Su-27. Il caccia può raggiungere la velocità di 1900 km/h ad alte quote e di 1300 al livello del mare, con un raggio d’azione di 4mila chilometri. Oltre ad avere la possibilità di utilizzare diversi carichi bellici, per un peso complessivo di circa 12 tonnellate, ha una cabina di pilotaggio che dispone di una corazza in titanio (alcune fonti parlano di 17 millimetri di spessore) pesante 1,48 tonnellate dalla caratteristica disposizione a due posti affiancati in un ambiente totalmente pressurizzato (pertanto i piloti non sono costretti ad indossare maschere durante tutto il volo). Altra peculiarità, che ci serve a capire le dimensioni del velivolo, è la possibilità per l’equipaggio di alzarsi dalle postazioni di volo per andare in “bagno” o in una piccola “cucina“, comodità presenti solo in velivoli più grandi. Il Su-34, infatti, conserva ben poco del Su-27 da cui deriva: sebbene le linee generali lo ricordino molto, il Fullback è più grande misurando 23,3 metri di lunghezza per 14,7 di apertura alare, e con un’altezza complessiva di 6,09 metri.

Il caccia è pensato per attaccare bersagli terrestri e navali a bassa quota, e pertanto, oltre a una suite elettronica particolare in grado di effettuare il jamming dei sistemi di difesa avversari, è pensato per resistere al fuoco di armi leggere. Grazie al suo particolare carrello, con gli elementi principali dotati di due ruote in tandem ciascuno, e alla struttura rinforzata è in grado di operare da basi “austere” e da piste semipreparate, secondo la classica dottrina sovietica di impiego dei caccia da attacco al suolo.

Si ritiene che le Vks dispongano tra i 100 e i 120 Su-34, anche se il conflitto in Ucraina ha ridotto il numero totale a causa degli abbattimenti subiti, però, dai sistemi missilistici antiaerei ucraini, compresi quelli spalleggiabili forniti dall’Occidente come gli Stinger. Diverso è affermare di poter abbattere un cacciabombardiere che vola a poche decine di metri dal suolo per sfuggire ai missili avversari e prossimo alla sua velocità massima con un fucile da caccia. Oltre ai problemi di gittata efficace, che nel caso di alcune carabine può arrivare a poco meno di un paio di centinaia di metri, viene da chiedersi come abbia potuto effettuare il puntamento, stante appunto le caratteristiche di volo già espresse. Ci risulta anche difficile pensare che un singolo colpo di fucile, qualora per un caso estremamente fortunato il pensionato fosse riuscito a colpire il caccia, abbia potuto causare un danno di tale entità da causare la perdita del velivolo, che come abbiamo visto è nato per l’attacco al suolo quindi pensato per resistere a uno degli ambienti di combattimento più duri, se pur con caratteristiche di sopravvivenza non paragonabili a quelle del vetusto A-10 statunitense.

Molto probabilmente i rottami raccolti da Fedorovych sono quelli di uno dei Su-34 abbattuti dal tiro contraereo dell’esercito ucraino, e l’anziano cacciatore ci ha ricamato sopra una storia che il governo ucraino ha deciso di sfruttare a livello propagandistico al pari delle voci circolate sul “Fantasma di Kiev”, il fantomatico pilota da caccia che avrebbe abbattuto “decine” di aerei russi nelle prime fasi del conflitto. Ci sentiamo di affermare che l’unica cosa vera in tutta questa storia, oltre ai detriti del Su-34, è la medaglia ricevuta da Fedorovych: testimonianza in questo caso, più che dello spirito combattivo della popolazione civile comunque evidenziato da episodi di ben altra natura, di una propaganda che sta assumendo sfumature alquanto parossistiche.

Cosa replicare a un vecchio amico? Sulla guerra in Ucraina esiste una sola verità (e non è un bene). Ormai sui giornali neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato. Dino Cofrancesco su Nicolaporro.it il 6 Settembre 2022.

Un vecchio amico—forse uno dei migliori storici contemporaneisti della sua generazione—mi dice: “C’è un solo modo per porre fine alla guerra russo-ucraina, fare pressioni su Mosca e su Kiev, perché accettino l’annessione della Crimea (un errore di Kruscev, come riconosciuto da Gorbachev) e un referendum nelle regioni contese del Donbass, sotto il vigile controllo dell’Onu, per chiedere alle popolazioni se intendono far parte dell’Ucraina o della Federazione russa”.

“L’alternativa è la prosecuzione di una guerra che sprofonderà l’Europa—e soprattutto l’Italia—nella peggiore crisi economica della sua storia, cementerà l’alleanza tra Mosca e Pechino, alla quale si aggiungerà Nuova Delhi, farà dell’Asia un dominion cinese (tranne il Giappone e Taiwan, difficile da difendere da un’invasione decisa da Xi) e ridurrà l’Europa, de facto, a una colonia degli Stati Uniti, che sono quelli che—con buona pace di Federico Rampini, divenuto Texas Ranger—hanno meno da perdere dal conflitto in corso. Gli intellettuali con l’elmetto—quelli che oggi sono con l’America, malata, di Biden e di Trump e che ieri erano avversari irriducibili dell’America, sana, di Eisenhower e di Kennedy—e i politici, moderati o di sinistra, arruolati tutti nei marine non si rendono conto che l’Ucraina potrebbe essere la nuova Serbia e, come l’antica, portare a una guerra mondiale che oggi, con l’arma atomica, rischierebbe di distruggere non solo la civiltà occidentale ma ogni forma di vita sulla terra”.

“Saggiamente Washington non intervenne nel 1956 quando l’Armata rossa (che ancora si chiama così) invase Budapest: quello sovietico era l’esercito più potente del mondo e gli ungheresi vennero lasciati al loro destino per non precipitare l’Europa e il mondo nel caos. Oggi quasi sessant’anni dopo, non solo si è deciso l’intervento—questa volta per interposta persona—dinanzi a una Russia militarmente indebolita (secondo la massima: colpire il nemico quando è più debole) ma, contravvenendo a tutti gli impegni e le garanzie date a Mosca alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, la Nato si è estesa in Europa orientale fino a lambire i confini russi. Se qualcosa di analogo fosse capitato a Stati Uniti e Canada—ad es. missili con testate nucleari in un’America centrale e meridionale colonizzate da russi e cinesi—la reazione sarebbe non meno dura di quella mostrata da Kennedy all’epoca dei missili a Cuba. Si sarebbe detto che un conto sono i missili che minacciano una democrazia, un altro conto sono quelli che minacciano un regime dittatoriale”.

“Tra l’altro va rilevato per inciso che la pace, anche quella imposta dal vincitore, nella società moderna post-totalitaria, non è sempre quella dei romani (“desertum fecerunt et pacem appellaverunt”): sia pure in condizioni difficili, è possibile salvaguardare qualcosa, come dimostrò l’accorto Janos Kadar, l’uomo imposto da Mosca alla guida del governo ungherese, che mise mano a riforme di qualche peso. Insomma finché c’è vita, c’è speranza e un’Ucraina dai confini più ridotti può continuare il suo processo di occidentalizzazione. Peraltro se i miliardi di dollari e di euro, destinati agli armamenti, venissero distribuiti alla popolazione civile di un paese, senza più Crimea e (forse) Donbass, gli ucraini avrebbero un tenore di vita superiore a quello svedese e finlandese”.

Confesso che non sono stato in grado di replicare alle considerazioni del mio amico. Le mie frequentazioni giornalistiche (da ’Atlantico’, l’organo del fondamentalismo occidentalista, al ‘Giornale’) sono tutte su una lunghezza d’onde diversa, se non opposta e questo mi porta per lo meno a pormi la domanda scettica: “Dopo aver ascoltato le argomentazioni degli uni gli uni e degli altri, que sais je veramente?”. Debbo anche dire che non pochi conoscenti e colleghi, in camera caritatis, esprimono opinioni ancora più radicali di quelle su riportate ma se ne guardano bene dal metterle per iscritto: rischierebbero di passare per amici di quell’autentico scoundrel di Putin e qualche volta—com’è capitato a me per aver consigliato a un’amica slavista il libro di Eugenio Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine Mondiale, Rubbettino 2015—di perdere un’amicizia ventennale.

Sospendo, comunque, il mio giudizio sulla contesa politica e ideologica che sta dividendo l’Italia in campi avversi. Sarà la storia a decidere i torti e le ragioni. Le opinioni sono opinioni e tutte da prendere in considerazione ma una cosa, tuttavia, è certa e inconfutabile come un ‘giudizio di fatto’: quanti sono contrari alle sanzioni contro la Russia non hanno per così dire, ’buona stampa’. Nel migliore dei casi vengono accusati di ignoranza (colpevole) di quanto sta avvenendo in Ucraina; nel peggiore, passano per incalliti cinici, indifferenti ai valori alti dell’Occidente e preoccupati solo del rincaro del gas e della vita quotidiana in genere. Che migliaia di aziende chiudano i battenti, che si vada incontro a uno dei peggiori inverni della nostra storia, che in Ucraina continuino a morire ammazzati migliaia di militari russi e di militari e civili ucraini, sono preoccupazioni da panciafichisti, da “sciaurati che mai non fur vivi’. Nessun sospetto che, come capita sempre nel nostro malinconico mondo sublunare, possano esserci ‘valori’ da una parte e dall’altra, che l’etica dei principi (per cui la sovranità di uno Stato deve essere salvaguardata a costo di andare incontro a distruzioni irreparabili di vite e di beni) sia etica al pari dell’etica della responsabilità e che al ‘propter vitam, vivendi perdere causas’ si può sempre contrapporre l’osservazione che sotto terra non ci sono più buoni e cattivi, giusti o ingiusti.

Se si guardano i notiziari televisivi e si leggono i grandi giornali (i ’giornaloni’),a parte forse ‘Limes’, ci si rende conto che neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato e che le rare volte che si citano fonti russe lo si fa per confermare la loro spudorata inattendibilità. Paradossalmente è nei periodici nordamericani che si possono trovare informazioni alternative (e certo non per questo veritiere). Gli articoli di grandi scienziati politici come John J. Mearsheimer , però, non vengono tradotti in italiano ed è una rivista catacombale come ‘Nuovo Arengario’ a segnalare il saggio di Ramon Marks No Matter Who Wins Ukraine, America Has Already Lost. There are multiple tough strategic realities for the United States to absorb. (‘The National Interest’ 21 august 2022).

Questa squalifica di chi non la pensa come noi è, forse, la peggiore eredità delle due culture totalitarie che tanto hanno inciso sul nostro sentire collettivo, il fascismo e dal comunismo. Siamo il paese del ‘pensiero unico’: la verità sta solo da una parte—ieri il fascismo, il comunismo—oggi l’oltranzismo atlantista, il liberalismo mercatista, la santificazione (o per lo meno la giustificazione) degli Stati Uniti, qualsiasi cosa facciano. Forse aveva ragione, ahimè, il mio non amato Gobetti quando diceva che gli italiani non hanno spina dorsale morale. Dino Cofrancesco, 6 settembre 2022

Le regole US-Nato e quelle dei cosiddetti regimi dittatoriali. Piccole Note il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

In genere non pubblichiamo le missive che arrivano al sito, ma per quella che segue facciamo un’eccezione che conferma la regola, per l’intelligenza che sottende e perché cita un articolo del sito Responsible Statecraft che ha attirato la nostra attenzione. Certe sintonie, quando avvengono, vanno assecondate. Ringrazio il lettore che l’ha inviata e i lettori che la vorranno leggere.

Leggo e apprezzo la lettura dei Suoi articoli .  Le allego una riflessione personale . E’ il mio modo di mostrarle solidarietà, insieme a qualche contributo economico, quando posso.

Saluti.

Ero un lettore di Repubblica, che acquistavo regolarmente in versione cartacea . I vari cambi di editore\direzione mi hanno convinto che l’era Scalfari è passata . E non ritornerà più .

Non compro più un quotidiano, né una rivista : né cartacea né on-line.

Da un paio di anni mi dedico alla informazione internazionale, facendo zapping fra le varie testate on-line: quelle con accesso gratuito. Faccio zapping anche con le testate giornalistiche italiane, ma con la precisa sensazione di rovistare nel cassonetto dell’indifferenziata: forse trovi qualcosa di interessante .

Naturalmente seguo le vicende della guerra Russia – (Ucraina) occidente .

Da quanto si legge su quasi tutti i media internazionali, sembrerebbe attiva una lotta mondiale per la DEMOCRAZIA . Da una parte il mondo occidentale, dall’altra la Russia, membro di un gruppo di nazioni non-occidentali, ma anche di uno schieramento ibrido di soggetti individuali e sociali, trasversale al mondo occidentale, che vengono considerarti “dittattoriali” e\o “autarchici” .

 L’oggetto “apparente” , in senso hegeliano, del contendere è la DEMOCRAZIA .

Il mondo occidentale accusa la Russia di mettere in dubbio i valori della democrazia, e il suo ordine mondiale delle regole , per affermare il proprio sistema di regole dittatoriali ed autarchiche.

La Russia risponde che la sua azione nasce dalla politica di aggressione della NATO. Che il suo obiettivo era la pace .

Sto tagliando con la scure . Ma giusto per capirci .

 Oggi sulla testata Responsible statecraft, Sam Fraser scrive un interessante articolo “Why US hegemony is incompatible with a ‘rules-based international order’“.

In sostanza l’autore afferma che la dottrina US di bastonare chi non si adegua alla ”sua democrazia” è sbagliata, ipocrita e nasconde solo ed esclusivamente la volontà di mantenere l’egemonia sul mondo.

Anche qui taglio con la scure . Mi scuso . Ma quanto descritto nell’articolo fotografa cosa c’è, secondo me, alla base della guerra in Ucraina. Ed è sorprendente che questa posizione sia espressa con lucidità da una testata americana.

Quindi, la guerra Russia-occidente (Ucraina) non ha niente di nuovo da aggiungere al fatto che la “democrazia” si difende\impone con la violenza . E in questo non c’è niente di immorale.

La novità è rappresentata dal fatto che la Russia accredita il proprio diritto ad usare la violenza per difendersi\imporsi. Ovvero, si fa portavoce di un sentimento che sta pervadendo il pianeta: la democrazia non è un valore, è un sistema di potere che si auto-giustifica come “valore morale”, ma che in realtà gestisce il potere con la violenza del diritto che gli viene dal proprio potere economico-militare-amministrativo.

Oramai esaurite le opzioni “sanzioni”, all’occidente resta l’infantile bando dei russi dal circolare liberamente nel mondo occidentale. Intanto la Russia non ha ancora esaurito le potenzialità della sanzione “energetica”, consolida i rapporti economici con gli pseudo alleati dell’occidente (India, Brasile, mondo arabo, etc. ) nonché con il nemico mortale degli americani: la Cina.

Ma il fatto più inquietante è la devastazione dell’Ucraina.

La Russia, dopo aver lottato a lungo con US\NATO per la pace, non si fermerà mai ! E poiché è chiaro per il mondo occidentale che il punto di contrasto sta nel riconoscere che la Russia si è preso sul campo il “diritto” di usare la violenza per imporre la propria egemonia, togliendo alla “DEMOCRAZIA” un privilegio che si era attribuito in forma monopolistica, l’esito della guerra è irrilevante. E l’occidente è complice di questa devastazione.

La Russia si è fatto carico di affermare, per sé e per chi ha subito e subisce l’egemonia US\NATO, il proprio diritto ad esercitare la violenza che il proprio potere militare, economico ed amministrativo gli permette, esattamente come sancito dalla dottrina americana-occidentale sulle ragioni della democrazia.

La storia riscritta da Putin per i territori ucraini occupati. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

I precedenti dalla Grande guerra ai libri di testo del Ventennio: i sussidiari, gli abbecedari, i termini, della scuola mussoliniana che voleva plasmare (come ricordano libri indimenticabili quali i «Hitler è buono e vuole bene all’Italia» di Bruno Rossi o «Plagiati e contenti» di Noris De Rocco) i fascisti del futuro

Primo settembre, prima campanella. Anche nelle scuole dei territori ucraini occupati dall’esercito di Putin. Tutti gli alunni, per cominciare, dovranno rispondere all’appello in russo, apriranno abbecedari e libri di lettura russi (non quelli di Tolstoj per la sua scuola di Jasnaja Poljana, probabilmente...) cominceranno a imparare la «vera» storia russa dai maestri russi. Saranno 326.000 in 1.422 scuole.

Per ora useranno, pare, gli stessi testi usati nelle ventidue repubbliche della Federazione da San Pietroburgo al villaggio di Uelen, in faccia all’Alaska. Ma Andrej Turchak, il segretario generale del partito nazionalista putiniano Russia Unita, due giorni fa, ha spiegato alla Tass: «Faremo pubblicare un manuale di storia corretto in cui ci saranno capitoli nuovi dedicati all’Operazione militare speciale e alle imprese eroiche dei nostri ragazzi». Rileggiamo: «Corretto». Cioè? La versione sempre scritta dai vincitori? Che questo sia l’obiettivo putiniano è ovvio. Lo confermava una decina di giorni fa, all’agenzia Ria Novosti, il vice speaker della Duma Boris Chernyshov: ha annunciato un programma di «denazificazione dell’istruzione» contro i manuali ucraini che «travisano la nostra comune storia» e via così.

Va da sé che l’inizio dell’anno scolastico sarà celebrato in ogni istituto con l’alzabandiera dei colori russi e una lezione di patriottismo russo su misura dell’età degli alunni. Un esempio per le classi superiori? «Nel 1954 la Crimea fu trasferita dalla RSFSR (Repubblica socialista federativa sovietica russa) alla Repubblica socialista sovietica ucraina in occasione dei 300 anni della riunificazione dell’Ucraina con la Russia. Ma non fu chiesta l’opinione degli abitanti locali. In quegli anni si pensava che non avesse importanza dentro quale repubblica dell’Urss si trovasse questo o quel territorio. Ma le conseguenze di quelle decisioni si sono rivelate durature in quanto con lo scioglimento dell’Urss negli anni 1990 le frontiere amministrative si sono trasformate in quelle statali…» E così quando «sono arrivate al potere in Ucraina nel febbraio 2014 le guerreggianti forze nazionaliste orientate verso l’integrazione con l’Unione europea e verso un’adesione alla Nato», «il governo russo si è visto costretto a impegnare i reparti dell’esercito che si trovavano in Crimea». 

Certo, non è la prima guerra sanguinosa combattuta anche con la propaganda. Basti ricordare i Giornali di trincea della Grande Guerra dove ogni notizia esultante lanciata dagli austriaci (magari in italiano su finti volantini italiani) veniva rovesciata dagli italiani con finte informazioni in tedesco su finti giornalini austriaci... O ungheresi. O francesi. Per non dire di certi volantini: «Non dimentichiamo che ai bambini furono tagliate le mani, che le donne furono disonorate, che alle popolazioni vinte, in compenso delle ricchezze rubate, fu concesso di sfamarsi con delle orribili minestre!» «Donne! Pensate all’onore delle donne italiane: non fate che l’onore vostro sia oltraggiato dai barbari!».

Mai come oggi in cui l’Europa è messa a fuoco e si infiamma ulteriormente la più becera e violenta guerra di propaganda vale la pena più ancora per noi italiani di rileggere il nostro passato. E i danni che possono fare certi scontri ideologici. I manifesti nazionalisti in Südtirol o nelle terre istrovenete: «Qui non si parla italiano». Riprese oggi, in altre terre miste, con la stessa idea di fondo: «Zdes’ govoriat tolko po-russki», qui si parla (solo) russo.

E poi nuove scuole ideologiche. Di qua la primina delle elementari con la suora nel ruolo di maestra madonnina, di là la mensa scolastica comunista dove i piccoli attendevano il cibo sul piatto vuoto sotto un enorme foto di Stalin! Di qua il maestro sessantottino con l’abbecedario che spiega la R «come rivoluzionario», la M come martello e la F «come fucile», di là il manifesto Dc col bimbo col grembiule bianco che conciona: «E se papà e mamma non andranno a votare, noi faremo la pipì a letto!» Ciascuno con la sua tesi, la sua ferma volontà di plasmare il mondo scolastico a somiglianza dei suoi miti. Fino al sindaco di Adro, che arriverà a tappezzare le elementari con oltre 700 simboli del Sole delle Alpi.

Su tutto, però, vale la pena di ricordare i sussidiari, gli abbecedari, i temini, della scuola mussoliniana che voleva plasmare (come ricordano libri indimenticabili quali i «Hitler è buono e vuole bene all’Italia» di Bruno Rossi o «Plagiati e contenti» di Noris De Rocco) i fascisti del futuro. «Il Signor Maestro ci ha spiegato che gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c’è Credere, Obbedire, Combattere». «Ieri il babbo mi regalò una bella bambola negra. Appena io l’ebbi fra le braccia la lasciai cadere: quella negretta mi ricordava la guerra poi la guardai meglio e mi parve che quel visino selvaggio esprimesse molta riconoscenza e la ripresi fra le braccia. Ora l’ho adottata come figlia e le ho messo nome Mariù. Forse Mariù è nata schiava fra le ambe del Tigrai. E io l’ho liberata dalle catene». «Problema: In una scuola ci sono 112 Figli della Lupa, 385 Piccole Italiane e 412 Balilla. Quanti sono gli iscritti alla gioventù italiana del Littorio, in quella scuola?» Tema: «È il V annuale delle sanzioni. In questo tempo molte cose sono passate. Abbiamo conquistato l’Impero, l’Albania e anche adesso stiamo combattendo accanitamente. Abbiamo sconfitto la Francia e quasi l’Inghilterra». «Con ‘sto grosso manganello vinceremo l’Inghilterra / con la carne del Negus ci faremo la mortadella / per darla da mangiare agli stronzi dell’Inghilterra. / Bing bang bong al rombo del cannon / Con la barba del Negus ci faremo gli spazzolini / per pulire gli stivalini al nostro duce e al nostro re / Bing bang bong al rombo del cannon».

Come finì allora lo sappiamo. Come andrà stavolta i bimbi del Duce Putin rischiano di scoprirlo a proprie spese...

Ucraina, la guerra della propaganda. Marco Petrelli il 22 Agosto 2022 su Inside Over.

The Moscow Times è il giornale più diffuso negli alberghi di Mosca. In inglese, dunque indirizzato agli stranieri che alloggiano nel centro della Capitale. Lo ricordiamo sui tavoli del lounge bar, così come accanto ai portieri (siberiani) il cui inglese si riduceva ad un forzato “good morning”, accompagnato da un generoso sorriso. 

A The Moscow Times lavorano peraltro molti giornalisti stranieri, specie inglesi ed americani. O, almeno così era fino a poco prima dell’invasione dell’Ucraina. Politica, attualità ma soprattutto cultura affinché l’ospite internazionale fosse ben informato sulla storia e sui traguardi della Russia zarista, sovietica e putiniana. 

“Occhio che è la voce del regime” scherzavano i colleghi italiani quando te lo vedevano fra le mani. Vero che nella Federazione essere distanti dalle posizioni ufficiali del Cremlino è tutt’altro che facile, dunque un po’ tutti i grossi network sono più o meno allineati. Un po’ come accade da noi, in Italia ed in generale in Occidente, dove essere critici su invio armi a Kiev o dubitare dell’appoggio all’Ucraina significa essere marchiati con la lettera scarlatta. Anzi, con la “P” di Putin. 

I russi hanno iniziato a conoscere la democrazia appena trent’anni fa. Non è una scusante, chiaro, ma da Ivan IV di Russia a Nicola Romanov, da Lenin a Gorbacev per oltre quattro secoli monarchia assoluta e regime totalitario hanno rappresentato l’unica forma di stato. 

“Tutti i sovrani russi sono autocrati e nessuno ha il diritto di criticarli, il monarca può esercitare la sua volontà sugli schiavi che Dio gli ha dato. Se non obbedite al sovrano quando egli commette un’ingiustizia, non solo vi rendete colpevoli di fellonia, ma dannate la vostra anima, perché Dio stesso vi ordina di obbedire ciecamente al vostro principe” scriveva, nel XVI Secolo, il primo zar Ivan IV Il Terribile. Quasi un pronostico di ciò che sarebbe accaduto nel futuro, prossimo e remoto, del paese. 

Abbiamo già scritto che Putin ha saputo coniugare storia e tradizioni della Russia zarista con l’identità sovietica, al fine di forgiare una nazione nuova capace di uscire dal periodo buio, caotico e senza prospettive della presidenza Elcin. E lo ha fatto con una formula democratica molto lontana dalle democrazie liberali ma che, ad oggi, sembra funzionare. Diritti a parte… 

Dopo la parentesi sanzionatoria apertasi con l’annessione della Crimea, l’Occidente ha stretto la morsa delle sanzioni e aumentato le accuse per violazione delle libertà fondamentali all’ombra del Cremlino, con l’invasione dell’Ucraina. 

Una morsa così stretta i cui effetti si sono riflessi anche sul nostro modo di concepire e di capire il conflitto in corso. Forse mossi dall’idea del “fin di bene”, i governi ed i media europei e statunitensi hanno sempre condannato, senza se e senza ma, la politica estera aggressiva dei russi, dalla Crimea alla Siria sino alla guerra ucraina. 

Posizioni drastiche, che non ammettono repliche né critiche. Un po’ come in Russia, insomma, con la differenza che la tradizione democratica europea ha modelli più antichi e fondamenta più salde. 

L’Italia, fra i principali partner commerciali della Russia (nel 1924 fu il primo paese d’Occidente a riconoscere l’Urss), si è schierata contro Mosca con maggiore acredine rispetto a tutti gli altri membri Ue e dell’Alleanza, dato riscontrato (e rinfacciato) dallo stesso Ministro plenipotenziario agli Esteri Sergej Lavrov. 

I network ed i quotidiani nazionali hanno sostenuto le tesi anti-russe del Governo Draghi, imponendo una forma velata di bavaglio a qualunque opinione si discostasse dalle posizioni ufficiali. I giornalisti russi ridicolizzati nei talk show, i colleghi italiani accusati di essere filo-Putin, tentativi di gogna mediatica (ritirare il Premio Ischia a Toni Capuozzo), il ricorso alla risibile accusa di simpatie filo-russe rivolta da una parte della politica alle forze conservatrici. 

Risibile perché tutti, dalla sinistra al centro fino alle destre, hanno dialogato con Mosca essendo stata, come già citato, un partner da 7 miliardi di euro di export fino al 2020. 

Un orientamento che con il giornalismo vero (ricerca della veridicità della notizia) ha ben poco a che fare, soprattutto quando si negano o si dimenticano eventi che potrebbero essere chiave di volta per fornire un’informazione più corretta. Ad esempio, il rifiuto di riconoscere le operazioni militari condotte da Kiev contro le repubbliche separatiste del Donbass per otto anni, costate diecimila morti ad entrambi gli schieramenti, oltre tremila vittime civili ed un milione e mezzo di sfollati. O, ancora, accettare che una parte della difesa ucraina sia in mano ad elementi neo-nazisti, nazionalisti ed avventurieri arruolati nelle curve e nei partiti più sciovinisti della politica ucraina. Una riproposizione, in chiave contemporanea, delle famigerate Tigri di Arkan ex ultrà del Belgrado e criminali di guerra. 

L’Italia è forse il Paese Ue più fertile per il giornalismo di parte. Esiste una linea principale e quella va seguita. Poi sì, si possono seguire anche altre strade ma il percorso diventa poi molto difficile. Studiare serve solo se la cultura è “veicolabile” al fine di sostenere tesi preparate a tavolino. Abbiamo sentito parlare di crimini contro l’umanità sin dalle prime settimane di guerra, ma nessuno ha mai dato voce a quella fetta di popolazione del Donbass che per anni ha subito il nazionalismo delle forze ucraine. Abbiamo accettato, come oro colato, qualunque dichiarazione provenisse da Kiev senza controbilanciarla con le poche (ma se si vuole reperibili) affermazioni del Cremlino, convinti che quella russa fosse solo propaganda. E dunque non degna di nota. 

Ora, Putin non ha scusanti per la censura dei media se non, forse, quella della “poca pratica” democratica dovuta ai fattori, storici, sopra elencati. Per l’Italia scuse zero: un giornalismo davvero libero dovrebbe fare dell’obiettività il suo cavallo di battaglia, non cavalcare trend per aumentare la platea dei lettori e per non essere marchiata quale “putinista”. In pochi sembrano rendersene conto ma in questa fase storica, più che mai i giornali rischiano di perdere ancora di più credibilità di fronte al pubblico. Pubblico che pare assente ed assorto dai social, ma in realtà attento a ciò che accade ed a porsi domande… quelle stesse domande che dovrebbe farsi un giornalista quando qualcosa non gli sembra tornare. 

Thread di Stefania Maurizi su Twitter il 19 agosto 2022.

1. fin da quando è arrivata in Italia, ho osservato #SannaMarin: è il perfetto strumento di propaganda del complesso militare-industriale occidentale, di cui vi ho parlato. Donna, viso da Biancaneve. Il volto umano del militarismo 

2. voi guardate la grazia di #SannaMarin, il suo viso dolce e pulito e pensate che il militarismo occidentale sia umano, voi andiamo a fare del bene, portiamo i diritti delle donne, delle persone LGBT, noi siamo il Bene

3. leggete questo documento segreto della #CIA rivelato da #WikiLeaks nel 2010 su come usare i diritti delle donne per convincere opinione pubblica francese (per i francesi il laicismo è una cosa seria) a rimanere in #Afghanistan: wikileaks.org/wiki/CIA_report_into_shoring_up_Afghan_war_support_in_Western_Europe,_11_Mar_2010 

4. come vi ho detto, i nuovi militaristi sono più difficili da decifrare: i vecchi generali Turgidson erano facili. Autoritari, sciovinisti, maschilisti, redneck, erano quello che si dice fair game per la satira: da Kubrick e il suo capolavoro Dr. Strangelove, a Bonvi e le Sturmtruppem

5. i nuovi militaristi riescono a eludere gli anticorpi che la società civile e l'opinione pubblica hanno sviluppato nel corso dei secoli contro la guerra. I nuovi militaristi NON parlano l'antico linguaggio della guerra che fa scattare quegli anticorpi 

6. i nuovi militaristi parlano di diritti umani e civili, diritti delle donne. Rifuggendo l'antico linguaggio della guerra, i suoi contenuti violenti, sciovinisti e di sopraffazione, i nuovi militaristi riescono a vendere la guerra a una società civile profondamente avversa ad essa 

2 - COME USARE I DIRITTI DELLE DONNE PER CONVINCERE FRANCESI E TEDESCHI SULLA GUERRA IN AFGHANISTAN

Estratti dal documento segreto della CIA “Afghanistan: Sustaining West European Support for the NATO-led Mission-Why Counting on Apathy Might Not Be Enough” dell’11 marzo 2010 – pubblicato da Wikileaks

Questa analisi classificata della CIA, risalente a marzo, delinea possibili strategie di pubbliche relazioni per sostenere il sostegno pubblico in Germania e Francia per il proseguimento della guerra in Afghanistan. 

Dopo che il mese scorso il governo olandese è caduto sulla questione delle truppe olandesi in Afghanistan, la CIA si è preoccupata che eventi simili potessero accadere nei Paesi che inviano il terzo e il quarto contingente più grande di truppe alla missione ISAF. 

Le strategie di pubbliche relazioni proposte si concentrano sui punti di pressione individuati all'interno di questi Paesi. Per la Francia si tratta della simpatia dell'opinione pubblica per i rifugiati e le donne afghane. Per la Germania si tratta della paura delle conseguenze di una sconfitta (droga, aumento dei rifugiati, terrorismo) e della posizione della Germania nella NATO.

Il memo è una ricetta per la manipolazione mirata dell'opinione pubblica in due Paesi alleati della NATO, scritta dalla CIA. È classificato come confidenziale/no foreign nationals.

Memorandum speciale della Red Cell 11 marzo 2010

[…] La caduta del governo olandese per il suo impegno di truppe in Afghanistan dimostra la fragilità del sostegno europeo alla missione ISAF guidata dalla NATO. Alcuni Stati della NATO, in particolare Francia e Germania, hanno contato sull'apatia dell'opinione pubblica nei confronti dell'Afghanistan per aumentare i loro contributi alla missione, ma l'indifferenza potrebbe trasformarsi in ostilità attiva se i combattimenti della primavera e dell'estate dovessero provocare un aumento delle vittime militari o civili afghane e se un dibattito in stile olandese si riversasse su altri Stati che contribuiscono alle truppe.

La Cellula Rossa ha invitato un esperto di comunicazione strategica della CIA e gli analisti che seguono l'opinione pubblica presso il Bureau of Intelligence and Research (INR) del Dipartimento di Stato a considerare approcci informativi che possano meglio collegare la missione afghana alle priorità di francesi, tedeschi e altri pubblici dell'Europa occidentale. (C//NF) 

[…] I cittadini dell'Europa occidentale potrebbero essere meglio preparati a tollerare una primavera e un'estate di maggiori perdite militari e civili se percepissero chiari collegamenti tra i risultati in Afghanistan e le loro priorità.

Un programma di comunicazione strategica coerente e iterativo tra i contributori di truppe della NATO, che tenga conto delle principali preoccupazioni di specifici pubblici dell'Europa occidentale, potrebbe fornire un cuscinetto nel caso in cui l'apatia di oggi diventi l'opposizione di domani all'ISAF, dando ai politici un maggiore margine di manovra per sostenere i dispiegamenti in Afghanistan. (C//NF) 

Francesi concentrati su civili e rifugiati. Concentrandosi sul messaggio che l'ISAF va a vantaggio dei civili afghani e citando esempi di guadagni concreti, si potrebbe limitare e forse anche ribaltare l'opposizione alla missione. Questi messaggi su misura potrebbero sfruttare la forte preoccupazione dei francesi per i civili e i rifugiati.

I sostenitori dell'ISAF nei sondaggi dell'INR dell'autunno 2009 hanno citato più spesso la percezione che la missione aiuti i civili afghani, mentre gli oppositori hanno sostenuto più spesso che la missione danneggi i civili. Contraddire la percezione che "l'ISAF fa più male che bene" è chiaramente importante, soprattutto per la minoranza musulmana francese: - Evidenziare l'ampio sostegno degli afghani all'ISAF potrebbe sottolineare l'impatto positivo della missione sui civili. 

[…] La prospettiva che i Talebani annullino i progressi faticosamente ottenuti in materia di istruzione femminile potrebbe provocare l'indignazione dei francesi, diventare un punto di raccolta per l'opinione pubblica francese, in gran parte laica, e dare agli elettori un motivo per sostenere una causa buona e necessaria nonostante le perdite. 

[…] Il governo francese ha già fatto della lotta alle reti di trafficanti di esseri umani afghani una priorità e probabilmente sosterrebbe una campagna di informazione sul fatto che una sconfitta della NATO in Afghanistan potrebbe far precipitare una crisi di rifugiati. (C//NF) I tedeschi sono preoccupati per il prezzo e i principi della missione ISAF. 

Gli oppositori tedeschi all'ISAF temono che la guerra in Afghanistan sia uno spreco di risorse, che non sia un problema tedesco e che sia discutibile in linea di principio, a giudicare da un sondaggio INR dell'autunno 2009.

Una parte dell'opposizione tedesca all'ISAF potrebbe essere smorzata dalle prove dei progressi sul terreno, dagli avvertimenti sulle potenziali conseguenze per la Germania di una sconfitta e dalle rassicurazioni sul fatto che la Germania è un partner prezioso in una missione necessaria guidata dalla NATO. 

- Sottolineare la contraddizione tra il pessimismo tedesco nei confronti dell'ISAF e l'ottimismo afghano sui progressi della missione potrebbe sfidare le affermazioni degli scettici secondo cui la missione è uno spreco di risorse. 

Lo stesso sondaggio ABC/BBC/ADR ha rivelato che il 70% degli afghani pensava che il loro Paese stesse andando nella giusta direzione e che sarebbe migliorato nel 2010, mentre un sondaggio GMF del 2009 ha mostrato che circa la stessa percentuale di intervistati tedeschi era pessimista sulla possibilità di stabilizzare l'Afghanistan. - Messaggi che drammatizzano le conseguenze di una sconfitta della NATO per gli interessi specifici della Germania potrebbero contrastare la percezione diffusa che l'Afghanistan non sia un problema della Germania.

Ad esempio, messaggi che illustrino come una sconfitta in Afghanistan potrebbe aumentare l'esposizione della Germania al terrorismo, all'oppio e ai rifugiati potrebbero contribuire a rendere la guerra più saliente per gli scettici. - L'enfasi sugli aspetti multilaterali e umanitari della missione potrebbe contribuire ad alleviare le preoccupazioni dei tedeschi riguardo alla conduzione di qualsiasi tipo di guerra, facendo appello al loro desiderio di sostenere gli sforzi multilaterali. 

Nonostante la loro allergia ai conflitti armati, i tedeschi erano disposti a rompere i precedenti e a usare la forza nei Balcani negli anni '90 per dimostrare il loro impegno nei confronti degli alleati della NATO. Secondo un sondaggio dell'INR dell'autunno 2009, aiutare gli alleati è una delle ragioni più convincenti per sostenere l'ISAF. (C//NF) 

Gli appelli del Presidente Obama e delle donne afghane potrebbero avere un seguito (C//NF) La fiducia del pubblico francese e tedesco nella capacità del Presidente Obama di gestire gli affari esteri in generale e l'Afghanistan in particolare suggerisce che sarebbero ricettivi alla sua affermazione diretta dell'importanza della missione ISAF e sensibili alle espressioni dirette di disappunto nei confronti degli alleati che non aiutano.

Secondo un sondaggio GMF condotto nel giugno 2009, circa il 90% degli intervistati francesi e tedeschi era fiducioso nella capacità del Presidente di gestire le politiche estere. 

Lo stesso sondaggio ha rivelato che l'82% degli intervistati francesi e il 74% di quelli tedeschi erano fiduciosi nella capacità del Presidente di stabilizzare l'Afghanistan, anche se la successiva attesa della strategia di surge statunitense potrebbe aver eroso parte di questa fiducia. 

L'irritazione europea per la mancata partecipazione del Presidente a un vertice dell'UE e i commenti secondo cui la sua assenza dimostra che l'Europa conta meno, suggeriscono che la preoccupazione per la posizione dell'Europa nei confronti di Washington potrebbe fornire almeno una certa leva per sostenere i contributi all'ISAF. (C//NF)

Lo stesso sondaggio ha anche rilevato che, quando agli intervistati è stato ricordato che lo stesso Presidente Obama aveva chiesto un aumento dei dispiegamenti in Afghanistan, il loro sostegno all'accoglimento di questa richiesta è aumentato drasticamente, dal 4 al 15% tra gli intervistati francesi e dal 7 al 13% tra i tedeschi. 

Le percentuali totali possono essere piccole, ma suggeriscono una sensibilità significativa nel deludere un presidente visto come ampiamente in sintonia con le preoccupazioni europee. (C/NF)

Le donne afghane potrebbero fungere da messaggeri ideali per umanizzare il ruolo dell'ISAF nella lotta ai Talebani, grazie alla loro capacità di parlare in modo personale e credibile delle loro esperienze sotto i Talebani, delle loro aspirazioni per il futuro e dei loro timori di una vittoria talebana. Iniziative di sensibilizzazione che creino opportunità mediatiche per le donne afghane di condividere le loro storie con donne francesi, tedesche e di altri Paesi europei potrebbero aiutare a superare lo scetticismo diffuso tra le donne dell'Europa occidentale nei confronti della missione ISAF.

- Secondo un sondaggio INR dell'autunno 2009, le donne francesi hanno 8 punti percentuali in meno di sostegno alla missione rispetto agli uomini e le donne tedesche hanno 22 punti percentuali in meno di sostegno alla guerra rispetto agli uomini. 

- Gli eventi mediatici che presentano testimonianze di donne afghane sarebbero probabilmente più efficaci se trasmessi in programmi che hanno un pubblico femminile ampio e sproporzionato.

La mistica della controffensiva ucraina e la dura realtà della guerra. Piccole Note il 18 agosto 2022 su Il Giornale.

“L’Ucraina ha annunciato per mesi la sua grande controffensiva. Dov’è?” Questo il titolo alquanto significativo di un articolo di Politico, autorevole media americano, che manifesta fondate perplessità sulla mistica della controffensiva annunciata dalle autorità di Kiev e accreditata da mesi da tutti i media occidentali come imminente e, ovviamente, vincente grazie alle innumerevoli armi NATO.

Annunci velleitari e dura realtà

A sintetizzare le tante perplessità, il commento di Konrad Muzyka, analista militare e direttore di Rochan Consulting, interpellato da Politico, che, dopo essersi interrogato sul senso dell’annuncio, che a quanto pare gli sembra improvvido, spiega: “Francamente, da un punto di vista militare, non ha assolutamente senso, perché, se sei un comandante militare ucraino, preferiresti di gran lunga combattere, diciamo, i sette gruppi tattici del battaglione russo che erano a nord di Cherson un mese fa, e non i 15 o 20 che sono lì ora”. Anche perché, nel frattempo, i russi hanno stabilizzato e rafforzato le difese.

Non è il solo a spiegare a Politico che gli ucraini non hanno abbastanza forze e armi per intraprendere la mistica controffensiva, tanto che, per non dover ammettere che si è trattato di un annuncio velleitario, il giornale chiude spiegando che, comunque, hanno costretto i russi a uno stallo e stanno tentando di logorarli, sempre che nel frattempo non si logorino loro sotto il fuoco martellante del nemico.

Insomma, anche un media mainstream come Politico deve ammettere che un’altra narrativa Nato sulla guerra ucraina sta svaporando, oltre quella del collasso dell’economia e della finanza russa.

La fine delle invenzioni mainstream?

E il problema della caduta delle narrazioni propalate dalla propaganda occidentale sulla guerra ucraina è affrontato da un altro sito, stavolta non mainstream ma che modula in maniera intelligente la tematica, spiegando che finora è stato dato in pasto all’opinione pubblica una sorta di film western, con i russi nella parte degli indiani cattivi. Riportiamo la conclusione della nota.

“L’opinione pubblica occidentale – scrive CovertAction Magazine – è volubile, dal momento che gli è mancato un esame iniziale della narrativa mainstream sull’Ucraina, ed è probabile che man mano che emergono più verità scomode su Zelensky, la sua giunta e le vera realtà di questo conflitto, sempre più [narratori] western inizieranno a strisciare nel loro giardino nel cuore della notte per ammainare le bandiere ucraine così frettolosamente issate”.

“Contrariamente agli immani sforzi di quanti hanno finanziato, modellato e giustificato questa guerra per procura, la verità ha l’abitudine di riemergere. Sarà impossibile ‘gestire’ l’imminente marea di realtà che sgorgherà dall’Ucraina; e  mentre nell’inverno che sta arrivando i Paesi occidentali si concentreranno nuovamente sui loro problemi interni autoinflitti, lo stesso Zelensky potrebbe diventare l’uomo di paglia [su cui far ricadere le colpe] per la fallita scappatella della NATO in Ucraina”.

“Questo è il problema delle verità scomode, continuano a persistere sotto la superficie; la verità non ha una data di scadenza ed è paziente, il ricordo degli innumerevoli morti richiede che sia così”.

“E, come disse il buon vecchio Abraham Lincoln, ‘Puoi ingannare parte della gente qualche volta, puoi ingannare alcune persone tutto il tempo, ma non puoi ingannare tutte le persone per sempre'”.

Resta da aggiungere una postilla. C’è un senso di disperazione strisciante nelle considerazioni di Muzyka, il quale dice che lo scollamento tra gli annunci della controffensiva e la realtà lo sta facendo letteralmente “impazzire”.

Già, stanno impazzendo. Ed è questo il pericolo maggiore in questo momento. La partita di Risiko giocata sulla pelle del popolo ucraino, in particolare su quella dei suoi ragazzi, non va come dovrebbe. E stanno perdendo.

Per questo devono ribaltare il tavolo. E per questo gli ucraini stanno bombardando la centrale atomica di Zaporizhzhia con il placet della NATO (che potrebbe impedirlo con un cenno: basta minacciare di chiudere i rubinetti dei soldi e delle armi). E per questo hanno tentato di sabotare la centrale nucleare di Kursk in Russia (Reuters).

E dire che i media d’Occidente da mesi stanno sostenendo che il pazzo è Putin (che potrebbe rispondere radendo al suolo Kiev, come hanno fatto gli Usa con Baghdad, ma non lo fa).

Urge un rigurgito di buon senso, ma è da vedere se la civiltà occidentale ha ancora anticorpi in grado di eliminare o quantomeno circoscrivere la patologia, com’è avvenuto in momenti critici del passato. Vedremo.

L’invasione delle menti. La verità dopo la post-verità di Trump è l’assalto della Russia all’Occidente. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 15 Agosto 2022

La guerra santa lanciata da Putin (e da Kirill) in Ucraina, e cioè la guerra all’Europa e per l’Europa, è l’altra faccia del populismo e del sovranismo che da anni il Cremlino semina e aiuta nell’Ue e in America

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine Omaggio all’Ucraina + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e stazioni di tutta Italia. Lo si può ordinare qui.

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La guerra in Ucraina, cioè la guerra in Europa, non poteva non cambiare radicalmente la nostra visione del mondo e la nostra scala di priorità, abituati com’eravamo, noi europei, a dare per scontata una condizione di pace, libertà e benessere praticamente perpetua e apparentemente non controversa, non contesa, non insidiata da niente e da nessuno, come fosse un diritto naturale che tutti ci riconoscevano, che tutti davano ugualmente per scontato.

La guerra in Ucraina, cioè la guerra all’Europa, cambia dunque la nostra percezione della realtà, e tanto più profondamente perché l’invasione decisa da Vladimir Putin arriva al termine di un sommovimento cominciato nel 2016, con Brexit e con l’elezione di Donald Trump (ma anche, per fare solo un altro esempio, con la deriva del separatismo catalano culminata nel referendum illegale del 2017). Un sommovimento che è stato anche una guerra di parole e di percezioni, in parte non irrilevante alimentata e condotta proprio dalla Russia.

La guerra in Ucraina, per l’Europa, è anche un gigantesco traduttore automatico, che illumina retrospettivamente molto di quel che è accaduto negli ultimi sei anni. I massacri, le torture, le deportazioni e tutte le atrocità compiute per ordine di Putin sono la verità dietro le fake news; sono gli uomini in carne e ossa dietro i troll, i bot e la propaganda da cui siamo stati bombardati negli ultimi anni online, in tv e sui giornali; sono l’artiglieria pesante chiamata a finire il lavoro lasciato a metà dagli utili idioti che hanno contribuito a destabilizzare, dividere e indebolire l’Unione europea e l’Occidente.

La guerra è la verità che ci attendeva al termine della post-verità, parola dell’anno 2016, l’anno in cui Trump, in campagna elettorale, invocava esplicitamente l’aiuto di hacker russi affinché trafugassero le email di Hillary Clinton. «Russia, se sei in ascolto, spero sarai in grado di trovare le trentamila email che mancano», dichiarava ad esempio in giugno, in conferenza stampa, riferendosi a uno dei tanti pseudo-scandali montati ad arte dalla propaganda trumputiniana. Per poi aggiungere, significativamente: «Penso sarai grandemente ricompensata dalla nostra stampa». È esattamente quello che accadrà, grazie all’aiuto decisivo di Wikileaks. Aiuto invocato e rilanciato da Trump per tutta la campagna elettorale, senza tanti giri di parole. «I love Wikileaks», dichiara più volte nei suoi comizi.

Come si vede, non c’è mai stato nulla di nascosto, e forse il segreto della post-verità sta proprio qui, nel suo essere, per dir così, una menzogna alla luce del sole. Perché l’obiettivo degli agenti del caos non è convincere, ma dividere, confondere ed esasperare. Per questo la Russia può sostenere contemporaneamente, in Spagna, i separatisti catalani e i nazionalisti di Vox, così come formazioni neofasciste e neonaziste di mezzo mondo, insieme con partiti, gruppi e gruppuscoli di estrema sinistra funzionali alla causa. Ma non può esserci dubbio su dove batta il suo cuore.

La guerra santa lanciata da Putin e dal suo sacerdote Kirill, secondo il quale la guerra in Ucraina è una guerra contro i valori dell’Occidente, rappresentati dalle «parate gay», avrebbe dovuto chiarirlo a chiunque ancora ne dubitasse in buona fede. Le analoghe dichiarazioni di Aleksandr Dugin e degli oligarchi più vicini al Cremlino sono inequivocabili. Sono l’altra faccia del populismo e del sovranismo, di cui Putin in questi anni non è stato solo il principale finanziatore, ma anche il principale punto di riferimento politico e ideologico.

Quale sia l’effetto concreto di tali campagne in Occidente è ben visibile oggi negli Stati Uniti. La politicizzazione della Corte Suprema (per non dire la sua weaponization) va infatti molto al di là della questione dell’aborto. È il tentativo di rovesciare la democrazia liberale dall’interno, attraverso la conquista, il pervertimento e la strumentalizzazione delle sue massime istituzioni, in una direzione che lascia aperte solo due strade: la guerra civile o il modello ungherese. Due opzioni che peraltro non si escludono reciprocamente, come si è visto negli Stati Uniti: fallita la prima opzione, con la campagna sulle «elezioni rubate» culminata nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, si è ripresa infatti la seconda opzione.

Il copione somiglia molto a quello che abbiamo visto all’opera in Ungheria, con l’asservimento graduale di tutti i poteri indipendenti e le autorità di garanzia alla cricca di Viktor Orbán, il principale cavallo di Troia di Putin in Europa. Anche qui, non c’è nulla di nascosto. È il modello della «democrazia illiberale», apertamente rivendicato da entrambi.

Con l’invasione russa dell’Ucraina, una guerra di terrore e di sterminio giustificata esplicitamente con l’intenzione di impedire l’integrazione del Paese in Europa e nell’Occidente, vediamo ora fin dove sono disposti a spingersi i massimi punti di riferimento dell’internazionale sovranista. Nessuno può onestamente dubitare del fatto che all’indomani di un’eventuale vittoria della Russia, nei territori occupati, non si terranno più né libere elezioni né parate gay, e non ci sarà alcuna libertà di espressione, proprio come a Mosca.

Da questo punto di vista, le cose non potrebbero essere più chiare. Motivazioni e finalità delle forze in campo non potrebbero essere più trasparenti. La situazione non potrebbe essere meno complessa di così.

L’assalto putiniano all’Ucraina e l’assalto trumpiano alla democrazia americana non sono solo due facce della stessa medaglia, sono anche la guerra su due fronti che gli antifascisti europei – quelli veri, cioè quelli che combattono contro il fascismo, e non al suo fianco – dovranno affrontare nei prossimi anni. Occorrerà dunque avvisare tanto i liberali sedotti dalle guerre culturali combattute in nome del diritto alla vita quanto i socialisti abbindolati dalla retorica anti-nazista del Cremlino che il fascismo sta da quella parte (per non parlare della morte).

Se Putin dovesse conquistare l’Ucraina e Trump dovesse riconquistare la Casa bianca è assai improbabile che l’attuale assetto delle alleanze politiche e militari all’ombra delle quali abbiamo coltivato la nostra illusione di pace perpetua durerebbe a lungo. Il tentativo di smantellare la Nato e lasciarci al nostro destino di fronte all’imperialismo russo, fallito durante il primo mandato di Trump, potrebbe riuscire nel secondo. Forse allora anche tanti capziosi discorsi sull’opportunità di aiutare gli aggrediti assumeranno un’altra risonanza, persino negli studi dei nostri talk show.

La guerra ucraina e il trionfo dell'ipocrisia. Piccole Note il 27 Luglio 2022 su Il Giornale. 

Un lettore ci ha segnalato uno scritto di Carlo Rovelli sulla guerra ucraina. Fisico, saggista e accademico, specializzato in fisica teorica, Rovelli attualmente insegna in Francia, all’Università di Aix-Marseille, dopo aver lavorato in Italia e negli Stati Uniti. Per gentile concessione, pubblichiamo lo scritto del professore sul nostro sito.

Ipocrisia

Poche volte mi sono sentito come in questo periodo, così lontano da tutto quanto leggo sui giornali e vedo alla televisione riguardo alla guerra ora in corso in Europa orientale. Poche volte mi sono sentito così in dissidio con i discorsi dominanti. Forse era dai tempi della mia adolescenza inquieta che non mi sentivo così ferito e offeso dal discorso pubblico intorno a me.

Mi sono chiesto perché. In fondo, sono spesso in disaccordo con le scelte politiche e ideologiche dei paesi in cui vivo, ma questo è normale — siamo in tanti e abbiamo opinioni diverse, letture del mondo diverse. Anche del mio pacifismo, poi, sono poi così sicuro? Ho dubbi, come tutti. Allora perché mi sento così turbato, ferito, spaventato, da quanto leggo su tutti i giornali, e sento ripetere all’infinito alla televisione, nei continui discorsi sulla guerra?

Oggi l’ho capito. L’ho capito proprio ritornando col pensiero al periodo della mia prima adolescenza, quando tanti anni fa la gioventù di tanti paesi del mondo cominciava a ribellarsi a uno stato di cose che le sembrava sbagliato. Cos’era stata quella prima spinta al cambiamento? Non era l’ingiustizia sociale, non erano i popoli massacrati dal Napalm come i vietnamiti, non era il perbenismo, la bigotteria, l’autoritarismo sciocco delle università e delle scuole, c’era qualcosa di più semplice, immediato, viscerale che ha ferito l’adolescenza di mezzo secolo fa e ha innescato le rivolte di tanti ragazzi di allora: l’ipocrisia del mondo adulto.

L’istintiva realizzazione da parte della limpidezza della gioventù che gli ideali ostentati erano sepolcri imbiancati. Che i nobili valori dichiarati erano coperture per un egoismo gretto. Che l’ostentato moralismo, la pomposa prosopopea della scuola, la pretesa autorità delle istituzioni erano coperture per privilegi, sfruttamento e bassezze. Questo d’un tratto era insopportabile, per gli occhi limpidi di un ragazzo o una ragazza.

Sono passati tanti anni da allora. Il mondo mi appare infinitamente più complesso, difficile da decifrare, difficile da giudicare, di quanto non mi apparisse allora. L’illusione che tutto possa essere pulito e onesto nel mondo l’ho persa da tempo. Ma l’esplosione dell’ipocrisia dell’Occidente in questo ultimo anno è senza pari.

D’un tratto, l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori, il baluardo della libertà, il protettore dei popoli deboli, il garante della legalità, il guardiano della sacralità della vita umana, l’unica speranza per un mondo di pace e giustizia. Questo canto di quanto l’Occidente sia buono e giusto e quanto gli stati autocratici siano cattivi è un coro in unisono ripetuto all’infinito da ogni articolo di giornale, ogni commentatore televisivo, ogni editoriale. La cattiveria feroce di Putin è additata, ostentata, ripetuta, declamata, all’infinito. Ogni bomba che cade sull’Ucraina ci ripete quanto la Russia sia il male e noi il bene.

Io sarei felice di unirmi al coro, se ogni volta che condanniamo il fatto – del tutto condannabile – che una potenza militare abbia attaccato con futili pretesti un paese sovrano, mi aggiungerei al coro se ogni volta l’Occidente aggiungesse “E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto in Afghanistan, in Iraq, in Libia, a Grenada, a Cuba, e in tantissimi altri paesi. Lo abbiamo fatto ma ora che lo fanno i Russi ci rendiamo conto di quanto sia doloroso, non lo faremo più”.

Sarei felice di unirmi al coro, se ogni volta che condanniamo il fatto —del tutto condannabile— che i confini delle nazioni non sono rispettati (e la Russia ha riconosciuto l’indipendenza del Donbass), se l’Occidente aggiungesse “E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto quando ho subito riconosciuto l’indipendenza della Slovenia e della Croazia, cambiando i confini, innescando una sanguinosissima guerra civile, e strappando terre alla Jugoslavia”.

Sarei felice di unirmi al coro, se ogni volta che condanniamo il fatto -del tutto condannabile – che Mosca bombarda Kiev, ammazzando civili innocenti, adducendo come motivo che Kiev bombardava il Donbass, mi aggiungerei al coro se l’Occidente aggiungesse “E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto quando ho bombardato Belgrado, uccidendo cinquemila persone, donne e bambini innocenti, adducendo come motivo che Belgrado bombardava il Kossovo”.

Sarei felice di unirmi al coro, se ogni volta che condanniamo il fatto —del tutto condannabile— che la Russia pretende di cambiare il regime politico di Kiev perché questo regime le si ribella, mi aggiungerei al coro se l’Occidente aggiungesse “E io Occidente quindi mi impegno a non fare mai più nulla di simile in futuro, come ho fatto quando ho bombardato la Libia, invaso l’Iraq, destabilizzato governi nel mondo intero, dal Medio Oriente al Sud America, dal Cile all’Algeria, dall’Egitto alla Palestina, ogni volta che un popolo votava per un governo troppo poco favorevole agli interessi occidentali, buttando giù governi democraticamente eletti come in Algeria in Egitto o in Palestina, per invece sostenere dittature come in Arabia Saudita quando fa comodo, anche se i sauditi continuano a massacrare gli yemeniti”.

Sarei felice di unirmi al coro che si commuove per i poveri ucraini, se questo coro si commuovesse anche per gli yemeniti, i siriani, gli afghani e tutti gli altri, con la pelle di tonalità leggermente diversa, invece di lasciare fuori tutti gli altri a marcire,

O forse sarei in disaccordo, ma non così schifato, se semplicemente sentissi dire “siamo i più forti, vogliamo dominare il mondo con la violenza delle armi, per difendere la nostra ricchezza, e lo domineremo”. Almeno non ci sarebbe l’ipocrisia, almeno potremmo discutere se questa sia o no una scelta lungimirante, e non sia più lungimirante smorzare lo scontro e cercare collaborazione.

E invece siamo immersi nella più sfrenata ipocrisia. Arriviamo a eccessi che rasentano il surrealismo. I nostri giornali parlano delle ambizioni “imperiali” della Cina e della Russia.

La Cina non ha praticamente un solo soldato al di fuori dei confini cinesi riconosciuti internazionalmente. La Russia, a parte un piccolo contingente in Siria, ne ha solo a pochi chilometri dai suoi confini: i più lontani sono in Transnistria, a poche decine di chilometri da questi.

Gli americani hanno centomila soldati in Europa, hanno basi militari in centro America, in Sud America, in Africa, in Asia, nel Pacifico, in Giappone, in Corea, praticamente ovunque nel mondo. Eccetto in Ucraina, dove però stavano iniziando a insediarsi. Hanno portaerei nel mare della Cina. Chi ha una politica imperiale? Dalle coste cinesi si vedono le navi da guerra americane, non credo che da New York si vedano navi da guerra cinesi. Eppure i nostri giornalisti surrealisti riescono a ribaltare la realtà fino a parlare della logica imperiale di Russia e Cina!

Si paventa l’uso della bomba atomica. Ma è l’Occidente l’unico ad aver usato la bomba atomica per affermare con estrema violenza il suo incondizionato dominio; nessun altro lo ha fatto. Si dice che la Cina è aggressiva. Ma non ha fatto una sola guerra dopo la Corea e il Vietnam, mentre l’Occidente ha fatto guerre in continuazione nel mondo intero. Chi è l’impero?

Il Pentagono pubblica regolarmente liste di esseri umani uccisi in ogni parte del mondo dai suoi droni. Riconosce pubblicamente che molti innocenti vengono uccisi per sbaglio. Il New York Times arriva all’orrore di scrivere un lungo articolo per denunciare il fatto che i poveri soldati americani che guidano questi droni da remoto non hanno abbastanza supporti psicologico per sopportare il duro lavoro e lo stress di dover spesso ammazzare innocenti!

Lo scandalo, per il paludato organo di stampa dei padroni del mondo, non è che siano ammazzati innocenti, è che i soldati che ammazzano non hanno adeguato supporto psicologico!

Neppure l’impero assiro ricordato nell’antichità per la sua violenza era mai arrivato a una simile arroganza e disprezzo per il resto dell’umanità! Ma i nostri giornalisti ignorano felicemente che ogni settimana nel mondo qualcuno viene ucciso da droni americani, e ricordano piuttosto indignatissimi una persona uccisa dai russi a Londra…. Come sono orrendi i russi! E via via così…

La Russia si è permessa di commettere anch’essa qualcosa di analogo agli orrori che l’Occidente continua a commettere. L’Iraq e l’Afghanistan non avevano fatto male a nessuno: l’Occidente li ha invasi e ha fatto molte centinaia di migliaia di morti, nelle due guerre. E si permette di fare l’anima candida con la Russia?

Che lo faccia promettendo di non invadere più nessun paese, di non infilarsi più in nessuna guerra, di non voler dominare il mondo con la violenza. Allora mi unirò anch’io al coro di condanna dei cattivi russi.

Abbiamo sentito l’assurdo. Gli americani invocare la Corte internazionale di giustizia, che hanno sempre ostacolato e a cui non hanno aderito. Invocare la legalità internazionale, quando tutte le loro ultime guerre sono state condannate dalle Nazioni Unite, tanto che Washington ha fatto di tutto per esautorarle, compreso non pagare la loro parte.

Amo l’America. Ci ho vissuto dieci anni. La conosco. La ammiro. Ne conosco gli splendori e gli orrori. La brillantezza delle sue università, la vitalità della sua economia, la miseria infame dei ghetti neri e dei ghetti bianchi, le sue carceri dove tengono quasi un americano ogni cento, la violenza per noi europei inconcepibile delle sue strade.

Amo anche l’Europa, dove sono nato. Ho amato quella che mi sembrava essere la tolleranza e la cautela ereditate dalla devastazione della Guerra Mondiale. Ma non posso non vedere come questa parte ricca e potente del mondo stia sempre più chiudendosi su se stessa in un parossismo di violenza contro il resto del mondo.

Amo l’Occidente, ma per la ricchezza culturale che ha regalato al mondo intero, non per essere diventato dominante con la schiavitù e sterminando interi continenti, non per questa sfrenata violenza e ipocrisia che continuano gli orrori del passato.

Amo anche la Cina e l’India, di cui pure ho visto miserie e splendori. È stupido discutere su chi sia migliore, come se dovessimo tutti fare la stessa cosa, o come se qualcuno dovesse necessariamente vincere sugli altri. Il problema del mondo non è chi deve comandare, che sistema politico dobbiamo adottare tutti.

Il problema del mondo è come convivere, tollerarsi, rispettarsi, imparare a collaborare.

Il mondo ha diversi miliardi di abitanti. La maggioranza di questi sono fuori dall’Occidente. Ce ne sono in Cina, in India, in Russia, in Brasile, nel resto del Sud America, dell’Africa, dell’Asia. Sono la maggioranza dell’umanità. Non hanno più simpatia per l’Occidente. Ne hanno sempre meno.

Non partecipano alle sanzioni contro la Russia, molti si sono rifiutati perfino di votare la condanna della Russia all’ONU, nonostante fosse ovviamente condannabile. Non perché siano cattivi, perché amino la violenza, o abbiano biechi motivi. Ma perché vedono la sfrenata ipocrisia dell’Occidente, che riempie il mondo dei suoi eserciti, si sente libero di massacrare e poi fa l’anima candida se un altro si comporta male.

Il mondo, nella sua vasta maggioranza, vorrebbe che i problemi comuni dell’umanità, il riscaldamento climatico, le pandemie, la povertà, fossero affrontati in comune, con decisioni prese in comune. Vorrebbe che le Nazioni Unite contassero dii più. È l’Occidente che blocca questa collaborazione, perché si sente in diritto di comandare, perché ha le armi dalla sua, la violenza dalla sua.

Ora l’Occidente si sente inquieto perché la Cina sta diventando ricca, per questo la stuzzica, la provoca, la accusa di ogni cosa accusabile (e ce ne sono: scagli la prima pietra chi è senza colpe). L’Occidente cerca lo scontro con la Cina. Vorrebbe umiliarla militarmente prima che cresca troppo e questo diventi impossibile.

La classe dominante occidentale ci sta portando verso la terza guerra mondiale. I problemi dell’Ucraina si potrebbero risolvere come alla fine l’Occidente ha deciso di risolvere la crisi Jugoslava: una guerra civile che si trascinava da tempo, con interventi militari esterni, che ha portato a una separazione in parti diverse. Ma l’Occidente non vuole una soluzione, vuole fare male alla Russia. Non fa che ripeterlo.

Alla televisione sfilano le facce felici delle riunioni dei leader occidentali, felici delle loro portaerei, delle loro bombe atomiche, delle loro armi innumerevoli, trilioni di dollari di armi, con cui si potrebbero risolvere i problemi del mondo, e invece sono usati per rafforzare un predomino violento sul mondo.

E tutto questo colorato delle belle parole: democrazia, libertà, rispetto delle nazioni, pace, rispetto della legalità internazionale, rispetto della legge. Dietro, come zombi, i giornalisti e gli editorialisti a ripetere. Sepolcri imbiancati. Su una scia di sangue di milioni di morti straziati dalle nostre bombe negli ultimi decenni. Da Hiroshima a Kabul, e continueranno.

L'intervista di Karaganov al Nyt. Piccole Note il 21 luglio 2022 su Il Giornale.

Non capita tutti i giorni che un medium mainstream americano pubblichi un’intervista a un esponente dell’élite culturale russa. Lo schema dei blocchi contrapposti impedisce spiragli di dialogo, necessari alla comprensione reciproca.

E tale chiusura, dopo la guerra ucraina, è diventata cortina di ferro. Così, quando abbiamo letto l’intervista a Sergey Karaganov sul New York Times di ieri ci siamo stupiti non poco, perché questi è uno degli ideologi più vicini al Cremlino e a intervistarlo è Serge Schmemann, penna autorevole del giornale. Riportiamo alcuni passaggi dell’intervista, rimandando chi volesse all’integrale.

“Quando è iniziato il conflitto militare, abbiamo visto quanto fosse profondo il coinvolgimento dell’Ucraina con la NATO: molte armi, addestramento. L’Ucraina si stava trasformando in una punta di diamante puntata al cuore della Russia. Abbiamo anche visto che l’Occidente stava crollando in termini economici, morali, politici”.

“Questo declino è stato particolarmente doloroso dopo il suo picco negli anni ’90 [si riferisce al crollo del Muro di Berlino, ndr]. I problemi all’interno dell’Occidente e nel mondo non sono stati risolti. Si trattava di una classica situazione prebellica. La belligeranza contro la Russia è cresciuta rapidamente dalla fine degli anni 2000. Il conflitto era visto come sempre più imminente. Quindi probabilmente Mosca ha deciso di anticipare e di dettare i termini del conflitto”.

“Questo conflitto è di natura esistenziale per la maggior parte delle élite occidentali moderne, che stanno fallendo e stanno perdendo la fiducia delle loro popolazioni. Per distogliere l’attenzione hanno bisogno di un nemico. Ma la maggior parte dei Paesi occidentali, non le loro élite attualmente al potere, sopravvivranno e prospereranno perfettamente anche quando l’imperialismo globalista liberale imposto dalla fine degli anni ’80 svanirà”.

“Questo conflitto non riguarda l’Ucraina. I suoi cittadini sono usati come carne da cannone in una guerra per preservare la supremazia fallimentare delle élite occidentali”.

“Per la Russia questa guerra ha a che vedere con la conservazione non solo delle sue élite, ma dello stesso Paese. Non poteva permettersi di perdere. Ecco perché la Russia è destinata a vincere, si spera, a meno che si acceda a livelli di violenza più elevati. Ma le persone stanno morendo. Prevedo una guerra del genere da un quarto di secolo. E non sono stato in grado di impedirla. Lo vedo come un fallimento personale”.

Sui rischi di un’escalation del conflitto – che in Occidente sono tacitati, per evitare che la paura di tale sviluppo spinga le persone a interpellarsi sulla perché sia preferibile il sostegno incondizionato all’Ucraina rispetto alla ricerca di una trattativa globale con Mosca – Karaganov fa un cenno significativo: “Sono ancor più preoccupato per la crescente probabilità che un conflitto termonucleare globale metta fine alla storia dell’umanità. Stiamo vivendo una prolungata crisi missilistica cubana. E non vedo persone del calibro di Kennedy e del suo entourage dall’altra parte della barricata. Non so se abbiamo interlocutori responsabili. Ma li stiamo cercando”.

Conflitto diventato inevitabile, quello ucraino, rimandato a causa della pandemia, spiega Karaganov, che finirà solo quando Kiev cesserà di rappresentare – o di essere percepita – una minaccia esistenziale per la Russia.

Karaganov aggiunge che Mosca non si vuole isolare, che anzi sta intessendo nuove interlocuzioni in un mondo che sta uscendo dall’unipolarismo Usa per imboccare la strada del multipolarismo; e, quanto alla frattura con l’Occidente, Mosca farà bene a mantenere le distanze per i prossimi dieci o vent’anni, in attesa che la consunzione di cui è preda il nostro emisfero si risolva.

“L’Ucraina – afferma – è una parte importante, ma piccola, del processo di travolgimento del crollo del precedente ordine mondiale dell’imperialismo liberale globale imposto dagli Stati Uniti e del movimento verso un mondo molto più equo e libero di multipolarità e molteplicità di civiltà e culture”.

E conclude spiegando che in questo futuro multipolare avrà un posto sempre più rilevante l’Eurasia, che vedrà il rianimarsi “delle grandi civiltà soppresse da diverse centinaia di anni. La Russia svolgerà il suo ruolo naturale di civiltà delle civiltà. La Russia dovrebbe anche svolgere il ruolo di bilanciatore settentrionale di questo sistema”. Il riferimento specifico è alle civiltà cinese e indiana, devastate dal colonialismo (peraltro, ciò spiega alcune linee della politica estera russa di questi ultimi anni).

Così, dunque, il Nyt, che sorprende con tale pubblicazione. Non è un cedimento al nemico, ma un tentativo di comprendere cosa sta avvenendo nel mondo per tentare di affrontare quella che in questo momento appare terra incognita, con tutti i rischi del caso.

Una pubblicazione che interpella in quanto sussulto di ragionevolezza. Se si vuole uscire dal tunnel nel quale l’Occidente si è cacciato inseguendo le follie neocon che hanno imposto come Unica Via quella del sostegno incondizionato all’Ucraina, occorre prendere atto della complessità del mondo. Le complessità non si risolvono a suon di bombe, come i neocon hanno imposto con la loro funesta guerra infinita.

Anzi, più bombe si sganciano sul pianeta, più esso diventa fragile e caotico. Così in Afghanistan, così in Iraq, Libia e altrove; e così in Ucraina, dove l’invio delle armi NATO serve solo a prolungare una guerra inutile, persa in partenza, e che si poteva evitare se Kiev avesse imboccato la via della neutralità, disinnescando la percezione da parte dei russi di una minaccia imminente.

I padroni del vapore d’Occidente volevano a tutti i costi la loro guerra, l’hanno avuta, anche se non nelle forme desiderate. In attesa di quella asiatica prossima ventura.

Le guerre mentono e distruggono quelle «preventive» persino di più. Vittorio Possenti su Avvenire  il 9 luglio 2022.  

Le guerre non ristabiliscono diritti, ma spostano confini e ridistribuiscono poteri» (H. Arendt). Impossibile illustrare con maggiore chiarezza la realtà "cainitica" della guerra, stregata dalla potenza e tesa a rimodellare l’assetto geopolitico mondiale. Invece occorre dire: Non abituiamoci alla guerra, e ancor meno a quella preventiva, in cui si aggredisce per primi per ottenere maggiori possibilità di successo e di prostrazione dell’avversario.

Nel conflitto contro l’Ucraina la strategia russa è stata questa. In un’intervista concessa al "Corriere della Sera" (8 aprile 2022) Sergej Karaganov, ex consigliere presidenziale di Yeltsin e di Putin e ancora attivo nel circolo dei putiniani, ha dichiarato, riferendosi ad alcuni anni fa: «Il conflitto (con l’Ucraina) stava già diventando probabile. E abbiamo visto divisioni e problemi strutturali nelle società occidentali, così il Cremlino ha deciso di colpire per primo. Tra l’altro, questa operazione militare sarà usata per ristrutturare la società russa: diventerà più militante, spingendo fuori dall’élite gli elementi non patriottici». La “dottrina Putin” elaborata da Karaganov teorizzava già nel 2019 l’invasione dell’Ucraina. Nel discorso a Mosca del 9 maggio scorso Putin non ha smentito, ma avallato l’assunto del primo colpo. Per giustificare l’invasione dell’Ucraina ha sostenuto che «la Russia ha reagito preventivamente contro l’aggressione». Si riferiva a un presunto attacco della Nato per invadere «le nostre terre storiche, compresa la Crimea; una minaccia per noi assolutamente inaccettabile, sistematicamente creata, direttamente ai nostri confini... Il pericolo è cresciuto ogni giorno; il nostro è stato un atto preventivo, una decisione necessaria e assolutamente giusta, la decisione di un Paese sovrano, forte, indipendente».

Secondo Sergej Karaganov questa operazione militare sarà usata per ristrutturare la società russa: diventerà più militante, spingendo fuori dall’élite gli elementi non patriottici​

L’attuale guerra preventiva non è l’unica del nuovo secolo. Nella memoria di molti rimane l’attacco all’Iraq da parte degli Stati Uniti guidati dal presidente George W. Bush (insieme ad alcuni altri Stati). Essa iniziò il 20 marzo 2003 e terminò formalmente il 18 dicembre 2011 quando venne instaurato un regime ufficialmente democratico, col passaggio dei poteri alle autorità irachene, insediate dagli Usa. L’intento primario della guerra era un "cambio di regime": deporre Saddam Hussein, inviso sin dalla prima guerra del Golfo. L’attacco si basò in buona misura su una supposizione rivelatasi falsa: il possesso da parte di Saddam di armi biologiche e la sua capacità di produrre in breve tempo missili che avrebbero raggiunto e colpito la Gran Bretagna in pochi minuti: così dichiarò Tony Blair spalleggiato da Bush jr. Come è noto, una missione di ispettori Onu non scoprì nulla di quanto invece secondo la Cia doveva scoprire. Successivamente il Segretario di Stato C. Powell all’Onu cercò di convincere l’assemblea mostrando una piccola provetta, sostenendo che contenesse antrace. Anni dopo Powell, senza più cariche ufficiali, ammise l’errore e considerò quel discorso una macchia sulla sua carriera. Nel 2015 in un’intervista alla Cnn anche Blair riconobbe in buona misura di aver sbagliato.

La vittoria militare americana aprì un terribile periodo per il popolo iracheno, diviso in fazioni e consegnato a una guerra civile e a terrorismi che mieterono un numero assai alto di vittime civili, oltre a causare un’instabilità strutturale dell’intero Medio Oriente che perdura. L’attacco all’Iraq si appoggiava sulla nuova dottrina Usa, teorizzata nella “Strategia della sicurezza nazionale” del settembre 2002, un anno dopo la tragedia delle Torri Gemelle dell’11 settembre che colpì al cuore la nazione americana. In quel documento si affermava che «la migliore difesa è un buon attacco». Una volta concepito il mondo come un composto formato da Stati per bene e “Stati canaglia” e minacciato dal terrorismo, la conseguenza era questa: «Non possiamo lasciare che i nostri nemici sparino per primi... Maggiore è la minaccia e più impellente la necessità di intraprendere un’azione anticipatoria in difesa di noi stessi, persino nell’incertezza del luogo e dell’ora dell’attacco da parte del nemico».

Le due maggiori potenze mondiali (sino a poco fa) non sono riuscite a scampare alla maledizione della guerra preventiva, e l’Onu purtroppo si è mostrata impotente a sanare il guasto. In Iraq e in Ucraina è stato scavalcata come un aggeggio inutile, cui ricorrere solo quando serve per i propri interessi. Nessuno potrà dimenticare l’energia trasfusa da Giovanni Paolo II per evitare le Guerre del Golfo, cui dovette amaramente piegarsi, e quella messa in campo oggi da papa Francesco per l’Ucraina. Qui l’aggressione ha prodotto molte vittime militari e civili e una distruzione sistematica di città (si pensi a Mariupol), territori e infrastrutture. L’invasione russa sta assomigliando sempre di più alle campagne militari condotte precedentemente a Grozny (Cecenia) e ad Aleppo (Siria). Ad Aleppo nel 2016 Putin e Assad decisero di bombardare la parte della città sotto il controllo dei ribelli con una violenza che ha pochi precedenti.

Il colpo preventivo non edifica alcun nuovo ordine mondiale accettabile, ma rischia di distruggerlo ulteriormente​

In Ucraina la soluzione non può che essere politica e non militare. L’attuale inferiorità strategica (navale e aerea) dell’Ucraina potrebbe essere colmata da nuove armi occidentali per rendere in qualche modo confrontabili le forze in campo, e assicurandole una legittima difesa (non nucleare); l’Ucraina ha rinunciato nel 1994 alle armi nucleari di cui era zeppa dopo il crollo dell’Urss. Anche la Merkel, a cui da varie parti si è guardato come mediatrice, ha sposato l’idea di sostenere l’Ucraina contro i "nuovi barbari". La strada sarebbe quella di un cessate il fuoco immediato per iniziare una trattativa e poi addivenire a una conferenza di pace e sicurezza europea, qualcosa di analogo a Helsinki 1975, con garanzie per gli attori in campo, naturalmente a partire da Kiev e Mosca. Ma quanto sangue dovrà ancora essere versato per giungere a un esito oggi improbabile ma necessario?

Il colpo preventivo che instaura un potere di guerra insindacabile e imprevedibile, non edifica alcun nuovo ordine mondiale accettabile, ma rischia di distruggerlo ulteriormente. 

Le guerre ridefiniscono buoni e cattivi. Paolo Guzzanti su Il Giornale il 9 luglio 2022.  

È straordinario con quanta velocità tutti si siano gettati sulla «contraddizione» di Draghi che un giorno chiamò Erdogan «un piccolo dittatore con cui bisogna pur convivere» e appena qualche mese dopo marciava sottobraccio allo stesso Erdogan. Dove sarebbe lo scandalo? Draghi era stato galante quando il Presidente turco aveva tolto la sedia sotto la schiena della Presidente Ursula von der Leyen, perché di indole giocosa. E il primo ministro italiano aveva spiegato alla indignata collega che con i piccoli dittatori ci vuole pazienza. Passarono i mesi e la Russia invase l'Ucraina. Allora si scoprì che le guerre ridefiniscono buoni e cattivi secondo le alleanze: o stai di qua o di là. Draghi disse: «Noi, di qua. E lei?». Erdogan tastò il terreno: «Mi garantite dai curdi che vivono in Svezia e Finlandia?». Svezia e Finlandia annuirono senza peraltro torcere un capello ai curdi. Ma Erdogan non aveva finito: «E gli aerei F35 me li date?». Le sia concesso, fu la risposta. «Allora ci sto, disse il sultano: sono dei vostri: potete far entrare Finlandia e Svezia nella Nato». Poi si rivolse a Draghi appena atterrato: «Le sembro sempre un dittatore da quattro soldi?» «Al contrario, rispose Draghi. Lei è un alleato prezioso». «Passiamo in rassegna le truppe, propose Erdogan? Son qui per questo», annuì Draghi e aggiunse: «Lei, l'ha comperata la sedia per la Von der Leyen?» «Poltrone e sofà di alta qualità» fu la risposta. Draghi sorrise col suo sguardo da iguana sazio e prese il turco a braccetto mentre partiva la fanfara.

Putin: «In Ucraina non abbiamo neppure iniziato. L'Occidente vuole batterci in battaglia? Ci provi». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2022.

Le nuove minacce di Vladimir Putin espresse davanti ai leader parlamentari dell'Assemblea federale. Il Segretario di Stato Usa Blinken e il ministro degli Esteri russo Lavrov si evitano al G20

«In Ucraina non abbiamo ancora cominciato a fare sul serio». Davanti ai leader parlamentari dell’Assemblea Federale, Vladimir Putin sferra un nuovo attacco verbale all’Occidente: «Vogliono sconfiggerci sul campo? Che ci provino». 

Lo Zar accusa i Paesi che sostengono Kiev di condurre una guerra per procura, e affievolisce le speranze di una pace: «Più gli scontri proseguono, più sarà difficile avviare un negoziato». 

Intanto si continua a combattere. 

Sul fronte Sud i missili russi hanno bombardato nella notte due silos di grano dove erano stoccate 35 tonnellate di cereali. Un danno ingente anche se, secondo quanto riferisce il portavoce del capo dell’amministrazione militare regionale di Odessa Sergiy Bratchuk, non ci sono state vittime.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Sempre al largo del Mar Nero è stata colpita la petroliera «Millennial Spirit» battente bandiera moldava, finita alla deriva. L’imbarcazione era prevalentemente vuota, ma al suo interno sono presenti i residui del gasolio che trasportava. Inoltre i russi hanno danneggiato il ponte d’ormeggio dell’Isola dei Serpenti. Un attacco che non ha impedito alle forze di Kiev di issare la bandiera ucraina sull’isola riconquistata nei giorni scorsi, con il messaggio: «Ricorda, nave da guerra russa, l’isola dei Serpenti è ucraina» e le firme dei capi militari del Comando Sud. 

A Est l’Armata tenta di eliminare le ultime sacche di resistenza a Lugansk e di spingersi più addentro nel Donetsk incalzando le forze ucraine schierate intorno alla città di Sloviansk. E di fronte all’avanzata russa prosegue l’evacuazione dei civili: Sloviansk, che prima della guerra contava 110mila abitanti, è da diversi giorni bersaglio di massicci bombardamenti russi. «L’evacuazione è in corso», ha riferito il sindaco, Vadim Liakh, «e al momento sono rimaste 23mila persone a Sloviansk». 

Dopo aver conquistato Lysychansk domenica, una settimana dopo il ritiro dell’esercito ucraino dalla vicina Severodonetsk, l’esercito russo sostiene che quasi tutta la provincia di Lugansk è sotto il suo controllo, cosa che gli ucraini continuano a negare. «Ci sono ancora combattimenti in due villaggi», ha assicurato il governatore, Sergiy Gaidai. 

I russi stanno ora cercando di conquistare la seconda provincia del Donbass, quella di Donetsk, per occupare così l’intero bacino minerario che i separatisti filorussi controllavano parzialmente dal 2014. Ma per questo devono prendere Sloviansk e Kramatorsk, le due più grandi città nella regione ancora in mano gli ucraini. 

A Bali, al termine della prima giornata del G20, sebbene non ci sia stato nessun colloquio tra il ministro degli Affari esteri russo, Sergei Lavrov, e il segretario di Stato americano Antony Blinken, il conflitto in Ucraina ha dominato il vertice, con numerosi incontri a margine. 

Lavrov ha incontrato l’omologo cinese Wang Yi, al quale ha ribadito la volontà di cooperazione tra i due Paesi e ha quindi invitato il rappresentante di Pechino a unire le forze per non cedere alle pressioni degli Stati Uniti: «Stiamo guadagnando sempre più sostegno e apprezzamento a livello internazionale» ha detto Lavrov che, secondo la stampa russa, ha incoraggiato Wang Yi a resistere alla «politica apertamente aggressiva» delle nazioni occidentali. 

Nell’incontro con l’omologo turco Mevlut Cavusoglu, Lavrov ha approfittato invece per ribadire che per Mosca «è inaccettabile un ulteriore sostegno dell’Occidente alle ambizioni militaristiche del regime di Kiev».

La storia riscritta da Putin con sovrano disprezzo della verità. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2022.

Nel corso degli anni si è profuso in decine di discorsi circa i suoi sfrenati progetti nazional-imperialistici senza che però nessuno di noi (o quasi) gli prestasse troppa attenzione. Forse perché molti di quegli interventi riguardavano il passato. 

Con Putin è un po’ come con Hitler. Come in mille occasioni, a partire dal Mein Kampf (1925), il Führer non si stancò di dire ai quattro venti e di far capire chi era e quello che intendeva combinare — senza che però in Occidente molti lo prendessero sul serio — allo stesso modo in questi anni Putin si è profuso in decine di discorsi circa i suoi sfrenati progetti nazional-imperialistici senza che però nessuno di noi (o quasi) gli prestasse troppa attenzione. Forse perché molti di quei discorsi riguardavano il passato, erano discorsi storici. Avevamo dimenticato che nel nostro tempo la storia (la sua manipolazione) è lo strumento preferito dai dittatori per affermare la propria visione del mondo e avvalorare le proprie malefatte. Soprattutto per giustificare i propri propositi aggressivi.

E infatti, leggendo oggi i numerosi brani di tali discorsi contenuti in un breve saggio appena pubblicato da un eminente storico slavista francese, Nicolas Werth, (Poutine historien en chef, Gallimard) ci accorgiamo che tutti i conti tornano.

Convinto fin dall’inizio della sua carriera politica che «la principale risorsa della potenza e dell’avvenire della Russia risiede nella nostra memoria storica» e che «per far rinascere la nostra identità nazionale, la nostra coscienza nazionale, dobbiamo ristabilire i legami tra le diverse epoche di una sola storia , ininterrotta, millenaria», Putin si è dedicato appassionatamente a rimodellare tale storia con sovrano disprezzo della verità.

Il suo principale obiettivo è stato innanzitutto quello di «decomunistizzare» per così dire l’esperienza sovietica, riducendo l’Ottobre a un incidente della storia, opera a suo dire di un pugno di criminali privi di veri legami con il Paese e per giunta responsabili soprattutto di aver firmato nel ’18 la pace di Brest-Litovsk con la Germania guglielmina. Cosicché «il nostro Paese si è dichiarato sconfitto nei confronti di un Paese che lui stesso aveva perduto la guerra! — afferma indignato Putin —: un fatto unico nella storia dell’umanità! È stato il risultato del tradimento di coloro che allora governavano il Paese (…); immensi territori, interessi vitali del nostro Paese sono stati svenduti per soddisfare gli interessi di un gruppo che voleva solo rafforzare la propria posizione di potere».

Ripulita dal leninismo l’esperienza sovietica è così pronta per essere collegata direttamente al passato zarista, ridipinto con i colori della più fulgida grandezza. È vero che nell’esperienza sovietica campeggia l’ingombrante figura di Stalin a causa del quale «milioni di nostri concittadini hanno sofferto». Putin lo ammette, ma per aggiungere subito che «non bisogna dimenticare che la demonizzazione di Stalin è una delle direttrici d’attacco dell’Occidente contro la Russia e l’Unione sovietica». È chiaro comunque il motivo per cui l’esperienza sovietica deve essere a tutti i costi salvaguardata: perché è al suo interno che si colloca la vittoria sul nazismo e tale vittoria è chiamata a costituire il fondamento storico irrinunciabile sia della spinta neoimperialistica della leadership putiniana sia dell’ orgoglio nazional-patriottico russo che Putin stesso intende alimentare in ogni modo per sostenere tale spinta.

Credo che non esista al mondo un evento storico protetto da una blindatura penale come quella che in Russia, auspice il despota, protegge la «Grande Guerra patriottica 1941-1945». Una guerra, c’informa tra l’altro Werth, che nell’attuale manuale di storia dell’ultimo ciclo delle scuole russe, è presentata come del tutto avulsa dalla Seconda guerra mondiale nel suo complesso, e quindi senza che si faccia neppure un cenno, per esempio, alla guerra sul fronte occidentale, alla vittoria tedesca sulla Francia, alla battaglia d’Inghilterra o a Pearl Harbour . Un articolo delle leggi memoriali approvate all’indomani dell’occupazione della Crimea nel 2014 commina dunque fino a cinque anni di carcere (cinque anni!) a chiunque, oltre a mettere in dubbio la fondatezza del giudizio del Tribunale di Norimberga, a) «diffonda informazioni scientemente false sulle attività dell’Urss durante la Seconda Guerra mondiale»; b) «diffonda informazioni manifestamente irrispettose sulle date della gloria militare e sulle date memorabili della Russia relative alla difesa della patria o profani i simboli della gloria militare russa».

Non basta. Il 24 febbraio scorso, immediatamente dopo l’attacco all’Ucraina, è stata aggiunta una clausola quanto mai significativa — che potremmo chiamare la clausola della coda di paglia — che vieta esplicitamente «qualunque tentativo compiuto nello spazio pubblico, volto a mettere sullo stesso piano le azioni dell’Unione Sovietica e della Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale». E dopo le leggi sono naturalmente fioccate le condanne: ad esempio a carico di chi aveva osato ricordare il patto Hitler-Stalin dell’agosto del ’39 , o definito «carnefice» il generale Rudenko, che prima di essere procuratore sovietico al processo di Norimberga era stato membro dei tribunali straordinari che negli anni del Grande Terrore staliniano avevano mandato a morte migliaia di innocenti.

Come è facile immaginare l’Ucraina costituisce un soggetto privilegiato del Putin storico. Il cui punto di vista è compendiato in un lungo testo del 2021 che già dal titolo dice tutto: «Circa l’unità storica dei Russi e degli Ucraini». Questi ultimi vengono descritti come un popolo slavo che però l’invasione mongola del XIII secolo rigettò verso ovest, consegnandoli all’influenza della Polonia e del cattolicesimo, mentre i Russi invece fondavano Mosca, destinata a divenire grazie a Pietro il Grande e ai suoi successori il «centro riunificatore» di tutto lo slavismo. Dunque l’Ucraina come entità autonoma non è mai esistita, è stata un’invenzione della «politica bolscevica delle nazionalità a spese della Russia storica» e lasciata a se stessa possiede un’intima vocazione a passare dall’altra parte: con i polacchi, i cattolici, gli svedesi, i nazisti. Sul carattere della progettata «denazificazione» del Paese Putin finora non si è mai espresso in pubblico. Ha preferito lasciar parlare sulle pubblicazioni ufficiali del regime i suoi ideologi come questo Timofei Sergueizev di cui a ragione Werth reputa utile riportare gli agghiaccianti propositi: «La denazificazione consiste in un insieme di misure nei confronti della massa nazista della popolazione che per ragioni tecniche non può essere direttamente perseguita per crimini di guerra (…); è necessario procedere a una pulizia totale (…) ; oltre ai massimi dirigenti è da considerare egualmente colpevole una parte importante delle masse popolari, responsabili di nazismo passivo , di collaborazione con il nazismo (…). La durata della denazificazione non può in alcun caso essere inferiore a una generazione. (…)La denazificazione sarà inevitabilmente una de-ucrainizzazione (…) La denazificazione dell’Ucraina significa anche la sua inevitabile de-europeizzazione».

C’è ancora qualcuno che in nome della «pace» intende negare le armi a chi se la sta vedendo da mesi con simili criminali?

I dubbi Usa sull’ottimismo per Kiev. Lorenzo Vita su Inside Over il 4 luglio 2022.

La guerra in Ucraina diventa oggetto di dibattito anche all’interno del territorio americano. Il Washington Post, in una lunga inchiesta, ha infatti posto alcuni interrogativi sulle differenze tra la realtà e delle previsioni che si sono rivelate eccessivamente ottimiste riguardo le forze di Kiev. Nell’articolo non traspare una critica alle truppe ucraine, ma si punta soprattutto il dito sullo iato che si è creato tra le previsioni degli analisti e alcuni scenari paventati dall’amministrazione di Joe Biden. Scenari che a detta del quotidiano Usa sarebbero dettati, in pratica, più da motivazioni politiche e diplomatiche che da effettivo desiderio di spiegare puntualmente quanto accade sul campo.

Divisi tra chi non vuole mostrare le fragilità di Kiev a Mosca, chi ritiene opportuno un maggiore sostegno da parte occidentale e chi invece afferma che non esiste una perfetta coincidenza tra informazioni date dall’Ucraina e quelle in mano agli Stati Uniti, il dubbio di molti osservatori è che in questa fase della guerra, arrivata ormai a oltre 130 giorni, sia difficile valutare con la massima lucidità i fatti sul campo. E, come spiega il Wp, anche se la Russia ha drasticamente ridotto gli obiettivi manifestati a inizio della “operazione militare speciale”, molto spesso le autorità americane “sminuiscono i progressi definendoli discontinui e incrementali e sottolineano il numero significativo di vittime militari russe che ne sono derivate” senza però mostrare l’altra faccia della medaglia, comprese le “pesanti perdite” subite dagli ucraini.

Questo, come detto, può essere dovuto a diversi fattori. Tuttavia appare interessante che da Washington, e soprattutto dalle colonne di un così autorevole quotidiano particolarmente attento alle dinamiche internazionali e interne alla politica Usa, si faccia riferimento a questo conflitto intestino sulle previsioni e sulle analisi della guerra in Ucraina. Perplessità che sembrano cercare una risposta non tanto alla domanda sulla correttezza del sostegno a Kiev, mai messo in discussione all’interno dell’articolo e tantomeno dalle persone intervistate, quanto del modo di agire dell’amministrazione democratica e in generale della Difesa statunitense. Un sistema che sembra più orientato ai propri interessi politici che a quelli di una conduzione efficiente dell’agenda strategica e che porta a riflettere sui pericoli del cedere all’informazione totalmente di parte rilanciata da alcuni segmenti degli Stati coinvolti nel conflitto. Basti pensare alle parole del portavoce del Pentagono, Todd Breasseale, che sono la conferma del fatto che il Pentagono non rilascia informazioni che possano essere utilizzate dai russi per “non fare il lavoro di intelligence per loro”.

Il segnale che trapela dai commenti del quotidiano americano è la conferma non solo di un dibattito interno sugli obiettivi posti dall’amministrazione dem, ma anche perché si interroga sulle stesse tesi portate a sostegno dalle autorità per continuare nel sostegno a Kiev. Interrogativi che possono applicarsi a qualsiasi latitudine e che indicano una visione ben diversa di una guerra complessa e in cui l’elemento della propaganda non può ritenersi secondario.

Lo si vede del resto quando giungono le notizie dal campo ma anche su come vengono analizzate le scelte altrui. Impossibile trovare una lettura univoca che sia in grado di dire se Russia o Ucraina hanno ottenuto una vittoria tattica o rimediato una sconfitta, così come anche oggi appare impossibile sapere se un centro urbano sia davvero caduto nelle mani dell’invasore o se è saldamente nelle mani di chi resiste. Spesso è anche difficile comprendere le richieste di una parte e dell’altra. Altre volte, si analizzano le avanzate russe riducendone la portata oppure si pone eccessivo entusiasmo nelle controffensive ucraine. Se dall’altra parte della barricata tutto appare più semplice, essendo la Russia parte attiva della guerra e dunque evidentemente protagonista di una propaganda (o disinformazione) tesa alla vittoria finale, altro è invece quello che sta accadendo in campo americano, o al limite atlantico, dove – come sottolineano i media Usa – si rischia di piegare l’analisi degli scenari al proprio interesse, che varia a seconda del momento e in base a cosa si vuole mostrare di russi e ucraini.

Con il dubbio, che sembra essere costante, di cosa voglia davvero Washington da questo conflitto. Ignorare alcuni elementi per non fare vedere che Kiev ha bisogno di aiuto, secondo alcuni analisti vorrebbe dire che il Pentagono non vuole fare capire di non investire realmente in questa guerra. “Il Pentagono a volte nasconde informazioni che potrebbero essere poco lusinghiere per i partner ucraini o evidenziare le limitazioni del sostegno statunitense”, spiega il Washington Post citato da Agi. Altri, commenta Kori Schake dell’American Enterprise Institute, ritengono che questo serva a solleticare le autorità Usa per “aiutare l’Ucraina ad avere successo al più presto”. Ma a questo punto la denuncia che è sottintesa al tutto è molto profonda: c’è il rischio che molti scenari descritti dalla politica Usa siano finalizzati a coprire o alimentare un meccanismo mediatico e diplomatico sostanzialmente interno senza comprendere la reale portata del conflitto. E soprattutto con il dubbio che tutto questo non porti a rispondere alla domanda finale: dove può spingersi il sostegno di Biden alla causa di Kiev.

Ucraina: l'ennesimo disastro geopolitico dei neocon. Piccole Note il 5 luglio 2022 su Il Giornale.

Nonostante il fatto che per mesi i media mainstream abbiano propagandato che le forze russe erano alla corda, stavano finendo loro missili, munizioni e carri armati, avevano perso il 30% del corpo d’invasione etc, Mosca ha conquistato Lischyansk e, con questa, Lugansk, prendendo così il controllo della regione.

Tutto falso, propaganda, come in Vietnam e Afghanistan, quando i bollettini di guerra riportavano ciò che dovevano e non la realtà.

D’altronde, “la principale preoccupazione del Dipartimento della Difesa sulla narrazione relativa all’esercito ucraino è bilanciare ciò che si può dire a un livello non classificato [cioè pubblicamente] e non dare ‘valutazioni improvvide’ che Putin potrebbe utilizzare a suo vantaggio, ha affermato il portavoce del Pentagono Todd Breasseale”, come si legge sul Washington Post.

“Diversi commentatori – continua il WP – hanno dichiarato che ciò che comunica l’amministrazione Biden sulla guerra in Ucraina apparentemente sembra esatto, ma che il Pentagono a volte nasconde informazioni che potrebbero apparire non lusinghiere per i partner ucraini o evidenziare i limiti del supporto degli Stati Uniti”.

Ancora il WP: “Benjamin Friedman, direttore di Defence Priorities, ha affermato che l’obiettivo dichiarato dell’Ucraina di cacciare le forze russe appare ‘sempre più irrealistico’ e che l’amministrazione Biden deve fare di più per spingere l’Ucraina a negoziare con la Russia e impegnarsi in una soluzione politica”.

“Nessuno vuole che cedano territorio, o quasi nessuno vuole che cedano territorio”, ha detto Friedman. “Ma devi valutare la situazione onestamente”, ha aggiunto.

Sempre il WP ha ricordato i bollettini di guerra afghani, quando “i funzionari abitualmente sorvolavano sulle disfunzioni e la corruzione diffuse ed eludevano le domande sul fatto che i successi sul campo di battaglia non fossero solo irrealizzabili ma neanche sostenibili. Le amministrazioni successive hanno insistito sul fatto che le forze afghane stessero ‘vincendo’, anche se le loro performance erano spesso molto limitate e la loro sopravvivenza dipendeva dal supporto logistico e dalla potenza aerea degli Stati Uniti”.

Potenza aerea che peraltro in Ucraina non si può dare, per evitare un ingaggio diretto Nato – Russia, e che non può essere sostituita dai lanciamissili multipli inviati da Usa e Regno Unito, perché hanno un impatto più limitato di un attacco aereo.

Certo, il WP, per non debordare troppo dalla linea imposta dalla propaganda, non può limitarsi a evidenziare questa criticità e deve per forza di cose anche riferire di possibilità più rosee per il futuro, prospettive che dovrebbero aprirsi con l’impiego dei nuovi armamenti Nato, ma le magnifiche sorti e progressive del futuro restano aleatorie, mentre il presente è dura realtà.

Lo dimostra anche la politica delle sanzioni, che avrebbero dovuto incenerire la Russia in pochi giorni e invece stanno mordendo l’Occidente e il mondo più che Mosca.

Di interesse, sul punto, un articolo di Jeffrey D. Sachs, Direttore del Center for Sustainable Development presso la Columbia University, dal titolo: “L’Ucraina è l’ultimo disastro neocon“.

Questo l’incipit: “La guerra in Ucraina è il culmine di un progetto trentennale del movimento neoconservatore americano. L’amministrazione Biden è gremita degli stessi neocon che hanno sostenuto le guerre degli Stati Uniti in Serbia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Siria (2011), Libia (2011) e che hanno fatto così tanto per provocare l’invasione russa dell’Ucraina. Il track record dei neocon è una serie di disastri assoluti, eppure Biden ha gremito la sua squadra di neocon. Di conseguenza, Biden sta guidando Ucraina, Stati Uniti e Unione Europea verso l’ennesima débâcle geopolitica”.

Questa la conclusione: “Il risultato più probabile dei combattimenti è che la Russia conquisterà una vasta parte dell’Ucraina, forse lasciando l’Ucraina senza sbocco sul mare o quasi. In Europa e negli Stati Uniti aumenterà la frustrazione a causa della sconfitta militare e per le conseguenze della stagflazione causata dal conflitto e dalle sanzioni. Gli effetti a catena potrebbero essere devastanti”, anche perché potrebbe provocare un improvvido revanscismo a rischio escalation.

“Invece di rischiare questo disastro, la vera soluzione è porre fine alle fantasie neocon degli ultimi 30 anni e fare in modo che Ucraina e Russia tornino a sedersi al tavolo dei negoziati, con la NATO che si impegna a porre fine all’allargamento verso est, dall’Ucraina alla Georgia, in cambio di una pace che rispetti e protegga la sovranità e l’integrità territoriale ucraina”.

Purtroppo è improbabile che Mosca si ritiri dal Donbass dopo il sangue versato. Anche questo è un risultato delle follie neocon, che, impedendo in tutti i modi il negoziato prima di questi sviluppi sul campo di battaglia, hanno di fatto condannato l’Ucraina a perdere quella parte di territorio che essi stessi dichiaravano a gran voce di voler preservare…

È un po’ quel che è accaduto a Hong Kong, dove gli Stati Uniti hanno appoggiato apertamente la rivoluzione colorata che chiedeva l’indipendenza da Pechino, ottenendo il risultato opposto, cioè la fine della libertà relativa di cui godeva la città stato cinese.

Accade così quando si affronta la realtà attraverso il filtro dell’ideologia. 

Ps. Non potendo semplicemente registrare il disastro, al solito, si rilancia perché la guerra prosegua. Esempio due titoli del NYT di oggi: “La Russia avanza dietro un brutale sbarramento, ma la sua strategia continuerà a funzionare?“; “La Russia festeggia i successi mentre l’Ucraina si prepara alla prossima offensiva“. Funziona così, mai deflettere.

Ha ragione la Cina che parla di nuova Guerra Fredda. In guerra e in politica tutto è sacrificabile: quante bugie e i diritti sono chiacchiere e distintivo. Tony Capuozzo su Il Riformista l'1 Luglio 2022. 

Dopo l’imbarazzante bugia del ritiro ucraino da Severodonesk per mascherare la sconfitta sul campo, ecco la bugia della propaganda russa, ovvero il ritiro dall’Isola dei Serpenti, importante strategicamente, come una scelta motu proprio e non come qualcosa di forzato e dovuto al successo ucraino. Cosa vuol dire? Che la guerra è sempre piena di sorprese e di svolte imprevedibili.

E un po’, viene da dire, è anche lo scenario mondiale: mentre i grandi chiamano le armi, si vede il primo carico di di grano che riparte dall’Ucraina. E mentre Draghi ha appena finito di compilare la lista degli invitati al G20 in Indonesia, il premier indonesiano sorprende tutti invitando sia Putin sia Zelensky.

Ha ragione la Cina che parla di nuova Guerra Fredda. E durante la Guerra Fredda c’è stato un periodo in cui l’equilibrio veniva chiamato equilibrio del terrore. Io non ti attacco perché sono consapevole che la tua risposta danneggerebbe anche me, ci distruggeremmo a vicenda. E quindi quel periodo, con le vistose eccezioni della guerra in Vietnam, i golpe sudamericani e i conflitti africani, è stato uno dei periodi più pacifici della storia. Ecco quello a cui andiamo incontro è un nuovo periodo della paura se non del terrore. Possiamo immaginare un Donbass russo e un cerchio Nato attorno come un antifurto all’opera 24 ore su 24. Un equilibrio fondato sul timore l’uno dell’altro.

E’ stato bello sognare un mondo diverso, possibile, equo e solidare, ma in realtà il mondo è quello che è, un mondo piuttosto cinico. L’Europa è anche quella di Melilla, enclave spagnola in Marocco, dove si muore. L’Europa è anche la Francia che nega le estradizioni ai sopravvissuti agli anni di piombo. E l’Europa però che concede l’estradizione ai militanti curdi, una questione più recente e quindi barattatile. Cosa significa? Vuol dire che il mondo è fatto dalle politiche di potenza dove tutto è sacrificabile da una parte e dall’altra. I diritti invece sono chiacchiere e distintivo. Tony Capuozzo

La propaganda di Putin: a scuola «educazione patriottica» obbligatoria dai 6 anni. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.

«I nuovi corsi sono mirati a insegnare l’amore e la riconoscenza dei giovani per i combattenti della Grande Guerra Patriottica e di tutte le altre guerre combattute dal nostro popolo». Buone vacanze, bambini della Russia. Al vostro ritorno in classe, il prossimo primo settembre, ogni lunedì dovrete assistere all’alzabandiera in cortile, mentre ascolterete l’esecuzione dell’inno nazionale dagli altoparlanti. Una volta in classe, anche i più piccoli, gli alunni delle elementari, troveranno una materia in più da studiare. Quasi inutile dire quale. Sappiate solo che il nuovo corso si chiama «». Gli adulti che si prendono cura di voi sono sicuri che questa iniziativa «rafforzerà e instillerà l’amore per la Patria». Perché queste nuove lezioni «mirano a formare le opinioni delle giovani generazioni sulla base dei valori nazionali avviandole verso una giusta valutazione degli eventi che riguardano la nostra Nazione».

L’anno scolastico è appena finito. Come da tradizione sono arrivate le nuove linee guida per l’insegnamento. Con un po’ di ritardo, questa volta. A metà maggio, il ha respinto il piano presentato dai ministeri dell’Educazione e dell’Istruzione, che pure già recepiva l’ordine di istituire le «classi patriottiche» e di licenziare gli insegnanti che rifiuteranno di farne parte. Ancora non bastava. La riscrittura dei libri didattici di storia non era stata ritenuta soddisfacente, poco importa che già fosse stato cancellato qualsiasi riferimento all’Ucraina.

La questione non è di poco conto. Anzi, riguarda la «sicurezza nazionale», come è scritto nel testo che rispedisce al mittente la prima proposta. Così importante da far intervenire il secondo uomo più potente della Russia. Nikolaj Patrushev, l’ex capo dei Servizi segreti oggi alla guida del Consiglio di sicurezza, si era alzato in piedi per chiedere una revisione completa del sistema educativo russo «al fine di sviluppare una nuova generazione di patrioti». Dopo avere criticato i libri di storia perché davano poco risalto all’eroismo sovietico contro Hitler, quello che per distacco viene considerato il politico più falco tra i falchi aveva attaccato gli insegnanti, che «troppo spesso scelgono di stare con il nemico occidentale, manipolando i bambini e distorcendo la storia».

Patrushev ha esautorato il ministero dell’Educazione, affidando la revisione dei manuali non a un docente, ma a Sergey Naryshkin, il suo successore ai vertici dell’intelligence, anche direttore della Società Storica della Russia. «Il nostro presidente» si legge nel nuovo testo varato pochi giorni fa «approva l’introduzione dell’educazione storica nelle scuole elementari, con una particolare attenzione rivolta a quella della nostra Madre Patria». I bambini potranno anche contare su una attività extra curriculum chiamata «Conversazione su temi importanti», durante la quale potranno ascoltare in video autorevoli esponenti del governo «che li aiuteranno a capire l’importanza della memoria storica». Altro che i talk show. La propaganda comincia a scuola.

Anna Zafesova per “la Stampa” il 30 luglio 2022.

Il monumento più segreto di Mosca è stato inaugurato nel bosco di Yasenevo, che nasconde dagli occhi indiscreti il quartier generale dello spionaggio estero russo, l'Svr. Il direttore Sergey Naryshkin l'ha dedicato a tutti gli agenti sotto copertura che hanno spiato per il Cremlino negli ultimi cento anni, «i loro nomi sono avvolti dal segreto».

Ma il volto bronzeo del 007 russo non è quello, celebre, di Kim Philby o di Rudolf Abel, le leggendarie talpe del Kgb che hanno cambiato il corso della storia. A esser seduto pensieroso nell'erba di Yasenevo è Max Otto von Stierlitz, classe 1900, il più famoso infiltrato russo di tutti i tempi, che non è mai esistito nella realtà.

Il fatto che nel pieno di una guerra devastante, che il Cremlino non è riuscito a vincere in buona parte grazie a informazioni di intelligence clamorosamente false, uno degli uomini più fidati di Vladimir Putin inauguri un monumento a una spia cinematografica, racconta forse della Russia più di quanto fosse nelle intenzioni dei suoi autori. Stierlitz è l'adorato protagonista di una quindicina di romanzi di Yulian Semyonov, e soprattutto di una serie televisiva, «I 17 attimi della primavera», che già durante la sua prima proiezione, nell'agosto del 1973, aveva fatto incollare agli schermi circa 80 milioni di spettatori sovietici, con un visibile calo del numero dei reati in coincidenza con le 12 puntate.

 Difficile trovare un russo sopra i 30 anni che non sia in grado di raccontare nei minimi particolari le gesta dello Standartenführer Stierlitz, coraggioso e intelligente infiltrato russo ai vertici del Terzo Reich. Un cast stellare composto dai più straordinari attori dell'epoca, l'elegante scenografia in bianco e nero, la regia decisa di Tatiana Lioznova, una musica commuovente e un plot avvincente nel quale i tedeschi per la prima volta venivano presentati non come stupidi mostri, ma come avversari intelligenti e raffinati: Stierlitz è entrato nella leggenda, e il monumento alle spie inaugurato da Naryshkin raffigura l'attore che lo ha interpretato, Vyacheslav Tikhonov, con il personaggio che diventa più vero dell'uomo che gli ha prestato il volto.

Un cult in patria, quasi sconosciuto all'estero: la serie, autorizzata e supervisionata dall'allora capo del Kgb Yuri Andropov in persona, è una chiave per capire il mondo nel quale si erano formati Putin, Naryshkin e gli altri big del regime, che avevano guardato le avventure del James Bond sovietico quando erano giovani reclute dei servizi. Secondo Leonid Parfyonov, l'esperto russo di cultura pop sovietica, che alla serie di Lioznova ha dedicato un documentario, «era stata una grande operazione pubblicitaria del Kgb: non appariva più come polizia politica, anzi, mostrava che la guerra era stata vinta grazie allo spionaggio».

La fascinazione per l'estetica nazista - veterani dello stesso Kgb ricordano che il film ha generato un boom di gruppi neonazisti - nascondeva, secondo lo storico Konstantin Zalessky, una metafora dell'Unione Sovietica, o almeno quello che avrebbe voluto essere. Negli Anni 70 il mito del comunismo era naufragato definitivamente: la supremazia materiale dell'Occidente era evidente prima di tutto agli agenti del Kgb, tra i pochi a poter viaggiare all'estero, e lo stesso Putin non ha mai nascosto il suo disprezzo per la povertà e lo squallore del «socialismo reale».

Nei ranghi della nomenclatura la retorica comunista si recitava automaticamente in pubblico, mentre si sognava un'auto tedesca, e si criticava sottovoce il regime.

Per lo scrittore Dmytry Bykov, Stierlitz è diventato «l'eroe principale dell'epica sovietica», anche perché chiunque - un dissidente come un ufficiale del Kgb - si sentiva un infiltrato, costretto perennemente a fingere di essere qualcun altro, «mentre si trovava in un mondo ostile, evidentemente condannato al collasso».

La sensazione della fine di un impero, i cui ufficiali - costretti a inviare a Mosca rapporti ideologici e falsi quanto quelli che i 007 di Putin avrebbero 50 anni dopo mandato da Kyiv - ritrovavano una ragione d'essere nell'appartenenza a una tradizione nazionalista e autoritaria. Accanto ai carismatici gerarchi nazisti di Lioznova tra le figure più popolari della cultura pop cominciano ad apparire gli zar, e i romanzi «storici» intrisi di eccezionalismo russo di Valentin Pikul sono la lettura più alla moda degli Anni 70-80, insieme ai quadri del semiproibito pittore Ilya Glazunov, che dipinge santi e guerrieri d'altri tempi come se fossero icone.

Stierlitz, un elegante intellettuale gentiluomo, talmente impeccabile da essere diventato anche il protagonista di innumerevoli barzellette, era riuscito però in un'altra missione impossibile: era un russo che si era mimetizzato tra gli aristocratici europei. Il sogno di una élite che si sentiva arretrata e provinciale, e che con la fine del comunismo ha rincorso gli status symbol del lusso occidentale, con tutto il goffo entusiasmo dei neoarricchiti. Il politologo Gleb Pavlovsky, spin doctor degli esordi di Putin, non nasconde che il presidente russo aveva copiato consapevolmente certi atteggiamenti del personaggio Stierlitz, a cominciare dai suoi trascorsi di spia di Mosca in Germania. Voleva apparire freddo, impeccabile, invincibile. Al punto da dimenticarsi di stare copiando un 007 che esisteva soltanto in un film.

 Anna Zafesova per “La Stampa” il 29 giugno 2022.

La centralissima piazza di Lev Tolstoy a Kyiv potrebbe presto cambiare nome: un referendum online cui hanno partecipato milioni di cittadini ha scelto per la stazione della metropolitana omonima il nuovo nome di Vasyl Stus, un poeta dissidente morto per uno sciopero della fame in una prigione sovietica. Pushkin, Lermontov e Tolstoy vengono smantellati in massa dai piedistalli dei monumenti e dalle targhe con i nomi delle vie delle città ucraine, mentre una commissione ministeriale sta cancellando praticamente tutti gli autori russi dal corso di letteratura straniera, sostituendoli con i classici europei.

"Guerra e pace" non potrà più trovare spazi nella didattica in quanto «opera che glorifica la potenza militare russa», ha annunciato qualche settimana fa il viceministro dell'Istruzione Andriy Vitrenko. Diverse regioni - tra cui la tradizionalmente russofona Odessa - hanno già cancellato corsi facoltativi di letteratura russa, e il ministero ora propone di ricollocare perfino autori russi di origine ucraina come Gogol nei corsi di letteratura nazionale.

Una "purga" che fa gridare Mosca alla "cancel culture", e Vladimir Putin e i suoi propagandisti non perdono occasione di denunciare una campagna «russofoba».

Il filosofo ucraino Volodymyr Yermolenko però respinge le accuse, e su Foreign Policy firma un saggio - "From Pushkin to Putin: Russian Literature' s Imperial Ideology", da Pushkin a Putin, l'ideologia imperiale della letteratura russa - nel quale lancia un dibattito finora impossibile. I classici russi, un Pantheon di intoccabili, si rivelano «pieni di discorsi imperialisti, romanticizzando la conquista e la crudeltà, e tacendo delle conseguenze». Il poeta romantico Mikhail Lermontov viene bocciato per aver raccontato le guerre del Caucaso con stereotipi colonialisti e razzisti sul «cattivo ceceno». 

Aleksandr Pushkin, considerato il padre della letteratura russa, presenta gli ucraini come «sanguinari» nel poema "Poltava", e in "Ai calunniatori della Russia" insulta e minaccia l'Europa che si schiera dalla parte dei polacchi ribelli con parole che sembrano uscite dal Telegram dell'ex presidente Dmitry Medvedev.

Ma il premio al nazionalismo letterario va a Fyodor Dostoyevsky, il classico che più di chiunque altro aveva teorizzato lo scontro inevitabile tra Russia ed Europa, l'autore che bisogna leggere per "diventare russi", teorizza sul Kommersant lo storico Dmitry Razumov. La studiosa dello scrittore Lyudmila Saraskina ricorda la sua idea molto putiniana che «l'Europa non ci ama mai, anzi, non ci sopporta... l'unica cosa che non può non riconoscere è la nostra forza». 

Lo scrittore teorizza l'esistenza di una «anima russa» che dovrà svolgere una «grande missione», e riserva parole di disprezzo verso i «popolini slavi» che «calunnieranno la Russia» mentre «cercheranno i favori degli europei»: sembra la propaganda del Cremlino di oggi. Ovviamente il discorso di Dostoyevsky è complicato e contraddittorio: invocava anche l'Europa come «seconda madre» ed era contrario a portare i popoli slavi sotto lo scettro russo con la forza.

Il problema non è quello che potevano scrivere 200 o 150 anni fa un ufficiale dello zar come Lermontov o un conservatore religioso come Dostoyevsky. Il problema è il modo in cui sono stati chiamati al servizio della propaganda, nella letteratura più politica della storia, che ha consegnato ai romanzieri il ruolo svolto altrove da politici e giornalisti. Il manuale di letteratura sovietico cooptava nel Pantheon dei classici in base a criteri ideologici, e mentre gli autori "non allineati" venivano cancellati non soltanto dai piani editoriali e didattici, ma spesso anche dalla faccia della terra, quelli graditi al regime diventavano modelli e icone della "grandezza russa".

Più che invocare una "cancel culture" verso i russi, Yermolenko chiede di applicare loro «lo stesso discorso critico usato dagli studiosi occidentali verso la cultura occidentale», citando autori come Kipling o Conrad, facendo scendere Pushkin e Tolstoy dal piedistallo di profeti ed eroi intoccabili per contestualizzarli e criticarli. Un'operazione che in Russia non è mai stata compiuta, e i monumenti e le targhe a Pushkin che invadono anche quelle ex colonie russe dove non aveva mai messo piede, restano uno strumento di conquista.

La "grande letteratura russa" oggi viene raccontata dal putinismo come componente essenziale del "mondo russo" che il Cremlino difende e diffonde a cannonate. È evidente che Dostoyevsky non ha appoggiato l'invasione dell'Ucraina, né sapremo mai se l'avesse fatto. Ma quando un uomo di cultura come il direttore dell'Ermitage Mikhail Piotrovsky dichiara ridendo che tutti i russi sono «militaristi e imperialisti», e che la guerra serve «ad affermare una nazione», la carica xenofoba e violenta fa sparire tutte le altre anime della letteratura russa e sovietica. Soltanto tre anni fa, gli abitanti di Kyiv avevano respinto la proposta di cambiare nome alla piazza di Lev Tolstoj. Oggi, non lo vogliono più.

Ucraina: la propaganda di guerra c'è, ma non si vede...Piccole Note il 29 giugno 2022 su Il Giornale.

“Un russo è imbarcato su un aereo di linea diretto verso gli Stati Uniti e l’americano seduto accanto gli chiede: ‘Cosa ti porta negli Stati Uniti?’ Il russo risponde: ‘Sto studiando l’approccio americano alla propaganda’. L’americano dice: ‘Quale propaganda?’ Il russo dice: ‘Questo è quello che voglio dire”‘ Battuta posta in esergo di un articolo di Robert Wrigth su Responsibile Statecraft che spiega come i russi sappiano perfettamente che i loro media sono consegnati alla propaganda, perché dipendenti dalla Stato. Ma la diversità di fonti informative dell’Occidente non vuol dire che in questa parte di mondo non esista la propaganda di guerra, eppure non si nota…

“La ragione principale di questa differenza di atteggiamento – continua Wright – non è che gli americani siano più creduloni dei russi. È che l’America è una democrazia liberale con un sistema mediatico abbastanza complesso”.

“È più difficile in questo sistema pluralistico […] per un singolo o un’istituzione potente creare un’unica narrativa dominante. Quindi, se la qui c’è la propaganda, dovrà avvenire in modo meno diretto che in Russia, con meno controllo centralizzato. E ciò rende più difficile individuarla”.

“In altre parole: un sistema pluralistico, mentre in qualche modo rende più difficile il prevalere della propaganda, offre anche alla propaganda che prevale  una buona mimetizzazione”.

Nel caso della guerra ucraina, uno degli strumenti usati per diffondere la narrativa di guerra è stato l’Institute for the Study of War, che fornisce ai media, soprattutto quelli mainstream, esperti e analisti sul campo. “Non passa giorno che l’ISW non sia citato da un giornalista o sul New York Times o sul Washington Post o sul Wall Street Journal”, insomma da tutti media mainstream…

Una cosa già vista: durante la guerra siriana, quando i giornalisti occidentali dipendevano in modo massivo dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, dal quale ricevevano notizie, analisi e approfondimenti.

Nel caso siriano, si trattava di un tizio che abitava a Londra e diceva di aver fonti sul campo, mentre l’ISW è un organismo più complesso con “radici neoconservatrici ed è gestito da falchi piuttosto estremi. Nel corso degli anni ha ottenuto finanziamenti da vari settori dell’industria delle armi: la General Dynamics, Raytheon e altre aziende che lavorano per la difesa, più o meno grandi più o meno note, come la General Motors che, se anche non hanno legami diretti con la difesa, ma hanno però contratti con il Pentagono”.

Per Wright, l’ISW non diffonde falsità, ma è “selettivo sulle verità che promuove e tattico nel modo in cui le dispone”. Ad esempio, nel caso siriano, se l’esercito di Damasco sbagliava mira e colpiva un mercato l’eccidio veniva subito denunciato, se i ribelli moderati, in realtà terroristi, facevano lo stesso, o la notizia non veniva data o, se data, bastava renderla anodina, tipo “bomba cade sul mercato”, lasciando in dubbio il responsabile (ricorda qualcosa?).

Ma tornando all’ISW, Wright lo descrive così: “Il presidente e fondatore dell’Institute for the Study of War è Kimberly Kagan, una esperta di storia militare sposata con Frederick Kagan, che ha la stessa specializzazione e lavora anch’egli per l’ISW. Frederick è un noto neoconservatore, anche se non come suo fratello Robert. Quest’ultimo, negli anni ’90, insieme a Bill Kristol (che è nel Consiglio di amministrazione di ISW), ha fondato il Project for a New American Century, che secondo alcuni osservatori ha svolto un ruolo importante nel convincere George W. Bush a invadere l’Iraq” (in realtà, secondo tanti).

I Kagan hanno ottimi rapporti con la Difesa, tanto che il Washington Post nel 2012  scriveva  che il generale David Petraeus, comandante in capo dell’esercito Usa, aveva de facto reso i due i suoi “più importanti consiglieri”.

[…] “La moglie di Robert Kagan, Victoria Nuland, è il funzionario del dipartimento di stato che ha sostenuto pubblicamente la Rivoluzione Maidan del 2014 in Ucraina” e attualmente è l’incaricato per gli Affari europei del Dipartimento di Stato.

“Nel caso della guerra in Ucraina, le attività giornalistiche e di analisi dell’ISW sono straordinarie. L’Istituto pubblica aggiornamenti quotidiani sul campo di battaglia, completi di mappe […]. Questi report sono scritti in modo intelligente e chiaro […]. Se fossi un giornalista che scrive sulla guerra li troverei attraenti”.

Report intelligenti, appunto, che giorno dopo giorno incrementano la narrativa, con piccole “sfumature” qua e là che servono a supportare le narrazioni del governo ucraino. Inoltre, mentre le informazioni di fonte ucraina vengono riprese come dogmaticamente veritiere, quelle russe sono presentate sempre come prive di fondamento.

L’ISW non è l’unico organismo a fornire informazioni, analisi ed esperti ai media. Tanti sono i think tank che si propongono o vengono interpellati. Ma “non ci sono  think tank meno aggressivi che forniscono analisi giornaliere elaborate della guerra in Ucraina, in parte perché meno si è falchi, più è difficile ottenere finanziamenti. Non ci sono grandi aziende i cui profitti sono legati alla moderazione militare”, mentre tanti finanziamenti fluiscono dall’apparato militar industriale ai think tank che sostengono politiche muscolari. D’altronde, come ricorda Wrigth, l’Ucraina è inondata di armi e le industrie militari di soldi…

“Ecco perché se vedete un articolo sull’Ucraina – o sull’Afghanistan o sull’Iran o altro – scritto da qualche esponente di un think tank, ci sono buone probabilità che tale think tank abbia ottenuto denaro dalle aziende che lavorano per la Difesa”. Idem per la Tv.

“Per non parlare del fatto che, come hanno  documentato Aditi Ramaswami e Andrew Perez sul sito Jacobin, molti opinionisti che parlano della guerra in Ucraina ottengono soldi dagli stessi fabbricanti di armi (proprio come è accaduto per molti opinionisti durante la guerra in Afghanistan)”.

Detto questo, “i think tank non pagano le persone per dire cose in cui non credono. Semplicemente assumono persone che credono già alle cose che i finanziatori dei think tank vogliono che tutti, te compreso, credano”.

“La sincerità con cui questi esperti possono così professare le loro convinzioni è una delle ragioni per cui la propaganda americana è poco appariscente. Un altro motivo è la diversità delle istituzioni: diversi giornali, diversi canali Tv, diversi gruppi di riflessione!”.

“Questa diversità è certamente preferibile all’omogeneità, ed è uno dei tanti motivi per cui preferisco vivere in America piuttosto che in Russia. Tuttavia, a volte la diversità nasconde un’unità narrativa più profonda, un’unità fondata sul potere e su interessi particolari molto forti. E questo è particolarmente vero quando l’argomento è la sicurezza nazionale“.

“Sostenere l’Ucraina è una buona causa – conclude RS – Ma il sostegno dato a occhi chiusi non è mai una buona politica. E soprattutto non è bene nella situazione attuale”, dal  momento che parliamo di una guerra che coinvolge una superpotenza nucleare. Anche per questo rischio “dovremmo cercare di identificare e superare qualsiasi filtro che impedisca una visione chiara di ciò che sta accadendo in Ucraina. E se mi chiedete: ‘Quali filtri?’ la risposta è: ‘Questo è ciò che voglio dire'”.

Ps. Per tacere del fatto che tanti cronisti mainstream sono ex agenti Cia, ex funzionari del Pentagono e altro, con rapporti diretti con la Difesa. Sul punto rimandiamo, come esempio, a un articolo di Politico dal titolo, “Le spie che sono entrate nello studio televisivo”, sottotitolo: “Gli ex funzionari dell’intelligence si stanno godendo una seconda vita come esperti televisivi. Ecco perché questo dovrebbe inquietarci”… Ci torneremo.

Infine, sulla disinformazione di guerra, vedi anche Piccolenote.

Libro e moschetto, putiniano perfetto. Così la propaganda russa ha preparato per anni l’invasione dell’Ucraina. Linkiesta il 14 Giugno 2022.

Dal 2010, il Cremlino ha diffuso romanzi di bassa qualità per celebrare la superiorità militare russa in tutti i possibili conflitti nel mondo, compresa in un’ipotetica guerra contro l’Occidente. Si tratta di un’altra operazione speciale orchestrata dal Cremlino.  

In “Zar dal futuro” un ragazzo del Duemila si sveglia nel corpo dell’imperatore russo Nicola II, all’inizio del Novecento, in tempo per impedire la Rivoluzione russa, sconfiggere il Regno Unito e conquistare Istanbul con armi tecnologiche sconosciute per l’epoca. Il viaggio accidentale è un espediente narrativo ripreso così tante volte da essere diventato quasi un genere letterario a sé: lo schema standard ha un protagonista che viene catapultato accidentalmente in un altro luogo e in un altro tempo, spesso senza una ragione apparente. È molto popolare in Russia, dove questi libri sono conosciuti con il termine popadantsy – forma plurale di popadanets –, sempre più diffusi sugli scaffali di fantascienza.

“Zar dal futuro”, come tutti gli altri popadantsy, è un ottimo esempio di come l’editoria russa ha preparato il terreno per promuovere e far accettare a tutta la nazione una guerra su vasta scala contro l’Ucraina, la Nato, l’Occidente. Proprio mentre quest’ultimo ignorava completamente il problema.

Lo ha raccontato giornalista, politologo e scrittore di origine russa Sergej Sunlenny, che ha lavorato a Mosca per l’emittente televisiva tedesca Ard ed è stato caporedattore di un telegiornale dell’emittente commerciale russa RBC-TV.

In un lunghissimo thread su Twitter, Sunlenny ha spiegato che «uno dei primi fattori che testimonia la preparazione della Russia per una svolta verso la dittatura e la guerra globale è stata la produzione di massa di libri su Stalin e lo stalinismo, e sull’imminente guerra contro l’Occidente», libri apparsi sugli scaffali russi all’inizio degli anni 2010.

Quindi i titoli che arrivavano sul mercato tra mille fanfare erano “Sii orgoglioso, non dispiaciuto! Verità sull’età di Stalin”, oppure “Repressioni di Stalin: una grande bugia”, e ancora “Berija: miglior manager del XX secolo”, una biografia di Lavrentij Pavlovič Berija che è stato primo vicepresidente del consiglio dei commissari del popolo dell’Unione sovietica.

La dinamica è semplice e diretta: questi libri di fiction sono strumento di propaganda per alimentare un revanscismo basato sul nulla. «L’idea di creare un’atmosfera autoritaria e militarista attraverso le librerie è da genio del male. Nel 2015 ho visitato la libreria centrale di Mosca “Biblio-Globus”, e il merchandising che incontravi all’ingresso era fatto solo di uniformi militari, accessori e libri su Stalin e la guerra», scrive Sunlenny.

Dopo l’avvio dei libri sul periodo staliniano, il Cremlino ha iniziato a far pubblicare libri di quella che Sunlenny nel suo thread definisce battle fantastic: libri molto accessibili, di bassa qualità, prodotti in serie, sulla superiorità militare russa in tutti i possibili conflitti nel mondo. Quindi sugli scaffali è arrivata la serie “Battlefield Ukraine”, con titoli come “Ukraine on Fire”, “Wild Field: On Ukraine’s Ruins”, “Ukraine in Blood: Banderite Genocide”, “Inferno ucraino: è la nostra guerra”. Tutti con copertine pop che raffigurano l’esercito russo che schiaccia americani, ucraini, ucraini vestiti da nazisti.

Libri con un’unica storyline ripetuta: l’Ucraina, il Paese antagonista, è una marionetta dell’Occidente; gli Stati Uniti e il Regno Unito vogliono distruggere la Russia; i russi optano per la guerra perché non hanno paura e sono fortissimi in guerra.

Un’operazione editoriale che fa parte di un piano più ampio di revisionismo storico. Il Cremlino ha creato un genere letterario per vendere storie che, in buona sostanza, si potrebbero riassumente con le quattro parole trumpiane: Make Russia Great Again.

«C’è una miriade di miti su vittorie mutilate, russi traditi, un Paese derubato», scrive Sunlenny. «Il mio insegnante di scuola ci ha detto che l’Alaska non è stata venduta agli Stati Uniti, ma affittata per 100 anni, e gli Stati Uniti hanno infranto il contratto. I russi sono stati nutriti con un’enorme quantità di bugie».

Tra le grosse bugie c’è una alimentata anche da un malinteso che si è costruito in casa l’Occidente: credere che la Russia sia anti-nazista, cioè avversaria del Terzo Reich per natura. Non è proprio così, spiega Sunlenny: «Il trauma della Russia è che Hitler aveva rotto l’alleanza con Stalin e aveva iniziato a uccidere i sovietici, invece di uccidere altre nazioni al fianco dei sovietici».

L’esempio più evidente è la pubblicazione dal titolo “Compagno Hitler. Giustizia Churchill!”, un altro libro sul viaggio accidentale di una persona che entra nel corpo di Adolf Hitler. «Riuscirà a giustiziare Churchill per crimini di guerra, a creare un’alleanza con l’Unione Sovietica? I compagni Hitler e Stalin sconfiggeranno gli Stati Uniti e otterranno una bomba atomica prima degli Stati Uniti?», è la descrizione dell’opera. Poi è arrivato il secondo capitolo, dallo stesso autore, “Compagno Hitler”. In “Assalto per il futuro”, invece «La Germania (nazista) si unisce all’Unione Eurasiatica, l’Unione Democratica Atlantica inizia la Terza Guerra Mondiale, l’Unione Sovietica è contro l’INFERNO! La Fratellanza russo-tedesca contro la peste stellare e per la liberazione del mondo!». E sulla copertina ci sono Londra e un carrarmato americano.

«L’idea di distruggere gli Stati Uniti e l’Occidente, con i simboli del potere politico occidentale umiliati, è la base del revanscismo russo», scrive Sunlenny. «Ebbene, dopo tutti questi esempi di preparazione statale russa per una guerra globale, militarizzazione delle persone, diffusione di tutte le possibili strane fantasie di violenza, ci si potrebbe chiedere: come diavolo hanno fatto le ambasciate occidentali a ignorarlo?».

Dopotutto, il Cremlino non ha lavorato nell’ombra, era tutto alla luce del sole. Per Sunlenny la causa dell’indifferenza occidentale è in un pericoloso misto di ignoranza, fascino per la Russia, pigrizia e corruzione. In più, una reazione troppo forte avrebbe rovinato l’intero quadro della cooperazione economica e della strategia “Wandel durch Handel” della Germania, cioè la convinzione che legare l’economia di Mosca a quella europea avrebbe sconsigliato ogni conflitto – che poi è alla base della Ostpolitik di Angela Merkel.

L'Ucraina, la crisi globale e la propaganda di guerra. Piccole Note l'11 giugno 2022 su Il Giornale.  

La commissaria parlamentare ucraina per i diritti umani Lyudmila Denisova recentemente destituita dalla Rada di Kiev.

«La guerra [ucraina] sta portando a un’impennata globale dei costi alimentari ed energetici e a una massiccia distrazione dalla risoluzione dei problemi a lungo termine. Alcuni governi stanno aumentando la spesa militare e probabilmente spenderanno meno, nel breve periodo, per lo sviluppo sostenibile».

«Nel frattempo la guerra e le sanzioni potrebbero finire per provocare una stagflazione o una vera e propria crisi economica globale. Naturalmente, la distruzione in Ucraina è devastante e anche la contrazione dell’economia russa quest’ anno sarà molto dura. La chiave per superare questi costi è porre fine alla guerra attraverso negoziati in settimane, non mesi o anni». Così Jeffrey Sachs, autorevole economista della Columbia University in un’intervista a La Stampa.

Sulla guerra, un interessante osservazione di Jacob G. Hornberger pubblicato dalla Fondazione americana Future of Freedom: «Supponiamo che l’Ucraina fosse guidata da un regime filorusso. Dopo ripetuti tentativi falliti di assassinarne il leader da parte della CIA, il Pentagono decide finalmente di invadere l’Ucraina allo scopo di determinare un cambio di regime, cioè estromettere il regime filo-russo dal potere e sostituirlo con un regime filo-USA».

«Quale sarebbe la risposta dell’establishment americano, in particolare della stampa mainstream statunitense?».

«Non ci sono dubbi sulla risposta. Sarebbe tutto diverso da come oggi viene rappresentata l’invasione russa dell’Ucraina. I media avrebbero orgogliosamente supportato le forze d’invasione dell’esercito americano. I giornali più autorevoli avrebbero riferito e commentato il coraggio delle truppe statunitensi. Non si vedrebbero foto o video di civili ucraini uccisi e sarebbero tutti etichettati come “danni collaterali”».

«La Chiesa avrebbero esortato le sue congregazioni a pregare per le truppe. Gli esponenti dell’establishment [politici e media] di tutta la terra farebbero a gara per trovare qualche soldato da ringraziare per il servizio reso […] L’establishment condannerebbe i “cattivi”, cioè quegli ucraini che si permettono di sparare contro i soldati americani».

«Come sappiamo che l’establishment americano reagirebbe in questo modo a un’invasione dell’Ucraina da parte del Pentagono?».

«Due risposte: Afghanistan e Iraq. È così che hanno reagito quando è stato il Pentagono a invadere quei due paesi. Da questo sappiamo che è così che reagirebbero se fosse stato il Pentagono e non la Russia a invadere l’Ucraina».

A conferma di tale suggestione, una suggestione indiretta. L’eroina del momento in America è Liz Cheney: le sue foto campeggiano orgogliosamente su tutte le prime pagine dei giornali mainstream, i Tg inondano le case dei cittadini statunitensi con le sue immagini, le sue parole sono riferite con devoto ossequio.

L’eroina in questione è tale perché è l’esponente di punta di quel manipolo di repubblicani che da sempre fa guerra a Trump. Da quando poi ha accettato di far parte della Commissione d’inchiesta sull’assalto a Capitol Hill, conferendo a un’indagine politicamente orientata una artificiosa patina di terzietà, le sue azione solo volate alle stelle.

Liz è la figlia di Dick, che gestì la presidenza Bush in nome e per conto dei neoconservatori, organizzando l’invasione dell’Afghanistan prima e dell’Iraq poi, che autorizzò la tortura di presunti terroristi tramite waterboarding, spianando la strada gli orrori di Abu Ghraib etc etc.

Liz ha sempre difeso il padre, giustificando tutte le sue decisioni come legittime e necessarie, a iniziare dall’invasione dell’Iraq. Lei l’eroina del momento, ci ricorda appunto l’ipocrisia che si cela dietro certe rappresentazioni della realtà.

E a proposito di bizzarre rappresentazioni della realtà, ricordiamo come abbia fatto il giro del mondo, ma non sui media mainstream, la destituzione della commissaria parlamentare ucraina per i diritti umani Lyudmila Denisova da parte della Rada di Kiev.

Una decisione presa dal partito di Zelensky a motivo del suo strano attivismo, che l’aveva portata anche ad accusare i soldati russi di stuprare donne e bambini in quantità industriale. Accuse che il parlamento ucraino ha dichiarato non fondate dichiarando la suddetta inadeguata a ricoprire una carica tanto delicata (ma nonostante questo, le sue accuse sono state ugualmente rilanciate da tutti i media d’Occidente: nella propaganda di guerra non si butta niente, un po’ come si fa per il maiale).

In un’intervista a un giornale ucraino, la Denisova, pur difendendosi a spada tratta, ammette di aver “esagerato” le accuse contro la Russia. Interessante una specifica che ci riguarda da vicino: «Quando, per esempio, ho parlato alla commissione per gli affari esteri del parlamento italiano, ho sentito e visto tanta reticenza riguardo l’Ucraina, sai? Ho parlato di cose terribili per spingerli in qualche modo a prendere le decisioni di cui avevano bisogno l’Ucraina e il popolo ucraino. Lì  [in Italia – SK ] c’era un partito, i “Cinque Stelle”, che era contrario alla fornitura delle armi, ma dopo il mio intervento uno dei leader del partito ha espresso sostegno all’Ucraina e ha detto che ci avrebbe sostenuto, anche sul provvedimento riguardante le armi». Simpatico retroscena.

Ps. Riguardo il blocco del grano dai porti ucraini, questione alla quale abbiamo dedicato una nota e che rischia di affamare il mondo, una novità importante: la Francia si è detta pronta a partecipare all’operazione che potrebbe consentire lo sblocco della situazione. 

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 30 maggio 2022.

Secondo una grafica circolata molto nella propaganda del Cremlino, la ormai tristemente nota Z starebbe per "Esercito orientale della Russia", mentre altri simboli indicherebbero altre dislocazioni dei soldati russi in Ucraina: la Z dentro un riquadro per "Forze russe di Crimea", la O per "Forze armate bielorusse", la V per "Marine russi", la X per "Forze cecene", la A per "Forze speciali", e così via. 

La realtà è un'altra: la Z può essere vista sulle unità russe su tutti i fronti dell'invasione russa dell'Ucraina: anche sui veicoli della cosiddetta "Repubblica di Donetsk". In sostanza, Z è un simbolo unificante, come si vede ormai anche dalle pubblicità orwelliane che compaiono sulle tv di stato russe, nelle quali la polizia in assetto antisommossa, tutta vestita di nero, si congiunge misticamente col popolo russo a disegnare appunto la Z nelle strade. Simbolo orwelliano, ma non limitato affatto alle "Eastern Russian Army".

Secondo una nuova analisi dei dati realizzata da un ricercatore italiano e ex hacker, Alex Orlowski, ci sono 551 account univoci in italiano che utilizzano chiaramente nel simbolo la Z della propaganda russa. Questi account si segnalano per operazioni di sostegno alla Russia e disinformation - tipo diffondere la falsa grafica dei sei piani sotterranei del bunker Azovstal, poi rivelatasi in realtà la grafica di un gioco da tavola, ma capace di ingannare anche programmi tv - e attacco e campagne d'odio contro presunti "nemici" di Putin. 

La ricerca ha analizzato 639mila tweet, una mole sufficiente per condizionare le conversazioni online in lingua italiana, e soprattutto, i 551 account sono stati filtrati rispetto a tutta una rete che arriva a circa 8mila account di riferimento (che quindi possono comprendere doppioni, o account inautentici). Le caratteristiche che vengono fuori sono abbastanza inquietanti. 

Intanto, perché l'account dell'ambasciata russa è il secondo al centro di questa rete. E viralizza anche falsi evidenti, per esempio negazionisti su Bucha. 

Questi "zetisti" italiani quasi sempre insultano o denigrano o attaccano gli oggetti dei loro tweet, e parlano bene quasi solo dell'ambasciata russa in Italia. Seguono i nomi culto del complottismo e della sfera no vax, o media della destra o del populismo, ma anche della sinistra radicale legata alle sigle comuniste: congiunzione di destra e sinistra alternative, rossobrunismo.

Orlowski spiega: «Per la nostra ricerca siamo partiti da un gruppo di account selezionati, riconosciuti come vicini a posizioni filo-russe che sostengono apertamente in pubblico. Nello specifico, si tratta di otto profili Twitter anonimi che adottano la Z e ne sostengono la causa. Partendo da qui abbiamo ricostruito una rete di altri account ad essi collegati. Profili simili tendono a seguirsi a vicenda: perciò, partendo da una selezione, siamo riusciti a risalire a tutta la rete». Che mostra diversi segni di coordinazione, tra cui il lancio di hashtag contro Mario Draghi.

I 551 account danno luogo a un "movimento" di account che arriva quasi a un milione: «La mappatura di 550 account univoci ha costituito la base per un ulteriore arricchimento della lista: in questo modo siamo arrivati a una mole di dati sufficientemente elevata, quasi 1 milione di account che, una volta eliminati i doppioni ed effettuati i filtri pertinenti alla Z, sono diventati circa 150mila». La differenza tra i 551 e i 150mila è che i primi sono account "zetisti" puri, gli altri utilizzano anche altri simboli e altre narrazioni. 

Sono stati individuati e selezionati solo gli account che parlano italiano o dell'Italia.

Tra i più intersecati con questa rete ci sono, in quest' ordine, gli account di lady Onorato, dell'ambasciata russa in Italia (che ha una base media di partenza di amici di 844 su ogni tweet, il che per i numeri di twitter dà impressione di potenza), di Byoblu, di Meluzzi, di Diego Fusaro. 

Tra gli hashtag, "Giovanni Frajese", noto esponente No Vax, è il nome il più ricorrente, il che oggettivamente interseca galassia no vax e putinismo. Sappiamo anche che le chiavi #putin, #russia, #ucraina e #azovstal si incrociano con #green pass, #italexit e con una fortissima campagna contro Mario Draghi. Non è un'opinione ma un fatto: i network si sovrappongono. Tra i più retweetati spiccano un paio di giornali di destra, subito seguiti da altri noti nella sfera populista e no green pass come Imola Oggi, ByoBlu, Radio Radio e L'antidiplomatico, il giornale di geopolitica vicino un tempo alla galassia M5S. Ci sono alcuni giornalisti bersaglio di migliaia di tweet di odio o di falsi, tra cui spiccano alcuni dei quotidiani La Stampa e La Repubblica. 

Fare propaganda putiniana in Italia non è reato - mentre in molti paesi la Z è stata resa illegale e viene parificata all'uso della svastica (dalla Germania alla Repubblica Ceca, Polonia, Lituania, Lettonia, Moldavia, e ovviamente Ucraina). È reato invece istigare all'odio e alla violenza, cosa che in alcuni casi avviene, in questa rete putiniana. 

Articolo di “Le Monde” - dalla rassegna stampa estera di “Epr Comunicazione” il 27 maggio 2022.

Dall'invasione dell'Ucraina, il 24 febbraio, le trasmissioni di propaganda di Mosca sono state particolarmente apprezzate nei talk show italiani. 

Fino a poco tempo fa – scrive il corrispondente di Le Monde - Alessandro Orsini era solo un personaggio secondario, uno di quegli esperti intercambiabili - e più o meno seri - che popolano i talk show politici italiani. 

Dal lunedì alla domenica, dalla mattina presto fino a tarda notte, lo spettacolo non si ferma mai. Quindi, per mantenere la macchina in funzione, è necessario trovare nuovi volti, ma anche personaggi ricorrenti.

Con la sua voce soave e lo sguardo da eterno studente un po' sognatore, questo 47enne professore della prestigiosa università privata LUISS di Roma, specialista in "sociologia del terrorismo", apparteneva alla seconda categoria già prima dell'inizio della guerra, nonostante un curriculum costellato di polemiche e controversie. Ma l'invasione dell'Ucraina da parte delle forze russe il 24 febbraio ha cambiato la sua dimensione, al punto da diventare una vera e propria star.

Come è successo? Andando oltre gli altri, su un tema particolarmente promettente: la difesa della politica russa, attraverso la denuncia della NATO e di qualsiasi forma di aiuto all'Ucraina, il tutto in nome del non allineamento e del pacifismo. Fin dallo scoppio della guerra, e più volte al giorno, le sue critiche si sono concentrate su Kiev e su coloro che, cercando di aiutare l'Ucraina, prolungavano i massacri. E questa critica ha continuato a crescere.

Il presidente Volodymyr Zelensky? “Se è un ostacolo alla pace, deve essere abbandonato" (La7, 21 marzo). La difesa della democrazia? "Preferisco che i bambini vivano in una dittatura che vederli morire sotto le bombe in nome della democrazia" (Rai 3, 5 aprile). Libertà pubbliche in Russia? "Ho colleghi in prigione in Russia, come posso mostrare solidarietà a loro diffondendo la propaganda della NATO? Ho il dovere morale di aiutarli combattendo contro la propaganda della NATO" (La7, 7 aprile). 

Imbarazzata dalle esternazioni del professore, che stavano iniziando a danneggiare la sua reputazione, il 4 marzo l'Università LUISS ha inizialmente rilasciato un comunicato per ribadire la sua "piena solidarietà al popolo ucraino" e dissociarsi dal professore. Ma l'ennesimo scivolone del 30 aprile, in cui è arrivato a riscrivere le origini della Seconda Guerra Mondiale ("Quando invase la Polonia, Hitler non aveva intenzione di iniziare la Seconda Guerra Mondiale. Ma le potenze europee avevano concluso alleanze contenenti clausole paragonabili all'articolo 5 della NATO"), ha portato l'università a decidere di chiudere l'osservatorio sul terrorismo che Alessandro Orsini dirigeva.

Ora è solo un docente, il che non gli impedisce di continuare a usare il suo status di accademico, mentre si dipinge come un martire in televisione, dove continua, ovviamente, a essere invitato. Il 10 maggio è addirittura salito sul palco del Teatro Sala Umberto di Roma per una lettura pubblica, "Ucraina, le cause della guerra", che ha registrato il tutto esaurito. Il 23 è stato a Livorno, e si prevede che seguiranno altri appuntamenti, mentre le voci prevedono un suo imminente ingresso in politica...

Un'ondata di condanne

Se si trattasse di un singolo caso, la parabola del professor Orsini sarebbe solo l'ennesima dimostrazione degli eccessi della televisione italiana, dove la logica perversa dei talk show spinge costantemente i punti di vista più caricaturali, fino all'assurdo, pur di fare ancora più rumore della concorrenza.

Ma qui non c'è nulla di tutto questo: è vero che Alessandro Orsini ha gradualmente radicalizzato le sue opinioni, ma il fatto è che le posizioni apertamente filorusse che esprime sono tutt'altro che isolate in Italia. 

Sospetti di corruzione, giornalisti affiliati al Cremlino (tra cui Nadana Fridrikhson, dipendente della televisione Zvezda, di proprietà del Ministero della Difesa russo) regolarmente invitati, funzionari russi che parlano senza un reale contraddittorio... La televisione italiana, dall'inizio della guerra, si è dimostrata particolarmente accogliente nei confronti delle trasmissioni di propaganda di Mosca. 

Il 2 maggio, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha potuto denunciare il "nazismo" ucraino nel programma "Zona Bianca". E quando il conduttore, Giuseppe Brindisi, ha obiettato che il presidente ucraino Zelensky era a sua volta di origine ebraica, Lavrov ha potuto affermare con calma: "Anche Hitler aveva origini ebraiche, questo non significa nulla". Vladimir Putin in persona ha chiamato il Primo Ministro israeliano per scusarsi di questo eccesso di linguaggio, che è stato trasmesso in Italia senza la minima protesta.

Trasmessa su Rete 4, un canale del gruppo Mediaset, di proprietà dell'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che non ha mai fatto mistero della sua amicizia con Vladimir Putin, l'intervista a Sergei Lavrov ha provocato un'ondata di condanne, Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, ha parlato di "spot propagandistico insopportabile", mentre il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha avviato un'indagine sui sospetti di infiltrazioni russe nell'emittenza italiana. 

Anche se il professor Orsini è diventato un po' più discreto e i funzionari sono più rari, la musica filorussa non ha smesso di essere suonata, soprattutto perché ha indubbiamente un'eco nell'opinione pubblica. Il 15 maggio, durante la trasmissione "Non è l'Arena" (su La7), quando il conduttore Maurizio Giletti ha chiesto al giornalista russo Dmitri Kulikov: "Ma voi russi siete invitati solo nella televisione italiana?", quest'ultimo ha risposto senza esitazione: "Sì".

Anna Zafesova per “la Stampa” il 26 maggio 2022.

Un bambino russo ha bevuto della limonata al dragoncello ucraina, ora è in rianimazione. Delle bambine russe hanno mangiato caramelle offerte da bimbe ucraine, sono state male, una è morta. Se vedete per terra degli oggetti, portafogli, passaporti, iPhone, non sollevateli: potrebbero essere stati minati da infiltrati ucraini. Sono soltanto alcune delle leggende metropolitane che circolano in queste settimane nelle chat dei genitori e nei WhatsApp condominiali, soprattutto nel Sud della Russia, e secondo l'antropologa Aleksandra Arkhipova sono un segno che la guerra comincia a venire avvertita e temuta dai russi comuni: «Si tratta di leggende metropolitane antiche e internazionali, che vengono risvegliate dalla paura, per razionalizzare una guerra incomprensibile».

Sono un sintomo del disagio sociale, così come l'esplosione delle barzellette, un classico del dissenso sovietico ritornato oggi a colmare di ironia una dissociazione tra una propaganda martellante e una realtà terrificante, spiega Arkhipova, che studia da anni il folclore urbano e i linguaggi della protesta. Un esempio? «Un uomo entra di corsa in farmacia e chiede degli antidepressivi. Il farmacista obietta che serve una ricetta. "Ma come, non vi basta il mio passaporto russo?!, protesta il cliente». 

La guerra in Ucraina ha aperto anche un fronte simbolico, dove il regime viene combattuto da quella che Arkhipova definisce la "protesta dei deboli", una "resistenza semiotica", il cui obiettivo principale è spezzare la realtà creata dal linguaggio censurato del governo. Il nuovo totalitarismo russo ha esteso drasticamente i confini della repressione: «Se fino a tre mesi fa si veniva arrestati per delle azioni, come scendere in piazza, ora anche il rifiuto di aderire alla retorica ufficiale è un crimine». Lo scontro si sposta dalle circostanze pubbliche, come la piazza, alla vita quotidiana, dove i "partigiani semiotici" hanno aperto un fronte di micro atti sovversivi che puntano a creare dissociazioni cognitive nei cittadini inondati di propaganda. Chi si limita a dissociarsi, ritirando i figli da scuola nei giorni delle recite "patriottiche".

Altri cercano di influenzare gli altri: chi sostituisce i cartellini dei prezzi al supermercato con volantini, chi lascia sulle panchine dei giardinetti pelouche imbrattati di vernice rossa e scritte "Bucha", o pupazzetti della Lego che tengono in mano bandierine ucraine, chi scrive e dipinge sui muri o affigge manifesti: «Sono tutti modi per rompere il silenzio, e far vedere che i dissidenti non sono una minoranza di reietti, non siamo soli»: per incrociare gli sguardi dei propri simili si possono indossare vestiti nei colori giallo-blu dell'Ucraina (che possono costare un fermo della polizia), attaccare una spilletta pacifista o ricamando sulla borsa o sulla sciarpa un "no alla guerra" in alfabeto Braille, ascoltare i DDT di Yuri Shevchuk - incriminato per aver dichiarato a un concerto che "la patria non è il culo del presidente da leccare" - oppure leggere in metropolitana una copia di "1984" di Orwell.

«La protesta non accenna a diminuire», dice Arkhipova, che monitora i casi di arresti di dissidenti, e nota come lo scontro "semiotico" spesso manda in panne la polizia: la ragazza che è stata fermata per essere scesa in piazza con un foglio bianco, per esempio, è stata rilasciata senza verbale, anche se sia lei che gli agenti sapevano benissimo cosa avrebbe dovuto esserci scritto. È uno dei motivi per cui molti graffiti e meme giocano con le parole e le citazioni, come quelle del "Lago dei cigni" - il balletto trasmesso dalla TV sovietica quando moriva un leader comunista - della tabacchiera con la sciarpa, i due oggetti utilizzati dai congiurati per uccidere, nel 1801, lo zar Paolo I. Allusioni troppo colte, che soltanto l'intellighenzia può capire?

Non soltanto, obietta l'antropologa: «Il nostro cervello viene attratto dagli enigmi e risolverli provoca un rilascio di endorfine, ci fa provare piacere. Rispetto a un lapidario "no alla guerra", un gioco di parole, un messaggio arguto, ha maggiori possibilità di venire notato, fotografato e diffuso nei social». La Rete è la nuova frontiera della protesta, e anche dello studio degli umori popolari. Arkhipova rileva un cambiamento visibile nel linguaggio dei sostenitori della guerra: «Se nelle prime settimane facevano propria la retorica ufficiale sui "nazisti" e il Donbass da liberare, oggi tendono più a prendere le distanze con argomenti del tipo.

"Siamo gente piccola, quelli in alto sanno quello che fanno, Putin avrà le sue ragioni". In generale, notiamo che chi protesta contro la guerra ha più follower dei sostenitori del regime». Chi sostiene Putin allora? «Gli anziani. Il regime ha scommesso tutto sui vecchi nostalgici, proponendo loro una Urss-2 che ormai viene ricostruita anche nei dettagli più assurdi. Ma nessuno nella storia è mai riuscito a vincere contro i giovani». 

Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 26 maggio 2022.

Nuove, astrali vette della propaganda del Cremlino. Si riscrive Orwell, con ciò inverandolo definitivamente. 

L'altro giorno, di fronte a una puntuta domanda di una studentessa universitaria di Ekaterinburg, Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Serghey Lavrov, si è prodotta in una rilettura ai confini della realtà, e più probabilmente oltre. 

La giovane aveva messo il dito sulla situazione a suo dire orwelliana creatasi in Russia con «l'operazione militare speciale» in Ucraina, cosa di per sé interessante, perché i segnali di insoddisfazione verso l'avventura bellica criminale, benché carsici, si stanno moltiplicando, in Russia, tra defezioni di top manager del gas e lettere d'accusa da parte di alti diplomatici: «Qui, nel nostro paese - ha detto la giovane - sentiamo l'ascesa di un patriottismo nazionalista. E amici e parenti dall'estero ci dicono che siamo un riflesso del romanzo "1984". Cosa possiamo rispondere loro?».

Zakharova, che un paio d'anni fa per sbaglio aveva chiamato quel romanzo "1982", stavolta non ha vacillato: «Un momento, aspetta», ha fermato la ragazza. Poi è partita in una incredibile lectio magistralis che riscrive completamente il campo ultrasettantennale degli studi su Orwell: «Per molti anni abbiamo pensato che Orwell stesse descrivendo il totalitarismo. Ma questo è uno dei più grandi falsi globali. Orwell ha scritto sulla fine del liberalismo. Ha scritto di come il liberalismo porterebbe l'umanità in un vicolo cieco.

Non ha scritto dell'Unione Sovietica, ha scritto della società in cui viveva, del crollo dell'idea del liberalismo. E invece vi hanno messo in testa che ha scritto di noi, di te».

In pratica Orwell sarebbe nient'altro che un antecedente della tesi esposta da Vladimir Putin in una famosa intervista al Financial Times: la fine del liberalismo, «il liberalismo è obsoleto». 

Il traduttore russo di Orwell, Viktor Golyshev, un'autorità nel campo, ha ricordato su un canale Telegram come la cosa non stia in piedi neanche da un banale punto di vista diacronico: «Penso che 1984 sia un romanzo su uno stato totalitario. Quando Orwell lo scrisse, gli stati totalitari erano già in declino, ma tra la prima e la seconda guerra mondiale metà dell'Europa aveva governi totalitari. A quel tempo non c'era declino del liberalismo, per niente».

L'orwellismo insomma, checché ne dica Zakharova, dilaga nel senso del capovolgimento integrale della realtà e del linguaggio, «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza». L'altra sera il propagandista in capo della tv del Cremlino, Vladimir Solovyov, si è lanciato in un'altra tirata totalitaria, a sfondo antisemita: la storia, religione e lingua ucraina - ha sostenuto - sono «una finzione», un costrutto, «l'Ucraina è terra nostra, e i soldati russi non se ne andranno mai».

La profezia orwelliana, al di là della riscrittura del Cremlino, continua ad aleggiare su questa guerra come uno spettro: una settimana fa una coppia di Irpin, rientrando nella casa devastata dai russi, ha trovato la libreria sottosopra e sul divano, ancora aperta, una copia di 1984. Chissà se qualche soldato russo lo stesse leggendo.

Giorgio Carbone per “Libero Quotidiano” il 22 maggio 2022.

Da qualche settimana è in libreria (edizioni Il Nuovo Melangelo) Il libro Il conflitto di celluloide di Fabio Pavesi, ovvero la storia, meglio la selvaggia aneddotica, del cinema di propaganda americano durante due guerre, quella "calda" dal 1940 al 1945 e quella "fredda" della lotta al comunismo, iniziata nel 1946, appena dopo che tacquero i cannoni rivolti verso Germania e Giappone, e destinata a durare decenni fin quasi alla fine dell'impero russo. 

Fabio Pavesi è un giovane di Carugate che da circa 20 anni viaggia per lavoro spesso nei paesi dell'Est Europa. Risultato del peregrinare: l'acquisita conoscenza di otto lingue e il rastrellamento di un'immensa cineteca. 

Non c'è film americano, dal Cantante di Jazz ai Rocky di Stallone, sul quale Pavesi non abbia messo le mani. E non le abbia fatte mettere a tanti drogati di cinema, tra i quali il sottoscritto. 

L'immenso materiale gli ha permesso di mettere su carta e anche su immagini (il libro è illustratissimo) il racconto di come la grande macchina propagandistica Usa abbia lavorato per far vincere due guerre e abbia imposto, diciamolo pure, una "sua" verità.

Pearl Harbor, Iwo Jima, lo sbarco in Normandia, la battaglia di Midway, noi (tutti noi) ce li ricordiamo come li ha voluti raccontare Hollywood, una serie di verità certamente parziali, ma che nella memoria hanno finito per prevalere sulle verità "vere" per merito (o colpa?) di cineasti Usa che sapevano raccontare come nessuno al mondo.

Il libro è una vagonata di aneddoti alcuni molto conosciuti, altri meno, ma che sulla pagina finiscono per intrigarti anche se molte storie credi d'averle già conosciute. Così apprendi che il cinema americano non ha mai odiato l'Italia, anche quando era nemica (il primo film anti italiano fu Il dittatore di Chaplin, l'ultimo I cinque segreti del deserto di Billy Wilder girato molti mesi prima dell'8 settembre).

Così come vivido è il racconto delle pellicole antinaziste che i registi mitteleuropei dovettero girare per dimostrare la sincerità dei loro sentimenti antinazisti (il tedesco Fritz Lang che fa Anche i boia muoiono, l'austriaco Billy Wilder che ridicolizza il maresciallo Rommel nei Cinque segreti). 

E Dietlef Sierk (divenuto Douglas Sirk e regista di melodrammi in technicolor degli anni '50) che a pochi mesi di distanza dall'uccisione di Heydrich, il "boia di Praga", ne racconta la storia in Hitler's hangman). 

Il libro è una miniera, ma la sua trovata vincente è il raffronto tra le due guerre, la storia, spesso stupefacente, di come dalla metà degli anni '40 la macchina da guerra della cine-propaganda Usa dovette rigirare i cannoni, mettersi a sparare su chi per un lustro era stato amico e fratello.

Anche se sull'amicizia e la fratellanza qualche dubbio c'era stato prima ancora che l'Europa diventasse campo di battaglia. Lo scontro fra Oriente e Occidente, tra "american way of life" e patria del socialismo era già stato al centro di commediole come Ninotchka, Tovarich e Corrispondente X, ma erano state storielle rassicuranti, nessun dubbio che in caso di guerra la compagna "Ninotchka" si sarebbe schierata a favore della democrazia. Nel 1940 dunque la Russia viene attaccata da Hitler e un anno e mezzo dopo l'America si schiera al suo fianco.

Prima ancora, la propaganda di Hollywood era già entrata nella mischia (Confessioni di una spia nazista è del 1939). Hollywood combatte alla sua maniera e schiera i suoi eroi (Gary Cooper, Humphrey Bogart, John Wayne, Errol Flynn, tutti respinti alla leva) perché non sorgano dubbi su a chi toccherà la vittoria. 

Franklin Delano Roosevelt, che ha capito più di tutti l'importanza del cinema, vuole tutti i cineasti al lavoro per sostenere lo sforzo bellico.

L'inno dei marines inizia a tambureggiare sullo schermo, ma anche gli alleati, pure quelli che un cinema di sostegno non possono permetterselo, devono entrare nella leggenda. Così l'Inghilterra ha La signora Miniver (esaltazione della borghesia churchilliana) la resistenza francese ha La croce di Lorena la Cina i film sulle Tigri volanti: Roosevelt raccomanda anche e soprattutto un filone filo-russo, il cinesoccorso per l'alleato che sta resistendo ferocemente a Stalingrado e Leningrado.

La Columbia gli fornisce Contrattacco, la MGM Song of Russia la RKO Tamara la figlia della steppa con un giovanissimo ed emaciato Gregory Peck. Ma Roosevelt vuole l'opera memorabile e si rivolge all'amico Jack Warner che già aveva fatto molti film "sociali" a favore del New Deal. E Warner gli allestisce Mission to Moscow con un grande budget, un grande cast (Walter Huston, Eleanor Parker), il più grande dei suoi registi (Michael Curtiz, di Casablanca e La carica dei seicento). 

Si attende il capolavoro, ma arriva il più efferato esempio di "propaganda' s movie" mai girato. Non è colpa di Curtiz, efficiente come al solito, ma è il copione che gli hanno rifilato che grida vendetta.

La trama si basa sulle relazioni di Joseph Davies, per due anni ambasciatore in Unione sovietica. Il quadro che Davies dà del paese di Stalin è idilliaco, quasi disneyano, le somiglianze tra americani e russi innumerevoli, certe "piccole differenze" (come le libertà civili, il sistema economico) del tutto trascurabili.

Mission to Moscow arriva a dare delle "purghe" staliniane una versione edulcorata come nemmeno osò Togliatti prima durante e dopo gli avvenimenti. Le feroci repressioni sono presentate come una doverosa reazione a ribellioni finanziate dal nazismo (il quadro è talmente paranoico che Mission fu tra i pochi film Warner a non essere importato a conflitto terminato).

La fine della guerra arriva dopo tre anni e le carte d'improvviso sono cambiate in tavola. Il tovarich, l'alleato compagnone diventa il nemico, l'ex Unione disneyana "l'impero del male". Hollywood s’adegua. 

L'America vede "rosso" (cioè comunisti dappertutto) e la capitale del cinema non fa eccezione. Cineasti che durante gli anni di guerra hanno mostrato simpatie socialiste si trovano messi ai margini. Molti di loro che hanno lavorato nel ciclo voluto da Roosevelt sono costretti a fare ammenda (il divo Robert Taylor confessò pubblicamente la sua vergogna per aver girato Song of Russia).

Jack Warner che deve farsi perdonare Mission to Moscow non ha altra scelta che mettere in cantiere I was a communist per Fbi, uno dei più virulenti attacchi all'ex alleato e dare campo libero al grande nemico (cinematografico) del comunismo John Wayne che produce e interpreta Big Jim Mc Lain, dove la malapianta comunista ha messo (nel 1952) le sue radici alle Hawaii (niente paura ci pensa John a strappare le radici a suon di pugni).

La truculenza del messaggio è tale che quando il film viene distribuito nell'Italia democristiana e filoatlantica di De Gasperi e Pio XII titolo e doppiaggio sono mutati. Gli agenti comunisti sono diventati narcotrafficanti e la pellicola circola da noi come Marjuana la droga infernale (quando Wayne lo sa non fa una piega: «Sempre di droga si tratta»). 

"Questa vittoria è per tutti gli ucraini". All'Eurovision trionfano i Kalush Orchestra. Laura Rio il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

I Kalush Orchestra sono i nuovi eroi dell’Ucraina. Loro hanno vinto, sul palco dell’Eurovision a Torino, la guerra della solidarietà planetaria.

"Questa vittoria è per tutti gli ucraini. Slava Ukraini, gloria all’Ucraina!”. I Kalush Orchestra sono i nuovi eroi dell’Ucraina. Loro hanno vinto, sul palco dell’Eurovision a Torino, la guerra della solidarietà planetaria. Uno schiaffo a Putin. E tutta l’Ucraina ieri notte ha cantato con loro “Stefania”, il brano dedicato alla madre dal frontman della band Oleh Psiuk e diventato il simbolo della madrepatria. La loro vittoria è un’invocazione mondiale a fermare i carri armati.

“Noi continueremo a combattere e combatteremo fino alla fine”, ha detto Oleh Psiuk nella sala stampa del PalaOlimpico pochi minuti dopo la proclamazione della vittoria. Con la musica. Ma anche con le armi. “Ringraziamo tutti quelli che hanno votato per noi -ha continuato -. Ogni vittoria in questo momento è di grandissima importanza per il nostro paese. Ogni aspetto della nostra cultura è sotto attacco e noi siamo qui per dimostrare che è viva”. “Non ho potuto parlare con Zelensky”, risponde a chi gli chiede se il presidente ucraino gli ha fatto le congratulazioni e neanche “con mia madre (cui è dedicata la canzone “Stefania”) , ci siamo solo messaggiati e mi ha detto che è orgogliosa e felice per me”.

Già nelle prossime ore i ragazzi della Kalush ripartiranno per il loro paese perché hanno avuto un permesso speciale dal Governo per uscire dall’Ucraina solo per pochi giorni. Lì Oleh gestisce un’organizzazione che porta medicinali ai malati. Un membro della loro band è al fronte. Si portano dietro un consenso gigantesco. Mai in nessuna edizione nella storia dell’Eurovision il televoto era stato così alto per un cantante. Un giudizio popolare che ha ribaltato la classifica degli esperti (cinque per ogni nazione) che avevano fermato l’Ucraina al quarto posto. Un’onda emotiva che è andata molto al di là del valore qualitativo della canzone, che comunque ha un ritmo che rimane nelle orecchie.

La band ha rischiato anche l’esclusione. Da regolamento Oleh non avrebbe potuto pronunciare sul palco le parole urlate al termine del brano: “Aiutate l’Ucraina, aiutate Mariupol”. Ma l’Ebu (European Broadcasting Union) l’ha ritenuto un messaggio umanitario e non politico. “La situazione è così drammatica che abbiamo rischiato l’espulsione, ma dovevamo farlo”. Grazie alle vittoria dei Kalush il prossimo anno l’Eurovision si dovrebbe svolgere in una città ucraina, spetta al paese vincitore l’organizzazione. Chissà se ci saranno le condizioni. Certamente mezzo mondo si metterà ad aiutare il governo a costruire l’evento. Loro ne sono certi: “L’Eurovision si terrà nella nostra nazione integra, ricostruita, prospera e felice», ripetono come un mantra. Speriamo.

Anche il leader ucraino ha festeggiato la vittoria sui social: "Il nostro coraggio impressiona il mondo, la nostra musica conquista l'Europa. L'anno prossimo l'Ucraina ospiterà l'Eurovision. Per la terza volta nella sua storia. E credo non per l'ultima volta", ha scritto Zelensky sui suoi social. "Faremo di tutto - ha aggiunto - per accogliere i partecipanti e gli ospiti a Mariupol. Libera, tranquilla, restaurata! Grazie per la vittoria della Kalush Orchestra e a tutti quelli che ci hanno votato".

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 15 maggio 2022.

Tutto come da copione. D'altronde da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, nelle previsioni degli scommettitori non avevano praticamente mai avuto rivali: stanotte al PalaOlimpico di Torino gli ucraini Kalush Orchestra hanno vinto con il combat folk in salsa rap della loro Stefania l'Eurovision Song Contest 2022, portando sul tetto d'Europa i colori della bandiera di Kiev con 631 voti totali. Vincitore morale il britannico Sam Ryder con la sua Space Man, arrivato secondo.

Boom della Beyoncé spagnola Chanel, che chiude il podio con SloMo.

Delusione per i nostri Mahmood e Blanco: con Brividi si sono classificati solamente sesti, nonostante alla vigilia fossero secondi solo al gruppo ucraino. «Slava Ukraini», «Gloria all'Ucraina!», hanno urlato i Kalush Orchestra al momento della proclamazione. E pensare che avevano pure rischiato di essere squalificati: «Salvate Mariupol, salvate Azovstal. Fatelo adesso», avevano detto. Il regolamento dell'Eurovision dice espressamente che il palco della manifestazione «non può essere politicizzato o strumentalizzato». Ma l'Ebu, che organizza lo show, ha deciso di chiudere un occhio.

I PROBLEMI A pochi minuti dall'inizio dell'evento il presidente dell'Ucraina Zelensky aveva pubblicato un video su Telegram lanciando un appello a sostenere il gruppo (che oggi sarà ospite di Fazio a Che Tempo Che Fa): «A breve nella finale dell'Eurovision, il continente e il mondo intero ascolteranno le parole della nostra lingua. E credo che, alla fine, questa parola sarà Vittoria!». Contemporaneamente l'intelligence denunciava «un possibile imminente attacco» di hacker filorussi Mosca è stata esclusa dalla competizione «per impedire il conteggio di voti online», che poi non si è verificato. Ma l'Ebu ha ammesso con una nota arrivata a mezzanotte e mezza di aver comunque riscontrato non meglio specificati problemi con le votazioni di sei paesi, indipendenti dagli hacker, e di essere stato costretto a trovare un altrettanto non meglio specificata soluzione per individuare il vincitore. Non si può dire che sia andato tutto liscio. Laura Pausini, durante lo spoglio delle votazioni, scompare: avrebbe avuto un piccolo calo di pressione, probabilmente per la tensione e per il caldo.

«Scusate, ero troppo emozionata», ha spiegato in inglese. Torna alla fine, riprendendosi il palco, che aveva conquistato in apertura con un medley dei suoi successi, da La solitudine a Io canto, prima di omaggiare Modugno con Nel blu dipinto di blu, all'unisono con i 7 mila del PalaOlimpico: uno dei momenti più belli. Tra il collegamento dallo spazio con Samantha Cristoforetti e il soporifero passaggio di Gigliola Cinquetti con Non ho l'età (fu la prima vincitrice italiana, nel 64), a tenere svegli gli spettatori ci pensano i Maneskin. Suonano il nuovo singolo Supermodel.

E confermano la partecipazione alla colonna sonora del film su Elvis di Baz Luhrmann con una cover un'altra? di If I Can Dream. «Non avvicinatevi troppo al tavolo», dice Damiano ai cantanti in gara, ironizzando sulle polemiche che sollevarono i francesi l'anno scorso, quando lo accusarono di aver consumato stupefacenti, prima di essere smentiti dal risultato negativo del test antidroga. Gli stessi francesi che quest' anno si devono accontentare del penultimo posto, subito prima della Germania, ultima con soli 6 punti.

IL PRECEDENTE Give peace a chance, Date una possibilità alla pace: il classico di John Lennon, con il quale i Rockin'1000 hanno aperto la lunga maratona finale, diventa la colonna sonora ideale di questa edizione della kermesse, tra messaggi di pace, solidarietà e fratellanza. I temi tornano anche nell'esibizione di Mika con le hit Love Today e Grace Kelly mentre un gonfiabile a forma di cuore sovrasta il palco e un esercito di ballerini sventola bandiere con dei cuori stampati.

«L'Eurovision è una gara canora, qui niente politica», è da sempre il motto degli organizzatori: il caso dei Kalush Orchestra rappresenterà un precedente importante. I fan della kermesse, dentro e fuori di un coloratissimo PalaOlimpico, con le bandiere dei vari paesi europei esposte sugli spalti o usate come mantelli, devono aver ascoltato le parole di Zelensky. Dopo aver conquistato un risultato modesto nelle votazioni delle giurie, il gruppo ucraino ha rimontato con un plebiscito popolare: solo al televoto ha preso 439 voti. A Torino l'Europa ha davvero dato alla pace una possibilità.

Ilaria Ravarino per "Il Messaggero" il 15 maggio 2022.

 Come i conquistadores del XVI secolo, che piegarono i nativi con la loro presenza modernizzatrice, i funzionari europei dell'Ebu colonizzano il Palaolimpico di Torino imponendo un grado di efficienza del tutto inedito. Ma le regole sono calate dall'alto, la Rai ne soffre e i dirigenti scelgono il basso profilo. La prima serata è commissariata: se va male è colpa di Ebu, ma va tutto bene e fino all'ultimo nessuno pare crederci davvero. Voto Ebu: 7. Voto Rai: 5 Da quando è stato eliminato nella semifinale di giovedì, Lauro affida a Instagram il suo senso di rivalsa: selfie sopra al toro, senza il toro, con il cappello di traverso e la chitarra in mano. 

IL POST Nel suo ultimo post dice «Non escludo il ritorno», citando Califano, augura «buona fortuna» agli italiani in gara e ricorda «le notti spese a immaginare questo spettacolo». Ma la sua performance è stata dimenticata rapidamente, sulla stampa internazionale non lo rimpiange nessuno: le ambizioni da star si riducono a sogni da stellina. La strada per lui adesso è in salita. Voto: 3

I CONDUTTORI È la dura legge del gobbo: tutto scritto, guai a improvvisare, anche i «porca vacca» di Laura Pausini sono farina del sacco degli sceneggiatori. I tre fanno del loro meglio: Cattelan ha studiato (l'inglese) e si scopre ballerino, Mika esplode ugola ed ego nel suo show finale, Pausini dà il massimo, anche troppo, e alla fine crolla. Promossi. Voto: 6. Il trio Malgioglio, Corsi e Di Domenico addomestica il pubblico a casa, traducendo in gag normalizzanti la manifestazione aliena. «Per i bambini sono un cartone animato», dice Malgioglio. Voto: 6 (ai bambini).

I FAN Si mettono in fila fin dal pomeriggio davanti al Palaolimpico, fotografandosi mascherati come cosplayer a una fiera di manga. Arrivano dall'Europa, dagli Stati Uniti, c'è pure un nutrito contingente australiano: i fan dell'Eurovision si sentono, così dicono, «una grande famiglia». Affollano i mezzi pubblici la sera per raggiungere l'Eurovillage, applaudono a qualsiasi cosa attraversi il palco, non si lamentano, non protestano per i ritardi. «Siamo solo felici di essere qui, dopo tanto tempo». Autentici. Voto: 8 Tra insulti reciproci e accuse di aver rubato il posto in finale, i commenti che le tifoserie affidano alla rete fanno sembrare la fratellanza e la solidarietà propugnate dall'Ebu più un'utopia che una realtà. Anche la vittoria dell'Ucraina, che a parole tutti sostengono, è un tema caldo che nei corridoi del palazzetto irrita e divide.

TUTTI UGUALI Ma sul palco siamo tutti uniti e tutti uguali, e nelle gelaterie di Torino impazza il gusto Euro Skin (pelle europea). C'è tanta strada da fare, ma da qualche parte si deve pur cominciare. Voto: 6

Da leggo.it il 15 maggio 2022.

Le mani degli hacker russi su Eurovision, ma ogni tentativo di attacco informatico è stato neutralizzato. Gli hacker del collettivo di killnet hanno provato a infiltrarsi sia nella serata inaugurale che durante la finale, ma grazie alla collaborazione e alla partnership tra Polizia di Stato e Rai per garantire la sicurezza durante lo svolgimento delle manifestazioni di carattere internazionale - Eurovision compreso - tutto si è svolto per il meglio.

L’attivazione di una sala operativa dedicata all’evento di Eurovision nella quale tecnici e poliziotti specialisti del CNAIPIC (Centro Nazionale Anticrimine Informatico Protezione Infrastrutture Critiche) della Polizia Postale hanno lavorato nelle ultime settimane fianco a fianco h24, ha permesso la neutralizzazione di attacchi informatici del collettivo di killnet e la sua propaggine “Legion”.

L’attività info-preventiva condotta dal personale del CNAIPIC della Polizia Postale sulla base dell’analisi delle informazioni tratte a partire dai canali Telegram del gruppo filo-russo, ha consentito altresì di desumere importanti informazioni di sicurezza, già condivise con la RAI per la prevenzione di ulteriori eventi critici. La sala operativa del CNAIPIC ha svolto più di 1000 ore di monitoraggio; con oltre 100 specialisti della Polizia Postale è stata monitorata l’intera rete e analizzato miliardi di dati informatici provenienti anche dalle diverse piattaforme social.

Durante le attività sono state eseguite milioni di analisi di dati relativi agli IP di compromissione che hanno consentito di emanare importanti procedure, grazie alle quali gli attacchi sono stati mitigati e respinti. Sono stati mitigati in collaborazione con la direzione Ict Rai e Eurovision TV diversi attacchi informatici di natura DDOS diretti verso le infrastrutture di rete durante le operazioni di voto e l’esibizione canora. Dall’analisi delle evidenze sono stati individuati dal CNAIPIC della Polizia Postale numerosi “PC-Zombie” utilizzati per l’attacco informatico. Le ulteriori analisi e approfondimenti hanno delineato la mappatura geografica degli attacchi provenienti dall’estero.

"Come vincere una battaglia". Se il televoto musicale diventa un'arma di guerra. Paolo Giordano il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

Ma adesso? Come previsto, l'Ucraina ha vinto l'Eurovision Song Contest con una ragionevole quantità di voti delle giurie ma soprattutto con una massa gigantesca di voti popolari.

Ma adesso? Come previsto, l'Ucraina ha vinto l'Eurovision Song Contest con una ragionevole quantità di voti delle giurie ma soprattutto con una massa gigantesca di voti popolari. In 27 nazioni è stata la canzone più televotata (459 voti), in sostanza un plebiscito mitteleuropeo che ha portato il paese sotto attacco dal quarto posto all'irraggiungibile primo. Un risultato che non è scandaloso dal punto di vista musicale ma è altamente simbolico da quello politico.

Già in passato, specialmente la vittoria dell'austriaca Conchita Wurst (2014) e dell'ucraina Jamala (2016) avevano accesso la luce sulla rilevanza geopolitica del voto dell'Eurovision. Nel primo caso, la canzone Rise like a phoenix non era irresistibile (e difatti non ha resistito neanche un minuto nelle classifiche) ma è diventata secondo molti la calamita dei voti chi lotta per i diritti della comunità Lgbtq+. Nel secondo, che ci interessa ancor più da vicino, la canzone di Jamala, intitolata 1944, è ispirata dalla deportazione dei Tartari della Crimea sotto il regime di Stalin. Attuale allora perché la regione era appena stata invasa da Putin. Quell'anno, l'Ucraina se la giocò fino alla fine con il russo Lazarev che, secondo molti, aveva una canzone più convincente dal punto di vista artistico. Però la Russia perse. È l'ennesima conferma di come spesso i risultati delle competizioni popolari abbiano una rilevanza geopolitica che, per snobismo o disinteresse, molti analisti colpevolmente sottovalutano. Ma adesso?

Dopo il plebiscito pro-Ucraina, c'è da attendersi altre dimostrazioni analoghe in altre manifestazioni legate al voto popolare? Ed è giusto mescolare in modo così nitido la musica con la politica, l'arte con la guerra? Le responsabilità, le sorti e i destini di un artista o di un atleta con le vicende dello Stato nel quale è nato? Da una parte, d'istinto, verrebbe da dire di sì. Dall'altra ci sono molte ragioni più argomentate per dire di no. Se fosse accaduto così in passato, dal 1945 in avanti le opere di Wagner, il preferito di Hitler, non avrebbero più dovuto essere rappresentate e invece lo sono state giustamente ovunque, anche alla Prima della Scala. Ed è solo un esempio tra tantissimi. Uno dirà: ma all'Eurovision c'entra il televoto, che misura la «pancia» dei votanti. Non a caso, praticamente tutti i paesi confinanti con l'Ucraina hanno votato in massa per la Kalush Orchestra, a dimostrazione che è stata non soltanto la solidarietà ma anche la paura a rendere così muscoloso e preponderante il verdetto a favore di «Stefania», una canzone che, come ha confermato ieri la moglie di Zelesnky, ha un sensibile valore politico: «È una vittoria per l' Ucraina nella guerra» ha scritto su Telegram. Senza questarilevanza, probabilmente il brano si sarebbe piazzatoa metà classifica oppure un po' più alto, ma difficilmente avrebbe vinto. In ogni caso, al di là dell'apprezzamento in sé, sia i social che l'uomo della strada manifestano un po' di smarrimento di fronte a questa miscela inedita nelle dimensioni, non nello spirito. Come abbiamo visto anche in Italia, spesso la musica ha sposato oppure è diventata simbolo di battaglie politiche. ma quasi mai nel mondo quest'arma è stata così esplosiva e deflagrante. Se la Nato, non le giurie di esperti musicali, dice che questa vittoria rappresenta il sostegno a Kiev di tutta l'Europa e dell'Australia, è evidente che l'Eurovision sia stato un referendum con un esito evidentissimo. Ma adesso?

È stato un caso oppure in tempi stretti le competizioni affidate al voto popolare saranno sottoposte anche a questa variabile? È corretto? La pancia dice sì. Ma la testa è convinta di no.

 Lo show da sempre è anche propaganda. Marco Gervasoni il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

La vittoria dell'Ucraina all'Eurovision non ne varrà una militare, ma politica sì.  

La vittoria dell'Ucraina all'Eurovision non ne varrà una militare, ma politica sì. E che ciò sia avvenuto in Italia, nel paese Nato dall'opinione pubblica più filoputinista, è quasi una nemesi. E un ottimo segnale. Dimostra che la guerra della comunicazione l'ha già vinta Zelensky. C'è chi si è scandalizzato che il presidente ucraino abbia invitato a votare per il suo gruppo, che poi esso abbia vinto, e che gli ucraini abbiano festeggiato. Che leggerezza, che volgarità, sotto le bombe, per delle canzonette. E poi la musica non dovrebbe essere separata dalla politica e dalla guerra? Niente di più vero. Musica e propaganda sono sempre state intrecciate in guerra: vogliamo ricordare l'impegno di Arturo Toscanini, già allora uno dei massimi direttori del mondo, che durante la Grande guerra si recava in trincea a dirigere l'orchestra (ridotta) e si faceva pure applaudire dagli austriaci? Vogliamo ricordare, a proposito di canzoni, il ruolo che svolse, nella Londra bombardata dai tedeschi, una canzone come We'll meet again di Vera Lynn, citata anche da Churchill? E dagli anni Sessanta tutti i festival dei musicisti rock, contro la guerra del Vietnam, contro il nucleare, contro l'apartheid in Sud Africa, e poi dopo la caduta del Muro, e poi la tournée contro Bush jr e la guerra in Irak? Certo, i Kalush Orchestra, i vincitori, non valgono un capello di Bob Dylan e dei Clash e le canzoni dell'Eurocontest sono robetta: e però, mica ci sono più Ronald Reagan o Bettino Craxi, tocca accontentarsi. Poi la politicizzazione della musica iper leggera è cominciata molto tempo fa, basti pensare agli ultimi due decenni di Sanremo, quando si trasformò in un festival controBerlusconi. In che mondo vivono quelli che sono sorpresi o che fanno finta di esserlo? Che guerra e intrattenimento siano ormai orizzonti sovrapposti lo scrissero già Jean Baudrillard e Paul Virilio tra la guerra in Kuwait del 1991 e le Torri Gemelle. E allora non c'erano i social, che hanno accentuato il carattere di spettacolo quotidiano della guerra, in cui peraltro chiunque può illudersi di intervenire, se non di partecipare. Tanto che parlare di propaganda non ha più senso: servirebbe un nuovo vocabolo. Ma certo, questa cosa Zelensky la gestisce assai meglio di Putin. Tanto il primo è smart, elastico, liquido, iper digitale, tanto il secondo è hard, pesante, rigido e analogico: con le sue infermiere che posano accanto ai carri armati, fotografie che ricordano il genere erotico trash del nostro cinema anni Settanta. Le canzoncine insulse non fanno vincere la guerra ma accendono il sentiment (senza la e finale): per tutto il resto, servono le armi vere, che bisogna continuare a inviare in Ucraina. 

"E l'anno prossimo tutti a Mariupol..." Laura Rio il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

La Rai si offre per aiutare l'Ucraina a organizzare l'edizione 2023.

L'anno prossimo tutti a Mariupol. Un sogno. Speriamo una realtà. Perché significherebbe che l'Ucraina avrebbe ricominciato a vivere. Se così sarà, la Rai e la città di Torino saranno in prima linea per aiutare il Paese devastato dalla guerra a realizzare l'Eurovision 2023. Perché, avendo trionfato la Kalush Orchestra, lo show dovrebbe essere organizzato dalla televisione pubblica ucraina in collaborazione con l'Ebu (l'Unione delle emittenti europee). Cosa difficile, a oggi, vista la situazione in cui si trova l'Ucraina. Ma il presidente Zelensky è sicuro: subito dopo la vittoria della band ha twittato: «Faremo di tutto per accogliere l'Eurovision in una Mariupol libera, tranquilla restaurata». «In caso di chiamata collettiva - ci ha risposto il direttore di Raiuno Stefano Coletta nella conferenza stampa di bilancio della manifestazione - la Rai metterà a disposizione dei colleghi ucraini il proprio know-how e la grande esperienza che ha dimostrato in questa edizione». Stessa disponibilità arriva dal sindaco di Torino Stefano Lo Russo. Del resto la Rai e la città di Torino hanno dimostrato non solo di essere in grado di realizzare quasi alla perfezione una manifestazione gigantesca come quella dell'Eurovision, ma di superare tutte le edizioni precedenti per importanza e per qualità.

Certo questa manifestazione entrerà nella storia per la vittoria della Kalush Orchestra, per l'appello alla resistenza lanciato in diretta mondiale, ma rappresenta anche una svolta dal punto di vista musicale e televisivo. A dimostrarlo il forte apprezzamento del pubblico italiano che, per decenni, ha snobbato l'evento. Per la serata finale di sabato si sono collegati su Raiuno 6 milioni 590 mila spettatori pari al 41,9% di share. Tanti in assoluto e tantissimi rispetto allo scorso anno quando - nonostante la vittoria dei Maneskin - la serata da Rotterdam aveva avuto il 25% di share. Tutto ciò significa - come spiega il direttore Coletta - che c'è una grande attenzione sulla manifestazione. Soprattutto da parte dei giovani «per cui il primo canale Rai non è più un'entità evanescente».

Anche i canali social sono esplosi: l'Eurovision è il terzo programma più discusso dell'anno, dopo due serate di Sanremo. Tik Tok, partner ufficiale, ha raggiunto ben 1,2 miliardi di visualizzazioni. Una risposta entusiasta che porta naturalmente a un confronto con Sanremo. Perché, si chiedono i critici, non applicare anche al festival i ritmi serrati, i tempi ridotti delle serate del Contest? E soprattutto perché non puntare solo sullo show musicale, eliminando tutto il contorno di scandali, presenze di attori, sportivi, e altro che non c'entrano? «Ricordo - spiega Coletta - che sono due mondi diversi, il festival è made in Italy, l'Eurovision segue logiche internazionali».

In conclusione l'Eurovision si è trasformato in un supporto planetario alla pace e all'Ucraina. Ma avrà una ricaduta positiva anche sul nostro Paese. Prima di tutto su Torino, dove la manifestazione ha portato importanti risultati dal punto di vista del turismo e dell'immagine (costi che si aggirano sui 13,5 milioni di euro e introiti ancora da calcolare) e ha risvegliato la città dal torpore di questi due anni di pandemia.

Certo, non tutto è funzionato alla perfezione: code immense si sono formate fuori dall' EuroVillage al parco Valentino e alcune ragazze hanno raccontato di essere state molestare durante l'after party inaugurale alla Venaria Reale (ma il sindaco risponde che non risultano gli episodi riportati dalla stampa).

In ogni caso, ora il pensiero vola all'anno prossimo e alla speranza di riascoltare la Kalush Orchestra a Mariupol. Anche con l'aiuto del Belpaese. 

L'Ucraina ha vinto l'Eurovision: basta con le (inutili) polemiche. Francesca Galici il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

La democrazia è una e le sue regole valgono sempre, non solo quando il risultato è quello gradito. Anche all'Eurovision song contest.

All'Eurovision song contest ha vinto l'Ucraina dei Kalush orchestra e sì, era una vittoria prevedibile. Ogni parte in gioco ha fatto la sua parte in questo carosello, consegnando quella che, già dalla vigilia, è stata una vittoria annunciata. No, non è stata una vittoria politica ma figlia di uno slancio sentimentale da parte degli europei. Non ha vinto la musica? Non è del tutto vero. Sì, c'erano canzoni sicuramente più belle in gara, ma l'Eurovision è anche questo e anche la musica, quando necessario, diventa questo.

Spiegare la vittoria dei Kalush orchestra all'Eurovision song contest di Torino, che si è svolto mentre in Ucraina cadono le bombe non è difficile. Il primo posto è stato conquistato grazie a un plebiscito popolare, che ha espresso la sua preferenza attraverso un televoto: si chiama democrazia. Un tempo si diceva che la volontà del popolo era sovrana ma, ultimamente, si direbbe che per alcuni lo è solo se il risultato è quello di gradimento. Facile farla così, una democrazia. La giuria di qualità dell'Eurovision, per intendersi quella chiamata a valutare la musica, non aveva premiato i Kalush orchestra mossa da un sentimento di pietas. Infatti, al termine della votazione dei 40 Paesi chiamati a esprimere la propria opinione, al primo posto non c'era l'Ucraina ma il Regno unito.

Il voto popolare ha poi ribaltato la situazione con oltre 400 punti assegnati ai Kalush orchestra, che hanno consegnato la vittoria all'Ucraina. Il pubblico a casa non sceglie la buona musica, per quella c'è una giuria appositamente selezionata. Creare una polemica e lamentarsi per la vittoria dei Kalush orchestra perché "c'erano canzoni migliori", non ha senso. Il pubblico a casa si è lasciato guidare dall'empatia e ha voluto lanciare un segnale di solidarietà a un popolo sotto le bombe. Per molti questo è un "vergognoso pietismo per lavarsi la coscienza", inutile nell'ottica del conflitto. Intanto i Kalush orchestra hanno annunciato che metteranno in palio il trofeo vinto a Torino e il ricavato verrà interamente devoluto per supportare le truppe ucraine impegnate nella resistenza contro l'esercito dell'invasore russo. Quindi, forse, non è stata una vittoria totalmente inutile.

Certo, probabilmente il prossimo anno l'Ucraina non riuscirà a organizzare nuovamente l'Eurovision song contest, ma questo al momento è l'ultimo dei problemi, anche perché il regolamento ha previsto questa eventualità. All'Eurovision song contest hanno vinto i Kalush orchestra e ha vinto la democrazia. Tutto il resto è solo noise, inutile disturbo acustico da divano, mentre Oleh Psjuk, il frontman dei Kalush orchestra, a poche ore dalla vittoria di Torino, ha salutato la sua ragazza per unirsi alla prima linea dell'esercito ucraino.

Eurovision all’Ucraina e scatta la polemica più stupida del mondo. Insulti e teorie del complotto sulla vittoria della “Kalush Orchestra”. Ma i premi culturali sono (quasi) sempre una questione politica. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 17 maggio 2022.

«La Russia non ha alcun problema con la Finlandia e con la Svezia, reagiremo all’espansione delle infrastrutture militari della Nato». Così Vladimir Putin durante la riunione del Csto, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva che si è svolta ieri a Mosca. La decisione del governo svedese di presentare domanda formale alla Nato seguendo le orme del vicino finnico ridisegna la mappa geopolitica del nord Europa.

Tramonta infatti lo status di neutralità che durava dal secondo dopoguerra e che la stessa Russia con la sua aggressività ha contribuito a mutare. Non a caso a Stoccolma la convergenza politica su questo passo è stata notevole accomunando maggioranza e opposizione. «C’è un’ampia maggioranza nel parlamento svedese per l’adesione alla Nato», ha assicurato il primo ministro Magdalena Andersson dopo un dibattito sulla politica di sicurezza in parlamento. E i risvolti sono immediati. Ieri sono iniziate imponenti manovre militari in Estonia già programmate da tempo, ma che sono tra le più grandi mai realizzate dall’alleanza occidentale quasi ai confini con la Russia. I soldati che parteciperanno all’esercitazione, chiamata in codice Hedgehog, saranno 15mila e arrivano da dieci paesi (tra loro Regno Unito, Stati Uniti e proprio Finlandia e Svezia).

Intanto Putin ha affermato che “nel corso dell’operazione speciale in Ucraina sono state ottenute prove documentali che dimostrano che, in violazione delle convenzioni che vietano le armi batteriologiche e tossiche, sono state effettivamente create componenti di armi di questo tipo nelle immediate vicinanze dei nostri confini e sono stati testati i modi per destabilizzare la situazione epidemiologica nelle ex repubbliche sovietiche”. Al momento queste evidenze non sono state mostrate ma il senso dell’annuncio è esplicitamente diretto contro gli Usa.

Il Cremlino infatti ha denunciato di aver “lanciato da tempo l’allarme sull’attività batteriologica degli Stati Uniti nello spazio post- sovietico. Come sapete, il Pentagono ha decine di laboratori e centri specializzati nella nostra regione comune. E non sono affatto impegnati a fornire assistenza medica pratica alla popolazione dei Paesi in cui hanno avviato le loro attività”. L’agente sul campo incaricato di sviluppare queste armi secondo il capo delle Forze armate russe per la Difesa chimica, biologica e radioattiva, Igor Kirillov, sarebbe la multinazionale farmaceutica Pfizer.

A Mariupol potrebbe essere arrivata una svolta per quanto riguarda la situazione dei civili e dei feriti ancora presenti nei sotterranei delle acciaierie Azovstal; La notizia arriva direttamente dal ministro della difesa russo Sergej Shoigu. “Il 16 maggio, a seguito di negoziati con i rappresentanti del personale militare ucraino bloccato sul territorio dell’impianto metallurgico, è stato raggiunto un accordo sulla rimozione dei feriti” ha spiegato Shoigu il quale ha anche illustrato i termini dell’accordo: “Attualmente è stato introdotto un regime di silenzio nell’area dell’impianto ed è stato aperto un corridoio umanitario, attraverso il quale i militari ucraini feriti vengono consegnati a una struttura medica a Novoazovsk nella Repubblica popolare di Donetsk per fornire a tutti loro l’assistenza necessaria”.

Se sul piano militare la situazione sembra in continuo movimento, sul fronte delle sanzioni invece l’impasse regna sovrana. In sede Ue infatti non c’è ancora nessun accordo circa un embargo per il petrolio russo. Ad ammetterlo è stato l’Alto rappresentante Josep Borrell: “Faremo il massimo per sbloccare la situazione, ma non posso garantire che si arrivi ad un accordo perché le posizioni sono abbastanza forti”. Il riferimento corre all’Ungheria che afferma di non avere ancora ricevuto alcuna nuova proposta seria dalla Commissione europea dopo che Budapest ha chiesto mitigazioni sul costo dell’abbandono del greggio russo.

Eurovision, il retroscena della moglie di Zelensky sui vincitori ucraini: "Chi è davvero Stefania". Libero Quotidiano il 15 maggio 2022

Alla fine i pronostici sono stati confermati e la Kalush Orchestra ha trionfato all’Eurovision Song Contest 2022: ciò significa che l’anno prossimo l’evento si trasferirà dall’Italia all’Ucraina, guerra permettendo. Nonostante fosse ampiamente prevista, la vittoria della band ucraina è stata sorprendente per il mondo in cui è maturata: le giurie dei Paesi in gara non hanno fatto calcoli politici, piazzando l’Ucraina lontana dal podio.

Il televoto del pubblico ha però stravolto l’esito della gara: più di 400 punti sono andati a favore della Kalush Orchestra, che è così riuscita a stravincere. Ciò significa che in tutti i Paesi votanti l’Ucraina è stata tra le prime due preferenze espresse: una sorta di plebiscito a favore del Paese invaso dalla Russia, dietro cui si cela un messaggio politico forte. Non a caso Volodymyr Zelensky si è subito congratulato con la band ucraina, e lo stesso ha fatto la moglie Olena Zelenska. “Signora Stefania - ha scritto su Telegram - mamma di Oleh Psiuk (il frontman della band, ndr), insieme a te siamo orgogliosi di tuo figlio. Insieme a te ci rallegriamo per l’incredibile vittoria della Kalush Orchestra all’Eurovision”.

La moglie di Zelensky ha sottolineato che un trionfo in un evento musicale è comunque “una vittoria per l’Ucraina nella guerra”. “Stefania - ha aggiunto - è stata cantata da musicisti provenienti da Polonia, Lettonia e Francia. È stata cantata dai The Rasmus. Ora il mondo intero canterà un brano su una madre ucraina, in ucraino”.

Da “La Stampa” il 16 maggio 2022.

La reazione spropositata e massimamente aggressiva della Russia alla vittoria ucraina all'Eurovision è riassunta nel post su Twitter di una giornalista, Yuliya Vityazeva, che ha proposto di far esplodere la finale al Pala Olympic Arena di Torino con un missile. Ha scritto: «Bomba con un missile Satana». 

Vityazeva è un volto tv, giornalista putiniana e conduttrice di un talk-show che va in onda su Russia-1, la televisione nazionale russa.

In un articolo di opinione pubblicato sul sito web del quotidiano AiF di Mosca, l'editorialista Vladimir Polupanov ha definito lo spettacolo «noiosa televisione politicizzata» e «falso». Ha scritto che «la competizione ha un cattivo odore di palude in decomposizione» e ha affermato che «quasi nessuno dei vincitori ad eccezione degli Abba» è diventato «grande star». 

Nel frattempo, immagini inquietanti pubblicate dai canali Telegram Pro-Cremlino mostravano l'hashtag Eurovision2022 scritto su una bomba insieme a riferimenti alla Kalush Orchestra. Sul palco, il frontman del gruppo, Oleg Psiuk, ha detto: «Chiedo a tutti voi, per favore, aiutate l'Ucraina, Mariupol. Aiutate l'Azovstal, in questo momento».

Anna Zafesova per “La Stampa” il 16 maggio 2022.

«Help Mariupol, help Azovstal, right now»: l'appello della Kalush Orchestra nella serata finale del concorso dell'Eurovision è stato scritto sulle fiancate di missili e bombe da lanciare sull'acciaieria, con la postilla «Kalush, facciamo quello che avete chiesto». La foto con la «risposta dei russi» è stata postata da Vladimir Solovyov, uno dei più popolari e sguaiati propagandisti putiniani.

Anche altri commentatori chiedono di «vendicare» la vittoria ucraina, e la giornalista nazionalista Yulia Vityazeva scrive ai suoi centomila follower su Telegram «non resta che colpire l'Eurovision con un missile atomico Satana» (dopo essere finita sui siti di notizie internazionali, ora sostiene di aver scherzato, ma in altri post propone di bombardare Kiev).

Perfino la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha reagito alla vittoria dei Kalush Orchestra, prendendo in giro i «costumi nazionali di due streghe con chitarre e breakdance». 

L'Eurovision è un affare politico, o almeno lo è sempre stato per la Russia, che per anni ha visto come missione di Stato quella di conquistare la vittoria al concorso. 

Un'ansia alimentata anche dalla gelosia verso gli ucraini, che avevano vinto nel 2004 - l'anno della «rivoluzione arancione» a Kiev - con Ruslana e nel 2016 con Dzhamala, una tartara della Crimea che ha cantato la deportazione del suo popolo.

Anno dopo anno, Mosca ha inviato sul palcoscenico europeo le star più acclamate, e investito risorse mediatiche cospicue, tutto in cambio di una sola vittoria, nel 2008, a firma di Dima Bilan. Lo show business russo faticava a trovare un format azzeccato, al contrario della folk-pop-dance ormai marchio di fabbrica della musica ucraina. 

Per i commentatori russi però rimaneva sempre il sospetto di un complotto politico. Il popolarissimo cantante ucraino Andrey Danilko - un russofono di Luhansk che si traveste da personaggio comico femminile di Verka Serdiuchka - ha raccontato di essere stato messo nella lista nera del Cremlino dopo aver preso il secondo posto all'Eurovision 2008, con una canzone nella quale, secondo i critici russi, era stata criptata la frase «Russia Goodbye».

Danilko ha ora condannato la guerra ed è finito nella lista dei musicisti, blogger e attori ucraini ai quali la Russia ha vietato l'ingresso per i prossimi cinquant'anni: «Peccato, non potrò godermi i funerali di Putin», è stato il suo commento. 

La guerra ha reso la Russia una reietta nei concorsi internazionali, e quello che era un senso di frustrazione e gelosia ora è diventato rabbia e odio. I propagandisti russi - il concorso ovviamente non è stato trasmesso ufficialmente dalla televisione di Stato - hanno sostenuto che i concorrenti ucraini sono stati salutati da una delle conduttrici polacche con il saluto nazista, e si sono scagliati contro il «baraccone europeo» e la «gayvisione».

Le battute sui «depravati europei», inclusi i «fr... italiani», si sono sprecate, non soltanto a livello di chat private, ma anche da parte di molti personaggi con uno status ufficiale. Il vicepresidente della Duma Boris Chernyshov, per esempio, ha accusato il concorso di essere «truccato dalla politica e dai bot di Internet», denunciando la cancel culture occidentale che «premia gli idioti» e sostenendo che gli ucraini siano «i nuovi Black Lives Matters».

In Russia il BLM è un insulto, e il fenomeno della battaglia per i diritti degli afroamericani è considerato una delle prove del decadimento definitivo dell'Occidente una volta preso a modello. «In questa cultura fake, gli americani e gli europei presto dovranno inginocchiarsi di fronte agli ucraini», scrive la popolarissima anchorwoman Tina Kandelaki. 

Allusioni alle presunte «inferiorità» razziali o sessuali, che non fanno che approfondire l'abisso che separa oggi la Russia dall'Europa, e che solo pochi commentatori - prevalentemente dell'intellighenzia ormai in esilio - ritengono drammatico.

«La Russia non aveva nulla da fare all'Eurovision», scrive la critica Elena Rykovzeva, notando che la furia contro un'Europa che apre le braccia agli ucraini massacrati sia quasi liberatoria per quella parte dell'anima russa da sempre convinta di essere odiata dall'Occidente. 

La vittoria musicale dei Kalush Orchestra si fonde in questa visione con la Finlandia e la Svezia che "tradiscono" il vicinato neutrale con la Russia per farsi proteggere dalla Nato. 

È quella faccia dell'orgoglio nazionale che Emmanuel Macron si preoccupa di "salvare", temendo che un putinismo che si sente rifiutato - indipendentemente dalle proprie colpe - possa sognare una vendetta nucleare perfino contro il palco musicale di Torino. Ma intanto il produttore Igor Prigozhin propone di consolarsi con un concorso canoro autoctono, dove le regole le detta Mosca, una Eurovision senza più l'Europa.

Da leggo.it il 16 maggio 2022.

Dopo la vittoria all’Eurovision Song Contest, per la Kalush Orchestra è tempo di rientrare a casa. Ma soprattutto è tempo di tornare al fronte per difendere il proprio Paese dall'invasione russa. È il caso di Oleh Psjuk, il frontman della band, che ha salutato la sua ragazza per unirsi alla prima linea nella guerra in Ucraina. 

Secondo quanto riportato dal Daily Mail, Psjuk dopo aver vinto l'Eurovision ha salutato la sua ragazza per unirsi alla prima linea nella guerra in corso in Ucraina contro la Russia. Il frontman del gruppo folk rap è stato fotografato mentre abbracciava la sua ragazza Oleksandra fuori dal suo hotel a Torino, mentre era in partenza per difendere l'Ucraina dalla Russia di Vladimir Putin.

Indossando il suo caratteristico cappello rosa e portando uno zaino, gli effetti personali di Psjuk sono stati messi in un taxi pronto per dirigersi verso l'aeroporto. Ieri sera, il presidente Zelensky ha promesso di tenere l'Eurovision a Mariupol l'anno prossimo, nonostante attualmente la città sia assediata dalle forze russe. 

Zelensky ha dichiarato: «Il nostro coraggio impressiona il mondo, la nostra musica conquista l'Europa. Il prossimo anno l'Ucraina ospiterà l'Eurovision. Per la terza volta nella sua storia e, credo, non l'ultima. Faremo del nostro meglio per ospitare un giorno i partecipanti e gli ospiti dell'Eurovision a Mariupol ucraino. Libera, pacifica, ricostruita. Ringrazio la Kalush Orchestra per questa vittoria e tutti coloro che ci hanno dato i voti. Sono sicuro che il suono della vittoria nella battaglia con il nemico non è lontano. Gloria all'Ucraina».

I risultati dell'Eurovision sono un messaggio di sfida a Vladimir Putin vista anche l'esclusione della Russia dalla Kermesse musicale.

Luca Dondoni per “La Stampa” il 16 maggio 2022.

«A breve, durante la finale dell'Eurovision, il continente e il mondo intero ascolteranno le parole della nostra lingua. E credo che, alla fine, questa parola sarà "Vittoria"! Europa, vota la Kalush Orchestra, sosteniamo i nostri connazionali! Sosteniamo l'Ucraina!». 

Il presidente Zelensky poco prima della finale dell'Eurovision Song Contest aveva spostato l'interesse per la gara musicale sul piano politico postando un messaggio sui social che pochi minuti dopo, alla fine dell'esibizione, la band ucraina ha ribadito per bocca del suo leader Oleg Psyukh sfidando il regolamento della manifestazione: «Vi chiediamo di aiutare Mariupol, aiutate l'Azovstal adesso! Slava Ukraïni».

Subito si è temuto che la band potesse essere squalificata per aver portato un messaggio politico su un palco che non prevede nessun tipo di dichiarazione legata a bandiere o a partiti, anche se gli organizzatori hanno chiarito a gara in corso che non ci sarebbe stata alcuna esclusione. 

Oleg, non avete avuto paura che dopo il vostro proclama l'European Broadcasting Union potesse squalificarvi?

«Prima di tutto vogliamo ringraziare tutti gli ucraini che hanno votato per noi in tutto il mondo e quest'anno è stato davvero speciale per noi, per cui gloria all'Ucraina. Non abbiamo nemmeno pensato alla squalifica anche perché abbiamo paura, molta più paura per quelle migliaia di soldati che sono bloccati nella Azovstal circondata da 21mila soldati russi piuttosto che per noi.

Il nostro compito era ed è quello di informare più gente possibile su ciò che sta accadendo. Vogliamo riuscire a raggiungere le persone che siedono sugli scranni dei governi occidentali così da poter ricevere il maggior numero di aiuti possibili e i soldati possano e le famiglie ucraine possano essere salvate».

Il presidente Zelensky vi ha già chiamato per complimentarsi?

«Non ho ancora avuto ancora la possibilità di chiamarlo e di parlarci perché, lo immaginerete, ha cose più importanti da a fare. Dico solo una cosa però: spero, come ha detto parlando di una prossima Mariupol ricostruita, che l'anno prossimo la nostra nazione possa organizzare l'Eurovision in pace e tranquillità».

Pensate che il pubblico vi abbia votato per la situazione attuale che sta vivendo il vostro Paese o per la bontà vostra canzone? Dai primi dati sommari avete primeggiato in quasi tutte le nazioni.

«"Stefania", il nostro pezzo, era numero uno in parecchie classiche prima dell'Eurovision e secondo i bookmakers era nella top five di chi scommetteva sulla nostra vittoria.

In ogni nazione che abbiamo visitato prima dell'evento siamo stati accolti benissimo e dobbiamo ringraziare tutti perché ci hanno portato in vetta».

Avete vinto ricevendo il più alto numero di voti nella storia dell'Eurovision Song contest con un pezzo rap. Un genere che in questa rassegna non aveva mai veramente sfondato.

«Rap e hip hop sono la musica numero uno nel mondo e fra otto anni magari sarete sorpresi se in gara ci saranno canzoni pop classiche come la maggior parte di quale che avete ascoltato qui. Il cambiamento è in atto e il rap sarà il genere dominante». 

Oleg, lei è il leader del gruppo e oggi compirà 28 anni ma fra 24 ore dovrà tornare in Ucraina perché per tutti voi cessa il permesso speciale di espatrio che lo Stato vi ha accordato per l'Eurovision. Tornerete in patria per combattere?

«Siamo pronti a combattere e andare avanti sino alla fine se serve, perché le nostre famiglie sono là e anche in questo momento siamo preoccupati come fossimo con loro perché ci fa male sapere che stanno soffrendo».

Sua madre Stefania, alla quale è dedicata la canzone che ha vinto, è qui con lei. Cosa le ha detto appena saputo della vittoria?

«Che è molto orgogliosa di men e non vediamo l'ora di passare del tempo insieme». 

Qual è stato il momento più eccitante qui a Torino?

«Quando ci siamo riuniti e siamo riusciti a ritrovarci davanti a un microfono tutti insieme. Per parecchio tempo non abbiamo nemmeno avuto la possibilità tra noi di provare la canzone abbiamo dovuto fare tutto via zoom o al telefono. Qui abbiamo avuto la possibilità di usare dei microfoni, provare le luci, la nostra performance tutti insieme. Una cosa normale ma che per noi non lo era più da un pezzo».

Con questa vittoria avete capito che l'Europa vi ama, ma come farete a continuare ed essere creativi in questi tempi così difficili?

«La cultura ucraina e le nostre radici non sono state sradicate. Abbiamo testimoniato che sono vivissime. Speriamo che da oggi la gente voglia scoprire la musica, i film ucraini e appena si potrà e sarà tutto finito vorrà visitare l'Ucraina. Questo è il messaggio più importante, insieme a quello sulla fine della guerra che abbiamo portato al mondo».

Chi avreste votato fra i concorrenti delle altre nazioni?

«Mahmood e Blanco e quindi l'Italia, ma anche la Moldavia, l'Inghilterra e la Polonia».

Francesco Borgonovo per “La Verità” il 16 maggio 2022.

C'è chi rischia la vita sul campo, o nelle viscere di una acciaieria di Mariupol. E c'è chi rischia la squalifica da un festival musicale per aver gridato: «Aiutate il popolo ucraino, aiutate Mariupol!». 

Il nuovo fronte della guerra è ormai il fronte del palco, e in fondo non stupisce perché le armi più efficaci fornite dall'Europa a Kiev sono quelle della propaganda. Così può accadere che pure l'Eurovision - kermesse musicale dai più considerata ridicola, almeno fino a quando non l'hanno vinta i Maneskin e allora vai con le celebrazioni per la loro carica «draghiana» - divenga occasione per fare cantare alle folle il coro «Forza Ucraina».

No, non stupisce, anzi tutto rientra nel grande spettacolo del conflitto immaginario che da quasi tre mesi si combatte qui in Occidente. 

Le nostre imprese eroiche consistono nell'acquisto delle magliette con la bandiera azzurra e gialla su Amazon o presso altri rivenditori, magari prodotte da qualche disgraziato sottopagato in qualche sperduto angolo del mondo che ha la sfortuna di essere bombardato e non da Putin, dunque nessuno se lo fila. Il gesto guerriero è quello di Damiano dei Maneskin, mezzo nudo, che grida «Fuck Putin» suscitando l'eccitazione del pubblico, e guadagnandosi l'ennesima patacca da ribelle, come se ci volesse del coraggio a seguire la corrente. Infine, l'Eurovision di Torino col suo patriottismo plastificato.

Vince, pensa un po', un gruppo ucraino, la Kalush Orchestra, che invoca - anche giustamente - il sostegno delle folle per la propria causa. L'elemento grottesco lo fornisce Volodymyr Zelensky in persona, con un videomessaggio trasmesso via Telegram poco prima dell'esibizione dei suoi compatrioti musicisti. 

«A breve nella finale dell'Eurovision, il continente e il mondo intero ascolteranno le parole della nostra lingua. E credo che, alla fine, questa parola sarà "Vittoria!". Europa, vota la Kalush Orchestra», ha scandito il presidente ucraino, al quale - a questo punto - manca soltanto di intervenire in collegamento a sagre della porchetta e feste private.

Immancabile t-shirt verde militare, perché deve essere simbolicamente evidente il suo status di belligerante, il nostro si è comportato come fece Chiara Ferragni quando invitò i suoi numerosi follower a sostenere il marito Fedez nel televoto. E in effetti la strategia ha pagato. 

«Il nostro coraggio impressiona il mondo, la nostra musica conquista l'Europa!

Per la terza volta nella sua storia. E credo non per l'ultima volta», ha aggiunto poi Zelensky in un post su Instagram. «Faremo di tutto per accogliere i partecipanti e gli ospiti dell'Eurovision a Mariupol. Libera, tranquilla, restaurata! Grazie per la vittoria della Kalush Orchestra e a tutti quelli che ci hanno votato».

A stretto giro, ecco arrivare anche il commento di Olena Zelenska, la First lady, che si è complimentata con il fondatore del gruppo vincitore: «Signora Stefania, mamma di Oleh Psiuk, insieme a te siamo orgogliosi di tuo figlio. Insieme a te ci rallegriamo per l'incredibile vittoria della Kalush Orchestra all'Eurovision». E ancora: «Stefania è stata cantata da musicisti provenienti da Polonia, Lettonia e Francia. È stata cantata dai The Rasmus. Ora il mondo intero canterà una canzone su una madre ucraina - in ucraino. Congratulazioni alla Kalush Orchestra e tutti noi per una vittoria così importante».

Fin qui, tutto bello e sacrosanto. La parte straniante sta in un commento che i nostri media hanno recepito senza un plissé: la vittoria all'Eurovision, per la Zelenska, è «una vittoria per l'Ucraina nella guerra». 

Capito? Non una vittoria simbolica che sicuramente può giovare al morale, ma proprio una vittoria nella guerra. E il pubblico grida mentre il sorridente Volodymyr parla di un Eurovision a Mariupol, che attualmente è controllata dai russi. Avete idea dello spargimento di sangue che servirebbe per consentire il concretizzarsi di una simile proposta? Forse no. Anzi, sicuramente no, da queste parti non ce ne rendiamo conto, perché la guerra vera - che macina ossa e sangue e tendini e denti - non la sfioriamo nemmeno. 

La faremo pagare economicamente fra qualche mese a un po' di poveri cristi delle fasce sociali italiane più basse, ma per il resto la combattiamo con l'immaginazione, convinti che sia roba da Netflix, che prendere parte alla battaglia sia come mettere mi piace su Facebook. Sì, che eroismo ci vuole a votare gli ucraini al festival! Clicchiamo tutti contro il perfido Putin! Pensate, apprendiamo dal Corriere della Sera che c'erano perfino temibili hacker russi pronti a sabotare il televoto! Che rischio abbiamo corso!

Ci affanniamo da tempo a ripeterlo: quella in corso non è una guerra di civiltà. Ma anche qui, ancora più che in Russia, si sta facendo di tutto per renderla tale. L'Eurovision, in questo quadro, è la risposta occidentale alla parata moscovita del Giorno della Vittoria. Solo che qui si esibiscono paillettes, lustrini, ridicoli e stereotipati baci gay, e un po' di tette e culi per gradire, come se la tanto decantata libertà europea fosse tutta lì, nel baraccone.

È per questo che dovremmo combattere? Milan Kundera, in un bel testo del 1983, si chiedeva quale fosse la grandezza che l'Europa aveva da opporre al comunismo sovietico dopo il crollo della religione prima e della cultura tradizionale poi. Ecco la risposta: noi offriamo giovani di sessi vari ed eventuali che ripetono slogan come i piccoli pionieri, e ancheggiano esattamente come quelli marciavano.

A ognuno la sua ideologia, come no. E a noi tocca la fase terminale dell'individualismo, il liberalismo reale, in cui la democrazia è televoto, la comunità è solo folla, l'amor patrio è una bandierina comprata al chiosco, il coraggio è una posa. Gloria all'Ucraina, mille like. L'anno prossimo, Eurovision a Mariupol? Fantastico. Ma che lo organizzi Azov, per carità.

Vittoria, polemiche e accuse. Kalush Orchestra, la propaganda (“bombe russe con frasi band”) e il video a Bucha: “Stefania inno vittoria mamma Ucraina”. Redazione su Il Riformista il 15 Maggio 2022. 

Vittoria, polemiche e propaganda. Il giorno dopo il trionfo agli Eurovision 2022 di Torino della band ucraina Kalush Orchestra, sui social a tenere banco è la canzone “Stefania“, il video girato nelle zone segnate dalla guerra e le reciproche accuse tra Kiev e Mosca.

Se da una parte i media russi accusano l’Europa di aver dato in là a una vittoria politica nel contest musicale, dall’altra le autorità ucraine rilanciano e accusano l’esercito russo di lanciare bombe sull’acciaieria Azovstal con sopra le frasi pronunciate dal leader della band Oleh Psjuk subito dopo la vittoria agli Eurovision. La denuncia arriva dal consigliere del sindaco di Mariupol Petro Andriushenko che pubblica su Telegram alcune immagini, rilanciate puntualmente dai media ucraini.

Immagini, è bene sottolinearlo, la cui autenticità è impossibile da verificare. Nelle foto si vedono bombe, non ancora sganciate, con delle scritte in inglese e in russo con un pennarello nero. “Aiutate Mariupol, aiutate l’Azovstal, ora“, è scritto in inglese su un ordigno, ovvero le parole pronunciate dal frontman dei Kalush dopo la performance. Su tutte le bombe è riportata la data di ieri, “14.05”. Su un’altra bomba, secondo quanto riporta Ukrinform, appare la scritta in russo “Kalush, come hai chiesto. Su Azovstal” “Questa è la reazione dell’esercito russo alla nostra vittoria all’Eurovision 2022”, scrive nel testo che accompagna le tre fotografie il portavoce del vicesindaco.

Nel giro di poche ore sfiora le due milioni di visualizzazioni, su Youtube, il video della canzone “Stefania” girato successivamente tra le macerie della guerra e nello specifico a Borodyanka, Irpin, Bucha e Gostomel, le città ucraine dell’Oblast di Kiev martoriate dall’occupazione delle forze russe.

“Una volta ho dedicato questa canzone a mia madre e, quando è scoppiata la guerra, la canzone ha assunto molti nuovi significati” si legge nella didascalia del filmato. “Sebbene nella canzone non ci sia una parola sulla guerra, molte persone hanno iniziato ad associare la canzone alla madre Ucraina. Inoltre, la società iniziò a chiamarlo l’inno della nostra guerra. Ma se Stefania è ora l’inno della nostra guerra, vorrei che diventasse l’inno della nostra vittoria”.

“È un brano su mia madre – ha raccontato Oleh Psiuk – Non le ho mai dedicato una canzone e non sono affatto sicuro che la nostra relazione sia stata particolarmente intensa in passato, ma so che si merita questa canzone. Questa è la cosa migliore che abbia mai fatto per lei“. Le origini della band ucraina appaiono anche nei loro outfit, con i tradizionali giubbotti ‘hutsul keepar’, il cappello da pescatore rosa su misura in tipico stile ucraino e il travestimento da Hutsul molfars, ovvero maghi e sciamani e guaritori tra il popolo Hutsul dell’Ucraina occidentale. L’abito di ogni membro della band presenta anche elementi di colore nero, simbolo di oscurità e di fertilità della terra, e rosso, a indicare amore e sofferenza.

Parole di “Stefania” che dopo l’invasione russa hanno assunto un significato diverso come ha sottolineato anche la moglie del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Olena Zelenska. “Signora Stefania, mamma di Oleh Psiuk, insieme a te siamo orgogliosi di tuo figlio. Insieme a te ci rallegriamo per l’incredibile vittoria della Kalush Orchestra all’Eurovision” perché si tratta di “una vittoria per l’Ucraina nella guerra”. E ancora: “Stefania è stata cantata da musicisti provenienti da Polonia, Lettonia e Francia. È stata cantata dai The Rasmus. Ora il mondo intero canterà una canzone su una madre ucraina – in ucraino. Congratulazioni alla Kalush Orchestra e tutti noi per una vittoria così importante”.

La traduzione di ‘Stefania’

Madre Stefania, Stefania mia madre

Il campo è in fiore, ma i suoi capelli stanno diventando grigi

Madre, cantami la ninna nanna

Voglio sentire la tua cara parola

Mi cullava da piccola, mi dava un ritmo

E non puoi togliere la forza di volontà in me

Come l’ho presa io da lei

Penso che ne sapesse più di re Salomone

Troverò sempre la strada di casa

Anche se tutte le strade sono distrutte

Non mi sveglierebbe nemmeno se fuori ci fosse un temporale

O se c’è stata una tempesta tra lei e la nonna

Si fidava di me più di tutti gli altri

Anche quando era stanca, continuava a cullarmi

Ninna nanna, ninna nanna

Madre Stefania, Stefania mia madre

Il campo è in fiore, ma i suoi capelli stanno diventando grigi

Madre, cantami la ninna nanna

Voglio sentire la tua cara parola

Non sono più un bambino,

Ma mi tratterà sempre come tale

Non sono più un bambino

Ma continua a preoccuparsi per me, ogni volta che esco

Madre, sei ancora giovane

Se non apprezzo la tua gentilezza

Sto andando verso un vicolo cieco

Ma il mio amore per te non ha fine

Madre Stefania, Stefania mia madre

Il campo è in fiore, ma i suoi capelli stanno diventando grigi

Madre, cantami la ninna nanna

Voglio sentire la tua cara parola

DAGONEWS il 15 maggio 2022.

Vestite con le uniformi da infermiere di un'epoca passata, influencer e modelle posano accanto ai carri armati nel tentativo di promuovere la guerra in Ucraina. 

Le "Sisters for Victory", alcune delle quali sono mogli e fidanzate di soldati in guerra, si sono mescolate alle truppe di Vladimir Putin, mostrando la Z diventata ormai il simbolo della Russia. Gli scatti sono stati realizzati nella regione di Luhansk, nell'Ucraina orientale, e sono stati pubblicati su Instagram e sul social media russo VK.

Tra le ragazze in posa c’era Alyona Boyko, che ha oltre 30.000 follower su TikTok e Instagram e che sui social si è lanciata in un messaggio di propaganda: «È molto importante non arrendersi ora, essere più forti nonostante tutte le difficoltà. I tempi difficili passeranno e prima o poi tutto andrà bene». Violetta Moskalenko, 19 anni, che ha più di 3.000 follower su Instagram, è una modella che ha preso parte alla Luhansk Fashion Week.

Tra le altre "infermiere" la modella Maria Okorokova e l'attrice Anastasia Chepurova. Valeria Rusina è una studentessa di medicina, Sofia Vorobyrova, 23 anni, è una pediatra mentre Anastasia Migal, 20 anni, è una praticante avvocato.

Mosca e l'operazione simpatia in Italia. “Così facevamo propaganda al servizio di Putin”, la rivelazione di Massimo Micucci. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Maggio 2022. 

Curare la reputazione di Vladimir Putin per l’Italia. Renderlo meno antipatico, più popolare. Questo, in sintesi, l’incarico ricevuto a Roma dall’agenzia Reti di Massimo Micucci. Un compito portato avanti fino a qualche anno fa e basato sul monitoraggio dei giornali e sulla preparazione di strategie di risposta agli eventuali attacchi. Un servizio che ha preso il via quando i rapporti tra Italia e Russia erano ben diversi da oggi e poi interrotto senza ripensamenti. Perché il cliente è di quelli spigolosi. «E qualcosa di più: un cliente che ha modalità di lavoro difficilmente compatibili, nell’ambito della comunicazione e delle media relations, con le nostre», ammette il titolare di Reti, azienda specializzata nel lobbying e public affairs che per anni ha curato l’immagine percepita sui media italiani – televisioni, radio, carta stampata – per conto della Presidenza della Repubblica russa.

La vicenda è risalente negli anni: nasce addirittura nel 2006 quando Ketchum, il gigante americano delle Pr, riceve nei suoi uffici di New York una notizia inattesa: una maxi consulenza da Mosca, voluta da Putin in persona. L’incarico iniziale era riferito ad attività di media intelligence per il Cremlino su America, Europa e Giappone. “Cosa pensano di noi, cosa dicono di noi, come far cambiare loro idea”, era stato il briefing iniziale. Il cliente era la Presidenza della Russia: Putin, prima. Medvedev poi. Infine ancora Putin, per lunghi anni. Per l’Europa devono individuare un partner operativo: incaricano GPlus, che aveva sede a Bruxelles, Parigi e Berlino. Ed è GPlus a mettere sotto contratto agenzie di media intelligence negli altri paesi-chiave in cui l’opinione pubblica doveva essere sensibilizzata: Uk, Spagna. E naturalmente l’Italia. Putin all’epoca puntava ad entrare nelle grazie dell’Europa tanto da lanciarsi perfino a ipotizzare un trattato associativo con la Ue. La priorità era rafforzare il ruolo russo nel G8 e ammorbidire l’opinione pubblica occidentale. GPlus per l’Italia scelse Reti, allora guidata da Massimo Micucci. La sede era all’ultimo piano di Palazzo Grazioli. Sopra agli appartamenti privati di Silvio Berlusconi, dove trovava posto anche il notorio lettone, omaggio di Putin al Cavaliere.

GPlus si avvaleva di consulenti importanti, in tutti i Paesi Ue. Per l’Italia, qualcuno aveva collaborato con il governo Prodi. Poi c’erano inglesi che avevano collaborato con Tony Blair. Dirigenti e funzionari formatisi in un’epoca in cui Putin non era affatto un nemico ma un interlocutore valido e strategico. E benché Mosca controllasse tutto direttamente, con l’Italia si parlava tramite accorte misure di filtro. «Noi per la verità non abbiamo mai visto un russo. Questa cosa si faceva tramite intermediari». Come funzionava? «Entro le 8 del mattino, ora italiana, dovevamo mandare a Londra una rassegna stampa sintetica. Quella che in gergo tecnico si chiama clipping. Sulla base di questa, la cabina di regia decideva il da farsi. L’obiettivo era chiaro: monitorare la stampa, capire chi scriveva cosa e perché, con l’intento, nei desiderata del Cremlino, di mutare l’atteggiamento complessivo verso Putin. «Il sentiment doveva passare da negativo a neutrale. Perché poi gradualmente, in una fase semmai successiva, si sarebbe dovuto agire per portarlo da neutrale a positivo», ci dice una delle quattro risorse dedicate al progetto.

«Era un lavoro impegnativo. Sette giorni su sette, organizzato per turni. Doveva sempre esserci una reperibilità, perché poteva arrivarci in ogni momento l’input di stabilire un contatto, di valorizzare una notizia», racconta chi era nel team. Un lavoro inizialmente focalizzato sul presidente russo, per poi estendere il proprio raggio d’azione: «A un certo punto ci hanno chiesto di monitorare non solo quello che si diceva di Putin, ma tutto ciò che si diceva di Gazprom e del gas russo», racconta Micucci. Uno spostamento interessante: Gazprom diventa parte dell’apparato comunicativo di Putin. Perché autentica cassaforte del Tesoro di Mosca? Non solo. Non tutti sanno che Gazprom, che a Roma ha sede in via Benaglia 13, traversa di viale Trastevere, è diventata formalmente proprietaria di V-Kontakte, il potentissimo social network che in Russia hanno praticamente tutti. V-Kontakte riunisce in sé la funzione di Facebook e di Whatsapp: ha la bacheca per i post, le stories, permette di scaricare musica, video virali, di fare shopping online e di scambiare messaggistica in modo gratuito. Sui suoi server girano milioni di chat ogni giorno: è la modalità di condivisione delle notizie che il regime diffonde. Reti, GPlus e Ketchum non se ne sono mai serviti: interagivano con i social network attraverso le piattaforme mainstream, e puntavano ai giornali e alle televisioni. Il loro interlocutore a Mosca era Dimitrij Peskov, attuale portavoce di Putin.

«Ricevevamo gli input da Peskov anche se il responsabile dei rapporti tra Putin e l’informazione era in un primo tempo Alexey Gromov, uomo di fiducia di Putin che però non parlava quasi per niente inglese». Reti conferiva ogni giorno a GPlus una rassegna ragionata sull’Italia, dove gli articoli venivano indicati con priorità di intervento. «Qui si diceva di replicare, lì di soprassedere», ci spiega. «Si trattava di lavorare su singoli contenuti, su notizie che dovevano cambiare segno, essere tradotte positivamente per i lettori italiani». Ma i nodi vengono al pettine. «Una parte dell’élite del Cremlino voleva interloquire apertamente con tutti i giornalisti occidentali, un’altra era più rigida, legata a un metodo da guerra fredda. Ci sembrò che volessero una lista di amici e nemici. Cosa che non abbiamo mai fatto», prosegue Micucci. «Ed è nato un conflitto di fiducia. A un certo punto abbiamo interrotto il rapporto».

Per l’agenzia, sembra di capire, fu un sospiro di sollievo. Ketchum, da New York, interrompe nel 2016 il servizio. Il danno economico per gli italiani di Reti non fu rilevantissimo. «Non era il primo cliente, parliamo di un budget al di sotto dei duecentomila euro annui – specifica Micucci –. Noi italiani eravamo pagati da GPlus, che a sua volta era pagata da una banca russa. Ho poi visto da un report americano che Ketchum complessivamente riceveva cinque milioni per sei mesi di queste attività». Se altri hanno portato avanti il lavoro, adeguandosi ai desideri di Mosca, Micucci non ne è a conoscenza. L’infowar preventiva di Putin, le attività di Media intelligence per ammorbidire l’opinione pubblica sono certamente stati asset strategici del Cremlino per preparare il terreno in vista della guerra ad Ovest.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Da liberoquotidiano.it il 13 maggio 2022.

Il costo della propaganda russa. un tema affrontato a PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7, la puntata è quella di giovedì 12 maggio. Ospite in collegamento ecco Alexander Nevzorov, giornalista dissidente russo, il quale punta il dito contro Vladimir Putin e svela come funziona la macchina della propaganda dello zar. Una macchina oliata con un'infinità di rubli, stando a quel che sostiene.

 "Cari miei fratelli italiani, cercate di capire: se avete a che fare con una persona che in un modo o nell'altro è legato ai mezzi di informazione in Russia non avete a che fare con un giornalista, ma con l'ennesimo servo di Putin", premette Nevzorov, arrivando dritto al punto.E questo "servo di Putin", riprende, "è o terrorizzato o ha a disposizione infinite possibilità monetarie. Voi nemmeno vi immaginate le cifre con le quali Putin paga la propaganda. Parliamo di quantità cosmiche, enormi", rimarca.

E ancora: "Vi suggerisco di non perdere tempo ad ascoltare i propagandisti del Cremlino, mai: dovete capire che al di là delle menzogne da queste persone non sentirete mai altro. Un cadavere può essere conservato solo in formaldeide, altrimenti si macera: ecco, il putinismo può conservarsi solo all'interno di forti menzogne", conclude Nevzorov.

Marco Leardi per ilgiornale.it il 2 maggio 2022.

Un'onda radioattiva travolge la Gran Bretagna e la sommerge del tutto, fino a cancellarla. La potenza atomica ridisegna così il pianeta. La folle farneticazione viene descritta con voce ferma e perentoria sulla tv russa, la domenica sera. E siccome le parole non bastano, al gentile pubblico vengono pure proposte delle immagini esemplificative: con una simulazione grafica, il delirio distruttivo prende forma sul piccolo schermo. Lasciano increduli le sequenze andate in onda nelle scorse ore su Russia1, l'emittente di Stato vicinissima al Cremlino che ha trasmesso le minacciose affermazioni anti-occidentali del conduttore Dmitry Kiselyov.

Il volto televisivo, noto anche come "il portavoce di Putin", ha paventato davanti alle telecamere l'ipotesi di cancellare la Gran Bretagna con un attacco nucleare. In particolare ha descritto la possibilità di "far precipitare" l'isola "nelle profondità del mare" utilizzando il drone sottomarino Poseidon, un enorme siluro autonomo caricato con delle testate nucleari. Il veicolo subacqueo - ha spiegato il propagandista dello Zar - "si avvicina al bersaglio alla profondità di un chilometro e a 200 chilometri orari. Non c'è alcun modo di fermarlo". Poi, sottolineando il calibro dell'arma in dotazione ai russi, ha aggiunto che "ha una potenza da oltre 100 megatoni". Ben superiore a quella della bomba sganciata su Hiroshima.

L'esplosione di quest'arma vicino alle coste britanniche, ha proseguito il conduttore, "provocherebbe uno tsunami gigantesco con onde alte 500 metri", che travolgerebbe interamente il Regno Unito. "Un'esplosione del genere porta dosi elevatissime di radiazioni, passerà sopra qualsiasi cosa e trasformerà tutto ciò che resta in un deserto radioattivo, inutilizzabile per qualsiasi cosa. Ti piace questa prospettiva?", ha aggiunto Kiselyov scandendo con forza le proprie parole. Intanto, le sue affermazioni venivano accompagnate da una angosciante grafica che simulava gli effetti distruttivi descritti.

Una folle esibizione di potenza dai toni minacciosi, forse l'ennesima provocazione propagandistica. Sta di fatto che, ancora una volta, sulla tv russa sono andate in onda scene surreali, per quanto preoccupanti. Kiselyov, peraltro, recentemente aveva messo in guarda il Regno Unito con l'ipotesi di un attacco con il missile nucleare Sarmat 2, testato nelle settimane precedenti dalla Russia. "L'isola è così piccola che Sarmat potrebbe affondarla una volta per tutte. Basterebbe premere un bottone per cancellare l'Inghilterra per sempre", aveva detto.

Sogni di distruzione inviati nell'etere, scenari tremendi evocati con agghiacciante tranquillità. Se non ci fossero le immagini a documentare tutto ciò, non ci si crederebbe.

Da corriere.it il 30 aprile 2022. 

Il Primo canale russo ha mostrato una simulazione della distruzione che le armi atomiche potrebbero causare sulle città europee. Mosca ribadisce di non volere una guerra nucleare, ma la retorica russa ha ormai inquadrato quella in Ucraina come una battaglia nella più vasta guerra tra Russia e Occidente.

Sin dall'inizio del conflitto, la tv russa ha svolto un ruolo decisivo nel definire che cosa i russi dovessero sapere della guerra in corso in Ucraina. E sin dall'inizio, si è trovata nella condizione di negare la realtà — nessuno è autorizzato a definire quanto sta avvenendo «una guerra», ad esempio —, ribaltare le accuse (definendo «fake news» massacri come quello di Bucha), trovare sentieri impervi per raccontare i fatti in arrivo dal campo (come nel caso di chi chiedeva di vendicare l'affondamento della nave ammiraglia della flotta del Mar Nero, la Moskva, senza aver mai riconosciuto che l'incrociatore era stato colpito da un missile ucraino).

Ora, però, la tv di Stato sta ampliando il suo ruolo — e gli analisti occidentali vedono, nella narrazione della guerra che ne deriva, un pericolo crescente. Nelle scorse ore, ad esempio, sulla tv russa è stato mostrata una raggelante simulazione di come potrebbe svilupparsi un attacco nucleare russo nei confronti di alcune capitali europee — Londra, Berlino, Parigi. Secondo alcuni ospiti di uno dei principali talk show russi, «60 minuti», ospitato dal Primo canale, queste città verrebbero polverizzate entro 200 secondi dal lancio dei missili dalla base di Kaliningrad. 

Aleksey Zhuravlyov, presidente del partito nazionalista Rodina, ha detto che «basterebbe un missile Sarmat e le isole britanniche non esisterebbero più». «Sto parlando seriamente», ha precisato, mentre un altro ospite spiegava che «anche la Gran Bretagna» dispone di armi nucleari, e che «nessuno sopravvivrebbe a questa guerra». 

Che la sortita di Zhuravlyov non fosse inattesa lo ha dimostrato il fatto che la tv ha a quel punto mostrato una grafica con l'ipotetica traiettoria dei missili — che apparentemente potrebbero essere lanciati da Kaliningrad, enclave russa incastonata tra Polonia, Lituania e Mar Baltico — verso Berlino («106 secondi» per l'impatto), Parigi («200 secondi») e Londra («202 secondi»). 

Le frasi pronunciate sul Primo canale arrivano mentre la Russia continua a sostenere di non avere alcuna intenzione di ricercare un confronto nucleare con l'Occidente.

È stato però Vladimir Putin, tre giorni dopo l'avvio dell'invasione dell'Ucraina, a ordinare di mettere in stato di allerta il sistema di deterrenza nucleare.

Durante un incontro con il ministro della Difesa Shoigu al Cremlino, Putin aveva detto che «i Paesi occidentali non stanno soltanto imponendoci sanzioni ostili, ma leader di grandi Paesi della Nato stanno facendo affermazioni aggressive nei confronti della Russia. Per questo ordino di mettere in allerta il sistema di deterrenza. Le conseguenze», aveva detto, «saranno come non si sono mai viste nella storia». 

La scorsa settimana Putin aveva detto che i missili ipersonici di Mosca avevano la capacità di superare ogni sistema di difesa al mondo. A mettere in allarme gli analisti occidentali, più che l'ipotesi di un utilizzo di armi nucleari su capitali europee, è il fatto che la tv russa è stata invasa da dichiarazioni che invocavano l'escalation — presentandola come necessaria per vincere una sfida esistenziale. Il vice presidente della Duma l'ha definita «uno scontro metafisico tra le forze del male e quelle del bene, una guerra santa che dobbiamo vincere».

In questo senso, come scritto da Paolo Valentino qui, il trionfo dell'ala massimalista all'interno del Cremlino si è già tradotto in messaggi televisivi estremamente chiari. Un conflitto a oltranza quindi, senza alcuna preoccupazione dei costi militari, politici ed economici: «Siamo in guerra contro il mondo intero», aveva detto il generale Minnikaev, mentre il capo della diplomazia russa — il ministro degli Esteri Sergei Lavrov — spiegava che «la Nato sta combattendo una guerra per procura contro la Russia». Putin stesso ha detto che «l'Occidente e la Nato stanno cercando di distruggere la Russia dall'interno». 

“I nostri sottomarini sono in grado di lanciare più di 50 missili nucleari, il che garantirebbe la distruzione degli Usa e della Nato», ha detto, aprendo il suo programma di domenica 28 marzo, Dmitry Kiselyov. «A che servirebbe un mondo senza la Russia?».

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 28 aprile 2022.

Sono uomini e donne comuni, liberi professionisti, dipendenti o impiegati. Due volte su tre si tratta di persone con un grado di istruzione medio-alto, laureati, che però hanno trovato il modo - prima sotto la pandemia e ora con la guerra in Ucraina - di dare sfogo alle proprie pulsioni. E il passo tra rinnegare il Covid-19 e appoggiare le mire espansionistiche della Russia è stato breve. Pericoloso a guardarlo da una certa angolazione. Si tratta di fanatici che hanno lasciato liberi i propri fanatismi.

Parole finora, che tuttavia rischiano di diventare temibili se da queste poi, come capitò con le proteste di piazza orchestrate dai No vax, si passasse ai fatti. E comunque è sempre lì che si annidano: in quel sottobosco per nulla lineare dei social, a partire da Telegram. Le minacce di morte c'erano state prima, medici, epidemiologi, virologi i primi bersagli. Ora si passa direttamente e in maniera più disinvolta ai rappresentati dello Stato, del governo che fin dal 24 febbraio scorso - giorno dell'invasione dell'Ucraina da parte della Russia - ha fatto capire da che parte stare.

LE FRASI Contro di loro le frasi più crudeli, scritte compulsivamente in chat. Pochi secondi appena bastano a comporre frasi precise: «Muori c....... analfabeta», «Conviene dire a Putin che ci dissociamo da questo ebete», «Vi prego ammazzatelo», «Caro Putin manda qualcuno ad ammazzare questo». Il soggetto a cui nella metà di aprile sono stati indirizzati i messaggi, scoperti poi dai carabinieri della sezione Indagini informatiche del Nucleo investigativo di Roma, è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Alcuni degli autori sono stati recentemente denunciati perché alle frasi si sono unite anche immagini eloquenti come bare e feretri dove Di Maio doveva essere rinchiuso. Due uomini finora e una donna sono stati identificati e perquisiti: si tratta di un 46enne milanese, di un 48enne residente nel siracusano e di una donna, classe 1953, di Sassari. Tutti loro, con un lavoro e un grado di istruzione elevato (uno dei due uomini è un ingegnere), chattavano su un canale Telegram - Border Nights 2.0 - che conta più di 34 mila iscritti. 

LE INDAGINI Ci sono No vax, filorussi, anti ucraini. C'è chi inneggia a rovesciare il governo e chi sostiene Putin e al contempo continua a parlare di una pandemia «creata a tavolino». Un miscuglio di voci problematico se dovesse poi propagarsi e crescere a detta degli investigatori. E non è l'unico. Perché di gruppi del genere ce ne sono molti altri. Motivo per cui l'attività investigativa e di analisi dei canali social e di migliaia di account è solo all'inizio. Diversi sono i gruppi che contano in tutto più di 150 mila iscritti su cui si sta concentrando l'attività investigativa della sezione Indagini informatiche del Nucleo investigativo di Roma e non è escluso che alle perquisizioni, avvenute alla metà di aprile a carico dei tre denunciati, se ne possano a breve aggiungere altre.

I titoli di questi canali non hanno nulla che richiami direttamente il Cremlino ma in alcuni di essi i primi messaggi fissati, dove si legge chiaramente una posizione anti-ucraina, sono scritti in cirillico o hanno delle foto-copertina che riecheggiano le immagini d'epoca dell'Armata Rossa. La prima certezza è che un filo, neanche troppo sottile, lega i gruppi No vax, con personalità rimbalzate anche agli onori delle cronache per le proteste di piazza dei mesi scorsi, ai filorussi italiani.

C'è poi il sospetto, considerato il tenore dei messaggi, scritti a volte in cirillico, e gli account che danno degli input a cui poi, a cascata, arrivano risposte di incoraggiamento, che su alcuni di questi gruppi ci possa essere una regia extra nazionale. In sostanza che da Mosca si stia espandendo un'attività di propaganda che punta a far proseliti usando gli strumenti primari della comunicazione contemporanea: quelli che facilmente penetrano nel tessuto comune di migliaia di cittadini, nelle loro teste e nei loro pensieri da fanatici.

Da blitzquotidiano.it il 26 maggio 2022.

È stato nuovamente messo all’asta il francobollo ucraino con insulto a Mosca. Non è la prima volta che finisce all’asta, infatti qualche mese fa è stato venduto all’asta a 155mila euro. Ma questa volta, il ricavato verrà devoluto in beneficenza per le vittime della guerra in Ucraina. 

In Ucraina è stato nuovamente messo all’asta il famoso francobollo con insulto a Mosca. Questa volta il ricavato verrà usato per le famiglie che sono state maggiormente colpite dalla guerra in Ucraina. Un gesto nobile in un periodo molto delicato per la popolazione ucraina.

Il francobollo con l’ormai famoso insulto alla Moskva è stato venduto ad un’asta di beneficienza per 5 milioni di grivnie ucraine, vale a dire circa 155 mila euro. 

Lo annunciano su Fb le poste ucraine, la Ukrposhta, sottolineando che il ricavato della vendita andrà all’esercito del Paese. 

Il 20 aprile scorso l’ad di Ukrposhta, Igor Smilyansky, ha annunciato che il francobollo è stato tolto dal mercato dopo che ne sono stati venduti 700 mila esemplari mentre altri 100 mila saranno destinati al negozio online della società e i rimanenti pezzi devoluti a delegazioni ufficiali e musei.

«La storia dell’eroismo ucraino si sta svolgendo davanti ai nostri occhi. E vogliamo raccontarlo con i francobolli: a maggio abbiamo presentato una nuova opera filatelica come continuazione del numero precedente», annuncia in un altro post. 

Estratto dell'articolo di Markijan Kamy* per “la Repubblica” il 22 aprile 2022. *Traduzione di Fabio Galimberti 

Sto a piazza Nezalezhnosti, la famosa piazza Indipendenza nel cuore di Kiev, teatro di tutte le grandi manifestazioni in Ucraina. Oggi c'è la coda, qui. Arriva fino ai quartieri vicini, si snoda nelle strade e nessuno sa dove finisca. Vicino alle porte dell'ufficio centrale delle poste c'è la ressa e la guardia all'ingresso ogni tanto grida dei numeri: «236!»; è il numero del fortunato che finalmente potrà fare l'acquisto che desidera.

Tutta questa gente è venuta qui per comprare il francobollo. Oggi vogliono tutti il nuovo francobollo, quello che raffigura un soldato ucraino che mostra il dito a medio a una nave da guerra russa, in riferimento all'episodio dei primi giorni dell'invasione, quando uno dei difensori ucraini dell'Isola del Serpente rispose «Nave da guerra russa, vattene affanculo!» all'incrociatore Moskva, l'ammiraglia della flotta rossa del Mar Nero, in risposta all'offerta di arrendersi o morire.

E ora che il Moskva giace sul fondo del mare ed è diventato il simbolo non della potenza della Russia ma della sua debolezza, tutti vogliono comprare questo francobollo. In Ucraina costa circa un euro, ma su eBay viene già rivenduto a migliaia di euro. […]

Marco Imarisio per corriere.it il 21 aprile 2022.

Le difficoltà richiedono l’ormai celebre tavolo lungo, per rimarcare la propria distanza. Le vittorie invece vanno annunciate con un faccia a faccia, seduti uno di fronte all’altro e separati da pochi centimetri. 

Questa mattina Vladimir Putin e il suo ministro della Difesa, l’enigmatico Sergey Shoigu, sparito dall’inizio della guerra e riapparso sporadicamente in video registrati, sono apparsi insieme per la prima volta dallo scorso 28 febbraio, quando il responsabile dell’esercito russo, insieme al Capo di Stato maggiore Valery Gerasimov, ricevette, da lontano, e con una espressione perplessa l’ordine di attivare la deterrenza nucleare. 

Oggi invece erano vicinissimi. Shoigu si è recato al Cremlino per annunciare l’avvenuta presa di Mariupol. 

«La città è stata liberata dalle forze armate della Federazione Russa e dalla milizia popolare della Repubblica popolare di Donetsk. I resti della formazione dei nazionalisti si sono rifugiati nella zona industriale dello stabilimento Azovstal.

Nel 2014, il regime di Kiev ha dichiarato la città capitale temporanea de facto della regione di Donetsk, trasformandola in otto anni in una potente area fortificata e in un rifugio per i nazionalisti radicali ucraini. Questa è in realtà la capitale di "Azov", il battaglione "Azov"».

Il tono può sembrare quello di un comunicato stampa, o di una lezione recitata a memoria da un alunno davanti a un professore severo. Ma è la trascrizione letterale dell’incontro, che ha avuto il passo solenne di una recita preparata con cura.

L’enfasi sull’importanza di Mariupol, definita capitale del battaglione Azov, ovvero dei nazisti secondo la propaganda del Cremlino, permette di portare alla Festa della Vittoria del prossimo 9 maggio quel risultato al quale Putin teneva tanto, per presentarsi al suo popolo come il condottiero di un esercito che sta raggiungendo i propri obiettivi.

Shoigu sembra dire che il merito non è suo, ma di Putin, facendo spesso riferimento alle istruzioni ricevute dal Cremlino. 

«Durante la liberazione di Mariupol, l'esercito russo e le unità della milizia popolare della DPR hanno adottato tutte le misure per salvare la vita dei civili. Qui, su tua istruzione, Vladimir Vladimirovich, dal 21 marzo sono stati aperti tutti i giorni corridoi umanitari per l'evacuazione di civili e cittadini stranieri. Oggi, l'intera Mariupol è sotto il controllo dell'esercito russo, della milizia popolare della Repubblica popolare di Donetsk e il territorio dello stabilimento Azovstal con i resti di nazionalisti e mercenari stranieri è bloccato in modo sicuro». 

Il ministro della Difesa dice che ci vorranno 3-4 giorni «per finire il lavoro». 

Ma qui, dopo la lunga prolusione di Shoigu, interviene Putin, in modo secco. «Considero inappropriata la proposta di assalto alla zona industriale. Ti ordino di cancellare questo progetto». «Sì», è l’unica interlocuzione di Shoigu. 

Da qui in poi, è un monologo del presidente, interrotto tre volte dagli «obbedisco» del suo sottoposto.

«Questo è il caso in cui dobbiamo pensare – cioè dobbiamo sempre pensare, ma in questo caso ancora di più – a preservare la vita e la salute dei nostri soldati e ufficiali. Non c'è bisogno di arrampicarsi in queste catacombe e strisciare sottoterra attraverso queste strutture industriali. Quindi, blocca questa zona industriale in modo che non ne esca una mosca». 

Come al solito, Putin fa ricorso a metafore animali. I nemici interni, le quinte colonne, erano state definite moscerini da sputare per terra, i resistenti di Azov sono mosche, una cosa piccola, un fastidio. Quello che conta è invece il risultato.

«Il completamento del lavoro di combattimento per liberare Mariupol è un successo. Congratulazioni. Manda i tuoi ringraziamenti alle truppe. Si prega di presentare proposte per premiare i nostri illustri soldati per riconoscimenti statali. È chiaro che in questi casi non può essere altrimenti, si tratta di riconoscimenti diversi, ma voglio che tutti sappiano: nella nostra comprensione, sono tutti eroi, nella comprensione di tutta la Russia. Sono tutti eroi». Il presidente lo ripete per ben due volte, a rimarcare l’importanza dell’obiettivo raggiunto.

«Certo, la liberazione di un centro così importante del Sud come Mariupol è un successo. Congratulazioni» conclude magnanimo. Shoigu: «Grazie, Vladimir Vladimirovich». 

La tavola per la grande parata del 9 maggio è imbandita. Putin ha annunciato la sua vittoria. Adesso resta da capire se può accontentarsi. O se andrà avanti. Anche perché da sola, Mariupol non basta a giustificare perdite così alte da parte dell’esercito russo. E prima o poi, qualcuno ne chiederà conto.

Ucraina: nello stallo, le brutalità, vere o presunte, dei contendenti. Piccole Note il 19 aprile 2022 su Il Giornale.

La guerra ucraina, come preannunciato, sta entrando in una nuova fase. Dopo la caduta di Mariupol, ormai presa al di là di una cellula di resistenza presso l’acciaieria Azovstal, l’esercito russo si sta organizzando per prendere il pieno controllo del Donbass (si prospettano battaglie più pesanti).

Ma iniziamo dall’acciaieria di Azovstal, a Mariupol, dove i resistenti hanno rifiutato di arrendersi nonostante i ripetuti appelli: di fatto un suicidio collettivo che porterà la morte di parte dei civili che si trovano lì col battaglione Azov, presumibilmente contro la loro volontà (arduo, infatti, immaginare che siano anch’essi votati al suicidio). Tali civili sono scudi umani, cosa che spiega tanto delle metodologie del battaglione, ma non si può dire…

Insieme all’Azov anche dei “volontari” occidentali, il cui numero e grado è imprecisato. I russi hanno mostrato i video dei due britannici catturati, ma è da presumere che ce ne siano altri e di altre nazionalità.

Il fatto che forze d’élite Nato siano intruppate con il battaglione Azov – neo-nazista anche se lo si nega (ma prima della guerra lo dicevano tutti i media occidentali) -, non aiuta l’immagine dell’Occidente che si erge a difesa della democrazia.

Si spera in qualche ripensamento degli assediati e dei loro partner, perché i russi ormai non possono far altro che attaccare.

In questo momento di stallo, in attesa (purtroppo) dell’inizio della nuova fase che si aprirà dopo la caduta di Mariupol, alcune considerazioni tratte da media americani.

Dal Washington Post: gli “ucraini hanno eseguito oltre 8.600 operazioni di riconoscimento facciale su soldati russi morti o catturati […] utilizzando le scansioni per identificare i corpi e contattare le loro famiglie in quella che ad oggi potrebbe essere una delle applicazioni più raccapriccianti della tecnologia“.

Questa storia circolava da tempo: gli ucraini sostenevano di usare i cellulari delle vittime e dei prigionieri per chiamare le famiglie e irridere alla loro sventura. Una pratica che, come spiega il Wp, è semplicemente “raccapricciante” e che ora si scopre più sofisticata, dal momento che usano il riconoscimento facciale.

Ovviamente, gli ucraini non hanno la tecnologia, ma soprattutto non hanno l’archivio dei volti russi e i contatti delle loro famiglie. A questo ci pensa la ditta americana Clearview AI, spiega il Wp, che ha rubato dati biometrici in tutto il mondo, tanto che si è anche attirato addosso alcune indagini del governo.

Secondo i fautori di questa barbarie, si vuole far vedere ai russi l’orrore della guerra nell’idea di creare un malcontento interno, ma qualcuno, annota il Wp, ha ovviamente fatto notare che si crea solo odio nella controparte.

Il Wp riporta che, qualcuno ha anche chiesto alla ditta di smetterla, ma si va avanti, evidentemente col consenso degli Stati Uniti. Chiudiamo questa parentesi più che miserevole con un commento preso dall’articolo.

“La solidarietà dell’Occidente con l’Ucraina rende allettante sostenere un atto così radicale progettato per capitalizzare il dolore delle famiglie, ha affermato Stephanie Hare, ricercatrice britannica specializzata in sorveglianza [digitale]. Ma contattare i genitori dei soldati, ha detto, è ‘una classica guerra psicologica’ e può costituire un nuovo e pericoloso standard per i conflitti futuri“.

“‘Se fossero i soldati russi a fare questo alle madri ucraine, diremmo: ‘Oh, mio ​​Dio, è una barbarie”, ha affermato la Hare. ‘E funziona davvero? [cioè scoraggia la guerra?] O li sta solo facendo dire: ‘Guarda questi ucraini senza legge e crudeli, che fanno questo ai nostri ragazzi'”.

Barbarie, si può aggiungere, pagate con i nostri soldi, perché l’Ucraina paga per questi servizi (si può esserne certi) e paga con gli aiuti occidentali, ché loro di soldi non ne hanno… ovviamente, conclude il Wp, la Clearview AI spera che il lancio pubblicitario nella guerra ucraina gli attiri altri clienti….

Un altro media Usa, un altro tema, quello del genocidio, accusa lanciata da Biden contro i russi. La Nbc, uno dei media mainstream più importanti d’America, riporta la smentita secca dei servizi segreti: “Le agenzie di intelligence statunitensi raccolgono informazioni quando vengono mosse accuse di azioni che potrebbero essere definite genocidio […] I rapporti dell’intelligence sull’Ucraina attualmente non supportano una designazione di genocidio, hanno affermato i funzionari” dell’intelligence interpellati da Nbc.

Smentita che fa ben capire come in questa guerra realtà e propaganda si mescolino in un viluppo inestricabile, dove però quel che arriva all’opinione pubblica è solo quest’ultima.

Non che la guerra sia esente da orrori, ma anche qui c’è da stare attenti e procedere con la cautela del caso. Così veniamo agli asseriti crimini di guerra, quelli di Bucha. Su quanto avvenuto in questo sfortunato centro abitato abbiamo già evidenziato le tante criticità della narrativa dominante in note pregresse.

Queste e altre criticità vengono riproposte in un articolo di llewellyn H. Rockwell, jr. in un articolo pubblicato dal Ron Paul Institute che ricorda come, per parlare di crimini di guerra, siano necessarie indagini indipendenti che appurino le circostanze, cosa che non è stata fatta in Ucraina.

“Uccidere civili o prigionieri di guerra senza processo, o umiliarli per vendetta, sono indubbiamente crimini di guerra”, spiega Rockwell, che ricorda come mentre abbiamo immagini di tali crimini di guerra commessi dagli ucraini (video di militari e civili torturati e uccisi), degli asseriti crimini russi abbiamo solo dei cadaveri e spiegazioni/testimonianze dagli ucraini.

E ricorda come tante volte in passato si è usato strumentalmente di asseriti crimini di guerra per alimentare interventi militari. A tale proposito rammenta i racconti mendaci dei soldati iracheni che “strappavano i bambini dalle incubatrici” In Kuwait, che accompagnarono la guerra contro Saddam; oppure lo “stupro del Belgio“, quando racconti e testimonianze di terribili quanto astruse atrocità tedesche contro i belgi alimentarono l’interventismo britannico. Racconti e testimonianze risultate poi false.

Chiudiamo con una nota sorprendente di Bloomberg, che spiega come le forniture di armi agli ucraini stanno creando qualche inconveniente ai fornitori, i quali stanno svuotando i loro arsenali con carenze difficilmente colmabili nel breve e medio periodo.

Tanto che i Paesi occidentali dovranno presto affrontare una “scelta netta tra inviare altri rifornimenti in Ucraina o iniziare a gestire le proprie limitate capacità, delle quali potrebbero aver bisogno per la propria difesa”. 

Chi è la Babushka Z, la nonnina russa diventata simbolo della 'operazione speciale' di Putin. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 5 maggio 2022.  

Una vecchietta di Kharkiv è andata incontro alle forze armate di Kiev con la “bandiera rossa": in tutta la Russia è considerata un'icona dei sostenitori del Cremlino. C'è chi la chiama "Babushka Z" o "Babushka della Vittoria". È la nuova eroina della cosiddetta "operazione militare speciale" russa in Ucraina: una vecchietta di Kharkiv che è andata incontro alle forze armate di Kiev con la "bandiera rossa", lo stendardo sovietico con falce e martello, pensando che fossero soldati russi. Da Voronezh a Murmansk, le dedicano statue e graffiti.

Kharkiv, i corpi dei soldati russi esposti a formare una Z. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 4 maggio 2022.

La macabra composizione lasciata nella zona riconquistata dagli ucraini in modo che i droni di Mosca potessero riprenderla. Un’altra dimostrazione del livello di brutalità raggiunto dal conflitto.

I corpi di quattro soldati in uniforme russa disposti sul terreno a formare una Z, come il simbolo sfoggiato dall’esercito invasore. Un cadavere carbonizzato messo su una barriera anti-carro, due barre di acciaio che formano una X, come in una macabra crocefissione. L’orrore di questa guerra non conosce limiti e dilaga da entrambi i lati del fronte.

«L’Occidente ci odia e vuole distruggerci»: aspettando il 9 maggio in Russia vince la propaganda di Putin. Alla vigilia dell’anniversario della vittoria sul nazismo, prevale il pensiero unico. Il capo del Cremlino mobilita il Paese. E il regime «diventa totalitario». Il sociologo Gudkov: «La gente non ha ancora capito le vere conseguenze economiche e politiche di questa guerra». Riccardo Amati su L'Espresso il 4 maggio 2022.

«Dovevamo pur proteggerci, gli Usa e tutto l’Occidente ci vogliono distruggere». Pavel non ha dubbi: «Sono col presidente al 100%». È una giornata di festa, a Mosca. Tante persone a passeggio. La vita continua, in una normalità surreale. Sulla Piazza Rossa, addobbata per le celebrazioni del 9 maggio, scende il tramonto di una fredda primavera. Pavel è l’unico tra i passanti che ha risposto alle nostre domande. Difficile parlare con i russi della guerra in Ucraina. “È Il modo migliore per non farsi reinvitare a cena”, si dice ultimamente in città. Ma se ci si riesce, sempre più spesso si constata un deciso sostegno alle azioni del Cremlino. Anche da parte di chi non è mai stato un putinista sfegatato e magari all’inizio era contrario all’attacco militare. Come Pavel: «In generale non mi interessa la politica e sono contro ogni guerra, ma ha iniziato la Nato e qualcosa Putin doveva fare. E poi adesso ci sono i nostri ragazzi, là a combattere. Certo che sto con loro».

La vittoria della propaganda

«È in atto un imbarbarimento della società», dice a L’Espresso il sociologo Greg Yudin, della Scuola di scienze economiche e sociali Msses, o “Shaninka”. «La verità non esiste più: il regime, che da anni fonda la sua legittimità sulla glorificazione della “Grande guerra patriottica” (la Seconda guerra mondiale, ndr) è riuscito a far passare l’idea che la Nato non è che la continuazione del blocco nazista del secolo scorso, e che vuol distruggere la Russia». Si sta creando un pensiero unico. Dopo l’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”, «agisce nel subconscio dei più una tensione a bloccare le cattive notizie e a rifiutare la nozione che Mosca possa essere nel torto», ha scritto su Foreign Policy Andrei Kolesnikov del think tank Carnegie Moscow - che il governo ha da poco costretto alla chiusura. Secondo uno dei più famosi sociologi del Paese, Lev Gudkov dell’istituto Levada, la narrativa anti-occidentale, «trova terreno fertile nello storico senso di inadeguatezza dei russi ed è essenziale per il regime». Senza questo fattore di minaccia esterna «il sistema repressivo e il consenso della società sarebbero insostenibili», spiega Gudkov all’Espresso. 

Putin mobilita la Russia

Dopo aver stroncato ogni possibilità di opposizione a suon di leggi draconiane (ma ogni giorno ci sono coraggiosi che protestano e si fanno arrestare), dopo aver messo a tacere i media indipendenti, il regime si è dedicato a mobilitare il Paese. «Stanno ridefinendo l’“operazione militare” come una nuova “Grande guerra patriottica” per coinvolgere totalmente la popolazione», nota Yudin. È lecito pensare che questo possa preludere a una vera e propria dichiarazione di guerra all’Ucraina e quindi alla chiamata alle armi di larghe fasce della popolazione. Un annuncio in merito potrebbe arrivare proprio il 9 maggio, dicono a Londra e a Washington. Il passaggio dalla mobilitazione sociale alla mobilitazione dei cittadini per mandarli al fronte è però tutt’altro che ovvio. «Significherebbe dare più potere ai generali, Putin non si fida e non lo farà», sostiene l’analista militare indipendente Pavel Luzin. «Inoltre le forze armate russe non sono strutturalmente in grado di digerire una cosa del genere». Senza contare il rischio politico: la chiamata alle armi, con tutte le sue brutali conseguenze, potrebbe risvegliare bruscamente i cittadini dal torpore propagandistico. Secondo Gudkov, «si deve considerare che, se il patriottismo finora prevale, la guerra ha tuttavia creato un mix di sentimenti, molti dei quali tutt’altro che entusiastici». Il supporto “sempre e comunque” resta una scommessa, per il Cremlino.

Il sostegno al regime ha raggiunto il picco

In marzo l’81% della popolazione russa sosteneva l’”operazione militare” in Ucraina, secondo i dati dell’istituto Levada. In aprile si è scesi al 74%. Anche il rating di Putin sembra aver raggiunto il plateau: 81% in aprile contro l’83% di marzo. «Il Cremlino ha avuto successo nel mobilitare la società, ma c’è da chiedersi per quanto tempo la gente potrà continuare a stringersi intorno alla bandiera», commenta Andrei Kolesnikov a L’Espresso. Anche perché «non sono ancora visibili tutte le conseguenze del blocco economico, e quando lo saranno la tendenza potrebbe cambiare». Per ora, i russi pensano che l’auto-isolamento a cui la guerra li condanna sia sostenibile. «È un retaggio del passato sovietico: le abitudini di una società chiusa si riattivano sotto l’influenza della propaganda e della cultura politica restaurata dal presidente”, dice Gudkov. «Il fatto è che la gente non ha ancora capito le reali conseguenze economiche e politiche di questa guerra».

Dall’autoritarismo al totalitarismo

Una conseguenza interna già pienamente visibile è l’avviarsi del sistema verso una forma di totalitarismo che Kolesnikov definisce “ibrido”, perché conserva elementi dell’autoritarismo che l’ha preceduto. Conseguenza della mobilitazione seguita all’attacco militare, il “totalitarismo ibrido” non consente più ai cittadini di limitarsi al silenzio-assenso, ma richiede loro di manifestare esplicitamente il sostegno al regime. E si fonda su «una anti-cultura dell’odio verso il nemico esterno e interno», in grado di giustificare le purghe nella società civile, a partire dalla denuncia dei “traditori” e dalla chiusura dei media liberi. Mentre nelle scuole si promuove l’istruzione “patriottica”, anche con lezioni uniche per tutta la nazione. Come quella prevista alla vigilia del 9 maggio e intitolata Syla b pravde, ovvero “Il potere è nella verità”. Che poi è una battuta di un popolare film del 2000 in cui si toccavano molte corde della futura ideologia putinista. Con questi inni alla “verità” di regime, la propaganda sta creando quello che Hannah Arendt definiva “il suddito ideale” dei totalitarismi: la persona per la quale «non c’è differenza fra realtà e finzione, tra il vero e il falso». 

Cosa c’entra Nevsky con la birra

Pavel non ci ha dato il suo cognome. Preferisce non essere associato con media di paesi “ostili”. Insieme alla moglie scatta un selfie sullo sfondo delle installazioni per la parata del 9 maggio. Tra queste, una grande effigie di Alessandro Nevsky, il santo ortodosso che nel tredicesimo secolo sconfisse svedesi e cavalieri teutonici e scelse di sottomettersi ai mongoli pur di non collaborare con l’Occidente. Scendendo dalla Piazza Rossa oltre San Basilio verso il fiume, e poi attraversando il ponte su cui nel febbraio del 2015 fu ucciso l’oppositore di Putin Boris Nemtsov, con una breve passeggiata si arriva sulla Bolshaya Polyanka, dove c’è un pub che è stato un punto di ritrovo degli stranieri che vivevano a Mosca e che oggi è assai meno frequentato. All’interno, tra pareti piene di cimeli calcistici e fotografie, tutte le bandiere d’Europa e gli spillatori delle migliori birre d’Irlanda. Alcune delle quali però sono finite. «Colpa della situazione, non sappiamo quando potremo riaverle», spiega il proprietario. «Peccato, ma sopravviveremo anche senza l’Occidente e le sue birre», risponde un cliente. «Ci odiano, c’è la russofobia, faremo a meno di loro», ci dice. Nevsky avrebbe approvato. 

La categoria storica strumentalizzata dalla propaganda del Cremlino per legittimare l’invasione. Maria Serena Natale su CorriereTv il 4 maggio 2022.

Cosa vuol dire per la propaganda del Cremlino la «denazificazione» usata per legittimare l’invasione di un Paese sovrano? All’origine del conflitto c’è la memoria divisa della catastrofe che fece promettere all’Europa: mai più. Mosca strumentalizza il passato ed estende all’intero apparato statuale ucraino la matrice ideologica ultranazionalista che risale alla Seconda guerra mondiale e all’esercito insurrezionale di Stepan Bandera.

Da liberoquotidiano.it il 4 maggio 2022.

L'Unione sovietica ha salvato il mondo una volta, nel 1945. "E Vladimir Putin oggi torna a farlo". Fulvio Grimaldi la spara grossa, ospite in studio di Giovanni Floris a DiMartedì, anche se stranamente questa equiparazione passa quasi inosservata nel bombardamento "filo-russo" dello storico inviato di guerra della Rai, oggi diventato uno dei punti di riferimento del "complottismo" sulla guerra in Ucraina.

"La Russia spende 13 volte di meno in armamenti e bilancio militare rispetto agli Stati Uniti, e 25 volte di meno rispetto agli Stati Uniti e alla Nato messe insieme - sottolinea Grimaldi -. Di conseguenza, chi tra le due super potenze è più inclinato a far guadagnare il complesso militare industriale, le grandi industrie militari di cui Eisenhower (ex presidente Usa, ndr) aveva già individuato la minaccia?

Chi ne ha fatti di più di guerre, chi ha guadagnato più dal consumo di armi e chi guadagna più miliardi da questa guerra? Si dice che Putin non voglia finire questa guerra: io credo che voglia finirla anche domani, pur che finisca la condizione la situazione in cui l'Ucraina ha portato la Russia a dover intervenire in difesa di una popolazione massacrata". 

La tesi di Grimaldi è perfettamente combaciante con quella del Cremlino: la "operazione militare speciale" di Putin sarebbe stata non una aggressione, ma una difesa degli interessi della componente russofona nel Donbass. "La tradizione della Russia è combattere il nazifascismo, da Stalingrado in poi - si esalta ancora Grimaldi, inginocchiato al mito sovietico -. Venti milioni di morti, ricordiamocelo.

Il 9 di maggio ci si ricorda che il mondo è stato salvato da una Armata rossa che ha sconfitto il nazifascismo e che oggi torna a farlo". "Siamo molto grati all'Armata rossa che ha sconfitto il nazifascismo - è il commento ironico di Antonio Caprarica, ex collega di Grimaldi in Rai - ma Putin il 24 febbraio con l'invasione dell'Ucraina ha cancellato questi meriti storici". E lo studio di Floris applaude convinto. 

Alleati strategici. Il filosofo Dugin chiarisce una volta per tutte cosa unisce putinismo e populismo. Francesco Cundari su l'Inkiesta il 5 maggio 2022.

L’ideologo dell’autocrate russo, convinto che l’Occidente sia «la civiltà dell’Anticristo» e l’Ue «completamente degenerata», ha idee piuttosto precise anche sulla politica italiana. E a modo loro illuminanti.

Alexander Dugin, filosofo ispirato dalle idee tradizionaliste di Julius Evola, fondatore del partito nazionalbolscevico, padre della cosiddetta «Quarta teoria politica» che a suo dire Putin ha fatto propria, sostenitore di un populismo che vada oltre la destra e la sinistra, convinto – come ha spiegato martedì in un’intervista al Quotidiano nazionale – che l’Occidente moderno sia «una civiltà completamente decadente»; che «meno contatti ha la Russia con questa dannata società tossica, meglio è per la Russia», essendo la Russia «una civiltà separata speciale: ortodossa ed eurasiatica», ben diversa dalla «parodia che rappresenta l’Unione europea liberalista e completamente degenerata»; che in Occidente l’influenza del Papa sia «minima, ridotta a una funzione umanitaria insignificante», e che altrettanto insignificante sia di conseguenza il suo appello a cercare un accordo «tra la civiltà russa e quella che ai nostri occhi è la civiltà dell’Anticristo»; che il pacifismo sia «una delle forme di pensiero più meschine»; che «la Russia, dopo aver lanciato un’operazione militare speciale in Ucraina, non può non ottenere la vittoria»; che «la Russia farà letteralmente di tutto per raggiungere i suoi obiettivi, anche fino a una collisione nucleare»; questo signore qui, insomma, con questo bagaglio ideologico, queste idee della politica e del mondo, martedì ha dichiarato all’AdnKronos che «l’Italia, quando Salvini era un populista di destra e i Cinque stelle populisti di sinistra, e quando potevano accordarsi tra di loro, aveva una possibilità storica», di cui «oggi si sente la mancanza».

E dal suo punto di vista bisogna riconoscere che non fa una piega.

Ivan Timofeev, l'analista del Cremlino: "L'Urss era crollata in condizioni molto più favorevoli..." Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

"L'Unione Sovietica è crollata in circostanze internazionali molto più favorevoli". Tradotto: l'azzardo della guerra in Ucraina potrebbe costare carissimo a Vladimir Putin. Anche perché, di sicuro, oggi il presidente russo non gode della "protezione internazionale" di cui godeva nel 1991 l'ultimo presidente dell'Urss, Mikhail Gorbaciov. A sostenerlo non è qualche analista americano o filo-Nato, che tifa per il "regime-change", il cambio di regime a Mosca. Ma dal russo Ivan Timofeev, direttore del prestigioso Russian international affairs council (Riac), secondo cui gli choc prodotti dalla (sciagurata) "operazione militare speciale" iniziata lo scorso 24 febbraio "possono incidere sia sulla società sia sulla statualità della Russia".

Il Foglio riporta l'analisi di Timofeev, non certo tacciabile di essere un anti-Putin per partito preso. Le sue parole fanno un effetto forse ancora maggiore rispetto a quelle, durissime, di Michael McFaul, ex ambasciatore americano in Russia e uomo di Obama, che su Twitter si domanda: "Dopo due mesi di uccisioni di ucraini, cosa ha ottenuto Putin? Niente. Assolutamente niente. La Russia è più sicura? Assolutamente no. Più ricca? No. Ha ottenuto un maggiore rispetto nel mondo? No".

Ma Timofeev guida il più prestigioso think tank russo di politica internazionale, e dunque ogni suo giudizio ha un peso specifico grandissimo su quanto accade al Cremlino. Non a caso, il Riac è presieduto da un big come Igor Ivanov, il predecessore di Sergey Lavrov al Ministero degli Esteri "e lo stesso Lavrov fa parte del Consiglio della fondazione", ricorda sempre il Foglio, senza contare che "il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, è membro del Presidium del Riac".

Quella di Timofeev sembra quasi un atto di insubordinazione: anche perché, pur essendo tutto tranne che un "dissidente", rappresenta quella parte di establishment che era contrario all'avventura bellica in Ucraina. Nel suo lungo report, tratteggia uno scenario da "tempesta perfetta" in cui si sommano tre minaccia per Mosca. Quella esterna con l'Occidente schierato compatto contro il regime). Quella economica, che potrebbe acuire le storiche carenze strutturali del Paese. E quella relativa a un possibile collasso istituzionale, legato a "un contrasto nell'élite" e a "disordini e rivoluzioni interne". "Le pagine più drammatiche della nostra storia - ricorda - sono arrivate in momenti in cui il paese ha affrontato simultaneamente tutte e tre insieme queste minacce". Una situazione forse presentatasi solo nel periodo 1917-20, quello del trapasso da Impero zarista a Rivoluzione bolscevica. Non certo, sottolinea Trimofeev, nel tramonto dell'Urss, quando il contesto internazionale era "molto più favorevole" rispetto a oggi.

Vincenzo Camporini per il “Corriere della Sera” il 19 aprile 2022.

Una delle realtà incontrovertibili della storia dei conflitti è la grande verità della «nebbia della guerra»: non solo la propaganda distorce sostanzialmente la verità, ma anche molto più banalmente ciò che avviene sul campo di battaglia è troppo spesso difficilmente intellegibile da parte di chi partecipa alle operazioni e a volte solo dopo tempo si riesce a capire chi ha vinto e chi ha perso.

I comandanti sul terreno devono quasi sempre prendere decisioni sulla base di informazioni lacunose, distorte, su ipotesi ancora da verificare, su dove siano le forze nemiche, sulla loro consistenza e sulle loro reali intenzioni. Da sempre si è cercato aiuto nella tecnologia: un bel dipinto di Vernet ritrae Napoleone a cavallo a Wagram che scruta il campo di battaglia con un cannocchiale. 

Ma i veri progressi ci sono stati nel XX secolo, con le straordinarie capacità offerte dal mezzo aereo: il 23 ottobre del 1911 il capitano Carlo Maria Piazza con un Bleriot XI effettuò il primo volo militare bellico di ricognizione durante la guerra tra Italia e Turchia per la Libia. Venne poi l'invenzione prima dell'aerofono e poi del radar, con sviluppi che continuano ai giorni nostri e che consentono capacità davvero stupefacenti.

Un esempio tutto italiano è la costellazione COSMO-SkyMed, oggi costituita da 5 satelliti con sensori SAR (radar ad apertura sintetica), in orbita elio sincrona, che permette il sorvolo di uno stesso punto alla stessa ora: in pratica con 5 satelliti si può avere un immagine dello stesso punto, a prescindere dalle condizioni meteorologiche, circa ogni 5 ore. E questo con un solo sistema, ma in orbita esistono ormai centinaia di satelliti da osservazione, militari e civili, con la capacità di identificare oggetti di pochi centimetri.

A questi mezzi occorre aggiungere moltissimi altri sistemi: radar volanti come l'AWACS e l'italiano CAEW, in grado di monitorare con precisione sub metrica elementi avversari e di controllarne in tempo reale le comunicazioni su qualsiasi banda; e ancora velivoli a pilotaggio remoto come il Global Hawk, o il Predator, oppure il turco Bayraktar TB2, in dotazione alle forze ucraine. 

In pratica nascondersi è diventato sempre più difficile, per non dire impossibile. Un oggetto lungo 186 metri e di 12.000 tonnellate di stazza come il Moskva non può sperare di passare inosservato in mare aperto e deve costantemente operare con tutti i sensori e con le proprie capacità di difesa allertati, al fine di eliminare ogni possibile minaccia. 

Se questo non avviene, per eccesso di confidenza o per carenza dei sistemi difensivi, si diventa vulnerabili e basta un drone come il TB2 che avvisti il possibile bersaglio e passi le coordinate a una batteria di missili antinave come i Neptune, per avviare una sequenza di eventi il cui risultato finale è quello che si è visto: l'affondamento della nave ammiraglia della flotta russa del Mar Nero e una svolta importante nel conflitto tra Russia e Ucraina.

Andrea Cuomo per “il Giornale” il 19 aprile 2022.

Una grande nave avvolta da un fumo nero come il carbone. Sono gli ultimi istanti della Moskva, l'incrociatore orgoglio della marina militare russa che è stato colpito qualche giorno fa, il 14 aprile, dai missili ucraini. Uno degli smacchi simbolicamente più rilevanti dell'armata russa da quando, 55 giorni fa, ha attaccato l'Ucraina. 

Il video, di pochi secondi, è stato postato su Twitter dal giornalista Alec Luhn, ex corrispondente dalla Russia del Telegraph e del Guardian, che l'ha subito ripreso imitato poi dai media di mezzo mondo. È stato girato a qualche decina di metri di distanza, probabilmente a bordo di un rimorchiatore, l'SB740 o l'SB742, accorsi in soccorso dell'incrociatore, e mostra quest' ultimo inclinato sul lato sinistro, con una colonna di fumo che si alza dalla sua parte centrale.

Ieri è comparsa poi anche una foto, dalla quale si evincono maggiori dettagli. Che la nave ripresa sia davvero il Moskva non è certo, perché il filmato non è stato verificato in modo indipendente, ma ci sono buone ragioni per credere che si tratti proprio dell'incrociatore. 

L'account OSINTtechical, che analizza le informazioni di intelligence aperte, non vede alternative plausibili: «Non possiamo verificarne l'autenticità, ma questo è un incrociatore di classe Slava e non penso che nessun'altra nave di quel genere sia stata distrutta in questo modo». 

In particolare dalla fotografia si nota come i danni, più evidenti, quelli nel settore poco dietro i tubi di lancio dei missili anti-nave P-1000, siano compatibili con quelli provocati dall'impatto di un missile antinave come il Neptune. Missile che secondo Sergei Markov, commentatore politico russo ed ex stretto consigliere di Vladimir Putin, ieri intervistato dalla Bbc, era della Nato ed era stato spostato in Ucraina a gennaio.

Le immagini sembrano essere un endorsement alla versione ucraina (e dei più importanti sistemi di intelligence occidentali) dell'affondamento del Moskva. I russi infatti, che hanno fornito finora pochissime informazioni sull'indicente, hanno cercato di sminuire l'accaduto parlando di un incendio seguito all'esplosione delle munizioni a bordo e sostengono che l'affondamento è avvenuto nel corso di una tempesta mentre l'imbarcazione veniva rimorchiata in porto. Ma da quello che si vede nelle immagini le condizioni meteo non erano poi così proibitive.

Resta il mistero sulla sorte toccata all'equipaggio, a partire da quante persone fossero esattamente a bordo. Il Moskva aveva capacità per 510 persone, ma nei video diramati dalla Russia domenica che documentano l'incontro del capo della marina russa in Crimea con i sopravvissuti, questi ultimi sembrano molti meno. 

Il ministero della Difesa della Federazione russa ha affermato che l'equipaggio dell'incrociatore è stato completamente evacuato ma secondo i media ucraini sarebbero morti una quarantina di marinai, tra i quali il comandante Anton Kuprin. Ieri le autorità russe hanno ufficializzato la prima morte, quella di un marinaio di leva di 19 anni. A renderlo noto la madre, Yulia Tsyvova. «Non mi è stata fornita alcuna informazione su quando ci saranno i funerali», precisa la donna.

Inoltre, secondo il sito indipendente Meduza ripreso dall'Ukrainska Pravda, i parenti di alcuni membri dell'equipaggio dell'incrociatore avrebbero scritto sul principale social media russo, VKontakte, per avere notizie dei loro familiari scomparsi. Drammatica in particolare la testimonianza di Dmytro Shkrebets, padre di Yegor, che a bordo del Moskva svolgeva le funzioni di cuoco. «Mio figlio, soldato di leva, come mi è stato detto dai comandanti diretti dell'incrociatore Moskva, non è tra i morti e i feriti ed è indicato come disperso: scomparso in mare aperto?

Dopo i miei tentativi di chiarire i dettagli dell'incidente, il comandante dell'incrociatore e il suo vice hanno smesso di comunicare con me. Ho chiesto direttamente: perché voi ufficiali siete vivi e mio figlio, appena arruolato, è morto?». L'uomo ha incoraggiato gli utenti del social a diffondere il suo messaggio, «affinché questa terribile tragedia non venga coperta».

 Anna Zafesova per “La Stampa” il 19 aprile 2022.

«Non ci sono vittime»: il telegiornale del Primo canale della tv di Stato russa è lapidario nel smentire le perdite umane nell'affondamento dell'incrociatore Moskva, la nave ammiraglia della flotta russa del Mar Nero. 

È evasivo invece sulle cause del disastro: «I motivi dell'emergenza devono ancora venire stabiliti», dice la conduttrice, raccontando che un incendio di natura imprecisata avrebbe fatto detonare l'arsenale e la nave «ha perso stabilità senza riuscire a recuperarla».

Insomma, la nave «è affondata», come rispose con un sorriso Vladimir Putin nel 2000 alla domanda di Larry King su cosa era accaduto al sottomarino Kursk. Una risposta entrata nella storia, e oggi molti paragonano quella tragedia nel mare di Barents, che aveva segnato l'esordio del regno di Putin: oggi, come 22 anni fa, una nave diventa il simbolo della fragilità e dell'inefficienza della vantata potenza militare russa, e della segretezza ossessiva per nascondere il prezzo umano pagato.

Per il momento, non si sa nemmeno quanti marinai ci fossero a bordo dell'incrociatore, quando è stato colpito con i missili ucraini Neptun.

L'agenzia russa Ria Novosti parla di 500 persone, il consigliere della presidenza ucraina Oleksiy Arstovich di 510, ma il sito del ministero della Difesa russo menzionava un equipaggio di 680 membri, in una pagina web eliminata dopo il disastro.

Ufficialmente, tutto l'equipaggio sarebbe stato messo in salvo durante i soccorsi, e la televisione russa ha mostrato il comandante della marina militare russa Nikolay Evmenov che incontrava a Sebastopoli i marinai: l'audio del rapporto (che tradizionalmente include i dati sui presenti e gli assenti) è stato silenziato, e la telecamera inquadra al massimo un centinaio di ufficiali.

I media ucraini hanno notato che nel video brilla per la sua assenza il comandante della flotta del Mar Nero Igor Osipov: secondo alcune indiscrezioni, sarebbe stato arrestato per ordine del Cremlino, e questa è un'altra indicazione della gravità della situazione.

Un altro segnale che non tutto è andato liscio è stato trasmesso da una cerimonia commemorativa del Moskva, che si è tenuta a Sebastopoli: si vede un prete ortodosso, e una corona di fiori listata a lutto con la dedica «Alla nave e ai suoi marinai». 

Ufficialmente i caduti non esistono, ma i giornalisti andati a caccia sui social hanno trovato i familiari dei marinai morti o dispersi. Dmitry Shkrebez, di Yalta, ha denunciato sul social russo VKontakte suo figlio Egor, cuoco di bordo, è stato dichiarato dal comando come «disperso»: «Disperso in mare aperto? Che bugia palese e cinica!», ha scritto il padre, chiedendo di diffondere la notizia prima che il suo post venisse censurato (come è puntualmente accaduto).

La madre di Egor, Irina, ha raccontato a The Insider di aver cercato il figlio nell'ospedale militare, «tra duecento ragazzi ustionati». I «dispersi» sono diverse decine, dice alla Bbc Yulia Zyvova, andata a Sebastopoli a cercare il suo 19enne figlio Andrey. 

La madre del ventenne Nikita Syromyasov, Olga, è riuscita a contattare telefonicamente un ufficio della marina dove le hanno comunicato che suo figlio è disperso, e che «le probabilità di un esito positivo sono pari a zero» in quanto la temperatura dell'acqua del Mar Nero era «incompatibile con la vita umana».

Da allora, Olga non riesce a contattare più nessun rappresentante della marina: una voce nella cornetta le ha intimato di limitarsi a scrivere Sms, perché «non vogliamo stare a sentire le sue lacrime». 

Una fonte del comando della flotta del Mar Nero ha rivelato a Meduza che il numero dei caduti sul Moskva è di 37 membri dell'equipaggio, mentre i feriti si aggirano intorno a un centinaio.

Anche un altro marinaio sopravvissuto ha raccontato alla madre - che ha parlato, dietro anonimato a Novaya Gazeta Europa - di una quarantina di vittime ufficiali. Gli altri marinai restano per ora «dispersi», forse anche perché erano quasi tutti reclute di leva, una violazione esplicita della legge russa che impedisce di coinvolgere militari non professionisti nelle operazioni di guerra. 

Ma il diversivo dei «dispersi» viene usato anche per evitare di dover pagare alle famiglie il risarcimento per i caduti promesso dal presidente Putin.

Volodymyr Zelensky, agghiacciante sospetto (da 1 mld di euro) di Carlo Taormina: "Se fosse vero..." Libero Quotidiano il 18 aprile 2022.

Anche in Italia c'è un nutrito fronte di persone che sospettano di Volodymyr Zelensky, premier ucraino e leader della resistenza contro l'avanzata dell'orrore mossa dalla Russia e di Vladimir Putin. Le sfumature sono parecchie: si passa dalle posizioni di Alessandro Orsini per arrivare a quelle ben più estreme e inaccettabili di Diego Fusaro. Insomma, non siamo la Russia: c'è la libertà di pensiero, per quanto spesso e volentieri le tesi che quest'ultima partorisce sono assai opinabili.

E così, nello spettro di chi dubita o prende posizione contro Zelensky, ecco che si inserisce anche l'onnipresente avvocato Carlo Taormina. Già, perché quest'ultimo oggi, lunedì 18 aprile, giorno di Pasquetta, si spende su Twitter in un controverso cinguettio che riguarda proprio la figura del premier ucraino e alcune indiscrezioni circolate nelle ultime ore relative all'entità delle spese militari affrontate dall'Europa per sostenere la resistenza ucraina. 

"Ammazzare Zelensky". L'ordine di Putin dopo l'affondamento della Moskva, pioggia di bombe sul bunker: ore contate?

"Se fosse vero che Volodymyr Zelensky avrebbe chiesto all'Unione europea un miliardo di euro a settimana per fare la guerra, non condividerei la trasformazione degli ucraini in mercenari dell’Occidente per la guerra contro la Russia. Auspico che non sia vero, dopo averlo giustamente aiutato", conclude Carlo Taormina. Insomma, una posizione non critica né dubitante nei confronti di Zelensky, quanto piuttosto nei confronti di un'Europa che trasformerebbe gli ucraini in "mercenari dell'Occidente".

Volodymyr Zelensky, il feroce attacco di Travaglio: "Chi lo ubriaca. Migliaia di morti fa..." Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

Nel mirino di Marco Travaglio ci finisce ancora una volta Volodymyr Zelensky, il premier ucraino che guida la resistenza contro l'avanzata della Russia. Il tutto nel fondo pubblicato sul Fatto Quotidiano oggi, martedì 19 aprile.

Il direttore muove il suo ragionamento mettendo "in fila i fatti nessuno nega. Nemmeno il più fervido atlantista afferma più che la resistenza ucraina sia in grado di sottrarre all'armata russa il Donbass, la Crimea e la striscia che li collega sul Mar Nero; che Mariupol, rasa al suolo e ormai in mani russe, possa tornare in quelle ucraine; che Putin, sconfitto e isolato da tutti, abbia le ore contate prima del famoso regime change annunciato da Biden e smentito dai suoi", scrive Travaglio.

Dunque un lungo excursus su questi quasi sessanta giorni di guerra. E Travaglio si pone una domanda: "Stando così le cose, quanti morti ucraini serviranno ancora alle potenze (palesi e occulte) per sedersi al tavolo e prendere atto della realtà?". Dunque rimarca come l'iniziativa non la prenderà Putin, così come non la prenderanno né Joe Biden né Boris Johnson. "E non la prenderà Zelensky - riprende Travaglio -, ubriacato dai falsi amici che gli raccontano che sta vincendo la guerra e presto i suoi marceranno su Mosca. Possono prenderla i governi europei, smettendo di inviare armi e subordinando la fine delle sanzioni a una trattativa seria, che parta non dai sogni, ma dalla realtà - sottolinea -. La realtà che il cancelliere Scholz vide già quattro giorni prima dell'invasione russa, quando offrì invano a Zelensky un compromesso migliore di quello che uscirà dal negoziato post-bellico. Era due mesi fa, migliaia di morti fa", conclude con evidente accento critico nei confronti del premier ucraino.

Volodymyr Zelensky, il video pubblicato e subito rimosso? "Ubriaco e fuori controllo", accuse terrificanti al premier. Libero Quotidiano il 18 aprile 2022.

Volodymyr Zelensky avrebbe commesso un errore dal punto di vista della comunicazione, il suo punto forte da quando è iniziata l'invasione da parte della Russia. Il premier ucraino è spesso stato apprezzato per i suoi discorsi e per le modalità di comunicazione. Questa volta però avrebbe fallito. Il presidente, in genere, gira i suoi video col cellulare nel suo ufficio di via Bankova, dove ha sede la presidenza ucraina. Un modo per far vedere a tutti che lui non lascia Kiev. Qualcosa, però, è andato storto nel giorno di Pasqua: 32 secondi di video sono stati prima pubblicati e poi rimossi. Anche se il filmato nel frattempo era già stato visto e condiviso.

Cos'è successo nello specifico? Nel video cancellato si vedeva Zelensky con uno sguardo perso nel vuoto mentre parlava con un tono di voce molto basso e pronunciava parole poco comprensibili: "Buonasera a tutti. Siamo al 52esimo giorno. Cosa posso dire?". Affaticato, continua: "Noi lavoriamo amiamo, ringraziamo, preghiamo. E noi sconfiggeremo tutti”. Infine agita un pugno in segno di vittoria. Subito dopo la diffusione di quel video, russi e filorussi hanno mosso pesanti accuse contro il premier ucraino. Secondo alcuni, per esempio, il presidente avrebbe esagerato con l'alcol prima di girare quel filmato.

Ma non è tutto. C'è anche chi ipotizza addirittura un abuso di sostanze stupefacenti. Diversa la reazione degli account ucraini, che invece tendono a ridimensionare l'episodio, parlando di semplice stanchezza. In ogni caso, però, la rimozione del video rappresenta - come spiega il Giornale . la prima vera falla nel sistema di comunicazione ucraino da quando è iniziata l'invasione. 

Da liberoquotidiano.it il 19 aprile 2022.

La macchina della propaganda russa o filo-russa non si ferma mai. Nel mirino, più di tutti gli altri, Volodymyr Zelensky, il premier ucraino che Vladimir Putin vorrebbe eliminare. L'ultimo capitolo delle fake-news sul capo della resistenza ucraina è un video, raccapricciante, che circola in alcune chat e in altri account social filo-russi e dediti al complottisimo. O al delirio. 

Stando a chi ha diffuso le immagini, Zelensky avrebbe mostrato un video, girato da lui stesso, in cui sulla scrivania comparirebbero delle strisce di cocaina. Ovviamente è un falso, in primis indimostrabile. Ma soprattutto le "strisce di cocaina" sono i riflessi della cornice presente sulla scrivania di Zelensky, cornice che contiene una foto di famiglia. Il fatto che si tratti di una sporca menzogna e di basso livello emerge semplicemente guardando l'immagine qui sotto, un frame del video.

La qualità delle immagini come spesso accade nei video-fake è bassissima, proprio per trarre in inganno meglio. La disposizione delle righe, comunque, è simmetrica e determinata da fonti luminose presenti nella stanza, e i riflessi seguono i profili della cornice. Ma tant'è, questo è bastato a scatenare l'ultima vergognosa teoria, l'ultimo attacco al "drogato" Zelensky. Ovviamente, il video è stato rilanciato in primis da account che diffondono propaganda del Cremlino e a favore della Russia di Vladimir Putin.

Shaun Pinner e Aiden Aslin, chi sono i britannici in mano a Mosca (e come li sta usando il Cremlino). Libero Quotidiano il 18 aprile 2022.

Da 24 ore a questa parte i soldati inglesi finiti nelle mani dei russi vengono mostrati dalla tv di Mosca come un vero e proprio trofeo: si tratta di Shaun Pinner del Bedfordshire e di Aiden Aslin del Nottinghamshire, volontari arruolati nella 36esima brigata dei Marines d’Ucraina a Mariupol. La loro presenza nel Donbass viene usata dai russi anche per ribadire la presenza dell'Occidente in territorio ucraino. 

I due prigionieri, in realtà, non sono stati mandati lì dal loro governo o dalla Nato. La scelta - come riporta il Corriere della Sera - è stata personale per entrambi. Uno, il 48enne Pinner, si era trasferito quattro anni fa con la moglie e viveva a Donetsk. Intervistato dal Mail lo scorso gennaio aveva detto: "Sono pronto a difendere la mia famiglia e la mia città adottiva". Aveva anche previsto quello che poi è successo: "Se ci faranno prigionieri, i russi ci tratteranno in modo diverso, perché siamo inglesi. Questo pensiero è un chiodo fisso nella mia testa. Ma combatteremo comunque". L'altro, Aslin di 27 anni, ha deciso di arruolarsi dopo aver combattuto per diverso tempo in Siria nella milizia curda Ypg. Poi è stato lui stesso ad arrendersi: "Non abbiamo più munizioni, e non riusciamo a lasciare Mariupol".

In uno dei loro ultimi video diffusi dalla tv russa, i due prigioneri recitano un appello, forse suggerito, a Boris Johnson, chiedendogli di farsi garante di uno scambio con l’oligarca ucraino Viktor Medvedchuk, il leader dell’opposizione filorussa, finito nelle mani dell'esercito ucraino. Quest'ultimo è stato catturato a Kiev la settimana scorsa dopo essere evaso dagli arresti domiciliari ai quali era costretto dall’inizio dello scorso maggio.

Giampiero Mughini per Dagospia il 14 aprile 2022.

Caro Dago, ti confesso che non ci riesco più ad accendere la televisione allo scopo di usufruire delle immagini di distruzione e morte dalle parti delle parti di un Paese grande quanto la Francia, l’Ucraina. 

Cliccare per poi vedere le immagini di gente che è stata costretta in ginocchio prima di sparare un colpo a bruciapelo alla loro testa, città dove abitavano centinaia di migliaia di persone e che adesso sono sventrate palazzo dopo palazzo, persino i carri armati sovietici dove sono morti bruciati vivi dei ragazzi russi di vent’anni. 

Non posso guardare queste immagini come se fossero dei film interpretati da Humphrey Bogart o da Clint Eastwood. Non sono nel momento della mia vita, sessant’anni fa, in cui ero lieto a leggere sull’ “Unità” che comprava mio nonno comunista, che in Vietnam erano morti tot americani o magari più che tot.

Oggi stavo guardando un servizio televisivo dove dei giornalisti italiani raccontavano che gli ucraini s’erano vantati di conservare da qualche parte i corpi di 1500 russi uccisi in combattimento. Solo che gli ucraini non glielo avevano permesso ai giornalisti italiani di vederli quei corpi. Dio mio, mi sarei vergognato a guardarli come se fossero sequenze di un film di guerra americano in cui alla fine i “buoni” ucraini hanno la meglio sui “cattivi” russi. Così come sono senza parole innanzi alle possibili immagini di una nave da guerra che gli ucraini affermano di avere mandato giù e i russi lo negano. 

Beninteso, lo so che dall’ottobre del 1917 la parola “verità” in Urss - ossia nel regno della menzogna ideologica - non ha più avuto alcun senso. Detto questo io spero che la nave non sia affondata, perché altrimenti i russi si imbestialiranno oltremodo e sarà ancor più distruzione e morte da entrambe le parti. Morte e distruzione a gogo. 

La parola “pace” è uscita di scena come una parola non più alla moda. Gli americani conducono per interposto esercito ucraino una guerra che pensano di vincere, diversamente da quello che è successo loro in Afghanistan. I civili ucraini muoiono comunque, i palazzi vanno giù, a Mariupol non so se duemila o poco più o poco meno combattenti del reggimento Azov e pochi altri aspettano di essere massacrati dai russi da un momento all’altro.

E’ la battaglia di Stalingrado del terzo millennio. Chissà se Steven Spielberg ne trarrà mai un film. Io lo andrei a vedere al primo spettacolo. Quei combattenti ucraini che non pare siano stati in passato dei gentiluomini e che adesso stanno contendendo metro per metro agli invasori russi. E’ dal 2014 che filorussi e ucraini se le danno di santa ragione, e non che uno solo dei nostri talk-show se ne fosse accorto. Adesso tutti loro sono arrivati all’ultima stazione della via crucis, e noi che accendiamo la tv per vedere quanto l’orrore sia orrore. 

Un orrore alla grande. Dio mio, Dio mio, Dio, mio. No, non voglio vedere tutto questo. E invece sì voglio vedere dei russi e degli ucraini che accettano di convivere. Altro che la Svezia e la Finlandia che decidono proprio adesso di aderire alla Nato, così da mettere altra benzina sul fuoco.  Un’altra puttanata senza limiti.

Giampiero Mughini

SELVAGGIA LUCARELLI per editorialedomani.it il 14 aprile 2022.  

Sui manifesti di Milano, Roma e altre città occidentali sono comparse delle strane pubblicità che inneggiano all’orgoglio nazionale. Le hanno ideate alcune agenzie creative su iniziativa del governo ucraino in guerra

“Sii coraggioso come l’Ucraina”. Ero andata a comprare un giornale in edicola e, con un certo stupore, ho notato questa scritta all’interno dello spazio pubblicitario su un lato del chiosco. Ho cercato di capire cosa fosse, ma ero in ritardo e ho pensato che fosse il titolo interventista di qualche rivista che mi era sfuggita. O un incitamento di Zelensky, ripreso dalla stampa. 

Ho continuato a camminare con una leggera inquietudine, visto che non mi sentivo esattamente all’altezza dell’esortazione. Il giorno dopo sono passata dalle parti di corso Como e sul palazzo di fronte a Eataly, sul cartellone luminoso in cima al tetto, a caratteri cubitali, mi appare di nuovo la scritta: “Sii coraggioso come l’Ucraina”.

Decido di capire chi abbia interesse a convincermi di dover essere coraggiosa come uno stato attualmente in guerra, in seguito a un’aggressione. Chi abbia imbastito questa strana campagna motivazionale con un investimento evidentemente importante e che appare una sorta di reclutamento morale. Un qualcosa che assomiglia ai manifesti “I want you” dello zio Sam in versione 2.0. C’è qualcuno, insomma, che sta cercando di convincerci ad arruolarci moralmente, magari in vista di decisioni importanti del nostro paese rispetto all’ipotesi di un maggiore coinvolgimento in un possibile conflitto mondiale.

Questa volta, oltre all’esortazione, noto anche l’indirizzo di un sito in fondo alla scritta giallo-blu: brave.ua. Il mio stupore aumenta. Vado a vedere di cosa si tratti. Il sito sembra quello di un videogioco di guerra. Un’enorme scritta, “Bravery” (coraggio) e to be Ukraine. Poi: «Non puoi comprare il coraggio. Non puoi portarlo via. È un regalo dei tuoi genitori». 

E ancora: «Quando è iniziata la guerra, il mondo ci ha dato tre giorni. Abbiamo dato al mondo la possibilità di vedere cos'è il coraggio ucraino. Gli ucraini sono diventati la nazione più coraggiosa del mondo. Ora ci citano, ci ammirano, si ispirano a noi e ci dedicano una standing ovation. Non solo politici e governi, ma anche la gente comune. Oggi tutta l'umanità sa che il coraggio è essere ucraino».

Insomma, una serie di frasi che trasudano orgoglio e nazionalismo, forse con un lieve eccesso d’enfasi. Ma andiamo avanti, perché continuando a esplorare il sito le perplessità aumentano. C’è la possibilità di scaricare una serie di materiali quali il finto passaporto ucraino per sentirsi ucraini, loghi per poster e t-shirt con slogan quali “Il coraggio è nel nostro dna” o “L’Ucraina ha ispirato il mondo intero con il suo coraggio. Joe Biden”. 

C’è anche la possibilità di scaricare dei video e resto basita. Ci sono immagini della guerra modificate con filtri patinati, immagini vere e diventate tristemente note quali l’anziana aiutata dal pompiere a lasciare la sua casa in fiamme. La ragazza con i cani e poi un video denominato “Molotow” in cui si mostrano gli ingredienti con cui gli ucraini costruivano le molotov. «Il coraggio non ha alcuna ricetta se non acetone polistirolo e benzina», recita una voce alla Luca Ward.

Insomma, improvvisamente sembra il sito di una squadra di calcio, con gadget e merchandising vario, molotov a parte (si spera). 

Poi finalmente comincio a capire qualcosa, visto che la sezione successiva è “World campaign”, ovvero «come il coraggio ucraino può essere visto in tutto il mondo»: Londra, Roma, New York, Amsterdam, Washington, Stoccolma… Seguono le foto delle gigantesche affissioni nelle varie città del mondo, ovviamente tutte in paesi Nato (o che chiedono di farne parte).

Ed ecco che vedo quel «Be brave like Ukraine» che mi è familiare, ma anche «Pensavo di sapere cosa fosse il coraggio e poi ho visto l’Ucraina» sulla facciata di un palazzo o «L’Ucraina è la capitale delle persone coraggiose» alla fermata di un bus e così via. Seguono inviti ad attaccare adesivi con questi slogan ovunque in città, ad organizzare manifestazioni e a fare donazioni per l’Ucraina. Insomma, un’imponente campagna che sembra pensata e costruita per un brand, che occupa gli spazi spesso occupati da Gucci e Versace.

E in effetti – non è senz’altro un caso – il presidente Zelensky, in un video datato 7 aprile, caricato sul sito ufficiale del governo, ha dichiarato: «Essere coraggiosi è il nostro brand, porteremo il nostro coraggio nel mondo!». 

E dunque, chi c’è dietro questa patinata operazione di propaganda che mira a rendere l’interventismo una scelta glamour e promuove una nazione come fosse un profumo di Chiara Ferragni? 

Il sito è opera di Banda Agency, un’agenzia creativa ucraina con sede a Kiev e a Los Angeles. Un’agenzia che aveva già collaborato col governo ucraino in altre campagne, una delle quali tre anni fa mirava – ahimè – a convincere le aziende del mondo ad investire in Ucraina. E accanto al logo di Banda appaiono altre grandi agenzie creative a supporto dell’operazione (non si sa bene che genere di supporto) quali Dentsu e Publicis. In una nota si spiega che le pianificazioni media in 15 paesi, tra i quali l’Italia, sono state rese possibili grazie a spazi offerti da Omd, Dentsu e Publicis.

Ma, soprattutto, si scopre che il progetto è «approvato dal Ministero della trasformazione digitale dell’Ucraina». E così appare tutto più chiaro: dietro a questa campagna da brand luxury con pubblicità nelle vie dello shopping di tutto il mondo c’è il governo ucraino.

Cercando informazioni sul web non si trova praticamente nulla se non un’intervista al direttore creativo di Banda, Dmitry Adabir: «Proprio nel cuore del conflitto noi come agenzia abbiamo distribuito due film come risposta all’invasione. Il primo era un video che metteva in evidenza l’impatto della guerra sul paese. Il secondo esprimeva gratitudine per la solidarietà internazionale». 

«La terza campagna mira a fare del coraggio ucraino un marchio. Non vogliamo l’eroica Ucraina uccisa da un mostro». Dunque non c’era malizia nelle supposizioni precedenti. L’Ucraina che in piena guerra diventa un marchio è davvero un progetto ideato da un governo la cui comunicazione è sempre più uno strano miscuglio tra la promozione dei grandi film d’azione americani e Black Mirror.

E il sospetto, osservando l’operazione di comunicazione ampia e chirurgica nella scelta di immagini e video postati dallo stesso Zelensky sui suoi canali social, era già venuto da un po’. Ma chi è la vera mente del progetto? È facilmente individuabile, visto che il ministro della trasformazione digitale (nonché vice-primo ministro) è Mykhailo Fedorov, 31 anni, uno col mito di Elon Musk, sicuro che l’Ucraina diventerà il più grande hub It in Europa. 

Colui che ha convinto (con sorprendente successo) le grandi aziende di Silicon Valley a boicottare la Russia e che sui suoi canali ha avviato una sorta di arruolamento digitale: «Stiamo creando un esercito digitale e abbiamo bisogno di talenti digitali. Tutti i compiti operativi verranno assegnati online. Ci saranno compiti per tutti. Continuiamo a combattere sul fronte cyber». Ed è anche colui che per dimostrare il potere dei suoi hacker posta sui suoi social ufficiali foto di soldati russi – quelli sorpresi a saccheggiare case di ucraini – in compagnia delle mogli, in dimensioni familiari, dando generalità e città di provenienza.

Ad ogni modo, che sia una guerra che si combatte anche sul piano della comunicazione non è una scoperta. Certo è che però viene da domandarsi due cose: la prima è chi stia finanziando questa costosa campagna promozionale per far diventare il coraggio ucraino un brand. Il governo ucraino, si suppone. Con quali fondi, in un momento come questo?

La seconda: non dovrebbe essere più chiaro che si tratta di promozione politica e non di una campagna sociale, come appare al primo sguardo? (Il sindaco Beppe Sala, per dire, non era al corrente di queste affissioni).  

Perché il coraggio sta anche nel palesare lo scopo di un’operazione di marketing così ambigua, in cui con la scusa di promuovere il coraggio di un paese in guerra, si sponsorizza, di fatto, l’interventismo. «Sii coraggioso come l’Ucraina», dicono, non «Siamo coraggiosi». E che nei video promozionali ci siano anche le molotov (che possono pure avere un sapore eroico durante l’urgenza della guerra, ma non fuori per uno spot), non solo è abbastanza discutibile ma appare come una deriva inquietante che ha il sapore dell’ultra nazionalismo. 

Insomma, «Sii coraggioso» è un’operazione di war-branding del governo ucraino che per essere almeno accettabile andrebbe promossa come tale, senza ambiguità: altrimenti è propaganda mascherata bene. E questo è un vizio che lasceremmo volentieri ai cattivi. 

Da today.it il 12 aprile 2022.

Il presidente russo Vladimir Putin è intervenuto in conferenza stampa insieme al leader bielorusso Alexander Lukashenko, dopo una visita al cosmodromo nella regione dell'Amur: "Quello che sta succedendo in Ucraina è una tragedia, ma la Russia non aveva scelta". Il leader del Cremlino ha sottolineato più volte come, secondo lui, non ci fosse altro modo di agire se non quello di iniziare l'invasione in Ucraina:  "Quello che sta succedendo in Ucraina è una tragedia, ma Alexander Lukashenko ha detto correttamente: non c'era scelta - ha affermato - Semplicemente non c'era scelta, l'unica domanda era quando sarebbe iniziato. Questo è tutto".

Putin: "Le immagini di Bucha sono false"

Un "fake". Vladimir Putin ha definito così di Bucha, degli orrori di Bucha, nel mezzo della guerra in Ucraina, dopo l'invasione russa, e delle accuse a Mosca. Secondo l'agenzia Tass, il presidente russo ha detto di aver ricevuto dall'omologo e alleato bielorusso Alexander Lukashenko documenti su Bucha e ha aggiunto: "È falso". "L'operazione militare speciale sta andando secondo i piani" ha ribadito Putin, affermando che la Federazione russa vuole raggiungere tutti i suoi obiettivi in Ucraina, riducendo al minimo le perdite, ha detto Putin.

Il presidente ha poi ringraziato i militari russi impegnati nell'operazione: "Prima di tutto, vorrei esprimere la mia gratitudine ai soldati e agli ufficiali russi per l'eroismo e il coraggio che mostrano nel servire la nostra patria. Svolgendo compiti complessi e pericolosi nel Donbass, in Ucraina, i nostri militari proteggono gli interessi della Russia, proteggono la Russia".

Durante la conferenza stampa tenuta al cosmodromo di Vostochnym insieme a Lukashenko, Putin si è anche soffermato sullo stato dei negoziati: "I colloqui sono ad un vicolo cieco, l'Ucraina ha deviato dagli accordi presi a Istanbul. Il sistema finanziario russo funziona bene, ma il rischio di danmi causati dalle sanzioni potrebbe aumentare a medio e lungo termine. Riguardo alle sanzioni - ha aggiunto - speravo in maggior buon senso da parte dell'Occidente. 

"Bielorussia posto giusto per i negoziati"

Putin ha poi "individuato" la Bielorussia come "il posto giusto" per i negoziati tra Mosca e Kiev. "Vorrei esprimere la mia gratitudine ai nostri colleghi bielorussi per la buona organizzazione di diversi round negoziali sul loro territorio - ha affermato - È diventato possibile avviare un dialogo diretto con la parte ucraina in gran parte grazie agli sforzi personali del presidente Alexander Lukashenko - Riteniamo che la Bielorussa sia il posto giusto per ulteriori contatti". 

"Russia e Bielorussia dovrebbero rafforzare la loro integrazione per fare fronte comune contro le sanzioni dell'Occidente - ha aggiunto Putin -Sono convinto nella situazione attuale, in cui i paesi occidentali hanno scatenato una guerra di sanzioni a tutto campo contro la Russia e la Bielorussia, è importante rafforzare la nostra integrazione nel quadro dell'Unione (tra i due Paesi, ndr) Siamo d'accordo con Alexander su questo".

Anna Zafesova per “La Stampa” l'11 agosto 2022.

«I bambini uccisi in Ucraina non sono un fake... Quanti bambini devono morire prima che voi vi fermerete?»: l’ultimo post di Marina Ovsiannikova prima dell’arresto potrebbe essere considerato un’aggravante. 

La ex redattrice del Primo canale della Tv di Stato russa, diventata famosa a marzo per aver fatto irruzione nello studio del telegiornale con il cartello «No alla guerra», è stata arrestata ieri nella sua dacia vicino a Mosca, e rischia ora fino a dieci anni di carcere. 

L’accusa è di «diffusione di fake news sull’esercito russo per motivi di odio politico», articolo 207 del codice penale, introdotto con l’inizio della «operazione militare speciale» e responsabile già di migliaia di arrestati e condanne anche soltanto per un post che denunciava la guerra contro l'Ucraina.

Ma quello di Marina Ovsiannikova è un caso simbolico: non solo la sua protesta era stata così visibile, ma anche perché molti, soprattutto in Ucraina, l’avevano sospettata di essere a sua volta parte della propaganda, una finta dissidente inventata dal Cremlino per mostrare che in Russia poteva esistere il dissenso.

L’obiettivo del regime putiniano negli ultimi mesi è stato semmai quello di dimostrare ai russi che ogni dissenso viene immediatamente punito, ma la stessa giornalista ha fatto di tutto per dimostrare di essere una dissidente «vera», e di farsi perdonare gli anni passati a lavorare per la propaganda statale. 

Quasi cercando lo scontro con il regime, aveva manifestato davanti al Cremlino con il cartello «Putin è un assassino, i suoi soldati sono dei fascisti», augurando pubblicamente la vittoria militare all’Ucraina e il tribunale internazionale a Putin e ai suoi alleati.

Qualcosa che non si poteva più tollerare: i propagandisti russi accusano apertamente Ovsiannikova di lavorare per lo spionaggio britannico, e il suo ex marito aveva iniziato la procedura per toglierle la custodia dei loro due figli. 

Chiamare la guerra «guerra», e raccontarne le atrocità, è definitivamente un reato: ieri a Mosca un tribunale ha inflitto una multa pesantissima alla Novaya Gazeta per il reportage di Elena Kostiuchenko dalla Kherson occupata dai russi, con la motivazione «per abuso della libertà di stampa». E a Ekaterinburg il deputato locale Aleksey Khodarev è stato incarcerato per aver postato sui social l’inchiesta di Aleksey Navalny sulla corruzione dell'ex presidente e premier Dmitry Medvedev, considerata «materiale estremista».

Le repressioni in Russia sembrano intensificarsi proprio mentre l’Unione Europea sta discutendo se negare a tutti i cittadini russi – inclusi i dissidenti – il diritto a richiedere un visto Schengen. La proposta era stata lanciata da Volodymyr Zelensky in un’intervista al Washington Post, insieme all’idea di «rispedire indietro» anche i russi fuggiti dopo la guerra. 

La visione di responsabilità collettiva di un popolo ha suscitato l’immediata protesta dei leader dell’opposizione russa – dallo scacchista Garry Kasparov all’economista Sergey Guriev, tutti in forzato esilio – che ha ricordato come i russi che protestano rischino il carcere, e come un divieto «etnico» possa venire utilizzato dal Cremlino.

In effetti, Medvedev ha subito paragonato Zelensky a Hitler, mentre altri propagandisti hanno accusato gli ucraini – e gli europei – di «russofobia». Ma ieri il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha insistito chiedendo a Ue e G7 di bandire i russi: «Appoggiano in maggioranza la guerra, devono imparare a rispettare i confini prima di attraversarli». 

Una questione che ora sta spaccando l’Ue. Gli Stati Baltici hanno tutti limitato o sospeso i visti per i russi, e la premier estone Kaja Kallas ha dichiarato che viaggiare in Europa «non è un diritto, è un privilegio».

Sofia e Praga aderiscono alla proposta, anche perché temono la «quinta colonna» di numerosi russi che possiedono immobili, e la premier finlandese Sanna Marin vorrebbe chiudere i visti ai russi che usano Helsinki come punto d’ingresso per proseguire poi le vacanze altrove in Europa. In diverse città europee – tra cui Milani, Vienna e Berlino – ci sono stati scandali con turisti russi che aggredivano e insultavano profughi ucraini inneggiando a Putin. 

L’Europa ora dovrà decidere come risolvere il dilemma dell’impedire ai cittadini di un Paese invasore di godersi spiagge e negozi, senza penalizzare chi cerca di fuggire dalla Russia. Un dossier delicato, e un portavoce della diplomazia tedesca ieri ha confermato che il divieto ai russi di chiedere visti europei potrebbe «ipoteticamente» entrare nel prossimo pacchetto di sanzioni Ue. 

Da ansa.it il 3 ottobre 2022.

La giornalista russa Marina Ovsyannikova, diventata famosa per avere mostrato un cartello contro l'operazione militare in Ucraina durante una diretta televisiva, è stata inserita dal ministero dell'Interno nella lista dei ricercati. Lo riferisce il sito Mediazone. 

Ovisannikova era agli arresti domiciliari con l'accusa di avere diffuso false notizie contro le forze armate, ma, secondo quanto riferito dal marito, il primo ottobre sarebbe fuggita portando con sé la figlia di 11 anni.

La giornalista era diventata famosa in tutto il mondo lo scorso marzo per essere apparsa in diretta alle spalle di una conduttrice del telegiornale mostrando il cartello 'Stop alla guerra, non credete alla propaganda'. 

Per quell'episodio era stata condannata a una multa, ma lo scorso agosto era stata posta agli arresti domiciliari per avere mostrato vicino al Cremlino un altro cartello contro la cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina. Per questo episodio era stata posta agli arresti domiciliari fino al 9 ottobre.

Marina Ovsyannikova di nuovo arrestata a Mosca. La collaboratrice del Dubbio fermata a Mosca, il suo avvocato vuole saperne di più sulle accuse mosse dall’autorità giudiziaria. Gennaro Grimolizzi Il Dubbio l'11 agosto 2022.

Marina Ovsyannikova è stata di nuovo arrestata. I timori della collaboratrice del Dubbio su un’altra azione eclatante della polizia e dei servizi di sicurezza si sono rivelati più che fondati e si sono materializzati all’alba di ieri. Mercoledì sera, dopo aver scritto per il nostro giornale un interessantissimo pezzo sui processi a porte chiuse nei confronti dei dissidenti e sulla cosiddetta “psichiatria punitiva”, Ovsyannikova ha espresso a chi scrive tutta la sua preoccupazione per i continui pedinamenti. Due auto – probabilmente dell’Fsb – l’hanno seguita tutto il giorno per le vie di Mosca e fino sotto casa.

Ieri mattina alle sei il blitz di ben dieci tra poliziotti e uomini del Comitato investigativo per effettuare una perquisizione alla presenza della figlia undicenne. La giornalista dissidente è stata prelevata dalla sua abitazione e condotta in quelle che in Russia chiamano “Commissioni d’inchiesta”. Nel momento in cui andiamo in stampa non ci sono ancora notizie su un suo rilascio. Il suo numero di telefono risulta irraggiungibile. Si tratta del secondo arresto nel giro di poco più di un mese.

Questa volta le autorità russe contestano a Marina Ovsyannikova la protesta di qualche settimana fa con l’esposizione, nel centro di Mosca, di uno striscione contro Putin e di condanna per l’uccisione di numerosi bambini in Ucraina. Il procedimento penale aperto nei confronti dell’ex redattrice di Channel One rientra tra quelli sulla diffusione di notizie false riguardanti l’esercito russo (articolo 207.3 del codice penale della Federazione Russa). Per questo reato è prevista la reclusione fino a dieci anni.

L’avvocato di Ovsyannikova, Dmitry Zakhvatov, ha dichiarato all’Afp che vuole conoscere meglio le accuse mosse dall’autorità giudiziaria. Lo scorso 8 agosto Ovsyannikova si è presentata per l’ennesima volta nel Tribunale di Cheremushkin per difendersi dall’accusa di aver screditato l’esercito russo con un post pubblicato su facebook. È stata condannata al pagamento di una multa di 40mila rubli (neanche mille euro).

Tre giorni fa Marina ha ironizzato sul “grande lavoro” dei magistrati, intenti a far tacere una voce libera e critica nei confronti di Putin. Rivolgendosi al giudice, Ovsyannikova ha detto: «Vostro Onore, questa è la terza assurda causa contro di me. Più precisamente, una imitazione di una causa. Ancora una volta ribadisco che il diritto alla libertà di parola mi è garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Pertanto, considero assurde e inaccettabili le accuse mosse contro di me». Ieri l’ennesima puntata della repressione del dissenso nella Russia putiniana.

Marina Ovsyannikova, la polizia russa arresta la giornalista del cartello «No alla guerra». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 18 Luglio 2022.  

Venerdì è apparsa di fronte al Cremlino con un altro cartello: «Putin è un assassino, e i suoi soldati sono dei fascisti. Hanno ammazzato 352 bambini». Una sfida troppo evidente per essere ignorata. 

Quando era andata in Ucraina per conto di un giornale tedesco, era stata accolta malissimo . Dicevano che faceva il doppio gioco, che era una marionetta al soldo del Cremlino. Anche nella sua Mosca correvano voci sulla sua presunta ambiguità, alimentate anche dai messaggi ondivaghi che pubblicava sul suo account di Telegram. Forse da ieri c’è qualche dubbio in meno sulla sua sincerità. Marina Ovsyannikova , la giornalista dell’emittente statale e filogovernativa Primo Canale, che lo scorso 14 marzo era apparsa in diretta durante il telegiornale con un cartello sul quale mischiando russo e inglese era scritto «Ferma la guerra, non credere alla propaganda, qui ti stanno mentendo», è stata arrestata.

Le era già successo quella stessa sera, e il suo rilascio avvenuto dopo pochi giorni era stato il fattore scatenante dei sospetti sul suo conto. Era stata punita con una multa equivalente a cinquecento euro. Neppure troppo pesante, quasi simbolica. Questa volta, le autorità non hanno potuto esimersi. Venerdì era apparsa sulla sponda della Moscova, di fronte al Cremlino, con un altro cartello in mano, ancora più esplicito del precedente. «Putin è un assassino, e i suoi soldati sono dei fascisti. Hanno ammazzato 352 bambini. Quanti altri ne volete uccidere prima di fermarvi?» La sfida era troppo evidente per essere ignorata, troppo vicina al simbolo del potere russo.

Ovsyannikova era rientrata a Mosca da una settimana, per seguire la causa di affidamento dei suoi due figli. L’ex marito, anch’egli giornalista, dopo aver condannato la sua protesta in diretta che aveva attirato l’attenzione del mondo intero, aveva infatti chiesto al tribunale l’affidamento dei ragazzi, di undici e diciassette anni, sostenendo che Marina era ormai diventata un «agente straniero» e aveva scelto di lavorare all’estero. Proprio l’essere madre di due minorenni era stata la ragione giuridica che aveva giustificato la sua mancata incarcerazione. Ma non era stata sufficiente a proteggerla dalle teorie del complotto, che parlavano di una messinscena concordata con il Cremlino per mostrare come il dissenso sia possibile e consentito, e avevano trovato terreno fertile in alcune sue dichiarazioni contro le sanzioni occidentali.

La giornalista, nata a Odessa nel 1978 ma cresciuta nella Russia meridionale, aveva invece continuato a protestare contro la guerra in Ucraina, in solitudine. Era anche convinta che in qualche modo la resa dei conti sarebbe prima o poi arrivata. Non sbagliava. Negli ultimi giorni il suo canale Telegram aveva lanciato un nuovo slogan che non lasciava presagire nulla di buono. «Gde Marina?» Dov’è Marina? Poi sono apparse le foto che mostravano alcuni agenti che la portavano via. Neppure quelle immagini le avevano risparmiato ironie sui vestiti di lusso e sul suo presunto doppio gioco. Ieri, un altro messaggio. «È stata arrestata e le informazioni sulla sua posizione sono ignote». Sono le stesse parole che vennero utilizzate anche a marzo. Ma questa volta è assai probabile che la fine della storia sia ben diversa, purtroppo.

Rilasciata la giornalista dissidente russa (e collaboratrice del Dubbio) Marina Ovsyannikova. La giornalista: «Ormai ho capito che è meglio uscire di casa con il mio passaporto e una borsa». Il Dubbio il 18 luglio 2022.

Rilasciata dopo poche ore di detenzione la giornalista russa marina Marina Ovsiannikova, collaboratrice del Dubbio, divenuta famosa per aver esibito in televisione durante un telegiornale un cartello contro la guerra in Ucraina e arrestata ieri per aver protestato di nuovo contro l’invasione. «Va tutto bene», ha dichiarato la giornalista su Facebook durante la notte. «Ormai ho capito che è meglio uscire di casa con il mio passaporto e una borsa». L’avvocato della giornalista – che perse il lavoro dopo l’exploit televisivo – ha confermato il rilascio, aggiungendo che il fermo era dovuto al sospetto che stesse screditando le forze armate russe.

La reporter – che archiviata la collaborazione col quotidiano tedesco Die Welt aveva appena iniziato a scrivere per il Dubbio – aveva partecipato ieri a una manifestazione di protesta davanti al Cremlino contro i bombardamenti sulla città ucraina di Vinnitsa. «I media di propaganda non hanno detto una parola sulla morte dei bambini il giorno in cui è successo», aveva scritto poche ore fa sui social network. «Oggi 353 vite di piccoli angeli sono state portate via da questa guerra insensata. Quanti altri bambini devono morire perché le truppe russe smettano di bombardare l’Ucraina?», recita il post. «Questi bambini sono diventati semplici pedine in una feroce lotta per il potere, l’influenza, i gasdotti e i porti di grano. Ma tutto questo vale le lacrime di un solo bambino innocente?».

Marina Ovsyannikova è attesa in Tribunale per l’8 agosto a causa della legge putiniana che stronca ogni punto di vista anche solo vagamente critico sull’invasione russa.

Marina Ovsyannikova, la giornalista che protestò sulla tv russa, contestata e «cacciata» dall’Ucraina. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.

La reporter diventata celebre dopo avere mostrato un cartello in diretta ha dovuto cancellare una conferenza a Kiev: gli ucraini non le perdonano il ruolo nella propaganda di Mosca. 

Per il mondo occidentale è una sorta di piccola eroina del dissenso interno contro Vladimir Putin, lei che ha osato criticare in diretta lo zar e la sua guerra su uno dei canali più popolari (e filogovernativi) della Russia. Eppure Marina Ovsyannikova, la giornalista che il 14 marzo si è presentata alle telecamere di Channel One Russia con il cartello «No alla guerra. La propaganda vi mente», vive una situazione paradossale: è disprezzata tanto dai russi quanto dagli ucraini.

I primi la considerano una sovversiva al soldo del nemico — «È una spia al servizio della Gran Bretagna», ha sostenuto il direttore della televisione dove lavorava — i secondi una traditrice in cerca di redenzione dopo aver contribuito a propagare le false verità del Cremlino. E, cosa ancora più grave, di averlo fatto pur essendo nata a Odessa. Nel Paese sotto attacco, la reporter è così malvista da essere stata costretta a cancellare, l’1 giugno, una conferenza stampa in programma a Kiev su un tema che pure le è familiare: «Come funziona la propaganda russa».

Appena si è diffusa la voce, sulle pagine social di Interfax-Ucraina, l’organizzatore dell’evento, sono piovuti centinaia di commenti negativi, tra i quali ha persino cominciato a prender piede l’idea di organizzare una protesta sotto gli uffici dell’agenzia di stampa. Sta di fatto che, nel giro di un’ora, la conferenza è stata cancellata. È solo l’ultima di una serie di attacchi che le sono arrivati da più parti: il 14 aprile, alcuni attivisti ucraini hanno chiesto che la giornalista venisse licenziata da Die Welt , il quotidiano tedesco che l’ha assunta dopo che è stata rilasciata dal tribunale di Mosca. Solo una settimana più tardi, le è stato negato il “Premio per la libertà della Germania” come conseguenza di altre proteste.

Ovsyannikova vive tuttora a Berlino. Ma ha già in programma di tornare a Mosca «perché lì è la mia casa e lì tornerò», ha ripetuto a Non è l’arena ieri sera. Lì abitano i suoi figli, che l’hanno accusata di avere «distrutto la loro famiglia», e l’ex marito, anche lui giornalista per RussiaToday che l’ha denunciata per levarle il diritto a vederli . «La mia vita è distrutta, non ho più niente», ha proseguito ai microfoni di La7. Neppure la simpatia dei suoi connazionali, che non le hanno perdonato il suo passato: lo dimostra la secca reazione dell’attivista ucraina Daria Kaleniuk alla notizia che le sarebbe stato consegnato il premio Vaclav Havel per il dissenso creativo: «È una vergogna».

L’urlo di Marina Ovsyannikova: «Per Putin sono una traditrice, per gli ucraini una spia russa». La giornalista che denunciò la guerra sta vivendo una situazione paradossale ma non si perde d’animo. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'11 giugno 2022.

Marina Ovsyannikova sta pagando un prezzo molto alto per le scelte coraggiose dei mesi passati. Dopo aver mostrato un cartello contro la guerra in Ucraina, durante il telegiornale filogovernativo di Channel One, la giornalista- dissidente fa i conti con la durezza dei media ucraini e con la conclamata avversione della Russia (si veda anche Il Dubbio dell’ 8 giugno).

Tanto in Ucraina quanto in Russia viene considerata una spia. A Kiev la ritengono vicina all’Fsb (i servizi segreti russi), a Mosca impegnata a fornire supporto ai britannici. Inoltre, in Ucraina l’ostilità si è manifestata con l’annullamento di alcune iniziative che avrebbero dovuta averla come protagonista. Marina è però una donna forte e, nonostante il clima pesante che la circonda, continua per la sua strada e a fare il lavoro che ama. Non dimentichiamo che anche ad Anna Politkovskaja fu fatta terra bruciata dal sistema putiniano, fatte salve le profonde differenze tra Ovsyannikova e la giornalista di Novaja Gazeta.

Dopo la clamorosa protesta davanti a milioni di telespettatori, negli studi del Primo Canale, il giornale tedesco Die Welt si è assicurato la collaborazione giornalistica di Ovsyannikova. Da un paio di mesi la sua città di adozione è Berlino. Da qui, almeno fino all’inizio del prossimo autunno, Marina Ovsyannikova racconterà quanto accade in Ucraina dal suo duplice osservatorio, dato che è originaria di Odessa e ha lavorato per anni con la televisione che incensa ogni giorno la Russia di Putin.

Le scelte professionali di Marina hanno avuto dirette ripercussioni sulla sua vita privata. Lontana dai figli, rimasti a Mosca, rischia di combattere su due fronti. Il primo: difendersi dalle accuse e dall’inevitabile processo cui andrà incontro a seguito della contestazione negli studi di Channel One. Il secondo fronte, quello più delicato, riguarda il ricongiungimento con almeno la figlia minore. Vorrebbe riabbracciarla e averla con sé a Berlino, ma si tratta di una cosa tutt’altro che facile.

L’ex compagno, giornalista del desk spagnolo e dell’America Latina di Russia Today (uno degli amplificatori della voce e delle gesta del Cremlino), le sta dando filo da torcere proprio sull’affidamento dei figli e pretende la piena custodia. Il figlio maggiore ha dichiarato nelle scorse settimane di essere «un forte sostenitore della guerra in Ucraina» e considera la madre «una traditrice». Abbiamo contattato la reporter per commentare con lei le ultime vicende.

«Vivo con tristezza – dice ancora al Dubbio Marina Ovsyannikova – questa difficile situazione, ma mi faccio forza. Stare lontano da mia figlia è la cosa che mi pesa di più». In tutto questo, però, Marina non perde l’ottimismo, che le viene trasferito dai numerosi attestasti di stima, dalla vicinanza dei lettori e dalla considerazione dei media italiani. Il nostro giornale ad aprile ha avuto il piacere di intervistare Marina (siamo stati i secondi dopo la trasmissione televisiva “Che tempo che fa” condotta da Fabio Fazio).

«Grazie Italia – continua Ovsyannikova – per quanto fai. Mi sostieni davvero in questa situazione assurda. Avrei voluto lavorare in Ucraina come giornalista, mostrare i crimini di Bucha, di Kharkiv, registrare un’intervista con Zelensky». Tutto congelato per il momento. Marina è conscia di essersi messa contro l’apparato di potere e mediatico della Russia di Putin. «Per distruggere la propaganda del Cremlino – aggiunge – ho dovuto dire la verità ai russi. Alla fine tutto si è trasformato in un’assurdità. Sto pensando di tornare a Mosca per partecipare al processo nel quale sarò coinvolta. Combatterò e lo farò prima di tutto per mia figlia, che dovrebbe vivere con me, non con suo padre».

La producer diventata famosa in tutto il mondo dopo la protesta in diretta. “Marina Ovsyannikova spia della Russia”, le accuse alla giornalista sospettata da Kiev. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

Marina Ovsyannikova non sa se finirà in una prigione russa o in una prigione ucraina. “In Ucraina mi odiano e mi credono una spia dell’Fsb, in Russia pensano che sia una spia britannica”, ha detto in un’intervista a Repubblica la giornalista diventata famosa in tutto il mondo dopo aver interrotto il telegiornale di Channel One della tv pubblica russa con un cartello contro la guerra scatenata dal presidente Putin in Ucraina. Da allora, dice, vive a Berlino da sola, lontano dai figli, ha perso quello che era il suo lavoro, la sua casa ma in Ucraina sono convinti che sia una spia dell’FSB.

La giornalista è nata a Odessa, per metà russa e per metà ucraina. Oggi lavora come freelance per il quotidiano tedesco Die Welt. Il suo viaggio tra Kiev e Odessa di fine maggio è diventato un caso nazionale. Ma da dove viene la convinzione che si tratti di una spia del nuovo KGB? Da alcune sue dichiarazioni in cui Ovsyannikova aveva sostenuto che sarebbe stato più giusto separare, per quanto riguarda le sanzioni occidentali, il presidente russo Vladimir Putin e gli oligarchi dalle persone comuni e dall’economia russa.

“Esattamente la narrativa di cui ha bisogno il Cremlino per farsi togliere le sanzioni”, ha scritto su Facebook Dima Replianchuk, giornalista investigativo ucraino che in collaborazione con la Procura Generale di Kiev indaga sui crimini di guerra. Una sintesi di quello che è il sentimento nei confronti della giornalista. Il suo viaggio in Ucraina è stato definito una missione di propaganda dell’Fsb – a Repubblica, per provare i suoi propositi, Ovsyannikova ha mandato degli spezzoni del reportage che ha preparato mentre era in visita davanti a un albergo di Odessa distrutto da un bombardamento.

“Quelle frasi sulle sanzioni le ho dette prima di aver visto il massacro di Bucha, ora ho cambiato idea! Ora sono convinta che la guerra sia una responsabilità collettiva dei russi e che la comunità internazionale debba colpire la Federazione con più sanzioni di quante ne ha già approvate. Ero pronta a spiegarlo di persona, però non me ne è stata data la possibilità”. Ovsyannikova avrebbe voluto spiegarsi in una conferenza stampa, ideata da lei con Die Welt e due ong, una americana e una olandese, organizzata dall’agenzia Interfax-Ucraina per il 31 maggio, Occasione che però è stata cancellata. La responsabile dell’osservatorio sulla trasparenza dei media, Natalia Lyhachova, aveva invitato a ignorare l’evento.

“Sono stati i vertici di Interfax-Russia a chiamare e a ordinare di annullare la conferenza”. Almeno ufficialmente, tuttavia, la filiale ucraina si è staccata dalla sede di Mosca dopo Euromaidan. Fatto sta che da simbolo della dissidenza russa – della quale si sono perse le notizie dopo le manifestazioni contrarie alla guerra dopo l’inizio dell’invasione – Ovsyannikova è diventata profilo sospetto anche a Kiev. “Ero disponibile a rispondere a ogni domanda, anche a ripetere per l’ennesima volta che sono uscita dalla Russia non perché sono una spia ma solo grazie all’aiuto della comunità internazionale, soprattutto Stati Uniti e Francia. Zelensky allora si era congratulato con me”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Leonard Berberi per il “Corriere della Sera” il 17 maggio 2022.

Marina Ovsyannikova, la giornalista della tv russa Canale 1 che il 14 marzo fece irruzione al tg per dire no alla guerra in Ucraina, rischia di perdere la custodia dei figli - di 11 e 17 anni - per una causa intentata dall'ex marito.

A rivelarlo, nell'intervista alla pubblicazione russa Holod, è Ovsyannikova, 43 anni, che ora vive in Germania, scrive per il quotidiano Die Welt e per quella irruzione in tv è stata condannata a pagare 250 euro di multa.

La giornalista ha saputo della causa il 14 maggio, anche se risulta depositata il 19 aprile. Il contenuto «è sconosciuto» - riporta Holod -, ma appartiene alla categoria delle «controversie relative all'educazione dei bambini». 

Ieri alla prima udienza la donna - che vuole tornare in Russia solo quando Putin se ne sarà andato - non era presente. Anche perché se perdesse la custodia dei figli, in particolare della più piccola, per le norme locali finirebbe in cella proprio per l'incursione in tv. Ovsyannikova racconta che è separata da tre anni e mezzo dall'ex marito, dipendente dell'altra tv di Stato Rt (ex Russia Today ), che non permette ai figli di andare a vederla in Germania. «Non so perché mi abbia fatto causa - dice - eravamo in rapporti abbastanza normali, ma dopo la protesta non mi parla più». 

Uno dei ragazzi, il 17enne, è «un forte sostenitore della guerra in Ucraina» e la considera una traditrice. La donna ha ceduto la casa ai figli così da non avere alcuna proprietà da far sequestrare. «Penso che il mio ex marito sia stato costretto ad agire contro di me», ipotizza e punta il dito sulla direttrice di Rt. Non che con gli ex colleghi vada meglio: «Mi scrivono su Facebook insulti e maledizioni».

Marina Ovsyannikova torna in Russia: «Sfido Putin per salvare i miei figli». La giornalista a Mosca per difendere la figlia di 11 anni dalla volontà di affido esclusivo del padre. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 5 luglio 2022.

Il coraggio di una madre e di una giornalista che ha detto basta alla propaganda putiniana. Quella di Marina Ovsyannikova è la storia di una donna che guarda in faccia la realtà, conscia dei rischi che corre nella Russia di Putin, dove è vietato parlare di guerra e criticare il grande manovratore del Cremlino, inviso ormai a mezzo mondo.

Marina Ovsyannikova è rientrata ieri a Mosca, dopo una parentesi all’estero, lontana dai due figli, durata quasi quattro mesi. Archiviata la collaborazione con il giornale tedesco Die Welt, oggi la ex giornalista di Channel One comparirà in Tribunale a Mosca per difendere il suo diritto di madre coraggiosa e amorevole. L’ex marito, un importante giornalista di RT, legato a Putin e agli oligarchi, vuole prendersi cura esclusivamente dei figli di 17 e 11 anni. Una scelta che sin dal primo momento ha visto contraria Marina, desiderosa di stare accanto almeno alla figlia undicenne. Desiderosa di trovare con il suo avvocato una soluzione per portarsela fuori dalla Russia e ricominciare una nuova vita. Mettersi alle spalle la carriera di giornalista di regime, che, in un moto di coscienza, ha voluto dare una svolta alla propria vita. Troppo pesante la lontananza senza svolgere il ruolo materno. Ovsyannikova avrebbe potuto continuare a vivere all’estero.

Negli ultimi mesi ha realizzato reportage in Moldavia, Ucraina, Lituania, avendo come base Berlino. In Germania, nell’ambasciata francese, ha ricevuto poche settimane fa un importante riconoscimento a dimostrazione del suo impegno per la libertà di stampa. A maggio le è stato consegnato ad Oslo il Premio Vaclav Havel per il dissenso e le critiche espresse dopo la decisione della Russia di invadere l’Ucraina, il Paese in cui è nata nel 1978.Ora, il ritorno in patria e il delicato appuntamento giudiziario di oggi. Nella Russia di Putin nulla è certo.

Marina ha contestato in maniera clamorosa la guerra in Ucraina nello scorso di mese di marzo. Lo ha fatto davanti a milioni di telespettatori durante l’edizione serale del telegiornale, esponendo alle spalle della conduttrice un cartello con la scritta: “No alla guerra, fermate la guerra. Non credete alla propaganda, vi stanno mentendo”. Per quel gesto ha trascorso una notte in un commissariato di polizia ed è stata multata. Sul processo riguardante la protesta del 14 marzo non si conosco molti dettagli, neppure la diretta interessata è in grado di prevedere la piega che prenderà. Quello che conta adesso è evitare che il marito le strappi i figli. Per il più grande è la stessa Ovsyannikova a non farsi illusioni.Prima di partire ha scritto un post sulla sua pagina Facebook in cui emergono preoccupazione e rabbia per quanto sta accadendo nel suo Paese, «un luogo dove tutto è impregnato di odio e di simbolismo militarista».

La speranza di Marina è di riprendere a vivere con la figlia undicenne, possibilmente lontano da Mosca, e che in Russia cambi qualcosa. «Mio figlio – scrive la giornalista-dissidente – è ormai maggiorenne e ha il diritto di determinare il proprio destino. Ma mia figlia di 11 anni deve vivere con me fuori dallo Stato aggressore. Solo fuori dalla Russia in guerra potrò trasferirle corretti valori morali. Deve crescere in una società occidentale libera, dove ogni vita umana non ha prezzo. Dove ai bambini si insegnano cose buone invece di provocarli ad odiare le persone di altre nazionalità, costringendoli a marciare in uniformi militari, disegnare la svastica sotto forma di lettera Z e lodare la guerra. Per milioni di famiglie questa guerra è diventata una vera tragedia. Putin e il suo esercito hanno portato dolore e sofferenza in ogni casa da entrambi i lati del confine. La nostra società è sprofondata in un abisso di odio, aggressività e caos. Per quale idea nazionale stanno combattendo i soldati russi? Perché hanno occupato la terra straniera?».

Marina è realista. Sa bene che la sua sovraesposizione mediatica e giudiziaria è un’arma a doppio taglio. Potrà essere arrestata o potrà continuare a far sentire la sua voce critica. In quest’ultimo caso lo potrà e lo vorrà fare in Russia, senza la possibilità di espatriare con la figlia? Fino a quando Putin glielo consentirà? Lei però non demorde e spera che l’Europa la accolga come una cittadina richiedente protezione. Sul suo caso sembra che la Gran Bretagna sia particolarmente attenta. Dagli Stati Uniti, invece, l’attenzione è rivolta sul fronte editoriale, sulla storia della giornalista che si è messa contro Putin.

«Non mi nasconderò vigliaccamente e non tacerò», ha detto ieri prima di imbarcarsi. «Potrei essere arrestata – ha aggiunto – proprio all’aeroporto. Sarò accusata di un nuovo “articolo falso” per la mia protesta in diretta su Channel One o per i miei post contro la guerra e sui social media. Ma qualunque cosa accada, non mi tirerò indietro per le parole che ho detto. Nessuna forza può compromettere la mia coscienza. Chiamerò sempre la guerra con il suo nome. E quelli che hanno scatenato questo sanguinoso massacro sono dei criminali, che alla fine finiranno sul banco degli imputati del Tribunale internazionale».

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 3 luglio 2022.  

È un’altra penosa storia di violenza e discesa nell’orrore concentrazionario della Russia di Vladimir Vladimirovich Putin. E tra l’altro sottolinea certe stranissime disparità di trattamenti che pongono interrogativi inquietanti. 

Mentre Marina Osyannikova – la producer di Rossiya1 che alzò un cartello pacifista durante il tg della sera – è stata rilasciata con una piccola multa, e adesso collabora con un settimanale importante in Germania – ieri nel tardo pomeriggio in Russia la reporter Maria Ponomarenko, che fu incarcerata per aver detto la verità su Mariupol – ossia che sul teatro drammatico di Mariupol erano stati lanciati missili russi, non avallando la narrazione del Cremlino di una esplosione dall’interno causata dal battaglione Azov – è stata ora trasferita in un centro di detenzione psichiatrico.

Il collettivo di reporter russi Sota dice «per una visita psichiatrica», che deve essere abbastanza accurata, visto che verrà tenuta lì almeno un mese. Non dev’essere bello, finire in un ospedale psichiatrico da oppositore di Putin, in Russia. 

RusNews, la testata di Maria Ponomarenko, comunica su Telegram la vicenda, nel disperato tentativo di tenere accesa una luce in una Europa che si sta addormentando: «In questo momento la nostra collega si trova nell'Ospedale Psichiatrico Clinico Regionale di Altai, situato a Barnaul in via Suvorova, 13».

Una attivista di Novosibirsk, Yana Drobnokhod, ha raccontato su Telegram di essere andata nel centro psichiatrico per incontrare la reporter, che è sottoposta a un regime di isolamento dedicato in sostanza a chi ha problemi mentali pericolosi. «Siamo andati a trovarla oggi. Le sono proibite lettere, incontri con i parenti. Ma le sarà possibile incontrare un avvocato». I contatti avverranno attraverso appunto il legale, Sergey Podolsky. 

Le storie di reporter o anche solo semplici dissidenti che rischiano anni di galera per gesti di normalissimo dissenso – o nel caso della reporter, per aver fatto il suo lavoro – si stanno moltiplicando. 

E gettano una luce ancora più strana sulla storia di Marina Osyannikova, che invece secondo molti osservatori, non solo ucraini, non si era mai segnalata per il minimo attivismo in precedenza, e è stata miracolosamente perdonata dalle autorità russe.

L’ultima in ordine di tempo a pagare, invece, è stata Sasha Skolichenko, una attivista russa accusata di aver semplicemente sostituito i cartellini dei prezzi in un negozio di alimentari con cartelli contro la guerra. 

È detenuta dall'11 aprile, e il 30 giugno sono state formalizzate contro di lei accuse che possono portarla a un periodo da cinque a dieci anni di carcere. Oleksandra Matviichuk, direttrice del Center for Civil Liberties (Ukraine)/ Democracy Defender (premiato dall’Osce), riferisce che Skolichenko «ha dovuto affrontare pressioni psicologiche e bullismo durante la detenzione da parte dei suoi compagni di cella». La tortura ai detenuti è ovviamente vietata da tutte le convenzioni internazionali.

L’elenco di giornalisti russi arrestati solo in questi mesi è infinito  certamente sempre incompleto, Isabella Yevloeva (Fortanga), Ilya Krasilshchik, Alexander Nevzorov, Andrey Novashov (Sibir.Realii, Tayga.info), Sergei Mikhailov (Listok), Mikhail Afanasyev (Novyi Fokus). Il 27 giugno uno uno dei pochi leader dell'opposizione russa che non erano ancora arrestati e si sono apertamente opposti alla guerra, Ilya Yashin, è stato messo in cella. 

Il caso del giornalista Ivan Safronov, accusato addirittura di «tradimento», continua a mietere vittime nella società civile, a fine giugno è stato arrestato anche Dmitry Talantov, presidente dell'Ordine degli avvocati, avvocato di Safronov: Talantov secondo il Cremlino avrebbe diffuso informazioni deliberatamente false sulle azioni delle forze armate russe (l’accusa consentita dalla nuova legge varta da Putin il 5 marzo). 

Sembrano tornare i tempi sovietici più bui, quelli in cui lo scrittore Yevgenij Zamyatin, scrivendo a Iosif Stalin per chiedere di essere liberato, con grandissima dignità non si piegava: la più grande tortura per me, disse, è il divieto di scrivere. E  per noi il divieto di sapere la verità.

Terrore, delazioni e propaganda: i russi non parlano della loro guerra. Il presidente della Duma toglie la cittadinanza alla giornalista Marina Ovsyannikova: è una spia. Simona Musco su Il Dubbio il 13 aprile 2022.

«Marina Ovsyannikova ha ricevuto una proposta di lavoro presso Die Welt. Così è stato svelato il suo trucco durante il telegiornale su Channel One. Ora lavorerà per uno dei paesi della Nato, giustificherà la fornitura di armi ai neonazisti ucraini, invierà mercenari che combatteranno contro i nostri soldati e ufficiali e giustificherà le sanzioni imposte alla Federazione Russa. Sfortunatamente, per tali “cittadini della Federazione Russa” non esiste una procedura per la privazione della cittadinanza e il divieto di ingresso nel nostro paese. Ma forse sarebbe giusto». Il canale Telegram del presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, è un pullulare di “mi piace” e commenti: oltre 23mila pollici in su per la battaglia contro i «traditori nazionali», «l’autopulizia» da condurre in parallelo con la «denazificazione dell’Ucraina». L’operazione passa attraverso lo spegnimento di ogni critica. I giornali di opposizione sono stati chiusi, le voci libere messe a tacere.

Ieri, ad esempio, al tribunale Dorogomilovsky, a Mosca, quattro ex redattori del magazine studentesco Doxa, accusati dal Comitato investigativo russo di incoraggiare i minori a prendere parte ad attività illegali, sono stati condannati a due anni di «lavori correttivi» e per tre anni non potranno gestire alcun sito web. La loro colpa: la pubblicazione di un video, nel 2021, che testimoniava l’obbligo imposto agli insegnanti di scoraggiare gli studenti a partecipare a manifestazioni a sostegno di Alexey Navalny. E proprio mentre la sentenza veniva confermata, davanti al Tribunale, una donna è stata portata via dagli uomini della polizia russa e rinchiusa in carcere per aver gonfiato palloncini con i colori della bandiera ucraina. Gli altri, coloro che si trovavano davanti al Palazzo di Giustizia per manifestare solidarietà ai quattro giovani “dissidenti”, sono stati seguiti dalla polizia. Poche ore prima si era ritrovato con le manette ai polsi l’ex giornalista Vladimir Kara-Murza, uno dei principali oppositori del Cremlino.

È questo il clima che si respira in una terra soffocata dalla propaganda, dalla quale i giornalisti non in linea col regime scappano via, cercando di raccontare da fuori quello che accade a chi, invece, è rimasto. A spiegarci come procede la vita in Russia è dunque chi a Mosca non ci sta più e, protetto dall’anonimato, si fa portavoce con l’Occidente di quei sussurri nascosti provenienti dai colleghi che in patria sono costretti a seppellire il dissenso per sopravvivere. «Quello che sono costretti a fare in Russia non è un vero e proprio lavoro da giornalisti, si tratta di propagandisti – racconta la nostra fonte -. E anche quel limite che si erano imposti, rimanendo sul confine dell’accettabile per non provare troppa vergogna, è stato superato». Le tv raccontano così degli americani che vogliono partire alla volta della Russia, per andare a vivere all’ombra del Cremlino. Quella che era «una linea rossa che i cronisti russi non si permettevano di sorpassare ora è stata valicata – racconta ancora la fonte -. È un grande disastro per la morale: non so quanti anni serviranno per rialzarci».

È l’informazione lo specchio della situazione. Molti «sono ostaggi, anche in senso economico. La gente ha paura di lasciare il lavoro e non trovare nient’altro: magari hanno dei mutui da pagare, genitori e bambini malati che necessitano sempre più soldi. I prezzi sono saliti – spiega – e molti medicinali in farmacia sono spariti». Tra questi quelli per il morbo di Parkinson, che servono a quasi 300.000 pazienti, secondo il quotidiano Kommersant. Così i media rimasti in Russia sono ormai tutti pro Putin. «E i giornalisti di opposizione – migliaia – sono andati quasi tutti via, verso i Paesi baltici, la Georgia, l’Uzbekistan e anche l’Europa. Da lì cercano di unirsi e continuare a fare ciò che facevano». Sulle tv nazionali provano a far credere che Zelensky sia un drogato, oltre che un nazista. Così circolano video decontestualizzati, prosegue la fonte, senza audio, «per diffondere l’idea che il presidente ucraino non sia normale. Il manuale per la propaganda viene applicato fino in fondo. E anche per chi non ci crede, il dubbio diventa come ruggine: mangia tutto».

Chi protesta in piazza finisce in carcere per una notte e se la cava con una multa da 30mila rubli in su. E una volta a casa, magari, si ritrova con una “Z” sul portone, stigma che lo separa dal resto della società, che comincia a guardarlo necessariamente con sospetto. «Nessuno sa cosa significhi esattamente», ma tutti sanno che si tratta di un marchio di infamia. Ad Aleksei Venediktov, direttore dell’Eco di Mosca – la radio di opposizione chiusa da Putin -, è andata pure peggio: sulla sua porta avevano attaccato uno stemma ucraino con la scritta «maiale ebreo». E ad accompagnare il messaggio, sul pianerottolo, una testa mozzata di maiale con una parrucca simile alla sua capigliatura. Chi manifesta spesso lo fa da solo. Un giovane è finito in cella per aver esposto un cartello con lo stralcio di un vecchio discorso di Putin contro la guerra. Un modo per evidenziare le contraddizioni di un conflitto che per chi vive in Russia si chiama “operazione speciale”. Ed è solo così che viene descritto. Le informazioni che contraddicono questa narrazione girano su Telegram, su canali segnalati come «agenti stranieri», e YouTube, che ancora resiste ai diktat di chi dall’alto vorrebbe chiudere anche quello, come i giornali già ammutoliti dalla propaganda.

Su tutti Novaya Gazeta, il quotidiano di Anna Politkovskaja, che il metodo Putin lo ha descritto meglio di chiunque altro. Nelle scuole, gli insegnanti che provano a parlare di guerra vengono puniti. Le loro parole, filmate dai ragazzi con i telefonini, finiscono in rete, e da lì tutto arriva a chi decide il da farsi. Alcuni vengono licenziati, altri si ritrovano con una nota di demerito sul fascicolo professionale, una macchia nera che certifica la loro «incapacità di compiere il proprio dovere professionale». La società è ora divisa in tre gruppi. Il primo «è composto da chi per strada e sui social non nasconde la propria posizione, pur non scontrandosi attivamente con il governo». Il secondo parteggia apertamente per la guerra, «espone la “Z” sulla propria auto e gira con il “nastro di San Giorgio”, originariamente usato per ricordare la vittoria sul nazismo e ora simbolo della “denazificazione dell’Ucraina”».

Ma la maggior parte della popolazione, «che sia pro o contro, ha paura di parlare». Ed è la gente che cerca di ignorare la guerra, che preferisce continuare a fare il proprio lavoro, tenendo la tv spenta ed evitando di affrontare l’argomento. Fingendo di non vedere i negozi chiusi per protesta dai grandi marchi esteri, davanti ai quali passeggia a testa alta. «Vanno al cinema, al teatro, ai concerti, ai ristoranti – conclude la fonte -. Come se qui non fosse successo mai nulla».

Propaganda di guerra: dal conflitto afghano a quello ucraino. Piccole Note il 8 aprile 2022 su Il Giornale.

La controversia sulle stragi di Bucha si aggiorna con un nuovo capitolo: l’intelligence tedesca avrebbe intercettato dei soldati russi che parlavano apertamente di uccidere civili e le avrebbero condivise con gli Stati Uniti. Serviva una pezza di appoggio alla narrazione ufficiale e una fonte che apparisse  terza. Ed è arrivata…

Perché la conferma dalle immagini satellitari pubblicate da Nyt, che avrebbero dovuto provare la presenza di vittime distese per strada prima del ritiro dei russi (smentendo così la loro difesa) si è dimostrata una pezza peggiore del buco, dal momento che è impossibile che dei cadaveri esposti alle intemperie si siano conservati quasi in perfetto stato per più di quindici giorni (le immagini satellitari erano di metà marzo).

Ancora più incredibile è il fatto che il Pentagono ha affermato di “non poter confermare” la veridicità delle denunce degli ucraini (Reuters), ciò nonostante la Maxar Tecnologies, che ha fornito le immagini satellitari al Nyt, lavori per la Difesa degli Stati Uniti.

Così sul sito ufficiale dell’azienda: “Maxar è l’appaltatore principale del programma One World Terrain (OWT) dell’esercito americano e fornisce servizi di informazioni e terreno 3D supportando una rappresentazione virtuale completamente accessibile della Terra attraverso la rete dell’esercito americano […] Maxar fornisce il 90% delle immagini satellitari commerciali utilizzate per l’intelligence geospaziale di base (GEOINT) del governo degli Stati Uniti”.

Certo, è probabile che prima o poi la conferma arrivi, non potendo vanificare una campagna mediatica tanto potente, ma la smentita iniziale resta.

Arrivano così le intercettazioni dei soldati russi, delle quali si sa solo che esistono.. La conferma “per intercettazione” è un classico delle guerre di propaganda, perché è un materiale che non può trovare smentita: in un video artefatto si può trovare una falla, in una conversazione telefonica inventata è praticamente impossibile. Non che sia necessariamente questo il caso, ma le domande sulle tante incongruenze della narrativa di Bucha restano inevase.

In questi giorni anche una foto virale sui forni crematori mobili con i quali i russi farebbero sparire i corpi dei civili uccisi per nascondere i loro crimini. La propaganda ha il vizio di ripetersi. Così il New York Times del 15 maggio 2017: “Gli Stati Uniti hanno accusato lunedì il governo siriano di aver utilizzato un crematorio per occultare gli omicidi di massa consumati in una prigione dove si ritiene che migliaia di persone siano state sommariamente giustiziate”.

La foto dell’orribile forno crematorio mobile dei russi ha fatto il giro del mondo. Questo, ad esempio, il tweet dell’ex candidato alla presidenza ucraina Vitali Klitschko: “Crematorio mobile. Questo è ciò che i #RussianWarCrimes usano a Mariupol per nascondere i loro crimini. Il culmine dell’orrore”. In realtà, si tratta di un’estrapolazione di un video del 2013 che mostrava una macchina per lo smaltimento dei rifiuti (cliccare qui).

Cercare di identificare i russi con i nazisti e Putin con Hitler è vitale nella guerra di propaganda, come si è dimostrato efficace con Saddam, Gheddafi e altri leader sgraditi a certo potere. Fa parte del gioco, al quale si è prestato anche il povero Zelensky quando alla Knesset ha fatto un parallelo tra le sofferenze del suo popolo e l’olocausto, attirandosi l’indignazione dei parlamentari israeliani (ieri un’altra strage in Israele, destabilizzata in questi ultimi giorni dal ripetersi di tali crimini).

La propaganda è una potente arma di guerra, che ha raggiunto livelli molto sofisticati grazie alla Tecnica moderna. Nel caso ucraino, dove il confronto non è contro un esercito di straccioni al servizio di Saddam o di Gheddafi, ma con la Russia, tale arma viene utilizzata come non mai.

Così la Nbc: “Molti funzionari statunitensi hanno dichiarato che gli Stati Uniti hanno utilizzato le informazioni come un’arma anche quando la fiducia nella fondatezza delle informazioni stesse non era elevata“.

Dal momento che per il partito della guerra il conflitto ucraino deve ripercorrere i binari dell’intervento sovietico in Afghanistan, cioè deve logorare la Russia fino a farla collassare, vale forse la pena ripercorrere una vecchia storia di quel conflitto.

Si tratta della storia delle mine giocattolo, che i sovietici avrebbero usato per falcidiare i bambini afghani. La raccontava Milton Bearden, 30 anni nella Cia nel settore propaganda e operazioni segrete, sulla rivista americana National Interest.

La storia delle mine giocattolo, scriveva, nacque da una diceria dei combattenti afghani, ma venne amplificata tanto da diventare mainstream. Così Breaden: la storia “suscitò indignazione in tutto il mondo […]. Articoli che condannavano la tattica brutale di camuffare le mine in giocattoli con lo scopo esplicito di mutilare o uccidere i bambini afgani sono apparsi su media che vanno dal New York Times all’Harvard Crimson e a quasi tutte le altre” testate. 

“I più importanti network statunitensi si procurarono filmati, spesso artigianali o inscenati, che mostravano come funzionavano le mine giocattolo. Su una popolare rivista della domenica fu pubblicato persino un report  che mostrava una ‘mina giocattolo presa sul campo’ camuffata da matrioska, che esplodeva con effetti devastanti” ([a storia si diffuse in tutto il mondo ndr].

“Cosa può avere un impatto maggiore [sull’opinione pubblica ndr] del vedere una bambola russa che esplode nelle mani di una ragazzina afgana che si prende cura delle capre di famiglia? La massiccia copertura mediatica ha persino innescato un’indagine della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite”, continua Breaden.

“È stata una CA [Covert action] meravigliosa, spontanea, completamente autogenerata (1). Il mondo intero si stava unendo contro l’Impero del Male per i suoi attacchi brutali e feroci contro i bambini afgani […] Ma era falso”, conclude Breadan.

Già, tutto falso… In realtà, spiega l’uomo della Cia, le mine in questione erano delle usuali mine anti-uomo, per di più una copia sovietica delle mine anti-uomo che l’America aveva disseminato a piene mani nel Vietnam nel corso della guerra vietnamita (vedi foto).

È il meccanismo, funziona così. Oggi la denuncia ucraina del missile russo sparato contro la stazione di Kramatorsk, con su il messaggio “per i bambini“… già, la propaganda ha il vizio si ripetersi. 

(1) Breadan non può affermare che era stata la Cia a creare e far circolare la storia, dal momento che su certe cose vige il Segreto. Così, dopo averlo dichiarato con il cenno alla Covert action, deve aggiungere (excusatio non petita) che la narrazione si è autogenerata. Anche questo è un meccanismo usuale.

Articolo della “Rossijskaja Gazeta”, tradotto e pubblicato da “Libero quotidiano” l'8 aprile 2022.

In questo "tempo di frenata" le sanzioni possono anche diventare tempo di accelerazione e speranze. Vi pare un'affermazione paradossale? Che tipo di opportunità appaiono in questo momento sui servizi video russi? 

A queste ed altre domande sull'argomento hanno risposto molti esperti che "gazzetta Russa" ha riunito per voi: Alexander Moiseev, Direttore Generale di Rutube; David Kocharov, Produttore Generale di Rutube; Alexei German, regista; Urvan Parfentiev, analista dell'informazione e sicurezza ROCIT; Roberto Panchvidze, amministratore delegato di un'agenzia di blog.

Roskosmos ha annunciato che porterà il suo archivio su Rutube, consigliato dal Ministero della Pubblica Istruzione ai suoi utenti come piattaforma domestica da preferire. Lo farà qualcun altro?

Alexander Moiseev: Da ora in avanti Rutube sarà sfruttato sempre di più. Quasi tutti i canali televisivi delle autorità esecutive hanno trasferito da noi la maggior parte degli archivi. Ci vorrà del tempo perché occorre semplificare il trasferimento dei contenuti. 

Siete pronti per questa transizione? Secondo le cifre pubblicate a marzo, le visualizzazioni su Rutube sono aumentate di 21 volte. In una settimana il numero delle nuove iscrizioni è aumentato di 5 volte!

Alexander Moiseev: Alla fine dello scorso anno abbiamo discusso di cosa abbiamo intenzione di diventare. La filosofia di RuTube è stata costruita come una specie di "Palazzo dei Pionieri", dove le persone possono manifestare se stesse. Lo abbiamo immaginato come una scala sociale.

Non è un segreto che RuTube fa parte di Gazprom-Media Holding, il più grande gruppo media dell'Est Europa. Pertanto, l'opportunità di realizzarsi in RuTube sono colossali. Tuttavia, c'è ancora molto da fare. Molti utenti nuovi sono arrivati all'improvviso sulla piattaforma e quei numeri che ci aspettavamo entro la fine del 2022 si sono concretizzati a inizio di marzo. Le infrastrutture ora stanno recuperando terreno.

Da “Posta e Risposta" - "la Repubblica” l'8 aprile 2022.

Caro Merlo, ho visto "Servant of the People" con Volodymyr Zelensky. Sono stati trasmessi 4 episodi, ma sono riuscita a vedere solo il primo. Non perché la serie non sia valida: tutt' altro. 

Mi aveva spinto la curiosità di vedere l'attore/presidente Zelensky che, a parer mio, era un buon attore; e il doppiaggio di Luca Bizzarri è appropriato. Non ho retto la visione di un Paese luminoso, sereno, pieno di verde e di belle costruzioni, antiche e moderne.

La gente era sorridente, felice, colorata, in una Ucraina piena di vita. Il confronto con i recenti reportage è terribile. Incredula e sgomenta, ho pianto. Per questo non sono riuscita a guardare - né guarderò - gli altri episodi.

Manoela Tadini - Lucca 

Risposta di Francesco Merlo:

Anch' io ho smesso di guardarlo. La peggiore tentazione è giudicare il capo della Resistenza come fosse ancora un attore e l'attore come fosse già il capo della Resistenza. Ma questo lo farebbero solo i critici russi.

Volodymyr Zelensky, lo sfregio di Vanity Fair: "Credibilità in dubbio, non volevamo vedere quella roba". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano l'08 aprile 2022.

Ma da che pulpito viene la predica. Finché le critiche all'opportunità di una serie tv comica in un momento di guerra vengono da pensosi intellettuali, possiamo comprendere la critica. Ma quando gli affondi arrivano da giornali e giornalisti esperti in divagazione, be', viene da sorridere.

Come è inevitabile fare nel leggere le contestazioni alla scelta di mandare in onda la serie tv Sluha Narodu («Servitore del popolo») - interpretata da Zelensky quando era ancora un comico - lunedì scorso su La7: a detta di alcune riviste patinate, la proiezione della sitcom sarebbe inopportuna in questa fase nonché un inno discutibile allo Zelig Zelensky.

Sulla serie tv del 2015, in cui l'attuale presidente ucraino interpreta un prof di storia che si trova casualmente a diventare capo di governo, sono piovuti gli strali della rivista di costume Vanity Fair che su Instagram fa notare che la messa in onda è criticabile per «una questione di tempismo»: il fatto che «sbarchi in Italia nelle settimane calde dell'invasione russa e delle terribili immagini di Bucha fa storcere il naso». In particolare, l'immagine dello «Zelensky attore comico che si spruzza una boccetta di profumo negli occhi» ne «mina la credibilità di leader». Da cui la chiusa: «noi con le immagini dell'Ucraina dilaniata da fame e bombe, quella sitcom non l'avremmo trasmessa adesso».

Viene da chiedersi quando sarebbe stato opportuno trasmetterla: questa serie ci fa comprendere cos' era Zelensky prima; e anche cosa era l'Ucraina prima, facendoci guardare immagini di normalità, compatibili con lo stile di vita occidentale. Non ci vuole molto per afferrare il messaggio che appare dietro al mezzo.

Questa mancanza di visione colpisce anche Guia Soncini, brava giornalista, di certo però non esperta di comunicazione in tempi di guerra (ha scritto suoi saggi su Come salvarsi il girovita e La repubblica dei cuochi). Epperò lei si prende la briga di pontificare su Linkiesta contro la serie tv, contestando il titolo della versione italiana, Servant of the people, definito la dimostrazione del «tentativo di darsi un tono di La7, delle velleità di cosmopolitismo». Non paga, giudica la serie ormai datata, tale da sembrare «girata ormai cent' anni fa». E se la prende col contenuto della sitcom in quanto «le cose che dice il prof di storia zelenskyano sono d'uno sciatto populismo che in confronto Beppe Grillo è De Gaulle».

E che dire poi delle critiche della rivista Rolling Stone, competente di musica, ma che stavolta prende una nota stonata, disdegnando la serie che ha permesso a Zelensky di «dare vita a una creatura politica» prima che emergessero «i legami non proprio edificanti del "Servitore del popolo": diversi articoli portarono alla luce la sua vicinanza con Kolomoisky, oligarca ucraino, proprietario del canale tv 1+1- quello che mandava in onda Sluha Narodu». Zelensky, avverte quindi Rolling Stone, ha non poche macchie eppure «oggi è ovunque: sulle prime pagine dei giornali, nei lanci di agenzia che ci tormentano». E, da ultimo, nella serie tv. Con un rischio di saturazione.

Da qui, secondo il Fatto quotidiano, gli ascolti non esaltanti della serie, vista «da 821mila telespettatori con il 3,42% di share, un dato probabilmente inferiore alle aspettative». A La7 invece si dicono «soddisfatti» e notano come «se ci si ferma agli ascolti, il risultato è ben superiore alla media del lunedì sera»: in effetti, guardando le medie stagionali (1,9%) di Grey' s Anatomy la sitcom con Zelensky ha quasi raddoppiato lo share. E poi, continuano da La7, «la soddisfazione maggiore è per una serata, il cui seguito ci sarà lunedì prossimo, costruita con l'introduzione di Andrea Purgatori, l'intervento di Paolo Mieli e un documentario che ha raccontato in modo inedito l'ascesa di Zelensky». Ma niente, questa costruzione scrupolosa non basta ai censori di turno per risparmiarsi il pippotto sulla necessità di evitare la comicità durante la tragedia. Detto da chi di solito si occupa di frivolezze, la cosa però fa ridere. E ridere amaro.

Chiara Bruschi per “Il Messaggero” il 7 aprile 2022.

Francis Scarr è un giornalista di Bbc Monitoring che per lavoro guarda tutti i programmi della televisione russa. Da anni. Per questo non si è stupito quando Putin ha parlato di de-nazificazione dell'Ucraina. La retorica anti-Kiev va avanti dal 2014. E negli ultimi giorni ha assunto contorni pure più preoccupanti. 

Cominciamo con Bucha, che dice la tv russa?

«Nega tutto e presenta la Russia come vittima, accusando l'Occidente di aver orchestrato una operazione speciale per screditare Mosca. 

Ci sono molte teorie cospirative: c'è perfino chi sostiene che Bucha sia stata scelta per una messa in scena perché la sua pronuncia ricorda la parola butcher, macellaio. Visto che Biden ha chiamato così Putin, questa location avrebbe fomentato ulteriori reazioni in Occidente.

Un commentatore lo ha descritto come un lavoro di professionisti, forse inglesi. Sono i migliori in questo. Sanno come piazzare i corpi e creare un'immagine perfetta per colpire la coscienza». 

Non è un caso isolato. Perché ce l'hanno con Londra?

«Siamo stati tra i più forti nel condannare l'invasione ma ci sono ragioni molto più antiche. Dai tempi dell'impero britannico e poi nella Russia di Stalin, gli inglesi sono stati visti come spie. Ora ho sentito dire che l'MI5 stava giocando un ruolo importante nel perorare la causa ucraina a Washington e Bruxelles. Per loro rimaniamo un popolo di cui è meglio non fidarsi». 

Come è organizzata la tv russa oggi?

«Da quanto la guerra è iniziata il palinsesto è cambiato completamente. Prima c'erano un paio di talk show politici e il resto era intrattenimento. Dal 24 febbraio c'è solo propaganda, tra notiziari e approfondimento. Il copione è sempre lo stesso, un conduttore e quattro ospiti che portano avanti due temi: la de-nazificazione dell'Ucraina e le colpe dell'Occidente.

Di recente si è intensificato l'uso del termine guerra riferita però al conflitto con l'Occidente sul piano delle sanzioni economiche e dell'informazione. Quindi i nemici siamo noi. Uno dei loro esperti ha detto: Ci sono quattro Paesi che contano: Russia, Usa, Cina e India. E siamo tre contro uno. 

Non vogliono apparire come isolati e citano i paesi che non hanno condannato l'aggressione promettendo che l'economia si risolleverà grazie a loro: Europa, Usa e Gran Bretagna, dicono di rappresentare la comunità globale ma non è vero perché il resto del mondo è dalla nostra parte».

Un altro opinionista ha ipotizzato un attacco chimico in una capitale europea organizzato da noi per colpevolizzare Mosca. È una minaccia?

«No, è parte della strategia della confusione. Prenda Chernobyl, la Russia sovietica aveva ignorato quanto accaduto per settimane. Oggi invece gli ospiti vengono incoraggiati e diffondere teorie che più sono assurde e meglio è. Alcune sono perfino ridicole ma contribuiscono a creare questo senso di sfiducia verso di noi. Bisogna prestare attenzione al presentatore perché è lui che segue il copione del governo». 

Quanti guardano la tv russa?

«Due terzi della popolazione forma la sua opinione così. È la fonte primaria di informazione».

Che via d'uscita vede?

«È difficile rispondere. A chi dice che Putin deve essere sconfitto militarmente rispondo che è un uomo che premerebbe il bottone nucleare se si sentisse sotto minaccia. Ha tagliato i ponti con l'Occidente, non si arrenderà». 

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.

Il portavoce di Putin è uno dei mestieri più difficili del pianeta: se sbagli una dichiarazione, rischi di non perdere soltanto la voce. Ma è anche uno dei mestieri più facili: basta mettere quasi sempre un NON davanti alla realtà. Dmitrij Peskov sembra disegnato apposta per il ruolo. Ancora nel novembre scorso, sgranava gli occhi stupefatto quando gli si chiedeva se il suo capo avrebbe invaso l'Ucraina, attribuendo la calunnia alla controinformazione occidentale.

Neanche adesso appare troppo convinto: è stata semmai l'Ucraina ad avere invaso un pezzo di sé stessa, rendendo dolorosamente necessario l'intervento dei liberatori russi. Nell'intervista di ieri a Sky si è superato. Secondo Peskov, la strage di Bucha e gli orrori di Mariupol sono una messinscena. Non è arrivato a ribadire l'esistenza di comparse prezzolate per interpretare i cadaveri, ma soltanto perché lo aveva già insinuato qualcun altro (e non solo in Russia, purtroppo).

Lui si è limitato a negare che i carri armati russi mettano nel mirino gli obiettivi civili. Si noti la raffinatezza: non ha smentito che bambini e ospedali vengano colpiti, ma che vengano colpiti apposta. In compenso ha ammesso per la prima volta le perdite ingenti di soldati: il suo, infatti, è un talento «complesso»: consiste nel negare tutto, tranne l'innegabile. Chissà che cosa riserverà a Peskov il futuro, ma nel caso si mettesse male per il suo padrone, un posto da libero pensatore in qualche talk show italiano non glielo toglie nessuno.

Gli impacciati carnefici di Putin. La grottesca imperizia dei propagandisti del Cremlino (ufficiali e non) è in fondo la nostra migliore speranza. Francesco Cundari su Linkiesta l'8 aprile 2022.

Ambasciatori colti da lapsus rivelatori, portavoce che non sanno a che santo votarsi, militari che pensano solo ad arraffare i simboli di quel modello di società che dovrebbero annientare: i nemici dell’occidente non sono mai apparsi così disorientati.

In questi giorni terribili in cui tutti sentono l’impellente esigenza di dimostrarsi assai smaliziati, persone di mondo, gente che non si fa incantare, che non ci casca e che non se la beve, l’ultimo durissimo attacco del governo russo al governo italiano mi suggerisce invece la più ingenua delle domande: perché mentono?

Se non fosse tragico, farebbe persino sorridere ascoltare i portavoce del Cremlino dire ieri, senza scomporsi, frasi come «l’Italia è in prima linea in un attacco al nostro Paese», e l’altroieri che l’invio di armi agli ucraini da parte dei paesi occidentali «non aiuta la pace», come se davvero in questo momento fossimo noi ad attaccare la Russia, e le colonne di tank che hanno invaso l’Ucraina e ogni giorno fanno del loro meglio per spianarne le città fossero lì per portare la pace. Per non parlare del tentativo di rovesciare sugli assediati la responsabilità delle vittime civili, sostenendo che sono i nazionalisti ucraini a non lasciarli scappare dalle città sotto attacco, come ha detto qualche settimana fa il portavoce Dmitry Peskov alla Cnn.

In quella stessa intervista, peraltro, Christiane Amanpour aveva ricordato che fino al giorno prima dell’invasione i russi avevano smentito tutte le ricostruzioni dell’intelligence americana sui loro piani e negato recisamente qualsiasi intenzione di attaccare, e aveva quindi domandato a Peskov come Mosca potesse pensare di essere creduta e presa sul serio nel consesso internazionale, in futuro, in qualunque genere di negoziato. La risposta di Peskov era stata che avevano detto di non avere alcuna intenzione di invadere perché era vero, ma disgraziatamente negli ultimi due giorni – quando si dice la sfortuna – si erano resi conto che l’Ucraina si preparava a sferrare una grande offensiva nel Donbass, e quindi erano stati costretti a intervenire.

Non mi stupisce, ovviamente, che Putin e i suoi portavoce non dicano la verità. Mi colpisce però il modo, il livello, direi la qualità delle menzogne. La propaganda russa aveva una fama migliore.

Rispetto alla lunga e tragica storia di bugie e insensatezze di tutti i totalitarismi, mi sembra ci sia oggi un di più di disorientamento, goffaggine, disagio. Penso per esempio a quell’ambasciatore russo tradito dal lapsus che gli ha fatto dire: «I cadaveri che giacciono nelle strade non erano mai esistiti prima che arrivassero le truppe russe… ehm… scusate, prima che se ne andassero». Anche nelle pause imbarazzate e nelle farfugliate risposte di Peskov alla Cnn c’era qualcosa di assurdo e al tempo stesso di tragicamente comico.

Ho provato la stessa sensazione davanti alle immagini dei soldati russi che andavano a impacchettare e spedire a casa computer e televisori, frutto delle razzie compiute nelle città occupate. Soprattutto davanti a quel dialogo incredibile tra marito e moglie, con lui che le dice al telefono: «Ci sono scarpe da ginnastica da donna. Beh, sono New Balance, sono di marca, tutto qui lo è. Misura 38. Sono assolutamente fantastiche… se riesco prendo un laptop». E lei che risponde: «Beh, pensaci, Sofia sta andando a scuola, anche lei avrà bisogno di un computer».

Persino i militari impegnati nella distruzione e nel saccheggio dell’Ucraina vogliono le scarpe di marca, i televisori e i computer prodotti da quel capitalismo, da quella società occidentale, da quel modo di vivere che pure sono lì per annientare. Il Patriarca Kirill, convinto che la guerra sia anzitutto una guerra contro i nostri valori, dal consumismo alle «parate gay», non sarebbe per niente fiero di loro.

Nel momento in cui stavo per chiudere questo articolo, vedo comparire su twitter una scritta su un muro nella Cecoslovacchia del 1968, ai tempi dell’intervento sovietico: «Attenti agli assassini russi. Rubano orologi e radio». Può darsi che alla fine in tutto questo non ci sia niente di nuovo. Eppure mi sembra che oggi ci sia qualcosa di più, una contraddizione più profonda tra le parole e gli atti della dirigenza russa e il mondo in cui viviamo, e in cui volenti o nolenti vivono anche loro.

Forse è proprio questa dissonanza cognitiva che colpisce l’intero establishment, ma evidentemente anche una parte non piccola della popolazione russa, che rende così goffi e impacciati, e spesso persino grotteschi, i portavoce del Cremlino, ufficiali e non ufficiali. E forse proprio qui sta anche la nostra migliore speranza.

Guerra e frottole. Navalny spiega come funziona la crudele propaganda di Putin. Aleksej Navalny su L'Inkiesta il 5 aprile 2022.

In un thread su Twitter, il leader dell’opposizione al Cremlino ha spiegato il funzionamento della macchina mediatica che promuove le atrocità di Mosca in Ucraina. 

Pubblichiamo un thread dall’account Twitter di Alexei Navalny, leader dell’opposizione al Cremlino condannato a 12 anni di prigione. In 14 tweet Navalny descrive le dinamiche della propaganda russa, soprattutto per quel che riguarda gli spettatori televisivi.

Che cosa arriva a un normale spettatore televisivo russo (come lo sono io attualmente)?

Ho appreso dei mostruosi eventi di Bucha di ieri mattina attraverso la notizia che la Russia stava convocando il Consiglio di sicurezza dell’Onu in relazione al massacro dei nazisti ucraini a Bucha.

In serata, il conduttore del Primo canale ha spiegato tutto l’accaduto. E non ci avrei creduto se non l’avessi visto con i miei occhi e non l’avessi sentito con le mie stesse orecchie: «La Nato prepara da tempo e ai massimi livelli la provocazione a Bucha. Lo conferma anche il fatto che il presidente Biden ha chiamato Putin un “macellaio (butcher in inglese, ndr)” non molto tempo fa. Sentite quanto sono simili la parola inglese “butcher” e il nome della città “Bucha”. Questo è il modo in cui il pubblico occidentale è stato inconsciamente preparato a questa provocazione».

Per questo vi dico che la mostruosità delle bugie sui canali federali è inimmaginabile. E, sfortunatamente, lo è anche la sua capacità di persuasione per coloro che non hanno accesso a informazioni alternative.

Il punto è che la propaganda di Putin ha cessato da tempo di essere un semplice strumento. Sono veri e propri guerrafondai e sono diventati un partito a pieno titolo.

I conduttori dei tg che strillano all’infinito, e i loro “esperti”, stanno portando a livelli sempre più alti la loro furia e hanno da tempo superato i militari in fatto di aggressività.

Chiedono guerra a oltranza, l’assalto di Kiev, il bombardamento di Leopoli. Neanche la prospettiva di una guerra nucleare li spaventa. Zittiscono ogni voce fuori dal coro con i loro colleghi putinisti in diretta televisiva, se queste solo accennano al fatto che i colloqui di pace sono una buona cosa.

È un tale disgustoso uroboro. La politica russa è come un serpente di propaganda che si morde la coda: i propagandisti creano quel tipo di opinione pubblica che non solo permette a Putin di commettere crimini di guerra, ma glieli chiede, li esige.

I guerrafondai dovrebbero essere trattati come criminali di guerra. Dai redattori capo ai presentatori di talk show ai redattori di notizie, tutta questa Thousand Hills Radio dovrebbe essere sanzionata ora e portata in tribunale un giorno.

Vorrei anche ricordarvi che il National Media Group, che muove i fili di questa macchina della menzogna, appartiene senza dubbio a Putin, ed è persino formalmente guidato dall’amante di Putin, Alina Kabaeva (vedi la nostra indagine “Palace for Putin”).

Dovrebbero essere prese misure più drastiche per rendere più difficile il lavoro di questi eredi di Goebbels. Da un divieto assoluto alle forniture e ai beni, alla ricerca delle loro proprietà in Occidente (che indubbiamente esistono), fino alla loro inclusione nelle liste nere dei visti.

Le mostruose atrocità a Bucha, Irpin e in altre città ucraine sono state commesse non solo da coloro che legavano le mani di persone pacifiche dietro la schiena, non solo da coloro che sparavano loro alla nuca. Ma anche da chi è rimasto a guardare e ha sussurrato: «Dai, spara, dacci del bel materiale per il nostro programma televisivo della notte».

Raid notturno, brucia la città russa: “Sono stati gli elicotteri ucraini”. Fabio Tonacci su La Repubblica l'1 Aprile 2022.

Primo attacco oltre il confine: distrutti i depositi di carburante di Belgorod. Il Cremlino: dopo il blitz negoziati più difficili. Kiev non conferma e lascia aperta l’ipotesi di una false flag. Gli invasori proseguono la ritirata dalla periferia della capitale. Alla fine del 37esimo giorno di guerra, l’unica cosa certa è quella colonna di denso fumo nero che si alza dal grande deposito di petrolio nella regione di Belgorod. Se fossimo in Ucraina, non sarebbe una novità. Ma gli otto depositi distrutti da due elicotteri Mi-24 Hind prima del sorgere del sole sono in Russia, a 30 chilometri dalla frontiera e 80 da Kharkiv.

Cosa sappiamo dell’attacco al deposito Rosneft in territorio russo. Federico Giuliani su Inside Over l'1 aprile 2022.

Mosca ha accusato le forze di Kiev di aver sferrato un’offensiva all’indirizzo della città russa di Belgorod, situata ad una cinquantina di chilometri dal confine settentrionale ucraino. In un secondo momento è arrivata la smentita da parte di un alto funzionario della sicurezza ucraino, ma il giallo sul mandante dell’assalto rimane. Se l’Ucraina, come ha spiegato la fonte anonima, non è in alcun modo coinvolta con l’attacco, chi ha guidato l’azione?

Vladimir Putin è “stato informato” e, di certo, l’attacco aereo contro il deposito di carburante a Belgorod, in Russia, non crea “condizioni favorevoli” ai negoziati: il Cremlino, a caldo, ha confezionato il più freddo dei commenti possibili per commentare il misfatto che potrebbe vanificare gli ultimi progressi diplomatici messi sul tavolo in quel di Istanbul.

Il bersaglio colpito era una struttura gestita da Rosneft, compagnia petrolifera di proprietà in maggioranza del governo russo, evacuata ma finita in fiamme. Si tratta della prima accusa di un raid ucraino sul suolo russo dallo scorso 24 febbraio ad oggi. Secondo quanto riferito dal governatore regionale, Vyacheslav Gladkov, l’attacco è stato sferrato da due elicotteri di Kiev, penetrati in territorio russo volando a bassa quota. Non ci sono stati morti, mentre la popolazione dell’area è stata evacuata per ovvie ragioni di sicurezza.

L’attacco di Belgorod

Alcuni video che circolano in rete mostrano due elicotteri lanciare missili sul complesso. Segue una forte esplosione, accompagnata da un incendio. Secondo quanto riportato da Ria Novosti, sono stati colpiti otto serbatoi di benzina e gasolio, mandando in fiamme duemila metri cubi. Oltre un centinaio di vigili sono stati impegnati a domare l’incendio che rischiava di allargarsi ad altri serbatoi.

Questi sono i fatti nudi e crudi. Ma da chi è partito l’ordine di colpire i depositi di Rosneft? E per quale ragione? Reuters ha scritto che il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, non è al momento in condizione di confermare o smentire le notizie sul presunto coinvolgimento dell’Ucraina nell’attacco perché non ancora in possesso delle adeguate informazioni militari. Il Ministero della Difesa ucraino e lo Stato Maggiore ucraini non hanno risposto alle richieste di commento.

Le ipotesi sul tavolo

È impossibile chiarire con certezza le ragioni di quanto avvenuto a Belgorod. Dalle poche informazioni fin qui emerse, possiamo però fare un paio di ipotesi.

La prima è che dietro all’offensiva contro i depositi Rosneft ci sia effettivamente l’esercito ucraino, autore di un attacco diretto, magari intenzionato a danneggiare energicamente Mosca. Il ministro dell’Energia Nikolai Shulginov ha affermato però che l’incidente non influirà sulle forniture di carburante della regione o sui prezzi per i consumatori, mentre il governatore della vicina regione di Kursk, Roman Starovoit, ha dichiarato che le proprie forniture di carburante sono state sufficienti per durare diverse settimane e ha invitato la popolazione a non accumulare carburante. Difficile, tuttavia, dare adito a una simile teoria visto che Kiev ha sempre fatto capire di voler raggiungere un accordo per la fine delle ostilità in terra ucraina.

Tralasciando l’auto bombardamento da parte dei russi per inscenare un eventuale ripresa delle ostilità in Ucraina (scenario a dir poco grottesco), attenzione alla pista che porta dritta a possibili falchi ucraini. Non è da escludere che l’operazione possa essere stata presa in autonomia da gruppi o fazioni di Kiev contrari a qualsiasi pace con Mosca che, ai loro occhi, assomiglierebbe ad una resa schiacciante.

La Bbc ha sottolineato che i piloti ucraini sono effettivamente dotati di molta esperienza nel volare bassi e rapidi per evitare di essere rilevati dai radar militari e dai sistemi di difesa aerea nemica. Da anni fanno esattamente questo nella regione del Donbass. Le stesse manovre che potrebbero adesso aver replicato a Belgorod.

La smentita

Un alto funzionario della sicurezza ucraino ha negato le accuse di Mosca secondo cui Kiev sarebbe responsabile dell’attacco ad un deposito petrolifero nella città russa di Belgorod. “Per qualche motivo dicono che siamo stati noi, ma secondo le nostre informazioni questo non corrisponde alla realtà”, ha detto il segretario del Consiglio di sicurezza ucraino, Oleksiy Danilov alla televisione nazionale.

Le ipotesi sull'inedito raid in territorio russo. Cos’è successo a Belgorod, il giallo del deposito di petrolio: le accuse dei russi e la non-smentita di Zelensky. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Aprile 2022.  

Un attacco ucraino o una ‘false flag’ russa, un autosabotaggio da parte di militari russi decisi a ribellarsi alla guerra? Sono i due scenari e le due interpretazioni su quanto accaduto ieri, primo aprile, a Belgorod, città russa a 50 chilometri dal confine ucraino.

La versione russa

Secondo quanto riferito dalle autorità russe, in particolare il governatore della regione Vyacheslav Gladkov, otto serbatoi di petrolio russo sono stati colpiti da missili sparati da elicotteri di Kiev, dotati di razzi S-8, volando a bassa quota.

Un attacco che ha provocato due feriti e costretto all’intervento di oltre 200 vigili del fuoco e 50 mezzi, oltre allo sgombero dei residenti delle zone più vicine all’impianto della Rosneft. Un deposito chiave per le forze armate russe impegnate nel conflitto in Ucraina: è a Belgorod infatti dove i carri armati e le colonne blindate di Putin fanno rifornimento prima di entrare in territorio ucraino, sulla strada che conduce a Kharkiv.

La matrice ucraina viene confermata quindi anche dal ministero della Difesa russo in un comunicato: “Gli elicotteri hanno colpito un deposito di carburante impiegato per scopi civili a Belgorod. In seguito all’attacco, condotto con missili, alcuni serbatoi sono rimasti danneggiati e sono andati a fuoco. La struttura era impiegata per il solo rifornimento di carburante per scopi civili”.

La versione ucraina e le parole di Zelensky

Ben più ambigua la posizione di Kiev su quanto accaduto a Belgorod. Se il segretario del Consiglio della sicurezza e della difesa nazionale dell’Ucraina, Oleksiy Danilov, ha respinto le accuse da parte russa (“Per alcuni motivi dicono che siamo stati noi, ma stando alle nostre informazioni ciò non corrisponde alla realtà”), il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba ha detto di non avere informazioni a sufficienza sull’operazione: “Non posso né confermare né smentire le dichiarazioni su un coinvolgimento dell’Ucraina in questa vicenda, semplicemente perché non possiedo tutte le informazioni militari del caso”.

Oggi però da parte del presidente ucraino sono arrivate parole che sanno quasi di rivendicazione dell’attacco a Belgorod. “Mi dispiace, ma non parlo dei miei ordini come comandante, leader di questo Stato. Ci sono cose che condivido solo con le forze armate quando parlano con me”, ha risposto Zelensky all’intervista concessa all’emittente americana Fox News.

Poi le parole più ambigue del numero uno di Kiev: “Ciò che conta per noi è che voi e il mondo intero sappiate che siamo un Paese in guerra. Siamo stati attaccati. Questo è ciò che conta. Questa è la tragedia più grande. Hanno occupato il nostro territorio, ci hanno attaccato. Questa guerra va avanti da 8 anni, quindi qualunque cosa accada in una certa situazione e’ difficile per me commentare”.

Le altre ipotesi

Ma oltre alle due versioni ‘ufficiali’, non mancano altre ipotesi e retroscena su quanto accaduto ieri a Belgorod. Una riguarda una ‘false flag’ russa, un attacco auto-inflitto per poter sferrare offensive ancor più dure contro gli ucraini, giustificate dall’inedito raid di Kiev nei confini russi. 

Altra ipotesi da non escludere è quella di un sabotaggio interno da parte di determinate aree politiche e militari russi, decise a ribellarsi alla guerra che si sta trasformando in un pantano.

Tre scenari sono stati forniti anche da Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes, dagli studi di La7: “Potrebbero essere elicotteri mandati da Zelensky, potrebbero essere russi che si sono autobombardati per propaganda o possono essere ucraini che hanno disobbedito a Zelensky, qualcuno che non è contento che vada a trattare con Putin e vuole ritardare”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 2 aprile 2022.  

Razzi su un deposito di carburanti in territorio russo. Mosca accusa: «Lanciati da due elicotteri ucraini». Kiev replica: «Non è vero, accuse false». In una remota località di confine, Belgorod, si sposta lo scenario di questa guerra, che sembra quasi invertire le parti, con l'esercito ucraino che non solo respinge i russi dall'area di Kiev, ma colpisce anche oltre il confine nemico. 

Ieri sera intanto, a sud, la Russia ha colpito con tre missili balistici Iskander l'area di Odessa, secondo le autorità locali ci sono delle vittime. Racconta Ugo Poletti, direttore ed editore di un quotidiano nella città sul Mar Nero: «Abbiamo visto le scie dei missili, erano tre, probabilmente sono partiti dalla Crimea». Intanto, il portavoce della Casa bianca ha annunciato che gli Usa stanno fornendo all'Ucraina «materiale difensivo da usare in caso di attacco chimico russo».

Ma cosa è successo a Belgorod? Torniamo alle 5.51 (le 4.51 in Italia) di ieri. Nel buio dell'alba del confine tra Ucraina e Russia volano due elicotteri Mi-24. Quaranta chilometri dopo la frontiera, in direzione Mosca, sorvolano otto grandi depositi di petrolio della Rosneft, colosso di proprietà del governo. Lanciano dei razzi, colpiscono i serbatoi, l'alba si illumina. Esplosioni, torri di fuoco alte una decina di metri. 

Scatta l'allarme, il gigantesco incendio sarà spento solo dopo tredici ore, non ci sono vittime. Tutto avviene alla periferia di Belgorod, una città di poco meno di 400mila abitanti, in territorio russo. Da lì a Kharkiv, che invece è già in Ucraina (e che incredibilmente è gemellata con Belgorod) c'è meno di un'ora di macchina. Ma ciò che è avvenuto ieri appare eccezionale, perché sarebbe la prima volta che gli ucraini colpiscono gli invasori nel loro territorio. 

Ma hanno agito davvero i militari di Kiev? Su questo i russi non hanno dubbi. Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, fa sapere: «L'attacco contro il deposito di carburante peserà sui negoziati, non crea condizioni favorevoli». Il Ministero della Difesa russo è prodigo di dettagli: «Il raid è stato effettuato da due Mi-24 delle forze armate ucraine». Il governatore della regione conferma questa tesi: «I due elicotteri sono entrati in territorio russo volando a bassa quota. Non ci sono vittime». Secondo la Tass i vigili del fuoco della zona hanno mandato 170 uomini e 50 mezzi per domare il rogo, ripreso da vari smartphone con i video rilanciati sui social.

Fin qui la versione russa. E il governo ucraino conferma? Usa una formula ambigua, a metà strada. Secondo quanto riporta il quotidiano Ukrainska Pravda il portavoce del Ministero della Difesa, Oleksandr Motuzyanyk, spiega in una conferenza stampa: «Oggi lo Stato ucraino sta conducendo un'operazione difensiva per respingere l'aggressione dell'esercito russo nel nostro territorio. Questo non significa che l'Ucraina debba essere responsabile di tutti gli errori, di tutte le catastrofi e di tutti gli eventi che si registrano nella Federazione russa».

Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri ucraino, non si discosta dallo stesso artificio linguistico: «Non posso né confermare né smentire l'affermazione secondo cui l'Ucraina sia coinvolta perché non sono a conoscenza di tutte le informazioni militari». I numerosi video girati però mostrano gli elicotteri e l'esplosione, difficile pensare che sia stato un incidente. In sintesi: si può affermare, almeno secondo la versione di Mosca, che per la prima volta da quando è cominciata l'invasione ordinata da Putin, gli ucraini contrattaccano in territorio russo. 

E se è vero che l'esercito russo si sta riorganizzando e riposizionando, per concentrare gli sforzi a est e a sud, è anche vero che gli ucraini stanno, progressivamente, riconquistando città, o semplici villaggi, che sembravano essere finiti sotto il controllo dell'esercito di occupazione. La fonte è di parte, certo, ma sempre il quotidiano Ukrainska Pravda ieri sera ha fatto questa sintesi citando lo Stato maggiore: «Le forze armate ucraine hanno liberato 30 cittadine. 

Gli sforzi principali dei russi sono volti a difendere le linee precedentemente occupate, a raggruppare e ritirare le truppe in Bielorussia per ripristinare la capacità di combattimento. Allo stesso tempo stanno spostando altre truppe a est». Ad esempio Anatolii Fedoruk, sindaco di Bucha, cittadina di 35mila abitanti, 60 chilometri a nord di Kiev, ieri ha confermato che il giorno precedente era avvenuta la riconquista da parte ucraina: «Il 31 marzo entrerà nella storia della nostra comunità come il giorno della liberazione dagli occupanti russi grazie alle nostre Forze armate. È un giorno felice».  

Eppure, nella regione di Kiev ancora la situazione è complicata. Ha denunciato il sindaco della Capitale, Vitaliy Klitschko: «Sono tutt' ora in corso enormi battaglie a Nord e a Est della mia città. Il rischio di morire è molto alto». Ieri si è anche svolto uno scambio di prigionieri tra russi e ucraini. 

«Abbiamo riportato a casa 86 dei nostri soldati, 15 di loro sono donne» ha annunciato la vicepremier ucraina Iryna Vereshchuk. Tutto questo avviene mentre «le forze ucraine stanno respingendo le truppe russe a nord-est e nord-ovest di Kiev», come ha spiegato Oleksiy Arestovych, consigliere del presidente ucraino Zelensky. Gradualmente i russi si allontanando (o sono stati allontanati) dalla Capitale. E ieri a Kiev è potuta andare in visita la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, che ha scritto su Twitter: «Con il primo ministro ucraino Denys Shmyhal abbiamo parlato della necessità di sanzioni sempre più estese».

Ha anche detto agli ucraini: «L'Ue riconosce le vostre ambizioni europee e potete contare sul pieno sostegno del Parlamento europeo per raggiungere questo obiettivo. Vi aiuteremo a ricostruire le vostre città quando questa guerra illegale, non provocata e inutile sarà finita». Va detto che a est l'offensiva russa continua, non si ferma e la decisione di concentrare gli sforzi militari nel Donbass si sta confermando. Sul Mar Nero, a Mykailov, aumenta il numero dei morti nell'attacco al palazzo regionale dell'altro giorno (almeno una trentina). E soprattutto la Russia sta tessendo una tela diplomatica per uscire dall'isolamento. 

Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, ieri ha incassato un appoggio importante: in visita in India, dal governo Modi ha ricevuto un sostegno ancora più esplicito di quello, molto più prudente e felpato, della Cina. Lavrov è stato ricevuto anche dal premier Modi, e ha sottolineato il rifiuto di New Delhi di condannare esplicitamente l'azione militare di Mosca. Lavrov: «Abbiamo discusso anche della possibilità di aggirare le sanzioni dell'Occidente per continuare a garantire l'interscambio russo-indiano».  

The Guardian ha anche notato che il governo indiano ha al contrario «snobbato» la rappresentante del governo britannico Elisabeth Truss, anch' ella in missione in India. Ciò che conta a questo punto, è però la trattativa in corso che, al di là delle due propagande in azione, non si è mai fermata. Ieri il presidente turco Erdogan, protagonista della mediazione, ha telefonato a Putin suggerendogli di «venire in Turchia a incontrare Zelensky». Erdogan spera in queste ore di riuscire a fissare la data dell'incontro tra i due presidenti. Ieri, secondo Suspline, i negoziati sono proseguiti on line. 

Lavrov, dall'India, ha fatto quest' analisi: «La parte ucraina ha messo su carta la sua visione degli accordi da raggiungere, questi accordi devono essere prima formalizzati. Stiamo preparando una risposta. C'è un movimento in avanti, soprattutto, nel riconoscere l'impossibilità per l'Ucraina di essere un paese del blocco della Nato. L'Ucraina ha mostrato molta più comprensione sulla Crimea e il Donbass».  

Questa guerra sta causando, ogni giorno, nuove morti e sofferenze, le vite umane perdute sono la parte più drammatica di questa storia. Ma c'è anche altro. Spiega il vicedirettore generale dell'Unesco, Ernesto Ottone Ramirez: almeno 53 siti culturali sono stati danneggiati o parzialmente distrutti dall'inizio dell'invasione russa; tra questi si contano 29 chiese, 16 edifici storici, quattro musei e quattro monumenti.

Salvatore Merlo per “il Foglio" il 31 marzo 2022.  

È il primo vero segnale di de-escalation, come direbbero i nuovi virologi, ovvero i geopolitologi che li hanno sostituiti in tv. 

Matteo Salvini ha smesso di sparare dichiarazioni dalla mattina alla sera, di bombardare con la sua immagine tutti i canali social e di onda media 24 ore su 24. 

È un evento straordinario. Degno della massima attenzione. Il dichiaratore pronto uso, il trapezzista provetto, s’è fermato.

Sulla guerra di Ucraina, per dire, è passato da centodiciassette dichiarazioni (calcolate dal Foglio tra il 24 febbraio e il 10 marzo) a sole quattordici dichiarazioni (dall’11 marzo a oggi). In mezzo c’è stata la Polonia. La figura di tolla in mondovisione.

Il momento fatale, direbbe Zweig. L’evento decisivo. Dopo il quale quelli della Lega devono avergli messo una camicia di forza. Un tappo di stoppa in bocca. Altrimenti non si spiega.     

D’altra parte, Matteo s’era imposto da anni un regime di comparsate piuttosto rigido per evitare che qualcuno potesse malauguratamente dimenticarsi della sua esistenza: alle 8.00 iniziava a parlare alle trasmissioni del mattino, poi convocava tutti i giornalisti davanti al Senato, subito dopo si concedeva un passaggio su Rete 4, seguito da “direttina” Facebook, mitragliata di agenzie, salottone di Bruno Vespa e infine ultima apparizione notturna su Instagram. Casa Salvini: le notti bianche di Matteo. Un format.

Un intreccio di vita vissuta in movimento tra soggiorno e tinello, tra un commento all’attualità politica e uno sguardo cupido alla Nutella. 

E all’alba si ricominciava da capo: Mattino 5, conferenza stampa, Rete 4, diretta Facebook, Vespa o Giordano o Porro, Instagram, Nutella... All’infinito. 

Volando sulle liane. Come quando s’era convinto d’essere il king maker del presidente della Repubblica, e allora lanciava nomi tipo coriandoli.

In tv, sui social, in agenzia. Citofonava a Cassese, a Massolo, a non meglio precisati “professionisti e avvocati”, quindi candidava la Casellati e dopo un’ora buttava in mezzo la Belloni. Ambi, terne, cinquine... tombola! Tutto in diretta. Un reality.    

Chiunque altro si sarebbe già fermato allora, dopo il filotto del Quirinale, per consegnarsi all’arte del tacere. Un fondamentale e disatteso precetto politico, già espresso nel Settecento dall’abate Dinouart: “Il silenzio politico è quello di un uomo prudente, che si contiene, che si comporta con circospezione, che non si apre sempre, che non dice tutto ciò che pensa”. 

Ora tace Salvini, ma non per strategia. Né per calcolo intelligente. È troppo tardi. Dopo la Polonia il silenzio è una necessità. La nemesi di uno che ha straparlato fino a perdere la voce (assieme alla faccia). 

Viola Stefanello per "Italian Tech" il 24 marzo 2022.

C’era una volta, prima di Cambridge Analytica e delle fabbriche di troll controllate dai governi, prima delle rivelazioni di Frances Haugen e dei rebranding che guardano a un Metaverso lontano, prima dell'Oversight Board e della tentazione costante di cancellare i propri profili e sentirsi finalmente liberi, una storia d'amore. O almeno qualcosa che ci assomigliava. Era la storia della nostra infatuazione per i social network e tutto ciò che promettevano: la riscoperta di contatti che pensavamo perduti, una maggiore vicinanza a persone appassionate delle nostre stesse cose, l'abbattimento delle barriere fisiche e poi, con le Primavere Arabe, addirittura di interi regimi.

Era anche la storia di come una manciata di compagnie stavano fagocitando pezzi sempre più ingenti dell'economia, arricchendosi enormemente nel raccogliere i dati di grandi masse di utenti senza particolari limiti legali ad arginarle. Questo aspetto, presente fin dall'inizio, sarebbe entrato a far parte del discorso pubblico e politico attorno ai social network a poco meno di un decennio dalla loro adozione.

È almeno dal 2018 che la fiducia nell'industria del tech - e nelle aziende che gestiscono le grandi piattaforme social in particolare - è in declino. Le accuse che sono loro rivolte spaziano dall'aver rovinato la salute mentale degli adolescenti all'incitamento al genocidio alla radicalizzazione politica dei cittadini in vista delle elezioni in tantissimi Paesi, e vanno a toccare gli stessi modelli di business che hanno permesso loro di diventare tanto grandi.

Dopo ogni scandalo, le aziende hanno promesso di aggiustare il tiro e talvolta hanno davvero introdotto maggiori protezioni per gli utenti. Ma l'incantesimo era ormai spezzato e insieme a questa presa di coscienza sociale e politica è arrivata anche una maggiore attenzione dei governi (democratici o meno), pronti a regolamentare le piattaforme. Sia per rispondere, anche se tardivamente, alle storture economiche e sociali che hanno creato, sia per cercare di ristabilire il proprio potere su piattaforme che, soprattutto sotto i regimi più autoritari, sono diventate piazze pubbliche dove è possibile alzare la voce e far conoscere le ingiustizie che accadono nel proprio Paese al resto del mondo.

Nemmeno lo scoppio della pandemia, che offriva la possibilità di dimostrare che i social possono ancora connettere le persone in modo costruttivo, ha portato a un'inversione di rotta significativa. A dieci anni dalla fine delle Primavere Arabe, l'invasione dell'Ucraina può ricordarci della loro importanza per la democrazia?

Di fronte ad altre crisi internazionali, negli scorsi anni, le tech company si sono mostrate impreparate o riluttanti a prendere una posizione netta. Dopo l'attacco russo all'Ucraina del 24 febbraio, però, la risposta è stata di una rapidità impressionante. YouTube, Facebook e TikTok hanno bandito dalle proprie piattaforme in Europa i profili dei media di Stato russi Sputnik e Russia Today, tra le principali fonti di propaganda di Mosca.

YouTube ha anche affermato di star rimuovendo contenuti che negano o sottostimano l'invasione e ha reso impossibile la monetizzazione dei video di tutti i propri utenti russi. Apple e Microsoft hanno rimosso l'app di Russia Today dal proprio app store. Twitter ha cominciato ad avvertire gli utenti quando interagiscono con link che portano a testate affiliate allo Stato russo. TikTok ha sospeso lo streaming live e il caricamento di nuovi contenuti dalla Russia in risposta a una nuova legge che minaccia di punire con pene fino a 15 anni di reclusione chi diffonde "informazioni false" sull'invasione dell'Ucraina, che secondo Mosca è soltanto "un'operazione speciale", Google ha completamente sospeso la sua attività pubblicitaria in Russia e ha smesso di accettare nuovi clienti per i propri servizi cloud.

In Ucraina ha messo a disposizione alcune risorse per aiutare chi fugge dal Paese usando Google Maps. Airbnb ha sospeso tutte le operazioni in Russia e Bielorussia e ha promesso che offrirà alloggio temporaneo a 100mila rifugiati ucraini. Amazon ha sospeso le spedizioni di tutti i prodotti al dettaglio e l'accesso a Prime Video ai clienti in Russia e Bielorussia, oltre a sospendere gli account che usano il cloud computing di Amazon Web Services per "minacciare, incitare, promuovere o incoraggiare attivamente la violenza, il terrorismo o altri gravi danni".

Hanno preso posizione, limitando o ritirando totalmente i propri servizi dal mercato russo, anche Netflix, PayPal, Adobe, IBM, Intel, Nvidia, Samsung, Bumble, Electronic Arts, Ubisoft e Nintendo.

Nel frattempo, gli ucraini portavano la propria resistenza all'invasione anche online, contrastando la propaganda del Cremlino e conquistando il sostegno degli utenti internazionali grazie a un flusso continuo di video e foto dal Paese appena invaso. Su Instagram, Facebook, TikTok, Twitter gli utenti ucraini hanno cominciato a dare testimonianza delle proprie città distrutte e di come persone qualsiasi siano state strappate alla propria quotidianità dalla brutalità della guerra.

E hanno condiviso atti di straordinario coraggio da parte dei propri concittadini, come il video, ormai virale, della signora che dà ai soldati russi dei semi di girasoli da mettere in tasca "così cresceranno fiori sul suolo ucraino quando morirete". Tra meme che spiegano come fare una bomba molotov, storie di trattori che trascinano via mezzi corazzati russi e post che ridicolizzano gli errori tattici dei nemici, quella che passa è l'immagine di una popolazione che resiste, moralmente e militarmente, all'aggressione. Contando di demoralizzare, nel suo piccolo,gli avversari. 

Altrettanto abili nell'usare i social sono le autorità ucraine: i meme pubblicati dal profilo Twitter ufficiale dell'Ucraina erano già famosi, ma è entrato nella leggenda il post su Facebook dell'ente nazionale responsabile per la manutenzione delle strade, che nell'esortare i cittadini a smantellare i segnali stradali e costruire barricate di pneumatici in fiamme per disorientare i russi ha pubblicato una foto di un segnale stradale che invita gli invasori ad andare a quel paese.

E poi c'è, naturalmente, Volodymyr Zelensky, che dall'inizio dell'invasione riesce a rimanere onnipresente sui social nonostante tutto: ogni giorno, sul suo canale Telegram,pubblica video in cui aggiorna i suoi 1,4 milioni di follower sull'andamento della guerra. Telefono in mano, telecamera frontale accesa, Zelensky è stato innalzato ad eroe online, e il fatto che abbia un assurdo passato come attore, comico e doppiatore dell'orsetto Paddington in ucraino non ha guastato nella creazione di una montagna di meme a suo favore. Passerà probabilmente alla storia il video in cui, dal centro di Kiev, risponde alle voci secondo cui sarebbe fuggito dal Paese mostrandosi insieme ai suoi alti funzionari e affermando: "Noi siamo tutti qui. I nostri soldati sono qui, I nostri cittadini sono qui. E rimarrà così".

Se il Cremlino non è riuscito a imporre la propria narrazione al resto del mondo, il governo Putin si sta impegnando per mantenere il controllo sul fronte interno. Eva Galperin, direttrice della Cybersecurity presso la Electronic Frontier Foundation, ha sottolineato che «Facebook è il luogo in cui ciò che resta della società civile russa si organizza. Se interrompi l'accesso a Facebook, interrompi il giornalismo indipendente e le proteste contro la guerra». Non a caso, oltre a vietare ai giornalisti di citare fonti diverse da quelle fornite dal governo e aver proibito l'uso di parole come "invasione" e "guerra", Mosca ha ristretto l'accesso a Facebook, Instagram e Twitter e sta considerando di bollare le piattaforme appartenenti a Meta come "organizzazioni estremiste".

Lo Stato ha assunto il controllo di VKontakte, il secondo social network più usato in Russia, lo scorso dicembre. Sulle piattaforme non controllate dal Cremlino, però, l'opposizione all'aggressione è più vocale: su Instagram sono oltre 550 mila i post pubblicati sotto 'hashtag (#NoAllaGuerra) e alcune celebrità, come l'attrice Danila Kozlovsky o il conduttore televisivo Ivan Urgant, si sono schierate apertamente contro la guerra sui propri seguitissimi profili. Su Telegram -il cui fondatore, Pavel Durov, ha una storia molto travagliata con Mosca - si moltiplicano i canali che raccontano, in russo, la violenza contro il popolo ucraino.

Per proteggere i propri utenti, Meta ha messo a disposizione in Russia la crittografia end-to-end anche su Instagram, oltre a Whatsapp. «Creator e influencer, attivisti e musicisti russi stanno usando Facebook e Instagram per accedere alle informazioni e alzare la voce contro l'invasione», ha affermato Nick Clegg, presidente degli affari globali di Meta. «Vogliamo che continuino a essere in grado di farlo. E vogliamo che le persone in Russia continuino a essere in grado di ascoltare il presidente Zelensky e altri in Ucraina».

Ad ascoltare, lontano dal fronte, sono i milioni di persone che stanno seguendo, giorno dopo giorno, l'andamento della guerra e che si stanno organizzando per aiutare come possono. Gruppi Facebook per trovare compagni di viaggio si trasformano in posti dove le persone aprono le porte delle proprie case a rifugiati ucraini in cerca di un tetto sopra la testa. Gruppi come ArchiveTeam si prodigano per mettere al sicuro il patrimonio digitale ucraino. Spuntano i post che dicono, nello specifico, di che tipo di donazioni c'è bisogno, dove si possono portare, come aiutare.

«Nonostante i loro innumerevoli difetti, inclusa la loro vulnerabilità alla propaganda del governo e alla disinformazione, le piattaforme (..) possono rafforzare la nostra comune umanità anche nei momenti più bui", ha scritto il giornalista statunitense Jon Steinberg. Se per i social network sembra essere il momento perfetto per brillare, però, rimangono le macchie che da qualche anno a questa parte non riusciamo più a ignorare: la disinformazione, i truffatori che sfruttano momenti di caos ed empatia per arraffare soldi e follower, tutto quell'odio. E il fatto che alcuni degli spazi più importanti per il discorso politico e l'organizzazione dell'opposizione non sono pubblici, ma giardini recintati appartenenti a privatissime compagnie che valgono più del Pil di certi piccoli Stati. 

La "battaglia mediatica"? L'abbiamo persa. Claudio Brachino il 20 Marzo 2022 su Il Giornale. 

La battaglia mediatica ha un peso enorme nella nostra epoca, condiziona le coscienze e le scelte politiche.

C'era una volta McLuhan. Tra i tanti traumi di una guerra, ce ne sono alcuni immateriali ma comunque decisivi. La battaglia mediatica ha un peso enorme nella nostra epoca, condiziona le coscienze e le scelte politiche. Ed è così anche in Ucraina. L'opinione pubblica occidentale è tutta con Zelensky, più debole sul campo ma fortissimo nella costruzione narrativa dell'aggredito che combatte per la libertà e la democrazia, i nostri valori fondanti. E fondante, per la massmediologia, è stato pure il sociologo canadese che nel 1967 pubblicò un libro con un titolo destinato a diventare un totem: Il medium è il messaggio. La forza e la specificità del mezzo di rappresentazione della realtà sono di per sé comunicazione, al di là degli altri linguaggi concomitanti. Erano gli anni della tv nascente, oggi le tecnologie visive sono ovunque, non solo telecamere sempre più agili e digitali, ma satelliti, telefonini, droni ci danno un'illusione di onnipotenza nel racconto. Invece non è così, il messaggio non ha seguito la stessa sorte, non è diventato sempre più vero e oggettivo. Anzi le fake news si annidano nella stessa natura del mezzo. Nella guerra in Vietnam furono i reportage scritti degli inviati a scioccare l'America, con la prima guerra del Golfo la Cnn fece vedere i bombardamenti in diretta, ma i giornalisti sul campo erano «embedded», potevano dire solo ciò che non disturbava i militari. Tecnologia e politica prendevano due strade diverse. Tornando alla guerra di questi giorni, qual è la verità oggettiva sui bombardamenti alla centrale nucleare vicino a Kiev, chi ha abbattuto il ponte di Irpin, località diventata celebre per la lugubre immagine di una famiglia crivellata mentre scappava lungo un corridoio dis-umanitario? E cosa è successo nel teatro di Mariupol? Per giorni si è parlato di centinaia di vittime civili rifugiate lì, poi nessuna vittima... Pochi dubbi sul fatto che i russi abbiano bombardato un luogo che doveva essere intoccabile, da un lato un satellite ha mostrato la scritta «Bambini», dall'altro la propaganda di Mosca ha parlato del famigerato battaglione para-nazista «Azov» che si sarebbe nascosto nell'edificio, infine anche le fonti ucraine ci hanno messo un po' di tempo a rettificare la notizia di una mattanza. «I rifugi hanno tenuto», hanno detto. Per fortuna. Intanto noi eravamo lì a piangere e condannare. Povero messaggio, sempre più piccolo in un medium sempre più grande.

RUSSA. Francesca Sforza per “La Stampa” il 19 marzo 2022.

«Sappiamo cosa dobbiamo fare, come farlo, e a quale prezzo. E sicuramente realizzeremo tutti i piani che abbiamo predisposto». Vladimir Putin è sceso ieri sul palco dello stadio Luzhniki di Mosca per rassicurare il suo popolo che, a otto anni dall'invasione della Crimea, tutto procede secondo i piani. È stato accolto da applausi, canti, inni e bandiere che sventolavano sulle sedie prima ancora che la gente entrasse. Secondo i dati ufficiali hanno partecipato all'evento circa 200 mila persone; lo stadio ne contiene 80 mila, ma molti non sono riusciti a entrare e sono rimasti a sventolare fuori.

«Salve amici, come mai siete qui, avete voglia di commentare l'evento?», chiede a un gruppo di manifestanti con bandiere un reporter improvvisato che poi posterà il video su Telegram. Il ragazzo interrogato gli volta le spalle, due signore strette nei loro piumini ridono, cercano una che sia più adatta a parlare, ma quella, intercettata, si volta malamente ributtandosi nella mischia. Stando alle testimonianze, i trasporti ieri a Mosca hanno funzionato benissimo: scaricavano gente dai pullman e dai treni con un ordine militare.

E sin dal mattino le scuole avevano in programma lezioni sulla russità della Crimea e sull'importanza delle "operazioni militari" in corso. Ai dipendenti statali - che hanno avuto l'obbligo di partecipare - è stato messo a disposizione un giorno di riposo aggiuntivo, o in alternativa, una ricompensa in denaro. Dall'altra parte della città, sulla piazza del Maneggio, Arina Vakhrushkina, 17 anni, manifestava in piedi con un cartellone sul tipo di quello della conduttrice televisiva dove era scritto: «Per questo cartello riceverò una multa di 50.000 rubli. Sono qui per il vostro futuro e per il futuro dell'Ucraina. Non siate indifferenti! In questo momento i bambini muoiono in Ucraina e le madri russe stanno perdendo i loro figli. Non dovrebbe essere così!». Gli amici che hanno postato la foto di Arina l'hanno vista portare via da due agenti, e non sanno dove si trovi adesso. Comunque Arina nella piazza era da sola, al Luzhniki erano tantissimi.

All'ingresso dello stadio, tra la gente dotata di bandiere monotipo, anziane signore intonavano canti popolari vestite negli abiti tradizionali. Una scena che capita di vedere anche durante le elezioni, davanti ai seggi elettorali - se ne vedevano persino a Grozny, quando il voto si svolgeva senza che la città fosse visitabile da nessuno perché circondata dai carri armati russi.

All'interno, musica techno-melodica intrattiene il pubblico con parole adattate all'occasione: «In nessun momento della mia vita mi sono vergognato di essere cittadino russo/ Sono nato in questo paese/ lo amo con tutto il cuore e credo sinceramente che abbiamo il miglior paese del mondo/ Viviamo in un momento piuttosto difficile, molti se ne sono andati dal mercato russo/ C'è chi è preoccupato, ma ci sono persone che ora possono portare prodotti sul mercato russo/ È arrivata l'ora di un fantastico prodotto russo/ E a chi se ne è andato, diremo "arrivederci"».

Discorso motivazionale da tempo di guerra, quello pronunciato da Putin nel palco dello stadio: «I nostri militari si aiutano l'un l'altro difendendosi dai proiettili come fratelli, era tanto tempo che non conoscevamo una così grande unità». A un certo punto, mentre i russi da casa seguivano la kermesse alla televisione, un "problema tecnico" - così lo hanno chiamato dopo le autorità del Cremlino - ha fatto saltare il collegamento mandando al posto del discorso del presidente il cantante Oleg Gazmanov che cantava a squarciagola "Avanti Russia".

Ma l'interruzione patriottica non ha impedito a nessuno di perdere i punti salienti del messaggio, successivamente rimandati dal canale di Stato: «Stiamo evitando un genocidio», «Combattiamo contro i nazisti», «Abbiamo risollevato la Crimea dal degrado e dall'abbandono», e - citazione biblica - «Nessuna forma d'amore è più grande di quella di dare la vita per i propri amici». Su una chat Telegram di opposizione si è ironizzato sul fatto che il presidente citasse la Bibbia mentre indossava un piumino di Loro Piana del valore di 1 milione e mezzo di rubli (nel post si indicava il modello preciso, collezione 2021/2022, «uno dei suoi stilisti preferiti», e si ricordava che gli stipendi russi si aggirano intorno ai 200 rubli).

Ovunque venivano distribuite coccarde con la "Z", nuovo simbolo della Russia che va alla guerra (è l'iniziale, nella trascrizione occidentale, dell'espressione "za voinu", a favore della guerra, in opposizione al "net voini", no alla guerra, scandito dai manifestanti nelle proteste). Ma una volta finito il discorso, e finito anche il concerto, le persone che avevano cominciato a defluire si sono trovate davanti agenti delle forze speciali che li hanno tenuti dentro lo stadio - stando alle testimonianze - per almeno 30 o 40 minuti. Pare che già dall'inizio qualcuno, dopo essersi fatto notare da colleghi o superiori, avesse abbandonato il concerto prima della conclusione. Quindi i cancelli sono stati bloccati. «È tanto che aspettiamo, non possiamo uscire?», chiedeva esausta una anziana signora. «C'è da aspettare ancora un po' baba, per adesso l'ordine è rimanere dentro», si è sentita rispondere. 

Ludovica Di Ridolfi per open.online il 18 marzo 2022.

Il discorso che Vladimir Putin stava tenendo presso lo stadio di Luzniki, a Mosca, è stato improvvisamente interrotto. 

Mentre il leader del Cremlino parlava, con gli occhi di tutto il mondo puntati addosso attraverso il segnale della tv di Stato russa, l’inquadratura è improvvisamente cambiata, interrompendo le sue parole per riprendere i canti e i festeggiamenti in occasione dell’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea.

Un taglio inaspettato, che nel corrente clima di tensione, ha corso il rischio di essere interpretato come intenzionale. Ma la smentita ai sospetti è subito arrivata dal portavoce del governo russo Dmitry Peskov, il quale ha spiegato all’agenzia RIA Novosti che l’interruzione della trasmissione è stata provocata da un «guasto tecnico al server».

Ha poi aggiunto che il discorso di Putin sarebbe stato ripetuto. Promessa mantenuta dopo pochi istanti, quando il canale televisivo Rossija24 ha nuovamente mandato in onda le parole del leader russo. Questa volta, senza interruzioni. 

Rosalba Castelletti per “la Repubblica” il 20 marzo 2022.

All'indomani dell'evento allo stadio Luzhniki di Mosca per celebrare la "primavera della Crimea", il giudizio degli osservatori è unanime. La festa andata in scena a otto anni dall'annessione, nel pieno dell'offensiva russa in Ucraina, è stata "un'operazione speciale separata". Una sorta di rito di "auto-epurazione" collettivo, per usare le parole di qualche giorno fa del presidente russo, per coltivare "patrioti" ed estirpare il germe del "tradimento".

Man mano che "l'operazione speciale", quella militare, in Ucraina si protrae e che il contraccolpo delle sanzioni provoca zuffe nei supermercati per l'accaparramento dello zucchero, il Cremlino cerca di rinsaldare il consenso. E lo fa con una martellante propaganda che pervade ogni ganglio dello spazio pubblico e privato. «Davanti ai nostri occhi nascono i canoni dell'era Z», commenta Slava Taroshchina di Novaja Gazeta . «Un nuovo Paese sconosciuto, nuovi compiti, nuovi eroi».

La televisione di Stato Altro che religione. È la tv il nuovo oppio del popolo russo. I talk show hanno soppiantato ogni programma d'intrattenimento. Il palinsesto delle due reti più seguite, Pervyj Kanal (Primo Canale) e Rossija 1 , è un alternarsi di dibattiti inframmezzati da tg. Si parla solo di "operazione militare speciale". Tutto è capovolto nella realtà parallela della tv che guardano 4 russi su 5: gli "invasori" sono "liberatori", le vittime "nazisti sabotatori" guidati da un "fascista drogato" e gli occidentali "ipocriti bugiardi".

I profughi fuggono dagli ucraini e trovano rifugio in Russia. E i civili sono vittime dei "nazisti" che li usano come "scudi umani". «Guardando la tv russa, io stesso vengo zombificato. Voglio andare a combattere. Le mie percezioni sono influenzate dalle storie di liberazione dei villaggi ucraini», commenta l'analista tv Serghej Mitrofanov. 

Le scuole Banditi i media indipendenti e ristretto l'accesso allo spazio digitale, controllare la conversazione nelle aule è l'ulteriore passo per rafforzare la narrazione. Le scuole sono state inondate di volantini: «Vogliamo continuare a sostenere un regime fascista in Ucraina o instaurare la pace? ». Studenti, docenti e genitori sono stati obbligati a seguire tre videolezioni. La direttrice di Rt Margarita Simonjan e la portavoce degli Esteri Maria Zakharova spiegavano come difendersi dalla "manipolazione dell'informazione" dell'Occidente.

Un messaggio che su alcuni fa presa: «I nostri soldati sono eroi. Sconfiggono i nuovi nazisti», ci dice la maestra Aljona Sulemainova. Chi si discosta dalle istruzioni, rischia: un richiamo, il licenziamento o, peggio, un'azione penale. Un insegnante di geografia di Mosca è stato licenziato e ha dovuto lasciare il Paese perché aveva scritto su Instagram: «Non voglio essere specchio della propaganda». E la polizia ha fatto irruzione in casa di uno studente che aveva osato contestare l'insegnante di storia.

I simboli Il nastro dai colori arancione e nero ricorda la croce di San Giorgio, la più alta onorificenza militare della Russia zarista. Col tempo è diventato il simbolo della vittoria dell'Urss sul nazismo. Il messaggio è chiaro: i militari russi oggi combattono contro i "nuovi nazisti" in Ucraina proprio come i loro antenati che diedero la vita durante la Grande Guerra Patriottica. "La vittoria sovietica sulla Germania nazista resta forse il più grande elemento unificante dell'identità nazionale", commenta l'analista Serghej Markov. Ma è la lettera "Z", che non fa parte dell'alfabeto cirillico, a dominare su t-shirt e decorazioni. Nel Paese si moltiplicano i flash-mob dove impiegati statali, atleti o studenti vengono allineati a formare la lettera divenuta simbolo della cosiddetta operazione speciale.

Gli influencer Sul palco del Luzhniki si è alternato il gotha. Da Ljube, la band preferita di Putin, alla cantante Polina Gagarina rappresentante russa all'Eurovision 2015. Anche i più giovani si sono uniti a Oleg Gazmanov quando ha intonato "Nato nell'Urss" con i suoi versi che oggi suonano più inquietanti che mai: «Ucraina e Crimea, Bielorussa e Moldova: questo è il mio Paese! Sono nato nell'Urss, sono stato fatto nell'Urss». Serghej "Shnur" Shnurov, il cantante della band Leningrad, nota per la colonna sonora di "Ogni cosa è illuminata", ha diffuso un nuovo video musicale dove paragona il trattamento dei russi in Europa alla persecuzione degli ebrei. La musicista Alina Oleshova della band Kis-Kis ha denunciato di essere stata contattata per ricordare l'annessione della Crimea sui suoi profili social dietro pagamento. Ma si è rifiutata.

La popolarità Mistificare la realtà per giustificare l'intervento, secondo i primi sondaggi di Fom e Vtsiom, due istituti filogovernativi, avrebbe avuto un impatto positivo sulla popolarità di Putin portandola a inizio marzo dal 64 per cento al 70. Secondo Oleg Ivanov, capo del Centro per la risoluzione dei conflitti sociali, a rafforzare la fiducia nel presidente sarebbe però stata "la reazione dell'Occidente": «Non fa che riunire il popolo attorno al leader». Il politologo Abbas Galljamov non crede a queste rilevazioni: "È interessante che il Cremlino abbia spento radio Ekho Moskvy e Tv Dozhd proprio nel momento in cui la popolarità di Putin cresceva a ritmi record. Se è tutto ok, allora perché è nervosa?».

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2022.

La nebbia di guerra avvolge il Cremlino. E lo rende ancora di più un mistero all'interno di un enigma, tanto per parafrasare Winston Churchill e la sua celebre definizione della Russia. La festa allo stadio Luzniki per l'ottavo anniversario dell'annessione della Crimea sarà ricordata anche per la bizzarra interruzione del discorso di Vladimir Putin. 

«Guasto tecnico» ha detto Dmitrij Peskov, il portavoce del presidente. «Oppure sabotaggio» ha chiosato dal carcere il dissidente Aleksej Navalny. È quel che molti hanno pensato. Alla luce delle tre pause innaturali fatte da Putin mentre parlava sul palco, l'ipotesi più probabile rimane quella di un guasto allo schermo del suggeritore.

Ma non è stato l'unico problema di quello che doveva essere «L'evento», pianificato per dissolvere ogni dubbio sull'unità del Paese. Durante l'intervento della portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, è saltato il sonoro della diretta televisiva per almeno trenta secondi. Scena muta, solo immagini. Ce n'è abbastanza per non escludere un attacco hacker, tesi che riscuote un certo credito presso i siti indipendenti di informazione.

I tempi del conflitto

Putin ripete che «l'operazione militare speciale» procede bene. Ma qualcosa non sta andando come previsto. Come i tempi del conflitto.

Il piano iniziale prevedeva una marcia trionfale tra le regioni russofone, salutata con favore dalla popolazione locale pronta a ribellarsi all'esercito «nazista» dell'Ucraina. Al massimo, un mese. Ormai ci siamo quasi. Ancora non si vede la fine.

Fin dai primi giorni, non appaiono in pubblico il ministro della Difesa Sergej Shoigu, il falco che sussurra all'orecchio del presidente, e il capo di Stato Maggiore Valerij Gerasimov. Chissà se è un caso. 

Il precedente del licenziamento di alcuni ufficiali di alto grado dell'Fsb, il servizio di sicurezza russo, accusati di aver sbagliato le previsioni, autorizza qualche sospetto. La guerra continua, ma sta cambiando.

Proprio ieri sera gli analisti militari di Russia Today incaricati di commentare da studio le gesta belliche dei soldati russi, spiegavano la relativa importanza strategica di una eventuale conquista di Kiev, ponendo invece l'accento sul corridoio che va dal Donbass alla Crimea, senza mai menzionare le città più importanti dell’Ucraina. 

Come a dire, questo sarebbe il sottinteso, che il vero obiettivo è una vittoria parziale e immediata, che eviterebbe il rafforzamento della posizione negoziale di Zelensky e una lunga guerra di occupazione per la quale sembrano mancare mezzi, risorse e rinforzi. Non è una correzione di rotta da poco.

Voci contro

La teoria del complotto non si addice al gesto coraggioso di Marina Ovsyannikova, la giornalista che pochi giorni fa ha fatto irruzione durante il telegiornale della sera per protestare contro la guerra. Ma quel che è successo non sembra avere una spiegazione logica, in un ambiente controllato come quello dell'informazione russa.

Non è stato l'unico segnale mediatico in contrasto con la narrazione di Stato. La scorsa domenica è avvenuta una cosa inaudita, per chi conosce bene Vladimir Solovyov, l'anchor man più popolare di Russia e più vicino a Putin che ci sia, oligarca a sua volta con tanto di villa sul lago di Como oggi sotto sequestro.

Il suo show è registrato. Non passa spillo in scaletta senza il consenso del Cremlino. Eppure, due ospiti anche loro di stretta osservanza presidenziale, il regista Karen Shakhnazarov e il deputato Semyon Bagdasarov, hanno «osato» riconoscere l'impatto forte delle sanzioni e i fallimenti dell’esercito. 

Potrebbe essere una messa in scena per mostrare pluralismo. O forse l'inizio di una operazione mediatica per preparare il terreno al racconto di un finale diverso. Ma qui si torna al caro vecchio Churchill. E alla nebbia fitta che circonda il Cremlino.

Da Adnkronos il 20 marzo 2022.

Fischi allo stadio per Vladimir Putin e la regia interrompe il discorso del presidente della Russia con qualche secondo di musica. E' lo scenario delineato da un video pubblicato su Telegram dal canale Ateo Breaking.

A fischiare, secondo la ricostruzione, sarebbero stati soprattutto studenti contrari alla guerra in Ucraina. Il Cremlino ufficialmente ha spiegato che l'interruzione del discorso di Putin in tv è stata legata ad un problema ad un server. 

Anna Zafesova per "La Stampa" il 20 marzo 2022.

Vladimir Putin è finito vittima della propria diffidenza. Il giallo durato 24 ore del suo discorso ai fedelissimi, interrotto all'improvviso in diretta televisiva da un'orchestra con coretti patriottici, ha appassionato gli amanti delle cospirazioni, curiosi di capire cosa fosse successo in quei secondi allo stadio Luzhniki di Mosca. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha parlato di «guasto tecnico del server», senza precisare cosa intendesse.

Le tv ucraine avevano trasmesso spezzoni del discorso del presidente russo dove si sentivano distintamente dei fischi e dei boati dal pubblico, sostenendo che la diretta fosse stata censurata. In altri video girati in altri punti dello stadio però si vedono gli spalti continuare indisturbati a sventolare le bandiere tricolori scandendo «Russia, Russia», come da copione. Qualcuno aveva sospettato un sabotaggio: la protesta nel mezzo del telegiornale della redattrice Marina Ovsiannikova ha svelato l'esistenza di un fronte di dissenzienti nel cuore della propaganda russa.

E pare che sia stato proprio quell'incidente ad aver rovinato il comizio-concerto per gli otto anni dall'annessione della Crimea: le dirette della televisione russa vengono ora trasmesse con tre minuti di ritardo. Di conseguenza, mentre sui teleschermi di tutte le Russie stava ancora parlando il presidente, sul palco dello stadio c'era già il coro militare che insieme al cantante Oleg Gazmanov tuonava «Sono stato fatto in URSS, Ucraina, Crimea, Bielorussia e Moldavia, sono il mio Paese», che si è sovrapposto alla finta diretta. Impossibile capire per ora se si sia trattato di un errore, o del gesto consapevole di un tecnico: poco prima, si era spento il microfono alla portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, che ha proseguito ad arringare la folla con l'espressione commossa, senza che si udisse una sola parola.

Se doveva essere uno sfoggio di unanimità spettacolare, il comizio non è stato all'altezza dell'intento. Lo sforzo organizzativo è stato immenso: 203 mila partecipanti, dentro e fuori lo stadio, decine di autobus e treni, bandiere e slogan nazionalisti ovunque, ornati della Z che da segno distintivo dei mezzi militari russi in Ucraina è diventata il nuovo simbolo dell'orgoglio russo, depositato curiosamente in una lettera dell'alfabeto latino che in cirillico non esiste.

Ma anche se almeno cinque giornalisti indipendenti erano stati arrestati prima di poter raggiungere lo stadio, diverse telecamere hanno documentato l'esodo dei fedelissimi di Putin ancora prima dell'inizio dell'evento, e numerosi partecipanti hanno sostenuto sui social di essere stati costretti a unirsi alla manifestazione, o con le minacce o con incentivi. Una tecnica tipica dei "puting", come vengono chiamati i comizi per il presidente, un neologismo formato da "Putin" e "meeting": l'iniziativa dal basso è sempre mal vista, meglio scegliersi il popolo Potiomkin per evitare sorprese, e alle aziende comunali di Mosca era stata inviata l'ordinanza di formare il pubblico soltanto da «persone con fisionomia slava», nessun asiatico o caucasico. Gli impiegati pubblici sono stati attirati con la promessa di un permesso retribuito, gli studenti con quella di esami condonati, molti sono venuti per un pasto gratis e per un concerto di star televisive. Ma la star principale doveva essere ovviamente Vladimir Putin, che ha tenuto segreta la sua partecipazione fino all'ultimo.

Il presidente russo è apparso sull'immenso palco a sorpresa, con un look smart casual, composto da una dolcevita color avorio che spuntava da sotto un piumino blu, identificato subito dai blogger come un modello di Loro Piana da 10 mila euro. Intorno a lui, una struttura enorme a gazebo, che secondo alcune voci sarebbe in realtà una gabbia di vetro antiproiettile. Chi si aspettava un discorso storico ritrova però un copione già ben noto sul "genocidio" e i "nazisti" di Kiev, condito da citazioni bibliche («non c'è amore più grande che dare la propria anima per gli amici»), proclami di grandezza russa e invocazioni di neosanti bellicosi come l'ammiraglio Fyodor Ushakov, che costruì Sebastopoli. Putin si interrompe spesso, non si capisce se perché si dimentica il testo, perde di vista il gobbo o fa una pausa per un'ovazione che non arriva. Il pubblico del "puting" tace, qualcuno fischia, la maggioranza resta indifferente a tutto, anche ai fucili che gli vengono puntati addosso dai cecchini presidenziali appostati sotto il tetto.

Putin, discorso allo stadio con il parka (da un milione di rubli) made in Piemonte. Loro Piana prende le distanze. Redazione online su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2022.  

L’azienda ha interrotto le forniture in Russia: «Putin dovrebbe riflettere su ciò che sta facendo vivere al popolo ucraino». 

Non è passato inosservato sui media il look «made in Italy» di Vladimir Putin, che sul palco dello stadio di Mosca ha indossato un parka colore blu scuro di Loro Piana, il marchio piemontese specializzato in articoli in cashmere acquistato però nel 2013 al polo del lusso francese Lvmh. Si tratterebbe di un giaccone del valore di circa un milione e mezzo di rubli, pari a oltre 12 mila euro.

Loro Piana prende le distanze

«Lvmh, il gruppo di cui Loro Piana fa parte ha da subito preso le distanze - spiega Pier Luigi Loro Piana - . È chiaro da che parte abbiamo deciso di stare».

L’azienda ha infatti interrotto le forniture in Russia e si sta adoperando per aiutare il popolo ucraino attraverso le associazioni impegnate nella solidarietà. «Putin dovrebbe riflettere su ciò che sta facendo vivere al popolo ucraino», conclude Loro Piana.

E intanto sui social c’è chi sottolinea come la decisione del presidente russo di indossare il costosissimo capo strida con i disagi che cominciano a farsi sentire su molti cittadini russi, difficoltà dovute alle durissime sanzioni economiche e finanziarie imposte a Mosca dall’Europa e dagli Stati Uniti.

Paolo Stefanato per ilgiornale.it il 20 marzo 2022.

Ci sono anche testimonial sgraditi, non richiesti e decisamente dannosi. Personaggi che anziché valorizzare l'immagine di un marchio possono rappresentare un danno incalcolabile. È il caso del piumino da 12mila euro firmato Loro Piana, storico marchio piemontese di cachemire, indossato da Vladimir Putin durante il suo discorso alla nazione dal palco dello stadio di Mosca.

Il presidente russo in questo momento è l'uomo meno adatto del mondo a fare una buona pubblicità per qualunque cosa e per un'azienda di rango elevato trovarsi coinvolta suo malgrado in uno spot involontario è certo una faccenda imbarazzante. Proprio la parola «imbarazzo» è quella che ha usato ieri Pier Luigi Loro Piana, ancora presente nell'azienda che porta il nome di famiglia e che nel 2013 è stata ceduta per alla multinazionale francese Lvmh di Bernard Arnault, che per l'ottanta per cento ha sborsato due miliardi di euro.

«È una questione che crea qualche imbarazzo dal punto di vista umano», ha confessato a la Repubblica l'imprenditore, 70 anni, rappresentante della sesta generazione ancora presente nell'impresa. Il gruppo di cui fa parte loro Piana ha già messo in atto tutte le azioni per prendere le distanze e per essere solidali con le posizioni europee rispetto alla tragedia umana che stiamo vivendo. 

Lvmh, come altri marchi del lusso di tutto il mondo, nelle ultime settimane ha chiuso i negozi in Russia e ha interrotto le forniture. Questo indica, quanto meno, che il piumino non è stato acquistato per l'occasione ma veniva dagli armadi di casa Putin. «La giacca credo che sia un acquisto che risale a tanto tempo fa ha ipotizzato l'imprenditore, che ha ben in mente modelli e annate ma credo anche che questi siano argomenti minori rispetto alla tragedia di una guerra.

Come azienda siamo completamente solidali con le posizioni del gruppo Lvmh. È chiaro da che parte abbiamo scelto di stare. Non mi sento colpevole per quella giacca, ma credo che Putin dovrebbe riflettere sull'ecatombe che sta facendo vivere al popolo ucraino». L'azienda ha già inviato aiuti a Kiev a sostegno della popolazione.

Allo stadio, Putin si è presentato con un piumino chiamato «parka», un capo d'abbigliamento ispirato alla popolazione nordica degli inuit. Quello del presidente russo era blu scuro, indossato sopra a un maglione bianco e al giubbotto antiproiettile. È un capo caldo, anche se a Mosca l'altro ieri la temperatura era ben sopra lo zero, non proibitiva. Ha un valore, dicevamo, di 12mila euro, pari a 1,5 milioni di rubli. Rende di più l'idea confrontare il prezzo con lo stipendio medio in Russia, che si ferma a 33.600 rubli mensili, 286 euro. 

«Abbiamo visto purtroppo anche un richiamo all'italianità ha commentato Enrico Letta, riferendosi all'abbigliamento di Putin allo stadio -. Il made in Italy ci rende orgogliosi ma vogliamo vedere un made in Italy più forte e meno legato a un personaggio che sta facendo in negativo la storia del nostro tempo».

Discorso alla Nazione di Putin: perché le persone allo stadio avevano delle Z cucite sui vestiti? Ilaria Minucci il 20/03/2022 su Notizie.it.

Per quale motivo, durante il discorso alla Nazione di Putin allo stadio Luzhniki di Mosca, le persone avevano delle Z cucite sui vestiti? 

Per quale motivo, in occasione del discorso alla Nazione pronunciato da Vladimir Putin allo stadio Luzhniki di Mosca, le persone avevano delle Z cucite sui vestiti?

Discorso alla Nazione di Putin: perché le persone allo stadio avevano delle Z cucite sui vestiti?

Nella giornata di venerdì 18 marzo, in occasione dell’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea alla Russia, il presidente Vladimir Putin ha tenuto un discorso alla Nazione sulla guerra in Ucraina. In questo contesto, i presentatori e le persone che si sono recate allo stadio Luzhniki di Mosca, presso il quale era stata organizzata la cerimonia per festeggiare l’evento, avevano delle Z cucite sui vestiti e in bella mostra sul petto. Cosa significa?

Nelle ultime settimane, la Z cucita o stampata su giacche e magliette e mostrata anche sulle bandiere rappresenta un simbolo dell’invasione russa dell’Ucraina.

Dallo scorso 24 febbraio, il simbolo ha fatto per la prima volta la sua apparizione sui carri armati dell’esercito inviato in Ucraina dal Cremlino. Successivamente, è stata apposta su cartelloni pubblicitari mentre i giocatori di bandy e le ballerine di danza classica hanno assunto la forma di una Z prima, rispettivamente, di giocare e di esibirsi.

I possibili significati attribuiti alla Z ripetutamente sfoggiata dai russi

Per quanto riguarda il significato della lettera Z, diventata un simbolo patriottico in sostegno dei militari inviati da Putin in Ucraina, sono state formulate svariate ipotesi.

Il Ministero della Difesa della Russia ha dichiarato che la Z sta per “Za pobedu” che, tradotto, significa “Per la vittoria”.

Altri, invece, sostengono che la Z sia un riferimento al presidente ucraino Volodymyr Zelensky. In questo modo, le truppe russe starebbero inviando al leader ucraino una sorta di messaggio per ricordargli che continua a essere il bersaglio principale del Cremlino.

Infine, c’è chi afferma che la Z stia per “Zapad” che significa ovest e, quindi, l’iniziale indicherebbe le intenzioni di Mosca di dare vita a una guerra che non si limiti all’Ucraina ma che si estenda anche all’intero Occidente.

Da “Libero Quotidiano” il 28 marzo 2022.

Mentre divampa il dramma dei profughi e in tutto il mondo si organizzano manifestazioni contro la guerra decisa dalla Russia contro l'Ucraina, c'è chi decide di allontanare da sé ogni possibile riferimento allo zar e alle sue violenza. 

È il caso del gruppo assicurativo Zurich, dal nome della città svizzera di Zurigo, il cui logo è, ovviamente una grande zeta che campeggia sui palazzi sedi del gruppo e sui canali social di comunicazione.

«Stiamo temporaneamente rimuovendo l'uso della lettera "Z" dai social, dove appare isolata e potrebbe essere interpretata erroneamente», ha spiegato un portavoce dell'azienda. L'ultima lettera dell'alfabeto è infatti usata per sostenere l'invasione russa in Ucraina.

Vladimir Putin, i retroscena sull'adunata allo stadio: uscite bloccate dai militari, ricompensa da 500 rubli. Libero Quotidiano il 19 marzo 2022.

Si torna a parlare del discorso alla nazione di Vladimir Putin, l'adunata allo stadio Luzniki di Mosca di ieri, venerdì 18 marzo. Davanti allo zar ecco 200mila persone, anche se la capienza massima era di 80mila persone. Adunata che richiama alla mente altre epoche, occasione in cui il presidente della Federazione russa ha ribadito i suoi obiettivi, in un discorso di rara violenza e a tratti delirante.

Del discorso se ne è parlato per il misterioso black-out che ha interrotto le parole del presidente: attacco hacker? Boicottaggio? Difficile saperlo, per certo il Cremlino, tramite il portavoce Dmitry Peskov, ha derubricato il tutto a "problema tecnico". Dunque il dettaglio del piumino Loro Piana da circa 12mila euro che indossava lo zar: altra circostanza che ha fatto discutere. Il suo tentativo di mostrarsi in abiti "popolari", insomma, è fallito alla grande.

Ma non solo. Ora ad aggiungere dettagli clamorosi ci pensa La Stampa, che in un lungo retroscena racconta la macchina della propaganda russa. A Mosca, spiega il quotidiano, i trasporti funzionavano benissimo: scaricavano gente dai pullman e dai treni con efficienza militare. E ancora, si apprende che le scuole avevano programmato per la mattinata delle lezioni speciali sulla Crimea sull'importanza delle "operazioni militari".

E ancora, si scopre che tutti i dipendenti pubblici avevano l'obbligo di essere allo stadio Luzinki: a loro è stato concesso un giorno di riposo aggiuntivo o una ricompensa in denaro, insomma un escamotage perfetto per riempire lo stadio, dato che in Russia, a causa delle sanzioni, ora anche una manciata di rubli può essere decisiva. Una volta finito il concerto, si apprende, poliziotti e militari hanno costretto le persone a restare dentro allo stadio per almeno 30 minuti: inaccettabile il fatto che qualcuno lasciasse prima del termine dell'evento. Infine, quanto scrive Repubblica: molti sarebbero andati allo stadio o sotto ricatto o per la promessa di incassare un compenso di 500 rubli. Robe da dittatura purissima.

Da corriere.it il 18 marzo 2022.

Il presidente russo Vladimir Putin parla allo stadio «Luzniki» di Mosca davanti a migliaia di persone. L’occasione è l’anniversario dell’annessione della Crimea (strappata all’Ucraina nel 2014) alla Federazione russa. 

Il ministero degli interni russo parla di 200.000 persone radunate all’interno e all’esterno dell’impianto sportivo. L’evento, trasmesso in diretta tv ha per titolo «Per un mondo senza nazismo, per la Russia, per il presidente». I conduttori hanno appuntata sulla giacca la «Z» che contraddistingue le truppe che hanno invaso l’Ucraina (qui il significato del simbolo).

Vladimir Putin ha fatto il suo ingresso allo stadio alle 14.15 (ora italiana) acclamato dalla folla, indossando un abbigliamento informale: giacca a vento blu e maglione a collo alto. «Gli abitanti della Crimea vogliono abitare nella loro terra, con la loro patria storica, la Russia» è stata la prima frase pronunciata; «Hanno fatto la cosa giusta opponendosi ai nazisti». 

Passando agli eventi di oggi Putin ha detto che «Kiev organizzava operazioni militari punitive contro il Donbass, qui siamo intervenuti con un’operazione speciale per fermare un genocidio dei russi: ora porteremo a termine i nostri piani». Il leader del Cremlino ha proseguito citando la Bibbia: «Non c’è amore più grande che donare l’anima per gli amici; in Russia vediamo un’unità che non c’era da molto tempo» ha detto citando il Vangelo di San Giovanni.

Il discorso di Putin è durato poco più di due minuti conclusi con un’ovazione da parte di tutto lo stadio. Nel telegrafico messaggio il presidente ha usato molti dei vocaboli chiave della sua retorica: il richiamo alla lotta ai nazisti, il sentimento della patria, della Madre Russia, l’invasione dell’Ucraina definita «operazione speciale», la missione condotta in nome dei valori della cristianità, il presunto genocidio commesso contro i russi.

Il clou dell’evento ha avuto però un «giallo»: le immagini della tv di Stato si sono improvvisamente oscurate pochi istanti dopo l’inizio dell’intervento di Putin. La trasmissione è ripresa subito dopo, quando però sul palco si stava esibendo un gruppo musicale. Un disguido al momento inspiegabile. Il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov lo ha definito «un guasto tecnico».

Nel corso della mattinata, prima del discorso alla nazione, ha avuto anche un colloquio con il cancelliere tedesco Scholz, cui ha detto che «da Kiev arrivano proposte sempre più irrealistiche». 

Non ha voluto invece commentare le parole che gli sono state rivolte dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che lo aveva definito «assassino» e «criminale di guerra». Secondo quanto riportano le agenzie russe Tass e Interfax, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha parlato di un «insulto personale» e ha aggiunto: «Considerando l’irritazione del signor Biden, la fatica e talvolta la sua smemoratezza, che alla fine si traduce in affermazioni aggressive, noi preferiremmo astenerci dal fare qualunque duro commento che possa causare un’ulteriore aggressione».

Il piccolo dittatore. Sappiamo cosa fare e i piani saranno attuati, dice Putin. Vladimir Putin su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.

Nel giorno dell’anniversario dell’annessione della Crimea alla Russia, il capo pro tempore del Cremlino ha parlato allo stadio Luzhniki di Mosca con un discorso propagandistico: «Il motivo dell'operazione militare che abbiamo lanciato in Donbass e in Ucraina è alleviare queste persone dalla sofferenza, da questo genocidio».

Pubblichiamo il delirante discorso di Vladmir Putin pronunciato allo stadio Luzhniki di Mosca nel giorno dell’anniversario dell’annessione illegale della Crimea alla Russia. 

“Noi, nazione multietnica della Federazione Russa, uniti dal destino comune sulla nostra terra…” Queste sono le prime parole della nostra legge fondamentale, la Costituzione russa. Ogni parola ha un significato profondo e un significato enorme.

Sulla nostra terra, uniti dal destino comune. Questo è ciò che deve aver pensato la gente di Crimea e Sebastopoli mentre andava al referendum del 18 marzo 2014. Vivevano e continuano a vivere nella loro terra e volevano avere un destino comune con la loro patria storica, la Russia. Ne avevano tutto il diritto e hanno raggiunto il loro obiettivo. Congratuliamoli prima con loro perché è la loro festa. Felice anniversario!

In questi anni, la Russia ha fatto molto per aiutare la Crimea e Sebastopoli a crescere. C’erano cose che dovevano essere fatte che non erano immediatamente evidenti a occhio nudo. Si trattava di cose essenziali come la fornitura di gas ed elettricità, le infrastrutture dei servizi pubblici, il ripristino della rete stradale e la costruzione di nuove strade, autostrade e ponti.

Dovevamo trascinare la Crimea fuori da quella posizione umiliante e affermare che la Crimea e Sebastopoli erano state spinte quando facevano parte di un altro stato che aveva fornito solo finanziamenti rimanenti a questi territori.

C’è di più. Il fatto è che sappiamo cosa deve essere fatto dopo, come deve essere fatto e a quale costo – e realizzeremo tutti questi piani, assolutamente.

Queste decisioni non sono nemmeno così importanti quanto il fatto che i residenti della Crimea e di Sebastopoli abbiano fatto la scelta giusta quando hanno eretto una solida barriera contro neonazisti e ultranazionalisti. Ciò che stava e sta accadendo in altri territori è la migliore indicazione che hanno fatto la cosa giusta.

Anche le persone che vivevano e vivono nel Donbass non erano d’accordo con questo colpo di stato. Diverse operazioni militari punitive furono immediatamente inscenate contro di loro; furono assediati e sottoposti a bombardamenti sistemici con l’artiglieria e bombardamenti aerei – e questo è in realtà ciò che viene chiamato “genocidio”.

L’obiettivo principale e il motivo dell’operazione militare che abbiamo lanciato in Donbass e in Ucraina è alleviare queste persone dalla sofferenza, da questo genocidio. A questo punto, ricordo le parole della Sacra Scrittura: “Nessuno ha amore più grande di questo, che un uomo dia la vita per i suoi amici”. E stiamo vedendo quanto eroicamente i nostri militari stiano combattendo durante questa operazione.

Queste parole provengono dalla Sacra Scrittura del cristianesimo, da ciò che è caro a coloro che professano questa religione. Ma la linea di fondo è che questo è un valore universale per tutte le nazioni e quelle di tutte le religioni in Russia, e principalmente per il nostro popolo. La migliore prova di ciò è come i nostri compagni stanno combattendo e agendo in questa operazione: spalla a spalla, aiutandosi e sostenendosi a vicenda. Se necessario, si copriranno a vicenda con i loro corpi per proteggere il loro compagno da un proiettile sul campo di battaglia, come farebbero per salvare il loro fratello. È passato molto tempo da quando abbiamo avuto una tale unità.

È successo così che, per pura coincidenza, l’inizio dell’operazione è stato lo stesso giorno del compleanno di uno dei nostri eccezionali capi militari che è stato canonizzato: Fedor Ushakov. Non ha perso una sola battaglia durante la sua brillante carriera.

Una volta disse che questi temporali avrebbero glorificato la Russia. Così era ai suoi tempi; così è oggi e sarà sempre! Grazie!

Tagadà, Carmen Lasorella e il capolavoro comunicativo di Putin: "Uno scenario straordinario". Il Tempo il 18 marzo 2022.

Uno spettacolo a suo modo "straordinario" quello messo in scena dal presidente russo Vladimir Putin che mentre l'esercito di Mosca bombarda l'Ucraina ha parlato alla nazione in un evento-show allo stadio di Mosca. A definire "straordinario" lo spettacolo in occasione dell'anniversario del referendum che ha stabilito l'annessione della Crimea alla Russia è Carmen Lasorella durante la puntata di venerdì 18 marzo a Tagadà, il programma di Tiziana Panella su La7. Durante la trasmissione scorrono le immagini di "una rappresentazione quasi cinematografica ", commenta la giornalista, "questo scenario sicuramente di cattivo gusto con riferimento a quello che in queste ore vediamo in Ucraina è però straordinario, va detto". Per la giornalista Putin ha messo su una "narrazione assolutamente 'verosimile' per riferirsi ai suoi interlocutori che non sanno o che non vogliono sapere" quello che succede davvero in Ucraina. Insomma, un capolavoro comunicativo che ribalta la realtà ma è efficace per l'opinione pubblica interna.

Il presidente russo "si è posto come un padre, ha usato toni concilianti, ha citato le sacre scritture addirittura - commenta Lasorella - Putin ha proposto le facce più giovani e più belle, ha mostrato una generazione piena di vita. Io credo che" le persone festanti inquadrate dalla tv russa "siano stati selezionati uno".

Tornando a Kiev e alle città più colpite dalle forze armate russe, la giornalista ha parlato anche delle trattative per terminare le ostilità. "Sembra che l'Europa non sappia negoziare perché è vero che siamo davanti a una cosa indecente, per non dire infame, ma io lo posso dire io però che sono giornalista", è la premessa della giornalista. È un errore se dichiarazioni di questo tenore arrivano da "una persona che ha un incarico istituzionale". Insomma definire Putin un criminale o un assassino come fatto dal presidente americano Joe Biden (ma anche il "nostro" Luigi Di Maio lo ha descritto "peggio di un animale") è un errore che l'Europa o comunque l'Occidente  potrebbero pagare caro.  

Il discorso di Putin alla nazione, oggi adunata allo stadio di Mosca. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2022.  

Il presidente allo stadio «Luzniki»: «Kiev stava organizzando da tempo spedizioni punitive e attacchi militari contro il Donbass. Questo è un genocidio. Fermare tutto ciò era l’unico obiettivo dell’operazione. Attueremo i nostri piani». Poi cita la Bibbia. 

«Per puro caso, l’inizio dell’operazione speciale in Ucraina è stato il giorno del compleanno di…». L’unica novità è stata l’improvvisa interruzione del discorso di Vladimir Putin, tagliato dalla Tv di Stato russa mentre stava pronunciando questa frase, con stacco immediato su due cantanti che hanno ripreso a intonare inni patriottici per celebrare gli otto anni dell’annessione della Crimea, avvenuta nel 2014. Qualcosa di strano è accaduto. Lo dimostra anche l’intervento immediato di Dmitrij Peskov, il portavoce del presidente, che ha parlato di una “guasto tecnico”, ipotesi che non ha certo allontanato i sospetti su un possibile attacco hacker.

Quello andato in scena allo stadio Luzniki di Mosca, che tre anni fa ospitò la finale dei Mondiali di calcio, è stato il classico esempio di Puting, neologismo che fonde il nome del presidente alla parola meeting, inventato nel 2017 dai sostenitori di Alexis Navalny per definire gli eventi a favore del Cremlino. L’utilizzo di un’arena così ampia e di una scenografia così sfarzosa sembra già un segnale preciso dell’intenzione di andare avanti con la guerra. E nonostante sui canali Telegram della propaganda di governo fosse stato annunciato che Putin avrebbe fatto dichiarazioni importanti, l’attesa occidentale per eventuali novità è andata delusa.

Avanti così che va tutto bene, potrebbe essere il riassunto del discorso del presidente, che dal 2019 non appariva di persona a una manifestazione di tale portata. Putin è sembrato in buona forma. Al centro del palco con un look `made in Italy´, maglione a collo alto color crema e parka di colore blu di Loro Piana da un milione e mezzo di rubli ( circa 12 mila euro). Ha parlato a braccio. Per dire le solite cose e tessere l’elogio dei soldati russi impegnati in Ucraina, anche con annessa citazione delle parole di Gesù, forse l’unico inedito di giornata. «Non c’è amore più grande che dare la propria anima per gli amici» ha esordito, parafrasando un passo del Vangelo di Giovanni per parlare del sacrificio dei soldati al fronte. «I nostri ragazzi si proteggono l’un altro in battaglia, offrendo il loro corpo a protezione del compagno. Loro sono il simbolo del fatto che non siamo mai stati uniti come lo siamo oggi». Due giorni fa, nel discorso sui traditori della patria da schiacciare come moscerini.

Ma poi ha proseguito seguendo un canovaccio ormai abituale, quasi un riassunto delle puntate precedenti. «Kiev stava organizzando da tempo spedizioni punitive e attacchi militari contro il Donbass. Questo è davvero un genocidio. Fermare tutto ciò era l’unico obiettivo dell’operazione speciale. Abbiamo fatto risorgere la Crimea, che era un territorio abbandonato dagli ucraini. L’abbiamo fatto grazie ai suoi abitanti, che venivano umiliati di continuo e fanno parte del nostro popolo. Sono loro che hanno fatto la scelta giusta, ponendo un ostacolo al nazionalismo e al nazismo che invece continua ad essere presente nel Donbass, con operazioni punitive contro la popolazione. I nostri fratelli russi sono stati vittime anche di attacchi aerei. Questo è l’esempio di quello che noi chiamiamo genocidio. Evitarlo è l’obiettivo della nostra operazione militare, e vi assicuro che attueremo tutti i piani».

L’ultimo passaggio contiene un riferimento evidente al missile caduto due giorni fa nel centro di Donetsk, che ha causato la morte di 25 civili. I russi attribuiscono la responsabilità all’esercito ucraino, mentre Kiev replica che si tratta della classica opera di disinformazione. Il mistero sul destinatario degli auguri di compleanno posticipati si è dissolto con la pubblicazione integrale del discorso sul sito del Cremlino. Putin si riferiva all’ammiraglio Fjodor Ushakov, glorificato nel 2001 dalla Chiesa russa come santo patrono della marina, «In tutta la sua brillante carriera militare non perse neanche una battaglia» ha concluso Putin. «Egli ebbe a dire una volta che le grandi tempeste finiscono con il portare glori alla Russia. Così è sempre stato, così è oggi e così sarà sempre».

La "Z" e la Bibbia: cosa rivelano i simboli di Putin. Alessandro Ferro il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.

Si è da poco concluso il discorso di Putin di fronte al suo popolo nello stadio di Mosca: tra simbologie e retorica, ecco cosa è successo.

Uno stadio gremito ha accolto con un'ovazione il presidente russo Vladimir Putin sventolando migliaia di bandiere russe e intonando cori di sostegno alla madre patria: la cerimonia si è svolta allo stadio Luzhniki di Mosca che nel 2018 aveva organizzato la finale dei Mondiali di calcio. Le incredibili scene di un pubblico festante come vivessero su un altro pianeta hanno mostrato innanzitutto una colorazione e simbologie particolari, ad iniziare da quella lettera "Z" divenuta simbolo dell'invasione in Ucraina disegnata sulle giacche.

La simbologia putiniana

Giaccone blu, golf a collo alto crema, il presidente russo è stato a lungo acclamato al termine del suo breve discorso. Dietro di lui un coro ha iniziato a cantare tra gli applausi e i fuochi di artificio. L'immagine che Mosca ha voluto rimandare è stata quella di un Paese felice e orgoglioso dell'operazione in corso. La gente teneva uno striscione con la lettera "Z "ripetendo in coro "Per Putin!" durante un concerto in occasione dell'ottavo anniversario della riunificazione della Crimea con la Russia. Questa lettera l'abbiamo già vista molte volte sui veicoli militari russi in Ucraina ma cosa significa? Secondo il ministero della Difesa russo, sta per "Za pobedu", cioé "Per la vittoria": la lettera caratterizza anche un numero sempre più ampio di automobili in Russia.

Quella citazione biblica

Questo simbolo è ormai arrivato in contesti di ogni tipo. Gli operai hanno messo una Z sulla rampa di un razzo allo spazioporto di Baikonur, mentre molte celebrità hanno aggiunto una Z maiuscola al loro nome sui social media. E poi, come non ricordare anche il ginnasta russo Ivan Kuliak che ha attaccato la lettera Z alla sua maglia ai Mondiali di Doha suscitando una indignata reazione a livello internazionale. Kuliak, piazzatosi terzo alle parallele, era sul pidio accanto al vincitore ucraino Illia Kovtun durante la cerimonia di consegna delle medaglie. Nel suo breve discorso Putin, ha anche citato la Bibbia in ricordo dell'annessione della Crimea. "Non c'è un amore più grande di questo, di chi dà la vita per i suoi amici", ha detto rilanciando la sua decisione di inviare truppe per "difendere il Donbass", ha detto, citando il Vangelo di Giovanni.

Nel breve messaggio, poi, lo zar russo ha utilizzato molti dei vocaboli chiave della sua retorica: dal richiamo alla lotta ai nazisti al sentimento della Madre patria Russia fino all’invasione dell’Ucraina definita "operazione speciale", una missione condotta in nome dei valori della cristianità. 

Inni, bandiere e Bibbia. Il mega-show di Putin. Messaggio ai russi e al mondo intero: "Avanti coi nostri piani". Gaia Cesare il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.

Bagno di folla allo stadio Luzniki di Mosca, dove il presidente russo rilancia la sua propaganda. I vescovi: "Bestemmia". E anche le nuove telefonate con Scholz e Macron mostrano come il presidente non abbia intenzione di fermarsi. 

Anche il bagno di folla è compiuto. Vladimir Putin sceglie le celebrazioni dell'ottavo anniversario dell'annessione della Crimea per arringare un pubblico plaudente e i telespettatori da casa con la sua propaganda di Stato trasformata in mega-show. Maglione bianco a collo alto, giacca firmata da 12mila euro in barba al disastro economico a cui rischia di portare la Russia, Putin veste casual-chic ma il Re è nudo. Quello di ieri è un altro schiaffo all'Ucraina, un appello alla piazza perché lo sostenga anche sul lungo termine, ma anche un messaggio al mondo intero, visto che l'annessione della Crimea, unilaterale, non è riconosciuta dalla maggioranza della comunità internazionale ed è solo l'antipasto di un menu che Mosca vuole consumare fino al dessert: le vecchie frontiere sovietiche.

L'EVENTO

Le parole di Vladimir Putin tuonano nello stadio Luzniki di Mosca, il più grande di Russia, mentre le città ucraine sono da 23 giorni sotto le bombe russe indiscriminate e i civili martoriati da evidenti «crimini di guerra». Ma qui, il film di cui il leader russo si fa regista e protagonista è tutto un altro. Studenti e funzionari caricati sui pullman per assistere all'evento. I cori «Rossiya, Rossiya» - Russia, Russia - nello stadio gremito. Le autorità di Mosca parlano di 200mila persone presenti, divise fra dentro e fuori, dato che lo stadio può contenerne al massimo 81mila. Migliaia di bandiere a sventolare, con i colori della patria o con la lettera Z incisa per mostrare a tutti l'orgoglio dell'invasione, che il presidente russo continua a chiamare «operazione speciale». Ed eccolo il nocciolo del suo intervento, una replica ad arte delle puntate precedenti, stavolta con effetti sonori e furor di popolo: «L'operazione militare speciale è stata lanciata per evitare il genocidio dei russi». Il leader di Mosca «vende» la guerra come la buona azione di madre Russia, che vuole fare pulizia dei «nazisti» nel Donbass.

LE CITAZIONI

Se ce ne fosse ancora bisogno, l'esibizione rende evidente alla comunità internazionale quel che è già visibile sul campo di battaglia in Ucraina: Putin non ha intenzione di fermarsi. Mentre la diplomazia segue i suoi tempi - che le bombe fanno sembrare secoli - il nuovo Zar non cede di un millimetro nemmeno sul piano verbale. «Attueremo i nostri piani», promette. Se il presidente ucraino Zelensky è ormai diventato noto per le sue citazioni di Martin Luther King e Churchill, Putin si affida prima alla Bibbia: «Non c'è amore più grande che donare la propria anima per i propri amici», dice, con l'obiettivo di spiegare ai russi - privi di una libera informazione - che Mosca è intervenuta nel Donbass per difendere e non per attaccare. I vescovi si indignano: «Bestemmia». Ma il presidente russo chiude il discorso, infarcito di retorica nazionalista e falsità, con le parole del più illustre ammiraglio russo, Fyodor Ushakov, uomo dell'epoca zarista, venerato come santo dalla Chiesa ortodossa: «Le tempeste portano alla gloria della Russia. Così è stato allora! Così è oggi! E così sarà sempre!».

LA DIPLOMAZIA

Non è difficile capire perché anche l'ennesima telefonata con il cancelliere tedesco Olaf Scholz ieri, prima del grande evento, e quella successiva con il presidente francese Emmanuel Macron, fanno entrambe un nuovo buco nell'acqua. La colpa di negoziati ancora infruttuosi - è la tesi del leader russo - è tutta dell'Ucraina, che «temporeggia» e fa «nuove proposte irrealistiche». Così anche il bilancio della chiamata, durata poco meno di un'ora e sempre accompagnata dalla richiesta per una tregua rapida e una soluzione diplomatica, secondo il portavoce del Cremlino è «pessimo». La telefonata «difficilmente può definirsi amichevole», spiega Dmitri Peskov. Ma «la parte russa - conclude Mosca - è pronta a continuare a cercare soluzioni in linea con i suoi ben noti approcci di principio».

Non va meglio il secondo round con Macron. Come Scholz, il leader francese insiste per un cessate il fuoco. Nella chiamata di un'ora e dieci riferisce la grande preoccupazione per la situazione nella città di Mariupol, martoriata dalle bombe, con gli ucraini stremati, a corto di elettricità, cibo e acqua. Ma Putin continua a crogiolarsi nelle sue menzogne di Stato, assicurando che le forze russe stanno facendo «tutto il possibile per evitare vittime civili» e accusando le forze di Kiev di commettere crimini di guerra.

IL FINALE

Sembra un copione da manuale di propaganda sovietica. Ma arriva il fuori programma. Il discorso di Putin viene interrotto all'improvviso dalle canzoni patriottiche cantante durante lo spettacolo. «Problemi tecnici», spiega il Cremlino. Ed è subito giallo. Evento registrato? Tentativo di boicottaggio? Comunque sia, Re Putin è nudo.

Da open.online il 15 marzo 2022.

Il deputato della Lega Vito Comencini è a San Pietroburgo, la città natale della moglie. Ma è anche pronto a raggiungere il Donbass «se sarà possibile. In caso contrario mi fermerò a Rostov, dove molti dei profughi giunti dalle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk hanno trovato riparo».

In un’intervista rilasciata a Repubblica Comencini oggi spiega che lui non si sente un filo-Putin, ma o «un identitario. Difendo i valori della civiltà classico cristiana in Europa». Per lui «’invasione è anche una conseguenza della guerra in Donbass, per il mancato rispetto degli accordi di Minsk, che prevedevano una soluzione pacifica e diplomatica dopo otto anni di ostilità. Sono stato lì due volte, ho toccato con mano la disperazione. Il conflitto è proseguito nel silenzio generale».

Comencini è arrivato a San Pietroburgo passando per la Finlandia. E alla domanda sulla popolazione di Mosca terrorizzata dalla guerra replica in un modo già sentito: «Qui i ristoranti sono pieni, i negozi pure. Una signora, per sdrammatizzare, mi ha detto: “Vuol dire che per un po’ mangeremo patate e cavolfiori”». 

E spiega: «In Russia pensano che lo scontro sia tra Nato e Russia. L’Ucraina a quanto pare è al centro di un conflitto più complesso, che ha radici più profonde, legate al suo rapporto con gli Usa». 

In più, fa sapere, «qui sono convinti che i civili ucraini vengano utilizzati come scudi umani. Pensano che le forze armate siano composte da molti elementi neonazisti». E dice di non credere alle tv: «Tante volte è il frutto di una propaganda mediatica. Qui le tv locali denunciano fake news».

Quei buchi nella strategia dei russi: più che le forze militari avanza la propaganda. Lascia perplessi quanto poco il comando russo abbia impiegato la sua aeronautica ammodernata. CARLO JEAN su Il Quotidiano del Sud il 15 marzo 2022.

Il conflitto in Ucraina sta divenendo più brutale. I bombardamenti sulle città e sui civili in fuga si moltiplicano. A detta di un nostro inviato nella provincia di Mariupol, i soldati ucraini feriti, ricoverati nello scantinato di un ospedale, sarebbero stati giustiziati dai russi. Anche la sorte dei prigionieri russi è incerta, A parte il “buonismo di maniera” della propaganda di Kiev, che li fa vedere addirittura coccolati con cornetti e caffè dalle donne ucraine, sono di certo oggetto di violenze e rappresaglie.

La situazione sul campo di battaglia è di stallo. Evolve lentamente. Esistono di certo problemi nel comando russo nell’adeguare la strategia e la tattica iniziali da quelle di un blitzkrieg corazzato a combattimenti di logoramento, simili a quelli della prima guerra mondiale. Non sono più i carri armati russi a precedere la fanteria meccanizzata. Sono i fanti appiedati che devono proteggere i carri dalle temibili armi controcarro fornite agli ucraini prima dell’inizio dell’aggressione russa dagli USA (i Javelin) e dall’UK (i NLAW) e, dopo il suo inizio, da un’altra decina di paesi. I giovani fanti russi (hanno 20-25 anni, rispetto ai 35 delle forze ucraine), devono assaltare le trincee o le macerie delle case. Subiscono consistenti perdite. Il loro morale, anche per il caos operativo e logistico in cui si trovano, non è molto alto. Sono segnalati casi di sabotaggio dei mezzi di trasporto, fatti dai loro occupanti per non raggiungere le linee di combattimento. Forse si tratta di propaganda. Ma indubbiamente le difficoltà sono elevate.

Ne è prova la ridotta velocità d’avanzata delle forze russe, non solo nei combattimenti urbani, ma anche nelle manovre per circondare le città. Ne è prova anche l’annunciato ricorso dell’esercito russo ai “tagliagola” ceceni e siriani. Di certo è stato propagandato anche per terrorizzare gli ucraini. Dipende però anche dallo scarso morale e volontà combattiva della fanteria russa, nonché dal suo ridotto numero di effettivi. Come ha detto Napoleone “la vittoria dipende per il 20% dalla potenza materiale, e per l’80% dal morale”, a sua volta legato alla fiducia nei propri comandanti. Per quanto riguarda il numero, quello delle truppe russe è del tutto insufficiente per occupare un paese di 600.000 kmq e di una quarantina di milioni di abitanti, di cui al massimo solo il 20% potrebbe essere neutrale o favorevole all’occupante (il 17% della popolazione è russofona). Invece di 150-200.000 uomini ce ne vorrebbero 600.000 (1 soldato per kmq o 150 soldati per 10.000 abitanti).

Le perdite aumentano. Secondo gli ucraini sarebbero stati distrutti 360 carri armati, 1.205 veicoli corazzati, 60 aerei e 80 elicotteri. Mi sembrano dati alquanto esagerati, dichiarati per propaganda. Fonti britanniche producono dati inferiori di un terzo. Sono, a parer mio, più credibili. Anche Mosca comincia a registrare perdite dirette per gli errori di intelligence, strategici e tattici e, soprattutto, logistici compiuti dallo Stato Maggiore. I dirigenti della 5^ Direzione “Operazioni Speciali” del Servizio di sicurezza, forse incarcerati, avrebbero consapevolmente ingannato Putin con notizie false sulla capacità e volontà di resistenza dell’Ucraina e di Zelensky. Molto probabilmente hanno detto al “padrone del Cremlino” quanto quest’ultimo desiderava gli fosse detto! A parer mio, vi saranno altre destituzioni. Putin non può ammettere, come avviene per tutti gli autocrati, di aver sbagliato. Può accettare solo di dire di essere circondato da incapaci, che ha sostituito e punito duramente.

Un fatto che lascia perplessi è quanto poco il comando russo abbia impiegato la sua aeronautica. Essa era stata recentemente ammodernata con nuovi aerei, come i cacciabombardieri SU-30, SU-35 e Su-57, nonché con una decina di nuovi bombardieri SU-34, che si sono aggiunti alla cinquantina di SU-160 Blackfire, capaci di sganciare “il padre di tutte le bombe”, cioè la potente bomba termobarica FOAB, sviluppata dalla Russia nel 2007, pesante 10 ton, con la potenza di 44 ton di tritolo e capace di polverizzare ogni cosa entro un diametro di 300 m dal punto di scoppio (vaporizzando anche i cadaveri). Di bombe termobariche sono in servizio altre meno potenti e più leggere. Risulta che talune siano state impiegate in Ucraina. A parer mio, i russi userebbero la FOAB per segnalare la loro volontà di escalation. Spero invece che Putin non faccia la pazzia di ricorrere ad armi nucleari di piccola potenza, come ha recentemente previsto anche Alexander Dugin, ben noto ai lettori della Casa Editrice Barbarossa di Milano, consigliere di Putin ed esperto di geopolitica alla Duma russa.

Il conflitto, da blitzkrieg fallita, si è ormai trasformato in una guerra di attrito. Potrà rimanere tale, se Putin giudicherà di non potersi permettere le perdite inevitabili in un attacco su larga scala delle città. Si trasformerà in una guerra di guerriglia qualora i russi riescano a conquistare l’intera Ucraina e installino un governo russofilo loro vassallo, a meno, beninteso, che non si giunga a uno scontro diretto fra la Russia e la NATO.

Francesco Semprini per “La Stampa” il 15 marzo 2022.  

«Hanno detto che dovevamo addestrarci perché gli americani stavano per occupare l’Ucraina e la Nato avrebbe messo piede in Russia». L’armata di Vladimir Putin è figlia dell’inganno, almeno a vedere alcuni suoi volti. Come quelli apparsi ieri in un albergo della capitale trasformato dalla macchina mediatica di Volodymyr Zelenskyj in teatro della propaganda ucraina, nell’ambito di quella «infowar» che rappresenta la quarta dimensione bellica dei conflitti contemporanei.

Un frammento che ha il nome e il volto di cinque giovanissimi ragazzi, tutti sbarbati e militari di leva, catapultati loro malgrado in una guerra che di lampo ha ben poco. Il più giovane è Pozdeev Andrey Yurievich, 19 anni, militare da giugno scorso nel 15° Reggimento fanteria. 

«Ci avevano detto “preparate i mezzi, non dovete avere paura. Non vi manderanno oltreconfine». Nella notte fra il 23 e 24 febbraio il nostro convoglio si è messo in marcia, mi sono addormentato e risvegliato in Ucraina, non avevo mai visto una battaglia». Il 5 marzo arriva l’ordine di far rientrare i coscritti in patria, ma Andrey viene ferito durante un bombardamento, viene lasciato indietro, di lì a poco si consegna. 

Akhunov Niyaz Munirovich ha solo un anno di più ma lo sguardo è impaurito. «Dopo la prima battaglia abbiamo abbandonato i carri armati e siamo scappati nella foresta per quattro giorni. Poi ci siamo arresi. Gli ucraini ci hanno dato medicine e vestiti asciutti, non avevo mai visto uno scontro a fuoco prima». 

 Morozov Olexander Romanovych, 22 anni, è il più anziano: «Siamo tutti di leva, fino all’ultimo ci avevano parlato di manovre sul territorio russo e mai di invasione, era una bugia. Sono stato fatto prigioniero, immaginavo di venire picchiato o, peggio, torturato, invece sono stato trattato bene.

Stiamo morendo tutti per niente, anche le donne ed i bambini di questo Paese. Putin ha detto falsità, come il fatto che non ci fossero soldati di leva, voglio chiedere scusa a tutti gli ucraini. Vi prego perdonatemi». 

Mikola Polshchikov Valentinovych, 21 anni, caporale, sotto le armi da giugno 2021, è un autista di mezzi di trasporto truppe. «Il comandante ci ha ordinato il 21 febbraio di prepararci per il combattimento: “Marceremo su Kharkiv”. Non ci potevo credere, veramente andiamo in Ucraina?». Si commuove quando racconta dei commilitoni uccisi.

«Mi hanno rimandato indietro con gli altri feriti, ma ci hanno abbandonato. Gli stessi che ci parlavano di fascisti da cui doveva essere liberata l’Ucraina, qui non ne ho visto uno. Sarebbe stato meglio pagare una mazzetta come altri per evitare il servizio militare». La narrativa della denazificazione è stata ampiamente usata dall’apparato militare di Mosca, secondo Savin Anton Yevgeniyovich 20 anni, biondo con i capelli a spazzola e una ferita sulla testa. 

«Ero nel 2° battaglione carri, quinta compagnia, ci hanno detto che dovevamo partire per l’Ucraina puntando su Kiev per liberare la popolazione dai sostenitori di Stepan Bandera (leader nazionalista della Seconda guerra mondiale, ndr) e dai neonazisti. Alla fine della missione avremmo ricevuto un premio in denaro.Non avevamo alcuna possibilità di andarcene».

Anche della retorica dell’aggressione Nato si sarebbe fatto largo uso a Mosca: «Prima di questa missione i nostri comandanti dicevano che in Ucraina stanno arrivando gli americani e che volevano espandere le loro base verso la Russia. 

Ci dicevano che dovevamo difendere i confini, ma non invadere l’Ucraina». Nessuno dei cinque prigionieri si sottrae alla supplica: «Voglio dire ai concittadini del mio Paese, non mandate i vostri figli sotto le armi in Ucraina. I nostri soldati, i nostri amici, i vostri figli muoiono su questa terra. Questa guerra non ha senso dobbiamo solo andarcene». E ce n’è anche per il capo del Cremlino: «Presidente Putin, hai fatto di noi carne da cannone».

UCRAINA. Federico Capurso per “la Stampa” il 22 marzo 2022.

Chissà se questa mattina il presidente ucraino Volodymir Zelensky, che alle 11 interverrà in collegamento video alla Camera dei deputati, verrà anche informato di quanti parlamentari italiani hanno deciso di disertare l'Aula e delle mille sfumature che può assumere un rifiuto. 

C'è chi parteggia apertamente per i russi, come la senatrice Bianca Laura Granato, e chi invece ha altri impegni. In molti sollevano «perplessità» del più vario genere, ma sempre per dire di no, mentre altri si dicono ancora indecisi.

E ci sono poi quelli che nel Palazzo sono stati ribattezzati «i nenné» (con un evidente riferimento al bambinesco lamento «gnè-gnè»), perché non vogliono schierarsi né con la Nato, né con Putin. Ma in questo modo - pungono dal Pd - non fanno altro che dare una mano a Mosca, isolando la posizione di chi è stato invaso. I parlamentari assenti o indecisi vengono soprattutto dal calderone del gruppo Misto e Giuseppe Conte, scorrendo i loro nomi, può tirare un sospiro di sollievo perché gran parte di loro sono ex Cinque stelle espulsi o usciti per protesta negli anni.

Per Carlo Calenda è come se non se ne fossero mai andati: «Lo spettacolo che sta dando il M5S è indecoroso - twitta -. Noi di Azione restiamo alla larga dai sostenitori dell'equidistanza». Ma anche nel Pd, tra i Dem renziani, si punta il dito contro il «gruppo di parlamentari, tra Lega e M5S», che non parteciperà: «La stessa cosa farà mercoledì in Francia Marine Le Pen - li sferza il senatore Andrea Marcucci -. Ogni commento sulla matrice politica di tali assenze sarebbe superfluo».

Il passato grillino, in effetti, accomuna molti di loro. Quasi tutti. Il maggiore imbarazzo l'avrebbe però provocato la senatrice Bianca Laura Granato, cacciata un anno fa, che ieri si è detta convinta: «Putin sta conducendo una battaglia per tutti noi. A Putin dico: "Uniamo le forze per sconfiggere insieme l'agenda globalista"». 

Granato vorrebbe che venisse invitato a parlare alla Camera anche il presidente russo, come sosteneva giorni fa il deputato Garbiele Lorenzoni, lui sì, ancora M5S. Lorenzoni però non è sicuro di disertare l'Aula. Forse ci sarà, forse no, ma è il motivo della sua possibile assenza ad assumere i contorni del grottesco: è iscritto all'università Luiss, dove sta prendendo un master in materie economico finanziarie, e non vorrebbe togliere tempo allo studio perché - viene spiegato a La Stampa - a breve dovrà sostenere un esame.

L'altra Cinque stele assente sarà la deputata Enrica Segneri, che a La Stampa aveva detto di non essere d'accordo con la «sovraesposizione del Parlamento italiano». La pensa allo stesso modo un altro ex M5S, Emanuele Dessì, transitato nel Partito comunista, che invoca «la necessità di essere neutrali.

Se si vuole la pace, non ci si può schierare». Assicura però - di fronte alle critiche piovute sui «nenné» - di non parteggiare per Putin. Anzi, ne ha per tutti: «Gli ucraini hanno Zelensky, noi Draghi, i russi Putin. Facciamo a gara a chi sta peggio». Nelle file della Lega è più gettonata la «perplessità», esposta nelle forme più varie, nonostante dai vertici del partito abbiano chiesto di essere presenti.

È perplesso, ad esempio, il senatore Simone Pillon e contro di lui si alza la polemica di +Europa: «C'è un aggressore che non si fa problemi a bombardare scuole, teatri e persino ospedali pediatrici. Ma questo deve essere un dettaglio per il "pro-life" Simone Pillon, per il quale non tutte le vite valgono lo stesso». Meno perplesso, invece, un altro leghista come Vito Comencini, apertamente al fianco di Putin e persino «pronto ad andare nel Donbass».

Anche Forza Italia conta degli assenti: saranno Veronica Giannone e Matteo Dall'Osso, altri due ex M5S. Non ci sarà nemmeno il senatore Gianluigi Paragone, che nei Cinque stelle ha militato per poco e che ora guida il partito sovranista Italexit. Promettono di non mancare invece i parlamentari di Pd e Leu, così come i partiti di centro e Fdi. Ma non siamo sicuri che Zelensky, se mai saprà di quante assenze ci sono, abbia interesse a coglierne le sfumature.

Zelensky al Parlamento: non è un format tv, ma il grido di dolore di un leader in guerra. Domani mattina l’intervento alla Camera dei deputati del leader ucraino. Ma i “putiniani” d’Italia lo boicotteranno. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 marzo 2022.

In questi giorni tra i giornalisti italiani circola un gioco di società che appassiona decisamente più delle bombe che sventrano le città ucraine o dei destini delle popolazioni in guerra: quali citazioni regalerà Volodymyr Zelensky al nostro Parlamento? Parlando ai deputati britannici ha citato Shakespeare e Churchill, al congresso Usa Martin Luther King e l’11 settembre, al Bundestag il Muro di Berlino, stamane a Montecitorio cosa tirerà fuori dal cilindro? Dante e Garibaldi? Mussolini e la resistenza partigiana?

Il quesito è spesso accompagnato da sorrisetti di sufficienza, nasini arricciati e dalla malcelata speranza che il presidente-attore possa inciampare in qualche gaffe, dimostrando quanto sia inadeguato nel suo ruolo di leader di un Paese martellato dalle bombe e che si ostina a non arrendersi allo strapotere militare del nemico. La pensa senz’altro così la pittoresca pattuglia di parlamentari “neutralisti”, se non chiaramente putiniani, che domani boicotterà il suo discorso a Montecitorio come il leghista Pillon (sic) i pentastellati Lorenzoni e Segneri, l’ex grillino e oggi “comunista” Emanuele Dessì, riscopertosi grande ammiratore del bielorusso Lukashenko.

Ci hanno comunque provato questo fine settimana a farlo passare per fesso, dopo l’intervento alla Knesset in cui Zelensky avrebbe scioccato l’opinione pubblica israeliana paragonando l’invasione dell’armata russa alla “soluzione finale” del Terzo Reich. Ma se i media italiani hanno ricamato fior di articoli sulle parole «oltraggiose» del presidente ucraino, da Tel Aviv governo e deputati non hanno commentato più di tanto la sua uscita; l’unica voce veramente critica quella dei vertici dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah che ha ricordato come il genocidio pianificato da Hitler e i suoi gerarchi non abbia termini di paragone storici e che avrebbe fatto meglio a evitare quell’amalgama. Il che è vero, come è vero che la torrenziale comunicazione di Zelensky, tutta centrata sul registro dei simboli e delle emozioni, non rispetta gli ingessati protocolli del discorso diplomatico, ma parla direttamente allo stomaco, con gravità e senso della messa in scena, come quando ha postato un video su Telegram per far ascoltare il suono delle sirene antiaereo che da 25 giorni squillano nelle città ucraine. O nella sua prima apparizione pubblica dopo l’invasione in cui disse al suo popolo che sarebbe restato in patria a combattere e che avrebbe potuto essere ucciso assieme alla sua famiglia quella sera stessa.

Di che scandalizzare le tante marchesine del nostro panorama politico-intellettual-mediatico con il loro strambo senso delle priorità, per cui il presidente eletto di uno Stato sotto occupazione militare diventa un volgare zoticone che trasforma la guerra in spettacolo se non un pazzo irresponsabile che manda al macello la sua gente rischiando di scatenare la Terza guerra mondiale.E fanno davvero sorridere i cori di indignazione italici sulla «banalizzazione dell’Olocausto» rivolti verso un politico di religione ebraica. Magari da parte di chi non si fa problemi a definire “fascista” lo Stato di Israele dopo ogni incursione o rappresaglia dell’esercito nei Territori palestinesi. Lo stesso farisaico ribaltamento per cui la pace in Iraq e in Afghanistan doveva coincidere con il ritiro incondizionato dell’esercito anglo-americano -«yankee go home!»- mentre quella in Ucraina soltanto con la resa totale di Kiev alle condizioni di Vladimir Putin. La chiamano “realpolitik”, ma è solo cinismo di bassa lega. Si dice poi che gli interventi Zelensky siano un “format” studiato, che dietro le sue ispirate e disturbanti parole si agiti la longa manus degli sceneggiatori della serie televisiva che lo rese una star contribuendo alla sua irresistibile ascesa, Servitore del popolo.

E questo fatto darebbe ragione a chi parla di «inquietante distopia» per cui il presidente ucraino sarebbe un burattino controllato da Ihor Kolomoisky, l’oligarca ucraino proprietario della rete tv 1+1, anche lui ebreo e anche lui, nel cortocircuito ideologico generato dallo scoppio del conflitto, accusato di finanziare gruppi “neonazisti”. No, i collegamenti via zoom di Zelensky con le assemblee nazionali e con i governi non sono un format televisivo, una forma di marketing post-politico o una distopia alla Black mirror per il semplice fatto che in Ucraina non sta andando in onda un reality ma è in corso una guerra vera, novecentesca, fatta di bombardamenti, di migliaia di vittime civili, di milioni di sfollati, di infrastrutture distrutte, di famiglie spezzate.

Pensare che in questo grumo drammatico di paura e morte, di violenza e resistenza, l’ostacolo alla pace sia la propaganda di Zelensky e del suo governo, la sua presunta ruffianeria verso gli alleati occidentali e non i carri armati di Mosca che assediano e bombardano da tre settimane i villaggi e le città ucraine è il sintomo di una disconnessione completa dalla realtà. Un coro ozioso e petulante alimentato da chi le guerre può permettersi di guardarle da lontano. 

Putinisti d’Italia, chi sono i parlamentari che daranno fortait a Zelensky in Parlamento: i casi dei 5 Stelle e dei leghisti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Marzo 2022. 

Cinque Stelle, ex grillini passati in altri gruppi parlamentari, leghisti. A collegare in un immaginario filo queste componenti è il “putinismo” che spingerà alcuni parlamentari a dare forfait domani mattina a Montecitorio, dove è atteso il discorso in videocollegamento di Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino che da settimane sta guidando il suo Paese nella guerra contro l’invasione russa.

Non si tratta infatti di una questione di spazi e di Covid: per l’occasione, Zelensky è il terzo capo di Stato estero a parlare alla Camera dopo re Juan Carlos di Spagna e papa Giovanni Paolo II, il presidente della Camera Roberto Fico aveva deciso di utilizzare tutti gli spazi disponibili (comprese le tribune) per ospitare i parlamentari, come fatto per il giuramento di Sergio Mattarella.

È infatti un ‘no’ ideologico quello che arriverà dai deputati che già giovedì scorso non avevano votato il decreto Ucraina e dai senatori che faranno lo stesso al testo in arrivo a Palazzo Madama.

Alcuni nomi sono già noti e certi, come spiega Repubblica. È il caso del leghista Simone Pillon, impegnato martedì in una missione a Londra in occasione della nascita della fondazione dedicata a Tafida Raqeeb ma che ha comunque espresso “forti perplessità” sulla videoconferenza  di Zelensky  perché “dovremmo collocarci in una posizione adeguata per promuovere la pace” e “vendere armi a una delle parti in conflitto non favorisce il dialogo”

C’è poi il caso della pentastellata Enrica Segneri, che assieme al collega Gabriele Lorenzoni aveva votato contro il decreto e che ha definito “inopportuno” il discorso del leader ucraino a Montecitorio. In dubbio anche la partecipazione di Nicola Grimaldi, deputato 5 Stelle che aveva chiesto in una sorta di ‘par condicio’ applicata alla guerra di ospitare anche il presidente russo Vladimir Putin. Nell’elenco dei parlamentari che non dovrebbero partecipare ci sono anche due ex pentastellati passati in Forza Italia, Veronica Giannone e Matteo Dall’Osso: “Sono orientato a non esserci, si dà visibilità solo a una parte. Anche Vladimir Putin in Aula? Chi lo chiede fa bene!”, spiega quest’ultimo.

Si sfila ovviamente Emanuele Dessì, ex grillino ora nel Partito Comunista di Marco Rizzo, tornato recentemente dalla Bielorussia fida alleata di Putin nella guerra in Ucraina. “Alla Camera né Zelensky, né Putin”, è il leitmotiv di Gianluigi Paragone, che dopo i 5 Stelle ha fondato Italexit, mentre è improbabile anche la presenza di Vito Comencini, il leghista che nei giorni scorsi era andato a San Pietroburgo con l’intenzione di partire per il Donbass. Si sfilerà sicuramente Vito Petrocelli, il ‘compagno Petrov’ presidente della Commissione Esteri del Senato e noto per le sue posizioni filo-russe e filo-cinesi. “Sarebbe stato doveroso ascoltare anche la voce della controparte russa”, ha spiegato invece la senatrice Bianca Laura Granato, ex 5 Stelle ora nel Gruppo Misto, che non sarà presenta in Aula.

Assente anche l’intero gruppo di Alternativa, i dissidenti ex 5 Stelle. “Abbiamo deciso che non parteciperemo alle dichiarazioni di Draghi e Zelensky. Far parlare loro due non porta a nulla. Semmai avrebbe senso organizzare una conferenza di pace”, spiega infatti l’ex grillino Andrea Colletti.

Quanto all’intervento di Zelensky, che sarà trasmesso in diretta su Rai1, dovrebbe durare circa quindici minuti: prima del presidente ucraino prenderanno la parola per due minuti a testa i presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico ed Elisabetta Casellati, mentre dopo Zelensky sarà il turno del premier Mario Draghi.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Zelensky al Parlamento italiano: «Come se avessero distrutto Genova». Draghi: «Vogliamo l’Ucraina nell’Unione Europea». Deputati e senatori italiani hanno accolto con lungo applauso il presidente dell'Ucraina, in guerra contro la Russia di Putin. L'Italia, ricordano i presidenti Fico e Casellati, auspica un immediato "cessate il fuoco", riportando la pace nell'est Europa. Il Dubbio il 22 marzo 2022.

Il presidente dell’Ucraina, Zelensky ha parlato per la prima volta parla in seduta comune al Parlamento Italiano. Il leader ucraino in collegamento da Kiev è stato accolto da lungo applauso dai deputati e senatori presenti. L’intervento è stato preceduto da una breve dichiarazione del presidente Fico e del presidente Casellati.

Zelensky al Parlamento italiano: parla il presidente dell’Ucraina

«Oggi ho parlato con Papa Francesco e lui ha detto parole molto importanti. Capisco che oggi voi desiderate la pace, e io rispondo che il nostro popolo è diventato l’esercito, a causa dell’invasione russa. Una settimana fa ho parlato durante un incontro a Firenze, ricordando che sono morti tantissimi bambini. Questo è il prezzo della guerra che stiamo pagando, per colpa della Russia di Putin. Nei quartieri delle città seppelliscono i morti nelle fosse comuni. E questo succede nel 2022. Ogni altro giorno di guerra porterà altri morti, anche tra i bambini» ha detto Zelensky al Parlamento italiano. «Immaginate la vostra Genova» riferendosi a Mariupol, «dove bambini, uomini e donne, sono costretti a scappare dalle loro case perché temono di essere uccisi dai russi». «E’ giusto chiedere la pace, ma ad Kiev ogni notte suonano le sirene. I bombardamenti continuano, i russi rapiscono i bambini e con i camion portano via i nostri beni».

«L’Ucraina è il cancello dell’esercito russo, loro vogliono entrare in Europa. Ricordate che gli ucraini sono stati vicini durante il primo periodo della pandemia e anche l’Italia ci ha sostenuto durante l’ultima alluvione. Ora però abbiamo bisogno di altre sanzioni, dobbiamo lavorare affinché la Russia accetti la pace» ha aggiunto Zelensky. «Noi siamo stati uno dei Paesi più importanti nell’esportazione di cibo, ma ora il nemico sta distruggendo i campi. Come possiamo esportare allora il mais, l’olio e il frumento, alimenti indispensabili per la vita».

«Ringrazio l’Italia per aver accolto gli ucraini, oggi sono quasi 70mila persone, tra cui 25mila bambini, accolti direttamente dalle famiglie, forse anche dai presenti in aula. Decini di bambini feriti sono nei vostri ospedali, li aspettiamo. Dal primo giorno di questa guerra voi avete condiviso il nostro dolore. Non dimenticheremo tutto questo». Al termine dell’intervento, il Parlamento ha omaggiato Zelensky con una standing ovation.

Zelensky al Parlamento italiano, l’intervento del premier Draghi

«A nome del governo, voglio ringraziare il presidente Zelensky per la sua straordinaria testimonianza» ha dichiarato il premier Draghi. «Dall’inizio della guerra, l’Italia ha ammirato il coraggio e il patriottismo del popolo ucraino. L’arroganza della Russia si è scontrata con la forza dell’Ucraina. La resistenza delle città ucraine, dove si abbatte la ferocia del presidente Putin, è eroica». «Oggi l’Ucraina non difende se stessa, ma difende i diritti che dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa intera ha voluto proporre come modello di democrazia e libertà. Il nostro popolo è al fianco dell’Ucraina, e lo ha dimostrato, accogliendo i profughi, grazie al lavoro delle istituzioni civili e religiose. Davanti all’inciviltà, l’Italia non si girerà dall’altra parte» ha aggiunto Draghi.

«Vogliamo aiutare i rifugiati a trovare un lavoro e ad avere una casa. La mia vicinanza va anche agli ucraini che sono da anni in Italia. Le sanzioni hanno l’obiettivo di indurre il Governo russo a cessare le ostilità. Davanti alla Russia che ci voleva divisi, come Unione Europea ci siamo uniti. Le sanzioni hanno colpito l’economia russa e le persone più vicine al presidente Putin. Sul fronte energetico stiamo lavorando per non essere più dipendenti dalla Russia». «L’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione Europea. Dobbiamo difendere i diritti umani e civili, a chi scappa dalla guerra dobbiamo offrire accoglienza, davanti ai massacri dobbiamo rispondere anche con aiuti militari per la resistenza di quel popolo» ha concluso il premier Mario Draghi.

Zelensky parla alla Camera: "Immaginate Genova come Mariupol. 117 bambini uccisi: questo è il prezzo della guerra". Draghi: "Resistenza ucraina è eroica". Laura Mari su La Repubblica il 22 marzo 2022.  

Un applauso ha accolto il presidente ucraino in videocollegamento con Montecitorio alla presenza di deputati e senatori: "Il nostro popolo è diventato l'esercito. Truppe russe fanno come i nazisti. Vogliono entrare in Europa, ma la barbarie non devono passare. Ricorderemo sempre aiuto dell'Italia". Assenti gli ex 5S di Alternativa e alcuni leghisti

"Il nostro popolo è diventato l'esercito. Immaginate Mauriupol come una Genova completamente bruciata. Come una città da cui scappano len persone per raggiungere i pullman per stare al sicuro. Il prezzo della guerra è questo: 117 bambini uccisi. Non accogliete i russi in vacanza in Italia". Così il presidente ucraino Volodymyr Zelesky ha iniziato il suo discorso (di circa 15 minuti) in videocollegamento con deputati e senatori riuniti alla Camera. Un intervento accolto da un applauso e preceduto dalle parole dei presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, Roberto Fico ("Testimoniamo nel modo più solenne la vicinanza e il sostegno di tutto il Parlamento e del popolo italiano all'Ucraina") e Elisabetta Casellati ("Esprimiamo vicinanza e ammirazione per il coraggio del popolo ucraino e confidiamo in una soluzione negoziale"). In Aula anche il premier Mario Draghi, che ha dichiarato: "La resistenza di tutti i luoghi in cui si abbatte la ferocia del presidente Putin è eroica". Le parole del premier sono state interrotte da 10 applausi e una standing ovation finale dei presenti in Aula.

Il discorso di Zelensky

In questi giorni di guerra, ha detto il presidente ucraino, "ho visto il male che porta il nemico, quanta devastazione lascia a quanto spargimento di sangue". Zelensky ha sottolineato che l'obiettivo dei russi "è l'Europa, influenzare le vostre vite, avere il controllo sulla vostra politica e la distruzione dei vostri valori. L'Ucraina è il cancello per l'esercito russo, loro vogliono entrare in Europa ma la barbarie non deve entrare". Barbarie che coincidono, ha spiegato, con stupri e violenze. "A Kiev i russi torturano, violentano, rapiscono bambini, distruggono e con i camion portano via i nostri beni - ha detto Zelensky - L'ultima volta in Europa è stato fatto dai nazisti. L'esercito russo è riuscito a minare anche il mare vicino ai nostri porti: questo è un pericolo anche per i Paesi vicini".

Poi ha aggiunto: "Una settimana fa ho parlato ad un incontro a Firenze, ho chiesto a tutti gli italiani di portare il numero 79, che era il numero di bambini uccisi, ora sono ora 117, a causa del procrastinarsi della guerra. Con la pressione russa ci sono migliaia di feriti, centinaia di migliaia di vite distrutte, di case abbandonate, i morti nelle fosse comuni e nei parchi".

E ha ricordato: "Gli ucraini sono stati vicini a voi durante la pandemia, noi abbiamo inviato medici e gli italiani ci hanno aiutati durante l'alluvione. Noi apprezziamo moltissimo ma l'invasione dura da 27 giorni, quasi un mese: abbiamo bisogno di altre sanzioni, altre pressioni". QUindi l'appello all'Ue: "Chi commette barbarie non entri in Europa". 

Le parole di Draghi

Dopo Zelenksy ha preso la parola il premier Draghi. "Oggi l'Ucraina non difende solo se stessa ma la nostra pace, libertà e sicurezza", ha ricordato. "L'Italia - ha aggiunto - è al fianco dell'Ucraina. L'Italia vuole l'Ucraina nell'Unione europea". Questo perchè, ha spiegato il premier, "vogliamo disegnare un percorso di maggiore vicinanza dell'Ucraina all'Europa: è un processo lungo fatto di riforme necessarie. L'Italia è a fianco dell'Ucraina in questo processo". Rispetto alle sanzioni, il presidente del Consiglio ha ricordato che "in Italia abbiamo congelato beni per oltre 800 milioni di euro agli oligarchi russi" vicini a Putin. Fondamentale, comunque, rispondere alla guerra con l'accoglienza. "Quando l'orrore e la violenza sembrano avere il sopravvento - ha detto Draghi - proprio allora dobbiamo difendere i diritti umani e civili, i valori democratici; a chi scappa dalla guerra dobbiamo offrire accoglienza. Di fronte ai massacri dobbiamo rispondere con gli aiuti, anche militari, alla resistenza". Proprio rispetto al tema dell'accoglienza, il presidente del Consiglio ha soottolineato come l'esecutivo abbia "stanziato nuovi fondi: vogliamo aiutare i rifugiati non solo ad avere una casa ma anche un lavoro e ad integrarsi".

Assenti e presenti in Aula

Gli ex M5S di Alternativa (17 deputati e 2 senatori) hanno diserato l'Aula. Manca, tra gli esponenti del governo, il ministro Giancarlo Giorgetti, impegnato in un appuntamento istituzionale a Maranello con la Ferrari. Presenti, invece, gli altri esponenti dell'esecutivo, da Luigi Di Maio a Andrea Orlando, da Lorenzo Guerini a Stefano Patuanelli e Roberto Speranza. Un deputato di Forza Italia ha esposto sul suo banco la bandiera ucraina e Julia Utenberg (presidente del gruppo per le Autonomie) e la senatrice di Fdi Isabella Rauti si sono presentate indossando una giacca gialla e pantoloni blu, colori della bandiera ucraina.

Dal centrodestra Matteo Salvini (presente in Aula, così come Giorgia Meloni) ha lanciato un invito ai leghisti affinchè siano tutti presenti alla Camera per il discorso di Zelensky, ma una decina di esponenti del Carroccio (tra cui i senatori Simone Pillon e Armando Siri e il deputato Matteo Micheli) hanno deciso di non partecipare. 

Il senatore Simone Pillon gestiva una fondazione finanziata coi milioni russi. E oggi “salta” il discorso di Zelensky. L'Espresso  il 22 marzo 2022.

Il parlamentare della Lega non sarà presente al collegamento del presidente ucraino con la Camera e critica gli aiuti militari a Kiev. Dal 2015 ha presieduto una fondazione della destra cattolica che nel triennio precedente aveva incassato 2,4 milioni da società legate a Mosca e al regime azero.

Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi. Tutte le informazioni qui

La bigiata geopolitica di Simone Pillon, il senatore della Lega che ha annunciato la sua assenza alla storica video-conferenza del presidente ucraino Zelenksy con il Parlamento italiano riunito in seduta comune, può sorprendere molti, ma non L'Espresso. Questo settimanale ha pubblicato già nel novembre 2018, infatti, un'inchiesta giornalistica sui rapporti economici, mai emersi in precedenza, tra la Russia di Putin e alcune fondazioni e associazioni della destra integralista cattolica, di cui Pillon è stato referente politico e in qualche caso amministratore e presidente.

In queste ore, per spiegare la sua scelta di non presenziare alla sessione speciale di Camera e Senato con il presidente ucraino, Pillon ha premesso di avere un impegno prefissato all'estero: una missione a Londra per prepararsi, con un giorno di anticipo, alla presentazione di una fondazione dedicata a Tafida Raqeeb, la bambina in coma che nel 2020 fu ricoverata all'ospedale Gaslini di Genova dopo che i medici di Londra avevano deciso di staccarla dai macchinari.

Detto questo, lo stesso senatore leghista ha confermato di avere anche «forti perplessità» sul sostegno italiano all'Ucraina. «Credo che dovremmo collocarci in una posizione adeguata per promuovere la pace: vendere armi a una delle parti in conflitto non favorisce il dialogo», ha dichiarato Pillon all'agenzia Ansa. «Entrambe le parti credono di avere le loro ragioni», ha aggiunto testualmente, «ma credo che in questo momento dovremmo promuovere la nostra capacità di dialogo. Potremmo e dovremmo essere tra i pochi privilegiati che dialogano con entrambe le parti, mentre così ci autolimitiamo. Forse la questione meriterebbe maggiore riflessione».

Lo slancio antimilitarista del senatore Pillon mentre l'Ucraina è sotto le bombe russe ha suscitato varie interpretazioni e diverse reazioni critiche, anche perché la Lega fa parte della maggioranza che sostiene il governo Draghi e quindi difende Kiev. Per offrire ai lettori uno spunto in più di riflessione, riportiamo alcuni passaggi della nostra inchiesta giornalistica del 2018.

L’inchiesta del 2018

Miliardi di euro smistati in tutto l’Occidente da anonime società offshore, finanziate da società statali della Russia di Vladimir Putin e dai tesorieri del regime dell’Azerbaijan. Un’enorme massa di denaro nero che, tra mille beneficiari misteriosi, arricchisce anche una fondazione italiana, creata da un politico lombardo di Comunione e liberazione. Una fondazione con un conto bancario che funziona come una porta girevole: incassa oltre centomila euro al mese dalle offshore russo-azere e li redistribuisce tra Italia, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, Polonia, Ungheria, finanziando organizzazioni religiose di destra e campagne contro l’aborto, il divorzio o i matrimoni gay.

Tutto parte da un processo per corruzione a carico di Luca Volontè, ex parlamentare dell’Udc e rappresentante italiano al Consiglio d’Europa fino al 2013. Il politico è imputato di aver intascato due milioni e 390 mila euro per fare lobby, con altri parlamentari europei, a favore del regime azero del presidente Ilham Aliyev, che rischiava sanzioni internazionali. Volontè respinge l’accusa di corruzione, però conferma di aver ricevuto i bonifici da un lobbista azero, per presunte consulenze politiche. In attesa del processo, che si aprirà a fine anno, un fatto è certo: i soldi sono arrivati da una rete di ricchissime società offshore, totalmente anonime, sparse tra Isole Vergini Britanniche, Nuova Zelanda, Seychelles e altri paradisi legali. La Procura di Milano e la Guardia di Finanza hanno acquisito, in particolare, i conti bancari di cinque casseforti offshore (Hilux, Polux, Lcm, Metastar e Jetfield) che in tre anni, dal 2012 al 2014, hanno smistato più di tre miliardi e mezzo. Per l’esattezza: 3 miliardi e 104 milioni di dollari; 519 milioni di euro; 1 miliardo e 220 milioni di rubli; e 3 milioni di sterline. 

Volontè è l’unica persona che incassa soldi russo-azeri su un normale conto bancario italiano, che non ha più misteri. Il conto è intestato alla sua fondazione, Novae Terrae, fondata nel 2005 a Saronno, ma rimasta inattiva fino al 2012: ha cominciato a funzionare quando sono arrivati i fondi russo-azeri. L’Espresso ha analizzato tutti i movimenti bancari di Novae Terrae dal 2012 al 2017, trovando scarsissime tracce di aiuti evangelici ai poveri, agli ultimi. Ci sono invece compensi, donazioni, sponsorizzazioni e rimborsi a lobbisti della destra integralista di mezzo mondo. Intrecciando nomi e cifre, finanziamenti e raduni politico-religiosi, emerge con chiarezza un network globale.

Primo esempio. Nel gennaio 2014 dal conto italiano di Novae Terrae parte un bonifico di 12 mila euro. A incassarlo è Benjamin Harnwell, un politico ultra-conservatore britannico, fondatore del Dignitatis Humanae Institute: un’organizzazione cattolica dove compare anche il cardinale tradizionalista Raymond Leo Burke. Come guru politico, l’istituto indica però Steve Bannon, l’ideologo della nuova destra sovranista americana, che nel 2016 ha alimentato l’elettorato di Donald Trump. Da notare le date: attraverso la fondazione italiana, i soldi russo-azeri arrivavano al politico britannico già due anni prima delle presidenziali americane. Nell’estate 2014, pochi mesi dopo il bonifico, Dignitatis riesce a organizzare una conferenza in Vaticano. Dopo Volontè, che ringrazia «l’amico Ben» Harnwell, interviene via Skype proprio Bannon. Un discorso ripreso anni dopo dai media americani come primo manifesto politico dell’ex consigliere di Trump.

Un altro giro di bonifici porta a CitizenGo, l’organizzazione cattolica, nata in Spagna, famosa per le sue campagne shock su temi religiosi. Erano di CitizenGo, in particolare, gli enormi manifesti che quest’estate hanno invaso Roma con gigantografie di feti innalzati cupamente contro la legge 194.

(...). I rapporti fra Novae Terrae e CitizenGo non si fermano neppure dopo le perquisizioni, con 33 mila euro versati a due responsabili della raccolta fondi. (...) La bufera giudiziaria provoca però un cambio al vertice in Italia. Nel 2015 il presidente di Novae Terrae, l’imprenditore Emanuele Fusi, rinnova gran parte del direttivo. (...). Al suo posto, nella fondazione, nel 2015 è stato cooptato Simone Pillon. Proprio lui, l’attuale senatore eletto con la Lega, che si distingue per le sue proposte di legge turbo-cattoliche. Anche Pillon è molto legato a CitizenGo, guidata in Italia da Filippo Savarese, e ai rappresentanti di Generazione Famiglia. Nel curriculum pubblicato dal suo studio legale, il senatore catto-leghista non cita Novae Terrae, ma ricorda di far parte del consiglio economico dell’Arcidiocesi di Perugia.

(...) Nel 2012, quando riceve i primi bonifici dalle offshore, Volontè lavora soprattutto per gli azeri. In novembre l’allora parlamentare convince monsignor Rino Fisichella a ospitare in Vaticano, in vista dell’«anno della fede», una mostra della Fondazione Aliyev, che fa capo al presidente azero. (...) Dal 2014, quando la fondazione è ormai imbottita di soldi offshore, l’orizzonte diventa globale. Attraverso Novae Terrae, i soldi russo-azeri finiscono anche a organizzazioni ungheresi, polacche e di altri paesi dell’Est, mentre ai Papaboys toccano solo 2.500 euro.

(...) ProVita e Novae Terrae occupano posizioni di vertice in un’istituzione chiave: World Congress of Families, il congresso mondiale delle famiglie. È un’organizzazione creata negli Usa da Brian Brown, ex quacchero convertito al cattolicesimo, che ha raccolto milioni di dollari per candidati ultra-conservatori americani. Brown è legatissimo anche a uomini d’affari russi diventati paladini della fede ortodossa, come Alexey Komov, l’artefice della marcia di avvicinamento alla destra occidentale. In Italia è diventato presidente onorario dell’associazione Lombardia-Russia, guidata dal leghista Gianluca Savoini, l’uomo che ha fatto conoscere Matteo Salvini a Mosca. Komov ha partecipato a conferenze in Italia anche al fianco del leghista veronese Lorenzo Fontana. E proprio a Verona, nel marzo 2019, si terrà il nuovo Congresso mondiale delle famiglie, su invito dell’amministrazione cittadina anti-abortista, con il supporto della Lega e delle immancabili ProVita, Generazione Famiglia e Novae Terrae.

Fabrizio Roncone per corriere.it il 23 marzo 2022.

«Riesci a vedere che fa Salvini?». Sta battendo le mani. «Pure lui?». Pure lui. «E Pillon?». Il leghista Pillon è assente (c’era un motivo se Giampaolo Pansa, principe dei cronisti, veniva in tribunetta con il binocolo). 

Montecitorio, l’aula: deputati e senatori in piedi, Volodymyr Zelensky — in collegamento dal suo bunker di Kiev — è appena comparso sul maxischermo e dentro una standing ovation davvero vibrante, insistita, emozionata, con il premier Mario Draghi che applaude tenendo le mani bene in alto perché si veda e si senta che l’Italia è qui, che la politica è qui, e che sappiamo tutti — quasi tutti, va — da che parte stare in questa guerra. 

Zelensky è stato salutato subito dai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati. Poche parole: forti, inequivocabili.

Lui: in camicia militare verde con doppio taschino, tipo quelle che vendono nei nostri negozi di abbigliamento con una certa inquietante passione style-war; barba lunga; la bandiera dell’Ucraina alle spalle. È l’identica immagine con cui si è già presentato agli altri parlamenti. L’unica cosa che ha modificato — e mai troppo — sono stati gli interventi: in Gran Bretagna ha citato Winston Churchill; negli Usa, Martin Luther King; in Israele si è avventurato in un paragone con l’Olocausto (non del tutto gradito). Qui, molti si aspettano un riferimento alla nostra Resistenza.

«Quello laggiù è Enrico Letta, giusto?». Ci sono tutti: Letta, Renzi, Meloni. Manca Giuseppe Conte, ed è vero che non è parlamentare, ma — già polemizzano in diretta sui social — sarebbe potuto comunque venire, considerata l’eccezionalità dell’evento. Su Twitter, ecco pure il senatore grillino Vito Rosario Petrocelli, presidente della commissione Affari Esteri di Palazzo Madama: «M5S fuori da questo governo interventista». Fan di Putin. Più volte a Mosca per baciargli la pantofola (non il solo, come sappiamo). Irriducibile. Gli hanno già chiesto di dimettersi: ma Petrocelli non ci pensa proprio. Potrebbe costringerlo Conte. Però Conte — come noto — non sa nemmeno se lui stesso può ancora ritenersi formalmente capo dei 5 Stelle. 

Zelensky, intanto, invece di parlarci della nostra lotta partigiana, inizia ricordandoci di quando sotto le bombe ci siamo stati noi, a Genova (il capoluogo ligure fu la prima città, durante la Seconda guerra, a sperimentare distruzioni indiscriminate). «Mariupol? Immaginatevi Genova completamente distrutta», dice con il suo tono fermo, poco retorico.

Ad ascoltarlo, in un conteggio sommario, ci sono 580 parlamentari; che in totale, però, sono 945. Una ventina sono rimasti a casa con il Covid addosso. E gli altri? Zona grigia di turpe menefreghismo e militanza filorussa. Mancano gli ex grillini di Alternativa. «Non assistiamo ad un comizio senza contraddittorio», ha spiegato Francesco Forciniti. Pensi: che burlone, scherza. E invece sono serissimi. «Giusto invitare anche la controparte». Cioè quella che ha invaso un Paese libero e bombarda le città e gli ospedali pediatrici (Zelensky sta appunto ricordando: “In 27 giorni di guerra, i bambini morti sono 117”). Però la senatrice del Gruppo Misto Laura Granato insiste su Telegram: «Io sto con Putin. Che conduce un’importante battaglia per la Russia e per tutti noi». Viene il nervoso a riferirle, robe così: ma è la bellezza di vivere in un Paese democratico, dove tutti possono esprimere le proprie opinioni, e i mezzi di informazione non le censurano.

Rimbalza la domanda: chi altro manca? Figure pittoresche, di contorno. Nessuno ha visto i grillini Enrica Segneri, Davide Serritella, dietro le mascherine è dura riconoscere anche Gabriele Lorenzoni, un personaggione che ha già paragonato l’invasione dell’Ucraina a una partita di Risiko e che ritiene «inopportuno» il collegamento con Zelensky. E poi manca il leghista ultracattolico Simone Pillon: quello famoso perché indossa sempre una farfalla e perché, ad un certo punto, si era convinto che nelle scuole di Brescia fosse insegnata la stregoneria. 

«Pillon è a Londra per lavoro», prova a giustificarlo il suo capo. Salvini esce dall’aula a passo veloce dopo l’ultima scena: un minuto di applausi per Zelensky e altri applausi anche per il discorso del premier Draghi, che ha invocato la presenza dell’Ucraina nell’Unione europea e confermato l’invio di armi.

Salvini cammina in Transatlantico con il passo di uno che ha fretta, e però gli arrivano diritte un po’ di domande. Risponde: «Quando si parla di armi, io fatico ad applaudire» (subito, sul web, cominciano però a girare le foto di lui che, in campagna elettorale, imbraccia mitra e fucili). «Spero che le parole di Zelensky vengano raccolte dall’Occidente e da Mosca». Un cronista gli chiede: senatore, perché lei non riesce mai a pronunciare la parola «Putin»? Ma lui si è già voltato e così restiamo con Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, a ghigno perfido — «Noi mai avuto a che fare con la Russia» — e Lucia Annibali che, come tutte le parlamentari di Iv, sfoggia una coccarda gialloblu. 

Sull’ultima pagina di appunti c’è scritto: «Zelensky ha salutato dicendo: “Gloria all’Ucraina, e grazie Italia”».

Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022. 

Loro in Aula non c'erano ad ascoltare l'appello del leader di un Paese europeo che chiede aiuto perché da 27 ininterrotti giorni Putin sta bombardando, massacrando, riducendo alla fame, e con la prospettiva di ridurre in macerie il suo Paese. 

Mentre ormai milioni di donne sono in fuga per salvare i loro bambini. 

Da liberi cittadini, e liberi deputati e senatori di un Paese libero, possono fare ciò che credono: c'è chi può permettersi di dire che le dittature sanguinarie sono belle, chi pensa che Putin abbia ragione, chi preferisce prendere le distanze da entrambe le parti.

Si chiamano Bianca Laura Granato del gruppo misto, Gabriele Lorenzoni e Vito Petrocelli del M5S, Simone Pillon della Lega, Matteo Dall'Osso e Veronica Giannone di Forza Italia, Pino Cabras e altri 18 del gruppo l'Alternativa, Emanuele Dessì del Partito comunista, Michele Giarrusso e Gianluigi Paragone di Italexit. 

Il tempo del dibattito è finito e bisogna prendere una posizione: o condanni l'invasione, oppure l'appoggi. 

Qual è il messaggio che volete dare ai vostri elettori? Anche per chi fa tanti distinguo rifiutando di ascoltare Zelensky (l'aggredito) è implicito l'appoggio a Putin. 

Avete tollerato, senza mai spendere una parola, nemmeno di pietà, verso i giornalisti uccisi dal tiranno, verso gli avversari avvelenati, verso la legge che condanna fino a 15 anni di carcere chi esprime un parere contrario.

E oggi quell'assenza in Aula è la manifestazione di mancanza di solidarietà pure davanti all'orrore. Ed è retorico chiedersi che cosa succederebbe a ciascuno di voi se foste cittadini russi, perché non correreste alcun rischio. 

Putin ama il popolo che guarda gli errori degli altri, quelli dell'Occidente, da lui definito «l'impero della menzogna», ma dove vengono mandati a studiare i figli dei suoi fedelissimi.

Per Bianca Laura Granato, che non ha esitato a schierarsi a favore di Putin (lo ha dichiarato a Tommaso Labate), immagino che vivere in un Paese come l'Italia sia un inferno. Nessuno eventualmente le impedirebbe di andare a vivere nella dittatura russa. Mentre gli altri, quelli che sono tormentati dai dubbi, stanno dicendo ai loro elettori «calmi, non è detto lo zar sia poi così cattivo». 

E tutti quegli altri? L'Aula era mezza vuota, nonostante fosse martedì. Dante gli ignavi li ha messi nell'Antinferno, perché li giudica indegni di meritare sia le gioie del paradiso, sia le pene dell'inferno, proprio perché non si sono mai schierati né a favore del bene, né del male.

Francesco Malfetano per il Messaggero il 23 marzo 2022.

«Almeno un centinaio quelle politiche, quasi 300 in totale». Ad ascoltare i più navigati tra i parlamentari, ieri a Montecitorio le assenze erano più di quanto si pensasse. Del resto, mentre il presidente ucraino Volodomyr Zelensky raccontava all'Aula gli orrori dell'invasione russa in video conferenza, i buchi in platea e soprattutto le tribune vacanti erano evidenti quanto imbarazzanti. 

«Eravamo meno di 600» azzarda un deputato di Forza Italia. Impossibile però dirlo con esattezza. La congiunta, forse proprio per evitare di certificare pessime figure in diretta mondiale, era informale e quindi non sono state registrate le presenze. 

In più molti degli eletti si sono messi in missione (un caso su tutti, quello del ministro leghista Giancarlo Giorgetti, a Maranello per una visita alla Ferrari) o comunque assenti per motivi non ideologici o, peggio, completo disinteresse. L'assenza più dibattuta è senza dubbio quella di Vito Petrocelli, presidente della Commissione esteri del Senato in quota 5S che, dopo una giornata convulsa, è stato de facto espulso da Giuseppe Conte.

Il resto dei posti vuoti portavano in gran parte i nomi degli iscritti al gruppo Alternativa C'è, ex grillini come Nicola Morra o l'ormai nota Bianca Laura Granato, in ottima compagnia dei loro sodali del 2018: Dessì dei comunisti o Paragone di Italexit ad esempio. Ma anche Veronica Giannone e Matteo Dell'Osso di Forza Italia (entrambi eletti pentastellati) o la deputata grillina Enrica Segneri (al pari di Serritella e Presutto, assente giustificato però). In bella vista (quasi) tutti i leader dei gruppi parlamentari. Matteo Renzi, pur provenendo da palazzo Madama ha occupato uno scranno al centro del gruppo di Iv. 

Enrico Letta, ha preso posto tra le due capogruppo Serracchiani e Malpezzi. Ma c'erano anche Giorgia Meloni (più silente del solito) e Matteo Salvini che, appena varcata la porta del Transatlantico alla fine del discorso, ha subito assolto chi non c'era: «Io giudico i presenti di tutti i gruppi». In realtà non è mancata un po' di tensione a via Bellerio, perché se il segretario ha fatto recapitare ai suoi un perentorio «Tutti in Aula», hanno mancato l'appuntamento almeno in 20 (tra questi Pillon, Borghi, Micheli, Siri e Comencini). 

Non è sfuggita inoltre - soprattutto al Pd - l'assenza di Conte, che non è un parlamentare, ma da ex premier avrebbe potuto essere presente quantomeno in Transatlantico per dare un segnale ai suoi. Specie perché già in mattinata era esplosa l'ennesima polemica su Petrocelli che aveva ventilato l'uscita dall'esecutivo: «Fuori da questo governo interventista, che vuole fare dell'Italia un paese co-belligerante», ha twittato. Parole che, rivela una fonte autorevole interna ai 5S, «hanno imbarazzato tutti, Conte compreso, che in ritardo sta provando ad allontanarlo». Meglio tardi che mai verrebbe da dire.

Anche perché, a sera, è tornato a parlare: «Da oggi sono pronto a non votare più la fiducia su qualunque provvedimento». Tant' è che poi - dopo gli interventi per richiamarlo all'ordine del ministro D'Incà e della numero uno dei senatori Castellone, ma anche dalla capogruppo Pd Simona Malpezzi: «Dichiarazioni Petrocelli incompatibili con ruolo che ricopre» - ha scatenato la reazione proprio dell'ex premier che, a Porta a Porta, è stato costretto a mettere un limite: «Se Petrocelli dichiara oggi, a dispetto del ruolo che fino ad ora ha avuto, che non appoggerà più questo governo evidentemente si pone fuori dal M5s per scelta personale».

Da globalist.it il 23 marzo 2022.

“Quando si parla di armi non riesco ad essere felice” – Matteo Salvini, marzo 2022. Facciamo un salto indietro nel tempo. Non molto tempo fa, anche se prima di una guerra in Europa e una pandemia nel mondo. Un’altra Italia, quella con Salvini Ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio.

L’11 febbraio del 2018 Matteo Salvini è in visita alla fiera delle armi di Vicenza e firma un documento che lo impegna, nei confronti dei rappresentanti della lobby delle armi, a consultare il Comitato Direttiva 477 ogni volta che arrivano in discussione in Parlamento provvedimenti sulle armi. 

Cos’è questo famigerato Comitato? Il Presidente del Comitato dell’epoca, Giulio Magnani, (Oggi il Comitato si chiama UNARMI – Unione degli Armigeri Italiani), lo spiegava così a Repubblica: “Siamo un’associazione che tutela i privati cittadini che hanno armi da fuoco. In Italia rappresentiamo la Firearms United (confederazione europea dei possessori di pistole, ndr) e collaboriamo con Anpam, Conarmi e Assoarmieri”.

Cioè le più importanti sigle dei fabbricanti di armi, un settore che vale più o meno lo 0,7% del Pil (2.500 imprese, tra indotto e produzione, 92.000 occupati) e si rivolge a 1,3 milioni di titolari di licenza. Cacciatori, tiratori sportivi, appassionati di armi (anche da guerra) e gente comune in cerca di sicurezza, che riempie i poligoni, meglio se privati.

Insomma, quando parliamo di lobby delle armi parliamo di queste aziende qui. Con cui Salvini si impegnò, sul suo onore – parole sue – a nome suo e dell’intera Lega, all’assunzione pubblica di impegno a tutelare i detentori legali di armi, dei tiratori sportivi, dei cacciatori e dei collezionisti di armi.

Contestualizziamo: era l’epoca in cui una delle battaglie di Salvini era quella per la legittima difesa. Nel punto 8 del documento firmato a Vicenza, Salvini si vincolava “a tutelare prioritariamente il diritto dei cittadini vittime di reati a non essere perseguiti e danneggiati (anche economicamente) dallo Stato e dai loro stessi aggressori”.

In quello stessa periodo la Lega depositava in Commissione Giustizia al Senato una modifica all’articolo 52 del Codice penale, introducendo proprio la “presunzione di legittima difesa” a cui si può appellare “colui che compie un atto per respingere l’ingresso o l’intrusione mediante effrazione o contro la volontà del proprietario (…) con violenza o minaccia di uso di armi di una o più persone, con violazione di domicilio”. In altre parole: prima si spara, poi si chiede. La giustizia da Far West che a Salvini piace tanto, sebbene oggi si dica contrario alle armi.

La memoria corta del leader leghista. Armi all’Ucraina, Salvini si scopre ‘pacifista’ ma il passato lo smentisce: dalle foto tra i fucili alle leggi per agevolarne l’acquisto. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Le foto sorridente imbracciando fucili e mitra? Tutto dimenticato, così come la continua invocazione della “difesa sempre legittima” per armare i cittadini italiani o i tentativi di promuovere leggi per agevolarne l’acquisto. È l’ennesima trasformazione di Matteo Salvini, il leader della Lega che oggi a margine del discorso in videocollegamento di Volodymyr Zelensky a Montecitorio si è lasciato andare a dichiarazioni che hanno fatto storcere il naso.

“Mi piace Zelensky quando parla di pace, non quando si parla di invio di nuove armi o magari di mandare i nostri militari”, ha detto l’ex ministro dell’Interno parlando con i cronisti uscendo dalla Camera, dove ha assistito al discorso del presidente ucraino e poi alla ‘replica’ del premier Mario Draghi.

Il riferimento era ovviamente alla guerra in corso in Ucraina da ormai quasi un mese, dopo l’invasione da parte delle forze armate russe dell’(ex?) amico Vladimir Putin, il leader del Cremlino che Salvini ha difeso in più occasioni in passato.

Ma come con il brusco dietrofront sui rapporti tra Lega e Putin, così non è passato inosservato la retromarcia dello stesso segretario del Carroccio sulle armi. Sul web e sui social sono presenti infatti decine di foto di Salvini che imbraccia i più svariati tipi di fucili, cosa che può accadere per motivi istituzionali a un ministro dell’Interno in determinati casi.

Il problema con Salvini spunta in realtà quando si vanno a rintracciare le dichiarazioni e i provvedimenti sul tema. È il caso della nota battaglia leghista della “difesa sempre legittima”, rispolverata per esempio nel caso dell’assessore leghista di Voghera Massimo Adriatici, che il 20 luglio scorso sparò e uccise Youns El Boussettaoui. Per giustificare il compagno di partito in giro per la città ligure armato, Salvini sottolineava che “se uno ha il porto d’armi come accade a 1,3 milioni di italiani certificati da questura e prefettura, è normale andare in giro con un’arma”.

Una vicinanza alle lobby delle armi mostrata anche quando nel giugno 2021 il segretario del PD Enrico Letta propose una stretta sulle concessioni delle armi: “L’Italia è uno dei paesi con le regole più restrittive sulla concessione delle licenze per le armi”, replicò il leader della Lega.

Non è un caso infatti se da vicepremier nel governo Conte 1, l’allora ministro dell’Interno Salvini tramite il Carroccio presentò anche una proposta di legge per rendere più facile l’acquisto di armi per la difesa personale “aumentando da 7,5 a 15 joule il discrimine tra le armi comuni da sparo e quelle per le quali non è necessario il porto d’armi“. Un tentativo mai andato in porto perché il testo non arrivò poi in Aula.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Gianluigi Paragone, lo schiaffo a Zelensky: "Chi è davvero il premier ucraino, perché non sono in aula". Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.

Gianluigi Paragone oggi 22 marzo non ascolterà in aula al Senato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, "pur provando un senso di pietas profondo per il popolo ucraino tormentato dalle bombe e dai colpi di Putin, il quale - ben inteso - resta l’aggressore. E gli aggressori restano nella colonna sbagliata della Storia, per quanto la stessa Storia si prenderà cura di studiare le cause di questo conflitto. Che sono come la polvere che si cumula sul tavolo. E che portano anche le impronte digitali dell’Europa e ancor più degli Stati Uniti d’America", spiega il leader di Italexit in un articolo pubblicato su Il Tempo in cui spiega le ragioni della sua contestazione. 

"Non ho rapporti diretti o indiretti con Putin o con i suoi gangli: non ho preso soldi, non ho relazioni finanziarie, non ho consulenze e non ho nemmeno indossato maglie di propaganda. Ho solo il dannato vizio di leggere i fatti per quello che sono. E ancor più sono interessato a una Pace possibile, così come ho cura di difendere gli altrettanto sacrosanti interessi dell’Italia, ancora una volta frettolosamente coinvolta dal governo a recitare una parte diversa da quella che le sarebbe propria, cioè di mediazione", sottolinea Paragone.

Secondo Paragone, Zelensky "non è un ambasciatore di pace, per quanto la narrazione dominante lo voglia dipingere come il Buono della Storia. E' un aggredito che ha il pieno diritto di difendersi, ma ha il torto di volere tutti coinvolti nella sua azione di Resistenza al Cattivo, obbligando tutti a stare dalla sua parte". Quindi chiarisce: "Nessuno dubita che in Ucraina si stia consumando una tragedia. Quel che metto fortemente in discussione è se siamo sulla strada dell’accordo pacificatore. Invitare in parlamento Zelensky mi sa tanto di omologazione: lo hanno fatto loro allora lo dobbiamo fare anche noi". E conclude: "A dare retta a Zelensky portiamo dritto dritto il Vecchio Continente nella terza guerra mondiale. E non vorrei che questa situazione facesse comodo a qualcuno al di là dell’Oceano. Un qualcuno che ha fatto male in conti con la Russia e la Cina fin da l’inizio".

Toni Capuozzo a Quarta Repubblica: "Le menzogne del ministro ucraino", una sporca verità sulla guerra. Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.

Qui Quarta Repubblica, il programma del lunedì sera condotto da Nicola Porro su Rete 4. Si parla, ovviamente, della guerra in Ucraina, dell'offensiva di Vladimir Putin, che non può che essere al centro di ogni cronaca nella serata di lunedì 21 marzo.

A fare il punto sul conflitto, ospite in studio, ecco Toni Capuozzo, che come sempre offre un punto di vista sfaccettato, non scontato, su quel che sta accadendo a Kiev e dintorni. E Capuozzo muove da una considerazione: "In tutto l'Occidente nessuno parla di pace, nessuna guerra va come all'inizio è stata pensata", rimarca.

Dunque, una riflessione sulla Cina e sul suo ruolo nelle negoziazioni: "È realistico che il ministro ucraino dica vinceremo?", premette con domanda retorica. "L'unica voce moderata è stata quella della Cina", aggiunge smarcandosi in modo netto da chi punta il dito contro Pechino senza soluzione di continuità per presunte negligenze nelle trattative.

Quindi, sul nostro esercito, Toni Capuozzo ricorda: "I militari italiani sono tra le persone più pacifiche che io conosca perché hanno visto cosa è la guerra". Infine, ricorda come "c'è una propaganda di Kiev. A Mariupol c’è il battaglione Azov e chi sta entrando nella città sono i soldati irregolari che hanno un conto in sospeso con loro", conclude Capuozzo ricordando come gli orriri della guerra si consumino su ogni fronte.

Quarta Repubblica, Vittorio Sgarbi: "Chi sono davvero gli ucraini". Nazismo, la bomba del critico. Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.

La guerra in Ucraina è al centro del dibattito a Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4, la puntata è quella di lunedì 21 marzo. Tra gli ospiti, in collegamento, ecco Vittorio Sgarbi, che prende posizione senza indugio alcuno a favore dell'Ucraina, senza operare distinguo e, soprattutto, picchiando durissimo contro Vladimir Putin, il sanguinario zar che ha scatenato l'inferno che ormai dura da quasi un mese. 

"Fuori dalle palle!", "Levategli il coltello". Il Cav caccia Sgarbi, caos a Villa Gernetto: il clamoroso video rubato | Guarda

Il critico d'arte, parlando del presidente della federazione russa, ricorda: "Insiste molto sul concetto di nazismo come se la sua fosse una lotta per liberare l'Ucraina da questo. Invece ottiene l'effetto contrario, che fa diventare Adolf Hitler lui". Insomma, Puntin come Hitler, anche per Vittorio Sgarbi. Il paragone, infatti, è sulla bocca di molti. E ancora, insiste: "Quello che non capisco è quale sia il nazismo ucraino. Oggi gli ucraini sono i partigiani", sentenzia Sgarbi.

Infine, il critico d'arte, muove anche una critica a quello che stanno facendo Nato, Usa e Occidente nell'ambito di questo conflitto. "La guerra è sempre sbagliata e noi la stiamo incentivando", sottolinea. Al netto di tutto questo, aggiunge che "Putin dovrebbe fermarsi e trovare una via d'uscita".

Selvaggia Lucarelli se la prende pure con Volodymyr Zelensky: "Roba da Netflix, mi disturba". Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.

"Questa era la mia casa, questi erano i miei amici, questi erano i miei cani": il presidente ucraino Volodymyr Zelensky presta la voce a un video nel quale la guerra in Ucraina viene raccontata come se fosse una sorta di film. Il filmato in questione, pubblicato sui canali social del presidente, è stato definito da molti come un "trailer". All'inizio si vede Zelensky con tutto il suo team di collaboratori, poi seguono immagini di città distrutte, esplosioni, vittime e persone disperate. Con tanto di musica di suspense in sottofondo.  

Alla fine del video la promessa: "Vinceremo, ci saranno nuove case, nuove città, nuovi sogni, una nuova storia". E ancora: "L'Ucraina era bellissima, ma adesso diventerà grande, la grande Ucraina". Il video ha lasciato un po' tutti sorpresi. Tra quelli che l'hanno commentato c'è anche Selvaggia Lucarelli, che su Twitter ha scritto: "Comunque la guerra montata dalla comunicazione di Zelensky e postata da Zelensky come se fosse il trailer di film su Netflix è disturbante". 

La giornalista, poi, ha continuato: "Sembra finto ciò che è vero, che poi è il contrario dell’effetto che si vorrebbe avere sulla platea, suppongo". Di vario genere i commenti sotto al suo tweet. C'è chi per esempio ha scritto: "Occhio che ti danno della "filo-Putin" in 3,2,1...". E chi invece si è schierato dalla parte del presidente ucraino: "Qua si parla di una piccola nazione che deve combattere e difendersi dalla Russia... superpotenza mondiale! Se non si atteggiano almeno un po' a supereroi della Marvel come possono sperare di tenere alto il morale della loro resistenza? Che dovevano fare!".

Vittorio Feltri disintegra Zelensky sulla guerra in Ucraina. Il Tempo il 22 marzo 2022.

Vittorio Feltri critica la gestione dell'emergenza portata avanti dal presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky. Alle domande di Mario Giordano, il direttore editoriale di Libero risponde con fermezza: "Di fronte all'aggressività di Putin, un Paese come l'Ucraina doveva capire che non sarebbe riuscito a sostenere una guerra e che avrebbe perso. Come se io volessi litigare e fare a cazzotti con Tyson. E' chiaro che perderei. E' molto meglio cedere e poi andare a una trattativa onorevole piuttosto che su una lapide da eroi. Così finisci al cimitero. Io credo che si debba essere anche un po' concreti nelle cose. Quando tu sei più debole devi anche cedere e cercare di trarre dalla nuova situazione il maggior vantaggio possibile". 

La guerra è stata scatenata dalla Russia di Putin ma Zelensky avrebbe dovuto rispondere in maniera molto diversa da quanto ha fatto finora. "In Ucraina c'è un disastro - conclude Feltri - Ci sono morti ovunque. Ormai è fatta a pezzi l'Ucraina. E questo è il risultato che ha ottenuto questo eroe di presidente dell'Ucraina".   

Volodymyr Zelensky, l'affondo di Vittorio Feltri: "Costretti a morire per legge, ciò che viene taciuto sul premier ucraino". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 21 marzo 2022

Una breve osservazione. Negli ultimi venti giorni, archiviato il Covid, l'informazione e anche le gente hanno fissato l'attenzione sulla mostruosa guerra che si combatte furiosamente tra la Russia e l'Ucraina. Ovvio che sia così. Un conflitto tanto aspro non può lasciare indifferenti. La pietà dell'Occidente e in particolare dell'Italia è rivolta ai bambini, alle mamme e agli anziani. La maggior parte dei commossi servizi televisivi è dedicata alle citate categorie umane, ciò non sorprende dato che gli esseri più deboli e in balia delle violenze belliche fanno tenerezza. Mentre quello che sta succedendo ai maschi dai 16 a 60, obbligati a rimanere (in Ucraina onde difendere la patria, passa in secondo piano.

Si dà il caso che una moltitudine impressionante di uomini abbia perso la vita, e non si tratta di volontari patrioti, bensì di ragazzi e anzianotti costretti da Zelensky, per legge, a battersi in difesa del Paese. Chissà perché del loro sacrificio, non offerto, ma imposto dal governo se ne parla poco e con distacco, come se le sofferenze dei soldati fossero dovute e indegne di essere raccontate. Trovo tutto questo ingiusto e sgradevole. Gli esseri umani, a prescindere dal sesso e dall'età, dovrebbero godere del medesimo rispetto. E invece ancora una volta si è affermato l'orrendo concetto che chi è nato col pisello anziché con la passera meriti di diventare carne da cannone, mentre le loro fidanzate o spose vadano celebrate quali vittime, esaltate dalle telecamere, intervistate in lacrime. Intendiamoci, anche io mi commuovo molto davanti all'infanzia sbandata e alle mamme disperate, per non dire dei nonni dallo sguardo smarrito. Ma trovo che sia offensivo per i martiri ammazzati dai carnefici di Putin tacere dei loro sacrifici.

Come si spiega questo fenomeno? Azzardo. Ormai la prevalenza delle donne nei giornali di carta e in quelli del piccolo schermo è consolidata, anche perché le signore sono diventate più brave dei loro fidanzati e mariti, pertanto le aziende editoriali le sfruttano a proprio vantaggio. Sennonché gli interessi delle croniste fatalmente sono orientati al femminile, quindi quasi tutte le corrispondenze dalle città bombardate privilegiano le vicende riguardanti le spose e la loro prole, mentre quelle dei mariti comandati a rischiare la pelle nei combattimenti costituiscono una routine bellica. Se crepa lei, tutti giù a piangere, se crepa lui, sarà anche un militare, ma cosa vuoi farci: la guerra è guerra.

Molta retorica, poca politica. Zelensky scioglie 11 partiti di opposizione e premia brigata con simpatie naziste, poi si presenta al Parlamento italiano…Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Questa mattina il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in collegamento web, in forma solenne si presenta al Parlamento italiano. È stato il Parlamento italiano a decidere così. Ed è un gesto saggio di solidarietà verso uno Stato e un popolo che hanno subito una invasione militare straniera. In passato è successo raramente che il Parlamento italiano compisse analoghi gesti di solidarietà. Più precisamente: non è mai avvenuto. Ma questo non vuol dire che allora non andasse fatto neanche oggi. Al contrario: è un grande passo avanti. È la scelta di anteporre le questioni generali dei diritti dei popoli e del diritto internazionale alla realpolitik.

I casi di invasioni militari nel recente passato sono molti. in Asia, in Africa e in Europa, ma fino ad oggi aveva sempre prevalso la realpolitik, e così non solo il Parlamento non aveva solidarizzato con gli invasi, ma spesso, al contrario, si era schierato – più o meno compatto – con gli invasori. Questo cambio di passo merita un applauso. Più difficile applaudire altri aspetti politici di questa cerimonia. Mi riferisco all’eccesso di retorica, forse, con la quale si santifica un leader politico sicuramente coraggioso ma, come tutti i leader politici, imperfetto. Nelle ultime quarantotto ore ha commesso almeno tre errori di discreta entità.

Ha paragonato la guerra di Ucraina alla Shoah, ha premiato la brigata Azov (che ha simpatie naziste) e ha sciolto 11 partiti dell’opposizione. Diciamo che non sono i gesti migliori da compiere prima di presentarsi al Parlamento italiano per sottolineare le caratteristiche – dittatura contro democrazia – di questa guerra.

L’altro aspetto che non lascia troppo soddisfatti è l’assoluta assenza di iniziativa dell’Italia. Che è stata solo capace di votare l’invio di armi all’Ucraina e l’aumento delle spese militari. Oggi dai grandi paesi democratici europei c’è bisogno di scelte di pace. Di iniziativa politica, diplomatica, sociale. Non di armi. Non di incitamenti alla guerra. L’incitamento alla guerra è l’ultima delle cose di cui ha bisogno Zelensky.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2022.

Zubin Mehta ricorda un concerto a Tel Aviv durante uno dei ciclici scontri con Hamas a Gaza. Le sirene d'allarme sovrastano le note, avvertono di un lancio di razzi, il direttore e gli orchestrali devono interrompersi, ripararsi nel rifugio. «Quando siamo tornati, la gente non se n'era mai andata. Abbiamo ricominciato». 

Dalla sua fondazione - è più vecchia dello Stato d'Israele come la città che la ospita - la Filarmonica non si è mai fermata a causa di una guerra, a zittirla ci è riuscito solo il virus. I telavivi riempiono ogni giorno la piazza dell'orchestra - come la chiamano tutti, l'Auditorium ne chiude un lato - per sedersi sulle gradinate scavate nel marmo, ci vengono con i bambini, ci incontrano gli amici, insieme ascoltano le sinfonie che le piccole casse fanno salire dalle pietre 24 ore su 24.

Ieri al tramonto la musica è stata spenta per ascoltare le parole di Volodymyr Zelensky. Al presidente ucraino sotto assedio il sindaco Ron Huldai, anche lui in piazza, ha assicurato quel plenum che la burocrazia della politica non è riuscita a garantirgli alla Knesset: il Parlamento è in pausa, l'aula principale a Gerusalemme è in questi giorni un cantiere, i deputati - chi ha voluto collegarsi - hanno seguito il discorso via Internet.

Un messaggio che gli hacker pro-Cremlino hanno cercato di interrompere con ripetuti attacchi informatici stoppati dai sistemi di cyber-sicurezza. È agli israeliani che Zelensky vuole parlare più che ai loro politici. In diretta televisiva e al migliaio - tanti di origine ucraina, in totale nel Paese gli immigrati dall'ex Unione Sovietica sono un milione e 200 mila - arrivati qui con le bandiere giallo-azzurre.

La barbetta ormai lasciata crescere, la maglietta verde militare con cui appare nei video, il presidente si rivolge alla gente perché spinga il governo a fare di più. Seduto alla scrivania, il suo volto viene proiettato sulla parete esterna del teatro Habima. Cita Golda Meir, l'unica donna a essere stata premier di Israele e nata proprio a Kiev: «Vogliamo vivere. I nostri vicini vogliono vederci morti. Questo lascia poco spazio ai compromessi». Dice: «La nostra storia ha qualcosa in comune con la vostra. 

Durante la Seconda guerra mondiale erano i nazisti che imperversavano, che volevano distruggere gli ebrei, la soluzione finale contro il vostro popolo. Nessuno dimenticherà l'Olocausto, adesso ascoltate le parole del Cremlino: soluzione finale del problema ucraino, gli stessi termini».

Chiede: «Perché Israele non ci ha ancora fornito armi e imposto sanzioni alla Russia? Dovete compiere una scelta». E sulla mediazione portata avanti dal primo ministro Naftali Bennett: «Continuate a negoziare ma scegliendo con chi stare». 

Lui stesso ebreo - parte della famiglia fu sterminata dagli invasori nazisti - nelle scorse settimane aveva tentato attraverso l'ambasciatore ucraino di ottenere un auditorio a Yad Vashem. I dirigenti del Memoriale avevano declinato, temevano che l'evento diventasse troppo politico, che Zelensky paragonasse l'invasione russa del suo Paese con la Shoah.

Adesso è qualche ministro (da destra) a criticare il discorso: «La guerra è terribile ma il parallelo con l'orrore dell'Olocausto è oltraggioso», commenta Yoaz Hendel. Anche i rappresentanti del Likud di Benjamin Netanyahu attaccano le parole di Zelensky - «gli ucraini hanno fatto la loro scelta 80 anni fa salvando gli ebrei»: «Dimentica tutti quelli tra loro che hanno partecipato ai massacri».

Antonio Bravetti per “La Stampa” il 23 marzo 2022.

Laura Granato, senatrice del gruppo Misto, ieri non era a Montecitorio ad ascoltare Volodymyr Zelensky. Avrebbe voluto anche un collegamento con Putin: «O tutti o nessuno». 

Senatrice Granato, perché non era in aula ad ascoltare Zelensky?

«Avevo un impegno sul territorio, mica lo rimando per un intervento da remoto senza contraddittorio». 

Il contraddittorio sotto le bombe?

«Se uno è davvero sotto le bombe non riesce nemmeno a collegarsi». 

Cosa avrebbe voluto dirgli?

«Di mettere da parte l'orgoglio e trattare. Se lui andasse da Putin con l'intenzione di negoziare non credo che lo caccerebbe».

Ma lo ha ascoltato?

 «Ha fatto credere che Putin vuole espandere il suo dominio oltre l'Ucraina. È inverosimile, mai avuto questo sentore». 

Voleva un collegamento anche con Putin?

 «O tutti o nessuno, ma tanto loro hanno già deciso». Loro chi? «I capi di Stato dell'Unione europea, telecomandati dagli Stati Uniti». 

E cosa hanno deciso?

«Di farci partecipare al conflitto. Draghi, ieri, invece di parlare di pace ha rincarato la dose. È stato più duro di Zelensky».

Condanna l'invasione russa?

«Certo che la condanno, però... vorrei capire perché a Putin è scattata la molla». 

Ha perso la testa?

«Macché, è sempre lucido». 

Come fa a dirlo?

 «Ho ascoltato i suoi discorsi integrali, non tagliati». 

E allora perché?

«Bisogna guardare agli ultimi anni: il colpo di Stato del 2014 a Kiev; ben tre esercitazioni Nato al confine russo; i laboratori con armi biologiche in Ucraina finanziati dagli Usa. Putin vuole preservare la sicurezza russa». 

Perché le piace tanto?

«Perché tutela l'integrità e la tradizione di quel mondo. E contrastare l'agenda globalista che vuole attuare il nuovo ordine mondiale deciso nelle segrete stanze per renderci schiavi». 

Sembra di sentire il complottismo No Vax.

«C'è un legame. Il modo in cui è stata affrontata la pandemia fa parte dell'agenda globalista. Il virus, i vaccini che non sono nemmeno molto efficaci... È questo il modus operandi dell'impero globale. Putin è un argine geopolitico». 

Non un dittatore?

«Il suo è un modo diverso di governare. Draghi è un dittatore».

Addirittura?

«Il governo Draghi ha cancellato tutti i diritti basilari. Putin non mi risulta abbia obbligato nessuno a vaccinarsi, una forma di rispetto che Draghi non ha avuto». 

Petrocelli ha chiesto al M5S, con cui lei è stata eletta, di uscire dal governo.

«Un atto di grande coerenza. Gli ho mandato un messaggio per congratularmi. Ma ci sono zero possibilità che Di Maio lasci una poltrona».

Lei insegna lettere al liceo. Come spiegherebbe questa guerra alla classe?

«Partirei dalle cause. Un excursus storico, dalla Seconda guerra mondiale. Da quando l'Ucraina era nell'Unione Sovietica, per spiegare la nascita di questi gruppi neonazisti». 

Eppure c'è chi paragona Putin a Hitler.

«Una valutazione completamente infondata. Mi risulta che i neonazisti che hanno commesso atrocità inenarrabili si trovino in Ucraina». 

Vivrebbe in Russia?

«Non mi pare che attualmente in Italia siamo messi molto meglio». 

Ma ci è mai stata?

 «No. Mi sono spinta fino in Scandinavia. Oppure, a Est, in Thailandia».

“Mario Draghi ha violato la Costituzione”. Marco Rizzo accusa il premier: ha portato guerra e povertà. Il Tempo il 23 marzo 2022.

Toh, chi si rivede. Con un duro post su Twitter Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista in Italia, va all’attacco di Mario Draghi per le ultime novità dell’aumento delle spese per la difesa militare dopo lo scoppio del conflitto tra Russia ed Ucraina. “Pace e sviluppo oppure guerra e povertà. Queste sono le scelte davanti al popolo italiano. Il governo Draghi ha violato l’articolo 11 della Costituzione (e tanti altri)” il messaggio di Rizzi, che accompagna le frasi con una forte vignetta. Nell’immagine si vede Draghi che lancia una bomba a mano nel cappello che raccoglie l’elemosina di un cittadino italiano che tiene in mano il cartello “disoccupato”.

DAGONEWS il 23 marzo 2022.

Come mai Mario Draghi ieri, nel suo discorso in Parlamento dopo l’intervento del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si è sbilanciato in maniera così forte contro Putin?

Il "grande gesuita", solitamente mite e prudente, ha mostrato i denti, parlando dell’“arroganza” e della “ferocia” del presidente russo. Prima di parlare a Montecitorio, "Mariopio" ha chiamato Mattarella, da cui ha ricevuto il via libera. Il premier e il Capo dello stato si aggiorneranno dopo il rientro di Draghi da Bruxelles, dove domani ci sarà un tris di appuntamenti molto importanti: vertice Nato (a cui è stato invitato Zelensky), Consiglio Europeo (a cui è stato invitato Joe Biden), e summit G7.

"Mariopio" deve mostrare al presidente Usa che l’Italia e l’Europa sono unite e pronte alla linea dura contro lo “zar bombarolo”, e che non ci sono esitazioni sull’atlantismo del nostro paese. 

Non a caso oggi ha ribadito che “vogliamo adeguarci all’obiettivo del 2% del Pil, che abbiamo promesso alla Nato". 

Tra gli osservatori più attenti (che leggono Dagospia) si parla molto anche del discorso di Zelensky in Parlamento. 

Il presidente ucraino, a differenza delle bordate lanciate nei suoi interventi negli altri consessi internazionali, è apparso più morbido, quasi remissivo, visto anche lo scivolone in Israele sul paragone con l’Olocausto. 

L’ex comico non ha fatto alcun riferimento alla no-fly zone (deve aver capito che è troppo pericolosa) né alla Resistenza partigiana in Italia (argomento troppo divisivo).

Il leader ucraino abbassa i toni. Cosa hanno detto Zelensky e Draghi in Parlamento: i due presidenti si sono scambiati i ruoli. Claudia Fusani su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

Hanno invertito i ruoli, Zelensky in modalità “umanitaria” e Draghi in format marziale. “Mi appello al popolo italiano, voi che conoscete il valore della famiglia, dell’arte, della cultura e della democrazia” ha ripetuto più volte il presidente ucraino collegato da remoto con l’aula di Montecitorio. Nessuna richiesta di armi o di noflyzone, nessuno effetto sonoro come il file audio con il suono delle sirene. Nessun parallelismo storico: dopo quello con l’Olocausto fatto davanti alla Knesset israeliana, il presidente ucraino ha capito che certe semplificazioni sono e rischiose. Viceversa il premier Draghi ha usato una retorica emozionale (lui sempre così misurato) e ha schierato l’Italia senza se e senza ma dalla parte della resistenza ucraina “che non difende solo se stessa ma la nostra pace, la nostra libertà e la nostra sicurezza” e a cui “vanno riforniti aiuti anche militari”.

Un testa coda di ruoli che ha bucato e convinto. Tutti, da Fratelli d’Italia (“Zelensky ha parlato da leader europeo, l’invasione è un’aggressione alla Ue”) a Forza Italia (“Draghi è stato l’uomo forte della giornata” ha commentato Ruggeri), passando per il segretario Letta (“in Parlamento un momento di rara intensità che ha fatto onore al popolo italiano”) e il leader di Iv Matteo Renzi (“saggio che Zelensky cerchi la pace”). Parecchi distinguo tra i 5 Stelle con Conte che non vuole aumentare il budget militare della Ue e Vito Petrocelli, presidente della Commissione Difesa che annuncia che non voterà mai più la fiducia a Draghi e invita la delegazione 5 Stelle a lasciare la squadra di governo. Mentre Di Maio è allineato più che mai. “Bravo Zelensky, meno bravo Draghi” dice Nicola Fratoianni che tiene vivo da sempre il pacifismo anche se spesso non va di pari passo con la costruzione della pace. Luca Casarini, un altro compagno degli anni e delle battaglie no global, ha addirittura promosso entrambi: “Gli interventi di stamani, sia di Zelensky che di Draghi, sono stati uno dei momenti più alti della politica estera italiana di questi anni”.

Insomma, operazione compiuta. Il presidente della Camera Roberto Fico, regista dell’evento ha di che rallegrarsi. La temuta figuraccia non c’è stata. Anzi: i dodici minuti dell’intervento da remoto di Volodomyr Zelensky hanno spinto l’aula di Montecitorio a due convinte standing ovation cui lui ha risposto mettendo la mano sul cuore e chinando il capo in ringraziamento. Emozionante, appunto. E l’intervento di Draghi ha quasi spiazzato per la forza e l’intensità. Puntuto quando ha detto “l’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione europea”. Deciso quando ha sottolineato che “governo e maggioranza ma anche la principale forza di opposizione sono pronti a fare ancora più di quanto è stato fatto finora”. Si certo, le assenze ci sono state ma ben mimetizzate tra gli assenti giustificati per via del contingentamento causa Covid. Siamo alla settantina prevista. Chi ha fatto i conti punta il dito sui senatori e ne elenca “21 su 70 tra i 5 Stelle” e “27 su 63 tra i leghisti”. Gli altri sono i parlamentari di Alternativa c’è. La presenza in aula di tutti i leader ha fatto sì che le polemiche siano rinviate magari già a oggi quando il premier Draghi terrà l’informativa sul Consiglio Ue di giovedì e venerdì.

L’inversione di ruoli tra Draghi e Zelensky ha funzionato e ha evitato il rischio di mugugni o anche qualche fischio dai banchi dell’emiciclo. In un discorso di 12 minuti, il presidente ucraino ha denunciato che l’invasione russa “sta distruggendo le famiglie mentre la guerra continua a devastare le città ucraine”. L’Ucraina resiste perché “il mio popolo è diventato il mio esercito”. Ha chiesto agli italiani di immaginare che Genova sia Mariupol, la città sotto assedio da settimane, entrambi due porti strategici. “Immaginate Genova completamente bruciata” ha detto ai parlamentari, “immaginate se Roma fosse al posto di Kiev” avvertendo così che “l’Ucraina è il cancello per l’esercito russo e loro vogliono entrare in Europa. La barbarie non deve entrare ma ogni giorno abbiamo sirene, cadono bombe e missili”. Della serie che quello che succede oggi alla capitale ucraina potrebbe succedere domani a Roma. O ad un’altra capitale europea. Nessuna richiesta di una no-fly zone assicurata dalla Nato, come invece avvenuto davanti ad altri Parlamenti, ma l’auspicio di “altre sanzioni, altre pressioni”. Ha detto che sono “117 i bambini morti” e che “a Kiev ci sono truppe dell’esercito russo che torturano, violentano, rapiscono bimbi e distruggono tutto. Centinaia di migliaia di vite distrutte e case abbandonate. E tutto questo è iniziato da una persona sola”. Ha emozionato Zelensky perché ha saputo toccare i tasti giusti dell’italianità e ha convinto anche i più scettici quando ha detto: “Bisogna fare il possibile per garantire la pace”.

Se Zelensky ha fatto il pacificatore, Draghi è stato marziale quando ha sottolineato “l’ammirazione per il coraggio, la determinazione e il patriottismo del presidente Zelensky e dei cittadini ucraini”. Ha definito “eroica la resistenza di Mariupol, Kharkiv, Odessa e di tutti i luoghi su cui si abbatte la ferocia del presidente Putin”. Il premier ha accompagnato la gravità delle parole con la solennità della voce e ha posato i fogli, in un paio di occasioni, per lanciare l’applauso dell’aula. Quando ha detto che “l’Ucraina non difende solo se stessa ma la nostra pace libertà e sicurezza e per questo vi siamo profondamente grati”. E quando ha sottolineato che “di fronte ai massacri servono gli aiuti anche militari alla Resistenza”. Nel post seduta sono state fatte tante ipotesi su questo inatteso scambio di ruoli. Vengono chiamate in causa le rispettive diplomazie che nei briefing preparativi “hanno giudicato utile a tutti l’inversione dei ruoli”. Zelensky aveva esagerato con alcuni paragoni storici. E doveva anche far parlare i fatti anziché chiedere una nofly zone che sarebbe per forza l’inizio della terza guerra mondiale.

Doveva, insomma, cambiare lo schema del discorso. E Draghi ha bisogno di confermare, alla vigilia del Consiglio europeo e del vertice Nato, entrambi a Bruxelles ed entrambi con Joe Biden ospite d’onore, che l’Italia non è il paese dell’equidistanza e dei “né-né” ma ha le idee molte chiare su quale sia la parte giusta dove stare.

Il collegamento con Zelensky ha fornito elementi utili ai dubbiosi per capire perché la resa non è tra le cose possibili. Perché aiutare l’Ucraina a difendersi vuol dire difendere noi stessi, i nostri diritti faticosamente conquistati dopo la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto ha dato un mano a Draghi per togliersi dall’angolo dove le diplomazie occidentali hanno un po’ relegato l’Italia perché sospettata di filoputinismo. Di poter essere “il punto debole” della compattezza dell’alleanza euroatlantica. Del resto non è colpa di Draghi se nella maggioranza di governo ci sono due partiti – Lega e 5 Stelle – che appena tre anni fa erano invitati come relatori alle feste del partito di Putin. Prima di collegarsi con il Parlamento italiano, Zelensky ha parlato a lungo anche con Papa Francesco. Anche questo colloquio può aver modificato l’impostazione dell’intervento in chiave umanitaria, compassionevole ma sempre coraggiosa. Ancora una volta ieri Zelensky si è mostrato un abilissimo comunicatore. E il soft power – assai di più dell’hard power di bombe e artiglieria – alla fine sarà il jolly che farà la differenza tra vincitori e vinti in questa maledetta guerra.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Zelensky paragona la guerra in Ucraina all'Olocausto e fa arrabbiare Israele. "Oltraggioso", autogol alla Knesset. Il Tempo il 20 marzo 2022.

"Oltraggioso il paragone tra l’Olocausto" e la situazione attuale in Ucraina fatto dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky intervenendo oggi alla Knesset. È quanto denuncia il ministro delle Comunicazioni israeliano Yoaz Hendel, che su Twitter ha scritto di "ammirare il presidente ucraino e sostenere il popolo ucraino con il cuore e le azioni, ma la terribile storia dell’Olocausto non può essere riscritta". Secondo Hendel "la guerra è terribile, ma il confronto con gli orrori dell’Olocausto e la soluzione finale è oltraggioso".

Sempre su Twitter, l’ex ministro israeliano per l’energia, Yuval Stienitz, ha affermato che "se il discorso fosse pronunciato in giorni normali, rasenterebbe la negazione dell’Olocausto". "È vero che migliaia di persone hanno aiutato a salvare gli ebrei ma la triste verità storica è che molti hanno aiutato con entusiasmo i nazisti nel progetto di raccogliere e sterminare gli ebrei e saccheggiare le loro proprietà. La verità storica è che il popolo ucraino non può essere orgoglioso della propria condotta di fronte all’Olocausto ebraico", ha aggiunto. 

Zelensky in questi giorni ha riproposto uno schema comunicativo nei suoi interventi ai parlamenti nazionali, evocando fatti storici che provocassero una sorta di empatia per le sorti del popolo ucraino. Ha citato l'11 settembre in collegamento col Congresso Usa, il Muro di Berlino con il Bundestag e via dicendo. Questa volta lo schema, a quanto pare, non è riuscito. 

Intanto è stato reso noto che la direzione per la sicurezza informatica di Israele avrebbe sventato alcuni tentativi di cyberattacchi avvenuti durante il discorso del presidente ucraino Volodymyr Zelensky alla Knesset. Il tentativo - viene spiegato - sarebbe stato quello di interrompere il collegamento in diretta.

Shoah e genocidi. Quando l'orrore è incomparabile. Stefano Zecchi su Il Giornale il 22 marzo 2022.

Le guerre portano con sé il più orribile campionario degli orrori. Stabilire una graduatoria è un atteggiamento tanto cinico quanto inutile. Semmai saranno gli storici, quando la polvere del tempo ha coperto la tragedia dell'attualità, a stabilire i contesti corretti su cui fare le più opportune valutazioni. Anche se la Storia, è inutile nasconderselo, ha sempre come firma principale quella dei vincitori. Intanto ascoltiamo le parole dei protagonisti, di chi è in prima fila a combattere per difendere la propria terra: inutile nascondersi dietro il dito dell'ipocrisia, e criticare quelle parole perché nella loro enfasi tradiscono l'evidenza della situazione in atto. È la propaganda. Impensabile che possa essere cancellata dalla politica e, a maggior ragione, da chi sta vivendo un conflitto drammatico e cerca solidarietà, comprensione, coinvolgimenti affettivi. Proprio questo è ciò che vuole il presidente Zelenski, ed è più che normale in lui la ricerca di analogie emotivamente efficaci, piuttosto che preoccuparsi della correttezza di somiglianze storiche a cui paragonare la resistenza del suo popolo. Cosa c'è di più doloroso per il popolo d'Israele che rievocare la Shoah di fronte al proprio Parlamento e costruire un'analogia con ciò che sta accadendo a un altro popolo di questa Terra? È fin troppo evidente l'unicità della Shoah, quindi è comprensibile ascoltare e accettare tutti i distinguo che arrivano da Israele e, anche, dalle comunità ebraiche, pur essendo altrettanto evidente l'abilità comunicativa/propagandistica di Zelenski nel toccare quel tasto nella casa di chi ha ascoltato meglio di altri quella musica dell'orrore. D'altra parte, le persecuzioni etniche, con conseguente pulizia etnica, sono immediate conseguenze tragiche delle guerre. Le abbiamo viste di recente in Somalia, in Jugoslavia, quando si è dissolta la dittatura di Tito; e quanti sono ancora gli italiani dell'Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia che ricordano la violenza della pulizia etnica patita, quando sono stati perseguitati e cacciati dalle loro case? Zelenski si sta rivolgendo ai popoli occidentali, alle loro organizzazioni rappresentative: parlerà anche a noi. Prevedibile che assocerà alla lotta partigiana che c'è stata nel nostro Paese, la loro lotta partigiana contro l'invasione russa. Mi auguro che tutti i teorici del «molto più complesso» che sfilano nei talk show per dirci cosa sta succedendo ai confini orientali dell'Europa, ci risparmino dotte quanto inutili spiegazioni sulle differenze sempre «molto più complesse» tra la nostra storia recente e quella attuale della Ucraina.

Dai Fratelli Coen al battesimo. Quello che dobbiamo all’acqua che è sacra. CLAUDIO FERLAN su Il Domani il 20 marzo 2022

Il 22 marzo si celebra la Giornata mondiale dell’acqua, stabilita dalle Nazioni Unite nel 1992 per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni del pianeta sulla preziosità dell’acqua e sull’importanza di ridurre il suo spreco.

Che l’acqua sia fondamentale ce lo insegnano anche molte religioni, riconoscendone in modi differenti la sacralità. Ce lo rammenta anche l’arte. Molte e molti ricorderanno il film dei fratelli Coen, Fratello dove sei?.

L’acqua per il cristianesimo è elemento sacro per eccellenza, tanto che pure nella storia dell’astinenza quaresimale si vietano le carni degli animali di terra, non quelle dei pesci.

CLAUDIO FERLAN. È ricercatore nell’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Con il Mulino ha pubblicato Dentro e fuori le aule. La Compagnia di Gesù a Gorizia e nell’Austria interna (2013), I gesuiti (2015), Sbornie sacre, sbornie profane. L’ubriachezza dal Vecchio al Nuovo Mondo (2018), e Venerdì pesce. Digiuno e cristianesimo (2021).

Roberto Festa per “il Venerdì di Repubblica” il 20 marzo 2022.

Nell'autunno 1973 Leonard Cohen vive sull'isola greca di Idra con la compagna Suzanne e il figlio Adam. Ha trentanove anni, è depresso e frustrato. L'anno precedente un tour in Europa e Israele non è andato come previsto. L'industria discografica lo disgusta. Il legame col suo pubblico, così gli sembra, si è incrinato. 

«È finita», confessa a un giornalista, preannunciando un possibile ritiro. In un giorno di ottobre Cohen lascia Idra, raggiunge l'aeroporto di Atene e da lì si imbarca per Tel Aviv. In Israele è scoppiata la guerra. Egitto e Siria hanno attaccato a sorpresa nel giorno dello Yom Kippur. L'esercito arabo avanza e i soldati dello Stato ebraico cadono a decine. Cohen vuole essere di qualche aiuto nei kibbutzim. 

Per caso, in un caffè, incontra un gruppo di musicisti e con loro parte per il fronte. Canterà le sue canzoni davanti a soldati impauriti, stanchi, stupiti per la comparsa, tra la sabbia del deserto, di una star internazionale. Questo episodio della vita di Cohen è raccontato in Il canto del fuoco di Matti Friedman (Giuntina, traduzione di Rosanella Volponi).

Friedman, giornalista canadese ed ebreo proprio come Cohen, ricostruisce la storia sulla base dei taccuini che l'artista tenne in quei giorni e soprattutto di un manoscritto di trenta pagine, ritrovato negli archivi della casa editrice McClelland & Stewart. un romanzo mai finito Il manoscritto è l'abbozzo di un romanzo sulla sua esperienza di guerra, che Cohen non portò mai a termine. 

Tornate alla luce oggi, quelle trenta pagine danno il via alla storia. Friedman intervista i soldati, oggi settantenni, che videro Cohen al fronte; rievoca i giorni della guerra che cambiò per sempre la storia di Israele; racconta la genesi di una canzone come Lover Lover Lover, che proprio su quel fronte fu scritta. 

Nel Canto del fuoco, Cohen resta spesso sullo sfondo, elusivo e misterioso come molte sue canzoni - è stata Joan Baez a dire che in esse «non tutto ha necessariamente un senso, perché vengono da un luogo così profondo». I testimoni di quei giorni lo descrivono in disparte, a fumare Gitanes blu; oppure seduto su un elmetto, la notte, «a guardare le stelle». Arrivava in una caserma, un bunker, una nave. 

Cantava. Se ne andava. In effetti, si sa molto poco di uno dei viaggi musicali, ed esistenziali, più significativi del Novecento. Restano poche foto, un paio di articoli di giornale, il ricordo sempre più vago di chi c'era. Cohen stesso, nei taccuini e nel manoscritto, è avaro di dettagli. A parte Tel Aviv e Gerusalemme, non ci sono indicazioni precise sui suoi spostamenti.

Soprattutto, non ci sono accenni ai suoi compagni di viaggio. un tour senza date In realtà, Cohen non partì per il fronte da solo. Con lui c'era Matti Caspi, ventitré anni, timido, riservato, destinato a diventare uno dei migliori musicisti di Israele. Matti lo accompagnava alla chitarra. Ilana Rovina, caschetto di capelli biondi tagliato nella pietra, era la voce femminile. 

Completavano il gruppo Oshik Levi, cantante di ballate all'epoca all'apice della fama, e Pupik Arnon, un comico poi diventato rabbino. Il loro tour non aveva date o luoghi ufficiali. Un camion arrivava e portava Cohen e compagni dove c'era bisogno. Con le casse delle munizioni si costruiva un palco, spesso circondato da cadaveri semicoperti dalla sabbia del deserto. 

Se era notte, i fari dei camion servivano come luci di scena. Succedeva che un artigliere chiedesse di interrompere le canzoni. Il terreno tremava per la forza della detonazione, poi la musica riprendeva. Cohen esordiva con le canzoni più conosciute. Suzanne, So Long, Marianne, Bird on the Wire. Certe volte i soldati lo seguivano nel canto. Altre volte erano troppo stanchi e se ne stavano in silenzio a fissare il vuoto.

Nel Canto del fuoco Friedman allarga il racconto proprio ai soldati. La guerra è un grande collettore di storie e le vite di alcuni giovani israeliani si incrociarono, anche per un solo momento, con quella di Cohen. C'è Joel, arrivato dall'America in soccorso di Israele, fan di Cohen, che torna stravolto da una missione e stramazza a letto. Sogna di ascoltare Suzanne e quando si sveglia gli dicono che non era un sogno ma che il suo idolo l'aveva cantata proprio lì. C'è Shoshi, giovane pilota che non conosce Cohen ma che non dimenticherà mai l'emozione di quella musica. 

C'è Orly, addetta ai radar, elettrizzata per l'arrivo di una grande star, che vuole che Cohen si riposi nella sua branda. A un'altra addetta ai radar, Ruti, non importa nulla di Cohen, ma ne scrive in una lettera ai genitori, per dirgli di come le cose al fronte tutto sommato vadano bene.

Sono - Joel, Shoshi, Orly, Ruti e tanti altri - parte di una generazione tradita, mandata a morire in un conflitto da cui Israele esce cambiato per sempre. Alcuni di quei giovani si ritroveranno per l'ultima apparizione di Cohen a Tel Aviv nel 2009. A fine concerto, Cohen passerà dall'inglese all'ebraico per benedire la folla. «non ho niente da dire» Pensato a incastri, come un puzzle in cui la Storia ribalta e ricompone i tasselli di vita individuali, Il canto del fuoco è anche il racconto di molti misteri. 

Che cosa spinse Cohen a lasciare la sua isola greca per andare in guerra? È possibile fare solo delle ipotesi. Contò, probabilmente, l'essere cresciuto in una sinagoga di Montreal, nipote di un rabbino, educato nella lingua della Bibbia ebraica, fedele a un'appartenenza che lui aveva criticato ma da cui non si discostò mai. Se Israele chiamava, l'unica scelta era rispondere. 

Possibile che in una fase di confusione e depressione, Cohen cercasse l'àncora di una tradizione antica - durante il viaggio, chiese ai compagni di chiamarlo non Leonard ma Eliezer, il suo nome ebraico. Possibile che l'ordine, la solidarietà obbligata, la nitidezza dei contorni di una guerra avessero per lui, in quel momento, un richiamo irresistibile. «Non ho niente da dire. Sono solo un intrattenitore», rispose a un giornalista che gli chiedeva perché fosse venuto in Israele durante la guerra.

Misteriose restano anche le ragioni che hanno poi spinto Cohen a stendere un pesante silenzio su quei giorni. Come ha detto un suo caro amico, Leon Wieseltier, «Leonard parlava delle sue esperienze più private, ma mai di quelle pubbliche». Per il timore, forse, che la sua poesia venisse svuotata a contatto con la vita vera. 

È anche probabile che l'occupazione militare israeliana dopo il 1973 abbia imbarazzato Cohen e gli abbia suggerito il riserbo. Non è un caso che la versione originale di Lover Lover Lover parlasse dei soldati israeliani come dei "miei fratelli". Quel verso sparisce nelle versioni successive della canzone. Alla fine della guerra, Cohen tornò nella sua isola, da Suzanne. L'anno successivo ebbe con lei un'altra figlia, Lorca. Non parlò più di ritirarsi e nel 1974 pubblicò il suo quarto album, New Skin for the Old Ceremony. 

La guerra dello Yom Kippur sparì dalla sua biografia pubblica, non dalla vena visionaria, quasi apocalittica, della sua musica. In uno dei rari accenni a quei giorni, molti anni dopo, Cohen disse che tornato da Israele aveva deciso di «prendersi cura del suo giardino». Forse, a quel punto, la disperazione interiore si era placata. Forse, con la sua presenza al fronte, aveva rispettato uno dei precetti più alti dell'ebraismo. Mettersi seduti accanto alla disgrazia e piangere.

 L'aria che tira, il giornalista ucraino massacrato: "Vigliacco arrogante, insulti gli italiani". Caos dalla Merlino. Libero Quotidiano il 17 marzo 2022.

Vladislav Maistrouk scatena i telespettatori di La7. Il motivo? Il giornalista ucraino se la prende con Myrta Merlino e L'Aria Che Tira. Nella puntata di giovedì 17 marzo Maistrouk critica gli ospiti che manifestano idee diverse dalle sue. Ma non solo. Il giornalista replica alla conduttrice che, per dovere di cronaca, riferisce le parole del Cremlino sulle negoziazioni per l'Ucraina. Parole che non piacciono all'ospite: "Capisco che volete dare anche le ragioni dell'altra parte" sbotta mentre denuncia la "propaganda dei media contro l'Ucraina, per anni avete detto che c'era una guerra civile nel Paese, e c'è ancora gente che crede alle bugie sul Donbass". Accuse alle quali la Merlino preferisce non rispondere, rimanendo a dir poco di stucco. 

Eppure non è la prima volta che Vladislav dà il meglio di sé nei talk politici. Tanto che il pubblico insorge sul web: "Adesso basta! Farci offendere de questo Maistrouk, non è più sopportabile! I giudizi su di noi se li risparmi, a me pare che i vigliacchi sono lui ed il suo presidente che belli protetti istigano la popolazione a combattere per morire! Sta offendendo l'Italia", commenta un utente.

E ancora: "Scusate, ma chi è questo Maistrouk che scorrazza per tutte le tv italiane ad insultare con arroganza chi non la pensa come lui? Cosa fa, il blogger? È un esperto di politica internazionale? Affrontare questo dramma con un po' di serietà no?". C'è anche chi critica più in generale le nostre tv: "Ma che spettacolo! Il giornalista ucraino che deve dare lezioni su come fare la televisione. Solo da noi può accadere questo! Addirittura stabilisce lui chi può o non può parlare imperversando in ogni talk politico". 

Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 18 marzo 2022.

Da quando è iniziata la guerra, Volodymyr Zelensky non ha detto una sola parola fuori posto. Le ha messe tutte sapientemente vicino al cuore di chi lo ascolta. 

Si è rivolto ai deputati e ai senatori americani spiegando che per l'Ucraina «ogni giorno è l'11 settembre », davanti a quelli inglesi ha citato Churchill, col Bundestag ha evocato «il nuovo muro di Berlino innalzato da Putin».

(...) L'uomo che scrive insieme a lui i discorsi da cui dipende il destino di una nazione intera, infatti, è uno sceneggiatore di serie tv.

Si chiama Yuriy Kostyuk, ha meno di quarant' anni ed è uno dei ragazzi del "Kvartal95", la vera arma segreta con cui Zelensky ha già stravinto la battaglia mediatica col Cremlino. (...)

La carriera del presidente è cominciata a Kryvy Rih, a metà strada tra Dnipro e Mikolayev, ed è subito volata altissima sulle ali dell'entusiasmo della gioiosa trentina: erano un gruppo di attori, gente di spettacolo, manager, scrittori, avvocati che si conoscevano sin dai tempi delle scuole e che nel 2003 si misero in testa di aprire uno studio di produzione. 

Lo chiamarono "Kvartal95", Quartiere95, dal nome del distretto di Kryvy Rih in cui abitavano.

Al centro del progetto c'era il carismatico Volodymir. Nel 2005 cominciò ad andare in onda il loro show satirico, tutti lo guardavano e la gioiosa trentina divenne centinaia. 

Altro successo nel 2015: una serie tv (...) in cui Zelensky interpreta un maestro di scuola che diventa all'improvviso Capo dello Stato.

Si chiamava Servitore del Popolo , dice niente? Nel 2017 i ragazzi del Quartiere95, bravissimi a tenere la scena e strappare l'applauso, fondano il partito populista che prende il nome dalla loro serie tv e l'ex attore Zelensky, in due anni, diventa l'uomo più potente del Paese. Yuriy Kostyuk, che ha il compito di dare forma scritta alle sue idee, era lo sceneggiatore di Servitore del popolo. (...)  Ora ricopre il ruolo di vice capo dell'Ufficio del presidente, una struttura mastodontica e cruciale divisa in direttorati. 

(...) I giornali ucraini hanno contato 30 persone che gravitano attorno a Zelensky e che provengono dallo Studio di Kryvy Rih.

Anche il capo dell'Ufficio del presidente, il 50 enne Andriy Yermak, è un produttore televisivo del giro del Quartiere95. È l'uomo più fidato, il primo consigliere, con lui Zelensky valuta e decide anche le strategie comunicative in tempi di guerra.

Nicola Porro, la rivelazione sul comunicatore Zelensky: "L'uomo dietro ai suoi discorsi". Libero Quotidiano il 18 marzo 2022

Chi è Volodymyr Zelensky? "Un leader fatto dai suoi autori tv". A rivelarlo è Nicola Porro che riprende le parole di Fabio Tonacci. Il giornalista, inviato da Kiev, non ha dubbi: la propaganda è da entrambe le parti. Non è però una novità: "La propaganda di guerra c’è sempre stata in ogni conflitto e sempre ci sarà. È parte integrante della guerra, sarebbe ingenuo non ammetterlo", spiega la firma di Repubblica. All'Adnkronos Tonacci consiglia di trovare "testimonianze dirette, foto e video che testimonino quanto viene comunicato". Solo così, a suo dire, si riesce ad ottenere la verità e notizie certe. 

Parole quelle del giornalista rilanciate nella rassegna stampa del conduttore di Quarta Repubblica, che intitola così la notizia di venerdì 18 marzo: "Una corte di autori tv: chi c’è dietro Zelensky". D'altronde, come rivelato in precedenza da Tonacci "dietro alla comunicazione del presidente autori e manager dello spettacolo. I discorsi sono scritti dallo sceneggiatore della serie tv satirica che lo ha reso famoso". 

Il riferimento è al "Servitore del popolo", la serie che vede Zelensky nei panni di un presidente. L'attuale leader dell'Ucraina era sette anni fa uno dei più influenti attori comici e satirici. Qui interpretava un comune cittadino, insegnante di storia del Liceo, che viene inaspettatamente eletto presidente in seguito alla diffusione e al successo virale di un suo video che denuncia la corruzione nel Paese.

LE PAROLE DEL PRESIDENTE AI PARLAMENTI. Muro di Berlino, Pearl Harbour e Churchill. I mille registri di Zelensky il comunicatore. VITTORIO DA ROLD su Il Domani il 17 marzo 2022.

In ogni occasione dei suoi video messaggi rivolti ai parlamenti, Zelensky ha saputo usare, da consumato esperto mediatico, un registro diverso, emotivamente modulato per il pubblico a cui si rivolgeva.

Il presidente ucraino ha esortato la Germania ad abbattere il nuovo “muro” che si sta costruendo in Europa contro la libertà dell’Ucraina.

Nel discorso al Congresso ha saputo entrare nel dibattito interno americano e toccare le corde profonde della “missione per la libertà” di cui gli Stati Uniti si considerano, dalla Dichiarazione di indipendenza, gli alfieri nel mondo. Nel frattempo venerdì Joe Biden e Xi Jinping si parleranno per la prima volta dall’inizio dell’invasione. 

VITTORIO DA ROLD. Dopo essersi laureato alla facoltà di Storia e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano ha iniziato la carriera di giornalista nel 1986 a ItaliaOggi di Marco Borsa e Livio Sposito dopo aver collaborato all'Ipsoa di Francesco Zuzic e Pietro Angeli. Segue la politica estera e l'economia internazionale con un occhio di riguardo per tutto ciò che è ad Est rispetto all'Italia: dalla Polonia alla Turchia, dall'Austria alla Grecia fino ad arrivare all'Iran. È stato Media Leader del World Economic Forum.

Dal Muro di Berlino a Martin Luther King, Zelensky accarezza i miti dell’Occidente. Putin considera il presidente dell'Ucraina poco più che una marionetta nelle mani di Washington e Londra, un Cavallo di Troia della Nato. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 18 marzo 2022.

A Wenstminster ha citato William Shakespeare e Winston Churchill, al Congresso americano Martin Luther King e i ritratti dei presidenti scolpiti sul monte Rushmore, al Bundestag il Muro di Berlino. E tutti giù a spellarsi le mani, coi lucciconi agli occhi, come fossero davanti a un profeta o a un martire designato.

La nuda vita che entra nei Parlamenti occidentali a spazzare il torpore di protocolli e parlottii ha il volto segnato di Volodymyr Zelensky, il presidente- comico in tuta mimetica, l’eroe per caso, il leader di un Paese da venti giorni sotto l’assedio delle bombe. E che fino al mese scorso veniva guardato con la sufficienza che si riserva ai personaggi da avanspettacolo, anche da molti suoi concittadini che mai si sarebbero aspettati la metamorfosi del guitto che diventa resistente, pronto a morire per e con il suo popolo, custode della tormentata identità ucraina. Zelensky. il clown inciampato nella Storia è un ex attore di grandi qualità, e le citazioni che hanno fatto vibrare i deputati britannici, americani e tedeschi probabilmente sono parte di una sceneggiatura studiata, di un copione scritto per toccare le corde giuste, evocare con più efficacia valori contigui e condivisi per ottenere solidarietà e aiuti concreti. Ha parlato di democrazia e di liberalismo nei santuari dove questi princìpi sono nati, lo ha fatto con gravità e talento.

Purtroppo non è una recita o una performance furbesca. I canoni farlocchi da social network con cui ogni giorno viviamo la nostra politica, la doppiezza comunicativa a cui siamo abituati, la pedanteria piccolo borghese con la quale, con le terga al caldo, giudichiamo situazioni lontane vanno a farsi benedire davanti allo sconquasso della guerra.

Che Zelensky si è ritrovato in casa da capo di una nazione e che lo ha costretto a interpretare il ruolo più impegnativo della sua vita, se stesso. Negli applausi che ha ricevuto a fiumi durante i suoi interventi c’è senz’altro commozione sincera ma anche un forte senso di impotenza e inadeguatezza: Europa e Stati Uniti sanno bene che il conflitto potrebbe divampare oltre la vecchia cortina di ferro con un pauroso effetto a catena, che potremmo scivolare verso una guerra totale tra l’Occidente e la Russia. Come sanno che la concessione di una no fly zone sui cieli ucraini ci avvicinerebbe a questo scenario terrificante. Vladimir Putin, che non si fa problemi a flirtare con l’apocalisse, ha molto più carte da giocare e decisamente meno da perdere di tutti gli altri attori in campo: è lui che detta i tempi della guerra e della diplomazia, è lui che deciderà quando ( e se) mettere fine all’invasione dell’Ucraina. Da vincitore.

Non ha mai voluto incontrare Zelensky perché lo considera poco più che una marionetta nelle mani di Washington e Londra, un Cavallo di Troia della Nato. un «drogato neonazista». E lo vuole umiliare e annientare militarmente per inviare un messaggio mafioso ai suoi antagonisti globali: guardate cosa accade ai vostri protetti.

Ecco perché questa guerra locale dal respiro globale fa paura a tutti e perché la difesa della “trincea” ucraina è così importante per i governi occidentali. Il problema è che Zelensky è costretto a farlo da solo, per non far saltare in aria gli equilibri planetari, per non innescare la miccia della terza guerra mondiale, mettendo in conto la possibilità di venire eliminato in qualsiasi momento. E ti credo che i dirigenti politici europei e statunitensi stanno lì ad applaudirlo, il lavoro sporco tocca a lui, al suo esercito e a tutti gli ucraini che non vogliono accettare la resa e che si riconoscono nel presidente- commediante che si è ritrovato a vivere una tragedia.

La guerra dei media: creativi e vecchi amici sono le armi di Zelensky. Fabio Tonacci La Repubblica il 17 Marzo 2022.

Dietro alla comunicazione del presidente autori e manager dello spettacolo. I discorsi sono scritti dallo sceneggiatore della serie tv satirica che lo ha reso famoso.

Da quando è iniziata la guerra, Volodymyr Zelensky non ha detto una sola parola fuori posto. Le ha messe tutte sapientemente vicino al cuore di chi lo ascolta. Si è rivolto ai deputati e ai senatori americani spiegando che per l'Ucraina "ogni giorno è l'11 settembre", davanti a quelli inglesi ha citato Churchill, col Bundestag ha evocato "il nuovo muro di Berlino innalzato da Putin".

Annalisa Girardi per fanpage.it il 17 marzo 2022.

Sono parole dure quelle che Volodymyr Zelensky ha pronunciato in videocollegamento al Bundestag, il parlamento tedesco, questa mattina. Il presidente ucraino è stato accolto con un lungo applauso e una standing ovation dai parlamentari tedeschi, a cui si è poi rivolto lanciando un sentito appello alla Germania affinché faccia di più per sostenere il suo Paese nella resistenza contro l'invasione russa. 

E, citando la storia della capitale tedesca nel secondo dopoguerra, ha chiesto di abbattere il "nuovo muro" che si starebbe tentando di costruire e che non è "il muro di Berlino". 

Non sono mancate le critiche all'Unione europea, già accusata nei giorni scorsi di non essere abbastanza dura nelle sue misure contro Vladimir Putin: "Abbiamo sempre detto che Nord Stream 2 fosse un'arma e abbiamo sentito rispondere che fosse economia, economia, economia… Abbiamo percepito resistenza, percepiamo che volete economia, economia, economia...", ha detto Zelensky.

Per poi aggiungere: "Anche adesso esitate sull'ingresso dell'Ucraina nell'Europa. È un'altra pietra per il muro. Quello che stiamo facendo è un tentativo di difesa estrema, perché tutto viene colpito e distrutto, asili, scuole, ospedali. 

Anche i convogli umanitari non riescono a lasciare le città. Si tenta di costruire un muro, ma vogliamo vedere oltre questo muro. Quel ponte aereo che c'era allora con Berlino, non potremmo crearlo anche con il nostro Paese? A nome dei vecchi ucraini che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale, vorrei chiedervi, pensate a quello che è successo".

Insomma, Zelesnky chiede aiuti più concreti al suo Paese e accusa l'Europa di innalzare un muro tra sé stessa e l'Ucraina. "Questo muro è più forte, con ogni bomba che cade in Ucraina, con ogni decisione che non viene presa nonostante il fatto che voi potreste aiutarci". 

Quindi, richiamando una famosa citazione di Ronald Reagan alla fine della Guerra Fredda, l'appello diretto al Cancelliere Olaf Scholz: "Cancelliere Scholz, butti giù questo muro. Mostri la leadership che la Germania merita, e i suoi successori saranno solo orgogliosi di lei. Sostenga gli ucraini e ci aiuti a fermare questa guerra". 

La vicepresidente del Bundestag, Katrin Goering-Eckardt, aprendo la seduta di oggi ha assicurato: "Il mondo è con l'Ucraina, e la Germania è al vostro fianco. Putin con la sua guerra ha attaccato anche il nostro ordinamento della pace, presidente Zelensky, noi vi vediamo. Il vostro Paese ha scelto la democrazia. E di questo ha paura Putin".

Alberto Simoni per “La Stampa” il 17 marzo 2022.

Sul maxischermo nella sala che al Congresso ospita senatori e deputati americani, qualche minuto dopo le 9 compare la sagoma di Volodimyr Zelensky. Indossa la maglietta color verde-militare diventata il simbolo della resistenza ucraina dinanzi all'aggressione russa e ha la barba lunga. In seconda fila, seduta dietro Nancy Pelosi, c'è l'ambasciatrice ucraina a Washington, Oksana Markharova. Sono per lei i primi applausi. Poi cala il silenzio. 

Come il 26 dicembre del 1941 toccò a Winston Churchill saggiare la tempra degli americani, il 16 marzo del 2022 è Zelensky a ricordare agli Stati Uniti il loro ruolo nel mondo. La battaglia che Kiev conduce è quella della difesa dei valori, per la libertà e la democrazia. L'Ucraina è la prima linea, ma «gli attacchi brutali della Russia sono contro i valori di tutti noi».

Il presidente nel bunker di Kiev fa un discorso di guerra, non indica negoziati, vie per la pace e tocca le corde dell'identità americana: i volti dei presidenti iconici americani scolpiti sul Monte Rushmore, i fondamenti della democrazia americana, adatta "il sogno" di Martin Luther King alla chiusura dei cieli, ricorda Pearl Harbor e l'11 settembre, il dramma che ha unito il Paese. 

«Abbiamo bisogno di voi, subito», dice con voce ferma. Sa che c'è un pubblico oltre il Congresso e Zelensky si rivolge agli americani quando dice che la morte arriva dal cielo, con le bombe e che l'Ucraina «vive da 20 giorni un 11 settembre».

Poi parla direttamente a Biden esprimendosi in inglese negli ultimi minuti di un intervento tanto breve, 15 minuti, quanto incisivo: «Presidente, lei è il leader del mondo libero, questo significa essere il leader della pace». Mano sul cuore, standing ovation e occhi lucidi di diversi deputati. Non è solo quello che Zelensky chiede a smuovere Capitol Hill, è il come: con una precisione chirurgica ficca nella mente di tutti quel che sta succedendo. Il video che introduce lui stesso è una metafora della discesa agli inferi, i sorrisi dei bimbi in braccio ai papà si tramutano poi in corpi mutilati, smarrimento e devastazione. Il video si chiude con un perentorio: «Chiudete i cieli».

«I russi hanno lanciato mille missili sulle nostre città, che senso ha la vita se non posso fermare la morte di oltre cento bambini», dice Zelensky che dice di «non aver mai pensato nemmeno per un secondo di arrendersi». La richiesta di reagire ne è la conseguenza naturale, perché è in questi giorni che «si decide il nostro destino». 

La diplomazia vaga in cerca di soluzione, i russi avanzano le condizioni in 15 punti, Jake Sullivan consigliere per la Sicurezza nazionale Usa per la prima volta riesce a parlare con Nikolay Patrushev, omologo russo e gli ricorda che se Mosca fosse seria sui negoziati «smetterebbe di attaccare le città ucraine». Quindi il monito sulle «gravi conseguenze» in caso di utilizzo di armi chimiche o nucleari. Servono nuovi strumenti, dice il presidente ucraino per fronteggiare Putin.

«Non volete fare le no fly zone?», chiede retoricamente. «Bene esploriamo vie alternative: sapete quanto siano cruciali gli aerei per difenderci, li avete già, ma sono fermi a terra». E poi chiede di potenziare la difesa anti-aerea, sanzioni per tutti i politici russi e un invito alle aziende americane a lasciare subito la Russia, sbaraccare per «non lasciare che nemmeno un penny finanzi la guerra di Putin».

Infine, lancia anche una proposta inedita, un'associazione di Paesi "U24" pronti ad agire in poche ore per contrastare le minacce militari. Biden ha definito l'intervento di Zelensky «appassionato e convincente», e ha commentato la brutalità dell'azione russa definendo Putin un «criminale di guerra». La linea dell'intervento Usa si sposta allora un po' più avanti senza sfiorare le no fly zone. Prima che Biden parli, dal vertice dei ministri della Difesa Nato a Bruxelles giunge la netta opposizione alla no-fly zone.

E anche l'idea polacca di una «missione di pace della Nato protetta da forze armate» per garantire l'arrivo degli aiuti umanitari in Ucraina non è percorribile. Ma esiste una zona grigia che l'America non ha finora esplorato. La replica di Biden a Zelensky è precisa ed è un passo in avanti nel sostegno militare agli ucraini. Il presidente Usa con al fianco i vertici della Difesa e il segretario di Stato Blinken, firma l'autorizzazione all'impiego di 800 milioni di dollari per la sicurezza, in totale sono 2 miliardi in un anno.

Agli ucraini andranno 9mila sistemi anti mezzi corazzati, armi di medio calibro e munizioni, lanciagranate, 2mila Javelin, 800 Stinger. Ma soprattutto 100 droni con compiti di ricognizione degli obiettivi e sistemi avanzati per la difesa aerea sul modello degli S-300 che consentiranno a Kiev di contendere ancora i cieli ai russi. «L'America sta con le forze della libertà» chiude il presidente. E le arma un po' di più. 

LA CENSURA.

Antonio Giangrande: LA DITTATURA DELLA CENSURA.

Gli Stati Uniti impongono la loro economia, le loro regole e la loro cultura. Tenuto conto che negli Stati Uniti la fazione LGBTI detta i comportamenti a loro congeniali, il cui contrasto lede il politicamente corretto, i pappagalli europei emulano e scimmiottano tali scelte di vita, facendoli passare per normali.

Non fa più scandalo, anzi è politicamente corretto adottare ogni comportamento deviante, ma fatto passare per normale e progressista, adottato nelle trame dei film.

Coppie gay o multietniche o relazioni poliamorose non devono mancare nelle serie televisive americane, affinchè la cultura LGBTI statunitense prenda largo oltreoceano.

Ecco perché in Italia ci sono polemiche ideologiche sulla fiera dell’ovvietà.

Ci sono cose che tutti pensano, ma che sono vietate dire.

A Crotone i giovani della Lega pubblicano un manifesto per l’8 marzo in onore della donna.

Una manifestazione di stima per la donna ed una denuncia contro i comunisti ipocriti.

I sinistri, sentendosi toccati, hanno reagito, facendo una questione di Stato. Qualcuno, addirittura, facendone questione territoriale retrograda. Sì, ma le offese ai meridionali, per i sinistri non contano.

Anche il buon Salvini, da buon comunista, ha rinnegato l’ovvietà.

Tutti rinnegano le loro idee. I comunisti, invece, rimangono sempre fedeli alla loro ideologia di potere: usando ed abusando di tutte le minoranze, assoggettandole e strumentalizzandole ai loro fini.

Quasi la totalità dei media si è parata contro il manifesto, del quale ognuno ha dato una sua personalissima interpretazione femministica, senza, peraltro, quasi nessuno di loro, aver pubblicato pari pari il volantino stesso.

Antonio Giangrande: I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. Alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

Un’ucraina in Italia. Ma com’è possibile che gli ascolti tv valgano più delle vite umane? Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta il 14 Ottobre 2022.

Tra il 2015 e il 2022 raccontare l’aggressione imperialista russa è stato difficilissimo, ma dal 24 febbraio c’è chiaramente un invaso e un invasore. Eppure in tv spopolano ancora personaggi cinici applauditi dai troll russi 

Vivo in Italia dal 2015. Tra il 2015 e il 2022 è stato molto difficile raccontare che cosa stava succedendo in Ucraina, quella verità che purtroppo tanti hanno imparato in fretta la mattina del 24 febbraio.

La Crimea era stata illegalmente annessa dalla Russia. Nel Donbas non c’era una guerra civile tra ucraini e separatisti. C’è stata un’invasione dell’esercito russo entrato in Ucraina senza la divisa ufficiale, ma con un accento ben distinguibile dal russo che si parla in Donbas. Già allora gli ucraini avevano ragione.

Siamo stati bombardati a tappeto dal 24 febbraio 2022 in tutto il territorio, ma avevamo ragione dal 2014, quando si parlava di conflitto militare a bassa intensità, quando i giornalisti della Rai di base a Mosca visitavano le trincee scavate dai russi intervistando i russi spacciati per separatisti.

Finalmente – ma a che prezzo! – non c’è più bisogno di spiegare, di argomentare, di raccontare.

Le cose sono finalmente chiare, senza andare a studiare la storia degli ultimi 300 anni dei rapporti tra l’Impero russo e i territori ucraini, tra la Repubblica socialista sovietica russa e Repubblica socialista sovietica ucraina e dal 1991 in poi tra Russia e Ucraina.

C’è un Paese che formalmente invade l’altro Paese, con tanto di annuncio e ghigno del dittatore che ordina di bombardare, uccidere, derubare, stuprare perché lo stupro è il metodo dell’esercito russo e i frigoriferi sono il loro bottino migliore. Il paese aggredito vuole respingere il nemico fuori dai suoi confini, vuole liberare i territori occupati, perché in quei territori ci sono gli ucraini che non sono riusciti ad evacuare e aspettano a Kherson e nelle zone di Zaporizhzhia che arrivino i loro.

La guerra la fa la Russia, l’Ucraina fa la resistenza. Le cose sono chiare, eppure dopo otto mesi di resistenza al nemico, dopo le fosse comuni, dopo le città rase al suolo, le vite spezzate, le persone care morte, gli ucraini si trovano di nuovo a giustificarsi  perché il presidente Zelensky non vuole più trattare con il criminale Putin.

Giustificarsi perché sono morti, perché sono stati uccisi, perché hanno disturbato il quieto vivere di tanti personaggi filorussi con l’abbonamento sulle poltrone degli studi dei talk show serali italiani, che ogni volta devono inventare, se non seguire le direttive scritte da Mosca, su come mettere gli ucraini in cattiva luce. E ci riescono, perché lo spazio televisivo per loro c’è sempre, quindi c’è la richiesta?

Non tutti gli italiani sono così e sono d’accordo, perché dal 24 febbraio ho conosciuto le persone senza le quali difficilmente avrei superato questi otto mesi in Italia, ma ci sono anche quegli italiani, che sono nelle posizioni di decidere chi invitare e chi no ai loro talk show, guidati dalla voglia di dare spettacolo in studio (o non solo?), dalle condivisioni sui social, spesso anche di indignazione, ma sono pur sempre condivisioni e fanno numeri.

Quale numero di ascolti può contare di più delle vite umane? Quale spettacolo vale di più dello stato psicologico delle persone che da otto mesi cercano di resistere e di non arrendersi alla depressione, alla disperazione di vedere ogni giorno morire qualcuno che li sta difendendo? Quale interesse conta di più dei bambini con le bende alle braccia e alle gambe?

Lunedì è stato bombardato il centro della capitale Kyjiv, danneggiando la mia università. Quella mattina ho visto la mia mamma in videochiamata, chiusa dentro un bunker, e ho ricevuto un messaggio da mio padre che ha visto i missili volare dalla Bielorussia verso Kyjiv.

Ho ricevuto il messaggio di una mia quasi sorella dalla metro di Kyjiv, dove era corsa a rifugiarsi. Ho rivissuto il terrore del 24 febbraio, ma più temprata e più pronta ad affrontare la situazione. Dopo otto mesi di resistenza non pensavo, però, di rivivere ancora il terrore del dibattito pubblico italiano, dove sono ancora presenti i negazionisti delle fosse comuni e gli Orsini e i Di Battista vari applauditi dalla fabbrica dei troll dei russi.

A noi ucraini, le cose sono sempre state chiare, anche oggi seguendo le bizzarrie del dibattito pubblico proposto dai talk show italiani. No, cari impresari degli studi italiani, le cose non sono complicate, ambigue, sospette. No, le cose sono davvero molto semplici e chiare. E anche decidere da che parte stare è una decisione chiara e semplice. 

Notizie taciute o manipolate. In Italia il sistema informazione non è in crisi: ha l’elettroencefalogramma piatto. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Settembre 2022 

Sui grandi fatti che succedono in Italia e nel mondo, le informazioni che ci vengono dai giornali sono scarse e perlopiù manipolate. Questo è dovuto, soprattutto in Italia, alla caduta verticale della professionalità nel giornalismo, a tutti i suoi livelli. I giornalisti negli ultimi vent’anni hanno perduto la loro indipendenza e le ideologie sono state sostituite da grandi sistemi di potere che sono in grado di controllare in modo minuzioso e profondo il flusso delle notizie e di realizzare la loro faziosa correzione. I giornalisti che non accettano la nuova legge sono messi ai margini. Comunque esclusi dalla macchina, che deve essere perfetta e oliata. È un problema grandissimo, ed è probabilmente il nodo essenziale nella vicenda della democrazia. Vorrei ragionare un momento su cinque fatti recenti. Il vertice di Samarcanda, l’avvertimento di ieri di Berlusconi a Salvini e Meloni, il discorso del papa sulla guerra, i lunghissimi funerali della regina d’Inghilterra, le sanzioni alla Russia.

1) Partiamo da Samarcanda. Cioè dalla riunione di un gruppo di paesi radunati attorno a Russia e Cina, che stabiliscono tra loro una alleanza e una collaborazione sul piano economico e strategico. Non è una riunione tra amici. Chi vi partecipa rappresenta circa il 50 per cento della popolazione mondiale. E ha una forte influenza politica ed economica su un altro 25 per cento della popolazione mondiale. Al gruppo di Samarcanda, che raduna una trentina di paesi, hanno chiesto di aderire un’altra ventina di paesi. L’alleanza parte dall’Asia ma sta per allargarsi a vari altri continenti. Bene, i giornali non vi parlano di questo. Non vi dicono cosa è successo a Samarcanda. Non vi spiegano che oggi esistono due forti blocchi nel mondo, uno molto largo, questo di Samarcanda, e uno più piccolino, quello che si è stretto attorno a Washington (e del quale fa parte l’Italia) che rappresenta circa un miliardo di persone, cioè, più o meno, il 15 per cento della popolazione mondiale. Cosa dicono i giornali? Che Putin è stato umiliato. Stop. L’ordine di scuderia, come sempre, lo dà il “Corriere”, che ormai è diventato una specie di “Stato Guida”.

Nella sua edizione online lancia la parola d’ordine: umiliato. Perché? Perché la Cina non ha dichiarato guerra all’Ucraina. Ma era questo il tema di Samarcanda? No. Non era neppure all’ordine del giorno l’Ucraina. E qualcuno mai aveva detto che la Cina potesse intervenire militarmente in Ucraina? No, mai. Nessuno. E allora? E allora è così. La scelta è quella che in politica internazionale due cose sono importanti. La prima è far credere che il mondo sia l’occidente, solo l’Occidente, nient’altro che l’Occidente. Intendendo per Occidente gli Usa, che comandano, il Giappone, che sta ai margini, e poi il Canada, l’Australia e l’Europa, che abbozzano. La seconda cosa importante è che Putin è il male assoluto, e che perde, perde, e perde. Non è ammessa nessun’altra lettura dei fatti del mondo. Nessuna domanda. In fila, amici giornalisti, passo, cadenza e silenzio.

2) L’altra mattina i partiti di Salvini e Meloni si sono dissociati, nel Parlamento europeo, dai partiti europeisti e hanno votato a difesa di Viktor Orban, il leader ungherese che l’Europa vuole condannare ed escludere perché il suo regime non è considerato democratico. Alle sette di sera una replica clamorosa di Berlusconi: se il nuovo governo non sarà europeista Forza Italia non ne farà parte. Terremoto nella destra. Rischio evidente di rottura. Colpo di scena clamoroso nella campagna elettorale e nello scenario politico. Di gran lunga la più importante notizia politica degli ultimi due mesi. Bene, la notizia è scelta come prima notizia solo da cinque giornali, (tutti gli altri la ignorano, o la mettono piccolina piccolina, con lo stesso rilievo di una intervista a Speranza), ma di questi cinque giornali, ben quattro, la titolano in modo che non si capisca.

Ricopio i titoli: Corriere: “Sfida su Orban e i soldi russi”. Di chi, tra chi, perché? boh. La Stampa: “ “Meloni e Salvini con Orban. Vergogna”. Chi dice questa frase? Letta. La Verità: “ La Ue noce alla democrazia”. Il manifesto: “L’Europarlamento condanna Orban”. L’unico giornale che spiega cosa è successo, stavolta, è Repubblica: “La destra si spacca su Orban”. Perché? Come si spiega questo annebbiamento generale? Io ho l’impressione che si debba a un fatto molto semplice: mancanza di ordini. La notizia di Berlusconi che minacciava di rompere con gli alleati è arrivata a sera ed era imprevista. Di norma le notizie impreviste sono il pane per i giornalisti. Creano un clima di eccitazione nelle redazioni. Ammenoché… Ecco, ammenoché l’ordine non sia quello di stare sempre coperti. Mi ricordo che trent’anni fa all’Unità noi giovani ci impegnammo in una battaglia feroce. Che vincemmo. Battaglia per rompere lo schema di chi voleva piegare le notizie alla linea del partito. Del Pci. E dunque essere prudenti, traccheggiare. Mi ricordo che quando arrivò la notizia, alle sette di sera, che stava cadendo il muro di Berlino – io ero il caporedattore – molti vecchi giornalisti vennero da me a pregarmi di dare la notizia con sobrietà, titolo piccolo e notizie vaghe. Mi dissero: poi domani ci torniamo dopo aver sentito il partito. Non gli diedi retta e titolai a tutta pagina, come era ovvio, a caratteri cubitali: “È caduto il muro di Berlino” . Siamo tornati all’ordine di idee di quei vecchi giornalisti. Pudenza. Se ci abbiamo messo qualche mese per diventare meloniani e preparaci al nuovo potere – dicono – non sarà certo una notizia della sera a far saltare tutto.

3) Il papa l’altra sera ha parlato di molte cose. E, come è sua abitudine, si è pronunciato di nuovo contro la guerra e ha chiesto iniziative di pace. A chi gli ha chiesto se però gli ucraini avessero il diritto alla difesa, ha risposto – come è ovvio – di sì. E quello è diventato il titolo di tutti i giornali. “Il papa dice sì alla linea di armare gli ucraini”. È una forzatura giornalistica? No, è il rovesciamento del pensiero del papa. Per quale ragione? Perché sulla questione della guerra in Ucraina, e della nuova guerra fredda tra Usa e Urss, la stampa italiana è militarizzata. Chi trasgredisce, una settimana di consegna.

4) Il mondo intero – scrivono tutti – celebra reverente la regina. Il mondo intero? Beh, diciamo una parte dell’Occidente. Nei restanti quattro quinti del mondo, della regina non frega niente a nessuno. Ma ormai è così: il mondo è occidente, il resto non conta. Sai come dicevano gli inglesi, una volta? “Burrasca sulla Manica, l’Europa è isolata”. Beh, siamo a quel punto.

5) Le sanzioni. Le sanzioni alla Russia le ha decise l’America. L’Europa ha obbedito. Le sanzioni sicuramente colpiscono la Russia ma, probabilmente, in grado minore rispetto al danno che provocano in Europa. E possono portare alla crisi economica e sociale più grave nella storia europea dopo quelle delle due guerre mondiali. Chi ci guadagna, dalle sanzioni? Gli Stati Uniti, sicuramente, e alcuni singoli stati europei, per esempio la Norvegia, che fa i miliardi con i prezzi dell’energia. Io dico semplicemente che il sistema informazione, in Italia, non è in crisi: ha l’elettroencefalogramma piatto. Il problema non sono le fake news. È il regime giornalistico. E in queste condizioni è molto difficile, molto, molto difficile, far funzionare la democrazia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Dal “Fatto quotidiano” il 4 maggio 2022.

L'Italia perde 17 posizioni nella classifica internazionale sulla libertà di stampa e scende dal 41° al 58° posto. Il rapporto pubblicato da Reporter Sans Frontierè ancora una volta inclemente verso lo stato dell'informazione italiana. Ai primi tre posti, infatti, figurano tre stati scandinavi: la Norvegia, la Danimarca e la Svezia. 

 Alla Germania va il 16° posto mentre la Francia guadagna ben otto posizioni, al 26° rango. Male gli Stati Uniti che scendono alla posizione 42. Il Giappone si trova al 71° posto, l'Algeria al 134° e in fondo all'Index ci sono Iran, Eritrea e all'ultimo posto Corea del Nord. La Russia, osservata speciale dall'inizio dall'invasione dell'Ucraina lo scorso 24 febbraio, si attesta al 155° posto, in calo di cinque posizioni.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 4 maggio 2022.  

Anche quest' anno, come ogni anno, è arrivata la classifica di Reporter Sans Frontières sulla libertà di stampa, e come ogni anno, o quasi, l'Italia tracolla. Stavolta scende dal quarantunesimo al cinquantottesimo posto e, come ogni anno, anche quest' anno non possiamo negarci la soddisfazione di elencare paesi esotici messi meglio di noi: Belize, Samoa, Tonga Raggiungo la certezza che la posizione è meritata solamente quando leggo della classifica sui nostri giornali.

Di solito ci si scorda di sottolineare l'influenza funesta sul nostro rendimento dello sproposito di querele di cui siamo destinatari, da politici e magistrati, e dalla bestialità del carcere previsto per chi diffama, probabilmente già abolito anche in Belize, Samoa e Tonga. C'è stato un tempo nel quale Beppe Grillo (e non solo lui, a dirla tutta) ci sventolava la classifica sotto al naso per mostrarci quanto eravamo servi e cadaveri eccetera, finché non gli si fece notare che quell'anno eravamo retrocessi proprio per lui, le sue insolenze e le sue liste dei cattivi.

E però se un giornalista si sente meno libero perché Grillo gli dà del cadavere, c'è qualcosa che non va nel giornalista, e forse pure nella classifica. Quest' anno, infatti, saremmo imbavagliati, pare, dalle minacce sui social, cioè roba per cui uno scrive crepa, e il giornalista risponde che non si lascerà intimidire perché ha la schiena dritta. Talvolta, più che la classifica della libertà di stampa, sarebbe interessante stilare la classifica della libertà di cazzonaggine (chiedo scusa per il termine, ma non ne trovo uno più adeguato). Allora sì, la scaleremmo sino alla vetta.

L'ultima voce libera andata: Novaya Gazeta bandita in Russia. TheWorldNews il 5 settembre 2022. 

L'anno scorso, quando uno strano numero è apparso sul suo cellulare, il direttore Dmitry Muratov ha detto Novaya Gazeta, l'unico quotidiano indipendente russo, non ha risposto. "Stavo pensando a una telefonata di disturbo", ha poi spiegato, non credendo che il numero fosse dell'Accademia svedese, che gli assegna il premio Nobel. Muratov gli ha dato una per la pace con la sua collega Maria Ressa per i loro sforzi in difesa della libertà di espressione. un prerequisito per la pace Dedicato a sei giornalisti, tra cui Anna Politkovskaya, assassinati dal 1993 ad oggi. La medaglia Nobel è stata poi venduta a un'asta di beneficenza per 103,5 milioni di dollari per aiutare i bambini rifugiati in Ucraina.

Ma il premio Nobel da solo non bastava: Il 5 settembre un tribunale di Mosca si è pronunciato su ciò che l'ex giornalista della Pravda Muratov ha definito "politico." , ha revocato la licenza di stampa. Sostenuto e finanziato da Mikhail Gorbaciov, morto la scorsa settimana, il giornale, che raccontava la storia della guerra in Cecenia e della scuola di Beslan, parlava di corruzione, la condannava ed esprimeva "dolore e vergogna" nei suoi articoli. . Le conseguenze dell'invasione russa non possono più essere stampate o vendute all'interno del territorio russo. Sta aspettando di vedere se il giornale sarà bandito anche da Internet. 

Comunque una scelta non così sorprendente: il 28 marzo, Novaya Gazeta aveva già annunciato la sua pubblicazione in Russia a seguito delle accuse di Roskomnadzor. Parte della redazione si era trasferita in Lettonia, ma da allora è uscita di nuovo. 

Nel suo editoriale onlineMuratov titolava: «Tentativo di omicidio di Novaya Gazeta». E scrisse: Hanno rubato 30 anni di vita ai loro dipendenti. Priva il lettore del diritto di ricevere informazioni. Ma non è tutto. Oggi i nostri colleghi sono già stati assassinati da questo Paese per adempiere ai loro obblighi professionali.Igor Domnikov, Yuri Shchechechkin, Anna Politkovskaya, Stanislav Markelov, Anastasia Baburova, Natalia Estemirova, Orhan Cemal. 

Ma Novaya Gazeta lo è ancora e lo sarà sempre.

Senza questo potere, senza questi giudici, senza questi impiegati. Uno spirito libero soffia dove vuole».

Gorbaciov, l'omaggio di Novaya Gazeta, il giornale che contribuì a fondare. Vita.it 01 settembre 2022

Novaya Gazeta, il giornale che contribuì a fondare, pubblica un video ricordo di Gorbaciov. In sottofondo l’ultimo leader sovietico canta una delle sue canzoni preferite: “C’è solo un momento tra passato e futuro, proprio questo è ciò che si chiama vita”.

Un articolo di Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta, pubblicato oggi da “La Stampa” di cui vi riproponiamo qualche passaggio.

Gorbaciov disprezzava la guerra. Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta.

Lui disprezzava la guerra. Lui disprezzava la real politik. Era convinto che il tempo in cui l'ordine mondiale poteva venire dettato dalla forza fosse finito. Credeva nelle scelte dei popoli. Aveva liberato i detenuti politici. Aveva fermato la guerra in Afghanistan e la corsa al riarmo nucleare.

Mi aveva raccontato di essersi rifiutato di schiacciare il bottone dell'attacco atomico perfino durante le esercitazioni! Aveva visto i filmati dei test nucleari nei quali il fuoco divorava tutto, case, mucche, pecore, uguali alle pecore della sua Stavropol, delle quali andava tanto fiero. Aveva amato una donna più del suo lavoro. Penso che non avrebbe mai potuto abbracciarla con mani sporche di sangue. Lui non considerava l'omicidio un atto nobile. Aveva dato al comunismo un addio senza sangue. I nostalgici dell'impero continuavano a rimproverargli di aver "dato via" la Germania, la Cechia, la Polonia. Lui replicava con inimitabile sarcasmo: «A chi li avrei dati? La Germania ai tedeschi. La Polonia ai polacchi, la Cechia a cechi. A chi altri avrei dovuto darle?». Qualche anno più tardi, durante una discussione per la Novaya Gazeta sulle nuove dittature, mi disse all'improvviso: «Scrivitelo, così ce lo ricordiamo: un dittatore deve avere una regola, quella di tenere sempre in un aeroporto segreto un aereo con il serbatoio pieno». Il suo humour nero era sempre molto indovinato. Un giorno, un paio d'anni fa, scrisse una relazione molto importante per le Nazioni Unite, che decise di leggerci a una tavolata tra amici. Quando avevamo già sollevato i bicchieri per un brindisi, aveva tirato fuori dalla cartella uno spesso pacco di fogli. Noi ci eravamo preparati educatamente ad ascoltare ma la prima pagina recava una sola frase: «Proibire la guerra»! «Tutto qui?», chiedemmo. «E cos' altro bisognerebbe dire?» ci rispose, e ci permise di iniziare a bere. Tra la pace e l'esplosione nucleare non si interpone più un uomo di nome Gorby. Chi potrà sostituirlo? Chi? Ricordiamocelo sempre: ha amato una donna più del lavoro, ha posto i diritti umani sopra lo Stato, ha preferito un cielo di pace al potere personale. Ho sentito dire che è riuscito a cambiare il mondo, ma non il proprio Paese. Può darsi. Ma lui ha fatto, al suo Paese e al mondo, un regalo incredibile. Ci ha regalato trent' anni di pace. Trent' anni senza la minaccia di una guerra globale e nucleare. Chi altri ne sarebbe stato capace? C'è un ma. Il regalo è finito. Il regalo non c'è più. E nessuno ci regalerà più nulla.*

Questo articolo è stato pubblicato da La Stampa il 1 settembre 2022.

Russia, a morte la libertà di stampa: 22 anni di carcere per il giornalista Ivan Safronov e revocata la licenza a Novaja Gazeta. Rosalba Castelletti su la Repubblica il 5 settembre 2022.

Ex corrispondente di Kommersant e Vedomosti giudicato colpevole di "tradimento" sulla base di accuse mai provate. "Vogliono che tutti abbiano paura". Il giornale fondato da Gorbaciov e diretto da Muratov costretto a chiudere: "Hanno ucciso Politkovskaja due volte"

Quanti chiodi si possono mettere su una bara? Quante volte si può recitare un requiem o scrivere un necrologio? Oggi un'altra pietra tombale è stata messa sulla libertà di stampa in Russia. Una morte già annunciata più volte, ma la magistratura russa ha deciso di spostare il limite della repressione e della censura ancora più in là. Un giornalista, Ivan Safronov, è stato condannato a 22 anni di carcere sulla base di accuse inesistenti e un giornale, la Novaja Gazeta, il giornale fondato da un Nobel (l'ex leader sovietico appena scomparso Mikhail Gorbaciov) e diretto da un Nobel (Dmitrij Muratov), il giornale di Anna Politkovskaja e di altri cinque giornalisti uccisi per le loro inchieste scomode, ha perso per sempre la licenza.

"Oggi hanno ucciso il giornale. Hanno rubato 30 anni della loro vita ai suoi dipendenti. Hanno privato i lettori del diritto a essere informati", ha denunciato la redazione di Novaja Gazeta in un comunicato. "Ma non solo. Oggi i nostri colleghi che sono già stati uccisi dallo Stato per aver fatto il loro dovere professionale - Igor Domnikov, Jurij Shchekochikhin, Anna Politkovskaja, Stanislav Markelov, Anastasia Baburova, Natalia Estemirova, Orkhan Dzhemal - sono stati uccisi di nuovo". Ma con la condanna a 22 anni di Sofranov sono stati uccisi anche il diritto alla libertà di stampa e a un processo equo.

La condanna di Safronov: 22 anni di carcere

Al tribunale della città di Mosca succede tutto rapidamente. Insolitamente rapidamente per la giustizia russa. Safronov viene giudicato colpevole di "tradimento" e condannato a 22 anni di carcere "sotto regime severo". Processo chiuso. Il trentaduenne ascolta la sentenza da dietro la gabbia di vetro riservata agli imputati, in tuta, le mani ammanettate. Qualcuno urla "Svoboda", qualcuno applaude. Ma non c'è tempo per reazioni scomposte. Solo per un bacio da dietro al vetro alla fidanzata Ksenia e per urlare ai colleghi e ai sostenitori ammessi in aula soltanto per la sentenza: "Scriverò a tutti. Scrivetemi. Vi amo". Un appello che dice già tutto della solitudine della prigionia.

Ventidue anni sono due terzi della sua vita. Sono quasi l'età della sua fidanzata, Ksenia Mironova. Sono il triplo della pena prevista in Russia per un omicidio. Ma qualsiasi termine, persino un anno, sarebbe stato troppo per un innocente. È un monito, commenta fuori dall'aula l'attivista per i diritti dei detenuti Marina Litvinovich, "perché tutti abbiano paura".

Non ne dubita nessuno. "La ragione per cui Ivan Safronov è stato perseguito non è il 'tradimento', che non è stato provato, ma il suo lavoro di giornalista", hanno scritto varie testate russe - tra cui Meduza, Tv Dozhd, Novaja Gazeta Europa e The Moscow Times - in un comunicato diffuso in mattinata chiedendo il rilascio di Safronov.

"La colpevolezza non è mai stata provata in nessun modo", commenta il capo del partito Jabloko Nikolaj Rybakov davanti al tribunale. Lo ribadisce anche l'avvocato Dmitrij Katchev: "Non riesco a definire questa condanna in altro modo che 'inappropriata'. Niente può resistuire l'assurdità a cui abbiamo assistito. Un giornalista è stato condannato a 22 anni semplicemente per aver fatto il suo lavoro. Fermatevi a pensarci!". Intanto i colleghi si abbracciano, si stringono attorno a Mironova e piangono.

Le "inesistenti" accuse contro Safronov

Ex corrispondente militare di Kommersant e Vedomosti, Safronov è stato arrestato nel luglio 2020 con l'accusa di aver venduto segreti di Stato all'estero. Un'accusa mai dimostrata nei due anni di processo a porte chiuse. Anzi, un'accusa "inesistente". Secondo una recente inchiesta del sito investigativo Proekt che è riuscito a procurarsi gli atti processuali, i documenti classificati venduti da Safronov non sarebbero altro che informazioni disponibili al pubblico. Sulle agenzie di stampa, sullo stesso sito web del Ministero della Difesa russo o su Wikipedia.

Il vero motivo dietro al processo, sostengono legali, colleghi e amici, è la vendetta. Safronov è stato punito per aver fatto il suo mestiere. Nel 2019 era stato licenziato da Kommersant dopo aver preannunciato possibili cambi di personale nel Consiglio della Federazione russa, la Camera alta del Parlamento russo. Un articolo che fece infuriare diversi funzionari pubblici russi e la stessa presidente del Consiglio, Valentina Matvienko. L'intera redazione politica di Kommersant si dimise per protesta, ma non riuscì a scongiurare l'uscita.

Safronov allora si unì alla redazione di Vedomosti, considerato all'epoca il principale quotidiano economico indipendente russo, ma fu costretto ad andarsene sei mesi dopo perché il giornale era finito nelle mani di nuovi proprietari vicini al governo. Finì per il lavorare presso l'agenzia spaziale russa, Roskosmos, come consulente per le comunicazioni dell'allora capo Dmitrij Rogozin.

Un incarico breve. Due mesi dopo, nel luglio 2020, fu arrestato e incarcerato nella famigerata prigione di Lefortovo gestito dal Servizio di sicurezza federale, l'Fsb, erede del Kgb. Primo caso di "tradimento" mosso contro un giornalista da quando Grigorij Pasko fu condannato nel 2001 a quattro anni di carcere per aver rivelato le violazioni ambientali della Marina russa.

Ad aver dato più fastidio, stando alla ricostruzioni di Bbc Russia, sarebbe stata un'inchiest di Safronov che rivelava le trattative per la vendita di nuovi caccia russi Su-35 all'Egitto e che aveva creato non pochi problemi ai ministeri della Difesa di entrambi i Paesi.

Anche il padre di Safronov, Ivan senior, era un corrispondente militare di Kommersant. Morì nel 2007 cadendo da una finestra, come capita a sempre più gente scomoda in Russia. Gli inquirenti liquidarono la morte come suicidio, ma qualcuno contestò la ricostruzione. Ivan Safronov senior stava lavorando a consegne d'armi russe a Iran e Siria.

La stretta alla libertà di stampa

Nei due anni in cui Safronov è stato in custodia cautelare, gli è stato impedito di vedere o chiamare i familiari. Gli è stato proposto di barattare una confessione con una telefonata alla madre, un'ammissione di colpevolezza con una pena dimezzata a 12 anni. Safronov si è sempre rifiutato rivendicando la sua innocenza.

"Vanja non era un uomo di lotta. Tuttavia il suo esempio ci dice che anche una persona normale è in grado di resistere. È stato un uomo eroico perché non ha voluto patteggiare con gli inquirenti, non ha ceduto alle pressioni e questo ha molto valore nei nostri tempi", commenta Litvinovich.

Anche gli avvocati di Safronov sono stati sottoposti a pressioni senza precedenti: sono stati incriminati, incarcerati o sono stati costretti all'esilio. Eppure non si danno per vinti. E invitano tutti a non farlo. "Nessuna metta un punto o la parola 'fine' a questo processo. Noi, legali della difesa, non lo metteremo per niente. Come prima cosa, presenteremo ricorso in appello. Combatteremo per l’abolizione della sentenza con tutti i mezzi possibili", commenta a fine processo l'avvocato Daniil Nikiforov.

La revoca della licenza a Novaja Gazeta

Da quanto Safronov è stato incarcerato, intanto, la maggior parte dei media indipendenti in Russia sono stati etichettati come "organizzazioni indesiderabili" o "agenti stranieri" e costretti a chiudere. La repressione è montata da quando il Cremlino ha lanciato la cosiddetta "operazione militare speciale" in Ucraina il 24 febbraio. Oltre 500 giornalisti sono stati costretti a lasciare il Paese. Decine di siti sono stati bloccati. La radio Ekho Moskvy, Eco di Mosca, è stata costretta a chiudere e tv Dozhd, tv Pioggia, a interrompere le trasmissioni.

Anche il giornale Novaja Gazeta aveva deciso di sospendere le pubblicazioni lo scorso marzo per timore di rappresaglie. Almeno finché sarebbe restata in vigore la cosiddetta "legge sulle fake news" che vieta di dare notizie sull'Ucraina diverse dalle veline del governo. O finché sarebbe proseguita l'offensiva in Ucraina. Parte della redazione si era spostata a Riga e aveva dato vita al progetto online in lingua russa e inglese Novaja Gazeta Europe. Una cautela che non è bastata.

Oggi il tribunale di Basmanny ha revocato la licenza. E domani toccherà alla rivista lanciata lo scorso luglio Novaja Rosskaja Gazeta. È la fine e cade a una settimana dalla morte dell'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov che ventinove anni fa contribuì a fondare il giornale. Politkovskaja è stata uccisa un'altra volta, hanno scritto i suoi colleghi. E anche la libertà di stampa è stata colpita ancora una volta a morte in Russia.

Russia, ecco il sondaggio sull'offensiva in Ucraina che il Cremlino non ha voluto divulgare. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

Il trenta per cento della popolazione russa chiede di porre fine all'operazione militare speciale "il prima possibile". Percentuale che tra i giovani sale al 46 per cento

La domanda era la seguente: “Alcune persone credono che l’attività militare russa in Ucraina dovrebbe essere terminata il prima possibile. Altri credono che non sia ancora il tempo di finirla. Con quale opinione concordi di più, la prima o la seconda?”. Il sondaggio commissionato a fine giugno dall’amministrazione presidenziale russa al Centro di ricerca dell’opinione pubblica russa (Vtsiom) non è mai stato diffuso al pubblico, ma è stato divulgato dal sito in lingua russa con base a Riga Meduza.

Putin, ecco come sorveglia la popolazione russa usando la tecnologia occidentale. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.

Internet? Non ti faccio vedere nulla, oppure controllo quello che puoi vedere, o addirittura creo una Rete parallela in modo che tu possa navigare solo lì. Nei Paesi democratici fortunatamente questo tipo di filtro non è applicabile, ma, come le inchieste di Dataroom continueranno a dimostrare e denunciare, troppo spesso i sistemi di controllo della Rete non riescono a contenere l’uso criminale del Dark Web: vendita di armi, droga, farmaci illegali, pedopornografia, furti di dati e pagamenti di riscatti in criptovaluta, ecc. Insomma il sistema Tor, che consente di navigare in incognito, trova ancora argini ridotti. Senza dimenticare che in nome della libertà di pensiero sul Web prolifera ogni genere di fake news e propaganda. Il paradosso è rappresentato dall’altra faccia della medaglia: i sistemi di controllo applicati dai regimi autoritari invece funzionano benissimo, ma vengono utilizzati per la repressione del dissenso. Vediamo quali sono i meccanismi che li governano e in che modo l’Occidente è complice. 

Oscuramento del Web

Il primo governo a bloccare la Rete è quello di Mubarak in Egitto. Nel gennaio 2011, dopo le manifestazioni di protesta in piazza Tahrir, l’allora presidente ordina il blackout e il Paese rimane per cinque giorni quasi completamente disconnesso. La strategia fallisce, ma dimostra come senza Rete sia molto più facile reprimere il dissenso. Il blackout più lungo lo mette in pratica il Pakistan nel 2016 e dura 4 anni e mezzo. Per stare agli esempi più recenti, nel luglio 2021 il governo di Cuba oscura la Rete per 176 ore in risposta alle manifestazioni di protesta per la mancanza di cibo e per la gestione del Covid. Sempre nel 2021, la democratica India chiude Internet ben 85 volte nella regione ribelle del Kashmir, confermandosi per il quarto anno consecutivo il Paese con più blackout digitali (106 complessivamente solo quell’anno tra cui la disconnessione di New Delhi per sedare le proteste dei contadini). La giunta militare del Myanmar da febbraio 2021 torna ad amministrare con il pugno duro l’ex Birmania e ordina ben 15 interruzioni: la più lunga dura quasi 2 mesi e mezzo. 

Access Now, associazione no profit che si batte per Internet aperto, documenta almeno 935 chiusure totali o parziali in più di 60 Paesi dal 2016. Se nel 2018 i Paesi che optano per il blackout sono 25, ora sono 34. Lo fanno scattare quando, a loro dire, sono in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. 

Filtraggio delle notizie

Per bloccare la Rete in intere regioni a Mosca c’è un centro di censura con uno staff di 70 persone guidato dall’ex ufficiale dei servizi segreti Sergey Khutortsev. Il sistema si basa su 30 server forniti dalla cinese Lenovo e altri 30 dall’americana Super Micro Computer Corp. Ma all’oscuramento del Web la Russia, insieme ad altri Paesi come Bielorussia, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Siria, Turkmenistan, Thailandia e Turchia, preferisce sistemi di controllo più elaborati come la «Deep Packet Inspection» (Dpi): è la tecnica che filtra i dati in transito sulla Rete bloccando app e piattaforme sulla base di criteri prestabiliti, ma consentendo le altre attività. 

Da marzo 2022 Mosca chiude i principali social network occidentali (Facebook, Instagram, WhatsApp, ecc.) e poco le importa se la decisione porta a perdite stimate per oltre 7,9 miliardi di dollari. 

Ma la censura del Web inizia ben prima e risale al 2011 quando a Mosca sono organizzate attraverso i social media importanti proteste contro i risultati delle elezioni politiche del 4 dicembre. Da lì in avanti è un’escalation. Nel 2019 viene approvata la legge per il cosiddetto «Internet sovrano» che impone ai fornitori di servizi Internet di installare software di filtraggio controllati dal governo: i fornitori sono obbligati a memorizzare i dati di tutti gli utenti per sei mesi e i metadati dei contenuti pubblicati per 3 anni. Nello stesso anno, secondo i ricercatori di Censored Planet, Mosca identifica oltre 130 mila siti, principalmente di news e politica, da inserire nella lista nera e, dunque, da non far vedere. 

Storia simile per l’Iran: a partire dal 2020, sono spesi 660 milioni di dollari per la creazione del «National Information Network», una sorta di Intranet «halal», con motori di ricerca, app di messaggistica e social media controllati dal governo. La maggior parte dei social media occidentali tra cui Facebook, Twitter, Telegram e YouTube viene bloccata, banditi almeno 5 milioni di siti Web stranieri. E adesso il Parlamento ultraconservatore sta per approvare una norma che mette al bando tutti i social network e browser con sede all’estero, anche se per ora Gmail, Google, Instagram e WhatsApp sono ancora in uso. 

Rete parallela

In Russia la legge di «Internet sovrano» prevede anche la costruzione di infrastrutture digitali gestite dall’autorità statale di supervisione dei media, Roskomnadzor, che potrebbe sganciare la Rete domestica da quella globale e creare una Intranet nazionale chiamata «Runet». Uno dei Paesi che di fatto già ha una Rete parallela è la Cina, che alla fine degli anni ’90 inizia a costruire il «Great Firewall», un sistema di censura capillare e costoso che consente al governo il completo controllo sui contenuti. Sia i tre principali fornitori di servizi Internet sia le infrastrutture dove passano i dati sono di proprietà dello Stato. Il traffico verso la maggior parte dei siti internazionali viene bloccato, mentre la popolazione tende a non usare app e social network occidentali perché il governo investe miliardi in aziende cinesi che forniscono gli stessi servizi: Sina Weibo è un ibrido fra Twitter e Facebook, WeChat è la versione cinese di WhatsApp e TikTok può sostituire Instagram. Proprio perché il traffico dati resta all’interno del territorio nazionale e nessuna società straniera fornisce servizi competitivi, la Cina potrebbe staccarsi dall’Internet globale senza grandi problemi. 

La complicità indiretta dell’Occidente

Tutto ciò non sarebbe possibile senza l’aiuto della tecnologia occidentale. Aziende come Nokia, Sandvine, Cisco Systems, Allot, Silicom Ltd hanno venduto tecnologia a Putin nonostante fosse evidente che stesse creando un Grande Fratello 2.0. Ma le loro relazioni commerciali non si fermano a Mosca. La nordamericana Sandvine ha facilitato la violazione dei diritti umani in Paesi come Algeria, Afghanistan, Azerbaijan, Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Kuwait, Pakistan, Qatar, Siria, Sudan, Thailandia, Turchia e Uzbekistan. In Giordania i suoi software hanno permesso di bloccare un sito Lgbtq, mentre in Egitto hanno garantito l’oscuramento di giornali indipendenti. I servizi di Allot sono stati usati per rallentare Telegram in Kazakistan e aiutare il regime a reprimere le proteste del gennaio 2022. Un report del 2021 dimostra come la società israeliana abbia fornito tecnologia DPI a ventuno Paesi per limitare i contenuti Web.

La battaglia per la libertà del XXI secolo si combatte anche su Internet.

L’Occidente però fa fatica a risolvere le contraddizioni della Rete: i sistemi di controllo da una parte non riescono a bloccare le fake news e la criminalità sul Dark Web, dall’altra sono diventati per i regimi autarchici l’arma più efficiente per reprimere il dissenso

Insomma il sogno degli anni ’90 di un Internet libero, dove tutti i popoli del mondo dialogano e si confrontano, sta mostrando il suo volto più realistico: o si impara a governare la tecnologia, o sarà lei a governare noi.

 

Tatyana Felgenhauer: «Troppe minacce, lascio la Russia: Putin ha messo il giornalismo fuori legge». «Lavorano solo i cantori del regime. Il primo contro di me? Vladimir Soloviev, che a volte ospitate anche nelle vostre tv». Intervista alla vicedirettrice di Ekho Moskvy. Che ora ha deciso di andarsene: «Si rischiano fino a 15 anni di carcere. Tornerò quando potrò dire la verità». Riccardo Amati La Repubblica il 22 Maggio 2022.

Quando nell’ottobre del 2017 fu accoltellata alla gola da uno squilibrato dopo che la tv di stato l’aveva definita «traditrice della patria», Tatyana Felgenhauer - Tania per gli amici - non pensò nemmeno per un attimo di smettere di fare il suo mestiere di giornalista in Russia. Ancora convalescente, si presentò alla conferenza stampa di fine anno di Vladimir Putin e gli fece una domanda che era un j’accuse sull’utilizzo a scopo politico dei tribunali da parte del regime e degli amici del presidente. In pochi hanno mai osato tanto. Adesso però Tania ha deciso di scappare dalla Russia. Proprio perché ama il suo mestiere.

«Il giornalismo qui è stato messo fuori legge», dice a L'Espresso. È il suo ultimo giorno a Mosca. «È casa mia, non vorrei lasciarla», spiega. «Ma la situazione sta peggiorando di giorno in giorno». Le minacce si sono fatte più frequenti. Il rischio più concreto, quello del carcere: fino a 15 anni se si raccontano cose diverse dalla narrativa ufficiale sulla guerra in Ucraina. «Al momento la mia professione è bandita. E io non so vivere senza la mia professione. Se voglio continuare a fare la giornalista, non posso che andar via».

La fine di Ekho Moskvy

All’inizio di marzo le autorità hanno ridotto al silenzio Ekho Moskvy, la popolare radio moscovita di cui Tania Felgenhauer era la vicedirettrice e una anchor di successo. Lei ha continuato a condurre i suoi programmi su YouTube, che i russi possono ancora guardare se dispongono di un’applicazione Vpn per saltare il blocco imposto dalle autorità. «Ho fatto di tutto per seguitare a lavorare nel mio Paese. Semplicemente non è più possibile». È che nei suoi programmi Tania la guerra in Ucraina la racconta com’è. E la chiama guerra, non “operazione militare speciale”. La galera è dietro l’angolo. Se non di peggio. Un post recente dello “scrittore combattente” Zakhar Prilepin contro di lei è quantomeno inquietante. Prilepin è noto, tra le altre cose, per vantarsi del gran numero di ucraini uccisi dal suo reparto di irregolari durante gli scorsi anni nel Donbass.

Un “fan” indesiderabile

«Ormai devi per forza far parte del coro propagandistico. Non ci sono altre opzioni», dice Tania. I propagandisti di Putin la attaccano da anni. «Un mio grande “fan” in questo senso è Vladimir Solovyov (ride di gusto, ndr)». Solovyov è il presentatore televisivo che, vestito come il dittatore di un film distopico, evoca la guerra nucleare alla tv russa, ha proprietà sul lago di Como - oggi “congelate” causa sanzioni personali - e viene talvolta invitato nei talk show italiani. «In un suo programma del 2017 - ricorda Tania - fui additata come nemica della Russia, una che aveva venduto la sua patria. Cose simili furono dette anche in un altro programma. Poco dopo ci fu l’attentato contro di me. Ma so per certo che fu solo una coincidenza». 

Propagandisti e criminali

Di sicuro la pubblicità di Solovyov non creò il clima migliore. «Ma non è stata né la prima né l’ultima volta che ha detto cose maleducate e offensive nei miei confronti», commenta la giornalista. «Certo che non è bello quando la propaganda parla di te in ogni momento e ti descrive al pubblico come il nemico. Non è mica normale». Ora Tania è seria. «Il fatto è che i cosiddetti giornalisti dei media di stato, che non considero certo miei colleghi, oggi non sono altro che criminali di guerra. Perché questa narrativa dell’odio è parte integrante dell’attacco all’Ucraina. I propagandisti del regime sono responsabili di questa guerra quanto Putin». Solovyov compreso.

Il coraggio di raccontare

Per il suo lavoro e per i rischi corsi, Tania Felgenhauer fu nominata - insieme ad altri - “Persona dell’anno” da Time nel 2018. C’è sempre voluto fegato ad essere giornalisti in Russia. Da quando Putin è al potere ne sono stati ammazzati 25, secondo i dati della commissione per la protezione della categoria (Cpj). E in 21 casi non si è risaliti al colpevole. Evidentemente si indaga poco. Le minacce per Tania arrivano soprattutto dai social. Anonime o firmate. «Ne ho sempre ricevute. Ma da quando abbiamo attaccato l’Ucraina sono di più». Con che coraggio, appena dopo l’attentato subìto, andò a dire a Putin che Igor Sechin, capo del colosso petrolifero Rosneft, e Ramzan Kadirov, leader della Repubblica cecena, usano la giustizia russa per fare i loro comodi. E che Alexey Navalny è innocente? «Ah, quello non fu coraggio, è solo che ero parecchio arrabbiata». Ride di nuovo, divertita. «Così ho approfittato dell’occasione. Avevo un microfono, eravamo in diretta. Milioni di telespettatori. E gli ho fatto una ramanzina. Tanto sapevo che non avrebbe mai risposto a una vera domanda».

Dagli al traditore

Il 16 marzo scorso il presidente ha detto che i russi sapranno sempre distinguere i patrioti dai traditori, e che questi ultimi sono «da sputar via come moscerini». Tania Felgenhauer non si sente un moscerino. «Putin con quelle parole ha voluto innescare un conflitto nella società. Lo ha fatto perché quando le cose non vanno bene conviene puntare il dito su qualcuno, così la gente le colpe le cerca altrove. Comprensibile, dal suo punto di vista. E molto pericoloso». Coinvolgere la popolazione nella delazione e nella caccia ai “traditori” fa parte del nuovo corso con cui il regime, soprattutto negli ultimi tre mesi, ha cercato di mobilizzare la società e di stringere la popolazione intorno alla bandiera. Una caratteristica dei regimi totalitari, diceva il sociologo e politologo Ralf Dahrendorf.

Totalitarismo ed emigrazione

«Il sistema sta effettivamente diventando totalitario», commenta Tania. «Il livello della repressione è aumentato. Soprattutto, non si vuole più solo un supporto passivo. I russi adesso devono dimostrare di sostenere apertamente il regime. Agire in suo favore. Da tutto questo sta scappando Tania Felgenhauer. Insieme a tanti altri. Almeno 300.000, secondo un calcolo fatto in aprile dalla Ong Ok Russians, che aiuta gli emigrati. Sono soprattutto professionisti, imprenditori e intellettuali. Entro la fine di maggio, saranno partiti oltre 150.000 ingegneri informatici , ha detto alla Duma, la camera dei deputati russa, un’associazione di categoria. È il 10% del totale. Per i giovani, agisce il timore di esser chiamati alle armi. Più in generale, è una fuga dall’auto-isolamento e dalla mancanza di libertà e di futuro a cui lo zar sta condannando la Russia. È il maggior esodo che si sia visto dai tempi della Rivoluzione bolscevica, quando partirono forse due milioni di persone. È uno dei maggiori effetti immediati della guerra di Putin. E non si tratta di moscerini.

«Amo il giornalismo»: paure e speranze di Tania

Tania Felgenhauer non dice dove andrà. Motivi di sicurezza. «Ho qualche offerta ma ancora non so cosa farò. Ho piani solo per la prossima settimana», si schernisce. «Certamente continuerò con i programmi su YouTube». Cercherà di cambiare le cose a casa da fuori, come facevano gli emigrati del periodo sovietico? «Non sono un’attivista politica, sono una giornalista», risponde. «Non sarà facile per me. Ho paura che non avrò più il polso del mio Paese. Qui posso fare una passeggiata e osservare, capire l’umore della gente, l’atmosfera. Ho paura che quando sarò via perderò tutto questo. Per il mio lavoro devo vedere quello che poi descrivo. Conoscere davvero quello di cui parlo. Non vorrei diventare un’emigrata che vive di ricordi. Non so come andrà. Ma so che amo il giornalismo. Ho iniziato a lavorare a Ekho Moskvy quando ancora andavo a scuola. Questa sono io. Non potrei essere nient’altro. Quindi ora devo andare. E tornerò solo quando in Russia ci si potrà esprimere liberamente, e dire la verità».

DALLA GUERRA ALLA “OPERAZIONE SPECIALE”. Sono stato in un talk show di Russia Today: ecco le parole d’ordine della propaganda di Putin. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 26 aprile 2022

«Sei libero di dire quello che vuoi, ma tieni presente che qui dietro le quinte ci sono due soldati che sono pronti ad ammazzarci se diciamo qualcosa di sbagliato». Pausa. «Scherziamo, umorismo russo».

Inizia così, con queste battute, la registrazione di un talk show di Russia Today dove mi sono trovato ospite, per parlare della guerra direttamente dai microfoni dell’emittente usata per la propaganda del Cremlino. Per testarne i limiti e capirne le parole d’ordine.

Nessuno mi ha censurato, anche se tutto quanto dicevo veniva poi tradotto in russo. Forse ho fatto la mia parte nel permettere alla propaganda della Russia di presentarsi come più liberale di quanto la consideriamo, o forse nessuno ha visto e sentito le lunghe trasmissioni a cui ho partecipato. Forse era tutta una complessa operazione per convincere me, in quanto giornalista occidentale, di poter dire tutto quello che volevo in Russia.

STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

Stefano Feltri per editorialedomani.it il 27 aprile 2022.

«Sei libero di dire quello che vuoi, ma tieni presente che qui ci sono due soldati pronti ad ammazzarci se diciamo qualcosa di sbagliato». Pausa. 

«Scherziamo, umorismo russo». Inizia così la registrazione di un talk show di Russia Today dove mi sono trovato ospite, per parlare della guerra direttamente dai microfoni dell’emittente usata per la propaganda del Cremlino. Per testarne i limiti e capirne le parole d’ordine.

In una puntata di Otto e mezzo, il talk show italiano condotto da Lilli Gruber su La7, qualche giorno fa mi sono trovato a dibattere con Nadana Fridrikhson, giornalista russa di RT e della radio del ministero della Difesa, che negava ogni censura in Russia e vantava le virtù del dibattito libero nel paese impegnato nella “operazione speciale” ucraina che, assicurava Nadana, si può chiamare anche “guerra” in televisione senza rischiare il carcere. Benissimo, le ho scritto dopo la trasmissione, vediamo se è davvero così: se mi inviti, io ci vengo alla tua trasmissione.

Lei mi ha invitato e io ho partecipato, a due talk diversi: uno di RT (Letuchka), la televisione russa che diffonde la visione del mondo del Cremlino in varie lingue, pensata soprattutto per il pubblico estero e che infatti la Commissione europea ha oscurato dopo l’invasione dell’Ucraina, e l’altra a una trasmissione radio dell’emittente del ministero della Difesa russo (mandata anche in video online).

Le regole di ingaggio sembrano chiare: nessun filtro, posso dire quello che voglio, loro fanno le domande, io rispondo come credo. Ovviamente c’è qualche precauzione da parte russa: la trasmissione tv è registrata, in studio ci sono Georgy Babayan e Nadana Fridrikhson, le domande sono in russo, io devo rispondere in italiano, un interprete traduce in entrambi i sensi (non posso quindi sapere cosa viene detto esattamente). 

Dopo la registrazione, si prendono quasi una settimana prima di mettere online la trasmissione, con un po’ di montaggio, un po’ di campi e contro-campi, qualche immagine aggiunta a vivacizzare.

Stesso formato alla radio, che però è in diretta, deduco anche venga trasmessa la versione video sul web, perché gran parte del format è il commento a video mostrati dalla redazione: atrocità commesse non si sa bene da chi e dove, ma i russi dicono si tratti di ucraini, e poi interviste a passanti senza nome o ombre senza volto che raccontano i crimini commessi dagli ucraini: «Prego, commenta queste immagini». 

Le didascalie scelte dalla redazione per presentare l’intervista su RT sono queste: “Sull’operazione speciale, i nazisti in Ucraina, il genocidio del Donbass. I nostri contro l’Europa”.

E ancora: “Il mondo occidentale ha una sua visione sulle ragioni e gli scopi dell’operazione speciale russa. Perché per 8 anni l’Europa non ha visto quello che succedeva nell’Ucraina orientale? Cosa sanno degli accordi di Minsk i giornalisti che fanno luce sugli eventi odierni? Come si parla dei neonazisti in Ucraina nei media stranieri?”.

RT è una tv di propaganda, il suo motto “Question more”, cioè “fai più domande”, indica la leva su cui agiscono i media voluti dal Cremlino per interagire con l’opinione pubblica internazionale: se l’Occidente dice di essere pluralista e democratico, allora deve includere anche il punto di vista russo e legittimarlo, a prescindere dalla fondatezza delle tesi sostenute.

Nel dibattito su RT, pero, le domande le fanno solo i conduttori, è un interrogatorio allo scopo, si suppone, di dimostrare che chi dall’Occidente contesta l’aggressione di Putin è soltanto mal informato o impreparato. 

«Lo sai cosa è successo il 2 maggio del 2014?», è la tipica domanda a freddo.  Si tratta degli scontri a Odessa, che hanno causato 48 morti, in uno dei momenti più drammatici della tensione seguita al movimento di piazza Maidan, cioè la rivolta contro l’esecutivo filorusso di Viktor Yanukovich.

Secondo l’Onu, che ha ricostruito i fatti, la violenza c’è stata da entrambi i lati, filorussi e anti-russi (“pro-unitari”), non è neppure ben chiaro chi abbia le maggiori responsabilità, gli osservatori dell’Onu sostengono addirittura che siano stati i filo-russi a lanciare le Molotov che poi hanno causato la strage.

Ma poiché le autorità ucraine poi hanno condotto indagini molto superficiali, che di fatto hanno lasciato la violenza senza colpevoli, gli scontri di Odessa sono assurti nella propaganda filo-russa a simbolo delle violenze ucraine. 

In questa e altre occasioni, durante la trasmissione, rivolto ai miei interlocutori la stessa domanda: «Anche ammesso che le violenza si siano consumate del modo che voi dite ai danni dei russi, in che modo questo legittimerebbe l’esercito russo a macchiarsi di crimini analoghi oggi in Ucraina?». Nessuna risposta, ma almeno mi lasciano parlare.

Poi c’è l’ossessione del battaglione Azov: i giornalisti russi non provano a difendere le azioni del proprio esercito in terra ucraina, neppure un accenno alle operazioni sul campo, tutta la propaganda è volta a dimostrare che gli ucraini se lo meritano, che vanno effettivamente de-nazificati. 

E quindi lunga lista dei crimini dei nazionalisti di Azov, che hanno svastiche tatuate, e tutto il resto: poiché sono stati integrati nell’esercito regolare ucraino, l’Occidente rifornisce di armi anche i nazisti di Azov, questa l’accusa.

Le accuse ai nazionalisti ucraini, tutti equiparati a nazisti, sono cruciali nel messaggio russo perché permettono ai giornalisti di RT di difendere l’unica argomentazione rimasta a sostegno di una “operazione militare speciale” che sta andando peggio del previsto: l’esercito russo deve de-nazificare l’Ucraina e proteggere i russofoni (che, per la verità, non hanno accolto festanti i liberatori, anzi). 

I giornalisti spiegano che “non ci saranno più nazisti in Ucraina”. Visto che per i loro standard sono sospettabili di nazismo tutti coloro che non si schierano con Putin, chiedo: «Cosa vuol dire? Che li ucciderete tutti?».

Parlano in russo, l’interprete non traduce, poi: «Bella domanda». E spiegano: «Noi offriamo corridoi umanitari, anche per i nazisti di Azov, hanno la vita garantita. Per il momento questa offerta è attiva e non vogliamo uccidere tutti». Per il momento.

«Tu lo sai chi era Stepan Bandera, eh?». Bandera è la parola chiave: chi lo nomina, sta seguendo la scaletta della propaganda putiniana. Non può essere questione di attualità, Bandera è morto nel 1959, ricordato come combattente nazionalista, contro i russi, antisemita, complice dei nazisti. «Lo sapevi che gli hanno intitolato strade di recente in Ucraina?».

No, non lo sapevo, ma la toponomastica non mi pare un valido argomento per spiegare l’intervento dei tank russi in Donbass. «E se in Italia intitolassero una strada a Benito Mussolini? A Roma ce l’avete?». Lo sanno anche loro che non c’è, ma spiego che abbiamo interi quartieri costruiti ai tempi del fascismo e che sono pure considerati belli, visto quello che è venuto dopo (correttamente montano in sovrimpressione immagini dell’Eur). E nessuno pensa di fare stragi per questo. 

«E il viale degli angeli a Donetsk lo conosci? Con le vittime dei nazisti? E lo sapevi che l’ex presidente Petro Poroshenko ha detto che i bambini ucraini dovevano andare a scuola e quelli russi nelle cantine?». Si continua così per un po’.

L’interrogatorio poi, sia in radio sia in tv, si concentra sugli accordi di Minsk del 2015: qui il messaggio russo è più sofisticato. La Russia, con la propaganda del Cremlino, sostiene di essere soltanto un garante di quell’intesa diplomatica, non una delle parti in causa: Mosca, sullo stesso piano di Parigi e Berlino, ha imposto una tregua agli scontri nel Donbass in Ucraina, quindi ogni violazione del cessate il fuoco è imputabile soltanto a Kiev e alla violenza dei non filo-russi contro i russofoni.

Il resto del mondo sa che dietro l’escamotage diplomatico di presentare la Russia come garante, lo scopo degli accordi di Minsk era proprio di vincolare l’azione di Vladimir Putin e spingerlo ad abbandonare i propositi di annessione del Donbass che poi, sette anni dopo Minsk, hanno portato alla guerra attuale. 

Le violenze da parte ucraina sono continuare anche perché la Russia non ha mai rimosso i suoi apparati militari sostegno dei separatisti filo-russi sostenuti da Mosca. «La Russia non c’entra niente, era solo osservatore, doveva essere l’Ucraina a rispettare questi accordi», ripetono  Georgy Babayan e Nadana Fridrikhson in studio a RT. 

A un certo punto l’interrogatorio finisce, nessuno ha cambiato idea, ma sempre meglio parlarsi che spararsi, anche nel pieno di una guerra. E comunque, al netto di qualche possibile aggiustamento nelle traduzioni (tocca fidarsi), magari qualche spettatore di RT ha davvero sentito parlare di “guerra” e di Putin come un criminale internazionale.

Avrò fatto la mia parte nel permettere alla propaganda della Russia di presentarsi come più liberale di quanto la consideriamo, o forse nessuno ha visto e sentito le lunghe trasmissioni a cui ho partecipato. Forse era tutta una complessa operazione per convincere me, in quanto giornalista occidentale, di poter dire tutto quello che volevo in Russia. Chissà, l’Unione europea ha bloccato RT in Europa, YouTube impedisce l’accesso ai contenuti di propaganda, ma il video si trova su RuTube.ru. O almeno io lo trovo, chissà.

La “war room” dell’Ue per censurare la versione dei fatti da parte russa. Rec News dir. Zaira Bartucca il 22/04/22.

Proprio il 25 aprile, giorno della Liberazione dal nazi-fascismo, in Ue si infliggere un duro colpo alla libertà di espressione, al diritto di critica di cronaca. Si terrà proprio in questo giorno presso il Parlamento europeo il  vertice in cui verrà discussa la creazione di una “war room” sull’informazione e sui modi approvati di trattare il conflitto russo-ucraino. Le premesse sono – apparentemente buone: “contrastare la disinformazione e i modi per rafforzare le voci di fatto e di libertà di parola”, ma i presupposti dimostrano la politicizzazione dell’iniziativa.

Tutto, infatti – si legge nell’invito inviato ai giornalisti – verrà esaminato “alla luce dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia”. Perché “è chiaro che c’è uno Stato sovrano attaccato e uno invasore”, è il mantra di un mainstream che si appella di continuo alla sovranità degli Stati sistematicamente ignorata dall’Unione europea e perfino alla terminologia cara al centrodestra in altri contesti bandita.

Ma cosa impareranno i giornalisti che correranno a Bruxelles nella “stanza della guerra” o si collegheranno in streaming per apprendere il giusto scrivere e il giusto parlare? Probabilmente, a riportare pedissequamente quanto proviene da Kiev senza approfondimento e verifica, a ignorare questioni cardine come la presenza documentata di biolaboratori in Ucraina promossi dal Pentagono, a definire i nazisti del battaglione Azov “difensori” e “nazionalisti” e – ovviamente – a forgiare epiteti sempre più dispregiativi per descrivere il presidente della Federazione russa.

Nessuna imposizione, sia chiaro, solo “una serie di raccomandazioni“. Che succede se i giornalisti non dovessero seguirle? Intanto la censura dei principali social funziona a gonfie vele, e se qualcosa dovesse andare storto sono sempre a disposizione gli squadroni di “fact-checker“, i vari somministratori di olio di ricino digitale e le liste di proscrizione in cui vengono inseriti i comunicatori dissidenti.

L’iniziativa è promossa dal gruppo del PPE, lo stesso del presidente del parlamento europeo Roberto Metsola. I lavori saranno ospitati dall’eurodeputata Eva Maydell e aperti dal presidente del gruppo PPE Manfred Weber. 

Bucha, insabbiare le stragi è un'abitudine russa: il filo rosso sangue che parte da Katyn. Francesco Carella Libero Quotidiano il 17 aprile 2022.

Le fosse comuni di Bucha e gli orrendi crimini commessi dai russi ai danni della popolazione ucraina non sono, purtroppo, una novità. Si tratta solo dell'ultimo capitolo di un libro nero segnato da crimini e violenze che vede la Russia come protagonista per gran parte del Novecento. L'episodio più clamoroso fu quello che si consumò nella Polonia orientale all'indomani del Patto Ribbentrop-Molotov, quando in due mesi, fra aprile e maggio 1940, su ordine del Politbjuro gli aguzzini dell'NKVD con mostruosità scientifica passarono per le armi quindicimila cittadini polacchi.

Morirono con un colpo alla nuca ufficiali, imprenditori, professionisti, sacerdoti, e molti funzionari pubblici. L'indicazione partita da Mosca era chiara: procedere all'eliminazione della classe dirigente polacca. Stiamo parlando del massacro di Katyn, dal nome della località presso Smolensk, dove furono scoperte dalla Wehrmacht nell'aprile '43 fosse comuni con cadaveri accatastati a migliaia. Intorno a quella mattanza la propaganda sovietica costruì una gigantesca operazione di falsificazione - tesa ad attribuire la colpa della strage ai militari tedeschi - durata quasi cinquant' anni che ricorda, per molti versi, ciò che in questi giorni stanno cercando di fare Vladimir Putin e i suoi collaboratori. Nel 1989 finanche Michael Gorbaciov si oppose a che venissero aperti gli archivi e resa verità e giustizia alle vittime di Katyn. Di parere diverso fu il presidente Boris Eltsin, il quale pochi anni dopo, consegnò al suo omologo polacco Lech Walesa la documentazione relativa agli ordini di sterminio partiti da Mosca. 

Prese corpo in quei primi anni '90 la speranza che la verità su quanto accadde nella foresta polacca fosse destinata ad essere raccontata nella sua interezza grazie al nuovo corso e all'apertura degli archivi. Ma così non è stato. Nel 2004 la Procura militare della Federazione russa decise di archiviare definitivamente l'inchiesta. Sono gli anni in cui Vladimir Putin rallenta la marcia verso la democratizzazione della Federazione russa. Oggi sappiamo che il falso storico su ciò che avvenne nel bosco di Katyn poté riuscire anche grazie a una certa freddezza da parte degli anglo-americani in ragione della necessità di non compromettere i rapporti con Stalin. Winston Churchill accantonò la vicenda definendola «di nessuna importanza politica». Stalin ne approfittò per accreditare ulteriormente la tesi del Cremlino e per avviare una campagna di violenta delegittimazione nei confronti dei membri della Commissione medica internazionale voluta dal Terzo Reich, diretta da una personalità scientifica di indiscusso valore qual era il professor Naville. Di quella commissione fece parte anche lo scienziato italiano Vincenzo Palmieri, il quale divenne il bersaglio di una campagna denigratoria orchestrata dal Pci e guidata da un dirigente di primo piano come Mario Alicata. Le lezioni di Palmieri all'Università di Napoli venivano regolarmente interrotte da studenti comunisti che lo accusavano di essere un nazifascista. Molti docenti, cosiddetti democratici, proposero addirittura il suo allontanamento dalla cattedra. La richiesta fu respinta con forza dal Rettore, quel galantuomo di Adolfo Omodeo. 

Anna Zafesova per "La Stampa" il 17 aprile 2022.

«Lo stesso nome di ucraini è una vergogna, un insulto per un popolo che è russo». Il talk show di Vladimir Solovyov apre un nuovo capitolo nella propaganda russa, e stabilisce, per bocca di un ospite particolarmente infervorato, che l'accusa di genocidio del popolo ucraino lanciata a Vladimir Putin da Joe Biden è «un'idea geniale, perché se si tratta di cancellare l'idea stessa di poter essere ucraini, sono d'accordo, l'idea dell'ucrainità va cancellata, dall'inizio alla fine, sono cento anni che avvelena la vita dei popoli slavi».

Gli altri ospiti ascoltano e annuiscono, qualcuno chiede se con ciò l'Ucraina deve essere definitivamente disconosciuta come Stato sovrano, ma è chiaramente poco aggiornato rispetto alle ultime direttive. In studio infatti è presente la capa della propaganda del Cremlino Margarita Simonyan, secondo la quale la guerra in Ucraina non è un genocidio, anzi, non è nemmeno una guerra, perché il giorno che lo diventa «per prima cosa si fa a pezzi Kiev, in polvere, a pezzettini». Dello stesso avviso è il regista Vladimir Bortko, che con voce stridula invita a vendicare l'incrociatore Moskva affondato da un missile ucraino, invocando nel talk «60 minuti» «una guerra, quella vera, senza stupidaggini, al 100%».

I talk-show delle tv di Stato russo vanno presi con cautela: sono un circo mediatico che punta a spaventare ed eccitare il nocciolo duro dell'elettorato putiniano. Ma proprio in quanto arma strategica, vengono monitorati e diretti con attenzione, e il cambiamento del loro tono difficilmente può essere casuale. Pronunciare la parola «genocidio» in un contesto positivo di «cancellazione dell'idea ucraina» è un traguardo di ferocia finora mai sfiorato, ma già qualche giorno fa l'idea che «l'ucrainità radicata è un unico grande fake, non è mai esistita» è stata teorizzata molto più in alto, dall'ex presidente e premier Dmitry Medvedev, che ha completato la sua trasformazione da colomba del regime in uno dei suoi sostenitori più sfacciati.

L'obiettivo della «operazione militare speciale» russa, secondo lui, è «cambiare la mentalità sanguinaria e piena di miti falsi di una parte degli ucraini», e aggiunge che «l'Ucraina farà la stessa fine del Terzo Reich nel quale è stata trasformata». E prima era stata la stessa Simonyan - che di solito ha il compito di annunciare al pubblico le svolte del pensiero dei falchi del Cremlino - a lamentarsi in un'intervista che il problema non erano solo i vertici di Kiev, ma anche «una parte considerevole degli ucraini è sprofondata nella follia nazista».

Un delirio propagandistico - il «nazismo» associato al «liberalismo occidentale» che si propone di «sterminare i russi» - che però mostra una svolta pericolosa: da una guerra per «salvare i fratelli ucraini» dalle grinfie degli Usa e dell'Ue si passa alla teoria della profonda corruzione degli ucraini medesimi, non più «piccoli russi» da riabbracciare, ma un popolo inesistente da «cancellare». 

Il politologo liberale Konstantin Skorkin sostiene che una certa cultura russa ritiene «estremismo nazionalista» l'idea stessa che gli ucraini possano essere un popolo distinto, meno che mai una nazione indipendente. Ma il cambiamento del paradigma, da «guerra di liberazione dei fratelli» a «guerra per sterminare i nazionalisti», teorizzata ora dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov, è un'indicazione che le truppe sul terreno hanno già fatta propria, come si vede dai massacri di civili. 

«Ovviamente, dopo essersi scontrati con la coraggiosa resistenza degli ucraini, non rimaneva che accusarli del fallimento, e sostenere che fossero profondamente infetti dal nazismo», scrive il sociologo russo Greg Yudin. Una teoria che non si limita agli schermi televisivi, ma diventa progetto politico, non solo a Bucha e Mariupol. Da Kherson, unico capoluogo regionale ucraino in mano ai russi, arrivano notizie dei preparativi per un «referendum» per creare una «repubblica popolare» da annettere alla Russia, senza nemmeno la parvenza dell'indipendenza. 

Si dovrebbe tenere dal 1 al 9 maggio, la data fatidica dell'anniversario della vittoria su Hitler, entro la quale Putin vuole regalare ai suoi sudditi una conquista, seppure ridimensionata rispetto ai piani iniziali di espansione del «mondo russo», il Lebensraum putiniano. «Un'idea vuota, senza alcuna prospettiva di sviluppo culturale», commenta Yudin, che osserva come la Russia «abbia abbandonato un concetto molto semplice, che un popolo non si conquista con i cannoni».

"Usiamo la bomba atomica su Kiev": le frasi choc della tv russa. Marco Leardi il 16 Aprile 2022 su Il Giornale.

Sulla tv russa si alza il livello della tensione anti-occidentale. "Stiamo combattendo contro la Nato", sostiene la conduttrice Olga Skabeyeva. E allo Zar viene richiesta l'atomica contro Kiev.

I tamburi di guerra rimbombano con forza sulla tv russa. E a fare da grancassa al Cremlino con toni tutt'altro che pacifici sono, ormai da settimane, gli stessi volti noti al pubblico locale: conduttori, giornalisti, presunti esperti e opinionisti rigorosamente filoputiniani. Nei programmi televisivi la situazione Ucraina viene raccontata con toni accesi e anti-occidentali, talvolta alzando l'asticella della tensione. Lo ha fatto, nelle scorse ore, anche la presentatrice di Russia 1, Olga Skabeyeva, commentatrice politica nota per essere una fedelissima dello Zar.

"La Terza guerra mondiale è già cominciata", ha affermato la conduttrice nel corso di un dibattito sulla crisi ucraina, prendendo spunto dalla notizia dell'affondamento dell'incrociatore Moskva. Un episodio che all'opinione pubblica russa è stato raccontato come conseguenza di "un incendio" (e non di un attacco ucraino andato a segno). In ogni caso, l'escalation registrata sul fronte militare è diventata un assist che la propagandista russa ha immediatamente colto. "Ora stiamo decisamente combattendo contro le infrastrutture della Nato, se non contro la Nato stessa. Dobbiamo riconoscerlo", ha incalzato Olga Skabeyeva, dando prova di un inasprimento dei toni rispetto ai primi giorni della cosiddetta "operazione militare speciale", quando i riferimenti alla guerra erano del tutto vietati sulla tv russa.

"Il disastro del Moskva è stato causato certamente dalla guerra", hanno per l'appunto sostenuto alcuni ospiti intervenuti nella trasmissione. E gli animi a quel punto si sono surriscaldati. Qualcuno ha infatti suggerito una soluzione drastica, chiedendo a Putin di "usare armi nucleari su Kiev, così che la Russia possa bombardarli una volta e basta". Parole tremende, simili a quelle altrettanto forti pronunciate nelle scorse settimane nel programma del conduttore Vladimir Solovyov, dove l'atomica era stata evocata esplicitamente anche contro la Polonia. "L’Europa deve sapere una cosa semplice, che la nostra unica reazione sarebbe la guerra nucleare nel caso di una missione Nato di peacekeeping", aveva affermato il politologo Serghey Mikheyev.

In un altro recente dibattito è stato raccontato al pubblico che l'Occidente sta fornendo all'Ucraina una quantità di armi che sta consentendo all'Ucraina di preparare "provocazioni ancora più sanguinose, orribili, completamente impensabili" con l'obiettivo di incolpare la Russia. Proprio come - sempre secondo la propaganda del Cremlino - era accaduto con la strage di Bucha. "Costringeranno le persone a rabbrividire e dire che la Russia non è degna di essere sulla mappa del mondo", ha affermato con toni vittimistici un opinionista politico. Uno dei tanti impegnati a raccontare al pubblico la versione monocorde dello Zar.

Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 2 aprile 2022.

Fondato nel 1879, è stato il primo college a Oxford a offrire un'istruzione alle donne e per cento anni ha accolto solo loro. Tra le sue distinte allieve ci sono state la prima capa dell'MI5 Manningham Buller, la prima ministra del Pakistan Benazir Bhutto, uccisa nel 2007, e la premio Nobel Malala Yousafzai, che si è laureata qui lo scorso autunno.  

Un'istituzione paladina del femminismo che è finita sui giornali inglesi per un grave caso di negligenza ai danni di una studentessa, vittima di violenza sessuale tra le mura del college: «Non ci sono parole per descrivere quello che Lady Margaret Hall mi ha fatto - ha raccontato al Times la giovane, rimasta anonima - e non sarà mai qualcosa che riuscirò a dimenticare, come mi è stato detto più volte da diversi membri dello staff. Ho perso il conto delle persone che hanno cercato di farmi tacere, spaventarmi, minacciarmi e minare la mia credibilità».

La vicenda è avvenuta alcuni anni fa ma è balzata agli onori della cronaca ora che il collegio ha accettato di pagarle danni e spese legali, pur senza ammettere le proprie responsabilità. La giovane ha raccontato di essere stata stuprata dal fidanzato con cui era in crisi da tempo. L'uomo è entrato ubriaco nella sua stanza mentre lei era addormentata, le ha bloccato i polsi e ha abusato di lei. Nel tentativo di difendersi, la ragazza lo ha graffiato in volto, segni visibili che nelle ore successive lui ha spiegato agli amici come il segno di una notte di «sesso spinto». 

Le ci sono voluti sei mesi per denunciare l'accaduto alle autorità del college e prima che l'anno accademico finisse, il suo aggressore è stato sospeso per un breve periodo. Un tempo in cui la giovane non si è sentita supportata ma minacciata dal college: il preside di allora, l'ex direttore del The Guardian Alan Rusbridger, stando al suo racconto ha fatto di tutto per «dissuaderla dal presentare un reclamo», che avrebbe avuto «un impatto negativo» su di lei e avrebbe comportato una «perdita di denaro e di tempo al college».

 Alla ragazza, inoltre, è stato sottoposto un documento in cui si impegnava a «non fornire alcuna informazione sul caso alla polizia o ai media», pena l'espulsione dal Lady Margaret Hall. Per Rusbridger si è trattato di un modo per «chiedere a entrambe le parti di commentare pubblicamente un caso ancora aperto», ma per la vittima è stato un tentativo di metterla a tacere che l'ha convinta a rivolgersi a un avvocato. Sembra pensarla allo stesso modo anche Michelle Donelan, ministra dell'Università, secondo la quale il Lady Margaret Hall dovrebbe vergognarsi per il modo in cui ha gestito l'accaduto e dovrebbe «intraprendere azioni immediate». 

Margarita Simonyan, la donna più potente di Russia: "La libertà è spazzatura, perché la censura è giusta". Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

La censura è giusta, sana e doverosa. A crederlo Margarita Simonyan, direttrice di RT, ex Russia Today. Lei, descritta da Forbes come una delle donne più potenti, è seriamente convinta che "nessuna grande nazione può esistere senza il controllo sulle informazioni". Ospite di Rossiya-1, la Simonyan ha detto la sua sulla propaganda che sta andando in onda durante l'invasione russa in Ucraina. Per lei gli unici due periodi di relativa libertà, quello che va dal 1905 al 1917 e negli anni '90, hanno solo portato al "crollo del Paese". 

"Loro che ci hanno insegnato per decenni, no no no, la società deve essere libera, un'economia sviluppata non può esistere senza un sistema politico sviluppato o un sistema politico libero, tutto questo è spazzatura totale - prosegue nel suo sconvolgente monologo trasmesso sulla tv di Stato -. Guardate solo la Cina, vi piace l'economia cinese? A me piace. Hanno qualche libertà? Nella vita politica del loro Paese, nella vita informativa del Paese? No, non ce l'hanno e non l'hanno mai avuta. Forse non è male, forse è una buona cosa". Insomma, viva la censura. 

E nemmeno le sanzioni occidentali che l'hanno presa di mira, così come il provvedimento dell'Unione europea che ha oscurato RT, riescono a fermarla. "Stiamo diffondendo i nostri contenuti - ammette- non col nostro brand, in strade faziose. Ottiene tre milioni di audience, tre giorni dopo l'intel se ne accorge e lo chiude. Non divulgherò altri dettagli, per non aiutare la loro intelligenza". D'altronde la sua indole era già emersa nel lontano 2018, quando andava dicendo: "So che non mi crederete, ma ho proibito ad esempio di invitare persone che possano promuovere strane teorie, a me non piacciono". Tra questi non ci saranno sicuramente stati Beppe Grillo e Alessandro Di Battista, spesso ospiti di RT.

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 16 aprile 2022.

«All'interno di Russia Today ci sono delle regole che ho stabilito io», disse nel 2018 Margarita Simonyan, direttrice di RT, la ex Russia Today, un tempo fiore all'occhiello del putinismo, ampiamente rilanciata in Europa, specie nelle reti social populiste, oggi sanzionata e bandita da tutta l'Unione europea. «So che non mi crederete, ma ho proibito ad esempio di invitare persone che possano promuovere strane teorie, a me non piacciono».

E a proposito di strane teorie, ieri l'altro Simonyan, parlando nello show tv serale di Rossiya-1, ha esposto la più incredibile e clamorosa teoria di Stato russa sulla necessità delle censura sui media. Non le è scappato, l'ha teorizzato, anche in maniera provocatoria, con battutine e risolini. Un po' come Jack Nicholson nelle vesti del generale cattivo del film Codice d'onore, che al processo dice incredibilmente la verità: sì, l'ho fatto pestare io quel soldato. Simonyan ha esposto questo ragionamento: «Abbiamo avuto due periodi nella nostra storia di censura limitata o assente, dal 1905 al 1917, ricordiamo come è finita, e durante la Perestrojka e gli anni '90 successivi, ricordiamo come è finita, è finita con il crollo del Paese».

Poi ha proseguito: «Nessuna grande nazione può esistere senza il controllo sulle informazioni. Chi ci ha fatto aggiungere alla nostra costituzione che la censura è vietata, lo ha capito benissimo». La tirata contro l'occidente e la sua "libertà" è continuata così: «Loro che ci hanno insegnato per decenni, no no no, la società deve essere libera, un'economia sviluppata non può esistere senza un sistema politico sviluppato o un sistema politico libero, tutto questo è spazzatura totale». E ha concluso memorabile: «Guardate solo la Cina, vi piace l'economia cinese? A me piace. Hanno qualche libertà? Nella vita politica del loro Paese, nella vita informativa del Paese? No, non ce l'hanno e non l'hanno mai avuta. Forse non è male, forse è una buona cosa». Viva la censura.

Detto dalla direttrice di una tv. 

È bizzarro - dopo il mare di propaganda russa con cui hanno spinto e sostenuto tutti i partiti populisti in Europa, anni e anni di fake news e disinformazione in Occidente - ma tocca ora ai propagandisti russi dire incredibilmente la verità. Perché non si trattengono più.

Comparendo nel talk show di Vladimir Solovyov, Simonyan ha anche descritto le operazioni segrete della Russia per continuare nella infowar del Cremlino aggirando vari blocchi da parte di YouTube e di altre piattaforme in Europa e Stati Uniti: in sostanza, continuando a diffondere propaganda russa in Occidente ma nascondendo il fatto che si tratta di propaganda russa: «Stiamo diffondendo i nostri contenuti - ha detto - non col nostro brand, in strade faziose. Ottiene tre milioni di audience, tre giorni dopo l'intel se ne accorge e lo chiude. Non divulgherò altri dettagli, per non aiutare la loro intelligence».

L'Occidente per anni l'ha quasi coccolata, come tutto quello che aveva a che fare col putinismo: un mix di repulsione e attrazione. La ragazza povera di Krasnodar. La figlia di un operaio. Ha studiato in America. Ha lavorato al mercato. Nel 2018 fu inserita da Forbes nella lista delle donne più potenti del mondo, anche in ottima posizione, cinquantaduesima, dietro a Hillary Clinton e a Beyoncé. Nientemeno.

La realtà è che, dietro questi servizi patinati, Simonyan diffondeva e organizzava quella che per l'Ue adesso è una formidabile macchina di bugie e propaganda, dall'assedio di Beslan alla Cecenia, dall'invasione della Crimea all'abbattimento (da parte dei russi) dell'aereo malese in Donbass. Aveva appena 25 anni (oggi ne ha 42) quando fu scelta come prima direttrice donna di Russia Today. Il presidente francese, Emmanuel Macron, in faccia a Putin la definì un'agenzia di «propaganda bugiarda».

RT, che negli anni ha eretto a suoi miti e presenze fisse Julian Assange, ha avuto ospiti sistematici Jeremy Corbyn e Nigel Farage, in Italia Beppe Grillo e Di Battista, in America il generale trumpiano Michael Flynn. Nel 2017 fu declassificato un report dell'intelligence americana che sosteneva che RT era stata strumento di ingerenza del governo russo nelle elezioni presidenziali americane per ribaltare il voto a favore di Donald Trump. Simonyan è stata sanzionata nella prima tornata delle nuove sanzioni a ufficiali russi per la guerra di Putin all'Ucraina, assieme a Maria Zakharova, la portavoce di Serghey Lavrov.

Cosa che non l'ha trattenuta dal sostenere tesi come questa: «Con mio orrore, con mio rammarico, una parte considerevole del popolo ucraino si è rivelata inghiottita dalla follia del nazismo» (7 aprile, talk show trasmesso sul canale NTV). L'11 aprile, all'indomani di una cena offerta a Mosca dal ministro degli Esteri Lavrov, Simonyan postò la foto del bigliettino che era sul tavolo accanto al menù di ogni commensale, con su scritto «sanzionato: sì», o «sanzionato no». Che «umorismo», commentò Margarita.

Il triste copione degli intellettuali spauriti. Luigi Mascheroni il 3 Aprile 2022 su Il Giornale.

Assieme alla verità, una delle prime vittime di ogni guerra è la libera manifestazione del pensiero.  

Assieme alla verità, una delle prime vittime di ogni guerra è la libera manifestazione del pensiero, con tutto ciò che comporta: la pubblicazione di libri, il confronto politico e filosofico, la ricerca scientifica, la circolazione di idee, di opere e di spettacoli, la cooperazione culturale fra nazioni coinvolte nel conflitto e i loro alleati. La guerra scatenata dalla Russia di Putin contro il popolo ucraino, oltre a morti, feriti e distruzione, ha travolto l'intera attività culturale nelle due nazioni. In Ucraina, perché quando è in ballo la sopravvivenza tutto il resto passa in secondo piano, persino la scuola; in Russia, perché il mondo intellettuale vive inevitabilmente una profonda lacerazione di fronte alla tragedia in corso. Due settimane fa un gruppo di matematici russi ha scritto una lettera aperta contro la guerra in Ucraina. Il testo, pubblicato sulla rivista Troitsky Variant (e tradotto in inglese sul sito dell'European Mathematical Society), è stato firmato, a oggi, da circa ottomila scienziati. Per reazione, ieri, il ministero della Giustizia russo ha inserito la testata nell'elenco dei media considerati «agenti stranieri». Così, schiacciati fra i due eserciti, sul campo rimangono le istituzioni culturali e i singoli intellettuali. E se da una parte Mosca ha bloccato la partecipazione dei propri accademici a congressi all'estero e la pubblicazione dei loro lavori su riviste internazionali, la conferenza dei rettori in Russia, in cui sono rappresentate circa 700 università, ha sottoscritto una dichiarazione di totale sostegno al presidente Vladimir Putin, che «ha preso la decisione più difficile, ma necessaria, della sua vita». La Storia, pur con tutte le sfumature e le differenze immaginabili, come è noto tende a ripetersi. In ogni regime del passato, come in quelli di oggi, gli intellettuali e i professori finiscono col dividersi fra una minoranza di dissidenti, capaci di dire «No», e una maggioranza di allineati: chi per convinzione, chi per necessità, chi per opportunismo, chi per ignavia. E in mezzo, a complicare le cose, un Occidente ambiguo e confuso, anch'esso separato fra quanti si fanno tentare da irrazionali censure a scrittori di ieri (il Fëdor Dostoevskij boicottato da un'università milanese) e folli richieste di abiura ad artisti di oggi (il sindaco Giuseppe Sala che ha allontanato Valery Gergiev dal podio della Scala), e quanti invece tendono una mano al mondo delle arti e delle scienze rimasto sotto l'ombrello di Mosca: è il caso di alcune istituzioni che offrono sostegno e accoglienza ad accademici russi con lo stesso spirito con cui lo offrono a professori e studenti ucraini. Come durante la Guerra Fredda - corsi e ricordi della Storia - ci sono molti scrittori e studiosi, al di là della vecchia Cortina di ferro, che vogliono lasciare il Paese, e chiedono aiuto ai loro contatti in Occidente. Ma a differenza di allora, da questa parte del «Muro» molti Paesi hanno preferito interrompere i legami fra istituti di ricerca a livello governativo, senza alcun distinguo fra quanti hanno scelto di allinearsi e quanti hanno scelto di opporsi all'azione di Putin. In Gran Bretagna, ad esempio, il ministro per la Scienza e l'Innovazione, George Freeman, ha annunciato il taglio delle relazioni nel settore della ricerca e i finanziamenti a qualsiasi progetto con «collaboratori istituzionali» in Russia. La paura paralizza tutti. Ed è comprensibile. Ma siamo sicuri che sia giusto, come chiede Taras Lazer, professore ucraino di Lingua e letteratura italiana all'Università «Borys Grinchenko» di Kiev, mettere al bando le opere russe, indistintamente, perché la cultura è uno strumento politico, «usata e abusata da Putin per giustificare ogni male»? O che la Russia non sia presente in nessuna forma alle grandi manifestazioni culturali internazionali, neppure alla Biennale di Venezia?

Irene Soave per il "Corriere della Sera" il 30 marzo 2022.

«Fare il giornalista in Russia, oggi, è impossibile. Si rischia concretamente di essere uccisi, e si è soggetti a ogni genere di pressioni». Ivan Kolpakov, direttore del quotidiano online in inglese e in russo Meduza , parla da Riga. Meduza , tra le ultime testate indipendenti ancora attive dopo la stretta sui media dell'ultimo mese (anche la Novaja Gazeta di Anna Politkovskaja ha sospeso le pubblicazioni lunedì) è stato fondato lì. Era il 2014, e la redazione era fatta di fuorusciti da Lenta.ru , sito indipendente poi acquisito da un oligarca. «Eravamo in quattro, oggi siamo una cinquantina in vari Paesi». Basato a Riga, Meduza ha potuto pubblicare l'intervista che il presidente ucraino Zelensky ha concesso a quattro giornalisti russi, nonostante il divieto di Mosca. Kolpakov era tra loro.

Che pressioni riceve un giornalista in Russia?

«Le leggi sono sempre più severe: se usa la parola "guerra" rischia il carcere. Se sta attento e non ne infrange nessuna, ma resta indipendente, ci sono poi le pressioni fuori dalla legge. Telefonate continue di "avvertimento". La polizia fa trovare droga a casa tua. Il nostro Ivan Golunov è il caso più celebre: lo hanno arrestato con questo schema. Lo fanno spesso. Altrettanto spesso gli investitori sono spinti a non comprare più pubblicità». 

Meduza è nella lista degli «agenti stranieri» dal 2021.

«E quando ci siamo entrati tutta la pubblicità è sparita. Da allora ci finanziavamo col crowdfunding: dalla Russia avevamo 23 mila finanziatori regolari. Ora con le sanzioni si può donare solo dall'estero».

Avete ancora giornalisti in Russia?

«No, li abbiamo fatti uscire tutti. Informiamo da fuori: internet non è ancora stato chiuso dal governo, e credo che non lo sarà. Quindi siamo in contatto normalmente con le nostre fonti». 

Ma il vostro sito in Russia è bloccato. Chi vi legge?

«Quando ci hanno bloccati, il 4 marzo, ci aspettavamo di perdere tra il 70 e l'80% dei lettori. Con la guerra erano aumentati. Temevamo il blocco, e avevamo avvertito i lettori di scaricare la nostra app, che nel codice ha un anti-blocco, o di installare una Vpn (una connessione privata, che aggira i blocchi governativi, ndr ). Così abbiamo perso solo un quarto dei nostri utenti unici, che in momenti buoni arrivavano a essere 2,5 milioni al giorno».

È legale usare una Vpn?

«Sì, per ora. Il governo ne blocca alcune, ma altre funzionano. Chi vuole informarsi in modo indipendente ne ha più di una, e legge tutto». 

Sono tanti?

«La mia impressione è che la maggior parte dei russi sia in una fase di negazione, e scelga di credere alla propaganda. È più comodo, più sicuro. E poi ci sono molte persone, e questo mi spezza il cuore e non lo capisco, che sono a favore della guerra. Ma credo comunque che i contrari siano tantissimi, anche se impauriti dalla repressione».

Il dissenso alla guerra potrebbe rovesciare il governo?

«Mah. Il 24 febbraio Putin ha perso molto consenso, sì. Ha perso le élite, un sacco di soldi, persino i conservatori. Il 24 febbraio è stato per lui l'inizio della fine. Ma non c'è da festeggiare: sarà una fine lunga e sanguinosa, che costerà alla Russia e al mondo migliaia di vite. Sarà una carneficina».

Dmitry Muratov, Direttore della Novaya Gazeta, per La Stampa il 22 giugno 2022.

Cosa fare quando ti senti impotente? Quando provi un'impotenza che non hai mai sperimentato in tutta la tua vita, nei tuoi sessant'anni? L'impotenza di non sapere come fermare i terribili combattimenti in Ucraina. L'impotenza di fronte alla sensazione che, probabilmente, non proverai mai più la gioia di vivere, perché avrai sempre davanti agli occhi le fotografie dei civili ucraini, morti, stesi sulle strade delle loro città.

Ci abbiamo pensato a lungo, nella redazione di Novaya Gazeta, ci abbiamo riflettuto, e ci siamo resi conto che esistono persone che stanno molto peggio di noi. Sono i profughi. I bambini ucraini malati. Stanno molto peggio di noi. E quindi, non dobbiamo rimanere in silenzio ad autocompatirci. Abbiamo capito che per aiutare le vittime di questa guerra possiamo e dobbiamo donare le cose più care e importanti che abbiamo.

E così abbiamo deciso di mettere all'asta la medaglia del Nobel. È d'oro, è famosa, è pesante, è la medaglia che accompagna il premio Nobel per la pace. I soldi ricavati andranno ai bambini profughi, dovunque si trovino: nei Paesi europei, in Ucraina o in Russia. Nel mondo non esistono più profughi stranieri.

Due terzi del numero di bambini ucraini - più di 5 milioni - dal 24 febbraio sono diventati rifugiati o sfollati interni. Sedici milioni di persone, quasi un quinto degli abitanti dell'Ucraina, sono state costrette a lasciare la loro casa. Alcuni di loro ritorneranno, altri per molto tempo o per sempre rimarranno in una terra straniera.

Se si guarda la mappa, che viene aggiornata settimanalmente dalle Nazioni Unite, è difficile trovare stati che non abbiano accolto i profughi: Polonia, Germania, Slovacchia, Repubblica Ceca, Russia, Spagna, Romania, Moldavia, Svizzera, Gran Bretagna, Norvegia, Grecia, Italia, Finlandia, Svezia. Il tasso di aumento del numero di rifugiati ha superato il livello dei primi mesi della seconda guerra mondiale.

Sono molto grato al comitato per i Nobel che ha appoggiato la mia decisione di mettere questa medaglia all'asta. Sono molto grato alla casa d'asta Heritage, una delle più grandi al mondo e con una reputazione impeccabile, che svolgerà tutte le operazioni senza chiedere nessuna commissione.

Sono grato all'Unicef: trasferirò tutti i soldi ricavati a questa organizzazione creata dalle Nazioni Unite. Cos' altro aggiungere? Io credo che tutti noi, o almeno molti di noi, possiedano reliquie care. Potete metterle all'asta grazie a Heritage, così che il flash mob in aiuto ai profughi e ai bambini che soffrono per i combattimenti in Ucraina possa continuare. Dobbiamo tutti renderci conto che a queste persone è stato strappato il loro passato. Dobbiamo cercare di fare tutto il possibile per conservare il loro futuro.

(ANSA il 28 marzo 2022) - Il più importante quotidiano indipendente russo Novaya Gazeta sospende le sue pubblicazioni. Lo riferisce lo stesso giornale sul suo sito. 

Sul sito del quotidiano, i redattori di Novaya Gazeta, di cui è caporedattore il Premio Nobel per la Pace Dmitry Muratov, hanno reso noto di avere ricevuto un nuovo avviso da Roskomnadzor, l'agenzia statale per il controllo sui media, per il contenuto critico dei loro articoli.

"Quindi - aggiungono - sospendiamo la pubblicazione del giornale sul sito Web, nelle reti e sulla carta fino alla fine 'dell'operazione speciale sul territorio dell'Ucraina'". Vale a dire l'invasione russa dell'Ucraina, che i redattori citano con la definizione ufficiale imposta dalle autorità di Mosca.

Cesare Martinetti per "La Stampa" il 10 aprile 2022.

«Il giornale riprenderà quando l'operazione speciale in Ucraina sarà terminata». Ma Zoya Svetova, giornalista della Novaja Gazeta, non ha paura di continuare il suo lavoro, come si può, in un paese dove vige una legge che può condannare fino a 15 anni di prigione chi pubblica un'informazione ritenuta «fake» dalle autorità. 

Zoya, 63 anni, figlia di noti dissidenti in Urss, è una sperimentata attivista dei diritti umani, operatrice volontaria nelle carceri, una delle sue inchieste sulla giustizia russa è stata pubblicata anche in Italia (Gli innocenti saranno colpevoli, editore Castelvecchi). 

Ci risponde al telefono dalla sua casa di Mosca, raccontando ciò che non si può dire attraverso le testimonianze di persone che in questi giorni hanno lasciato la Russia. La sua voce è limpida e ferma, come sempre. La sua è una testimonianza di vita, di passione e di mestiere.

Zoya, come sta lavorando in questi giorni?

«Sto facendo un podcast con la Georgia, dove vivono i miei figli, che sono giornalisti e che sono partiti dalla Russia all'inizio di marzo. La serie si intitola Cronache dell'esodo da Mosca. Sono le storie di tre persone che se ne sono andate all'inizio dell'operazione speciale in Ucraina». 

Chi sono i protagonisti di queste storie?

«Il primo è un ragazzo di 16 anni, studente della classe numero 9. Si chiama Aleksandr, è un attivista politico, ha partecipato a molte manifestazioni e quando sono cominciate a girare le voci che sarebbe entrata in vigore la legge marziale, la famiglia l'ha convinto a lasciare Mosca. I suoi genitori sono due intellettuali, la mamma, poetessa, gli ha comprato un biglietto per Tbilisi e il 4 marzo è partito con i suoi due fratelli. Nel podcast racconta come ha fatto le valigie mettendoci le foto dei suoi amici, il viaggio e il suo progetto di diventare politologo».

La seconda storia?

«È quella di una giornalista famosa della rete tv indipendente Dozhd che è stata chiusa il 2 marzo. Si chiama Anna Mongayt ed era l'animatrice di una trasmissione politica molto popolare. Aveva paura di essere arrestata perché aveva parlato dell'operazione speciale e criticato il potere russo. Temeva molto la legge contro le fake: non si possono mostrare immagini con i cadaveri. Avete visto cos' è successo con i corpi ritrovati a Bucha, i russi dicono che non sono dei veri cadaveri ma sono dei fake. Lei ora si trova a Tbilisi, dove si sente sicura e fa la sua trasmissione in streaming, su Youtube, dice quello che vuole e si può vedere anche a Mosca». 

La terza storia?

«Protagonista è un'attrice molto conosciuta che era stata arrestata con il figlio di 16 anni perché aveva deposto i fiori sul ponte di Mosca dove è stato ucciso il politico Boris Nemtzov nel giorno dell'anniversario. Le avevano detto che se avesse continuato con questo suo attivismo sarebbe stata messa su una lista nera e non avrebbe più potuto recitare. E allora anche lei ora si trova in Georgia». 

Come ha scelto queste storie e perché a Tbilisi?

«Ho scelto personaggi diversi provenienti da ambienti differenti per mostrare che ci sono giovani, giornalisti, attori che compiono questo esodo. Secondo i dati ufficiali dall'inizio dell'operazione speciale 25-30 mila persone hanno attraversato la frontiera georgiana. Tbilisi per molti è la prima tappa».

E questi podcast dove vengono pubblicati? Si possono ascoltare anche a Mosca?

«Si possono pubblicare su Apple, non in Russia, ma in Russia si possono ascoltare. Io non ho problemi a farlo. Li pubblico io stessa. È il modo per continuare il mio mestiere anche se non ho più uno stipendio. Ci ho investito, pago il montatore con i miei soldi, lo faccio per il mio piacere». 

È un mezzo diverso di fare informazione rispetto al giornale. Ma come si informano i russi?

«Ci sono quelli che si interessano e cercano l'informazione su internet. Si può guardare YouTube, ci sono gli streams della radio Eco di Mosca e della tv Dozhd che son chiuse, ma i giornalisti lavorano dalla Georgia, fanno 3-4 ore al giorno di informazione. Poi ci sono i canali social Telegram, il giornale Meduza che è di base a Riga, in Lettonia. Alla televisione russa c'è solo propaganda, io non la guardo mai. Chi vuole informarsi, può farlo. Io leggo la BBC e FrancePresse e poi attraverso la VPN si può accedere a Facebook dove si trovano molte informazioni».

Ma veramente come dicono gli ultimi sondaggi l'80 per cento dei russi approva la politica di Putin?

«Non sono in grado di dirlo perché non si può aver fiducia dei sondaggi fatti in uno stato piuttosto totalitario, dove si vive tra l'autocrazia e la dittatura. Quelle cifre non significano niente. Io parlo molto con i tassisti come fanno i giornalisti in tutto il mondo e ce ne sono che dicono che gli ucraini sono fascisti, altri che sono contrari all'operazione speciale». 

Nei giorni scorsi il capo redattore della Novaja Gazeta, Dmitry Muratov, premio Nobel per la pace, è stato aggredito in treno da uno sconosciuto che gli ha buttato della vernice rossa addosso. Che cosa sa di questa aggressione?

«Stava andando a Samara dalla mamma. È stato attaccato da una persona che gli ha lanciato addosso dell'acetone che poteva fargli molto male agli occhi. Speriamo che la sua vista non sia compromessa. Quell'uomo l'ha insultato dandogli del traditore e urlandogli di lasciare la Russia. È stato arrestato uno, ma pare fossero in due. Pensiamo che Muratov fosse controllato dalla polizia o dai servizi segreti che sapevano su quale treno doveva salire».

In questi giorni ci sono manifestazioni di protesta a Mosca? Lei partecipa?

«Ci sono, ma con poche persone che arrivano e vengono subito arrestate e passano notti e notti negli uffici di polizia. Penso che siano degli eroi, ma non ci vado e non mi vergogno di dirlo perché io faccio il mio lavoro di giornalista e piuttosto mi vergogno del mio paese che fa l'operazione speciale, per i soldati russi che muoiono e per le vittime civili. Se anche andassi in piazza con 5 mila persone, non cambierebbe niente. E dunque io continuo a fare il mio lavoro». 

Otto e mezzo, scontro brutale sulla censura di Putin. Il duello tra Massimo Giannini e il giornalista russo Fedorov. Federica Pascale su Il Tempo l'1 aprile 2022.

"Novaya Gazeta dava informazioni sbagliate. Non è stata chiusa, ha deciso il direttore di chiudere temporaneamente perché c'è una legge che non permette di dare notizie sbagliate.” Così il giornalista russo Petr Fedorov, capo del dipartimento rapporti internazionali della tv russa RTR, ospite di Lilli Gruber durante la puntata di venerdì 1 aprile di Otto e Mezzo, il talk show politico in onda su La7. Risponde da studio il direttore de La Stampa Massimo Giannini, in difesa del giornale russo costretto alla chiusura: “Chi decide quando una notizia è sbagliata? Il Cremlino?” domanda a Fedorov.

“La differenza tra il nostro sistema e il vostro sistema, come ha ricordato Mario Draghi nella conferenza stampa della scorsa settimana, è che nelle liberal democrazie non è il governo che decide quali sono le notizie giuste e quali quelle sbagliate, come invece lei sta dicendo” puntualizza Giannini, che spiega le dinamiche che hanno portato all’interruzione della stampa del giornale russo, che si autodefinisce indipendente ed è certamente lontano dalle posizioni di  Vladimir Putin: “È vero che la Novaya Gazeta ha sospeso le pubblicazioni autonomamente, ma le ha sospese perché aveva preso la seconda censura e se avesse preso anche la terza, e l'avrebbe presa sicuramente, avrebbe chiuso per sempre. Ha capito perché ha sospeso le pubblicazioni? Per preservare il marchio.”

Fedorov non arretra di un centimetro e nega ogni cosa, chiarendo ciò che durante questa guerra è stato spesso dimenticato, e cioè che anche l’Ucraina non spicca tra le liberal democrazie: “Non è così, pubblicava informazioni che non corrispondevano a verità. Lei deve sapere che in Ucraina, che voi pensate essere un Paese democratico, sono vietati tutti i canali televisivi e tutti i partiti d’opposizione. Ma per voi è normale, è una cosa democratica! Utilizzate un doppio standard!”.

A sostegno della sua tesi, Giannini - querelato qualche giorno fa dall’ambasciatore russo a Roma, Sergey Razov, insieme all’inviato Domenico Quirico per un articolo ritenuto diffamatorio - tira fuori la questione Navalny e chiede al giornalista russo quali sono, secondo lui, i motivi alla base della condanna dell’attivista russo di origine ucraine, tra i più critici del presidente russo. Fedorov spiega in soldoni ciò che è successo e accusa i media occidentali di voler trovare a tutti i costi un martire: “Dire che Navalny non ha colpe vuol dire che voi non conoscete la sua storia. Non sapete chi è Navalny, che ha cominciato come ultranazionalista russo. Avete bisogno di lui come icona che va contro Putin! Non sarebbe la prima volta” conclude Fedorov.

Il giornalista russo Fedorov fa impazzire Lilli Gruber: "Non siamo in guerra con l'Ucraina e la censura non c'entra". Federica Pascale su Il Tempo l'1 aprile 2022.

“Non ho paura della censura, posso tranquillamente dire ‘guerra’. Nessuno me lo vieta. Ma credo sia più giusto dire che è un’operazione speciale, perché non posso dire che c’è la guerra tra due Paesi se i rapporti commerciali continuano ad andare avanti.” Lo afferma Petr Fedorov, giornalista e capo del dipartimento rapporti internazionali della tv russa RTR. Fedorov è ospite in collegamento da Mosca di Lilli Gruber a Otto e Mezzo, il talk show politico in onda su La7. Durante la puntata di venerdì 1 aprile, il giornalista ha affrontato il tema della censura nel suo Paese e ovviamente quello della guerra in Ucraina, invasa ormai da quaranta giorni dalla Russia.

“Potete anche chiamarla guerra ma dovete sapere che Kiev e Mosca non si trovano attualmente in condizione di guerra. L’Ucraina non ha dichiarato guerra alla Russia” sottolinea Fedorov, e infatti ufficialmente non è così ma certamente le città ucraine sono state bombardate e, seppur con difficoltà, sono state registrate diverse vittime". La tesi provoca la reazione stizzita della Gruber, che interrompe il russo e sottolinea come nei fatti quella che vediamo da più di un mese è una guerra a tutti gli effetti ma l'altro non cede e resta sulla sua posizione.  

Il conflitto nei progetti di Mosca doveva essere una guerra lampo. “Il piano iniziale effettivamente era più ottimistico ma perdere questa guerra, se volete chiamarla così, non è possibile perché abbiamo un potenziale molto più alto” afferma il giornalista russo. A differenza della prima guerra mondiale, “adesso abbiamo le forze, le nostre armate hanno quasi preso Mariupol e si trovano sul territorio dell’Ucraina. Il Donbass verrà liberato totalmente” conclude.

Risponde al giornalista il direttore di Limes Lucio Caracciolo, ormai ospite fisso del salotto televisivo: “L’obiettivo ottimistico della Russia era quello di entrare a Kiev trionfalmente e prendere controllo dell’Ucraina, ma ormai questo è escluso. L’altra possibilità è prendere una parte di Ucraina, ma questo comporta la distruzione di buona parte del Paese. Cosa resterà dell’Ucraina dopo questa guerra?”.

L'Aria che Tira, la vera Russia sta con Vladimir Putin. Nicolai Lilin e il sondaggio che sbugiarda l'Occidente. Il Tempo il 02 aprile 2022.

Nicolai Lilin e la scomoda verità sul sondaggio che dimostra che i cittadini della Russia stanno con Putin. Lo scrittore di origine siberiana è ospite della puntata del 2 aprile de L’Aria che Tira, talk show di La7 condotto da Myrta Merlino, e fa notare tutte le contraddizione degli europei nell’affrontare la tematica della guerra in Ucraina: “Noi occidentali abbiamo sempre difficoltà a capire ciò che succede in Russia, ci facciamo prendere facilmente da entusiasmi, dal fatto che gli studenti di un’università prendono posizione, le manifestazioni… Cari amici, la realtà dei fatti è che l'83% dei russi oggi sostiene il presidente Vladimir Putin... Gli studenti, i dissidenti e quelli che manifestano sono pacifisti e menomale che esistono, io sono molto felice che nel mio paese d’origine esista ancora la forza dei dissidenti e dei pacifisti, dalla quale noi occidentali potremmo anche imparare, con una dissidenza nei confronti del potere politico che ci opprime. La realtà dei fatti è che la Russia, un paese fatto soprattutto di periferia e provincia, sta all’83% con Putin”. 

“I soldati e i militari che combattono in Ucraina - fa notare lo scrittore - non provengono dalle famiglie di dissidenti, ma dalle persone che sostengono Putin. Questa è la vera Russia, che noi non vogliamo vedere, che noi per anni abbiamo denigrato, perché abbiamo instaurato solo rapporti con intellettuali e dissidenti, con quelli che ci piacevano. Ma noi non dobbiamo parlare di ciò che ci piace, dobbiamo - conclude Lilin - guardare la realtà dei fatti e costruire la nostra iniziativa diplomatica in base a questi”.

Maurizio Caverzan per "La Verità" il 10 aprile 2022.

Buongiorno Michele Santoro: le stanno facendo pagare di aver detto che la guerra è un nemico più mostruoso di Vladimir Putin?

«Mi sembra evidente che il nemico più grande sia la guerra. Una guerra che potrebbe essere nucleare e mettere in discussione l’esistenza della nostra specie». 

Le fanno pagare di non demonizzare abbastanza Putin?

«Pago già un’emarginazione che non è cominciata con questa guerra. Mi sono battuto contro l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi, ho raccolto voti per chi si dichiarava diverso da lui. Ma che alla prova dei fatti non lo è affatto».

Questa guerra finirà solo con la destituzione di Putin?

«Siamo di fronte al congelamento delle posizioni. L’ipotesi più sciagurata per l’Europa è l’allungarsi del conflitto. Ai morti e ai massacri si aggiungerà la situazione tragica dei profughi e di tutti coloro che già stanno sopportando le conseguenze della pandemia. Il numero dei poveri aumenterà enormemente». 

Il vicesegretario della Nato Mircea Geoana ha teorizzato che più si arma l’Ucraina prima finisce la guerra.

«La traduzione pratica di questo linguaggio è il ricorso a sistemi sofisticati di contraerea e all’uso di missili a medio raggio. Quale sarebbe la risposta di Putin? Armi nucleari tattiche? Nessuno ricorda come iniziano le guerre che finiscono male».

Per esempio?

«Il bombardamento dell’Afghanistan giustificato dalla mancata consegna di Bin Laden, ucciso anni dopo in Pakistan. La guerra è continuata per altri undici anni e si è conclusa con una rovinosa ritirata. Oppure l’invasione dell’Iraq giustificata dalla presenza delle inesistenti armi chimiche che ha portato all’Isis e a milioni di morti». 

Questi fatti giustificano l’azione di Putin?

«Ne creano le premesse. Putin chiede: perché gli americani possono perseguire unilateralmente i propri interessi strategici e io non posso perseguire quelli russi? La Nato non c’entra? Ma se i militari ucraini vengono addestrati in America vuol dire che l’Ucraina già si comporta come un paese della Nato».

Ha torto Biden quando dice che siccome Putin non vuole trattare, l’unica possibilità per riportare la pace è schiacciarlo militarmente?

«I fatti lo smentiscono. Le rivelazioni del Wall Street Journal sul tentativo del cancelliere tedesco Olaf Scholz dimostrano che chi non ha voluto trattare è Volodymyr Zelensky». 

L’Europa e l’Italia hanno interesse a seguire l’America in questa strategia?

«Secondo me non ha interesse nemmeno l’America. È una strategia che si è dimostrata fallimentare in Iraq, Afghanistan, Libia. Oggi Biden vuole creare un muro tra Europa e Russia. Ma questo spinge Putin in braccio alla Cina, creando un blocco asiatico in grado d’influire in maniera decisiva sul dollaro». 

E l’Europa e l’Italia?

«L’economia europea sarà la più penalizzata. Quanti profughi e disoccupati avremo? Per me è grave che la destra appaia più sensibile alle condizioni degli strati disagiati. Cosa ci dice il voto in Ungheria e in Serbia? Non vince l’indignazione nei confronti di Putin. Perché Marine Le Pen recupera su Macron. Questi politici non sono certo nelle mie simpatie, ma si mostrano più preoccupati per le sorti dei più deboli. In Italia il Pd è totalmente indifferente alle conseguenze della guerra sui ceti più poveri. Mentre devo sentire Giorgia Meloni dire una cosa ovvia: chiudere il gas per noi è un suicidio».

Perché Mario Draghi è il più zelante nel seguire Biden?

«Temo che la mancata elezione al Quirinale l’abbia trasformato in un’anatra zoppa. Lo stesso governo è un’anatra zoppa. Prima non si poteva aprire una crisi per la pandemia ora per la guerra. Il governo sopravvive e basta. Draghi è l’alfiere della linea dell’"intervento armato umanitario". Zero iniziativa». 

Cosa pensa dell’alternativa pace o aria condizionata?

«La guerra la stanno facendo con i missili non con i condizionatori». 

Forse ritiene risolutive le sanzioni.

«Allora perché ha approvato l’invio di armi, decisione che, per conto mio, offende la Costituzione. Dovremmo inviare armi a tutti i popoli aggrediti, come fa intendere Giuliano Amato?».

Il fatto che tutti i sondaggi diano una maggioranza contraria all’aumento delle spese militari avrebbe meritato più attenzione?

«Da 15 anni non abbiamo un governo espressione del voto popolare e meno della metà degli aventi diritto va alle urne. Questa democrazia che difendiamo anche con le armi non mi pare scoppi di salute». 

Perché Letta e Draghi sembrano gareggiare in allineamento alle volontà americane? C’è qualche poltrona da conquistare?

«Credo che non riescano a concepire un pensiero diverso. Per Letta è più grave perché è un leader di un partito». 

Il Pd ha il pensiero dei Dem americani.

«Biden e Letta si assomigliano, ma nel Pd non ci sono Ocasio-Cortez o Bernie Sanders».

I massacri di Bucha sono il punto di svolta della guerra: prima si parlava di negoziato ora c’è spazio solo per le armi?

«Quella strage, sulla quale restano molti dubbi, porta a concludere che con Putin che fa queste cose non si può trattare. Gli stupri, il missile per i bambini. Tutto viene narrato per arrivare a questa conclusione». 

Non l’hanno convinta le intercettazioni dei servizi segreti tedeschi che svelano i dialoghi tra i militari russi che giustiziano i civili?

«Le intercettazioni e i morti sono veri. Metto in discussione la connessione tra gli elementi, trasformati in una comunicazione organica per trasformare tutto in uno scontro tra cattivissimi e buonissimi». 

Per esempio?

«Chiamare fossa comune quella buca con i cadaveri davanti alla chiesa. Le fosse comuni servono ad occultare cadaveri giustiziati, non adagiati in attesa di essere sepolti. Si mostrano i corpi sulla strada, ma non si capisce quando e dove siano stati giustiziati. Poi si mostra una camera di tortura… Il video dell’ingresso a Bucha della milizia ucraina non mostra né la fossa comune né i morti per strada. Siccome i morti dovevano essere per forza visibili, qualcuno dovrebbe spiegare perché non sono stati mostrati subito».

Il sindaco di Bucha a Piazzapulita ha detto che i cadaveri erano in un’altra zona.

«Nel filmato con la milizia ucraina si vedono levarsi i droni. E i droni li avrebbero visti. E secondo me li hanno visti, ma hanno preferito tenerli al riparo per confezionare adeguatamente il racconto. Detto questo, i morti sono veri. C’è un altro fatto». 

Cioè?

«Esiste una guerra civile tra russofili e ucraini. Una guerra combattuta non dagli eserciti regolari, ma da civili e bande avvezze a rappresaglie, torture, vendette di tutti i tipi, com’è sempre nelle guerre civili».

Questa è una guerra dominata dalla propaganda?

«Sicuramente. II linguaggio degli ucraini è molto efficace per gli occidentali, meno per la Cina o l’India. Come per l’esercito, i consulenti americani funzionano bene anche per la comunicazione». 

Stiamo camminando su un piano inclinato? Come spiega la voglia di guerra dei nostri media?

«Il conformismo si era già steso ovunque con la pandemia. Perciò i nostri media erano già pronti... Se si deve arrivare a Mosca è necessaria un’escalation della comunicazione». 

Ora si calcano i toni apocalittici e si parla di genocidio, forni crematori, stupri di bambini…

«Si usano termini che possono tradurre l’equazione tra Putin e Hitler, sovrapporre le due immagini. Ma mentre Hitler aveva la volontà di annientare gli ebrei, non credo che Putin voglia sterminare gli ucraini». 

Letta ha risposto al suo invito di pronunciarsi per il diritto di Alessandro Orsini a partecipare ai programmi Rai?

«No».

Il professor Orsini a Cartabianca censurato da Andrea Romano e Valeria Fedeli, l’eurodeputata Francesca Donato zittita da Paola Picierno: oltre che della guerra il Pd è diventato il partito dell’intolleranza?

«Il Pd per nascondere il vuoto politico in cui si trova si rifugia nell’indignazione facile. Ma dimentica i 20 milioni di russi morti per combattere Hitler». 

L’unica voce che prova ad affermare una visione diversa è papa Francesco?

«Mi ha colpito che a Fabio Fazio che gli chiedeva delle conseguenze della guerra sui bambini il Papa ha risposto che più che dei bambini dobbiamo parlare della guerra. Certo, muoiono i bambini, muoiono i civili. Non trascuriamo la sofferenza enorme di vedere questi morti. Però può essere fuorviante parlare dei bambini e delle morti piuttosto che del sacrilegio della guerra. Appena si palesa la possibilità di un accordo si torna a parlare delle atrocità dei bambini e non di come fermare la guerra».

Francesco ha detto che prevale lo schema della guerra sullo schema della pace.

«Bisogna che l’Unione europea si comporti diversamente dagli Stati Uniti e costringa Biden a cercare l’accordo. Perché fin quando non lo cercherà Biden la guerra continuerà». 

Un’altra accusa è ai neutralisti. Come sostituire alla prospettiva Zelensky o Putin quella guerra o pace?

«Innanzitutto, non sono neutrale. Condanno l’invasione di Putin di uno stato sovrano. Sto decisamente dalla parte dell’Ucraina. Quelli che s’indignano nei dibattiti ci facciano capire quale obiettivo perseguono. Vogliono arrivare a Mosca e rendere la Russia un Paese simile all’Italia? Non avvertono il peso dei morti, non vogliono la fine del massacro? Vogliono che si concluda con un "lieto fine democratico". Fra quanti mesi, quanti anni, quanti morti?».

Siamo sempre all’esportazione della democrazia?

«Se la esportiamo con la forza dell’esempio mi va benissimo. Se la vogliamo imporre con le bombe o con una possibile distruzione del mondo, mi va meno bene». 

In questa situazione la priorità della pace rischia di aggiornare uno slogan storico: meglio russi che morti?

«L’idea che Putin possa invadere la Polonia è una favoletta buona per giustificare l’equazione con Hitler. I cosacchi non si abbevereranno alla fontana di San Pietro; ma se fosse possibile vorrei evitarmi anche le distruzioni e le radiazioni nucleari». 

Estratto dell'articolo di Luciano Capone per ilfoglio.it il 12 maggio 2022.  

"La democrazia è sotto attacco, accade con le bombe in Ucraina ma anche con le azioni quasi sincronizzate di un asse di dittatori, dalla Russia ai paesi arabi, che sta destabilizzando l’Europa con la corruzione e la propaganda”. 

[Secondo] Rula Jebreal c’è […] una connessione tra le guerre dei dittatori arabi, da Assad a Mohammad bin Salman, e quella di Putin in Ucraina. 

[...]  “Dopo le sanzioni i dittatori del Golfo stanno aiutando Putin, Abu Dhabi è un hub internazionale per il riciclaggio di denaro russo rubato ai russi. Usano petrolio come ricatto all’occidente, è il petrolio che finanzia la guerra di Putin e chi lo sta aiutando a tenere i prezzi alto sono Arabia Saudita ed Emirati Arabi”.

 “Sono partita dall’Italia che La7 era casa mia, ora è irriconoscibile. Raccontavamo quello che accadeva, ora invece vedo in generale sulle televisioni italiane un’operazione pericolosissima di revisionismo storico e di manipolazione che mette a confronto sullo stesso piano la realtà e la propaganda”. 

È il pluralismo delle opinioni, non si può imporre una narrazione unica sulla guerra. “Ci sono le opinioni e ci sono i fatti. Ognuno ha diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti. Non si possono riciclare storie non vere, mettere in dubbio il massacro di Bucha, sentire professori che parlano di come si vive felici in dittatura. Si dà spazio a propagandisti russi che sono in guerra contro la verità. [...] È triste vedere opinionisti progressisti che cadono in quella trappola, accecati dalle posizioni contro l’America, che va criticata e condannata quando commette errori e crimini, ma non sempre e a prescindere”. 

Non posso chiederti di Michele Santoro, con cui hai lavorato, che pare corrispondere a questo profilo: è uno dei più strenui accusatori degli Stati Uniti e oppositori dell’invio delle armi all’Ucraina. “Ho visto il suo confronto con Paolo Mieli, che gli ricordava quando diceva a Bush di fermarsi mentre ora non lo dice a Putin ma a Biden. Mi rattrista vedere una persona che abolisce la capacità di critica.

Non vorrei farne una questione personale, ma in questi anni ho visto una metamorfosi anche sul tema del Covid e dei vaccini. Non è che pur di andare conto il governo o l’America si può andare contro la verità, perché così muore la democrazia. È strano vedere Santoro che dice le stesse cose di Salvini”. 

[…]Santoro direbbe che è lei che è cambiata, perché ora in America frequenta gente ricca e potente. “Sono sempre coerente con i miei princìpi, non ho fatto altro che raccontare chi è distrutto dalla guerra a partire dalla Siria. Chi vuole deflettere dall’argomento in genere la butta sul personale per delegittimare l’interlocutore. Sono parole che definiscono più chi è diventato Santoro. Chi definisce me è il mio lavoro”.

Il filosofo Santoro e l’idea di «guerrità». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2022.

Che tristezza sentire certe frasi: «Io non penso che Putin sia il maggiore nemico che noi abbiamo di fronte in questo momento. Il nemico più mostruoso che sta di fronte a noi è la guerra. La guerra è mostruosa». Ospite di Corrado Formigli a «Piazzapulita», Michele Santoro si scopre filosofo: è irrilevante che un dittatore abbia invaso un Paese democratico, il mostro da sconfiggere risiede nell’iperuranio, è l’idea astratta di «guerrità». 

Santoro non è filosofo, è un ex conduttore, il miglior arruffapopoli di sempre: sì certo, Putin è «un aggressore violento che sta usando mezzi raccapriccianti», ma, se andiamo a vedere, non è che Zelensky un po’ se l’è cercata? E poi è tutta colpa di Biden, della Nato, dell’Ucraina che ora non vuole mettersi d’accordo con la Russia. In quanto a orrore, c’è stato ben altro. 

Santoro si commenta da solo, forse ha ragione chi sostiene che le sue trasmissioni sono state la madre di tutti i populismi.

La scena però non era da talk. Pareva un documentario sulla natura dove il vecchio maschio alfa deve cedere il passo al leone più giovane. Più Santoro invocava la «logica», più veniva irriso dall’allievo ingrato: «Stasera sembri il prof. Orsini». Faceva tenerezza.

I fanatici della sollevazione, quando passano di moda, intristiscono come filosofi della repressione.

Giada Oricchio per iltempo.it  l'1 aprile 2022.  

“La guerra in Ucraina? In Rai il dibattito è sulla compagna di Montalbano”. Michele Santoro colpisce e affonda la televisione pubblica. Il giornalista, ospite di Corrado Formigli a "Piazzapulita", l’approfondimento politico del giovedì sera di LA7, ha criticato gli USA, a suo dire, più vogliosi di guerreggiare che di cercare la pace con il presidente russo Vladimir Putin, colui che il 24 febbraio scorso ha ordinato l’invasione del Paese guidato da Zelensky. 

E ne ha anche per il servizio pubblico: “I media non hanno mai goduto di uno stato di salute così forte, specie la Rai. Non ha una trasmissione di approfondimento leader un genere in cui una volta trionfava. Non ha un programma di satira politica in prima serata: devi andare sul 9 per trovarne una. Non si fa un film che crei una discussione nel Paese” e ha aggiunto caustico: “L’ultimo grande dibattito è stato l’abbandono della compagna di Montalbano da parte di Montalbano, altre discussioni non ne ricordo”.

Non ha salvato nemmeno i telegiornali: “Vedo tre giornali identici! Forse sono matto io, ma abbiamo l’80% delle forze politiche al governo e quindi un’adesione bulgara alla guerra e invece c’è il 30-40% di italiani che non sono d’accordo con il conflitto, questi dove si esprimono?” e Formigli ha precisato: “Sono il 54% secondo un sondaggio SVG che ha dato il direttore Mentana, sono scettici sul fatto che l’aumento delle spese militari sia una soluzione al conflitto in atto”. Così Santoro ha piazzato l’ultimo colpo: “Ecco, nei tg Rai si può veder rappresentato un 5% di scetticismo?”.

Alessandro Orsini al Giffoni Film Festival, esplode il caso. Chi si infuria di più: "Evento rovinato". Il Tempo il 17 luglio 2022

Alessandro Orsini ospite del Giffoni Film Festival e la polemica è servita. Il professore della Luiss, saggista e studioso di terrorismo internazionale diventato famoso per le sue posizioni considerate filorusse dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, è tra gli ospiti d'onore del prossimo festival del cinema per ragazzi di Giffoni. Ma la notizia tra chi ci ha ironizzato ("e Lavrov quando c'è"?) e chi, come Guido Crosetto, l'ha commentata sarcastiscamente ("dopo le Bimbe di Conte, ecco i Bambini di Orsini") ha fatto esplodere i social.

L'annuncio della partecipazione alla kermesse, nella sezione "Impact!", ha scatenato un vero e proprio vespaio di polemiche tra gli utenti fino a costringere il fondatore e direttore della rassegna, Claudio Gubitosi, a rispondere alle critiche: "In 52 anni - ha detto - non ho mai deluso né i miei ragazzi né i loro genitori. La quasi totalità degli invitati viene proprio scelta dai giovani".

A infuriarsi di più sul fronte politico è stato l'ex parlamentare fondatore di Fratelli d'Italia Guido Crosetto che ha picchiato durissimo: "Nati come festival del cinema per ragazzi e finiti a luogo di parte. Complimenti per essere riusciti a rovinare una stupenda idea".

Felice Naddeo per corriere.it il 17 luglio 2022.

Neanche il tempo di postare l’annuncio: «Alessandro Orsini il 27 luglio ospite al Giffoni Film Festival». E in pochi minuti la protesta tocca gli stessi picchi della tendenza della discussione su questo tema sui social. Incontenibile. A tal punto da spingere la direzione del Gff a rispondere con chiarezza e determinazione sulla serata che vedrà protagonista il docente di sociologia del terrorismo della Luiss, accusato più volte di essere filo Putin (cosa che lui ha sempre smentito) e talvolta chiamato in causa per alcune sue frasi sul Fascismo. Orsini, a Giffoni, incontrerà i giovani della «sezione Impact», ragazzi dai 18 ai 30 chiamati «a discutere di attualità - è precisato nel regolamento del Festival - con lo sguardo rivolto al futuro e rispondere ai dubbi che hai lasciato, fino ad oggi, irrisolti». 

Le proteste

Una valanga di contestazioni invade i social del Gff. C’è chi addirittura chiede interrogazioni parlamentari, l’intervento del governatore della Campania o di qualche ministro per bloccare eventuali finanziamenti pubblici. Nel coro di proteste c’è anche la voce, anzi il tweet, di Guido Crosetto: «Dopo le “Bimbe di Conte” ecco i “bambini di Orsini”. Nati come festival del cinema per ragazzi e finiti a luogo di parte. Complimenti per essere riusciti a rovinare una stupenda idea». 

La replica

Ma la direzione del Festival non rinuncia alla sua idea di aprire un confronto pubblico, anche con un personaggio divisivo come Alessandro Orsini. Che, in passato, aveva creato polemiche anche parlando della sua città d’origine: Napoli, definita «inferiore moralmente». Anzi, Dal Gff nessuna marcia indietro sulla decisione. «Giffoni è un territorio libero - posta la direzione del Festival- dove il pensiero è libero. Dove tutti sono liberi di esprimere le proprie opinioni. Abbiamo trattato temi sensibili coinvolgendo le diverse opinioni e ragioni e mettendole a confronto in un campo aperto e al di fuori di ogni preconcetto».

Giuseppe Alberto Falci per corriere.it  l'1 aprile 2022.  

Il conduttore ritorna in prima serata, a Piazza Pulita, e scatena le polemiche: difende il professor Orsini, ricorda che Bush non è stato migliore di Putin, critica l’informazione in generale. Il segretario del Pd replica: «Noi dalla parte dei popoli oppressi» 

Michele Santoro ritorna in prima serata, intervistato da Corrado Formigli a Piazza Pulita, e divide l’opinione pubblica. C’è chi lo attacca e c’è chi lo difende. Perché le sue parole su La7 sono diventate un caso. «Io non penso che Putin sia il maggiore nemico che noi abbiamo di fronte in questo momento. Il nemico più mostruoso che sta di fronte a noi è la guerra. La guerra è mostruosa». E ancora: «Processiamo Putin, ma allora processiamo pure Bush… A Baghdad i bambini sono morti bruciati dai missili». «Siamo schiacciati da una narrazione unica».

La critica è spietata anche nei confronti del mondo dell’informazione e si completa con la difesa del professore della Luiss, Alessandro Orsini, finito al centro delle polemiche per le sue posizioni filo putin e perché avrebbe dovuto ricevere un compenso dal programma CartaBianca: «È una violazione pretendere di non pagare un pensiero che si considera scomodo». 

E mentre tutto questo succedeva Enrico Letta, segretario del Pd, attaccava duramente l’ex conduttore di Annozero: «Caro Michele, nella tua lunga e appassionata lettera ho cercato, senza trovarla, una parola: “resistenza”. Il valore fondante della nostra Repubblica, il segno distintivo della vicenda della sinistra in Italia.Io sto con quel popolo. E il Pd è e sarà sempre dalla parte dei popoli oppressi: dalla parte di Jan Palack proprio come te». 

E ancora sempre Letta: «La lista degli errori dell’Occidente non può essere un argomento sufficiente per persuaderli alla resa». Infine, ecco l’affondo sul caso Orsini: « L’idea che ci sia qui da noi un tentativo di oscurantismo nei media, per di più avallato o alimentato da Pd, è falsa e inaccettabile. Perché un conto sono le posizioni sull’invasione della Russia, sulle quali continueremo a confrontarci, un conto il presunto soffocamento delle voci “libere”».

Da adnkronos.com il 27 aprile 2022.

Scontro tra Enrico Mentana e Michele Santoro sul palco del 'Maurizio Costanzo Show', in onda domani in seconda serata su Canale 5. Tema dell'acceso botta e risposta tra i due giornalisti, la correttezza dell’informazione in tempo di Covid e guerra Russia-Ucraina. A innescare la miccia è stato il direttore del Tg La7 affermando che "non si può dare la parola a uno scienziato e poi a una persona contro la scienza; come non si può dire che Putin ha scatenato la guerra contro l’Ucraina e poi allo stesso tempo che Zelensky se l’è cercata…".

Immediata la replica di Michele Santoro: "Sentiamo solo un’unica grande fanfara che suona sempre la stessa musica, sul Covid come sulla guerra. E allora, mandiamo pure più armi e facciamo più morti! Ho sentito definire addirittura Putin come un animale". E Mentana: "Perché, è un vegetale? Una cosa è certa: non vedo Mosca invasa dagli ucraini…".

Da liberoquotidiano.it il 2 maggio 2022.

Michele Santoro dopo essere stato attaccato sui social da Rula Jebreal - "Mi rattrista ascoltare Santoro che giustifica un dittatore sanguinario" - ribatte alla giornalista in diretta da Massimo Giletti, a Non è l'arena, su La7, nella puntata del 1 maggio: "Rula Jebreal dice che difendo Vladimir Putin? Ho grande stima di Rula, tanto più che lei frequenta tanti potenti nel mondo. Forse qualche volta dovrebbe venire, come me, anche tra quelli che potenti non sono, per esempio quelli che hanno fatto la marcia Perugia-Assisi..."

Quindi, chiarisce il giornalista, c'è poco da accusare: "Il più alto numero di persone solidali con gli ucraini era lì, in quella marcia. Persone normali, umili, che non hanno tutti i soldi delle persone che frequenta Rula. Persone che camminano per la pace, persone che hanno ospitato in casa degli ucraini".

L'intervento di Michele Santoro a Non è l'arena in cui risponde alle accuse di Rula Jebreal 

"Tutte queste persone non dormono pensando ai civili che muoiono in Ucraina per questa guerra", tuona Santoro. Che confessa: "Io non riesco più a dormire da quando è scoppiata questa guerra quindi l'idea che io possa essere a favore dell'intervento di Putin è pura follia".

"Un anno prima dell'invasione di Putin", conclude Michele Santoro, "Zelensky aveva detto che il compito dell'Ucraina era di riconquistare la Crimea. Sette giorni prima dell'intervento di Putin, gli ucraini avevano detto di essere contrari agli accordi di Minsk. Non parliamo sempre e solo del sanguinario".

C’è posta per Miché. L’edipico duello tv tra Hannibal Santoro e il suo allievo trendintò. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Aprile 2022

Siamo cresciuti guardando la tv di quelli bravi, non sapendo che non sarebbe durata e che essere bravi non basta a essere buoni maestri. La puntata tragica di Piazza Pulita, la campagna elettorale con D’Alema e l’arte di fare domande a Stalin (per non parlare di Conte aspirante Funari)

«La notte mi appare Andreotti, e io lo saluto con affetto». Vieni qui, Michele Santoro. Abbracciamoci. Piangiamo insieme di nostalgia per tutti quelli che abbiamo detestato, preso per il culo, dato per scontati quando il dualismo non era tra gente che sa fare un mestiere e scappati di casa. Straziamoci di rimpianto per certe feroci risposte andreottiane di non più di quattro parole.

Era una ventina d’anni fa, sembrano venti secoli. Michele Santoro – il più gran drammaturgo della tv italiana degli ultimi decenni – mi sembrava la tragedia d’un uomo ridicolo. Avevo guardato abbastanza tv nella vita da sapere già allora che era il più bravo, ma non bastava. Una volta scrissi che una giacca gli faceva difetto sulla pancia. L’anno dopo c’incontrammo a una serata elettorale (poi ci torniamo), e giorni dopo lui corse a dare un’intervista. Cito a memoria: ho conosciuto Guia Soncini, quella che scrive che non sono bello, e vedendola ho pensato, ma con che coraggio. Mi dispiacque moltissimo che non avesse capito che era una critica sartoriale: mai gli avrei dato del bambino grasso, conosco le regole del mondo e quelle dei carboidrati.

Comunque: pensavo fosse facile, avere in tv i Santoro (e i Guzzanti, e – avete capito: il Novecento). Ero cresciuta guardando la tv di quelli bravi: mica lo sapevo, che non sarebbe durata. E che essere bravi non basta a essere buoni maestri: quelli che hanno lavorato con Santoro sono tutti dei disastri. È come se da lui avessero preso solo l’ego e non il talento.

Poi l’altra sera Santoro va ospite del più belloccio dei suoi ex allievi, Corrado Formigli. È una mezz’ora straziante, e non solo per quell’incipit su Andreotti. Perché è evidente che Formigli pensa d’essere Giotto che ospita Cimabue per dimostrargli che ora il genio è lui, che l’ha superato, che conosce le regole del mestiere e gliene farà dono. Solo che quello è Cimabue ma l’altro è un allievo brocco di cui la storia non ci ha consegnato il nome, mica Giotto.

È come se Andreotti andasse ospite di Giuseppe Conte. È tutt’un sottotesto di: io sono ancora grande, sei tu che sei rimasto piccolo. È l’impietoso confronto tra uno che ha del mestiere, e uno che ha degli anelli.

C’è un momento in cui Formigli, la cui idea di intervista è buttare lì ogni tanto un trending topic, lo interrompe con un lunare «quindi sei d’accordo col professor Orsini», e Santoro sbotta «non è che lo dice Orsini, lo dice la logica». Poiché mi ero persa questo favoloso incontro giovedì sera, l’ho visto ieri. Subito dopo aver letto un articolo, probabilmente scritto da una aspirante Formigli, che cominciava così: «Siamo a New York: se ce la fai qui, ce la puoi fare ovunque, diceva Jack Nicholson nel film Qualcosa è cambiato». E perché non «Francamente me ne infischio, diceva Celentano su Rai 1». Nei giornali non c’è un Santoro che al brocco di turno – che purtroppo non sa niente – dica: ora ti spiego. Ti spiego Frank Sinatra, ti spiego Via col vento, ti spiego il mondo oltre Orsini e gli altri trendintò del tuo codice postale.

(Notevole anche, quanto a dinamica «t’interrompo con un trendintò», il passaggio in cui Santoro dice che la Rai non crea più dibattito culturale, «l’ultimo dibattito è stato sull’abbandono della compagna di Montalbano»; Formigli, che ascolta le risposte quanto le ascoltava Catherine Spaak ai tempi di Harem, lo interrompe: «E la guerra?»).

Ma il momento più squisitamente tragico dell’intervista fatta da Topo Gigio ad Hannibal Lecter – scusate: da Formigli a Santoro – è quello in cui Formigli gli legge una lettera che gli ha scritto (a Santoro) Enrico Letta. È stato lì che ho capito che Santoro vuole bene a Formigli (sarete affezionati anche voi a un figlio che non v’è riuscito particolarmente bene). Quando gli ha detto: «Fai il portalettere, come Chiambretti». Mentre non c’era persona che fosse stata viva negli ultimi venticinque anni che non vedesse, guardando Formigli, i «signora Pinuccia, c’è posta per te» dei postini di Maria De Filippi (nel mondo televisivo di Maria, Formigli sarebbe stato valorizzato per le sue qualità: a quest’ora lui sarebbe più ricco e noi avremmo una tv migliore).

Poi c’è l’elemento identitario, che travalica l’affetto: un maschio puoi trattarlo come un imbecille, e quindi Santoro può infierire con certi «Scusami: se non sono democrazie non sono Stati sovrani? Puoi ripetere?» che con la Innocenzi o la Costamagna non si sarebbe permesso mai.

Già si sapeva che non è il cosa, è il come: altrimenti Corrado e Michele farebbero lo stesso mestiere; altrimenti Giuseppe Conte, che in diretta Facebook dice «voi cittadini che ci seguite da casa» farebbe pure lui lo stesso mestiere (e probabilmente pensa di farlo, ha il piglio di chi sta per chiamare la réclame, dice a una telecamera le stesse cose sul budget per le armi che dice Santoro, però le dice peggio).

Quella sera di molti anni fa in cui Santoro non mi trovò abbastanza bella (ancora non me ne sono fatta una ragione, ma non distraiamoci con la mia indomita sofferenza), egli duettava su un palco napoletano con D’Alema. Erano tutti e due candidati alle Europee. Andando lì in macchina, nella conversazione era venuto fuori il Kossovo (ero giovane, cercavo di sembrare intelligente); avevo chiesto a D’Alema: «Come glielo spiega, a Santoro, che le fece la trasmissione dal ponte di Belgrado e che ora è un vostro candidato?»; D’Alema aveva risposto «Io? Io non gli devo spiegare niente. Sarà lui che deve spiegare perché si è candidato con me».

Prima del dibattito, in quella sera lontana in cui eravamo tutti più magri, Santoro aveva spiegato ai conduttori che le domande dovevano essere lunghe. D’Alema aveva sorriso con un certo compiacimento: «Era la tecnica delle interviste a Stalin. Loro chiedevano: “Compagno Stalin, è vero che mentre la Grande madre Russia sta lavorando pacificamente, l’America capitalista perpetra l’aggressione…” E lui rispondeva: “Sì”».

Ieri, mentre recuperavo Conte (già segnaposto, ora non saprei: forse aspirante Funari, ma meno talentuoso) che strologava rivolto a una telecamera per quarantaquattro minuti di monologo senza neanche la réclame, sfogliavo il Venerdì, dove Anais Ginori intervistava Emmanuel Carrère, che descriveva Putin come «un uomo solo e poco aperto al mondo. Putin si vanta di usare poco internet, di leggere solo le note dei suoi consiglieri». Quello viene da una grande tradizione di risposte monosillabiche; questi strologano allo stesso modo che siano divi televisivi o aspiranti capi di governo. Cosa potrà mai andar storto.

Angelo Zinetti per “Libero quotidiano” l'1 aprile 2022.

Manovra a tenaglia contro Hunter Biden, figlio del presidente degli Stati Uniti. Da Mosca si annuncia una inchiesta della Duma sui suoi affari in Ucraina, come chiesto giorni fa da Donald Trump, mentre il Washington Post, quotidiano molto influente in area democratica, ha pubblicato le prove che il 52enne avvocato e uomo d'affari ha ricevuto pagamenti dalla Cina. 

Quest' ultima vicenda è la più grave: un accordo firmato da Hunter e da top manager di una compagnia privata cinese è stato rivelato dal quotidiano di Jeff Bezos che ha trovato documenti che proverebbero la presenza di rapporti tra la famiglia Biden e dirigenti cinesi della Cefc, una delle dieci compagnie private più grandi della Cina. 

Per quattordici mesi, scrive il giornale americano, il conglomerato dell'energia e i suoi manager hanno versato 4,8 milioni di dollari a entità controllate da Hunter Biden e da uno zio, come risulta da alcuni documenti e dalle email conservate nella memoria di un computer e ritenuto appartenere proprio a Hunter.

Il Post non ha trovato prove che Joe Biden avesse beneficiato direttamente dalle transazioni, ma emergono accordi firmati dal figlio, Hunter, che avrebbe così approfittato della posizione pubblica del padre per guadagnare. 

Le attività estere del figlio del presidente sono al centro di un'inchiesta federale. L'obiettivo è capire se Hunter abbia nascosto al fisco gli introiti arrivati dalla Cina. Personale dello staff presidenziale ed ex membri dell'Intelligence americana ritengono che Hunter isaa innocente e che la memoria del suo computer possa essere stata manipolata dai russi al fine di compromettere la campagna del padre, ma i dati analizzati dal Post sarebbero coincidenti con quelli di altri documenti, tra cui attestati bancari.

Il figlio di Biden avrebbe ricevuto i 3,8 milioni di dollari dalla Cefc attraverso contratti di consulenza. Biden Jr avrebbe ricevuto un ulteriore milione di dollari per rappresentare negli Stati Uniti Patrick Ho, un manager del conglomerato cinese, finito poi sotto inchiesta per un caso di corruzione legato al Chad e all'Uganda. 

Questo accordo riporta le firme di Hunter e di Ho. Anche da Mosca arrivano brutte notizie per il rampollo presidenziale. La Duma di Stato russa ha infatti aperto una inchiesta su una presunta rete di bio laboratori controllati dagli Stati Uniti in Ucraina e riferirà delle conclusioni dei lavori al Presidente Putin e alle organizzazioni internazionali. 

La vicepresidente del parlamento russo, Irina Yarovaya, ha citato il coinvolgimento di Hunter Biden, con il suo fondo di investimenti Rosemont Seneca, e della sottosegretaria di Stato Usa per gli affari politici, Viktoria Nuland, a cui la Duma chiede formalmente spiegazioni. Pochi giorni fa era stato Donald Trump a chiedere a Putin di pubblicare le prove degli affari sporchi di Hunter in Ucraina. Subito esaudito.

Da “il Giornale”  l'1 aprile 2022.  

Le sanzioni contro la Russia dell'ultimo pacchetto «non saranno le ultime». Parola del vicecancelliere tedesco, Robert Habeck, che lo ha annunciato a margine del colloquio con il collega francese, Bruno La Maire, nel giorno in cui la Russia lancia la sua guerra del gas. Habeck ha spiegato che i due ministri hanno già individuato i punti che dovrebbero essere contenuti in un prossimo pacchetto.

 L'Europa non indietreggia, nonostante le minacce sul gas della Russia di Vladimir Putin e quelle dirette al figlio di Joe Biden, Hunter. Il ministero della Difesa russo sostiene di avere una corrispondenza tra Hunter Biden, e i dipendenti del Defense Threat Reduction Agency americana e gli appaltatori del Pentagono. 

I documenti confermerebbero - secondo quanto annunciato da Igor Kirillov, capo delle forze armate russe di protezione dalle radiazioni, chimiche e biologiche - il suo ruolo importante nella fornitura di finanziamenti per il lavoro con gli agenti patogeni in Ucraina. Secondo alcuni esperti americani, l'inchiesta già avviata negli Usa su una serie di attività commerciali e finanziarie di Hunter all'estero, in Ucraina e Cina, potrebbe portare a un'incriminazione. 

Accuse, controaccuse e minacce. Ecco il contesto. E i timori sulla Russia crescono in tutto il vecchio continente. In allarme la Svezia, dopo la scoperta che i due aerei russi che il 2 marzo scorso hanno violato lo spazio aereo svedese, vicino a Gotland, erano equipaggiati con armi nucleari.

 L'aviazione svedese, che a causa della guerra ha aumentato il livello di attenzione, ha notato in anticipo che i piloti russi si stavano dirigendo a Gotland. La violazione dello spazio aereo svedese è durata circa un minuto ed è considerata intenzionale dalle forze armate del Paese. In risposta, l'aviazione di Stoccolma ha fatto alzare in volo due caccia JAS 39 Gripen.

Nel frattempo, la Nato annuncia un'adesione rapida della Finlandia in caso di richiesta di adesione. «La Finlandia è un partner molto stretto della Nato - ha spiegato ieri il segretario generale dell'Alleanza Atlantica - Ho visitato la Finlandia e la Svezia e ho visto coi miei occhi quanto le loro truppe rispettino gli standard della Nato, quanto sappiano lavorare insieme a stretto contatto le truppe svedesi e finlandesi con quelle della Nato, e ovviamente se decidessero di fare domanda» di adesione «mi aspetto che siano benvenuti e che si trovi un modo per concordare velocemente sul protocollo di accesso. 

Ma sta alla Finlandia decidere e aspetteremo la sua decisione». In conferenza stampa Stoltenberg ha anche ribadito che «la Nato ha sempre sostenuto il diritto fondamentale di ogni Paese di scegliere il proprio percorso. È questo include il diritto di Svezia e Finlandia di non chiedere l'adesione alla Nato». «È stata la loro politica per decenni e l'abbiamo rispettata. Ma ovviamente rispetteremmo la Finlandia se cambiasse» linea «e dicesse di essere pronta per l'adesione. Questa è solo una decisione finlandese, una decisione sovrana.

Da agenzianova.com il 31 marzo 2022.  

Il figlio secondogenito del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, Hunter, guadagnò 4,8 milioni di dollari tra il 2017 e il 2018 grazie a un accordo finanziario con la compagnia energetica cinese Cefc. 

Lo rivela una nuova inchiesta pubblicata oggi dal quotidiano “Washington Post”, basata su documenti governativi, fascicoli giudiziari, dati bancari e sulle email contenute in un computer portatile appartenuto al figlio del capo della Casa Bianca. 

L’affare, racconta l’inchiesta, fu concluso ufficialmente il 2 agosto del 2017 con le firme dello stesso Hunter Biden e di un dirigente cinese di nome Gongwen Dong. Pochi giorni dopo, milioni di dollari iniziarono a d approdare su un conto corrente appena aperto presso la Cathay Bank. L’intera operazione durò tuttavia poco più di un anno.

“Molti aspetti dell’accordo finanziario di Hunter Biden con Cefc China Energy sono stati già resi pubblici e inclusi in un rapporto stilato dal Partito repubblicano al Senato nel 2020. L’inchiesta ha confermato molti dettagli chiave e ha trovato ulteriori documenti che mostrano le interazioni tra la famiglia Biden e i dirigenti cinesi”, si legge nell’articolo. 

I documenti mostrano che nel corso di 14 mesi il conglomerato cinese e i suoi dirigenti versarono 4,8 milioni di dollari a entità controllate da Hunter Biden e da suo zio. Non risulta invece alcuna prova che l’attuale presidente Joe Biden abbia beneficiato personalmente delle transazioni con la Cefc, iniziate un anno dopo la conclusione della sua esperienza da vice di Barack Obama e ben prima dell’annuncio della sua candidatura per le elezioni presidenziali Usa del 2020. 

Tra i documenti rinvenuti dal “Washington Post” figurano il pagamento di un onorario da un milione di dollari e quello di 3,8 milioni per attività di consulenza. Secondo il quotidiano statunitense, essi mostrano “come la famiglia abbia goduto delle relazioni costruite da Joe Biden in decenni di servizio pubblico”. 

Hunter Biden è già stato oggetto di un’indagine federale per presunta evasione fiscale e al centro dell’attenzione sono finiti anche i suoi affari in Ucraina, legati alla compagnia energetica Burisma e citati dai repubblicani in relazione a un possibile conflitto d’interessi. La Cefc ha rappresentato tuttavia l’affare più remunerativo mai condotto all’estero dal figlio del presidente degli Stati Uniti.

I potenziali progetti energetici discussi da Hunter Biden con la compagnia cinese non sono mai stati resi pubblici, ma l’uomo d’affari statunitense ricevette almeno 3,79 milioni di dollari in contratti di consulenza. Biden guadagnò poi un altro milione di dollari difendendo Patrick Ho, dirigente della Cefc accusato dagli Usa di aver organizzato in uno schema multimilionario di corruzione che coinvolse anche il Ciad e l’Uganda e successivamente condannato a tre anni di carcere.

Miranda Devine per nypost.com il 31 marzo 2022.  

Le sorprese non finiscono mai. Prima il New York Times. Poi la CNN. Ora il Washington Post si è accorto della storia del portatile di Hunter Biden - soltanto 18 mesi dopo che il New York Post ha scoperto lo scandalo, e un po’ troppo tardi per le elezioni del 2020.

Ma ora, dopo che la nostra storia è stata censurata da Big Tech e respinta come "disinformazione russa" dal democratico Adam Schiff, e 51 ex spie guidate dall'ex direttore della CIA John Brennan, evidentemente è sicuro ammettere che il portatile è reale e che le e-mail che abbiamo pubblicato possono essere autenticate. 

Naturalmente, tutti evitano l'inevitabile conclusione da trarre dalle prove contenute nel portatile che il figlio tossicodipendente del presidente, Hunter, ha abbandonato in un negozio di riparazione nel Delaware nell'aprile 2019: che Joe Biden, quando era vicepresidente, era a conoscenza di, e intimamente coinvolto in, un corrotto, multimilionario, schema di traffico d'influenza internazionale gestito da Hunter, e dal fratello di Joe, Jim Biden, nei paesi per i quali Joe era uomo di punta nell'amministrazione Obama, come Russia, Ucraina e Cina.

Il computer portatile di Hunter è un grande pezzo del puzzle che porta ad una conclusione così scioccante. Ma pur riconoscendo che il materiale sul portatile ha mostrato che Hunter stava "commerciando sul nome di suo padre per fare un sacco di soldi", come ha detto John Harwood, corrispondente della CNN dalla Casa Bianca, sia il Washington Post che la CNN si sono preoccupati di assolvere Joe Biden da qualsiasi coinvolgimento. 

"Non ci sono prove che il vicepresidente Biden, o il presidente Biden, abbia fatto qualcosa di sbagliato in relazione a ciò che Hunter Biden ha commesso", ha detto Harwood. 

Il Washington Post ha dichiarato di "non aver trovato prove che Joe Biden abbia personalmente beneficiato o conosciuto i dettagli delle transazioni con CEFC (azienda energetica cinese), che hanno avuto luogo dopo che aveva lasciato la vice presidenza e prima di annunciare le sue intenzioni di correre per la Casa Bianca nel 2020".

Un pezzo del New York Times all'inizio di questo mese, che pure ha riconosciuto tardivamente la veridicità del portatile - al 24° paragrafo - non ha esplicitamente scagionato il presidente, ma ha semplicemente ripetuto le difese legali che Hunter potrebbe montare se fosse incriminato dal gran giurì del Delaware, che lo indaga su presunte evasioni fiscali, riciclaggio di denaro e violazioni del Foreign Agents Registration Act. 

Senza dubbio questi prestigiosi media che per un anno e mezzo hanno trattato la nostra storia con sogghignante disprezzo hanno le loro ragioni per saltare a bordo. Per prima cosa, il loro obiettivo originale di rimuovere Trump dalla carica è stato raggiunto molto tempo fa, e Joe Biden è ora così impopolare che la sua guardia pretoriana si sta sciogliendo, e riferire sulla sua famiglia è meno pericoloso per gli inviti alle cene della Beltway.

Per un'altra ragione, non possono tenere all’oscuro il loro pubblico, mentre il procuratore degli Stati Uniti nel Delaware completa la sua indagine su Hunter. Dio non voglia che i loro lettori e spettatori si sveglino sul fatto che sono stati ingannati e tenuti all'oscuro dai loro media di fiducia. 

Ma invece di fornire ai loro lettori tutta la verità, e nient'altro che la verità, il Washington Post ha curiosamente lasciato fuori i fatti cruciali in due storie dettagliate sul portatile, martedì, in un articolo di quasi 7.000 parole. Il pezzo principale era intitolata "Inside Hunter Biden's multimillion-dollar deals with a Chinese energy company”. Un articolo che conferma i dettagli chiave e offre nuova documentazione delle interazioni della famiglia Biden con i dirigenti cinesi". 

Entra nel dettaglio degli affari di Hunter Biden con il conglomerato energetico cinese, controllato dallo stato, CEFC - ma non menziona che era il braccio capitalista della Via della seta, il progetto che mira a intrappolare i paesi in via di sviluppo con prestiti massicci e superare gli Stati Uniti come potenza economica. 

Ma non menziona i 6 milioni di dollari che la CEFC ha versato sul conto bancario aziendale del fidato amico della famiglia Biden, Rob Walker, un ex funzionario dell'amministrazione Clinton, la cui moglie, Betsy Massey Walker, era stata l'assistente di Jill Biden quando era la seconda donna. Il 23 febbraio 2017 e il 1° marzo 2017, due bonifici, ciascuno per 3 milioni di dollari, sono stati inviati a Rob Walker da State Energy HK Limited, una società con sede a Shanghai collegata a CEFC. 

Quel denaro era un pagamento per il lavoro svolto da Hunter e dai suoi partner commerciali, durante gli ultimi due anni della vicepresidenza del padre Joe, in paesi come Romania  e Russia, usando il nome di Biden per aprire porte e trovare acquisizioni per CEFC.

Il Washington Post non menziona nemmeno la società SinoHawk Holdings, che è stata costituita il 15 maggio 2017, per una joint venture tra CEFC e Hunter e i suoi partner commerciali. Questo era l'affare per il quale Joe Biden doveva ottenere una quota del 10%, come citato in una famigerata e-mail del 2017 sul portatile, "10 [per cento] detenuto da H [Hunter] per il grande uomo." 

L'ex socio d'affari di Hunter, il CEO di SinoHawk, Tony Bobulinski, ha detto pubblicamente che Joe Biden è il "pezzo grosso". Ma il Washington Post curiosamente non menziona Bobulinski, anche se il suo nome è su tutte le e-mail e i documenti sul portatile relativi alla CEFC. Non menziona nemmeno che Bobulinski ha incontrato Joe Biden due volte nel 2017, per essere approvato come CEO di SinoHawk.

Considerando che il giornale dice di essere in possesso di una copia del disco rigido del portatile di Hunter del giugno 2021, queste sono omissioni curiose, che servono a sminuire il ruolo di Joe Biden. 

"E' chiaro che i media sono stati complici nell'aiutare a far eleggere Joe Biden sopprimendo quelle che sapevano essere storie dannose", dice il senatore repubblicano Ron Johnson del Wisconsin, che con il senatore GOP Chuck Grassley dell'Iowa ha condotto un'indagine su Hunter Biden ed è stato accusato dai democratici di spacciare "disinformazione russa" per il suo disturbo.

"La storia del Washington Post dovrebbe essere vista come ciò che i consiglieri di Nixon una volta definirono come un 'hangout limitato modificato'", dice, usando una frase di propaganda che significa rilasciare una piccola quantità di informazioni nascoste per nascondere i dettagli più importanti. 

Un altro pezzo del puzzle di Biden è stato fornito dall'inchiesta di Johnson e Grassley che ha avuto accesso ai "rapporti di attività sospette" confidenziali che le banche sono tenute a segnalare al Dipartimento del Tesoro, e ha permesso loro di rintracciare milioni di dollari da Cina, Russia, Ucraina e Kazakistan versati in conti associati a Hunter e Jim Biden e ai loro associati.

Johnson sostiene che la loro inchiesta è stata ostacolata dai democratici, che hanno organizzato falsi briefing dell'FBI per lui e poi hanno fatto trapelare dettagli alla stampa per mettere in dubbio i testimoni che voleva citare in giudizio, come Hunter e i suoi partner. 

Ma sono stati anche i membri del suo stesso comitato repubblicano a mettersi in mezzo, negando a Johnson i numeri di cui aveva bisogno per citare in giudizio i testimoni quando il suo partito aveva il potere. 

Johnson non li nomina, ma i senatori Mitt Romney e Rob Portman erano tra quelli che si sono opposti alla natura "politica" dei mandati di comparizione. 

Johnson e Grassley sono stati difesi ora, ma immaginate quanto sarebbe stata diversa la storia se fossero stati sostenuti dalla loro stessa squadra. Joe Biden probabilmente non sarebbe presidente oggi. 

Dagotraduzione dell’articolo di Michael Goodwin per nypost.com il 31 marzo 2022.  

A volte una storia di giornale è solo una storia su qualcuno. E a volte la storia rivela inavvertitamente molto di più sul giornale stesso. 

È il caso dell'articolo di giovedì del New York Times su Hunter Biden. Ciò che il lettore perspicace apprende sul Times è molto più importante di qualsiasi altra cosa sia stata rivelata sul figlio del presidente. 

L'unica notizia recente è che Hunter Biden ha preso un prestito per pagare al governo federale fino a 1 milione di dollari di tasse arretrate all’interno di un’inchiesta sulle sue iniziative imprenditoriali con società e individui stranieri. 

Ma questa notizia, che viene data nel primo paragrafo, è quasi oscurata dalla bomba che il Times spara successivamente. È solo nel paragrafo 24 che l’articolo menziona le e-mail che coinvolgono Hunter Biden e i suoi soci in quegli affari, con queste due frasi: "Quelle e-mail sono state ottenute dal New York Times da una cache di file che sembra provenire da un laptop abbandonato dal signor Biden in centro assistenza del Delaware. L'e-mail e gli altri documenti nella cache sono state autenticate da persone che hanno familiarità con i Biden e con l'indagine". 

Il cuore si blocca! Al New York Times sono serviti quasi 17 mesi per riconoscere, a malincuore, solo una minima parte di ciò che i lettori del New York Post hanno appreso già nell'ottobre 2020. Ovviamente, anche i lettori del Times avrebbero appreso i fatti allora, se il loro giornale si occupasse ancora delle notizie invece di fare il galoppino dei democratici. 

Il Post ha rivelato quelle e-mail e molte altre cose dopo essere entrato in possesso del contenuto del disco rigido del computer di Hunter Biden. I lettori sanno anche che il Times faceva parte della cricca Big Government, Big Tech e Big Media che ha cercato di nascondere quelle e-mail al pubblico durante le elezioni presidenziali del 2020.

Il motivo di quell'insabbiamento era semplice: molte delle e-mail, da e verso Hunter Biden, implicavano Joe Biden nell'attività di traffico di influenze internazionale gestita da Hunter e dal fratello di Joe, Jim Biden. Se l'intero paese avesse saputo che Joe Biden stava usando in modo fraudolento il suo ruolo per aiutare la sua famiglia a fare affari, ora saremmo al secondo anno del secondo mandato di Donald Trump. Questo è un dato di fatto, perché l'8% degli elettori di Biden ha detto ai sondaggisti che avrebbe sostenuto Trump se avessero saputo prima del contenuto bomba nascosto in quel computer.

Ma il Times, Facebook, Twitter, la CNN e il deep state non potevano permettere che ciò accadesse. Avevano trascorso quattro anni a cercare di cacciare Trump dalla Casa bianca, sostenendo falsamente che aveva collaborato con la Russia per rubare le elezioni del 2016. Erano determinati a non fargli ottenere l’incarico per altri quattro anni. 

Quindi, oltre a diffondere fake news su Trump, quando avevano notizie vere sulla corruzione della famiglia Biden, invece di diffonderle e consentire agli utenti di condividerle sui social media, hanno cospirato per occultarle. Bisogna incolpare loro per la disastrosa presidenza di Joe Biden.

E ora il Times ha il coraggio di comportarsi come se avesse fatto un’eroica inchiesta sostenendo che le e-mail "sono state autenticate da persone che hanno familiarità con loro e con l'indagine". Oh per favore. 

A differenza del Times, The Post non ha fatto affidamento su fonti anonime, dicendo apertamente che Rudy Giuliani ha dato al giornale una copia del disco rigido del laptop. Giuliani ha detto che proveniva dal proprietario di un centro assistenza del Delaware, che anche The Post ha intervistato. Ha detto che un uomo che ha firmato la ricevuta con il nome di Hunter Biden gli ha lasciato il computer per le riparazioni e non l'ha mai recuperato.

Le storie nascoste in quel computer, complete di immagini di Hunter drogato che fa sesso con prostitute, erano esplosive di per sé – e questo ben prima che Tony Bobulinski entrasse in scena. L'ex wrestler e ufficiale della Marina è stato per breve tempo partner e CEO di una joint-venture che Hunter Biden ha creato con un comunista cinese a capo di una conglomerata dell’energia.

Bobulinski, nelle settimane precedenti alle elezioni di novembre, ha pubblicamente  riconosciuto come autentiche alcune delle email, che riportavano il suo nome, che erano nel pc. Tra queste ce n’era una, indirizzata a se stesso, a Hunter e Jim Biden e ad altri due soci su come avrebbero diviso il loro capitale nella nuova joint venture. 

Quattro, incluso Hunter, otterrebbero ciascuno il 20%, mentre Jim Biden avrebbe preso il 10%. L'e-mail incriminante diceva che quel "10" aggiuntivo sarebbe stato detenuto da H, cioè Hunter, "per il pezzo grosso". Bobulinski ha identificato Joe Biden come il “pezzo grosso”. E nessuno nella famiglia Biden l’ha mai smentito. Sarebbe anche sciocco se lo facessero visto che Bobulinski è andato all'FBI a cui ha consegnato tutti i suoi dispositivi elettronici. Da questa decisione, probabilmente l’inchiesta su Hunter ha trovato nuova linfa ed è stata prorogata. 

Bobulinski ha anche rivelato pubblicamente, a me e ad altri, del suo incontro nel maggio del 2017 con Joe Biden sull'accordo con i cinesi e ha riferito che Joe Biden, che aveva appena lasciato la Casa Bianca da vicepresidente, era pienamente informato dei dettagli del piano messi a punto nei precedenti due anni. Cosa farà il New York Times al riguardo? Farà trascorrere altri 17 mesi per autenticare quel pacchetto di mail?

Ecco un'idea: perché non permette a Ken Vogel, uno dei tre giornalisti che ha firmato l’articolo ieri, di scrivere ciò che sa. Bobulinski ha detto a Vogel che l'e-mail del "pezzo grosso" era autentica già nell'ottobre 2020, ma il Times non ha mai ritenuto opportuno stampare questa notizia. E cosa farà il Times riguardo alla mail in cui Hunter si lamenta con sua figlia che suo padre gli prende metà delle sue entrate? O quello in cui un partner di altri affari, Eric Schwerin, scrive di spostare denaro tra i conti correnti di Hunter e Joe?

Quindi forse Joe Biden non ha semplicemente mentito sul fatto di non aver mai saputo degli affari di suo figlio. Forse stava ottenendo la sua fetta da quegli affari. 

Come ho scritto, il russo Vladimir Putin e il cinese Xi Jinping sanno tutto di questi accordi, incluso quanti milioni sono stati trasferiti da oligarchi e società legate ai comunisti a conti bancari controllati dai Biden. Sanno anche cosa hanno fatto i Biden per i soldi. Le uniche persone che non conoscono tutti i fatti sono gli americani. E per questo, possiamo ringraziare il New York Times e i suoi co-cospiratori corrotti.

Dopo che il New York Times ha verificato tardivamente le mail, l'addetto stampa della Casa Bianca Jen Psaki non si è nemmeno preoccupata di difendere la sua vecchia affermazione secondo cui l’articolo del New York Post sul pc di Hunter Biden non era altro che "disinformazione russa". 

Psaki è stata pressata durante il suo solito briefing con i giornalisti sulle sue fuorvianti affermazioni e su quelle dell'allora candidato Joe Biden. 

"Il New York Times ha autenticato le e-mail che sembrano provenire da un laptop abbandonato da Hunter Biden nel Delaware", ha iniziato il giornalista di RealClearPolitics Philip Wegmannn. "Il presidente in precedenza ha affermato che la storia del New York Post era 'un mucchio di spazzatura' e che si trattava di una 'macchinazione russa'. Sostiene questa valutazione?". Psaki ha ciurlato nel manico senza rispondere.

Marc Innaro "filo-Putin"? Ecco cosa ha subito nell'ultimo mese: Rai e Pd, un caso inquietante. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

È caduta la cortina di ferro dell'informazione Rai. Dal 30 di questo mese Marc Innaro, il corrispondente da Mosca misteriosamente silenziato dalla tv pubblica il 5 marzo scorso e messo in ferie forzate per imprecisati motivi di sicurezza, potrà riprendere le trasmissioni. Il troppo stroppia e alla fine la corda si spezza. Il tentativo del Pd di controllare in Italia l'informazione sulla guerra in Ucraina, alla stessa stregua di come Putin fa a Mosca, ha prodotto un disastroso effetto boomerang. Proprio perché il nostro, nonostante e non grazie al Partito democratico, è ancora un Paese dove in qualche modo va mantenuta una parvenza di libertà d'informazione.

Ieri è dunque caduto l'editto Romano, dal cognome del parlamentare del Pd (di nome fa Andrea) che ha fatto fuoco e fiamme per sospendere l'attività dell'ufficio di corrispondenza Rai di Mosca. Il (dis)onorevole (anti)democratico peraltro è lo stesso che si è dannato per far saltare il contratto che la trasmissione di Rai3, Cartabianca, aveva firmato con il professor Alessandro Orsini, l'esperto di crisi ucraina più ambito dai media, messo al bando dalla tv pubblica perché sul tema la pensa più come papa Bergoglio che come Letta (Enrico). 

NOTIZIE DA ...ROMA

I fatti. La nostra tv pubblica mantiene in Russia un ufficio di corrispondenza con due giornalisti - ma al momento della sospensione erano ben quattro- e altri sette dipendenti. Benché sia, dopo quella del Cairo, la redazione della Rai all'estero meno costosa al mondo, è comunque ragionevole supporre che il lusso ci costi dai due ai tre milioni l'anno. Ma tant' è, l'informazione è bene prezioso, per il quale val la pena pagare, specie se essa riguarda l'attività del nemico pubblico numero uno, lo zar Putin. Ebbene, dal 5 marzo, l'attività di corrispondenza è stata interrotta, una decisione delirante, un po' come se una pasticceria vendesse panettoni tutto l'anno ma sospendesse la fornitura nel mese di dicembre. 

Per oltre tre settimane quindi i telespettatori Rai, pur pagando il canone, hanno potuto avere notizie della Russia solo da Roma, Washington, Bruxelles o dal fronte di Kiev. La motivazione addotta è stata la sicurezza del personale, anche se l'85% dei dipendenti è russo e il capo della sede, il suddetto Innaro, è rimasto a Mosca tutto il tempo. In ferie forzate, di modo che non solo non potesse mandare servizi dalla Russia, ma neppure potesse collegarsi con i telegiornali e i programmi d'approfondimento Rai sulla guerra per raccontare cosa sta accadendo. La spiegazione reale si chiama censura. Innaro, napoletano figlio di una francese che ha lavorato per quarant' anni alla sede Nato di Bagnoli (ma forse era una spia del KGB mai scoperta), studia russo dal 1979, quando si iscrisse alla facoltà di Lingue Orientali, era con il presidente della Repubblica Pertini e l'eterno Andreotti il solo italiano presente ai funerali di Andropov, nel 1984, ed è corrispondente a Mosca da sette anni. In altre parole, è il giornalista più informato sulla Russia sul quale possiamo contare. 

LA PURGA

Ciononostante, ha dovuto subire quattro settimane di purga stalinista perché all'inizio della guerra disse che la Nato, dalla caduta del muro di Berlino, si era allargata molto e questo è sempre stato vissuto come una minaccia dalla Russia, che malgrado le difficoltà economiche si sente ancora una potenza mondiale e non vuole essere trattata come il due di picche con briscola fiori. Disse anche che forse l'Occidente, negli ultimi trent' anni, ha fatto qualche errore con Mosca, sia di gestione che di sottovalutazione strategica. Un'analisi geopolitica poi condivisa da molti, praticamente da tutti i più importanti conoscitori del mondo russo, ma che metteva in crisi la narrazione del governo e del Pd di una guerra giusta per la quale gli italiani devono essere pronti a qualsiasi sacrificio. 

Poiché i democratici nostrani, intesi come partito e non come vocazione, temono più di ogni cosa la verità e le notizie che non possono controllare, tanto bastò per trovare una scusa per chiudere la bocca a Innaro, unico corrispondente delle tv occidentali a essere sul posto senza essere abilitato a parlare. La forza del giornalista è stata quella di non cedere, di rimanere a Mosca, con una presenza che ogni giorno si è fatta sempre più imbarazzante per la Rai. Fino a che, per bulimia, ossessione del controllo, fondamentalmente stupidità e ignoranza, Romano e compagni hanno fatto il tragico errore di far saltare il contratto Rai a Orfini, altra voce libera sull'Ucraina. 

LIBERTÀ DI STAMPA

È stato troppo pure per il nostro debole sistema di libertà d'informazione. Il tappo è saltato e qualcuno in Rai deve aver deciso che ridare la parola a Innaro sarebbe stato il minore dei mali. Anche perché altrimenti, come già successo sul Covid e sui vaccini, gli italiani, che per la maggioranza nutrono forti perplessità in merito alla guerra, avrebbero iniziato a informarsi su Telegram o su altri canali social ricettacoli di menzogne e di deliri di invasati. Resta che il caso moscovita pone un problema sulla libertà d'informazione del quale dovrebbe occuparsi anche il premier Draghi, che due giorni fa ha tirato le orecchie a Putin per come tratta i giornalisti. Che in Russia non ci sia libertà di stampa è noto, ma presidente, noi teniamo di più che sia preservata in Italia, dove siamo arrivati perfino a censurare il Papa se osa criticarla sull'invio delle armi in Ucraina.

Sospese le pubblicazioni. Novaya Gazeta si ferma, la censura russa colpisce il giornale di Anna Politkovskaja e del Nobel Muratov: “Chiusi fino alla fine della guerra”. Redazione su Il Riformista il 28 Marzo 2022. 

La Novaya Gazeta, il più importante giornale russo indipendente, ovvero non schierato col regime di Vladimir Putin, sospende le sue pubblicazioni sul web e su carta.

L’annuncio è comparso sul portale online del quotidiano, fondato nel 1993, ed è una scelta di fatto obbligata dopo un provvedimento della Roskomnadzor, l’agenzia statale per il controllo sui media, di ‘avviso’ per i contenuti degli articoli del giornale comparsi su internet e carta, il secondo dopo quello ricevuto lo scorso 22 marzo.

“Abbiamo ricevuto un altro avviso da Roskomnadzor. Di conseguenza, sospendiamo la pubblicazione del giornale sul sito Web, nelle reti e sulla carta – fino alla fine dell’”operazione speciale sul territorio dell’Ucraina”. Cordiali saluti, i redattori di Novaya Gazeta”, è il messaggio scritto dai redattori della Novaya Gazeta per annuncia la sospensione delle pubblicazioni.

Il giornale è un punto di riferimento per l’informazione libera in Russia: il suo caporedattore e direttore è il Premio Nobel per la Pace Dmitry Muratov, che nei giorni aveva annunciato di voler metter all’asta la medaglia ottenuta dall’Accademia svedese per donare il ricavato al Fondo per i profughi ucraini.

Ma alla Novaya Gazeta aveva lavorato anche Anna Politkovskaja, la giornalista assassinata a Mosca nell’ottobre 2006 e nota a livello internazionale per le sue inchieste su Vladimir Putin e sull’Fsb, i servizi di sicurezza eredi del Kgb sovietico. Per l’omicidio della Politkovskaja furono condannati nel giugno 2014 cinque persone, ma ad oggi non è mai emerso il vero mandante dell’omicidio: da sempre il sospetto è che la morte della giornalista sia stata ‘commissionata’ dal Cremlino per silenziare una voce scomoda. Ma in 29 anni di attività sono stati cinque i giornalisti della testata morti o uccisi in circostanza misteriose.

La scelta della Novaya Gazeta, che non ha specificato il contenuto dell’ordine ricevuto dalle autorità di Mosca, arriva sulla scia dell’ulteriore stretta alla libera informazione decisa dal Cremlino, con i giornalisti che rischiano pene fino a 15 anni di carcere in caso di diffusione di “informazioni false”, ovvero non in linea con la propaganda del governo.

Secondo il Guardian la Roskomnadzor ha contestato alla Novaya Gazeta di non aver etichettato in uno dei suoi  articoli un’organizzazione non governativa come “agente straniero” in base alla legislazione russa.

‘Mia madre Anna Politkovskaja questa l’avrebbe senz’altro chiamata guerra'. Domani pubblica un'anticipazione dell'intervista a Vera, la figlia della giornalista russa assassinata nel 2006, realizzata da Piazzapulita che andrà in onda questa sera su La7. REDAZIONE su Il Domani il 05 maggio 2022.

«Mia madre aveva radici ucraine, sicuramente sarebbe stata in prima linea a raccontare il conflitto, dalla parte dei più deboli. Gli avrebbe dato il nome che merita: senz’altro l’avrebbe chiamata guerra», dice Vera Politkovskaja. 

Ai microfoni di Piazzapulita parla in esclusiva la figlia di Anna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata nel 2006. 

«Quel giorno l’ho salutata e sono uscita, me la ricordo sull’uscio. Ci siamo anche parlate al telefono e poi non ha più risposto alle mie telefonate, non abbiamo mai avuto giustizia», ricorda così Vera Politkovskaja il giorno nel quale fu uccisa sua madre.

«Mia madre aveva radici ucraine, sicuramente sarebbe stata in prima linea a raccontare il conflitto, dalla parte dei più deboli. Gli avrebbe dato il nome che merita: senz’altro l’avrebbe chiamata guerra», dice Vera Politkovskaja. 

Ai microfoni di Piazzapulita parla in esclusiva la figlia di Anna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata nel 2006. 

«Le armi? Sono una pacifista convinta. Ma l’Ucraina è in fiamme, come si poteva lasciare un Paese inerme senza intervenire, senza dargli la possibilità di difendersi?», continua. 

La giornalista russa venne uccise nel 2006 all’interno dell’ascensore del suo palazzo, a Mosca, raggiunta da tre proiettili, di cui uno alla testa. La cronista lavorava a una inchiesta sui crimini commessi dalle forze di sicurezza cecene da pubblicare sul suo giornale Novaja Gazeta. 

«Quel giorno l’ho salutata e sono uscita, me la ricordo sull’uscio. Ci siamo anche parlate al telefono e poi non ha più risposto alle mie telefonate, non abbiamo mai avuto giustizia», ricorda così quel giorno Vera Politkovskaja.

Anna Politkovskaja, la voce spezzata della giornalista sola contro il Cremlino. Il 7 ottobre del 2006 la giornalista russa veniva assassinata nell'ascensore del palazzo in cui abitava a Mosca. Oggi i suoi libri e i suoi diari vengono letti da milioni di persone per capire "la Russia di Putin", mentre quell'esecuzione a sangue freddo è ancora avvolta nel mistero. Davide Bartoccini il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

È il 7 ottobre del 2006, un venerdì pomeriggio, quando Anna Politkovskaya, giornalista nota per i suoi coraggiosi reportage sulla Novaya Gazeta, veniva assassinata a sangue freddo nell’ascensore del palazzo dove abitava a Mosca. Quattro colpi di pistola, uno sparato dritto alla testa, per non correre rischi, per essere certi di aver portato a termine il lavoro. Accanto al cadavere viene ritrovata, insieme ai bossoli, la pistola semiautomatica Makarov calibro 9 che ha sparato quel giorno, e due buste con generi alimentari: la Politkovskaya stava rientrando a casa dopo aver fatto la spesa. Aveva 48 anni.

Nel frattempo, altrove, l’allora primo ministro Vladimir Putin - retrocesso in rispetto delle leggi costituzionali prima di tornare a ricoprire la sua posizione di presidente della Federazione Russa “a vita” - stava spegnendo le candeline per festeggiare il suo compleanno. Cinquantaquattro.

Per 8 lunghi anni, dopo un primo tentativo fallimentare di risolvere il caso, l’esecutore e il mandante di quell’omicidio rimasero avvolti nel mistero. Poi nel 2014 cinque uomini di origine cecena vennero accusati di essere i sicari inviati a mettere a tacere la giornalista. Oggi il “caso Politkovskaya” per molti è ancora un esempio dei metodi repressivi di Mosca. E, nell’infuriare della guerra in Ucraina, tra giovani mandati a morire, defenestrazioni e intrighi di palazzo per lotte intestine, un monito da prendere in esame per una narrazione spietata quanto inquietante.

La vita per un’inchiesta

“Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati”, annunciava in un libro pubblicato in tempi non sospetti la Politkovskaya, che definendosi un volto come tanti "nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di un’altra città della Russia", non desiderava altro che vivere la vita e scrivere ciò che vedeva. Qualcosa che in Russia non è così facile da portare a termine senza dedizione e coraggio. Anche dopo che sono caduti i muri e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è diventata una Federazione con degli ex Stati satellite e degli alleati più o meno invisi a organizzazioni come le Nazioni Unite o la Nato. A partire dal 1999, la Politkovskaya decise di raccontare attraverso i suoi occhi la Seconda guerra cecena. Un conflitto condotto da Putin con una brutalità spietata, secondo alcuni osservatori. Per questo, e per altre opinioni libere di venire espresse in uno Stato “libero”, la giornalista dell’indipendente periodico Novaya Gazeta è stata ripetutamente minacciata e intimidita. È stata avvelenata, due volte; detenuta dalle forze di sicurezza russe. Infine, come la storia ci ha mostrato, giustiziata da un sicario. "Noi russi", scriveva “non vogliamo essere granelli di sabbia sugli stivali altolocati” di un tenente colonnello del Kgb (riferendosi a Putin e al suo passato, ndr).

Una morte esemplare

Una giornalista che rivela verità scomode può anche essere uccisa. Ma spesso la sua morte, invece che finire per lasciarla nel dimenticatoio, lascia una vasta eco nello spazio e nel tempo.

Come riportato dal New York Times, Petros V.Garibyan, l’uomo che guidò le indagini sull’assassinio, dichiarò apertamente: "Credo che la persona che ha ordinato l'omicidio lo abbia fatto non solo come ritorsione contro Anna Politkovskaya per le sue pubblicazioni critiche". E ancora, parlando del mandante dell'assassinio: "Ha commesso un atto dimostrativo, in primo luogo volto a intimidire tutti i giornalisti, così come la società e le autorità". Dopo aver indagato a lungo sulla vita della giornalista, sui suoi trascorsi, sui suoi rapporti e sul suo lavoro, gli investigatori di Mosca hanno stabilito che l'assassino era legato ai suoi “reportage provocatori”, continua l’investigatore, che però non ha trovato collegamento alcuno tra l’operato della giornalista e l’establishment russo.

Secondo altri punti di vista meno “ufficiali” però, le cose starebbero diversamente. È idea comunemente diffusa nei circuiti dissidenti che Putin abbia usato al tempo la “questione cecena” per consolidare il suo potere agli occhi del Cremlino ed estenderlo oltre frontiera. Questo collegamento avrebbe mosso la Politkovskaya ad approfondire le sorti del conflitto, trascinandola in un inferno che - a suo dire - non poteva esimersi dal documentare. Per questo continuò a recarsi in prima linea rischiando la vita per raccontare “ciò che vedeva”. Il suo ultimo articolo descriveva infatti come le truppe fedeli al futuro leader sostenuto dal Cremlino in Cecenia, l’ormai noto Ramzan Kadyrov, torturassero i civili rimanendo nella più bieca impunità.

I colpevoli materiali

Dopo un primo processo fallimentare nel 2009 che vedeva due imputati distanti dai fatti, il 9 giugno del 2014 si è concluso il processo per l’assassino della giornalista Anna Politkovskaya, condannando i cinque sicari ceceni che sono stati giudicati colpevoli dell’esecuzione “materiale” dell’omicidio della giornalista. Questo senza poter identificare in alcun modo i mandanti. Secondo quanto emerso in seguito i cinque uomini, due dei quali condannati all’ergastolo, erano killer a pagamento che in cambio di 150mila dollari misero a tacere una giornalista scomoda. Chi avesse pagato quella somma rimase un mistero e lo rimane tutt’oggi. Anche se molti si sono fatti la propria idee. Alcuni nomi infatti “aleggiano” sul triste destino della giornalista vittima di quello che è stato considerato fin dal primo momento un omicidio politico.

La redazione del Novaya Gazeta, e molti comitati di solidarietà mobilitatisi dentro e fuori i confini russi, hanno sempre sperato che la "volontà politica" avrebbe consentito, prima o poi, di rivelare il mandante dell’esecuzione. Le indagini si trovano di fronte a un muro di gomma, lo stesso muro che la Politkovskaja descriveva con solerzia nel suo libro reportage “La Russia di Putin” (2005). Libro inchiesta citato in apertura in cui la giornalista accusava lo stato maggiore dell’Esercito di negligenze, crimini e insabbiamenti; dove il Servizio segreto russo per le questioni “interne” (Fsb) viene accusato di soffocare metodicamente la libertà d’espressione per imporre una dittatura che ricalchi i metodi adottati dai sovietici - sebbene in maniera più sofisticata -; e che include una parte essenzialmente dedicata alle intricate questioni che regolano la criminalità organizzata in Russia.

Mandanti occulti e giornalisti morti

Tra il 1992 ed il 2021 in Russia e dintorni si sono verificate le morti di 58 giornalisti dissidenti o distanti dagli ideali del Cremlino. Anna Politkovskaya è la più nota tra questi e come molti di loro non credeva “al caso”. È affermazione soggetta al beneficio del dubbio, ma necessaria da riportare nel rispetto dell’onestà intellettuale, che la libertà d’espressione nella Federazione Russa sia minacciata da un “bavaglio” che non tollera dissidenze su argomenti delicati - come l’operazione militare in Ucraina.

Al tempo della Seconda guerra cecena le accuse mosse nei confronti di Ramzan Kadyrov - basate sulla documentazione di omicidi, rapimenti, torture e la distruzione di interi villaggi - potrebbe aver provocato l'antipatia del leader ceceno sul quale la Politkovskaya si era sempre espressa con toni nettamente inquisitori. Sebbene Putin avesse liquidato al tempo il lavoro della Politkovskaya definendolo "estremamente insignificante per la vita politica in Russia”, qualcun altro potrebbe non aver condiviso il punto di vista.

Il 5 ottobre 2006 la Politkovskaya aveva rilasciato un'intervista a Radio Svodoba durante la quale affermava senza indugi che Kadyrov era un "codardo armato fino ai denti”, "lo Stalin dei nostri giorni". L’ultimo articolo sul quale stava lavorando, secondo le cronache, voleva documentare la tortura e l'uccisione di due persone da parte di un corpo delle forze dell'ordine comandato dallo stesso Kadyrov. Quattro colpi di pistola lo hanno privato della sua conclusione. Ma, nella ferocia di questo epilogo, gli hanno concesso la conclusione più esemplare. Un monito a considerare le “questioni della Russia” dalla più tetra e disperata angolazione: quella di una giornalista coraggiosa e morente che sdraiata sul pavimento assiste alla rivalsa del carnefice in attesa del “kontrolnyi vystrel”, il colpo di controllo che viene sparato alla nuca. Nella speranza che il suo coraggio, così come il suo sacrifico, non fosse stato vano. 

Ogni anno, nel giorno nella sua morte, una folla depone dei fiori davanti al portone del suo palazzo. Oggi è venerdì. Come in quel lontano 2006.

Guerra in Ucraina, la Russia censura l'intervista a Volodymyr Zelensky. Il Temkpo il 27 marzo 2022.

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky ha rilasciato un’intervista alla stampa russa per la prima volta dall’inizio della guerra. Zelensky ha parlato per 2 ore via Zoom con Ivan Kolpakov, caporedattore della pubblicazione online russa Meduza; Tikhon Dzyadko, caporedattore del canale televisivo Dojd; Mikhail Zygar, scrittore e giornalista, e Vladimir Solovyov, corrispondente di Kommersant. I giornalisti elencati sono noti in Russia per le loro opinioni di opposizione. 

Il Roskomnadzor, l’autorità russa sui media, ha ammonito i media russi a non pubblicare né trasmettere l’intervista del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il cui testo integrale è però stato appena pubblicato da Meduza. «Un certo numero di media russi, compresi media stranieri che agiscono come agenti stranieri, hanno intervistato il presidente dell’Ucraina V. Zelensky», si legge in una nota pubblicata sul canale Telegram dell’autorità, «Roskomnadzor avverte i media russi di rifiutarsi di pubblicare questa intervista. È stato avviato un audit contro i media che lo hanno intervistato per determinare il grado di responsabilità e adottare misure di risposta».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 7 aprile 2022.

«È una faccenda esistenziale... Stiamo conducendo un'operazione speciale non contro l'Ucraina, ma contro l'intero Occidente». A modo suo Vladimir Solovyov, il propagandista in chief della prima tv del Cremlino, Channel 1, è sincero: dice esattamente quello che sta pensando il regime, trasforma i pensieri di Putin in realtà senza neanche bisogno che Putin li esprima. Ci pensa lui. Solovyov. In prime time. E così capiamo la verità, se di verità qui si può anche larvatamente parlare. 

Se c'è una trimurti che bisognava tenere d'occhio in questi anni per capire dove stava andando il regime russo, e quali piani guerrafondai avesse, quella trimurti era: Alina Kabaeva, la presunta amante di Putin diventata boss di Nmg, National Media Group, il più grande gruppo statale di media russo di proprietà di un vecchio amico di Putin, Yuri Kovalchuk, il ceo Konstantin Ernst e lui, l'anchorman principe del Cremlino: Solovyov. Julia Ioffe, una delle più brave osservatrici della Russia, dice: «Solovyov è il Tucker Carlson russo, dice in onda qualcosa che ho sentito spesso da fonti di Mosca in questi giorni». Ossia che la guerra di Putin è all'Occidente, e non si fermerà.

58 anni, autore di libri dai titoli come Siamo russi, Dio è con noi o Nemici della Russia e Putin, guida per gli empatici, inserito a fine febbraio nella lista delle sanzioni più severe dell'Unione europea, che prevedono il sequestro di tutti gli asset e il divieto di viaggio in Europa, due ville sul lago di Como per otto milioni di euro già sequestrate dal governo di Mario Draghi (ieri a una è stato appiccato il fuoco da ignoti, con modesti danni e un'altra è stata imbrattata con vernice rossa), Solovyov è stato per anni, tutti i giorni, due ore al giorno, il martello pneumatico e il lavaggio del cervello costante dell'opinione pubblica russa. 

Ogni narrazione del Cremlino è passata dalla sua bocca. A volte con più estremismo e virulenza dei troll anonimi su internet. I leitmotiv che portano all'invasione in Ucraina erano tutti, ogni sera, nel Solovyov show. La superiorità della Russia come civiltà. Un neonazionalismo russo quasi religioso. 

La decadenza e la corruzione dell'Occidente. La lotta ai gay.

La mobilitazione per la guerra. Ogni giorno, un diluvio tv di purissimo fascismo e etno-nazionalismo putiniano.

Il nemico non è l'Ucraina, è l'Occidente. L'Ucraina non esiste, è Russia. «Quello che l'Ucraina non riesce a capire è che le persone all'estero non pronunceranno nemmeno la parola Ucraina, in Occidente siamo tutti russi», diceva ancora l'altra sera. «Draghi, uno dell'alta finanza, è sotto il controllo dell'Unione europea e degli americani». «Di Maio non deve tornare in Russia. Ah è vero, è quello che vende le bibite. Bibitaro, ah ah ah. Oh mio dio. Buonasera, ci vediamo, addopo» (parlando in italiano). 

Questo è Solovyov: il nazionalpopolare che diventa neonazionalismo. Il sorriso che si fa carro armato. Con la Z sul pc inquadrato in diretta. 

Il 31 marzo, racconta Kyra Yarmysh, la portavoce di Alexey Navalny, «Solovyov in tv considerava la cessazione delle ostilità un tradimento e chiedeva di uccidere quante più persone possibile». Testuale. C'è il video, se non ci si crede. Il 27 febbraio pianse in tv all'annuncio delle sanzioni: «Mi è stato detto che l'Europa è la cittadella dei diritti, che tutto è permesso, questo è quello che hanno detto. So per esperienza personale qualcosa sui cosiddetti "diritti di proprietà sacra" dell'Europa.

Con ogni transazione portavo documenti che dimostravano il mio stipendio ufficiale, il reddito, ho fatto tutto. L'ho comprato, pagato una quantità pazzesca di tasse, ho fatto tutto. E all'improvviso qualcuno decide che questo giornalista è ora nell'elenco delle sanzioni... influirà immediatamente sul mio patrimonio». Ma il pianto non inganni, perché poi oltre al pianto c'era la minaccia, sempre all'Occidente, e all'Europa in particolare: «Con sanzioni come queste perché dovremmo fermarci ai confini dell'Ucraina?». «Gli eredi della Germania nazista stanno imponendo sanzioni a un giornalista (ebreo)». 

Usando senza scrupoli ogni trucco e ogni inganno. Eppure quanto piace, agli oligarchi come ai propagandisti, godere della bella vita nell'Europa un po' nazista un po' corrotta. Secondo il team Navalny, Solovyov possiede altre due ville nel comasco, oltre alle due che gli sono state sequestrate (ma non sono intestate a lui: Villa Maria a Tremezzina, e un'altra nel comune di Menaggio, intestata a sua madre).

Secondo The Insider ha acquistato un'altra proprietà in Italia e iniziato lavori di ristrutturazione per trecentomila euro nella villa principale proprio alla vigilia della guerra. E non sembri strano che sulla bocca del propagandista della guerra di Putin risuonino, anche, le narrazioni che poi ritroveremo sulla bocca di pacifisti usati dal Cremlino quando sono all'estero (in patria li arrestano): «Una cosa è chiara. L'Occidente non è interessato alla cessazione del conflitto in Ucraina, che ha scatenato lui stesso, e su cui soccomberà».

E in Italia ora è vietato dichiararsi di Taiwan. Alberto Giannoni il 28 Marzo 2022 su Il Giornale.

A Milano un prof del Politecnico respinge il modulo di uno studente: "Sei cinese". Interrogazione al governo.

«Bullismo» è la parola che torna più spesso, nei commenti dedicati all'episodio. Un professore cinese del Politecnico, prestigiosa università milanese, pochi giorni fa ha redarguito pubblicamente un suo studente, «colpevole» di aver indicato Taiwan come Paese di provenienza, in un modulo.

Il video della «lezione» è reperibile in rete, dura un paio di minuti ed è in effetti piuttosto sinistro, soprattutto in un momento di forti tensioni geopolitiche. «Taiwan è soltanto una regione soltanto una regione e non una nazione indipendente» asserisce il professore, secondo la traduzione.

Nato in Cina, 43 anni, il protagonista del caso - raccontato anche da Taiwan news - è Chen Zhen, è docente a contratto a Milano da quasi 10 anni e insegna «Architecture and town in China». Nella videolezione esordisce in inglese, rivolgendosi a un certo numero di studenti, poi con tono teso e assertivo annuncia di voler parlare con W. (lo studente) di una tema che «non riguarda la tesi» e quindi non interessa gli altri. Quindi dà il via a quella che chiama «una chiacchierata», una chiacchierata unilaterale e imposta a un interlocutore in posizione di oggettiva subalternità per ragioni «istituzionali». Così, inizia a disquisire sulla condizione politica e internazionale di Taiwan, Paese del Pacifico su cui Pechino avanza mire sempre più pressanti, considerandolo - appunto - alla stregua di una provincia ribelle. «Nei dati personali hai scritto Taipei, Taiwan» premette il professore, poi passa a «esplicitare» come «tutta l'Unione europea» consideri Taiwan come «parte della Repubblica popolare cinese». «Dovresti sapere - scandisce con l'indice alzato - che nessun Paese europeo e la maggior parte dei Paesi del mondo, riconosce pubblicamente Taiwan come una nazione indipendente». Si addentra su questioni costituzionali che esulano dalla sua competenza. «Capisco la tua generazione - concede con tono paternalistico - la vostra educazione vi porta ad avere un'identità nazionale diversa dalla nostra», ma poi conclude: «Taiwan non è mai stato il nome di una nazione indipendente», anche se «il vostro governo può fare dei giochi di parole» e «manipolare e ingannare il popolo».

Ora, la questione dal punto di vista del diritto e della politica internazionale è molto delicata, soprattutto in questa fase. Taiwan ha una sua fisionomia statuale e una sua indipendenza (peraltro difesa dalla grandissima parte dei cittadini), da molti anni intrattiene rapporti commerciali e diplomatici con moltissimi Paesi del mondo - anche se formalmente è riconosciuto da 13 Stati (fra cui il Vaticano) - e soprattutto esercita di fatto la sua sovranità sulla popolazione (consistente, oltre 20 milioni di abitanti) e su un territorio preciso, quello che comprende l'isola di Formosa (nome latino di origine portoghese) e tre arcipelaghi. Non si vede perché il diritto umano e civile di uno studente di considerarsi cittadino di Taiwan debba essere negato da un professore, per ragioni meramente politiche, nel corso di una «lezione» pubblica ma individuale.

Ascoltato il video, il senatore Lucio Malan (FdI) ha preannunciato che chiederà conto al governo della vicenda, e anche l'ex sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti (Pd) ha chiesto la sospensione del docente al Politecnico che - per ora - si limita a far sapere di aver attivato le procedure interne volte a verificare il rispetto del Codice etico e di comportamento».

Il caso del professore. Alessandro Orsini licenziato, la Rai manda via l’opinionista perché ha opinioni sbagliate…Angela Azzaro su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

Cade un’altra testa nella guerra che l’intellighenzia e il giornalismo italiani stanno portando avanti contro chiunque non la pensi sulla guerra in Ucraina come l’establishment. La Rai ha bloccato il contratto che Alessandro Orsini aveva ottenuto con Cartabianca. Ma più che la sua di testa cade la faccia di chi in questi anni (e più che mai in questi giorni) ci aveva fatto credere di essere a favore della libertà e contro la censura. Non ci crediamo più.

Se non la pensi come loro, sei fuori: devi essere o deriso o umiliato o osteggiato. Dicono che il problema fossero le 2000 euro a puntata che avrebbe ricevuto da contratto ma il fastidio sono evidentemente le posizioni di Orsini, ormai tacciato senza distinguo di essere filo Putin. È l’accusa che viene mossa anche nei confronti di chiunque si dica pacifista, di chi sia contro l’uso delle armi, di chi segua le parole e il messaggio di papa Francesco.

Non si tratta qui di difendere le cose dette dal professore che soprattutto sui migranti ha posizioni che questo giornale ha sempre fortemente contrastato e sempre contrasterà. Vogliamo difendere un principio: quello del pluralismo, della libertà d’espressione contro questa militarizzazione del dibattito: o sei con noi o sei a favore del nostro nemico. In Rai ne succedono di tutti i colori. Da anni. Anche sul piano dei costi e dei soldi spesi. Ma guarda caso il contratto viene sciolto a chi sostiene tesi che danno fastidio. Comprensibile la rabbia di Berlinguer che considera minata la propria autonomia di autrice.

Orsini ha fatto sapere che è disponibile ad andare a titolo gratuito. Glielo permetteranno? Resta il pesante tentativo di intimidirlo, di zittirlo. Massimo Gramellini nella sua rubrica sul Corriere ha addirittura, parlando di lui, usato la parola “schifo”. Mi rivolgo allora alle tante persone che pur non condividendo le parole del professore si dicono amanti della libertà, a partire dagli amici e le amiche del Pd che hanno protestato vivamente per il suo contratto Rai.

Ma davvero pensate che questa sia la strada? Che zittire qualcuno possa contribuire a rendere migliore l’informazione e il dibattito? Se siete convinti delle vostre posizioni non dovete avere paura di uno che dissente. Avete tutti gli strumenti e lo spazio pubblico per contrastare quello che dice. Siete tanti, lui è solo. Un giorno, speriamo presto, finita la guerra, ci resterà da gestire anche questa limitazione pesante del pluralismo. La prossima volta non sarà la guerra in Ucraina o l’invio delle armi a Kiev. Sarà forse un’altra questione, ma chi dà fastidio verrà silenziato. E quel qualcuno potreste essere voi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Chi è Alessandro Orsini, il professore oscurato da Wikipedia e senza più contratto in Rai. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

Il docente esperto in Sociologia del terrorismo ha collaborato anche con il governo. Oggi attribuisce alla Nato le responsabilità dell’invasione russa. E la Rai gli ha cancellato il contratto da duemila euro a puntata per «Cartabianca». 

Sul sito della Luiss, prestigiosa università italiana legata a Confindustria, Alessandro Orsini (46 anni, nato a Napoli) viene presentato con un curriculum così lungo che sembra quello di un docente a fine carriera. Oggi è direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale, professore associato nel dipartimento di Scienze politiche della Luiss, dove insegna Sociologia generale e Sociologia del terrorismo. Poi ci sono una lunga serie di libri (su Isis, Brigate rosse, immigrazione), ma soprattutto specializzazioni al Mit di Boston e collaborazioni ufficiali come consulente del governo italiano.

Orsini, che nel tempo ha collaborato con più quotidiani come editorialista, negli ultimi giorni ha acquisito una fortissima popolarità (o impopolarità, a seconda dei punti di vista) per le sue posizioni rivendicate in numerose trasmissioni televisive (in primis Cartabianca e Piazza pulita) riguardo la sanguinosa invasione dell’Ucraina: «La Russia può sventrare l’Ucraina come e quando vuole» . Particolarmente critiche le sue teorie rispetto alla Nato, considerata dal docente responsabile dell’escalation militare culminata con i bombardamenti da parte della Russia. Orsini sostiene con forza che fosse (e sia) necessario riconoscere come russe aree come il Donbass e le regioni occupate in queste settimane. Sostiene inoltre la necessità di ridimensionare le sanzioni economiche occidentali e accettare che «Putin ha già vinto». Già le prime dichiarazioni sopra le righe erano valse a Orsini l’oscuramento della sua pagina personale da parte di Wikipedia . E pure la stessa Luiss ha invitato il docente ad attenersi «al rigore scientifico» e «non alle proprie idee personali».

Ospite a Cartabianca, su Rai Tre, rispondendo a Bianca Berlinguer Orsini era arrivato a dire che se Putin dovesse trovarsi «in un condizione disperata in cui rischia di perdere la guerra in Ucraina, e dovesse usare la bomba atomica, l’Europa sarebbe moralmente corresponsabile». Già queste esternazioni, anche perché trasmesse dal servizio pubblico, erano state sufficienti a innescare una bufera contro l’esperto di sociologia del terrorismo. Nel frattempo dai piani alti di Viale Mazzini è filtrata la notizia che il professor Orsini aveva firmato un contratto da duemila euro a puntata (per sei apparizioni). Ne è scaturita un’ulteriore bufera, arrivata fino in Parlamento: «La Rai non paghi i pifferai di Putin», è l’attacco del Pd. Così, in meno di 48 ore, i dirigenti della tv di Stato hanno dovuto cancellare il contratto .

«Chi mi attacca è uguale a Putin», aveva premesso il professore in una intervista a Libero. E poi, dopo la cancellazione del contratto Rai, non pago ha rilanciato: «Molte altre trasmissioni di informazione mi avevano offerto compensi ben superiori. Annuncio che sono pronto a partecipare alla trasmissione di Bianca Berlinguer gratuitamente». Il motivo di tutta questa bufera? «Mi attaccano perché le mie analisi hanno toccato consorterie potenti», replica il docente.

Dagospia il 25 marzo 2022. Dall’account twitter di Michele Anzaldi

Ieri il Tg1 ha censurato Papa Francesco: nessuno spazio né alle 13.30 né alle 20 alle sue dure parole contro le armi e la guerra. Un caso senza precedenti, mai il tg di Rai1 aveva negato spazio addirittura al Santo Padre. Che succede al tg della rete ammiraglia Rai? 

Domenico Agasso per “La Stampa” il 25 marzo 2022.

Il Papa la definisce letteralmente «una pazzia». E rincara la dose, dicendo di essersi «vergognato» quando ha saputo che alcuni Stati «si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l'acquisto di armi» come risposta a ciò che sta accadendo in Ucraina.

Francesco lancia il suo monito dopo che la Germania ha comunicato l'obiettivo del 2% per la difesa, e anche l'Italia appare allineata in questa direzione. Così come il Belgio, l'Austria, i Paesi baltici, la Finlandia.

E mentre al vertice della Nato a Bruxelles la questione dell'incremento dei budget militari è all'ordine del giorno. Durante l'udienza al Centro femminile italiano il Pontefice indica che la «vera» replica da attuare non sono altri armamenti, «altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato - non facendo vedere i denti, come adesso - un modo diverso di impostare le relazioni internazionali».

Per il Vescovo di Roma è «ormai evidente che la buona politica non può venire dalla cultura del potere inteso come dominio e sopraffazione», ma solo da una «cultura della cura, della persona e della sua dignità e della nostra casa comune». Lo prova, «purtroppo negativamente, la guerra vergognosa a cui stiamo assistendo». 

Il modello della «cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare». Da anni Bergoglio sostiene che non si può continuare a fabbricare e trafficare armi togliendo risorse che potrebbero essere utili per salvare vite in vari modi; e da giorni ribadisce con forza la necessità di non puntare su ulteriori bombe e missili per affrontare la crisi provocata dall'invasione russa nell'est Europa.

Il Vescovo di Roma descrive come «insopportabile» quello che sta succedendo a Kiev, «frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica». La storia degli ultimi settant'anni «lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po' dappertutto». 

Fino ad arrivare «a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero». Francesco non ha dubbi: «Il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno "scacchiere", dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri».

La stampa con l'elmetto. Papa Francesco ignorato dai giornali, tutti devono essere per la guerra: sospesa la libertà di stampa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

“Pazzi Pazzi”, ha gridato il papa ai governi europei che hanno portato al 2 per cento le spese militari. I direttori dei giornali, immagino, hanno immediatamente dato l’ordine di mettere il silenziatore. Ieri mattina e ieri pomeriggio ho cercato disperatamente questa notizia sulle home-page dei grandi quotidiani, del Corriere della Sera, di Repubblica. Sarà colpa mia che non mi districo bene con queste tecnologie moderne, però io la notizia non l’ho trovata. Ho chiesto a degli amici più esperti di aiutarmi. Non l’hanno trovata neanche loro.

L’informazione ormai in Italia è completamente militarizzata. Ai personal computer, nelle scrivanie dei giornalisti, hanno messo la tuta mimetica. Non è ammessa neppure la più piccola deviazione. La linea è la linea e la fermezza è la fermezza. Già, magari quelli vecchi come me si ricordano gli anni della fermezza. Me li ricordava ieri Paolo Liguori. In particolare mi ricordava i giorni tremendi del sequestro Moro. Allora nei giornali passò quella linea lì: “Non si tratta con le Brigate rosse, se Moro deve morire muoia, ma la Repubblica sarà salva”. Moro Morì, la Repubblica fu salva fino a un certo punto, perché in realtà da quel momento iniziò il declino che nel giro di poco più di dieci anni portò la Repubblica a cadere sotto i colpi della magistratura. E lì, di nuovo la fermezza: nei giornali era proibito provare a criticare i magistrati. Erano eroi. Andavano acclamati, amati, venerati. Non era ammesso il dissenso.

In realtà sia durante il sequestro Moro sia durante Mani pulite (meno) qualche dissenso c’era e si manifestava. I socialisti in tutte e due le occasioni si dissociarono. Chiesero la trattativa per salvare Moro e poi tentarono disperatamente di resistere all’ondata populista e giustizialista del pool di Borrelli. Erano convinti di poter resistere alla forza d’urto delle Procure, in particolare della Procura di Milano. Forse avevano anche ragione. Non calcolarono però l’entrata in campo del bulldozer: la stampa. la stampa si comportò come una falange. Stravinse. E i giustizialisti dissero così a Craxi, sorridendo e sommergendolo di monetine a qualche sassata: “è la stampa, bellezza”. Lui dovette riparare all’estero, dove morì abbandonato da tutti. Anche al papa ora stanno sorridendo. Divertiti e beffardi. Lui grida. “Pazzi, pazzi”. E poi dice di essersi vergognato quando ha saputo che i Parlamenti votavano l’aumento delle pese militari. Che da oggi il cittadino medio, ogni anno, versa una cifra che oscilla tra i 500 e i 1000 euro all’anno per comprare cannoni e caccia. I giornali e le Tv, salvo rare eccezioni, lo ignorano, il Papa. Lasciatelo gridare questo signor Bergoglio – dicono i direttori – e poi chiamano Bruxelles e spostano i soldatini che hanno sulla scrivania per cercare di capire meglio come si fa la guerra.

Successe a un altro papa. A Benedetto XV. Quando si comportò in modo analogo al modo nel quale si sta comportando Bergoglio. Nel 1917, mentre infuriava la prima guerra mondiale, e quasi tutti i partiti la sostenevano, e i governi pompavano risorse e armi con lo scopo di uccidere quanti più nemici possibile, Benedetto scrisse una lettera ai capi di Stato e definì la guerra “un’inutile strage”, contrapponendosi allo spirito pubblico, come spesso accade ai cristiani coerenti. Lo ignorarono. Lo censurarono, lo travolsero con il tuono dei cannoni e le bombe dagli aerei, e gli assalti alla baionetta nelle trincee. Non so se recentemente la Chiesa abbia corretto le sue scelte, mi risulta che quantomeno fino a qualche anno fa di tutti i papi del ‘900 Benedetto fu l’unico a non essere santificato. La Chiesa preferì santificare i papi che avevano accettato il nazifascismo ma non quel sovversivo che condannava la guerra. Succederà così, probabilmente, anche con Bergoglio.

Mi pare che gli Stati si siano rifiutati di ascoltarlo – in questi anni – quando ha parlato di migranti e di profughi. E ha chiesto accoglienza. Gli hanno fatto un sorriso beffardo anche in quell’occasione e sono corsi in Libia per firmare qualche accordo che permettesse di sterminare i profughi nei campi di concentramento, evitando che potessero arrivare in Italia. Figuratevi se lo ascolteranno ora. Il papa è l’unica voce autorevole che ha rotto la catena blindata interventista. Che sembra ormai impossibile da spezzare. E io sono convinto che questo atteggiamento da regime avrà conseguenze incalcolabili sul nostro futuro. Lo vedete bene, in queste settimane la stampa funziona proprio come funzionava durante la seconda guerra mondiale. Allora c’era il ministero addetto a controllare e governare l’informazione. Si chiamava Minculpop, lo guidava – almeno lo guidò per un lungo periodo – un giornalista serio e colto come Alessandro Pavolini. Era lui che dava la linea ai direttori.

Era inflessibile. Oggi no. I direttori sono più scaltri, più veloci, sono ragazzi dell’epoca del web, e obbediscono anche prima che arrivi l’ordine. Mi chiedo: ma quando tutto questo sarà finito (io immagino che alla fine prevarrà la ragione, la trattativa, finiranno fuorigioco i colonnelli che hanno preso la guida degli Stati democratici, e si arriverà a una pace, giusta o ingiusta, o giusta solo un po’, ma comunque qualunque pace è sempre più giusta della guerra) in Italia tornerà la libertà di stampa che è stata sospesa? Anche il Corriere della Sera potrà tornare alla stagione di Albertini e aprire le sue pagine al dissenso? Può darsi. Ma non sarà facile. Non è detto che questo succederà. La nuova generazione, che ha preso possesso delle leve dell’informazione, difficilmente si farà scalzare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

A uccidere il reporter fu l’Ucraina ma in otto anni nessuno ha pagato. Pierangelo Maurizio il 25 marzo 2022 su Panorama-La Verità. Il fotografo italiano Andrea Rocchelli fu trucidato nel 2014 dalle truppe di Kiev. I magistrati hanno escluso la responsabilità penale di una singola persona, ma nello stesso tempo hanno ribadito la colpa dello Stato.

Nessuna informazione sulla macelleria dello Yemen... Piccole Note il 14 marzo 2022 su Il Giornale.

Mentre i media ci inondano di immagini drammatiche provenienti dall’Ucraina, resta un assordante silenzio sulla guerra più dimenticata degli ultimi anni, quella dello Yemen, dove Emirati arabi e Arabia Saudita, armati di bombe, missili e jet  (e l’intelligence) Made in Usa da sei anni fanno strame di un Paese per piegare i ribelli Houti, una banda di straccioni che ha osato infrangere la legge non scritta che vuole che tutte le entità politiche del Golfo debbano essere guidate dalle élite sunnite e subordinate a Riad.

Parliamo di ribelli, come sono stati considerati a lungo, salvo poi essere inseriti nella lista delle organizzazioni terroriste dall’Onu su richiesta degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump, tolti poi da tale lista per volere di Biden che però poi ci ha ripensato e ha chiesto che vi fossero reinseriti, cosa avvenuta alcuni giorni fa grazie alla convergenza dell’ultima ora degli odiati russi, che in questo momento di difficoltà devono tenersi buoni i regali del Golfo.

A far cambiare idea a Biden la sollecitazione di Riad e Abu Dhabi, i quali hanno fatto notare all’alleato d’oltreoceano che gli houti avevano osato rispondere ai bombardamenti indiscriminati sulle loro città lanciando due o tre razzetti all’interno dei confini dei Paesi aggressori contro obiettivi legati al petrolio, peraltro avendo prima avvisato la controparte che avrebbero risposto se essi non avessero limitato la portata delle operazioni belliche (cioè, se avessero bombardato un po’ di meno).

La risposta degli houti, peraltro, era avvenuta perché “il conflitto in Yemen si è intensificato da gennaio, con massicce vittime civili e rinforzi militari statunitensi portati d’urgenza nel Golfo”, come scrive George Kerevan sul giornale scozzese The National (già, un giornale scozzese, difficile trovar traccia di questa mattanza altrove…).

Così veniamo alle cifre: nel novembre del 2021, l’Onu avvertiva che le vittime di questa guerra a fine anno sarebbero arrivate alla cifra oscena di 377mila, tra morti per bombe, fame e malattie, perché peraltro questa aggressione infuria contro uno dei Paesi più poveri del mondo e la situazione del Paese è stata più volte definita dall’Onu come il “disastro umanitario” più grave del pianeta.

Gli Stati Uniti, con Biden, avevano deciso di ritirarsi dal conflitto dopo anni di ingaggio a fianco degli aggressori, ma non lo hanno fatto, anzi hanno continuato a vendere armi ai sauditi.

Così al Jazeera: “Il Senato degli Stati Uniti ha bloccato una risoluzione che avrebbe vietato una vendita di 650 milioni di dollari di missili e lanciamissili all’Arabia Saudita. Così, a novembre, la vendita è stata approvata dall’amministrazione Biden”. Ancora al Jazeera: “La vendita di missili segue l’approvazione degli Stati Uniti di un accordo di manutenzione di elicotteri da 500 milioni di dollari in favore del regno [saudita] a settembre”.

Armi difensive, dicono dagli Usa, ma con una guerra, anzi un’aggressione, in corso, la distinzione appartiene alle questioni di lana caprina (vedi il recente attacco a una prigione yemenita, nel quale sono state uccise 80 persone con un’arma made in Usa, come da report di Amnesty).

Nessuno ha paragonato Barak Obama o l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton – la maggiore fautrice di questo ingaggio con i sauditi – o i regali sauditi o emiratini a Hitler quando tutto questo è iniziato né durante la diuturna mattanza.

Nessuno protesta per le bombe che ogni giorno cadono sulle città yemenite e che hanno ridotto la bellissima Sanaa a un cumulo di macerie. A nessuno importa se gli ospedali yemeniti vengono bombardati (Save The Children). Né ha alcuna importanza il fatto che nel conflitto siano stati uccisi o feriti 10.200 bambini,  riferisce l’Unicef, aggiungendo che “il numero effettivo probabilmente è molto più alto”.

Nessuna marcia della pace per lo Yemen, nessuna sanzione contro gli aggressori, né l’Occidente ha smesso di comprare petrolio da Riad, così come abbiamo fatto con la Russia, che anzi, venendo meno il petrolio russo a causa delle sanzioni, gli Stati Uniti hanno chiesto a Riad e Abu Dhabi di aumentare la produzione per attutire lo scompenso (ma non gli hanno nemmeno risposto al telefono, a causa dell’impegno Usa per un accordo con l’Iran).

Così non si può che essere lieti dello slancio umanitario che si sta producendo verso i poveri ucraini, né si può non condividere la deprecazione verso l’aggressore o la profusione di dolore che attanaglia i giornalisti inviati in loco. Resta però tragico che tutto ciò agli yemeniti venga negato.

Il problema sta forse nel fatto che gli yemeniti non sono “biondi con gli occhi azzurri”, come da titolo di un articolo di Haaretz che racconta come i media hanno riferito l’esodo dei rifugiati di guerra ucraini. Un articolo del quale riportiamo un passo: “Un giornalista della NBC ha affermato: ‘Questi non sono rifugiati dalla Siria, questi sono rifugiati dall’Ucraina … sono cristiani, sono bianchi, sono molto simili [a noi]'”.

“E un editorialista del quotidiano britannico The Telegraph ha spiegato la sua sorpresa per il fatto che ciò fosse accaduto in Ucraina. ‘Sembrano come noi’, ha scritto. ‘Questo è ciò che lo rende così scioccante. L’Ucraina è un paese europeo'”. Già, qui si tratta di uomini, gli yemeniti evidentemente non appartengono alla categoria, sono sub-umani.

Nel caso dello Yemen, peraltro, non si parla nemmeno di aggressione, ma semplicemente del “conflitto yemenita”, terminologia anodina che evidenzia la potenza della scrittura e del linguaggio.

Né è minimamente rapportabile lo spazio che viene dato alla guerra ucraina rispetto a quella yemenita. E non è solo perché non è una guerra europea, ché la guerra in Iraq (come quella siriana o libica) ha avuto uno spazio più che consistente nell’informazione nostrana, basti pensare ai cronisti estasiati mentre le bombe “intelligenti” americane piovevano senza sosta sulle case di Baghdad (alcuni di questi ora appaiono rattristati per le bombe russe).

Una discrasia che non stupisce. Semplicemente certe informazioni devono essere evidenziate (fino al parossismo) e altre trascurate (fino all’obliterazione) a seconda della convenienza e degli interessi geopolitici del momento. Interessi ai quali i media devono subordinarsi, in toto o in parte, con coraggiose eccezioni che confermano la regola.

Tale il mattatoio della storia umana, per riprendere una nota considerazione di Hegel, e tali le contraddizioni e l’ipocrisia della geopolitica, come le stridenti contraddizioni dell’informazione, che in tempo di guerra stridono di più.

P.S. abbiamo raccolto alcune immagini della tragedia dello Yemen ed in particolare dei bambini travolti da questa macelleria a ritmo continuo. Per la crudezza di alcune  di queste fotografie abbiamo preferito non riportarle in questa nota. Chi vuole può visionarle cliccando qui (attenzione, sono particolarmente dure, come la guerra).

"Vittime di attacco hacker". “In Ucraina 10mila morti russi”, il tabloid pro-Putin Komsomolskaya Pravda pubblica (e poi cancella) il bilancio della guerra.  Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Quando siamo prossimi ormai al mese di combattimenti in Ucraina, che certificano il fallimento della ‘guerra lampo’ sognata da Vladimir Putin per conquistare Kiev e rovesciare il governo filo-occidentale di Volodymyr Zelensky, arrivano nuovi segnali di spaccatura nel fronte russo.

Il pantano in cui sono intrappolate le forze armate russe avrebbe provocato infatti quasi 10mila vittime, per la precisione 9.861 soldati deceduti nella “operazione speciale militare”. A scriverlo però non sono i media ucraini o occidentali ma lo storico tabloid russo Komsomolskaya Pravda, tutt’altro che lontano dalla linea del Cremlino.

In un articolo comparso sul web domenica sera e poi rapidamente cancellato dal sito internet si parla infatti di “9.861 i soldati russi morti” dall’inizio della guerra in Ucraina e “16.153 quelli rimasti feriti”.

Ad accorgersi della ‘falla’ nella propaganda è stato Yaroslav Trofimov, corrispondente-capo per gli esteri del Wall Street Journal, che ha pubblicato poi su Twitter uno screenshot dell’articolo. Una mossa fondamentale perché poco dopo lo stesso tabloid ha cancellato l’articolo, col giornale che in una nota ha parlato di “sabotaggio informatico” in relazione alla pubblicazione di dati che erano stati attribuiti nell’articolo al ministero della Difesa russo.

“Il nostro sito è stato vittima di un tentativo di hackeraggio“, ha infatti reso noto il tabloid sul proprio canale Telegram nel tentativo di sfuggire alle polemiche ma soprattutto ai rischi di conseguenze penali, vista la stretta sulla libertà di informazione decisa dal Cremlino, col rischio di pene fino a 15 anni per chi racconta il conflitto in Ucraina senza seguire la ‘linea’ stabilita da Mosca.

Ad oggi il Cremlino ha fornito solo una volta volta dati sui suoi morti nell’invasione dell’Ucraina: il 2 marzo aveva riferito di 498 vittime. “L’ultima cifra ufficiale russa, il 2 marzo, era di 498, affascinante che qualcuno abbia fatto trapelare cifre ben superiori”, ha osservato Trofimov su Twitter. Sul web, come sempre, tracce dell’articolo rimosso sono rimaste all’indirizzo web.archive.org/web/20220321131726/https://www.kp.ru/online/news/4672522/

La scorsa settimana il New York Times, basandosi su stime fornite dal Pentagono, aveva riferito di 7mila perdite tra le forze armate russe e di almeno 14mila feriti. Un numero elevatissimo: nel 2008 l’esercito russo nella ‘campagna in Georgia’ aveva subito ufficialmente solo 96 perdite, mentre nel sanguinoso conflitto dell’allora Unione Sovietica in Afghanistan, durato anni, vi erano stati 14mila morti. E ancora, in tempi più recenti, nel conflitto ceceno i caduti russi furono circa 5mila.

Non è un caso dunque se in Russia i funerali dei militari morti sul fronte ucraino siano di fatto oscurati dai media, mentre le esequie sono state concesse finora solo ai militari professionisti, coloro che hanno guidato la prima ondata dell’attacco in Ucraina.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Guerra: tutto quello che non ci hanno voluto dire. Paolo Becchi il 20 Marzo 2022 su Culturaidentita.it  su Il Giornale.

In anteprima per noi il saggio del professor Paolo Becchi sulla guerra in Ucraina

È impossibile capire qualcosa dell’operazione militare russa in Ucraina, finché si continuerà a ripetere la retorica fintamente “pacifista”, “umanitarista”, che dimentica in modo ipocrita la guerra che da otto anni c’è nel Donbass con i suoi massacri continui di civili russofoni (si parla di almeno 14 mila morti) e che nasconde spesso interessi precisi, operazioni politiche poco trasparenti o, al più, il “sentimentalismo” delle anime belle, che vorrebbero che la realtà fosse diversa da come, purtroppo, spesso è. La guerra in Ucraina non è cominciata nelle ultime settimane.

Le cose bisognerebbe vederle, allora, per quelle che sono. Parlare di un tentativo di Putin di rovesciare il “governo legittimo” del presidente Zelensky è quantomeno bizzarro: questo governo è infatti il risultato di un colpo di Stato in piena regola, attuato nel 2014 contro l’allora democraticamente eletto governo di Viktor Janukovyč. Potete chiamarla “rivoluzione”, anziché colpo di Stato, ma i fatti non cambiano: ed i fatti sono che la cacciata di Janukovyč, se fu sostenuta da un movimento popolare, lo fu anche dall’ingerenza dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, e che essa ha determinato una serie di spaccature interne al Paese e quella tensione dei rapporti con la Russia che oggi è giunta a compimento. I fatti sono che il sedicente Occidente “liberale” e “democratico” tesse gli elogi di un governo erede di un golpe che ha chiuso tre canali televisivi che lo criticavano e fatto arrestare Medvedchuk, uno dei leader del partito di opposizione arrivato secondo alle elezioni.

Dopodiché, il problema oggi non è neppure – in fondo – quello di stabilire “chi abbia ragione” e chi torto, chi sia veramente l’”aggredito” e chi l’”aggressore”. Figure che possono anche cambiare soggetto nel corso di un conflitto. E così l’aggredito può diventare aggressore e viceversa. Dopo aver riconosciuto l’indipendenza delle due autoproclamatesi repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk Putin ha avviato una operazione militare anche al di fuori dei territori russofoni dell’Ucraina. Questo ha cambiato la percezione di quanto stesse avvenendo: fino a quel momento si poteva considerare Putin come colui che interveniva per difendere civili russofoni in territorio ucraino da una politica sempre più aggressiva nei loro confronti da parte del governo centrale, dopo Putin è invece finito con l’apparire agli occhi dell’opinione pubblica internazionale come l’aggressore di uno Stato sovrano. Certo, ci si può, ci si deve, schierare, sulla base delle proprie convinzioni politiche, ideologiche, e così via. Ma i fatti e la loro percezione restano e ora è molto difficile prevedere come finirà un conflitto in cui Putin dopo averci messo in questo modo la faccia non può perderla. Quello che però possiamo dire è che l’Unione Europea non ha fatto nulla per evitare un’escalation del conflitto, che anzi ha contribuito ad alimentare. E così siamo in guerra. Una delle tante guerre.

La guerra è certamente un fenomeno storico, e nella storia essa ha significato cose diverse, è stata condotta e regolata in modi diversi, è stata, aggiungiamo, percepita in modo diverso dalle coscienze dei popoli. La guerra che oggi conosciamo non è più ovviamente quella “regolata” del tempo dello jus publicum europaeum, e al suo scoppio i popoli – perlomeno quelli europei – non reagiscono più con quelle manifestazioni di giubilo che accompagnarono, ad esempio, l’entrata nella Prima guerra mondiale di molte delle potenze europee, tra cui l’Italia. I facili entusiasmi popolari del passato sono scomparsi, ma i governi dei popoli europei non hanno certo smesso di approvare, autorizzare, deliberare interventi militari in questi ultimi anni. Persino la Germania, che sinora non lo aveva mai fatto, si è unita agli altri governi ed alle UE nell’approvare all’unanimità l’invio di armi e di militari a sostegno di operazioni di guerra della Nato. E che la Germania, la quale tra l’altro ha deciso di aumentare in modo considerevole le spese in armamenti (salendo così al terzo posto nel mondo per spese militari), possa diventare di nuovo una potenza militare dovrebbe preoccupare tutti.

Nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo conosciuto nuovi tipi di guerra – da quelle “umanitarie” alle “guerre preventive” contro i cosiddetti “Stati canaglia”: non più il conflitto regolato ma il “bellum iustum” che in nome della “iusta causa” giustifica ogni nefandezza in spregio al diritto internazionale (l’invasione condotta in Iraq e i bombardamenti in Libia condotti dall’Occidente a guida americana ne sono un chiaro esempio). Guerre “giuste” che, per una sorta di illusione ottica, ci hanno dato la sensazione di un mondo ormai pacificato, quando in realtà si è trattato di una pace assicurata solo ad una porzione, peraltro ristretta, dell’Occidente. Ma la guerra non è mai stata abolita, ed ha continuato – per servirsi della famosa formula di Clausewitz – a servire come “prosecuzione della politica con altri mezzi”. Né è, ovviamente, vero che, almeno sul suolo europeo, essa era stata finalmente sradicata, dopo la Seconda guerra mondiale. Anzi con la fine della “guerra fredda” è cominciata quella calda. È strano quanto poco vengano ricordati in questi giorni, anzi direi rimossi, i raid aerei dell’Alleanza Atlantica contro la Serbia, che durarono per settantotto giorni. Era il 1999, 527 vittime civili.

Sorprende sentire Mario Draghi affermare che «negli ultimi decenni, molti si erano illusi che la guerra non avrebbe più trovato spazio in Europa. Che gli orrori che avevano caratterizzato il Novecento fossero mostruosità irripetibili. Che l’integrazione economica e politica che avevamo perseguito con la creazione dell’Unione Europea ci mettesse a riparo dalla violenza». “Negli ultimi decenni”: forse Mario Draghi non ricorda che fu il governo di Massimo d’Alema a decidere – per quanto probabilmente malvolentieri – l’intervento italiano e mandare i nostri aerei a bombardare Belgrado ed una nazione che confinava con la nostra. E questo – ricordiamolo – per via del Kosovo e qui non può essere ignorato, in linea puramente teorica si intende, il paragone tra i territori russofoni dell’Ucraina e il Kosovo, che presentava una forte componente albanese e rivendicava l’indipedenza dalla Serbia. Almeno D’Alema non pare aver dimenticato quello che successe allora, e onestamente riconosce che «non si può non tenere conto, malgrado Putin, che ci sono anche le ragioni della Russia», che i conflitti e le guerre non solo hanno accompagnato costantemente anche gli ultimi decenni della nostra storia, ma che esse hanno cause e ragioni storiche e politiche che occorrerebbe, perlomeno, conoscere, prima di parlare. E questo vale soprattutto per un Presidente del Consiglio che con le sue parole offensive ha posto in serio pericolo qualsiasi futuro rapporto con la Russia di Putin paragonandolo nel suo discorso di fatto a Hitler, equiparando esplicitamente ciò che sta avvenendo in Ucraina all’annessione dell’Austria, l’occupazione della Cecoslovacchia, l’invasione della Polonia. Colpisce la cosa, perché i “nazisti”, se ve sono, andrebbero cercati, più che in Russia, in quei movimenti che hanno partecipato al colpo di stato del 2014 in Ucraina, e che oggi sono inseriti nelle fila della guardia nazionale ucraina, come pure nei vertici del regime ucraino che considerano come eroe nazionale Stepan Bandera, criminale di guerra che collaborò col Terzo Reich giurando fedeltà al Führer.

Una prima conclusione. Una vera pace in Europa nel secondo dopoguerra non c’è mai stata. Prima l’Europa era divisa con la “guerra fredda” nelle due grandi aree di influenza, dopo con la dissoluzione dell’Unione sovietica la guerra è diventata “calda”. Ed oggi assistiamo ad un episodio di questa guerra, forse il più tragico. Non c’è mai stata vera pace in Europa perché la “questione russa” è rimasta il nodo irrisolto.

SECONDA PARTE

Vengo ora al secondo punto, che mi preme sottolineare. Farò solo un cenno perché l’argomento meriterebbe ben altra attenzione. Qualche anno fa, Kissinger ha detto che “per capire Putin, si deve leggere Dostoevskij”. Dev’esser proprio vero, se in questi giorni il Rettore della Bicocca ha deciso di sospendere un corso universitario che uno scrittore italiano avrebbe dovuto tenere su Dostoevskij con la motivazione che potrebbe “creare polemiche”. La cosa, che pare sia poi rientrata, ha dell’incredibile, ma è accaduta, e forse, per precauzione, sarà bene, se li avete in casa, nascondere le vostre copie dei Karamazov o dei Demoni, che presto potrebbero diventare libri “proibiti”, propaganda sovversiva. Ma torniamo a Kissinger.

La sua non era una battuta. Mira, tra l’altro, a far capire che “per la Russia l’Ucraina non può mai essere solo un paese straniero e che l’Occidente ha quindi bisogno di una politica che miri alla riconciliazione… L’Ucraina non dovrebbe aderire alla Nato”. Era il 2014 e tutti sappiamo cosa successe quell’anno in Ucraina. Il giudizio di Kissinger era molto più preciso e adeguato di quello che oggi va per la maggiore e che ritrae Putin come una specie di “nazista”, di un criminale di guerra, di un nuovo Hitler. La politica estera di Putin, in realtà, è una politica interamente inscritta nella cultura russa, nella sua tentazione “slavofila” che ha sempre fatto da contrappunto a quella “occidentalista”. Ed è una tradizione che – non solo da oggi – si è retta sulla religione cristiano-ortodossa, sul senso di una “missione” salvifica, sull’idea che, come i panslavisti russi dicevano, la Russia, la Santa Madre Russia “non è il paese della Legge ma della verità”, in contrasto con un’Occidente profano e senz’anima. Bisogna davvero allora leggere Dostoevskij, partendo da quella critica alla “civilizzazione“ europea che trova espressione nelle Note invernali su impressione estive ma – aggiungo anche Solženicyn, oggi i discorsi sul Ritorno in Russia sono più attuali che mai – per capire il modo in cui la Russia ha affrontato il problema della modernità e del suo difficile rapporto con l’Europa d’Occidente.

“Europa d’Occidente”, perché ci sono in fondo “due Europe”, lo ricorda persino Joseph Ratzinger in una conferenza tenuta a Berlino nel novembre del 2020, che andrebbe oggi riletta. L’Europa di cui facciamo parte noi, erede dell’Impero Romano d’Occidente, rinato con Carlo Magno, attraverso il Sacro romano impero, e che intendeva fondere in esso l’elemento cristiano-cattolico, quello romano e quello germanico. Ma c’è anche un’altra Europa, quella dell’Impero Romano d’Oriente che continua a Bisanzio sino a che i turchi per sempre pongono fine all’Impero. Per circa un millennio Bisanzio considera se stessa come la vera Roma, la seconda Roma, e questo Impero estendendosi al Nord finisce nel mondo slavo. Qui ora sopravvive la cultura greco-cristiana, europea. Da questa eredità bizantina nasce dunque la terza Roma: Mosca. E “due Rome sono cadute, ma la terza resiste e non ve ne sarà una quarta” (starec Filofej di Pskov). Con Mosca quale terza Roma nasce una propria forma di Europa e la questione da allora in poi sarà la convivenza tra queste due Europee, diverse ma accomunate da un retaggio comune.

Ciò che accomuna le due Europe è il cristianesimo. Ciò che oggi le divide è il “nichilismo” occidentale con la sua perdita di valori, rispetto al quale la Russia si presenta per la verità, oggi come ieri, come l’unica “forza frenante” che difende la tradizione contro la perdita di valori diffusa in Occidente. Tutta la storia dell’Occidente è heideggerianamente caratterizzata dall’”oblio dell’essere”, tutto Dostoevskij si spiega filosoficamente come la risposta russa al nichilismo dell’uomo occidentale, che ha sacrificato all’esasperazione del “principio individuale, personale”, l’idea di una comunità di destino, quella comunità cui ha fatto implicito riferimento Putin nel suo recente discorso alla nazione. Certo, il tutto è molto più complesso, ma questo cenno valga almeno per ricordare come esista una geopolitica russa, un problema storico dei rapporti della Russia con lo spazio europeo e persino un peculiare “spirito russo”.

Per noi europei “d’Occidente”, c’è un altro punto essenziale, direi esistenziale. Questa guerra ha dimostrato, una volta per tutte, il fallimento dell’idea di uno spazio politico europeo fondato esclusivamente sul “libero mercato”, di una unione tra Stati di tipo meramente economico, e della stessa posizione dell’Europa nell’attuale quadro geopolitico.

È quest’ultimo aspetto che ora mi interessa analizzare, e con cui vorrei chiudere il ragionamento. La mossa di Putin non si comprende se la si continua a guardare dal punto di vista tipico di noi europei, perché essa si spiega solo come una mossa – sbagliata o intelligente, forse nell’ultima fase azzardata questo ora poco importa – che si inquadra all’interno di una serie di conflitti che, oggi, oppongono gli Stati Uniti, l’impero americano, in crisi nel suo ruolo di garante dell’ordine mondiale, e l’Oriente. Può sembrare che proprio da questa guerra gli Stati Uniti ne riescano rafforzati e nell’immediato ciò può anche essere vero. Con questa guerra, e con tutto ciò che ne consegue (sanzioni economiche, soprattutto il blocco da un lato del gasdotto North Stream, cordone ombelicale che congiunge le immense risorse russe al cuore d’Europa, e dall’altro della Nuova Via della Seta, rotta commerciale eurasiatica alternativa ai traffici marittimi sotto egida statunitense), gli USA riescono nell’immediato in un triplice obiettivo: isolano il loro principale rivale militare (la Russia) , al contempo contengono il loro principale rivale commerciale (Pechino), infine stringono il collare degli europei al proprio padrone economico e militare. Ma tutto questo non è destinato a durare nel tempo. Cina, India e Russia (con l’aggiunta di un Iran conscio, al pari di Pechino, di essere erede di un impero millenario): non è questo l’asse di un nuovo equilibrio mondiale che potrà nel futuro porre fine al “mondo americano”?

Ed è di fronte esattamente a questo spostamento che Putin sta mettendo l’Europa, cercando di “forzarla” a ridisegnarsi su un assetto autonomo che non sia più quello dipendente dalla Nato. Il punto non è, ovviamente, andare incontro agli obiettivi di Putin e dei russi. Putin non vuole ricostruire l’Unione sovietica e non ha le mire espansioniste che gli vengono attribuite, vuole in fondo solo difendere la Russia, i russi e lo spirito russo. ( Paradossalmente è solo l’incapacità dei suoi nemici, i quali – non comprendendo l’obbiettivo limitato dell’intervento militare e costringendo Putin a estendersi di molto in territorio ucraino – possono spingerlo ad alzare la posta in gioco).

A tal proposito, Marco Bertolini, già generale della Nato, dunque non tacciabile di russofilia, ha recentemente ammesso: «Gli Stati Uniti non si sono limitati a vincere la guerra fredda, ma hanno anche voluto umiliare la Russia prendendole tutto quello che in un certo senso rientrava nella sua area di influenza. La Russia ha sopportato con i Paesi Baltici, la Polonia, la Romania e la Bulgaria: di fronte all’Ucraina, che le avrebbe tolto ogni possibilità di accedere al Mar Nero, ha reagito». Il punto però non è questo per noi. Per noi si tratta capire che cosa vogliamo essere, noi europei d’Occidente, in un mondo in cui la fine della “guerra fredda” non ha portato alla vittoria definitiva degli Stati Uniti, alla “fine della storia”, all’affermazione di un mondo unico, globale, identico a sé stesso, caratterizzato – per riprendere la celebre distinzione marxista – a livello di “struttura” dal piano perfettamente liscio del mercato concorrenziale globale popolato da monadi sradicate al quale corrisponde il cosmopolitismo liberal come sua legittimazione “sovrastrutturale”. Forse per un po’ ci è parso fosse così, ma dobbiamo prender atto che alla fine Samuel Huntington ha prevalso su Francis Fukuyama.

Quello che è più difficile, allora, è riuscire a vedere, oggi, il mondo da un punto di vista diverso da quello attraverso il quale, in fondo, non abbiamo mai smesso di vederlo, noi “europei” – un po’ come se dovessimo abituarci a vederlo, a muoverci in esso, a ragionarvi, con i planisferi da cui lo vedono in Australia, o in Sud Africa, o in Cina o negli stessi Stati Uniti. Se ne fissate uno per qualche minuto, capirete che è un’esperienza straniante. Ma è utile per capire come in fondo è “veramente” fatto il mondo a partire dalla fine della guerra fredda – che, paradossalmente, pur opponendo Stati Uniti e Unione Sovietica, aveva garantito all’Europa la possibilità di percepirsi ancora come il “centro” del mondo, il tavolo su cui la partita si giocava. L’Europa rischia ora di andare incontro al suo definitivo tramonto, se non saprà ripensarsi ed inserirsi in modo inedito in questa nuova costellazione geopolitica mondiale.

Oggi alcuni arrivano a dire che Putin ha finito per unire l’Europa, e – paradossalmente – le ha permesso di emergere finalmente come attore geopolitico. In realtà, è esattamente l’opposto: la spropositata reazione economica, vedi le sanzioni, e militare, con l’invio di armamenti, che l’Unione europea sta compiendo, sta avvenendo dietro esplicito mandato americano e contro gli stessi interessi dei Paesi europei. Perché il risultato di questa presunta “prova di forza” è che si sta aumentando la tensione di una guerra che l’Europa ha in casa propria, e con essa si sta sgretolando la sua stessa economia. La reazione “europea”, in altri termini, sembra non dimostrare altro che l’impotenza radicale dell’Europa stessa, il fallimento dell’Unione europea di potersi porre come polo indipendente nel mondo multipolare che verrà, il suo non essere altro, sotto il profilo geopolitico, che l’emanazione della Nato e degli Stati uniti, esatteme coem alla fine delle seconda guerra mondiale.

Nonostante la sua, anche se oscillante, riscoperta “accademica”, sembra che la lungimirante previsione di Carl Schmitt, la sua chiarissima idea della necessità di un altro “nomos” della terra rispetto alla «pretesa ad un controllo e dominio mondiali, universali, di carattere planetario», sia rimasta inattuata. Eppure, è proprio questa la lezione che, finalmente, l’Europa dovrebbe imparare, se oggi, ancor più di ieri, è divenuto ormai chiaro che il vero conflitto mondiale si svolge intorno all’alternativa tra un mondo “unico”, dominato da un’unica potenza universale, (è questo il cosiddetto globalismo), e un mondo plurale fatto di grandi spazi determinati storicamente, culturalmente omogenei, economicamente indipendenti e in relazione pacifica tra loro. Intorno, diremo ancora con Schmitt, «al problema se il futuro consentirà o no la coesistenza di varie figure autonome, o soltanto filiali regionali o locali decentralizzate di un unico “signore del mondo”».

Oggi possiamo dire che da questa guerra ad uscirne rafforzati sono proprio gli Stati Uniti d’America, mentre il vero perdente è l’Unione Europea apparsa ancora una volta totalmente al traino degli americani e incapace di elaborare una propria strategia politica. Di più gli americani sembrano abilmente riusciti a scavare un solco profondo e chissà quanto duraturo tra le due Europe. L’Europa dei capitali, delle tecnologie, del progresso, ma sradicata dalle sue radici avrebbe potuto trovare nella Russia delle immense materie e ancora molto legata alla conservazione della tradizione, il suo stesso complemento: una parte detiene ciò di cui l’altra è priva. Massimo vantaggio per entrambe è vederle alleate, massimo danno per entrambe è vederle in guerra.

DAGONOTA il 18 marzo 2022.

Che fine hanno fatto i Gabibbo “alle vongole” che al servizio dei poteri marci sul “Corriere della Sera” davano la caccia alla Casta politica evitando di inciampare sui bilanci taroccati delle loro aziende che facevano affari con le opere pubbliche pagando tangenti?

E dove sono finiti i mastini da tartufo che scodinzolavano dietro ai pubblici ministeri ai tempi di Mani pulite e venivano sfamati con le notizie (senza riscontri) degli arrestati sbattuti in prima pagina? Se la cosiddetta “rivoluzione italiana” (Mieli & Scalfari) trent’anni dopo si è rivelata una balla colossale per la stessa ammissione dei suoi protagonisti al Tribunale di Milano meglio metterci una pietra sopra.

Già, “il miracolismo mediatico” (Mario Perniola, “Miracoli e traumi della comunicazione”, Einaudi) che genera in tutti una eccitazione fuori misura “rispetto all’effettivo peso degli avvenimenti”. Ma se nel tritacarne oggi finiscono i giudici-eroi di Tangentopoli non troverete uno straccio di articolo, un commento in difesa delle ragioni e dell’onore perduto dell’ultima Casta da parte dei loro ex aedi. 

La fine, secondo il politologo Angelo Panebianco, della stessa “rivoluzione giudiziaria”. Meglio gettare nell’oblio quanto è stato narrato per anni come un avvenimento epocale. Un addio alle armi, insomma. Una ritirata vergognosa davanti ai lettori residuali dopo il grande esodo dalle edicole.

E veniamo all’oggi. 

Nelle redazioni dei giornali - “Corriere”, “Repubblica”, “la Stampa” -, non suscita curiosità, non diciamo scandalo, l’affaire della vendita delle armi alla Colombia, in tempi di guerra, da parte di Finmeccanica e Leonardo con la mediazione dell’ex capo del governo, Massimo D’Alema. E senza che arrivasse uno straccio di smentita da parte dei presunti “furbetti del quartierino” distribuiti tra il tavoliere della Puglia e le piantagioni della Colombia. 

L’inchiesta avviata in febbraio dal sito Sassate.it di Guido Paglia e da “la Verità” di Maurizio Belpietro, ben documentata con gli articoli di Giacomo Amadori e Fabio Amendolara – e corredata di agghiaccianti “audio” e scambi di mail tra i protagonisti-mediatori (D’Alema&C) e la casa madre Leonardo guidata da Alessandro Profumo -, è ribalzata sui social e soprattutto in tv con effetti assai più devastanti per Leonardo e per il governo Draghi, fermi nella loro arroganza del silenzio omertoso.

Se in via Solferino i guardiani della notizia sonnecchiavano, a Largo Fochetti si risvegliavano dal torpore il 2 marzo riportando nel titolo l’audio in cui l’ex premier avvertiva i suoi interlocutori: “Ci dividiamo 80 milioni”. Ma il giorno dopo correva ai ripari ospitando una intervista lecca-lecca a Massimo D’Alema: “Dalle armi vendute alla Colombia non avrei preso un euro”. E gli 80 milioni da spartire? Quisquiglie per Max e il suo intervistatore. 

Così, occorre aspettare giovedì 17 marzo dopo l’incalzare dell’inchiesta de “la Verità”, dei social e dei programmi tv “Striscia la notizia” e Fratelli di Crozza”, il quotidiano fondato da Scalfari tornava sull’”incredibile” (sic) storia della vendita delle armi che potrebbe costare la riconferma di Profumo in Leonardo. 

Ancora una volta a fare da cassa di risonanza sull’affaire delle armi sono stati i programmi satirici “Striscia la notizia” (Canale 5) e “Fratelli di Crozza” (Nove). Da settimane Pinuccio e la redazione di Antonio Ricci non facevano del sarcasmo su un presunto episodio di corruzione, sia pure finito nel nulla, ma quell’informazione negata dai media tradizionali. Sono cronaca senza bavagli gli interventi puntuali del conduttore di “Radio Scoglio 24” che aspettano ancora un cenno di risposta da parte di Profumo e del “governo dei migliori” di Mario Draghi. Finora sempre negato. Ah, saperlo!

E forse anche il professore al catodo sonnecchiava nelle Langhe quando “Striscia” e “Fratelli d’Italia” hanno sbeffeggiato il Tg1 di Monica Maggioni che aveva mandato in onda le immagini fasulle dei missili russi in Ucraina rubate da un video-gioco. “Il tono scherzoso, meglio del tono serioso, risolve in genere le grandi questioni con più efficacia”, sosteneva Orazio. 

È un vero peccato, allora, che il critico televisivo del “Corriere” invece di sottolineare il ruolo meritorio dei due programmi sull’affaire Leonardo-D’Alema colga l’occasione per bacchettare il comico Maurizio Crozza, reo di aver messo in onda un monologo beffardo alla Dario Fo del “Mistero buffo” giudicato “non un passaggio satirico, ma un comizio antiamericano”. 

Emilio Pucci per “il Messaggero” il 23 marzo 2022.

Avanti nei sondaggi, con la conferma di essere il primo partito in Italia (0,1% di flessione, quasi zero), con cinque punti di vantaggio sugli avversari interni della Lega di Salvini. Eppure Giorgia Meloni, leader di FdI, ha un cruccio: «Primo partito nei sondaggi, ma ecco lo spazio che alcuni dei principali TG dedicano a Fratelli d'Italia. A voi sembra normale che l'opposizione abbia così poca voce a disposizione nei media?». 

E sciorina i dati, presi da Agcom: dal 3% al Tg1, all'1% del Tgcom. Numeri, comunque, quelli dei sondaggi, che riaccendono la disputa interna al centrodestra. Prima tappa, naturalmente, le elezioni comunali dove si misureranno i rapporti di forza, anche in proiezione delle future elezioni politiche. FdI punta ad essere il partito leader del centrodestra, aggredendo anche le roccheforti leghiste come Verona e Como.

Tutta un'altra partita, poi, è la Sicilia dove lo scontro è ancora più aspro. Matteo Salvini, ieri, ha lanciato l'idea di una federazione di centrodestra, pensando anche a una lista unica alle Politiche. Il leader della Lega ha fatto trapelare di averne discusso con Berlusconi, a margine del matrimonio tra il Cavaliere e la Fascina. Ma la frenata arriva proprio dal partito azzurro.

«Non eravamo informati. Forza Italia è il primo partito nell'isola, perché dovrebbe fondersi?», la reazione. Restano divisioni sui candidati a Palermo e Messina, ma soprattutto sulla riconferma di Musumeci, vicino a Fdi. Tuttavia, Salvini non vuole alimentare scontri nella coalizione. Al Consiglio federale i coordinatori si sono lamentati per l'atteggiamento del partito della Meloni. «Vuole candidati dappertutto, sembra che voglia far perdere il centrodestra e poi dare la colpa alla Lega», il refrain. 

Il Capitano non ha alzato ciglio, ha invitato i suoi referenti sul territorio a cercare di chiudere le intese, altrimenti ha argomentato andiamo da soli. Nessun accenno polemico però. Anzi, un atteggiamento low profile, perfino sulla campagna elettorale. Nei prossimi giorni ci sarà una nuova riunione, per mettere a terra un calendario di manifestazioni e programmare, tra l'altro, anche Pontida che ritorna dopo due anni di sospensione causa Covid. Ma l'ex ministro dell'Interno ha scelto di restare defilato.

Il cambiamento di strategia lo si nota perfino sul dossier sul referendum sulla giustizia. Nessuna voglia di personalizzare i quesiti, visto che il mancato raggiungimento del quorum verrebbe ascritto direttamente al leader. Da qui la volontà di mobilitare il partito con gazebo e banchetti ma senza bandiere. Del resto le altre forze della coalizione (in parte FI, soprattutto Fdi) non intendono fare una battaglia campale. Le amministrative comunque saranno una cartina di tornasole per capire la tenuta dell'alleanza. «Noi restiamo fermi sulle posizioni del centrodestra. Aspettiamo che ci tornino gli altri», dice Lollobrigida di Fdi.

Il partito della Meloni terrà una conferenza programmatica nelle prossime settimane (non è stata ancora stabilita né la sede né la data) e accusano dalla Lega sta tentando una campagna acquisti anche tra i parlamentari. Anche FI avrà una sua kermesse: a Roma, l'8 aprile, giorno in cui Berlusconi tornerà dopo più di due anni a tenere un comizio. Anche per lanciare l'idea di un tavolo programmatico in vista delle Politiche. «Sulle comunali il dialogo nel centrodestra argomenta il forzista Gasparri va avanti. Sono in via di soluzione i nodi riguardanti le candidature a Lucca, Viterbo, Pistoia, Parma, Catanzaro». L'operazione pacifista di Salvini («Non attaccate Fdi, non è il momento», ha detto ai suoi) al momento non ha portato a un ritorno del dialogo con Giorgia ma il tentativo è quello di stemperare le tensioni degli ultimi mesi.

Guerra in Ucraina, Zelensky sospende undici partiti di opposizione: “Collaborano con la Russia”.  L'Espresso il 23 marzo 2022.

Le attività di queste formazioni sarà vietata per la durata della legge marziale. Sono tutti partiti che si definiscono di sinistra ma hanno spesso appoggiato Putin, anche se al loro interno non mancano i dissidenti. Ecco quali sono le ragioni e i pericoli di questa operazione.

Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi. Tutte le informazioni qui

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha fatto sapere che sospenderà l’attività di undici partiti che hanno legami, diretti e indiretti, con la Russia. Una decisione che secondo alcuni osservatori può essere definita come il suo primo passo falso e rischia di stridere con l’immagine dell’Ucraina democratica con un presidente eletto e scelto dal popolo, in guerra con la Russia dove la propaganda putiniana ha spento qualsiasi forma di dissenso. Vediamo quindi di capire meglio i dettagli di questa operazione.

L’annuncio

«Data una guerra su larga scala scatenata dalla Federazione Russa e i collegamenti tra essa e alcune strutture politiche, le attività di alcuni partiti politici sono sospese per il periodo della legge marziale», ha affermato Zelensky in un discorso video, caricato sul suo canale Telegram il 20 marzo, facendo riferimento ai partiti e alle attività politiche che collaborano con il nemico e si muoverebbero verso la scissione del paese. Nel decreto, deciso dal Consiglio nazionale per la difesa e la sicurezza dell'Ucraina c’è anche il divieto delle stazioni televisive private, fuse tutte in un unico canale televisivo statale.

Quali sono i partiti sospesi

Tra i partiti sospesi c’è anche il principale avversario politico di Servitore del Popolo, il partito di Zelensky, la Piattaforma di Opposizione - Per la Vita (OPZZh), che alle elezioni del 2019, ha preso il 13 per cento dei voti e 43 seggi parlamentari su 450. Un partito apertamente filo russo e antieuropeista che, durante le elezioni ha sostenuto una politica a favore dei territori con presenza russa dell’est (riconoscendo le repubbliche del Donetsk e di Luhansk) e che ha infatti preso la maggior parte dei voti nelle regioni al confine con la Russia. L’OPZZh ha comunque una composizione variegata e ospita al suo interno diverse voci indipendentiste ucraine e con l’inizio dell’attività bellica il partito ha preso le distanze dalla Russia, condannato la guerra e invitato i suoi membri a prendere parte alla Difesa Territoriale.

L’OPZZh ha attualmente a suo capo Yuriy Boyko, dopo che a marzo è stato escluso formalmente il leader storico, l’oligarca ucraino di origini russe, Viktor Medvedchuk, molto vicino a Putin e che lui stesso ha definito un “amico personale”. Medvedchuk era agli arresti domiciliari dal maggio 2021, dopo essere stato accusato di tradimento,è fuggito con l’inizio della guerra e non si sa che fine abbia fatto. L’intelligence statunitense lo indica come il possibile successore di Zelensky qualora l’Ucraina cadesse in mano russa.

C’è poi il Blocco di Opposizione, che ha sei seggi in parlamento, e deriva dalla fusione di vari partiti che nel 2014 non avevano appoggiato il gruppo Euromaidan, l’ondata di manifestazioni europeiste che avevano portato dimissioni del presidente Viktor Yanukovich, che voleva mantenere rapporti più stretti con la Russia. Uno di questi è proprio il Partito delle Regioni dell’ex presidente Viktor Yanukovich, disciolto dopo aver sostenuto il separatismo delle regioni russofone durante la guerra in Crimea nella cosiddette politiche di “de-comunistizzazione” dell’Ucraina.

Sospesi solo i partiti di sinistra?

In realtà quello che molti di questi partiti sembrano avere in comune - oltre ai legami con la Russia - è che la maggior parte non è neppure rappresentata in Parlamento, non ha grande sostegno pubblico e si definiscono di sinistra, “progressisti”, “socialisti” o “comunisti”. Quello di Zelensky è invece un partito più vicino all’area neoliberista europeista.

Molti di questi progressisti, però, hanno poco a che spartire con l’ideale di sinistra a cui siamo abituati. Di tutti i partiti banditi, solo uno di loro potrebbe essere chiamato di sinistra, è il Partito Socialista, mentre gli altri sono più vicini al nazionalismo russo.

Ad esempio il Partito Socialista Progressista è il partito del "mondo russo" e ha il primato dell'ortodossia cristiana nella vita civile. «È radicato nell'estremo nazionalismo russo anti-ucraino fino alla negazione dell'esistenza degli ucraini», racconta Vladyslav Starodubtsev, membro del Sotsialnyi Rukh, il Movimento Sociale, nato nel 2016 per rispondere a quella mancanza di sinistra, una soggettività politica delle classi lavoratrici e operaie, con un’agenda socialmente orientata e anti-putiniana.

«Il Partito Socialista Progressista in passato era un partito di centrosinistra, ma è stato dirottato dalle forze pro-Putin. Non hanno niente in comune con il socialismo», aggiunge Starodubtsev. Nel 2011 è stato escluso dall’Internazionale socialista. Suo alleato, anch’esso sospeso dal decreto, è il partito Derzhava, antisemita, no-vax e antieuropeo. C’è poi Opposizione di sinistra, il successore del Partito Comunista d'Ucraina che è il gemello di quello russo, ha posizioni pro-Putin, omofobe e xenofobe e ha più in comune con lo stalinismo, che con l’eurocomunismo di partiti europei come quello comunista francese.

Un altro degli undici è il Partito di Shariy, che non ha seggi in Parlamento, fondato dal blogger politico Anatoly Shariy, apertamente schierato contro il governo di Zelensky, e il partito di Volodymyr Saldo che cooperò apertamente con l'esercito russo e si schierò dalla parte della guerra.

«Siamo contrari a vietare tutti questi partiti nel loro insieme, con un decreto, ma siamo favorevoli a un giudizio severo nei confronti di tutti coloro che collaborano con le forze di occupazione russe e il governo russo su base individuale», aggiunge Starodubtsev. Tra questi quello che spicca maggiormente è l’OPZZH, dove una parte della leadership ha collaborato con i russi, ma molti dei suoi membri stanno ora combattendo l'invasione di Putin.

Essere di sinistra in Ucraina è meno semplice di quello che sembra. Il Partito Comunista d’Ucraina con altri partiti di sinistra, che dopo il 2013-2014 hanno avuto posizioni pro-Putin, si sono avvicinati a idee della destra estrema, diventando fortemente nazionalisti e conservatori. «Sono più vicini all’AfD tedesco, che a posizioni di sinistra. Essere un'ala della sinistra in Ucraina è prima di tutto combattere contro tali associazioni. Siamo un'organizzazione democratica di sinistra socialista composta da socialisti libertari, socialisti democratici e trotskisti e stiamo cercando di unire il meglio della sinistra democratica e indipendentemente», conclude Starodubtsev. Insomma, un socialismo vecchio stampo, fortemente sindacalista, che al momento cerca pari distanza dalle idee staliniste e del neoliberismo che si è affermato con la caduta dell’Urss. Intanto in Ucraina si moltiplicano voci e denunce che parlano di arresti e segnalazioni di attivisti e di chiunque si opponga al governo in carica.

Zelensky ha sospeso l’attività politica a 11 partiti d’opposizione. Colpita anche la Piattaforma “Per la Vita”. Zaira Bartucca su recnews.it il 20 Marzo 2022.

L’annuncio sull’avvio delle “attività di controllo” sui soggetti sgraditi al presidente ucraino. Intanto un sito annuncia la creazione di campi di concentramento dove sarebbero detenuti i soldati russi. Con una nota di commento.

Abbiamo già dato conto del “Sistema di controllo presidenziale” introdotto in Ucraina con la legge del 17 febbraio del 2020. Si tratta di un complesso organismo fondato su attività di Intelligence preventive e repressive che fanno capo all’Ufficio di Zelensky e ai nuovi Servizi segreti esteri. Una normativa che in un’Ucraina attraversata da venti neo-nazisti non può che destare preoccupazione, tanto più che Volodymyr Zelensky in un video pubblicato di recente ha annunciato l’avvio di attività di “controllo e limitazione” di 11 partiti di opposizione considerati filo-russi. La decisione di impedire l’attività politica ai rivali è contestuale all’introduzione della legge marziale, cioè all’avvio del governo militare che prende decisioni assieme al presidente, il comandante in capo in mimetica che però non partecipa alle battaglie che promuove.

Colpita anche la Piattaforma di Opposizione “Per la Vita”

Il divieto di esercitare attività politica avrà ripercussioni soprattutto sulla Piattaforma di Opposizione “Per la Vita”, che fa parte degli undici soggetti bloccati. Fondata nel 1999, nel 2019 ha corso per le elezioni presidenziali e per le parlamentari. Si tratta del terzo partito d’Ucraina e fino a questo momento poteva contare su 44 dei 450 dei seggi in Parlamento. Un’ascesa ormai da riconsiderare, viste le misure repressive messe in atto da un Zelensky ormai completamente succube delle campagne progressiste del finanziatore Joe Biden, che per armare l’Ucraina ha già sborsato miliardi di dollari in più tranche. La Piattaforma Per la Vita è guidata da Victor Medvedchuck, considerato vicino a Vladimir Putin e protagonista di diverse campagne di sensibilizzazione Pro life che in Ucraina sono urgenti più che altrove: il Paese è infatti piegato dal fenomeno delle gravidanze surrogate (il cosiddetto utero in affitto). Questa pratica è promossa da cliniche come Feskov – altrove illegali – che sul suo sito in questo momento si promuove così: “Umano perfetto – Il tuo miglior investimento. Servizi di genomica umana, i geni ideali per tuo figlio”. Che l’eugenetica selettiva promossa dai nazisti stia tornando tristemente attuale, normalizzata e nascoste dietro concetti tranquillizzanti e dietro l’attività delle cliniche che permettono di acquistare esseri umani e addirittura sceglierne le caratteristiche in base ai gusti degli acquirenti? Una piaga sociale e umana che in Zelensky non sembra destare preoccupazione alcuna, anzi il presidente “moderato” – ufficialmente centrista – ha deciso di bloccare le attività agli unici partiti che ne parlano.

“Umano perfetto – Il tuo miglior investimento. Servizi di genomica umana, i geni ideali per tuo figlio” – la promozione dell’utero in affitto sul sito di una clinica ucraina. Si parla di “investimento” e di “genetica ideale”. Contro la pratica si battono alcuni deli partiti sospesi da Zelensky.

Quali sono i partiti ucraini sospesi

Oltre alla “Piattaforma di opposizione-per la vita» sono stati sospesi: il “Blocco dell’opposizione”, “Stato”, “Sharìa”, “Partito socialista progressista dell’Ucraina”, “Partito Socialista dell’Ucraina”, “Socialisti”, “Nostro, “Opposizione di sinistra”, “Unione delle forze di sinistra”, “Blocco di Vladimir Saldo”.

L’accusa di essere “filo-russi”

Il motivo per cui questi undici soggetti politici sono stati colpiti è presto detto: il presidente ucraino Zelensky nel video postato di recente li ha definiti “filo-russi”. Un’accusa paradossale, se si pensa che l’attività politica è svolta in rappresentanza dei territori transitati nella sfera russa (Crimea, RPD e RPL), di quelli abitati dalle minoranze russe e anche dei milioni di ucraini russofoni che rappresentano una percentuale tutt’altro che esigua. Da Mosca, del resto, da mesi giungono voci sulla soppressione di alcune Chiese Cristiane Ortodosse russe, e perfino di iniziative di cancellazione della lingua russa che starebbero avvenendo in alcuni istituti scolastici.

I campi di concentramento dove verrebbero internati i prigionieri russi

Da Mosca erano giunti già diversi avvertimenti circa la “deriva nazista” che sta interessando l’Ucraina e di cui sembra volersi rendere protagonista anche il presidente ucraino Zelensky. L’omologo russo Vladimir Putin lo scorso 24 febbraio – contestualmente all’avvio della campagna militare in Ucraina – si era appellato alla necessità di “smilitarizzare e denazificare l’Ucraina“, oltre che ripulirla dai laboratori sperimentali attrezzati per la fabbricazione di patogeni e dalle basi NATO che l’hanno trasformata in un territorio tutt’altro che neutrale. Adesso dal sito CursorInfo giunge la notizia – da confermare ma inquietante se inserita in questo contesto – di “campi di internamento” per i “prigionieri russi”. “I militari della Federazione Russa – scrivono dal sito – si arrendono volentieri in cattività quando capiscono che questa è la loro unica possibilità di morire in Ucraina”. Il clima di diffidenza e di paranoia antirussa in Ucraina, del resto, è tale che – riferiscono testimoni sul posto – capiti agli stessi ucraini di essere fermati, legati e in alcuni casi arrestati perché sospettati di essere russi o “spie”.

Nota di commento (qualche domanda retorica)

Cosa sarebbe successo se il presidente della Federazione Russa Vladymyr Putin avesse stoppato l’attività politica di undici partiti d’opposizione? Come avrebbe trattato la notizia il mainstream? Quanti secondi avremmo dovuto aspettare prima delle esternazioni di Navalny e del suo entourage, cioè di quei personaggi che in Russia sono stati imprigionati per aver commesso reati contro il Patrimonio dello Stato e non certo per il 2% di gradimento dei loro partiti? Se Putin – che ha definito, a ragione, l’Occidente “l’Impero della menzogna” – avesse pensato di cancellare il terzo partito russo, come sarebbe andata? E se i campi di concentramento li avesse promossi la Russia? Ancora tutto normale per “democratici” che vedono il nazismo ovunque ma si girano dall’altra parte quando inizia a manifestarsi davvero?

Zaira Bartucca Direttore e Founder di Rec News, Giornalista. Inizia a scrivere nel 2010 per la versione cartacea dell’attuale Quotidiano del Sud. Presso la testata ottiene l’abilitazione per iscriversi all’Albo nazionale dei giornalisti, che avviene nel 2013. Dal 2015 è giornalista praticante. Ha firmato diverse inchieste per quotidiani, siti e settimanali sulla sanità calabrese, sulle ambiguità dell’Ordine dei giornalisti, sul sistema Riace, sui rapporti tra imprenditoria e Vaticano, sulle malattie professionali e sulle correlazioni tra determinati fattori ambientali e l’incidenza di particolari patologie. Più di recente, sull’affare Coronavirus e su “Milano come Bibbiano”. Tra gli intervistati Gunter Pauli, Vittorio Sgarbi, Giulio Tarro, Armando Siri, Gianmarco Centinaio, Michela Marzano, Vito Crimi, Daniela Santanché. Premio Comunical (2014, Corecom/AgCom). Autrice de “I padroni di Riace – Mimmo Lucano e gli altri. Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato”.

L'autocensura di due editori britannici per non "turbare" Pechino. E scoppia la polemica. Antonello Guerrera La Repubblica il 17 Marzo 2022.

Tolti riferimenti scomodi al regime a libri stampati in Cina ma destinati al pubblico occidentale. La denuncia del Financial Times. Due importanti editori inglesi avrebbero fatto “appeasement” nei confronti di Pechino e tolto riferimenti scomodi al regime a libri stampati in Cina ma destinati al pubblico occidentale. Lo rivela il Financial Times, che racconta come Octopus Books e la londinese Quarto avrebbero epurato riferimenti a Taiwan, Hong Kong, all’artista dissidente cinese Ai Weiwei e altri passaggi che, a quanto pare, sono stati oggetto di autocensura.

Dedo Tortona per “il Venerdì di Repubblica” il 18 marzo 2022.

Cosa non si fa per guadagnare. Anche mettere mano precipitosamente alla trama di un film e cambiarla. È quello che sta accadendo a Hollywood che, in questi anni, si è mostrata prontissima a rinunciare a qualsiasi principio, creativo o ideologico, pur di sbancare il ricchissimo botteghino cinese. 

Soprattutto da quando Pechino ha allentato i vincoli sul numero di film stranieri ammessi nelle proprie sale. La sfida tra Hollywood e il Dragone viene ora analizzata nel saggio Red Carpet da Erich Schwartzel, reporter del Wall Street Journal.

INCASSI STELLARI

Tutto inizia nel 2008: mentre in America le vendite di biglietti del cinema iniziano a ristagnare, in Cina crescono rapidamente, con percentuali a doppia cifra anno su anno. «Con la pandemia, poi, il fatto che i cinema cinesi abbiano ripreso l'attività prima di quelli americani ha fatto sì che nel 2020 Pechino diventasse il box office numero uno al mondo, con film che incassano quasi un miliardo di dollari» spiega Schwartzel al Venerdì. 

«Oggi non è raro che un film di successo in Cina incassi dai 500 ai 700 milioni di dollari, cifre stellari per gli Stati Uniti». E così il richiamo dell'appetitoso mercato orientale ha portato Hollywood a repentine giravolte pur di non fare innervosire il governo cinese, proverbialmente suscettibile riguardo alle proprie prerogative geopolitiche. «Un ottimo esempio è il sequel di uno dei film in cui l'America ha più celebrato il suo patriottismo: Top Gun» spiega Schwartzel.

«Nel film originale, girato negli anni Ottanta, Tom Cruise sulla sua giacca ha diversi stemmi nazionali, tra cui quello di Taiwan. Ma la bandiera taiwanese implica che Taiwan sia una nazione, cosa che dà parecchio fastidio a Pechino. Così Hollywood, nel sequel che esce quest' anno, ha deciso di rimuovere quello stemma dalla giacca di Cruise». Altro film, altra correzione.

Nel 2012 esce il remake di un altro dei film patriottici statunitensi: Alba rossa. «Nella pellicola del 1984 girato da John Milius, l'Urss invadeva gli Stati Uniti. Per il remake del 2012, non essendo più l'Urss una minaccia credibile, si scelse di avere come invasore la Cina. E il film fu girato, appunto, come invasione di soldati cinesi, con relativi stemmi e bandiere ben visibili» spiega l'autore.

«A riprese finite, e prima dell'uscita nelle sale, arrivarono le proteste di Pechino, offesa da un film in cui si si mostra la Cina come Paese aggressore. Hollywood fece una marcia indietro clamorosa. Si decise, a giochi ormai fatti, che l'invasore del film non sarebbe stato la Cina, ma la Corea del Nord, Paese altrettanto ostile ideologicamente all'America, ma privo di un mercato cinematografico prezioso come quello cinese».

Una ditta di effetti speciali rimpiazzò gli stendardi cinesi con quelli nordcoreani. «La cosa che colpisce è che il remake di Alba rossa non era nemmeno previsto per il mercato cinese, ma per la Metro-Goldwyn-Mayer la minaccia di un blocco annuale per gli altri suoi film in Cina - così come era avvenuto nel 1997 per la Disney e per la Sony per i due film sul Dalai Lama, ovvero Kundun di Martin Scorsese e Sette anni in Tibet di Jean-Jacques Annaud - fu così convincente da portare Mgm a fare ammenda con quel grottesco escamotage».

Ma il lifting deideologizzante ai film non è l'unico stratagemma hollywoodiano per attirare i cinesi nelle sale. L'altro trucco è riempire i film di ammiccamenti al gusto cinese. E non solo arricchendo il cast con attori popolari in Oriente, «ma anche con un product placement che spesso può sembrare incongruo» spiega Schwartzel.

«Ad esempio, nel film Transformers 4 - L'era dell'estinzione del 2014 c'è una scena in cui Mark Wahlberg usa una confezione cinese di proteine in polvere, e in un'altra scena usa il bancomat della China Construction Bank, curiosamente dislocato nel bel mezzo del Texas. I produttori vennero incontro anche a una richiesta delle autorità cinesi: nel film si mostra una battaglia tra robot giganti a Hong Kong, e i cinesi ottennero che i primi jet militari ad arrivare sul posto fossero non quelli americani - come previsto dalla sceneggiatura originaria - ma quelli cinesi, così che la Cina potesse mostrarsi come la benevola protettrice di Hong Kong».

La strategia complessiva funzionò: se negli Stati Uniti il film si assestò sui 245 milioni di dollari di incasso, risultato inferiore a film come Guardiani della galassia, Captain America: The winter soldier e Lego Movie, nei cinema cinesi, Transformers 4 - L'era dell'estinzione incassò ben 92 milioni di dollari nel primo weekend e poi 301 milioni in totale, più che negli Usa e più di ogni altro film di Hollywood proiettato in Cina fino ad allora.

Per dare un'idea di quanto sono cambiate le cose negli anni, basta pensare che i cinema cinesi, fino al 1994, sono rimasti largamente chiusi ai film occidentali. «Da quell'anno si consentì a Hollywood di esportare in Cina un massimo di dieci film all'anno, e gli incassi record del periodo, per gli americani, erano irrisori rispetto a oggi: toccavano al più i 3 milioni di dollari».

Come in altri settori industriali, la Cina ha imparato presto la ricetta del successo occidentale: nel 2017 il record di incassi - 854 milioni di dollari - fu quello di un film autoctono, Wolf Warrior 2, che mescola abilmente la spettacolarità estrema dei blockbuster hollywoodiani alla propaganda geopolitica: nel film, infatti, un manipolo di eroi cinesi, in Africa, agisce - con bandiera rossa in bella vista - difendendo le popolazioni africane da loschi mercenari occidentali. In barba a Hollywood.

CENSURA. YOUTUBE OSCURA IL DOCUFILM DI OLIVER STONE SULL’UCRAINA. PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci il 16 Marzo 2022.

La censura colpisce ancora.

Stavolta nel mirino c’è il grande regista Oliver Stone e il docufilm    ‘Ukraine on fire’, prodotto nel 2016.

‘Youtube’, che fino a qualche giorno fa lo ospitava, ha pensato bene di oscurarlo, tanto per genuflettersi meglio davanti ai padroni del mondo, gli Stati Uniti.

Tanto più grave questa fresca censura, a livello mediatico, perché contemporaneamente ‘Facebook’ ha deciso di andare avanti nella sua campagna per aizzare violenza contro Vladimir Putin, la Russia e i russi.

Social, quindi, allineati e coperti nel garantire non solo la disinformazione più totale, ma anche per soffiare sul fuoco.

La vicenda della censura contro Oliver Stone è ben raccontata in un breve ma succoso video di ‘Byoblu’, attraverso cui si può arrivare anche alla piattaforma canadese ‘Rumble’, che con una autentica azione di ‘salvataggio’, ora ospita il docufilm di Stone, che quindi potete ancora (vivaddio) vedere.

‘LE FIGARO’. CENSURE FRANCESI SULL’UCRAINA. Redazione su La Voce delle Voci il 14 Marzo 2022.

Non solo “il Manifesto”, fra le testate “storiche”, oggi in prima linea nel censurare articoli ‘scomodi’ sul conflitto in Ucraina.

Dalla Francia arrivano notizie, ugualmente agghiaccianti, griffate ‘Le Figaro’. Non si tratta, stavolta, di un quotidiano di sinistra, come almeno lo era, un tempo ormai lontano, il foglio fondato da Lucio Magri e Rossana Rossanda.

Ma di un organo di stampa ‘conservatore’, comunque autorevole nel corso dei decenni.

Dal sito di contro-informazione francese ‘Le Media en 4-2-4’   un vi proponiamo un istruttivo articolo, che documenta come una delle più coraggiose reporter di guerra transalpine, Anne-Laure Bonnel, sia stata clamorosamente censurata da ‘Le Figaro’.

Ecco cosa denuncia il battagliero sito. 

Le Figaro censura l’articolo sul Donbass della giornalista Anne-Laure Bonnel

Il giornalismo a geometria variabile è una costante in una Francia che continua a sprofondare negli abissi della censura, della menzogna e del servilismo. Anne-Laure Bonnel ha fatto l’esperienza dolorosa di uno dei suoi articoli, misteriosamente scomparso, e che sicuramente deve riposare in uno di questi scivoli della spazzatura che raccolgono verità imbarazzanti.

Il 4 marzo 2022 Le Figaro ha pubblicato un articolo della giornalista Anne-Laure Bonnel che raccontava le condizioni di vita di coloro che vivono nelle regioni di Donetsk e Lugansk. Quelli che il governo di Kiev considera “terroristi” sono stati bombardati per otto anni. Per tutti questi anni, questi emarginati hanno vissuto reclusi nelle cantine. Una promessa dell’ex presidente Petro Poroshenko :Avremo lavoro, loro no! Avremo le pensioni, loro no! Avremo vantaggi per pensionati e bambini, loro no! I nostri figli andranno a scuola e all’asilo nido, i loro figli rimarranno nelle cantine interrate! Perché non sanno fare niente! Ed è così, proprio come, vinceremo la guerra!  »

Le Figaro promuove l’articolo di Anne-Laure Bonnel

I lettori di Le Figaro , attraverso la voce di Anne Laure, avrebbero potuto avere una storia diversa rispetto ai media mainstream sull’Ucraina, soprattutto perché il giornalista di guerra conosce il terreno. Lo testimonia Donbass, un film di Anne-Laure Bonnel , il suo documentario del 2016. Dopo aver ringraziato la redazione per aver pubblicato il suo articolo sul Donbass, la giornalista è sorpresa di non vedere più il suo lavoro sul quotidiano francese.

La Carta etica di Monaco – o Dichiarazione dei doveri e dei diritti dei giornalisti – sembra aver disertato tutta la redazione francese, lasciando il posto alla Carta di Matignon, alle forze esterne, alle lobby, alla mancanza di coraggio e alla disonestà. Al posto dell’articolo in questione, troverai una Pagina non trovata – Ops, questo contenuto non esiste o non esiste più. La polizia del pensiero e dell’informazione certamente giudica che queste informazioni non siano molto adatte alla propaganda del governo, un’altra storia non è accettabile. Nel frattempo, puoi tenere conto del quotidiano Le Figaro , soprattutto per quanto riguarda gli abbonati che pensavano di poter ottenere informazioni.

Vi fa schifo la Russia di Putin? Liberate subito Julian Assange. Il giornalista australiano sarà estradato negli Usa dove rischia 175 anni di carcere. Chi difende i dissidenti russi non può non schierarsi con il fondatore di Wikileaks. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 17 marzo 2022.

Centosettantacinque anni di prigione, 150 più di Albert Speer, ministro degli armamenti del Terzo Reich e di Baldur von Schirach, capo della gioventù hitleriana che a Norimberga se la cavarono con vent’anni. Il castigo americano di Julian Assange che, salvo miracoli, verrà presto estradato negli Stati Uniti, è una pagina cupa per la democrazia occidentale, una rappresaglia politica travestita da diritto internazionale, una vendetta meditata e crudele. La sua vita ora è nelle mani di Priti Patel, ministra degli Interni e anima nera del governo Johnson, spetta a lei dare il via libera per l’estradizione, una pura formalità dicono da Londra. Dopo sette anni di esilio nell’ambasciata dell’Ecuador e tre di reclusione in un carcere britannico, la sua parabola sembra dunque giunta al termine.

Oltreoceano lo accusano di spionaggio per aver diffuso migliaia di cablogrammi secretati sulle guerre in Afghanistan e in Iraq e per aver rivelato l’identità di alcuni agenti segreti statunitensi nei paesi mediorientali. Da quei documenti emersero gli abusi commessi dai marine, i massacri di civili innocenti, i bombardamenti delle abitazioni, e i tentativi di insabbiare quei crimini. Censura e guerra, un binomio indissolubile come ci ricordano le cronache quotidiane dal fronte ucraino e le migliaia di arresti di oppositori russi che manifestano contro l’operazione militare. Chi contesta le purghe del Cremlino, i pestaggi e i sequestri, gli omicidi misteriosi dei giornalisti non allineati al nazionalismo russo, non può voltare la testa dall’altra parte.

Il destino di Assange è quello di tutti noi, riguarda la libertà di parola e l’indipendenza del giornalismo “cane da guardia” del potere come dicono i manuali. Assange non è un personaggio simpatico, i suoi metodi di inchiesta sono discutibili e spregiudicati ed è vero che ha messo in pericolo la vita degli 007 Usa rivelandone le identità. Ma è il simbolo di un’informazione libera e svincolata dagli interessi materiali dei governi e degli Stati, persino brutale nei suoi metodi a metà tra la pirateria e l’ intelligence parallela (Bradley Manning sottrasse i cablogrammi del Pentagono con un espediente degno di una spia di Hollywood, facendo cioè finta di scaricare su un disco un album di Lady Gaga).

Criticare la Russia di Vladimir Putin e la sistematica repressione del dissenso è sacrosanto, la propaganda di guerra, – che viaggia a pieno regime da entrambi gli schieramenti – a Mosca è però diventata un cappio al collo, i corrispondenti stranieri sono quasi tutti partiti dopo le minacce di arresto per chi avesse diffuso “fake news”, o meglio, quelle che il Cremlino ritiene tali. I redattori di Russia Today e altre testate governative devono invece recitare le veline di guerra per non avere conseguenze. L’Occidente s’indigna a ragione per la repressione feroce in corso in Russia, chiede garanzie e tutele per la libertà d’espressione e di parola, invoca lo Stato di diritto, dipingendo Putin come un satrapo vizioso che fa terra bruciata di qualsiasi voce critica. Tutto vero. Per criticare, però, non basta alzare la voce, bisogna anche essere credibili.

Altrimenti si presta al fianco alle becere speculazioni dei cosiddetti neutralisti, di quelli che “né con la Russia, né con l’Ucraina” e per i quali è stata la Nato con i suoi burattini di Kiev a provocare l’escalation militare. In molti hanno messo in relazione la vicenda di Assange a quella di Marina Ovsyannikova, la giornalista russa arrestata dopo aver mostrato in diretta tv un cartello contro la guerra: la multa di 30mila rubli che le hanno affibbiato dimostrerebbe che, in fondo, Putin è molto più clemente con i reporter ribelli del Dipartimento di Stato Usa.

Un paragone che trasuda malafede (il fondatore di Wikileaks ha comunque violato dei segreti di Stato, Ovsyannikova si è solo esibita in un flash- mob televisivo) ma che pare aver eccitato l’anti- imperialismo da salotto, genere tornato in voga dallo scoppio del conflitto ucraino, Ignorare la condanna a morte (cos’altro sono 175 anni di prigione?) di Assange e tuonare contro il regime liberticida di Mosca è una contraddizione che non ci possiamo permettere.

Silvia Morisi per il corriere.it il 24 marzo 2022.

Il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, ha sposato oggi (mercoledì 23 marzo) uno dei suoi ex avvocati, Stella Moris, nata in Sud Africa nel 1973. La cerimonia si è svolta nel carcere di massima sicurezza della Gran Bretagna, dal quale Assange continua a combattere contro la sua estradizione negli Stati Uniti. 

La coppia si era incontrata per la prima volta nel 2011 quando Moris era entrata a far parte del team di legali internazionali che si occupava del caso. Dalla loro relazione, iniziata nel 2015, sono nati due figli (Gabriel e Max), concepiti quando Assange viveva presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra, dal 2012 al 2019.

Alla cerimonia, tenutasi durante il normale orario di visita, hanno partecipato solo due agenti di sicurezza, quattro ospiti e due testimoni - come annunciato dal gruppo Don’t Extradite Assange -. Tutti i sostenitori sono stati, però, invitati a recarsi alla periferia della prigione di Belmarsh, nel sud-est di Londra, vestiti a festa.

La designer britannica Vivienne Westwood, da sempre impegnata della difesa di Assange, ha disegnato il kilt che lo sposo ha indossato per l’occasione - in omaggio alle origini scozzesi dei genitori -, così come l’abito da sposa di Moris. «Valoroso», «implacabile», «amore libero», alcune delle scritte ricamate sul velo. 

Nel Regno Unito i detenuti possono chiedere di convolare a nozze in carcere ai sensi del Marriages Act 1983. Moris, in occasione del matrimonio, ha lanciato una raccolta fondi per contribuire alle spese legali che martedì aveva già raccolto oltre 177mila sterline. «Siamo molto eccitati, nonostante le restrizioni - ha dichiarato Moris in una lunga lettera pubblicata dal Guardian -. Oggi è il giorno del mio matrimonio. Sposo l'amore della mia vita. Mio marito e il padre dei nostri due figli, un uomo meraviglioso, intelligente e divertente, che ha un profondo senso del bene e del male ed è conosciuto in tutto il mondo per il suo lavoro coraggioso... Continuano a esserci interferenze ingiustificate nei nostri piani. Avere un fotografo per un'ora non mi pare una richiesta irragionevole... Che tipo di minaccia alla sicurezza potrebbe rappresentare una foto di matrimonio? Sono convinta che temono che le persone vedano Julian come un essere umano. Non un nome, ma una persona. La loro paura rivela che vogliono che Julian rimanga invisibile al pubblico a tutti i costi, anche il giorno del suo matrimonio, e soprattutto il giorno del suo matrimonio» (Assange non si vede in pubblico da tre anni, ndr.).

Il 50enne australiano è ricercato dai tribunali americani che vogliono processarlo per la diffusione, dal 2010, di oltre 700mila documenti riservati sulle attività militari e diplomatiche americane, in particolare quelle legate alle missioni in Iraq e Afghanistan. Assange rischia 175 anni di carcere. La scorsa settimana, la Corte Suprema del Regno Unito ha respinto una richiesta di appello contro il via libera all'estradizione, portando - così - la vicenda legale sempre più vicina alla conclusione. Secondo un portavoce della Corte Suprema, l’ultimo ricorso è stato respinto in quanto non sollevava «nessuna questione di diritto discutibile». 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 marzo 2022.

Una giovane ragazza russa ha voluto verificare se, e in quanto tempo sarebbe stata arrestata, nel caso avesse intrapreso una qualche forma di manifestazione. Così, armata di un minuscolo cartello con su scritto “Due parole”, si è avvicinata a un cameraman in piazza Manezhnaya a Mosca, e gli ha chiesto: «Sostieni gli attivisti?». «Sì, certo», ha risposto lui. 

«Sto per dire “due parole”. Mi arresteranno per questo?» dice lei, mentre alza il piccolo cartello con la scritta “due parole”. Dopo 3 secondi, la squadra antisommossa entra in azione e preleva la ragazza. «Ti stanno già arrestando!» esclama il cameraman mentre gli agenti trascinano via la donna.

Dopo l’arresto, una seconda donna è andata a parlare con il cameraman. «Filmi solo gli oppositori? E chi non va in giro a protestare e crede che l’opposizione militare lanciata dal nostro paese sia giusta… filmi anche quelli?» gli ha chiesto. Al che lui le risponde: «Mostriamo tutte le opinioni».

Così la donna si prepara a lanciare il suo messaggio a favore della guerra, ma proprio mentre sta per iniziare, i poliziotti tornano sulla piazza e prelevano anche lei, prima che riuscisse a pronunciare due parole.

All’improvviso, il dissenso in diretta. Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022. E’ successo ieri sul Primo canale russo, durante l’edizione serale del telegiornale, il programma più visto, condotto da Yekaterina Andreeva, una delle anchor woman più famose, intervistatrice prediletta da Vladimir Putin. 

Alle sue spalle appare una ragazza che esibisce un cartello sul quale c’è scritto No alla guerra in inglese, e sotto, in russo, una scritta ancora più coraggiosa, se possibile. «Fermate la guerra, non credete alla propaganda, qui vi stanno mentendo». Per gli standard russi, è successo qualcosa di incredibile. L’autrice del gesto si chiama Maria Ovsyannikova, una giornalista di quella emittente, redattrice delle edizioni locali. Prima di fare irruzione in studio ha registrato a casa una dichiarazione. 

«Quello che avviene in Ucraina è un crimine. La Russia è il Paese aggressore. La responsabilità ricade su una sola persona: Vladimir Putin. Mio padre è ucraino, mia madre è russa, e non sono mai stati nemici. La Russia deve fermare immediatamente questa guerra fratricida. Purtroppo negli ultimi anni ho lavorato al Primo canale, occupandomi della propaganda del Cremlino e ora ne provo molta vergogna, perché ho consentito di dire bugie alla nazione e di zombizzare i russi. Abbiamo taciuto nel 2014, quando tutto questo era solo all’inizio. Non siamo scesi in piazza quando il Cremlino ha avvelenato Navalny. Abbiamo solo osservato in silenzio questo regime disumano. E ora ci ha voltato le spalle tutto il mondo, e altre dieci generazioni non si potranno togliere la macchia di questa guerra». 

Naturalmente, Maria Ovsyannikova è stata subito arrestata. L’apparizione è durata pochi secondi, interrotta dallo stacco su un filmato che riprende la corsia di un ospedale. Sull’account Facebook della giornalista sono subito apparsi numerosi messaggi di ringraziamento. Poi è stato subito oscurato. Per i cittadini russi che volessero riguardare il telegiornale sul sito, la visione online non risulta disponibile. E non lo sarà mai.

M. Ima. Per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2022.

La demolizione di Marina Ovsyannikova era cominciata subito. Già il giorno dopo la sua clamorosa irruzione nello studio del telegiornale della sera di Pervyj Kanal, il Primo canale della televisione pubblica russa, aveva cominciato a girare l'ipotesi, pare alimentata da alcuni suoi ex colleghi, che si trattasse di una finzione. Una cosiddetta falsa bandiera, concordata per mostrare come il dissenso possa trovare spazio anche dove nessuno se lo aspetta.

La teoria del complotto non stava in piedi, per ragioni evidenti. Allora, ecco arrivare l'accusa di essere un «agente straniero». Ci ha pensato il suo vicedirettore Kirill Kleimyonov, con parole al vetriolo. «Prima di fare quel che ha fatto Marina, secondo quanto sappiamo, aveva parlato con l'ambasciata inglese. Chi di voi ha mai fatto colloqui telefonici con una ambasciata straniera? Non con un centro visti ma proprio con un funzionario anche se lui, come si dice, era in borghese. Io, ad esempio, non l'ho mai fatto».

È chiaro dove sta andando a parare, il superiore della giornalista diventata all'improvviso famosa in tutto il mondo. «Non evoco le spie. Ma il tradimento è una scelta personale che non si può prevenire. Dico solo che bisogna dire pane al pane, e basta. Un impeto emotivo è una cosa, il tradimento è ben altra. E quando uno tradisce il suo paese e per giunta tutte le persone con le quali ha lavorato per quasi 20 anni, lo fa a freddo, con un calcolo preciso e per una ricompensa evidentemente concordata». In coda, l'ultimo veleno. «A proposito» dice Kleymonov. «La donna col cartello ha scelto per la sua azione il giorno del pagamento dello stipendio, per non perdere i soldi che le spettavano».

L'accusa è stata riportata dai media russi, anche dal «suo» telegiornale di Primo canale. Marina ha risposto subito, parlando con il sito indipendente Meduza. E senza fare passi indietro. «La vera patriota sono io. Ho fatto quel che ho fatto solo perché me l'ha ordinato il mio cuore. In Ucraina sono già morti 115 bambini, altri ne continuano a morire. E muoiono pure soldati russi, ragazzini anche loro, come mio figlio. Come madre, non posso evitare di piangere. Ecco l'unica ragione della mia protesta».

La Bbc ha contattato il ministero degli Esteri inglese a Londra. Che ha smentito con una certa durezza di aver mai preso contatto con la giornalista. «Si tratta di un'ennesima bugia diffusa dalla macchina della disinformazione». In serata, Ovsyannikova si è concessa una difesa più personale, venata di amarezza. «Neanche una parola di verità! Neppure una.

Mi vergogno di aver lavorato con la persona che sostiene queste cose. Kirill Kleimyonov lo sa benissimo che la decisione è stata mia e solo mia. Come siete miseri, tutti voi. Ma non vi ripugna di vivere nella menzogna?». Lo sfogo è apparso sul canale Telegram della blogger Kseniya Sobchak. È la figlia di Anatolij Sobchak, l'ex sindaco di San Pietroburgo, scomparso nel 2008. L'uomo che lanciò la carriera politica di Vladimir Putin.

Angelo Allegri per “il Giornale” il 23 marzo 2022.

Un complotto. Un complotto in combutta con una potenza straniera. Kirill Kleimonyov, direttore delle news del Primo Canale della tv russa, ieri è andato in studio a spiegarlo ai telespettatori. Marina Ovsyannikova, la producer che ha protestato in diretta al Tg contro la guerra in Ucraina, non ha agito da sola sull'onda dell'indignazione. «Appena prima aveva chiamato l'ambasciata britannica. Chi di voi parla di solito con l'ambasciata britannica? Io no di sicuro. Ha tradito il suo Paese e tutti noi, ci ha tradito in modo freddo, calcolato, in cambio di un premio concordato. Come Giuda con i suoi 30 denari».

Il tradimento della Patria e le trame straniere: mancava solo questo all'armamentario, linguistico e pratico, del nuovo stalinismo russo. Secondo la «Novaya Gazeta», uno degli ultimi giornali che cercano di barcamenarsi tra le maglie della censura, l'espressione «nemico del popolo», «vrag naroda», quintessenza stessa delle purghe staliniane, è già tornata di moda nei commissariati di polizia.

Così si sono sentite apostrofare molte tra le 15mila persone arrestate per aver protestato contro la guerra. Con lo stalinismo è tornata la paranoia. Dove «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», diceva George Orwell in «1984». E in Russia la guerra si chiama «operazione speciale», vietato dire altro. Ieri Roskomnadzor, l'autorità di controllo dei media, ha bloccato agentura.ru, sito fin qui miracolosamente sopravvissuto e dedicato all'analisi dell'attività dei servizi di sicurezza.

Erano stati i due fondatori, Andrei Soldatov e Irina Borogan a parlare, pochi giorni fa, delle prime purghe putiniane all'interno del Fsb. E sempre ieri un tribunale ha dichiarato organizzazioni estremistiche Instagram e Facebook, per non aver impedito manifestazioni di violenza verbale contro la Russia. A Mosca e dintorni la legge che conta davvero è la cosiddetta «legge telefonica», intesa come telefonata che i giudici ricevono dall'alto con le indicazioni del verdetto atteso.

A volte gli effetti sono paradossali: le aziende che hanno fatto pubblicità sulle due piattaforme potrebbero essere ora messe sotto accusa per sostegno di un'organizzazione estremistica. Lo stesso potrebbe accadere a chi distribuisce biglietti da visita con l'indicazione propri indirizzi sui due social media. A discuterne, già nel pomeriggio di ieri, erano un paio di giornali dedicati al mondo del business. Ma è nella repressione della gente comune che il potere sembra dare il peggio di sè.

Il «regime autoritario» sta conducendo non una ma due campagne, scrive Andrey Kolesnikov, analista politico ed editorialista della storica rivista «Tempi nuovi». La prima è l'operazione militare speciale condotta al di fuori dei confini della Russia. La seconda è una «operazione speciale contro il popolo russo». Tra gli arrestati dei giorni scorsi una manifestante passeggiava tenendo in bella vista un cartellone completamente bianco.

 Un altro aveva un cartellone con due file di asterischi, nella prima tre nella seconda cinque: riferimento alle parole «net voinè», no alla guerra. Un'altra ancora sul suo cartello aveva scritto semplicemente: «due parole». Vietato anche questo. A Kaliningrad una donna di 59 anni, Olga Nedvetskaya, è stata spedita in ospedale psichiatrico. Il suo gesto di protesta: cantare e ballare in pubblico accompagnata da musiche tradizionali ucraine.

Il brutto è che tutto questo, secondo Kolesnikov, conta fino a un certo punto: «i dati sono imprecisi, ma la tendenza sembra chiara: l'"operazione speciale" ha il sostegno dell'opinione pubblica, il gradimento di Putin è cresciuto. C'è una radicalizzazione delle posizioni: chi era contro l'autocrate è ancora più convinto; lo stesso vale per chi era a favore». E il peggio deve ancora venire: «con chi è isolato e non è in grado di fuggire dal paese, il potere può fare quello che vuole. Senza alcun riguardo, anche formale, per la Costituzione o le leggi.

Con l'indottrinamento totale dei bambini attraverso il sistema educativo. Questo regime non ha bisogno solo di sostenitori, ma di carne da cannone». Chi poteva è scappato. Molti professionisti, artisti, protagonisti dello show business. Come Ivan Urgant, uno dei presentatori più conosciuti della tv russa, autore di «Ciao Italia», benevola presa in giro del nostro Paese. Se ne è andato in Israele condannando la guerra sui social. Il primo canale ha già fatto trapelare che da settembre la sua trasmissione avrà un altro presentatore, suo grande rivale nei favori del pubblico.

La giornalista Marina Ovsyannikova: “Ho pensato di licenziarmi fin dal primo giorno di guerra”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Marzo 2022.

La Ovsyannikova ha raccontato che nessuno dei colleghi del canale statale russo l’ha chiamata per esprimerle solidarietà, perché lo stato della libertà d’informazione è molto compromesso: "Le informazioni oggi in Russia sono davvero ridotte: lì tutti i media d’opposizione sono chiusi, così come molti social. Attualmente i russi non hanno dove trovare informazioni veritiere di cosa succede in Ucraina".

La giornalista russa Marina Ovsyannikova diventata famosa in tutto il mondo per aver avuto il coraggio di interrompere il 14 marzo scorso la diretta della tv di Stato russa Channel One con un cartello contro la guerra in Ucraina – ha parlato in un’intervista con Fabio Fazio a “Che tempo che fa“, su Rai 3: “Quando è iniziata la guerra avevo deciso fin dal primo giorno di licenziarmi, perché avevo capito che il mio punto di vista non corrispondeva con la linea editoriale. Il giorno prima della protesta – ha raccontato – sono andata in cartoleria, ho comprato i pennarelli e ho scritto sia in inglese che in russo il cartello di protesta.

“Volevo andare a protestare, ma ho capito che era impossibile” spiega la giornalista russa, “Così è nata l’idea di fare una cosa diversa, una manifestazione davanti a tutto il mondo, perché la gente russa è contro la guerra. Così ho comprato i pennarelli e ho fatto questo cartellone in inglese per farlo vedere agli spettatori occidentali”

La giornalista russa dopo il suo gesto sta rischiando pesanti conseguenze: i russi l’hanno definita una spia britannica, ha subito intimidazioni ed ha dovuto affrontare un processo. Adesso Marina rischia 15 anni di carcere per la nuova legge contro l’informazione voluta da Vladimir Putin. “Non so cosa accadrà domani quando mi sveglierò: vivo alla giornata, e forse è meglio. Certamente ho paura“.

“Secondo le ultime indagini sociologiche il 50% della popolazione russa sostiene questa guerra e il 50% è contro, e queste sono delle indagini indipendenti. Ma se vediamo le indagini fatte dai centri nazionali il quadro è diverso e si parla del 70% a favore di questo intervento, ma dobbiamo ricordare che sono persone che hanno ricevuto il lavaggio cervello dalla propaganda nazionale” ha aggiunto Marina Ovsyannikova “Adesso dalla mattina alla sera abbiamo degli show politici dove si parla male dell’Ucraina e dove si dice che questo paese deve scomparire . Le persone sono “‘zombizzate” da questa propaganda”.

La Ovsyannikova ha raccontato che nessuno dei colleghi del canale statale russo l’ha chiamata per esprimerle solidarietà, perché lo stato della libertà d’informazione è molto compromesso: “Le informazioni oggi in Russia sono davvero ridotte: lì tutti i media d’opposizione sono chiusi, così come molti social. Attualmente i russi non hanno dove trovare informazioni veritiere di cosa succede in Ucraina”. Redazione CdG 1947

“I russi hanno subito il lavaggio del cervello, dopo mia protesta il tg non è live”, Marina Ovsyannikova a ‘Che tempo che fa’. Redazione su Il Riformista il 28 Marzo 2022. 

In Russia “il 50% della popolazione sostiene la guerra” ma “si tratta di persone che hanno subito un vero e proprio lavaggio del cervello dalla propaganda nazionale”. Cittadini che “dalla mattina alla sera” assistono a “show politici che parlano male dell’Ucraina, li chiamano nazisti da sterminare, produttori di armi biologiche contro la Russia. Le persone russe alla fine sono zombizzate da questa propaganda”. E’ quanto denuncia la giornalista Marina Ovsyannikova, la 43enne che nelle scorse settimane fece irruzione con un cartello anti-guerra durante la diretta del tg russo in onda sul Canale Uno.

Intervenuta a “Che tempo che fa” di Fabio Fazio, la donna, madre di due figli, rischia il carcere con il processo che partirà ad aprile dopo la legge-censura di Putin che prevede fino a 15 anni di pena. “Non ho mai pensato alla possibilità di emigrare; sono una patriota e mio figlio lo è ancora più di me e lui vuole andare a università” ha spiegato, aggiungendo che “tutta la nostra vita è in Russia e ora nel nostro Paese i tempi sono duri e le persone come noi servono al nostro Paese”. Anche se “ho paura che i miei figli possano” essere oggetto di “una aggressione a scuola, o per strada, ci sono persone che la pensano diversamente e ho paura”,

Dopo la protesta e il fermo della polizia (è stata poi rilasciata e chiamata a pagare una sanzione in attesa del processo), Marina Ovsyannikova è stata isolata dai colleghi di lavoro: “Mi sento sola, nessuno dal primo canale mi ha chiamato, mi ha scritto solo una persona che lavora lì e che non conosco. So che al primo canale ora è vietato pronunciare il mio nome o di parlare dell’incidente”. In seguito alla sua protesta “le notizie vengono trasmesse con un minuto di ritardo, non in diretta” per tamponare eventuali blitz indesiderati.

Molte persone, suoi colleghi, sono costretti a lavorare perché hanno bisogno di portare avanti la famiglia: “Non c’è un licenziamento di massa e dobbiamo capire, tuttavia, che queste persone si trovano nella condizione in cui se lasciano quel canale non trovano più un posto lavoro, essendo ormai chiusi o bloccati i canali di opposizione. Sono persone che magari hanno famiglia e non hanno la possibilità di permettersi di lasciare il lavoro che li fa vivere”.

Ma la censura fa vivere i russi in un modo parallelo: “Adesso le informazioni in Russia sono davvero ridotte perché i mass media dell’opposizione sono bloccati, o chiusi e lo stesso lo è anche per anche i social. Attualmente i russi non sanno dove trovare informazioni veritiere perché hanno soltanto a loro disposizione i canali dello Stato”.

La guerra è iniziata da oltre un mese, Marina ricorda quel 24 febbraio: “Per me è stato uno choc, non riuscivo a dormire o a mangiare, nessun russo riusciva a immaginare cosa stesse accadendo”. Un “terribile sogno” anche se “fino all’ultimo non potevo credere che ci sarebbe potuta essere questa guerra fratricida. Quando si parlava dell’esercito lungo le frontiere ucraine – ha ricordato – si pensava alla contrapposizione della Russia all’occidente, a una manifestazione di forza per chiedere qualcosa alla Nato. Quando queste azioni si sono trasformate in azioni militari e abbiamo capito che non si limitavano a Lugansk e Donetsk arrivando addirittura fino a Leopoli”.

Da tgcom24.mediaset.it l'11 aprile 2022.

Marina Ovsyannikova, la giornalista russa "no war" che ha interrotto la diretta del telegiornale per protestare contro la guerra in Ucraina, è stata assunta come corrispondente dalla Die Welt. Lo ha annunciato il proprietario del quotidiano tedesco, Axel Springer, che ha precisato: "Marina riferirà per il cartaceo e per il canale di notizie tv da Ucraina e Russia".

E proprio la Ovsyannikova ha commentato così l'assunzione: "Come giornalista, considero mio dovere difendere la libertà". La giornalista era stata arrestata e poi rilasciata dalle forze dell'ordine russe, dopo aver mostrato un cartello contro la guerra alle spalle di una collega che stava conducendo il telegiornale.

Il direttore del gruppo Wel, Ulf Poschardt, ha detto: "Marina ha avuto il coraggio, in un momento decisivo, di far confrontare gli spettatori russi con la realtà. Ha difeso la professione, nonostante la censure".

«Sì, ho paura: ma non sopportavo più le bugie del regime». Intervista a Marina Ovsyannikova, la giornalista che ha contestato l’aggressione russa esponendo un cartello di protesta durante il telegiornale. Il Dubbio il 12 aprile 2022.

«Ogni tanto mi chiedono perché abbia cambiato idea adesso, dopo aver lavorato per circa vent’anni con la propaganda di Stato. L’ho fatto dopo il 24 febbraio perché il Cremlino fa il lavaggio del cervello ai cittadini e parla male continuamente dell’Europa e degli Stati Uniti. Ora voglio dare il mio contributo per la verità, dato che le fake news sono quelle del Governo Russo e non di altri». A parlare al Dubbio è Marina Ovsyannikova, la giornalista che ha contestato l’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina, esponendo durante il telegiornale di Channel One un cartello con la scritta «No alla guerra, fermate la guerra. Non credete alla propaganda, vi stanno mentendo». Le immagini hanno fatto il giro del mondo e la protesta è costata, fino a questo momento, ad Ovsyannikova una multa e l’allontanamento dalla redazione. La versione integrale dell’intervista video sarà trasmessa sui canali social del Dubbio.

Marina, cominciamo con una bella notizia che la riguarda: l’inizio della collaborazione con il giornale tedesco Die Welt. La sua sarà una voce libera dalla Russia di Putin?

Ho cominciato ieri a collaborare con Die Welt, che ha dato la notizia in prima pagina. Il giornale ha annunciato la mia collaborazione che sarà gratuita. Spero di non rientrare nella lista degli agenti stranieri che criticano il governo del nostro Presidente. Vorrei far sapere a tutto il mondo quanto sta accadendo in Russia e in Ucraina.

Facciamo un passo indietro e ritorniamo al 14 marzo, quando ha esposto il cartello contro la guerra in diretta tv. Cosa ha provato subito dopo? Ha pensato che la sua vita sarebbe definitivamente cambiata?

Non ero sicura al cento per cento che la mia contestazione sarebbe riuscita. Un minuto prima stavo ancora lavorando ad un servizio che avrebbe parlato della Nazioni Unite. Pensavo che il regista del primo canale avrebbe tagliato le immagini o che mi avrebbero arrestata. Avevo una carica di adrenalina indescrivibile e senza pensarci troppo ho esposto il cartello. Quando sono uscita dallo studio, molte persone mi hanno chiesto le generalità. Sono stata portata in una stanza e poi mi hanno chiesto di firmare una lettera di dimissioni, cosa che non ho fatto. Ho scritto un documento in cui spiegavo che tutti coloro che vogliono la guerra sono responsabili di crimini efferati e contro l’umanità, indicando il mio dissenso. Ho passato tre ore lì dentro. Militari e uomini dei servizi mi facevano sempre le stesse domande. Dopo, sono stata portata in una stazione della polizia, dove sono rimasta per 14 ore. Ho chiesto di parlare con il mio avvocato e i miei figli ma mi è stato sempre negato.

Ci sono novità sul procedimento giudiziario che la riguarda?

Per il momento non ci sono processi. Dopo essere stata rilasciata, ho ricevuto una multa di 30mila rubli (circa 350 euro, ndr). Al momento il mio avvocato mi ha consigliato di non pagare e di fare appello. Il 14 aprile si sarebbe dovuta tenere una udienza, ma poi è slittata. Per ora sono una persona libera, non mi hanno neanche sequestrato il passaporto, mentre il cellulare sì. Non so cosa possano inventarsi contro di me.

Le notizie che giungono dalla Russia sono molto filtrate o univoche e non rendono l’idea su quanto accade. I suoi connazionali sono critici verso Putin? Quali notizie giungono in Russia dall’Ucraina?

Come sapete, appena è iniziata la cosiddetta “operazione militare speciale”, è stata adottata una legge contro le fake news. Chi non la rispetta rischia fino a 15 anni di carcere. La gente ha molta paura. Lo Stato sta multando tante persone. Tra queste un deputato della Duma, che dovrà pagare 50mila rubli per aver riportato un articolo di storia sulla guerra. In Siberia è stato multato un insegnante di educazione fisica perché ogni mattina, prima di entrare a scuola, rimuoveva la lettera zeta dall’ingresso dell’edificio. Gli hanno fatto una multa di 90mila rubli. Il dissenso è represso. Anche tutti i mass media indipendenti sono stati chiusi. Pensiamo a Novaya Gazeta. Lo Stato sta dimostrando a tutti la sua forza e sta reprimendo il dissenso.

Anche gli avvocati non sono esenti da conseguenze, difendendo i dissidenti…

Lo Stato russo vuole far passare l’idea che se c’è il nero, allora è bianco. Siamo arrivati alle repressioni di Stalin del 1937. Una situazione inimmaginabile. Manca la libertà della parola e tutti coloro che pensano in modo indipendente ne pagano le conseguenze.

I media russi hanno parlato di Bucha e del razzo esploso alla stazione di Kramatorsk?

Quanto sta succedendo nelle televisioni e nei mass media russi è di un cinismo assoluto. Non si può usare altro termine. Ogni giorno si contesta la diffusione di fake news. Si trovano scuse assurde. Su Bucha si è parlato di una messa in scena con attori. Sui canali russi, per esempio, hanno messo degli esperti di fake news che ogni volta commentano quanto accade in Ucraina, evidenziando la diffusione di notizie non rispondenti al vero. Stiamo vivendo una guerra delle informazioni. Il governo russo cerca di spostare l’attenzione dalla guerra alle fake news e altre cose insignificanti. Ma il Paese aggressore è la Russia e l’Ucraina si sta difendendo. Le persone ragionevoli stanno e staranno con l’Ucraina.

Lei di recente, ricordando pure le guerre di Cecenia, ha detto che il popolo russo affronterà il pentimento per quanto sta accadendo in Ucraina. Sarà la prima fase per voltare pagina e iniziare a mettere da parte Putin e i suoi vent’anni di governo?

L’odio tra Ucraina e Russia durerà ancora per molto tempo. I russi devono riabilitare sé stessi. Il popolo ucraino già prima della guerra odiava quello russo. Con Putin le cose non potranno cambiare, considerando pure quanto sta succedendo in questi giorni. Se prima si parlava di negoziati di pace, ora questo tema si è perso. Si pensi al coinvolgimento del battaglione ceceno che è convinto di andare avanti senza pietà e rende irrealistica ogni iniziativa volta ad avvicinare le parti.

L’Ucraina quindi deve continuare a combattere?

Non ha altre alternative. Anche se qualcuno spera nella ripresa dei negoziati tra Putin e l’Ucraina. La visita del cancelliere austriaco potrebbe andare in questa direzione. Ma pensiamo anche a come è andata a finire con i tentativi di Macron.

Lei è preoccupata di una possibile vittoria di Marine Le Pen in Francia?

Non ho seguito, come ai tempi del mio lavoro in Channel One, con grande attenzione le elezioni in Francia. I risultati elettorali hanno premiato però Macron e lo danno in vantaggio al primo turno. Spero che vinca lui al ballottaggio.

Intervista di Gennaro Grimolizzi e Valentina Stella

Anna Politkovskaja, le parole contro la violenza del potere «Il giornalista scrive ciò che vede». La cronista di Novaja Gazeta fu assassinata il 7 ottobre del 2006: il nome del suo mandante non fu mai svelato. I colleghi: «Uccisa per il suo lavoro». Simona Musco su Il Dubbio il 28 marzo 2022.

«Stiamo precipitando in un abisso di stampo sovietico, in un vuoto di informazione che, sull’onda della nostra ignoranza, provoca morte. Tutto quello che ci rimane è Internet, dove è ancora disponibile l’informazione. Per il resto, se vuoi continuare a lavorare come giornalista, è solo servilismo nei confronti di Putin. Altrimenti può esserci la morte, un proiettile, un veleno o un processo, quello che i cani guardia di Putin, i suoi servizi speciali, ritengono appropriato». Era il 2004 quando Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta, scriveva queste parole, nel libro, intitolato “ La Russia di Putin”. Due anni dopo, il 7 ottobre del 2006, proprio nel giorno del compleanno di Putin, la giornalista venne uccisa nell’ascensore del suo palazzo, a Mosca, a soli 48 anni.

Una morte arrivata dopo anni passati a raccontare con coraggio quanto accadeva in Cecenia, in quella guerra che era servita allo zar a costruire la sua ascesa al potere. Assieme a lei, dal 27 ottobre 1999 a oggi, periodo in cui Putin ha avuto in mano il Paese come primo ministro o presidente, hanno perso la vita altri 30 giornalisti russi. E la sola Novaja Gazeta conta in quell’elenco di morte sei dei suoi cronisti. «Una situazione insostenibile, tossica», ha affermato il direttore Dmitrij Andreevic Muratov, vincitore del Premio Nobel per la pace nel 2021.

Anna non concedeva sconti al potere. E il potere, di certo, non poteva perdonarle quell’affronto, forse il più temuto, come dimostra oggi il silenziatore imposto dalla Duma alle voci libere del Paese. Ci provarono anche con lei, più volte, con minacce aperte o velate, fino a quando nel settembre del 2004, mentre si recava a Beslan per seguire il sequestro e il massacro degli ostaggi nella scuola numero 1 del capoluogo dell’Ossezia del Nord, rimase vittima di un misterioso avvelenamento, secondo lei riconducibile ai servizi segreti russi. Quegli avvertimenti, però, non erano stati in grado di fermare le sue parole. «L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede», diceva. E così continuò a fare, con i suoi reportage sulle brutalità della «sporca guerra» in Cecenia e gli abusi compiuti dalle truppe federali. Racconti minuziosi, i suoi, sugli orrori commessi dalle forze russe e da quelle cecene nel corso della guerra dichiarata da Putin e ufficialmente nota come «operazione antiterrorista nel Caucaso del nord», che contava esecuzioni di massa, sequestri e torture.

Politkovskaja raccontava tutto in maniera impietosa, denunciando le connivenze del Cremlino, la violenza e la disumanità dell’esercito in Cecenia. Continuò a parlare fino al pomeriggio di 15 anni fa. Quel pomeriggio Anna era andata al supermercato, dove a controllare i suoi movimenti, come svelarono poi le telecamere di sorveglianza installate nel negozio, c’erano un uomo col volto coperto da un berretto da baseball e una giovane donna. Al ritorno, dopo aver parcheggiato la sua auto a pochi passi dall’ingresso del suo palazzo, entrò in ascensore per portare le buste della spesa fino alla porta del suo appartamento, al settimo piano, per poi rifare la strada al contrario. Ma una volta aperte le porte dell’ascensore al piano terra venne investita da una pioggia di proiettili, che la lasciarono senza vita. I primi due la colpirono dritta al cuore, il terzo alla spalla, così violento da scaraventarla dentro l’ascensore.

Poi il colpo di grazia alla testa, sparato a distanza ravvicinata, per assicurarsi di non lasciarle scampo. A terra, vicino al suo corpo senza vita, la pistola Makarov 9 mm, firma di quell’assassinio spietato e brutale. Secondo quanto dichiarato dai colleghi, «la prima ipotesi è che Anna è stata uccisa a causa del suo lavoro». La giornalista, infatti, era in procinto di pubblicare un lungo articolo sulle torture perpetrate dalle forze di sicurezza cecene legate al primo ministro, Ramsay Kadyrov. Ma il suo omicidio rimarrà senza un mandante: lo scorso anno, infatti, sono trascorsi 15 anni dal delitto, tempo massimo previsto dal codice penale russo per accertare l’autore del reato, che pertanto è sollevato dalla responsabilità. «Per legge – ha scritto Novaya Gazeta -, solo un tribunale può estendere questo termine. Altrimenti, i mandanti rimarranno impuniti».

Non sono bastati tre processi, dunque, per dare un nome e un cognome a chi ha ordinato la sua morte: le indagini, dimostratesi subito lacunose, vennero chiuse in pochi mesi senza individuare la mente di quel delitto. Solo dopo il terzo processo, nel 2014, sono state condannate cinque persone: al ceceno Rustam Makhmudov, considerato l’esecutore materiale del delitto, e a suo zio Lom Ali Gaitukayev, considerato l’organizzatore, è stata inflitta la pena dell’ergastolo.

L’ex dirigente della polizia moscovita Sergey Khadzhikurbanov, anche lui ritenuto organizzatore dell’omicidio, è stato condannato a 20 anni, mentre Dzhabrail e Ibragim Makhmudov, fratelli del presunto killer e ritenuti suoi complici, sono stati condannati invece a 14 e 12 anni di carcere. «Non posso dire di essere soddisfatto della sentenza perché non sono stati individuati i mandanti, che è la cosa più importante», aveva dichiarato dopo il verdetto il figlio della giornalista, Ilia.

Su ricorso della famiglia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha depositato il 17 luglio 2018 una sentenza di condanna nei confronti di Mosca per non aver condotto un’inchiesta efficace per determinare chi abbia commissionato l’omicidio. Un omicidio che Politkovskaja aveva previsto, nell’ultima intervista rilasciata al sito israeliano “Newsru”: «Ci sono delle persone che hanno promesso di ammazzarmi. Chi? Il presidente ceceno Ramzan Dadyrov. Non gli piace che io lo ritenga un bandito di Stato, che lo consideri uno degli errori tragici di Putin. È un pazzo ».

Marina Ovsyannikova, la "teppista" contro Vladimir Putin. Brunella Bolloli Libero Quotidiano il 17 marzo 2022

Brunella Bolloli. Alessandrina, vivo a Roma dal 2002. Ho cominciato a scrivere a 15 anni su giornali della mia città e, insieme a un gruppo di compagni di liceo, mi dilettavo di mondo giovanile alla radio. Dopo l'università tra Milano e la Francia e un master in Scienze Internazionali, sono capitata a Libero che aveva un anno di vita e cercava giovani un po' pazzi che volessero diventare giornalisti veri. Era il periodo del G8 di Genova, delle Torri Gemelle, della morte di Montanelli: tantissimo lavoro, ma senza fatica perché quando c'è la passione c'è tutto. Volevo fare l'inviata di Esteri, ma a Roma ho scoperto la cronaca cittadina, poi, soprattutto, la politica. Sul blog di Liberoquotidiano.it parlo delle donne di oggi, senza filtri.

Marina Ovsyannikova è la giornalista russa che ha interrotto il notiziario per dire con un cartello: "Stop alla guerra", "Non credete alla propaganda russa", "Vi stanno mentendo". Ha avuto il coraggio di mostrarsi, denunciare Putin, mettersi al servizio dei russi, come lei, che dicono no a questo conflitto. Ha usato il suo lavoro per non piegarsi e denunciare pubblicamente Vladimir Putin perché questa non è la guerra dei russi contro gli ucraini, ma la guerra di uno solo animato da smanie di potenza e ormai fuori controllo. Marina è stata arrestata, per qualche tempo di lei non si è saputo nulla, è stata trattenuta e interrogata per 14 ore, poi ieri è ricomparsa con il suo avvocato: è libera, ma per la sua azione ha dovuto pagare una multa salatissima, pari a 2.500 euro,  tale è il prezzo della libertà di espressione a Mosca, ma in realtà rischia fino a 15 anni di carcere e difficilmente il suo gesto resterà senza conseguenze. Marina "la teppista" l'hanno definita i russi e pure i suoi colleghi asserviti al regime di Cremlino difficilmente le daranno solidarietà in pubblico per evitare ritorsioni. A Marina, però, non importa. Non sono un'eroina, dice. Lei teme solo per i suoi figli. E ai suoi connazionali lancia un messaggio: "Nemmeno le prossime dieci generazioni laveranno via la macchia di questa guerra fratricida. Abbiate il coraggio di opporvi".  

Marina Ovsyannikova, la giornalista dissidente della tv russa: «Mio figlio adolescente mi accusa di aver rovinato la vita a tutti». Elisa Messina su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2022.

«Tutto mi può succedere, anche un incidente stradale e niente sarà più come prima. Ma ora posso parlare apertamente» la giornalista di Channel One rilasciata dopo il suo gesto di protesta adesso vive nascosta ma soffre anche perché la sua famiglia non la supporta. 

Continua a parlare la giornalista russa Marina Ovsyannikova. Del suo gesto, del suo stato d’animo attuale, anche della famiglia che non la supporta. La redattrice della tv russa che ha contestato l’invasione dell’Ucraina in diretta, durante il tg serale più seguito con un cartello in cui diceva «fermate la guerra, qui vi stanno mentendo», continua a far sentire la sua voce attraverso le testate occidentali e rilanciata da Telegram. Consapevole che niente è più pericoloso del silenzio e dell’isolamento mediatico quando si è responsabili del più eclatante gesto di dissenso a Putin e alla sua informazione imbavagliata da quando è iniziata la guerra. E che quella multa di 30mila rubli (circa 250 euro) comminatale per aver organizzato «un’iniziativa pubblica non autorizzata» non è davvero niente rispetto a quello che potrebbe capitarle.

«Tutto può succedere: un incidente d’auto, tutto quello che vogliono. Ne sono consapevole e devo fare attenzione. Ma ormai ho già superato il punto di non ritorno. Ora posso parlare apertamente e pubblicamente» ha detto ieri in un’intervista all’edizione internazionale online del magazine tedesco Spiegel. Intervista in cui ha ribadito di non voler lasciare il paese: «Sono una patriota». Anche se al momento non vive più nella sua casa di Mosca ma è nascosta presso amici: «Prendo tranquillanti. La mia vita è cambiata per sempre e sto appena iniziando a capirlo». Adesso Marina Ovsyannikova è sola davvero.

Le ore passate in Tribunale dopo la sua apparizione in tv sono state solo il primo passo. «Ho sentito che rappresentanti di alto rango della leadership hanno chiesto l’avvio di un procedimento penale contro di me» ha detto Ovsyannikova aggiungendo che, oltre alla multa, non le hanno imposto i canonici 15 giorni di reclusione solo perché ha figli minori: «Altrimenti sarei seduta in una cella come tante altre». Marina ha due figli di 11 e 17 anni che sono al sicuro a Mosca. Suo marito (o ex marito, ma lei non ne fa mai parola), è il direttore del network televisivo Rt.

Quello di Marina Ovsyannikova è un isolamento doloroso non solo per motivi politici: il suo gesto non è stato capito in famiglia: «Mia madre è ancora sotto shock, è completamente esausta. Mio figlio è stato molto colpito da tutto questo, sta attraversando una fase difficile alla sua età, comunque. Mi ha accusato di aver distrutto tutte le nostre vite. Ne parliamo tra noi, ma è difficile». Difficile perché i fronti psicologici sono due: «La mia famiglia che non mi sta davvero supportando. A ciò si aggiunge l’opinione pubblica ufficiale, che è contro di me».

Una precisazione a cui lei tiene: non è stata Channel One a licenziarla, l’emittente per cui lavorava con successo dal 2003: «Sono stata io a dare le dimissioni in disaccordo con la politica del canale». Differenza che ha un valore per lei. Negli anni precedenti Marina non aveva mai assunto posizioni politiche e non partecipava alle proteste: «Chiamatela una dissonanza cognitiva che ho represso a lungo» dice lei adesso ricordando come le limitazioni alle libertà e il bavaglio alla stampa nel Paese sono progressivamente aumentate nel tempo mentre in lei cresceva qualcosa di sopito. Qualcosa che ha sorpreso tutti: «L’inizio della guerra contro l’Ucraina è stato per me un punto di non ritorno. Nessuno - né io, né i miei amici o la mia famiglia se lo aspettavano».

(ANSA il 18 marzo 2022) - Marina Ovsyannikova, la giornalista russa che ha protestato in diretta sulla tv di Stato contro la guerra in Ucraina, ha annunciato che lascia il lavoro, ma non la Russia, rifiutando così l'offerta di asilo dalla Francia. Lo riferisce il Guardian. 

La donna, che si è definita una patriota, ha fatto irruzione nei giorni scorsi in diretta tv con un cartello contro la guerra. Subito arrestata, è stata rilasciata dopo un fermo di 14 ore e condannata a pagare una multa di 30 mila rubli (circa 255 euro).

Da ansa.it il 16 marzo 2022.

Sono spaventata per la mia sicurezza e quella dei miei figli. Lo ha detto Marina Oysyannikova nella sua prima intervista dopo l'irruzione anti-guerra in diretta nello studio di Channel One, la principale emittente di stato della Russia. 

La producer, che è stata trattenuta 14 ore dalle autorità e poi sanzionata, ha spiegato - riferisce Sky citando una sua intervista alla Reuters - che non ha intenzione di lasciare la Russia. Marina Oysyannikova ha aggiunto di sperare di non incorrere in una incriminazione per la sua protesta

Dal “Corriere della Sera” il 17 marzo 2022.

«Certo che avevo considerato che ci sarebbero stati dei procedimenti legali e, onestamente, spero di evitarli. Se finirò per dover scontare il carcere per quello in cui credo, spero che sia una condanna minima». 

La protesta

«La guerra in Ucraina è stata il punto di non ritorno per me. È oltre ogni limite, ed era impossibile per me rimanere ancora in silenzio, e le persone normali come me, le donne russe normali, devono fare qualcosa al riguardo. Tutti, in Russia. La guerra in Ucraina ha agito come un innesco per me».

La paura

«Bisogna fermare la guerra. Ma avevo tanta paura. Paura è dire poco, fino all'ultimo non ero sicura di poterlo fare perché Primo canale è il principale telegiornale del Paese, ci sono più cerchi di vigilanza e non è semplice entrare nello studio. 

C'è un agente di polizia che sta proprio all'ingresso e deve stare attento che non ci siano incidenti di sorta. Non mi voglio inoltrare in dettagli perché, certamente, c'è stato un difetto nel servizio di sicurezza del Primo canale...». 

L'infanzia

«Le immagini molto vivide della mia infanzia (trascorsa in Cecenia ndr) sono tornate tutte insieme. Ho capito... ho sentito che cosa stanno attraversando quelle persone sfortunate (le vittime dell'invasione in Ucraina ndr). È davvero oltre ogni limite». 

L'informazione

«Sono sicura che le persone che sostengono la guerra sono persone che non hanno il quadro completo di quello che sta succedendo. Perché per capire che cosa sta succedendo nel mondo devi leggere i media russi, i media occidentali, i media ucraini.

Hai bisogno di leggere tutte le fonti e la verità, come sempre, si troverà da qualche parte nel mezzo perché, oltre alla guerra vera e propria, c'è anche una guerra dell'informazione in corso. 

Vorrei, soprattutto, che la gente aprisse finalmente gli occhi. Perché vedo mia mamma che, dalla mattina alla sera, guarda Vladimir Solovyov (è il conduttore televisivo più popolare di Russia - a sua volta un oligarca, gli è stata appena sequestrata la villa sul lago di Como ed è nella lista nera dell'Unione europea - e conduce un talk show seguitissimo dove deride gli avversari di Vladimir Putin ed esalta in ogni modo il leader del Cremlino ndr) ed è proprio zombizzata da questa propaganda di Stato...». 

L'oppositore

«No, non mi stavo mettendo a confronto con Aleksej (Navalny, leader dell'opposizione russa). Aleksej è una persona eroica; non chiunque in Russia sarebbe disposto ad andare in prigione per le proprie convinzioni». 

Il figlio

«Ho un figlio di diciassette anni. La prima cosa che farei se lo mandassero in guerra per combattere un altro Paese sarebbe iniziare a fare domande alle autorità: come è possibile? Perché quel bambino è nel Paese di qualcun altro?».

 La pace

«Credo che dobbiamo fermare questa guerra. Qualsiasi problema, qualsiasi problema geopolitico... Ovviamente, capisco che ogni Paese ha i suoi interessi nazionali. Ma penso che qualsiasi problema nel mondo moderno possa essere risolto attraverso la diplomazia, non con la guerra. Viviamo nel XXI secolo. È semplicemente terribile, insensato, iniziare una guerra. Non ha senso per le persone normali».

Il futuro

«Non voglio andarmene da questo Paese, perché sono e mi sento russa. Sono solo sono contraria alla guerra. Spero che non accada nulla ai miei figli. L'unica cosa che mi preoccupa davvero è la loro sorte. 

Non avevo il progetto di andare all'estero, non me lo posso permettere neppure dal punto di vista materiale, e non immagino come mi possa realizzare professionalmente all'estero. Qui ho amici, i miei cari, la mamma, i miei figli. Sto vivendo alla giornata».

Anna Zafesova per “la Stampa” il 16 marzo 2022.  

Quando è apparsa, nello studio del telegiornale serale principale della Russia, sembrava talmente impossibile che molti hanno pensato a un fotomontaggio, a un hackeraggio di Anonymous, a uno scherzo surreale, e sui social ieri girava l'ipotesi complottista che fosse un fake, un'operazione di depistaggio per mostrare che in Russia c'è la libertà di parola. Ma Marina Ovsiannikova è vera, è viva, e riemerge dopo quasi 24 ore in cui nessuno sapeva dove si trova come la donna più amata e cliccata della Russia.

È stata ringraziata da Volodymyr Zelensky, che ha lodato in russo i cittadini del Paese nemico che protestano contro la guerra, è già stata portata ad esempio da Alexey Navalny, che nel suo ultimo discorso al processo che dovrebbe condannarlo ad altri 13 anni di carcere la chiama «splendida» e dice che le sue parole sono «le più importanti». Emmanuel Macron le ha offerto il suo aiuto e ha detto che parlerà di lei a Vladimir Putin, in una delle loro prossime interminabili telefonate negoziali.

È l'eroina, la destinataria dei cuoricini, la ragazza che ha ridato dignità a tutti i russi che hanno paura ad alzare la voce, e creato il più grande imbarazzo per il Cremlino dove - dicono i canali Telegram che pubblicano i pettegolezzi del potere russo - lunedì sera le luci erano rimaste accese fino a tardi, in lunghe riunioni per decidere il suo destino. 

Il gesto di Marina è stato di quelli con i quali si entra nella storia in 10 secondi: si è alzata dalla sua scrivania nello studio del telegiornale del Primo canale, mentre la ieratica conduttrice del regime Ekaterina Andreeva raccontava delle misure del governo per reagire alle sanzioni internazionali, e si è messa alle sue spalle con un cartello che recitava: «No war. Fermate la guerra. Non credete alla propaganda. Qui vi dicono bugie. Russians against the war».

Sembrava un film, e Marina è stata arrestata soltanto all'uscita dallo studio, dopo che i suoi colleghi si sono ripresi dallo choc. Subito dopo si è scoperto che la redattrice del Primo canale tv, la roccaforte della propaganda di regime, aveva registrato prima di compiere il suo gesto un video in cui spiegava le ragioni della sua protesta. 

Figlia di padre ucraino e madre russa, ha dichiarato che «la guerra in Ucraina è un crimine», ha chiesto scusa per aver collaborato alla propaganda che «ha trasformato i russi in zombie» e ha lanciato l'appello a scendere in piazza per protestare: «Siamo rimasti troppo silenti, anche quando hanno avvelenato Navalny, ma non possono metterci dentro tutti».

Parole impensabili nella Russia di oggi, anche se diverse voci di corridoio dicono che le star della propaganda televisiva si stanno licenziando già da due settimane. Zhanna Agalakova, per anni conduttrice del tg e corrispondente della tv di Stato da Parigi, ha confermato di aver rassegnato le dimissioni: «Il motivo mi sembra evidente, ora divento libera», ha detto al giornale online d'opposizione Meduza. Intere redazioni stanno seguendo il suo esempio, mentre altri giornalisti e redattori si danno malati o assenti. 

Ivan Urgant, il popolarissimo conduttore di un varietà serale, è scappato con la famiglia in Israele dopo aver protestato contro la guerra ed essersi visto sospendere la trasmissione. Un'altra defezione clamorosa dal palinsesto è quella della trasmissione del sabato di Sergey Brilyov, per anni intervistatore di Putin, che secondo alcune voci si sarebbe licenziato. Brilyov era stato scoperto da Navalny in possesso di un passaporto britannico, e la sua defezione confermerebbe il desiderio di molti fedelissimi del regime di abbandonare un Cremlino in crisi e una Russia che in pochi giorni è diventata povera e isolata dal resto del mondo, per godersi le case e i conti all'estero, prima di venire colpiti da eventuali sanzioni.

«Non è una buona notizia, questi propagandisti verranno sostituiti da altri più assetati di sangue», scrive Aleksandr Gorbunov, il blogger oppositore conosciuto con lo pseudonimo di StalinGulag. Ma è comunque il segno di un regime che si sta sgretolando. Proprio per questo la decisione di una punizione esemplare per Marina Ovsiannikova sembra non essere ancora stata presa. 

La redattrice del Primo canale è stata rilasciata dopo un interrogatorio di 14 ore, e una multa di 30 mila rubli (circa 200 euro al cambio attuale) per aver pronunciato un «appello a manifestazioni non autorizzate» nel suo video. La sua apparizione nello studio del telegiornale sembrava venisse qualificata come un «atto di teppismo», anche perché in una riunione notturna dei capi dei servizi di sicurezza si sarebbe deciso di sminuire il suo gesto e farla passare come una ragazza in cerca di celebrità.

Ma il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha chiesto una «punizione esemplare», invocando «la severità del momento», e Marina potrebbe sperimentare i rigori della nuova legge sul «discredito delle forze armate», che promette fino a 15 anni di carcere in caso di «conseguenze gravi». All'uscita dal commissariato di polizia Marina era attesa dai migliori avvocati moscoviti pronti a difenderla, e a esigere clemenza per una madre di due figli. Ma lasciare correre significherebbe incoraggiare altre proteste tra le migliaia di persone che oggi si mandano il filmato di Marina che agita il suo manifestino in diretta nazionale. Uno schiaffo che il Cremlino difficilmente può permettersi di perdonare.

Il coraggio della dipendente del canale tv russo. Marina Ovsyannikova, il blitz anti-guerra nella televisione di Putin: “No alla propaganda”. Redazione su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

“No alla guerra guerra. Fermate la guerra. Non credete alla propaganda, vi dicono bugie qui, russi contro la guerra”. E’ il cartello esposto da Marina Ovsyannikova, dipendente dell’emittente del telegiornale russo, Channel One. Nel video diventato virale, si vede la donna sfidare la censura e l’arresto (che sarà sicuramente scattato) ed entrare nell’inquadratura dietro la conduttrice.

Poco più di 20 secondi che hanno imbarazzato e ridicolizzato la propaganda russa che da settimana lascia credere ai cittadini di aver avviato una operazione speciale in Ucraina. La regia ha interrotto il fuori programma mandando in onda un altro servizio. La donna è stata poi affidata alla polizia.

Ovsyannikova aveva registrato in anticipo un messaggio separato in cui afferma di “vergognarsi di essere” una dipendente del canale televisivo di Stato. “Quello che sta accadendo in Ucraina è un crimine e la Russia è l’aggressore“, ha detto, aggiungendo che suo padre era ucraino. Il blitz è avvenuto intorno alle 21.30 del 14 marzo nel corso di uno dei notiziari principali della televisione di stato di Mosca.

Il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskiy ha ringraziato la dipendente della tv russa che ha interrotto la trasmissione del tg per gridare ‘No alla guerra’. “Sono grato a quei russi che non smettono di cercare di divulgare la verità, che stanno combattendo contro la disinformazione e raccontano fatti reali ai loro amici e familiari, e personalmente a quella donna che è andata nello studio di Channel One con un manifesto contro la guerra”, ha dichiarato.

Da Ansa il 15 marzo 2022.

La giornalista della Tv di stato russa che ieri sera ha inscenato una protesta contro la guerra in tv è attualmente sotto processo presso il tribunale Ostankino di Mosca. Lo riferisce la Bbc che mostra una foto che circola sui social media dove la donna sembra in tribunale con il suo avvocato. E' stata condannata a pagare un multa ed è stata rilaciata. Lo fa sapere il tribunale.

Da Ansa il 15 marzo 2022.

Il Cremlino bolla come "teppismo" il gesto della giornalista russa, Marina Ovsyannikova, che ha interrotto un notiziario in diretta sulla Tv di stato, Channel One, per denunciare la guerra in Ucraina. Lo scrive il Guardian online. In uno straordinario atto di dissenso, la donna ha alzato un cartello dietro l'anchorwoman dello studio e ha gridato slogan che denunciavano la guerra in Ucraina.

Il video è diventato virale. "Per quanto riguarda le azioni di questa donna, è teppismo", ha detto ai giornalisti il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, elogiando Channel One per quella che ha definito la sua programmazione di qualità, oggettiva e tempestiva. 

(ANSA il 15 marzo 2022) - La giornalista e conduttrice russa Lilia Gildeeva del canale televisivo Ntv, filo-Cremlino, si è dimessa. Lo riporta Ria Novosti, citando l'ufficio stampa della tv, che non ha dato motivazioni ufficiali sulla decisione. La reporter, 45 anni, lavorava per Ntv dal 2006. "Prima me ne sono andata via" dalla Russia, "temevo che non mi avrebbero lasciata partire. Poi mi sono dimessa", ha detto Gildeeva in un'intervista al blogger Ilya Varlamov, citata sul canale Telegram di quest'ultimo. Si tratterebbe di una nuova defezione dopo il blitz anti-guerra sulla tv di Stato della giornalista Maria Ovsyannikova, che risulta scomparsa.

Marina Ovsyannikova, cos'è successo al suo direttore Konstantin Ernst. "Amico di Putin, ma...": notte drammatica dopo il blitz in diretta. Libero Quotidiano il 16 marzo 2022.

Gli occhi dell'Occidente sono tutti per Marina Ovsyannikova, la 43enne giornalista russa che ha avuto il coraggio di irrompere in diretta nello studio di Channel One, l'emittente vicina al Cremlino in cui lavora da anni, con in mano un cartello con la scritta "No War", no alla guerra in Ucraina. Subito arrestata, la redattrice è ricomparsa dopo molte ore in tribunale, dopo 14 ore di interrogatorio senza la presenza di un avvocato. "Io voglio ringraziare tutti prima di tutto i colleghi per il sostegno. Una giornata molto complessa della mia vita. Ho passato una notte in bianco, più di 14 ore di interrogatorio. Non mi hanno permesso di chiamare i miei familiari e chi mi è vicino. Non mi hanno dato un avvocato per questo io mi trovavo in una situazione abbastanza complicata. Quindi un commento ve lo darò domani, oggi ho bisogno di riposare".

Per il momento le è andata bene, con una semplice multa dell'equivalente di 280 dollari per aver incitato alla protesta nel messaggio che aveva registrato prima del suo blitz in tv. Ma la sua irruzione sarà oggetto di un processo penale, per aver denigrato le forze armate. Un reato per cui finirà quasi sicuramente in carcere, a meno che dal Cremlino non arrivino segnali distensivi anche nei confronti dell'opinione pubblica mondiale. Molto difficile, se non impossibile visto il clima che si respira a Mosca in queste ore.  

Marina, nata tra l'altro a Odessa, non è rimasta in carcere solo perché vive da sola con due figli minorenni di 17 e 11 anni. Una "grazia" che potrebbe non toccare altri ribelli. Non a caso Dmitri Peskov, potentissimo portavoce del presidente Vladimir Putin, ha già minacciato i colleghi della giornalista: "Quella ragazza è una teppista", ordinando al mondo dei media di "fare particolare attenzione" a casi di questo tipo, "tanto più da parte di coloro che ci lavorano". Un non velato riferimento a Konstantin Ernst, direttore e amministratore di Channel One. "Amico personale di Putin - nota Mrco Imarisio sul Corriere della Sera - ma a giudicare dal posto di blocco subito creato all'ingresso negli studi, neppure lui deve aver passato una notte tranquilla".

Anna Zafesova per “la Stampa” il 17 marzo 2022.

Il Comitato d'indagine della Federazione Russa ha iscritto nel registro degli indagati il primo nome di una persona incriminata in base alla nuova legge sulle «fake news dirette a screditare le forze armate russe». Stranamente, a meritarsi questo onore non è la redattrice del Primo canale tv Marina Ovsiannikova, balzata sotto le telecamere del telegiornale serale con il manifesto «No alla guerra». La magistratura russa ha ritenuto più pericolosa un'altra giovane bionda con un account Instagram, Veronika Belozerkovskaya, una food-fashion blogger da 900 mila follower. 

La sua pagina, Belonika, è piena di piatti, vestiti, gattini, paesaggi, fiori, beneficenza, e violente denunce della guerra contro l'Ucraina. Parla di vergogna per il suo Paese, dell'odio per i «cannibali con le fauci insanguinate», della disperazione per i connazionali «resi zombie dalla propaganda russa», dei bambini morti a Mariupol, della necessità di aiutare gli ucraini, e del disprezzo per quelli che «parlano di luce e di pace mentre siamo tutti all'inferno». 

Post che ora la giustizia russa qualifica come «diffusione di notizie palesemente menzognere sull'utilizzo delle forze armate russe nella distruzione di città e popolazione civile dell'Ucraina, bambini inclusi, nel corso della realizzazione dell'operazione militare speciale sul territorio del suddetto Stato». Che la campagna contro i sostenitori del «suddetto Stato» sarebbe partita proprio da una blogger di Instagram, appena oscurato in Russia (ma il blocco viene aggirato facilmente dagli utenti che si sono installati un VPN), è una nuova svolta surreale di un regime ormai orwelliano. Vladimir Putin ieri in tv ha denunciato la «quinta colonna» di russi che «con la mente sono di là», cioè in quell'Occidente che secondo lui «ha come obiettivo distruggere la Russia», quei russi filoeuropei che sarebbero «pronti a vendere la madre per entrare nell'anticamera di quella che considerano una razza superiore».

Parole violentissime che attingono dalla tradizione più nazionalista della Russia, e che Putin specifica non essere rivolte a chi «ha una villa a Miami, e non può vivere senza il fois gras, le ostriche o le cosiddette libertà gender». Il reato è «pensare come di là», «non essere con il popolo russo», e questa riedizione della propaganda sovietica che amava accusare i dissidenti di essersi «venduti» in cambio di prodotti alimentari dei quali i cittadini ignoravano perfino il sapore appare più tragica che comica, perché segna la calata di scure finale su tutto quello che si discosta dalla linea ufficiale. I russi che condannano la guerra sono almeno un quarto, perfino secondo i sondaggi ufficiali, e quelle decine di migliaia di russi - secondo alcune stime, addirittura 200 mila, tra cui la blogger Belonika - che sono fuggiti nelle ultime tre settimane dimostrano che il dissenso è diffuso.

Ma Vladimir Putin parla di «unità del popolo», e per garantirla alla Duma si torna a parlare di privare della cittadinanza gli oppositori e i dissidenti, o almeno di proibire il loro rientro in patria. Putin ha definito i dissidenti «feccia e traditori», che i veri patrioti della Russia «sputeranno sul marciapiede», e resta soltanto da vedere quali forme prenderà il processo di «autopurificazione della società» che invoca. La Costituzione russa proibisce esplicitamente di togliere la cittadinanza ai russi, una punizione inflitta in epoca sovietica ai dissidenti costretti all'esilio forzato, ma i richiami al diritto appaiono ormai totalmente superati dagli eventi, e la giustizia russa fa sapere che potrebbe dichiarare Veronika Belozerkovskaya ricercata internazionale per i suoi pericolosi post su Instagram.

Il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha chiesto intanto una punizione esemplare per Marina Ovsiannikova, «con tutto il rigore del momento», ed è evidente che la redattrice che dopo anni di propaganda ha sfidato le bugie della televisione non si limiterà a pagare la multa di 230 euro che le è stata inflitta finora. La magistratura russa sta svolgendo verifiche per incriminarla per «discredito dei militari»: rischierebbe da un minimo di tre a un massimo di quindici anni, ma ha annunciato di non avere intenzione di fuggire dalla Russia, anche se adesso prova paura «per la mia vita, e quella dei miei due figli».

Ucraina, il militare russo alla tv di Stato: "I nostri ragazzi stanno morendo", che fine gli fanno fare. Libero Quotidiano il 16 marzo 2022.

Giovanni Floris a DiMartedì ha mandato in onda delle immagini estratte dalla tv di stato russa riguardo alla guerra in Ucraina, che da quelle parti si può definire soltanto con la dicitura “operazione militare speciale”. Fa riflettere soprattutto quanto accaduto sul canale del ministero della Difesa russo: un militare della marina ha provato ad accennare alla morte di migliaia di soldati, ma è stato immediatamente bloccato dal conduttore della trasmissione. 

“I nostri ragazzi stanno morendo”, ha dichiarato il militare. “No, no, no - è stata la risposta - non voglio sentire questa roba, basta. I nostri ragazzi lì stanno distruggendo la feccia fascista. È un trionfo, il trionfo del nostro esercito, la rinascita della Russia”. Che poi la cosa paradossale è che dicono di combattere il nazi-fascismo, ma sembrano loro quelli di estrema destra, soprattutto nei flash mob in cui appaiono tutti in nero… E poi ci sono le iniziative molto poco spontanee all’interno delle scuole, mentre nelle città i protestanti vengono repressi: anche chi espone soltanto un cartello bianco con implicita condanna della guerra viene arrestato. 

Nelle scorse ore è diventato un caso mondiale quello della giornalista Marina Ovsyannikova, che è intervenuta durante il telegiornale di stato per esporre un cartellone contro la guerra e contro le bugie del regime di Putin. La donna è stata arrestata, interrogata per più di 14 ore senza che potesse contattare i familiari o un avvocato, dopodiché è ricomparsa direttamente in un’aula di tribunale.

Roberto D’Agostino per Dagospia il 12 marzo 2022.  

Tra i tanti nemici (ivi compreso il suo delirio), l’avversario più temibile per Vladimir Putin si chiama Internet. Tant’è che Mad Vlad ha annunciato che la Russia sta iniziando i preparativi per disconnettersi dalla rete Internet globale ideata dall’informatico britannico Tim Berners-Lee nell’anno di grazia 1989 (sì, proprio l’anno della caduta del muro di Berlino), lavorando su un computer chiamato NEXT prodotto da Steve Jobs. 

Perché lo Zar del terzo millennio teme il Web più della resistenza del popolo ucraino, più delle parole di condanna del Pontefice e “J’accuse” del mondo intero? La risposta lo troviamo nelle parole usate da Berners-Lee per definire il World Wide Web: una ragnatela percorribile da tutti, in cui tutti i documenti del mondo, che siano testi, foto, suoni video, saranno a portata di mano. Una frase chiave è: “Non c’è un top nel Web. Puoi guardarlo da molti punti di vista”. 

Ad una civiltà che da secoli era stata abituata a cercare la struttura del mondo mettendolo in fila dall’alto in basso, dal più grande al più piccolo, quell’informatico britannico stava dicendo che il Web era un mondo senza un inizio o una fine, senza prima e dopo, senza sopra e sotto: ci potevi entrare da qualsiasi lato, e sarebbe stata sempre la porta principale, e mai l’unica porta principale. La connessione ti dà questa emozione di generare un ampliamento di realtà, una moltiplicazione del mondo.

Con la tecnologia moderna di Internet i tentativi del leader russo di sopprimere la verità sulla guerra con l'Ucraina sono destinati a fallire: non può ingannare il mondo quando da Kiev e Odessa ogni giorno rimbalzano messaggi e video di un conflitto brutale e infame. La filosofia comunicativa del ‘going public’ di Internet scassina le stanze del potere per renderne trasparenti processi e decisioni. 

Ogni ucraino ha un telefono cellulare che considera ormai una estensione di se stesso che invia immagini di soldati russi catturati in lacrime, foto di bambini uccisi dalle bombe russe e video della distruzione delle città ucraine. La verità si sta diffondendo attraverso le vie e le vite digitali, articolazioni del suo stare al mondo destinate a cambiare l’idea stessa di cosa debba essere l’esistenza. 

Sottolinea lo scrittore californiano Stewart Brand (a lui si deve l’espressione ‘’personal computer’’): “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”. Non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettuali. Questo è l’unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un “potere personale” per liquidare con un click il ‘900. 

Ecco: se Internet fosse esistito al tempo del nazismo, probabilmente la Shoah non sarebbe stata possibile perché tutti noi avremmo ricevuto in tempo reale sui display l’atroce testimonianza dell’Olocausto, anziché scoprire i forni crematori di Dachau al termine della guerra, dopo ben cinque anni di eccidi. 

L’universo digitale ha dato vita infatti all’accantonamento, nel campo informativo, di ogni mezzo di mediazione: giornali, radio, televisione, etc. La linea, oggi, non la dà più il telegiornale delle 20 o l’editoriale in prima pagina. Oggi gli individui-utenti si trovano a interagire attraverso modalità completamente differenti rispetto al passato. 

La Rete è il riconoscimento che la cultura è circolare o meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse, non ha il senso moderno dell’andare avanti su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira intorno alle incertezze in un continuo scambio di alto e basso, sopra e sotto. 

Non era solo una questione tecnica, di ordinamento del materiale: era una questione di struttura mentale. E’ un modo di muovere la mente, e sta a te la scelta di come muovere la mente, poiché l’uomo non è schiavo del web ma il suo artefice e controllore. E la cultura non è più solo il bottino dei vincitori di cui parlava Karl Marx, ma anche quella della gente comune che mangia davanti agli schermi goffamente e poi carica i video sui social raggiungendo milioni di visualizzazioni. La differenza è che oggi non siamo protagonisti del ‘’Grande Fratello’’, come avremmo potuto immaginare leggendo Orwell di ‘’1984’’ o de ‘’La fattoria degli animali’’, ma ne siamo registi e autori.

Il fenomeno della cosiddetta disintermediazione è ovviamente inconcepibile per un tipino svezzato nei servizi segreti dell’ex-Kgb, un mondo di segretezza totale (e totalitaria), che procede secondo il modello verticistico della propaganda di Stato, antitesi completa alla trasparenza del Web. E, dunque, Internet significa che Vladimir Putin non può ingannare il suo popolo per sempre. 

Bloccare Facebook e Twitter e Instagram, disconnettere il Web e sbattere in galera (pena massima di 15 anni) chi osa postare messaggi e immagini di opposizione al regime di Mosca, vuol dire che Putin non ha compreso che è la società che cambia la tecnologia e non viceversa. Oggi immaginiamo che l'essere umano sia fatto come un computer, con hardware e software, che le macchine stiano prendendo il sopravvento sulle nostre vite, che siano loro a dettare nuovi comportamenti, a cambiare il modo in cui comunichiamo. Ma in effetti è il contrario. 

Esattamente il contrario: gli strumenti non ci usano, siamo noi che usiamo loro. Alla radice di tutto c'è la nostra mentalità. Abbiamo sviluppato questa tecnologia digitale della rete, questo codice binario, perché ci permette di interagire con il mondo in maniera conforme a come immaginiamo noi stessi. Ci consente di connetterci e comunicare in modi che riflettono ciò che empiricamente immaginiamo. Ci dà la possibilità di manifestare una realtà che rafforza la nostra attuale, limitata, comprensione dell'universo.

Questa è una battaglia che Putin non può vincere, una battaglia che alla fine, inevitabilmente, farà a pezzi il suo regime. Ogni russo ha un telefono cellulare e sono più dipendenti dalle app, più dipendenti dagli sms, di quanto lo siamo anche noi in Occidente. Gli ucraini chiamano i loro amici e parenti in Russia. Così anche i russi che vivono in Europa, Nord America e Israele. Significa che Putin non sarà in grado di sopprimere la verità sulla guerra con l'Ucraina, nonostante i suoi tentativi di imporre uno stato totalitario.

Inoltre, e questo potrebbe sorprendere qualcuno in Italia, i russi si sono abituati alla libertà di parola. Più di 100 milioni nel paese non hanno ricordi adulti della vita prima del crollo dell'Unione Sovietica nel 1991. La libertà di espressione è estranea a Putin, che è stato addestrato a opporsi al dissenso ai suoi tempi come agente del KGB. Ma la repressione non ha potuto impedire ai russi di usare i loro telefoni. 

I camionisti hanno utilizzato i cellulari per organizzare un blocco delle città russe. Il leader dell'opposizione Alexei Navalny (che attualmente è in prigione) ha sputtanato pesantemente Putin con un video su YouTube sul suo lussuoso palazzo, che ha attirato più di 100 milioni di visualizzazioni. Più di 1,2 milioni di russi hanno firmato una petizione online contro la guerra. Le proteste di un gran numero di professionisti stanno circolando su Internet. I russi analogici, dai sessant’anni in su, sono ancora prigionieri della propaganda del Cremlino. 

Pensano che il loro esercito sia lì per sradicare i nazisti e gay e combattere l’invasione delle forze della NATO in Ucraina. Ma hanno davanti morti e macerie. Attraverso il Web, i russi vedranno la brutalità di questa guerra. Gli è stato detto di aspettarsi una rapida vittoria. Sapranno che Putin ha mentito. A parte gli oligarchi, il tenore di vita del ceto medio è peggiorato drasticamente a causa della politica corrotta da parte del Cremlino: la loro vita ora sprofonderà a causa delle sanzioni.  

A quel punto, Putin potrà anche disconnettere l’energia l’elettrica ma, come osservava Aldous Huxley, ‘’I fatti non smettono di esistere solo perché li nascondiamo’’. Il Web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo poiché esso diventa in qualche modo un ampliamento della nostra intelligenza e della nostra memoria. Non è il mondo che si fa globale ma noi. Perché l’uomo nuovo non è quello che ha prodotto quel computer camuffato da telefono chiamato smartphone: l’uomo nuovo è quello che lo ha inventato. La tecnologia, attraverso delle macchine, scioglierà Putin in un clic.

Riavvolgiamo il nastro della memoria: nelle ultime due decadi quanti insulti e invettive avete letto e sentito sui i rischi e i pericoli delle Rete e delle sue App? Per anni ci hanno martellato i coglioni che Internet era “infernet”, un inferno, come tuonò Umberto Eco, che dà “diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.  

E scattò l’allarme rosso degli “analogici”. Se deleghiamo i pensieri alle app o a Google diventeremo stupidi come criceti sulla ruota? Ciò che la Silicon Valley vuole costruire sarà un paradiso per i robot? Tra fake, haters, troll, saremo destinati ad essere prigionieri di un algoritmo, ostaggi dei “leoni da tastiera”, tutti sempre a caccia di una connessione wi-fi? 

Quindi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di potere oscuro può generare l’uso di Instagram e di Google, chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Instagram e Google.

L'ultima mossa contro l'informazione. La censura di Putin colpisce anche Wikipedia: arrestato Mark Bernstein, editor russo nel mirino del Cremlino. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

La censura russa non risparmia Wikipedia. Mark Bernstein, uno degli autori più in vista della versione russa dell’enciclopedia libera online, è stato arrestato dalla Direzione generale contro il crimine organizzato e la corruzione del ministero dell’Interno della Bielorussia (GUBOPiK).

Non è chiaro quale siano le accuse nei suoi confronti: la notizia dell’arresto è stata rivelata dal giornale bielorusso Zerkalo. Anche il canale Telegram di GUBOPiK aveva pubblicato un video del suo arresto, ma ora non è più accessibile: a confermarlo è la giornalista Victoria Song della testata The Verge, che ha assicurato di aver potuto verificare la pubblicazione di queste informazioni.

Bernstein, 56 anni, a suo modo è una sorta di “celebrità” della Wikipedia russa: con oltre 200mila modifiche realizzate nel corso degli anni alle voci enciclopediche, Bernstein è tra i 50 autori più attivi ed ha per questo una grande reputazione nel resto della comunità dell’enciclopedia online.

Probabilmente l’arresto dell’editori di Wiki nasce dal lavoro compiuto negli ultimi giorni, con Bernstein che aveva collaborato all’aggiornamento delle voci di Wikipedia legate all’invasione militare dell’Ucraina da parte della Russia.

Wikipedia era da tempo nel mirino delle autorità di Mosca: la Roskomnadzor, l’autorità per la regolazione dei media, aveva inviato una nota alla alla comunità russa dell’enciclopedia dicendo che la pagina Invasione russa dell’Ucraina (2022) conteneva informazioni false, ovvero i dati sulle perdite russe in battaglia e sulle violenze contro i civili ucraini.

Ma Wikimedia Fundation ha ribadito in una nota di non voler fermare la propria attività: “Come sempre, Wikipedia è un’importante fonte di informazioni affidabili e fattuali, specialmente in periodi di crisi. In riconoscimento di questo importante ruolo, non ci tireremo indietro di fronte agli sforzi per censurare e intimidire i membri del nostro movimento. Sosteniamo la missione di fornire conoscenza gratuita a tutto il mondo”.

Per evitare problemi e il rischio di arresti, anche a causa dell’entrata in vigore di una nuova legge che prevede pene fino a 15 anni per chi diffonde “notizie false”, molti editor russi hanno iniziato a lavorare con account secondari per rendere più difficile il loro tracciamento. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Putin spegne anche i social: oscurati Instagram e Facebook. Rosalba Castelletti su La Repubblica l'11 marzo 2022.

Mosca contro i giganti del digitale: “Non oscurano i messaggi d’odio contro di noi”. Apre un’inchiesta penale contro la società di Zuckerberg e presenta una denuncia in tribunale per inserirla nella lista delle associazioni estremiste.

C’è una Russia cancellata e c’è una Russia oscurata. Da una parte c’è Meta, l’azienda di Mark Zuckerberg, che consente i “due minuti d’odio” di orwelliana memoria contro «gli invasori». Dall’altro c’è Mosca che risponde staccando la spina a Facebook e Instagram. A farne le spese i cittadini russi che scivolano sempre più velocemente verso un Medioevo digitale e mediatico: silenziate le testate indipendenti e bloccati i social, si restringono le fonti libere d’informazione.

Dagotraduzione dal Daily Mail l'11 marzo 2022.

La guerra di Putin alla libertà di espressione inizia a vacillare. Ieri, durante un talk show ospitato sul canale televisivo di Stato Russia 1, gli ospiti si sono rifiutati di sostenere la propaganda del Cremlino sulla guerra in Ucraina e hanno criticato apertamente il brutale attacco della Russia, definendo l’invasione «anche peggiore dell’Afghanistan». 

Nonostante i conduttori del talk sostenessero la narrativa ufficiale, quella secondo cui Putin avrebbe condotto una «operazione speciale» per «smilitarizzare» e «de-nazificare» l’Ucraina, affermazioni definite da Kiev e dai suoi alleati come pretesti infondati, uno degli ospiti si è ribellato citando la disastrosa invasione dell’Afghanistan da parte dell’Urss nel 1979, che si è conclusa solo dieci anni dopo.

Gli storici sostengono che il fallimento di Mosca in quella guerra, in cui rimasero uccisi migliaia di soldati dell'Armata Rossa, alimentò la disillusione tra milioni di persone nell'Unione Sovietica e alla fine contribuì a provocare il crollo dell’ «Impero del Male» nel 1991. 

Il "propagandista in capo" di Putin, Vladimir Soloviev, che è stato sanzionato dall'UE, è stato costretto a interrompere Semyond Bagdasarov dopo che l'accademico gli aveva detto: «Dobbiamo entrare in un altro Afghanistan, ma anche peggio?». Ha detto che in Ucraina «ci sono più persone e queste sono più avanzate nella gestione delle armi», prima di aggiungere: «Non ne abbiamo bisogno. È già abbastanza».

Parlando in precedenza durante una trasmissione su Russia 1, Karen Shakhnazarov, regista ed opinionista, ha affermato che il conflitto in Ucraina rischiava di isolare la Russia. «Faccio fatica a immaginare di prendere città come Kiev. Non riesco a immaginare come sarebbe». Il regista ha poi chiesto la fine della guerra, dichiarando: «Se questo film inizia a trasformarsi in un disastro umanitario assoluto, anche i nostri stretti alleati come Cina e India saranno costretti a prendere le distanze da noi».

«Questa opinione pubblica, di cui il mondo si sta saturando, può giocare a nostra sfavore... La fine di questa operazione stabilizzerà le cose all'interno del Paese». 

Putin ha intensificato la repressione dei media e delle persone che non rispettano la linea del Cremlino sulla guerra, bloccando Facebook e Twitter e firmando un disegno di legge che criminalizza la diffusione intenzionale delle cosiddette "notizie false" in Russia. 

I russi che criticano la guerra rischiano di essere incarcerati per 15 anni, mentre i media indipendenti nel paese affrontano minacce di chiusura o ingenti multe se si riferiscono alla campagna militare come a una "invasione".

Rosalba Castelletti per la Repubblica il 12 marzo 2022.

C'è una Russia cancellata e c'è una Russia oscurata. Da una parte c'è Meta, l'azienda di Mark Zuckerberg, che consente i "due minuti d'odio" di orwelliana memoria contro «gli invasori». Dall'altro c'è Mosca che risponde staccando la spina a Facebook e Instagram. 

A farne le spese i cittadini russi che scivolano sempre più velocemente verso un Medioevo digitale e mediatico: silenziate le testate indipendenti e bloccati i social, si restringono le fonti libere d'informazione. Mentre persistono le voci sull'imminente lancio di una Grande Cyber Muraglia: una "Ru-Net" isolata dalla Rete globale.

Tutto è iniziato quando giovedì sera Meta ha annunciato che avrebbe fatto eccezioni alla sua politica sull'incitamento alla violenza e all'odio, non rimuovendo i "post ostili" contro militari e leader russi. «Saremo indulgenti - aveva spiegato Andy Stone, communication manager di Meta - verso forme di espressione politica che normalmente violerebbero le nostre regole sui discorsi violenti come "Morte agli invasori russi"».

Consentiti anche post che incitavano alla morte del presidente russo Vladimir Putin o del suo omologo bielorusso Aleksandr Lukashenko. «Speriamo non sia vero, perché se lo è, dovranno essere prese misure più decisive per porre fine alle attività di questa società», aveva commentato il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov. 

A esprimere perplessità era stato anche l'Ufficio dell'Alto Commissario per i diritti umani dell'Onu: «È un argomento molto complesso, che solleva preoccupazioni in termini di diritti umani e diritto umanitario internazionale», ha spiegato la portavoce Elizabeth Throssell. La precisazione di Meta, secondo cui l'eccezione sarebbe «temporanea » e si applicherebbe solo all'Ucraina, non è bastata a rassicurare.

Per tutta risposta ieri mattina il Comitato investigativo russo - che dipende direttamente da Putin - ha aperto un procedimento penale contro la società di Zuckerberg «in relazione alle richieste illegali di omicidio e violenze contro cittadini della Federazione Russa» e ha presentato domanda a un tribunale per designarla come "organizzazione estremista" (etichetta affibbiata a gruppi terroristici come Al Qaeda e Isis). 

Dopo poche ore è arrivato il ferale annuncio di Roskomnadzor, l'Authority russa di comunicazioni e media: a partire dal 14 febbraio bloccheremo Facebook e Instagram. Risparmiato invece WhatsApp perché l'app di messaggistica è considerata un mezzo di comunicazione e non d'informazione.

Come se non bastasse YouTube ieri ha annunciato che il blocco dei media finanziati dalla Russia, accusati di disinformazione sull'Ucraina, precedentemente limitato all'Europa, ora si applicherà a tutto il mondo. Nei giorni scorsi la piattaforma aveva già sospeso la monetizzazione dei video in Russia. Il tutto mentre dalla Federazione scompaiono ad uno ad uno i simboli del mondo globalizzato come Apple, Netflix e Spotify. 

La decisione di bloccare i social network era già nell'aria. L'accesso a Facebook era già stato ristretto come rappresaglia alla decisione di vietare in Europa i media vicini al governo come Rt, ex Russia Today, e Sputnik. Stessa misura applicata a Twitter sin dall'inizio il 24 febbraio di quella che chiamano "operazione militare speciale".

E la scorsa settimana era stata approvata una legge che punisce la diffusione di quelle che Mosca ritiene "notizie false" con il carcere fino a 15 anni. Misure che hanno portato allo svuotamento delle sedi di corrispondenza delle principali testate estere, come il New York Times. Ma mentre, secondo la società eMarketer, solo 7,5 milioni di russi usano Facebook, ossia il 7,3% degli utenti Internet nel Paese, sono 51 milioni a navigare su Instagram. L'applicazione non solo è popolarissima tra i più giovani, ma è diventata anche una vetrina cruciale per piccole e medie imprese russe.

Ed è anche uno spazio di dissenso. È da Instagram, ad esempio, che l'oppositore in carcere Aleksej Navalnyj ha lanciato l'appello a protestare contro quello che chiama «pazzo Putin». Subito dopo l'annuncio del Comitato investigativo decine di profili ufficiali sono scomparsi: la Duma, la Camera bassa del Parlamento; l'ufficio del procuratore generale; il ministero dell'Interno; il sindaco di Mosca Serghej Sobjanin. 

Mentre su Telegram, l'app di messaggistica istantanea che finora resiste, gli utenti comuni si interrogavano: «Devo eliminare il mio profilo? Posso fidarmi delle autorità quando dicono che gli utenti ordinari non devono aver paura?». Già da giorni circolavano vademecum su come prepararsi alla "disconnessione" dalla Rete globale, ma anche su come difendersi dalla censura e dalla repressione: scaricare una Vpn, una Rete privata virtuale in grado di aggirare i blocchi; eliminare i sistemi di riconoscimento biometrico dal cellulare come impronte o "Face Id", cancellare quotidianamente la cronologia di messaggi; nascondere le liste di amici e di "follower". E così via.

Ora il timore è che, se la richiesta del Comitato investigativo di riconoscere i social come "organizzazioni estremiste" verrà accolta, il proprio profilo venga interpretato come partecipazione alle attività di una organizzazione terroristica. A quel punto, ha commentato il fondatore del progetto Agora per i diritti umani Pavel Chikov, «i loghi dei social network diventeranno simboli proibiti come una svastica».

Facebook non censura l'"odio" contro i russi. La vendetta di Mosca. Lodovica Bulian il 12 Marzo 2022 su Il Giornale.

Dopo Facebook, la Russia ha limitato anche l'accesso a Instagram. Erano giorni che Mosca accusava Meta, il gruppo di Mark Zuckerberg che comprende Instagram, Facebook e Whatsapp, di favorire la diffusione di appelli alla violenza contro i russi. E ieri, l'ente regolatore dei media in Russia, ha deciso di limitare il social network. Una decisione arrivata dopo quella con cui Meta ha deciso di non vietare agli utenti di determinati Paesi di esprimersi negativamente nei confronti delle forze armate russe. 

«Come conseguenza dell'invasione russa in Ucraina, consentiremo in via temporanea alcune forme di espressione politica che altrimenti violerebbero le nostre policy sulle affermazioni violente», hanno spiegato dal gruppo. Tra le espressioni consentite c'è la «morte degli invasori russi», ma anche quella del presidente Putin e di quello bielorusso Lukashenko. «Si tratta di misure temporanee per difendere la libertà di espressione delle persone che stanno affrontando questa situazione ha precisato Meta Come di consueto, stiamo vietando gli appelli alla violenza contro i russi al di fuori dello stretto contesto dell'invasione in corso. Non consentiremo appelli alla violenza contro i civili russi». I post violenti contro i soldati russi o contro il leader saranno permessi solo in alcuni Paesi: Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina. Di fatto una deroga ad hoc rispetto alle rigide norme sull'incitamento all'odio del social per consentire i messaggi diretti alle forze armate russe in Ucraina. Immediata è arrivata la reazione di Mosca: «Chiaramente, non lo lasceremo passare. Roskomnadzor (l'ente regolatore, ndr) ha tutti gli strumenti necessari per porre fine a tali azioni illegali. Credo che tutti i servizi Meta saranno presto bloccati nel territorio della Federazione Russa - ha detto Sergei Boyarsky, primo vicepresidente del Comitato della Duma di Stato per la politica dell'informazione - Le azioni della società mettono in pericolo la vita - ha insistito - dobbiamo proteggere la Russia dall'estremismo e Meta è estremista oggi». Poco dopo la decisione ufficiale: «Sulla base della decisione dell'Ufficio del procuratore generale della Federazione Russa, l'accesso al social network Instagram (di proprietà di Meta) sul territorio della Federazione Russa sarà limitato», è la comunicazione dell'ente regolare riportata dall'agenzia Tass, secondo la quale l'ufficio del procuratore ha chiesto che Meta e tutte le realtà che rappresenta (dunque anche WhatsApp e Messanger) vengano riconosciute come «organizzazione estremista».

Lo stesso ufficio del procuratore generale ha cancellato il proprio account rilanciando contro Instagram le accuse di «indulgenza» nei confronti dei post che incitano «alla violenza e all'uccisione dei cittadini della Federazione Russa, inclusi i militari». Anche il ministero dell'Interno e il sindaco di Mosca, Sergei Sobyanin, hanno rimosso gli account. Ma non è l'unica azione. Nei giorni scorsi Nexta TV, un network est europeo, ha rivelato indiscrezioni secondo cui entro l'11 marzo, ieri, tutti i siti russi sarebbero stati obbligati a trasferirsi su server che si trovano fisicamente nel Paese. Il ministero della Sicurezza aveva poi smentito intenzioni di «disconnessione» ammettendo però che sono allo studio diversi «scenari» dato che il paese «è soggetto a continui cyberattacchi». Intanto da giorni buona parte del web e dei siti di informazione internazionale è oscurata. 

Odiare Putin non è reato. Le deliranti linee guida di Zuckerberg e il diritto di offendere solo i cattivi del momento. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 Marzo 2022.

Facebook e Instagram, svela la Reuters, permettono una deroga temporanea al divieto di offendere se le offese sono rivolte a Putin, Lukashenko o ai soldati che stanno invadendo l’Ucraina

L’unica ragione per cui abbiamo smesso di andare in chiesa, si scopre in questi anni impazziti, è che il Vaticano non ha pensato a inventare il like, l’unico miracolo cui teniamo, più tangibile dei pani e dei pesci teorici, l’unica liturgia che ci permetta non di cibarci del corpo d’un personaggio di fantasia di duemila anni fa ma di dimostrare che abbiamo un corpo, e un’anima, e soprattutto delle opinioni.

Se il cattolicesimo fosse stato meno arretrato (scambiatevi un segno di pace, ma per favore: noi vogliamo apporci dei cuoricini), saremmo ancora tutti lì, giacché avere dogmi e guide morali ci piace tantissimo, lo confermiamo ogni giorno.

Giovedì, per esempio, la Reuters ha raccontato che Facebook, che ogni giorno ci mette in castigo se diciamo cose come «ricchione» a un vecchio amico con cui condividiamo codici comunicativi ignoti agli impiegati di Zuckerberg, adesso ha deciso che dopo aver fatto le regole fa anche le eccezioni.

Quindi il safe place, il posto in cui nessuno si deve sentire messo a disagio figuriamoci in pericolo, in cui è fatto divieto di mettere in discussione le identità percepite figuriamoci quelle reali, è un po’ meno safe se sei russo. Se sei russo posso minacciarti. Sembra una puntata di Black Mirror, e invece.

«Secondo alcune email interne di cui ha preso visione la Reuters, e in deroga temporanea alle proprie politiche sui discorsi d’odio». Non è la frase più bella del mondo? Se domani un gruppo di donne francesi fa un attentato posso scrivere che le francesi sono tutte troie senza che Facebook mi metta in castigo, impedendomi quel diritto umano che è il like? Col razzismo come siamo messi, Bin Laden lo giustifica, in deroga? Commenti etnici su Saddam Hussein ma più in generale su chiunque venga dall’Iraq sono consentiti, in deroga?

«L’azienda di social network sta anche temporaneamente consentendo alcuni post che invocano la morte di Putin o di Lukashenko, secondo alcune email interne dirette ai moderatori di contenuti». Quel «temporaneamente» m’incanta, sento che lì dentro c’è il grande romanzo postmoderno. La scadenza è nota? Se domani firmano una tregua e i poveri utenti non se ne accorgono per tempo, si ritrovano tutti in esilio dalle piattaforme, banditi dalla possibilità di cuoricinare il cognato perché hanno dato del pompinaro sdentato che deve morire a quel Vladimir che un minuto prima era un criminale ma adesso è una creatura fragile che ha diritto di scorrere il proprio profilo Facebook senza turbarsi?

Le specifiche sono altrettanto incantevoli. Se infatti volete minacciare Putin di morte senza che vi venga impedito di postare i vostri penzierini per giorni, dovete attenervi alle linee guida della deroga. Che, ricopia la Reuters dalle mail interne, dicono che la minaccia non dev’essere una minaccia dettagliata. Non deve, cioè, contenere due o più specifiche. Se dite voglio tagliare la testa a Putin con una roncola sulla piazza Rossa, vi mettono in castigo: c’è la specifica di metodo e quella di luogo (non me lo sto inventando, non ci credo neanch’io ma parla proprio di due specifiche). Ma se dite solo «voglio ammazzarlo domani alle otto» va bene: c’è solo la specifica temporale.

L’ambasciata russa a Washington ha – cosa mi tocca dire – dato una risposta molto più razionale e lucida e liberale di quanto lo siano i dirigenti di Meta (adesso Facebook e Instagram si chiamano Meta, come sapete), ma soprattutto di quanto lo siamo noi, che ci facciamo dare regole su quali parole usare e non usare come fossimo cinquenni con genitori severi, col terrore che ci mandino in camera nostra senza più la possibilità di farci mettere i cuoricini da amici e sconosciuti sulle foto della pizza.

Dice la risposta dell’ambasciata: «Gli utilizzatori di Facebook e Instagram non hanno dato ai proprietari di queste piattaforme il diritto di determinare i criteri di verità». Avete ragione, cari diplomatici russi. Anche perché, come dire, l’algoritmo saprà pure tutto di noi, ma è pur sempre quello che ci consiglia di leggere l’articolo che stiamo per twittare perché non gli risulta che l’abbiamo letto – ignaro che l’abbiamo scritto. O che con squisita ottusità censura Helmut Newton o Michelangelo ritenendo siano immagini uguali al porno amatoriale di vostra cognata.

Come possono piattaforme così strutturalmente fesse mettere in piedi linee guida che pretendono d’essere sofisticate? Certo che si possono minacciare i soldati russi, spiega un’email copiata dalla Reuters, ma solo perché in realtà lo si fa intendendo minacciare genericamente l’invasore, quando si è popolazioni stressate dalla guerra (c’è, giuro, una lista di nazionalità autorizzate a minacciare i russi in deroga; incredibilmente, la lista non include i milanesi che giurano di non dormire per la preoccupazione bellica). E comunque, specifica sempre la delirante email, non si possono minacciare quei soldati russi che siano prigionieri di guerra. Voglio proprio vedere i controllori che vagliano un post alla volta per approfondire se Tizior Tiziokov, di cui un utente si augura il decesso stasera alle sette meno un quarto, sia prigioniero di guerra o no.

Il problema siamo noi, che non vediamo l’ora di trovare religioni prescrittive da rispettare, che siamo contenti se ci trattano come cinquenni. Una non vorrebbe citare «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari» e quel che segue, perché è tra le citazioni più banali che si possano fare. Però ti ci costringono quando, come un mio conoscente ieri su Facebook, esultano perché Facebook ti tratta come un bambino scemo e ti dice su che articoli cliccare e su quali no: «Questo link è di un editore che Facebook ritiene possa essere totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale del governo russo». Prima decidono chi sono i cattivi, e ne siamo contenti perché siamo sicurissimi che noi siamo e saremo sempre i buoni. È ovvio che sia e sarà sempre così, no? Quindi diamo l’unica copia delle chiavi della morale a dei miliardari in dollari, e – purché non ci vietino l’accesso ai cuoricini – lasciamo che decidano chi sì e chi no. Cosa potrà mai andar storto.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 9 marzo 2022.

La notizia della contestazione di Wojciek Bakun, sindaco della città polacca di Przemysl, a Matteo Salvini impegnato in una missione umanitaria, ha fatto il giro del mondo e così il video che immortalava il leader della Lega apostrofato con gli epiteti rivoltigli da alcuni italiani presenti sul posto: "buffone", "pagliaccio", "vergognati", "tu dicevi mezzo Putin per due Mattarella" e altre carinerie su questi toni. 

Con il diffondersi virale del video sui social network, Salvini è stato subissato di commenti negativi, anche da parte di utenti vicini alla sua area politica che gli hanno rimproverato il passo falso, giacché il sindaco contestatore è espressione di una "iper-destra" neanche europeista. Come ha fatto notare più d'uno, la sequenza di un Salvini contestato da un "Salvini al cubo" che gli mostrava la maglietta con il volto di Putin rievocandogli la trascorsa vicinanza con il Presidente russo con l'invito a raggiungere il confine ucraino per condannare quest'ultimo, si è rivelata per molti del tutto controproducente per l'immagine del Capitano e del suo partito.

I principali notiziari Rai, e soprattutto il Tg1, avrebbero mostrato il video integrale dell'umiliazione di Salvini? era la domanda che girava in rete nel pomeriggio. La curiosità è stata presto soddisfatta. 

Il Tg3 delle 19.00 ha mandato in onda la prima parte del video dando spazio alla contestazione del sindaco Bakun, censurando però la seconda parte con le offese rivoltegli dagli italiani presenti sul posto. 

Il Tg1 delle 20.00 è andato molto oltre, scatenando un putiferio in rete. Il notiziario diretto da Monica Maggioni ha infatti liquidato in tre parole la contestazione, mostrando pochi secondi del video senza audio, e dando subito spazio alla missione di Salvini e alle dichiarazioni di quest'ultimo, ovviamente senza il minimo riferimento da parte del leader della Lega alla protesta del sindaco polacco.

Michele Anzaldi, Segretario della Commissione di Vigilanza Rai, ha twittato allegando il video del notiziario: "Al Tg1 vergognosa censura della contestazione a Salvini in Polonia: oscurate le critiche del sindaco polacco e le ragioni del gesto di mostrare al leader leghista la maglia di Putin (che indossò a Mosca): altro che Rai di Draghi, da far impallidire la Rai gialloverde". E ancora: "Un'operazione da manuale della disinformazione: la notizia scompare e viene dato spazio solo alla propaganda. Senza precedenti. Agcom, Usigrai, Fnsi, Ordine dei Giornalisti, Cdr: nessuno dice nulla? In altri tempi avremmo avuto una pioggia di richieste di dimissioni".

Il Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano in quota Lega non è stato da meno: liquidato in una manciata di secondi il video della polemica del sindaco, anche qui senza audio, per poi andare a illustrare la missione di Salvini senza più alcun riferimento alla figuraccia rimediata in Polonia. Anche RaiNews24 nel pomeriggio di ieri ha mostrato il video senza l'audio, dando poi voce a Salvini. Per spezzare una piccola lancia a favore del canale diretto da Paolo Petrecca in quota Fratelli d'Italia, c'è da segnalare che almeno sul sito ufficiale si trova la descrizione completa di quanto avvenuto tra il leader del Carroccio e il sindaco Bakun al confine con la Polonia.

Frattanto le infuocate proteste in rete, unite a quelle istituzionali del Deputato Anzaldi, contro il "Tg1 russo" non hanno minimamente scalfito la Direttrice Maggioni, che già fin dalle 7.09 di questa mattina era in video su Rai1... ribattezzata ormai TeleMonica.

Alberto Simoni per “La Stampa” il 9 marzo 2022.

Che la Russia presieda il consiglio di Sicurezza dell'Onu mentre il resto del mondo raccoglie le prove sui suoi crimini di guerra, è già un paradosso. Ma, si sa, non si può certo cambiare le regole della rotazione in seno al CdS con uno schiocco di dita.

Che però anche funzionari e addetti ai media delle Nazioni Unite mandino email con tanto di regole su come affrontare la tragedia Ucraina vietando di usare la parola «guerra» e «invasione» va oltre il paradosso. Rasenta il ridicolo.

Ieri il portavoce dell'Onu Stephane Dujarric ha cercato di mettere una pezza allo scivolone. L'email è vera, ha detto. Ma risale a prima della condanna dell'Assemblea generale delle azioni russe. 

E non è vero, ha detto, che l'Onu ha bandito il termine guerra. La usa il segretario Guterres. Insomma, è stata l'azione di qualche zelante funzionario. Polemica, sterile, rientrata e tutto chiarito. L'Onu non ha bandito la parola guerra. Bene. Riuscisse a fermare la guerra sarebbe meglio.

La polemica-lampo. “Onu come Putin, vieta le parole guerra e invasione in Ucraina per imparzialità”, il giallo della mail e la smentita. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2022

Polemiche su una presunta mail inviata dall’Onu che avrebbe vietato l’utilizzo di determinate parole, come “guerra” e “invasione“, al proprio staff per “evitare il rischio reputazionale” e mantenere l’imparzialità richiesta ai funzionari pubblici internazionali. A riferirlo è The Irish Times, quotidiano di Dublino, secondo cui le Nazioni Unite avrebbero inviato ieri sera la direttiva interna invitando il proprio staff  a non usare le parole “guerra” e “invasione”, ma “conflitto” e “offensiva militare“, per descrivere la situazione in corso in Ucraina da 13 giorni.

Una notizia che le stesse Nazioni Unite hanno smentito con un’altra mail, inviata dal portavoce Stephane Dujarric  al Guardian, dove viene precisato che “semplicemente non è stato detto al personale di non usare parole come “guerra” e “invasione” per descrivere la situazione”. Per placare ulteriormente gli animi, Dujarric ha citato un recente tweet (relativo alle 12:50 dell’8 marzo) della vicesegretaria Onu Rosemary DiCarlo in cui si parlava di “guerra senza senso”, rispetto alla guerra in Ucraina.

Dujarric ha poi chiarito che allo staff è stato chiesto di “inquadrare ogni comunicazione sull’Ucraina come su altre materie politiche in una maniera che sia in linea con la posizione dell’organizzaizione e le dichiarazioni del segretario generale“. Questo, secondo il portavoce, non vuol dire vietare quelle specifiche parole, anche se non ha potuto escludere che alcuni dei manager in qualche parte della struttura Onu abbia potuto inviare una mail del genere, ma non è finora arrivata a sua conoscenza.

La direttiva –secondo il The Irish Times – avrebbe lo scopo di bilanciare le sensibilità politiche dopo che la Russia – membro permanente del Consiglio delle Nazioni Unite con diritto di veto – ha vietato l’uso di quelle parole. E’ stato anche indicato allo staff di non usare la bandiera ucraina sui propri account ufficiali sui social media o sui siti web. La politica, secondo la mail, è quella di “evitare il rischio reputazionale”, ricordando che come “funzionari pubblici internazionali si ha la responsabilità di essere imparziali”.

Immediata la reazione del governo ucraino con il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba che chiede all’Onu di smentire quanto diffuso dal quotidiano irlandese: “È difficile credere che le Nazioni Unite possano essenzialmente imporre lo stesso tipo di censura che il Cremlino impone ora all’interno della Russia, vietando l’uso delle parole “guerra” e “invasione” tra il personale delle Nazioni Unite. Esorto le Nazioni Unite a smentire rapidamente queste notizie se sono false. In gioco c’è la reputazione delle Nazioni Unite”.

Nella giornata di ieri, parlando al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite Vasily Nebenzya ha detto gli “ucraini si stanno bombardando da soli”.

Federico Cella e Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 7 marzo 2022.  

La Russia si isola dal resto del mondo e decide la «disconnessione da Internet globale». In una comunicazione formale inviata «a tutte le autorità esecutive federali e alle autorità esecutive dei soggetti della Federazione Russa» si dispone che «entro l’11 marzo tutti i server e domini devono essere trasferiti nella intranet russa».

Il messaggio è stato inviato dal viceministro dello sviluppo digitale, comunicazione e mass media Cernenko. La notizia è stata diffusa dai servizi di intelligence occidentali che hanno allegato la traduzione della nota trasmessa a tutti gli enti.

Sono otto i punti da rispettare:

1. Verificare la presenza dell’accesso degli account personali degli amministratori dei domini dei siti pubblici in rete Internet. In caso di assenza dell’accesso eseguire le azioni richieste su ripristina accesso

2. Aggiornamento e (o) rendere più complessa la politica della password, modifica password account personale del registratore dei domini, password degli amministratori di risorse pubbliche e, se possibile, introdurre fattori di autentificazione aggiuntivi per gli utenti. 

3. Passare ad utilizzare i server di DNS localizzati sul territorio della federazione russa. 

4. Cancellare da pagine HTML tutti i codici Javascript scaricati da risorse estere. 

5. In caso di utilizzo di hosting estero, spostare le risorse pubbliche posizionate su di esso verso un hosting russo.

6. In caso di inserimento di una risorsa pubblica nella zona di dominio diverso dalla zona di dominio russo se possibile spostarlo alla zone di dominio “ru”. 

7. Comunicare a tutti gli enti dipendenti l’elenco delle misure di potenziamento delle risorse pubbliche. 

8. Informare con lettera ufficiale indirizzata al ministero dello sviluppo digitale della Russia l’esecuzione delle misure entro il 15 marzo. In caso di rifiuti che comportano indisponibilità delle risorse pubbliche segnalare al ministero dello sviluppo digitale. 

In quella che è stata definita la guerra ibrida, combattuta non solo sui fronti fisici ma anche quelli della Rete, Mosca ha dunque deciso un passo clamoroso: uscire da Internet, dalla rete globale. 

Portare dunque tutte le proprie risorse e infrastrutture sulla Intranet russa, ossia RuNet. In pratica Putin ha dato il via libera a quella che era stata una richiesta – rifiutata dall’Icann, l’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, ossia l’ente che gestisce la Rete a livello globale – da parte del vicepremier ucraino Fedorov.

Una richiesta respinta al mittente perché si sarebbe trattato di un passo senza precedenti, clamoroso, che di fatto avrebbe chiuso il Paese in una nuova Cortina di Ferro. Senza più notizie dall’esterno, la popolazione russa si sarebbe trovata a confrontarsi solo con la propaganda presidenziale. 

E il passo clamoroso ora viene pianificato, con un telegramma del Governo centrale rivolto a tutte le autorità della Federazione che a vario livello gestiscono le risorse di rete. Dall’11 marzo, se il piano verrà portato a termine, 140 milioni di persone usciranno da Internet per trovarsi all’interno di un campo di informazione limitato e controllato dal governo russo.

L’operazione non nasce dal nulla, era infatti già stata pianificata due anni fa, e proprio la rete di hacker che si è schierata contro Putin, Anonymous, aveva avvisato via Twitter che l’operazione era cominciata, mostrando un documento interno del governo di Mosca. In sostanza tutti i dati e tutti i nodi della rete saranno dislocati su server e router presenti sul suolo russo, una diaspora di dati e informazioni volta a rendere del tutto autarchico il Paese. Con conseguenze forse minime per il mondo Occidentale – anche se è da vedere che non si inneschi un domino di conseguenze tecniche, dato appunto l’interconnessione di tutti i nodi della Rete - ma potenzialmente drammatiche per il popolo russo. 

Cosa raccontano i media russi della guerra? E cosa ne pensano i cittadini? Il mondo parallelo di Mosca. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 7 Marzo 2022.

Cosa sanno i cittadini della guerra in Ucraina? Un giorno sui siti dei media russi, tv, giornali che raccontano tutta un’altra storia rispetto a quella vissuta dai civili e documentata dai giornalisti occidentali. 

Città bombardate in continuazione con depositi di carburante in fiamme e civili che fuggono. Anche i russi sanno che queste cose stanno accadendo. Ma non a Kiev o Mariupol o Harkiv. No, le città sotto il fuoco nemico sono quelle delle due repubbliche separatiste del Donbass, Luhansk (Lugansk in russo) e Donetsk. E i proiettili sono tirati dall’esercito regolare ucraino e dai battaglioni di estremisti neonazisti. I soldati russi mandati oltrefrontiera poi sono impegnati in operazioni umanitarie mentre alcune unità «speciali» colpiscono con armi estremamente precise solo le installazioni militari in mano agli estremisti guidati dal «fascista drogato» Vladimir (in ucraino è Volodymyr) Zelensky che siede illegalmente sulla poltrona di presidente. Dall’Italia mi sono trasferito virtualmente in un mondo parallelo e ho passato tutta la giornata sui siti dei media russi, tv, giornali che raccontano tutta un’altra storia. Un mondo alla rovescia, si potrebbe dire. 

Un mondo dove quelli che quasi tutto il pianeta considera vittime sono aggressori e gli invasori diventano buoni samaritani. Dove ciò che viene riferito da centinaia di giornalisti internazionali e mostrato da immagini filmate sono solo colossali bufale. Fake, come hanno imparato a dire i russi di fronte a qualsiasi notizia che non vada bene al signore del Cremlino. Una realtà alternativa talmente radicata che una buona parte degli 11 milioni di russi che hanno parenti in Ucraina non credono ai loro cari quando questi raccontano delle distruzioni, dei profughi e delle vittime. 

Fin dalla prima mattina tv e siti iniziano a martellare con le notizie che vengono dall’«Operazione militare speciale». Chiamarla guerra è vietato e una nuova legge punisce chi diffonde questo tipo di notizie con pene detentive che arrivano fino a 15 anni. Il primo canale nazionale tv, visto in tutto il paese, si astiene rigorosamente dal dare notizia di quello che accade realmente a Kiev. Nessuna immagine dei bombardamenti, della gente che arriva alla frontiera con la Polonia, la Romania, la Moldova. Di un possibile distacco della Russia dalla rete internet mondiale se ne parla solo per la smentita del governo, riportata dalla Tass. Ampio spazio invece a un comunicato del ministero della Difesa: «I nazionalisti hanno minato il reattore dell’impianto sperimentale nucleare nell’Istituto di fisica a Kharkiv e i guerriglieri del battaglione Azov intendono far esplodere il reattore e accusare le forze armate russe». Un altro telegiornale, Vesti, più tardi racconta di come un convoglio russo stia portando viveri e altri rifornimenti a Chernobyl dove la centrale è sotto attento controllo «dopo che il governo di Kiev ha dichiarato di voler sviluppare l’arma nucleare». 

Alle 7,30 del mattino il primo canale apre con le notizie dal fronte che non si chiama fronte. A Luhansk «i vigili del fuoco stanno tentando di spegnere l’incendio a un deposito di benzina colpito da cannonate dell’esercito ucraino». Poco dopo le 8 arriva la notizia che Putin ha annunciato la tregua per permettere l’uso dei corridoi umanitari. «Ma nei giorni scorsi l’uscita dei civili è stata impedita dai nazionalisti che li vogliono usare come scudi umani», spiega la tv Rossiya 24.

Più tardi il telegiornale Segodnya della rete Ntv ha le testimonianze di alcuni profughi. Pavel, scappato in auto con moglie e figli dice che quelli del battaglione Azov hanno sparato contro il veicolo. «Siamo vivi per miracolo». A tutte le ore i tg martellano coi racconti degli eroismi di militari russi. «Il sergente Shatokhin, ferito gravemente perché col suo corpo ha protetto il comandante»; «Il colonnello Shustov, colpito alla testa è riuscito comunque a mettere in salvo i suoi di fronte a forze ucraine molto superiori». I profughi ci sono ma scappano dagli ucraini e si rifugiano in Russia. Sono già 160 mila, alcuni feriti dentro Mariupol dalle cannonate dell’esercito di Kiev.

Alle 15 il tg del secondo canale tv dedica ampio spazio ai proiettili lanciati su Donetsk dagli ucraini, con 35 case danneggiate. Poi il funerale di un comandante indipendentista. «E’ morto per farci uscire da questo inferno», dice di fronte alle telecamere una donna in lacrime. Alle 18 il primo canale apre con un’altra notizia-bomba: trenta laboratori sparsi in tutta l’Ucraina lavoravano ad armi biologiche su incarico degli americani. Il comandante delle truppe di protezione biologica russe ha poi aggiunto: «Documenti che abbiamo in mano confermano che il ministero della Sanità ha dato l’ordine di distruggere tutto, peste, brucellosi, antrace, eccetera». Quando Valentina Kremyr ha tentato di raccontare alla sorella che vive a Perm in Russia quello che accade veramente a Kiev non è stata creduta. Al New York Times ha ripetuto la risposta che ha ricevuto: «Nessuno bombarda Kiev. Invece stai attenta ai nazisti contro i quali combatté nostro padre». 

La stampa libera in Russia. FILIPPO TEOLDI su Il Domani il 07 marzo 2022

In uno studio che ha raccolto 3,9 milioni di articoli di notizie online pubblicati tra il 2013 e il 2015 dalle prime 48 testate giornalistiche basate su internet in Russia, un gruppo di ricercatori ha scoperto che il 77 per cento proveniva da media di proprietà o influenzati dal governo.

FILIPPO TEOLDI. Filippo Teoldi è Data Editor di Domani. Prima di arrivarci, Filippo ha lavorato come data researcher per il Daily Shot al Wall Street Journal e prima ancora come economista a Palazzo Chigi e a lavoce.info. Milanese di nascita, ha studiato all’Università Bocconi e alla Columbia University di New York, città dove ha vissuto negli ultimi anni. 

Lo scrittore russo Shishkin: «Un popolo ostaggio della propaganda di Putin. Ma vincerà la realtà». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.

«Hanno realizzato una dittatura moderna lasciando andar via dal Paese una élite di scontenti e tenere così in pugno una cittadinanza poco istruita». 

«Per il mondo occidentale, questa guerra è iniziata la mattina del 24 febbraio. Ma la Russia di Putin è in guerra con l’Occidente già da molti anni e l’Occidente non ha voluto vederlo. Non c’è dittatura senza guerra. La dittatura ha sempre bisogno di nemici, il che significa anche guerra. La banda criminale di Putin ha preso in ostaggio l’intero Paese e ha cominciato a costruire la propria Russia, a sua immagine e somiglianza. Per vent’anni si sono investiti milioni non nella sanità, nell’istruzione e nelle infrastrutture, ma in yacht, ville e club calcistici all’estero. Però la colpa della miseria e della disperazione, come afferma la tv, è dell’Occidente, dell’America. E il nemico numero uno del regime di Putin è l’Ucraina, dato che un’Ucraina prospera e democratica è un esempio pericoloso per i russi».

È di questo che Mikhail Shishkin ha scritto nel libro Guerra o pace. L’Occidente e la Russia. «E finora, purtroppo, tutto sta andando secondo lo scenario che vi è descritto», dice lo scrittore cresciuto a Mosca, vincitore dei tre maggiori premi letterari russi e residente in Svizzera. Ma è il suo romanzo Punto di fuga, uscito in Russia nel 2010 e appena pubblicato in Italia da 21lettere, a risultare ancora più premonitore: si tratta di un libro esclusivamente composto da lettere, tra un ragazzo russo mandato al fronte e una ragazza. Ricorda i messaggi del soldato russo scritti alla madre prima di morire in Ucraina letti alle Nazioni Unite alcuni giorni fa.

Qual è la guerra raccontata in questo romanzo?

«Nel 2008 è scoppiata la guerra contro la Georgia, inaspettata per le democrazie occidentali. Era chiaro che Putin non si sarebbe fermato. In un’intervista dissi che la guerra successiva sarebbe stata con l’Ucraina per la Crimea. Per il mio romanzo cercavo una metafora per l’imminente, inevitabile guerra e la trovai nella storia. Ho spedito il mio protagonista in una sporca, ingiusta e terribile guerra, non in una remota Cina ai tempi della Ribellione dei Boxer, ma in quella stessa futura guerra c he è in atto ora».

La popolazione e i soldati russi credono alla propaganda di Putin?

«Quelli che sono andati in Ucraina con le armi sono vittime della propaganda di Putin. Per anni la tv ha continuato a martellare che il potere a Kiev è in mano ai nazisti, che è in corso il genocidio della popolazione russofona, che l’America sta conducendo una guerra contro la Russia per mano dei fascisti ucraini. Hanno fatto il lavaggio del cervello ai russi facendogli credere che è tempo di difendere la patria come i nostri nonni durante la Seconda guerra mondiale e che gli ucraini ci aspettano come liberatori. Il peggio è che Putin stesso è diventato ostaggio della sua propaganda e insieme ai suoi generali ha creduto che l’esercito andasse incontro a una facile campagna di liberazione salutata con i fiori. Adesso la propaganda russa si è scontrata con la realtà ucraina. Vediamo l’intero popolo ucraino — indipendentemente dalla lingua, sia gli ucraini che i russi che vivono lì — compattarsi contro l’aggressore. La maggioranza della popolazione russa è plagiata dalle bugie di Putin. Il poeta satirico Koz’ma Prutkov una volta ha detto: “L’uomo è come una salsiccia: diventa ciò che ci ficchi dentro”. I cervelli sono imbottiti della disinformazione sulla vittoriosa “operazione speciale” in soccorso di un popolo fratello. Più spaventoso e doloroso della guerra scatenata da Putin sarà il risveglio alla realtà».

Le proteste delle madri e dei padri dei soldati potrebbero fermare la guerra?

«La parte ucraina ha offerto, attraverso la Croce Rossa, di restituire alla Russia i feriti e i corpi dei soldati russi caduti. Putin ha rifiutato. Questo è tutto quello che c’è da sapere sull’atteggiamento delle autorità russe nei confronti dei propri soldati e del proprio popolo. Putin se ne frega sia dei soldati che dei padri e delle madri. Adesso chi partecipa ai raduni contro la guerra è accusato di estremismo. Nel mio Paese, durante l’impero sovietico come anche adesso, le parole non significano quello che dovrebbero significare, ma quello che il potere vuole che significhino. La guerra è la lotta per la pace. Se esci con lo slogan “No alla guerra” sei un traditore e un estremista. Il tuo posto è in prigione».

Putin agisce guardando al passato e alla storia.

«I dittatori cercano di imparare dalla storia, ma sono cattivi studenti. Putin e la sua banda hanno cercato di creare la dittatura moderna del XXI secolo. Per esempio, hanno preso l’esperienza dell’Unione Sovietica, dalla quale era impossibile fuggire, e hanno lasciato le frontiere aperte. Negli ultimi vent’anni hanno invitato apertamente tutti gli scontenti ad andarsene. L’élite intellettuale ha praticamente lasciato il Paese. Un disastro per il futuro della Russia, ma un successo per il regime, perché è più facile tenere in pugno una popolazione povera e poco istruita. Solo il 17% dei 140 milioni di russi ha un passaporto, gli altri non hanno mai viaggiato all’estero e visto come si vive nel resto del mondo. Ma la lezione principale della storia per i dittatori, Putin non l’ha imparata. Sono tutti finiti male. Probabilmente ora si sogna Saddam impiccato o Gheddafi linciato».

Le parole e le storie hanno il potere di plasmare la realtà. Accadrà con i discorsi di Putin? Come andrà a finire?

«Putin è abituato a parlare per ore all’annuale appuntamento televisivo “Filo diretto con Vladimir Putin”. La gente è abituata alle sue infinite e vuote promesse di una vita migliore e alle sue tipiche battute e “colpi bassi”. I discorsi di Putin non lo salveranno. Putin perderà questa guerra. L’ha già persa la mattina del 24 febbraio, quando ha dato ordine all’esercito di entrare in Ucraina. Voglio credere che quando per disperazione deciderà di premere il pulsante rosso, uno degli esecutori all’ultimo secondo non eseguirà l’ordine e salverà il mondo dall’inferno nucleare. E dopo Putin, inizierà un nuovo capitolo della storia mondiale. L’Ucraina si riprenderà rapidamente dalle ferite della guerra, il mondo intero l’aiuterà. La Russia molto probabilmente non sarà già più sulla carta geografica: l’impero continuerà a disintegrarsi. Ma questa è già un’altra storia».

Ha collaborato per la traduzione Emanuela Bonacorsi

"Rischiano la vita": la Rai fugge da Mosca. Samuele Finetti il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Viale Mazzini sospende i servizi degli inviati e dei corrispondenti dalla Russia, dopo che ieri è stata approvata una legge che prevede fino a 15 anni di carcere per i giornalisti.

Ieri era toccato ai giornalisti di grandi testate come Bbc, Cnn, Cbc e Bloomberg, richiamati in seguito alle misure contro la libertà di stampa adottate dalla Duma. Oggi anche la Rai ha deciso di sospendere i servizi giornalistici di inviati e corrispondenti dalla Federazione Russa.

La misura, fanno sapere i dirigenti di viale Mazzini, si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell'informazione relativa al Paese. Da questo pomeriggio, dunque, le notizie relative alla Russia verranno fornite grazie al lavoro dei giornalisti sul campo nei Paesi vicini e a quello dei colleghi che lavorano in Italia. Il motivo dell'oscuramento dei servizi da Mosca segue la fulminea approvazione da parte delle due Camere del Parlamento - siglata poco prima dal presidente Vladimir Putin - che prevede condanne fino a quindici anni di carcere per cittadini russi e stranieri che diffondono "informazioni false sulle forze armate". Una legge simile esisteva già, ma il limite massimo della condanna era di tre anni.

Poco dopo, anche il direttore del Tg5 Clemente Mimun rilascia alle agenzie una dichiarazione che va nella stessa direzione della decisione della Rai: "Anche noi giocoforza ritireremo l'inviato dalla Russia. Le norme sono talmente punitive che non si può fare nulla. Per lavorare in Russia i giornalisti devono avere un permesso. Io non ho corrispondenti ma un inviato ancora senza permesso. Adesso però, costretti da queste nuove regole, lo faremo tornare".

Ma sulla Rai da giorni piovono critiche a proposito dei servizi giornalisti che arrivano da Mosca. In particolare, i servizi del Tg2 del corrispondente da Mosca, Marc Innaro, sono finiti al centro delle polemiche: prima il giornalista aveva sostenuto la tesi filo-putiniana dell'allargamento a Est della Nato come causa che ha scatenato l'invasione in Ucraina, poi ha confezionato un servizio sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia basandosi unicamente sui dispacci della Tass, l'agenzia stampa ufficiale dell'ex Unione Sovietica.

Sommossa in Rai dopo il bavaglio a Marc Innaro: scelta ingiustificata, riprendano i collegamenti da Mosca. Il Tempo il 20 marzo 2022.

Ribellione interna alla Rai dopo le polemiche degli scorsi giorni per la decisione di sospendere i collegamenti con i corrispondenti esteri in Russia ed in particolare con Marc Innaro, finito nell’occhio del ciclone per alcune frasi non gradite a tutti all’interno della tv di Stato. I corrispondenti esteri della Rai, in una nota diffusa dall’Usigrai, hanno invitato l’azienda guidato da Carlo Fuortes a cambiare rotta: “Da quasi tre settimane l'azienda ha deciso di sospendere le corrispondenze dalla sede di Mosca. Una decisione inizialmente cautelare, dovuta all'entrata in vigore sul territorio della Federazione Russa di nuove norme che restringevano fortemente le libertà di stampa per chiunque operasse nel settore dell’informazione in lingua russa. La condanna dei corrispondenti esteri verso queste decisioni limitative delle libertà di espressione nella Federazione Russa è e resta senza riserve. Ma con il passare dei giorni - sottolineano - la decisione aziendale di fermare la produzione informativa dalla sede di Mosca appare non più giustificata dai fatti. Tutti i principali network internazionali hanno ripreso il flusso informativo da Mosca con i propri corrispondenti o con i propri inviati”.

"I corrispondenti esteri della Rai - prosegue ancora la nota - esprimono piena solidarietà al collega Marc Innaro e a tutti i colleghi fatti oggetto di critiche pretestuose da settori della politica e dell’editoria. Auspicano che la Rai non ceda a pressioni improprie provenienti dall'esterno. Chiedono che i vertici aziendali tutelino il buon nome dei propri dipendenti e che al più presto la Rai riprenda a informare dalla Russia con i suoi corrispondenti della sede di Mosca, osservatorio strategico con non mai in questo momento storico, e con i suoi inviati sul campo”. 

I giornalisti contro la Rai: unica tv assente da Mosca. Paolo Bracalini il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.

La protesta dei corrispondenti. Innaro: "Una lacuna grave". Di Bella: "Torneranno presto".

Tra i primati della Rai va aggiunto anche quello di non avere nessun giornalista a Mosca, nel mezzo di una guerra scatenata proprio dalla Russia. Una decisione di viale Mazzini, presa inizialmente dopo l'entrata in vigore in Russia di leggi restrittive della libertà di stampa per i corrispondenti esteri, che però ora inizia ad essere contestata pubblicamente anche dall'interno dell'azienda. I corrispondenti esteri del servizio pubblico scrivono, in una nota diffusa da Usigrai, che «la decisione aziendale di fermare la produzione informativa dalla sede di Mosca appare non più giustificata dai fatti» visto che tutti i network internazionali hanno ripreso a trasmettere dalla Russia». Aggiungono poi «piena solidarietà al collega Marc Innaro e a tutti i colleghi fatti oggetto di critiche pretestuose da settori della politica e dell'editoria. Auspicano che la Rai non ceda a pressioni improprie provenienti dall'esterno. Chiedono che i vertici aziendali tutelino il buon nome dei propri dipendenti e che al più presto la Rai riprenda a informare dalla Russi». Innaro, corrispondente Rai da Mosca, è stato contestato dal Pd perché - a giudizio del partito di Letta - troppo condiscendente verso le tesi della propaganda russa. Innaro è in prima fila nella richiesta all'azienda di riprendere i servizi da Mosca. «Per me questo stop è una lacuna grave - dice all'AdnKronos il capo dell'ufficio di corrispondenza Rai nella capitale della Federazione russa -. La Rai avrà le sue buone ragioni, noi siamo dei dipendenti obbedienti e rispettiamo gli ordini, pur talvolta non capendoli. Io sono a Mosca e constato che ci sono altre testate internazionali che hanno ricominciato ad operare già da tempo, e sono tantissime, dalla Bbc a France Press, Associated Press, Washington Post, giapponesi, indiani, arabi, cinesi. La Rai no» spiega Innaro. «Se un nemico c'è, e tale si dice che sia la Russia, varrebbe la pena di conoscere cosa pensa, e cosa dice. Con tutti i limiti che potrebbero venire dalla nuova legge, ma intanto proviamo a capire e a raccontare».

Ma nei prossimi giorni dovrebbero arrivare novità. Lo ha fatto capire Antonio Di Bella, direttore di Rai Day Time, che durante l'intervista sulla guerra in Ucraina a Nicolai Lilin a Mezz'ora in più ha detto, rispondendo allo scrittore di origini russe che criticava l'assenza della Rai a Mosca, che la tv pubblica italiana «sta lavorando per far tornare i giornalisti in Russia»

Sparito dal Tg1 dopo la frase su Vladimir Putin, cosa succede in Rai? Il caso di Marc Innaro. Il Tempo il 03 marzo 2022.

Sparito dai radar televisivi del Tg1 Marc Innaro, il corrispondente Rai da Mosca e capo della sede del servizio pubblico nella Capitale russa. C'è la guerra in Ucraina portata proprio dalla Russia, ma il giornalista sul tg della rete ammiraglia non si vede più. Perché? Alla base ci sarebbero le parole pronunciate da Innaro durante uno speciale del Tg2 Post, venerdì scorso: "Basta guardare la cartina geografica per capire che, negli ultimi 30 anni, chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato". 

Parole che lo hanno fatto additare come filo-Putin. Dopo il fattaccio si segnala che "da quattro giorni Innaro, che è anche capo sede Rai a Mosca, è sparito dai radar del Tg1, mentre continua a lavorare per tutte le altre testate: Tg2, Tg3, Gr radio e Rainews. Si preferisce evitarlo per le sue presunte posizioni filo-russe? Siamo di fronte a un caso di censura? " si chiede il Fatto quortidiano. "Macché censura", risponde la direttrice del Tg1, Monica Maggioni: "Da qualche giorno abbiamo a Mosca anche l'inviato del Tg1, Alessandro Cassieri, ex capo sede a Parigi con un passato da corrispondente in Russia. Avendo un nostro inviato, è normale che ci colleghiamo con lui".

Veleni in Rai, corrispondenti in Russia Vs Maria Cuffaro del Tg3: "Non abbiamo scelto noi di rientrare. E non leggevamo le veline". Giovanna Vitale su La Repubblica il 14 Marzo 2022.

I giornalisti tornati in Italia hanno scritto all'Usigrai per denunciare le parole della "nota conduttrice della tv pubblica". Dalla Gruber, a Otto e mezzo, aveva detto che nella scelta di lasciare Mosca ha pesato la valutazione dei colleghi.

Una lunga scia di polemiche e veleni sta scuotendo la Rai all’indomani della decisione di sospendere i servizi dei propri corrispondenti e inviati dalla Federazione Russa in seguito all’entrata in vigore della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dal Cremlino. I cinque giornalisti “colpiti” dal provvedimento – il capo della sede di Mosca Marc Innaro, già

(ANSA il 5 marzo 2022) - La legge introdotta in Russia che detta una stretta sui media "nasce dalla necessità urgente dettata da una guerra di informazione senza precedenti contro la Russia", ha spiegato ai giornalisti il portavoce della presidenza russa, Dmitry Peskov. "La legge è stata approvata e deve essere applicata. L'ha votata il nostro Parlamento, ha spiegato Peskov. Lo riferisce la Tass.

(ANSA il 5 marzo 2022) - In seguito all'approvazione della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità, a partire da oggi la Rai - informa una nota - sospende i servizi giornalistici dei propri inviati e corrispondenti dalla Federazione Russa.

"La misura si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell'informazione relativa al Paese - spiega la Rai -. Le notizie su quanto accade nella Federazione Russa verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell'Azienda in servizio in Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia". Ieri, in seguito all'approvazione di una legge che prevede multe e carcere per chi diffonde 'fake news' sul conflitto, la Bbc aveva deciso di ritirare i suoi giornalisti dalla Russia e riaprire le trasmissioni ad onde corte come ai tempi di Radio Londra. Anche l'emittente pubblica canadese Cbc/Radio-Canada aveva annunciato di aver temporaneamente sospeso il lavoro dei suoi giornalisti in Russia.

Guido Olimpio per “il Corriere della Sera” il 5 marzo 2022. 

La Bbc ha deciso di sospendere la propria attività giornalistica in Russia. Una decisione motivata dal timore che reporter e staff possano essere perseguiti grazie al nuovo provvedimento di censura adottato dal Parlamento. C'è un evidente rischio di essere minacciati, arrestati, messi in condizione di non poter svolgere la propria attività professionale. 

Il Cremlino, del resto, teme la verità scomoda, ha paura che la sua propaganda sul conflitto in Ucraina sia bucata e smentita, quindi introduce il bavaglio per silenziare i media. Infatti ha bloccato le trasmissioni in digitale della radio inglese in lingua russa, un fuoco di sbarramento tipico di ogni regime. Strano - si fa per dire - visto che secondo il Cremlino tutto procede per il meglio. 

L'emittente ha replicato rispolverando un vecchio sistema, sempre valido. Che ricorda l'epopea di Radio Londra, all'epoca della lotta al nazismo, e poi i tempi della Guerra fredda. Per alcune ore al giorno la Bbc trasmetterà servizi e news sulle onde corte, chiunque in possesso di una radiolina potrà ascoltare il notiziario. 

Per anni, in epoca pre-Internet, gli apparecchi a onde corte hanno rappresentato uno strumento formidabile e poco costoso a disposizione di una platea di ascoltatori vastissima. I russi, peraltro, ne sono consapevoli. I loro servizi segreti hanno impiegato - e impiegano ancora - le onde corte per lanciare messaggi in codice ai loro agenti attivi all'estero. Liste di numeri che vengono poi decifrati. Stessa cosa fanno i cubani e, in qualche periodo, i nordcoreani.

Anche la Rai come la Bbc ritira i giornalisti dalla Russia: “Primario tutelare la libertà e la sicurezza”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Marzo 2022.

La legge fatta approvare da Vladimir Putin prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque diffonda notizie ritenute "false o lesive dell’interesse russo". Sempre Mosca aveva annunciato ieri il blocco delle piattaforme social di Facebook e Twitter per impedire la diffusione di notizie provenienti liberamente da media occidentali

Anche l’azienda radiotelevisiva di Stato italiana ha deciso di sospendere i servizi giornalistici dei propri inviati e corrispondenti dalla Russia. “La decisione – riporta una nota dell’azienda – è stata presa in seguito all’approvazione a Mosca della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità”. Ieri una decisione analoga era stata adottata dalla Bbc inglese e oggi l’esempio è stato seguito anche dalla Ard, la tv pubblica della Germania e dalla Cbc/Radio-Canada, la televisione pubblica del Canada.

La legge fatta approvare da Vladimir Putin prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque diffonda notizie ritenute “false o lesive dell’interesse russo”. Sempre Mosca aveva annunciato ieri il blocco delle piattaforme social di Facebook e Twitter per impedire la diffusione di notizie provenienti liberamente da media occidentali La Bbc in seguito a questa decisione, per risposta aveva annunciato la riapertura delle trasmissioni a onde corte della sua radio, come “Radio Londra“  durante la Seconda guerra mondiale. 

“La misura si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese – spiega la Rai -. Le notizie su quanto accade nella Federazione Russa verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell’Azienda in servizio in Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia“. L’ordine di servizio della Rai riguarda in tutto 6 giornalisti. I due corrispondenti Marc Innaro da Mosca e Sergio Paini da Rostov sul Don, confine Russia-Ucraina, lato russo: a loro la scelta il ritorno a Roma o le ferie dalla Russia. Dovranno fare le valigie e rientrare in Italia anche i 4 inviati dei tg: Alessandro Cassieri da Mosca (Tg1), Giammarco Sicuro da Mosca (Tg2), Marina Lalovic (Rai News 24) e Nico Piro da Rostov sul Don (Tg3).  

Anche Mediaset ha deciso di far rientrare l’inviato del TG5 da Mosca. Sulla decisione della Rai è pronta a intervenire la Vigilanza. “Scriveremo una lettera ai vertici dell’azienda – spiega il presidente della Commissione parlamentare di vigilanza, Alberto Barachini, senatore di FI – vogliamo avere chiarimenti sui motivi che hanno portato alla sospensione dei servizi dalla Russia. Chiederemo se siano stati coinvolti gli inviati e i corrispondenti”. Secondo il presidente della Vigilanza parlamentare, “è giusto che l’ultima parola spetti ai giornalisti sul campo”.

La Casa Bianca ha condannato la nuova legge russa che prevede il carcere fino a 15 anni per chi diffonde quelle che il Cremlino definisce “fake news” sul conflitto in Ucraina e “sollecita un’azione continua in tutti i settori per promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali“. Lo ha detto Emily Horne, portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca.  Redazione CdG 1947

La Rai sospende i servizi giornalistici dalla Russia. Stessa decisione per Tg5 e Ansa. Lorenzo De Cicco su La Repubblica il 5 Marzo 2022.  

La scelta in seguito all'approvazione della norma che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità di Mosca. La Vigilanza chiede chiarimenti.

Fine delle trasmissioni, per ora. La Rai sospende tutti i servizi giornalistici dalla Russia. Stessa decisione l'ha annunciata, per Mediaset, il Tg5. E anche l'Ansa ha bloccato il flusso di notizie dalla sede di Mosca, così come due dei principali media pubblici spagnoli, la radio-televisione Rtve e l'agenzia di stampa Efe. I quattro inviati Rai dovranno tornare in Italia, mentre ai due corrispondenti, Marc Innaro e Sergio Paini, Viale Mazzini ha lasciato due opzioni: il ritorno a Roma o le ferie da Mosca. La tv di Stato ha spiegato che la decisione è stata presa "in seguito all'approvazione della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità" putiniane.

La stretta sui media, varata dalla Duma, prevede fino a 15 anni di carcere per chi parla di invasione russa in Ucraina. "La misura si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto - ha spiegato la Rai in un comunicato stampa - e la massima libertà nell'informazione relativa al Paese". Per la Rai la copertura delle notizie sulla Russia sarà assicurata dai giornalisti dislocati nei Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia. Come detto, si muove anche Mediaset: il Tg5 ha deciso di far rientrare l'inviato a Mosca.

Sulla decisione della Rai è pronta a intervenire la Vigilanza. "Scriveremo una lettera ai vertici dell'azienda - spiega a Repubblica il presidente della Commissione parlamentare di vigilanza, Alberto Barachini, senatore di FI - vogliamo avere chiarimenti sui motivi che hanno portato alla sospensione dei servizi dalla Russia. Chiederemo se siano stati coinvolti gli inviati e i corrispondenti". Secondo il numero uno della Vigilanza, "è giusto che l'ultima parola spetti ai giornalisti sul campo".

La mossa arriva dopo le polemiche per i servizi di Marc Innaro, il corrispondente Rai da Mosca, che sabato scorso al Tg2 Post ha sostenuto la tesi putiniana dell'allargamento a Est della Nato come causa scatenante dell'invasione in Ucraina. Innaro ha poi racconato l'attacco russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, nel corso dello speciale Tg2 Italia, basandosi soltanto sui dispacci della Tass, l'agenzia di stampa ufficiale russa, parlando di "sabotatori ucraini" e sostenendo che "l’obiettivo dei russi è quello di mettere in sicurezza le centrali". Dichiarazioni che hanno spinto il Pd a presentare un'interrogazione all'ad Rai, Carlo Fuortes. Difende invece Innaro il deputato Michele Anzaldi, commissario in Vigilanza in quota Italia Viva: "Sono attacchi inopportuni - sostiene - che doveva dire da Mosca? Lì al massimo puoi riportare come titola la Pravda, cosa raccontano ai cittadini i media russi".

L'ordine di servizio della Rai riguarda in tutto 6 giornalisti. I due corrispondenti Marc Innaro da Mosca e Sergio Paini da Rostov sul Don, confine Russia-Ucraina, lato russo. E i 4 inviati dei tg: Alessandro Cassieri da Mosca (Tg1), Giammarco Sicuro da Mosca (Tg2), Marina Lalovic (Rai News 24) e Nico Piro da Rostov sul Don (Tg3).  L'Usigrai fa sapere che valuterà "iniziative per continuare a garantire il diritto dei cittadini a essere informati".

Anche la Bbc ha deciso di ritirare i giornalisti dalla Russia, così come le americane Cnn e Abc e l'emittente pubblica canadese Cbc/Radio-Canada.

Marc Innaro, giornalista Rai: "Sarei rimasto in onda. Io filo-Putin? Mangio pane e Russia da quando ho 18 anni". Lorenzo De Cicco su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Il capo-corrispondente da Mosca della tv di Stato, che ha ritirato i suoi giornalisti: "Nessuno mi ha interpellato". In merito alle polemiche sui suoi servizi: "Non ho avuto tempo di occuparmene, abbiamo dormito 4 ore per notte". 

"Lo stop della Rai ai servizi in Russia? Nessuno mi ha interpellato", risponde Marc Innaro, classe 1961, capo-corrispondente della tv di Stato da Mosca. "Fosse per me, sarei rimasto in onda. Sono un giornalista, lavoro fino a quando l'azienda non mi dice di fermarmi. O fino a quando mi arrestano".

La Rai ha spiegato che la decisione è stata presa per tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto. 

Il bavaglio ai giornalisti in Russia. Fino a 15 anni di carcere per chi parla di invasione. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Il Parlamento approva una legge contro l'informazione libera. Stop a Facebook e Twitter: “Ritorno all'Urss”. Bbc, Cbc, Cnn e Bloomberg sospendono le attività dei loro corrispondenti: “La loro sicurezza è a rischio”. Quanto tempo ci mette un Paese a tornare indietro di trent'anni? Alla Russia sono bastati nove giorni. Nove giorni di una guerra che non si può chiamare "guerra", e neppure "offensiva" o "invasione", ma solo "operazione militare speciale". Pena 15 anni di carcere. Nove giorni di soldati di leva mandati a morire in Ucraina, senza capirne il motivo e senza che i corpi venissero restituiti alle madri perché i funerali "creerebbero il panico".

Da la Verità il 12 marzo 2022.

Vecchie ruggini e incomprensioni avrebbero spinto Monica Maggioni, direttrice del Tg1, ad allontanare dal video Giovanna Botteri. La svolta arriva dopo gli scivoloni sui filmati della guerra e le polemiche per l'uscita sulle molotov della stessa Botteri.

La decisione dopo l'approvazione della normativa che prevede il carcere per la pubblicazione di notizie ritenute false. La Rai sospende corrispondenti e inviati dalla Russia, a Mosca è bavaglio totale sui media: “Scelta per tutelare la sicurezza”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 5 Marzo 2022. 

A partire da oggi la Rai  sospende i servizi giornalistici dei propri inviati e corrispondenti dalla Federazione Russa. Una misura definita dall’azienda ‘necessaria’ per tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese, arrivata dopo l’approvazione della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità.

“Le notizie su quanto accade nella Federazione Russa verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell’Azienda in servizio in Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia” si legge ancora nella nota della Rai.

Innaro: “Gli inviati rientreranno in Italia”

Marc Innaro, capo dell’ufficio di corrispondenza RAI di Mosca, sta organizzando il rientro di tutti gli inviati in Italia, dopo la decisione di Viale Mazzini di sospendere i servizi giornalistici dalla Russia dopo le limitazioni previste dalla legge approvata dalla Duma.

“Siamo sei giornalisti – spiega Innaro all’Adnkronos – due corrispondenti, io e Sergio Paini, e quattro inviati che sono in giro per il Paese. Gli inviati, sulla base delle disposizioni RAI, devono rientrare in Italia, mentre noi corrispondenti possiamo scegliere se rimanere qui o tornare, ma siamo stati messi in ferie da oggi“.

La Bbc ritira i giornalisti

Ieri 4 marzo, proprio in seguito all’approvazione della legge che prevede multe e carcere fino a 15 anni per chi diffonde ‘fake news’ sulla guerra in Ucraina, la Bbc aveva deciso di ritirare i propri giornalisti dalla Russia e riaprire le trasmissioni ad onde corte, come ai tempi di Radio Londra. Tornando a un sistema che ha scritto la storia degli eventi bellici del novecento. 

Oltre alla Bbc, anche l’emittente pubblica canadese Cbc/Radio-Canada aveva annunciato di aver temporaneamente sospeso il lavoro dei suoi corrispondenti in Russia. Una decisione presa inoltre da Cnn, Bloomberg e Cbs.

La radio Eco Mosca, storico canale radiofonico russo, ha invece deciso di ‘resistere’, scegliendo di trasmettere su YouTube. Le autorità l’hanno infatti bloccata perché continuava a definire il conflitto in corso in Ucraina ‘una guerra’ piuttosto che ‘un’operazione militare temporanea’. Chiara la volontà del Cremlino di intervenire sulla libertà di stampa.

Il blocco di Facebook e Twitter

La Russia, attraverso il Roskomnadzor, ossia l’agenzia che controlla le comunicazioni, sta impedendo l’accesso a diversi media indipendenti e ha annunciato prima il blocco di Facebook, poi quello di Twitter, scrive l’Ansa. Meta ha risposto al blocco, affermando che “farà il possibile per ripristinare il servizio e dare la possibilità agli utenti di esprimersi in sicurezza e mobilitarsi”. 

La lista a cui Mosca ha limitato l’accesso è però piuttosto lunga: tra questi, Meduza, Svoboda, l’emittente tedesca Deutsche Welle, il sito web in lingua russa fondato dagli Stati Uniti Radio Free Europe/Radio Liberty.  Anche Wikipedia è stata minacciata di blocco per un articolo sulle vittime civili e militari. 

Secondo un report del Centro di monitoraggio della disinformazione sul conflitto Russia-Ucraina, diffuso da NewsGuard, la propaganda del governo russo può contare su oltre un centinaio di siti web, che spesso diffondono falsi racconti sull’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca. Tra questi, anche i siti russi più influenti, come RT, TASS e Sputnik News.

Stilata  anche la lista delle dieci principali bufale che stanno circolando negli ultimi giorni, come la base Nato a Odessa, o la Crimea che si sarebbe unita legalmente alla Russia. O ancora, la fake news sul genocidio dei residenti di lingua russa nel Donbass. Mariangela Celiberti

Anna Zafesova per “la Stampa” il 5 marzo 2022. 

«Me ne sono andato». Alexey Kovalyov, ex cronista del Moscow Times e di Meduza, fa l'annuncio, molto laconico, su Twitter, e gli altri follower rispondono con faccine e manine che applaudono: un altro ce l'ha fatta. Non c'è bisogno di spiegare da dove se ne è andato e perché: quel lapidario "Uekhal" suona definitivo, un verbo che da più di un secolo simboleggia il dilemma dell'intellighenzia russa, restare o partire.

Stanno partendo in tanti, in questi giorni e queste ore, dando la caccia ai biglietti, a prezzi vertiginosi, per le ultime destinazioni dove ancora si vola senza sanzioni. Istanbul, Erevan, Tbilisi, Dubai: ogni decollo può essere l'ultimo, perché gli Airbus e Boeing russi sono sotto sanzioni, e buona parte della flotta è soltanto in affitto da compagnie occidentali. Come i "piroscafi dei filosofi" salpati esattamente cento anni fa, gli aerei sono pieni di intellettuali: storici, scrittori, designer, ma soprattutto giornalisti, che si avventurano nel nulla di un futuro sconosciuto, lasciandosi alle spalle un passato definitivamente chiuso.

Insieme a Twitter e Facebook, bloccati dal governo russo. Da ieri, la libertà di stampa in Russia non esiste più, in nessuna forma. Il giorno prima erano stati oscurati i siti di Meduza, Deutsche Welle, Bbc, Radio Liberty e altre testate in russo con sede e/o finanziamento estero, i cui giornalisti vengono portati al sicuro in Europa. In serata - mentre Emmanuel Macron faceva una telefonata di solidarietà negli uffici di Memorial, la ong che denunciava i crimini di Stalin, invasi dai poliziotti - Vladimir Putin ha firmato la legge che punisce con condanne che vanno dalle multe fino a 15 anni di carcere per la «diffusione di fake news sui militari».

Cioè, spiega Kovalyov dal suo esilio, «da oggi in Russia non si può chiamare la guerra in Ucraina una guerra, pena una punizione pesante». Ma ancora prima le autorità avevano staccano la spina alle ultime due antenne russe che, tra mille fatiche e compromessi, facevano ancora informazione libera. I giornalisti della televisione Dozhd piangono in diretta, prima di imbarcarsi anche loro verso la salvezza in Occidente. 

Ma il colpo più pesante è la radio Eco di Mosca, una storia trentennale iniziata con la glasnost di Gorbaciov, la prima - e ultima, si scopre ora - emittente libera russa. La speranza di una sopravvivenza su YouTube, su web, sull'app, dura poche ore: la testata che aveva ospitato tutti, da Bill Clinton ad Alexey Navalny, viene annientata, insieme a un archivio che rappresentava trent' anni di storia. Il direttore Alexey Venediktov dice alla Novaya Gazeta che se l'aspettava, che era inevitabile, «è in corso una guerra, e non siamo un danno collaterale». 

Nel testo della sua intervista però la parola "guerra" viene sostituita da una parentesi con puntini, seguita dalla nota «una parola proibita dalle autorità russe». Un trucco che la stessa Eco di Mosca aveva cercato di utilizzare per difendersi dall'ira del governo, ma non è bastato: della guerra in Ucraina non si può dire nulla, nemmeno il nome. Visto dalle redazioni moscovite, Orwell appare un cronista di attualità, e la Novaya Gazeta - ultimo grande giornale indipendente ancora in vita, protetto non si sa per quanto dal Nobel per la pace del suo direttore Dmitry Muratov - decide di eliminare tutte le notizie sulla () (parola proibita dalle autorità russe), per sopravvivere.

Altre testate chiudono i battenti senza aspettare che arrivi il loro turno, altre scelgono di cancellare ogni riferimento all'Ucraina. I dissidenti si danno appuntamento su Telegram, la parola più gettonata nelle conversazioni è Vpn (Virtual private network, ndr), ma è un trucco che può servire solo per accedere ai server esteri. 

Quelli russi non esistono più, e il blocco di Apple Store e Google Play fa temere che anche la sopravvivenza dei siti attraverso le app sia a rischio. La () (parola proibita dalle autorità russe) dell'informazione è stata persa, e il Cremlino ha reagito eliminando tutti gli spazi di libertà e dibattito. La protesta contro l'invasione sparisce insieme ai social occidentali (quelli russi sono controllati dal governo), e non importa se milioni di russi comuni hanno subito una dolorosa "morte digitale" su Facebook e Twitter, perdendo anni di foto, post e ricordi.

Altri si preparano a venire eliminati anche da YouTube e Instagram, come il popolarissimo videoblogger d'opposizione Yuri Dud. La Bbc riprende le trasmissioni radio su onde corte, come all'epoca sovietica, quando era un'arma strategica della lotta al comunismo che filtrava attraverso l'oscuramento del Kgb. I giornalisti emigrati ipotizzano forme di "samizdat" su Telegram o sperano che i loro lettori riusciranno a collegarsi ai loro siti esteri aggirando i blocchi russi. Ma intanto fare informazione diventa non più difficile o pericoloso, comincia a essere quasi impossibile.

DAGOREPORT il 4 marzo 2022.

Il dubbio: è se le bombe dello zar Putin sganciate sull’Ucraina cominciassero ad avere effetti letali anche sull’informazione? Ormai siamo alle notizie geneticamente modificate anche in televisione, non solo sui media tradizionali. Impresa assai più difficile e complicata. 

Ma pur di non scoraggiare i tele-morenti ad allontanarsi dai talk e dai tiggì manipolazioni e sensazionalismo continuano a navigare nelle acque intorbidite del giornalismo ufficiale.

Emblematico è il caso della Rai, cioè del servizio pubblico. L’altra sera la direttora, Monica Maggioni, sul Tg1 ha dibattuto a lungo con gli ospiti in studio sulla copertina-tarocco del magazine “Time” che mostrava una foto di Putin con baffetti alla Hitler. Confronto di idee rilanciato in tv da “Striscia la notizia” di Antonio Ricci che si è trasformato in un cazzeggio tra il surreale e il ridicolo dei suoi partecipanti. Neppure gli esperti si sono accorti che si trattava di una patacca grafica.

Peccato, appunto, che si trattava di un falso realizzato con photoshop da qualcuno (bravo) che l’ha postato sui social. Ma in tempi di guerra in viale Mazzini non hanno il tempo di controllare le notizie figuriamoci certe immagini come quella della falsa cover del “Time” che da giorni era in rete. Ma trattandosi della Rai di tutto, di più e di peggio… Per non farsi mancare la fake del giorno, la direttora Monica Maggioni mandava in onda un filmato delle incursioni dei russi su Kiev (e dintorni) con tanto di dettagliata spiegazione in studio delle immagini della traiettoria del missile. Peccato, grazie sempre alle clip riproposte in parallelo da “Striscia” in realtà si trattava di fotogrammi rubati da un videogioco delle serie War-game.

Per non essere da meno pure il Tg2 le mandava in onda. Non è finita. Gli aerei Mig dei piloti russi che sfrecciavano nei cieli del paese invaso altro non erano che vecchie immagini di repertorio di una vecchia parata militare a Mosca. E se a Saxa Rubra la redazione del Tg1 sembra seguire la massima della Maggioni per rendere più accattivanti e sublimali i servizi del Tg1 dal fronte: “se i social s’inventano i fatti, noi ci inventiamo le notizie”, al “Corriere della Sera” non s’accorgono che l’Economist ha messo già in copertina una bandiera grondante sangue dell’Ucraina e fanno il bis con un identico drappo firmato dall’artista Mimmo Paladino.

Già, sembra essere tornati ai tempi degli “strilloni” che vendevano i quotidiani al grido: “Edizione straordinaria!” per qualche copia in più. Ma di straordinario c’era soltanto la loro capacità d’imbonitori dei passanti. 

L'iniziativa del governo di Zelensky contro la censura di Mosca. L’elenco dei prigionieri russi: “Mamme venite a prenderli a Kiev, i soldati morti Putin li brucia nei forni crematori”. Redazione su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

“Madri russe venite a Kiev e prendete i vostri figli“. E’ quanto chiede Anton Gerashchenko, consigliere del ministro degli interni ucraino, che sui social ha diffuso il primo elenco dei prigionieri di guerra dell’esercito russo, accusato di aver invaso il territorio “della pacifica Ucraina. Ci saranno molte altre liste come quelle dei soldati occupanti morti. E sai di chi è la colpa, di Putin” aggiunge. In questa prima lista diffusa dal governo ucraino sono presenti poco più di cento nomi.

“Dopo l’inferno a cui sono sopravvissuti invadendo la nostra terra, sappiamo con certezza che nessuno di loro alzerà un dito contro l’Ucraina. Vi chiedo di trasmettere queste informazioni a migliaia di sfortunate madri, russe, i cui figli sono stati catturati in Ucraina”. Poi annuncia l’intenzione di voler “dare i soldati russi prigionieri alle loro madri” sole “se vengono in Ucraina, a Kiev” a prenderli.

Negli ultimi giorni le autorità russe hanno limitato sempre più l’accesso ai social network e a Internet in generale (con gravi ripercussioni per i media liberi), oltre alla censura imposta dal governo con la Duma, il Parlamento russo, che ha approvato con un voto all’unanimità una legge che modifica il Codice penale per contenere la diffusione di ‘fake news’ sulle operazioni dell’esercito russo. Il provvedimento introduce una responsabilità criminale per la diffusione di false informazioni sulle forze armate russe. In base alla gravità del reato sono previste multe e anche la prigione: si rischiano fino a 15 anni di carcere.

Così Gerashchenko ha chiesto di aiutare a trasmettere queste informazioni a migliaia di sfortunate madri i cui figli sono stati catturati in Ucraina. Ci sono una serie di numeri telefonici e altre informazioni per avere notizie sui soldati russi presenti in Ucraina. “Dopo l’invasione dell’esercito fascista di Putin e la chiusura dello spazio aereo, si può fare solo così – chiarisce -: arrivare a Kaliningrad o Minsk. Da lì in autobus o in taxi fino al confine polacco. Poi attraverso il territorio della Polonia dovremo arrivare al KPP con l’Ucraina. Verrai incontrato e accompagnato a Kiev, dove tuo figlio sarà trasferito da te. Noi ucraini, a differenza dei fascisti di Putin, non combattiamo con le madri e i loro figli prigionieri. Vi aspettiamo a Kiev”.

Secondo il governo guidato da Zelensky, dall’inizio del conflitto sarebbero oltre 9mila le vittime nell’esercito di Putin. Nelle score ore il presidente ucraino ha accusato l’esercito russo di aver portato con sé “un forno crematorio” per bruciare i corpi dei soldati e “non doverli mostrare alle loro madri”. “I soldati russi stanno morendo e nessuno conta i corpi”, ha detto in conferenza stampa Kiev, accusando Mosca di voler nascondere il numero dei morti fra i militari perché il popolo russo ignori il vero costo de conflitto.

(ANSA il 3 marzo 2022) - Gli Stati Uniti hanno accusato la Russia di aver lanciato una "guerra totale alla libertà dei media e alla verità" bloccando le testate giornalistiche indipendenti e impedendo ai russi di accedere alle notizie sull'invasione dell'Ucraina. Lo ha affermato in un comunicato il Dipartimento di Stato americano, secondo quanto riporta il Guardian. "Il governo russo sta anche limitando le piattaforme Twitter, Facebook e Instagram su cui decine di milioni di cittadini russi fanno affidamento per accedere a informazioni e opinioni indipendenti", recita la nota ricordando che i russi usavano i social media anche per connettersi tra loro e con il mondo esterno.

(ANSA-AFP il 4 marzo 2022) - Le pagine internet di Facebook e di vari media indipendenti o internazionali sono diventati in parte inaccessibili in Russia. Lo hanno constatato il servizio di monitoraggio GlobalCheck et i giornalisti dell'Afp a Mosca. Oltre a Facebook, problemi di accesso sono stati riscontrati anche al sito-giornale indipendente russo con sede in Lettonia, ma anche la tv tedesca Deutsche Welle, Radio Free Europe/Radio Liberty (Rte/Rl) del Congresso americano e i servizi in lingua russa della Bbc.

Marco Imarisio per corriere.it il 4 marzo 2022.

Goodbye Lenin, ma mica poi tanto. Non era un addio, era un arrivederci. Sta succedendo in fretta. La chiusura di Radio Eco di Mosca e di Rain.tv era solo un preambolo. Adesso, anche Bbc Russia non è più visibile, così come il sito di informazione Medusa , che già produceva contenuti con una redazione sparsa per mezza Europa. Nel pomeriggio la Bbc ha deciso di ritirare tutti i suoi giornalisti dalla Russia. E non finisce qui. Alla «block list» si aggiungono anche Facebook e Twitter: le due piattaforme sono state bloccate in tutto il Paese dall’autorità per le comunicazioni Roskomnadzor.

L’aggiornamento della lista di proscrizione è quasi un lavoro a tempo pieno. Al momento in cui scriviamo, benché non ancora vietati da un provvedimento della procura generale, i siti di Deutsche Welle e di Radio Liberty risultano quasi inaccessibili, la rivista Village ha comunicato la disdetta dei suoi uffici a Mosca. La stretta sui bulloni che regolano l’informazione era stata annunciata. Una settimana fa, il Comitato statale per l’editoria e i mezzi di comunicazione aveva intimato a dieci testate indipendenti di cancellare dai loro siti le notizie prese da «fonti nemiche o erronee» proibendo “con effetto immediato” l’utilizzo della parola guerra. Era più di un avvertimento. Si trattava di un ultimatum, al quale hanno fatto seguito i fatti.

La Bbc ha risposto al blocco russo offrendo i propri contenuti sul dark web, il web «sommerso». Sul proprio sito ha rilanciato una breve guida che insegna ad aggirare i blocchi della censura usando Tor, un browser gratuito votato alla privacy. Utilizzata in passato per aggirare altre censure, propone di installare il programma e andare su due indirizzi ad hoc, uno in russo e l’altro in ucraino per continuare a leggere le notizie come sempre. I due indirizzi funzionano solo con quel programma e non sono accessibili da browser classici come Chrome, Safari o Firefox.

La guerra non c’è, non esiste, ma stiamo andando verso una informazione di guerra, fatta solo di bollettini ufficiali. La Duma in seduta congiunta ha appena approvato in fretta e furia, condensando le tre abituali letture del testo in una sola tornata, con 410 voti favorevoli e zero contrari, un emendamento al Codice penale russo che trasforma in un reato la diffusione di notizie false e che gettano discredito sull’esercito russo. Esisteva già una legge simile.

La novità è che il massimo della pena prevista è stato alzato da 3 a 15 anni. La nuova legislazione entrerà in vigore già da domani. Il bersaglio è sempre il solito, l’informazione indipendente online. È una strategia che risponde a una logica ben precisa. È la Russia della televisione dal pensiero unico e governativo opposta a quella di Internet. Non è un caso che il governo continui a limitare l’accesso a Facebook, dove gli account che espongono scritte contro la guerra vengono oscurati a getto continuo. 

La dolorosa scelta di Dmitrij Muratov. Il bavaglio di Putin contro l’informazione libera: la Bbc ritira i giornalisti, Novaya Gazeta elimina gli articoli sulla guerra. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Marzo 2022. 

Che in Russia tiri una bruttissima aria per quanto riguarda la libera informazione è cosa ormai nota, e non solo in questi giorni di conflitto scatenato da Putin nella vicina Ucraina. Ma l’escalation messa in atto dal Cremlino per silenziare le voci indipendenti nel Paese si sta facendo sempre più pressante.

Un accerchiamento che ha costretto la Novaya Gazeta, uno dei pochi giornali indipendenti russi, il cui direttore Dmitrij Muratov ha vinto nel 2021 il premio Nobel per la pace, ha annunciato oggi che cancellerà i contenuti prodotti finora sull’invasione dell’Ucraina, facendo chiaramente intendere che interromperà la copertura delle operazioni militari.

“Siamo obbligati a cancellare molti contenuti, ma abbiamo deciso di continuare a lavorare”, ha fatto sapere il giornale, spiegando che i continuerà a scrivere delle conseguenze “socio-economiche” della guerra e denunciando come la censura militare russa “è entrata in una nuova fase”.

La legge contro le ‘fake news’

L’annuncio del giornale diretto da Muratov arriva nella stessa giornata in cui la Duma, il Parlamento russo, ha approvato con un voto all’unanimità una legge che modifica il Codice penale per contenere la diffusione di ‘fake news’ sulle operazioni dell’esercito russo. Il provvedimento introduce una responsabilità criminale per la diffusione di false informazioni sulle forze armate russe. In base alla gravità del reato sono previste multe e anche la prigione: si rischiano fino a 15 anni di carcere.

La stretta all’informazione libera

Da giorni, con l’escalation militare in Ucraina, il Cremlino si sta spingendo sempre più in là nelle limitazioni alla libertà di stampa e di parola. Le autorità russe hanno “limitato” nella giornata odierna l’accesso ai siti internet della Bbc, di Deutsche Welle, della testata online Meduza e di Radio Liberty.

Proprio la Bbc ha comunicato oggi di aver sospeso temporaneamente il lavoro dei suoi dipendenti in Russia, spostando le sue attività radiotelevisive all’estero. Una scelta, ha spiegato l’amministratore delegato dell’emittente Tim Davie, legata alla legge contro le ‘fake news’ approvata dalla Duma. Un provvedimento che “sembra criminalizzare il giornalismo indipendente”, ha denunciato Davie.

Nella giornata di ieri invece la radio liberale Eco di Mosca aveva annunciato la chiusura e anche la tv indipendente Dozhd ha sospeso la propria attività. Nei giorni scorsi, entrambe le emittenti erano state bloccate dalle autorità russe.

La chiusura di Facebook e Twitter

La Russia nelle score ore ha inoltre bloccato l’uso di Facebook nel Paese. Lo hanno annunciato le autorità moscovite. Una decisione presa in risposta alle restrizioni all’accesso ai media russi sulla sua piattaforma. Il titolo di Meta Platforms, la società a cui fa capo Facebook, perde oggi a Wall Street circa l’1,5%. Bloccato in Russia anche Twitter, rende noto Moscow Times. L’autorità russa per le comunicazioni, Roskomnadzor, aveva annunciato in precedenza, il blocco di Facebook.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Disinformazione ed esasperazione del dibattito sotto la bandiera di Putin. Gianni Riotta su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Una ricerca “Reputation Science”, condotta dal 21 febbraio al primo marzo, da un team guidato da Auro Palomba, seguendo influencer novax-nogreenpass e flussi di condivisione dei loro contenuti, coglie la correlazione con il movimento pro Putin, stesse direzioni, stesse fonti.

“Contro il governo Draghi”, “No Vax e No Greepass”, “Contro gli Stati Uniti”, “Contro l’Unione Europea” sono gli slogan; una bandiera tricolore l’icona nelle biografie online, con l’emoji del mattone dei complottisti; in gran parte a Roma la geo localizzazione: la tribù digitale degli influencer che hanno guidato, in Italia, la protesta contro vaccini e greenpass, si arruola compatta sotto le bandiere del presidente russo Vladimir Putin, a favore dell’invasione dell’Ucraina.

Sputnik, Dugin e la censura sulla guerra in Ucraina: chi sono i megafoni di Putin. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 04 marzo 2022

Ci sono le riviste online degli oligarchi fanatici dell’impero, c’è Il filosofo vicino alla Lega felice per la censura. E il sistema pubblico di siti e televisioni di propaganda che esaltano “l’operazione militare” del presidente.

Aleksandr Dugin è il filosofo sostenitore del grande impero russo, da sempre si accompagna all’estrema destra europea, Lega di Salvini inclusa. Dugin esalta l’invasione di uno stato sovrano. Lo fa dal profilo VKontakte, il social network russo concorrente di Facebook.

Nel 2013 Putin ha voluto Kiselyov a capo della nuova media company di stato Rossiya Segodnya: alla nuova società controllata dal governo fanno capo le due testate RT e Sputnik, messe al bando nei giorni scorsi dal consiglio dell’Unione europea accusate di diffondere informazioni false sulla guerra in Ucraina. GIOVANNI TIZIAN

Il giorno in cui Mosca spegne i media: bloccati anche Facebook e Twitter. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

La Duma vota una legge che alza da 3 a 15 anni il carcere per chi diffonde «menzogne» sull’Armata. E anche i grandi network internazionali ritirano i giornalisti.

Goodbye Facebook, altro che Lenin. La Russia sta correndo in fretta verso un medioevo digitale. Ieri sera, dopo una riunione d’urgenza, l’implacabile Roskomnadzor ha chiuso i conti con il più diffuso social del mondo, proibendone e impedendone l’uso in tutta la nazione. La commissione governativa che potremmo definire come una parente, alla lontana grazie a Dio, della nostra Authority per la comunicazione, accusa il colosso americano di avere violato i diritti umani e la libertà del popolo russo, proponendo una informazione unilaterale, come sarebbe dimostrato dall’esclusione dalla propria piattaforma di alcuni media governativi.

Nel mondo rovesciato della Russia di questi giorni, le cose succedono in fretta. La chiusura di Radio Eco di Mosca, l’emittente divenuta famosa per aver documentato in diretta il tentato Golpe del 1991, era solo un preambolo. Ieri mattina, la procura generale ha comunicato anche alla redazione russa della Bbc che sarebbe andata offline, stesso messaggio recapitato al sito di informazione Meduza, che già produceva contenuti con una redazione sparsa per mezza Europa.

E non finisce qui. L’aggiornamento della lista di proscrizione è ormai diventato un lavoro a tempo pieno. I siti di Deutsche Welle e di radio Liberty, benché non ancora vietati da un provvedimento della procura generale, risultano ormai inaccessibili, la rivista Village ha comunicato la disdetta dei suoi uffici a Mosca. La stretta sui bulloni che regolano l’informazione era stata annunciata. Una settimana fa, il Comitato statale per l’editoria e i mezzi di comunicazione aveva intimato a dieci testate indipendenti di cancellare dai loro siti le notizie prese da «fonti nemiche o erronee», proibendo «con effetto immediato» l’utilizzo della parola guerra. Era più di un avvertimento. Si trattava di un ultimatum, al quale sono seguiti i fatti.

La guerra non c’è, non esiste, ma stiamo andando verso una informazione di guerra, fatta solo di bollettini ufficiali. La Duma in seduta congiunta ha appena approvato in fretta e furia, condensando le tre abituali letture del testo in una sola tornata, con 410 voti favorevoli e zero contrari, un emendamento al Codice penale russo che trasforma in un reato la diffusione di notizie false e che gettano discredito sull’esercito russo. Esisteva già una legge simile. La novità è che il massimo della pena prevista è stato alzato da 3 a 15 anni. La nuova legislazione entrerà in vigore già da domani. Il bersaglio è sempre il solito, l’informazione indipendente. Leonid Nikitinskij, uno dei commentatori più esposti di Novaya Gazeta, il giornale diretto dal Premio Nobel Dmitrij Muratov, che pur di continuare a uscire ha scelto di piegarsi al diktat, commenta sconsolato: «D’ora in poi il giornalista diventa come il soldato addetto allo sminamento, che può sbagliare una sola volta». La strategia del Cremlino risponde a una logica ben precisa. È la Russia della Televisione dal pensiero unico e governativo opposta a quella di Internet. La misura senza precedenti nei confronti di Facebook ne è una prova. Nei giorni scorsi erano già stati oscurati alcuni account che esponevano scritte contro la guerra. Ma un provvedimento così draconiano sembra essere qualcosa più di una semplice censura. Assomiglia molto a una scelta di campo.

L’ecosistema russo di Internet si sta allontanando sempre più dall’Occidente. Il Roskomnadzor colpisce i social più noti, li spinge ai margini o all’abbandono. Sta succedendo ovunque. I simboli del mondo globalizzato stanno sparendo dalla Russia. Non c’è più Ikea, non ci sono più Google, Spotify, Apple e Microsoft. Se ne sono andati alcuni grandi marchi del lusso come Vuitton, Hermes, Chanel: altri seguiranno.

Quel che appare certo è il restringimento di qualsiasi margine di manovra. In ogni campo della società. La Bbc ha richiamato i suoi giornalisti, invitandoli a lasciare la Russia. Con la nuova legislazione, lavorare diventa molto difficile. Al momento in cui scriviamo, è cominciato anche il blocco di Twitter. Non si conosce ancora la sorte di Instagram e Whatsapp. Una certa idea su quel che potrebbe accadere ce la siamo fatta. In tutto il mondo, solo altri due Paesi applicano una censura così rigida su Facebook. Non c’è più l’Unione sovietica. Ma la Cina, e la Corea del Nord, non sono mai state così vicine.

Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” il 6 marzo 2022.  

A Donald Trump c'è voluto relativamente poco perché gli censurassero l'account su Twitter e poi glielo bloccassero definitivamente, a Vladimir Putin non è bastata un'invasione, qualche migliaio di morti, bombardamenti, distruzioni e minacce varie tra le quali l'uso della bomba atomica. Il suo account Twitter incredibilmente è ancora lì nel momento in cui scriviamo questo articolo, attivo, con i suoi 1,5 milioni di followers, l'ultimo post risale a un giorno fa o poco più. 

E non conta se oggi lo faranno sparire, perché comunque è sopravvissuto ad almeno 10 giorni di guerra e stragi, più altre settimane di minacce. Ovviamente a tale accusa il social americano potrebbe rispondere che in fondo Putin non ha violato le regole della piattaforma, mentre Trump a suo tempo le avrebbe infrante ripetutamente, almeno 65 volte con altrettanti messaggi ai quali è seguita debita censura e infine, dopo l'assalto al Campidoglio e uno degli ultimi messaggi in cui in realtà invitava i rivoltosi ad andare a casa, la definitiva cancellazione. 

Vero, i tweet postati da Putin o da chi per lui sul suo account ufficiale sono generici, semplici messaggi sulle sue attività giornaliere, incontri, videochiamate, comunicati ripetitivi da ufficio stampa senza velleità. La pantomima continua anche durante la guerra, sembra perfino non stia succedendo niente. L'invasione viene definita una volta semplicemente «situation around Ukraine», un'altra «operation to protect Donbass», a seconda della telefonata o dell'incontro annunciato. 

A parte Macron i nomi citati sono quelli dei capi di Stato che gli sono rimasti fedeli, il presidente Venezuelano Nicolas Maduro, quello indiano Narendra Modi, il dittatore cinese Xi Jinping, il siriano Assad, una bella compagnia. Putin dunque non avrebbe violato le regole di Twitter che si preoccupa teoricamente di vigilare sui tweet e non su chi li scrive, stando attenti che tali messaggi non contengano "contenuti violenti e sensibili, "atti di terrorismo, violenza minorile, abusi e molestie, autolesionismo e suicidio, beni e servizi illegali o dichiarazioni che incitano all'odio e alla violenza". 

Ebbene tutto questo nei post di Putin non c'è, ma c'è nelle sue azioni, nella sua politica, negli ordini che dà ai suoi sottoposti e al suo esercito, nei messaggi che manda al mondo intero. Sarebbe come permettere a un assassino conclamato di conservare la sua posizione sociale come se nulla fosse. Non a caso anche il nostro codice prevede l'interdizione ai pubblici uffici a chi si macchia di reati gravi, indipendentemente dal fatto che il reo possa o meno utilizzare i pubblici uffici per reiterare il reato. 

Putin comunque è in buona compagnia, col suo permangono sul social l'account di Maduro che ha ridotto alla fame il suo popolo, o quello dell'ayatollah Khamenei che predica la cancellazione di Israele, e perfino quello del portavoce dei talebani Mujahid Zabihullah, profilo utilizzato per promuovere la propaganda durante e dopo la violenta presa del potere in Afghanistan. 

«Putin ha fatto della Russia il mondo di Orwell». Parla la giornalista Albats. La propaganda russa è una guerra parallela alla realtà: nel giro di un giorno, bloccati tre media indipendenti, mentre alla tv di Stato si spiega che gli ucraini si bombardano da soli. «Siamo governati da una corporazione fascista», dice la direttrice del soppresso magazine moscovita New Times. «La colpa è anche vostra: Putin ha corrotto i politici occidentali». Riccardo Amati su L'Espresso il 3 Marzo 2022.

«Irina, ma tu ci credi a quel che dice la tivù?» «Sì, è quel che dice il governo, quindi ci credo». Il televisore da 65 pollici copre mezza parete nel salottino dell’appartamento al dodicesimo piano di un palazzone tardo-sovietico in una selva di palazzoni tardo-sovietici alla periferia di Mosca. Sullo schermo, un servizio in cui si spiega che il missile sul palazzo della Regione nella piazza principale di Kharkiv gli ucraini se lo son tirato da soli.

Chiuse le ultime due catene televisive indipendenti. Regime e ricchezza, così Putin ha imposto il suo regime e soppresso la cultura. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

L’impressione che tutti abbiamo da parecchi decenni e che la Russia ma anche l’ultimo periodo dell’Unione Sovietica, non produca più nulla sul piano culturale, sia artistico che scientifico. Naturalmente non è esattamente così perché specialmente gli scienziati e in particolare i fisici sono piuttosto curati da un sistema che si fonda da una parte su armamenti pesanti e dall’altra sulla spremitura delle risorse energetiche naturali come il gas e il petrolio. Ma, se ci fate caso, capita rarissimamente di vedere un bel film russo, ascoltare musica moderna russa, leggere un romanzo che sia anche un successo editoriale, non emergono più pittori benché ce ne siano centinaia di migliaia, l’architettura sembra decadente oppure importata dall’occidente tecnologico.

Naturalmente tutto ciò fa parte di una impressione che si è confermata anche quando l’Unione Sovietica è collassata e al suo posto è rimasta una grande Russia che rivuole a tutti i costi vedi mettere insieme l’impero. Se ricordiamo bene, l’ultimo grande romanzo russo e stato Il dottor Zivago, fatto uscire clandestinamente hai tempi bui di Leonid Breznev… no, non riusciamo a ricordare nulla di nuovo ed importante più tardi. Che cosa ne è stato dunque di un Paese che ha dato nomi più che eccellenti alla cultura europea e mondiale come Cechov, Dostoevskij, Puskin, Tolstoj, Sholokhov, Turgenev, Bulgakov, Lermontov e Solzenicyn? Impossibile saperlo. La sensazione è che dopo la distruzione della borghesia avvenuta sotto Lenin e Stalin, morti anche gli ultimi epigoni del dissenso, nella Russia di Vladimir Putin non ci sia granché. Certo, milioni di esseri umani che tirano la carretta cercano di ottenere delle licenze commerciali dal governo con cui vivere decentemente talvolta anche sfarzosamente, ma lo spirito dell’arte sembra entrato in letargo. Ricordiamo con incartapecorita nostalgia i pittori allucinati sulla via Arbat nell’ultima fase del governo Gorbaciov.

Ma con tutto il dolore e il rispetto ci viene da dire che la Russia europea sia estinta oppure viva nelle nuove catacombe di un regime che ha occhi e manette su tutti, arresta chi protesta contro l’invasione dell’Ucraina, impone dei social media controllabili dal potere. Giusto l’altro ieri sono state chiuse due delle ultime catene televisive indipendenti. Anche i blog hanno vita grama e se il Cremlino ordina che non si debbano mai usare parole come guerra, invasione, uccisioni di civili, quegli ordini diventano a livello più basso il limite dell’espressione giornalistica e culturale. Non circolano più nemmeno opere di scrittori dissidenti, costretti nell’era sovietica a pubblicare all’estero i loro Samizdat che all’interno delle grandi città passavano di mano in mano. Se quella dell’era Breznev e fino alle aperture di Michail Gorbaciov, meritò il nome di “Stagnazione”, l’epoca più che ventennale di Putin potrebbe essere definita come l’età del disprezzo.

È evidente che l’ideologia putiniana, è andata involvendosi in una progressione di esaltazioni nazionaliste con continui richiami alla Grande Russia (che sia poi quella di Pietro il Grande o di Stalin poco importa), compensate da una ideologia che si potrebbe definire dei nuovi ricchi. Si tratta sempre di quei personaggi che si impossessarono – nella prima fase della crisi sovietica – del tesoro russo e di quello del Pcus, e che poi hanno sorretto in forme diverse sia Eltsin che Putin, il quale fu scelto dall’ultimo leader sovietico. Ma gli oligarchi ormai non contano molto, salvo la ristretta cerchia che fiancheggia il presidente e capo assoluto, e questi oligarchi si sono visti strappare di mano uno dopo l’altro i business della televisione, dei social, della comunicazione e persino dell’intrattenimento, perché tutti i veicoli espressivi sono stati chiamati a tener conto del gradimento del governo e del suo capo onnipotente. È un dato di fatto che le famiglie dei giovani soldati mandati a combattere in Ucraina contro la popolazione, ignorassero questa realtà e credevano che i loro figli stessero solo partecipando ad una grande esercitazione militare.

Siamo così arrivati all’uso dei sistemi di comunicazione anche culturale consentiti o vietati soltanto in base alla funzione di appoggio o di ostilità nei confronti del governo che non sponsorizza neppure una propria forma di cultura o di arte amica, per quanto ideologica come avveniva con il realismo socialista, ma tendenzialmente mostra pura e semplice antipatia per ogni dimostrazione di indipendenza, dopo aver creato un dizionario delle parole all’indice e dei fati storici da tenere sotto tutela, come il negato periodo di collaborazione fra Germania e Urss durante il primo anno e mezzo di guerra. Tacete, arricchitevi, non date fastidio e obbedite: queste sembrano essere le parole d’ordine di una autocrazia disinteressata all’egemonia cultura e che si limita a scoraggiare, solo nei casi estremi sopprimere, tutto ciò che rappresenti un elemento di semplice fastidio per un governo. E il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: non solo non rinascono Gogol e Tolstoj, ma il pianeta culturale russo, una volta splendido e clamorosamente produttivo.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Francesca Sforza per “la Stampa” il 4 marzo 2022.

«Il peggio deve ancora venire». Così ha detto Vladimir Putin in una telefonata con il presidente francese Emmanuel Macron, e così ha ripetuto anche davanti alla televisione di Stato: «Non ritornerò mai indietro rispetto alla mia dichiarazione che Russia e Ucraina sono un unico popolo. Siamo in guerra contro i neonazisti, distruggeremo l'anti Russia creata dall'Occidente. Nessuno può minacciarci, nemmeno con le armi nucleari».

La guerra continuerà, si farà ancora più dura, sul territorio con i militari e in patria con la propaganda, come dimostra l'attività del governo russo, che si prepara a rafforzare il suo arsenale legale con un disegno di legge che prevede fino a 15 anni di reclusione per qualsiasi pubblicazione di «fake news» riguardante le forze armate. Il provvedimento sarà esaminato alla Duma durante una sessione straordinaria oggi stesso, così come sarà presa in esame la possibilità di inasprire le pene per chi «porta avanti attività contro la sicurezza della Russia». 

Non è un'«invasione», non è un'«offensiva», non è neanche una «guerra». Casomai un'«operazione militare», e chi usa altre parole può considerarsi un «agente straniero». Queste le indicazioni contenute nella lettera che si sono visti recapitare ieri dalla procura russa una decina di media indipendenti, due dei quali - Radio Echo Moskvy e Tv Dozhd - hanno subíto restrizioni negli accessi da parte dell'agenzia delle comunicazioni e sono stati costretti a sospendere la programmazione.

Gli altri, per adesso soltanto minacciati di chiusura, sono i siti di informazione politica InoSmi, Mediazona, Svobodnaya Pressa, Krym.Realii, il magazine economico Zhurnalist e il quotidiano Novaja Gazeta, il cui editore è il Nobel per la Pace 2021 Dmitri Muratov. 

Una stretta che dà la misura del vento di censura che soffia su Mosca, soprattutto se si guarda al contenuto dei media minacciati, tutt' altro che «eversivo», anche volendo sforzarsi di applicare la logica del censore: InoSmi ieri apriva accusando la Repubblica Ceca di aver fatto credere all'Ucraina che poteva entrare nella NATO e nell'Ue (provocando quindi la reazione russa); Mediazona dava il numero delle vittime comunicato ufficialmente dalla Difesa russa (500 morti e 1600 feriti); Svobodnaja Pressa interveniva sulla rabbia dei commercianti di grano, «scossi dal fatto che Washington abbia comminato sanzioni contro Mosca».

Come ha osservato Galina Timchenko, del sito di news Meduza, basato in Lettonia, «il fine di Putin sembra essere quello di mettere a tacere chiunque non sia d'accordo con lui, costringendolo alla fuga, o riducendolo al silenzio». Del resto, la chiusura di Radio Eco di Mosca parla per tutti: non c'è praticamente giornalista straniero che non abbia incontrato almeno una volta il suo direttore Alexey Venediktov, da sempre impegnato nel denunciare ingiustizie, storture e sperequazioni nella società russa e da sempre però abituato a fare lo slalom con i controllori del regime, usando parole attente, evitando insulti o accuse feroci. «Bastano i numeri - amava ripetere - quelli non sbagliano mai, e sono difficili da mettere in discussione».

In genere erano i numeri, nei servizi di REM a raccontare la Russia: i disoccupati, le cifre delle pensioni e degli stipendi, il numero di bambini negli orfanotrofi. «Se mi sbaglio le autorità possono sempre correggermi e io darò conto della loro opinione», diceva. Ma qualcosa è cambiato, come dimostra peraltro la definitiva chiusura di Memorial, l'ong fondata da Andrey Sacharov che ha documentato i crimini stalinisti (ma anche quelli commessi in Cecenia e nel Caucaso) e che proprio in questi giorni ha ricevuto la sentenza conclusiva del procedimento in corso.

Con la chiusura di Memorial - difesa senza alcun esito da lettere aperte di intellettuali e accademici - in molti si chiedono oggi che fine faranno quei preziosi archivi, raccolti in decenni di duro lavoro. Ma la guerra in corso sta spazzando via questo e altri interrogativi, riducendo tutto e tutti sotto un unico capo di accusa, quello di fiancheggiare il nemico ed essere un «agente straniero», espressione sovietica riportata nell'uso comune come non fosse passato un giorno.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 2 marzo 2022.

Sambuca News. In due pregiati articoli di Vecchio e Folli, Repubblica stila le liste di proscrizione del "partito russo" in Italia e vi iscrive il Fatto, "No Vax", "No Green pass", 5Stelle, "Pino Cabras, analista finanziario contrario al Mes" (roba da fucilazione) e "il putiniano più illustre". Chi è, B.? No, Egli ora è buono e non ha mai detto "Putin è un dono del Signore". È Salvini. E quale quotidiano ospitava fino a pochi anni fa l'inserto Russia Oggi a cura della propaganda (e dei rubli) di Putin? Il Fatto? No, Repubblica, che comprensibilmente glissa.

Estratto dell’articolo di Lorenzo Giarelli per “il Fatto quotidiano” il 2 marzo 2022.  

Dal 2010 fino al 2016, Repubblica è uscita in edicola con un supplemento mensile dal titolo Russia Oggi (a un certo punto trasformato in Russia Beyond), evidente richiamo a quel Russia Today oggi bandito da tutto l'Occidente per essere emanazione mediatica del governo di Mosca.

D'altra parte era lo stesso giornale allora diretto da Ezio Mauro ad ammettere il legame tra il Cremlino e il suo supplemento: "Questo inserto - si poteva leggere in uno degli avvisi che accompagnavano la pubblicazione - è stato realizzato senza la partecipazione dei giornali e dei redattori di Repubblica. È finanziato dai proventi dell'attività pubblicitaria e dagli sponsor commerciali, così come da mezzi di enti russi". 

Gli "enti russi" fanno riferimento a Rossiyskaya Gazeta, ovvero il quotidiano (a sua volta finanziato da Mosca) che curava la realizzazione dell'inserto. Stare dietro alle scatole cinesi - o alle matrioske, visto il contesto - può essere complicato, ma il senso è chiaro: per anni Repubblica ha fatto uscire in Italia una rivista megafono delle magnifiche sorti e progressive della Russia. È lì che si sono potuti leggere analisi del tipo: "Dialogo, impegno e pacifismo: i sentieri della democrazia".

LE FAKE NEWS.

Dopo Kherson. Il mistero dei grandi esperti del conflitto, che dicono sempre il contrario di quello che accadrà. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 12 Novembre 2022

Le hanno sbagliate tutte, sempre nella stessa direzione (quella della propaganda russa), ma non si ritirano mai. Anzi, continuano a essere invitati, intervistati e interpellati come oracoli. Per quale ragione?

Da febbraio a oggi un gran numero di esperti, quotidianamente ospitati da giornali e tv, ci ha spiegato, sempre con inflessibile perentorietà, come sarebbero andate le cose a loro giudizio.

Generali, filosofi, sociologi, politologi e geopolitologi delle più diverse provenienze ci hanno assicurato, nell’ordine, prima che i ripetuti allarmi lanciati dagli Stati Uniti sull’imminente invasione russa erano pura propaganda (perché Mosca non avrebbe mai attaccato l’Ucraina), poi che la Russia avrebbe conquistato l’intero Paese in poche settimane (e dunque la resistenza era un sacrificio del tutto inutile), infine che la controffensiva di Kyjiv non aveva alcuna possibilità di cambiare gli equilibri (perché i russi non avrebbero mai lasciato il terreno conquistato), e qualcuno addirittura che era già fallita, in particolare proprio nella regione di Kherson, anche se i grandi giornali – i «giornaloni» e i «media mainstream», per usare il loro atroce lessico – non ce lo dicevano. E infine, sempre lo stesso qualcuno di prima, che a Kherson sarebbe stato un «bagno di sangue» perché «i russi intendono combattere per mantenerla».

La ritirata russa da Kherson, annunciata già da qualche giorno su tutte le televisioni russe, comprese le trasmissioni dei propagandisti putiniani più radicali, dimostra che i loro epigoni italiani hanno ormai superato il modello, e i talk show moscoviti sono persino più attendibili di certi talk show e di molti giornali (sia «ini» sia «oni», a dir la verità) del nostro Paese.

Da ultimo i nostri raffinati analisti, sempre gli stessi, dopo essersi dimostrati capaci di mettere in dubbio le evidenti atrocità di Bucha e di presentare le peggiori fake news russe sull’ospedale di Mariupol come questioni assai controverse, dopo aver detto che i russi avrebbero vinto in cinque minuti e poi che gli ucraini non avrebbero vinto nemmeno in un milione di anni, hanno ripiegato sulla tesi secondo cui l’umiliazione di Vladimir Putin aumenterebbe il rischio di un’apocalisse nucleare.

Nel frattempo, quella controffensiva ucraina che secondo le loro previsioni non avrebbe mai dovuto neanche partire liberava ogni giorno nuove città e nuovi villaggi, da cui emergevano ogni volta nuove fosse comuni e nuove camere di tortura, di cui i suddetti esperti raramente facevano parola. Perché avrebbero dovuto ammettere che è lì che avrebbero lasciato gli abitanti di quelle zone, fosse stato per loro, ed è lì che lascerebbero domani i residenti delle regioni ancora occupate, quando parlano della necessità di trattare con la Russia, ovviamente sempre alle condizioni della Russia.

Il punto non è solo che non ne hanno azzeccata una. Il punto non è solo che hanno sbagliato sempre nella stessa direzione, contro tutte le leggi della statistica e anche contro quel minimo di furbizia che normalmente spinge qualsiasi analista a dare, almeno ogni tanto, un colpo al cerchio e uno alla botte.

Il punto è che nonostante le abbiano sbagliate tutte, e nonostante abbiano sbagliato sempre nella stessa direzione (quella della propaganda russa), hanno continuato a essere invitati, intervistati e interpellati come autorevolissimi esperti da giornali e televisioni, da dove continuano a sfornare previsioni con la stessa inscalfibile sicumera, come se niente fosse.

Escludendo che tante autorevoli personalità – ma soprattutto tante reti televisive e tanti giornali – siano tutti a libro paga di Putin, ci dev’essere senz’altro una ragione che spieghi un comportamento così irrazionale. Se vi dovesse venire in mente, scrivete alla redazione.

L’ennesima bufala di Repubblica e Open sulle tombe russe a bordo strada.  Enrica Perucchietti su L'Indipendente l’11 novembre 2022.

Nelle ultime settimane i media internazionali stanno dedicando ampio spazio al forte numero di perdite da parte dell’esercito russo, evocando il paragone innescato da Newsweek, con il Vietnam. Si moltiplicano così gli articoli dedicati al malcontento delle truppe, al “sacrificio di vite”, addirittura alla “strage dei riservisti”, abbandonati e lasciati morire, inadeguatamente formati e attrezzati. 

Qualche giorno fa una lettera firmata dai «marinai della 155esima brigata della flotta del Pacifico» e indirizzata al governatore di Primorye, Oleg Kozhemyako, ripresa dalla Cnn, ha fatto il giro del mondo, destando orrore, sdegno e compassione per il destino dei soldati russi massacrati nella cittadina di Pavlivka, vittime di una trappola ucraina. Il Cremlino ha minimizzato l’entità delle perdite, respingendo le accuse lanciate nella lettera, come riportato da Novaya Gazeta, destando persino sospetti sulla genuinità della missiva. 

In Italia numerose testate hanno condiviso il contenuto della lettera, diffondendo l’idea che ci sia una rivolta in corso contro i vertici militari (Adnkronos: “Russia, unità élite dell’esercito si rivolta contro comandanti”), sebbene la stessa Repubblica in un breve passaggio dell’articolo, carico di pathos, ammetta che si possa trattare di un “apocrifo” e di “una polpetta avvelenata” architettata dall’intelligence militare ucraina. I media di massa hanno però preferito, sulla base della tecnica dell’empatia, ignorare la replica del Cremlino e solidarizzare con i presunti autori della missiva che attesterebbe la narrazione sulla catastrofe in corso tra le fila delle truppe russe. 

La comunicazione emotiva sfrutta infatti l’empatia per creare un corto circuito a livello razionale e veicolare una suggestione o un’idea in maniera inconscia. Colpire l’emotività del pubblico, evocando rabbia e disprezzo verso un fatto, aumenta la probabilità di motivarlo alla condivisione della notizia. Questa tecnica si avvale anche della diffusione di fake news, in particolare in tempi di guerra, per plasmare l’opinione pubblica e orientarne il consenso.

Ad alimentare la versione delle perdite tra le truppe russe si aggiunge un filmato condiviso il 6 novembre su Twitter da Nexta TV, canale di informazione bielorusso e filo-ucraino, che mostra chilometri di tombe, a bordo strada, su cui sventolano la bandiera russa e quella dell’ex Unione Sovietica. Il filmato è accompagnato da un commento sarcastico: «Putin ha liberato il Luhansk dagli invasori». Da qua, Open e Repubblica non hanno perso tempo a pubblicare i relativi articoli sul «viale di lutti infiniti», una «fila sterminata di tombe dei soldati russi, con le corone funebri e le bandiere dei reparti», immagini che «permettono di capire il sacrificio di vite pagato dal popolo russo per l’invasione dell’Ucraina». L’idea è che i cimiteri sono sovraffollati e i soldati russi morti devono essere seppelliti sul ciglio della strada o in un’aiuola.

Dalle redazioni di questi media, solerti sostenitori di fact-checking e debunking, nessuno dei “professionisti dell’informazione” ha verificato la notizia, né si è posto alcune domande banalissime ma cruciali. Come osserva Francesco Santoianni, come si fa a essere certi che si tratti di soldati russi e non di civili ucraini (verosimilmente del Donbass)? Perché chi ha girato il video non ha deciso di riprendere anche le lapidi? Come mai l’esercito russo seppellisce i suoi soldati in Ucraina per strada? Com’è possibile che l’esercito russo abbia trovato così tanti fiori per le tombe? Domande più che lecite che sono state volutamente ignorate per suffragare la solita propaganda filo-ucraina. 

Per rispondere a queste domande e svelare la falsità della ricostruzione di Nexta, ci viene in soccorso il canale Telegram Warfakes che ha messo a confronto le immagini del video con le fotografie del New Cemetery di Kamennyj Brod a Lugansk. Le tombe del video di Nexta non sono state ricavate lungo la strada ma si trovano nel viale commemorativo dei soldati caduti del Donbass, vittime dei bombardamenti e degli eccidi commessi dal 2014 dalle truppe e milizie ucraine. Dal video si può inoltre vedere che sulle tombe precedenti sono già state installate croci di pietra e su quelle nuove, per il momento temporanee, di legno. 

La verità è, ancora una volta, molto più semplice e lineare della versione di comodo, abbracciata dai professionisti della disinformazione. [a cura di Enrica Perucchietti]

L'esercito di bot che ci ha raccontato la guerra ucraina. Piccole note l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

“Un’università australiana ha portato alla luce l’esistenza di milioni di tweet generati da account falsi che promuovono la disinformazione sulla guerra in Ucraina. La dimensione del campione fa impallidire altri studi sulla propaganda segreta di guerra attraverso i social media”. Così Consortiumnews.

L’articolo di Peter Cronan, che riferisce i risultati di una ricerca svolta dall’Università di Adelaide, dettaglia come “l’80% dei tweet sull’invasione della Russia in Ucraina” pubblicati sul social nelle prime settimane di guerra “faceva parte di una campagna di propaganda segreta originata da falsi account automatizzati prodotti da ‘bot'”.

L’invasione del web da parte dei bot pro-ucraina 

“Una campagna di propaganda anti-russa originata da un ‘esercito di robot’ di falsi account twitter automatizzati ha invaso Internet all’inizio della guerra”, prosegue Cronan. Non si trattava solo di produrre informazioni sulla guerra – o disinformazione che dir si voglia – ma anche di “aumentare la paura tra gli utenti presi di mira, alimentando un alto livello di ‘angoscia’ statisticamente misurabile nelle conversazioni online”.

“[…] La dimensione del campione preso in esame [dai ricercatori], oltre 5 milioni di tweet, fa impallidire altri studi recenti sulla propaganda segreta nei social media sulla guerra in Ucraina”.

“[…] I ricercatori dell’Università di Adelaide hanno portato alla luce una massiccia operazione organizzata di influenza pro-Ucraina in corso sin dalle prime fasi del conflitto. Nel complesso, lo studio ha rilevato che gli account ‘bot’ automatizzati hanno prodotto tra il 60 e l’80% di tutti i tweet del set di dati” analizzati.

“[…] È stato come se qualcuno avesse premuto un interruttore all’inizio della guerra, facendo improvvisamente esplodere i bot pro-Ucraina. Nel primo giorno di guerra l’hashtag #IStandWithUkraine ha prodotto ben 38.000 tweet all’ora , fino ad arrivare a 50.000 tweet all’ora al terzo giorno di guerra“.

Anche i russi hanno messo in azione i loro bot, con gli hashtag chiave #IStandWithPutin o #IStandWithRussia, ma è stata una risposta sottotono, fino ad arrivare a qualche centinaia di tweet all’ora. Tanto che un ricercatore del Center for Security Studies della Svizzera ha dichiarato: che “le operazioni informatiche [filo-russe] che abbiamo visto non mostrano una profonda preparazione e sembrano piuttosto casuali”.

Diventata più intesa nei giorni successivi, la propaganda dei bot russi è stata sommersa dalla controparte, anche perché Twitter ha individuato e bannato gli account “nemici”. Cronan mette a confronto tale ricerca con altre svolte negli Stati Uniti, che hanno analizzato pochissimi dati e parziali, concentrandosi solo sulla disinformazione russa e denunciandola come campagna propagandistica mirata alla disinformazione.

Ma, disinnescata la debole produzione russa, restano gli interrogativi sulla massiccia propaganda della controparte, come indica l’ipotesi formulata da uno dei ricercatori, il quale ha dichiarato che è “probabile che molti degli account-bot dietro i 5 milioni di tweet studiati siano ancora attivi e funzionanti”.

La guerra dell’informazione

Questa ricerca, scrive Cronan, “conferma i crescenti timori che i social media siano diventati segretamente quello che i ricercatori chiamano ‘uno strumento fondamentale nella guerra dell’informazione che gioca un ruolo importante nell’invasione russa dell’Ucraina’”.

La ricerca, riferisce Cronan è stata apolitica, volendo solo evidenziare le operazioni segrete dei duellanti, e ha scoperto un ulteriore particolare interessante, cioè che esistono “flussi di informazioni significativi di account pro-russi non bot, ma nessun flusso significativo da account pro-Ucraina non bot“.

“Oltre ad essere molto più attiva – prosegue Cronan – la parte pro-Ucraina si è rivelata molto più avanzata nell’uso dei robot automatizzati. La parte filo-ucraina, infatti, ha utilizzato più ‘bot di Astroturf’ dei filo-russi. I robot Astroturf sono robot politici iperattivi che seguono continuamente molti altri account per aumentare i follower di questi account” (simpatico… si potrebbero definire costruttori di influencer…).

Significativo questo passaggio dell’articolo: “La ricerca mostra che i falsi account ‘bot’ dei social media manipolano l’opinione pubblica modellando le conversazioni, a volte in modi molto specifici. I risultati forniscono un’indicazione agghiacciante sugli effetti cattivi molto reali che le campagne di disinformazione di massa sui social media possono avere su una popolazione civile innocente”.

“Nel maggio 2022 – prosegue Cronan – il generale Paul Nakasone, direttore della National Security Agency (NSA) e capo del cyber command degli Stati Uniti, ha rivelato  che il Cyber ​​Command aveva condotto operazioni di informazione offensive a sostegno dell’Ucraina”. Anche un team della Ue ha collaborato con gli Usa in questa operazione, che è stata legittimata come necessaria per smantellare la disinformazione russa. Noi, ha detto, Nakasone, diciamo “la verità“, a differenza dei russi.

L’informazione e la disinformazione era rivolta al mondo intero, come denotano i flussi dei tweet, con particolare riguardo agli Stati Uniti.

Manipolare il mondo

Queste le conclusioni dell’articolo:  “La tecnologia digitale sta giocando un ruolo chiave nei diversi piani in cui si dipana questo conflitto, sia nella forma di attacchi informatici volti ad alimentare ribellioni nel web sia come acceleratore dei flussi di informazione e disinformazione”, hanno scritto gli analisti della Heinrich Boll Stiftung di Bruxelles. “La propaganda è stata parte della guerra sin dall’inizio della storia umana, ma mai prima d’ora ha potuto essere diffusa in maniera tanto ampia al di là di un’area in cui si svolge il conflitto reale e mirata a così tante e diverse pubbliche opinioni“.

“Joshua Watt, uno dei principali ricercatori del team dell’Università di Adelaide, che ha condotto lo studio fondamentale, ha sintetizzato: ‘In passato, le guerre erano combattute per lo più fisicamente, con eserciti, forze aeree e operazioni navali come forme primarie di combattimento. I social media hanno creato un nuovo ambito di conflitto, nel quale l’opinione pubblica può essere manipolata su larga scala”.

“La CNN ha portato guerre un tempo lontane nei nostri salotti”, ha affermato un altro analista, “TikTok, YouTube e Twitter le hanno messe nelle nostre tasche”.

Al di là dell’allarme specifico per la manipolazione sulla guerra ucraina, raccontata in base alle “verità” elaborate dal Pentagono, val la pena ricordare che tali dinamiche inquietanti riguardano tutte le crisi di interesse geopolitico, dall’Iran alla Siria etc.

Certo, l’articolo di Cronan rivela cose già intuitivamente immaginate, ma l’evidenza scientifica non guasta. Tutto ciò, inoltre, fa intravedere perché l’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk gli sta attirando tanto contrasto. Non allineato alle linee guida dell’establishment imperiale, il miliardario rischia tanto. In gioco non ci sono solo i destini del partito democratico, espressione solo momentanea del Potere, ma interessi geopolitici-economici-finanziari colossali.

Nota a margine. Nell’articolo si parla di forze pro-Ucraina contrapposte a quelle filo-russe. Anche qui siamo nel campo della manipolazione: chiedere il dispiegamento della diplomazia, la pace per quel popolo, non è qualcosa di anti-ucraino. Anti-ucraino è chi vuole la prosecuzione di questa guerra per procura contro la Russia fino all’ultimo ucraino. 

La fabbrica delle fake news russa sta inquinando Africa e Sud America. Sono le nuove frontiere della macchina della propaganda anti-occidentale allestita da Vladimir Putin. Con veleni più subdoli in Paesi con meno antidoti di un’Europa già intossicata. Luciana Grosso su La Repubblica il 2 Novembre 2022

Africa e America Latina: se il vostro lavoro fosse quello di essere agenti della disinformazione e della propaganda russa e filoputinana, è lì che stareste guardando. Altro che le piazze, complicate e, del resto, ormai sature di Europa e Nord America. L’Eldorado della disinformazione, delle teorie del complotto, delle bufale e della propaganda, ormai, è altrove.

Si trova in società di Paesi che, per varie (e per lo più storicamente fondate) ragioni sono già intrise di sentimenti di ostilità e di rancore verso Europa e Usa e che, dunque, sono meglio disposte a bere le nefandezze che, inventate o meno, vengono dette sul loro conto.

Le mirabolanti sparate dei media mainstream sulla salute di Putin. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 28 ottobre 2022. 

Ormai è un genere letterario che da otto mesi si arricchisce di nuovi dettagli e continui colpi di scena. Dal cancro al narcisismo, dal long Covid al delirio di onnipotenza, dal Parkinson alla pazzia, non c’è praticamente più patologia fisica o psichica che gli “esperti” non abbiano attribuito al presidente russo Vladimir Putin, sistematicamente ripresi dagli organi di stampa mainstream. L’ultimo titolo è di una manciata di giorni fa: «Negli ultimi mesi il leader del Cremlino ha perso 8 chilogrammi, la magrezza e la tosse persistente sono considerate dalle élite come un segno del rapido deterioramento della salute del leader». Una sparata senza fonti diffusa da un canale Telegram intitolato General SVR e prontamente ripresa da diversi media italiani.  

Da Il Tempo a Libero, i “professionisti dell’informazione” tornano a speculare sulle condizioni di salute del leader russo senza prove, documenti o conferme ufficiali: “Detto più chiaramente, Vladimir Putin avrebbe il cancro”, scrive Il Tempo che conclude: “Putin finirà con i nervi a pezzi”. Anche Libero è solito riprendere le medesime soffiate: “Le condizioni di salute di Vladimir Putin “stanno deteriorando drasticamente”.

Il Tempo non è nuovo a rilanciare questo genere di pettegolezzi; già ad agosto riportava delle indiscrezioni altrettanto drammatiche e arbitrarie: “Le cure antitumorali di Vladimir Putin sono state prescritte da dottori israeliani, preparati e acquistati in Israele […] in passato tutti i tentativi di ‘importare farmaci sostitutivi’ hanno portato a un deterioramento della salute e quegli esperimenti sono stati abbandonati”. A maggio, Il Giornale pubblicava invece la notizia che Putin sarebbe stato operato “per rimuovere un cancro” e per questo le sue apparizioni dal 17 al 19 maggio, sarebbero stati preregistrate. La fonte? Sempre il canale General SVR.

Fermo restando che non possiamo conoscere le effettive condizioni di salute di Putin, sono anni che circolano rumors mai dimostrati su presunte malattie di cui sarebbe affetto il leader russo, che variano dal cancro a patologie psichiatriche. Ci troviamo dinanzi a una forma di character assassination, alla quale la stampa occidentale sottopone da anni il leader russo (così come ogni altro nemico dell’Occidente), pubblicando scoop infondati, pettegolezzi, bufale grottesche e insinuazioni di ogni genere. 

Nel giugno 2021 il tabloid britannico The Sun citando fonti moscovite, aveva pubblicato la notizia, poi ripresa da Ansa e da molti altri media italiani, secondo cui Putin avrebbe il morbo di Parkinson e sarebbe vicino alle dimissioni. La notizia era stata smentita e bollata come una “totale assurdità” dal portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, che aveva chiarito che Putin è in «perfetta salute» e non pensa «assolutamente» alle dimissioni. Sempre secondo il tabloid inglese, alcuni osservatori del Cremlino avrebbero notato in un filmato che Putin mostrerebbe alcuni sintomi riconducibili al Parkinson. Da qui il dubbio sulla malattia neurodegenerativa, ripreso anche da molti quotidiani italiani, dal Corriere della Sera a il Messaggero, e TV come La7.

Non bastando le e diagnosi a distanza su cancro e Parkinson, allo scoppio del conflitto russo-ucraino i media di massa, nella loro narrazione manichea, propagandistica e superficiale della guerra, hanno deciso di psichiatrizzare il presidente russo delineare il profilo di uno psicopatico: dalla diagnosi di “narcisismo maligno” e paranoia di Recalcati alla sempreverde “follia” dettata da mania di onnipotenza.

Nel balletto delle ipotesi, non è mancata nemmeno la teoria che il presidente russo sia affetto da Long Covid. La giornalista scientifica e Premio Pulitzer Laurie Garrett sostiene che Putin potrebbe essere «incapace di ragionare, forse per gli effetti del Long Covid». A rilanciare queste ipotesi è stato Council on Foreign Relations, di cui la Garrett è parte: il CFR ha sottolineato che negli ultimi mesi Putin è apparso «spento» e «sfasato» nei comportamenti e nelle dichiarazioni. La Garrett parla anche di «delirio d’onnipotenza»: il presidente russo, mostrerebbe i sintomi della sindrome d’onnipotenza tipicamente associati alla perdita di contatto con la realtà e all’incapacità di soppesare i rischi. E per spiegare questo stato di follia, è stato tirato in ballo il Covid-19. Secondo la giornalista, il cosiddetto brain fog – una sorta di annebbiamento cerebrale associata agli effetti del Long Covid – potrebbe aver compromesso le sue funzioni cognitive. 

Di diversa idea l’analista della sicurezza presso il Beck Institute, Michael A. Horowitz, secondo il quale Putin starebbe giocando a fare il pazzo senza esserlo: «C’è una “teoria del pazzo” nelle relazioni internazionali, che è fondamentalmente quella di apparire intenzionalmente irrazionale, in modo da costringere l’avversario alla cautela. Se questo è ciò che sta facendo Putin, allora è spaventosamente bravo a farlo». [di Enrica Perucchietti]

Le fake news che hanno cambiato la storia. Roberto Vivaldelli il 24 Ottobre 2022 su Inside Over.

Il giornalismo contemporaneo ha come obiettivo quello di rispettare la verità sostanziale dei fatti. Il che significa, in buona sostanza, che errare è umano – anche nel mondo dei giornali e dei media – ma purché lo si faccia con onestà, etica e facendo tutto il possibile per dare una notizia che rispetti questi canoni morali e professionali. Quella delle “fake news“, tuttavia, è una storia che dura da secoli e riguarda non solo il mondo della stampa ma anche quello della politica. In attesa che la storia possa dirci quali sono le “bufale” conclamate che hanno contraddistinto il primo ventennio del Ventunesimo secolo – a cominciare dalla celebre fialetta di Colin Powell per giustificare la guerra all’Iraq di Saddam Hussein – ripercorriamo la lunga storia delle fake news. Che di certo non sono nate con le elezioni di Donald Trump e la Brexit nel 2016, come alcuni ingenuamente pensano. Perché le fake news – o “bufale” – sono sempre esistite e hanno svolto funzioni diverse.

Bernardino Da Feltre (1439-1494) e Simonino da Trento

Il giornale Politico fa risalire la prima grande fake news della storia a Bernardino Da Feltre. Siamo a Trento, la domenica di Pasqua del 1475. Un bambino di due anni e mezzo di nome Simonino è scomparso e il predicatore francescano Bernardino da Feltre pronuncia una serie di sermoni sostenendo che la comunità ebraica aveva assassinato il bambino e ne aveva prosciugato il sangue per berlo e celebrare così la Pasqua. Era ovviamente falso, ma la voce si era presto diffusa in città. Più tardi, Da Feltre afferma che il corpo del ragazzo era stato ritrovato nei sotterranei di una casa ebraica. In risposta, il Principe vescovo di Trento, Giovanni Hinderbach, ordina immediatamente l’arresto e la tortura dell’intera comunità ebraica della città. Quindici ebrei furono giudicati colpevoli e bruciati sul rogo. Benché il papato abbia provato a fermare Hinderbach, quest’ultimo si era rifiutato di incontrare il legato pontificio e, sentendosi minacciato, aveva diffuso altre notizie false su ebrei che bevevano il sangue di bambini cristiani.

Re Giorgio II

A metà del 1700, la stampa aveva contribuito a diffondere notizie false sulla salute di Giorgio II, che all’epoca era il re di Gran Bretagna e Irlanda. Il re stava affrontando una ribellione e doveva essere visto come un leader forte per assicurarsi che la ribellione non avesse successo. Notizie false sulla malattia del re sono state diffuse dai rivoltosi. Ciò ha danneggiato l’immagine pubblica del sovrano e, sebbene la ribellione non abbia avuto successo, ha mostrato come le notizie false possano essere utilizzate per cercare di cambiare le opinioni delle persone e influenzare le sorti di un grande evento, come una guerra o una ribellione. Da allora, sotto questo profilo, nulla è cambiato.

La diffusione dei quotidiani e il sensazionalismo

Con la diffusione su larga scala dei quotidiani, tra il 1700 e il 1800, anche le bufale sono apparse sui giornali con l’intento di generare scalpore e sensazionalismo. E aumentare così le copie vendute. “Il sensazionalismo ha sempre venduto bene. All’inizio del XIX secolo sono entrati in scena i giornali moderni, propagandando scoop e denunce, ma anche storie false per aumentare la circolazione dei quotidiani. La grande bufala della luna del New York Sun del 1835 affermava che c’era una civiltà aliena sulla luna”, riporta sempre Politico. Altro esempio, nel 1844, i giornali anticattolici di Filadelfia avevano diffuso la falsa notizia che gli irlandesi rubavano le bibbie dalle scuole pubbliche, provocando violente rivolte e attacchi alle chiese cattoliche.

Le bufale e la propaganda di guerra

Intorno al 1890, due grandi editori di giornali americani rivali come Joseph Pulitzer e William Hearst, si sono sfidati a colpi di sensazionalismo, riportando voci come se fossero fatti, una pratica che divenne nota all’epoca come “giornalismo giallo“. Le loro notizie distorte e amplificate hanno giocato un ruolo centrale nel condurre gli Stati Uniti nella guerra ispano-americana del 1898. In quell’anno, infatti, una nave della Marina degli Stati Uniti – la Uss Maine – era affondata a Cuba. Alcuni giornali dell’epoca incolpano gli spagnoli per l’affondamento e usano le illustrazioni raffiguranti una drammatica esplosione per convincere i lettori del fatto e fare leva sulla loro emotività.

Un’altra vicenda risale al 1917, ricorda la Bbc, durante la Prima guerra mondiale. Giornali britannici come il Times e il Daily Mail pubblicano una storia raccapricciante in cui si afferma che i tedeschi stavano estraendo grasso dai corpi dei soldati morti per ricavarne del sapone. La storia proveniva da un dipartimento ufficiale del governo britannico ed era stata diffusa stampa. I funzionari sapevano che questa notizia non era vera, ma era necessaria a persuadere i lettori che i tedeschi erano un nemico barbaro, che doveva essere sconfitto. Un’altra bufala di guerra per antonomasia, più vicina ai giorni nostri, riguarda il già citato Colin Powell e il suo celebre intervento al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nel 2003, nel quale aveva deciso di presentare le presunte trovate dagli Stati Uniti delle violazioni alla risoluzione 1441 dell’Onu e del possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.

La notizia viene rapidamente diffusa dai giornali e dalle tv di tutto il mondo e l’occidente si ritrova in guerra con l’Iraq, che viene da lì a poco dopo invaso dalla coalizione occidentale. Saddam Hussein cade e l’obiettivo del “regime change” viene raggiunto. Altre bufale di guerra risalgono al 2011, in Libia, quando sui media cominciano a circolare le terribili immagini di fosse comuni e di altri presunti massacri, che vengono regolarmente imputati a Gheddafi. Il colonnello, assediato a Tripoli, viene costretto alla fuga, prima di essere scovato a Sirte nell’ottobre dello stesso anno e assassinato senza un regolare processo. Come ha poi stabilito la rivista Foreign Policy: “L’amministrazione Obama ha detto che stava solo cercando di proteggere i civili. Le sue azioni rivelano che stava cercando un cambio di regime”. Molte diffuse diffuse sui media – come le fosse comuni – erano infatti “fabbricate” ad hoc dalla propaganda, per far leva sull’emotività dei lettori e influenzare così l’opinione pubblica.

Le fake news ai nostri giorni

Negli ultimi anni, in particolare dal 2016 in poi, con l’elezione di Donald Trump e il referendum sulla Brexit, si è tornato a parlare in maniera insistente di “bufale” a causa delle storie false ampiamente condivise sui social media senza essere verificate dagli utenti. Questo ha portato, non senza polemiche e altrettante criticità, a una “stretta” sulla diffusione delle fake news sulle piattaforme social (non priva di lati oscuri per quanto concerne la libertà di opinione e di critica, essendo decisa da aziende private tutt’altro che super partes).

Addio alle fake news, dunque? Certo che no. La guerra in Ucraina, come ogni conflitto, ha visto l’impiego massiccio di disinformazione e propaganda da entrambe le parti, diffuse attraverso social e canali Telegram difficilmente controllabili e non sempre verificabili. L’ultima bufala acclarata – ma ce ne sarebbero tante altre sul fronte opposto – l’ha diffusa il Ministero della Difesa ucraino che aveva parlato di una “mini Auschwitz” a Pesky-Radkovski. Serhiy Bolvinov, capo del dipartimento investigativo del Servizio di sicurezza nella regione di Kharkiv, aveva infatti fotografato una maschera antigas e una vasca piena di denti, evocando i campi di concentramento nazisti. La notizia risale ai primi di ottobre ed è stata ripresa incautamente dai media e spacciata come vera. Ci ha pensato poi il tedesco Bild, inviando alcuni giornalisti sul posto, a smascherare l’ennesima bufala prodotta dalla propaganda di guerra. Gli inviati del quotidiano tedesco hanno infatti intervistato un dentista che ha riconosciuto la scatola contenente i denti che gli era stata rubata. “I denti sembrano essere stati rubati dal mio ufficio, i russi hanno derubato la mia casa. Questi sono i denti delle persone che ho trattato in tutti questi anni” ha raccontato il dentista. Nessuna “mini Auschwitz”, dunque. Perché in guerra la prima vittima è sempre la verità. Illudersi che questo non accade nelle guerre ibride contemporanee rimane, appunto, un’illusione pericolosa.

Contro la cancellazione. La Russia vuole farvi credere che la cultura del Donbas non sia mai stata Ucraina. Ma non è vero. Kateryna Zarembo su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.

Anche nel 2022 la Russia cerca di eliminare la memoria usando i vecchi metodi sovietici. Stavolta sarà più difficile: ci sono ancora tanti testimoni oculari. E sono morti in troppi per difendere le regioni di Donec’k e della Luhans’k

La storia si ripete. In questo preciso istante i russi, sotto gli occhi di tutti, stanno cancellando dalla faccia della terra Mariupol’, Severodonec’k, Lysyčans’k e altri piccoli paesini della regione di Donec’k e Luhans’k. Si tratta non soltanto di conquistare i territori, ma di far sì che tutti dimentichino che in quei posti c’è stata e c’è ancora l’Ucraina.

I russi lo hanno già fatto nel passato. I vertici del Partito comunista hanno cercato in tutti i modi di cancellare qualsiasi storia del Donbas che non fosse quella sovietica.

Per questo è stata taciuta la storia di un’epoca più antica di queste terre, che costituivano una parte dello Stato cosacco. Per contrastarla è stato inventato un mito del Donbas come terra di minatori e metallurgici che faticavano duro in nome dell’Unione dei Paesi Socialisti Sovietici.

Per lo stesso motivo, la lingua ucraina è stata cancellata. Secondo il censimento del 1897, il 68,9 per cento degli abitanti della regione di Donec’k e il 62 per cento di quelli della regione di Luhans’k consideravano l’ucraino lingua madre. Nel 1989 questo indice cala fino al 30,6 per cento nella regione di Donec’k e fino al 34,9 per cento in quella di Luhans’k. Gli insegnanti di ucraino sono stati licenziati, gli scrittori ucraini, gli attivisti per i diritti umani e i dissidenti sono stati oggetto di repressione.

Per questo il capoluogo della regione è stato spostato dalla Bakhmut ucraina, la città dove per la prima volta è stata alzata la bandiera ucraina nel 1917, a Donec’k (all’epoca Stalino). Bakhmut aveva una tradizione ucraina troppo forte.

L’ironia della sorte sta nel fatto che la potenza industriale della regione non fu nemmeno creata dai sovietici, ma dagli europei: tedeschi, francesi, britannici e belgi. I sovietici si sono appropriati delle miniere e delle fabbriche nell’Ucraina orientale durante il caos della Prima guerra mondiale. Per questo motivo, il Belgio non ha riconosciuto l’Unione Sovietica come Stato fino al 1935.

Nell’Ucraina indipendente dopo il 1991, il mito del Donbas non è stato cancellato, ma è stato anzi rafforzato dalle locali élite politiche. Perfino il termine “Donbas”, una delle poche abbreviazioni sovietiche rimaste (Donbas sta per Donec’kyj vuhilnyj basejn – bacino del carbone di Donec’k ), ha continuato a vivere in Ucraina senza badare a quale fosse la provenienza e al significato del toponimo.

In seguito, all’immagine del Donbas come terra di proletariato è stata aggiunta un’immagine del Donbas come terra di criminali: negli anni Novanta, nella regione sono stati uccisi alcuni uomini d’affari di successo. E poi è stata aggiunta anche un’immagine del Donbas come terra di lingua russa, una tragica conseguenza della sanguinosa politica di russificazione avvenuta negli anni sovietici. E, ancora, un’immagine di terra filorussa, fomentata dalla figura dell’ex presidente ucraino, originario del Donbas, Viktor Janukovyč.

Il suo Partito delle regioni ha monopolizzato quella parte del Paese fino a stroncare le voci meno rumorose che non entravano nel quadro del mito del Donbas. Questo mito è stato così fortemente radicato nel presente ucraino al punto che fino al 2014 si sapeva molto poco del movimento filoucraino nelle zone di Donec’k e di Luhans’k. Per esempio, nel 2006-2009, all’università di Donec’k era attiva l’organizzazione giovanile Poštovkh (La Spinta) che lavorava per riportare nel Donbas l’identità ucraina. E poi c’erano gli scout ucraini Plast nelle varie città del Donbas e poi i gruppi letterari e artistici e i tifosi di calcio che si sentivano parte di un tutt’uno ucraino e non solo di un contesto locale. Questa lista potrebbe continuare.

Sia a Donec’k sia a Luhans’k hanno avuto luogo le proteste di Euromajdan, non così numerose come nelle altre città, però nemmeno così scontate. Dopo la vittoria dell’Euromajdan a Kyjiv e dopo che la Russia ha iniziato a occupare le regioni di Donec’k e Luhans’k, la piazza di Donec’k ha risposto con una protesta di diecimila persone il 13 marzo 2014. Non è tanto, se consideriamo che la città aveva più di un milione di abitanti, ma non è neanche così poco, considerate le poche speranze che gli altri ucraini nutrivano nei confronti degli abitanti del Donbas.

In seguito, nella Donec’k occupata, è stato organizzato il primo festival di letteratura con la partecipazione di scrittori ucraini. Secondo l’opinione dei militanti locali, al Donbas sono mancati altri cinque o dieci anni per rafforzare definitivamente un’identità ucraina.

Dopo il 2014, quando quasi metà della popolazione di Donec’k e di Luhans’k è sfollata per via dell’occupazione russa, la voce ucraina del Donbas si è fatta più forte. La scrittrice e storica Olena Stiazhkina (che scrive su questo numero del Magazine de Linkiesta, ndr), lo studioso di religione Ihor Kozlovs’kyj, i giornalisti Denys Kazans’kyj e Serhij Stukanov e tanti altri sono diventati una voce alternativa del Donbas in Ucraina e nel mondo. Alcuni di loro, però, preferiscono non usare il termine Donbas in quanto retaggio del falso mito sovietico.

Dal 2014, nelle varie città delle regioni di Donec’k e di Luhans’k non occupate dai russi, si è rafforzato il movimento civile progressista, che promuove idee per una gestione locale più organizzata, per una salvaguardia dell’ambiente e per una popolazione più patriottica: a Konstiantynivka è stata attiva l’associazione Vil’na khata (La casa libera) e a Drużkivka l’associazione Točka dostupu (Il punto di accesso), mentre l’Università orientale si è trasferita da Luhans’k a Severodonec’k. In questi posti si è scritta una nuova storia dell’Est ucraino basata sulle forti tradizioni locali.

La popolazione che tuttora vive sotto l’occupazione russa continua a credere nell’Ucraina. Ne è un esempio lo scrittore Stanislav Asejev, rimasto nella Donec’k occupata a testimoniare e a mandare i suoi scritti al giornale ucraino Dzerkalo tynhnia (Lo specchio della settimana) fino al 2017, quando è stato rapito dagli occupanti. Dopo due anni di prigionia è stato liberato durante uno scambio di prigionieri.

Le persone come Asejev continuano a vivere anche adesso sotto occupazione. Sono loro che disegnano la bandiera gialloblu sulle case e sulle strade. Sono loro che passano le informazioni importanti all’esercito ucraino. I maturandi di Donets’k si preparano per entrare nelle università ucraine. Anche un’amica della scrittrice Olena Stiazhkina ha deciso di rimanere e di aspettare, perché ci dovrà pur essere «qualcuno ad accogliere l’esercito ucraino con i fiori dopo la nostra vittoria».

Nel 2022, la Russia si è posta l’obiettivo non solo di occupare l’Ucraina orientale, ma di annientarla. Mariupol’ e Severodonec’k sono state rase al suolo. Nella basilica di San Petro Mohyla a Mariupol’, gli occupanti hanno bruciato tutta la biblioteca che includeva anche testi unici. Nelle scuole occupate sono arrivati i professori da Rostov e da San Pietroburgo. Bruciano i libri, cambiano i docenti, riscrivono i testi, cancellano la memoria usando i soliti vecchi metodi sovietici.

Però questa volta sarà più difficile. Ci sono ancora troppi testimoni oculari, sono ancora in troppi a ricordare, sono morti troppi ucraini per difendere la Donec’k e la Luhans’k ucraine.

Le città distrutte saranno ricostruite e noi ci ritorneremo, per continuare a scrivere la storia dell’Est ucraino.

Kateryna Zarembo è analista politica e professoressa universitaria, si occupa di politica estera, di politica di sicurezza e di studi sulla società civile ucraina. Da maggio 2022 è ricercatrice presso la Technical University di Darmstadt in Germania. È membro associato del New Europe Center di Kyjiv e insegna alla Kyjiv-Mohyla Academy. In autunno uscirà presso la casa editrice ucraina Choven il suo libro “Il sole ucraino sorge nel Donbas” sui movimenti filoucraini nella parte orientale del Paese.

Siamo in guerra Che fine ha fatto la verità, sommersa tra fake news e polarizzazioni. Gloria Origgi su L'Inkiesta l'8 Ottobre 2022.

Nel suo nuovo saggio edito da Egea, “Caccia alla verità”, la filosofa Gloria Origgi cerca di capire che cosa abbia innescato il cortocircuito nella trasmissione del sapere all’interno della civiltà più informata di sempre

Viviamo un’epoca polarizzata. Più le voci aumentano, più le divisioni politiche e ideologiche riflettono mondi di credenze diverse e incompatibili. Dai due poli, ognuno pensa che l’altro polo si sbagli profondamente, ossia creda cose false. E che il nostro polo sia il paladino della verità. Usiamo la verità come una nuova arma politica, per screditare chi non è d’accordo con noi, o per denunciare verità «fabbricate» dalle élite potenti nemiche del popolo. Ci chiediamo strabiliati come la gente possa pensare simili stronzate (nel senso filosofico di Harry Frankfurt…) e perché abbiano perso tutti la ragione. Ma come ho cercato di mostrare in questo libro, verità e politica si costruiscono assieme e ci sono modi assai diversi di costruirle: modi che sono sostenibili con l’organizzazione delle nostre società e della nostra mente, con la globalizzazione e lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e modi che non lo sono.

La situazione di oggi ricorda quella della Prima Guerra Mondiale. Il conflitto costò così tante perdite umane per una ragione molto semplice: le armi erano evolute tecnologicamente, ma non le strategie di battaglia. Le mitragliatrici erano armi ormai completamente automatiche che sparavano proiettili rapidamente, fino a 450-600 colpi al minuto. Hiram Maxim, un inventore americano, consegnò la prima mitragliatrice automatica portatile nel 1884, fornendo il modello per l’arma che devastò gli inglesi nella più sanguinosa battaglia del conflitto, la battaglia della Somme (1916), che costò 620.000 perdite tra gli Alleati e 450.000 tra le file tedesche. L’atroce perdita di vite umane fu causata da una strategia di guerra ancora basata su modelli precedenti le armi automatiche (trincee, fanteria, cavalleria) in un contesto militare che era evoluto rapidamente dal punto di vista tecnologico.

Oggi ci troviamo esattamente nella stessa situazione da un punto di vista dell’informazione. Abbiamo ancora strategie politiche, di comunicazione e di educazione pre-web in un contesto informazionale che ha subito una rivoluzione importante almeno tanto quanto quella che portò 13.000 anni fa l’umanità dal Paleolitico al Neolitico. Nessuna delle nostre istituzioni del sapere si è adattata ancora a questa transizione. Eppure, non abbiamo istituzioni del sapere globali, non abbiamo una nuova pedagogia, una nuova epistemologia, né una nuova legislazione globale, né un nuovo modello di informazione per una società aperta e iperconnessa.

Dal 2016 in poi, ormai consci delle conseguenze catastrofiche della disinformazione massiva sul web, le iniziative si moltiplicano nei vari Paesi per resistere all’ondata di fake news e messaggi di propaganda politica. I siti tradizionalmente «autorevoli», come i giornali, le riviste accademiche, i siti di istituzioni del sapere, gli stessi giganti del web, come Google o Facebook, hanno cominciato a sviluppare vari programmi di software per la verifica delle informazioni. La pratica del fact checking che distingue il giornalismo serio dagli altri tipi di giornalismo, si è diffusa nel web: verifica delle fonti, tracciabilità dell’informazione, analisi semantica dei contenuti dei messaggi, gerarchizzazione della credibilità delle fonti con vari sistemi di punteggio permettono all’utente di filtrare l’informazione e classificarne le fonti secondo il livello di credibilità.

Anche dal punto di vista legale, le iniziative si moltiplicano: il Digital Service Act è un progetto di inquadramento legale del web promosso dalla Comunità Europea per garantire la sicurezza epistemica dei cittadini europei, ossia la possibilità di fruizione di informazione verificata e affidabile. Lo sviluppo della riflessione legale sul web sarà certamente uno dei cardini della futura regolazione dello spazio virtuale, ed è oggetto oggi di ricche discussioni sulla compatibilità delle regole necessarie a un web trasparente e affidabile con i diritti fondamentali di libertà di espressione e di informazione censiti nella Convenzione europea dei diritti umani fondamentali, articolo 11: «Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera».

Nonostante queste importanti iniziative di filtraggio e regolazione dell’informazione, il web resta uno spazio insicuro, sregolato e mosso da logiche algoritmiche che non padroneggiamo. Questo non è il destino del web: le iniziative del primo web, come Wikipedia, erano basate sull’apertura e la trasparenza. L’entrata del capitalismo digitale nel web, e la possibilità di monetizzazione dei dati degli utenti, hanno creato un sistema competitivo e orientato alla massimizzazione dei profitti, oltre che un sistema di sorveglianza generalizzata dei nostri dati che è alimentato da noi stessi e dal nostro desiderio di visibilità digitale.

La soluzione del problema non verrà solo dalla regolazione del web nella sua forma attuale, ma dalla capacità di concepire nuove istituzioni del sapere che siano compatibili con lo tsunami informazionale che caratterizza la nostra epoca e le epoche future. Ma non credo che siano diventati tutti stupidi improvvisamente, come molti pensano. La stupidità è qualcosa che è distribuito in modo omogeneo nella storia dell’umanità. Anche se sicuramente ci sono stati periodi in cui le istituzioni epistemiche e politiche hanno garantito lo sviluppo di una maggiore intelligenza collettiva e periodi più bui, in cui le istituzioni l’hanno ostruita.

Le nostre menti non sono nulla senza le menti degli altri: gran parte di ciò che sappiamo, o crediamo di sapere, proviene dagli altri. Dalla più giovane età, siamo esposti a informazione che ci viene comunicata da genitori, insegnanti, amici. Le notizie sui media ci permettono di connetterci con eventi lontani, di conoscere i progressi della scienza in un determinato campo e di aggiornarci sui fatti politici. Viviamo in una condizione di dipendenza epistemica dagli altri. È una condizione tutt’altro che scomoda: grazie alla comunicazione, possiamo acquisire un numero di conoscenze molto superiore a quello che potremmo arrivare ad apprendere da soli. Eppure, questa condizione è accompagnata da una vulnerabilità cognitiva alla disinformazione.

L’entrata nel nuovo millennio ha coinciso con la diffusione sempre più sfrenata di informazione attraverso canali nuovi, mai visti prima, che non solo hanno espanso le potenzialità di acquisire nuova informazione, ma hanno anche rimesso in questione tutte le gerarchie di legittimazione del sapere che organizzavano la nostra fiducia nelle fonti di conoscenza. Un blog di scienza creato da un gruppo di ricercatori può essere oggi più informativo di una serie di articoli pubblicati sulle riviste scientifiche tradizionali, che usano il metodo consolidato del peer-review.

Un post su Facebook può informarci su un’opinione politica tanto quanto un editoriale pubblicato su un quotidiano. Su YouTube vengono consumati 120.000 anni di tempo video ogni giorno. Consumiamo una quantità di informazione senza precedenti e, paradossalmente, in una società satura di sapere, la disinformazione sembra prevalere, le fake news si diffondono sempre di più e ci troviamo disorientati in un caos informazionale in cui non sappiamo più cosa credere e perché lo crediamo. 

Da “Caccia alla verità – Persuasione e propaganda ai tempi del virus e della guerra”, Gloria Origgi, Egea – pp. 176 – € 19,90

False flag, l’arte dell’inganno. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 28 Luglio 2022.  

Dicono i saggi che la beffa più grande che il Maligno abbia mai fatto sia stata quella di convincere l’Uomo che non esiste. È così che il Demonio riesce ad addossare agli altri le colpe di ogni sua malefatta. È così che può muoversi inosservato, indurre in tentazione il macchiato dal peccato originale di turno e, di colpo, sparire come nebbia, ridacchiando, quando la vittima è caduta nel tranello.

Uno stratega che si rispetti, similmente all’astuto Satana raffigurato da John Milton nel poema epico Paradiso perduto, è chiamato a fare di necessità virtù, a cogliere l’attimo e, se possibile, a creare dal nulla opportunità ogniqualvolta se ne presenti l’occasione. Uno stratega che si rispetti, similmente al navigato diavolo tentatore simpaticamente tratteggiato da C. S. Lewis ne Le lettere di Berlicche, conosce i talloni d’Achille altrui e sa quali machiavelli potrebbe impiegare per condannare la vittima di turno al quinto cerchio infernale.

Vincere senza combattere. Osservare due o più litiganti e godere nell’attesa di poter raccogliere i frutti da loro seminati. Costringere il nemico a fare ciò che non vorrebbe, ciò che non dovrebbe. Dirsi ed essere (reali) conoscitori dell’arte della guerra, in effetti, non significa che questo: avere la capacità di conseguire il massimo risultato col minimo sforzo, ad esempio architettando delle mefistofeliche operazioni sotto falsa bandiera.

Inganno, la più antica delle armi

Le operazioni sotto falsa bandiera, altresì note con l’anglicismo false flag, sono vecchie come il mondo. Se ne ha notizia dall’antichità – si pensi al Grande incendio di Roma, falsamente attribuito da Nerone ai cristiani – e rappresentano l’inganno fatto arma par excellence.

Le false flag vengono spesso identificate con il terrorismo di stato, cioè con gli auto-attentati, ma la storia insegna che non esistono limiti alle dimensioni che può assumere l’inganno perpetrato da uno stratega ai danni dell’ignara vittima e degli inconsapevoli testimoni. Può trattarsi di un incidente, di un’aggressione e di un rogo, così come può trattarsi di un omicidio, di un’esplosione o di una strage.

Quello che conta, che la false flag consista nell’appiccare un rogo alla sede di un partito o nello scaricare le responsabilità di un’aggressione ad un innocente, è la modalità dell’esecuzione: la messinscena dev’essere teatrale, in grado di suscitare indignazione, ma il regista è chiamato a non lasciare né prove né indizi del proprio coinvolgimento sul luogo del misfatto – pena l’aborto del grande disegno intelligente di cui il falso d’autore sarebbe la sorgente.

False flag, il motore della storia

Esiste una storia che la storiografia ufficiale non insegna, perché non trova spazio nelle scuole secondarie superiori e soltanto di rado viene toccata nelle università, ed è la storia delle false flag. Un racconto che meriterebbe una cattedra ad hoc, perché le operazioni sotto falsa bandiera sono state e sono il motore della storia umana: hanno legittimato guerre ingiustificabili e generato consensi altrimenti irraggiungibili.

Fu orchestrando una false flag – degli svedesi travestiti da russi all’assalto di un avamposto militare a Puumala – che Gustavo III riuscì a trovare il supporto popolare, ma soprattutto istituzionale, necessario a cominciare una guerra offensiva contro la Russia nel 1788. 

Fu facendo saltare in aria una sezione ferroviaria di proprietà della Compagnia ferroviaria della Manciuria meridionale, nel famigerato incidente di Mukden, che l’Impero giapponese trovò il pretesto adatto a giustificare l’invasione della Manciuria contro l’impreparata Repubblica di Cina.

Fu fabbricando il famigerato incidente di Gleiwitz che la Germania nazista trovò il motivo, apparentemente valido e incontestabile, per invadere la Polonia. Le cose, però, andarono in senso contrario al rischio calcolato di Adolf Hitler: Gran Bretagna e Francia non abboccarono all’amo, dichiarando guerra alla Germania e decretando l’avvio della Seconda guerra mondiale.

Pochi mesi dopo, in novembre, un’altra potenza avrebbe impiegato un finto incidente per giustificare un’altra guerra in Europa: l’Unione Sovietica di Stalin, che attribuì alla Finlandia la responsabilità del bombardamento di un proprio villaggio, Mainila, dando inizio alla Guerra d’inverno.

False flag made in USA

Le false flag sono tipiche delle potenze più grandi e lungimiranti, per le quali la brama della guerra è importante quanto il mantenimento della reputazione. E le operazioni sotto falsa bandiera servono precisamente l’obiettivo di cui sopra: il traviamento dell’opinione pubblica, alla quale una guerra offensiva viene venduta come preventiva e l’evitabile viene fatto passare per ineluttabile e indispensabile.

Gli Stati Uniti, nel corso della loro breve ma intensa storia, hanno fatto ricorso alle false flag più di ogni altra grande potenza del sistema internazionale. Una tradizione cominciata dapprima che diventassero una superpotenza, come (di)mostra il caso della USS Maine – una corazzata auto-silurata nel 1898 per dare vita alla guerra contro il decadente Impero spagnolo.

Nel secondo dopoguerra, memori del successo dell’operazione UUS Maine, gli Stati Uniti avrebbero rispolverato l’arma dell’inganno per legittimare alcune delle loro più importanti operazioni di polizia nel globo. Celebre è – perlomeno tra gli addetti ai lavori – la natura del casus belli della guerra del Vietnam: l’incidente del golfo di Tonchino, un falso conclamato.

Prima del Vietnam, nel 1953, la Central Intelligence Agency fece ampiamente ricorso a false flag nell’Iran sobillato dall’operazione Ajax, ad esempio appiccando roghi nelle moschee poi attribuiti ai comunisti. E prima del Vietnam, nel 1962, la Central Intelligence Agency era pronta a piazzare bombe e a consumare stragi nelle principali metropoli degli Stati Uniti, nel contesto della scioccante operazione Northwoods, pur di incoraggiare l’opinione pubblica e la presidenza a chiudere definitivamente il dossier Cuba con una guerra su larga scala.

False flag, la storia ne è piena, e insegna che governi e servizi segreti sono disposti a tutto pur di perseguire l’Interesse nazionale e/o pur di abbattere uno scomodo rivale. Disposti a tutto, letteralmente, anche ad uccidere il proprio sangue.

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Putin malato e Zelensky in rianimazione. Guerra di "fake" sulla salute dei leader. Andrea Cuomo il 22 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Cia: "Nessuna prova che lo Zar abbia problemi, sta fin troppo bene". Radio ucraine hackerate: "Il presidente in terapia intensiva"

Il corpo dei leader può essere un fattore decisivo nella guerra ucraina? In qualche modo sì, se parliamo della salute. Per mesi si è favoleggiato di un Vladimir Putin malato, ma è davvero così? E se a passarsela male da un punto di vista medico fosse invece il suo rivale Volodymyr Zelenski?

A ritirar fuori la questione sanitaria relativa al presidente russo è all'Aspen Security Forum il direttore della Cia William Burns. «Non ci sono informazioni - dice Burns - sul fatto che Vladimir Putin sia instabile o in cattive condizioni di salute». Anzi, il leader di San Pietroburgo «appare perfino troppo sano». Il capo dell'intellingence statunitense si lancia poi in un ritratto a tutto tondo del presidente russo: Putin è «un grande sostenitore del controllo, dell'intimidazione e della rivincita e questi tratti si sono rafforzati nell'ultimo decennio portando all'assottigliamento della sua cerchia di consiglieri». «È convinto - prosegue Burns - che il suo destino come leader della Russia sia quello di far tornare il Paese una grande potenza. Crede che la chiave per farlo sia ricreare una sfera di influenza nei Paesi vicini e non può farlo senza controllare l'Ucraina».

Trascorrono poche ore ed è la salute di Zelensky a fare notizia. Si sparge la voce che il numero uno di Kiev sia addirittura ricoverato in terapia intensiva, ma presto emerge che si tratta di un episodio di contronformazione da parte di hacker russi che avrebbero attaccato alcune stazioni radio ucraine diffondendo notizie false. «Il nemico - scrive l'agenzia Unian - ha effettuato un attacco informatico ai server e alle reti delle stazioni radio del gruppo TAVR Media (Radio Bayraktar, Melodia FM e altre) e ha diffuso una falsa notizia sul deterioramento della salute del presidente Zelensky». E anche l'addetto stampa di Zelensky, Serhiy Nikiforov, si trova costretto a smentire il presunto ricovero e la sostituzione del presidente nelle sue funzioni dal portavoce della Verkhovna Rada, il parlamento ucraino, Ruslan Stefanchuk. Zelensky è vivo, sano e lotta con noi.

E già che c'è anche Dmitry Medvedev, ex presidente russo, vicepresidente del Consiglio di sicurezza nazionale e disinvolto megafono delle peggiori scempiaggini di Putin, la butta sul sanitario, prendendo di mira il presidente statunitense Joe Biden, «uno strano nonno con demenza» della cui elezione da parte degli americani «la Russia non può certo essere considerata responsabile». Medvedev dà dei pazzi anche ai leader dell'Unione europea, che «ha completamente perso il contatto con la realtà» e «sta costringendo gli sfortunati ucraini a sacrificare la propria vita per entrare nell'Unione europea». Nello stesso delirante post su Telegram Medvedev minaccia la stessa Ucraina di «scomparire dalla mappa del mondo» e «perdere la sovranità che le resta».In questa fiera dell'estremismo, fa la figura di sincero moderato addirittura Aleksandr Lukashenko, presidente di quella Bielorussia che è la prima alleata di Mosca. In un'intervista all'Afp il tiranno di Minsk avverte tutti che «dobbiamo fermarci, raggiungere un accordo, porre fine a questo caos. Non c'è bisogno di andare oltre. Più lontano c'è l'abisso della guerra nucleare. Non c'è bisogno di andarci». Certo, quando si parla di suddividere le responsabilità di questa situazione, le acque si intorbidano: «Dipende tutto dall'Ucraina, perché a questo punto la guerra potrebbe finire in condizioni migliori per loro. Il governo di Kiev deve sedersi al tavolo dei negoziati e accettare di non minacciare mai la Russia». Questione di punti di vista.

Biden ha il Covid, Putin sta bene: quando la salute è geopolitica. Piccole Note il 23 luglio 2022 su Il Giornale.  

L’annuncio che Biden ha il Covid è arrivato quasi nello stesso giorno in cui il Capo della Cia William Burns ha incenerito le speranze di tanti in Occidente, che avevano creduto alla più o meno imminente morte di Putin, alimentata all’inizio della guerra ucraina attraverso un profluvio di articoli e servizi Tv.

La malattia di Putin, data per certa da analisti e medici interpellati da cronisti di vario genere, correva parallela alle notizie di un malcontento diffuso in Russia per l’attacco al Paese confinante, prossimo a sfociare in rivolte di piazza e congiure di palazzo; queste ultime, a loro volta, favorite dalla precaria salute dello zar.

Come correvano in parallelo alle descrizioni dello sfascio in cui versava l’esercito russo, preso letteralmente a calci dai valorosi ucraini. Tutte fandonie, ovviamente, propalate dalle agenzie di propaganda alle quali hanno prestato la loro penna e la loro voce una schiera di cronisti e anchorman, più o meno autorevoli, compiacenti e compiaciuti.

In questo modo si vincono le guerre di propaganda, ma difficilmente quelle reali, come dimostra l’evoluzione del conflitto. E però tali fandonie sono state utilissime a impedire che la realtà si imponesse in tutta la sua tragedia di una guerra senza scopo, che consentiva un’unica uscita di emergenza, la diplomazia.

Nulla di nuovo sotto il sole: si è ripetuto, solo per fare solo un esempio, lo spartito già usato per la guerra del Vietnam, proseguita per anni grazie a una propaganda che decantava le vittorie americane e le sconfitte altrui, nonostante a Washington sapessero perfettamente che il quadro era diverso e la guerra fosse già persa.

L’imperativo era non cedere a nessun costo, per evitare di ammettere la vittoria altrui, come sta avvenendo nel caso ucraino.

Per fare un piccolo esempio, al di là delle innegabili conquiste territoriali russe, bisogna evitare che si sappia che la Russia ha comunicato di aver distrutto, in sole due settimane dal loro arrivo sul campo di battaglia, quattro degli otto (o dodici) lanciamissili HIMARS con cui l’Ucraina avrebbe ribaltato le sorti della guerra.

La notizia non è stata ripresa, neanche per smentirla, ma, guarda caso, quasi in coincidenza temporale con tale comunicato, gli Stati Uniti hanno deciso di inviare altri quattro HIMARS in battaglia (Reuters)… potenza delle coincidenze temporali e numeriche.

Ma che tali sistemi d’arma non stanno sortendo l’effetto annunciato né lo avranno in prospettiva lo dice il fatto che in questi giorni si è tornato a parlare di inviare a Kiev dei jet da combattimento Nato. Un’ipotesi già prospettata a inizio guerra e scartata perché troppo pericolosa per l’escalation inevitabilmente connessa, oltre al rischio non trascurabile di vedere tali jet cadere come mosche sotto il tiro dei micidiali S-400, la cui efficacia è riconosciuta da tutti i militari del mondo.

Non si tratta di magnificare le potenzialità dell’esercito russo, ma di evidenziare le follie che abitano le menti dei dottor Stranamore che stanno dettando la linea alla Politica d’Occidente e come le loro strategie, anche considerando il più ristretto ambito militare, siano solo fumisterie, buone al massimo per allungare i tempi della guerra e tentare di logorare i russi, non per evitare la sconfitta ucraina.

Lo sanno perfettamente alla Casa Bianca, come ha riferito la CNN, la più autorevole Tv Usa, come sanno perfettamente che si concluderà con la cessione di parte dei territori ucraini alla Russia, ma “The show must go on”, anche se i morti fioccano.

E per evitare che questo tragico show finisca in fretta, per consunzione del difensore, occorre inventarsi qualcosa, anche a costo di correre il rischio di innescare una guerra termonucleare.

A confermare quanto scriviamo proprio le parole del Capo della Cia, che ha detto che “Putin sta bene, fin troppo“, dove quel cenno aggiuntivo non è un pendant e non si riferisce alla sola salute dello zar, ma al fatto che questi sta vincendo la guerra contro la Nato.

Così veniamo all’America e al Covid che ha contagiato il suo presidente, uno o due giorni dopo un’altra delle sue splendide gaffe, stavolta riferita alla sua salute, avendo dichiarato di avere il cancro, con la Casa Bianca precipitata nella costernazione e costretta a subito smentire l’enormità: Biden si riferiva a una patologia del passato, ormai superata.

Analisti americani hanno notato che, subito dopo la rivelazione dell’infezione del presidente, Hillary Clinton ha pubblicato su twitter un post della sua precedente campagna elettorale, ipotizzando che fosse il segnale che era pronta a correre di nuovo. Anche il cenno a commento, “in movimento” sarebbe indice di tale possibilità.

Al di là del futuro personale della moglie di Bill, resta che Biden si è attirato le ire degli Stranamore di cui sopra e dei fautori di una politica più muscolare. Da alcuni giorni i media mainstream stanno martellando sulla possibilità che lasci la presidenza a un polso più forte (quello della Clinton sarebbe fortissimo, così come quello della sua seppur sbiadita fotocopia, Kamala, l’attuale Vice).

Troppo debole, con lui alla guida degli States, è difficile alzare il livello dello scontro con la Russia, dal momento che è rimasto fedele al refrain iniziale, reiterato in ogni conferenza stampa, quando, alle domande aggressive sulle possibilità di incrementare l’ingaggio americano, rispondeva: “Volete la Terza guerra mondiale?”.

Biden non voleva questa guerra per procura con l’Ucraina (si ricordi quando ripeteva che non l’avrebbe difesa in caso di aggressione). Troppo debole, non ha potuto far fronte alle pressioni in tal senso. E però è un freno, per quanto debole, all’escalation. Da cui la spinta alla rimozione.

Non solo nel conflitto ucraino, anche sul confronto con la Cina, Biden sta cercando di tenere a freno l’aggressività dei costruttori di guerra, ma questo lo rimandiamo alla nota successiva.

Mosca, multa record a Google per le “fake news” sulla guerra. Il Dubbio il 20 luglio 2022.  

L'importo è di 21,7 miliardi di rubli (pari circa a 370 milioni di euro) per i contenuti «sul corso dell’operazione militare speciale in Ucraina».

Un tribunale russo ha inflitto una multa di 21,7 miliardi di rubli (pari circa a 370 milioni di euro) a Google per i materiali pubblicati su YouTube, che «contribuiscono intenzionalmente alla diffusione di false informazioni sul corso dell’operazione militare speciale in Ucraina». Ne dà notizia l’agenzia russa Interfax.

Google è stata multata per la «sistematica non rimozione di informazioni vietate nella Federazione Russa». L’importo della multa è pari a 1/10 delle entrate del colosso statunitense e delle sue società affiliate registrate presso gli ispettorati fiscali nella Federazione Russa. La decisione del tribunale del distretto Tagansky di Mosca non è entrata in vigore e può essere impugnata.

Fake news: ecco come arriva in Italia la propaganda russa sul web. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 4 Luglio 2022.

News-Front.info è un’agenzia di stampa che nasce in Crimea il 25 novembre 2014, pochi mesi dopo l’occupazione russa. Il fondatore e direttore dell’agenzia è Konstantin Knyrik, 33 anni, che è anche il capo del partito ultranazionalista filo-Cremlino Rodina, che in russo significa «Patria», e ha una divisione in Crimea. L’email del partito Rodina cherednichenko83@mail.ru è la stessa di Mediagroup News-Front, la società che pubblica il sito. Entrambe hanno sede in Crimea nel distretto di Bakhchisarai. L’indirizzo IP assegnato a News-Front è di proprietà della Storm System LLC con sede a Mosca. Il Tesoro americano segnala che Konstantin Knyrik agisce per conto dell’Fsb, ex Kgb (qui il documento). Per questa ragione è stato sanzionato da Usa, Ue e Uk. Sanzionati da Usa e Uk pure il cofondatore di News-Front Mikhail Sinelin, il vicedirettore Yevgeniy Glotov, e il finanziatore Yuriy Fedin. 

La potenza di fuoco

Da febbraio 2022 a fine maggio, in concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina, News-Front.info, che pubblica i contenuti in 11 lingue, ha avuto 26,5 milioni di visualizzazioni. I siti che più lo citano e vi indirizzano maggior traffico (checked backlinks) sono per il 35,5% in tedesco; 20,2% in russo; 13% in spagnolo; 9,3% in slovacco; 7,8% in inglese; 4,6% in olandese; 3,2% in bulgaro; 1,7% in portoghese; 1,3% in francese e 2,4% in altre lingue. La fascia più numerosa di lettori è quella compresa tra il 25-34 anni (20,95%). Secondo NewsGuard, società indipendente che certifica l’attendibilità dei contenuti online, è un sito di propaganda e disinformazione perché non dichiara come si sostiene, quali sono le fonti degli articoli e non presenta le evidenze sui fatti narrati. Facebook ha sospeso la pagina il 30 aprile, Twitter e Youtube il 20 maggio. 

La tela dalla Crimea alla Russia

I collaboratori di News-Front.info («Tutti volontari in giro per il mondo», è scritto sul sito nella sezione about us) lavorano anche per Anna-news.info, altro sito fondato da Knyrik, che ha la sede principale a Mosca e pubblica in russo, inglese, tedesco, francese e spagnolo. Nell’agosto 2021 il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky, sulla base della decisione del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale, ha firmato un decreto sull’«applicazione di misure economiche speciali personali e altre misure restrittive» contro Anna-news. Si presentavano solo in inglese invece Summurynews.com e Realbomb.info, attivi fino a inizio 2021, ma il codice sorgente di entrambi è in russo e i contenuti erano gli stessi di News-Front.info (sito mirror). Con l’aiuto della società di cybersicurezza Swascan, guidata da Pierguido Iezzi, vediamo tre esempi di come la disinformazione di News-Front arriva e si diffonde in Italia.

Nei Paesi democratici fortunatamente ognuno può pubblicare ciò che crede, ma il lettore quando apre un sito di informazione dovrebbe essere messo in grado di capire da dove arrivano le notizie che sta leggendo.

Il rimbalzo sui siti italiani

Primo esempio. Il 12 maggio 2022 alle 13.23 News-Front.info pubblica in lingua tedesca la notizia che preannuncia una «Destabilizzazione dell’ordine mondiale liberale» (qui). Poche ore dopo Controinformazione.info, con una traduzione dal russo di Luciano Lago, ripubblica lo stesso pezzo dal titolo «In arrivo la destabilizzazione dell’ordine mondiale liberale» (qui). Lo stesso giorno la notizia di Controinformazione.info viene resa visibile in modo automatico su 11 siti: alle 16.39 su freeanimals-freeanimals.blogspot.com, alle 16.51 su decamentelibera.blogspot.com; alle 16.58 su dadietroilsipario.blogspot.com; alle 17.18 su oitavomandamento.blogspot.com; alle 17.54 su malaalde.blogspot.com; alle 18.03 su sadefenza.blogspot.com; alle 18.07 su oshoite.blogspot.com; alle 18.59 su hrpereubu.blogspot.com; alle 19.13 su itruffatori.blogspot.com; alle 19.27 su unlungosogno.blogspot.com. Il 9 giugno la notizia è ripresa anche da parliamodi.news.

Secondo esempio. Il 21 marzo alle 8.17 News-Front pubblica in spagnolo «Estados Unidos quiere prolongar la crisis en Ucrania para aumentar las ganancias de los fabricantes de armas» (qui). Il testo compare il 23 marzo su lapekoranera.it con il titolo: «Gli Usa vogliono prolungare la crisi in Ucraina per aumentare i profitti dei produttori di armi» (qui). Il 16 aprile il contenuto rimbalza su parliamodi.news (qui) e il 2 maggio su tudonoticia.org (poi rimosso).

Terzo esempio. Il 26 gennaio Sakeritalia.it traduce un articolo pubblicato da News-Front il 24 gennaio, il 27 gennaio lo riprende tal quale Appelloalpopolo.it con il titolo «L’Ucraina trarrà vantaggio delle forniture di armi dagli USA e dagli Stati Baltici?» (qui). 

Quanti lettori

Controinformazione.info da marzo a fine maggio ha avuto quasi 1,3 milioni di visualizzazioni. A partire dal 24 febbraio il sito ha tradotto da News-Front.info ben 32 articoli, rimbalzati a loro volta su altri 30 siti. Sempre da marzo a maggio, lapekoranera.it ha contato 1,65 milioni di visualizzazioni. La notizia sulla volontà degli Usa di prolungare la guerra per aumentare il business sulle armi è rimbalzata su un altro sito con 165.100 visualizzazioni (parliamodi.news). Nello stesso periodo, Sakeritalia.it, con a capo Andrei Raevsky, definito TheSaker e che pubblica contenuti anche in francese, tedesco, spagnolo e russo, ha ottenuto 415.100 clic. Risultano tradotti da News-Front 11 articoli come :«Le folli azioni del regime di Kiev hanno provocato caos e anarchia nelle strade di città pacifiche» (qui) pubblicato su News-Front il 7 marzo, oppure «La religione ucraina con i suoi falsi profeti» (qui), uscito su News-Front il 28 maggio. Appelloalpopolo.it, che ha ripubblicato a sua volta, ha avuto altre 61.100 visualizzazioni. Anche Vietatoparlare.it (qui), che usa News-Front come fonte, ne ha raccolte 78.200. Complessivamente i siti italiani su cui sono state ripubblicate notizie dell’agenzia diretta dal capo del partito Rodina hanno realizzato oltre 18 milioni di visualizzazioni in soli tre mesi. Senza contare i rilanci sui social, in particolare su twitter e nitter (social contro la censura simile a twitter), dove gli articoli tradotti da Controinformazione.info hanno avuto ampia eco. Per esempio quello del 16 febbraio: «Provocazione in stile “caschi bianchi”: l’#Ucraina prepara un disastro chimico nel #Donbass», o quello del 7 marzo: «I metodi del Terzo Reich: Zelensky e i “partner occidentali” dell’Ucraina portano le persone al massacro». 

Quello che il lettore non sa

Nei Paesi democratici fortunatamente ognuno può pubblicare ciò che crede, ma il lettore quando apre un sito di informazione dovrebbe essere messo in grado di capire da dove arrivano le notizie che sta leggendo. Il 16 giugno a Bruxelles è stato presentato il nuovo Codice di buone pratiche (qui) con il quale i motori di ricerca e le piattaforme devono tutelare i loro utenti dalla disinformazione. Dovrebbero contrassegnare con una spunta verde il sito affidabile e con un punto esclamativo in rosso in caso contrario. E poi accompagnare con un browser tutte le informazioni relative agli indicatori specifici: attendibilità delle fonti, distinzione fra fatti e opinioni, se vengono ripetutamente pubblicate notizie false o titoli ingannevoli, chi finanzia il sito. Ma di fatto, denuncia NewsGuard, solo Microsoft sta andando in questa direzione, mentre tutti gli altri motori di ricerca (Google, Yahoo, DuckDuckgo ecc.) e le piattaforme social Meta (Facebook), Twitter e TikTok, non stanno facendo nulla. Il problema è che le Linee guida Ue del maggio 2021 (qui) raccomandano di aiutare gli utenti a orientarsi, ma non c’è nessun obbligo a farlo. Controinformazione.info si presenta così ai suoi lettori: «Siamo un pugno di persone che non si accontentano delle verità di comodo dell’apparato dei media ufficiali e che operano su un percorso di ricerca e di cognizione libera di idee, concetti e di visione alternativa delle informazioni e della realtà che ci circonda». Nessuno, però, dice al lettore che le notizie riportate pari pari da News-Front.info provengono da un sito diretto dal capo di un partito ultranazionalista direttamente legato al Cremlino.

Fake news, sarà più facile riconoscerle e cancellarle. Ruben Razzante il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

La settimana scorsa è stato condiviso dalla Commissione europea il nuovo Codice rafforzato di buone pratiche sulla disinformazione.

La settimana scorsa è stato condiviso dalla Commissione europea il nuovo Codice rafforzato di buone pratiche sulla disinformazione. Si tratta di un insieme di regole che alcuni tra i principali colossi del web (Meta, Google, Twitter, TikTok e Microsoft), ma anche piattaforme più piccole o specializzate, agenzie pubblicitarie on-line, società di tecnologia pubblicitaria, verificatori di notizie e rappresentanti della società civile hanno sottoscritto e si impegnano a rispettare per contrastare efficacemente la circolazione di fake news e assicurare agli utenti del web una navigazione sempre più sicura. Brillano invece per assenza Apple e Telegram, ma l’elenco dei firmatari potrà essere nel tempo ampliato, anzi tra gli auspici dei promotori c’è proprio quello di sensibilizzare altri soggetti della Rete affinchè aderiscano.

La spinta del conflitto russo-ucraino

La guerra tra Russia e Ucraina ha rimesso al centro delle preoccupazioni europee il tema della disinformazione, in particolare di quella a sfondo propagandistico, che punta a manipolare l’opinione pubblica e a orientarne il giudizio verso direzioni predeterminate. Il Codice presentato la settimana scorsa è figlio di questi timori, così come nel 2018 la sua prima versione rispondeva al tentativo di frenare l’ascesa delle forze populiste alle elezioni europee del maggio 2019. Nonostante la debolezza dell’apparato sanzionatorio, quel Codice di condotta fu rispettato dalle piattaforme web e social e scongiurò il rischio che i populisti prendessero in mano la guida del Vecchio Continente. Nel maggio 2021, anche sulla scorta delle azioni di contrasto alle fake news nell’ambito della pandemia, la Commissione Ue ha pubblicato una serie di orientamenti per combattere la circolazione virale di contenuti falsi o di dubbia autenticità.

Le nuove regole da rispettare

Per “bonificare” l’infosfera e trasformarla in un regno sicuro, trasparente e affidabile, i firmatari del nuovo documento assumono impegni davvero vincolanti, anzitutto quello di fornire agli utenti strumenti ancora più incisivi per riconoscere e segnalare la disinformazione, assicurando loro una navigazione in Rete più sicura. In secondo luogo quello di garantire ai ricercatori un accesso ai dati necessari per poter condurre ricerche approfondite sui processi di disinformazione, sempre nel rispetto del GDPR e della regolamentazione in materia di privacy e trattamento delle informazioni riservate.

Obiettivo: impoverire i siti di notizie false

Nel nuovo Codice sono previste misure per una effettiva “demonetizzazione” dei siti che veicolano fake news. Privarli, infatti, del serbatoio economico alimentato dai proventi pubblicitari vuol dire indebolirli e depotenziarne gli effetti devastanti che possono avere sulla formazione delle opinioni. Altre azioni di contrasto alle fake news inserite nel nuovo Codice sono: remunerare meglio i verificatori delle notizie; assicurare la trasparenza della pubblicità politica; intensificare gli interventi sui nuovi comportamenti manipolativi (bot, deepfake, account fasulli); monitorare costantemente l’attuazione del Codice da parte dei firmatari, in particolare delle grandi piattaforme. Queste ultime, se non attueranno misure di mitigazione del rischio e si riveleranno “pigre” nell’attuazione delle pratiche previste per contrastare efficacemente la circolazione di notizie false, rischieranno multe fino al 6% del loro fatturato globale.

Multe salate dell’ Unione Europea per le piattaforme online che fanno disinformazione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Giugno 2022.

Al nuovo codice registrata l’adesione di una trentina di piattaforme, tra cui le big Google, Meta, Microsoft, e TikTok

Finalmente qualcuno prende provvedimenti e stringe le misure contro le fake news. La Commissione europea ha annuncia un nuovo Codice di condotta sulla disinformazione (l’originario precedente è del 2018), per il quale annuncia di aver già ottenuto la firma di 33 società, tra i quali anche i ‘big tech’ come Google, Facebook (Meta), Microsoft, o TikTok.

Tra gli impegni previsti nel codice rivisto, tra l’altro, il taglio a incentivi finanziari alla disinformazione, interventi per fermare comportamenti manipolativi come account falsi, ‘bot’ o la diffusione di disinformazione, maggior fact-checking e la creazione di un Centro e una task force per la supervisione e implementazione del codice. 

Breton: sanzioni per violazioni, fino al 6% fatturato

“Le piattaforme molto grandi che violano ripetutamente il Codice contro la disinformazione e non attuano correttamente le misure di mitigazione del rischio rischiano multe fino al 6% del loro fatturato”, ha spiegato il commissario europeo al Mercato interno, Thierry Breton, nella conferenza stampa di presentazione del Codice, anticipato qualche giorno fa dal Financial Times.

“La disinformazione è una forma di invasione del nostro spazio digitale, con un impatto tangibile sulla nostra vita quotidiana. Le piattaforme online devono agire con forza, soprattutto per quanto riguarda la questione dei finanziamenti. La diffusione della disinformazione non dovrebbe portare un solo euro a nessuno”, ha sottolineato. Il nuovo Codice, ha aggiunto ancora Thierry Breton, per essere credibile, sarà sostenuto dal Digital services act (Dsa), la direttiva proposta sul commercio elettronico quanto a contenuti illegali, pubblicità trasparente e disinformazione.

Jourova: possibile ecosistema online trasparente

“Se le persone perdono fiducia nell’informazione che trovano online, alla fine perderanno fiducia nella democrazia e sfortunatamente ci troviamo in un disordine dell’informazione”, ha commentato la vice presidente della Commissione Ue Vera Jourova. “Un ecosistema online più trasparente è possibile”, ha ribadito.

Esagerava le notizie sugli stupri: la Rada di Kiev caccia Denisova, la super commissaria per i diritti. Fabio Tonacci su La Repubblica il 31 maggio 2022.

Lyudmila Denisova, ex commissaria per i diritti umani dell'Ucraina  

L’accusa: ha gonfiato le già drammatiche storie dei crimini di guerra facendo perdere credibilità all’Ucraina. E nella capitale tornano i veleni della politica

DRUZKIKVA (Donetsk) - Da quando è cominciato il conflitto, la commissaria per i diritti umani Lyudmila Denisova è stata per i giornalisti una delle fonti ufficiali più citate e, a conti fatti, la meno affidabile. La sua defenestrazione decisa da 234 parlamentari su 450 della Verkhovna Rada, dunque, non deve sorprendere se non per il fatto che è l'ennesimo segnale del ritorno sulla scena pubblica ucraina della politica, con i suoi dibattiti e i suoi veleni.

Dagonews l'1 giugno 2022.

Lyudmila Denisova, la commissaria per i diritti umani rimossa ieri dal suo incarico, presenterà ricorso. Lo ha annunciato con un messaggio che qui riportiamo: «Cari cittadini ucraini! Cari amici e colleghi! Oggi è l'ultimo giorno del mio mandato come Commissario per i diritti umani della Verkhovna Rada dell'Ucraina. Sono grata a tutti voi. Sono grata al mio team per la fiducia, il supporto e il lavoro coordinato». 

«Sono stato rimossa in violazione della Costituzione, delle leggi dell'Ucraina e degli standard internazionali. Presenterò ricorso in tribunale contro questa decisione. La legge è uguale per tutti! Non mi fermo! Continuerò a difendere l'Ucraina e i diritti dei nostri cittadini. Tua, Lyudmila Denisova». 

Da "La Stampa" l'1 giugno 2022.

La Verkhovna Rada, il Parlamento ucraino, ha licenziato con un voto di sfiducia Lyudmila Denisova, la commissaria parlamentare per i diritti umani con 234 voti favorevoli. Pavlo Frolov, deputato di Servitore del Popolo, il partito del presidente Volodymyr Zelensky, ha spiegato i motivi del licenziamento di Denisova che comprendono il ripetuto mancato adempimento alle sue funzioni relative all'istituzione di corridoi umanitari, alla protezione e scambio di prigionieri, al contrasto alla deportazione di adulti e bambini dai territori occupati e ad altre attività per i diritti umani.

Secondo il parlamento, Denisova ha concentrato la sua attività mediatica sui numerosi dettagli relativi agli abusi sessuali su adulti e minori nei territori occupati che non erano supportati da prove e hanno danneggiato solo l'Ucraina. Inoltre, ha sottolineato Frolov, Denisova ha trascorso molto tempo all'estero non nell'ambito di viaggi di lavoro dopo il mese di febbraio.

Lunedì la stessa Denisova aveva preannunciato che il presidente Volodymyr Zelensky voleva rimuoverla. «Rimuovermi dal mio incarico di commissaria è una violazione della Costituzione ucraina, della Legge marziale e delle norme di diritto internazionale», aveva aggiunto.

Ucraina: no, i russi non mangiano i bambini. Piccole Note l'1 giugno 2022 su Il Giornale.

Lyudmila Denisova, la commissaria ucraina per i diritti umani, è stata rimossa dal Parlamento ucraino. Ieri alla riunione del Partito “Servant of the People” (Servitore del Popolo), guidato dal presidente Volodymyr Zelensky, è stato deciso all’unanimità di sfiduciarla, e il parlamento ha poi ratificato la decisione (Dagospia)

In un post su Facebook il deputato ucraino Pavlov Frolov descrive così le motivazioni di tale allontanamento: “La signora Denisova non ha esercitato i suoi poteri organizzando corridoi umani, proteggendo e scambiando prigionieri, contrastando la deportazione di persone e bambini dai territori occupati, ecc”.

Un po’ di colore a questa parte della  vicenda e l’ulteriore accusa di aver passato troppo  tempo a Davos, Vienna e Varsavia anziché nei luoghi dove avrebbe potuto svolgere utilmente il suo ruolo di aiuto ai rifugiati.

E fino a qui l’accusa, vera o falsa che sia, ha una sua linearità: la Denisova non ha svolto efficacemente il compito che le era stato assegnato, dove l’accusa di non essersi impegnata per realizzare i corridoi umanitari suona terribile, avendo in tal modo condannato a morte persone.

Più curiosa un’altra accusa contro la Denisova riferita dal deputato, alla quale si imputa “la scarsa accuratezza […] riguardo i numerosi dettagli sui ‘crimini sessuali commessi in modo innaturale’ e sullo “stupro di bambini” nei territori occupati, che non potevano essere confermati da prove”, cosa che ha danneggiato l’Ucraina, distogliendo “l’attenzione dei media mondiali dai reali bisogni dell’Ucraina”.

Cioè la commissaria non è stata in grado di trovare prove e confermare le dichiarazioni che nelle scorse settimane avevano fatto il giro del mondo in merito a presunti crimini di natura sessuale perpetrati dalle truppe russe.

“Sessanta minorenni sono stati stuprati, centinaia hanno assistito a orrori disumani come vedere uccidere i propri familiari”.

“Riceviamo circa 700 chiamate al giorno e finora ci sono stati segnalati circa 43mila crimini di guerra. Tantissime negli ultimi giorni le richieste di aiuto dalla zona di Kharkiv. In un’ora due giorni fa sono arrivate dieci segnalazioni di violenze e in otto casi si trattava di minori e in due si trattava di bambini di appena dieci anni”. “Ci sono adolescenti violentate dai soldati russi che sono rimaste incinte…”

“…Serve un tribunale ad hoc come Norimberga per punire i responsabili e chi ha dato gli ordini”. “Dobbiamo parlare e riconoscere che in Ucraina c’è un genocidio in atto. Nelle zone liberate abbiamo ricevuto diverse segnalazioni di crimini di guerra quali stupri, molti su minori, che puntano a fare in modo che le donne non vogliano più avere figli, deportazioni, torture e omicidi. Abbiamo già passato diverse prove ai tribunali internazionali, e fra poco ne consegneremo di nuove per provare i crimini di guerra russi. Abbiamo assistito anche diverse persone che volevano tentare il suicidio, e anche in questi casi molti sono minori” (RaiNews)

Di tutto ciò non vi è quindi lo straccio di una prova. Ovviamente i media che hanno rilanciato queste assurdità senza cercare riscontri, e derubricando a filo-putiniani quanti prendevano tali denunce con le molle, non chiederanno scusa ai propri lettori né metteranno su un errata corrige. Né riferiranno con maggiore cautela accuse successive: quel che viene a Kiev è dogma e come tale indiscutibile fino a contrordine.

Contrordine giunto in questo caso solo perché la Denisova rischiava di far ombra a Zelensky, così che una battaglia interna alla politica ucraina ha svelato magagne che altrimenti sarebbero rimaste in ombra. La responsabile dei diritti umani farà ricorso, ma non sembra avere grandi speranze.

Per inciso si può ricordare che la Denisova fu la prima a denunciare la responsabilità russa per l’eccidio di Kramatorsk, quando un missile cadde sulla stazione ferroviaria facendo strage dei civili in fuga dalla guerra. E per accreditare la sua tesi disse che a colpire la folla era stato un Iskander, usato dai russi.

Solo un caso, il fatto che c’era in zona un giornalista zelante, riuscì a rischiarare l’accaduto, mostrando al mondo l’ordigno usato nell’occasione, un  Tocha-U e non un Iskander.

Per inciso, tanti, tra cui il nostro sito, rilevarono che quel tipo di missile era in uso agli ucraini, tesi contestata dai cacciatori di Fake che hanno asserito, con prove traballanti, che qualcuno di quei missili era ancora in uso all’esercito di Mosca.

Così il dogma della responsabilità russa fu salvato per alcune settimane dopo l’eccidio, nonostante altre letture sembrassero corroborare la pista ucraina (peraltro, nel prosieguo della guerra gli ucraini hanno continuato a usare quel tipo di missili, vedi sul sito dell’Atlantic Council).

Evidentemente la responsabilità di Mosca erano infondate, tanto che da tempo quella strage, etichettata come un crimine di guerra, non viene più ricordata dai media, né tale crimine viene più ascritto ai russi, al contrario di quanto avvenuto a Bucha, la cui relativa narrativa ha resistito alle tante evidenze contrarie.

È la legge della propaganda. Funziona così in ogni guerra. e In una guerra come quella ucraina, più mediatica di altre, certe forzature raggiungono il parossismo. Al tempo della Guerra Fredda si diceva, più o meno scherzando più o meno seriamente, che i russi mangiavano i bambini. Siamo tornati a quei tempi, con tutte le derive del caso.

(ANSA il 22 maggio 2022) - Quando era candidata presidenziale per i democratici nel 2016, Hillary Clinton aveva approvato un piano per diffondere discretamente ai media materiale relativo a un canale di comunicazione segreto tra la Trump Organization e la russa Alfa Bank, nonostante i funzionari della campagna non fossero "totalmente convinti" delle legittimità dei dati. 

Lo ha rivelato l'ex manager della campagna della Clinton, Robby Mook, testimoniando al processo all'ex avvocato del team elettorale Michael Sussmann, accusato di aver mentito all'Fbi. I presunti legami tra Trump e Alfa Bank sono stati poi smentiti dallo stesso Fbi.

Il brodo di coltura delle fake news. Gianni Canova su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Cultura e formazione dell’opinione pubblica: la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta.

Fare appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto; usare formule stereotipate ripetute all’infinito; scatenare attacchi continui agli oppositori, etichettati con epiteti riconoscibili e slogan che suscitino le reazioni viscerali delle masse. Sembrerebbero le regole di ingaggio di uno dei tanti talk show che ogni sera diffondono il virus dell’infodemia in un qualsiasi canale delle nostre tv generaliste. Ma non è così. Queste regole sono contenute e teorizzate nel Mein Kampf di Hitler, e ad esse si ispirava Goebbels nelle sue devastanti strategie di propaganda.

Io non so quanti tra i conduttori che negli ultimi anni hanno inondato l’etere e la rete di programmi che fanno «appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto» e «suscitano le reazioni viscerali delle masse» siano consapevoli di essere epigoni delle tecniche di propaganda del Terzo Reich. Che non erano poi molto dissimili da quelle teorizzate e praticate da Lenin. Certo è che nel nostro sistema comunicativo, in quello televisivo soprattutto, c’è un problema: forse non ancora una vocazione al totalitarismo ma certo una pratica — poco importa quanto consapevole — che punta al controllo e alla manipolazione dell’opinione pubblica e favorisce la diffusione delle fake news.

Certo: quelle che oggi chiamiamo fake news sono un fenomeno vecchio come il mondo. E da che mondo è mondo sono state armi potentissime nei conflitti bellici. Sono servite a combattere e a vincere guerre più che a manipolare l’opinione pubblica.

La più grande battaglia dell’antichità, quella che ha generato poemi, miti e leggende, la guerra di Troia, è stava vinta grazie a una fake news. L’ha vinta Ulisse, non l’ha vinta Achille. L’ha vinta con quella raffinatissima fake news, con quell’inganno comunicativo che è stato il cavallo di Troia, spacciando un’arma di distruzione di massa per un dono agli dei.

Cos’è cambiato da allora a oggi? Due cose. La prima: le fake news non sono più rivolte a ingannare il «nemico» ma a influenzare e a orientare l’opinione pubblica. La seconda: si inseriscono in un contesto sempre più marcatamente segnato dalla misinformazione, cioè da quel contesto comunicativo per cui l’utente finale è messo nella condizione di non poter mai verificare l’attendibilità delle fonti e la veridicità delle informazioni che gli vengono trasmesse.

Le fake news attecchiscono perché la misinformazione fornisce loro il brodo di coltura. Perché siamo tutti responsabili nell’aver consentito di proliferare a un sistema informativo che troppo spesso pone ogni informazione sullo stesso piano, che non verifica le fonti, che sforna informazioni che vengono puntualmente smentite per poi essere ribadite e quindi nuovo smentite e poi riaffermate e di nuovo smentite finché il tutto precipita nell’oblio, lasciando il cittadino nel disorientamento, nel disagio, nella diffidenza.

Totalitarismo? Forse non quello teorizzato da George Orwell in 1984, ma qualcosa di simile a quello immaginato da Huxley in Il mondo nuovo, questo forse sì.

Come ha scritto Neil Postman in un saggio lucidamente profetico come Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985), «Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato dell’informazione, Huxley temeva coloro che ce ne avrebbero data tanta da ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la verità ci sarebbe stata nascosta, Huxley temeva che la verità venisse affogata in un mare di irrilevanza». La profezia distopica di Huxley mi sembra non sia lontana dall’avverarsi: viviamo nell’età della distrazione e dell’indifferenza, affogati nel banale chiacchiericcio e nella hybris dell’insulto, immersi in una mediasfera dominata dall’indecidibilità. Uno vale uno. Chiunque può dire qualsiasi cosa senza timore di essere smentito, anzi, più le spara grosse, più le dice inattendibili, più è probabile che i talk show gli facciano eco e gli diano spazio. Generando la misinformazione in cui attecchiscono le fake news.

Per troppo tempo abbiamo assistito silenti se non complici alla porta-a-portizzazione della comunicazione. Abbiamo lasciato credere che comunicare sia urlare, insultare, banalizzare. Abbiamo lasciato la comunicazione televisiva in mano ai professionisti da talk show, agli acrobati degli anacoluti, ai prestigiatori dell’insulto, ai campioni della rissa verbale.

Ora è davvero tempo di porsi il problema dell’ecologia della comunicazione. Di battersi per riaffermare alcuni principi basilari. Impegnandosi ad esempio a scrivere in rete solo cose che si ha il coraggio di dire anche di persona. Valorizzando il valore dell’ascolto e del silenzio. Ricordando che gli insulti non sono argomenti, anche se sono insulti che sostengono le nostre tesi.

Ma si tratta soprattutto di rilanciare la lotta per la democrazia della conoscenza. Per la parità di accesso alle informazioni. Per la formazione di un’opinione pubblica dotata degli strumenti culturali necessari per distinguere una notizia falsa da una proveniente da fonte attendibile e accertata. In un Paese che ha ormai il 30% della popolazione adulta analfabeta o semianalfabeta, la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta. In assenza di questa, in assenza di una vera democrazia culturale, anche la democrazia politica rischia di diventare una pia illusione. O, se preferite, una fake new. 

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 21 maggio 2022.  

Nel corso di un talk show, qualche giorno fa, uno dei tanti opinionisti russi chiamati a fare da controcanto ai dibattiti sull'invasione dell'Ucraina rispose candidamente a una domanda ingenua del suo intervistatore: «Ma come mai le polemiche sulle vostre parole ci sono soltanto in Italia? ». «Perché negli altri paesi non ci invitano». 

Ecco, per capire il perché l'Italia è diventato un caso in Europa, perché siamo considerati la migliore "riserva russa" del continente, è utile tenere a mente questo scambio di battute. E leggere gli allarmi che da mesi i nostri servizi di sicurezze e gli analisti internazionali lanciano sul nostro Paese.

Il punto di partenza, evidentemente, è economico: la dipendenza dal gas, alcune scelte strategiche delle partecipate del passato (su tutte l'Eni ai tempi di Paolo Scaroni), altre decisioni più recenti (Enel, che è in società con il fondo sovrano, che incontra Putin a fine gennaio insieme con altre aziende italiane) hanno tessuto il filo tra i due paesi. 

Ma a tenerlo ben stretto, quel filo, è «il bombardamento delle menti e degli spiriti», per usare le parole di Josep Borrell, Alto rappresentante per le politiche di sicurezza dell'Unione europea. E cioè le tecniche di disinformazione che in Italia hanno trovato terreno molto fertile.

Gli scenari sono due. Il web, coi social network. E i media tradizionali. Sul web è stato dimostrato come l'inizio del conflitto in Ucraina è coinciso con l'aumento esponenziale di utenti iscritti a Twitter (38mila il giorno dei primi bombardamenti sull'Ucraina) e a Facebook.

Sono per lo più "bot", profili fittizi gestiti da computer che hanno il solo scopo di veicolare un certo tipo di notizie. Sono questo tipo di profili che servono ad alimentare le cosiddette "camere dell'eco", pagine e canali telegram, dove ogni complottismo e scetticismo trova terreno fertile grazie a notizie artatamente falsificate e messe in circolo. 

Per esempio: Zelensky che parla davanti a un tavolo pieno di cocaina. I soldati ucraini che usano come scudi umani i civili. La strage di Bucha raccontata come una bufala («Avete visto le immagini del New York Times?» chiedeva ieri un'utente. «Perché credi ancora al Nyt?» gli rispondeva un altro), o l'ospedale bombardato a Mariupol. In Italia i canali che diffondono questo tipo di notizie in maniera organizzata sono centinaia.

Molti erano vecchie pagine No Vax o No Pass ormai riconvertite, Cinque sono le pagine Facebook, tre i canali Telegram che sembrano più organizzati. Insieme fanno quasi un milione di utenti che quotidianamente vengono raggiunti da notizie di questo tipo. Ma chi li gestisce?

Al momento è possibile dire che una pagina è la stessa che raccoglie fondi per sostenere i carcerati neofascisti Giuliano Castellino e Roberto Fiore. In un'altra sono attivi vecchi esponenti dei 5S, ora fuoriusciti. Così come è stato provato che negli scorsi anni a San Pietroburgo, nelle cosiddette fabbriche di bot che avevano tra le altre cose inquinato il voto americano, lavorassero italiani. 

Paradossalmente più lineare è quello che sta accadendo nelle nostre tv. Dove opinionisti che lavorano per il Cremlino vengono chiamati a offrire il proprio punto di vista.

Nadana Fridrikhson, giornalista della tv Zvezda, Petr Fedorov, capo di Rtr, canale riconducibile alla televisione di stato russa. 

E Julia Vitazyeva, giornalista di NewsFront. Lavorano tutti per media direttamente o indirettamente (per il tramite dei loro direttori) sotto sanzione in Europa proprio perché accusati di essere propaganda, e dunque strumento di guerra ibrida, del Cremlino.

Hanno trovato spazio, anche sulla televisione pubblica, le immagini girate da Vyacheslav Amelyutin, operatore di Zvezda, che, insieme con il collega Konstilantin Khudoleev, faceva parte spedizione "Dalla Russia con amore". 

Ma i due secondo i nostri servizi non erano giornalisti. Ma spie. Infine, la data simbolo: il primo maggio, quando su due reti italiane (Rete 4 e La 7) furono trasmesse le interviste al ministro degli esteri russo Sergei Lavrov e al giornalista, megafono di Putin, Vladimir Solovyev. Entrambi sotto sanzione, erano in contemporanea sulle reti italiane.

La guerra in Ucraina. Sull’Ucraina ci spacciano notizie a senso unico. Rino Cammilleri su Nicolaporro.it il 20 Maggio 2022.

Come da prestidigitazione: tutti guardano la cartina d’Europa e non le nuove rotte artiche. Senza la guerra ucraina Svezia e Finlandia avrebbero potuto far digerire ai loro popoli l’abbandono della neutralità? Le nuove rotte artiche servono, infatti, anche alla Cina. Coi nuovi rompighiaccio si va dovunque. I russi hanno varato anche una centrale nucleare galleggiante. Eh, un piano ben congegnato a lungo preparato dalle teste d’uovo angloamericane: una guerricciola in casa d’altri, tre piccioni.

Gli ucraini? Expendables. Possibile che Putin, proveniente dal servizio segreto più kazzuto del mondo, non lo sapesse? Impossibile. Purtroppo non lo sapremo mai. Com’è noto, possiamo ricevere solo notizie pro-Zelensky, la versione di Putin ci è preclusa. E, se qualcosa trapela, è fake, propaganda di guerra, menzogne insomma. E se qualcuno mostra di almeno sospettare che qualcosa non torna, dàlli al putiniano, cacciatelo, non fate parlare il traditore e venduto al nemico. Per esempio, leggo in un intervento su Facebook di quel che hanno trovato i russi nei laboratori di armi biologiche della Azovstal: il generale canadese Trevor Cadieu, l’ammiraglio americano Eric Thor Olson, il generale Roger Cloutier e il colonnello John Bailey, inglesi. È vero? È falso? Boh.

C’erano laboratori di armi biologiche là? Ri-Boh. Il solito Capuozzo si chiedeva perché i russi esitassero a spianare la Azovstal pur potendo. E domandava: non è che lì sotto c’erano, appunto, ufficiali Nato che Putin non intendeva seppellire per non rischiare la Terza Guerra Mondiale? Chi è uscito da quei sotterranei? Personaggi utili allo scambio? E di che? Ripeto, non lo sapremo mai. Intanto, però, un sondaggio di Nando Pagnoncelli per il programma di Floris su La7 dimostra che, malgrado tutto, gli italiani sono meno cretini di quel che vogliono farli diventare. Un robusto 36% ritiene sbagliata la fretta e furia con cui Finlandia e Svezia bussano alla porta Nato. E, udite, nientemeno che il 65% trova che gli Usa stiano facendo il loro interesse alle spalle dell’Europa e dell’Italia. Solo uno su quattro pensa davvero che, dando armi a Zelensky, si difenda la democrazia.

E tutto questo malgrado il martellamento ossessivo e continuo di tutte, tutte, le televisioni nazionali, tutti i quotidiani tranne un paio, e non so la radio perché non la seguo. Non c’è uno, dico uno, che nei talk, se ha qualcosa da timidamente obiettare, non si sottometta al rito preventivo di dichiarare da che parte sta (la solita), distinguendo «tra aggressore e aggredito» (lo fa anche il famigerato Orsini), schierandosi, come i paladini medievali, a difesa «del povero e dell’oppresso, della vedova e dell’orfano». Ma chi conosce la storia sa come andò davvero la «proditoria aggressione» a Pearl Harbor. Una delle tante (se non tutte) subìte dagli americani nell’intera loro storia. Forse Renzi fu profeta – pro domo sua, ovvio – quando mise il canone in bolletta.

Infatti, sono ormai maggioranza (vedi Pagnoncelli) quelli che non si riconoscono più nella televisione, pubblica e privata: tutti i tiggì, quasi tutti i talk cantano la stessa canzone. Resterebbero solo i film, ma ecco che la Giornata Antiomofobia li trasmette a tema (unico), anche se non risulta sia mai stata ufficializzata e non pochi italiani non siano proprio d’accordo. Non parliamo della carta stampata, che senza le provvidenze statali avrebbe chiuso da quel dì: da qui la singolarità tutta italiana di un premier applaudito in sala stampa prima ancora che apra bocca. Ci consola (si fa per dire) che, quanto ad applausi preventivi, gli svedesi-Nato non stanno meglio: vedi il Nobel a Obama a prescindere. Rino Cammilleri, 20 maggio 2022

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 20 maggio 2022.

Ora è ufficiale: la disinformazione russa è un problema di sicurezza nazionale, tant' è che il Copasir, il comitato parlamentare che vigila sulla sicurezza nazionale, dopo le prime audizioni in tema, ha deciso una formale «indagine conoscitiva sulle forme di disinformazione e di ingerenza straniere, anche con riferimento alle minacce ibride e di natura cibernetica».

Finora erano stati sentiti il direttore dell'Aise, Giovanni Caravelli, il direttore dell'Aisi, Mario Parente, l'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes e il presidente dell'Agcom, Giacomo Lasorella. Ma non basta. È in programma una raffica di nuove audizioni: direttore generale del Dis, Elisabetta Belloni; direttore dell'Agenzia per la cybersicurezza, Roberto Baldoni; sottosegretario di Stato con delega per l'informazione, Giuseppe Moles; direttore della Polizia postale, Ivano Gabrielli.

«Ulteriori approfondimenti - rende noto il presidente del Copasir, Adolfo Urso - saranno svolti attraverso una missione che si svolgerà a Bruxelles per un confronto con gli organismi e i gruppi di lavoro che in ambito comunitario sono impegnati sulle medesime tematiche». A Bruxelles, infatti, incardinato negli uffici della Commissione europea, c'è uno speciale team che tiene sotto controllo l'andamento delle «fake news» e della disinformazione statuale. 

Finora sono state registrate 15mila «bufale», costruite a tavolino e rilanciate con un sapiente uso dei social. I russi sarebbero i principali protagonisti di questa disinformazione statuale, che avrebbe l'obiettivo di minare la coesione sociale e culturale nei Paesi aderenti all'Unione. Una delle campagne ha tentato di far credere che il vaccino russo Sputnik fosse migliore di quelli occidentali.

Toni Capuozzo, Mario Giordano rivela lo scandalo: "Che cosa gli è successo. Non fidatevi..."Libero Quotidiano il 19 maggio 2022.

Mario Giordano da sempre lotta contro quelli che lui chiama i "tromboni". Tromboni della tv, della scienza, della politica, dell'economia. Ci ha scritto pure un libro. Ora il conduttore di Fuori dal coro, su Rete 4, in una intervista a Sorrisi.com spiega che per lui i tromboni sono "quelli che salgono in cattedra. Hanno la verità in tasca: spiegano, pontificano. Poi si sbagliano. E poi riprendono a spiegare...". Tra questi "i più sfacciati sono anche quelli che alla fine fanno meno danni", osserva Giordano. "Ma come non credere all’illustre economista? O al grande scienziato? Peccato però che spesso siano i fatti a smentirli". 

Per evitare di diventare tromboni, prosegue il giornalista bisogna coltivare "l’arte del dubbio. Facendoci sempre una domanda in più. E poi con l’umorismo. I tromboni sono privi di autoironia". E Giordano ovviamente si considera l'anti-trombone: "Chi grida, magari in tv, come me, è convinto di poter cambiare le cose che non vanno. Chi è rassegnato, invece, usa formule concilianti del tipo “ma perché ti scaldi tanto, che ci vuoi fare, è sempre andata così...”. Il vero scandalo è la rassegnazione".

Quindi, conclude Giordano, "quando vi raccontano una storia a senso unico, non fidatevi. Veniamo da anni di conformismo, favorito dalla pandemia e ora dalla guerra. Chi esprime un dubbio è subito etichettato: 'no-vax', 'pro-Putin'.. È successo a Toni Capuozzo, un grande inviato di guerra. Ma il caso più esemplare è quello del professor Alessandro Barbero. Prima era lo storico per eccellenza e tutti pendevano dalle sue labbra. Poi ha osato criticare il Green pass ed è diventato un bersaglio. Avete notato che non è più tornato sull’argomento? Ovvio, chi glielo fa fare? Chi ha voglia di farsi massacrare? A me però dispiace non sentire più la sua opinione".

Dagonews il 18 maggio 2022.

Il 13 maggio abbiamo bacchettato Maurizio Cecconi, Segretario generale di Ermitage Italia, “colpevole” ai nostri occhi di aver rilanciato su facebook un articolo attribuito a Lucio Caracciolo (che a noi risultava fake), di luglio 2021, in cui si profetizzava uno scontro di lungo periodo tra gli Usa e la Cina che sarebbe passato per uno scontro di Washington con la Russia. 

Mai avremmo affondato il rimbrotto a Cecconi se non avessimo prima chiesto conferma direttamente a Lucio Caracciolo. Il direttore di “Limes” smentì a Dagospia la paternità del pezzo, non ricordando in quel momento di averlo scritto mesi prima per il settimanale ticinese “Azione”.

Ora che la memoria è riaffiorata, Caracciolo ha confermato alla nostra redazione di essere effettivamente l’autore dell’analisi da oracolo (visti gli attuali sviluppi), che tanta eco ha avuto in rete: “Dopo aver inflitto nel 2014 una sconfitta storica a Putin, trovato con la guardia bassa in Ucraina e quindi ormai costretto nel ridotto crimeano e nel Donbas – dove le truppe di Mosca sostengono discretamente i ribelli anti-Kiev – i paesi della Nato baltica e russofoba sentono prossima la vittoria.  Che per loro, come per gli americani, significa la disintegrazione della Russia. Sulle orme del collasso sovietico del 1991”.

Ci scusiamo con Maurizio Cecconi e con i lettori per il disguido. 

Ps: ora che sappiamo con certezza che l’articolo è di Lucio Caracciolo, dunque di un autorevole studioso di geopolitica e non di un pataccaro, forse ha senso rileggere l’analisi criticamente. 

Chi maneggiava informazioni geo-strategiche, evidentemente, “sapeva” da tempo cosa sarebbe accaduto tra Stati uniti e Russia. Era chiaro lo scenario, che aveva al centro non il tanto evocato espansionismo di Mosca ma la sfida americana prima alla Cina e poi a Putin. 

Caracciolo aveva messo a fuoco come per Washington, paesi baltici e i vari russofobi d’Europa (polacchi in testa) l’unico scenario accettabile fosse “la disintegrazione della Russia”. In questo scenario, il direttore di “Limes” aveva anticipato (e, all’interno del ragionamento, in qualche modo giustificato) l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin: “E la Russia? Non va troppo per il sottile. In caso fosse alle strette, Mosca sarebbe pronta alla guerra. Perché ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza”. 

Dagospia il 13 maggio 2022. L’articolo fake che è stato attribuito a Lucio Caracciolo.

Gli Stati Uniti hanno deciso di buttare fuori pista la Cina entro questo decennio. La Cina ha giocato la carta russa per impedirlo, stringendo una quasi inedita intesa con la Russia.

Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale gli americani si trovano quindi a fronteggiare due grandi potenze, la seconda e la terza del pianeta, in una partita che segue ormai la logica di guerra. Somma zero. 

In questo schema triangolare, Washington ha due opzioni per evitare il possibile scontro contemporaneo con entrambe le rivali. La prima, elementare secondo la grammatica della potenza, è di giocare la più debole contro la più forte: Mosca contro Pechino. La seconda, più rischiosa, sta nel liquidare prima la Russia per poi chiudere il match con la Cina ormai isolata.

Soffocandola nel suo angolo di mondo dove, senza più il vincolo con i russi, Pechino sarebbe completamente circondata: lungo i mari dalla linea India-Australia-Giappone teleguidata da Washington.  Per terra da quasi tutti i vicini, India e Russia in testa. È questa seconda ipotesi che comincia a circolare a Washington. E che Biden sta illustrando ai soci atlantici ed asiatici, perché certo da sola l’America non ce la può fare. Le risposte finora avute dai possibili o effettivi alleati sono abbastanza promettenti. Su tutti e prima di tutti, ovviamente i cugini britannici. 

Global Britain vive in simbiosi con gli Stati Uniti. La strategia geopolitica di Boris Johnson, appena licenziata, presenta quindi un profilo smaccatamente antirusso prima ancora che anticinese. Nella linea della tradizionale, atavica russofobia britannica. Ma con quel pepe in più che il Brexit e il conseguente allineamento totale a Washington impongono.

Il «brillante secondo» ha risposto sì all’appello del Numero Uno: pronti a far fuori la Russia, con le buone o con le cattive.

Siccome lo scontro antirusso sarebbe tutto giocato in Europa, e più specificamente in quella parte mediana del continente che separa la Germania dalla Russia – sicché nella storia è stata spesso spartita fra i due imperi – il sì di polacchi, baltici e romeni è particolarmente squillante. 

Dopo aver inflitto nel 2014 una sconfitta storica a Putin, trovato con la guardia bassa in Ucraina e quindi ormai costretto nel ridotto crimeano e nel Donbas – dove le truppe di Mosca sostengono discretamente i ribelli anti-Kiev – i paesi della Nato baltica e russofoba sentono prossima la vittoria.  Che per loro, come per gli americani, significa la disintegrazione della Russia. Sulle orme del collasso sovietico del 1991.

La pressione atlantica, diretta dagli americani e sostenuta dai britannici, si concentra su tre quadranti: Baltico, Nero e Caucaso. Nel Baltico le basi americane e atlantiche sono rafforzate e ancor più lo saranno nel prossimo futuro. Per esempio in Polonia, dove non ci sarà più «Fort Trump» – una base avanzata americana intitolata all’allora presidente della Casa Bianca – ma ci saranno certamente dei «Fort Biden», di nome e/o di fatto. 

Intanto, per chiarire come stanno le cose, Washington è decisa a interrompere in un modo o nell’altro il progetto di raddoppio del gasdotto Nordstream, ormai quasi completato.

Simbolo della cooperazione sotterranea – nel caso, sottomarina – fra Berlino e Mosca che ogni tanto emerge dai suoi percorsi carsici, e che per Washington come per Varsavia è il Male assoluto. 

La definizione che l’ex ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski diede di quel tubo subacqueo – «gasdotto Molotov-Ribbentrop» – fotografa questo punto di vista.

Non per caso Washington ha inviato navi da guerra a pattugliare le acque dove quel vincolo energetico fra Russia e Germania sta finendo di materializzarsi. Sul fronte del Mar Nero, gli ucraini stanno spostando armi e truppe verso il Donbas, mentre i russi stanno facendo lo stesso in direzione opposta e contraria.

La tensione attorno alla Crimea ma anche nell’area di Odessa sta salendo. Per terra e/o per mare potrebbero accadere «incidenti» dagli effetti imprevedibili. Con i romeni pronti a farsi valere, e ad accogliere eventuali contingenti Nato (anche per risolvere la loro questione moldova-transnistriana, un pezzo di Romania che Bucarest considera intimamente proprio, solo provvisoriamente indipendente). 

Tra Nero e Caucaso, dopo gli scontri per il Nagorno-Karabakh rischia di riesplodere anche la polveriera georgiana.  Qui, fra l’altro, la filiera jihadista resta un fattore non trascurabile.

Se necessario, americani e altri occidentali potrebbero eccitarla contro Mosca, sulla falsariga dell’Afghanistan negli anni Ottanta. E la Russia? Non va troppo per il sottile. In caso fosse alle strette, Mosca sarebbe pronta alla guerra. Perché ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza. 

Nel frattempo, come da antico costume, si preoccupa di allacciare o riallacciare relazioni proficue con Germania, Francia e Italia, i tre principali paesi continentali, che non hanno mai condiviso la passione antirussa degli ex satelliti dell’Urss. I prossimi mesi ci diranno se questa crescente pressione americana, via Nato, sulla Russia, sarà contenuta o se, magari inavvertitamente, produrrà la scintilla di un conflitto dalle imponderabili conseguenze. 

Liquidare la Russia e isolare la Cina. Big Game - Gli Stati Uniti definiscono le priorità del decennio sullo scacchiere internazionale, rafforzando le alleanze nel Pacifico e in Europa per aver ragione delle due altre potenze mondiali, di Lucio Caracciolo su azione.ch il 12.04.2021.

Gli Stati Uniti hanno deciso di buttare fuori pista la Cina entro questo decennio. La Cina ha giocato la carta russa per impedirlo, stringendo una quasi inedita intesa con la Russia. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale gli americani si trovano quindi a fronteggiare due grandi potenze, la seconda e la terza del pianeta, in una partita che segue ormai la logica di guerra. Somma zero.

In questo schema triangolare, Washington ha due opzioni per evitare il possibile scontro contemporaneo con entrambe le rivali. La prima, elementare secondo la grammatica della potenza, è di giocare la più debole contro la più forte: Mosca contro Pechino. La seconda, più rischiosa, sta nel liquidare prima la Russia per poi chiudere il match con la Cina ormai isolata. Soffocandola nel suo angolo di mondo dove, senza più il vincolo con i russi, Pechino sarebbe completamente circondata: lungo i mari dalla linea India-Australia-Giappone teleguidata da Washington. Per terra da quasi tutti i vicini, India e Russia in testa.

È questa seconda ipotesi che comincia a circolare a Washington. E che Biden sta illustrando ai soci atlantici ed asiatici, perché certo da sola l’America non ce la può fare. Le risposte finora avute dai possibili o effettivi alleati sono abbastanza promettenti. Su tutti e prima di tutti, ovviamente i cugini britannici. Global Britain vive in simbiosi con gli Stati Uniti. La strategia geopolitica di Boris Johnson, appena licenziata, presenta quindi un profilo smaccatamente antirusso prima ancora che anticinese. Nella linea della tradizionale, atavica russofobia britannica. Ma con quel pepe in più che il Brexit e il conseguente allineamento totale a Washington impongono. Il «brillante secondo» ha risposto sì all’appello del Numero Uno: pronti a far fuori la Russia, con le buone o con le cattive.

Siccome lo scontro antirusso sarebbe tutto giocato in Europa, e più specificamente in quella parte mediana del continente che separa la Germania dalla Russia – sicché nella storia è stata spesso spartita fra i due imperi – il sì di polacchi, baltici e romeni è particolarmente squillante. Dopo aver inflitto nel 2014 una sconfitta storica a Putin, trovato con la guardia bassa in Ucraina e quindi ormai costretto nel ridotto crimeano e nel Donbas – dove le truppe di Mosca sostengono discretamente i ribelli anti-Kiev – i paesi della Nato baltica e russofoba sentono prossima la vittoria. Che per loro, come per gli americani, significa la disintegrazione della Russia. Sulle orme del collasso sovietico del 1991.

La pressione atlantica, diretta dagli americani e sostenuta dai britannici, si concentra su tre quadranti: Baltico, Nero e Caucaso.

Nel Baltico le basi americane e atlantiche sono rafforzate e ancor più lo saranno nel prossimo futuro. Per esempio in Polonia, dove non ci sarà più «Fort Trump» – una base avanzata americana intitolata all’allora presidente della Casa Bianca – ma ci saranno certamente dei «Fort Biden», di nome e/o di fatto. Intanto, per chiarire come stanno le cose, Washington è decisa a interrompere in un modo o nell’altro il progetto di raddoppio del gasdotto Nordstream, ormai quasi completato. Simbolo della cooperazione sotterranea – nel caso, sottomarina – fra Berlino e Mosca che ogni tanto emerge dai suoi percorsi carsici, e che per Washington come per Varsavia è il Male assoluto. La definizione che l’ex ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski diede di quel tubo subacqueo – «gasdotto Molotov-Ribbentrop» – fotografa questo punto di vista. Non per caso Washington ha inviato navi da guerra a pattugliare le acque dove quel vincolo energetico fra Russia e Germania sta finendo di materializzarsi.

Sul fronte del Mar Nero, gli ucraini stanno spostando armi e truppe verso il Donbas, mentre i russi stanno facendo lo stesso in direzione opposta e contraria. La tensione attorno alla Crimea ma anche nell’area di Odessa sta salendo. Per terra e/o per mare potrebbero accadere «incidenti» dagli effetti imprevedibili. Con i romeni pronti a farsi valere, e ad accogliere eventuali contingenti Nato (anche per risolvere la loro questione moldova-transnistriana, un pezzo di Romania che Bucarest considera intimamente proprio, solo provvisoriamente indipendente).

Tra Nero e Caucaso, dopo gli scontri per il Nagorno-Karabakh rischia di riesplodere anche la polveriera georgiana. Qui, fra l’altro, la filiera jihadista resta un fattore non trascurabile. Se necessario, americani e altri occidentali potrebbero eccitarla contro Mosca, sulla falsariga dell’Afghanistan negli anni Ottanta.

E la Russia? Non va troppo per il sottile. In caso fosse alle strette, Mosca sarebbe pronta alla guerra. Perché ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza. Nel frattempo, come da antico costume, si preoccupa di allacciare o riallacciare relazioni proficue con Germania, Francia e Italia, i tre principali paesi continentali, che non hanno mai condiviso la passione antirussa degli ex satelliti dell’Urss. I prossimi mesi ci diranno se questa crescente pressione americana, via Nato, sulla Russia, sarà contenuta o se, magari inavvertitamente, produrrà la scintilla di un conflitto dalle imponderabili conseguenze.

(ANSA il 9 maggio 2022) - "La task force europea ha accertato oltre 13mila casi di disinformazione russa in Europa dal 2014 ad oggi. Nelle nostre relazioni il Copasir ha denunciato come la macchina della propaganda agisca anche nel nostro Paese ed ora stiamo svolgendo un accertamento con i direttori dell'intelligence ed altre istituzioni che devono essere consapevoli di ciò che abbiamo acquisito sulla disinformazione". 

Lo ha detto il presidente del Copasir Adolfo Urso al programma '24 mattino' su Radio 24. Sul tema, il Comitato ha in programma le audizioni del direttore dell'Aisi, dell'ad della Rai e del presidente di Agcom.

"La disinformazione russa - ha osservato Urso - opera anche attraverso spionaggio, assunzioni in aziende russe, campagne e fake news. Dobbiamo quindi accertare che l'informazione sia libera da questa opera sistematica di ingerenza straniera, che arriva dal Cremlino, ma non solo: ci hanno fatto credere che il vaccino Sputnik fosse efficace e che quello cinese fosse il migliore del mondo quando la realtà era ben diversa".

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 10 maggio 2022.

Adolfo Urso, presidente meloniano del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo dei Servizi segreti, è persona dabbene. Con inappuntabile understatement oggi ha lo sguardo puntato verso l'immaginario sestante della propaganda russa che - pure in Italia - sta diventando parte dell'arsenale di guerra del Cremlino. Se Urso lancia un allarme, non lo fa a capocchia. 

Presidente, il Copasir in queste ore di "disinformatia" - come chiamano i russi il lento insinuarsi delle fake news nel tessuto sociale- ha parecchio lavoro. È brutto dire che "l'avevamo detto", eppure "l'avevate detto", no?

«Sì. Avevamo avvertito che la Russia utilizzava l'energia come fattore di potenza e che era assolutamente necessario affrancarci dalla dipendenza sia diversificando le fonti sia aumentando la produzione nazionale, avevano anche scritto che con "l'escalation militare in Ucraina il problema sarebbe esploso".

Avevamo allertato sulla postura aggressiva di Putin, le cui avvisaglie erano, tra gli altri, i sei golpe nel Sahel di cui cinque riusciti. Nel Mali e nella Repubblica Centrafricana sono stati allontanati i militari europei per far posto ai mercenari putiniani della Wagner. E avevano anche indicato nel referendum in Bielorussia il punto di svolta perché avrebbe abolito la neutralità del Paese consentendo di dispiegare nel suo territorio, ai confini della Ue, il dispositivo nucleare russo». 

Non ci siamo svegliati un po' tardi - nell'eccesso italico di filoputismo- nel capire che la maskirovka, l'arte dell'inganno russa sarebbe stata un'arma tattica formidabile per una guerra ibrida?

«Guardi, il punto di svolta è avvenuto proprio con la annessione della Crimea, è la guerra nel Donbass, la prima risoluzione del Parlamento europeo del 2016. Nelle nostre relazioni il Copasir ha denunciato come la macchina della propaganda agisca anche nel nostro Paese, lo abbiamo fatto con nettezza durante la pandemia: abbiano denunciato una azione sistemica di disinformazione, nel mondo del web ma anche con attori strutturati nel modo della cultura e nelle università, così come nel sistema della comunicazione. Abbiamo denunciato che l'attività infodemica rilevata si inquadrava in un contesto geopolitico in cui regimi autocratici tendono a condizionare le democrazie occidentali».

Un conto è denunciare, un conto è prendere i provvedimenti necessari...

«Lo stiamo facendo, anche in seguito a quanto denunciato nella risoluzione approvata dal Parlamento europeo del 22 marzo- ribadito nella sentenza del Tribunale Ue in cui si afferma che le sanzioni nei confronti di media collegati al Cremlino sono assoluta mente necessarie perché propaganda e disinformazione fanno parte dell'arsenale di guerra del Cremlino. Da presidente del Copasir le dico che la macchina dell'informazione russa - come la cinese - è continuamente attiva. Da giornalista mi stupisco che ve ne accorgiate solo oggi».

In questo contesto, lei come ha letto il discorso del 9 maggio - commemorazione della liberazione dal nazifascismo, giorno top della propaganda - di Putin alla nazione?

«La Russia manipola la realtà dei fatti. Prenda il discorso di Putin oggi; secondo lui la Nato li stava "per attaccare". Peccato che Biden, attraverso le informazioni dell'intelligence americana abbia pubblicato anticipatamente non solo la metodologia ma anche le date e le ore dell'attacco di Mosca all'Ucraina.Ci hanno fatto credere persino che il vaccino Sputnik fosse efficace e che quello cinese fosse il migliore del mondo quando la realtà era ben diversa». 

In Italia operano molte spie russe?

«Certo che sì e con modalità che abbiamo peraltro descritto nell'ultima relazione al Parlamento quando abbiamo affrontato il caso Biot».

E come le reclutano, le spie?

«Il reclutamento dei russi avviene tramite spionaggio, arruolamento e propaganda, messa a libro paga di dirigenti, fake news, campagne social, attacchi cibernetici. Ripeto: in relazione alla guerra d'Ucraina avevamo riferito in Parlamento già il 9 febbraio scorso nella nostra relazione annuale, e prima ancora l'avevamo fatto il 13 gennaio per quanto riguarda nello specifico la sicurezza energetica, ben 40 giorni prima dell'invasione!». 

In questi giorni la Rai fibrilla per il caso di possibili infiltrazioni putiniane. Avete notizia o sentore che la disinformazione russa possa insinuarsi (anche con inconsapevole appoggio dei conduttori) nei nostri programmi televisivi, Rai compresa, appunto?

«Noi abbiano aperto un'istruttoria anche sulla base di quel che ci ha recentemente detto l'Ue. E comunichiamo solo con le relazioni al Parlamento. Indiscrezioni, allusioni o maldicenze non appartengono al nostro operare, semmai proprio alla disinformazione che dobbiamo contrastare». 

Vi risulta che alcuni ospiti tv come il professore Orsini e vari giornalisti moscoviti siano in odore di essere a libro paga? Come reagirebbe il Copasir di fronte a notizie del genere?

«Con la serietà che compete all'organo Parlamentare cui è delegato il compito di verifica e controllo nell'ambito della Sicurezza nazionale. La legge ci impone assoluta riservatezza e quindi lei mi pone una domanda per me irricevibile (la voce di Urso, qui, è lievemente incrinata. Per ogni affermazione che possa disvelare segreti di Stato ogni membro del Copasir può rischiare fino a 15 anni di galera, ndr)». 

Che timori avete in merito a possibili infiltrazioni della propaganda russa nei nostri media?

«Le stesse che hanno i nostri partner europei. Basta leggere le risoluzioni del Parlamento europeo, specifiche e dettagliate, e i data base recentemente pubblicati da parte della task force della commissione che parlano di oltre tredicimila casi di disinformazioni accertate, o ancora la recentissima sentenza del Tribunale europeo che ha respinto il ricorso di un media sanzionato, per renderci conto di quale sia la minaccia che incombe e contro la quale abbiano il dovere di agire per tutelare la nostra informazione, che deve essere libera da ogni condizionamento e quindi anche dalle ingerenze straniere».

Insisto, mi scusi. Il fatto che, data questa sorta di "par condicio" nei talk, anche Rai, tra russi e ucraini (unico caso in Occidente), l'opinione pubblica si sta modificando a favore di Putin lo ritenete verosimile? Vi preoccupa?

«Ben venga la "par condicio" purché sia espressione di pluralismo e libertà di opinione e di valutazione. Il problema, lo ripeto, è inverso: dobbiamo evitare che la macchina della disinformazione, che i sistemi autocratici utilizzano nei loro regimi e anche nei nostri confronti, condizioni le nostre libere valutazioni, con i mezzi che sono abituali a quel sistema e che abbiamo denunciato più volte in relazioni al Parlamento. Anche in altre epoche storiche vi era chi guardava a Mosca per convinzioni ideologiche o per altro. Noi siamo una grande democrazia che si fonda proprio sulla libertà, di opinione e informazione, noi abbiamo il compito di preservarla da ogni ingerenza».

E sta bene, presidente, il quadro è fosco e la democrazia va difesa ad ogni coso. Sottoscriviamo tutto. Però, concretamente, il Copasir che linea di difesa sta adottando? «Ora la strutturiamo attraverso le audizioni, con i direttori dell'intelligence, ma anche con altri soggetti che pensiamo utile informare proprio per realizzare quella "resilienza" che il Parlamento europeo sollecita nei suoi documenti. C'è già stata l'audizione del capo del Aise, ci saranno quelle dell'Aisi e del Dis, dell'ad della Rai e del presidente di Agcom. La disinformazione russa opera in tutta Europa. Dobbiamo difenderci dal tentativo di penetrazione e di condizionamento dei sistemi autocratici che vorrebbero imporre anche da noi la neolingua del Grande Fratello...».

Italia Today. Dalla Nato a Macron, il metaverso dell’informazione in cui i virgolettati inventati di oggi rafforzano le balle di ieri. Francesco Cundari su l'Inkiesta l'11 maggio 2022.

Come in tanta pessima cronaca giudiziaria, non è mai l’esattezza della contestazione, ma il cumulo e la gravità delle accuse, a convincere il lettore.

Si tratti di giornalista professionista, opinionista occasionale o semplice twittatore a tempo perso, la vita del commentatore di cose politiche, in Italia, non è mai stata così dura. Ieri mattina non si era ancora spenta l’eco di tutte le voci che da due giorni ripetevano la bufala della generosa offerta di Zelensky sulla Crimea brutalmente stoppata da Stoltenberg – vicenda in cui non uno dei personaggi coinvolti aveva effettivamente detto quanto gli veniva attribuito in Italia – che il copione si ripeteva pari pari con le dichiarazioni di Macron al Parlamento europeo.

E così, senza soluzione di continuità, passavamo dai titoli sulla «Nato contro Zelensky» e addirittura su Stoltenberg che «zittisce Kiev» (per non parlare del surreale «Nato contro Zelensky: “La Crimea è nostra”», dove sembrava quasi che la penisola fosse stata annessa agli Stati Uniti), a un’analoga sfilza di titoli fantapolitici sul presidente francese, dal secco «Macron: “Non si ottiene la pace umiliando Mosca”» al più estremo «Macron stoppa “l’atlantista ad oltranza” Draghi e avverte Biden: “Non possiamo umiliare Putin”». Affermazioni mai pronunciate dal presidente francese che imprimevano poi, come sempre accade in questi casi, un ulteriore giro alla giostra delle reazioni, per forza di cosa altrettanto infondate, con Salvini a lodare Macron per le sue «parole sagge» e con i sostenitori di Giuseppe Conte a inorgoglirsi su twitter perché il loro beniamino «lo dice da un mese».

Qui c’è il testo integrale dell’intervento di Emmanuel Macron davanti al Parlamento europeo. Per i più pigri, ecco il passaggio incriminato: «Spetta all’Ucraina definire le condizioni per i negoziati con la Russia. Il nostro dovere è di stare al suo fianco per ottenere un cessate il fuoco e poi costruire la pace. Allora saremo lì per ricostruire l’Ucraina come europei, sempre. Perché, infine, quando la pace tornerà sul suolo europeo, dovremo costruire nuovi equilibri di sicurezza e non dovremo mai cedere alla tentazione dell’umiliazione o allo spirito di vendetta, perché hanno già, in passato, devastato i sentieri della pace» (Per i più sospettosi, qui c’è anche il video).

Come si vede, Macron non ha detto da nessuna parte che per ottenere la pace bisogna evitare di umiliare la Russia; ha detto che, una volta ottenuta la pace, bisognerà evitare di cedere alla tentazione delle vendette e delle umiliazioni, che è discorso ben diverso.

La prima versione, però, si adattava benissimo alla delirante narrazione del giorno prima, perché sembrava proprio una risposta alle affermazioni di Stoltenberg. In altre parole, un’affermazione che Macron non aveva fatto rispondeva a una dichiarazione che Stoltenberg non aveva pronunciato, che a sua volta rispondeva a un’offerta che Zelensky non aveva mai avanzato. Come vogliamo chiamare tutto questo: metaverso? Ma quello che conta è che ciascuna di queste fanta-risposte confermava la fanta-dichiarazione precedente, rafforzando il quadro d’insieme, proprio come accade in tanta pessima cronaca giudiziaria, in cui non è mai l’esattezza della contestazione, ma il cumulo e la gravità delle accuse, a confermare nel lettore la tesi del pubblico ministero (che non per niente è spesso la principale fonte del cronista).

In questo caso la tesi di fondo era evidentemente quella che da settimane sentiamo ripetere, più o meno esplicitamente, da politici, giornalisti e opinionisti dei più diversi orientamenti: i veri responsabili della guerra non sarebbero i russi, ma gli americani. È la tesi che i più raffinati definiscono della «guerra per procura», secondo cui gli ucraini avrebbero sostanzialmente il ruolo delle marionette nelle mani della Nato. Teoria smentita dal fatto che, come tutti sanno, gli americani erano i primi a non credere alla resistenza ucraina, nella convinzione che i russi avrebbero li avrebbero sbaragliati in un attimo, e proprio per questo Biden aveva offerto a Zelensky un aiuto per scappare. È stato Zelensky a cambiare le carte sul tavolo della politica internazionale, rispondendo che voleva munizioni, non un passaggio. Sono stati gli ucraini, con una resistenza su cui all’inizio nessuno aveva scommesso un centesimo, a cambiare la situazione sul campo e a far ricredere gli stessi americani.

Eppure la storia secondo cui sarebbe tutto un piano degli Stati Uniti e una manovra della Nato, in cui al massimo Putin avrebbe avuto la colpa di cadere (povero caro, è tanto ingenuo), c’è poco da fare, sui mezzi di comunicazione italiani sembra essere più forte di ogni smentita. Come dimostra tutta l’incredibile concatenazione di fregnacce che ci hanno travolto in questi giorni.

Ricapitolando, venerdì 6 maggio, intervistato dalla Chatham House, Zelensky dice che «la condizione minima» per negoziare, banalmente, è il ritorno alla situazione precedente l’invasione del 24 febbraio: «I russi devono rientrare lungo le linee di contatto e ritirare le loro truppe. Solo in quel caso ritorneremo a discutere di pace normalmente». Dunque, siccome l’annessione della Crimea è avvenuta diversi anni prima dello scorso 24 febbraio, in Italia – e soltanto in Italia – si comincia a discutere della presunta offerta della Crimea da parte di Zelensky, offerta che non per caso nessun giornale del mondo, fuori dall’Italia, ha mai menzionato.

Per la stessa ragione nessun giornale del mondo, al di fuori dell’Italia, ha ripreso la notizia dello stop che alla non-offerta sarebbe arrivato da Jens Stoltenberg, nella sua intervista al giornale tedesco Welt, dove il segretario generale della Nato si limitava a ripetere per l’ennesima volta che «i membri della Nato non accetteranno mai l’annessione illegale della Crimea», aggiungendo peraltro: «In ultima analisi la decisione su come disegnare la pace spetta al governo e al popolo sovrano dell’Ucraina. Questo non lo possiamo decidere noi». Dunque, anche qui, esattamente il contrario di quanto gli veniva attribuito in Italia.

Eppure, per come funzionano le cose in Italia, c’è poco da fare: ormai la slavina è partita. Non a caso, da settimane non c’è più una dichiarazione di Conte o di Salvini che non contenga una qualche allusione a quelli che in occidente non vorrebbero la pace, fino al grottesco rovesciamento dei ruoli operato ieri dal leader leghista, secondo il quale «da più dichiarazioni si intuisce che entrambe le parti in guerra vogliano farla finita» (nel momento in cui una delle due parti continua a bombardare l’altra, si badi) e il problema sarebbe «qualcuno dall’altra parte del mondo» che «vuole consumare su campi altrui propri obiettivi geopolitici». Che è esattamente quello che sta facendo la Russia in Italia, semmai, grazie a un piccolo numero di agenti, a un discreto numero di collaboratori più o meno occasionali e a un gigantesco esercito di cialtroni.

Perché la fake news sulla Crimea poteva nascere solo nei giornali italiani. «Non permetteremo mai ai russi di annettersi la Crimea!», è la frase del segretario della Nato riportata dai media. Ma Stoltenberg non l'ha mai pronunciata. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 10 maggio 2022.

A scorrere le prime pagine dei giornali italiani dello scorso fine settimana pareva di stare sull’orlo della terza guerra mondiale: il presidente ucraino Zelensky aveva concesso una inattesa apertura sull’annessione della Crimea alla Russia ma il segretario della Nato Stoltenberg lo aveva zittito, esclamando: «Non permetteremo mai ai russi di annettersi la Crimea!».

Kiev o non Kiev è l’alleanza atlantica che decide quel che Putin può prendersi o no, confermando l’idea che il povero Zelensky non sia altro che un tragico pupazzo nelle mani di Washington. È allora giù titoli cubitali, analisi, commenti in un crescendo ansiogeno di stupore e paura. Il “punto di contatto” tra l’armata russa e le forze occidentali sembrava ormai prossimo, dal conflitto regionale-internazionale si stava passando alla guerra globale, allo scontro militare tra potenze atomiche. Quel sottile diaframma che separava i due blocchi che aveva dato adito all’odiosa definizione di “guerra per procura” si stava improvvisamente rompendo. Cosa ne dicono i media degli altri Pesi, come reagiscono alle incaute parole del segretario Nato?

Con grande sorpresa, aprendo le pagine online dei vari New York Times, The Guardian, Bbc, Le Monde, Faz, El Pais non si trova alcuna traccia delle dirompenti dichiarazioni. Nulla di nulla. Così siamo andati a controllare la fonte, e cioè l’intervista rilasciata al tedesco Die Welt. Manco a dirlo, Stoltenberg non aveva mai pronunciato quella frase, al contrario sosteneva che «il governo e il popolo ucraino decideranno in maniera sovrana una possibile soluzione di pace: non possiamo farlo noi». Ancora più surreale il fatto che Zelensky non avesse mai citato la Crimea: il botta e risposta che ci ha fatto correre un brivido lungo la schiena semplicemente non c’era mai stato.

Questa fake news ha circolato esclusivamente sulla rete italiana, il che dovrebbe far riflettere sullo stato della nostra informazione. Non crediamo affatto alla teoria dei giornalisti prezzolati dal Cremlino o alle paranoiche sortite del Copasir che ricordano il minculpop, non crediamo nemmeno che il nostro paese sia il ventre molle del putinismo anche se in Europa vanta l’opinione pubblica indubbiamente più scettica sulle ragioni degli ucraini. La bufala su Stoltenberg e Zelensky è stata la notizia di apertura di giornali “atlantisti” come La Repubblica e La Stampa, e di quotidiani molto più ostili agli alleati come Il Fatto Quotidiano.

L’ideologia non c’entra nulla. C’entra la disonestà intellettuale e professionale, la sciatteria, i titoli “drogati” che quasi mai corrispondono al contenuto dell’articolo, la deriva di testate un tempo autorevoli che, per sopravvivere, scimmiottano le tecniche di comunicazione e di marketing del web, schiave degli algoritmi con l’unico scopo di incrementare le visualizzazioni. Fino all’ultimo click anche a costo di rimuovere la realtà.

Biputinismo perfetto. La catastrofe civile e morale del dibattito pubblico italiano sull’Ucraina. Christian Rocca su l'Inkiesta il 9 maggio 2022.

In attesa che oggi i talk show organizzino una maratona in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca per commentare la sfilata militare del Cremlino, ecco un piccolo campionario di enormità ispirate dalla macchina di propaganda russa e realizzate dai suoi volenterosi complici nostrani. 

Ogni tanto su Twitter si leggono piccole grandi verità: Antonio Polito ha scritto che gli amici di Putin a Cinquestelle (sintesi mia) sono contrari all’inceneritore a Roma ma favorevoli a incenerire Mariupol, mentre l’analista svedese residente a Kiev, Anders Östlund, ha segnalato che i combattenti di Azov, spesso accusati (dalla propaganda putiniana) di essere estremisti di destra, a Mariupol sacrificano la propria vita per difendere la democrazia mentre i sedicenti intellettuali pacifisti scrivono e intervengono senza sosta e sempre a tutto vantaggio del fascismo russo. 

Ma le cose più esemplari della tragedia culturale che stiamo vivendo, e della fuga dalla realtà degli intellettuali contemporanei, si continuano a leggere sui mezzi di comunicazione tradizionali. Lasciamo stare, per decenza, i talk show lasettisti e retequattristi dei quali mi stupirebbe se oggi non organizzassero maratone in diretta da Mosca per commentare col solito birignao da retroscena romano la gloriosa parata militare di Putin per celebrare la vittoria nella grande guerra patriottica, antipasto dell’annessione di tutta l’Ucraina. 

Restiamo sulla carta stampata, quindi, cominciando dal libro sulla guerra in Europa scritto dall’intellettuale comunista Luciano Canfora insieme con il rappresentante dell’alt right italiana Francesco Borgonovo della Verità, pubblicato da una casa editrice neo, ex, post fascista che rilancia testi militari di Mao e negazionismi nazi in piena armonia rossobruna, nel paese che più di altri ha letto Limonov di Emmanuel Carrere scambiandolo per un’agiografia dello stravagante personaggio e non per la biografica tragedia del totalitarismo europeo mai sopito in Russia. 

Poi c’è Carlo De Benedetti, ex patron della Repubblica finalmente liberata da Maurizio Molinari dall’antioccidentalismo salottiero degli anni debenedettiani, che testuale dice al Corriere – oltre a una serie di banalità antiamericane che avrebbe potuto pubblicare Limes di Lucio Caracciolo – che la resistenza ucraina di fronte all’aggressione fascista di Putin «alla fine è un danno per il mondo».

Insomma i russi uccidono gli ucraini e prendono per fame le città assediate allo scopo di attuare un altro Holodomor nel XXI secolo, ma gli ucraini si mostrano incomprensibilmente irrispettosi degli interessi superiori del mondo e di De Benedetti, al punto da avere la sfacciataggine di difendersi e addirittura di chiedere aiuto all’America e ai paesi europei della Nato, a questo punto corresponsabili della guerra più di chi l’ha cominciata peraltro mentre gli utili idioti di Putin spiegavano che mai e poi mai la Russia avrebbe aggredito l’Ucraina e che si trattava solo di propaganda bellicosa dell’America di Joe Biden.

Così come l’incredibile storia, di cui scrive più ampiamente Carmelo Palma, delle dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelenski e del segretario della Nato Jens Stoltenberg sulla Crimea manipolate solo dai media italiani per poter ribadire, al netto della cronica sciatteria, la barzelletta della guerra americana per procura, al solito liquidando il popolo ucraino sotto le bombe da due mesi e mezzo come se fosse una pedina irrilevante, un very fungibile token, sacrificabile e privo di una sua propria dignità o diritto di sopravvivenza. 

A dare un minimo di speranza per la ricostruzione di un dibattito pubblico degno di questo nome c’è invece l’intervista di Repubblica all’ex vice presidente di Gazprombank Igor Volobuev, il quale ha svelato come funziona da anni la grande macchina di propaganda russa sull’Ucraina, avendo contribuito a crearla (la sintesi è: tutte le notizie ufficiali russe sono bugie). Chissà se qualcuno capirà. Intanto Volobuev è fuggito da Mosca e ora sta a Kiev, ma la fabbrica di fake news del Cremlino è sempre attiva e adesso può contare sui volenterosi complici che animano il biputinismo perfetto italiano.

SCENARI – INFO WAR E LIBERTÀ DI INFORMAZIONE. La bufala dell’espansione Nato che ha provocato l’invasione.

GABRIELE NATALIZIA su Il Domani il 5 maggio 2022

Nella tradizionale conferenza stampa di fine anno dello scorso 23 dicembre, Vladimir Putin era tornato a citare – come fatto di sovente nella sua carriera – l’evento “madre” di tutti i fraintesi nei rapporti tra il Cremlino e la Casa bianca.

L’immagine del “tradimento” della promessa del non-allargamento della Nato è stata utilizzata dal presidente russo come cornice generale all’interno della quale iscrivere le mosse compiute in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014 nonché la guerra in corso contro l’Ucraina.

Ma tale narrativa presenta evidenti fragilità, anche qualora non si voglia prestare credito al diniego di diplomatici e politici americani di aver mai assunto qualche obbligo in tal senso con la controparte sovietica. GABRIELE NATALIZIA

SCENARI – INFOWAR E LIBERTÀ DI STAMPA. Il lungo declino della stampa libera nella Russia di Putin. MARA MORINI, politologa, su Il Domani il 07 maggio 2022

I mass media costituiscono la fonte principale di socializzazione politica del cittadino russo. La televisione copre, infatti, oltre il 95 per cento della popolazione.

La Russia di Putin ha compreso che i mass media e internet costituiscono uno strumento di soft power, utilizzato in una narrazione domestica che contrappone la Russia all’occidente.

Dalle news all’infotaiment, lo schema narrativo è sempre il medesimo: la Russia si deve difendere dagli attacchi degli Stati Uniti e della Nato che non accettano e riconoscono la “grandezza” della Russia. La propaganda ha sempre avuto un ruolo rilevante nell’Unione sovietica e, attualmente, costituisce ancora uno strumento comunicativo strategico.

MARA MORINI, politologa. Mara Morini è professoressa associata di Scienza politica all’Università di Genova dove insegna Politics of Eastern Europe e Politica comparata. Osservatrice elettorale dell’OSCE-ODIHR in Russia, Uzbekistan e Moldova, è coordinatrice dello Standing Group “Russia e spazio post-sovietico” della Società Italiana di Scienza Politica (SISP). Visiting Professor all’Accademia Diplomatica del Ministero degli Esteri della Federazione Russa e alla High School of Economics di Mosca, ha pubblicato il libro La Russia di Putin (edizioni il Mulino, 2020).

SCENARI – INFO WAR E LIBERTÀ DI STAMPA. La disinformazione russa è un’arma più potente dei carri armati. MATTEO PUGLIESE su Il Domani il 5 maggio 2022

Molti in occidente commettono l’errore di considerare la componente informativa avulsa dalla guerra, mentre la manipolazione dell’opinione pubblica e l’inquinamento della realtà sono parte integrante della dottrina russa di guerra ibrida.

Il loro potenziale è ben più tangibile e pericoloso di altre armi che la Russia minaccia solo di usare, come quelle nucleari. La Russia può conseguire un obiettivo strategico disorientando la società occidentale e inquinando la verità, per vincere la guerra in Ucraina.

Sarà uno sforzo vano se la società russa si sentirà vittima di un’aggressione occidentale e resterà ignara dei crimini di guerra.

MATTEO PUGLIESE. Ricercatore associato all'ISPI di Milano. Esperto di sicurezza internazionale ed estremismo. Svolge un dottorato di ricerca all'Università di Barcellona su intelligence e antiterrorismo. All’Osce si è occupato di prevenzione della radicalizzazione giovanile. 

Da Trump a Putin fino alla “Bestia”. Quando la propaganda si fa social. Il presidente russo detesta i social ma li usa per condizionare l’opinione pubblica di mezzo mondo. “The Donald” va pazzo per Twitter che però lo ha mandato in esilio. Fausto Mosca su Il Dubbio il 9 maggio 2022.

Vladimir Putin detesta talmente tanto i social network da non avere neanche un profilo personale registrato, ma li usa da anni per condizionare l’opinione pubblica di mezzo mondo. Magari per contribuire a determinare la vittoria elettorale di un candidato non ostile a Mosca, così come si sostiene sia accaduto nel 2016 con la vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton. “The Donald”, dal canto suo, è uno dei presidenti più social della storia americana. L’ex inquilino della Casa Bianca ha una passione così compulsiva per i tweet e i post da finire bannato da tutte le principali piattaforme. Un blocco che ha convinto Trump a creare un proprio social network, “Truth”, per esprimere liberamente i propri pensieri.

L’app della nuova piattaforma, scaricabile sull’Apple Store dalla fine di febbraio, non sembra essere partita sotto i migliori auspici (gli utenti lamentano vari malfunzionamenti) ma il magnate repubblicano sembra intenzionato a proseguire comunque per la sua strada. Anche perché il motivo della censura dei suoi profili Twitter e Facebook – e di quelli di altri 70 mila account riconducibili al movimento proTrump QAnon – è molto serio: incitazione alla violenza registrata durante l’assalto di Capitol Hill. Twitter – il social network preferito da Trump, quello che secondo molti analisti ha determinato la vittoria del 2016 – ha motivato l’epurazione accusando l’ex presidente americano, di aver «incoraggiato i suoi sostenitori a interrompere la certificazione della vittoria del democratico Joe Biden da parte del Congresso ».Trump, del resto, ha sempre usato le piattaforme a proprio vantaggio.

Durante la campagna elettorale contro Clinton per creare consenso, danneggiare l’avversaria, diffondere fake news virali. Anche attraverso l’uso massiccio di bot, profili automatizzati che cliccano “Like”, condividono link e postano contenuti sfidando gli algoritmi e gonfiando i numeri intorno a certi temi. Obiettivo: creare una popolarità artefatta. Ed è proprio su questo terreno che entra in scena il ruolo di Mosca. Putin, che in patria ha proibito l’accesso alla rete libera, fuori dai confini, usa Internet per condizionare il destino politico delle democrazie. L’arma del Cremlino si chiama Internet Research Agency, più nota come “fabbrica di troll”, che secondo un’indagine del dipartimento della Giustizia americano interferì nella campagna elettorale statunitense del 2016.

L’ufficio del procuratore speciale statunitense Robert Mueller, a capo dell’indagine sulle presunte interferenze russe, è arrivato a inaccusare 13 persone di nazionalità russa di cospirazione per frodare gli Stati Uniti, cospirazione per commettere frode bancaria e furto di identità. Oltre agli attacchi informatici rivolti al comitato elettorale di Clinton, la “fabbrica dei troll” avrebbe creato centinaia di account falsi per condurre «una guerra dell’informazione contro gli Stati Uniti d’America» al fine di diffondere sfiducia e sostenere l’elezione di Trump. Un impegno da milioni di dollari al giorno. «Abbiamo determinato che il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato nel 2016 una campagna per influenzare l’elezione presidenziale Usa. L’obiettivo dei russi era quello di minare la fiducia dell’opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico, denigrare il segretario di Stato Hillary Clinton, e danneggiare la sua eleggibilità in quanto potenziale presidente », si legge nel testo curato dal direttore della National Intelligence, James Clapper, responsabile dimissionario del coordinamento delle 17 agenzie di spionaggio e controspionaggio Usa.

Per tutta la campagna elettorale gli account falsi si sarebbero presi la briga di lanciare costantemente sui social contenuti divisivi su argomenti come Black Lives Matter, immigrazione e controllo delle armi. E avrebbero comprato pubblicità politiche contrarie a Clinton e pompato hashtag come #Hillary4Prison e #TrumpTrain.L’attività di interferenza però non si sarebbe fermata nel 2016, ma sarebbe proseguita anche alle presidenziali successive, tanto da spingere Facebook e Twitter a bloccare preventivamente (dopo le segnalazioni dell’Fbi) una rete di profili falsi pronti a iniziare una campagna di disinformazione. Anche in questo modo il trumpismo sarebbe diventato virale negli Usa e in buona parte dell’Occidente.

A raccogliere i benefici di quel vento in Italia è stato soprattutto Matteo Salvini, capace di portare la Lega da 4 per cento di pochi anni fa al 34,3 per cento delle Europee 2019. Politico social per eccellenza, anche il leader del Carroccio ha usato sapientemente il suo ufficio comunicazione, la “Bestia” messa in piedi da Luca Morisi, per rendere popolare il sovranismo sul web, sfruttando a proprio vantaggio le paure degli elettori. Post contro l’immigrazione e l’Unione europea, intervallati da concorsi a premi (come il “vinci Salvini”) erano il pane quotidiano di un team di esperti attenti a sondare quotidianamente e scientificamente gli umori della Rete per ottenere il maggior engagement possibile. Che almeno fino a un certo punto si sono poi trasformati in voti.

Da professionereporter.eu il 2 maggio 2022.

Con oltre mezzo miliardo di follower su Facebook, i media di stato cinesi hanno sistematicamente diffuso narrazioni di disinformazione russa dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, secondo un’analisi di NewsGuard, l’organizzazione internazionale di giornalisti che monitora l’attendibilità dei siti d’informazione. 

Queste organizzazioni, controllate dal governo cinese, raggiungono su Facebook un pubblico enorme, decisamente più ampio di quello dei media occidentali, nonostante la piattaforma non sia attiva in Cina. Ciò significa che il loro pubblico è sparso in tutto il resto del mondo, e può leggere la propaganda nella propria lingua madre.

La pagina Facebook in lingua inglese dell’emittente televisiva di stato cinese CGTN ha 117 milioni di follower. La sua controparte in lingua francese, CGTN Français, ha 20 milioni di follower. China Daily e The Global Times, entrambe testate cinesi in lingua inglese, hanno rispettivamente 104 milioni e 67 milioni di follower su Facebook.

La principale narrazione di disinformazione sul conflitto diffusa da queste fonti è stata quella secondo cui gli Stati Uniti gestirebbero in Ucraina biolaboratori che stanno sviluppando armi biologiche, un’affermazione che il Cremlino ha ripetutamente utilizzato per giustificare la sua invasione dell’Ucraina.

Dal 24 febbraio 2022, NewsGuard ha identificato 74 post in lingua inglese (inclusi video, articoli e vignette) che menzionavano i laboratori biologici. Tra questi vi è un post dell’agenzia di stampa statale Xinhua, che ha ripubblicato un video del 10 marzo in cui il portavoce del ministero della Difesa russo Igor Konashenkov affermava che un “coronavirus di pipistrello” era stato trovato in un laboratorio di armi biologiche supportato dagli Stati Uniti in Ucraina.

“Lo scopo di queste e altre ricerche biologiche finanziate dal Pentagono in Ucraina era la creazione di un meccanismo per la diffusione segreta dei patogeni più letali”, ha dichiarato Konashenkov nel video. Il post ha ricevuto circa 21.300 interazioni ed è stato condiviso 6.400 volte, al 20 aprile 2022.

Sebbene quel post presentasse un’etichetta di Facebook che lo segnalava per la presenza di “informazioni parzialmente false” e rimandava a un articolo di fact-checking, in molti altri post ciò non è avvenuto.

Ad esempio, molti post non segnalati da Facebook affermavano che gli Stati Uniti possiedono o gestiscono dei laboratori biologici in Ucraina, cosa che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha ripetutamente negato. Altri post hanno ripetuto in modo acritico le affermazioni del Cremlino secondo cui questi laboratori stavano costruendo armi biologiche. 

In realtà, gli scienziati hanno spiegato che la ricerca sui pipistrelli che ha avuto luogo nei laboratori ucraini era una “ricerca epidemiologica molto semplice”, secondo quanto riportato dalla rivista Science. Inoltre, non ci sono prove che questo studio, o qualsiasi altra ricerca svolta in questi laboratori, sia stato utilizzato per lo sviluppo di armi biologiche.

Altri post pubblicati dai media di stato cinesi hanno rilanciato le narrazioni propagandistiche del Cremlino secondo cui le truppe russe non sarebbero responsabili delle uccisioni di civili a Bucha, in Ucraina, e del bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol (NewsGuard ha sfatato le principali bufale legate alla guerra nel suo Centro di monitoraggio della disinformazione sul conflitto Russia-Ucraina). 

NewsGuard ha anche individuati diversi post sui presunti laboratori di armi biologiche sui canali cinesi in lingua francese e italiana.

La pagina in lingua francese CGTN Français ha ripetuto acriticamente le accuse del ministero della Difesa russo a proposito di un programma militare biologico finanziato dagli Stati Uniti in Ucraina. La pagina ha anche sostenuto che l’ambasciata degli Stati Uniti in Ucraina avesse cancellato le informazioni sui biolaboratori ucraini dal suo sito web, il che è falso. 

Allo stesso modo, la pagina in lingua italiana di China Radio International, l’emittente radiofonica internazionale di stato cinese, ha pubblicato un articolo intitolato “Crisi in Ucraina: perché nascondere le tracce di un programma di guerra biologica finanziato dagli USA?”. L’articolo affermava – senza fornire prove – che “anche alcuni scienziati statunitensi confermano che il laboratorio del Pentagono sta avviando una ricerca sulle armi biologiche”.

Questa analisi è stata curata da Lorenzo Arvanitis e Kendrick McDonald.

Un’altra indagine di NewsGuard (a cura di Jack Brewster, Lorenzo Arvanitis e Chiara Vercellone) ha rilevato che, sebbene l’accesso a YouTube sia vietato in Cina e limitato in Venezuela, ciò non ha impedito ai media cinesi e venezuelani finanziati dallo stato di utilizzare la piattaforma video con sede negli Stati Uniti per diffondere in tutto il mondo disinformazione sulla guerra in Ucraina in lingua inglese. 

A marzo la Commissione europea, ha chiesto che le piattaforme digitali prendessero provvedimenti nei confronti dei siti di notizie gestiti dal governo russo, riferendosi a RT e Sputnik News. L’11 marzo 2022, YouTube ha bloccato i canali associati ai media controllati dalla Russia RT e Sputnik a livello globale e si è impegnata ad adottare misure severe contro i contenuti legati alla guerra “che negano, minimizzano o banalizzano eventi violenti ben documentati”.

Tuttavia, secondo l’indagine di NewsGuard, i media finanziati dallo stato in Cina e Venezuela, così come in Bielorussia, hanno aggirato le misure adottate da YouTube.  Molti di questi canali hanno un vasto pubblico, come i canali cinesi China Global Television Network e New China TV, che contano rispettivamente 2,79 milioni e 1,28 milioni di abbonati YouTube a livello globale. 

YouTube è ancora generalmente accessibile in Venezuela, ma il governo venezuelano ne ha bloccato l’accesso in passato. E sebbene la piattaforma sia bloccata in tutta la Cina continentale, gli utenti di Hong Kong e Macao possono comunque accedervi. Anche in Venezuela e in Cina, le restrizioni possono essere aggirate utilizzando una rete virtuale privata (VPN).

NewsGuard ha identificato 43 video diffusi da media statali in Cina, Venezuela e Bielorussia che contenevano disinformazione sulla guerra. Nel complesso, al 20 aprile 2022, i video avevano totalizzato circa 2,2 milioni di visualizzazioni. 

Nonostante il governo cinese abbia tentato di presentarsi come neutrale nella guerra tra Russia e Ucraina, la stragrande maggioranza (77%) dei video di YouTube individuati da NewsGuard che contenevano disinformazione sul conflitto proveniva da organi di informazione statali cinesi.

Ad esempio, dopo l’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022, il canale di Shanghai Eye, una testata controllata dallo stato con sede a Shanghai, ha pubblicato alcuni video in cui si accusavano gli Stati Uniti di gestire laboratori biologici “enigmatici” in Ucraina e si esortavano gli USA a “offrire un resoconto chiaro delle loro attività militari biologiche in patria e all’estero”. Altri video negavano che le truppe russe fossero responsabili del massacro di civili nella città ucraina di Bucha.

Complessivamente, questi video insieme hanno totalizzato circa 577.000 visualizzazioni. 

Oltre a diffondere narrazioni false, molti canali hanno utilizzato alcuni elementi della retorica russa, ad esempio minimizzando la gravità del conflitto e riferendosi alla guerra con le espressioni “situazione”, “operazione speciale” o “questione”. 

Altri video hanno messo sullo stesso piano la falsa versione della Russia secondo cui il massacro di civili a Bucha è stato una messinscena con le prove schiaccianti che dimostrano che il massacro è avvenuto davvero. 

(ANSA il 3 maggio 2022) - "La propaganda russa, la disinformazione sono parte integrante della aggressione all'Ucraina, il soliloquio di Lavrov a Rete4 non è stato solo un grave errore ma un mancato rispetto della risoluzione del Parlamento europeo e delle relazioni del Copasir". Lo scrive su Twitter Elio Vito, deputato di Forza Italia (ANSA).

Hitler ebreo? Ecco dove nasce la leggenda falsa che Lavrov ha utilizzato per attaccare Zelensky. Antonio Marras lunedì 2 Maggio 2022 su Il Secolo D'Italia. 

Infuria la polemica sulle parole pronunciate ieri, su Rete Quattro, dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che aveva risposto così a una domanda sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky ebreo. “Anche Hitler aveva origini ebree, i maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei”. Aggiungendo: “La nazificazione esiste in Ucraina”, aveva poi aggiunto ieri sera Lavrov nel corso di un’intervista a “Zona bianca” nella quale ha toccato tutti i temi della guerra.

Immediata è arrivata oggi la reazione di Israele. Il ministero degli Esteri Yair Lapid ha infatti convocato l’ambasciatore russo in Israele in segno di protesta affermando che Israele si aspetta di ricevere della scuse per le parole di Lavrov. “Le sue parole sono imperdonabili, l’ambasciatore sarà convocato per una consultazione”, ha detto Lapid citato dall’emittente N12. Sono ”false, deliranti e pericolose” le parole usate dal ministro degli Esteri Lavrov a proposito delle origini ebree di Hitler, ha detto il presidente dello Yad Vashem, Dani Dayan, che ha definito ”degne di condanna” le parole di Lavrov. Lo Yad Vashem aveva già condannato la tesi russa secondo la quale l’Ucraina doveva essere ”denazificata” definendola ”non basata sui fatti” e che ”banalizza e distorce l’Olocausto”.

Il ‘fake’ riproposto ieri dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov sulle origini ebraiche di Hitler nasce subito dopo la Seconda guerra mondiale, per iniziativa dell’avvocato personale del Fuhrer ed ex governatore della Polonia occupata, Hans Frank. Nelle memorie sui suoi incontri con Hitler che scrisse mentre era carcere, durante il Processo di Norimberga in cui era imputato (e in cui fu condannato a morte dopo essere stato giudicato colpevole di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità), Frank scrisse che negli anni Trenta aveva ricevuto istruzioni da Hitler di indagare sulle voci di una sua discendenza ebraica. Frank ha quindi asserito di aver scoperto che il nonno di Hitler poteva essere ebreo. Gli storici hanno sempre considerato con grande scetticismo le righe di Frank, che durante il processo da una parte ammise i suoi crimini dall’altra li ‘giustificò’ accusando russi, polacchi e cechi di stermini di massa di tedeschi. La condanna a morte di Frank fu eseguita nell’ottobre del 1946. 

Dagonota il 2 maggio 2022. 

Come è riuscita a Rete4 l’impresa di intervistare il ministro degli Esteri russo? Basta domandarsi chi è il patron di Mediaset (Silvio Berlusconi) e il suo decennale rapporto politico e di affari con Putin. Valentino Valentini, storico “ambasciatore” di Berlusconi a Mosca, “apparecchia” l’intervista e il conduttore di "Zona Bianca" Giuseppe Brindisi fa cin cin con Lavrov… 

Dagonota 2 il 2 maggio 2022.

Draghi prepara dichiarazioni di fuoco per la conferenza stampa di stasera al termine del consiglio dei ministri. Quello che è successo ieri sera su Rete4, con una zucchina con la riga in mezzo che reggeva il microfono al delirio del ministro degli Esteri russo Lavrov è gravissimo, tra l'altro alla vigilia del suo viaggio a Washington (c’è stata una telefonata tra la portavoce di Draghi, Paola Ansuini, e il responsabile dell’informazione Mediaset, Mauro Crippa)

Mariolina Iossa per corriere.it il 2 maggio 2022. 

È bufera per l’intervista di Giuseppe Brindisi al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov andata ieri sera in onda a Zona Bianca su Rete 4, Mediaset. A cominciare dal leader del Pd Enrico Letta che scrive su Twitter: «Buon lavoro, Ministro Lavrov. L’abisso. Ma quel che è più grave è che la vicenda dello spot da propaganda di guerra anti Ucraina stia passando, con solo pochi scossoni. Siamo così pochi a pensare che non sia possibile, né accettabile? E che sia un’onta per l’Italia intera? #Retequattro». 

Mediaset si difende

Mediaset si difende con un comunicato del direttore generale Informazione Mauro Crippa: «Le deliranti e affermazioni del ministro degli esteri russo Lavrov a Zona Bianca rivestono particolare importanza perché confermano chiaramente la mancanza di volontà da parte di Putin di arrivare ad una soluzione diplomatica della guerra dei russi contro l’Ucraina. E comunque la si pensi, oggi sappiamo qualcosa in più della Russia e di chi la governa». 

Prevista istruttoria

«Abbiamo già previsto una specifica istruttoria anche con le audizioni dei vertici di Agcom e Rai - ha scritto sempre su Twitter il presidente del Copasir Adolfo Urso -. L’intervento di Lavrov, per le modalità in cui è avvenuto e per la montagna di fake news che ha propinato, conferma le nostre preoccupazioni». 

La Lega difende la rete

Le Lega interviene contro Lavrov, ma difende il lavoro dei giornalisti di Zona Bianca: «Un conto è criticare, duramente e giustamente, le dichiarazioni di un ministro straniero come Lavrov — spiegano fonti del partito —. Altro conto è invece attaccare una grande e libera televisione nazionale, e con lei migliaia di giornalisti e professionisti. La censura non ci piace e va combattuta all’estero, men che meno è auspicabile e augurabile in Italia».

Così anche la senatrice di Fratelli d’Italia, membro della Vigilanza Rai, Daniela Santanchè: «Chiunque abbia visto l’intervista di ieri sera su Rete4 ha compreso perché consideriamo inviolabile il principio della libertà di stampa e di parola, che in Italia è un diritto sancito dalla Costituzione: nessuna argomentazione può giustificare l’ingiustificabile. E per questo - sottolinea - non condivido e non capisco gli attacchi a Mediaset e alla trasmissione Zona bianca mossi oggi dal Pd e dalla sinistra, che ancora una volta invocano la censura». 

Meloni: parole vergognose, ma Rete 4 non c’entra

Per Giorgia Meloni, «dopo le bestialità affermate ieri sera su Rete 4 da Lavrov, che ha ripetuto le vergognose tesi della propaganda russa, gli italiani hanno ben compreso quanto siano insensate le giustificazioni del governo russo sull’invasione in Ucraina». Ma anche per la presidente di Fratelli d’Italia «non può essere data a Mediaset la responsabilità di tali affermazioni: se oggi gli italiani comprendono meglio le ragioni per le quali è necessario difendere l’Ucraina è anche grazie alla libertà di stampa e di parola, che in Italia sono diritti costituzionali garantiti».

«Spazio senza contraddittorio»

«Lo spazio televisivo, senza contraddittorio, offerto alla propaganda del ministro #Lavrov. Un’indecenza che offende l’informazione, ma soprattutto le vittime in Ucraina. Una vergogna anche per l’Italia. Serve responsabilità nel raccontare la guerra. Basta disinformazione! #Rete4». Così su Twitter anche la senatrice del Pd Valeria Fedeli. 

«Giornalismo fatto a pezzi»

«Il giornalismo da cane da guardia della democrazia a cagnolino che scodinzola sulle ginocchia di un ministro dalla lingua biforcuta come Sergej Lavrov. La tristezza dello spettacolo andato in onda ieri sera è tutta qui. Il problema non era l’intervistato ma l’intervistatore». Così il deputato di Azione Osvaldo Napoli. «Mai una domanda sul regime di bugie in cui naviga Lavrov, una domanda sulle migliaia di arresti in Russia, sul divieto di manifestazioni, sulla soppressione di ogni libertà di espressione. Ne è uscito umiliato l’intervistatore. È stata persa una grande occasione per fare giornalismo, azzannando l’intervistato ai polpacci e chiedergli conto della violenza di un regime di cui lui è uno dei principali protagonisti». 

«Critici un tanto al chilo»

Ma secondo il direttore generale Informazione di Mediaset Mauro Crippa, «Lavrov non è un passante. È il numero due della Federazione Russa. L’intervista al ministro degli esteri russo è un documento che fotografa la storia contemporanea. Ai critici un tanto al chilo consigliamo la visione delle programmazioni di reti, tg e speciali Mediaset sulla guerra in Ucraina. Ne trarranno facilmente la conclusione che l’azienda ha ben chiaro chi ha voluto e cominciato questo conflitto». 

«Ascoltare tutte le voci»

«L’Europa potrebbe essere sempre più coinvolta in una guerra ancora più sanguinosa e noi non dovremmo sentire chi, a livello istituzionale, questo conflitto l’ha innescato? - prosegue Crippa -. Il pluralismo dell’informazione e le buone regole del giornalismo suggeriscono sempre di ascoltare tutte le voci, anche quelle più controverse e divisive. Ma questo, come nel nostro caso, non significa condividerle. I nostri inviati nelle zone di guerra rischiano ogni giorno la vita per raccontare questo orribile conflitto, senza fare sconti alla propaganda di guerra e mostrando le immagini dei crimini compiuti. Nelle prossime settimane continueremo a dare voce a tutti i protagonisti di questa grave crisi mondiale». 

Indignazioni e spaccature

Le dichiarazioni di Lavrov hanno ovviamente fatto il giro del mondo e indignato soprattutto la comunità ebraica, preoccupato il governo di Israele e spaccato ancora di più la politica italiana. Da parte di Forza Italia, partito di Silvio Berlusconi, la cui famiglia è proprietaria di Mediaset, arrivano i complimenti di Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia, che ha invece apprezzato l’iniziativa, sostiene, proprio per mostrare a tutti quanto sia «lunare» la propaganda russa. 

«Il delirio di Lavrov»

Così commenta infatti Ruggieri: «Complimenti all’informazione Mediaset per essere riuscita a intervistare un protagonista diretto degli enormi fatti di questi mesi terribili. Un colpo straordinario». E ha continuato :«Ascoltare il delirio di Lavrov è utilissimo per milioni di spettatori italiani, capaci oggi più di ieri di intuire a che livello lunare sia la propaganda russa e che pericolo rappresenti per tutti noi. Qui non si parla di mandare in onda le cavolate di un signor nessuno come un professoruccio in cerca di visibilità, ma di fotografare pezzi di storia, grandi notizie, utili a far capire anche agli scettici antioccidentali i tempi che corrono e il relativo clima politico».

Antonella Piperno per agi.it il 2 maggio 2022.

La nonna Maria Anna Schcklgruber messa incinta da un ebreo, tal Frankenberger da cui lavorava come servetta a Graz, la mamma che portava un cognome comune tra gli ebrei convertiti al cattolicesimo a cui l’imperatrice Maria Teresa aveva concesso la cittadinanza austriaca. Le leggende metropolitane che si sono perfezionate negli anni, tese a dimostrare che Hitler fosse un ebreo deciso a dimostrare di non esserlo sterminando i suoi simili, sono state tutte regolarmente e decisamente respinte dagli storici.

Della prima si conosce anche l’autore: Hans Frank, avvocato di Hitler e governatore nazista della Polonia occupata che al processo di Norimberga dichiarò di avere delle prove (false) sull’ebraismo del Fuhrer. Confutazioni evidentemente snobbate dal ministro degli Esteri russo Lavrov: a ‘Zona Bianca’ (Mediaset) ha appena dichiarato, provocando l’indignazione israeliana e di tutto il mondo ebraico che l’ebraismo (reale) del presidente ucraino Zelensky non sarebbe in contraddizione con le sue “idee naziste e antisemite” (quelle sottese alla tesi putiniana dell’Ucraina “da denazificare”) visto che “anche Hitler aveva origini ebraiche e che i più grandi antisemiti sono ebrei”.

Che non ci sia neanche un briciolo di verità nelle parole di Lavrov lo conferma all’AGI lo storico Amedeo Osti Guerrazzi, esperto di Shoah che appena firmato la docufiction ‘Storie della Shoah in Italia. I complici’: “Sono esternazioni che si nutrono di leggende metropolitane e di complottismi nati in ambienti neonazisti e negazionisti - chiarisce - tesi a dimostrare che ammesso che ci sia stata un Olocausto la colpa è da ricondurre agli ebrei, trasformandoli quindi da vittime in carnefici”. 

Gli unici rapporti di Hitler con persone ebree e che nulla c’entrano con parentele e consanguineità sono, spiega Osti Guerrazzi, quelli con il medico, Eduard Bloch che curò sua madre e quella con l’ufficiale ebreo che durante la prima guerra mondiale lo propose per la croce di ferro, l’unica onorificenza conquistata dal Fuhrer”.

Anche sul medico di Hitler si è ricamato non poco: la vox populi  vuole infatti che Hitler, alla morte dell’amatissima madre, trasferì sul popolo ebraico l’ira rivolta al medico che non era stato capace di salvare sua madre, ma Osti Guerrazzi la attribuisce a una versione psicanalitica dell’antisemitismo. “In realtà la famiglia di Hitler non ha mai dichiarato nulla contro Bloch, anzi pare che fosse stata contenta di come curò la mamma fino alla fine”. 

Altra leggenda metropolitana, insomma, come quella, simile a quella che ha alimentato il pensiero di Lavrov riferita al generale delle SS Reinhard  Heydrich: anche del “macellaio di Hitler”, uno dei più grandi responsabili dell’organizzazione dello sterminio degli ebrei, sottolinea Osti Guerrazzi, “si diceva che avesse un nonno ebreo”. Corsi e ricorsi della storia rivista e scorretta. 

Da rainews.it il 2 maggio 2022.

Arrivano inevitabili le reazioni dopo le dichiarazioni di Lavrov, ministro degli Esteri russo, rilasciate durante un’intervista mandata in onda ieri sul canale di Rete 4.

Tra le frasi che stanno provocando ripercussioni sul fronte dei rapporti diplomatici, quella sul parallelo tra il presidente russo e Hitler: “Zelensky è ebreo? Anche Hitler aveva origini ebree, i maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei". 

È scattata infatti subito la convocazione dell’ambasciatore russo dal ministero degli Esteri israeliano a Tel Aviv: il ministro Yair Lapid ha reso noto come certe affermazioni siano “imperdonabili ed oltraggiose, sia un terribile errore storico. Gli ebrei - ha continuato - non si sono uccisi da soli nella Shoah. Il più basso livello del razzismo contro gli ebrei è accusare gli ebrei stessi di antisemitismo". 

Sdegno e riprovazione anche da parte di altre autorità israeliane, politiche e non: "False, deliranti e pericolose". Così Dani Dayan, presidente di Yad Vashem, il Museo dellaMemoria di Gerusalemme, ha definito le affermazioni del ministro degli Esteri russo, che nell’ intervista a 'Zona Bianca' su Mediaset ha detto di ritenere che Hitler "aveva origini ebraiche". Sono affermazioni - ha aggiunto Dayan, citato dai media - "degne di ogni condanna”. 

Nell’intervista rilasciata alla radio pubblica israeliana Dayan ha denunciato che su un elemento rimasto oscuro relativo alle origini del nonno di Hitler da parte paterna "si siano poi costruite teorie cospiratorie del tutto infondate secondo le quali lo stesso Hitler sarebbe stato ebreo. Di conseguenza, viene sostenuto, 'ebrei sono coloro i quali hanno sterminato ebrei nella Shoah'.

C'è davvero da rammaricarsi che il ministro degli esteri della Russia partecipi a questo happening antisemita". Dayan ha anche deprecato duramente la affermazione secondo cui il presidente ucraino Volodymir Zelensky sarebbe lui stesso nazista. "Si tratta di una affermazione non meno grave. Se quello è l'aspetto del nazismo - ha aggiunto - allora perché noi ne facciamo un tale clamore? Quella affermazione – ha continuato Dayan -è un insulto e un duro colpo inferto alle vittime del nazismo vero". Il senso delle parole di Lavrov, secondo Dayan, "capovolge la Shoah. Si prendono le vittime, e le si trasformano in carnefici”. 

La comunità ebraica di Roma

Critiche anche da parte della comunità ebraica di Roma. La presidente Ruth Dureghello ha fatto sapere tramite una nota che le parole di Lavrov “riscrivono la storia sul modello dei Protocolli dei Savi di Sion, il fondamento della letteratura antisemita moderna creato nella Russia zarista. La cosa più grave è inoltre che siano avvenute in una televisione italiana, senza contraddittorio, e senza che neanche l'intervistatore opponesse la verità storica alle menzogne che erano state pronunciate. Questo non è accettabile e non può passare sotto silenzio". 

"Ci domandiamo – ha continuato Dureghello - quale sia il limite, se esista ancora e in quale direzione stiamo andando. Se viene permesso di distorcere completamente la Storia il risultato sarà quello di una democrazia indebolita e priva degli anticorpi necessari a tutelare se stessa".

Da “Posta e Risposta - la Repubblica” il 3 maggio 2022.

Caro Merlo, non mi meraviglia che il ministro degli esteri russo abbia sostenuto che anche Hitler "aveva origini ebraiche", che è una vecchia falsificazione della propaganda antisemita, né che "i maggiori antisemiti sono gli ebrei", che è persino peggio perché è un oltraggio, un'offesa alle vittime dell'Olocausto che i nazisti utilizzarono a Norimberga cercando in modo sgangherato di coprire i loro crimini. 

Mi chiedo però perché Lavrov abbia scelto la tv italiana e "Zona Bianca" di Mediaset. Che ragione c'era di farlo parlare? E non sarebbe stato il caso di incalzarlo con un contraddittorio mozzafiato? Lei è ancora convinto che lamentarsi della deriva della nostra televisione, Rai, Mediaset e la7, sia una lagna illiberale?

Solo nella tv italiana un modesto professore associato, protagonista in tutti i programmi di informazione, può sostenere, senza essere preso a pernacchie dai suoi colleghi professori, che la Seconda Guerra Mondiale scoppiò per colpa degli inglesi e dei francesi e non per volontà di Hitler. Marzia Bernardi - Treviso

Risposta di Francesco Merlo: Penso che "il contraddittorio mozzafiato" in casi come questi non sia proprio possibile. Sarebbero invece necessari distanziamenti, dubbi, domande meravigliate e qualche sarcasmo bordiniano. È vero che non ci sono stati, ma trovo sostanzialmente ingeneroso addossare all'intervistatore la responsabilità dell'armamentario antisemita a cui è ricorso l'intervistato. Le risposte contano più delle domande e l'intervista di Giuseppe Brindisi al ministro degli Esteri russo, che ha fatto il giro del mondo, rimane una difficile, vera pagina di giornalismo. Al contrario i talk show con il professore asino, pur legittimi, appartengono a un altro genere di spettacolo. Cambio canale se mi imbatto in Orsini. Ho invece cercato e visto l'integrale dell'intervista a Lavrov che purtroppo mi ero perso. E della macelleria di Putin in Ucraina ora so qualcosina in più.

Da progettodreyfus.com il 3 maggio 2022.  

“Anche Hitler aveva origini ebraiche” e “I maggiori antisemiti a volte sono proprio gli ebrei”. Sono affermazioni fatte del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che ieri sera a Zona Bianca, su Rete 4. Affermazioni fatte dal capo della diplomazia russa per rispondere alla domanda sulla “denazificazione” dell’Ucraina e sull’ebraicità del suo presidente Volodymyr Zelensky: “La nazificazione esiste, i membri del Battaglione Azov hanno svastiche sia sulla loro uniforme che tatuate sul corpo, (così come) simboli dei battaglioni nazisti, delle SS (…) apertamente leggono e sostengono il Mein Kampf”. Le parole di Sergei Lavrov hanno trovato inevitabilmente reazioni sdegnate del mondo ebraico e di Israele. 

Dani Dayan, presidente di Yad Vashem, il Museo della Memoria di Gerusalemme, non ha utilizzato mezze parole per rispondere alle assurdità arrivate da Mosca: “Le dichiarazioni di Lavrov sono false, deliranti, pericolose e degne di ogni condanna”. 

Israele, dal canto suo, ha chiesto “chiarimenti” all’ambasciatore russo nello Stato ebraico per le “gravi” parole di Lavrov, definite “imperdonabili e oltraggiose” da Yair Lapid. 

Il ministro degli Esteri di Gerusalemme, inoltre, ha sottolineato: “Gli ebrei non si sono uccisi da soli nella Shoah. Il più basso livello del razzismo contro gli ebrei è accusare gli ebrei stessi di antisemitismo”. 

Lapid, all’emittente N12, ha aggiunto: “Israele si aspetta di ricevere delle scuse per le parole di Lavrov Le sue parole sono imperdonabili, l’ambasciatore sarà convocato per una consultazione”. 

Le domande che dobbiamo porci sono diverse.

Come è possibile che in un modo o in un altro gli ebrei e la Shoah vengano tirate in mezzo ad argomenti con cui hanno poco o nulla a che fare? 

Come è possibile che un ministro degli Esteri di uno dei paesi più importanti al mondo possa sostenere tesi assurde e false? 

L’ultima domanda riguarda l’informazione italiana, come possiamo tollerare che in una nostra tv si dicano falsità simili senza contraddittorio da parte del conduttore o degli altri ospiti, soprattutto in un momento storico che causa pandemia ha visto rifiorire l’antisemitismo?

Matteo Sacchi per "il Giornale" il 3 maggio 2022.  

Hitler ebreo. Nella giornata di ieri mezzo mondo è rimasto a bocca aperta per l'uscita del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Nel tentativo di colpire l'immagine di Zelensky, dopo aver citato le fantomatiche origini ebraiche di Hitler, si è lanciato in un ancor più insultante: «I maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei».

Sul tema non c'è molto da dire oltre a quello che gli ha risposto il ministro degli esteri di Israele. Però qualcosa si può dire più in generale sull'antisemitismo e la Russia e sulla modalità con cui nel corso degli anni l'antisemitismo è stato usato in Russia.

Purtroppo quasi nessun Paese europeo sulla discriminazione ingiustificata contro gli ebrei ha la coscienza immacolata. Ma in questo ambito la Russia l'ha particolarmente sporca. Anche a livello politico. I famosi Protocolli dei savi di Sion a cui si rifecero poi anche i nazisti per fomentare l'odio antiebraico furono utilizzati dall'Ochrana, la polizia segreta zarista, con l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei nell'Impero russo.

I Protocolli furono pubblicati a puntate sul quotidiano di San Pietroburgo (Znamja - La Bandiera) tra il 28 agosto e il 7 settembr 1903, a opera di Pavel Kruevan, che 4 mesi prima aveva scatenato il pogrom di Kiinev. Nel 1905 la polizia segreta li rilanciò in grande stile per impedire le riforme politiche liberali sgradite allo Zar. 

Le bugie presenti nei protocolli, ovvero l'esistenza di un complotto ebraico e capitalista per prendere il potere nel mondo, sono rimaste in circolazione da allora con periodiche "rinfrescatine". 

Una fake news russa a scopo interno che fa danni da più di un secolo. Ma la storia dell'antisemitismo è proseguita quasi senza soluzione di continuità anche sotto l'Urss. Già nel 1907, Stalin scrisse una lettera distinguendo tra una "fazione ebraica" e una "vera fazione russa" nel bolscevismo, era già approdato al Nazi(onal)comunismo. Certo, con una certa capacità di mistificazione si preferiva usare il termine antisionismo. Però dopo la cacciata di Trotsky si passò a: «Un ebreo è un trotskista, un trotskista è un ebreo». 

Al processo farsa contro il «Centro terroristico trotskista-zinovievita», i sospetti, leader bolscevichi, vennero accusati di nascondere le loro origini ebraiche con nomi slavi.

Ma il pregiudizio antiebraico non finì con Stalin era ancora presentissimo all'epoca di Kruscev e di Breznev. Breznev venne accusato di essere filo ebraico, mentre lo stesso regime di Breznev perseguitava gli ebrei russi che mostrassero simpatie israeliane. E si potrebbero citare decine di altri esempi.

Insomma quando poi un ministro degli esteri si lascia scappare che il leader del nazismo, con cui l'Urss non ebbe problemi ad allearsi per invadere la Polonia, «è un ebreo che odia gli ebrei» non ci si trova davanti a qualcuno che delira. 

Ma a qualcuno che usa una modalità politica, certificata nel tempo, per delegittimare l'avversario a colpi di antisemitismo. Un antisemitismo così radicale da voler confondere carnefici e vittime. E questo non avviene per caso ma per calcolo (che su un pubblico occidentale speriamo sbagliato) e strategia politica. 

Dino Messina per corriere.it del 26 agosto 2010

Dunque, Adolf Hitler aveva probabili origini ebraiche. A suffragare le dicerie con prove “scientifiche” sono due ricercatori belgi, il giornalista Jen-Paul Mulders e lo storico Marc Vermeeren, i quali hanno analizzato il dna di 39 persone legate da parentela a Hitler, scoprendo la presenza dell’Aplogruppo Eib1b1. Un cromosoma, questo, raro tra gli occidentali ma frequente nei gruppi ebraici askenaziti, cioè dell’Europa del’Est, e dei serfarditi, cioè della Spagna e del Nordafrica, nonché tra i berberi del Marocco, Algeria e Tunisia.

Fatta la tara a questo tipo di ricerche, è senz’altro paradossale che sangue ebraico venga trovato nel più razzista e antisemita degli individui, a dimostrazione che la razza pure, ariana o altra, non esiste. Esiste un’unica razza, come mi disse un amico: la razza umana. 

Non è la prima volta che si parla delle origini ebraiche di Hitler. A questo proposito sono state fatte varie ipotesi, ricordate oggi in un bell’articolo sul “Giornale” da Domizia Carafoli: la prima è che il padre di Adolf, Alois, sarebbe stato figlio illegittimo di una cameriera e di un giovane ebreo, tale Frankenberger. La seconda e più probabile ipotesi è che la madre di Hitler, Klara Schicklgruber, portava un cognome comune tra gli ebrei convertiti al cattolicesimo ai quali l’imperatrice Maria Teresa aveva concesso la cittadinanza austriaca.

Da cosa deriva l’antisemitismo di Hitler? Per Simon Wiesenthal l’astio derivava da una sifilide contratta dal giovane Adolf da una prostituta ebrea; altri dicono che l’odio iniziale era verso il padre che aveva abbandonato lui e la sorella Paula in giovane età; altri ancora che l’odio fosse partito per le cure sbagliate cui il medico ebreo Eduard Bloch aveva sottoposto sua madre Klara malata di cancro. In realtà il problema dell’antisemtitismo di Hitler è più complesso e va inserito nelle forti correnti razziste dell’Europa nei primi del Novecento.

(ANSA il 3 maggio 2022) - "L'iniziativa di condurre l'intervista non è venuta dal ministero degli Esteri russo, ma da giornalisti italiani". Così la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova su Telegram in merito alle parole premier Mario Draghi che "ha criticato - scrive Zakharova - il programma della tv italiana, in cui è intervenuto per 40 minuti il ;;ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Il programma è stato pubblicizzato come un'intervista, ma in realtà è stato un comizio, ha detto Draghi". "Voglio che i cittadini italiani sappiano la verità", afferma Zakharova, "perché i politici italiani stanno prendendo in giro il loro pubblico"

Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 3 maggio 2022.  

Silvio Berlusconi, giura chi gli sta vicino, non ne sapeva nulla. Non era a conoscenza dell'argomento della puntata di Zona Bianca e neppure l'ha vista: «Domenica sera aveva ospiti a cena ad Arcore». Ma la bufera scuote Mediaset, come non era mai capitato, viste le ripercussioni internazionali dell'intervista al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Borbottii, perplessità, voci anonime e trasversali alla redazione e alla dirigenza, sull'opportunità di concedere questo megafono a Mosca e sulle modalità dell'intervento. Tensioni sotterranee che si sommano alle pressioni esterne.

Tanto che i vertici del colosso televisivo sentono l'esigenza di intervenire con il direttore generale Mauro Crippa. Che definisce «falsi storici» e «follie allo stato puro» i parallelismi di Lavrov su Hitler e gli ebrei. Ma difende il prodotto giornalistico: «L'intervista al ministro degli Esteri russo è un documento che fotografa la storia contemporanea».

E stavolta la Real casa berlusconiana muove anche il numero due di Forza Italia, Antonio Tajani: «Non criminalizziamo il giornalista, che ha fatto uno scoop, per criminalizzare Lavrov. che dice cose inaccettabili». Poi, al telefono, se la prende con quella che chiama l'intelligèntzjia di sinistra: «Se l'intervista l'avesse fatta Fazio saremmo tutti ad elogiarlo». E un centrodestra dilaniato si ricompatta proprio sul caso Mediaset: sulla stessa linea di Tajani pure Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che a febbraio fu bannata per una settimana dalle reti berlusconiane.

Giuseppe Brindisi, l'autore dell'intervista, è frastornato ma difende il lavoro fatto: «Non ho proprio nulla da rimproverarmi». All'idea di portare Lavrov in tv, spiega, la redazione di "Zona bianca" pensava da tre settimane. Il "gancio" è stata Marija Zacharova, direttrice del dipartimento informazione del ministero degli esteri russo, che Brindisi aveva avuto in trasmissione la settimana precedente. 

«Un primo timido sì, da parte di Lavrov e del suo staff, è arrivato martedì, poi un fitto scambio di mail. Il via libera - dice il giornalista è arrivato giovedì». Nel frattempo, ovviamente, è giunta l'autorizzazione di Crippa: «Non ha esitato neppure un secondo», dice Brindisi. Ma l'intervento televisivo del braccio destro di Putin è stato possibile dietro garanzie precise: Lavrov ha voluto conoscere gli argomenti dell'intervista. E ha chiesto che le sue risposte potessero essere espresse in modo integrale.

«Dal ministro russo non è stata inoltrata alcuna richiesta di non essere interrotto», precisa Brindisi. Nel frattempo sarebbe stata interessata l'ambasciata russa in Italia: «Normale che sia così», dice Tajani. Brindisi non conferma. Nè può rispondere a un altro quesito: perché Lavrov, per la sua prima intervista a un network occidentale, ha scelto «Zona bianca»? «Mi pare ovvio che Mosca sappia che Mediaset appartiene a Berlusconi ma avrà appreso che non siamo mai stati filo- russi, il nostro è l'unico talk-show chiaramente schierato per l'Ucraina. Sì, ho chiuso l'intervista augurando buon lavoro a Lavrov, ma per la pace. E in precedenza al sindaco di Bucha avevo detto Slava Ukraini!».

Il mancato contraddittorio? «Il ministro - conclude il conduttore - ha pronunciato la frase su Hitler e gli ebrei dopo che io l'ho incalzato sulla asserita "denazificazione dell'Ucraina".

Sono orgoglioso: quell'intervista la cercavano in tanti e ha fornito almeno dieci notizie di risalto internazionale. Sì, rifarei tutto. Anzi, ora proverò a contattare Putin».

Domenico Di Sanzo per true-news.it il 3 maggio 2022.

“Per la verità Rete 4, consentendo a Lavrov di fare il suo monologo, non solo non ha rispettato la risoluzione del Parlamento europeo ma anche diverse relazioni del Copasir e persino il buon senso”, dice Elio Vito, deputato di Forza Italia e membro del Copasir, a true-news.it.

L’Aja è il posto giusto per Lavrov

Il giorno dopo l’intervista del ministro degli Esteri della Russia Sergej Lavrov alla trasmissione “Zona Bianca” in onda su Mediaset, non si placano le polemiche sull’opportunità di ospitare il capo della diplomazia di Mosca in prima serata. 

In Italia, parte della politica ha reagito sdegnata, Israele ha convocato l’ambasciatore russo per le parole di Lavrov su “Hitler ebreo”.

In prima linea, nelle critiche a Mediaset, il parlamentare azzurro, che sostiene che l’ospitata di Lavrov abbia violato una risoluzione del Parlamento europeo sulla propaganda di guerra della Federazione Russa, in relazione alla guerra con l’Ucraina. Vito, sempre eretico nelle sue posizioni, è durissimo: “È stato accertato e denunciato che la propaganda di guerra, la disinformazione russa è parte integrante della strategia a sostegno dell’aggressione all’Ucraina – spiega a true-news.it – ed il Parlamento europeo ha invitato gli Stati membri a non consentirla. 

Il posto giusto dove Lavrov dovrebbe parlare ed essere ascoltato è al Tribunale penale internazionale a L’Aja”. 

La differenza tra pluralismo e disinformazione

Per Vito consentire il diritto di tribuna a esponenti del governo russo o vicini al Cremlino “non è solo una questione di inopportunità”. “Vanno naturalmente ascoltate tutte le opinioni ma non bisogna prestarsi alla disinformazione russa, che nega i crimini, le deportazioni, gli attacchi a obiettivi civili come scuole ed ospedali”, prosegue il ragionamento, molto duro, del deputato del Copasir.

Più di qualcuno potrebbe obiettare che impedire a un alto rappresentante del governo della Russia di esprimere la sua visione sul conflitto potrebbe avere conseguenze sul pluralismo dell’informazione, e che la propaganda, in una guerra, coinvolge tutte le parti in lotta tra di loro. Ma Elio Vito è irremovibile, anche se premette: “Il pluralismo è sempre un valore e va rispettato. È uno degli elementi costitutivi delle democrazie liberali occidentali a differenza delle dittature e delle autocrazie come quella russa, dove non esiste libertà di stampa”.

Dopo la premessa, l’affondo: “Ma una cosa è il pluralismo delle idee un’altra è farsi portatori delle falsità, di bugie, di teorie negazioniste come è successo con Lavrov a Rete4. Questo non ha niente a che vedere con il pluralismo, ma con la disinformazione”. Secondo il parlamentare di Forza Italia, il rischio che le Tv facciano da megafono alla propaganda “vale principalmente per soggetti russi, soprattutto se sono ritenuti responsabili ed esposti a sanzioni”. 

L’intervento della autorità

Il deputato auspica “opportuni interventi da parte degli organismi preposti e delle autorità competenti”. E questo vale per Mediaset, un’emittente privata, ma potrebbe valere anche per la Rai, dove spesso intervengono giornalisti delle tv russe, considerati da qualche osservatore alla stregua di ‘funzionari’ del Cremlino”. 

“Anche le tv private sono soggette a delle regole e delle leggi come la tv pubblica, che vanno rispettate. Esiste per questo l’Autorità per le telecomunicazioni – conclude Vito – Non si tratta di evitare i dibattiti, ripeto, o la presenza di opinioni diverse, ci mancherebbe, ma di evitare che le nostre televisioni, pubbliche e private, diventino, più o meno consapevolmente, strumento della propaganda di guerra russa. Questo è davvero inaccettabile”.

Estratto da repubblica.it il 3 maggio 2022.

"Prima di tutto parliamo di un Paese dove c'è libertà di espressione, e il ministro Lavrov appartiene a un Paese dove non c'è libertà di espressione. In Italia c'è libertà di esprimere le opinioni, anche quando sono palesemente false e aberranti. Quello che ha detto Lavrov è aberrante. E per quanto riguarda la parte riferita a Hitler, è davvero oscena". 

E ancora: "La televisione trasmette liberamente queste opinioni" ma "in realtà" quello di Lavrov "è stato un comizio. Ci si deve chiedere" se è giusto "accettare di invitare una persona che chiede di essere intervistata senza nessun contraddittorio. Non è granché professionalmente, fa venire in mente strane idee".

Draghi: «Da Lavrov parole aberranti». Mosca s’infuria: «Ingannate l’opinione pubblica». Federica Parbuoni martedì 3 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Continua ad avere strascichi l’intervista del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, a Zona Bianca, su Rete 4. E, dopo il commento del premier Mario Draghi, prendono anche una piega diplomatica, con accenti ostili da parte di Mosca. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, infatti ha accusato «i politici italiani» di «ingannare» la nostra opinione pubblica.

Draghi: «Da Lavrov parole aberranti»

Nel corso della conferenza stampa di ieri sera sul Dl Aiuti, il premier ha risposto anche a una domanda sull’intervista a Lavrov, che ha suscitato numerose polemiche sia per le affermazioni del ministro russo sia per il modo in cui è stata condotta. Due temi sui quali Draghi non ha risparmiato critiche molto dure. Premettendo che «l’Italia è un Paese in cui c’è libertà d’espressione», mentre «il ministro Lavrov appartiene a un Paese dove non c’è libertà d’espressione», Draghi ha sottolineato che l’Italia «permette di esprimere le proprie opinioni liberamente, anche quando sono palesemente false, aberranti». Quindi, ha chiarito il premier, «il mio giudizio è che quello che il ministro Lavrov ha detto è aberrante». Per quanto riguarda poi il passaggio su “Hitler ebreo”, quella parte, ha aggiunto Draghi, «è veramente oscena».

Quanto alla realizzazione dell’intervista in sé, Draghi ha rimarcato che «la televisione trasmette liberamente queste opinioni», ma, ha detto rivolgendosi al cronista che aveva fatto la domanda, «lei ha parlato di intervista, in realtà è stato un comizio». Quindi, per Draghi, la domanda che ci si deve porre è «se si deve accettare di invitare una persona che chiede di essere intervistata senza nessun contraddittorio», per un tempo prolungato. «Non è granché. Non è granché professionalmente, fa venire in mente strane idee, non è granché», ha chiosato Draghi.

La risposta di Mosca a Draghi: «Ingannate la gente»

Parole che hanno suscitato la reazione irritata di Mosca, secondo la quale «i politici italiani stanno ingannando la loro opinione pubblica». Quindi, con la pretesa di far sapere ai cittadini italiani «la verità», la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, ha diffuso un messaggio su Telegram, affermando che «l’iniziativa di condurre l’intervista non è partita dal ministero degli Esteri» di Mosca, «ma da giornalisti italiani». Zakharova, quindi, rivendicando che Lavrov riceve «centinaia di richieste di intervista», ha aggiunto che «i giornalisti italiani sono stati insistenti, affermando che era importante mostrare tutti i punti di vista». «Non abbiamo fatto aggiustamenti alle domande o alla versione finale dell’intervista», ha concluso Zakharova, le cui parole però non hanno chiarito se per la concessione di quell’intervista Mosca avesse chiesto delle condizioni e confermano invece l’idea che la Russia trovi oltremodo urticante qualsiasi lettura dei fatti e opinione.

Urso: «Mosca usa le fake per condizionarci, ma dobbiamo saper garantire pluralismo e libertà». Sveva Ferri martedì 3 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.  

«La disinformazione è una delle armi che Mosca da sempre utilizza per condizionare le democrazie occidentali, lo abbiamo evidenziato più volte nelle nostre relazioni al parlamento, in tempi non sospetti». Adolfo Urso, torna sulle polemiche suscitate dall’intervista del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, a Zona Bianca su Rete 4, avvertendo come «fake news» e «disinformazione sistematica» siano elementi di quelle che ormai si chiamo «guerre ibride». Epperò, avverte il presidente del Copasir, l’«attenzione» e la «responsabilità» verso questo scenario si devono necessariamente conciliare con le garanzie di «pluralismo e libertà», i valori che «i regimi autocratici vorrebbero conculcare».

Urso: «Gli eventi forse ci diranno le finalità di Lavrov»

Per Urso «può darsi che (l’intervista, ndr) abbia avuto l’effetto contrario, ma non mi avventuro in interpretazioni proprio perché il ruolo che ricopro mi impone cautela». «Lavrov è sempre stato considerato una persona molto accorta, prima della guerra tutti lo definivano geniale. Uno straordinario diplomatico, forse il migliore al mondo, capace di mettere nel sacco chiunque», ha ricordato Urso in un’intervista al Giornale, nella quale ha spiegato che «quali fossero le sue finalità forse lo capiremo alla luce degli accadimenti».

«La disinformazione falsa la realtà anche a chi la pratica»

Urso, poi, ricordando che «anche Putin per mesi negò l’evidenza che le truppe ammassate ai confini dell’Ucraina preparassero l’invasione, e ancora oggi impone che non si usi il termine guerra nei loro talkshow». Lo stesso presidente russo, ha poi sottolineato ancora il senatore di FdI, «pensava a un’accoglienza da liberatori per le sue truppe e ora si ritrova con i russofoni che per protesta insegnano ai loro figli a parlare ucraino». Dunque, «la disinformazione, quando diventa sistema, falsa la realtà anche a chi la pratica».

Un elemento della “guerra ibrida”

«La disinformazione sistematica, insieme alla guerra cibernetica e allo spionaggio, con la costruzione di fake news e l’uso spregiudicato dei social, sono parte di quella che si chiama “guerra ibrida”, estremamente pericolosa in un villaggio globale in cui le democrazie occidentali in quanto società aperte sono per loro natura più vulnerabili», ha chiarito ancora il presidente del Copasir, ricordando che «si è coniato il termine infodemia, l’epidemia di informazione che rende difficile anche ai più esperti giornalisti riconoscere l’affidabilità delle fonti».

Il ruolo del Copasir e l’audizione con Rai e AgCom

Dunque, i pericoli connessi all’uso di fake e disinformazione riguardano tutti: tanto chi quella propaganda la promuove, quanto chi la subisce. «Proprio per questo ci vuole piena consapevolezza e responsabilità anche in chi deve giustamente garantire pluralismo e libertà, proprio i valori che i regimi autocratici vorrebbero conculcare», ha spiegato Urso, chiarendo quindi che nelle audizioni dell’Ad Rai Carlo Fuortes e del presidente Agcom, Giacomo Lasorella, in calendario al Copasir il prossimo 12 maggio, «non c’è alcuna intenzione di fissare regole e tantomeno di dare consigli: abbiamo altre competenze e altre modalità rispetto a Vigilanza e Agcom».

Urso: «La libera informazione si basa sul pluralismo»

«Non interveniamo in alcun modo nei palinsesti e nelle libere scelte dei giornalisti. Il nostro compito è semmai esattamente il contrario: garantire che non ci siano interferenze esterne finalizzate a condizionare la nostra libera informazione. Che si basa anche, e direi soprattutto – ha concluso Urso – sul pluralismo delle fonti e delle opinioni». 

A volte ritornano. Il comizio di Lavrov e l’assurda pretesa di una par condicio dei nazismi. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 4 Maggio 2022.

La campagna di un pezzo della stampa e della politica italiana – dieci invettive sul battaglione Azov per ogni riga sui massacri di Bucha – nel tentativo di affermare che alla fine tutte le vacche sono nere, cioè naziste, ha trovato infine il suo interprete più naturale: il ministro degli Esteri russo.

Mi ha fatto un certo effetto ascoltare il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ripetere alla tv italiana quel che tv e giornali italiani ripetono già da mesi, a proposito dei «nazisti» ucraini e del «battaglione Azov», fino al più classico tra tutti i luoghi comuni dell’antisemitismo moderno – quello utilizzato per spiegare cosa ci farebbe un ebreo come Zelensky a capo dei nazisti – e cioè che anche Hitler sarebbe stato di origini ebraiche, a conferma del fatto che «i peggiori antisemiti sono gli ebrei».

Intendiamoci, tutto si può contestare a queste affermazioni, ma non la coerenza: se oggi sono gli ucraini che minacciano la Russia e non vogliono la pace, non stupisce che ieri, secondo la stessa logica, fossero gli ebrei a perseguitarsi da soli. È una retorica semplice, che ormai dovremmo avere imparato a riconoscere, a forza di sentirla in ogni talk show: il carnefice è sempre innocente, la vittima non lo è mai.

La campagna di un pezzo della stampa e della politica italiana per affermare una sorta di grottesca par condicio del nazismo – dieci invettive sul battaglione Azov per ogni riga sui massacri di Bucha – nel tentativo di convincerci che alla fine tutte le vacche sono nere, cioè naziste, ha trovato infine il suo interprete più naturale: il ministro degli Esteri russo.

Certo, sarebbe meglio che simili assurdità venissero almeno confutate, ma il problema, per me, non è tanto che le lasciamo dire in diretta televisiva a Lavrov. È che le ripetiamo noi, ogni giorno.

Personalmente, ogni volta che le sento, penso a Vanda Semyonovna Obiedkova, nascosta in una cantina di Mariupol quando aveva dieci anni, nel 1941, per sfuggire ai rastrellamenti dei nazisti, quelli veri, in cui morirono sua madre e tutto il ramo materno della sua famiglia (il padre non era ebreo); morta a novantuno anni in una cantina di Mariupol, senza acqua e senza riscaldamento, lo scorso 4 aprile, tentando di sfuggire alle bombe di quelli che secondo Lavrov sarebbero venuti lì per liberarli dai nazisti.

Se avessimo potuto chiederlo a lei chi sono oggi i nazisti, se glielo avessimo potuto chiedere in quello scantinato, non credo che avrebbe avuto difficoltà a rispondere.

Da quando ho letto la notizia della sua morte, non faccio che pensare a quella vecchia signora chiusa in cantina, perché non penso ci possa essere nulla di peggio che rivivere a novant’anni il più atroce incubo di quando ne avevi dieci, e morire così, senza speranza. Penso a mia nonna, che fu più fortunata, perché in paese a nessuno venne in mente di calcolare cosa convenisse fare, se non fosse più prudente denunciarla, per evitare magari rappresaglie e accuse di complicità, nel caso l’avessero scoperta. Grazie al cielo tra i vicini non dovevano esserci grandi teorici di realismo politico e geopolitico. Penso al soldato tedesco che cercando di fare colpo su di lei (da giovane non era niente male, a giudicare dalle foto), le diceva: «Io ebrei li riconosco a occhio, mio cane a odore». I nazisti veri, invece, si riconoscono sempre dall’idiozia.

Penso a mia zia, quando era piccola, mentre al ristorante i genitori le insegnavano, come fosse un loro gioco segreto, a riconoscere gli ebrei tra gli sconosciuti seduti ai tavoli vicini, nella convinzione che un domani questa presunta capacità avrebbe potuto salvarle la vita.

Penso allo zio morto negli anni ottanta, al quale trovarono indosso il passaporto e un fascio di banconote straniere che evidentemente, quarant’anni dopo, mentre io guardavo i cartoni animati di Bim Bum Bam alla televisione, non aveva perso l’abitudine di mettere in tasca prima di uscire, come ciascuno di noi al mattino controlla di aver preso le chiavi e il telefonino.

Penso a questi racconti familiari e penso all’effetto che mi hanno sempre fatto: frammenti di un passato talmente lontano da far persino sorridere. E mi chiedo cosa potesse pensare la signora Obiedkova in quella cantina.

Nulla è più straniante e doloroso dello scoprire che gli incubi della propria infanzia non erano incubi. Niente è più vile di quest’ultimo oltraggio alle vittime, di ieri e di oggi, che si ripete ogni giorno con il continuo esame dei loro presunti meriti o demeriti, nel meschino tentativo di trovare una giustificazione al nostro desiderio di liberarcene il prima possibile, per non doverci pensare più. 

L’Hitler che non conoscevamo. La storia fatta a pezzi e la logica al contrario del duo Orsini-Lavrov. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 3 Maggio 2022.

Il dittatore tedesco non voleva davvero la guerra, spiega il professore della Luiss, ma è stata colpa delle alleanze degli altri Paesi. Secondo il ministero degli Esteri russo invece il Führer era ebreo (falso) e, per questo, antisemita. Ma dove hanno studiato? 

Commentando a modo loro la guerra in Ucraina, i prosseneti di Vladimir Putin hanno spalancato dei nuovi scenari per comprendere meglio chi fosse veramente Adolf Hitler, l’uomo che in soli 12 anni (dal 1933 al 1945) riuscì a distruggere l’Europa e, en passant, ad eliminare sei milioni di ebrei nei campi di sterminio.

Alessandro Orsini, in una delle ultime scorribande televisive (pare che la sua presenza sia una garanzia per lo share dei talk show), ci ha spiegato che il Führer non aveva affatto l’intenzione di provocare la Seconda guerra mondiale. A lui bastava soltanto invadere la Polonia. Anzi il leader nazista «non si aspettava» la reazione di Francia e Inghilterra (pensava di essere ancora a Monaco?). Ma c’è di più. Secondo il “traduttor dei traduttori” di Putin «a differenza di quello che moltissimi pensano, la Seconda guerra mondiale non è scoppiata perché Hitler a un certo punto, deliberatamente, ha deciso di attaccare Inghilterra, Francia, Polonia e Russia». La causa scatenante va cercata, secondo Orsini, in un sistema di alleanze in conseguenza del quale, se viene attaccato uno Stato-membro, gli altri sono impegnati a difenderlo, determinando una sorta di effetto domino che, nel 1939, colse di sorpresa lo stesso Hitler.

Ecco perché, adesso, appartenere alla Nato è un rischio che aumenta con l’ingresso di nuovi Paesi, poiché – ci pare di capire – crescono anche le possibilità che Putin decida di invaderne qualcuno, mettendoci di fronte al dilemma di rispettare gli impegni assunti con gli alleati o di darcela a gambe suonando il piffero per la pace. In sostanza, è meglio stare da soli e in silenzio, nella speranza che il coccodrillo non si accorga di noi. Intanto, i bambini possono trascorrere una vita felice e serena, imparando a crescere senza preoccuparsi degli altri.

Considerando le argomentazioni dei “filoputiniani a loro insaputa” (visto che non si sono resi conto di esserlo) dobbiamo aspettarci una prossima rivalutazione di Adolf Hitler, per le medesimo ragioni che portano a “comprendere” l’invasione russa dell’Ucraina. In fondo, la Germania era stata umiliata dalle potenze che avevano vinto la Grande Guerra. Dai trattati di Versailles erano scaturiti, attraverso dei giri di compasso sulle carte geografiche, dei nuovi Stati, come la Polonia e la Cecoslovacchia, che avevano all’interno dei propri confini milioni di tedeschi, nella condizione di minoranze etniche.

Non si avverte una certa assonanza con le rivendicazioni di Putin di restituire alla Madre Russia i cittadini dispersi in quello che fu l’Impero sovietico e ora sparpagliati in Stati, spesso senza storia alle spalle, scaturiti dalla sconfitta dell’Urss nella guerra fredda? Non dicono, ogni tre parole, i pacifisti a senso unico, che la Russia non può uscire sconfitta dal conflitto in Ucraina (di cui è la sola responsabile) perché una grande nazione e il suo leader non possono essere umiliati?

Io mi aspetto che Orsini sia prossimo a sfoggiare un’altra clamorosa narrazione. Secondo le categorie con cui il professore interpreta le responsabilità della guerra in Ucraina, devono essere cambiati anche i giudizi su quelle che hanno portato al secondo conflitto mondiale. Perché Churchill non volle negoziare con Hitler attraverso una mediazione dell’Italia? Perché Stalin non offrì ad Hitler la resa senza condizioni al momento dell’Operazione Barbarossa, condotta con un impegno di forze tedesche senza precedenti lungo un fronte di tremila Km? Perché il Presidente Roosevelt fece approvare dal Congresso Usa, nel marzo del 1941, una legge (la stessa a cui lavora Joe Biden) che consentiva alla sua Amministrazione di armare l’Inghilterra, la Francia libera, la Cina nazionalista e, da giugno in poi, l’Urss (che senza gli aiuti americani non sarebbe riuscita a rovesciare le sorti della guerra)? Putin non sarà Hitler, ma anche nella paranoia non può non esservi una logica.

Non ci eravamo ancora ripresi per l’esternazione di Orsini, quando il ministro Sergei Lavrov ci ha lasciati di stucco, sostenendo dai nostri schermi televisivi (messi incautamente a sua disposizione) che Hitler era ebreo e proprio in ragione di questa appartenenza voleva sradicare l’ebraismo dall’Europa, perché – secondo Lavrov – gli ebrei sono i più feroci antisemiti. Poi, a pensarci bene anche in quest’affermazione assurda c’è una logica: secondo la propaganda russa non sono forse gli ucraini a bombardarsi da soli e a organizzare set di cadaveri, per mettere in cattiva luce l’esercito di liberazione mandato dal Cremlino?

Otto e mezzo, la giornalista russa fa impazzire la Gruber: "Avete fatto il test del Dna a Hitler?" Il Tempo il 03 maggio 2022.

Nei talk show sono sempre più frequenti i giornalisti e gli opinionisti che vengono a portare il punto di vista della Russia. Ma le posizioni tra i commentatori italiani e quelli di Mosca sono inconciliabili e si finisce spesso e volentieri con il muro contro muro. Come lo scontro surrealevisto martedì 3 maggio a Otto e mezzo, il programma di La7. Ospite di Lillio Gruber è Yulia Vityazeva, giornalista nata in Ucraina ma sostenitrice della Russia e di Vladimir Putin. Tra i vari argomenti non può mancare l'intervista del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Rete 4, andata in onda il primo maggio, il cui l'uomo di fiducia ha fornito la verità  del Cremlino facendo scoppiare feroci polemiche su quello che Mario Draghi ha definito un "comizio". 

Molto clamore ha suscitato l'uscita di Lavrov che, mentre parlava del presidente russo Volodymyr Zelensky e della "denazificazione" dell'Ucraina, ha detto che Adolf Hitler  aveva origini ebraiche. La Gruber chiede conto all'ospite dell'affermazione e la giornalista dell'Agenzia Newsfront replica serafica: "Così che vi agita? Avete le prove che confermano questo fatto?". "C'è che è un fatto storico" sbotta Lina Palmerini del Sole 24 ore. La giornalista russa replica allora: "C'è un'analisi del Dna di Hitler? Ce l'avete voi? Non ce l'ha nessuno". Insomma, nessuno può smentire Lavrov perché non c'è una evidenza scientifica, pare essere il ragionamento di Vityazeva. Ogni dialogo pare inutile.  

"Mi state censurando" e da Floris scoppiano a ridere. Tutti contro la russa Nadana Fridrikhson a Dimartedì. Il Tempo il 03 maggio 2022.

"Se non mi fate rispondere mi censurate" e scoppia una sonora risata. Curioso siparietto a Dimartedì, il programma condotto da Giovanni Floris su la7. Tra gli ospiti c'è Ospite Nadana Fridrikhson, giornalista della tv russa Zvezda e di media legati al governo di Vladimir Putin. Il conduttore non è soddisfatto delle risposte della russa che non entra nel merito delle questioni sollevate, e così la interrompe per chiederle di andare nel vivo delle questioni. Fridrikhson si spazientisce e afferma di essere vittima di censura provocando l'ilarità di Floris e degli ospiti in studio e in collegamento. "In Italia c'è la censura, e in Russia...". 

"Se non si sente censurata le farei vedere alcuni cartelli", dice Floris poco dopo mostrando la lista dei giornalisti uccisi in Russia: "È la mia risposta alle accuse di censura". Interviene allora Alan Friedman che attacca la "funzionaria del ministero della Difesa" e chiede: "Ci crede veramente alle falsità di Lavrov su Adolf Hitler e sul massacro di Bucha o ha subito il lavaggio del cervello?" A quel punto è chiaro a tutti che la situazione è sfuggita di mano e il conduttore prova a contenere il giornalista americano dando nuovamente la parola alla russa. Che replica naturalmente a Friedman: "Se questa è la scuola giornalistica americana...". E poi ammette che non sa se Hiter fosse o no ebreo ma si dice sicura che gli ucraini sono "nazisti" provocando la sdegnata reazione dello studio. 

Quei comizi in televisione, una deriva pericolosa della «sudditanza politica». Partita complessa, quella italiana su questo terreno. La forza di penetrazione culturale e politica russa è un dato di fatto storico e presente nella realtà odierna. Guido Gentili su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Maggio 2022.

«La macchina propagandistica del Cremlino non può avvelenare le menti degli europei». Ecco, questo è il punto di non ritorno. Lo ha indicato un post del Partito Popolare, cioè la maggiore forza politica del Parlamento europeo (nonostante Silvio Berlusconi ne sia storico ed ascoltato rappresentante) riguardo l’intervento del ministro degli Esteri russo Lavrov in una trasmissione di Rete4 (gruppo Mediaset che fa capo alla famiglia Berlusconi).

Già, perché il primo maggio al numero uno della diplomazia di Mosca, interprete fedele delle direttive di Putin, una tv italiana (praticamente in parallelo con un’altra trasmissione della rete La7 che ha mandato in onda il pensiero del giornalista russo Soloyov, altro fedelissimo di Putin) ha consentito – senza un efficace contraddittorio - di declamare alcune «verità» alternative. Tipo quella del «sangue ebreo» che accomuna il presidente ucraino Zelensky a Hitler.

Ora, basterebbe questo per liquidare la questione lasciandola agli incidenti diplomatici gravi (come quello sollevato da Israele nei confronti di Mosca) e agli approfondimenti degli storici nel solco della riscrittura della realtà sul modello dei Protocolli dei Savi di Sion, «il fondamento della letteratura antisemita moderna creato nella Russia zarista», come ha notato dalla Comunità Ebraica di Roma.

Invece no, non è sufficiente. Perché la guerra in Ucraina, che la Russia ha deciso di invadere, aggredendo un paese libero e indipendente, è in corso in Europa. Perché si accumulano le prove delle stragi di civili per mano delle truppe russe. Perché sono inaccettabili le parole minacciose di chi impartisce lezioni di verità e correttezza dal ponte di comando di una grande potenza militare, la Russia, che chiude la bocca, arresta (e uccide) giornalisti e scrittori colpevoli di raccontare le cose come stanno, cioè molto male, in un Paese a trazione autocratica. Oggi 3 maggio si festeggia la giornata mondiale della libertà di stampa: in Russia ci sono solo da ricordare i giornali appena chiusi.

«Grazie ministro per essere stato con noi. Buon lavoro». Così si conclude l’intervista – più che altro un monologo, evidentemente concordato - del ministro degli Esteri Lavrov alla trasmissione di Rete4. Si dice: mica si possono ascoltare solo l’attore-presidente Zelensky, i soliti americani, inglesi e francesi… bisogna sentire anche l’altra versione, quella dei russi, evitare ogni censura, questo sì che è vero giornalismo. No, il giornalismo qui non c’era e se c’era dormiva. Nessun efficace contraddittorio, nessuna domanda scomoda, niente che abbia a somigliare con l’intervista che l’inglese BBC ha mandato in onda un paio di settimane fa in un contraddittorio serio e appuntito con il portavoce del Cremlino Peskov.

Come ha scritto il PPE nel suo post messo in rete, il problema sono i guasti che derivano dalla forza della macchina propagandistica russa. Questo è il punto che va affrontato senza esitazioni e giri di parole tenuto anche conto che l’Europa si è già mossa su questo terreno imponendo tra le sue sanzioni il blocco di Sputnik (gruppo multimediale) e Russia Today (canale tv satellitare), due grandi realtà che fanno capo al governo di Mosca capaci di disinformazione, manipolazione e distorsione dei fatti. Ora in Italia potrebbe muoversi il Copasir (Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti). Il presidente Adolfo Urso ha spiegato che è stata già prevista una specifica istruttoria anche con le audizioni dei vertici Rai e Agcom e che «l’intervento di Lavrov, per le modalità in cui è avvenuto e per la montagna di notizie false che ha propinato, conferma le nostre preoccupazioni». Bene, ma ha ragione la giurista Vitalba Azzollini, quando su Twitter osserva che si sarebbero dovute prendere al momento dell’annuncio dell’intervista «subito le vie ufficiali» sollevando l’ipotesi di violazione delle regole Ue. Che senso ha, infatti, «silenziare i canali di disinformazione del governo russo e poi invitare nelle tv italiane i componenti del governo di Mosca affinché possano tranquillamente disinformare e manipolare»?

Partita complessa, quella italiana su questo terreno. La forza di penetrazione culturale e politica russa è un dato di fatto storico e presente nella realtà odierna. Va detto che i due Presidenti, Sergio Mattarella e Mario Draghi, sono argini fermi a questa deriva pericolosa. Il premier ha spiegato che «non vogliamo più dipendere dal gas russo perché la dipendenza economica non deve diventare sudditanza politica». Questo, infatti, è il problema.

Russia contro il premier sull'intervista a Lavrov. "I politici vi ingannano". Pier Francesco Borgia il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il ministero degli Esteri replica a Draghi che aveva parlato di "comizio inaccettabile".

C'è una coda di polemiche all'indomani della bagarre scatenata dall'intervista al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Tra le voci di protesta spiccava lunedì quella del nostro presidente del Consiglio Mario Draghi che ha bollato le parole di Lavrov su Hitler («era ebreo come Zelensky») «aberranti e oscene».

Mosca ieri ha replicato proprio al commento del nostro premier. «L'iniziativa di condurre l'intervista non è venuta dal ministero degli Esteri russo, ma da giornalisti italiani». Così la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. Per Mosca è inaccettabile, oltretutto, dichiarare, come ha fatto Draghi, che non di un'intervista si è trattato ma di un comizio. «Voglio che i cittadini italiani sappiano la verità - afferma Zakharova, «perché i politici italiani stanno prendendo in giro il loro pubblico. La portavoce del governo russo ricorda che l'iniziativa di condurre l'intervista è stata dei giornalisti italiani.

Nella giornata mondiale della libertà di stampa diventa un caso diplomatico l'intervista a Lavrov che molti, a iniziare appunto da Draghi, hanno considerato un comizio in spregio alle norme deontologiche che governano il lavoro giornalistico. E proprio sul piano deontologico risponde la portavoce russa. «Il comizio è ciò che viene pubblicato su iniziativa del relatore. Come la pubblicità - sottolinea la Zakharova -. L'iniziativa di condurre l'intervista non è venuta dal ministero degli Esteri russo, ma da giornalisti italiani. Riceviamo centinaia di richieste di interviste con Sergej Lavrov, rappresentanti del ministero e delle ambasciate». «I giornalisti italiani sono stati insistenti, dicendo che era importante mostrare tutti i punti di vista. In cosa hanno torto?», si chiede la Zakharova che poi sottolinea che le domande dell'intervistatore non sono state cambiate e che non sono state apportate modifiche alla versione definitiva. Sull'accusa di aver mascherato un comizio con una accomodante intervista replica anche il diretto interessato. Partecipando alla trasmissione radiofonica Un giorno da pecora, il conduttore di Zona bianca, Giorgio Brindisi, si difende. «Altro che comizio! Ho fatto una ventina di domande - dice ai microfoni di Radio Uno - Dalle risposte di Lavrov è uscita almeno una decina di notizie. Non tocca certo a un giornalista dichiarare guerra alla Russia».

Il mondo della politica continua interrogarsi sull'intervista e sulla coda di polemiche. Matteo Salvini, a esempio, incalzato dai cronisti a Montecitorio ha bollato come «inaccettabili» alcune parole di Lavrov ma è comunque «da folli considerare Mediaset responsabile di quelle stesse parole».

La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, approfitta della giornata mondiale del diritto di cronaca per ringraziare chi «combatte contro il pensiero unico» va letto nella difesa dell'autonomia di chi vuole sentire entrambe le parti di una controversia. «L'Italia è una democrazia - aggiunge il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani -, perciò tutti possono parlare. Non mi scandalizzo. Non condanno Lavrov o l'idea di averlo intervistato. L'importante è prendere le distanze. Montanelli intervistò Graziano Mesina quando era latitante ma non vuol dire che era dalla parte dei banditi».

"Le polemiche in Italia dettate dall'invidia. Ma quello è uno scoop". Stefano Zurlo il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

"Davanti a un confronto in esclusiva gli altri colleghi provano a sminuirne la forza".

L'intervista a Lavrov.

«Cominciamo col dire - risponde Carlo Rossella - che siamo davanti a uno scoop. E che lo scoop l'ha fatto un giornalista italiano». Che ora viene accusato di aver fatto da scendiletto al potente ministro degli Esteri di Mosca. Il principe del giornalismo, direttore negli anni della Stampa, di Panorama, del Tg1 e del Tg5, non si scompone: «Io non giudico i colleghi».

Sì, ma molti hanno attaccato Giuseppe Brindisi per non aver duellato con Lavrov.

«Non mi pare il punto centrale della questione».

E qual è il punto centrale?

«Brindisi ha compiuto un'operazione giornalistica molto importante perché ci ha permesso di conoscere il pensiero di Lavrov, non uno che passa in mezzo alla strada, e quindi del Cremlino. Non mi stupirei se fosse stato Putin a spingerlo in questa direzione».

Più o meno la filosofia di Putin l'avevamo già sentita.

«A grandi linee. Ma qui il ministro degli Esteri ha chiarito molti punti. Zelensky dice che l'Occidente non deve fronteggiare Mosca a mani nude. Ecco, ora sappiamo alcune cose in più e questo è un aspetto decisivo. Pensi alle parole spese sul 9 maggio».

Non ci sarà la tregua o la pace?

«Non credo proprio: Lavrov è stato netto e ha escluso passi indietro per quella data».

Ma Lavrov non ha fatto propaganda e allo stesso tempo disinformazione?

«Purtroppo il suo è il punto di vista di Mosca: un Paese nemico dell'Occidente».

E pure dell'Italia?

«Questo è uno dei passaggi più significativi».

Le minacce all'Italia?

«Sì, le bordate all'Italia che fa parte di uno schieramento che sta con l'Ucraina e contro la Russia. D'altra parte, mi pare non ci possano essere dubbi: Mosca è l'aggressore, Kiev l'aggredito. Non è stata l'Ucraina cattiva con Mosca, è stata Mosca cattiva con l'Ucraina».

Draghi ha criticato l'intervista. Anzi, il «comizio».

«Ha ragione. Ma fossi il governo italiano, mi preoccuperei più delle parole sibilline del russo che non del contraddittorio fra Lavrov e Brindisi. C'è stato tutto un capitolo sull'Italia da rileggere con attenzione: il Paese che sapeva distinguere il nero dal bianco e ora sarebbe scivolato sul pensiero unico, allineato agli Usa. Le interviste del ministro degli Esteri sono rarissime, anche per le tv russe. Siamo davanti a una novità e dobbiamo analizzare bene questi messaggi nello stile delle matrioske: una cosa viene detta, un'altra è sottintesa e una terza viene evocata. Questi riferimenti vanno compresi bene».

Ma perché concedere lo scoop a una tv italiana?

«Forse l'Italia è nemica, ma meno di altri paesi. Poi non so come siano andate le trattative. Certo, se il colloquio fosse avvenuto con una tv tedesca, saremmo qui a ripetere la solita litania».

Quale?

«Quella dei provinciali: siamo un Paese che non conta, di seconda o terza fila. E i potenti del mondo conversano con i giornalisti inglesi, americani o tedeschi. Ma se l'intervista la fa un italiano, allora le cose cambiano».

In che senso?

«Quando un collega realizza uno scoop, tutti gli altri provano a sminuirne la forza».

Insisto, Brindisi avrebbe dovuto contrastare il suo ospite con più veemenza?

«Può darsi che sia stato frenato dal retropensiero che Lavrov, se si fosse irritato, avrebbe potuto alzarsi e andarsene. Ma devo aggiungere un'altra considerazione terra terra».

Sul giornalismo tricolore?

«Sull'indignazione».

Prego.

«L'indignazione ha spesso un fondo di invidia. E come l'acqua: entra di qua, ma passa anche da un'altra parte».

Lei nella sua carriera è stato anche inviato spesso a Mosca. Come era la sua Russia?

«Era sempre molto difficile intervistare i big. Ma uno scoop l'ho fatto anch'io: ho pubblicato su Panorama la lettera in cui un piccato Breznev replicava a Berlinguer che stava sganciando il Pci dall'orbita di Mosca».

Parla Giuseppe Brindisi: «Lavrov in tv? Io non censuro come in Russia». La posizione del giornalista barese protagonista dell'intervista al ministro degli esteri russo che ha fatto il giro del mondo. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Maggio 2022.

Giuseppe Brindisi, giornalista barese, conduttore di Zona Bianca su «Rete4», si attendeva tanto clamore - da Palazzo Chigi ai leader di partito, al Copasir - per un colpo giornalistico come l’intervista al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov?

«Giornalisticamente l’intervista aveva un grande peso, l’esponente politico non andava in altre tv da mesi: era stato prima solo ospite di “Al Arabiya” o della Tv di Stato cinese. Non pensavo che potesse dire le cose gravi che ha poi dichiarato nel nostro studio e non pensavo che io potessi finire nel macinino dell’invidia, che c’è ed è molta, e dell’ipocrisia della politica italiana». 

Uno scoop che segnerà il suo percorso professionale.

«Vado avanti a testa alta. Ho fatto il mio dovere. Porto le notizie e ne ho portate a sufficienza con questa intervista. Non dovevo certo dichiarare guerra alla Russia e mettere l’elmetto».

Si discute dello spazio concesso dai media italiani ed europei alla versione russa del conflitto nell’Est. Cosa ne pensa?

«Accusiamo i russi di vivere in una dittatura, in una autocrazia con libertà compresse e censura. Vogliamo fare la stessa cosa in Italia? È un paradosso vero e proprio. Ora censuriamo i russi?».

Il segretario del Pd Enrico Letta ha descritto l’intervista di Lavrov come «un’onta per l’Italia».

«Ho beccato una foto di Letta che stringeva la mano a Putin. Se il leader dem mi promette che non siede a nessuno tavolo con Lavrov o altri politici del regime russo, per firmare la pace e un contratto di forniture di gas, mi fustigo con il cilicio… Ma non succederà. La politica è quella. Da giornalista, rivendico di non dover prendere posizioni». 

Le sue domande sono state tutt’altro che indulgenti, a partire da quelle sulla strage Bucha.

«Non ho fatto sconti. Gli ho ricordato il video della “Cnn” sulla strage nel paesino ucraino. In 41 minuti di intervista, ho formulato 20 domande, 16 dirette e 4 interlocuzioni. Di che comizio si parla? Ha detto le cose più interessanti quando l’ho interrotto, senza dimenticare le difficoltà nel tenere il ritmo della trasmissione con un dialogo in video e la traduzione dell’interprete». 

Qualcuno ribatte dicendo: domande incalzanti dei media occidentali nelle conferenza stampa di Zelensky non se ne ricordano…

«Dall’inizio della guerra sono schierato con l’Ucraina, accusato ferocemente dai filoputiniani. Ho ospitato il vicepremier ucraino Olga Stefanishyna, il sindaco di Kiev Vitali Klitschko, il sindaco di Bucha, non scriviamo più Kiev ma Kyiv in ucraino, saluto gli ospiti con “Slava Ukraini”, ma nelle conferenze stampa di Zelensky non ho visto finora alcun contraddittorio. Quando vedo le critiche nei miei confronti che arrivano dai giornalisti più vicini all’Ucraina ho il dubbio che i russi non dicano solo fake news… Questa intolleranza o ostracismo a prescindere puzza. Sono stato attaccato dalla collega Marta Ottaviani, che avevo invitato alla trasmissione. Si è detta fiera di non essere venuta nel mio studio, ma non sapeva certo cosa avrebbe detto Lavrov». 

Quale il ruolo dei media in questa fase?

«Raccontare quello che succede, con occhi il più imparziali possibile, perché il pubblico possa fare la sua sintesi. Quando faccio una domanda a Lavrov, mi risponde, lo incalzo, mi risponde, basta. Non devo litigare». 

C’è però il rischio di amplificare la propaganda delle due parti del conflitto. Che antidoti ci sono?

«Una intervista fa emergere le idee del personaggio, le domande cercano solo di fargli tirare fuori quello che pensa veramente». 

Aveva già intervistato il filosofo tradizionalista ed eurasista Dugin, considerato vicino al Cremlino, ora Lavrov. Ha già in mente il prossimo ospite?

«Dugin, il presunto ideologo di Putin, se ne era andato dalla trasmissione, chiudendo il collegamento polemicamente. L’ho attaccato ed è scappato, perdendo così l’intervista. Battuta per battuta, spero di avere Putin…». 

La prossima trasmissione?

«Non pongo limiti alla Provvidenza. Vorrei avere un leader ucraino o un israeliano per comprendere l’impatto delle dichiarazioni di Lavrov a Tel Aviv. Lavrov? Se torna, lo prendo». 

Lei è di Bari, ricorda il legame della città di San Nicola con la Russia. Qui venne Putin per adorare la tomba di San Nicola. Si registra in Italia una crescente ostilità per il popolo russo.

«La russofobia è un errore grave. Sono stato tre anni fa a capodanno tra Mosca e San Pietroburgo, città molto occidentali. Amo Tolstoj, Dostoevskij. Le racconto un aneddoto».

Prego.

«Mia figlia studia danza e ha vinto una borsa di studio al Bolshoj. Prima non poteva andarci per la pandemia, ora per la guerra. Poi a Bari…».

Il legame con l’Oriente è un tratto fondante della città.

«Quando andavo a scuola al Di Cagno Abbrescia, arrivavo nell’istituto da Modugno, e prendevo il bus numero 4 che passava proprio davanti alla basilica ortodossa. Spero che Bari resti accogliente verso chi viene da Oriente, mentre vorrei tornare presto in Russia, in tempi di pace, che auspico arrivi in fretta. Purtroppo la guerra e le sanzioni fanno tornare indietro le lancette della storia e alla fine tra i popoli restano macerie di relazioni culturali e internazionali costruite con anni e anni di dialogo».

"Benissimo l'intervista a Lavrov. Sul conflitto non c'è una sola verità". Francesco Boezi il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il giornalista e scrittore: "D'accordo con l'invio di armi, però anche Orsini ha ragione: è un rischio colpire l'Armata rossa".

Giampiero Mughini difende la scelta della Ue di inviare armi in Ucraina e delimita i ragionamenti della sinistra alla Santoro.

La Pace proibita di Michele Santoro è il ritorno della sinistra massimalista?

«Lasciamo perdere le definizioni troppo affrettate. Diciamo che i personaggi in questione, da Michele Santoro a Sabina Guzzanti, lo sappiamo da sempre a quale latitudine se ne stanno scolpiti come nella pietra. Detto questo, il dramma con cui ci stiamo confrontando è molto complesso. Non è facile uscirne con una sola verità pronunciata a voce alta una volta per tutte».

Da che partito è rappresentata tale area?

«Per certi aspetti dal Movimento 5 Stelle, e ammesso che loro siano in grado di rappresentare qualcuno».

Poi ci sono posizioni come quella di Orsini.

«Nell'analisi del professor Alessandro Orsini, che è persona rispettabilissima, c'è un'atroce verità. Che se colpisci gravemente l'Armata Rossa c'è il rischio di una sua reazione bestiale».

Però lei concorda sull'invio di armi in Ucraina da parte dell'Ue.

«Se c'è una guerra in cui qualcuno ha aggredito qualcun altro, mi sembra elementare il dover aiutare l'aggredito in modo che non debba trattare da posizioni di estrema debolezza. L'Unione europea è fatta da Paesi molto diversi tra loro. E con tutto questo l'Ue è stata molto compatta, a cominciare dall'avere deciso tutti assieme e le sanzioni e l'invio delle armi».

Come interpreta la prospettiva occidentale?

«Noi dobbiamo convivere pacificamente con la Russia e comprenderne al meglio le ragioni. E tanto più che se si formasse un'alleanza anti-occidentale russo-cinese-indiana allora sì che sarebbero ca... amari. Non dimentichiamoci che i nostri sono Paesi dove se decidi di risparmiare abbassando di un grado il riscaldamento consentito, in molti si mettono a piangere. Da quell'altra parte, dico in Russia, sono assuefatti al salario medio di 400 euro».

Si tratta di uno spartiacque per l'Occidente.

«C'eravamo acquartierati in una pace che durava da oltre mezzo secolo. Adesso la parola è passata ai cannoni e ai droni. Per non dire di peggio, il che è tuttora possibile».

Come sta la globalizzazione?

«A me la globalizzazione sembrava un fenomeno positivo. Che i russi venissero a passare la vacanze nei luoghi più belli d'Italia, mi sembrava un'ottima cosa. E a questo proposito sto attento a quel che fanno e pensano i russi più ricchi. Com'è che in poche settimane ne siano morti ben sette in condizioni misteriose? È in quegli ambienti che si sta muovendo qualcosa di anti-Putin?».

Che ne pensa di Zelensky?

«Un uomo che non aveva un curriculum politico di eccellenza ma che quando la situazione s'è fatta dura ha mostrato carattere. Nelle prime settimane dell'offensiva sovietica e quando noi tutti pensavamo che quell'offensiva avrebbe avuto la meglio in poche settimane, lui ha detto di non avere bisogno di un passaggio per filarsela via e bensì di armi per resistere».

Si fa un gran parlare di «antisemitismo» da parte russa.

«Al momento, checché ne dica Lavrov, l'antisemitismo non ha nulla a che vedere con quel che sta succedendo in Ucraina. E dire che Lavrov passava per un uomo intelligente agli occhi degli uomini politici occidentali che lo avevano frequentato. Forse parla al modo in cui lo ha fatto su ReteQuattro perché altrimenti Putin lo spedirebbe dritto filato in Siberia».

Lo scoop di Giuseppe Brindisi?

«Ha fatto benissimo, anche se forse la parola intervista non è la più giusta».

Papa Francesco vuole incontrare Putin.

«Il Papa si barcamena e temo che a differenza di Giovanni Paolo II il suo ruolo non sarà determinante in questa occasione».

E la libertà di stampa? Forse dopo la guerra...Draghi contro Giuseppe Brindisi, pensate se lo avesse fatto Berlusconi…Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Maggio 2022. 

1) Il presidente del Consiglio Draghi, in una breve dichiarazione, ha definito false e aberranti le opinioni espresse a Rete 4 dal ministro degli esteri russo Lavrov. Poi ha definito oscena la sua frase sugli ebrei antisemiti. Ha ragione? Sono effettivamente oscene le frasi di Lavrov sugli ebrei, ma non è detto che Draghi fosse obbligato a commentarle. Con questa dichiarazione ha tagliato fuori l’Italia da qualsiasi possibile ruolo di mediazione nella crisi ucraina. È una cosa saggia? La diplomazia esiste o è solo una degenerazione? La politica può usare la diplomazia come arma o deve usare solo la polvere da sparo?

2) Il presidente del consiglio Draghi ha parlato con disprezzo delle doti professionali e giornalistiche di un giornalista di Mediaset. Ha detto che la sua professionalità “fa venire in mente strane idee”. Non so quali siano le idee. Provo a immaginare cosa sarebbe successo se un presidente del Consiglio, per esempio Berlusconi, avesse detto frasi analoghe contro un nostro collega (qualche precedente al quale riferirsi c’è…). Cosa avrebbe fatto il sindacato? E i partiti? Ma Draghi è Draghi. Ok.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Dagospia l'11 maggio 2022. Anticipazione da “Le Iene - Mediaset”. 

Nelle ultime settimane impazza il dibattito su talk, informazione e guerra, un tema su cui è intervenuta anche la politica. Con l’intento di stilare una classifica, e provare a rispondere alla domanda del “chi sono i commentatori più presenti nei talk che hanno parlato di guerra? E che idee hanno sul conflitto in corso?”, Gaetano Pecoraro ha esaminato tutte le trasmissioni di informazione presenti nei palinsesti di fascia preserale e di prima serata.

L’analisi è stata fatta su 13 programmi tv di cui 5 in onda su La 7, 4 targati Rai, 4 Mediaset, per un totale di 438 ore in cui sono alternati 181 ospiti. Incrociando i dati, due sono le graduatorie emerse: una quantitativa, in cui l’unico parametro era il numero delle ospitate del soggetto in questione, e una qualitativa, in cui il numero delle presenze era messo in relazione con l’ascolto medio (in termini di share) del programma in cui l’ospite era invitato. 

Se, ad esempio, un programma avesse una media di 2 milioni di spettatori, il soggetto ospitato assumerebbe un valore pari a 2.0; se invece dovesse intervenire in una puntata che ha una media di 7cento mila spettatori, assumerà invece un valore pari a 0,7.

A commentare la classifica insieme a Pecoraro, e a discutere sull’argomento, rispondendo a domande del tipo “Di talk ce ne sono troppi? Gli ospiti vanno pagati? È giusto dare spazio a posizioni controcorrente?” per i programmi di La7 il giornalista Enrico Mentana, per i talk targati Mediaset, il giornalista Paolo Del Debbio.

Per i programmi Rai, tra tutti i giornalisti contattati dall’inviato, nessuno ha accettato il suo invito a parlarne. 

Queste alcune dichiarazioni dei due giornalisti: 

Sull’intervento della politica nei programmi televisivi (riferimento caso Orsini/chiusura programma “Carta Bianca”):

Enrico Mentana: La politica dovrebbe tenere le mani a posto. È ridicolo che la politica intervenga sui programmi televisivi. La politica crede di essere in solido l’editore della Rai, la tratta come se fosse la sua casa editrice, mentre tutti fanno finta di essere altra cosa, è la fiera dell’ipocrisia. Oltretutto come si fa, sarebbe una censura in corso d'opera.  E se dovesse succedere di avere una censura in corso d’opera? Dopo l’editto bulgaro, l’editto ucraino, c’è già il titolo.

Paolo Del Debbio: Mi sembra una cosa orrenda. Non la capisco e come cittadino non lo accetto e mi fa schifo. Stiamo parlando di Bianca Berlinguer, molto capace, molto preparata e pare che conduca le cose in modo ultra-ragionevole. Perché mandarla via, che ha fatto? Per Orsini si rinuncia a una professionista come Bianca Berlinguer? Perché ha invitato Orsini? 

Sulla scelta di chi invitare e chi non all’interno della propria trasmissione:

Enrico Mentana: Pensavo che, in ipotesi, chi fosse in grado di giustificare la dittatura come qualcosa di meglio della democrazia non aveva diritto di parola. Cioè, in generale, chi dice, “però Putin ha fatto bene”, o “Putin ha le sue ragioni”, ecco, chiunque dica queste cose, non ha diritto di parola. 

Paolo Del Debbio: Io faccio una scelta diversa, io penso che, anche se c’è uno stregone che però, in qualche modo, influenza le persone, sia bene farlo parlare e sbugiardarlo. 

Un esempio:

Enrico Mentana: Io non ospiterei mai Soloviev esponente di una parte che sta in dibattito con un’altra, perché non è contendibile. Noi lo facciamo sentire Soloviev, perché prendiamo degli interi estratti di quella trasmissione del primo canale della tv russa. Ma serve a far sentire quello che dicono. Quante volte nei programmi storici facciamo sentire un comizio di Hitler? Ma ti immagini un dibattito tra Hitler è uno che è stato mandato ad Auschwitz? 

Paolo Del Debbio: Io sono stato il primo ad aver intervistato Soloviev. 

Ma allora – chiede a questo punto l’inviato - come salvaguardare il talk televisivo?

Enrico Mentana: La cosa che fa impressione è che noi siamo l'unico paese del mondo in cui, essendoci una guerra, noi discutiamo dei nostri programmi televisivi. A molti della guerra non gliene frega niente. 

Paolo Del Debbio: Il problema in Italia è l’ignoranza sulle questioni internazionali, non ne sa niente nessuno, quando si va su queste questioni che non sono masticate e al potere fa gioco tenerle poco masticate perché nascondono…non succede nulla se in tv viene qualcuno a favore di Putin, non succede assolutamente nulla.

Enrico Mentana: Il dibattito sulle ragioni ci può stare benissimo, fermo restando che per me nessuna ragione può superare il fatto in sé. Non si può dire “scusa, quello è entrato col bazooka in casa del vicino e ha ucciso tutti…sì però il vicino teneva la musica troppo alta”, è ovvio che ci saranno sempre delle cause per tutto, ma nulla giustifica l'avvenuto. A volte sembra che ci sia un punto di incontro tra personaggi in cerca d'autore e autori in cerca di personaggi…

Paolo Del Debbio: …allora io preferisco avere tutte e due le parti, pur consapevole che una parte magari rappresenta delle opinioni talmente strampalate che non stanno neanche in piedi. Ma voglio che qualcuno nello stesso talk dica guarda che questa roba qui è una bischerata totale. 

Sulla retribuzione di ospiti nei talk:

Enrico Mentana: Forse sono la persona in Italia che ha fatto più ore di televisione, e anche più quelle che chiamano le maratone con più ospiti. Io non ne ho mai pagato uno, mai, mai pagato un ospite.

Paolo Del Debbio: C'è chi lo fa per lavoro ed è legittimo di andare a fare l'opinionista a pagamento. Da me purtroppo i soldi per gli ospiti sono gettoncini. 

Enrico Mentana: Secondo me se gli altri sono pagati, Orsini deve essere pagato e, anzi, siccome Orsini in qualche modo è stato conteso alla concorrenza anche di più, anche all’asta. Non è questo il problema. Allora io faccio una proposta a tutti: è giusto pagare? Voglio che ci sia scritto nel sottopancia “Professor Enrico Mentana, 3.000€”. Così si sa per che cifra sta dicendo quelle cose. 

Dagospia il 4 maggio 2022. Dal profilo Facebook di Enrico Mentana.

Scrissi qui cinque mesi fa che mi onoravo di non aver mai ospitato nel tg che dirigo nessun esponente dei no vax. Allo stesso modo mi onoro oggi di non invitare chi sostiene o giustifica l'invasione russa in Ucraina. 

E uso quelle stesse parole per rivendicarlo, senza dover aggiungere nemmeno una virgola:

Chi mi dice che così impongo una dittatura informativa, o una censura alle opinioni scomode, rispondo che adotto la stessa linea rispetto ai negazionisti dell'Olocausto, ai cospirazionisti dell'11 settembre, ai terrapiattisti, a chi non crede allo sbarco sulla luna e a chiunque sostiene posizioni controfattuali, come sono quelle di chi associa i vaccini al 5G o alla sostituzione etnica, al Grande Reset, a Soros e Gates o scempiaggini varie.

Per me mettere a confronto uno scienziato e uno stregone, sul Covid come su qualsiasi altra materia che riguardi la salute collettiva, non è informazione, come allestire un faccia a faccia tra chi lotta contro la mafia e chi dice che non esiste, tra chi è per la parità tra uomo e donna e chi è contro, tra chi vuole la democrazia e chi sostiene la dittatura. 

Da leggo.it il 5 maggio 2022.

Mai ospitato cospirazionisti, No Vax, o negazionisti. E mai dato spazio anche a chi sostiene o giustifica l'invasione russa in Ucraina. 

È questo il sunto di uno status Fb scritto da Enrico Mentana in queste ore. Infatti, il direttore del Tg de La7 è uno dei più accesi critici di chi nelle proprie trasmissioni in questi due anni ha dato visibilità ai "No Vax" o ai sostenitori del dittatore russo.

Ma, in realtà, nella coerenza sbandierata da Mentana, c'è una piccola macchia. Nell'ormai lontano 2006, l'allora conduttore di Matrix, in occasione del quinto "anniversario" della strage delle torre gemelle dell'11 settembre, ha ospitato nel suo studio due tra i più noti "cospirazionisti" di quel tragico evento: Maurizio Blondet e Giulietto Chiesa. Insomma, fece quello che oggi ritiene inaccettabile: mettere sullo stesso piano la "verità" ufficiale e quella - artificiale - di cospirazionisti o negazionisti. 

Enrico Mentana scrive:

“Scrissi qui cinque mesi fa che mi onoravo di non aver mai ospitato nel tg che dirigo nessun esponente dei no vax. Allo stesso modo mi onoro oggi di non invitare chi sostiene o giustifica l'invasione russa in Ucraina. E uso quelle stesse parole per rivendicarlo, senza dover aggiungere nemmeno una virgola:

Chi mi dice che così impongo una dittatura informativa, o una censura alle opinioni scomode, rispondo che adotto la stessa linea rispetto ai negazionisti dell'Olocausto, ai cospirazionisti dell'11 settembre, ai terrapiattisti, a chi non crede allo sbarco sulla luna e a chiunque sostiene posizioni controfattuali, come sono quelle di chi associa i vaccini al 5G o alla sostituzione etnica, al Grande Reset, a Soros e Gates o scempiaggini varie. 

Per me mettere a confronto uno scienziato e uno stregone, sul Covid come su qualsiasi altra materia che riguardi la salute collettiva, non è informazione, come allestire un faccia a faccia tra chi lotta contro la mafia e chi dice che non esiste, tra chi è per la parità tra uomo e donna e chi è contro, tra chi vuole la democrazia e chi sostiene la dittatura”.

Mentana, per la verità, nel suo status parla dei "suoi Tg", e in effetti l'invito a chi negava la verità "ufficiale" sull'11 settembre arrivò in un programma di approfondimento di Canale 5: Matrix. 

La puntata, che aveva come titolo "Le verità contrapposte", creò tantissime polemiche, con molti esponenti politici che criticarono la trasmissione, e molti giornalisti che ritennero non accettabile mettere le "due tesi" - la verità "ufficiale" sull'11 settembre e quella del complotto dell'amministrazione Bush contro i propri cittadini - sullo stesso piano.

Teorie secondo le quali le Torre gemelli non cascarono a causa dell'impatto con gli aerei dirottati dai terroristi islamici ma a causa di una sorta di demolizione controllata, fanno il paio con le più strampalate teorie negazioniste sul Covid. 

Qualcosa del genere Mentana la fece nel 2017 con il "suo" Bersaglio Mobile #bufaleefatti. Un approfondimento su quanto accaduto quel maledetto giorno, nel quale venivano messe a confronto le tesi "alternative" con quella ufficiale. 

Mentana, proprio in apertura, parlando dei fatti dell'11 settembre dice "che tutto deve essere provato, tutto dee essere confrontato e nulla deve esse dato per certo". Poi precisa: "è stato impossibile in questi anni per i cospirazionisti  trovare un'idea alternativa completa sull'11 settembre" rispetto a quella dell'attentato di matrice islamica.

Ma, come Mentana stesso dice nell'introduzione, l'obiettivo della trasmissione è "mostravi tutto, con quelle che sono le tesi dei complottisti e dei debunker che in questi anni si sono sforzati di spiegare perché tutto quello che veniva detto dai complottisti era falso. Poi spetta a voi giudicare". 

Poi, però, prende posizione dicendo "Noi la nostra scelta l'abbiamo fatto", facendo così intendere di aver ovviamente sposato l'idea ufficiale sull'attentato delle torri gemelli, ma senza rinunciare, come giornalista, a dar spazio a tutte le tesi che su quei tragici fatti, sono state concepite e divulgate. 

Per Mentana una piccola dimenticanza, per la televisione italiana, il ripetersi continuo degli stessi errori.

Le Iene, siluro di Del Debbio a Mentana: "Anche uno stregone va sbugiardato" (e la Berlinguer se la ride). Libero Quotidiano il 12 maggio 2022.

Talk show, ospiti e compensi: questo il tema del servizio de Le Iene andato in onda su Italia 1. L'inviato Gaetano Pecoraro ha sentito le opinioni, molto diverse, di Enrico Mentana per La7 e di Paolo Del Debbio per Mediaset. Mentre, ha puntualizzato, "per la Rai non è voluto intervenire nessuno". I programmi presi in esame sono stati 13: cinque di La7, quattro della Rai e quattro di Mediaset, per un totale di 438 ore in cui si sono alternati 681 ospiti dall'inizio della guerra in Ucraina fino al 5 maggio.

Parlando del caso scoppiato in Rai con Cartabianca e Alessandro Orsini, il conduttore di Dritto e Rovescio si è subito schierato: "Si rinuncia a una professionista perché ha invitato Orsini?". Mentre il direttore del TgLa7 ha confermato la posizione espressa qualche giorno fa sui suoi profili social: "Penso che chi è in grado di giustificare la dittatura come qualcosa di meglio della democrazia non ha diritto di partecipazione". Del Debbio, invece, ha detto: "Anche se c'è uno stregone, che però in qualche modo influenza le persone, è bene farlo parlare e sbugiardarlo". Insomma, presentare al telespettatore entrambe le versioni di uno stesso fatto.

Mentana, poi, ha voluto fare un discorso più in generale: "La cosa che fa impressione è che noi siamo l'unico paese del mondo in cui, essendoci una guerra, discutiamo dei nostri programmi televisivi. A molti della guerra non frega niente. A volte sembra che ci sia un punto d'incontro tra personaggi in cerca d'autore e autori in cerca di personaggi". Alla domanda sui compensi degli ospiti dei talk, il direttore ha detto la sua: "Per me non è giusto. Io non ne ho mai pagato uno". Diversa, anche in questo caso, la posizione di Del Debbio: "Lo sanno tutti, è legittimo andare a fare l'opinionista a pagamento. Da me purtroppo i soldi per gli ospiti scarseggiano. Anche se qualcuno viene pagato, ma gli diamo un gettoncino". Alla fine Mentana ha lanciato una proposta, facendo un esempio: "Voglio che nel sottopancia venga scritto 'professor Enrico Mentana, 3mila euro'. Così si sa per che cifra un ospite sta dicendo quelle cose".

Dritto e Rovescio, "ma vaff***": Paolo Del Debbio brutalizza la giornalista russa. Libero Quotidiano il 13 maggio 2022.

Altissima tensione a Dritto e Rovescio, il programma condotto da Paolo Del Debbio su Rete 4. Il tutto nella puntata andata in onda nella serata di ieri, giovedì 12 maggio. La lite è stata tra il padrone di casa, Del Debbio appunto, e una new-entry del filo-putinismo in Italia, ossia la giornalista russa Yulia Vityazeva, cronista dell'agenzia Newsfront.

Il punto è che la Vityazeva ha criticato il fatto che tra gli ospiti nel pubblico qualcuno avesse con sé la bandiera dell'ucraina: "I vostri ospiti che  stanno lì nel vostro studio con queste bandierine ucraine...", ha puntato il metaforico ditino direttamente dal suo collegamento video.

Parole che hanno suscitato l'immediata e piccatissima reazione di Del Debbio, che come sempre non ci è andato particolarmente per il sottile: "Signora, in questo studio ci sta chi voglio io, se voglio io. Se lei ci vuole stare, ci sta. Sennò se ne va a casa. Ci vediamo dopo la pubblicità". Dunque, Del Debbio lancia lo spazio pubblicitario. Peccato che proprio mentre sta per staccare la diretta, ecco che lo si sente tuonare: "Ma vaff***". Un "vaffa" ovviamente diretto alla signorina russa.

Estratti di “Tromboni”, di Mario Giordano (ed. Rizzoli), pubblicati dal “Fatto quotidiano” il 12 maggio 2022.

All 'inizio del marzo 2022 nasce la task force europea contro le bufale sulla guerra in Ucraina. Chi è chiamato a farne parte? Ovviamente lui, Gianni Riotta, uno che di bufale se ne intende: da direttore del Tg1, infatti, era stato accusato più volte di avere mandato inonda immagini farlocche, fra cui quelle del papa che guarda il Tg1 (22 aprile 2007). 

Poi, da direttore del Sole 24 Ore, si era distinto per aver scambiato in un editoriale (6 marzo 2011) la Somalia con la Libia (...). Riotta, che è stato definito dal premio Pulitzer Glenn Greenwald come "l'opposto del giornalismo", ha nel suo curriculum tutto quello che serve per svolgere con precisione l'incarico. 

In particolare spicca la partecipazione alla trasmissione Agorà di Rai 3 dell'11 maggio 2018, in cui, fra le altre cose, dimostrò di non conoscere l'articolo 1 della Costituzione italiana. Infatti, sentendo un politico dire che nell 'articolo 1 della Costituzione sta scritto che "la sovranità appartiene al popolo", s' inalberò. E cominciò a sdottoreggiare. "La sovranità appartiene al popolo? Non c'è scritto. Se uno studente lo dice all'esame viene bocciato" disse. (...) 

Anche Federico Fubini, vicedirettore del Corriere, è stato chiamato, nel gennaio 2018, a far parte di una commissione europea antibufale. E anche lui ha pensato di festeggiare tale prestigiosa nomina a suo modo, cioè pubblicando una maxibufala. Il 1° novembre di quell 'anno, infatti, sul quotidiano di via Solferino Fubini ha annunciato (la notizia fu pubblicata in prima pagina con grande evidenza) che sarebbe stata aperta una procedura di infrazione dell'Ue contro l'Italia, cosa che poi non accadde.

Il corrispondente da Bruxelles del medesimo Corriere, Ivo Caizzi, ha denunciato, in una lettera aperta ai colleghi, che quella notizia, nel momento in cui fu data, era "inesistente e tecnicamente impossibile". E si è chiesto per quali ragioni fosse stata strillata in quel modo (...). Lo ripetiamo a vantaggio dei Fubini e dei furbini: tutti sbagliano, ci mancherebbe. (...) Però, ecco la differenza: se uno sbaglia come sbagliamo noi viene messo alla berlina.

Se uno sbaglia come sbaglia Fubini invece viene messo alla commissione che deve evitare gli errori altrui. Misteri gaudiosi. Del resto il vicedirettore del Corriere è lo stesso che il 2 maggio 2019 ha confessato a TV2000 di avere volutamente nascosto la notizia che in Grecia erano morti settecento neonati in più per colpa della crisi economica. (...) "Perché non hai dato quella notizia?" gli ha chiesto l'intervistatore. E Fubini: "Perché sarebbe stata strumentalizzata dagli antieuropeisti". Cioè: per non danneggiare l'Europa. Si capisce, no? Che cosa sono settecento neonati di fronte al prestigio dell 'Ue? È così che si diventa garanti dell'informazione. Nascondendo le informazioni. 

Imparate, gente, imparate. Con questi garanti siamo in una botte di ferro. Andiamo verso quello che desiderava Mario Monti, un'informazione "somministrata dall'alto".

Un'informazione "selettiva". In cui non si danno le notizie per non spaventare la gente, come ha teorizzato anche Beppe Severgnini a Otto e mezzo (La7), bacchettando il professor Andrea Crisanti. 

Quest' ultimo aveva osato sollevare dubbi sui vaccini ai bambini ed è stato invitato a tacere: "Ci sono i congressi per dire certe cose, se voi le ripetete in prima serata, la gente si spaventa" (26 novembre 2021). Chiaro, no? Dubbi sui vaccini non se ne possono avere. Nemmeno quando se ne hanno. Bisogna dimenticarli.

Cancellarli. (...) E il pluralismo? E la libertà d'informazione? Non valgono più. Enrico Mentana nel 2006 faceva parlare nel suo Matrix addirittura quelli che sostenevano che l'11 settembre fosse un complotto sionista o della Cia. Adesso invece sentenzia: "Non ospito no-vax nel mio Tg". Ed è lo stesso proclama di Monica Maggioni, non appena insediatasi alla direzione del telegiornale del primo canale Rai. "Non ospito no-vax nel mio Tg1" (...).

Ma poi gli esperti sono davvero esperti? Sabino Cassese è un altro supercompetente ad honorem, con un curriculum da migliore dei migliori. Già giudice della Corte costituzionale, già ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi, professore, giurista e accademico, oltre che editorialista e commentatore, è semprepronto a dare consigli. (...) Per esempio, quando nel 2018 crolla il Ponte Morandi a Genova, si sente subito chiamato a intervenire contro ogni ipotesi di rescissione della concessione autostradale ai Benetton. "Compito della politica è costruire il futuro o distruggere il passato?" si chiede pensoso.

(...) Un ragionamento da vero esperto, si capisce. La cui esperienza emerge ancor meglio quando, nel novembre 2021, con il libro La sacra famiglia Gianni Dragoni ricorda che il giurista e accademico Sabino Cassese, quello che si batte strenuamente perché i Benetton non vengano penalizzati dopo la tragedia di Genova, è lo stesso che è stato per quasi sei anni nel consiglio d'amministrazione della società dei Benetton ricevendo 300.997 euro per la carica e 389.750 euro per le consulenze. "Può venire il dubbio" scrive Dragoni "che il sommo interprete non sia imparziale riguardo ad Autostrade". E perché dovrebbe venire il dubbio?

Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo per “il Foglio” il 13 maggio 2022.

“Non è mica una malattia infettiva a largo raggio”, ride Urbano Cairo. “Non è che uno ascolta in televisione un putiniano e allora diventa lui stesso putiniano, così, per contagio. Come fosse il Covid”. 

[…] Cairo sorride d’un sorriso a filo d’erba, quasi con l’infinita pazienza di Cristo verso Tommaso. Pragmatico. “Guardi, l’unica cosa sbagliata da fare nell’editoria, credo io, è sottrarre”, dice. 

“La cosa sbagliata è spegnere. Non fare sentire. Silenziare. Quello è l’unico vero potere di persuasione occulta e pericolosa. Il potere da non esercitare. La7 non è una televisione putiniana. E’ ovvio. La7 fa ascoltare e vedere tutto. Il che è esattamente il contrario del putinismo, è il contrario di ciò che avviene nei paesi autoritari. 

Da noi, se senti parlare i russi ti fai un’idea. Infatti è giusto ascoltarli. Inoltre, quando queste persone, questi ospiti, fanno propaganda vi assicuro che il telespettatore li sgama immediatamente. Le persone non sono stupide. Oggi la gente che ascolta ore e ore di tv è molto disincantata. Non la convinci dicendo due stupidaggini. Le dico di più: di alcuni di questi personaggi televisivi filoputiniani secondo me la gente ride”. Come ride? “Ma certo che ride”.

Di scherno. Ma parla di Orsini? “Dico in generale. Gli spettatori non sono dei baluba e la televisione non è una scatola diabolica che fa il lavaggio del cervello. Mesi fa dicevano che i No vax non dovevano partecipare ai talk perché diffondevano un messaggio sbagliato, ve lo ricordate no? Ecco, poi però cos’è successo? E’ successo che l’Italia, con tutti i No vax in televisione, è diventato uno dei paesi con il più alto tasso di vaccinati al mondo”. 

[…] “Ma le faccio un altro esempio”, risponde Urbano Cairo. Prego. “L’altro giorno stavo ascoltando Massimo Giletti, e c’era in onda questo ventriloquo di Putin, Vladimir Solovev”.

La voce di Rossija 1. “Proprio lui. Ebbene lo ascoltavo e provavo persino un po’ di rabbia. Ingenerava in me un sentimento opposto”. Però Enrico Mentana ha detto che lui i propagandisti e i mattocchi non li invita, è contrario. Si è posto in alternativa ai conduttori di talk-show. Persino a quelli del suo canale. Di La7. 

“Mentana ha le sue idee, fa il direttore del nostro telegiornale e ora è anche il conduttore di un programma molto intelligente sulla guerra, ed è libero di esercitare come crede meglio la sua straordinaria professionalità. Esattamente come tutti gli altri direttori e conduttori”.

Alcuni fanno spettacolo mischiato a informazione. “La democrazia è anche questo. I programmi sono tanti e di generi diversi tra loro. Ma se gli ascolti di La7 salgono in concomitanza di ogni grande evento, che sia la guerra o la pandemia, questo deve farci riflettere”. Che vuol dire? “Voglio dire che se siamo così apprezzati nei momenti di crisi significa che la gente si fida, che il nostro prodotto funziona”. Quindi chi critica sta sbagliando? Conta solo l’audience? “Se il prodotto non è di qualità, non c’è nemmeno il pubblico. Glielo assicuro”.

[…] “Tutti sbagliamo, certo, ma in linea di massima credo proprio di non avere fatto grossi errori. La7 è una televisione di successo, con ottimi ascolti, tanti programmi e moltissima libertà. Una cosa di cui le persone si accorgono”. 

Ci sono i putiniani. O le macchiette. “Sì, anche, ma in mezzo a tante altre voci che vengono messe a confronto. Lo ripeto: anche questa è libertà. E non significa essere putiniani, anzi è il contrario. Poiché siamo forti della nostra libertà ascoltiamo anche i russi.

Quanto alle mie convinzioni personali, per ciò che contano, ho pochi dubbi: sono ammirato dalla tenacia, dall’orgoglio, dalla forza e dalla dignità del popolo ucraino che resiste contro l’invasore. La loro è una guerra a difesa di princìpi democratici che sono i nostri stessi princìpi. E ci ricordano che la libertà non è scontata. Ma va difesa”. Anche la libertà di dire stupidaggini in tv? “Io penso di sì. E lo ripeto: le stupidaggini, se sono tali, non passano”.

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.

Corrado Formigli, Alessandro Orsini a Piazza Pulita è una sua scoperta?

«Non è vero. Andava in tv anche prima, come esperto di Is. Nel 2016 scrivemmo entrambi libri sul terrorismo islamico. Lo vedevo in televisione». 

Ma come nasce l'idea di invitarlo per parlare della guerra?

«Conoscevo le sue posizioni contrarie all'invio di armi. In quel momento le portavano avanti in pochi. Era un punto di vista interessante. E i talk vivono di punti di vista diversi».

Lei è sempre stato favorevole agli aiuti militari?

«Sì, e quindi questo dovrebbe fugare ogni sospetto sul fatto che io mi sia fatto condizionare "dal lento lavoro di influenza della Russia"». 

Questo lo sostiene la politologa Nathalie Tocci.

«Ed è falso. Sono esterrefatto che si possa pensare che io prenda ordini dall'ambasciata russa. È da querela. Faccio il giornalista e sono artefice delle mie scelte».

Ma Orsini che titoli aveva?

«Era un docente a Tor Vergata, e un capo dipartimento alla Luiss. Non bastano?». 

Perché non è più ospite di Piazza Pulita?

«Non viene da quattro settimane. Ha scelto altri programmi. Ho sempre evitato di invitare ossessivamente lo stesso ospite». 

Nel frattempo il sentimento non ostile a Putin però è cresciuto tra gli italiani .

«Sono dubbi cresciuti spontaneamente, strada facendo».

Molti fanno notare che i filo Putin prima erano no Vax.

«Può darsi, ma non mi convince l'equiparazione. E lo dico da inviato di guerra: raccontare un conflitto non è come narrare la pandemia, dove occorre affidarsi agli esperti e vaccinarsi. Se si vuole raggiungere la pace serve percorrere molte strade, anche impervie. E una pluralità di voci può aiutarci a trovarle». 

Enrico Mentana dice che lui i filo Putin non li invita.

«Cristiane Amanpour ha intervistato Peskov, il portavoce di Putin, e mi pare che Mentana l'abbia mandata in onda. Io in trasmissione inviterei anche Putin». 

Come si intervista Putin?

«Bisogna fare una mediazione, e non da megafono. Fare tutte le domande. Se avessi potuto io avrei intervistato anche Bin Laden. E se fossi vissuto nella seconda guerra mondiale pure Hitler». 

Come giudica l'intervista a Lavrov?

«Un grande colpo giornalistico». 

Lo avrebbe intervistato allo stesso modo?

«Avrei fatto qualche seconda domanda in più». 

In Rai vogliono porre delle regole.

«Sono grottesche. Chi le decide? Il politico di turno? Allora sì che diventiamo come la Russia». 

Non c'è il rischio che si diffondano fake news?

«La gente è accorta. Distingue benissimo. Gli italiani sono scettici per natura, amano la complessità. Ci sono già così tanti giudizi a cui dobbiamo sottostare».

Quali?

«Il pubblico, per cominciare. Poi la legge. Il codice deontologico. E infine c'è il tribunale dei social. Quattro esami ogni volta». 

Il sospetto sulla penetrazione della propaganda russa nella tv italiana agita anche il Copasir.

«Si saranno sentiti con Nathalie Tocci. Ma su, dai. È una barzelletta».

Lei però la Tocci la invitava?

«È venuta quattro volte». 

Quindi rivendica il pluralismo?

«Perché non è giusto sentire figure di grande valore come Slavoj Zizek, Carlo Rovelli, Toni Capuozzo o Bernardo Valli? Dicono che non bisognerebbe invitare Rovelli, perché non è un esperto di geopolitica. Ma la guerra riguarda tutti. E io faccio il giornalista. Oggi ci sarà Vera Politkovskaja, la figlia di Anna». 

Come spiega il sentimento putiniano in Italia?

«Non ridurrei il tutto al filo putinismo. C'è un'enorme preoccupazione sulla guerra. Unita a un dolore grande per la sofferenza del popolo ucraino. Cresce perciò la domanda su come fermare le armi. L'escalation mette paura, può colpire anche noi».

Come evolverà la guerra?

«Sarà lunga. È una questione di sopravvivenza per Putin. Perciò non basta solo armare gli ucraini, ma serve più diplomazia perché la guerra altrimenti ci travolgerà. Il punto è che serve un compromesso che vada bene ad entrambi, a Putin e a Zelensky. È questo il nodo».

Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo per “il Foglio” il 4 maggio 2022.

“Siamo sicuri di voler farci dire da un presidente del Consiglio come va fatta un’intervista?”. La domanda, come si dice, è di quelle retoriche. Nasce dal giudizio di Mario Draghi sull’intervista dell’altra sera, su Rete 4, a Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri russo: “Un comizio. Non granché professionale e fa venire in mente strane idee”. E mentre Enrico Mentana si pone questa domanda, sottintendendo ovviamente la risposta, ecco che le agenzie di stampa e i social media si riempiono di annunci su possibili indagini del Copasir  relative a una più generale “penetrazione della propaganda russa nella tv italiana”.

Ecco carrettate di deputati e senatori che disquisiscono  su chi (e come) debba rappresentare le proprie opinioni in tv. Ecco infine l’immancabile  commissione di Vigilanza Rai che stende un decalogo sulla qualità degli ospiti da salotto televisivo. Oggi il decalogo sarà sottoposto addirittura all’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes. 

E allora Mentana un po’ ride e un po’ forse si arrabbia. “Un’intervista può essere fatta bene o male, però… di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che ci informa di un eccesso di passione televisiva per la Russia? In tv? Ma accidenti: Putin nella politica italiana era un faro per molti partiti. Anzi, oggi tra Camera e Senato c’è una maggioranza parlamentare assoluta di forze che sono state con Putin”.

Quindi? “Quindi il Copasir indaghi su se stesso. Mi sembra una roba da matti. C’è una guerra, c’è Lavrov che ha detto delle cose bestiali in un’intervista, che ha persino provocato una crisi con Israele, e mentre succede tutto questo noi discutiamo di Rete 4 e di Giuseppe Brindisi che gli ha fatto l’intervista?”. Ombelicali. “Feticisti dell’epifenomeno. Questo è il Parlamento più putiniano della storia della Repubblica”. 

[…] “Mah, tutti maestri di giornalismo in Parlamento. Allora facciamo una bella commissione su tutte le interviste compiacenti che si fanno ai politici italiani. Vediamo un po’. Stupidaggini, come l’idea balzana che un’intervista non vada fatta perché la gente rischia di essere influenzata. E’ una cosa veramente fuori dal mondo. Pensate sul serio che uno guarda l’intervista di Brindisi a Lavrov e diventa filo russo? Mi viene da ridere”.

[…] “Sai cos’è? E’ la debolezza della politica. Questi credono veramente che ciò che accade in televisione possa portargli vantaggi o svantaggi. Cosa assolutamente non vera, visto che da circa trent’anni il partito che vince le elezioni occupa la televisione e sistematicamente poi perde le elezioni.  Però loro sono convinti che la televisioni orienti. Quindi ci entrano a piedi giunti. Intossicano. Con risultati spesso comici, ovviamente. In escalation, come si dice di questi tempi”.

Ovvero? “Beh,  una volta per impaurire un conduttore o un direttore arrivava la Vigilanza, ora arriva con la cavalleria del Copasir... la prossima volta si aggiungerà pure la corte marziale. Battute a parte, quell’intervista poteva anche essere fatta male, ma conta quello che è venuto fuori. Le affermazioni di Lavrov sono state le più importanti fatte da lui sin dall’inizio della guerra.   Il riverbero di quell’intervista non è banale. Quando il ministro degli esteri di un paese in guerra parla, sa benissimo cosa dire. E Lavrov ha sparato su Israele. Allora io non mi chiedo dove è stata pronunciata una frase storica, ma mi accorgo e ragiono sul fatto che sia stata pronunciata. Mentre qua, ripeto, tutti guardano il dito e non la Luna”.

[…]   “Il talk è fatto così. E’ basato sulla contrapposizione di opinioni riguardo a un tema o a più temi. Se la conversazione riguarda il fatto che fuori è nuvoloso, chiami uno che dice sì in effetti ci sono le nuvole e un altro che dice che c’è il sole.   Mi pare chiaro quale sia il problema: se devi fare il talk devi contrapporre delle idee. […]  Creano la notizia. Tant’è che poi spesso si parla di più di una cosa successa nello studio di quanto non si parli di un fatto importantissimo successo fuori nella realtà”.

[…] 

 “Se  Orsini è fatto oggetto di più articoli di giornale di quanti non ne siano dedicati al sindaco di Kyiv Klitschko o all’autocrate bielorusso Lukashenka vuol dire che c’è anche  un pubblico  che ha interesse per ‘l’epifenomeno’ da spettacolo più che per il ‘fenomeno’ enorme che è la guerra. Non ci piace, va bene. Ma non è libertà anche questa?  E soprattutto, se ne deve occupare sul serio il Copasir? Un ultima cosa vorrei dire. E ritorno all’intervista del ministro degli esteri russo”. Prego. “Alla fine tutti i protagonisti della commedia italiana, di fronte a Lavrov sono dilettanti. Di fronte all’idea che  ‘anche Hiltler era ebreo’  tutto sparisce. Impallidisce. Ecco. Non era forse importante venirlo a sapere, ascoltarlo dalla viva voce del Cremlino?”.

Dagospia. Da Un Giorno da Pecora il 3 maggio 2022.

L'intervista a Lavrov? “Mi sarei aspettato un più di reazioni sui contenuti che sul contenitore: l'intervista dura circa 40 min nei quali io gli ho fatto 20 domande, con una media di una risposta ogni 2 minuti. E' molto scorretto dire che io non avrei fatto nessuna interlocuzione”. 

A Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, esordisce così Giuseppe Brindisi, conduttore di 'Zona Bianca' e autore della contestata intervista al ministro degli Esteri russo. Che accordi aveva con lo staff di Lavrov? “Il suo staff ci ha chiesto di avere i 'main topics', gli argomenti, ma noi avevamo libertà assoluta di spaziare con le domande. L'unica cosa che ci hanno richiesto era di non tagliare, di non esercitare editing di alcun tipo”.

L'intervista era registrata? “Era una 'registrata diretta’ - ha spiegato a Rai Radio1 Brindisi - l'abbiamo presa e l'abbiamo messa”. Quando l'avete registrata? “Preferisco non dirlo”. A ridosso del weekend? “Siamo lì, ma è un dettaglio”. 

Secondo alcuni i russi avrebbero scelto Mediaset perché di proprietà di Silvio Berlusconi. “No, non credo proprio sia così. Tra l'altro noi di 'Zona Bianca' siamo l'unico talk televisivo apertamente schierato con l'Ucraina, dal primo momento”. Chi non sarebbe schierato con l'Ucraina? “Abbiamo dubbisti, negazionisti, complessisti, sia tra gli ospiti che nella conduzione.

Ci si interroga se è sbagliato o giusto, mentre noi ci siamo schierati fin da subito”. Secondo il premier Mario Draghi, tuttavia, da lei Lavrov ha dato vita ad un comizio. “Ci dovrebbe spiegare cos'è un comizio. Io non voglio fare battute sulle conferenze stampa di Draghi ma il comizio è un'altra cosa, basta andare a vedere la definizione. 

E' falso, non è vero che non ho fatto nessun contraddittorio – ha sottolineato il conduttore a Un Giorno da Pecora -, ho il sospetto che Draghi non abbia visto l'intervista a Lavrov, e se è così gliel'hanno raccontata male”. Quindi lei ribadisce la correttezza del suo lavoro. “Sono appostissimo con la mia coscienza e con la mia deontologia professionale”. E' vero che domenica, nel suo programma, potrebbe esser ospite addirittura Vladimir Putin? “Non lo so, vediamo...” 

“Il professor Orsini? Ho provato ad invitarlo in tempi non sospetti, e avevo provato a fare lo stesso anche con la moglie, che sembra sia ancora più estrema di lui, è una specialista con un curriculum di livello”. Così a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, esordisce così Giuseppe Brindisi, conduttore di 'Zona Bianca' e autore della contestata intervista al ministro degli Esteri russo. 

Mattia Feltri per “la Stampa” il 3 maggio 2022.  

Il povero Giuseppe Brindisi - colpevole della docilissima intervista a quel vecchio lupo di Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo - è riuscito nel miracolo di ricomporre il vecchio bipolarismo, col centrosinistra fuori di sé dallo scandalo e il centrodestra issato sulle barricate della difesa della libertà di stampa. Io sto con Brindisi, ma non per quella vecchia ciabatta della libertà di stampa, ormai libertinaggio.

Sto con Brindisi perché siamo circondati da piccoli Lavrov, dittatorelli del nulla di casa nostra, leader incapaci di sostenere una conversazione oltre i tavolini del bar, che pretendono domande scritte e risposte scritte, e accettano ospitate in tv soltanto previa scelta degli altri ospiti. Semmai il caso Lavrov certifica l'incapacità di distinguere fra una guerra con ripercussioni devastanti e le nostre sfarfallate di politica interna, e penso abbia ragione il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori: la magnifica dimostrazione di un giornalismo decadente in un paese decadente.

Qualche mese fa, intervistato dal Foglio, Fedele Confalonieri aveva confessato che i saltimbanchi servono per fare audience e un talk deve fare audience. E pertanto, spettacoli di saltimbanchi per un pubblico di deficienti: così stabiliamo il nostro presente e fondiamo il nostro futuro. In Quarto Potere, capolavoro di immenso cinismo, ma di grandezza di pensiero, l'editore di quotidiani «da New York a San Francisco» Citizen Kane (Orson Welles) dice: «La gente penserà solo quello che voglio io». Adesso pensiamo solo quello che vuole la gente.

Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 4 maggio 2022.

Quella frase di Mario Draghi l'altra sera in conferenza stampa (quello di Lavrov era un «comizio» che «fa venire in mente strane idee») non era una voce dal sen fuggita. Draghi l'ha voluta dire. 

Se qualcuno troppo amico di Mosca pensa di minare il suo governo con operazioni spericolate, farebbe bene a darsi una regolata. In diversi ambienti della sicurezza nazionale italiana, una certezza c'è: il Cremlino sta conducendo operazioni di disinformazione organizzata, usando sponde nella società e nella politica italiana a volte inconsapevoli, altre volte consapevolissime.

Anche per questo della vicenda Lavrov si occuperà il Copasir: il presidente Adolfo Urso ieri ha annunciato che ci sarà un'audizione ad hoc, con Rai e Agcom, e evocato la parola «disinformazione russa». Di certo a distanza si incrociano un premier che a breve andrà a Washington, e un leader importante della sua maggioranza che lavora per andare a Mosca: lunedì sera, mentre Draghi era in conferenza stampa per illustrare il decreto sugli aiuti alle famiglie, Salvini diceva: «Con Trump al potere al posto di Biden io non penso che ci saremmo trovati in guerra».

E la domenica sera in tv su La7, aveva annunciato testuale: «Andrei a Mosca se servisse ad avvicinare la pace: partirei anche domattina. Ci stiamo lavorando a parlare con Putin, riservatamente qualcosa stiamo facendo». La stessa domenica in cui da una parte c'era Lavrov su Rete4, dall'altra, su La7 appunto, c'era il propagandista numero uno delle tv del Cremlino, Vladimir Solovyov. Rete4 starebbe tentando anche di avere una delle prossime domeniche Vladimir Putin. «Non lo so, vediamo», ha risposto su questo il conduttore Giuseppe Brindisi.

Mosca ha in corso un'offensiva che trova troppe sponde in Italia? Draghi sembra essersi spazientito. Oltre a Salvini, anche il M5S di Conte ripete lo stesso attacco sull'invio di armi che danneggerebbe la pace. L'intervento di ieri di Maria Zakharova, che ha messo nel mirino Draghi (quei «politici italiani che prendono in giro i cittadini») non ha dissipato i dubbi: li ha rafforzati. Silvio Berlusconi fa sapere che aveva ospiti a cena ad Arcore e neanche sapeva cosa c'era in onda.

Salvini chiarisce ora che non ha un viaggio già fissato a Mosca; ma in tutti questi anni ha avuto una forte sponda nella parte sovranista di Mediaset e nel direttore dell'informazione Mauro Crippa. L'Europa però, con il portavoce della Commissione per il Digitale Johannes Bahrke, avvisa l'Italia: «Le emittenti in Italia non devono permettere l'incitamento alla violenza, l'odio e la propaganda russa nei loro programmi, come previsto dalla direttiva Ue. C'è una clausola di non elusione delle sanzioni che si applica anche ai giornalisti».

DAGONOTA il 4 maggio 2022.

Come è riuscita a Rete4 l’impresa di intervistare il ministro degli Esteri russo? Basta domandarsi chi è il patron di Mediaset (Silvio Berlusconi) e il suo decennale rapporto politico e di affari con Putin. Valentino Valentini, storico “ambasciatore” di Berlusconi a Mosca, “apparecchia” l’intervista e il conduttore di "Zona Bianca" Giuseppe Brindisi fa cin cin con Lavrov…

Da lastampa.it il 4 maggio 2022.

Bufera, choc, polemiche a non finire. Non si placa la tempesta dopo l’intervista al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov , andata in onda ieri a Zona Bianca su Retequattro. Dopo lo scambio di opinioni, anche duri e decisi e le dichiarazioni del premier Mario Draghi nel corso della conferenza stampa di ieri durante la presentazione del Decreto Aiuti, ora arriva la reazione da Mosca. 

A parlare è la portavoce di Lavorv Maria Zakharova che, su Telegram, in merito alle parole premier italiano che «ha criticato - scrive Zakharova - il programma della tv italiana in cui è intervenuto per 40 minuti il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, definendolo non un’intervista ma un comizio» ha specificato: «L'iniziativa di condurre l'intervista non è venuta dal ministero degli Esteri russo, ma da giornalisti italiani». 

E poi, sempre sulla piattaforma, ha puntualizzato: «Voglio che i cittadini italiani sappiano la verità», afferma Zakharova, «perché i politici italiani stanno prendendo in giro il loro pubblico». Insomma, attorno alla vicenda il clima non si rasserena. Anzi. 

E la politica italiana, dopo lo scoop di Mediaset, si divide sull'opportunità di dare spazio all'esponente del governo di Mosca che per la prima volta ha rilasciato un’intervista ad una tv europea dopo l’inizio della guerra. La politica si è divisa non solo sulla necessità di trasmettere l’intervista ma anche sulle modalità della sua conduzione da parte di Giuseppe Brindisi, accusato di aver lasciato troppa libertà di parola al suo interlocutore senza contraddire le sue affermazioni più contestate. 

Mentre dalla Commission Ue arriva un monito ai media italiani sulla propaganda di Mosca, Mediaset difende la sua scelta. «Le deliranti affermazioni del ministro degli esteri russo Lavro va "Zona Bianca" rivestono particolare importanza perché confermano chiaramente la mancanza di volontà da parte di Putin di arrivare ad una soluzione diplomatica della guerra dei russi contro l'Ucraina. E comunque la si pensi, oggi qualcosa in più della Russia e di chi la governa», afferma Mauro Crippa, direttore generale Informazione Mediaset, che definisce "falsi storici" gli «assurdi parallelismi su Hitler e gli ebrei». «Ma Lavrov- prosegue - è il numero due della Federazione Russa. L'intervista è un documento che fotografa la storia contemporanea». 

La critica del Pd, la difesa del centrodestra

Fortemente critico nazionale il segretario del Pd, Enrico Letta, secondo il quale l'Italia «non può permettersi di avere una grande tv che trasmette uno spot di propaganda intollerabile, insopportabile contro un Paese bombardato con frasi ignobili su Hitler e gli ebrei». I dem accusano il conduttore di aver concesso un soliloquio a Lavrov, mentre per Laura Garavini di Iv si è trattato di «uno spettacolo offensivo per una democrazia come la nostra». «Su Rete 4 si è superato ogni confine della decenza», attacca Iolanda Di Stasio, deputata M5S. Critica le affermazioni del ministro russo, ma difende la scelta di Mediaset gran parte del centrodestra, a partire dal leader di Fdi Giorgia Meloni. «Se oggi gli italiani vanno meglio le ragioni per le quali è necessario difendere l'Ucraina - afferma - è anche grazie alla libertà di stampa».

Interverrà il Copasir

Il tema sarà affrontato dal Copasir, che è stato già investito dalla Commissione di Vigilanza dopo le polemiche seguite alle interviste di giornalisti russi in Rai e nelle altre tv. «Abbiamo già previsto una specifica istruttoria anche con le audizioni dei vertici di Agcom e Rai» afferma il presidente del Copasir, Adolfo Urso.  

A tracciare una linea è un canale della Commissione Ue, secondo il quale ospitare giornalisti di media bloccati dalle sanzioni - come Sputnik e Russia Today - non deve eludere le sanzioni Ue contro la propaganda russa sull'Ucraina. «Non si tratta - spiega - di censurare le opinioni ma è importante che sia contestualizzato il loro background». Inoltre «le emittenti di Ue e Stati membri non devono consentire l'incitamento alla violenza o all'odio nei programmi, come previsto dalla direttiva» sulle attività dei media Ue.

E adesso sulla questione arriva un’altra puntata. Ad alzare la posta è, appunto, lo stesso ministero degli Esteri russo attraverso le parole della portavoce di Lavrov. 

Otto e mezzo, Lucio Caracciolo è sbigottito per le mosse del Copasir: “È uno scherzo?”. Ecco il Ministero della Verità. Il Tempo il 04 maggio 2022.

Lucio Caracciolo commenta la decisione del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, organo che esercita il controllo parlamentare sull'operato dei servizi segreti) di indire delle audizioni per valutare l'ingerenza russa nei media italiani. Il direttore di Limes, rivista di geopolitica, è ospite della puntata del 4 maggio di Otto e mezzo, talk show di La7 condotto da Lilli Gruber, e analizza così la scelta scaturita dall’intervista di Sergej Lavrov a Zona Bianca su Rete4: “Nel comunicato non si parla di russi, di ucraini o di altri, ma della guerra russo-ucraina in generale. Parrebbe che il Copasir abbia scoperto che esiste la guerra di informazione… È la base di tutte le guerre, specialmente adesso, l’età dei social media… O la prendi un po’ in letizia e alleggerimento della tensione, se la prendi sul serio bisogna pensare che vogliono stabilire il Ministero della Verità. Tendo - chiosa Caracciolo che usa molta ironia - tendo per la prima ipotesi, mi sembra un caso curioso, uno scherzo”.

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 4 maggio 2022.

Rifiutarsi se in studio ci sono propagandisti russi. Per adesso è solo un germoglio, il classico granellino nella macchina infernale dei talk a caccia di chi la spara più grossa sulla guerra in Ucraina. Una inedita forma di disobbedienza civile: destinata però - se dovesse far scuola - a mettere in crisi il circo Barnum di strateghi e opinionisti sponsorizzati da Putin, diventati ormai padroni assoluti dei palinsesti tv. L'hanno inaugurata tre ricercatori specializzati in geopolitica. 

E, nel suo piccolo, pure il Pd, che dopo il comiziaccio di Lavrov su Rete4 ha suggerito ai suoi parlamentari di disertare le trasmissioni che offrono la ribalta a politici e giornalisti colpiti dalle sanzioni Ue. «Stasera (ieri, ndr) io, Nona Mikelidze e Nathalie Tocci non saremo in tv. Ci hanno invitato ma abbiamo declinato », ha annunciato su Twitter Andrea Gilli, docente al Defence College, l'università della Nato, fra i più gettonati esperti del settore. «Il problema è Nadana Fridrikson, "giornalista" della tv del ministero della Difesa russo», spiega il professore, dando un nome e cognome al rifiuto opposto a Giovanni Floris.

Gilli ci ha riflettuto molto: d'ora in poi, se scorrendo la lista degli ospiti ne scorgerà qualcuno riconducibile al regime di Mosca, lui si sottrarrà. Perché «ci si può confrontare sulle opinioni, sulle interpretazioni e sulle soluzioni: non con chi diffonde dati falsi preparati direttamente dall'ufficio propaganda del Cremlino. È anche una questione di rispetto verso giornalisti, ricercatori e docenti russi che rischiano il carcere per semplice dissenso».

Concorda Nathalie Tocci, che dopo aver firmato per quattro puntate a Piazza Pulita , ha deciso di sfilarsi. «Stiamo scivolando verso una deriva pericolosa, che conduce dritto alla disinformazione», osserva la direttrice dell'Istituto Affari Internazionali di Roma. «Mettere sullo stesso piano il vero e il falso insinua il dubbio nel vero e il falso nel vero». Perciò, di condividere la scena con chi distorce i fatti e li piega al verbo di Putin, lei non ha più voglia. E non le venissero a parlare di share: «Io credo che dietro alcune scelte si nasconda piuttosto il lento lavoro di influenza della Russia. C'è qualcosa di bizzarro nel fatto che tutto d'un tratto siano emersi "esperti", come Orsini, mai visti né sentiti prima».

È lo stesso sospetto che agita Nona Mikelidze, ricercatrice georgiana allo Iai. «Tutti si lamentano che i media italiani appoggiano troppo il mainstream occidentale, mentre se guardi la tv ti accorgi che ci vanno soprattutto quelli che dicono: "È vero, Putin è un aggressore, ma" e quel "ma" serve per propinare la visione del Cremlino. A me è capitato tante volte. Anche a causa dei ritmi televisivi, non si riesce mai ad approfondire, tutto resta in superficie.

Specie con i propagandisti, tu devi fare il fact checker. Danno notizie false, citano eventi inesistenti e io, anziché dire ciò che penso, passo il tempo a smontare i fake che ho sentito e poi non resta spazio per affrontare le problematiche della guerra, discutere delle soluzioni. Per il pubblico che non ha dimestichezza con la politica dell'Est, la mia risulta una opinione come un'altra».

Il falso che si mescola al vero. E nella notte dei talk tutto sembra uguale. Perciò è ora di disobbedire.

Laura Rio per “il Giornale” il 4 maggio 2022.  

Michele Santoro, secondo lei era giusto fare l'intervista al ministro degli Esteri Lavrov?

«Assolutamente sì. Era uno scoop. Qualunque giornalista l'avrebbe voluta fare. Io per primo. Se avessi la possibilità di intervistare Matteo Messina Denaro non mi tirerei certo indietro».

Il giornalista, maestro dei talk, che stava a Belgrado quando la Nato attaccava la Serbia, non si scandalizza per l'intervista rilasciata dal numero due di Putin a Giuseppe Brindisi su Rete4. Negli stessi minuti, domenica sera, invocava una via per la pace all'Arena di Giletti su La7 e il giorno dopo, lunedì, ha organizzato la manifestazione contro «l'informazione omologata» e per dare voce a chi «è contrario a inviare armi all'Ucraina». Due posizioni totalmente diverse, la sua e quella di Brindisi, ma che hanno creato un infuocato dibattito sulla libertà di stampa.

Il conduttore di «Zona Bianca» è stato subissato di improperi, critiche, accuse a livello internazionale.

«Come c'è libertà di espressione ci deve essere anche libertà di critica. Si può dire che ha fatto male l'intervista. Ma dietro l'indignazione ci sono motivazioni politiche, c'è il bellicismo delle parole che nasconde la sostanziale impotenza dei nostri politici: l'Italia è una ruota del carro, le armi vere le stanno inviando gli americani». 

Ma secondo lei l'intervista è stata realizzata in modo corretto?

«Non l'ho vista perché negli stessi momenti ero in studio da Giletti. E, abbiamo fatto più share di Lavrov...Però, in base a quello che ho letto, dico che avrei fatto altre domande». 

Cioè?

«Hanno fatto tanto scandalo le affermazioni sulle origini ebraiche di Hitler e di Zelensky, io non mi sarei soffermato sulla questione degli elementi nazisti tra gli ucraini, piuttosto avrei cercato di fare dire a Lavrov le condizioni per porre fine a questa guerra, per il compromesso».

C'è chi ha ipotizzato che il ministro abbia concesso l'intervista a Mediaset per via della vecchia amicizia di Berlusconi con Putin.

«Anche se fosse non ci troverei niente di scandaloso, un giornalista deve usare ogni mezzo a sua disposizione per arrivare all'obiettivo. Piuttosto, al solito, chi intervista un nemico viene considerato complice del nemico per zittirlo perché la stampa italiana è schierata con le posizioni interventiste».

Con le dovute differenze, anche lei viene messo nella casella «pro-Putin», ma sta facendo il giro dei talk più importanti.

«È il modo per emarginare in maniera silenziosa. Io ho fatto grandi battaglie contro Berlusconi ma era una lotta chiara. Ora i giornali e i telegiornali, anche se invitano o fanno parlare personaggi come me o Orsini, danno un'informazione unica, omologata, il medium è il messaggio». 

Per questo ha organizzato la manifestazione «Pace proibita».

«Certo, per dare voce a chi non è rappresentato nei media e in politica. Non è stata una trasmissione ma un esperimento, un segnale che tutti possono raccogliere, un terremoto per l'informazione, libero a tutti. E mi sembra abbia avuto successo: stimiamo che tra tv locali (come TeleNorba) e web abbiamo raccolto 400.000 persone. E andremo avanti». 

Si è portato dietro i vecchi compagni dei suoi talk show come Vauro.

«Pochissimi. C'era una vasta rappresentazione di diversi mondi, dagli amici di Greta ai filosofi come Donatella Di Cesare».

Ma non c'era il suo amico/nemico Marco Travaglio.

«L'abbiamo invitato, ha ritenuto di non venire. Tra noi ci sono differenze di opinioni, ma auspico che possiamo fare fronte comune in questa battaglia». 

L'accusano di chiedere la pace, ma senza dire come farla.

«Come no? Noi siamo dalla parte del Papa, vogliamo che l'Italia spezzi le catene che ci legano alla strategia americana e si metta in prima linea nell'attività diplomatica. Bisogna mettersi al tavolo con Putin come ha detto Macron».

La deriva filorussa dei media italiani diventa un caso globale. VITTORIO FERLA su Il Quotidiano del Sud il 3 maggio 2022.

“L’INTERVENTO di Lavrov, per le modalità in cui è avvenuto e per la montagna di fake news che ha propinato, conferma le nostre preoccupazioni”.

Così ieri su Twitter Adolfo Urso, presidente del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica, in merito alle dichiarazioni del ministro della Difesa russo, Sergej Lavrov, intervenuto il primo maggio nella trasmissione Zona Bianca su Rete4. Le “preoccupazioni” del presidente del Copasir riguardano il livello di infiltrazione della propaganda russa in Italia. La guerra in Ucraina sta facendo emergere sempre più il progetto di manipolazione dell’opinione pubblica italiana da parte di Vladimir Putin, realizzato con gli strumenti più diversi.

L’invasione della “infosfera” del nostro paese è stato un processo lento realizzato attraverso le partnership dirette con alcune forze politiche – in particolare modo, la Lega e il M5s – e la propagazione di fake news attraverso la colonizzazione, prima, dei social media e, poi, dello spazio televisivo. Una situazione che rende l’Italia il paese europeo più ‘poroso’ alla propaganda del Cremlino. Con una serie di ricadute gravi sulla stessa sicurezza nazionale, in un momento in cui l’aggressione all’Ucraina riapre per la prima volta dalla seconda guerra mondiale una minaccia di guerra nel cuore dell’Europa.

Ecco perché il Copasir ascolterà il 12 maggio prossimo l’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, e, successivamente, il presidente dell’Agcom Giacomo Lasorella. È evidente, infatti, che porre la questione a partire dai canali del servizio pubblico possa avere una influenza sugli atteggiamenti di tutti i media italiani. Al centro delle preoccupazioni del comitato parlamentare, sollecitate dall’ospitata di Lavrov a Mediaset, c’è il tema dei giornalisti ed altri esponenti russi invitati nelle trasmissioni televisive, che potrebbero essere considerati degli emissari del Cremlino. In maniera separata, sullo stesso argomento, si sta muovendo anche la Commissione di vigilanza Rai.

L’intervento di Lavrov è andato in onda sulle reti private Mediaset, che da un lato prende le distanze dalle parole del ministro russo, ma dall’altro rivendica la libertà di informare. “Le deliranti affermazioni del ministro degli esteri russo Lavrov a Zona Bianca rivestono particolare importanza perché confermano chiaramente la mancanza di volontà da parte di Putin di arrivare ad una soluzione diplomatica della guerra dei russi contro l’Ucraina. E comunque la si pensi, oggi sappiamo qualcosa in più della Russia e di chi la governa”, dichiara Mauro Crippa, direttore generale informazione Mediaset. Secondo Crippa, gli “assurdi parallelismi su Hitler e gli ebrei” del numero due della Federazione Russa sono dei “falsi storici” ma fanno dell’intervista “un documento che fotografa la storia contemporanea”.

Rispondendo su Rete4 al giornalista Giuseppe Brindisi che gli chiedeva di spiegare il senso della denazificazione di un paese, l’Ucraina, guidata da un leader di origini ebraiche come Volodymyr Zelensky, Lavrov aveva risposto: “Zelensky ebreo? Lo era anche Hitler, secondo me. I maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei”. Parole che rivelano che la minaccia neonazista, oggi, non viene certo dal governo di Kiev, ma da quello di Mosca.

Parole che scatenano la reazione di Israele e della comunità ebraica globale. Il premier israeliano, Naftali Bennett, ha affermato in una nota che le parole di Lavrov, sul “sangue ebreo” di Hitler sono “gravi” e “l’utilizzo dell’Olocausto del popolo ebraico come strumento politico deve cessare immediatamente”. “Menzogne del genere hanno l’obiettivo di accusare gli ebrei stessi dei crimini terribili compiuti nei loro confronti nella Storia e quindi di rimuovere la responsabilità dai loro persecutori”, ha aggiunto Bennett.

Le reazioni della politica italiana sono unanimi nella condanna delle dichiarazioni del ministro della difesa russo. Ma resta aperto il problema della compatibilità tra la libertà d’informazione e le questioni di sicurezza nazionale. Il monito arriva ieri da Bruxelles che ricorda tra l’altro che ospitare giornalisti russi di media bloccati dalle sanzioni – come Sputnik e Russia Today – non deve eludere le sanzioni Ue adottate fin dal 2 marzo scorso contro la propaganda russa sull’Ucraina. Non si tratta di censurare le opinioni ma “è importante che sia contestualizzato” il loro background. Inoltre, “le emittenti di Ue e Stati membri non devono permettere l’incitamento alla violenza o all’odio nei programmi, come previsto dalla direttiva” sulle attività dei media europei, spiegano i funzionari della Commissione europea interpellati proprio sul fatto che nei media italiani siano invitati ai talk show giornalisti russi e che almeno due di loro siano sulla lista dei sanzionati.

Per Bruxelles, naturalmente, “la libertà di espressione è di fondamentale importanza, ma qui non si tratta di censurare le opinioni. I giornalisti che hanno lavorato per tali media “non sono interessati dalle sanzioni, ma c’è una clausola di non elusione e questa clausola di non elusione si applica anche ai giornalisti. Quindi la libertà di espressione non può essere invocata da altri media per aggirare le sanzioni”. L’Italia è già da tempo un paese sotto osservazione per la permeabilità dei media nazionali rispetto alla strategia di diffusione di fake news da parte della Russia.

Dopo più di due mesi di conflitto in Ucraina – e dopo l’intervista di Lavrov che ha fatto il giro del mondo – il tema diventa sempre più urgente. Il dossier è sul tavolo del presidente del Consiglio Mario Draghi chiamato a rafforzare la credibilità del paese anche sul fronte dell’informazione.

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 13 maggio 2022.

Più che parlare ha ascoltato, l'ad Carlo Fuortes, convocato dal Copasir nell'ambito dell'indagine sulla disinformazione russa nella Tv italiana. «Fatemi capire che cosa sta succedendo», ha chiesto in sostanza il capo della Rai ai parlamentari riuniti a palazzo San Macuto. I quali con dovizia di particolari gli hanno spiegato quanto già documentato dalla nostra Intelligence. 

Ovvero che l'Italia è uno dei Paesi bersaglio della cosiddetta guerra ibrida combattuta a colpi di notizie false, fatti distorti e inquinamento del dibattito pubblico: un fenomeno diffuso sia sulle reti pubbliche sia su quelle commerciali, ma che per la Rai è ancora più grave trattandosi dell'emittente di Stato. Con tanto di esempi, formulati nel corso dell'audizione: i "comizi" di Nadana Fridriksson, la giornalista del ministero della Difesa russo che nega l'aggressione di Putin all'Ucraina.

Nessuna volontà di imbastire processi contro talk e conduttori, bensì un confronto a tutto campo su come agisce la macchina della propaganda e della disinformazione, che «ha fornito utili indicazioni al fine di preservare la libertà, l'autonomia editoriale e il pluralismo da qualsiasi forma di condizionamento», specificherà alla fine il presidente del Copasir Urso.

Due le modalità utilizzate da Mosca per influenzare l'opinione pubblica occidentale: giornalisti, commentatori e imprenditori russi invitati dai media sono quasi sempre espressione diretta del Cremlino e agiscono secondo precise direttive per "avvelenare" il dibattito con fake news. 

E poi ci sono figure apparentemente indipendenti - non solo russe - che hanno in realtà legami con il regime, i cui nomi sono ben noti alle agenzie di Intelligence. Una strategia che si configura come minaccia alla sicurezza nazionale. Non a caso, sono stati già sentiti i direttori di Aisi ed Aise, mentre mercoledì toccherà al capo dell'Agcom. 

Sollecitato a spiegare i criteri di scelta degli ospiti, Fuortes ha precisato che gli inviti rientrano nell'autonomia di autori e conduttori. Rilanciando sulla necessità di rivedere il format dei talk, specie su temi complessi quali la guerra, per evitare contrapposizioni urlate e lasciare più spazio agli approfondimenti. Intanto, di contratto di Servizio da rinnovare si è parlato ieri in Cdm.

D'accordo con il premier Draghi, il ministro Giorgetti ha illustrato i nuovi atti di indirizzo, che però «non c'entrano nulla con il dibattito mediatico sulla Rai». Il titolare dello Sviluppo ha auspicato che le reti pubbliche si occupino più di impresa, Orlando dei temi del lavoro, Gelmini del Pnrr. «Si può far tutto», ha tagliato corto alla fine Giorgetti, «ma i servizi vanno pagati». Perché la Rai non è un ente di beneficenza.

Da liberoquotidiano.it il 13 maggio 2022.

L'iniziativa di approfondimento sui talk show italiani e sui loro ospiti russi, portata avanti dal Copasir, ha tenuto banco a PiazzaPulita, il programma condotto da Corrado Formigli su La7. Tra gli ospiti anche il dem Andrea Romano, con cui il conduttore ha avuto uno scambio piuttosto acceso. "Vi dovete mettere in testa che i giornalisti di mestiere fanno il contraddittorio: se qualcuno dice una bischerata, c'è un giornalista che glielo dice. Se lei questa cosa non la sa se la vada a studiare", gli ha detto Formigli. 

Il deputato del Pd, allora, ha replicato: "Richiamo un classico dell'etica del giornalismo: se c'è un dibattito tra uno che dice che ci vuole l'ombrello e uno che dice che non ci vuole l'ombrello, il compito del giornalista non è moderare il dibattito, ma aprire la finestra e vedere se piove". "Ma è quello che facciamo regolarmente", ha controbattuto Formigli. Romano però ha insistito: "Io non voglio polemizzare con lei. Ma non è possibile sostenere legittimamente in un dibattito pubblico, come se avessero la stessa dignità, le tesi dei fatti per cui in Ucraina ci sono civili massacrati da Putin e le tesi di coloro che dicono che quei morti non ci sono."

"Questa rappresentazione dei talk è grottesca perché non avviene mai quello che lei racconta", ha continuato il conduttore e giornalista di La7. Le sue parole però hanno fatto sorridere il dem, che allora ha rilanciato: "Ma se è stato lei a inventare il fenomeno Orsini...". Il riferimento è al professore Alessandro Orsini, spesso criticato per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina. Nelle settimane scorse ha partecipato a diverse puntate del talk di La7. Su questo punto, però, Formigli ha specificato: "Le comunico che Orsini, purtroppo o per fortuna, è stato inventato dalla Luiss e da Tor Vergata e non da PiazzaPulita perché aveva una cattedra".

Estratto dell’articolo di Niccolò Carratelli e Michela Tamburrino per “la Stampa” il 13 maggio 2022.

La «macchina della disinformazione» russa non solo esiste, ma in Italia ha i motori al massimo dei giri. Ci sono le prove, i nomi, le circostanze documentate di una guerra ibrida, avviata parallelamente all'invasione armata dell'Ucraina. 

Report ufficiali dei nostri servizi di intelligence, che segnalano episodi specifici e ricostruiscono la pianificazione di questa attività da parte del Cremlino, fin dal luglio 2021, quando ha iniziato a prendere forma l'«operazione militare speciale» di Vladimir Putin.

Una strategia di comunicazione affidata non solo ad agenti segreti o "spie", ma a veri giornalisti, accademici, imprenditori, arruolati nel programma orchestrato da Mosca. Siamo di fronte a una «ingerenza messa in campo da attori statuali», dice il presidente del Copasir, Adolfo Urso, al termine dell'audizione dell'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, con il quale si è condiviso l'obiettivo di «preservare la libertà, l'autonomia editoriale e informativa e il pluralismo da qualsiasi forma di condizionamento». 

[…] I parlamentari hanno riferito sulle modalità con cui Mosca usa le armi della propaganda: ospiti russi intervistati sui media sono quasi sempre espressione diretta del Cremlino ed agiscono secondo precise direttive per inquinare il dibattito con fake news. Anche figure apparentemente indipendenti (non solo russe) hanno in realtà legami con il regime putiniano. 

[…] Nella bozza delle linee guida proposte dal presidente della commissione, Alberto Barachini, per gestire la presenza di opinionisti all'interno dei programmi Rai, si fa riferimento alla nascita di un osservatorio interno contro le fake news e, soprattutto, si chiede «la sensibilizzazione dei conduttori delle trasmissioni».

Ma in commissione si fatica a trovare l'accordo per approvare la risoluzione. Movimento 5 stelle e Fratelli d'Italia continuano a opporsi, anche dopo le modifiche alla bozza del documento presentate dallo stesso Barachini. E nonostante i 5 stelle abbiano ottenuto, come richiesto, una deroga all'indicazione di non pagare gli ospiti, con la possibilità di valutare di volta in volta. […]

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 13 maggio 2022.  

Durante l'ormai famosa missione russa di aiuti in Italia per il Covid, oltre a medici militari, uomini del Gru (i servizi segreti militari russi) e generali esperti nella guerra batteriologica in teatri di guerra sporca (Siria), la Russia inviò anche due giornalisti particolari.

Un report del Robert Lansig Institute, finito all'intelligence americana e italiana, recitava testualmente: «La squadra schierata in Italia comprende due dipendenti del canale televisivo Zvezda, che fa parte del ministero della Difesa russo. Tra loro c'è Konstantin Khudoleev, che parla inglese, francese e tedesco, è stato ferito in precedenza in un'esplosione durante il suo dispiegamento in Siria, e compilava rapporti (per la Difesa russa). 

Un altro dipendente di Zvezda è Vyacheslav Amelyutin, un cameraman, che è stato uno dei giornalisti precedentemente espulsi dall'Estonia per aver realizzato una campagna di propaganda. Proprio come Khudoleev, aveva lavorato anche in Siria.

Analizzando i precedenti incarichi di entrambi i giornalisti di Zvezda, si può ritenere che facciano parte dell'intelligence militare russa che prende parte a "psy ops", operazioni psicologiche». Anche in quell'occasione i russi riuscirono a evitare che giornalisti italiani filmassero le loro operazioni nel Bergamasco, e ottennero talvolta che fossero proiettati - in alcuni tg italiani - i loro video. Realizzati da questo cameraman, che l'intelligence estone considera un operativo dei servizi.

L'intelligence italiana - che ha spinto con Copasir e Commissione di Vigilanza per intervenire dinanzi al problema di una «disinformazione russa in atto» - sa tutto questo, e sa molto altro. Di fronte a una serie di dati di fatto e documenti preoccupanti, e anche di nomi e ricorrenze, è stata l'intelligence a mobilitare il Copasir (non quest' ultimo che si è mosso di testa sua con presunte volontà censorie). 

Questi dati risultano, peraltro, sia ai servizi italiani sia a quelli americani, che hanno fornito ampio materiale ai colleghi alleati. Una tv russa, innanzitutto, è al centro delle "ops" in Italia anche oggi: sempre la stessa, Zvezda. È riuscita a inviare una sua dipendente, Nadana Fridrikhson, con frequenza notevole su La7 e anche a Raitre (lei ha negato di essere una spia).

Un altro nome finito all'attenzione è quello di Petr Fedorov, frequente ospite di La7, capo di RTR, la costola internazionale di Vgtrk. Vgtrk è esattamente uno dei tre broadcaster a cui Ursula Von der Leyen si è riferita così: «Sono portavoce che amplificano in modo aggressivo le bugie e la propaganda di Putin», e rientrano nel sesto pacchetto di sanzioni europee. La Bbc ha riportato che sotto sanzioni cadono sia Rossiya tv, sia Rtr Planeta. 

La tv di Fedorov è bannata in Europa, ma lui appare fisso in Italia in tv. Discorso analogo per la star di Channel 1, Vladimir Solovyov - peraltro, personaggio sotto sanzioni anche personali, con congelamento degli asset e sequestro di due sue ville miliardarie sul lago di Como. 

I servizi hanno ricevuto segnalazioni, dalle intelligence alleate, anche su Julia Vitazyeva, che lavora per NewsFront, organizzazione sotto sanzioni del Tesoro americano, che la definisce testualmente «un canale di disinformazione e propaganda con sede in Crimea, in particolare focalizzato sul supporto delle forze armate della Russia in Ucraina». Per gli Usa, non sono giornalisti.

Qual è il canale attraverso cui arrivano in tv in Italia? Gli analisti hanno pochi dubbi che un ruolo di intermediario con le tv italiane sia giocato dall'ambasciata russa. L'intelligence ovviamente sta seguendo anche una serie di account social, filorussi o direttamente russi. Come quelli che hanno diffuso la falsa grafica sui bunker sotterranei di Azovstal.

Invitare i giornalisti russi in tv? Tutti i rischi secondo la giurista: violazione delle sanzioni dell'Europa. Il Tempo il 04 maggio 2022.

La giurista e funzionaria della Consob, Vitalba Azzolini, spiega perché invitare i giornalisti russi in tv può essere una violazione delle sanzioni nei confronti della Russia. L’esperta è ospite della puntata del 4 maggio di Otto e mezzo, il talk show di La7 condotto da Lilli Gruber, che legge in studio il resto delle precedenti analisi della Azzolini prima di passarle la parola: “Non ha alcun senso invitare nelle tv italiane giornalisti filo-Putin perché tanto non raccontano la verità e non rispondono sinceramente”. “In uno dei primi pacchetti di sanzioni - spiega la giurista - che sono state adottate dall’Unione europea verso la Russia c’è stato anche il blocco di due emittenti controllate dalla Russia, Sputnik e Russia Today. È molto interessante leggere le motivazioni, cioè quelle di evitare che la disinformazione, la manipolazione dell’informazione e la distorsione dei fatti tesa a giustificare l’aggressione in Ucraina continuasse ad essere divulgata”.

“Quindi, al di là del fatto che le sanzioni abbiano colpito quei due media russi, è importante la motivazione. Nel momento in cui andiamo ad invitare dei giornalisti russi che continuano, per giocoforza, a divulgare questa disinformazione e mistificazione dei fatti, in qualche maniera - sottolinea la Azzolini - stiamo andando contro la ratio delle sanzioni imposte dall’Unione Europea. Senza considerare il fatto che un giornalista che non è libero, sia che aderisca al governo russo e sia che non aderisca alla propaganda, non può comunque venirci a raccontare la verità. Sappiamo bene - conclude l’esperta - quali sono i metodi utilizzati nei confronti dei giornalisti particolarmente coraggiosi”. 

L'Aria che Tira, lo storico Angelo D'Orsi e la propaganda russa: il duplice obiettivo. Tutti con Vladimir Putin. Il Tempo il 04 maggio 2022.

Nel corso della puntata del 4 maggio de L’Aria che Tira, talk show di La7 che vede Myrta Merlino alla conduzione, è ospite lo storico Angelo D’Orsi, allievo di Norberto Bobbio, e in passato Ordinario di Storia del pensiero politico all'Università di Torino. D’Orsi approfondisce il tema della comunicazione portata avanti dalla Russia dallo scoppio della guerra in Ucraina: “Quella sulla TV russa è indubbiamente propaganda, propaganda rivolta all'interno per galvanizzare la nazione, questo è normalissimo e sempre accaduto. Ma allo stesso tempo è un avvertimento all’Occidente, cioè non sottovalutate la nostra capacità di colpire. È un doppio messaggio, interno ed esterno. Il gradimento a Putin è andato crescendo dal 24 febbraio in avanti, siamo oltre l'80% e non è solo propaganda. C’è effettivamente uno stringersi intorno al capo, è indubbio. Noi dobbiamo uscire da questa logica dei buoni e dei cattivi, dobbiamo abbandonare l'idea che tutto il male sta di là per così dire. È un modo studiato dagli psicoanalisti, quando noi vogliamo salvare noi stessi pensiamo che il male non ci appartenga, ma dobbiamo renderci conto che è anche dentro di noi, siamo intrisi anche noi di male. Dobbiamo - conclude D’Orsi - anche fare uno sforzo di metterci nei panni dell’avversario, come diceva Antonio Gramsci, per capire il suo punto di vista”.

La tv che russa. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.  

Dopo che Michele Santoro e il ministro Lavrov (uno dei due è russo, ma non ricordo quale) avevano descritto i media italiani come megafoni della propaganda Nato, mi sono accostato alle tv di Putin con tanta voglia di imparare. Ho avuto fortuna, perché il primo programma in cui mi sono imbattuto era condotto da un signore elegantissimo - giacca, cravatta e garofano all’occhiello - che parlava di argomenti scientifici con la competenza tranquilla di un Piero Angela. Potete immaginare la mia sorpresa quando alle sue spalle è apparsa l’immagine di un drone sottomarino e il divulgatore, dopo averne illustrato coscienziosamente le caratteristiche tecniche, ha cominciato a spiegare come l’esplosione di quel siluro al largo delle coste inglesi avrebbe prodotto uno tsunami radioattivo alto fino a 500 metri, cancellando per sempre la Gran Bretagna dalla faccia della Terra. 

Ho cambiato genere, buttandomi sul reality: almeno la frivolezza sarà uguale in tutto il mondo, ho pensato. Quanto mi sbagliavo. Il reality si intitolava «Non sono gay» e lo trovate anche su Youtube: otto concorrenti maschi chiusi in una casa di campagna e sottoposti a una serie di prove. Alla fine di ogni puntata viene eliminato il meno virile. Ho visto solo la sigla iniziale, con la voce fuori campo che dice: «Trovare un gay in Russia è difficile come trovare un Mc Donald’s aperto». A quel punto sono tornato sulla tv italiana e ho chiesto asilo politico a «Un posto al sole».

Da ilmessaggero.it il 3 maggio 2022.

«L'Italia è in prima fila tra coloro che adottano e promuovono le sanzioni anti-russe. Per noi è stata una sorpresa. Eravamo abituati all'idea che l'Italia, grazie alla sua storia, sapesse distinguere il bianco dal nero». La "stoccata" è arrivata dal ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, intervistato a Zona Bianca di Rete 4.

Ma come si sono evoluti, e quali sono allo stato attuale i rapporti tra Mosca e Roma? Secondo il Financial Times, secondo il quale «il nuovo e duro approccio dell'Italia del premier Mario Draghi rispetto alla Russia segna uno dei più grandi cambiamenti di politica estera in Europa da anni». 

Il giornale ricorda come l'anno dopo l'annessione della Crimea alla Russia nel 2014, l'ex primo ministro italiano Silvio Berlusconi si era recato nella penisola per incontrare Vladimir Putin.

E in quell'occasione i due leader avevano bevuto una bottiglia di vino di 240 anni prelevata da un'azienda vinicola della Crimea considerata da Kiev come una risorsa nazionale ucraina. In Italia Berlusconi aveva approvato l'annessione, criticato le sanzioni dell'Ue contro Mosca ed elogiato la leadership del presidente russo.

La "svolta" con l'invasione dell'Ucraina

L'Italia non ha però mostrato lo stesso atteggiamento verso il Cremlino dopo l'invasione dell'Ucraina del 24 febbraio. Sotto il premier Mario Draghi, l'Italia ha adottato una linea dura contro la Russia e le aziende italiane tacciono sulle sanzioni. Secondo gli analisti il nuovo approccio duro dell'Italia rappresenta uno dei più grandi cambiamenti di politica estera in Europa negli ultimi anni, insieme alla recente revisione della strategia di difesa della Germania.

«Quella morbidezza sulla Russia che rendeva l'Italia strana, lontana dal mainstream europeo, è scomparsa», ha detto Stefano Stefanini, ex ambasciatore italiano alla Nato. «C'è un deciso cambiamento nel modo in cui la politica estera italiana guarda alla Russia adesso e il merito è di Draghi», ha aggiunto. 

Il Financial Times ricorda che dal 24 febbraio Draghi ha descritto l'invasione russa come un attacco alla sicurezza europea, elogiato il coraggio e la resistenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky e ha contribuito a fissare severe sanzioni contro la Banca centrale russa. 

«Inoltre le autorità italiane hanno sequestrato superyacht e ville sulla spiaggia per un valore di oltre 1 miliardo di euro da oligarchi russi. Draghi - ricorda il giornale - ha anche avvertito gli italiani di prepararsi ai sacrifici e l'Italia si è impegnata a non opporsi all'embargo energetico russo se il resto dell'Ue è d'accordo».

 Il giornale sottolinea poi che «i talk show televisivi italiani danno ancora molto spazio ai simpatizzanti di Mosca» e cita ad esempio l'intervista al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov di ieri sera su Rete 4. Allo stesso tempo cita un recente sondaggio dell'Istituto di studi politici internazionali che ha rilevato che quasi il 61% degli italiani incolpa Putin per la guerra, mentre il 17% la Nato. Il Financial Times scrive che anche Matteo Salvini, «leader della Lega populista italiana e ammiratore di lunga data di Putin, ha preso le distanze dal leader russo e ha deposto fiori fuori dall'ambasciata ucraina di Roma». 

Le origini del legame con Mosca

Il giornale scrive che «i legami dell'Italia con la Russia risalgono alla guerra fredda, quando le imprese italiane, guidate dalla società energetica statale Eni e dalla casa automobilistica Fiat, si stabilirono in Unione Sovietica. In quanto sede del più grande partito comunista dell'Europa occidentale, l'Italia si considerava un ponte tra Mosca e il resto dell'Occidente». 

Inoltre «le relazioni si sono approfondite dopo il crollo dell'Unione Sovietica all'inizio degli anni '90 quando più imprese italiane, comprese le principali banche, sono entrate nel mercato e nuovi imprenditori russi hanno investito nell'Italia».

Torna di nuovo la figura di Berlusconi premier che «ha sostenuto un Consiglio Nato-Russia per ridurre gli attriti con Mosca sull'espansione dell'alleanza occidentale nelle nazioni dell'ex blocco sovietico». Inoltre «Mosca ha stretto legami con i due maggiori partiti populisti italiani, la Lega di Salvini e il Movimento Cinque Stelle», scrive il Ft. Su come cambieranno le relazioni tra Russia e Italia una volta scaduto il mandato di Draghi dipenderà da «come le sanzioni influiranno sull'economia italiana» secondo Giovanna De Maio, visiting fellow presso l'Institute for European, Russian and Eurasian Studies della George Washington University. «Se la guerra continua, sarà difficile per chi è al potere mantenere una linea molto rigida», ha aggiunto. In ogni caso la maggior parte degli analisti ritiene che l'invasione abbia danneggiato in modo irreversibile la fiducia delle imprese italiane in Russia, il che innescherà un brusco rallentamento dei rapporti commerciali.

L'intervista a Lavrov, il fact checking: le armi, Hitler ebreo, gli obiettivi della guerra. Cosa c’è di vero e di falso. Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2022. 

Il ministro degli Esteri della Russia, Sergei Lavrov, è stato intervistato da Zona Bianca su Rete 4: ha parlato di guerra nucleare sostenendo che Mosca abbia sempre lavorato per evitarla, accusato l'Occidente di combattere sul campo in Ucraina senza offrire prove, mantenuto la linea dura sul pagamento del gas in rubli e paragonato Zelensky a Hitler

Da corriere.it il 2 maggio 2022.

Nella serata di domenica 1 maggio, Sergei Lavrov, ministro degli Esteri della Russia, è stato intervistato nel corso del programma Zona Bianca, su Rete 4. Lavrov ha pronunciato parole di accusa nei confronti dell'Italia — «in prima fila contro la Russia: siamo rimasti sorpresi, non lo siamo più» — e dell'Occidente — che combatterebbe «sul campo» in Ucraina: una frase a supporto della quale Lavrov non ha portato prove. 

Il ministro degli Esteri di Mosca ha anche sostenuto che la Russia abbia sempre lavorato per ridurre al minimo il rischio di guerra nucleare («Ma non si può sottovalutarne il rischio», ha aggiunto, dimenticando che solo sui canali russi, e non su quelli occidentali, scorrono ormai regolarmente simulazioni della devastazione che armi nucleari potrebbero creare nelle capitali europee) e che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sia portatore di idee antisemite e naziste, benché ebreo: «Ma questo non significa niente, anche Hitler», ha detto Lavrov, «aveva origini ebraiche».

Ha sostenuto anche che la Russia abbia sviluppato i missili ipersonici «per rispondere a un possibile attacco» occidentale (dimenticando però che Mosca è stata il primo Paese al mondo a usarli in un conflitto, e che l'Ucraina non ha alcun missile ipersonico), che Zelensky dovrebbe «cessare le ostilità», e ha risposto seccamente alla domanda sullo stato di salute di Putin: «Questo dovete chiederlo ai leader che lo hanno incontrato». 

Ecco alcune delle principali dichiarazioni di Lavrov. 

— «Non vogliamo rovesciare Zelensky. Non puntiamo a un cambio di regime a Kiev, questa è una specialità degli americani. Non chiediamo nemmeno che si arrenda. Quello che chiediamo è che interrompa le ostilità e lasci andare i civili. Vogliamo fare in modo che dall'Ucraina non vengano più minacce per la Russia». (Che il piano principale di Mosca prevedesse la presa di Kiev è dimostrato dall'andamento delle operazioni militari sul campo; solo la resistenza ucraina ha impedito che il cambio di regime venisse portato a termine. Non è chiaro poi che cosa intenda Lavrov quando parla di «lasciare andare i civili»).

- «La Russia non ha mai interrotto gli sforzi per arrivare a un accordo che eviti una guerra nucleare, una Terza guerra mondiale. Sono i media occidentali ad aver travisato i nostri messaggi e ad aver dato una rappresentazione scorretta dei nostri obiettivi in questa operazione. La Russia ha sviluppato armi ultrasoniche per difendersi contro un possibile attacco dall'Occidente. Noi eravamo pronti a parlare con gli Usa per un nuovo accordo sulla stabilità strategica, ma la controparte americana ha interrotto i negoziati». (La Russia è stata il primo Paese a usare armi ultrasoniche in un conflitto).

- «Zelensky cambia continuamente le proprie posizioni, gli ucraini hanno sabotato i negoziati. Il governo ucraino è diventato uno strumento degli estremisti nazisti e del governo degli Stati Uniti». (Le posizioni di Zelensky e quelle di Putin sono state portate avanti in negoziati il cui andamento sembra essere ormai particolarmente difficile, specie dopo quanto avvenuto a Bucha e a Kramatorsk, con il lancio di missili contro i civili in fuga dalla zona del conflitto).

- «Il fatto che Zelensky sia ebreo non comporta che in Ucraina ci siano elementi nazisti, e che il presidente li abbia consentiti. I peggiori antisemiti sono ebrei, anche Hitler aveva origini ebraiche». (Il paragone tra Zelensky, che è di fede ebraica, e Hitler, che ha sterminato milioni di ebrei, è assolutamente inaudito anche per la diplomazia russa, che pure nelle ultime settimane si è trasformata in uno strumento di governo interno).

— «La Russia non mira ad affrettare il completamento dell'operazione speciale in Ucraina entro il 9 maggio, Giorno della Vittoria contro il nazismo. I nostri militari non adatteranno artificialmente le loro azioni a nessuna data. Il ritmo dell'operazione in Ucraina dipende, in primo luogo, dalla necessità di ridurre al minimo i rischi per la popolazione civile e il personale militare russo». (Mosca ripete, nelle sue dichiarazioni diplomatiche, che l'obiettivo dei suoi attacchi sono le infrastrutture militari ucraine — frasi difficilmente compatibili con le immagini che arrivano dalle zone del conflitto, prime fra tutte da Mariupol, città praticamente rasa al suolo).

- Il gruppo di mercenari Wagner, i cui elementi sono in Ucraina per conto del governo russo, «è privato e non ha nulla a che fare con lo Stato russo. Ci sono molti rappresentanti militari occidentali e mercenari che combattono in Ucraina». Lavrov non ha portato prove a sostegno di queste affermazioni. 

- L'Italia è «in prima fila nelle iniziative contro la Russia. Per noi è stata una sorpresa. Eravamo abituati all'idea che l'Italia, grazie alla sua storia, sapesse distinguere il bianco dal nero. Ci sono stati politici e media italiani che sono andati oltre le buone norme diplomatiche e giornalistiche, l'ambasciata ha trasmesso il materiale ed è stato aperto un procedimento per violazione del diritto da parte dei media italiani. Ma io ho un bellissimo rapporto con il popolo italiano, non è questo in discussione».

- «La verità è solo una: il 30 marzo, i militari sono usciti da Bucha, il sindaco ha dichiarato la vittoria e che la città era tornata a una vita normale. Poi dopo tre giorni hanno cominciato a far vedere questi morti. Non voglio approfondire, ma è talmente evidente che è un fake». Su quanto accaduto a Bucha, oltre alle innumerevoli prove giornalistiche che mostrano la falsità di quanto dichiarato da Lavrov, sono in corso indagini internazionali.

- «Zelensky può promuovere la pace: basterebbe che smettesse di dare ordini criminali alle sue truppe naziste. Noi vogliamo solo garantire la sicurezza degli ucraini filo russi nell'Est del Paese». 

- «Secondo lo schema ideato dal Cremlino, nulla cambia per gli importatori di gas. Noi lo considereremo pagato solo dopo la conversione della valuta in rubli». (L'Unione europea ha dichiarato irricevibile l'obbligo di pagare il gas in rubli — e in particolare proprio il meccanismo che considererebbe il pagamento perfezionato solo al momento della conversione in rubli della somma versata in euro).

Gli indicibili. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2022.  

Fino a un paio di mesi fa, due erano gli argomenti esclusi dal discorso pubblico: la bomba atomica e i dubbi sull’antisemitismo di Hitler. Il solo nominare quei Mali Assoluti metteva in serio imbarazzo qualsiasi oratore, calando sull’uditorio una coltre di angoscia. Adesso capita di imbattersi nei talk della tv russa, dove giornalisti sbruffoni discettano su quanti secondi impiegherebbe una testata nucleare a distruggere le capitali europee e scherzano sulla controtestata che calerebbe di lì a poco sulle loro teste giulive: «Tutti dobbiamo morire, ma almeno noi andremo in paradiso». Intanto su una tv di Berlusconi appare il ministro Lavrov, la colomba unghiuta di Putin. E, dopo avere negato anche l’innegabile, se ne esce indisturbato con l’indicibile, sostenendo che non c’è da stupirsi se l’ebreo Zelensky appoggia i nazisti della Brigata Azov, perché anche Adolf Hitler era ebreo. Pochi giorni prima, in un abbraccio ideale di supercazzole, il famoso Professore Perseguitato aveva spiegato in televisione (dove i perseguitati sono ormai la maggioranza) come la Seconda guerra mondiale non fosse stata scatenata né tantomeno voluta da Hitler, ma dall’Occidente, che per quel luminare e i suoi compari è responsabile di ogni nefandezza dai tempi di Adamo (in realtà si chiamava Adam ed era americano, di Eden). C’è un desiderio di stupire, di spiazzare e di affermarsi più che di affermare. Chissà se, dopo avere sdoganato tutto l’indicibile, torneremo finalmente a dirci qualcosa. 

Le parole di Lavrov su Hitler sono tratte dalle memorie di un gerarca nazista. MATTEO MUZIO su Il Domani il 02 maggio 2022.

Il ministro degli esteri di Mosca Sergej Lavrov ha detto che come Volodymyr Zelensky, anche Adolf Hitler era ebreo, anzi che «i peggiori antisemiti sarebbero gli ebrei».

Insinuazione lanciata da Hans Frank, governatore nazista della Polonia occupata, in un suo memoriale scritto durante la detenzione a Norimberga nel 1946, per scagionarsi dalle proprie colpe.

Disse che nel 1930 uno dei nipoti di Hitler, il cittadino britannico William Patrick Hitler, ricattò il futuro Führer nazista minacciano di rivelare dettagli scottanti sulla relazione extraconiugale della nonna Maria Schicklgruber con l’uomo d’affari ebreo Leopold Frankenberger di Graz. 

MATTEO MUZIO. Laureato in storia contemporanea, giornalista. Scrive di economia e di cultura. Ha collaborato con Repubblica, iil Foglio, L’Espresso e il Fatto Quotidiano. Scrive per Linkiesta.

Dai "Protocolli" a Stalin e Breznev: le "fake" antisemite. Matteo Sacchi il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

Hitler ebreo. Nella giornata di ieri mezzo mondo è rimasto a bocca aperta per l'uscita del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov.

Hitler ebreo. Nella giornata di ieri mezzo mondo è rimasto a bocca aperta per l'uscita del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Nel tentativo di colpire l'immagine di Zelensky, dopo aver citato le fantomatiche origini ebraiche di Hitler, si è lanciato in un ancor più insultante: «I maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei». Sul tema non c'è molto da dire oltre a quello che gli ha risposto il ministro degli esteri di Israele. Però qualcosa si può dire più in generale sull'antisemitismo e la Russia e sulla modalità con cui nel corso degli anni l'antisemitismo è stato usato in Russia. Purtroppo quasi nessun Paese europeo sulla discriminazione ingiustificata contro gli ebrei ha la coscienza immacolata. Ma in questo ambito la Russia l'ha particolarmente sporca. Anche a livello politico. I famosi Protocolli dei savi di Sion a cui si rifecero poi anche i nazisti per fomentare l'odio antiebraico furono utilizzati dall'Ochrana, la polizia segreta zarista, con l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei nell'Impero russo. I Protocolli furono pubblicati a puntate sul quotidiano di San Pietroburgo (Znamja - La Bandiera) tra il 28 agosto e il 7 settembr 1903, a opera di Pavel Kruevan, che 4 mesi prima aveva scatenato il pogrom di Kiinev. Nel 1905 la polizia segreta li rilanciò in grande stile per impedire le riforme politiche liberali sgradite allo Zar. Le bugie presenti nei protocolli, ovvero l'esistenza di un complotto ebraico e capitalista per prendere il potere nel mondo, sono rimaste in circolazione da allora con periodiche rinfrescatine. Una fake news russa a scopo interno che fa danni da più di un secolo. Ma la storia dell'antisemitismo è proseguita quasi senza soluzione di continuità anche sotto l'Urss. Già nel 1907, Stalin scrisse una lettera distinguendo tra una fazione ebraica e una vera fazione russa nel bolscevismo, era già approdato al Nazi(onal)comunismo. Certo, con una certa capacità di mistificazione si preferiva usare il termine antisionismo. Però dopo la cacciata di Trotsky si passò a: «Un ebreo è un trotskista, un trotskista è un ebreo». Al processo farsa contro il «Centro terroristico trotskista-zinovievita», i sospetti, leader bolscevichi, vennero accusati di nascondere le loro origini ebraiche con nomi slavi.

Ma il pregiudizio antiebraico non finì con Stalin era ancora presentissimo all'epoca di Kruscev e di Breznev. Breznev venne accusato di essere filo ebraico, mentre lo stesso regime di Breznev perseguitava gli ebrei russi che mostrassero simpatie israeliane. E si potrebbero citare decine di altri esempi. Insomma quando poi un ministro degli esteri si lascia scappare che il leader del nazismo, con cui l'Urss non ebbe problemi ad allearsi per invadere la Polonia, «è un ebreo che odia gli ebrei» non ci si trova davanti a qualcuno che delira. Ma a qualcuno che usa una modalità politica, certificata nel tempo, per delegittimare l'avversario a colpi di antisemitismo. Un antisemitismo così radicale da voler confondere carnefici e vittime. E questo non avviene per caso ma per calcolo (che su un pubblico occidentale speriamo sbagliato) e strategia politica. 

A volte ritornano. Il comizio di Lavrov e l’assurda pretesa di una par condicio dei nazismi. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 3 Maggio 2022.

La campagna di un pezzo della stampa e della politica italiana – dieci invettive sul battaglione Azov per ogni riga sui massacri di Bucha – nel tentativo di affermare che alla fine tutte le vacche sono nere, cioè naziste, ha trovato infine il suo interprete più naturale: il ministro degli Esteri russo.

Mi ha fatto un certo effetto ascoltare il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ripetere alla tv italiana quel che tv e giornali italiani ripetono già da mesi, a proposito dei «nazisti» ucraini e del «battaglione Azov», fino al più classico tra tutti i luoghi comuni dell’antisemitismo moderno – quello utilizzato per spiegare cosa ci farebbe un ebreo come Zelensky a capo dei nazisti – e cioè che anche Hitler sarebbe stato di origini ebraiche, a conferma del fatto che «i peggiori antisemiti sono gli ebrei».

Intendiamoci, tutto si può contestare a queste affermazioni, ma non la coerenza: se oggi sono gli ucraini che minacciano la Russia e non vogliono la pace, non stupisce che ieri, secondo la stessa logica, fossero gli ebrei a perseguitarsi da soli. È una retorica semplice, che ormai dovremmo avere imparato a riconoscere, a forza di sentirla in ogni talk show: il carnefice è sempre innocente, la vittima non lo è mai.

La campagna di un pezzo della stampa e della politica italiana per affermare una sorta di grottesca par condicio del nazismo – dieci invettive sul battaglione Azov per ogni riga sui massacri di Bucha – nel tentativo di convincerci che alla fine tutte le vacche sono nere, cioè naziste, ha trovato infine il suo interprete più naturale: il ministro degli Esteri russo.

Certo, sarebbe meglio che simili assurdità venissero almeno confutate, ma il problema, per me, non è tanto che le lasciamo dire in diretta televisiva a Lavrov. È che le ripetiamo noi, ogni giorno.

Personalmente, ogni volta che le sento, penso a Vanda Semyonovna Obiedkova, nascosta in una cantina di Mariupol quando aveva dieci anni, nel 1941, per sfuggire ai rastrellamenti dei nazisti, quelli veri, in cui morirono sua madre e tutto il ramo materno della sua famiglia (il padre non era ebreo); morta a novantuno anni in una cantina di Mariupol, senza acqua e senza riscaldamento, lo scorso 4 aprile, tentando di sfuggire alle bombe di quelli che secondo Lavrov sarebbero venuti lì per liberarli dai nazisti.

Se avessimo potuto chiederlo a lei chi sono oggi i nazisti, se glielo avessimo potuto chiedere in quello scantinato, non credo che avrebbe avuto difficoltà a rispondere.

Da quando ho letto la notizia della sua morte, non faccio che pensare a quella vecchia signora chiusa in cantina, perché non penso ci possa essere nulla di peggio che rivivere a novant’anni il più atroce incubo di quando ne avevi dieci, e morire così, senza speranza. Penso a mia nonna, che fu più fortunata, perché in paese a nessuno venne in mente di calcolare cosa convenisse fare, se non fosse più prudente denunciarla, per evitare magari rappresaglie e accuse di complicità, nel caso l’avessero scoperta. Grazie al cielo tra i vicini non dovevano esserci grandi teorici di realismo politico e geopolitico. Penso al soldato tedesco che cercando di fare colpo su di lei (da giovane non era niente male, a giudicare dalle foto), le diceva: «Io ebrei li riconosco a occhio, mio cane a odore». I nazisti veri, invece, si riconoscono sempre dall’idiozia.

Penso a mia zia, quando era piccola, mentre al ristorante i genitori le insegnavano, come fosse un loro gioco segreto, a riconoscere gli ebrei tra gli sconosciuti seduti ai tavoli vicini, nella convinzione che un domani questa presunta capacità avrebbe potuto salvarle la vita.

Penso allo zio morto negli anni ottanta, al quale trovarono indosso il passaporto e un fascio di banconote straniere che evidentemente, quarant’anni dopo, mentre io guardavo i cartoni animati di Bim Bum Bam alla televisione, non aveva perso l’abitudine di mettere in tasca prima di uscire, come ciascuno di noi al mattino controlla di aver preso le chiavi e il telefonino.

Penso a questi racconti familiari e penso all’effetto che mi hanno sempre fatto: frammenti di un passato talmente lontano da far persino sorridere. E mi chiedo cosa potesse pensare la signora Obiedkova in quella cantina.

Nulla è più straniante e doloroso dello scoprire che gli incubi della propria infanzia non erano incubi. Niente è più vile di quest’ultimo oltraggio alle vittime, di ieri e di oggi, che si ripete ogni giorno con il continuo esame dei loro presunti meriti o demeriti, nel meschino tentativo di trovare una giustificazione al nostro desiderio di liberarcene il prima possibile, per non doverci pensare più.

L’Hitler che non conoscevamo. La storia fatta a pezzi e la logica al contrario del duo Orsini-Lavrov. Giuliano Cazzola su Linkiesta il 3 Maggio 2022.

Il dittatore tedesco non voleva davvero la guerra, spiega il professore della Luiss, ma è stata colpa delle alleanze degli altri Paesi. Secondo il ministero degli Esteri russo invece il Führer era ebreo (falso) e, per questo, antisemita. Ma dove hanno studiato? 

Commentando a modo loro la guerra in Ucraina, i prosseneti di Vladimir Putin hanno spalancato dei nuovi scenari per comprendere meglio chi fosse veramente Adolf Hitler, l’uomo che in soli 12 anni (dal 1933 al 1945) riuscì a distruggere l’Europa e, en passant, ad eliminare sei milioni di ebrei nei campi di sterminio.

Alessandro Orsini, in una delle ultime scorribande televisive (pare che la sua presenza sia una garanzia per lo share dei talk show), ci ha spiegato che il Führer non aveva affatto l’intenzione di provocare la Seconda guerra mondiale. A lui bastava soltanto invadere la Polonia. Anzi il leader nazista «non si aspettava» la reazione di Francia e Inghilterra (pensava di essere ancora a Monaco?). Ma c’è di più. Secondo il “traduttor dei traduttori” di Putin «a differenza di quello che moltissimi pensano, la Seconda guerra mondiale non è scoppiata perché Hitler a un certo punto, deliberatamente, ha deciso di attaccare Inghilterra, Francia, Polonia e Russia». La causa scatenante va cercata, secondo Orsini, in un sistema di alleanze in conseguenza del quale, se viene attaccato uno Stato-membro, gli altri sono impegnati a difenderlo, determinando una sorta di effetto domino che, nel 1939, colse di sorpresa lo stesso Hitler.

Ecco perché, adesso, appartenere alla Nato è un rischio che aumenta con l’ingresso di nuovi Paesi, poiché – ci pare di capire – crescono anche le possibilità che Putin decida di invaderne qualcuno, mettendoci di fronte al dilemma di rispettare gli impegni assunti con gli alleati o di darcela a gambe suonando il piffero per la pace. In sostanza, è meglio stare da soli e in silenzio, nella speranza che il coccodrillo non si accorga di noi. Intanto, i bambini possono trascorrere una vita felice e serena, imparando a crescere senza preoccuparsi degli altri.

Considerando le argomentazioni dei “filoputiniani a loro insaputa” (visto che non si sono resi conto di esserlo) dobbiamo aspettarci una prossima rivalutazione di Adolf Hitler, per le medesimo ragioni che portano a “comprendere” l’invasione russa dell’Ucraina. In fondo, la Germania era stata umiliata dalle potenze che avevano vinto la Grande Guerra. Dai trattati di Versailles erano scaturiti, attraverso dei giri di compasso sulle carte geografiche, dei nuovi Stati, come la Polonia e la Cecoslovacchia, che avevano all’interno dei propri confini milioni di tedeschi, nella condizione di minoranze etniche.

Non si avverte una certa assonanza con le rivendicazioni di Putin di restituire alla Madre Russia i cittadini dispersi in quello che fu l’Impero sovietico e ora sparpagliati in Stati, spesso senza storia alle spalle, scaturiti dalla sconfitta dell’Urss nella guerra fredda? Non dicono, ogni tre parole, i pacifisti a senso unico, che la Russia non può uscire sconfitta dal conflitto in Ucraina (di cui è la sola responsabile) perché una grande nazione e il suo leader non possono essere umiliati?

Io mi aspetto che Orsini sia prossimo a sfoggiare un’altra clamorosa narrazione. Secondo le categorie con cui il professore interpreta le responsabilità della guerra in Ucraina, devono essere cambiati anche i giudizi su quelle che hanno portato al secondo conflitto mondiale. Perché Churchill non volle negoziare con Hitler attraverso una mediazione dell’Italia? Perché Stalin non offrì ad Hitler la resa senza condizioni al momento dell’Operazione Barbarossa, condotta con un impegno di forze tedesche senza precedenti lungo un fronte di tremila Km? Perché il Presidente Roosevelt fece approvare dal Congresso Usa, nel marzo del 1941, una legge (la stessa a cui lavora Joe Biden) che consentiva alla sua Amministrazione di armare l’Inghilterra, la Francia libera, la Cina nazionalista e, da giugno in poi, l’Urss (che senza gli aiuti americani non sarebbe riuscita a rovesciare le sorti della guerra)? Putin non sarà Hitler, ma anche nella paranoia non può non esservi una logica.

Non ci eravamo ancora ripresi per l’esternazione di Orsini, quando il ministro Sergei Lavrov ci ha lasciati di stucco, sostenendo dai nostri schermi televisivi (messi incautamente a sua disposizione) che Hitler era ebreo e proprio in ragione di questa appartenenza voleva sradicare l’ebraismo dall’Europa, perché – secondo Lavrov – gli ebrei sono i più feroci antisemiti. Poi, a pensarci bene anche in quest’affermazione assurda c’è una logica: secondo la propaganda russa non sono forse gli ucraini a bombardarsi da soli e a organizzare set di cadaveri, per mettere in cattiva luce l’esercito di liberazione mandato dal Cremlino?

"Intervista senza contraddittorio? Fa venire in mente strane idee..." Draghi e il “comizio” di Lavrov a Mediaset: “Non un granché professionalmente, ma in Italia c’è libertà di dire anche cose oscene”. Redazione su Il Riformista il 2 Maggio 2022.

Quello di Sergei Lavrov, ministro degli esteri russo, intervenuto esclusiva (in Europa) a Zona Bianca su Rete 4 “è stato un comizio” ma in Italia “c’è libertà di espressione” e questo “permette di esprimere le proprie opinioni liberamente, anche quando sono palesemente false, aberranti“. E’ il commento del premier Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa sul decreto aiuti approvato in serata dal Consiglio dei Ministri, sull’intervista di oltre 40 minuti andata in scena domenica sera sulle reti Mediaset.

“La Tv trasmette liberamente. Si parla di intervista ma è stata è stata un comizio” sottolinea Draghi. “La domanda che ci dobbiamo porre è: si deve accettare di invitare una persona che chiede di essere intervistata senza contraddittorio e non un minuto-due? Non è granché professionalmente e fa venire in mente strane idee” ha bacchettato il premier.

Poi ribadisce il concetto di libertà di espressione: “Prima di tutto parliamo di un Paese dove c’è libertà di espressione, e il ministro Lavrov appartiene a Paese dove non c’è libertà espressione. In Italia c’è libertà di esprimere le opinioni, anche quando sono palesemente false e aberranti. Quello che ha detto Lavrov è aberrante. E per quanto riguarda la parte riferita a Hitler, è davvero oscena“.

Sul conflitto in corso in Ucraina da oltre due mesi, ha aggiunto: “Nessuno di noi vuole la guerra, nessuno vuole un’escalation, questo è quello che dirò” al presidente Usa “Joe Biden. Ma nessuno di noi vuole abbandonare l’Ucraina”.

“Sulla questione se queste posizioni indeboliscono o meno” la posizione dell’Italia, “il nostro paese è un paese democratico e quindi è normale avere una varietà di posizioni. Però la posizioni italiana sulla politica estera, sulle guerra in Ucraina e la lealtà agli alleati non è in discussione”.  Poi ha aggiunto: “Ora c’è un decreto interministeriale che prevede l’invio di altre armi” nonostante le posizioni contrarie di Lega e Movimento 5 Stelle. A tal proposito Draghi ha letto un passaggio del discorso di insediamento alle Camere e ha ribadito che l’Italia agisce in “difesa dei valori della Ue e dell’Alleanza Atlantica“.

Poi ribadisce: “Quel che ho sempre detto è che cerchiamo la pace, l’ho detto anche nella telefonata con Putin, quindi non abbiamo bisogno di riposizionare l’Italia, non c’è appiattimento, non c’è differenza tra le posizioni di Francia e Germania circa l’invio d’armi” a Kiev che sono state “inviate da tutti i partner. Non c’è un grand bisogno di riposizione niente. La nostra appartenenza alla sicurezza atlantica è scontata. Nessuno di noi vuole la guerra, un’escalation, questo è quello che dirò al presidente Biden, ma nessuno di noi vuole abbandonare l’Ucraina. Se l’Ucraina non riesce a difendersi avremo non una pace ma una sottomissione, la schiavitù di un paese democratico, di un paese sovrano” e “non credo sia questo che vuole nessuno in Italia”, sottolinea Draghi.

Hitler ebreo e le mogli del Battaglione Azov, le fake news che dobbiamo riconoscere. Paolo Liguori su Il Riformista il 2 Maggio 2022. 

La più grande fake news che ho sentito nelle ultime 48 ore è quella del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, che ha detto che Hitler era ebreo. Ma chi gliel’ha detto? Chi autorizza queste persone a toccare pezzi della storia che fanno naturalmente imbestialire tutti quelli che la storia l’hanno vissuta sulla loro pelle, a cominciare dal popolo di Israele.

Anche nella televisione italiana vedo delle fake news ma molto più emotive, sentimentali, meno gravi, di tutte quelle ragazze giovani che hanno i mariti che sono soldati del Battaglione Azov dentro l’acciaieria di Mariupol. Loro dicono di salvare i mariti, ma questi mariti qualcosa l’avranno combinata. Questa guerra – nessuno come al solito lo racconta – era iniziata nel 2014, ci sono stati tanti morti prima. Non ucraini uccisi dai russi ma filo-russi uccisi dagli ucraini, in particolare dai mariti di queste gentili signore.

Tutto questo non viene detto. Allora noi viviamo in un mondo di fake, questa è la verità. E dobbiamo stare attenti a dare dei giudizi a secondo di quello che ci sembra vero. Noi dobbiamo scegliere le cose che ci sembrano vere e scartare tutto il resto.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

La prima intervista in Italia del ministro degli Esteri di Mosca. Lavrov sorpreso dall’Italia: “In prima linea contro la Russia, sapevate distinguere il nero dal bianco”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Maggio 2022. 

Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha rilasciato una lunga intervista a Zona Bianca, trasmissione di Rete 4, la prima a una televisione italiana. “Dall’Italia dichiarazioni oltre le norme diplomatiche, alcune dichiarazioni di politici e media italiani sono andate oltre le buone norme diplomatiche e giornalistiche. L’Italia è in prima fila tra coloro che adottano e promuovono le sanzioni anti-russe: per noi è stata una sorpresa, eravamo abituati all’idea che l’Italia, grazie alla sua storia, sapesse distinguere il bianco dal nero”, ha dichiarato il titolare degli esteri del Cremlino.

Toni duri, senza mezzi termini, quelli del ministro degli Esteri. I massacri di Bucha, per esempio, “sono un fake”, l’Ucraina sta sabotando i negoziati di pace, l’“operazione speciale” di Mosca ha “il consenso del popolo ucraino”. Insomma “vogliamo fare in modo che dall’Ucraina non vengano più minacce per la Russia”. Nessuna scadenza per l’“operazione speciale”, come l’ha definita Vladimir Putin lanciandola lo scorso 24 febbraio. “Non vogliamo rovesciare Zelensky. Non puntiamo a un cambio di regime a Kiev, questa è una specialità degli americani. Non chiediamo nemmeno che si arrenda. Quello che chiediamo è che interrompa le ostilità e lasci andare i civili”, ha aggiunto Lavrov.

“La Russia non mira ad affrettare il completamento dell’operazione speciale in Ucraina entro il 9 maggio, Giorno della Vittoria contro il nazismo. I nostri militari non adatteranno artificialmente le loro azioni a nessuna data, incluso il Giorno della Vittoria: il ritmo dell’operazione in Ucraina dipende, in primo luogo, dalla necessità di ridurre al minimo i rischi per la popolazione civile, ed il personale militare russo“. Smentite quindi le voci su una deadline per le operazioni e di una parata anche a Mariupol. E poi la “nazificazione esiste” in Ucraina. Che il presidente Volodymyr Zelensky sia ebreo influisce relativamente: “Anche Hitler aveva origini ebree, i peggiori antisemiti sono proprio gli ebrei”.

Intervento a tutto campo quello del titolare degli Esteri del Cremlino che ha chiarito come i Paesi europei, tra cui l’Italia debbano pagare il gas russo in rubli “perché hanno rubato a Mosca le sue riserve valutarie in dollari, ed euro, depositate presso le banche europee imponendo un congelamento nell’ambito delle sanzioni”. E ancora: “Voi pagherete comunque nella valuta prevista dai contratti ma le forniture verranno considerate pagate quando queste somme saranno state convertite in rubli, che non possono essere rubati, per gli acquirenti non cambierà nulla, pagheranno stesse somme previste dai contratti”.

Nessuna intenzione della Russia di intraprendere un conflitto nucleare. “Io sono stato travisato: mai fermati gli sforzi per non arrivare alla guerra nucleare, ma non sottovalutarne il rischio“. Sulle televisioni russe intanto scorrono intanto da giorni le immagini delle armi di Mosca, simulazioni che ipotizzano attacchi anche a capitali europee. Mosca è in possesso di “armi ultrasoniche che sono state elaborate perché i missili degli Stati Uniti saranno rivolti non contro la Corea del Nord ma contro la Russia” – anche se i primi a usarle sono stati proprio i russi in Ucraina – e inoltre “eravamo pronti a parlare con gli Usa per un nuovo accordo sulla stabilità strategica, ma la controparte americana ha interrotto i negoziati” e inoltre “ci sono molti rappresentanti militari occidentali e mercenari che combattono in Ucraina”.

Per Lavrov una “guerra nucleare non avrebbe vincitori, e quindi non ha senso parlarne”. D’altra parte “Kiev sta sabotando i negoziati con la Russia, come per otto anni ha sabotato gli accordi di Minsk. Il governo ucraino è diventato uno strumento degli estremisti nazisti e del governo degli Stati Uniti. Zelensky cambia continuamente le proprie posizioni”. La verità del Cremlino – contro la quale sono state condotte diverse indagini e inchieste giornalistiche – sul massacro di Bucha: “Il 30 marzo, i militari sono usciti da Bucha, il sindaco ha dichiarato la vittoria e che la città era tornata a una vita normale. Poi dopo tre giorni hanno cominciato a far vedere questi morti. Non voglio approfondire, ma è talmente evidente che è un fake”.

Il parallelo con Zelensky e gli ebrei che possono essere "i peggiori antisemiti". “Hitler era ebreo”, la storia della fake news rilanciata da Lavrov: è caso diplomatico Israele-Russia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Maggio 2022. 

Sergej Lavrov che ha paragonato Hitler a Zelensky, entrambi ebrei a suo dire, parole in diretta su Rete 4 che hanno scatenato un caso diplomatico con Israele, e che hanno tirato fuori dal cassetto l’antica e smentita voce di Adolf Hitler di origini ebraiche. “Il fatto che Zelensky sia ebreo non comporta che in Ucraina ci siano elementi nazisti, e che il presidente li abbia consentiti. I peggiori antisemiti sono ebrei, anche Hitler aveva origini ebraiche”, ha dichiarato il ministro degli Esteri russo difendendo la sua “operazione speciale” di “smilitarizzazione” e “denazificazione” dell’Ucraina.

Le affermazioni sono false. Come accennato già smentite dagli storici. Ha dichiarato all’Agi Amedeo Osti Guerrazzi, esperto di Shoah, che quelle esternazioni “si nutrono di leggende metropolitane e di complottismi nati in ambienti neonazisti e negazionisti tesi a dimostrare che ammesso che ci sia stata un Olocausto la colpa è da ricondurre agli ebrei, trasformandoli quindi da vittime in carnefici”. La teoria, e qui i sfocia nell’assurdo, è rilanciata soprattutto da account neonazisti e neofascisti.

La tesi della leggenda è tratta, come ricostruito su Il Domani da Matteo Muzio, dal memoriale di Hans Frank, scritto durante il processo di Norimberga, Di fronte al patibolo. Avvocato, aveva aderito al Partito Nazista quando ancora si chiamava dei Lavoratori tedeschi nel 1919, a 24 anni era diventato capo dei consulenti legali di Hitler e nel 1939 capo di una porzione di territorio occupato dai tedeschi in Polonia chiamato “Governatorato Generale”.

Frank partecipò all’assoggettamento della Polonia con la creazione del ghetto, campi di concentramento, la ricostruzione di Varsavia rinominata in tedesco Varschau. Venne catturato nel maggio 1945. A processo disse di non essere al corrente dello sterminio degli ebrei, anche se smentito dai documenti ufficiali. “Signori, devo chiedervi di liberarvi di ogni sentimento di pietà. Dobbiamo annichilire gli ebrei ovunque li troviamo e ogni volta che possiamo”, aveva detto ai suoi collaboratori nel dicembre 1941.

Arrivando al punto della questione Lavrov: Franck scrisse nelle sue memorie che un nipote di Hitler, il britannico William Patrick Hitler nel 1930 – e quindi dopo la scrittura e la pubblicazione del libro-manifesto Mein Kampf – ricattò il futuro Fuhrer minacciando di rivelare le sue origini ebree. Il nipote britannico parlava di una relazione extraconiugale, intorno agli anni ’30 dell’Ottocento, della nonna Maria Anna Schicklgruber con Leopold Frankenberger dal quale sarebbe nato Alois Hitler. La donna lavorava presso l’uomo d’affari ebreo come cuoca a Graz, in Austria.

Il padre di Hitler sarebbe stato quindi secondo questa specie di pettegolezzo di origini ebree. La ricostruzione è stata più volte smentita. Non ultimo dal biografo del dittatore Ian Kershaw. Dalla Stiria, inoltre, gli ebrei erano stati cacciati nel XV secolo e sarebbero tornati solo nel 1860. Il figlio di Frank, Niklas Frank, in un saggio dedicato al padre scrisse che quelle teorie avevano il doppio obiettivo di auto-scagionarsi e di fingere un pentimento tramite una ricostruzione accattivante. Troppo remote infine le presunte ascendenze riportate dallo studio belga che nel 2010 rintracciò nel dna di una trentina di parenti del Fuhrer tracce di dna nordafricano ed ebree ashkenazite. Tracce non ravvisabili con fonti archivistiche.

"Frasi deliranti". “Zelensky ebreo? Anche Hitler, sono i più antisemiti”, esplode il caso diplomatico Israele-Russia dopo le dichiarazioni di Lavrov. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Maggio 2022. 

Le frasi del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov nell’intervista rilasciata alla trasmissione Zona Bianca su Rete 4 hanno provocato un caso diplomatico. Parole sulla “denazificazione”, come definita l’“operazione speciale” annunciata dal presidente russo Vladimir Putin lo scorso 24 febbraio in Ucraina, e sul Presidente Volodymyr Zelensky.

“Il fatto che Zelensky sia ebreo non comporta che in Ucraina ci siano elementi nazisti, e che il presidente li abbia consentiti. I peggiori antisemiti sono ebrei, anche Hitler aveva origini ebraiche”, ha dichiarato nell’intervista in diretta il ministro degli Esteri ribadendo che la Russia non vuole rovesciare il governo di Kiev, non punta a un cambio di regime, non vuole la resa ma solo la fine delle minacce per Mosca.

Le dichiarazioni di Lavrov hanno subito scatenato la reazione di Israele. Tel Aviv aveva anche provato a fare da intermediaria alla guerra durante questi 67 giorni di conflitto. Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha convocato ieri l’ambasciatore russo a Tel Aviv. “È un errore storico imperdonabile e oltraggioso. Dire che Hitler era ebreo è come sostenere che gli ebrei si siano ammazzati tra di loro. Falso: i nazisti hanno perseguitato gli ebrei, solo i nazisti erano nazisti, solo i nazisti hanno perpetrato lo sterminio sistematico del popolo ebraico. Il più basso livello del razzismo contro gli ebrei è accusare gli ebrei stessi di antisemitismo”. Il nonno di Lapid è stato ucciso nell’Olocausto scatenato dalle tesi razziste e antisemite di Adolf Hitler e del Terzo Reich.

Condanna durissima per le dichiarazioni di Lavrov anche da parte di Dani Dayan, presidente del museo israeliano dell’Olocausto Yad Vashem, che ha definito le parole del ministro degli Esteri russo “false, deliranti, pericolose e da condannare”. Il ministro delle comunicazioni Yoaz Hendel ha definito i commenti del responsabile della diplomazia russa “deliranti” e ha affermato che miravano a giustificare le “cose terribili” che la Russia sta facendo in Ucraina. “Per la precisione storica: Hitler non aveva sangue ebreo e quello che sta accadendo in Ucraina è scandaloso”, ha affermato Hendel in una dichiarazione all’emittente radiofonica delle Forze armate israeliane. Anche il viceministro della pubblica sicurezza Yair Golan ha denunciato l’osservazione di Lavrov. “Un’espressione scioccante e antisemita che è completamente falsa. Riflette ciò che è veramente il governo russo: un governo violento che non esita a spazzare via i suoi rivali in patria, invadere un Paese straniero e accusarlo falsamente di rinnovare il nazismo”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Enrico Franceschini per repubblica.it il 14 maggio 2022.

L'antisemitismo di cui Israele ha immediatamente accusato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov per la sua dichiarazione alla rete televisiva italiana Rete 4, "anche Hitler aveva sangue ebraico", è stato una macchia costante nella storia della Russia. Dall'impero degli zar all'Unione Sovietica comunista, per finire con la Russia nazionalista di Putin, gli ebrei sono stati perseguitati, discriminati e guardati con sospetto nel Paese più grande del mondo.

Non a caso "pogrom", l'espressione oggi usata in tutte le lingue per definire una violenta campagna per distruggere una popolazione o un'etnia, è un termine russo: i primi pogrom contro gli ebrei scoppiarono nel 1821 a Odessa, proseguendo per tutto l'Ottocento, in particolare dopo l'assassinio dello zar Alessandro II, di cui una teoria della cospirazione diede la colpa agli ebrei. 

La repressione staliniana

Ma è sotto Stalin che l'antisemitismo raggiunse l'apice in Unione Sovietica. Il dittatore ricorse al pregiudizio contro gli ebrei nella sua lotta contro Trotskij, che era di origine ebraica. Fu Stalin a creare una regione per gli ebrei, un po' come aveva fatto Caterina la Grande, situata però nell'Estremo Oriente russo, al confine con la Cina.

Nonostante siano state le truppe russe a liberare Auschwitz e altri lager, durante la Seconda guerra mondiale, poiché l'antisemitismo era associato con la Germania nazista, la Russia staliniana usò il termine "antisionismo" per le sue campagne contro gli ebrei. 

Dopo il 1948 l'antisemitismo riprese in Russia con rinnovato vigore, durante la cosiddetta campagna contro "il cosmopolitismo senza radici", in cui furono uccisi o imprigionati numerosi scrittori, pittori e intellettuali di origine ebraica, una campagna culminata nel 1952 nel presunto "complotto dei medici", in cui un gruppo di medici, quasi tutti ebrei, furono sottoposti a un processo farsa con l'accusa di avere tentato di assassinare Stalin.

Le cose non migliorarono per gli ebrei sovietici sotto Krusciov, che pure aveva rivelato e condannato i crimini dello stalinismo. Con l'arrivo al potere di Breznev e dopo la vittoria di Israele nella guerra dei Sei Giorni nel 1967, gli ebrei di Russia cominciarono a premere per ottenere il permesso di emigrare nello Stato ebraico. I primi a chiederlo venivano arrestati dal Kgb, interrogati e internati in ospedali psichiatrici.

Ma dietro forti pressioni internazionali e dopo lunghi negoziati con gli Stati Uniti, le porte cominciarono ad aprirsi per chi se ne voleva andare. Tra il 1970 e il 1988, 291 mila ebrei sovietici ricevettero l'autorizzazione a emigrare da quello "stato prigione" che era l'Unione Sovietica comunista: dovevano rinunciare alla cittadinanza sovietica e perdevano tutti i loro averi, ma partivano lo stesso, 165 mila emigrarono in Israele, 125 mila negli Usa.

Il flusso verso Israele

Nel 1989 Mikhail Gorbaciov, portando avanti le riforme della sua perestrojka, tolse ulteriori restrizioni all'emigrazione: soltanto quell'anno emigrarono 71 mila ebrei sovietici. Dopo il crollo dell'Urss, il flusso verso Israele diventò ancora più massiccio: tra il 1989 e il 2006, un milione e mezzo di ebrei russi lasciarono l'Urss, la maggior parte dei quali con destinazione Tel Aviv: un fenomeno che ha inciso profondamente sulla società israeliana, dove oggi gli ebrei dell'ex-Urss sono circa il 10 per cento della popolazione.

Tra il fatto che gli ebrei se ne erano andati in massa e la nascita di una pur fragile democrazia, dopo il crollo dell'Urss nel 1991 per un po' sembrò che l'antisemitismo in Russia fosse al tramonto. Vari oligarchi legati prima a Boris Eltsin, il successore di Gorbaciov, e poi a Vladimir Putin, sono del resto di origine ebraica, come Roman Abramovich, il petroliere che dopo avere perso il diritto di risiedere a Londra a causa delle sanzioni ha preso cittadinanza israeliana e passa in Israele parte del suo tempo.

L'antisemitismo rinasce con Putin

Ma il mostro antisemita è risorto con Putin. Il presidente ha concesso libertà di religione, anche agli ebrei. I gruppi nazionalisti che lo appoggiano, tuttavia, esibiscono slogan e un'ideologia denigratoria nei confronti degli ebrei. Putin ha avuto amici ebrei fin dall'infanzia e con alcuni è ancora strettamente legato. 

Inoltre giustifica l'invasione dell'Ucraina con la necessità di "denazificare" l'Ucraina. Tuttavia il filosofo Jason Stanley, docente a Yale, afferma che è necessario ribaltare il discorso. È Putin, ha spiegato Stanley in un’intervista al New York Jewish Week, a rappresentare oggi il baluardo dell'antisemitismo. I suoi discorsi sui nazisti e presunti genocidi in cui si banalizza la Shoah rappresentano infatti una porta aperta all’antisemitismo e un pericolo per gli ebrei: "Il regime di Putin è un regime nazionalista cristiano, e il nazionalismo cristiano è una minaccia per gli ebrei ovunque. Non credo che stia cercando di convincere qualcuno.

Penso piuttosto che stia cercando di deridere il linguaggio della Shoah”. Per Stanley questa retorica rappresenta “l’antisemitismo dell’Europa orientale” che “prende la forma nel dire che noi ebrei abbiamo rubato la narrazione del vittimismo”. Con questi discorsi il presidente russo “prende in giro gli ebrei”. La sua tesi, continua Stanley, è che “le vere vittime siano i russi cristiani in Ucraina orientale: quelle sono le vittime del genocidio, non il discendente di sopravvissuti alla Shoah, il leader ebreo dell’Ucraina”. Questo, spiega il filosofo, figlio a sua volta di sopravvissuti, è uno dei problemi principali: “Il nazionalismo cristiano è antisemita fino al midollo”.

In un articolo pubblicato dal Guardian, il professor Stanley amplia la sua riflessione e traccia un parallelo con il fascismo. Quest’ultimo, scrive, è “un culto del leader, che promette la restaurazione nazionale di fronte a presunte umiliazioni commesse da minoranze etniche o religiose, da liberali, femministe, immigrati e omosessuali. Il leader fascista sostiene che la nazione è stata umiliata e la sua mascolinità minacciata da queste forze.

Deve riconquistare la sua antica gloria (e spesso il suo antico territorio) con la violenza. Egli si offre come l’unico che può ripristinarla”. A essere indicati come primo agente nemico di questa restaurazione sono gli ebrei, sottolinea il filosofo. Sarebbero loro in questa visione distorta a utilizzare “gli strumenti della democrazia liberale, dell’umanesimo laico, del femminismo e dei diritti dei gay” per introdurre “decadenza, debolezza e impurità”. 

Contro gli ebrei si scaglia così il fascismo che giustifica la sua violenza “offrendo di proteggere una presunta identità pura religiosa e nazionale dalle forze del liberalismo. In occidente, il fascismo si presenta come il difensore della cristianità europea contro queste forze, così come la migrazione musulmana di massa. Il fascismo in occidente è quindi sempre più difficile da distinguere dal nazionalismo cristiano”.

Ovvero da quello promosso da Putin, sostiene Stanley, che si autoidentifica come “leader globale del nazionalismo cristiano, ed è sempre più considerato tale dai nazionalisti cristiani di tutto il mondo”. In conclusione, se non ci sono più le persecuzioni etniche dell'era di Stalin, succede ancora di sentire i russi parlare male degli ebrei: "evrei", ebreo, o "zhid", giudeo, vengono usati nel linguaggio comune come insulti. Nell'affermare che "anche Hitler aveva sangue ebraico", il ministro Lavrov ha in fondo semplicemente rivelato un sentimento antisemita che appartiene alla storia della Russia.

Quarta Repubblica, su Bucha Toni Capuozzo dà ragione a Lavrov. Federica Pascale su Il Tempo il 02 maggio 2022.

Continua la polemica sull’intervista fatta da Giuseppe Brindisi al ministro degli Esteri russo Lavrov, andata in onda durante la trasmissione Zona Bianca su Rete4. Tra i tanti temi affrontati, Lavrov si è soffermato anche a commentare il "massacro" di Bucha in Ucraina.

Secondo Toni Capuozzo, ospite in studio durante la puntata di lunedì 2 maggio di Quarta Repubblica, il programma di approfondimento politico in onda in prima serata su Rete 4, è lecito sospettare che i corpi di Bucha siano il “frutto maledetto” di un’operazione speciale della polizia ucraina. “Il calendario parla chiaro – spiega il giornalista - Il 30 i russi si ritirano e abbandonano Bucha. Il primo arriva una squadra speciale della polizia chiamato "Safari" per bonificare gli ordigni inesplosi, dare la caccia ai sabotatori e punire i collaborazionisti. Il 2 cominciano ad esserci le prime immagini dei morti per strada.” Il dubbio di Capuozzo non riguarda le fosse comuni, dove sono stati sepolti i morti nell’arco di un mese, ma piuttosto i copri trovati per strada che, secondo le foto satellitari divulgate, sarebbero stati lì per almeno due settimane. Viene sottolineato, sia da Capuozzo sia dal conduttore Nicola Porro, che questi crimini commessi dalla polizia ucraina andrebbero ad aggiungersi agli innegabili crimini commessi dai russi, che non sono giustificati come non lo sono i primi.

Altro ospite in studio durante la trasmissione è Paolo Mieli, che commenta: “Il fatto che Lavrov abbia deciso di tornare su quel discorso, che ormai appartiene ad una fase precedente, costituisce la prova del fatto che voleva dare un attestato di fedeltà a Putin – afferma il giornalista e storico -. Non dimentichiamoci che quei militari che hanno fatto Bucha, Putin li ha chiamati, premiati e decorati. Per la Russia quelli sono eroi.” Secondo Mieli, la ricostruzione è convincente ma preferisce confidare nella raccolta delle prove e nell’analisi degli osservatori internazionali mandati da enti esterni sul territorio per scoprire la verità sui fatti.

Il corrispondente russo Semyon Pegov dà il via all’esercito per sparare in aria. CorriereTv su Il Corriere della Sera l'1 Maggio 2022.

Un collegamento dal campo di guerra con tanto di ciak prima di iniziare le riprese. É quanto successo nel racconto del giornalista russo Semyon Pegov che si è fatto filmare, apparentemente, nel mezzo di un attacco russo ad un drone ucraino. In realtà il video è studiato e “diretto” direttamente da lui: nella prima parte del video, infatti, si vede Pegov dare un cenno d’intesa al militare a bordo del carro armato prima di iniziare a parlare tra gli spari spiegando di aver colto “casualmente” l’abbattimento di un drone . Il video è stato diffuso sul canale Telegram, WarGonzo, che a commento scrive: «I ragazzi svolgono quotidianamente compiti di combattimento, rintracciano e distruggono bersagli nel cielo»

Regno Unito: "Fabbrica russa di troll diffonde disinformazione". Antonello Guerrera su La Repubblica l'1 maggio 2022.

Secondo un'inchiesta finanziata dal governo britannico il quartier generale della struttura è a San Pietroburgo e a capo c'è "il cuoco personale" di Putin, Yevgeniy Prigozhin. Tra gli obiettivi, il governo di Londra, leader europei e anche star della musica, da Daft Punk a David Guetta.

Un'altra "fabbrica di troll", ovvero di disinformazione russa, a San Pietroburgo, che ha come obiettivi il governo britannico, i leader europei e persino star della musica come Daft Punk e David Guetta. Non sarebbe la famigerata "Internet Research Agency", ma un'altra piattaforma in sostegno della propaganda di Vladimir Putin. A capo ci sarebbe sempre il suo "cuoco personale", ossia il fidatissimo collaboratore del presidente russo, Yevgeniy Prigozhin, che secondo alcuni sarebbe legato anche al reclutamento dei mercenari di Wagner nella guerra in Ucraina. Per il governo britannico, che ha finanziato questa inchiesta pubblicata oggi, la macchina della propaganda russa si troverebbe in una vecchia fabbrica di armi della città natale del presidente russo.

Secondo Londra, si tratta di una nuova "fabbrica di troll" ben affinata per manipolare l'opinione pubblica russa e quella mondiale. L'attività è soprattutto online, da Twitter a Facebook, YouTube e TikTok, dove alcuni influencer sarebbero pagati per amplificare la propaganda del Cremlino. Oppure questi troll "manipolano alcuni sondaggi dei media occidentali". Ma anche, per esempio, orchestrano commenti di opinione nei principali media. Obiettivo comune: screditare media e politici occidentali, o subissarli di critiche costruite, come sarebbe capitato di recente gli account del cancelliere tedesco Olaf Scholz e del capo della politica estera dell'Unione Europea, lo spagnolo Josep Borrell. 

Il governo britannico promette di diffondere più dettagli nelle prossime ore. Tra gli obiettivi della propaganda russa, e per ora non ne è chiaro il motivo, ci sarebbero anche star della musica come i Daft Punk, David Guetta, Tiesto e i Rammstein. Un ruolo catalizzatore centrale, secondo il governo britannico, ce l'avrebbe un canale Telegram di nome "Cyber Front Z", che è attivo e ha circa 95mila iscritti, con la Z che sta per il controverso simbolo di propaganda russa, della guerra e dell'invasione decise da Putin. 

Il quartier generale di questa fabbrica di troll, come riporta la Press Association, sarebbe in alcuni locali affittati dalla azienda Arsenal Machine-building di San Pietroburgo, che produce equipaggiamento militare e materiale di alta tecnologia. Le loro tecniche di propaganda e troll, secondo il governo britannico, sarebbero state affinate sul modello del gruppo ultra-complottista americano "QAnon" ma anche dei terroristi islamici dell'Isis. Come sembrerebbe a leggere anche i post del canale Telegram "Cyber Front Z", a differenza del passato il reclutamento dei propagandisti online sarebbe oramai alla luce del sole, in quanto ciò viene definito una "attività patriottica, vista l'operazione militare speciale in Ucraina".

Yevgeny Prigozhin, che sarebbe a capo di questa fabbrica di troll, è detto anche "il cuoco di Putin" per un motivo molto semplice: quando il giovane zar era un anonimo membro del Kgb, andava a mangiare sempre al suo ristorante a San Pietroburgo. In seguito Prigozhin è stato arrestato per brutali aggressioni e rapine, anche a una donna. È stato condannato e incarcerato. Ma appena uscito di prigione è diventato uno degli uomini più stretti e fidati di Putin, ufficialmente oggi cura tutto il catering del presidente e del Cremlino, ed è una strana figura che oscilla tra un oligarca milionario e il cameriere, quando c'è lo zar. 

"Non possiamo permettere al Cremlino e ai suoi troll di invadere i nostri spazi online con le loro bugie sulla guerra illegale di Putin", hanno detto la ministra degli Esteri britannica Liz Truss e quella dei Beni Culturali Nadine Dorries, "il governo di Londra ha allertato i partner internazionali e continueremo a lavorare a stretto contatto con alleati e piattaforme di media per limitare le operazioni della propaganda russa".

Pier Luigi Pisa per repubblica.it il 26 aprile 2022.

È chiaramente falso il video che ritrae il presidente ucraino Zelensky con della polvere bianca sulla sua scrivania. La clip sta circolando sugli account social di chi sostiene l'invasione russa dell'Ucraina.

Quella che dovrebbe sembrare cocaina, è stata aggiunta con un software di video editing al video originale in cui non c'è traccia dell'ipotetica sostanza stupefacente. La prova evidente è proprio il video originale pubblicato su Instagram, il 6 marzo scorso, dallo stesso Zelensky sul suo account ufficiale.

Non è la prima volta che la propaganda russa prova ad accostare il presidente ucraino alla droga. Sui social infatti sta girando un altro video, anche questo falso, in cui Zelensky ammetterebbe di fare uso di cocaina e elogerebbe addirittura gli effetti. In realtà si tratta di un'intervista video del 2019, quando Zelensky era ancora candidato alla presidenza, tagliata e modificata per attribuirgli una frase che in realtà non ha mai detto.

La guerra senza retorica (e fake news) dei giovani inviati. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.

Francesca Mannocchi a «Propaganda Live» ha proposto le sue testimonianze dall’Ucraina. Ma c’è chi guida credulonerie, come il profilo social di Toni Capuozzo. 

Insolitamente elegante, in giacca e cravatta, Diego Bianchi (Zoro) ha condotto da casa la puntata di «Propaganda Live» (La7): «Io non so proprio come andare avanti, è tutto triste e al tempo stesso divertente a modo suo, vorrei dirvi che tra poco vengo là ed è tutta una gag che ci siamo inventati e invece no, sono più o meno al nono, decimo giorno di positività…». Questa conduzione anomala è servita per qualche riflessione.

Da sola, in studio, Francesca Mannocchi ha proposto le sue storie sulla guerra in Ucraina. Sono testimonianze dei pochi cittadini che non hanno abbandonato le proprie case, racconti essenziali, basati sulla sobrietà, sulle cose che contano davvero nei momenti più drammatici. Mannocchi non disegna scenari di guerra, ma raccoglie le parole degli «umili» manzoniani, di gente che cerca di sfuggire alla crudeltà degli invasori. È un modo nuovo e fedele di raccontare la guerra, uno stile forse mutato dai social media (le Instagram Stories), segnato da un rapporto empatico, personale con l’intervistato.

Mentre riflettevo su queste interviste, avevo sottomano un report internazionale, pubblicato dall’Institute for Strategic Dialogue, che analizza i post pubblicati da Facebook sul massacro di Bucha. Ebbene, i più condivisi sono quelli che mettono in dubbio l’eccidio, non per spirito critico ma per fiducia in alcune fake news già ampiamente smentite. L’aspetto triste è che in Italia, a guidare questa creduloneria, è il profilo social di Toni Capuozzo.

Così mi è venuto da fare un confronto (se è improprio chiedo scusa) fra questi inviati più giovani che vanno sul posto e cercano di raccontare senza retorica, senza eroismi quello che vedono e i vecchi inviati di guerra che frequentano i salotti televisivi e impartiscono lezioni a destra e a manca, come se, senza di loro, la guerra non fosse più guerra. Ah, signora mia…

Controcorrente, Maria Giovanna Maglie combatte la propaganda pro-Ucraina: corridoi umanitari bloccati, ecco perché. Il Tempo il 24 aprile 2022.

Vladimir Putin ha partecipato alla messa di Pasqua e i corridoi umanitari non si sbloccano. Per commentare la situazione della guerra in Ucraina Veronica Gentili, conduttrice di Controcorrente, talk show di Rete4, ospita nell’edizione del 24 aprile la giornalista Maria Giovanna Maglie: “Fausto Biloslavo, con la consueta onestà che lo caratterizza, soprattutto pensando la situazione in cui si trova, ci ha detto che i corridoi umanitari saltano per colpa dei militari russi che dei militari ucraina. Siccome si tratta di civili ucraini questo è un elemento grave, noi non possiamo continuare a limitarci a fare propaganda pro-Ucraina. Dobbiamo dire alcune verità intermedie, semplicemente verità. I civili sono bloccati anche dai militari ucraini o contractors, quel che siano, perché fa comodo che siano lì. Questo è orribile. I russi - sottolinea la Maglie - stanno avanzando lentamente, ma stanno avanzando da tutte le parti”.

Si passa poi alle elezioni in Francia. “Marine Le Pen era un'opzione troppo radicale?” domanda la Gentili alla Maglie: “Sarebbe stata una notizia se fosse riuscita a vincere o ad avvicinarsi visto il sistema e vista la condizione elettorale della Le Pen. Nessuno stupore. Macron non ha avuto un quinquennio complesso, è stato disastroso, puntellato da proteste costanti, continue, violente, di massa. Le cose per Macron sono andate male. Poi c’è il sistema elettorale francese che con il doppio turno fa queste scelte, a torto o ragione ma le fa. Poi c’è il fatto che la fascista, passatemi il termine, può far comodo in certe situazioni, ma poi quando è al dunque tutti si concentrano e coalizzano contro. Per le forze di centrodestra può essere una buona lezione per capire che lo splendido isolamento, anche di altissimo livello con una quantità enorme di voti sulla quale può contare la Le Pen, non è sufficiente, per - chiosa la giornalista ospite in collegamento - una sorta di tabù nazionale ed internazionale”. 

“Putiniani”. Smontiamo le accuse del blog americano. Nicola Porro su Nicolaporro.it il 24 Aprile 2022.

Evidentemente siti di debunker e auto-praclamatisi enti di ricerca sono meno sagaci dei nostri lettori, dunque necessitano di indicazioni più precise: il nostro giornale non vende verdura, non produce bulloni, ma pubblica articoli di opinione (capito, News Guard?) e si pone delle domande. Anche sulla guerra in Ucraina. È forse un reato? Non ci sembra, almeno per il momento. Ma a quanto pare secondo un report dell’Institute for Strategic Dialogue (ISD) attiviamo a sufficienza le sinapsi per andare un po’ oltre la narrazione “mainstream” da meritare l’etichetta di “putinisti”, “propagandisti pro-Cremlino” e via dicendo.

Ieri Toni Capuozzo, di cui abbiamo più volte pubblicato i lucidi ragionamenti, vi ha già illustrato questo sapiente dossier. In sintesi: i solerti studiosi hanno pescato da Facebook circa 200 post relativi alla strage di Bucha e ne hanno analizzato condivisioni, interazioni e contenuti. Risultato: alcuni erano condivisi da fonti legate al Cremlino (che scoperta!), altri sposavano le tesi della Russia (criticabile, ma non illegale) e altri ancora mettevano “in dubbio la legittimità delle immagini di Bucha utilizzate dai media mainstream occidentali” (è forse vietato?). Questi ultimi, tra cui vengono infilati anche i post di Capuozzo, avrebbero ottenuto più interazioni delle news “ufficiali”, verificate dagli infallibili media occidentali, quelli cioè che nei due mesi di guerra hanno spacciato per “veri” i video di videogiochi o fantomatiche cartine della Azovstal. Sorvoliamo.

La prevalenza online di post “non allineati” sarebbe per l’ISD una “scoperta preoccupante”, visto che dimostrerebbe (?) il successo delle narrazioni pro-Cremlino. Ora, potremmo sollevare milioni di obiezioni. Far notare ad esempio che quelle di Capuozzo non erano affatto “fake news” né “un’interpretazione controversa” di quanto successo a Bucha, ma ponevano banalmente delle domande. Le stesse, per inciso, che avrebbero dovuto farsi i “media mainstream” prima di trasformare in eroi i soldati ucraini dell’isola dei Serpenti, santificati post mortem e in realtà vivi e vegeti. Quella come la chiamiamo, propaganda pro-Nato? E quante interazioni fondate su tale “fake news” hanno ottenuto quei post? Facciamo un dossier a parte?

Si dà il caso, comunque, che nel report dell’Istituto “in prima linea contro l’estremismo in tutte le sue forme” sia citato anche il nostro giornale. “Dei due post che non erano legati a Capuozzo – si legge – (…) uno era un post del blogger Nicola Porro che denunciava le denunce di stupri da parte di soldati ucraini”. Di quale articolo si tratta? Crediamo sia questo: “L’Onu rivela: ‘Denunce di stupri commessi da soldati ucraini’“. Il nostro sovversivo pezzo è stato incluso tra i “55 post che mettono in dubbio la narrativa mainstream sulle atrocità a Bucha”. Cosa avremo scritto mai di russofilo? Nulla, in realtà. Ci siamo limitati a riportare “una notizia, passata in sordina o quasi del nulla riportata dai media, che ieri ha plasticamente disegnato l’orrore della guerra in tutta la sua crudeltà”. Ovvero l’annuncio dell’Onu dell’apertura di un’indagine ai danni dei soldati di Zelensky, denunciati per stupro da alcuni civili e accusati di usare le vietate bombe a grappolo.

Ce lo siamo inventato? No, l’ha proprio detto un rappresentate dell’Onu. Dunque delle due, l’una: o riportare notizie che gettano ombre sulle forze armate ucraine è ormai un peccato mortale (diteci: va santificato pure l’Azov, fino all’altro ieri ‘nazista’?), oppure vanno etichettate come “putiniste” pure le Nazioni Unite. Tertium non datur. Oppure sì: potremmo smetterla di mettere all’indice chiunque si discosti di un solo passo dal sentiero geopoliticamente corretto. Ma forse chiediamo troppo. Nicola Porro, 24 aprile 2022

"Ma questo lo dicono i russi?" "No, lo dico io", gelo tra Veronica Gentili e Fausto Biloslavo a Controcorrente. Il Tempo il 23 aprile 2022. 

Attimi di imbarazzo a Controcorrente, la trasmissione condotta su Rete4 da Veronica Gentili. Come di consueto anche nella puntata di sabato 23 aprile l'inviato in Ucraina Fausto Biloslavo fa il punto sulla giornata di guerra con notizie di prima mano e testimonianze dal campo di battaglia, con tutti i rischi personali che ne conseguono. Il giornalista - il cui nome tra l'altro era finito nelle assurde liste spuntate a sinistra sui presunti filorussi in Italia - sta raccontando dei nuovi attacchi delle forze armate di Mosca su Odessa. Diversi missili da crociera sono passati "uno dopo l'altro sulla mia testa con il loro rumore di caccia a reazione", spiega il giornalista. "Questi missili sembra che avessero obiettivi militari", fa sapere l'esperto inviato che racconta come il primo razzo abbia colpito un deposito di armi straniere.

Il secondo è stato invece raggiunto dalla contraerea ucraina, che si era fatta scappare il primo missile. "Mi è passato sopra la testa e ho sentito distintamente la contraerea che sparava ripetutamente. Il missile, intercettato, è caduto su un condominio, un palazzo di 16 piani", racconta mostrando le immagini dell'edificio sventrato dal missile russo. Che era indirizzato verso un obiettivo militare, ma è stato fatalmente "deviato" con conseguenze terribili dai terra-aria ucraini sopra un palazzo pieno di civili. "Sono arrivato subito dopo, 4-5 piani sono come polverizzati", spiega il giornalista. 

La Gentili allora lo interrompe: "Scusa, correggimi se sbaglio, ma questo è quello che dicono i russi?" "Questo è quello che dico io perché l'ho visto" replica un po' stizzito il giornalista. "Ma volevo capire se questa versione si combina con quello che dicono gli ucraini...", abbozza una retromarcia la conduttrice e Biloslavo chiarisce anche questo punto: "Gli ucraini ammettono che hanno usato la contraerea ma dicono anche che se i russi non avessero lanciato i missili" tutto questo non sarebbe successo. Ma queste dinamiche sono drammaticamente "normali" in una guerra con armi pesanti, argomenta il giornalista, "il punto è che ci vanno di mezzo sempre i civili, compreso un neonato di tre mesi" morto a Odessa alla vigilia della Pasqua ortodossa.  

"Lo dicono i russi?", "No, l'ho visto io". Botta e risposta tra Gentili e Biloslavo. Francesca Galici il 25 Aprile 2022 su Il Giornale.

Fausto Biloslavo da Odessa ha ricostruito la dinamica degli ultimi attacchi russi, spiegando in che modo la contraerea ucraina ha abbattuto i missili di Putin.

Fausto Biloslavo è uno dei corrispondenti di guerra italiani che fin dall'invasione russa in Ucraina si trova sul campo per raccogliere testimonianze e documentare quanto sta accadendo nel conflitto che perdura ormai da oltre due mesi. Ospite di Controcorrente, il programma di Rete4 condotto da Veronica Gentili, l'inviato di InsideOver e de ilGiornale ha raccontato gli ultimi fatti salienti sulle battaglie che nelle ultime settimane si stanno concentrando prevalentemente nel sud dell'Ucraina e che, da qualche giorno, stanno coinvolgendo anche la città di Odessa.

La Russia, infatti, ha iniziato a lanciare missili anche sulla città che fino a questo momento era stata coinvolta solo marginalmente nel conflitto, confermando l'ipotesi già avanzata da molti che l'obiettivo di Vladimir Putin potrebbe essere quello di eliminare qualunque sbocco sul Mar d'Azov dell'Ucraina per avere il pieno controllo delle coste. Pochi giorni fa alcuni missili sono stati diretti proprio su Odessa, dove hanno colpito anche obiettivi civili e causato la morte di diverse persone, tra le quali un bambino di tre mesi. Fausto Biloslavo, che si è spostato proprio nella città costiera ucraina per seguire da vicino questa nuova fase del conflitto, ha raccontato quel che ha visto con i suoi occhi, la testimonianza diretta dell'attacco russo sulla città. "Sei missili da crociera arrivati su Odessa, due sono passati uno dopo l’altro sulla mia testa nel centro della città con il loro rumore di caccia a reazione lanciati o da sottomarini nel mare Nero o dai bombardieri strategici sul mar Caspio. Questi missili sembra che avessero obiettivi militari e infatti hanno colpito uno scalo militare dove c’era un deposito di armi straniere", ha spiegato il giornalista.

Ma a quel punto, Biloslavo ha raccontato che "poi giustamente la contraerea ucraina risponde sparando ripetutamente. il primo missile mi è passato sopra la testa, mentre il secondo è stato intercettato ed è stato deviato cadendo su un palazzo di 16 piani. Io sono arrivato subito dopo e 4-5 piani erano come polverizzati". A quel punto, Veronica Gentili ha cercato di fare chiarezza per spiegare meglio al pubblico a casa il contesto delle dichiarazioni di Biloslavo: "Scusa, correggimi se sbaglio, ma questo è quello che dicono i russi?".

Il giornalista, del quale è nota la correttezza nel riportare le informazioni sui conflitti, ha replicato: "Questo è quello che dico io, perché l’ho visto". In un secondo momento, Fausto Biloslavo ha chiarito ulteriormente quanto sta accadendo in Ucraina: "Gli ucraini ammettono che hanno usato la contraerea ma dicono anche che se i russi non avessero lanciato i missili tutto questo non sarebbe successo. Ma queste dinamiche sono drammaticamente ‘normali’ in una guerra con armi pesanti, il punto è che ci vanno di mezzo sempre i civili, compreso un neonato di tre mesi morto a Odessa alla vigilia della Pasqua ortodossa" 

Quarta Repubblica, “pulizia etnica dal Battaglione Azov”. Denuncia di Toni Capuozzo sul Donbass. Il Tempo il 25 aprile 2022.

Toni Capuozzo non molla di un centimetro sulla guerra tra Russia ed Ucraina. Il giornalista ed inviato sui campi di battaglia è ospite della puntata del 25 aprile di Quarta Repubblica, il talk show di Rete4 che vede Nicola Porro alla conduzione, e non risparmia critiche al fronte ucraino per quello che ha fatto prima dell'invasione della Russia, con una stilettata anche alla Nato e al suo ruolo di guerrafondai nel mondo: “Ogni punto di vista sulla pace è prezioso. Il battaglione Azov negli anni ha fatto una pratica di pulizia etnica in Donbass, sono dei nazisti pragmatici. L’esercito ucraino lo ha reclutato è ampiamente usato. Per me l’Europa non sa qual è la vittoria perché decide l’America di Joe Biden. Ditemi un esempio in cui l’Occidente dove è intervenuto con le armi ha lasciato un mondo migliore?”.

Oltre a Capuozzo è ospite di Porro anche Giulio Terzi di Sant’Agata, diplomatico e politico italiano, ministro degli esteri nel governo Monti: “Questo 25 aprile per una buona parte di italiani è un giorno di libertà e in questo momento una libertà che gli ucraini oppressi stanno difendendo con la loro resistenza. La NATO in Kossovo è intervenuta per evitare un disastro umanitario. Ovunque siamo andati - la risposta alle parole del giornalista - abbiamo lasciato un mondo migliore e grazie al cielo che siamo sotto il cappello dell’America! Questa guerra di Vladimir Putin era da sempre rivolta all’Europa”.

Toni Capuozzo e il suo libro “GIORNI DI GUERRA. Russia Ucraina, il mondo a pezzi”. Il servizio dell’informazione e i documenti. Carlo Franza il 25 aprile 2022 su Il Giornale.

E’ il diario di guerra di ciò che sta veramente avvenendo fra Russia e Ucraina, è il nuovo libro  di Toni Capuozzo, una delle firme più amate  del giornalismo italiano, una delle voci e delle penne più forbite e  colte  della nostra Italia. Con le foto dal fronte di Fausto Biloslavo, Gabriele Micalizzi, Francesco Semprini, Vittorio Nicola Rangeloni. Illustrazioni di Giuseppe Botte.  Libro illuminante che punta dritto alla verità, senza se e senza ma. Libro in cui lo scritto diventa anche televisivo grazie alle belle foto dal Fronte specie di Fausto Biloslavo del Il Giornale.

Sono scettico sul ruolo che l’Occidente sta giocando. Siamo pronti a combattere, ma fino all’ultimo ucraino. È in gioco la democrazia, è in gioco l’Occidente, si mettono tutti l’elmetto però, poi, marcano visita al momento di andarci per davvero… in guerra”. Toni Capuozzo

Queste le parole graffianti di un giornalista con la schiena dritta, un signor giornalista, uno capace di vedere, osservare, leggere e descrivere. Insomma, uno che sa fare veramente il suo mestiere, come pochi oggi.  Questo libro colpisce eccome, e fa male, eccome fa male, ci pone dinanzi a un vissuto. E badate bene che oggi tutti i giornalisti pubblicano libri, tutti i politici pubblicano libri, tutti gli attori pubblicano libri,  tutti i manager pubblicano libri, tutti i sedicenti scrittori pubblicano libri, tutte le casalinghe pubblicano libri, ebbene dei tanti che ne ho letto  di quasi nessuno di questi ne tengo memoria, forse di appena una decina. Questo di Capuozzo è il libro sulla vita, no, anzi è il libro sulla morte e sulla guerra, non di quelle del passato ma di quella del terzo millennio che si sta allargando sotto gli occhi dell’intero mondo.

Un vero e proprio diario di guerra — suddiviso per giorni — fatto di appunti, riflessioni pubblicate sui social, interventi televisivi. Un volume impreziosito da numerose illustrazioni e da una lunga galleria di fotografie di grandi reporter italiani dal fronte: Fausto Biloslavo, Gabriele Micalizzi, Francesco Semprini, Vittorio Nicola Rangeloni. “Non esistono guerre chirurgiche, né bombardamenti intelligenti” — scrive Capuozzo — “ci sono sempre colpe da distribuire: Putin, la sua politica di potenza, l’ordine di invasione. Biden, la sfida di una NATO senza confini. Il premier ucraino che si è fatto spingere nella sfida – vai avanti tu – senza valutare che, forse, per l’Ucraina libera era meglio essere una terra di nessuno o dei soli ucraini, scambi e commerci piuttosto che missili. Nessuno è completamente innocente, se non i civili”.

TONI CAPUOZZO. Nasce a Palmanova, in provincia di Udine, nel 1948. Laureato in sociologia presso l’Università di Trento, diventa giornalista professionista nel 1983. Scrive per Reporter e per I periodici Epoca e Panorama mese. Vicedirettore del TG5 e conduttore della trasmissione giornalistica settimanale Terra! Inviato di guerra per diverse testate giornalistiche televisive, ha seguito I conflitti nei Balcani, in Somalia, in Medio Oriente, in Afghanistan, in Iraq. E’autore di numerosi libri. Carlo Franza

Toni Capuozzo travolto dalle critiche reagisce: “Domande scomode su Bucha rimaste senza risposta”. Il Tempo il 23 aprile 2022.

Toni Capuozzo si arrabbia e replica all’articolo apparso su Il Foglio, a firma di Filippo Passeri, dal titolo “Le fake news su Bucha di Toni Capuozzo spopolano su Facebook”. Il giornalista ed ex inviato di guerra di Mediaset è finito al centro delle critiche per alcuni dubbi espressi su accadimenti della guerra tra Russia ed Ucraina: “Ho posto delle domande sui morti trovati per strada. Non ho messo in dubbio né l’esistenza né il numero delle vittime sepolte durante l’occupazione di Bucha da parte dei russi, ma ho posto delle domande sui morti ritrovati per strada quando i russi se n’erano già andati, e su Bucha era passata una squadra speciale della polizia guidata da un nazista, a caccia di collaborazionisti e sabotatori. Come mai alcune delle vittime avevano un fazzoletto bianco al braccio? Come mai accanto ai corpi spesso c’erano i sacchetti della razioni alimentari russe? Domande rimaste senza risposta. Domande che possono essere scomode o semplicemente stupide, impertinenti o fuori luogo, ma domande, non notizie”.

“Il solerte Passeri - Capuozzo si rivolge all’estensore dell’articolo contro di lui - andasse a rileggere quello che avevo scritto e si ponesse a sua volta la domanda ‘ma Capuozzo ha davvero scritto delle fake news o ha solo fatto inutili domande?’ è troppo. Non mi indigna, mi fa ridere. È il coro conformista e lui sì indignato, moraleggiante e bellicoso: i redattori di Open hanno scomodato una veterinaria per smontare le mie domande, un politico fallito mi ha definito ‘negazionista’, un ristoratore ammiratore di Azov mi manda messaggi che augurano ‘morte alla Russia’, ognuno ha le sue ossessioni. Passeri - conclude Capuozzo nell’articolo apparso sul sito di Nicola Porro - non è solo, in questa rancorosa campagna di indici accusatori che segnalano debolezze, domande, propagande cattive e propagande buone, notizie false, notizie da evitare”.

Toni Capuozzo e i dubbi su Bucha: "Cosa è stato trovato accanto ai corpi". Libero Quotidiano il 23 aprile 2022.

Toni Capuozzo perde le staffe. L'ex vicedirettore del Tg5 si scaglia contro un articolo de Il Foglio nel quale Filippo Passeri citava Bucha. Già il titolo lascia presagire di cosa si tratta: "Le fake news su Bucha di Toni Capuozzo spopolano su Facebook". Il giornalista era finito al centro della polemica per aver sollevato dei dubbi sui cadaveri della cittadina ucraina. Da qui la precisazione e la frecciata al quotidiano: "Ho posto delle domande sui morti trovati per strada. Non ho messo in dubbio né l’esistenza né il numero delle vittime sepolte durante l’occupazione di Bucha da parte dei russi, ma ho posto delle domande sui morti ritrovati per strada quando i russi se n’erano già andati, e su Bucha era passata una squadra speciale della polizia guidata da un nazista, a caccia di collaborazionisti e sabotatori".

E ancora: "Come mai alcune delle vittime avevano un fazzoletto bianco al braccio? Come mai accanto ai corpi spesso c’erano i sacchetti della razioni alimentari russe?". Si tratta per Capuozzo di "domande rimaste senza risposta, domande che possono essere scomode o semplicemente stupide, impertinenti o fuori luogo, ma domande, non notizie".

Poi l'attacco si fa più diretto all'articolista: "Il solerte Passeri andasse a rileggere quello che avevo scritto e si ponesse a sua volta la domanda ‘ma Capuozzo ha davvero scritto delle fake news o ha solo fatto inutili domande?’ è troppo. Non mi indigna, mi fa ridere". E come lui, conclude, sono in tanti quelli che lo hanno preso di mira e che "segnalano debolezze, domande, propagande cattive e propagande buone". 

L'immagine 'fake' su Azovstal. L’acciaieria-bunker di Mariupol come il gioco da tavolo Blackout: figuraccia in tv a Porta a Porta, Piazza Pulita e Controcorrente. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Aprile 2022. 

L’acciaieria Azovstal come un gioco da tavola. È il ‘miracolo’ del giornalismo italiano che, nella corsa dietro le notizie, manca di fare i dovuti controlli. Facciamo un passo indietro. Da giorni lo scenario di guerra principale in Ucraina è diventata l’acciaieria di Mariupol, un gigantesco impianto siderurgico affacciato sul mar d’Azov utilizzato come ultima roccaforte di resistenza da parte del battaglione Azov, da miliziani stranieri e da qualche centinaio di civili che si nascondono dalle truppe russe.

Lo stabilimento però è un vero e proprio bunker: oltre undici chilometri di altiforni, edifici e soprattutto cunicoli sotterranei costruiti in epoca sovietica anche per resistere a eventuali attacchi nucleari.

A rendere un’idea è questo grafico messa a punto dai media britannici, che evidenzia il sistema di tunnel sotterranei.

In Italia invece tre trasmissioni di ‘approfondimento’, Porta a Porta (Rai1), Controcorrente (Rete4) e Piazza Pulita (La7), hanno utilizzato per descrive la struttura dell’acciaieria Azovstal l’illustrazione tratta da un gioco da tavola, Blackout.

L’immagine, datata 2015, è rintracciabile sul web. È infatti all’interno di una pagina Kickstarter, la nota piattaforma di crowdfunding, dove l’autore del gioco, Richard T. Broadwater, aveva tentato di raccoglie i fondi necessari allo sviluppo del suo progetto. Un piano che tra l’altro non è più andato in porto: l’autore era riuscito a raccogliere solo 14mila dei 50mila dollari necessari per la produzione di Blackout.

Quest’ultimo sarebbe dovuto essere un gioco da tavolo ambientato in un mondo post-apocalittico infestato da “creature parassitarie “che costringono la popolazione umana a vivere in dei bunker, proprio come quello spacciato per l’acciaieria di Mariupol.

La stessa illustrazione tra l’altro è presente e riproposta in una nuova versione del gioco da tavola, “Blackout: Journey into Darkness”, sempre dello stesso autore e ancora una volta sulla piattaforma Kickstarter. Questa volta però Richard T. Broadwater ha ottenuto il suo obiettivo, racimolando 89mila dollari.

L’illustrazione di Blackout-Azovstal è stata mostrata ieri sera da Corrado Formigli durante la puntata di Piazza Pulita per descrivere l’acciaieria, fornendo come fonte il politologo russo “Sergei Markov”, mentre a Porta a Porta Bruno Vespa ha citato Il Messaggero. Controcorrente, condotto da Veronica Gentili, ha invece mostrato a lungo la pseudo acciaieria come sfondo per la discussione sul conflitto in Ucraina.

In realtà la fonte dell’immagine è Twitter, dove era iniziata a circolare già il 17 aprile scorso, per lanciare l’accusa di presunti laboratori di armi biochimiche sviluppata da Ucraina e Nato all’interno dell’impianto siderurgico.

La redazione di Piazza Pulita ha riconosciuto l’errore nel mandare in onda il gioco da tavola spacciandolo per l’acciaieria Azovstal: “Ieri sera siamo caduti anche noi nell’errore di mandare in onda questa grafica riferendola alle acciaierie Azovstal. Non è così. Chiediamo scusa ai nostri telespettatori“, è il messaggio apparso sul profilo Twitter della trasmissione di La7.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Toni Capuozzo travolto dalle critiche reagisce: “Domande scomode su Bucha rimaste senza risposta”. Il Tempo il 23 aprile 2022

Toni Capuozzo si arrabbia e replica all’articolo apparso su Il Foglio, a firma di Filippo Passeri, dal titolo “Le fake news su Bucha di Toni Capuozzo spopolano su Facebook”. Il giornalista ed ex inviato di guerra di Mediaset è finito al centro delle critiche per alcuni dubbi espressi su accadimenti della guerra tra Russia ed Ucraina: “Ho posto delle domande sui morti trovati per strada. Non ho messo in dubbio né l’esistenza né il numero delle vittime sepolte durante l’occupazione di Bucha da parte dei russi, ma ho posto delle domande sui morti ritrovati per strada quando i russi se n’erano già andati, e su Bucha era passata una squadra speciale della polizia guidata da un nazista, a caccia di collaborazionisti e sabotatori. Come mai alcune delle vittime avevano un fazzoletto bianco al braccio? Come mai accanto ai corpi spesso c’erano i sacchetti delle razioni alimentari russe? Domande rimaste senza risposta. Domande che possono essere scomode o semplicemente stupide, impertinenti o fuori luogo, ma domande, non notizie”.

“Il solerte Passeri - Capuozzo si rivolge all’estensore dell’articolo contro di lui - andasse a rileggere quello che avevo scritto e si ponesse a sua volta la domanda ‘ma Capuozzo ha davvero scritto delle fake news o ha solo fatto inutili domande?’ è troppo. Non mi indigna, mi fa ridere. È il coro conformista e lui sì indignato, moraleggiante e bellicoso: i redattori di Open hanno scomodato una veterinaria per smontare le mie domande, un politico fallito mi ha definito ‘negazionista’, un ristoratore ammiratore di Azov mi manda messaggi che augurano ‘morte alla Russia’, ognuno ha le sue ossessioni. Passeri - conclude Capuozzo nell’articolo apparso sul sito di Nicola Porro - non è solo, in questa rancorosa campagna di indici accusatori che segnalano debolezze, domande, propagande cattive e propagande buone, notizie false, notizie da evitare”.

Lo sfogo di Capuozzo: “Io dico fake news? Allora traducetemi questo”. Redazione su Nicolaporro.it il 23 Aprile 2022. Toni Capuozzo: Lo so: poche cose sono così noiose come le baruffe tra giornalisti. Ma in qualche caso bisogna pur difendersi, e riderci su. Il caso è del 21 aprile e porta su Il Foglio la firma di un’analisi compiuta da un certo Filippo Passeri. Titolo: “Le fake news su Bucha di Toni Capuozzo spopolano su Facebook”. In realtà il solerte Passeri non si è dato troppo da fare, ma come in un mattinale della polizia religiosa, si è limitato a tradurre un report dell’Institute for Strategic Dialogue sui post apparsi nelle tre settimane successive al massacro di Bucha.

Me li immagino, gli impiegati dell’istituto che controllano visualizzazioni e condivisioni, e decidono in quale categoria mettere un post. Forse non hanno neanche chiesto al capo ufficio se i miei post fossero delle news – cioè fornivano notizie – se fossero fake news – cioè fornissero notizie false – o se fossero qualcos’altro, come chiunque li abbia letti sa. Ponevano delle domande sui morti trovati per strada. Non mettevano in dubbio né l’esistenza né il numero delle vittime sepolte durante l’occupazione di Bucha da parte dei russi, ma ponevano delle domande sui morti ritrovati per strada quando i russi se n’erano già andati, e su Bucha era passata una squadra speciale della polizia guidata da un nazista, a caccia di collaborazionisti e sabotatori.

Come mai alcune delle vittime avevano un fazzoletto bianco al braccio? Come mai accanto ai corpi spesso c’erano i sacchetti delle razioni alimentari russe? Domande rimaste senza risposta. Domande che possono essere scomode o semplicemente stupide, impertinenti o fuori luogo, ma domande, non notizie. Ora, pretendere che il solerte Passeri andasse a rileggere quello che avevo scritto e si ponesse a sua volta la domanda – “ma Capuozzo ha davvero scritto delle fake news o ha solo fatto inutili domande?”- è troppo. Non mi indigna, mi fa ridere. È il coro conformista e lui sì indignato, moraleggiante e bellicoso: i redattori di Open hanno scomodato una veterinaria per smontare le mie domande, un politico fallito mi ha definito “negazionista”, un ristoratore ammiratore di Azov mi manda messaggi che augurano “morte alla Russia”: ognuno ha le sue ossessioni.

L’unica cosa che mi sorprende, nella pensosa analisi di Passeri, è che mi descrive così: “in passato inviato per Mediaset in diversi paesi di guerra e oggi attivo principalmente sui social”. No, non mi infastidisce il modesto italiano (quali sono i “paesi di guerra” ?), mi sorprende un dettaglio. In passato, non è un mistero, sono stato a lungo collaboratore de Il Foglio, dove tenevo la rubrica Occhiaie di riguardo. Sembra brutto ricordarlo ai lettori dell’analisi, meglio nascondermi nei meandri sotterranei dell’Azovstal dell’informazione. Meglio fare come nelle foto staliniane, togliamo il Capuozzo. Poco elegante, Passeri. Ma Lei non è solo, in questa rancorosa campagna di indici accusatori che segnalano debolezze, domande, propagande cattive e propagande buone, notizie false, notizie da evitare. A proposito di notizie da evitare: potrebbe il solerte Passeri indagare sul sito ucraino che gli segnalo, capire se spopola o meno, e magari tradurre quella scritta rossa sulla foto di Andy Rocchelli, fotografo italiano ucciso nel Donbass? Grazie. Passeri, aspetto una sua analisi.

Marilisa Palumbo per corriere.it il 21 aprile 2022.

Già nel lontano 2005 l’allora junior senator Barack Obama scriveva a uno dei blog (era l’epoca in cui facevano furore!) più letti del mondo della sinistra, il Daily Kos, per avvertire dei rischi di quello che in quel momento era il molto celebrato mondo nascente della politica sul web: rinchiudersi in bolle sempre più ristrette, per finire a parlare solo con chi la pensa come noi. 

Si allarga la partecipazione, si riduce lo spettro del dibattito. Obama studiava le trasformazioni dell’informazione digitale e citava un fenomeno analizzato dai sociologi: la cyberbalcanizzazione, l’aggregarsi in Rete in tribù che non si parlano e non si capiscono, con effetti devastanti anche nel mondo reale.

Potere e controllo

Diciassette anni dopo, e due mandati da presidente più tardi, quei nodi legati alla comunicazione online si sono fatti ancora più intricati, e più gravi i pericoli per la tenuta della società e della democrazia, anche perché si sono intrecciati con la diffusione consapevole di false informazioni – propaganda o fake news, chiamiamole come vogliamo – da parte di attori che proprio quelle fratture nelle nostre comunità vogliono sfruttare a fini di potere e controllo.

Il discorso e le letture

Di tutto questo il 21 aprile Obama parlerà in un discorso ai ragazzi di Stanford, ma nel frattempo, da buon professore – insegnava diritto costituzionale a Chicago prima di entrare in politica – scrive sul suo profilo Twitter di aver «letto, incontrato accademici, ricercatori, leader del settore, ex regolatori…» e offre una reading list che si può consultare qui.

L’asse

Il viaggio odierno nella Silicon Valley segna anche un cambio di passo e un ripensamento rispetto al tecno-ottimismo delle sue campagne presidenziali, giocate moltissimo sull’asse con il Big tech americano, che lo aveva aiutato non solo generosamente nella raccolta fondi, ma anche in quella dei dati per declinare e «consegnare» in modo sartoriale il suo messaggio agli elettori. La sua campagna digitale era guidata dal co-fondatore di Facebook, Chris Hughes , e quasi tutta l’industria lo sosteneva, come lui sosteneva loro, senza grandi preoccupazioni sulle regole. 

Il ripensamento

«Credo di aver sottovalutato fino a che punto le democrazie fossero vulnerabili (alla disinformazione, ndr), inclusa la nostra», ha ammesso Obama durante un recente dibattito organizzato dall’Atlantic Council e dalla University of Chicago. Oggi, come molti suoi colleghi democratici, è pronto a fare una battaglia per chiedere che i giganti dei social media, lasciati correre liberamente per quasi vent’anni, siano sottoposti a regole più stringenti, per il bene della democrazia: «Credo che sia ragionevole avere una discussione e mettere insieme una combinazione di misure regolatorie e norme industriali che lascino intatta l’opportunità per queste piattaforme di fare soldi, ma indichino che alcune delle loro azioni non sono positive per la società». 

Strada in salita

Non sarà facile, però. Nel frattempo c’è stato Donald Trump, le bugie che l’hanno portato alla vittoria e la «grande bugia» dell’elezione rubata alla quale crede ancora la maggioranza degli elettori repubblicani; ci sono stati il negazionismo e le falsità sulla pandemia che sono costati anche delle vite umane. Quelle conseguenze pericolose per la tenuta delle nostre comunità si sono già realizzate e non sarà facile tornare indietro: i democratici ci provano, ma i repubblicani gridano alla censura. E chiusi nelle rispettive bolle, gli uni non ascoltano e non capiscono gli altri. 

Quelle fake news inventate dal fascismo. Paolo Fallai su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2022.

Le falsità sono storicamente diffuse anche in Occidente. La differenza è che in democrazia esistono gli strumenti di verifica (almeno nel tempo). 

L’informazione è da sempre un’arma di guerra, usata da tutti gli schieramenti. La differenza tra le democrazie e gli altri sistemi autocratici, sono gli strumenti di verifica e controllo. Non che sia impossibile veicolare falsità anche nel versante democratico e potremmo farne un piccolo elenco di esempi. Ma proprio la conoscenza di tali esempi (le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, le vittime civili nelle azioni militari in Afghanistan e così via) rappresenta il discrimine. L’opinione pubblica occidentale possiede gli strumenti di verifica anche quando i poteri di turno vorrebbero oscurare la verità.

In queste settimane ci siamo domandati spesso cosa sanno davvero i russi della guerra che si sta combattendo in Ucraina e delle atrocità che vi si compiono. Nel campo occidentale nessuno più di noi italiani (e dei tedeschi) conosce altrettanto bene quanto sia forte e duratura questa mistificazione della realtà. Ci abbiamo messo decenni per prendere coscienza dell’orrore dei nostri comportamenti coloniali sotto il fascismo, compreso l’uso di gas contro popolazioni inermi. In compenso l’elenco delle false idiozie sui cosiddetti meriti del ventennio mussoliniano è continuato imperterrito: da «i treni passavano in orario», a quelle più sociali come «Mussolini ha dato la pensione agli italiani», fino ad arrivare al duce «costruttore» che ha realizzato le bonifiche, passando per il capo di Stato abile nella politica estera. Precipitandoci nell’alleanza con Hitler e in una guerra sanguinosa.

Molti libri sono stati scritti su questi temi. Tra gli ultimi, nel 2019, lo storico Francesco Filippi ha pubblicato con Bollati Boringhieri «Mussolini ha fatto anche cose buone – Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo». È un libro documentato, semplice e illuminante. Noi non possiamo dare lezioni al popolo russo, abbiamo sofferto le stesse menzogne. Appena sarà possibile sarà il caso di proporgli una traduzione di questo saggio.

Saviano scivola sulla foto di un bimbo ucraino: è bufera. Mauro Indelicato su Il Giornale il 15 aprile 2022.  

Roberto Saviano nella bufera sui social dopo la pubblicazione di una foto di un bambino ucraino mutilato, nella cui didascalia era presente un riferimento alla guerra attuale. Ma lo scatto, al contrario, è risultato essere fuori contesto e, in particolare, si riferiva al 2015 e al conflitto nel Donbass scoppiato nel 2014.

“Non cercare alibi alla guerra di #Putin è il dovere di chi traccia memoria di questo conflitto – si legge – che si accanisce sui corpi dei civili. Rispettare questo dolore significa non farsi cassa di risonanza della propaganda di Mosca”.

In un articolo su Open è stata resa nota la vicenda. Il bambino ritratto in foto è Mykola Nyzhnykovskyi, un ragazzino rimasto mutilato dopo aver raccolto una granata inesplosa in un campo vicino casa a Mariupol.

Quel campo, si legge nella ricostruzione, durante il conflitto del 2014 era stato trasformato in una zona di addestramento forse, ma non è dato per certo, dell'esercito ucraino. È bene ricordare infatti che Mariupol già nel 2014, all'indomani dello scoppio della guerra tra Kiev e i combattenti separatisti, si è trovata coinvolta negli scontri.

Per mesi le forze ucraine e quelle di Donetsk si sono contese il territorio, prima del definitivo ritiro dei separatisti nell'estate del 2014. Da allora, e fino alla guerra scoppiata nel febbraio 2022, Mariupol è stata saldamente in mano ucraina. Ma gli strascichi di quei primi scontri hanno cambiato per sempre la vita del piccolo Mykola.

Sua e della sua famiglia, visto che il fratellino di appena 4 anni in quell'esplosione avvenuta nel 2015 è rimasto ucciso. Ricoverato a Kiev, il giovane Mykola ha perso entrambe le gambe e il braccio destro.

Poco dopo si è deciso un trasferimento a Montreal. C'era infatti in Ucraina una missione di medici canadesi arrivati anche per operare i soldati ucraini feriti nel Donbass. Viste le condizioni del piccolo Mykola, l'equipe ha deciso di intervenire direttamente in Canada.

Ed è qui che, nel dicembre 2015, è stata scattata la foto poi pubblicata oggi da Saviano. Lo scatto è di Marta Iwanek ed è stato effettuato presso l’ospedale pediatrico Shriners Hospitals for Children di Montreal.

Da allora la foto è diventata simbolo della guerra in Ucraina, ma quella del 2014. Oggi Saviano l'ha usata, come sottolineato su Open e come rimarcato da molti commenti sui social, fuori dal suo contesto. Lo scrittore campano ha pubblicato una foto con la quale ha accusato i russi della guerra, senza però sapere e considerare che lo scatto nulla aveva a che fare con le azioni di Mosca in Ucraina.

Il post su Twitter non è stato rimosso e questo ha attirato su Saviano ancora più critiche. Anche perché i timori di scatti fuori contesto e notizie riprese da ambiti diversi sono molto diffusi in questi giorni di guerra e, soprattutto, di propaganda di ambo le parti in causa.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 14 aprile 2022.

Un movimento, nato su twitter, rivolto ovviamente a audience estere, cinesi ma non solo, il cui scopo è esporre disinfo ops pro-russe in Cina. Si chiama “The Great Translation Movement” e, da un po’, sta facendo discutere nelle comunità che si occupano di queste cose. E sta preoccupando abbastanza la censura cinese. 

Il movimento sostanzialmente traduce i post e le narrazioni più smaccatamente filo-Cremlino circolanti in lingua cinese, sui network cinesi, e le propone appunto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e altre lingue.

Ne vien fuori tra l’altro che alcuni dei post che guadagnano maggior trazione sono provenienti da account che si linkano e rilanciano tra di loro. Ma l’analisi è centrata essenzialmente su cosa dicono. Gli esempi sono non del tutto distanti dal racconto pro russo in Europa. 

C’è un post che descrive l’attacco russo a una stazione ferroviaria di Kramatorsk come fosse stato compiuto dall'Ucraina – attenzione: non tenta falsamente di debunkare il fatto che l’attacco sia russo, lo presenta come un attacco ucraino e basta – un altro in cui un celebre commentatore nega la paternità russa dei crimini contro l’umanità a Bucha, un influencer che ha centinaia di migliaia di seguaci che in un video usa ripetutamente un termine sessista per riferirsi all'Ucraina, facendo leva su un modo di dire usato da alcuni giovani (cose come «prendere Miss Ucraina», o «l'accesso rapido della Russia all'Ucraina in 1 ora»). Sessismo declinato alla fine in chiave pro Cremlino.

Almeno alcuni di questi post – ha spiegato l’amministratore di The Great Translation Movement a Cnn – hanno avuto moltissimo seguito. E del resto incrociano un panorama in cui media di stato cinesi stessi a volte, si lasciano andare a post filorussi tra i quali e richieste di portare giovani donne ucraine in Cina per sposare scapoli cinesi. 

Ma al di là di questo, la Cina non sembra contenta di questa operazione. Anche se il Quotidiano del popolo sostiene che “The Great Translation Movement” ha piluccato qua e là dalla rete cose che non rappresentano un fenomeno organico, e sono fatte da poche persone.

Gli attivisti che sono dietro l’account non nascondono del resto i loro sentimenti anti-regime, che sono facilmente visibili anche nell’equiparazione di Pechino a una sorta di nuovo nazismo. Ciò detto, narrative russe continuano a fiorire pesantemente in Cina, cosa che non entusiasma il regime. 

Gli attivisti (cinesi) del gruppo hanno iniziato a coagularsi attorno agli utenti in un canale subreddit che si chiamava “ChonglangTV”, “faro che sta per sempre acceso”, che qui potete leggere in un archivio web, perché a inizio marzo è stata la stessa censura cinese a chiuderlo: non certo perché Pechino volesse difendere le narrazioni pro Cremlino, ma perché era infastidita che facessero presa su utenti cinesi. In sostanza, la storia incredibile di Pechino che censura dei dissidenti anti-autoritari cinesi, ma perché in realtà sta censurando Mosca e le sue psy ops tentate in Cina. 

Il media statale cinese Global Times ha definito il Movimento «una guerra cognitiva» contro la Cina. Il People’s Daily, «una campagna di discredito anticinese, destinata alla rovina».

Yang Han, uno dei giovani che hanno chattato con quelli di The Great Translation Moviment, ha parlato alla Deutsche Welle e raccontato cosa ha visto quando ha cominciato a entrare nelle chat che venivano sottoposte all’attenzione degli attivisti: erano piene – ha detto – di elogi per Xi Jinping e Putin, disprezzo per le vite perse nella guerra di aggressione e notizie false inventate dal governo russo. In pratica, hanno cominciato a tradurre dal cinese applicando la stessa tattica di tanti account cinesi che traducono in cinese, dall’inglese, il dibattito di Taiwan o Hong Kong, per ridicolizzarlo (account come "Taiwan Stupid" e "Japan Stupid" sulla piattaforma online cinese Weibo). E hanno applicato lo stesso metro alla Russia.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 14 aprile 2022.  

Da sempre, in particolare negli ultimi tempi oscuri, si discute di libertà, parola affascinante, ma abusata ed entrata pertanto nel novero della retorica più vieta. Prendiamo la tragedia della invasione dell'Ucraina, di cui i media si stanno occupando fino alla nausea.

Si dice che i cittadini di quel Paese si battono per la loro libertà, ed è vero. 

Non vogliono avere nulla che fare con la Russia di Putin. Però non si è capito a che libertà aspirino dato che la democrazia della quale hanno goduto fino a ieri è stata abbastanza zoppicante, visto che il regime comunista per decenni ha dominato nell'intera area soggiogando le popolazioni. In realtà la libertà tout court non esiste, è una chimera. Nessuna persona umana nasce libera. I neonati hanno bisogno della mamma, poi di entrambi genitori. Chi va a scuola ascolta gli insegnanti. 

Chi si sposa spesso pende dalle labbra del coniuge. 

La prima libertà da conquistare è quella che affranca dal bisogno, inoltre c'è la libertà di lavoro, quella che consente di tirare avanti in proprio. E veniamo alla libertà di pensiero che non è mai stata tanto minacciata come ora poiché trionfa il pensiero unico, cioè il conformismo impastato con un carico di luoghi comuni. Attualmente corre l'obbligo di uniformarsi alle idee più banali e diffuse. 

A proposito della guerra in corso è obbligatorio, per essere à la page, dire che gli ucraini che affrontano a viso aperto i soldati di Mosca sono eroi perché preferiscono morire piuttosto che soccombere a Putin. 

Siamo alla celebrazione dell'eroismo come valore assoluto. Il motteggio latino, primum vivere, è andato a farsi benedire, sostituito da questo: si vis pacem para bellum (cambierei le ultime due parole con para culum). Alla luce di quello che sta succedendo, affermo che è sciocco battersi alla morte contro un avversario che ti sovrasta.

Anche in Italia, forse in Europa, è passato il principio che la libertà di pensiero è concessa esclusivamente a chi dice che è necessario fornire armi a Zelensky per resistere. 

Se qualcuno invece sostiene che non è lecito rinforzare l'esercito ucraino destinato alla sconfitta, apriti cielo: viene coperto di insulti, censurato. Il professor Alessandro Orsini, che ha idee non conformi alla vulgata di moda, se in tv osa contraddire i soloni sostenitori della necessità di combattere, viene censurato. 

Vietato dichiarare che l'importante è limitare le stragi e quindi la diffusione di carrarmati e roba simile. Io Orsini non lo conosco, l'ho visto solamente sul piccolo schermo, non posso sostenere di condividere ogni sua dichiarazione, tuttavia le sue affabulazioni sono interessanti e le ascolto volentieri, escono da una bocca collegata bene col cervello. Non capisco perché, con tutti i cretini che ingombrano il video, l'unico da espellere sia lui. Evidentemente la libertà di pensiero se non è morta è moribonda.

Dobbiamo ringraziare il battaglione Azov per la resistenza in Ucraina? Vincenzo Sbrizzi, Giornalista Today, il 13 aprile 2022.

Questo pezzo ha nel titolo una domanda, e non è un caso. All'interno non si troveranno risposte, si spera invece spunti di riflessione che diano adito ad ancora altre domande. Perché la guerra è una cosa complessa che rifugge le verità assolute nonostante in molti credano di averle in tasca e facciano di tutto per imporle agli altri. La domanda è: “Dobbiamo ringraziare il battaglione Azov per la resistenza in Ucraina?”. Siamo di fronte a un dilemma etico di non poco conto viste le carte in tavola. Ormai tutti sanno che il battaglione Azov è una milizia ultranazionalista di ispirazione neonazista, un'ispirazione che ha giustificato la propaganda putiniana della “denazificazione dell'Ucraina”. 

Eppure questo stesso battaglione è stato alla base della resistenza ucraina e ha subito numerose perdite, che nel massacro di Mariupol rischiano di scrivere la parola fine sulla sua storia. Forte proprio della sua estrazione nazionalista, è stata una forza che è rimasta sul campo a fronteggiare un'invasione che avrebbe fatto tremare i polsi anche ai moderni eserciti occidentali con la certezza di essere spazzati via prima o poi. Bisogna essere quindi grati a dei neonazisti per ciò che hanno fatto nella difesa di un diritto universale come l'inviolabilità dei confini di uno stato sovrano?

Dei neonazisti che difendono uno dei principi fondanti della democrazia. Un ossimoro in piena regola, eppure la complessità della guerra fa questo e molto altro e riaverla in Europa ci fa fare i conti con ferite mai rimaginate e questioni con le quali non abbiamo mai fatto i conti veramente, forti della pace dentro i nostri confini. Sul Foglio, Giuliano Ferrara ha scritto un articolo in cui, con il suo consueto stile provocatorio, invita a ringraziare il battaglione Azov. Con un paradosso torna indietro alla seconda guerra mondiale e al fatto che l'occidente e il mondo libero abbiano ringraziato un dittatore, Stalin, per averlo liberato da un altro dittatore, Hitler. 

Dal suo punto di vista la benevolenza della storia nei suoi confronti, almeno in quella fase, era dettata dal fatto che era stato il vincitore di quel conflitto e come tale aveva potuto godere dei favori delle lodi. Eppure Stalin si è macchiato di crimini contro l'umanità pari a quelli di Hitler in nome di un'ideologia, o almeno della travisazione di un sistema di valori, esattamente come lui. Per questo, lo stesso atteggiamento di benevolenza e ringraziamento dovremmo averlo anche con i neonazisti dell'Azov. 

Una contraddizione così come tante altre che ci troviamo a vivere nei nostri giorni. Perché la guerra è complessità e non esistono risposte assolute e tutte le semplificazioni sono pericolose oltre che dannose. Non abbiamo risposte assolute nemmeno sul significato della parola “resistenza”. Anche qui ci troviamo di fronte a quelle che sembrano contraddizioni in termini. L'Associazione nazionale partigiani, pur avendo condannato l'invasione russa sin dal primo momento, si è schierata contro l'armamento della resistenza ucraina. 

Gli eredi della resistenza italiana che vanno contro la resistenza ucraina. Non è giusto armare un popolo che vuole difendersi da un oppressore? In Italia è successo perché in Ucraina, invece, non è giusto perché si favorisce l'escalation militare? Anche questa domanda porta in sé un dilemma quasi irrisolvibile che dimostra quanto le posizioni ideologiche siano dannose e quanto i paragoni storici vadano fatti col contagocce perché i contesti cambiano e il rischio di finire in una partita tra buoni e cattivi, nel tifo tra uno o l'altro, sia sempre dietro l'angolo. Come avete visto questo pezzo non porta risposte ma solo domande. Per le risposte basta la fede, per domande serve confronto e ragionamento e sono molto più complicati. 

Un primo passo verso la verità. Claudio Brachino su Il Giornale il 14 aprile 2022.  

Uccisioni mirate, rapimenti di civili, inclusi giornalisti e amministratori locali, stupri, saccheggi. Questa non è la narrazione unica di Zelensky, che tanto irrita molti cervelli nostrani, ma il catalogo delle disumanità raccolte nel rapporto dell'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Un rapporto in cui si accusa la Russia di aver violato i diritti umani e il diritto internazionale nel corso della sua aggressione militare all'Ucraina. Il documento si riferisce soprattutto a Mariupol, città del sud est dove è in corso la sanguinosa battaglia finale, ed era già quasi chiuso quando il mondo ha scoperto gli orrori di Bucha. Su questa dolorosa scena del crimine è arrivato intanto per acquisire delle prove il Procuratore capo della corte penale internazionale. Tre le ipotesi di accusa, crimini di guerra, crimini contro l'umanità, genocidio, parola nuovamente usata da Biden, sempre più avanguardia dell'inconscio della sua diplomazia.

Non siamo alla verità assoluta, ma a passi formali che ci aiutano a uscire da questa terribile dialettica che sembra aver tarantolato la nostra informazione. Appena si crea un flusso di opinione anche basato sul buon senso, subito qualcuno va controcorrente, qualche volta per il doveroso esercizio del dubbio e per sentire le ragioni dell'Altro, molto più spesso per narcisismo e visibilità. Navigare in senso contrario rende, editorialmente, politicamente, commercialmente. Sul piano morale, la discussione sugli orrori di questo conflitto, soprattutto a danno dei civili, è riprovevole. Sul piano filosofico bisogna rileggere il carteggio tra Freud e Einstein dopo la sanguinaria prima guerra mondiale: in certi contesti il Thanatos che è nell'uomo emerge travolgente e im-punito, per questo è difficile il lavoro dei Tribunali internazionali che condannano gli sconfitti della Storia, non i Mostri in flagranza. Sul piano teorico ho già scritto su questo giornale del superamento moderno di McLuhan, il medium spesso non è più il messaggio. L'immagine nel sistema Fake ha perso la sua oggettività, ma tante immagini di tante fonti diverse e con tanti racconti ci portano a un flusso di notizie che è a un passo dalla verità. Quella sì, almeno noi giornalisti, la dobbiamo a quelle povere vittime innocenti.

(ANSA il 13 aprile 2022) - Washington deve "smettere di fare disinformazione" sulle armi chimiche: lo afferma l'ambasciata russa negli Usa, riporta il Guardian. La nota giunge in risposta alle affermazioni di ieri del portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ned Price, secondo cui gli Usa temono che Mosca possa cercare di usare le armi chimiche in Ucraina. 

Washington e Kiev fanno "disinformazione" quando dicono che la Russia potrebbe usare armi chimiche in Ucraina poiche' Mosca ha distrutto le sue ultime scorte chimiche nel 2017, precisa l'ambasciata: "Ned Price si è distinto ancora una volta per i suoi discorsi inutili, non corroborati da una sola prova".

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2022. 

«Non ha senso far morire i nostri soldati con attacchi tra i cinque livelli di tunnel sotterranei della fabbrica», aveva detto il colonnello Eduard Basurin, portavoce degli indipendentisti filorussi di Donetsk, riferendosi alle acciaierie Azovstal in cui è asserragliata la resistenza di Mariupol. «Dobbiamo perciò prima bloccare tutti gli ingressi, poi ci penseranno le armi chimiche a snidare le talpe dalle loro tane».

Ieri gli ultimi difensori della città, i circa 3 mila uomini del battaglione ultranazionalista Azov, hanno accusato i russi di averle lanciate, quelle armi chimiche, usando un drone: tre persone hanno dichiarato in un video di aver avuto i sintomi di una sindrome «vestibulo-atactica», con vomito, bruciore agli occhi, vertigini e insufficienza respiratoria, ma il presidente Zelensky non ha confermato. 

Il Pentagono ha replicato di aver ricevuto i report, ma di non essere in grado di confermare. La stessa cautela è stata usata da molti esperti, alcuni dei quali piuttosto scettici, mentre la Gran Bretagna ha affermato che vi potrebbero essere conseguenze nel caso fosse vero. «Tutte le opzioni sono sul tavolo», ha detto il ministro delle Forze armate britanniche James Heappey.

Al momento non esistono prove dirette, nessuno può verificarlo nell'immediatezza, come ha specificato su Twitter l'esperto Dan Kaszeta, autore di un libro sulla storia degli agenti nervini, secondo il quale è difficile fare una diagnosi da remoto. La città è infatti sotto assedio, senza testimoni indipendenti: per Eliot Higgins, fondatore del sito Bellingcat , i sintomi denunciati non sarebbero inoltre compatibili con agenti nervini. È possibile che gli invasori abbiano utilizzato gas lacrimogeni molto potenti (Cs), che provocano bruciori, vomito, nausea: sono alcuni dei sintomi denunciati. Contengono elementi «chimici», ma non sono armi letali come il gas nervino: l'impatto sul fisico dipende dal tipo, dalla composizione e dall'area.

Le granate Cs (o simili) sono state usate da polizie impegnate in ruolo di anti-sommossa in molti Paesi - anche se sono proibite - e da eserciti in combattimenti «urbani». A Mariupol gli ucraini si muovono infatti in tunnel, gallerie, ambienti ristretti: questa rete difensiva nella zona dell'acciaieria Azovstal ha permesso loro di «tenere» per settimane. Chi attacca, forse, ha provato a stanarli ricorrendo ai «gas».

È chiaro che l'eventuale ricorso a ordigni non convenzionali reali - non i Cs - sarebbe un'escalation pericolosa. Nelle scorse settimane fonti occidentali hanno paventato questo rischio e c'è chi ha chiesto alla Nato di tracciare una linea rossa. Se Mosca la valica, servirà una reazione adeguata. Ma non tutti sono convinti che sia saggio: una volta fissato il confine, poi sei costretto a reagire.

I protocolli dei Savi di Kiev. Dagli zar a Putin, i russi sono sempre stati maestri di menzogne. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 12 aprile 2022.

Un libro di Bigazzi, Fertilio e Germani racconta i meandri della dezinformacija (molto più di fake news), cioè il metodo di distorsione delle informazioni con falsità, depistaggi, invenzioni che è diventato celebre in epoca sovietica e prosegue anche adesso.

“Bugie di guerra, la disinformazione russa dall’Unione Sovietica all’Ucraina” si intitola il libro di Paesi edizioni che esce giovedì e che cerca appunto di ricostruire la continuità di un certo tipo di propaganda.

Il racconto inizia già da una copertina che raffigura la ragazzina simbolo della guerra in Ucraina, immortalata dal padre fotografo il 22 febbraio 2022 – cioè due giorni prima dell’inizio della guerra – con il lecca lecca e il fucile in mano, in attesa dell’invasore russo come fosse una vedetta. «L’autore del manifesto si chiama Oleksii Kyrychenko, ed è il padre della bambina che ha scattato e poi pubblicato sul suo profilo Facebook la foto-simbolo della guerra e dei suoi orrori», spiega l’editore Luciano Tirinnanzi nella premessa del libro. «Perché abbiamo scelto quell’immagine così forte ed evocativa? Non solo per rendere ancora più attuale il contenuto di questo libro, ma anche perché la storia di quella foto resterà a lungo come un caso-scuola della comunicazione visiva e, al tempo stesso, della propaganda politica in tempo di guerra. Che poi è l’oggetto ultimo di questo saggio».

«Mi chiamo Oleksii. Ho una moglie e tre figli. Prima della guerra lavoravo come ingegnere in un’azienda di Kiev. Vivevo nella mia casa in una piccola città vicino a Kiev. La fotografia è il mio hobby. Mi sono diplomato in arte fotografica», ha raccontato il padre. «La tensione nervosa era molto grande nelle ultime settimane prima della guerra. L’Occidente e l’intelligence ci parlavano di una guerra inevitabile, ma per noi era incredibile. Allo stesso tempo, la società occidentale ha dimostrato di essere “preoccupata” ma di non far seguire subito sanzioni contro la Russia. Così ho deciso di fare delle foto che potessero attirare l’attenzione sulla possibile guerra. Desideravo dimostrare come sarebbe potuta apparire l’Ucraina nel prossimo futuro. Come si può vedere, ho scattato questa foto il 22 febbraio 2022, cioè due giorni prima dell’inizio della guerra». La foto della figlia con una caramella e un fucile in un edificio abbandonato. «La pistola è mia, mia figlia non sa sparare. Lei ha 9 anni. Naturalmente, la pistola non è stata caricata durante le riprese».

Racconta Oleksii che lo stesso giorno ha pubblicato la foto su alcuni gruppi Facebook di fotografi stranieri. È stato immediatamente bandito in quelli con amministratori russi, ma anche negli altri gruppi ci sono state dure critiche. «Infine, la foto è rimasta visibile in un solo gruppo. E l’indomani, senza dichiarare guerra, alle 4 del mattino, Putin ci ha attaccato. […]. Alcuni giorni fa, ho caricato questa foto nel gruppo ucraino di Facebook “hobby per la coltivazione di cactus”. E improvvisamente si è diffusa in tutto il mondo ed è diventata un meme. Poi questa foto è stata pubblicata persino da Donald Tusk (grazie, Donald!) nel suo tweet al Parlamento europeo. Ora, l’atteggiamento verso questa foto è completamente diverso, in quanto il mondo ha visto il vero volto dell’invasione russa». 

Osserva Tirinnanzi, «ciò che il fotografo intendeva comunicare, l’indignazione che intendeva suscitare, è dunque arrivato in tutta la sua drammaticità a ciascuno di noi. In modo meno edulcorato e certo non in posa, infatti, simili scene si sono poi verificate puntualmente: il popolo ucraino davvero resiste e arma i suoi figli contro l’invasore russo, per non vederli morire». Che è poi il messaggio esattamente contrario a quello di Alessandro Orsini secondo cui «i bambini possono vivere bene anche sotto una dittatura», efficacemente volgarizzato da Crozza nel concetto «e hanno anche meno carie, perché con la fame non abusano di zuccheri».

Il libro è poi diviso in tre parti. “Dezinformacija. La strategia del Cremlino dall’epoca sovietica alla Russia di Putin” è a cura di Luigi Sergio Germani: direttore scientifico dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici, ed esperto di politica interna ed estera russa, con particolare riferimento alle strategie di guerra ibrida e servizi d’intelligence russi. «Sin dall’antichità la disinformazione come strumento di potere costituisce un argomento centrale del pensiero politico e strategico», ricorda. «E ciò vale sia in Oriente che in Occidente. Basti pensare ai trattati di strategia militare dei pensatori dell’antica Cina – e in particolare lo stracitato Sun Tzu, secondo cui “tutta la guerra si basa sull’inganno” – che sottolineano l’importanza di confondere la mente del comandante nemico e demoralizzare le sue truppe».

Ma la Russia in ciò ha raggiunto delle vette. Già in epoca zarista, se si pensa al modo in cui l’allora servizio segreto Ochrana fabbricò il famigerato falso antisemita dei “Protocolli dei Savi di Sion”. Ma in epoca sovietica a tal punto la fama del know-how sovietico in materia crebbe che “Dezinformacija” divenne un termine internazionale. Faceva parte «di una categoria più ampia degli strumenti utilizzati da Mosca – le cosiddette “misure attive” (aktivnye meroprijatija) – per creare divisioni e instabilità all’interno del mondo occidentale, e fiaccare sempre di più la sua volontà di fronteggiare la sfida sovietica a livello militare». Così furono diffuse ad esempio le voci che il virus Hiv/Aids era stato creato dal Pentagono nell’ambito di un progetto di ricerca sulle armi biologiche svolto nella base militare di Fort Detrick, nel Maryland; che la Cia aveva assassinato John F. Kennedy, Martin Luther King, Olaf Palme e Indira Ghandi; che il Pentagono avrebbe prodotto un’arma «etnica» in grado di uccidere solo le persone di colore ed innocua per i bianchi; che bambini sudamericani verrebbero cresciuti e ingrassati per fornire organi umani destinati al mercato americano; che la Cia e i servizi segreti italiani avrebbero appoggiato le Brigate Rosse e le formazioni terroristiche di estrema destra in Italia nell’ambito della «strategia della tensione».

Non era però solo verso l’esterno ma anche verso l’interno: «il controllo dell’informazione consentiva al regime sovietico di sopprimere l’autonomia della società civile, impedendo ai cittadini di costituire delle comunità indipendenti dal Partito-Stato, assicurando così la completa sottomissione della società e degli individui all’apparato di potere». È «un’eredità che la Russia di Vladimir Putin ha ereditato e applica ancora oggi alla lettera», anche perché nell’era della Rete e dei Social vi sono opportunità in passato sconosciute. Gli «hacker patriottici» diventano a loro volta uno strumento essenziale. Sono tutti strumenti di guerra non lineare che il Cremlino ha scatenato fin dall’inizio della crisi ucraina nel 2014. Nella propaganda anti-ucraina sono stati utilizzati tra loro elementi chiaramente in contraddizione: definire il governo di Kyiv «nazista» è ad esempio non omogeneo al definirlo «asservito a lobby gay», dal momento che i nazisti gli omosessuali li mandavano nei lager.

È lo stesso che sì è visto al momento dell’abbattimento del volo MH17 Amsterdam-Kuala Lumpur della Malaysia Airlines da parte di un missile dei separatisti filo-russi del Donbass, quando fonti russe hanno diffuso le tesi sia che il missile fosse stato lanciato dagli ucraini e/o che fosse stato un missile israeliano; sia che fossero stati invece caccia ucraini, o Usa, o Nato; sia che c’era una bomba a bordo. La stessa eterogeneità di tesi che abbiamo visto sui cadaveri di Bucha, di cui le fonti russe hanno sostenuto sia che fossero in realtà attori; sia che fossero stati messi dopo; sia che fossero stati uccisi dagli ucraini. Come spiega Germani, «per i tecnici della disinformazione del regime putiniano, …l’idea della verità è irrilevante. Anzi, un obiettivo della disinformazione russa di oggi è sovvertire il concetto di “verità” e accreditare l’idea che non esiste una versione “vera” degli eventi, allo scopo di paralizzare il processo decisionale del target cui si mira. Quindi, la disinformazione russa oggi mira non tanto a prima parte persuadere il pubblico di destinazione a credere a una tesi precisa, ma piuttosto punta a creare confusione cognitiva, a mettere in dubbio le narrazioni occidentali, a relativizzare e screditare il concetto di “verità” facendo passare l’idea che esistano “molteplici verità” e che tutta l’informazione è manipolata, da qualunque parte essa provenga». Un po’ quello che si è visto sulle polemiche No Vax, infatti pompate a loro volta dai troll putiniani.

“La guerra fredda e l’ingerenza russa in Italia”, la seconda parte, è di Francesco Bigazzi: già direttore dell’Ansa, poi corrispondente del Giorno e di Panorama, è stato collaboratore di numerose riviste scientifiche, settimanali e quotidiani. Dal 2004 al 2009 addetto stampa e cultura presso il consolato generale di San Pietroburgo, è uno dei massimi esperti italiani del dissenso dell’Est europeo. Anche lui ricorda come «L’importanza della dezinformacija cresce enormemente negli anni del terrore staliniano, fino a diventare uno dei settori più importanti dell’attività del Kgb. Nel momento stesso in cui Felix Dzerzhinsky decide di dare vita alla Čeka, ritiene indispensabile creare contemporaneamente un Ufficio disinformazione. Del resto, proprio quando Stalin, nella primavera del 1946, intende riorganizzare il Kgb, ecco che nel nuovo organico viene inserita un’apposita struttura specializzata nel lavoro di disinformazione. In questa nuova Direzione è previsto che agiscano di concerto la sezione “DN” e il Gruppo speciale per missioni particolari presso il ministero della Sicurezza di Stato».

Nel tracciare questa storia, Bigazzi dedica un ampio spazio alle risorse investite nell’editoria. «Non è un caso che una parte molto rivelante dei finanziamenti del Pcus ai partiti “fratelli” abbia finito per essere convogliata nel settore propaganda. Le case editrici “sorelle” sin dagli anni Cinquanta cominciano a ricevere somme di denaro sempre più grandi. L’appetito verrà mangiando. Per soddisfare la sete di denaro della stampa non solo “sorella”, ma anche “amica”, si escogitano nuovi sistemi di finanziamento, sempre più sofisticati. Al punto che i loro corrispondenti stranieri dalla fine degli anni Cinquanta, nel vano tentativo di sviare i sospetti, vengono foraggiati nientemeno che con i soldi fatti versare dalla Croce rossa e dalla Mezzaluna rossa».

Nel ricostruire vicende di rapporti con vari gruppi editoriali italiani, «a dir poco singolare» viene definita «la vicenda del quotidiano Paese Sera che riesce, con metodi oltremodo sbrigativi e al limite del ricatto, a ottenere un ultimo finanziamento alla vigilia del crollo. Come si può leggere in un documento di cui chi scrive è entrato in possesso, il Pcus autorizza il pagamento di 900 milioni di lire alla testata per la seguente motivazione: «Il compagno “N” [il cui nome non viene rivelato perché al momento in cui viene mandato in stampa questo libro si trova sotto inchiesta giudiziaria, nda] è estremamente convincente quando afferma che potrebbero emergere “rivelazioni scandalose a proposito degli organismi, delle proposte e delle persone che impartivano ordini”». Cioè, o pagate, o diciamo che ci avete pagati!

C’è d’altronde un altro documento, del 17 gennaio 1983. «In conformità alla delibera del Cc del Pcus del 22 maggio 1982 è stata prestata un’assistenza finanziaria alle forze sane del Partito comunista italiano (Armando Cossutta). Questo ha permesso loro di acquistare il pacchetto azionario di controllo del quotidiano Paese Sera, di sostituire il direttore del giornale e alcuni corrispondenti esteri. Il passaggio di questo quotidiano, largamente conosciuto in Italia, nelle mani del compagno Armando Cossutta e dei suoi amici schierati su posizioni marxiste-leniniste e in rapporti di amicizia con l’Urss, permetterà al giornale di fornire una corretta interpretazione della politica estera e interna dell’Unione Sovietica e di contribuire alla propaganda delle conquiste del socialismo reale, del movimento comunista internazionale e del movimento operaio italiano, con ampia eco anche in altri Paesi capitalistici. Per poter proseguire la pubblicazione del giornale, gli amici stanno facendo ogni sforzo per raccogliere i mezzi a loro disposizione. Nel contempo il compagno Armando Cossutta chiede che venga fornito da parte nostra un aiuto urgente (telegrammi cifrati Kgb da Roma prot. Spec. 2994 dell’1 dicembre e prot. Spec. 3333 del 26 dicembre 1982). Secondo gli amici un tale aiuto potrebbe essere preteso vendendo loro, con una usuale transazione commerciale in valuta, 600 mila tonnellate di petrolio e 150 mila tonnellate di carburante per motori diesel, ma applicando condizioni di favore – una certa diminuzione dei prezzi (1% circa) e una maggiore rateazione dei pagamenti (3-4 mesi invece del mese solitamente concesso). Sarebbe opportuno soddisfare la richiesta summenzionata degli amici italiani affinché questi possano ottenere dalla transazione commerciale circa 4 milioni di dollari. Boris Ponimariov». Direttore del Dipartimento internazionale del Pcus dal 1955 al 1986.

“Le tecniche moderne: cyber disinformazione e giornalismo collettivo”, cioè la terza parte, è infine di Dario Fertilio: giornalista, scrittore, docente di Teorie e tecniche della comunicazione giornalistica all’Università Statale di Milano, e con Vladimir Bukovskij ideatore di Memento Gulag, giornata della memoria per le vittime dei totalitarismi che si celebra il 7 novembre. Ci ricorda che una novità apportata da Putin nella storia della propaganda e della guerra parallela è consistita nella invenzione di «una vera e propria fabbrica di troll». «Ovvero, nel gergo di Internet, utenti anonimi di una comunità virtuale, che intralcia il normale svolgimento di una discussione inviando messaggi provocatori, irritanti o fuori tema».

«Nota in Occidente come Internet research agency (Ira), la Agenstvo Internet Issledovanij è la principale fabbrica di troll russa. Si sviluppa rapidamente, impiegando già nel 2015 più di mille dipendenti nella sede centrale di San Pietroburgo, quartiere di Olgino, allungando i suoi rami operativi su un’area vasta e difficilmente controllabile (dal momento che molti collaboratori lavorano su pc remoti in differenti località)». «Qualche fuga di notizie e vari studi di contro-intelligence europea e americana permettono di conoscere diversi particolari organizzativi della “fabbrica di troll”: persino gli stipendi accordati alle reclute, che pur aggirandosi su appena 700-800 euro al mese, costituiscono comunque un reddito allettante per un cittadino medio in Russia. Ogni membro dell’agenzia ha il compito di crearsi alcuni account falsi, dai quali diffondere una quantità fissa giornaliera d’informazioni fittizie o inquinate su argomenti sensibili per la politica estera di Mosca».

«Quali? Sostenere la legittimità dell’occupazione della Crimea ucraina; la guerra contro Kiev; influenzare la politica americana (il che avviene per la prima volta in occasione delle elezioni presidenziali che portano all’elezione di Donald Trump)». La supervisione del commando di manipolatori in rete spetterebbe a un amico personale del presidente Putin, Vyacheslav Volodin, già presidente della Duma. «L’efficacia di questa fabbrica della disinformazione risiede essenzialmente nel coordinamento delle attività: una volta individuato il bersaglio, si procede all’invasione di siti, blog e social network, diffondendo notizie allarmanti e manipolate (come l’inesistente esplosione di una fabbrica chimica in Louisiana). Oppure critiche all’opposizione interna russa (segnatamente nei confronti del dissidente Aleksey Navalny). O ancora elogiando l’azione di Vladimir Putin e di Mosca, prima durante la guerra in Siria, al fianco del presidente Bashar al Assad, e poi al momento dell’invasione in Ucraina. «Normalmente i troll utilizzano per comodità i contenuti propagandistici diffusi da agenzie controllate dal Cremlino – come Russia Today o Sputnik News – ma in alcune circostanze confezionano anche prodotti più sofisticati, come nel 2015 il video falso, interpretato da un attore, in cui un soldato americano sparava platealmente contro un Corano».

All’attenzione mondiale è arrivata in particolare l’attività di questi troll in occasione della campana elettorale Usa del 2016, ma non sono mancate operazioni in Italia. Dall’offensiva contro Mattarella, con un hashtag sostenuto da centinaia di profili che ne chiedevano le dimissioni, ai commenti sulla operazione «Dalla Russia Bugie di guerra con amore»: la missione sanitaria mandata nell’Italia in preda alla pandemia all’epoca presentata come operazione umanitaria, di cui alla fine sono saltati fuori pesanti retroscena non solo propagandistici ma addirittura spionistici.

Ecco tutte le fake news dei russi per coprire i massacri. Alessandro Ferro su Il Giornale il 10 aprile 2022.

In ogni guerra, in ogni conflitto, la vera verità non è mai al 100%: propaganda, fake news, esagerazione e qualsiasi altro aggettivo fanno parte integrante dello scontro. La prima cosa inconfutabile di quanto succede in Ucraina, però, è che Putin abbia invaso deliberatamente il Paese di Zelensky, e chi trova giustificazioni per qualcosa del genere mente sapendo di mentire. L'invasore, però, ha raccontato e racconta a se stesso e alla propria gente una serie di panzane inenarrabili, al limite del ridicolo, convincendosi e provandosi a convincere che le cose vadano esattamente come dicono loro. I russi di Putin stanno commettendo una serie di violazioni incredibili che vanno contro tutte le regole di guerra, dalle Convenzioni di Ginevra allo Statuto di Roma oltre ad altre leggi e accordi internazionali, molti delle quali la Russia stessa è firmataria. Ecco come smonteremo pezzo per pezzo le frottole raccontate dall'informazione (finta) putiniana.

Il bombardamento degli edifici

"L'esercito russo non colpisce i civili", ha affermato più di un commando militare russo: ma è credibile, una cosa del genere, di fronte a decine di migliaia di condomini bombardati in giro per l'Ucraina? Obiettivamente sarebbe stato meglio tacere. Quella che hanno chiamato "missione militare speciale" riguarda non soltanto obiettivi sensibili ma la stessa incolumità dei civili. Come abbiamo scritto sul Giornale.it, "gli oggetti civili non devono essere oggetto di attacco o di rappresaglia. Gli attacchi devono essere strettamente limitati a obiettivi militari", recita l'Art.52 del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra dell'8 giugno 1977. Questa sezione si concentra sui selvaggi attacchi della Russia contro edifici e infrastrutture civili. I russi stanno bombardando case familiari tranquille, ospedali dove le persone stanno già combattendo per la propria vita. Asili, scuole e persino rifugi antiaerei. Ed è la prima, grossa, fake news alla Putin.

Il numero dei russi uccisi

Come abbiamo visto sul nostro Giornale, una delle propagande più becere che la Russia porta avanti dal 24 febbraio riguarda i caduti sul campo di battaglia: quanti sono esattamente? Se, certamente, gli ucraini montano i decessi per eccesso, i russi li montano per difetto. Tra le 1.300 perdite complessive che dichiara il Cremlino e le 19mila dichiarati dall'Ucraina c'è una bella forbice che non può mai essere né a favore del primo numero e neanche del secondo. Questo significa che i russi hanno subìto ingenti perdite, molto più gravi delle previsioni, e che si cerca di nascondere ad arte quanto accaduto con dietrofront, smentite, accuse. Una disinformazione a prova di Putin, che nel suo Paese chiude le redazioni contro il regime.

La fake news dell'ospedale

Una delle cose più gravi accadute finora è lo scempio che hanno provocato i russi nell'ospedale di Mariupol, città devastata e rasa al suolo. Come sottolinea il Corriere, lo stesso Cremlino ha risposto con tesi diverse: prima ha sostenuto che l'edificio fosse vuoto di pazienti e pieno di "neonazisti del Battaglione Azov". Poi, accortosi che non esistono resti militari, ha inventato la balla della recita. Una recita? Ma neanche un bambino di 5 anni crederebbe alla "recita". L'ambasciata russa a Londra bolla come "fake" una delle gestanti, "È una beauty blogger ingaggiata per recitare in due parti". Una ragazza partorisce, l'altra muore. La prima viene intervistata dai media filorussi che titolano sull'"imbroglio dell'ospedale". Però, le parole della sopravvissuta sono ben diverse da quelle raccontate da Mosca e la versione russa viene smentita, e zittita. La neomamma, infatti, ha raccontato ogni momento del vero bombardamento e della vera morte dell'altra donna.

Gli orrori a Bucha

L'altra follia a cui abbiamo assistito in questi giorni è la negazione di quanto accaduto a Bucha, città degli orrori che al momento conta 360 civili uccisi e molto bambini. "I cadaveri che vedete sulle strade di Bucha non esistevano prima che i soldati russi arrivassero. Cioè se ne andassero": il lapsus freudiano dell'ambasciatore russo all'Onu, Vasily Nebenzy, è veramente la punta dell'iceberg delle frottole. Come quando si parlava dell'ospedale che, secondo la versione russa, si trattava di manichini, morti finte, non persone vere in carne e ossa. Anzi, in realtà corpi presi chissà da dove per "una messinscena ben organizzata" come ha affermato il portavoce dello zar, il fedelissimo Dymitri Peskov. A incastrare ulteriormente i russi anche le immagini dei droni, dall'alto, a mostrare lo scempio compiuto ovunque. Ma neanche quelle servono a far ammettere qualcosa.

La strage di Kramatorsk

Infine, la strage compiuta nella stazione di Kramatorsk dove 50 innocenti sono morti, era stata anche questa premeditata dai russi: due missili cadono tra gli sfollati in attesa del treno, si viene a sapere della notizia della strage ma un canale Telegram filorusso cancella il post di pochi minuti prima dove si annunciava un attacco missilistico con tanto di post: "vedranno l'inferno". Il Cremlino probva a buttare la questione sul tipo di missile, non prodotto da Mosca e che si tratta di una "provocazione per addossarci la colpa". I missili SS21 (classifica Nato) sono assolutamente in uso tra le forze filorusse del Donbass, lo sanno tutti. Putin, però, è così convinto che gli Occidentali siano scemi da raccontarne una al giorno. Ma il tempo, lo sappiamo, saprà essere galantuomo.

Antonio Riello per Dagospia il 18 aprile 2022.

Nei campi di battaglia Ucraini stanno spuntando, da entrambe le parti, delle trovate tattiche che, involontariamente, assomigliano a delle creazioni di Arte Contemporanea. Naturalmente non sono opere d'Arte, ma espedienti improvvisati per ingannare il nemico in una guerra tanto tragica quanto assurda (ammesso che ne esistano di non assurde). 

Nelle lingue slave c’è un termine che genericamente definisce questo tipo di attività di disinformazione militare: “Maskirovka”.  Si vedono immagini di pseudo-spaventapasseri vestiti di tutto punto da combattenti - giubbotto antiproiettile incluso - che sembrano impugnare minacciosi lanciamissili Stinger Americani o Strela Russi (vengono subito alla memoria le installazioni di Yinka Shonibare).

Altrove compaiono delle normalissime e acciaccatissime automobili sulla cui carrozzeria sono sommariamente legate delle cassette di legno verde militare (in guisa di corazzatura) e sul tettuccio invece sono saldate delle sbarre metalliche: dovrebbero confondere gli occhiuti droni e suggerire alla ricognizione nemica la presenza di potenti mezzi corazzati lanciarazzi (per l’appassionato museofilo il richiamo immediato è: un po’ Pino Pascali e un po’ Tom Sachs). A qualcuno potrebbero tornare a mente perfino i concettuali finti vegetali plasticosi di Piero Gilardi.

Ma nascondere, mascherare, ingannare è un problema comune a tutti i conflitti moderni, soprattutto a partire dalla Grande Guerra. E di fronte alla stringente necessità bellica anche il talento artistico può essere molto utile. 

In fondo, a dispetto della rituale "irrinunciabile ricerca della Verità", mostrare una cosa facendola passare per un'altra è uno dei classici trucchi del mestiere del pittore... Fu la Francia, nel 1914, la prima nazione che arruolò gli artisti nel loro ruolo di "creativi" e non solo come semplici combattenti.

L’artista Lucien-Victor Guirand De Scévola e lo scenografo Louis Guingot furono i responsabili della “Section de Camouflage de l’Armée” che gestiva vari atelier, a Parigi e nella zona del fronte. Lo scultore Henri Bouchard diede il suo contributo così come il disegnatore Georges d’Espagnat (che progetterà la prima tuta mimetica della Storia). 

Il nome di maggior rilievo è comunque Ferdinand Léger. Ma sono i pittori cubisti, soprattutto André Mare, Jacques Villon (fratello di Marcel Duchamp), Roger de La Fresnaye, quelli che apportano i maggiori contributi alla causa. La poetica cubista, che disarticola otticamente prima la forma e poi lo sfondo, è infatti la più funzionale agli scopi del mimetismo militare.

Lo stesso Picasso è tirato in ballo, Jean Cocteau scrive che in una conversazione privata l’artista spagnolo disse “per rendere invisibile un esercito bisogna vestirlo da Arlecchino” (ovvero frammentare in qualche modo la riconoscibile sagoma anatomica; non a caso il sinonimo inglese per camouflage è proprio “Distruptive Pattern”).

Alla fine un vero e proprio arsenale di inganni vede la luce: finti alberi in metallo dove nascondersi per spiare il nemico, manichini in gesso e cartapesta per ingannare la ricognizione, armi fasulle in legno e ogni genere di telone capace di far sparire dalla vista accampamenti e cannoni di grosso calibro. Non mancano naturalmente soluzioni ingenue e strampalate (come del resto accade canonicamente nell'Arte).

Gli inglesi impiegano gli artisti principalmente per cercare di rendere le loro navi un bersaglio meno facile per i siluri dei sottomarini tedeschi. L’illustratore Norman Wilkinson inventa nel 1915 un sistema di linee che spezza la forma visibile (e facilmente riconoscibile) tipica di ogni naviglio militare. Capirne da lontano la forma e calcolarne la velocità diventa così un difficile rebus.

Il risultato è qualcosa che assomiglia allo schema (un po più ingarbugliato) delle righe della zebra e che verrà comunemente chiamato “Razzle-Dazzle”. Solomon Joseph Solomon, un pittore di Londra, apre addirittura una “scuola di camouflage” in Hyde Park.

Ma anche l’Impero Germanico non sta fermo. Ingaggia Franz Marc, uno dei fondatori del Blaue Reiter e a ragione considerato il padre nobile dell’Espressionismo Tedesco. L’impegno si concentra particolarmente nel colorare gli aeroplani, con delle efficaci rese cromatiche effettivamente di sapore molto artistico. Marc riesce a lavorare per poco tempo perchè nel 1916, a Verdun, lo scoppio di una granata lo uccide.

Qualcosa di simile accade anche durante la seconda guerra mondiale. I più attivi su questo fronte sono comunque i Britannici che mettono in piedi un’unità di scenografi, prestigiatori, registi, ingegneri e artisti, che ottiene molti rimarchevoli successi dal Nord Africa alla Normandia. Le figure più significative sono quelle dell’artista Roland Penrose (esponente di punta del Surrealismo Britannico), del designer Oliver Messel e del regista Geoffrey de Gruchy Barkas.

Fanno diventare i carri armati degli innocui camion e viceversa, inventano armate inesistenti fatte di sagome pneumatiche, nascondono interi aeroporti, celano fabbriche e inventano falsi bersagli per i bombardieri nemici (in stile David Copperfield, l'illusionista). Insomma simulano e trasformano davvero di tutto, come se stessero facendo delle (ingannevoli e geniali) installazioni per qualche esigente museo all’aperto.

Tornando alle guerre di adesso, l'idea che abbiamo è che gli artisti le osteggino drasticamente e non abbiano nessuna intenzione di mettere la propria arte al servizio dell'una o dell'altra parte. Così almeno sembrerebbe. 

Ma in quel complicato sottobosco creativo (che è stato a lungo solo contiguo all'Arte Contemporanea ma che comunque ne diventa sempre più parte integrante, complice l'Arte NFT) fatto di hackers, smanettoni, animatori, graphic designers, mataversonauti le cose potrebbero essere facilmente molto diverse. 

In questi territori digitali mettere a frutto le proprie capacità per produrre "contro-informazione" - soprattutto nel 2022 - è l'equivalente di disegnare schemi mimetici durante la Prima Guerra Mondiale.

Da quanto vediamo quotidianamente, l'interpretazione (e la manipolazione) delle vicende belliche sui social è ormai un fronte primario, non meno importante di quello terrestre. Gli audio-video sulla guerra in Ucraina, che con orrore incontriamo di continuo sui nostri telefonini, hanno quasi per certo l'abile zampino di più di qualche patriottico "giovane creativo".

Le fake news sulla guerra in Ucraina, tra crimini veri e ricostruzioni artefatte: l’isola dei serpenti, l’ospedale di Mariupol, Bucha, la stazione di Kramatorsk. Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 9 Aprile 2022.

La disinformazione ha provato molte volte a inquinare la scena: dal caso dei 13 doganieri ucraini che si opposero alle navi russe, fino alla «nebbia» di Mosca per nascondere le stragi di civili.

Esercitare il dubbio davanti ad ogni notizia che viene dai campi di battaglia è doveroso, perché l’inganno è parte integrante delle strategie militari. Mentire serve a sostenere la propria immagine e a indebolire quella del nemico. Propaganda? Di più. Gli americani, sempre sistematici nell’approccio, ragionano in termini di Psychological operations, che in sostanza significa raccontare panzane miste a verità per indirizzare «le emozioni del pubblico, il suo ragionamento razionale e in ultima analisi le decisioni dei governi».

Non è facile smontare le fake news quando a costruirle sono Stati, con budget milionari e tecnologia d’avanguardia. Ci si può arrivare dopo anni, ma nel frattempo le guerre che hanno aiutato ad attizzare hanno già fatto migliaia di morti. È successo per due volte ai danni di Saddam Hussein con le inesistenti incubatrici rovesciate nel 1990 e l’altrettanto fantasmatica antrace del segretario di Stato Colin Powell nel 2003. Chi è senza peccato, quindi, scagli la prima pietra, però il dibattito sulle responsabilità russe negli orrori della guerra ucraina resta grottesco .

Un comando militare, che afferma «l’esercito russo non colpisce i civili», non è credibile davanti a decine di migliaia di condomini bombardati . Si qualifica da sé un governo che chiama «operazione militare speciale» l’invasione di uno Stato sovrano, un blocco navale, una campagna missilistica e di bombardamento aereo da migliaia di tonnellate di tritolo; un Paese che intende «denazificare» il vicino quando questi ha un presidente ebreo e una florida comunità giudaica.

Ogni singolo episodio conserva margini di dubbio perché la propaganda galoppa anche da parte ucraina. Se la Russia ammette solamente 1.300 perdite, sono poco credibili anche i 19.000 nemici uccisi dichiarati dall’Ucraina. La tendenza di Kiev è di esagerare. Parlare di genocidio invece che di vittime di guerra, è l’esempio che ha fatto inalberare Israele. Ma resta il fatto che l’Ucraina è sotto attacco (vero) e la Russia è l’aggressore (vero).

L’isola dei serpenti

La disinformazione ucraina più riuscita. Tredici doganieri su un’isola del Mar Nero rispondono all’ultimatum di un incrociatore con un impavido «Nave da guerra russa vai a farti fottere». La conversazione radio diventa virale. Kiev alza la cifra dei resistenti a 87. A sera, il presidente Zelensky annuncia che la guarnigione è stata sterminata e dichiara i doganieri «eroi dell’Ucraina». La frase appare su adesivi e spilline. Diventa uno slogan. Pochi danno ascolto ai russi che parlano di resa. Settimane dopo i 13 ricompaiono in uno scambio di prigionieri. Ormai però la fama di coraggiosi ucraini si è cristallizzata. La propaganda ha funzionato.

L’ospedale di Mariupol

Davanti allo scempio dell’ospedale di maternità, il Cremlino reagisce con tesi diverse. Prima sostiene che l’edificio fosse vuoto di pazienti e pieno di «neonazisti del Battaglione Azov». In assenza di resti militari visibili, cambia e dice che si tratta di una recita. L’ambasciata russa a Londra, non un troll qualsiasi, bolla come «fake» una delle gestanti: «È una beauty blogger ingaggiata per recitare in due parti». Una ragazza partorisce, l’altra muore. La prima ricompare intervistata dai media filorussi che titolano sull’«imbroglio dell’ospedale». Ad ascoltare la sopravvissuta, però, la smentita è per la versione russa. La neomamma, infatti, racconta sia il bombardamento (vero) sia la morte dell’altra donna (vera).

Gli orrori di Bucha

«I cadaveri che vedete sulle strade di Bucha non esistevano prima che i soldati russi arrivassero. Cioè se ne andassero». Il lapsus dell’ambasciatore russo Vasily Nebenzya all’Onu è la punta dell’iceberg. Come nel caso dell’ospedale, quando si scoprono le centinaia di civili morti a nord di Kiev la versione russa evolve. Non c’erano. Sono manichini. Anzi corpi raccolti da chissà dove. Insomma «una messinscena ben organizzata» (cit. Dymitri Peskov, portavoce di Putin). Neppure le immagini dei droni, le registrazioni geolocalizzate dei soldati russi che dialogano sugli eccidi, servono a far ammettere qualcosa.

La stazione di Kramatorsk

Un canale Telegram annuncia un attacco missilistico delle forze filorusse del Donbass contro le postazioni nemiche. «Vedranno l’inferno». I canali tv russi lo riprendono mostrando anche le due scie bianche alle 10:13. Pochi minuti dopo, due missili cadono tra gli sfollati in attesa del treno. Si sparge la notizia della strage. Il canale Telegram cancella il post. Mosca sfoggia comunque sicurezza: «Non produciamo quel tipo di missile, è una provocazione per addossarci la colpa». I missili SS21 (classifica Nato) sono in uso alle forze filorusse del Donbass. Al Cremlino non importa convincere chi cerca di informarsi, ma creare abbastanza nebbia per chi non vuol vedere.

La guerra, le menzogne e il diritto alla verità. Maurizio Ferrera su Il Corriere della Sera il 9 Aprile 2022.  

Fra i tanti danni del conflitto c’è anche l’indebolimento della capacità critica nell’uso dell’informazione, che può diventare il primo passo in direzione della democrazia illiberale. 

Datemi un po’ di verità: così cantava John Lennon nel 1971, nella fase più tetra della guerra in Vietnam. Le atrocità di quel conflitto avevano smosso l’opinione pubblica americana. Registrazioni e documenti inediti stavano rivelando le menzogne di Richard Nixon, che due anni dopo fu costretto a dimettersi per lo scandalo Watergate. Le democrazie non sono sempre innocenti: ma, come diceva Norberto Bobbio, sono case di vetro, i cittadini hanno gli strumenti per chiedere conto ai governanti delle proprie azioni. A volte i vetri si appannano, ma quando ce ne accorgiamo possiamo ripulirli.

Le guerre producono una nebbia che rende particolarmente difficile stabilire come siano andate le cose. Non per questo dobbiamo rinunciare alla verità. Gli eventi «in sé» — come il recente massacro di Bucha — evaporano dalla realtà nel momento in cui accadono. Ma lasciano tracce accessibili (macerie, cadaveri, foto, video, testimonianze, documenti) che sono indipendenti dal nostro pensiero e ci costringono a usarlo. Il che significa innanzitutto non negare l’evidenza, e men che meno nasconderla. Una guerra non può essere chiamata «operazione speciale».

Confutare l’esistenza di perdite e massacri, celare o distorcere le informazioni che arrivano all’opinione pubblica russa non è solo propaganda: è creare ad arte una barriera che impedisce l’uso dello stesso concetto di verità. Si tratta di una caratteristica tipica di tutti i regimi autoritari, che funzionano come macchine di falsità: si reggono su censura, repressione, indottrinamento di massa. Non è un caso che nelle manifestazioni di piazza che accompagnarono la caduta dei regimi socialisti dell’ex blocco sovietico la gente mostrasse cartelli con la scritta «verità», come era già successo in Argentina, Cile o Sudafrica nei processi di transizione alla democrazia.

Le tracce lasciate dagli eventi ucraini (l’ultimo, terribile, è stato il bombardamento della stazione di Kramatorsk) possono non essere sufficienti per stabilire con indubitabile certezza «chi è stato». Del resto lo stesso Zelensky ha promesso indagini volte ad appurare eventuali responsabilità del proprio esercito. Per ora possiamo solo esprimere opinioni. Che però non sono tutte uguali. Alcune sono fondate, esprimono un sincero collegamento — per quanto imperfetto — fra ciò che si sostiene e la realtà. Dico che il massacro di Bucha sia stato perpetrato dai russi perché ho letto il racconto di un testimone diretto. Altre opinioni si limitano a esporre un punto di vista privo di riscontri. Altre ancora partono dal presupposto che non si possa parlare di verità, oppure che ce ne siano tante e tutte valide. E infine ci sono le menzogne belle e buone. Come quelle di un recente video russo apparso su YouTube che mostra, niente meno, un cadavere di Bucha che si alza trenta secondi dopo il passaggio di un’auto. Un’analisi della Bbc ha stabilito che si tratta di un effetto ottico: il cadavere «resuscita» solo nello specchietto retrovisore dell’auto, in una immagine riflessa dove anche gli edifici si piegano di lato.

Una ricostruzione seria e affidabile dei crimini commessi in Ucraina sarà possibile solo dopo la fine della guerra, in base alle procedure del diritto internazionale. Accertare ciò che è accaduto «secondo verità» è importante non solo a fini di conoscenza, ma anche di giustizia. Il filosofo Michael Walzer ha giustamente detto che le società umane non possono sopravvivere senza una «moralità minima» del vero, ossia un impegno condiviso e incomprimibile a mantenere ben saldo il nesso fra ciò che ci comunichiamo l’un l’altro e il mondo esterno (anche se fosse solo in una quota «minima»). Franca D’Agostini (una delle più note studiose di teoria della verità) ha proposto di istituire un vero e proprio sistema di diritti «aletici», che tutelino il bisogno fortemente sentito di non essere ingannati.

La democrazia è una condizione necessaria, ma non sufficiente per salvaguardare la moralità minima del vero. L’abbiamo visto in queste ultime settimane in Italia, dove il dibattito pubblico, a volte, sembra smarrire il senso della distinzione fra vero e falso. Ascoltando i talk show, si rimane sconcertati dalle evidenti falsità dei giornalisti russi (i massacri come messinscene, il diniego delle perdite subite) ma anche dall’equidistanza «di principio» di alcuni partecipanti italiani, dalla partigianeria di altri. La verità è un bene politico fondamentale, che va difeso non solo contro gli autocrati, ma anche contro la democrazia ingenua del «secondo me». E naturalmente dall’assedio delle fake news e dall’esplosione della cosiddetta post-verità, soprattutto nella sfera dei social media.

La libertà di espressione è sacra in una società liberale. Secondo i classici del liberalismo (a cominciare da Stuart Mill) questa libertà è un anticorpo fondamentale per combattere l’oppressione e difendere la verità: il libero gioco delle opinioni consente infatti di scartare gradualmente ciò che è falso. Perché questo sia possibile è però necessario un contesto culturale che dia valore sia al pluralismo sia al concetto di verità. Purtroppo, fra i tanti danni della guerra c’è anche l’indebolimento della capacità critica nell’uso dell’informazione, che può diventare il primo passo in direzione della cosiddetta democrazia illiberale. Uno scenario che piacerebbe tanto a Putin e che è già in corso di realizzazione nell’Ungheria di Orbán.

Guerra di notizie, ormai è vero solo ciò che piace. Alla fine, in una guerra in cui nessuno può tendenzialmente verificare nulla e le inchieste ufficiali scarseggiano, resta solo il tifo, l’opinione partigiana che fucila e scavalca la verità.  Leonardo Petrocelli su la Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.  

Non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che piace. Alla fine, in una guerra in cui nessuno può tendenzialmente verificare nulla e le inchieste ufficiali scarseggiano, resta solo il tifo, l’opinione partigiana che fucila e scavalca la verità, lasciata agonizzante al suolo.

È questa, nuda e cruda, la mediazione tossica su cui si sono accomodati tutti, dai più blasonati esperti ai più anonimi utenti social. Si prendano i fatti di Bucha, sobborgo ucraino a 60 km da Kiev, teatro di un massacro su cui si sta scatenando una sorta di guerra nella guerra. Per gli ucraini è la vetta massima dell’orrore russo, per i russi una clamorosa messa in scena ucraina per gettare fango sulle truppe moscovite. Dov’è la verità? Dove piace vederla. Esploratori del vero e del giusto si sono messi a scandagliare i video della tragedia fotogramma per fotogramma ma si sono dimenticati di togliersi le casacche della squadra di appartenenza. Ed è di nuovo finita a ramengo - «Il cadavere si è mosso», «No, era effetto di una goccia d’acqua» - in una cascata di inutili anglicismi (fake news, false flag, debunker) e di reciproci insulti che aiutano tutti tranne chi vuole capirci qualcosa. Che i conti non tornino, però, è un dato di fatto. I russi lasciano Bucha il 30 marzo e, nei giorni successivi, sia il sindaco della città, l’ucraino Anatoly Fedoruk, che le forze dell’ordine locali, rilasciano dichiarazioni e mostrano video senza fare alcun accenno alla presenza di cadaveri per le strade. La città è distrutta ma morti non se ne vedono. L’orrore esplode solo la sera del 2 aprile proprio quando, malignano i russi, sono tornati in loco «i rappresentanti dei media». Gli americani, per una volta, rinunciano al protagonismo e si smarcano con onestà («non siamo in grado di confermare nulla») mentre l’Onu rifiuta al momento di aprire una indagine indipendente. A rinforzo le nuove cronache da Irpin e Borodyanka aggiungono orrore a orrore portandosi dietro le solite domande su vero e non vero. E così siamo al punto di partenza, un po’ come i radioascoltatori della Cbs quando, nel 1938, quel geniaccio di Orson Welles decise di interrompere i programmi e mandare in onda, spacciandolo per cronaca, uno stralcio del romanzo La guerra dei mondi, capolavoro del suo quasi omonimo Herbert G. Wells. Metà del pubblico pensò di essere sotto l’attacco dei marziani ed entrò nel panico, l’altra metà rimase al suo posto. In assenza di verità, ognuno crede a ciò che gli pare, fino alla prossima smentita o conferma.

In questo continuo gioco di supposizioni e illusioni ottiche, le certezze «ucraine» invece sono solo due. La prima è quella socratica di non sapere. Una consapevolezza nobile che però apre la giostra delle deduzioni. Non potendo verificare con gli occhi si prova a ragionare a braccio ad esempio rilevando che questa infinita catena di orrori non faccia tanto il gioco dei russi quanto, piuttosto, quello di chi vuole trascinare nel conflitto una Nato finora recalcitrante o magari di qualche cancelleria in fregola da resa dei conti, anche solo economica. Ma sono pensieri scritti sull’acqua. L’unica certezza è che Putin ha già perso, anzi stra-perso, la guerra della comunicazione. Ma è un conflitto che non avrebbe mai potuto vincere nonostante, a queste latitudini, i suoi detrattori ce la stiano mettendo tutta per farlo vincere. Non è un mistero che, fin dai primi giorni del conflitto, alcuni telegiornali nazionali abbiano spacciato scene di videogiochi per immagini di guerra; o che molti illustri inviati si siano bardati con elmetti e giubbotti antiproiettili, manco fossero in una trincea della prima guerra mondiale, mentre alle loro spalle anziane signore passeggiavano serene con le buste della spesa. Il ridicolo che si somma all’incerto ed alimenta il sospetto, fin dal primo giorno.

Oggi il livello dello scontro mediatico e militare si è alzato al punto che ogni nuova notizia inclinata verso l’orrore contribuisce ad avvicinarci, un passo di più, ad un conflitto globale senza ritorno. D’altronde, i raid Nato in Serbia del 1999 furono innescati dalla strage di Racak sulla quale aleggia ancora il sospetto di un teatro costruito ad arte. Oggi, al pari di allora, il dibattito non sembra lasciare spazio alla complessità né al legittimo dubbio. Ma mai come in questa fase sarebbe necessario disinnescare la cecità da ultras. Non siamo migliori degli americani del ‘38 e nemmeno più attrezzati. L’unica differenza è che questo non è, ahinoi, uno scherzo di Orson Welles.

Londra sanziona la stampa russa: la guerra basata su bugie sulla guerra in Ucraina. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Aprile 2022.  

“La guerra di Putin all’Ucraina è basata su un torrente di bugie”, ha affermato il ministro degli esteri Liz Truss. “Quest’ultima serie di sanzioni colpisce i portavoce gli spudorati portavoce della propaganda che amplificano le fake news di Putin”.

Una nuova serie di sanzioni contro la Russia è stata varata dal governo inglese. Nel mirino di Londra come riporta l’agenzia Reuters  sono finite le società che gestiscono i media collegati al Cremlino, come TV Novosti, ente che controlla il canale RT, vietato in Ue e nel Regno Unito, Rossia Segodnia, che controlla l’agenzia di stampa Sputnik. Nella lista compaiono anche manager e dipendenti della tv come Alexey Nikolov, direttore generale di Rt, o Sergei Brilev, un ‘volto noto’ di Rossiya Television e Radio network, e Anton Anisimov direttore di Sputnik .

“La guerra di Putin all’Ucraina è basata su un torrente di bugie”, ha affermato il ministro degli esteri Liz Truss. “Quest’ultima serie di sanzioni colpisce i portavoce gli spudorati portavoce della propaganda che amplificano le fake news di Putin”. Mosca ha più volte definito RT, cui Ofcom ha revocata la licenza di trasmissione nel Regno Unito, un modo per competere con il dominio dei media americani e inglesi che secondo i russi offrirebbero una visione parziale del mondo. 

All’elenco dei media non allineati, neutralizzati dal Cremlino, si è aggiunto Novaya Gazeta, il più importante quotidiano indipendente del paese. Sul suo sito lo stesso giornale, di cui è caporedattore il Premio Nobel per la Pace Dmitry Muratov , ha annunciato la sospensione delle pubblicazioni. 

La decisione arriva dopo aver ricevuto un nuovo avviso da Roskomnadzor, l’agenzia statale per il controllo sui media, per il contenuto critico degli articoli. “Sospendiamo la pubblicazione del giornale sul sito, nelle reti e sulla carta fino alla fine ‘dell’operazione speciale sul territorio dell’Ucraina’”, hanno scritto i redattori, utilizzando la definizione ufficiale imposta dalle autorità per definire l’invasione del paese.

Redazione CdG 1947

Cacciari: «In guerra le fake news sono la regola. Per difendersi bisogna studiare». È bufera sulla Commissione guidata da Freccero e Cacciari che ha definito alcune immagini dell'Ucraina «materiale propagandistico». Il Dubbio il 4 aprile 2022.

«Che le fake news, al pari della propaganda, vengano utilizzate nei contesti di guerra come strumenti per pilotare l’opinione pubblica e le decisioni non è una novità. È sempre avvenuto». Lo dice a LaPresse il filosofo Massimo Cacciari, in merito alle immagini dei civili ucraini massacrati a Bucha, laddove la Russia nega ogni coinvolgimento parlando di foto e video “costruiti a tavolino da Kiev a beneficio dei media occidentali”.

Cacciari fa parte della commissione Dubbio e Precauzione, movimento composto da filosofi, scienziati e giuristi, di cui è membro anche Carlo Freccero, al centro di una polemica in queste ore perché accusato di aver definito “materiale propagandistico” alcune immagini riferite al conflitto in Ucraina, come quelle del bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol. «Quando ci si trova di fronte ad alcune immagini chi le guarda non può sapere se sono vere, attendibili o palesemente false e costruite a scopo propagandistico», prosegue il filosofo. «Dalle manipolazioni non c’è modo di difendersi. L’unica possibilità è studiare, comprendere le ragioni alla base delle varie dinamiche, e poi affidarsi al proprio ragionamento politico», aggiunge Cacciari che sottolinea che «ci sono alcune verità assodate» come «il fatto che qui ci sia un soggetto aggressore e uno aggredito».

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 4 aprile 2022.

Ha consigliato l'altro giorno Massimo Cacciari nell'assemblea del Dubbio e della Precauzione (DuPre) di «stare attenti ai toni»: nel senso, s' immagina di abbassarli, moderarli, raffreddarli. Ma è possibile? Detto senza ipocrisia, il problema è se al giorno d'oggi, per essere ascoltati, lui e gli altri intellettuali non siano invece costretti ad alzarli, a radicalizzarli e a infuocarli, questi benedetti toni. 

Nel dicembre del 2001, tre mesi dopo l'11 settembre, cominciarono ad andare moltissimo gli islamici, tanto più incendiari quanto più richiesti nei talk-show. Una volta, a Porta a Porta, proprio Cacciari se ne trovò a fianco uno particolarmente feroce che fece dei numeri terribili, sembra di ricordare anche a proposito del crocifisso. Durante un momento di silenzio, il filosofo si rivolse a Vespa: «Ma questo - disse incredulo - dove l'avete preso?».

Oltre vent' anni sono passati e in tutta onestà, all'insegna del dubbio e un po' anche della prudenza, la sensazione è che le condizioni del discorso mediatico non solo paiono decisamente peggiorate, ma la stessa vita pubblica si è in qualche modo trasformata in una gigantesca attività di casting. 

Di Carlo Freccero, altro esponente DuPre, si può pensare il meglio e il peggio, e lui è il primo a saperlo fin troppo bene. Per mantenersi bassi, si tratta certo di un uomo che sa sbalordire la platea, acclarato e anche acclamato performer perfino nelle aule parlamentari: messo sotto accusa in Commissione Rai, finì che il tribunalino lo congedò con applausi e abbracci. Insieme con la moglie, Daniela Strumia, ha scritto la prefazione alla Società dello spettacolo e ai successivi Commentari di Guy Debord (Baldini&Castoldi, 1997). 

Ebbene, così come gli scoppi d'ira televisiva di Cacciari sono uno spettacolo ipnotico, le provocazioni culturali di Freccero, la sua istrionica brillantezza nell'evocare e combinare teorie, simboli, figurazioni e apparenti bizzarrie, sono un gustosissimo bocconcino per ascoltatori, telespettatori e, come dimostra anche questo articolo, lettori. La pandemia ieri, la guerra oggi. 

Ma allungando la memoria si troverà che tanto Cacciari quanto Freccero hanno usato l'enfasi, i volti e i loro stessi personaggi per affermare opinioni e affermarsi come figure di primo piano nell'immaginario di questo tempo; è il loro mestiere e in fondo la loro vita. Non è pensabile che smettano, anche se una volta messi insieme l'effetto non è aggiuntivo, ma moltiplicatorio.

Con l'Ucraina l'algebra delle opinioni, ma più ancora delle visioni a distanza li ha messi in connessione con la nuova stella del professor Orsini, messia dell'analisi geostrategica ad alto impatto emotivo, ideale per il crash-show. Non si cadrà qui nella trappola se egli sia il pifferaio o meno di Putin, innanzitutto perché lontano dai teatri di guerra, e soprattutto in Italia, la rappresentazione con le sue maschere è ben più forte della politica; e poi anche perché dall'altra parte, quanto a pifferi "armiamoci e partite" non è che si scherzi tanto. Ma la risorsa scenica e generazionale di Orsini fa leva sull'ego, io qui, io là, io sento, tutti contro di me, ciao come sto. Anche questo sembra un effetto indotto.

Se troppo potere fa perdere la testa, troppa tv altera i sentimenti per cui a un indubbio sfoggio di competenze corrisponde una tenuta psicologica che sembra costantemente sull'orlo di una crisi di nervi - cosa che in prima e soprattutto in seconda serata è apprezzatissima, essendo il sonno il vero nemico. Molto altro naturalmente contribuisce al degradarsi del dibattito pubblico: il diluvio di parole, moltissime superflue, la quantità di immagini false, il narcisismo e la militarizzazione delle credenze, l'arcigna semplificazione e la necessità di costruirsi un pubblico. 

Il guaio vero è che nelle epidemie e nelle guerre tutto questo accelera la discesa giù per la china, al fondo della quale inesorabilmente qui da noi s' incontra il grottesco. Un baratro è l'uomo e il suo cuore un abisso, si legge nei Salmi (63,7): «Beati i perplessi » sospirava Guido Ceronetti.

Oscar Serra per lospiffero.com il 4 aprile 2022.

Da teorico dei beni comuni a partigiano della resistenza contro il green pass, a megafono della propaganda putiana. D’ora in poi, però, Ugo Mattei combatterà le sue battaglie fuori dalle aule dell’Università di Torino. Il Consiglio di dipartimento di Giurisprudenza ha preso atto oggi delle sue dimissioni: andrà a insegnare all’Università telematica Mercatorum, fondata dal patron della Salernitana Danilo Iervolino e ora di proprietà di un gruppo finanziario britannico.

A inizio settembre del 2021 tovarisch Mattei inscenò un’occupazione simbolica dell’Università nel cortile del rettorato, assieme a un manipolo di studenti, per protestare contro il divieto di accesso alle aule senza il lasciapassare verde. “Il provvedimento del Green pass è discriminatorio perché penalizza gli studenti senza il documento per premiare quelli che ne sono provvisti anche se sono pericolosi allo stesso modo” aveva argomentato invocando nientemeno che un nuovo Cln per la liberazione dal “regime draghista” . “Il livello di autoritarismo di questo Stato è impressionante” sentenziò il professore con gran sprezzo del ridicolo. 

Classe 1961, Mattei ha conosciuto la ribalta dei media nazionali grazie all’iniziativa referendaria per l’acqua pubblica. Era stato lui a scrivere i quesiti della consultazione popolare e fu un successo. Il Movimento 5 stelle gli strizzava l’occhio, suoi seguaci hanno iniziato a occupare ruoli strategici delle amministrazioni cittadine e non solo. Nel 2014 Mattei diventa vicesindaco di Chieri, cittadina sulla collina torinese, guidata dal centrosinistra. Nel 2016, il professore associato Guido Montanari, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per il giurista, diventa il volto dei benicomunisti nella giunta pentastellata di Chiara Appendino. Entrambi, però, durano poco: Mattei fa le valigie un anno dopo il suo insediamento, tra gli scazzi con colleghi e critiche di cittadini, Montanari viene dimissionato nel 2020 dopo l’ennesimo scivolone mediatico. 

La passione per la politica e per le panzane s’intersecano nella campagna elettorale dello scorso anno a Torino. Mattei è candidato sindaco a capo di una improbabile accozzaglia che si presenta sotto l’insegna della lista Futura. Mentre in città correvano voci di una sua enorme difficoltà a trovare candidati disposti a seguirlo, lui fa circolare un fantomatico sondaggio indipendente che lo dava vicino al ballottaggio, intorno al 17%. Al secondo turno, però, non ci arriva e il sondaggio (effettuato sempre a suo dire da una società con base a Dehli, in India) non si rivela particolarmente attendibile giacché i voti alla fine sono solo 7mila, pari a poco più del 2 per cento. Non proprio un trionfo, insomma.  

Intanto, su iniziativa sua e di un discreto gruppo di sciroccati, tra cui Carlo Freccero,e qualche pensatore in disarmo alla Massimo Cacciari, nasce la Commissione DuPre, acronimo di Dubbio e Precauzione nonostante i suoi promotori vivano di certezze granitiche. Così Mattei al pari degli altri sodali narcisisti e megalomani è diventato nel giro di poco uno dei fenomeni da baraccone del circo Barnum della televisione italiana dove, dismesso momentaneamente il camice bianco del virologo, ha indossato la feluca per discettare di guerra e geopolitica definendo Zelensky “un burattino della Nato” e pronunciando strafalcioni imbarazzanti su temi di cui non sa nulla.

A quanto si racconta all’Università di Torino, il professor Mattei era talmente potente, un vero e proprio barone, che nessuno ha mai osato contestargli il doppio incarico: sotto la Mole e a Berkley dove insegna per la metà dell’anno in cui non è in Italia. Ma dopo le sue ultime prese di posizione i suoi seguaci, anche al dipartimento di Giurisprudenza, sono sempre meno. Al punto che, per evitare di ritrovarsi nell’imbarazzo di dover dare delle giustificazioni, ha deciso di togliere il disturbo. Senza che nessuno abbia fatto nulla per trattenerlo.

Dieci piccoli convegnisti. Orsini, Eschilo e il tempo sbandato dell’opinionismo omnibus. Guia Soncini su  Linkiesta il 5 Aprile 2022.

Soncini si è guardata quattro ore di picchiatelli intervenuti al convegno della Commissione Freccé, nonostante Linkiesta non la paghi abbastanza.

E se il problema non fosse Freccero? Se il problema non fossero i picchiatelli in generale, tantomeno uno dei picchiatelli in particolare, se il problema fosse vivere adesso questo tempo sbandato, frase che forse devo dire di chi è altrimenti l’illusione di avere una cultura avendo Google nel telefono un domani colpirà qualche povero convegnista che declamerà serio «Questo tempo sbandato, come ha scritto la poetessa Soncini».

«La verità è la prima vittima della guerra: no, non è stato Eschilo, ma forse qualcuno riesce a rintracciarmi quella citazione», dice un tizio che non so chi sia (a tredici anni non riuscivo a imparare i nomi leggendo i romanzi di Agatha Christie, era tutt’un tornare alla pagina con la lista dei personaggi, figuriamoci se a cinquanta posso imparare i nomi di quelli che ci spiegano la situazione nell’est d’Europa senza parlarne le lingue).

Il tizio apre le quattro ore di YouTube di cui da un paio di giorni tutti noi autoproclamati intelligenti parliamo, perché questo tempo – oltre che sbandato – è un cruciverba facilitato. I picchiatelli possono parlare di saggi che non hanno capito certi che nessuno si prenda il disturbo di spiegarglieli; gli intelligenti possono parlare di territori che non avevano sentito nominare fino a due mesi fa, tanto c’è Wikipedia; e i sedicenni, invece d’essere considerati quel che sono (gente cui non s’è ancora finito di formare il cervello), possono organizzare convegni in cui spiegarci come va il mondo, e nessuno li manda in camera senza cena ma anzi qualcuno vuole dar loro il diritto di voto (nonostante essi non lo soccorrano nell’attribuzione: era Eschilo? Orsù, il primo anno di filosofia ce l’avete pure fresco, rendetevi utili).

«Dobbiamo nominare Dostoevskij? Dobbiamo nominare cantanti?» dice un altro convegnista, che chissà se intende quello del tempo sbandato, o Povia, o Cristina D’Avena, o vassape’. Chissà in che compagnia l’hanno messo, pòro Fëdor.

Il convegnista senza nome (ne ha uno, ma io l’ho memorizzato meno degli innocenti in Agatha Christie) ci arringa contro l’indocilimento, e io penso al tizio che l’altro giorno, mentre firmavo quattrocento moduli per il rinnovo della carta di credito, arringava i bancari circa non so quale complicazione degli affari suoi con la mascherina calata sotto il mento, e io dicevo a me stessa Soncini, non fare la donna fissata con le mascherine, non dire niente, stai buona, ma dopo dieci minuti quello ha finito di parlare e se l’è tirata su, la mascherina sottomento, prima di uscire, e allora non ce l’ho fatta, ma allora sei scemo che te la metti quando finisci di sputacchiare saliva per sentirti controcorrente e non indocilito, ma allora sei davvero cretino. Non so come non mi abbia portato via la croce verde.

Gramsci ci direbbe che siamo dei poveracci, dice uno dei convegnisti. Gramsci, o forse era Natalino Otto. I nazisti ucraini leggono Dante, inveisce. Forse è un convegno per eliminare il purgatorio e il paradiso, invero noiosissimi, dai programmi scolastici. Tornerebbe tutto, visto che il convegno sta sul canale YouTube degli «Studenti contro il Green Pass», qualunque cosa essi siano (studenti, quindi gente che ha solo il dovere di invecchiare).

«Il punto è che c’è un unico modello, tu puoi dire quello che vuoi, ma non sei scienziato se non dici quello che diciamo noi». Ma, figlio mio, te strascichi tutte le “c”, parli in una lingua che è toscano: non riusciamo a essere prescrittivi con l’italiano e a farti avere una dizione decente, ti pare che riusciamo a esserlo con la scienza? «Questa è un’atmosfera da MinCulPop», dice lui, e mentre io sospiro «ma magari», cita, come ti sbagli, Pier Paolo Pasolini (che lui chiama PPP, perché parla la lingua dei meme, mica quella che richiede troppe sillabe).

«I professori che tornano ora in classe sono uno specchio insopportabile perché ti mettono di fronte al fatto che tu sei stato zitto». Ah, vedi, io pensavo ci mettessero di fronte alla scemenza di non essere stati capaci di procurarci uno stipendio che ci viene accreditato anche se non facciamo il nostro lavoro.

Poi arriva Orsini – di cui ho eroicamente imparato il nome – e dice che se gli chiedono se condanna l’invasione di Putin lui d’ora in poi non risponde, perché è una forma di intimidazione psicologica come essere nero o donna o omosessuale se ti rapinano e sei complice del rapinatore perché hai introiettato la discriminazione (no, non sono io che non so riassumere, è lui che era assente nell’ora di similitudini, probabilmente aveva il morbillo).

Mentre questi cianciavano per tre ore e cinquantacinque (povero pil, poveri noi), e io per tre ore e cinquantacinque li guardavo (Linkiesta non mi paga abbastanza), mi hanno raccontato d’una soldatessa cui l’ammiraglio (o altro superiore in grado, ora non pretenderete impari le gerarchie militari, che neanche s’è messa Agatha Christie a spiegarmele) dice che guardandola lavorare hanno capito che ci vogliono più donne nell’esercito, giacché abbiamo (in quanto nate con la vagina che è praticamente un contenitore per il cambio degli armadi) una grande capacità organizzativa.

Io, che sono dialetticamente scarsa, avrei detto che se è per questo siamo anche sensibili e sappiamo cucinare e sanguiniamo tre giorni senza morire. Lei, che è più sveglia di me, ha spiegato al superiore che l’efficienza che deriva dalla sua presenza è un problema di competizione. Il soldato medio pensa oh, ora non è che ’sta cosa che riesce a fare persino una donna posso non saperla fare io.

E se il problema non fossero gli studenti, i professori, i convegnisti, gli spettatori, gli uomini, le donne, Eschilo, Fossati. Se il problema fosse che una volta cara grazia se guardavamo un Tg all’ora di cena, e nessuno ci chiedeva d’avere un parere su tutto, una posizione rispetto a tutto, un engagement su ogni male del mondo? Se il problema fosse che delegare ci sembra una rinuncia, invece che un privilegio?

Hasta la verdad. Se il negazionismo degli eccidi viene spacciato per scrupolo professionale. Iuri Maria Prado su  Linkiesta il 5 Aprile 2022.

È ovvio che in presenza di prove o indizi (solidi) della falsità di una notizia sia doveroso, se non necessario, fare approfondimenti. Non lo è invece quando non c’è nessun motivo per sospettare. In quest’ultimo caso si finge di voler risalire alla verità mentre si cerca, in realtà, di manipolare il pubblico.

No, un momento, facciamo a capirci. Se a margine di una notizia fiorisce una prova, almeno un indizio, che ne compromette la credibilità, allora è lecito scrutinarla anche a fondo. Possibilmente con l’intento di ristabilire la verità negata dalla notizia falsa, più che con quello di contestare punto e basta la falsità della notizia: che sono atteggiamenti profondamente diversi e molto diversamente orientati (uno teme la verità della notizia, l’altro teme che sia diffusa).

E così, se la notizia riguarda un eccidio, va benissimo approfondire quando c’è il segnale che possa essere inventato. Ma un’altra cosa è quel che si è fatto con il massacro di Bucha, e prima con l’ospedale bombardato, e prima con gli stupri e giù giù sino all’inizio dell’aggressione russa, tutte vicende rispetto alle quali buona parte dell’informazione – non solo quella più gioiosamente embedded in Kremlin – si è predisposta non per farne cronaca, ma per metterne in sospetto la verosimiglianza: e, appunto, nell’assenza di qualsiasi serio elemento che denunciasse il pericolo di fake.

Salvo credere che fosse meritevole di considerazione, e tale da mettere la notizia tra le cose incerte, l’agenzia russa secondo cui l’ospedale era un covo di nazisti camuffato, o il video che svela la resurrezione dei morti sulle strade dopo il passaggio della telecamera ucraina che mette in scena la teoria di morti ammazzati con le mani legate dietro la schiena.

Spacciata per doverosa cautela e precisione professionale, è questa la meccanica reazione ben diffusa presso il grosso dell’informazione (ripeto, non soltanto nei ranghi della Tv-immondizia più sfrontata nel velinismo delle “operazioni speciali”): e cioè dare la notizia “processandola”, ora contestandone apertamente il fondamento, ora insinuando che però, chissà, vai a sapere, perché è noto che in guerra la prima vittima è la verità.

E se anche nulla, ma proprio nulla, mette in sospetto la verità che appare, ebbene comunque bisogna sospettarne perché la mission del giornalista coi controcazzi è quella, hasta la verdad siempre, una bella visita ginecologica per verificare che lo stupro non sia la bubbola di una sciroccata in cerca del quarto d’ora di celebrità.

Negazionisti d’Italia, dal Covid ai morti in Ucraina: «È propaganda». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.

Freccero e Cacciari tra gli intellettuali di «Dubbio e precauzione», fondato dai contrari al green pass, ora si oppone all’invio di armi in Ucraina. Sullo sfondo l’ipotesi di confrontarsi con le prossime amministrative. 

«Io li denuncio!». Pausa. «Li denuncioooo!». Altra pausa. «Li denunciooooo!». La tranquilla routine domenicale di casa Freccero viene interrotta dalle urla del padrone di casa, da quell’escalation di vocali con cui l’ex direttore di RaiDue reagisce agli articoli e ai tweet – in Rete ce ne sono a decine – che gli chiedono conto del paragone tra la fiction e le bombe all’ospedale di Mariupol messo a verbale al convegno di sabato di DuPre, «Dubbio e precauzione», il comitato fondato dagli accademici contrari al green pass che nel frattempo sono diventati contrari all’Occidente che manda all’Ucraina le armi per difendersi dalla Russia.

Freccero, che non aveva letto nulla, è una furia: «Ma io non ho mai detto che le donne ferite nell’ospedale pediatrico di Mariupol erano attrici, il mio ragionamento è più complesso. Basta, denuncio! Prendo e denuncio, via, stop! Vada a leggersi il mio intervento integrale o denuncio anche lei!». Nell’intervento integrale la parola «attrici» non compare ma il senso del concetto di «fiction» applicato al bombardamento russo rimane.

«Esiste», sostiene Freccero, testualmente, «un materiale prodotto ad hoc a scopo propagandistico di cui conosciamo l’esistenza, ne è un buon esempio il bombardamento all’ospedale pediatrico con l’influencer incinta, successivamente dichiarata morta e ricomparsa poco dopo, in un’altra storia. Ma già nelle altre guerre avevamo precedenti di ogni tipo, dai falsi salvataggi dei caschi bianchi in Siria ai filmati dell’Isis girati in studio...».

L’argomentazione di Freccero manda in tilt il gotha del comitato Dubbio&Precauzione come una pallina finita nell’angolo remoto e maledetto del flipper. «Scusi, di questa cosa non parlo, la saluto», scandisce Massimo Cacciari, altro componente del sancta santorum di DuPre, che pure aveva invitato i colleghi del comitato a misurare le parole.

L’anima organizzativa della pattuglia, il professor Giuseppe Mastruzzo, che del convegno di sabato era il moderatore, prende le distanze: «Sono d’accordo con quasi tutte le cose che dice Carlo ma non con questa. Non possiamo negare o sminuire la sofferenza altrui...». Freccero, nel frattempo, è passato oltre. In omaggio alla teoria secondo cui tutto è maledettamente collegato – il Covid sta all’invasione dell’Ucraina come il green pass sta alle armi della Nato – l’intellettuale che ha scritto un pezzo di storia della tv italiana spinge sull’acceleratore del cospirazionismo, stressa il complottismo, anela l’insurrezionalismo, predica l’attivismo.

«Propaganda. Pro-pa-gan-da, vecchio mio. La fiction di Zelensky attore che cosa fa? Me lo dica lei, che cosa fa?», chiede. Al mesto «boh» dell’interlocutore, Freccero si ricarica: «Si muta in realtà, la realtà prende la forma della fiction, che a sua volta ha assunto le sembianze di una realtà che non sappiamo se è realtà o post-realtà. La7 lunedì (stasera, ndr) la manda in onda e il corto circuito eccolo!».

Il pacchetto di mischia di DuPre combatte su tutti i fronti. Istituzionale («Scusi se glielo dico in modo brutale: ovunque c’è da stanare il “draghismo” che umilia il Parlamento, noi ci saremo», dice Mastruzzo); economico-finanziario («Lo sai che cos’è la moneta fiat? Se non lo sai vattelo a leggere perché sta finendo, si tornerà al sistema monetario fondato sulle riserve dell’oro, se vai in banca allo sportello alcuni già lo sanno», questo è Freccero); bellico-sanitario («Ci sono elementi di continuità tra la gestione della pandemia in Occidente e la guerra della Nato», sono parole del professor Ugo Mattei).

All’accusa di essere un esercito sgangherato di intellettuali e accademici, con una piattaforma politica quantomeno traballante e senza un approdo che non sia un gigantesco «mah», gli animatori di «DuPre» rispondono col ghigno tipico del mago ignaro che il mazzo di carte truccate è rovinosamente finito per terra prima dell’esibizione. «Dubbio e precauzione, vecchio mio. Dubbio e precauzione, dobbiamo insinuare questi concetti. Io faccio la parte dello studente studioso; Cacciari è schierato per parlarne nel mainstream, stampa e tv generalista; poi ci sono gli accademici e poi chissà. Di più non posso dire...».

Oltre i puntini di sospensione, c’è quel disegno che porterebbe il gruppone a testare l’esperimento con dei candidati sindaci alle amministrative, quantomeno a Genova e a Parma. Compagni di coalizione? Assortiti come in una macedonia: Italexit di Gianluigi Paragone (destra) e Partito comunista di Marco Rizzo (sinistra). «Tutto prematuro, smentisco i contatti», dice Mastruzzo. Che però non nega che il Comitato di liberazione nazionale guidato da Ugo Mattei, sulle liste elettorali, potrebbe palesarsi presto. Molto presto.

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 3 aprile 2022.

«Siamo alla quarta dose, solo che a differenza del vaccino la commissione DuPre non perde efficacia». Tornano a riunirsi filosofi, giuristi e professori di Dubbio e Precauzione, l'associazione fondata a dicembre sull'onda delle critiche al Green Pass da Massimo Cacciari, Carlo Freccero e Ugo Mattei. Ospite d'onore il professor Alessandro Orsini.

Lontano dai salotti tv, dove è stato accusato di filoputinismo, si veste da condottiero: «Non ho paura di Draghi, di tutti i suoi ministri, di tutti i parlamentari messi insieme.

Sono un guerriero e lo sto dimostrando, perché continuo a parlare».

In una sala dell'ex mattatoio di Testaccio ci sono una cinquantina di persone per l'incontro "Dal coprifuoco pandemico al coprifuoco della ragione". Tra loro si chiamano "dubbiosi". Alle 15 arriva Orsini. Braccato da una troupe televisiva s' innervosisce e scappa via. Panico sul volto degli organizzatori. Lo rincorre una ragazza: «La prego professore, torni indietro». Ci mette qualche secondo a cambiare idea. «Qui è al sicuro», gli sussurra un uomo. Si può iniziare. «Critichiamo la militarizzazione della società- esordisce Nello Preterossi, professore di Filosofia a Salerno- del dibattito pubblico, del linguaggio».

Poco dopo Orsini abbonda di metafore belliche, a conferma della tesi: « Dobbiamo fronteggiare e contrattaccare delle forze potentissime. Io sono forgiato nello scontro e nella lotta. Chiedo ai miei volgari calunniatori cos' altro devo fare per farvi capire che non ho paura di nessuno?». Prove generali per lo sbarco in politica? «No, sono un professore- dirà poi mentre va via in Vespa- sa già quante volte mi hanno chiesto di fare il parlamentare? ». Dentro prosegue l'incontro. «Noi non siamo per un impero o a favore di un altro. Siamo per la pace, per il cessate il fuoco», ribadisce Cacciari.

Giorgio Bianchi, fotogiornalista in collegamento dall'Ucraina, aggiorna sulla guerra: «Chi dice che la Russia è in difficoltà sta delirando. Zelensky è un incapace che non controlla nulla nel suo Paese». Freccero si collega da casa: «L'Ucraina è frutto di una fiction che dagli schermi televisivi si è tramutata in reality. Zelensky dice di essere in Ucraina, ma i video sono sempre in uno studio. 

I suoi discorsi sono scritti dallo stesso sceneggiatore della serie: gente molto informata mi dice che è un autore americano che lavora per il governo». Per Gabriele Guzzi, economista, «magari il problema fosse solo Putin, perché invece non parliamo del degrado dei valori dell'Occidente? Siamo cresciuti tra berlusconismo, pubblicità e pornografia, sarebbe questa la cultura da difendere?». Mattei chiude con un appello: «Restiamo compatti per creare un grande dissenso e un'opposizione culturale che possa diventare politica».

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 3 aprile 2022.  

Tutto si tiene, ma gli altri non ve lo dicono: la «guerra della Nato» e il Green Pass «olio di ricino postmoderno»; i vaccini «che modificano il dna» come il 5G e il «golpe in Ucraina» messo in atto da «paramilitari nazisti» addestrati dagli americani e foraggiati «dal finanziere Soros»; la resistenza «fiction» di Zelensky, «fantoccio degli Usa», e le «zanne affilate dei generali», mica di Putin, ma italianissimi, «come Figliuolo».

Tutto si tiene, nel metaverso della commissione DuPre (Dubbio e Precauzione), che in una saletta convegni alla Città dell'Altra economia di Testaccio, Roma, celebra lo sposalizio tra le teorie sulla «dittatura sanitaria» da Covid e il nuovo fronte del dissenso, la narrazione del conflitto ucraino tendenza Mosca. «Ci sono elementi di continuità tra la gestione della pandemia in Occidente e la guerra della Nato», è certo il professor Ugo Mattei - che con Carlo Freccero e Massimo Cacciari ha fondato a dicembre la commissione in nome del no al Green Pass - mentre tira le somme a valle di 4 ore e mezza di interventi. 

Guest star Alessandro Orsini, il quale però tiene famiglia e quindi dopo un paio d'ore si scusa e si defila, perché sarà pure un «guerriero intellettuale », «forgiato nello scontro e nella lotta», come racconta alla cinquantina in presenza fisica che lo ascolta, tutti dimentichi di mascherina, ma è sempre sabato pomeriggio e va bene la dissidenza, però «mia moglie mi aspetta».

Prima di rincasare, il docente della Luiss più conteso dai salotti tv ha il tempo di mostrare questo suo spirito guerriero alla platea: «Dobbiamo fronteggiare un attacco », inteso quello contro di lui, da parte dei «poteri forti» schierati ad ampio spettro: «Non ho paura di Draghi, non ho paura di tutti i ministri e i parlamentari che mi attaccano. Devo insultare Draghi e tutti i ministri per far capire che non ho paura?». 

Guai a dargli della vittima, perché sì, si sente «aggredito» (anche dai giornali, alterna attacchi a Repubblica e al Corriere ), ma lui appunto è «un guerriero intellettuale ». Che non teme «di tornare a fare il cameriere», metti caso le ospitate scemassero. Non ha paura di dire che «l'Italia non è affatto un Paese così libero» e che «i giornalisti sono persone disumane». Mette in guardia i partecipanti: «La narrazione dominante non vuole che l'Unione europea e la Nato abbiano responsabilità su questa crisi».

Ci pensa poi Carlo Freccero a svelare le trame del «Nuovo ordine mondiale», lo stesso che ha forgiato in un'unica academy «Merkel, Sarkozy, Renzi e Di Caprio». «Covid e guerra hanno trasformato il dibattito in propaganda», orchestrata neanche a dirlo «in America». 

E come con i vaccini «il dna è stato modificato attraverso la tecnica Rna», così «la guerra in Ucraina è come una fiction», con «materiale prodotto ad hoc», vedi il bombardamento sull'ospedale pediatrico di Mariupol, «con una influencer dichiarata morta e ricomparsa poco dopo». Cacciari, sempre sofferente per «la débâcle della sinistra» e sicuro che la guerra in Ucraina sia «uno scontro fra imperi», invita però pubblico e oratori «a stare attenti ai toni, dobbiamo tenere conto di come si muove l'avversario: col Covid abbiamo fatto fatica a far capire che non fossimo terrapiattisti».

Così, scandisce, «noi non siamo per Putin». E infatti nell'intervento successivo, ecco Giorgio Bianchi, blogger che ha «unito i puntini» fra Covid e 5G, spiegare che «Zelensky è un fantoccio », che la guerra «dura da 8 anni, dopo il colpo di stato del 2014», che insomma ci troviamo difronte a una «trappola tesa dalla Nato». «E se la Russia avesse organizzato un golpe in Canada?». Applausi. «Putin ha difeso un popolo martirizzato per 8 anni», assicura Fulvio Grimaldi, giornalista estimatore di Milosevic. È collegato da casa: «Ma forse - aggiunge - sto vaneggiando in preda al Covid». Tutto si tiene.

Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 10 aprile 2022.

Non si sono ancora fatti partito, anche se la tentazione è nell’aria, ma sono pronti a farsi giornale, “per sfidare la narrazione dominante”. La commissione DuPre, cioè Dubbio e Precauzione, culla delle tesi No Vax che si allacciano alle teorie di guerra filo-Mosca, si prepara a sostenere un nuovo progetto editoriale: con uffici, copie in vendita, una redazione “che sia certificata di autorevolezza e credibile – dicono loro – per opporsi alla narrazione mainstream a cui si abbeverano le masse”. Devono solo trovare i soldi. 

“Ma è vero, il progetto c’è”, conferma il professor Giuseppe Mastruzzo, moderatore dell’ultima sessione di dibattito, il weekend scorso a Roma, con Massimo Cacciari e Carlo Freccero che concionava sul bombardamento “fiction” dell’ospedale di Mariupol. “Lo sosterrà il Comitato di liberazione nazionale di Ugo Mattei, noi come DuPre abbiamo già la newsletter”, continua Mastruzzo.  

A portare avanti questo progetto editoriale è Giorgio Bianchi, documentarista-blogger, piccola star del sottobosco negazionista, protagonista in tempi pandemici di video in cui si univano “i puntini tra Covid e 5G”. Da un paio di mesi è in diretta dal Donbass, dove appare in qualche talk nostrano per raccontare che "Zelensky è un fantoccio", che la guerra "dura da 8 anni, dopo il colpo di stato del 2014" e che è tutta una "trappola tesa dalla Nato". “Ho già trovato degli investitori per il progetto – dice Bianchi – ma i nomi non ve li posso dire, è confidenziale”. 

I soldi arriveranno anche dai filo-russi di Donetsk? “E poi che faccio, torno in Italia con una valigia piena di rubli? No, saranno italiani, ho parlato con due grossi investitori, ma anche piccoli e medi imprenditori, i quali sanno che molto presto saranno mangiati dall’inflazione o dai costi dell’energia”. Come redattori saranno reclutati i prof sprovvisti di Green pass: “Eccellenze che oggi sono rimaste senza lavoro per via dei provvedimenti del governo e dei collaborazionisti”, sostiene Bianchi.

Un abbozzo di linea editoriale è già stato accennato durante la seduta fiume della settimana scorsa, che presto sarà aggiornata, è in calendario un nuovo appuntamento a Milano, se ne parlerà lunedì per organizzarlo: “La differenza la possiamo fare solo se avremo una struttura solida d’informazione, che faccia lavoro sul campo, avendo dei soldi in tasca, poter produrre contenuti che poi vengono ripresi magari da Rete 4 e dai canali mainstream”, spiegava Bianchi alla platea di DuPre. “Ogni giorno noi dobbiamo produrre nuovi contenuti che devono sfidare la narrazione dominante”. 

Da qui l’idea di “mettere in piedi una redazione, un gruppo editoriale, che venda copie. Questo si può fare solo con i soldi veri”. Lì, davanti agli aficionados No Vax e No Nato, rivelava di avere già preso contatti ad alti livelli: “Quando tornerò in Italia devo incontrare un grosso imprenditore che ha deciso di investire. Devo parlare con un secondo investitore, che quando ha saputo del primo, ha deciso che potrebbe essere della cordata”.  Insomma, ci sarebbe la ressa, per entrare in partita. Per ora, di concreto, arrivano solo piccole donazioni.

“Ma non si può andare avanti con il rimasticato sui social, contro la massa che si abbevera ai canali mainstream”. Ma presto ci saranno loro, forse, a spiegare come vanno le cose davvero. Come per le attrici ingaggiate a Mariupol, dice Freccero, per produrre "materiale propagandistico". 

«Noi autorevoli». Gli intellettuali picchiatelli vogliono un giornale (ma non ce l’avevano già?). Christian Rocca su L'Inkiesta il 10 aprile 2022.

Quelli della Commissione DuPre raccontano di essere controcorrente, ma in realtà sono una creatura della stampa mainstream e gli idoli di quella populista. Va bene tutto, ma basta con la lagna.  

La commissione Dubbio e Precauzione di Cacciari e Agamben, di Freccero e di altri intellettuali noti per importanti studi accademici e vistosi scolapasta in testa sta pensando di fondare un giornale, svela Repubblica, per poter liberamente esprimere le idee no green pass e no Ucraina, cioè la turgida denuncia della dittatura sanitaria di Draghi e il trallallero sulle dittature vere e criminali.

Salutiamo con grande calore la nascita di un nuovo giornale, a maggior ragione se guidato da sedicenti «noi autorevoli contro la narrazione dominante», ma ricordiamo che il dibattito surreale avviato dai fondatori della Commissione DuPre è una rivendicata creatura della Stampa di Massimo Giannini e occupa quotidianamente le pagine del Fatto e di altri giornali populisti in grande spolvero, per non parlare dei social e dei talk show lasettisti e retequattristi.

Va benissimo quindi autoproclamarsi «autorevoli», al modo delle autoproclamate repubbliche russe del Donbas, ma gli intellettuali del Dubbio e della Precauzione e i loro volenterosi complici ci risparmino almeno la lagna vittimista di essere «contro la narrazione dominante», perché «la narrazione dominante» sui giornali e in televisione è esattamente la loro.

Lucio Caracciolo "vicino a Putin". La sconvolgente accusa che imbarazza la sinistra. Libero Quotidiano il 10 aprile 2022.

Si è mosso addirittura Enrico Letta per difendere Lucio Caracciolo, il direttore di Limes finito nella lista di proscrizione del collega Gianni Riotta, quella dei "giornalisti filo-russi" in Italia. "Da anni faccio parte del comitato scientifico di Limes. Ne sono orgoglioso", ha twittato il segretario del Pd. A conferma di come ormai una certa "caccia al putiniano" sia diventato tema politico centrale nel dibattito di casa nostra, parallelo alla guerra in Ucraina. Caracciolo come Alessandro Orsini, il professore che per le sue opinioni a Piazzapulita prima e a CartaBianca poi è diventato oggetto di una campagna durissima in Rai contro gli "opinionisti pagati". Colpa delle sue opinioni, più che del suo cachet. 

Caracciolo da 46 giorni è invece ospite fisso di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. Nessuno aveva mai avuto il coraggio di contestare né i suoi punti di vista, sempre sobri, né tantomeno le modalità in cui li esprime. Mai sopra le righe, mai una concessione alla rissa verbale, sempre misurato e attento ad ascoltare gli altri, come nel dibattito (a tratti surreale) con la giornalista russa Olga Kurlaeva, lei sì a fianco di Putin senza se e senza ma. Talmente schierata da interrompere a ripetizione Caracciolo e mettere in difficoltà la Gruber. 

Eppure, per Riotta, il filo-russo è proprio Caracciolo. Non è dato saperne il motivo, forse qualche critica al presidente ucraino Volodymyr Zelensky per la gestione della crisi, o qualche appunto storico sulla situazione in Donbass o gli azzardi della Nato nell'Europa dell'Est. "Lucio Caracciolo di Limes - ha scritto Riotta, firma di Repubblica (tra l'altro stesso editore, Gedi, della prestigiosa rivista di geopolitica) - diventa ora per Travaglio e il Fatto-Tass portabandiera dei Putinversteher con il perenne bla bla su peccato originale Occidente. Peccato davvero, ma la deriva era visibile da anni ormai". La polemica riguarda dunque anche Travaglio, ma si estende anche alla sinistra. A Fabrizio Barca, vicino al Pd, che difende Caracciolo, l'ex direttore del Sole 24 ore risponde caustico: "Per fortuna, anche in Italia, la sinistra rococo che rappresenti ha perso radicamento politico: finalmente. Adesso ridi pure eh?". 

Orsini e Caracciolo nel mirino del "coro del riarmo", Travaglio a valanga. Cosa tira fuori su Vespa su Riotta. Il Tempo il 10 aprile 2022.

La tv e la stampa schierano i "picchiatori" contro Alessandro Orsini, il professore che con le sue analisi da molti definite pro-Putin ha mandato il cortocircuito il carrozzone dei talk show ormai tutti dedicati alla guerra in Ucraina. A schierarsi in difesa dell'esperto di terrorismo della Luiss è Marco Travaglio con un editoriale che fa le pulci ai detrattori dei Orsini, che collabora per il Fatto. Il direttore domenica 10 aprile afferma che "non c'è giornale che non ospiti una rubrica fissa contro Alessandro Orsini". Tanto che è lecito domandarsi "che fastidio può dare un prof che per mezz'oretta a settimana, spalmata su due o tre talk show, stecca nel coro delle Sturmtruppen che cantano h24 marcette militari".

Insomma, quella di Orsini è una voce isolata nel coro del "pensiero unico del riarmo". Orsini "dà noia perché, anche quando lo menano in cinque (cioè sempre), la gente ascolta lui e non i picchiatori. Quindi non basta strappargli il contratto, sbeffeggiarlo e linciare chi-come Bianca Berlinguer - osa invitarlo senza farlo bombardare: va proprio eliminato", scrive Travaglio che ricorda la vicenda della collaborazione retribuita con Rai3, saltata dopo le polemiche. 

Travaglio attacca Bruno Vespa che a Repubblica ha detto di non invitare  Orsini gratis o a pagamento, anche perché "il budget ospiti di Porta a Porta è la mensa della Caritas, gli opinionisti non sono mai stati pagati". "Tranne Scattone e Ferraro, gli assassini di Marta Russo, pagati 260 milioni di lire nel '99 per un'esclusiva al Tg1 e a Porta a Porta", è il commento velenoso di Travaglio. Che attacca il direttore di Rai3 Franco Di Mare secondo cui Orsini è "l'accademico posseduto". Parla "lui che fece una serata per la Pampers lanciando una finta edizione del Tg1", scrive Travaglio che riserva uno strale a Gianni Riotta che ha annoverato tra i filo-russi anche Lucio Caracciolo, direttore di Limes e ospite fisso di Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7. "Johnny", così lo chiama, ha espresso sui sociale un concetto abbastanza tortuoso: "Caracciolo diventa per Travaglio e il Fatto-Tass  portabandiera dei Putinversteher con il perenne bla bla su peccato originale Occidente. Peccato davvero, ma la deriva era visibile da anni ormai". Il commento è al curaro: "La deriva di sapere di cosa parla, ma soprattutto di saper leggere e scrivere".

Da liberoquotidiano.it il 10 aprile 2022.  

"Non ci metterei mai piede". Alessandro Orsini sceglie la sua pagina Facebook per lanciare un messaggio, anzi una risposta categorica a Bruno Vespa. Intervistato da Repubblica, il conduttore di Porta a porta non era stato affatto tenero con il professore, nell'occhio del ciclone (televisivo) per le sue dichiarazioni sulla guerra in Ucraina considerate da molto in odor di "filo-Putinismo". 

"È un mio difetto, ma non l'ho mai ascoltato - premette il conduttore -. Se è vero quello che leggo, no, non lo avrei invitato. La pandemia ci ha insegnato quanti danni può fare una informazione distorta. L'estremismo No Vax portato in televisione ha sulla coscienza tante anime fragili. Con la guerra non si può commettere lo stesso errore. È in gioco la civiltà occidentale, la libertà per cui si sono battuti i nostri padri. Da una legittima critica agli errori degli ucraini in passato, non si può passare al né né tipico di troppi italiani". 

 Risposta piccata di Orsini: "Caro Dottor Bruno Vespa, ci tengo a farle sapere, molto rispettosamente, che non metterei piede nella sua trasmissione per nessun motivo al mondo. Quanto ai suoi inviti alla corretta informazione, sempre rispettosamente, le confesso che guardo Porta a Porta soltanto quando mi perdo le ultime dichiarazioni del governo (di turno)". Polemico e puntuto, non c'è che dire. D'altronde, Orsini ha ormai dimestichezza con la comunicazione televisiva. 

Ospite di Accordi e Disaccordi, ha detto nuovamente la sua sull'Ucraina lanciandosi in una fosca profezia: "Stiamo preparando la Terza Guerra Mondiale per i nostri bambini. Non sono tanto preoccupato per me stesso, se devo morire in una guerra lo posso accettare. Sono preoccupato per i nostri figli. Se non scoppierà a causa dell'Ucraina, la terza guerra scoppierà tra 5 o 10 anni. Le dinamiche che portano le grandi guerre in Europa sono sempre le stesse. Se entriamo nell'ottica che Putin è un criminale che vuole invaderci tutti, se la terza guerra mondiale non scoppierà adesso per l'Ucraina, scoppierà per i paesi baltici o per la Finlandia" 

Marco Travaglio: "Alla popolarità di Putin hanno contribuito le parole di Biden. Ho visto una centrale nucleare attaccata da un bengala..." La7 il 30/03/2022

Marco Travaglio sulla guerra di propaganda in Ucraina e sulle parole di Biden contro Putin: "E' stato contraddetto dal segretario di Stato Blinken"

Nato per mentire (di Marco Travaglio). (di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano 15 Marzo 2022) – Sempre premesso che Putin è il nuovo Hitler, per giunta con le metastasi al cervello; premesso che in Ucraina non esistono più nazisti da quando i nostri giornaloni hanno rimosso gli articoli sulle svastiche del battaglione Azov e simili opere pie; premesso che le bombe al fosforo fanno male se le usano i russi, mentre quando le sganciavano gli italiani a Fallujah erano manna dal cielo; ecco, premesso tutto ciò, domandiamo per un nostro amico un po’ duro di comprendonio: ma perché non si può stare toto corde col popolo ucraino aggredito da Putin e dire “né con la Nato né con Putin”, visto che tutti ripetono (tranne Putin) che la Nato non c’entra nulla con l’Ucraina e che l’apparentamento fra l’una e l’altra è una fake news del pazzo del Cremlino? Il nostro amico è rimasto spiazzato dai titoli “Attacco ai confini della Nato” (Stampa), “Bombe sulla Nato” (Giornale), “Strage ai confini della Nato” (Corriere), “Guerra ai confini della Nato: missili sulla base di addestramento” (Rep).

Si riferiscono ai 30 missili russi che hanno distrutto il cosiddetto International peacekeeping and security center di Yavoriv, a 25 km dal confine polacco: una base militare di 390 kmq, brulicante di soldati ucraini e occidentali. Washington ha subito minacciato rappresaglie per “difendere il territorio Nato”: e non si vede a che titolo, visto che ha escluso di avere “militari coinvolti” né lì né nel resto del Paese. Ma s’è scordata di avvisare la sua ambasciata a Kiev, che ha twittato un peana ai “soldati eroici di Usa, Polonia, Lituania, Regno Unito, Canada e altri che addestravano le forze ucraine” e smistavano le armi made in Usa e in Ue. Il che dimostra che, in barba alla ridicola risoluzione del Parlamento italiano, inviare armi non porta alla “de-escalation”, ma all’escalation. Non solo. Quella di Yavoriv è una base Nato camuffata: dal 1995 è segnalata sul sito della Nato e ha ospitato tutte le esercitazioni Nato anti-Russia.

Infatti il Giornale la definisce “sede Nato”, La Stampa più pudicamente un “centro di addestramento utilizzato anche dalla Nato”. Insomma: più che i confini della Nato, i russi han bombardato la Nato. Che sta da 27 anni in Ucraina, pur assicurando di starne fuori. È una notizia coi fiocchi, che dovrebbe far arrossire chi nega qualsiasi nesso fra Ucraina e Nato e iscrive al “partito di Putin” chiunque osi dire il contrario. Ed è la prova che i migliori amici del popolo ucraino non sono quelli che stanno “con la Nato contro Putin”. Ma quelli che non stanno “né con la Nato né con Putin”. Far parte della Nato presenta almeno il vantaggio che, se ti attaccano, gli altri soci ti difendono. Se invece ti tieni la Nato in casa nascosta in cantina, ti attaccano e non ti difende nessuno. 

Otto e Mezzo, Roman Abramovich? "Ho sentito di avvelenati che stanno meglio di prima": fin dove si spinge Travaglio. Libero Quotidiano il 30 marzo 2022.

Negli ultimi giorni si è parlato molto dell’avvelenamento di Roman Abramovich e di due negoziatori ucraini, avvenuto a inizio marzo. Marco Travaglio non sembra credere a quanto accaduto, nonostante le conferme siano arrivate da più fonti, anche da quelle vicine al magnate russo. Intervenuto in collegamento con Lilli Gruber a Otto e Mezzo, il direttore del Fatto Quotidiano ha manifestato tutti i suoi dubbi, sostanzialmente per avvalorare la tesi che bisogna sentire anche la campana russa e non solo quella occidentale.

“Ho sentito di avvelenati che stanno meglio di prima che li avvelenassero e anche di generali morti ricomparsi vivi - ha dichiarato Travaglio - noi non sappiamo assolutamente nulla, nelle guerre ascoltando solo la campana occidentale riusciamo a sapere ancora meno. Tra l’altro molti pensano che nessuno più parla a Vladimir Putin, ma per fortuna non è così. D’altronde i governanti li paghiamo per questo, anche per parlarsi nei momenti peggiori e in quelli in cui ci si fa la guerra. Il dialogo è l’unico modo per evitare la terza guerra mondiale”.

Lucio Caracciolo è apparso un po’ perplesso per la prima parte del discorso di Travaglio, mentre è stato d’accorso su quella riguardante il dialogo: “È vitale mantenerlo con Putin, ma proprio perché quest’ultimo ha un consenso alto in Russia ha un motivo in più per portare risultati concreti sul campo rispetto a quelli che ha ottenuto finora, dato che le cose non stanno affatto andando bene”.

"Ucraina, stupro come arma da guerra". Ma nella clamorosa fake il Messaggero non nota un piccolissimo particolare...Francesco Santoianni su L'Antidiplomatico. 

Insomma, nulla di diverso dai “soldati tedeschi che mozzano le mani ai bambini in Belgio”, fake news con la quale i giornali padronali riuscirono a trascinare l’Italia nella Prima guerra Mondiale. Ma davanti a questo articolo de Il Messaggero sorge impellente una domanda: perché mai la bara della “donna stuprata e uccisa” è stata ricoperta con la bandiera della Russia?

Con questa guerra viene uccisa la verità (e l’ipotesi di pace). Il Fatto Quotidiano il 30 marzo 2022.

Mosca, 22 febbraio 2017, in una stanza del ministero della Difesa prende la parola il generale Yuri Balyevsky, ex capo di Stato maggiore. “Dobbiamo smettere di giustificarci”, afferma, ripreso dall’agenzia di Stato Novosti. È in atto “una lotta per il controllo della mente e della coscienza di massa. La vittoria nella lotta dell’informazione, nel mondo attuale, acquisisce più significato di una vittoria militare”. Il ministro della Difesa, Sergey Shoigu, è sulla stessa lunghezza d’onda: “La propaganda deve essere intelligente, competente ed efficace”. Segue una riunione in cui si discutono i metodi da seguire: post sui social in diverse lingue, siti Internet, articoli su Sputnik, servizi su Russia Today e molto altro.

In questi giorni di guerra vera ho ripensato spesso a quell’incontro moscovita. E mi sono chiesto se sapere da anni come Vladimir Putin si sia scientificamente mosso per inquinare i pozzi dell’informazione, spingendo un numero sempre maggiore di cittadini a considerare il suo modello sociale un’alternativa credibile al nostro, non ci fa sbagliare qualcosa nel modo in cui noi, come giornalisti, seguiamo l’aggressione russa all’Ucraina.

Sul campo i media occidentali hanno schierato centinaia di coraggiosi inviati. Nella maggioranza dei casi si tratta di colleghi che guardano bombardamenti, massacri, battaglie dalle retrovie del fronte ucraino. I loro articoli e reportage ci restituiscono fedelmente quello che accade. Ma, giocoforza, ci fanno vedere solo un pezzo della guerra. Quello che succede oltre le linee, e tra le linee, ci è invece quasi ignoto. Dall’altra parte del fronte ci sono invece i soldati russi e giornalisti di Russia Today. Ma quella tv, proprio perché fa parte della dichiarata macchina putiniana della propaganda, non arriva più nelle nostre case.

L’Unione europea, con una decisione discutibile in democrazia, l’ha bandita dai bouquet satellitari. E così chi segue per lavoro la guerra vede fotografie e video pubblicati dai canali Telegram russi, ucraini, ceceni. Alcuni contengono presunte sconvolgenti atrocità commesse da chi si difende: una donna stuprata con una svastica scritta col sangue sul corpo; un soldato ucraino che chiama col telefonino (appena trovato in una tasca di un russo) la fidanzata del morto e gli spiega ridendo come lo ha scannato; dieci prigionieri delle forze di Mosca gambizzati dopo la cattura con colpi sparati al ginocchio, in modo che restino zoppi per sempre; un combattente vivo a terra a cui viene ficcato nell’occhio un pugnale.

Stabilire se siano veri o falsi è difficile. Spesso impossibile. E così, salvo nel caso in cui sugli accadimenti sia stata aperta un’indagine (i prigionieri gambizzati), di questi presunti orrori i media ufficiali occidentali non mostrano nulla. Il pericolo che i video e le foto facciano parte “della guerra per il controllo delle menti” è troppo alto.

Ma, se siamo onesti, dobbiamo ammettere, come ci ha magistralmente raccontato Domenico Quirico su La Stampa, che al di là del dibattito sul singolo video, la guerra, anzi le guerre, sono questo. Atrocità indicibili da entrambe le parti. Che si moltiplicano se, come accade in Ucraina, sul campo di battaglia ci sono mercenari, milizie, squadroni nazisti e combattenti stranieri. Così, in fondo, il dubbio che quelle immagini siano fake e che quindi non vadano giustamente pubblicate, fa comodo a molti. Perché non poter raccontare a generazioni di cittadini che non l’hanno mai vissuta, cosa sia davvero una guerra, rende più facile per chi decide continuare a ripetere: armiamoci e partite.

Vademecum su tante delle falsità che girano sulla vicenda Ucraina. Realizzato grazie a un editoriale di Marco Travaglio. Michele Armellini su Butan.it il 29 Marzo 2022. 

Il 20 marzo è uscito un editoriale del Fatto Quotidiano a firma del direttore, Marco Travaglio. Il testo è interessante perché è un buonissimo esempio di come sia possibile propagandare delle vere e proprie falsità, facendo allusioni e isolando i fatti dal loro contesto. L’articolo non verrà riportato integralmente ma a spezzoni, per poterlo analizzare meglio.

A chi crede o vuole far credere che la guerra in Ucraina sia iniziata il 24 febbraio 2022 con l’attacco criminale di Putin e dimentica i 16mila morti in otto anni nel Donbass, gli accordi di Minsk sull’autonomia della regione russofona traditi da Kiev e altre cosucce, segnalo un fatterello che mi ha ricordato il lettore Angelo Caria.

Già in queste poche righe sono presenti diverse invenzioni. La prima riguarda il numero dei morti in Donbass precedente all’invasione russa, di cui abbiamo già parlato: non sono 16mila, ma 14mila (fonte: Alto commissariato delle Nazioni Unite). Questa inesattezza di per sé non cambia il senso di quello che Travaglio vuole comunicare, ma dimostra la mancanza di cura con cui il direttore del Fatto verifica le proprie informazioni. Per quanto riguarda gli accordi di Minsk viene affermato che questi siano stati traditi da Kiev, ma non è proprio così: né l’Ucraina né la Russia erano d’accordo sull’interpretazione da dare al protocollo. Il governo ucraino intendeva gli accordi come una conferma della propria integrità territoriale, del controllo delle frontiere a cui sarebbe seguita la concessione di un’autonomia per le regioni contestate. Secondo il governo russo invece il protocollo di Minsk garantiva alle autorità ribelli del Donbass una larga autonomia, in modo da permettere alla Russia di porre il veto alle decisioni ucraine in politica estera. Quindi gli accordi sono falliti perché nessuna delle due parti era d’accordo sul loro significato, altroché “traditi da Kiev”. Ma andiamo avanti.

La protagonista è Victoria J. Nuland, oggi sottosegretario agli Affari politici di Joe Biden (democratico), ieri pedina-chiave dell’amministrazione di George W. Bush (repubblicano), che la promosse consigliere del suo vice Dick Cheney (2003-05) e ambasciatrice alla Nato (2005-08), e poi dell’amministrazione di Barack Obama (democratico), che nel 2013 la nominò Assistente del Segretario di Stato (John Kerry) per gli Affari Europei ed Eurasiatici. Moglie del superfalco neocon Robert Kagan, fervida sostenitrice delle guerre in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, nel dicembre 2013 la Nuland dichiara: “Gli Usa hanno investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita”. Poi vola a Kiev a promuovere la “rivolta di Euromaidan”: la sanguinosa protesta nazionalista che il 22 febbraio 2014, con l’ausilio di milizie neonaziste, caccerà il presidente eletto Viktor Yanukovich, filo-russo ma anche filo-Ue.

Quella che Travaglio definisce “sanguinosa protesta nazionalista” nasce in realtà nel novembre del 2013 a seguito dell’improvvisa decisione di Yanukovich di ribaltare la sua politica di avvicinamento alla UE sostituendola con maggiori legami con la Russia. La protesta diventa violenta solo dopo i numerosi tentativi (questi sì, sanguinosi) delle forze di sicurezza ucraine di disperdere i manifestanti e dopo l’emanazione di una serie di leggi volte ad impedire la libertà di manifestazione e di parola. Il ruolo delle milizie neonaziste viene evidenziato da Travaglio, ma in realtà il loro partito Svoboda nelle elezioni del 2014 ha preso solo 6 seggi su 450 e nel 2019 si sono ridotti a uno. A proposito degli eventi di piazza Maidan segnaliamo questo documentario del 2015: Winter on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom. Molto impressionante da vedere oggi.

Ricapitolando: la protesta di Maidan non era sanguinosa prima che provassero a reprimerla; Yanukovich non era più filo-UE, ma decisamente filo-russo; no i neonazisti non hanno avuto un ruolo importante (così come Travaglio insinua soavemente).

A fine gennaio, un mese prima del ribaltone, mentre Obama&C. inneggiano all’autodeterminazione degli ucraini, la Nuland si fa beccare da uno spione (forse russo, che pubblica il leak su YouTube) al telefono con Geoffrey Pyatt, ambasciatore Usa in Ucraina. Nella conversazione, tuttora in rete, i due già sanno che Yanukovich cadrà e decidono – non si sa bene a che titolo – chi dei suoi oppositori dovrà fare il premier e il ministro del futuro governo. La Nuland confida di aver esposto il suo piano di “pacificazione” dell’Ucraina al sottosegretario per gli Affari politici dell’Onu, l’americano Jeffrey Feltman, intenzionato a nominare un inviato speciale d’intesa col vicepresidente Usa Joe Biden e all’insaputa degli alleati Nato e Ue. “Sarebbe grande”, chiosa la Nuland. Che non gradisce come futuro premier ucraino il capo dell’opposizione, l’ex pugile Vitali Klitschko (“Non penso sia una buona idea”): meglio l’uomo delle banche Arseniy Yatsenyuk, che infatti andrà al governo di lì a un mese. Pyatt vorrebbe consultare l’Ue, ma la Nuland replica con una frase che è tutta un programma, infatti sarà il programma di Obama e Biden sull’Ucraina e sull’Europa: “Fuck the Eu!” (l’Ue si fotta!). La Merkel e il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy protestano perchè sono “parole assolutamente inaccettabili”.

Ma non perché gli Usa decidono il governo e il futuro dell’Ucraina come se fosse una loro colonia. Già: come se fosse.

La ricostruzione della conversazione è disponibile integralmente sul sito della BBC e dimostra che gli Stati Uniti erano decisamente interessati a quello che accadeva in Ucraina e al futuro assetto del Paese. A me sembra abbastanza normale in politica estera, ma è chiaro che sono conversazioni che in genere non vengono alla luce e si è trattata oggettivamente di una brutta figura. Naturalmente il fatto che questo scambio sia stato intercettato e pubblicamente rilasciato fa supporre che gli USA non fossero gli unici a interessarsi delle vicende ucraine. Chiudendo il proprio articolo Travaglio esprime la convinzione che l’Ucraina sia una colonia USA, ma vale la pena notare che gli ucraini hanno scelto da soli il loro governo nelle elezioni del 2014 e del 2019.

Non mi risulta che nelle colonie si tengano libere elezioni. Michele Armellini

L’amica geniale – Il Fatto Quotidiano. Pubblicato il Marzo 20, 2022. 

A chi crede o vuole far credere che la guerra in Ucraina sia iniziata il 24 febbraio 2022 con l’attacco criminale di Putin e dimentica i 16mila morti in otto anni nel Donbass, gli accordi di Minsk sull’autonomia della regione russofona traditi da Kiev e altre cosucce, segnalo un fatterello che mi ha ricordato il lettore Angelo Caria. La protagonista è Victoria J. Nuland, oggi sottosegretario agli Affari politici di Joe Biden (democratico), ieri pedina-chiave dell’amministrazione di George W. Bush (repubblicano), che la promosse consigliere del suo vice Dick Cheney (2003-05) e ambasciatrice alla Nato (2005-08), e poi dell’amministrazione di Barack Obama (democratico), che nel 2013 la nominò Assistente del Segretario di Stato (John Kerry) per gli Affari Europei ed Eurasiatici. Moglie del superfalco neocon Robert Kagan, fervida sostenitrice delle guerre in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, nel dicembre 2013 la Nuland dichiara: “Gli Usa hanno investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita”. Poi vola a Kiev a promuovere la “rivolta di Euromaidan”: la sanguinosa protesta nazionalista che il 22 febbraio 2014, con l’ausilio di milizie neonaziste, caccerà il presidente eletto Viktor Yanukovich, filo-russo ma anche filo-Ue.

A fine gennaio, un mese prima del ribaltone, mentre Obama&C. inneggiano all’autodeterminazione degli ucraini, la Nuland si fa beccare da uno spione (forse russo, che pubblica il leak su YouTube) al telefono con Geoffrey Pyatt, ambasciatore Usa in Ucraina. Nella conversazione, tuttora in rete, i due già sanno che Yanukovich cadrà e decidono – non si sa bene a che titolo – chi dei suoi oppositori dovrà fare il premier e il ministro del futuro governo. La Nuland confida di aver esposto il suo piano di “pacificazione” dell’Ucraina al sottosegretario per gli Affari politici dell’Onu, l’americano Jeffrey Feltman, intenzionato a nominare un inviato speciale d’intesa col vicepresidente Usa Joe Biden e all’insaputa degli alleati Nato e Ue. “Sarebbe grande”, chiosa la Nuland. Che non gradisce come futuro premier ucraino il capo dell’opposizione, l’ex pugile Vitali Klitschko (“Non penso sia una buona idea”): meglio l’uomo delle banche Arseniy Yatsenyuk, che infatti andrà al governo di lì a un mese. Pyatt vorrebbe consultare l’Ue, ma la Nuland replica con una frase che è tutta un programma, infatti sarà il programma di Obama e Biden sull’Ucraina e sull’Europa: “Fuck the Eu!” (l’Ue si fotta!). La Merkel e il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy protestano perchè sono “parole assolutamente inaccettabili”. Ma non perché gli Usa decidono il governo e il futuro dell’Ucraina come se fosse una loro colonia. Già: come se fosse. 

«Non sono putiniano, ma». La quinta colonna degli ipocriti, ultimo rifugio dei populisti. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Stanno tutti i giorni in tv e sui giornali a lamentarsi di un nuovo maccartismo (il principio di non contraddizione non è il loro forte), vittime di una caccia alle streghe che colpirebbe implacabilmente chiunque voglia solo esprimere «un dubbio». Ma esprimono ben di peggio

Ospite di Ottoemezzo su La7 – e mai l’ambiguo significato del termine, oscillante tra ospitante e ospitato, è venuto più a proposito – Marco Travaglio ha detto martedì che di filoputiniani in Italia non ce n’è «nemmeno uno», che il problema è al contrario «una specie di caccia alle streghe» scatenata contro chi si permette di avanzare il minimo dubbio, «una specie di caccia all’uomo» che «criminalizza chi cerca le cause della guerra, scambiandole con il dar ragione a Putin».

Trattandosi di una tesi piuttosto diffusa, vale la pena riportare il ragionamento per esteso. Testualmente: «Adesso chiunque cerchi le cause di questa guerra, che non è iniziata il 24 febbraio, ma che dura da una decina d’anni, e che rimonta a molto prima e che ha molte concause, viene indicato come un servo di Putin. Quindi, in Italia non c’è nessun filoputinismo: io non conosco nessuno che dia ragione a Putin o che tifi per Putin, sono tutte sciocchezze queste, che vengono dette per utilizzare la guerra e la resistenza degli ucraini per regolare conti alla buvette di Montecitorio. È una cosa ignobile che non fa onore a chi ci prova».

A mio parere dire che questa guerra «non è cominciata il 24 febbraio», cioè con l’invasione russa, ma almeno dieci anni fa, è la massima giustificazione di Putin che sia possibile immaginare, negando per l’appunto il fatto principale: e cioè che è stata la Russia, con l’invasione del 24 febbraio, a iniziare la guerra. Ma forse su questo punto pesa soprattutto il fatto che il 23 febbraio Travaglio metteva nero su bianco il seguente incipit: «L’altra sera, mentre tg e talk rilanciavano l’ennesima fake news americana dell’invasione russa dell’Ucraina (ancora rinviata causa bel tempo…)».

Più difficile è capire come Travaglio possa sostenere che in Italia non ci sia «nessun filoputinismo», e addirittura di non conoscere nessuno che dia ragione o tifi per Putin. Evidentemente, pur avendolo appena scelto come editorialista del suo giornale, non conosce Alessandro Orsini, il quale due giorni fa ha così presentato la sua personale soluzione al rischio che i russi usino la bomba atomica: «Facciamo vincere la guerra a Putin».

Dire «facciamo vincere la guerra a Putin» a me pare abbastanza per definire qualcuno «filo-Putin», ma forse mi sfugge qualche aspetto particolarmente complesso del discorso, che per essere onesti, a seguirlo in tutti i passaggi, era pure peggio. Infatti il punto era che aiutare l’Ucraina mettendo Vladimir Putin in una «condizione disperata» lo avrebbe costretto, poverino, a usare le bombe atomiche, e a quel punto, tenetevi forte, «l’Europa sarebbe moralmente corresponsabile di un massacro nucleare». E a dirlo, per giunta, è lo stesso signore che da settimane spiega come sia immorale aiutare gli ucraini a difendersi, in quanto non hanno nessuna speranza di farcela, e così prolunghiamo solo le loro sofferenze, perché «o diamo a Putin quello che vuole o Putin se lo prende lo stesso». Insomma, dobbiamo dare a Putin quello che vuole perché tanto ha già vinto, ma anche perché aiutando l’Ucraina rischiamo di metterlo in una «condizione disperata», spingendolo quindi a usare l’atomica.

Come si vede, l’analisi di questo raffinato studioso passa indifferentemente dal dichiarare Putin già vincitore al dipingerlo sull’orlo della disperazione. L’unica cosa che non cambia è la conclusione, che è sempre la stessa: dobbiamo dargliela vinta. Definirlo filo-Putin, obiettivamente, mi sembra perfino riduttivo.

Se la questione riguardasse però soltanto il Fatto quotidiano, il suo direttore e i suoi collaboratori, obiettivamente, ci sarebbe poco di cui stupirsi. In fondo, tutto si può contestare a Travaglio ma non di non avere una linea editoriale perfettamente coerente, specialmente in fatto di casting televisivi: nel pieno della pandemia ha offerto una rubrica fissa alla dottoressa salita agli onori delle cronache per avere detto che gli allarmi erano infondati, perché il Covid era una semplice influenza; nel pieno della guerra ha subito arruolato il professore diventato famoso per aver avuto il coraggio di sostenere che l’ostacolo alla pace è Volodymyr Zelenski, e che per questo andrebbe rimosso.

Il problema è che simili ragionamenti sono diventati ormai una posa diffusissima, quasi un nuovo tipo umano, e sicuramente un nuovo tipo di personaggio televisivo. Sono quelli che «non sono amico di Putin, ma». Quelli che rilanciano ogni giorno tutte le peggiori bufale della propaganda russa (i più furbi magari premettendo pudicamente un classico «non so se sia vero, però…»), ma guai a chiamarli putiniani. Stanno tutti i giorni in tv e sui giornali a lamentarsi di un nuovo maccartismo (il principio di non contraddizione abbiamo già visto che non è il loro forte), vittime di una caccia alle streghe che colpirebbe implacabilmente chiunque voglia solo esprimere «un dubbio».

Ma la verità è che dicono di voler esprimere un dubbio perché neanche loro hanno il coraggio di trarre le conseguenze dalle loro stesse affermazioni, perché tirano il sasso e nascondono la mano. Non vogliono dire che Putin abbia ragione, vogliono esprimere il dubbio che forse – chi lo sa, ho detto forse, hai visto mai? – abbiano torto i suoi avversari. E perbacco, il mondo non è mica tutto o bianco o nero, cos’è questa logica binaria? Le cose sono più complesse.

Le cose sono complesse, certo. Ma i tartufi si riconoscono lo stesso: se uno soltanto li nomina per segnalare le assurdità che contribuiscono a far circolare, subito gridano alla lista di proscrizione e alla caccia all’uomo. Quindi non li nominerò, che poi, a volerne approfittare, sarebbe anche un bel vantaggio, perché almeno potrei dire fino in fondo quel che ne penso. Ma sinceramente non mi va nemmeno di insultarli, perché c’è una sola una categoria che ritengo si possa collocare moralmente persino più in basso di coloro che sostengono e fanno il tifo per chi bombarda i centri abitati, deporta i civili, costringe intere famiglie a nascondersi sottoterra e a bere l’acqua dalle pozzanghere: la categoria di coloro che fanno del loro meglio per appoggiare i responsabili di tutto questo, senza nemmeno il coraggio di dirlo.

Ucraina: i negoziati in Turchia e la disinformazione-bomba del WSJ. Piccole Note il 29 marzo 2022 su Il Giornale.  

A Istanbul si stanno svolgendo negoziati tra la delegazione ucraina e quella russa, che dovrebbero durare due giorni, tempistica che indica un incontro niente affatto formale. Arduo che si trovi un vero e proprio accordo, ma qualcosa potrebbe uscire.

È fallito il tentativo di far saltare il negoziato orchestrato ieri con la bomba lanciata dal Wall Street Journal che riportava la notizia che l’oligarca Roman Abramovich, che pare si stia spendendo nelle trattative, e due negoziatori ucraini sarebbero stati avvelenati dai russi nel corso dei primi colloqui di pace.

La notizia ha fatto il giro del mondo, rilanciata da tutti i media senza che nessuno cercasse uno straccio di riscontro, perché a riferirla era stato uno dei media più autorevoli del globo.

Così sintetizzava Dagospia: “Abramovich ha capito cosa vuol dire mettersi contro Putin. L’oligarca russo e due negoziatori ucraini avrebbero sofferto sintomi compatibili con l’avvelenamento da armi chimiche dopo un incontro a Kiev all’inizio del mese di marzo: occhi rossi, lacrimazione costante, pelle che si staccava. La notizia bomba è stata sparata dal Wall Street Journal. Il Daily Mail: l’ex boss del Chelsea ha perso la vista per ore ed è stato ricoverato per alcune ore in Turchia. Il sospetto attacco è stato commesso da qualcuno a Mosca che voleva sabotare le trattative per mettere fine alla guerra “.

Ma il giochino è durato solo qualche ora, dal momento che poco dopo la narrazione iniziava a essere corretta, con report che riconducevano le sintomatologie di cui sopra a fattori naturali. Oggi l’immagine rassicurante di Abramovich ai colloqui di pace, ai quali non sarebbe andato se la bufala avesse avuto un fondo di verità…

Ma perché il WSJ ha tirato fuori questa notizia tossica, ancor più dirompente perché a ridosso dell’inizio dei colloqui di pace in Turchia? Qualcuno sta avvelenando, stavolta davvero, i pozzi dai quali si potrebbe attingere una qualche soluzione alla guerra ucraina?

I negoziati che si stanno dipanando tra Russia e Ucraina sono avvolti da un velo di mistero, dal momento che poco o nulla trapela di quanto si sta davvero trattando. Come un alone di mistero adombra i negoziatori.

Per restare ad Abramovich, citiamo un curioso errore di Dagospia, che nel riferire la notizia dell’incidente del  velivolo militare M-346, che a metà marzo si schiantato nel lecchese, metteva a corredo della nota anche una foto che riportava la rotta del Gulstream privato dell’oligarca anglo-russo, che quel giorno era volato da Mosca diretto verso Israele.

Ma al di là degli svarioni, non si può non registrare che negoziare la fine di questa guerra porta sfortuna. Uno dei delegati ucraini che ha condotto la prima tornata di negoziati con la delegazione russa, il banchiere Aleksandr Dubinsky, il 5 marzo, poco dopo i colloqui, è stato ucciso dai servizi segreti ucraini, la SBU, perché accusato di essere una spia russa.

Nel riportare la notizia, il media indiano Sirf News riferiva che un deputato ucraino aveva twittato che Dubinsky sarebbe stato ucciso mentre la SBU stava “tentando di arrestarlo”. Lo stesso media riferiva che “due organi di stampa ucraini, Ukraina.ua e Obozrevatel, hanno confermato l’affermazione, citando entrambi le rispettive (o identiche) fonti anonime”.

“Il primo ha pubblicato una foto parzialmente sfocata di quello che si affermava fosse il corpo dell’uomo. L’immagine mostrava qualcuno sdraiato sul marciapiede a faccia in su, con il volto apparentemente insanguinato e una pozza di sangue sotto la testa”. Analoghe descrizioni del defunto si potevano rinvenire su altre fonti.

La descrizione della foto cozza con un arresto andato storto, dal momento che appare davvero arduo immaginare che una persona di una certa età come Dubinsky possa divincolarsi da agenti ben addestrati, che sarebbero stati così costretti a ucciderlo mentre tentava la fuga. E il corpo riverso sul marciapiede indica che Dubinsky non è stato ucciso a seguito di un arresto. Sembra piuttosto un omicidio avvenuto per strada, come notava anche il Riformista, da cui un certo alone di mistero.

L’uccisione avveniva poco dopo l’annuncio dell’apertura dei primi corridoi umanitari per evacuare i civili dalle città ucraine assediate, altra coincidenza sfortunata (e infatti fu procrastinata).

Ma al di là della sfortuna che aleggia attorno ai negoziati e ai negoziatori, resta la strana bomba mediatica del Wall Street Journal, che interpella e inquieta.

Resta da vedere se, nonostante l’intossicazione mediatica (difficilmente riconducibile a un banale svarione giornalistico), i colloqui che si stanno svolgendo in Turchia porteranno qualcosa di buono. Forse è troppo presto, ma qualcosa sembra stia accadendo davvero. Vediamo, speriamo. 

P.S. Zelensky ha chiesto di parlare alla notte degli Oscar. Evidentemente ha ricevuto un niet da Hollywood che rappresenta un centro di potere americano. Forse questa America si è stufata di certi programmi di guerra

"Nato e Usa fanno la guerra col c**o nostro", Fulvio Grimaldi incendiario a Dimartedì: il mondo sta con Putin. Il Tempo il 29 marzo 2022.

La sconfitta di Vladimir Putin e della Russia nella guerra in Ucraina è una "interpretazione onirica", afferma il giornalista Fulvio Grimaldi che porta a Dimartedì, il programma condotto da Giovanni Floris su La7, un punto di vista quantomeno controverso sulla percezione e sulla narrazione del conflitto. La stragrande maggioranza della popolazione mondiale non si è adeguata alla propaganda di guerra, di odio, di criminalizzazione, di annichilimento nei confronti della Russia - argomenta il giornalista - che tra l'altro viene sempre identificata solo con Putin quando si tratta di una federazione di 450 milioni di persone, dei quali il 60-70 per cento" esprime il consenso per il governo con il voto. Maggioranze che "i governi occidentali si sognano", dice Grimaldi nello stupore generale. 

Non solo nel mondo, dice il giornalista, ma anche in Italia la percezione del conflitto è diversa da come si racconta sui media: "Il 73 per cento dei nostri cittadini non vuole avere a che fare con una guerra contro Putin, dà una valutazione diversa" del presidente russo rispetto a quella degli latri ospiti, è la frecciata di Grimaldi che cita un sondaggio. Floris è incredulo, e porta la discussione sulle possibilità che si raggiunga una pace, o che Putin perda la guerra. "Non c'è pericolo che la Russsia perda questo confronto, Nato e Stati Uniti escono da debacle militari in mezzo mondo da oltre trent'anni, il rischio di una sconfitta" è per loro, sostiene il giornalista che usa il francese per sbertucciare l'alleanza atlantica e Usa che voglio fare la "guerra con il c**o degli europei". 

Ucraina, lettera a media internazionali: “Stop a parole che non rappresentano la verità“. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Marzo 2022.  

"No a conflitto ucraino o crisi ucraina, no a guerra di Putin e ad aree detenute dai separatisti. No all'uso di espansione se riferito a Nato".

L’Ucraina, con i suoi massimi rappresentanti, si è rivolta ai media e giornalisti del mondo e chiede l’adozione di una serie di accorgimenti nei racconti di guerra. In una lettera aperta, sono elencate richieste e motivazioni di termini ed espressioni da bandire e del nuovo linguaggio da utilizzare per descrivere il conflitto. “Alcune parole non sono ovvie, ma vitalmente importanti per noi e per la rappresentazione della verità”, si legge. 

Sei i punti principali analizzati.

Prima regola: No all’uso di termini come “crisi“, “conflitto“, “operazione militare” accostati all’aggettivo “ucraino“, come in denominazioni del tipo “crisi ucraina“, “conflitto ucraino“. “Questa è una invasione in piena scala, ed una guerra contro l’invasione dell’Ucraina. Vi domandiamo queste formulazioni: “guerra della Russia in Ucraina”, e/o “invasione russa dell’Ucraina“, soprattutto nelle didascalie, nei titoli, negli attacchi dei pezzi, negli hashtag”.

In secondo luogo: bandita l’espressione “guerra di Putin”. “Anche se la tentazione è credere che questa guerra sia cominciata per volere del presidente russo, i sondaggi di organizzazioni come Savanta, ComRes e Vciom raccolti sulla domanda ‘i russi vogliono la guerra?’ riferiscono che silenziosamente la maggioranza dei russi, circa il 60%, la sostiene. Il pubblico supporto a Putin durante la prima settimana di confitto è salito in Russia dal 60 al 71%. Ciò nonostante i deliberati attacchi contro i civili. Il fatto che molti russi non abbiano accesso a informazioni di media indipendenti, non li solleva dalla responsabilità di prendere le distanze“, si legge.

La lettera integrale (leggi)

Terza richiesta: No all’uso di espressioni come “aree detenute dai separatisti” quando si parla di Donetsk e Luhansk. “Per favore considerate l’uso di ‘proxy russi‘“. Questa l’argomentazione addotta: “Molti media parlano degli pseudo referendum del 2014 nei territori ucraini del Donetsk, della Crimea e degli oblast del Luhansk per giustificare l’invasione russa. Questo è ingannevole. Questi territori sono stati occupati ed annessi dalle forze militari russe nel 2104. La Crimea in una inequivocabile violazione delle leggi internazionali. La guerra nel Donbas è stata orchestrata e sostenuta dallo stato russo. I pseudo-referendum non sono riconosciuti dalla comunità internazionale“. Le Repubbliche del Donetsk e di Luhansk come sostengono gli esperti “sono state la piattaforma della successiva invasione su larga scala ed uno strumento di propaganda e disinformazione“. “Inoltre, le quasi repubbliche del Donbas non sono un’altra parte armata del conflitto. Ma operano come parte dell’esercito russo e dei mercenari che combattono in Ucraina“. 

Quarta regola suggerita: “E’ un errore trattare la posizione russa ed ucraina nell’ottica di ‘due pari prospettive’. Le posizioni russe si basano su menzogne e propaganda; sulla negazione dell’esistenza dell’Ucraina come nazione e stato. La propaganda russa non è solo ‘comunicazione strategica’ o un altro punto di vista, è l’uso della disinformazione per giustificare l’uccisione di migliaia di civili ed una guerra non provocata”. Quinta richiesta: Stop inoltre all’uso dell’espressione “espansione” riferita alla Nato. “Così si perpetua la giustificazione della guerra indotta dal Cremlino e si ignora la voce democratica degli ucraini che vogliono vivere in pace, liberi dall’invasione russa”, si legge.

Ed a conclusione del ‘vademecum’ al punto 6: “vi imploriamo di consultare esperti ucraini. La maggioranza degli esperti internazionali sono specializzati in Russia e nell’Europa dell’est. Vi domandiamo di includere anche quest’altro punto di vista“. Redazione CdG 1947

Bruno Ruffilli per “La stampa” il 23 marzo 2022.

Tre italiani su quattro navigano sul web, secondo Audiweb, per un totale medio di 58 ore al mese. E di queste, 16 al mese sono dedicate ai social, ai quali accedono 38,5 milioni di persone ogni giorno. La ricerca commissionata da Italian Tech a SWG è al centro dello speciale Italian Tech, domani in regalo con La Stampa e Il Secolo XIX . Ma si parla anche di informazione, di grandi della tecnologia che diventano arbitri della politica, di invenzioni grandi e piccole che ci hanno cambiato la vita o che potrebbero farlo. Tutto con le splendide illustrazioni di Noma Bar.

Ognuno ha la sua specializzazione: Twitter per informarsi, TikTok per divertirsi, Instagram per osservare, Facebook per rimanere in contatto con amici e conoscenti. E LinkedIn, specie tra i più giovani, per trovare un lavoro. Tutti sono diventati più popolari con la pandemia, ma TikTok più degli altri: solo nell'ultimo anno, la piattaforma di condivisione video è cresciuta del 58 % in Italia, allargando a dismisura la sua fascia di utenti, di pari passo con l'interesse di influencer e aziende. Per i più giovani, è il social da frequentare, insieme con Instagram.

Per chi ha tra 50 e 70 anni, invece, il riferimento rimane Facebook, che è il social a tasso di crescita più basso (un rispettabile 19%, comunque). Ma i social ci hanno cambiato la vita in meglio o in peggio? Dipende anche qui dall'età: Secondo la ricerca SWG-Italian Tech il giudizio è complessivamente positivo per i nati tra gli anni '80 e gli anni 2000: il 27 per cento li considera utili, e addirittura l'11% parte della propria identità. Il dato si inverte con l'aumentare dell'età: quasi il 45 per cento dei Baby Boomer, nati tra gli anni '50 e '60, considera il rapporto con i social network superfluo o inutile.

Gli italiani si informano sui social (in video soprattutto), ma non sempre leggono quello che condividono. E se li abbandonano, spesso lo fanno per l'eccesso di notizie false o incomplete. Che, però, sono ovunque: su Wikipedia, ad esempio, che nel caso della guerra in Ucraina non si è dimostrata all'altezza del suo compito di fonte di informazioni attendibili e aggiornate.

In Italia almeno, perché della pagina «Invasione russa dell'Ucraina (2022)» è esistita per tre settimane solo una bozza, mentre le edizioni in altre lingue riportavano costanti aggiornamenti. Dopo lunghe polemiche e divisioni interne tra i volontari di Wikipedia, la voce è stata finalmente messa online, ma con diverse avvertenze: è una voce «da controllare» e afflitta da «recentismo».

Ma il conflitto in Ucraina ha mostrato ancora una volta che i grandi della tecnologia non sono neutrali. Oltre alle sanzioni decise dai governi, ci sono state le mosse di Amazon, Apple, Sony, Netflix, YouTube, Microsoft e tanti altri, che hanno sospeso o limitato i loro servizi a segnare il crescente distacco del regime di Putin dal resto del mondo.

Mosca ha reagito lanciando o potenziando piattaforme made in Russia, primi segni di un'internet autarchica che è l'esatto contrario del principio cardine da cui è nata la Rete. Intanto i servizi ancora attivi sono stati spesso usati in modo assai diverso da quello previsto originariamente: le recensioni su Google Maps sono diventate un mezzo per aggirare la censura russa, affittare un alloggio su Airbnb (ma senza andarci) è un modo per aiutare finanziariamente gli host ucraini.

Perfino TikTok, da piattaforma per balletti, è diventata un mezzo di informazione: altro segno della capacità umana di inventare, di trovare una soluzione a un problema, di portare nel presente qualcosa che prima non c'era.

Ce ne parlano in questo numero, Nerio Alessandri, fondatore di Technogym, e James Dyson, che tutti conoscono per gli aspirapolvere più avanzati del mondo, ma pochi per essere l'inventore di un'auto elettrica rivoluzionaria. Che non è mai nata per ragioni commerciali, come racconta in un lungo estratto in esclusiva della sua autobiografia, Invention, di prossima pubblicazione presso Rizzoli. E ancora, c'è chi inventa un nuovo mondo: ad esempio Peter Moore, vicepresidente di Unity Technologies, un passato tra videogiochi e football.

La sua tecnologia Metacast, digitalizza eventi sportivi per renderli spettacoli interattivi, un metaverso in tempo reale. Di invenzioni che hanno fatto la storia ne segnaliamo 10, ma in questo numero di Italian Tech ci sono anche 24 gadget recentissimi, raccolti tra il Ces di Las Vegas e il Mobile World Congress di Barcellona. Senza dimenticare chi pensa in modo diverso: come i visionari di Fairphone, secondo cui un telefono non nasce per essere buttato, ma aggiornato e riciclato. 

Franco Stefanoni per il Corriere della Sera il 23 marzo 2022.

Più si abbassa l'età, più aumentano i controlli sulle informazioni online per verificarne l'affidabilità, inclusa la presenza di fake news. Tra i giovani (18-30 anni), il 61% si accerta infatti di autori e link, il 56% fa comparazioni con altri indirizzi web, il 38% bada che il sito sia aggiornato. Percentuali che crollano se l'età è quella compresa tra 31 e 50 anni, e tra 51 e 64 anni. Stesso discorso a seconda del grado d'istruzione: meno titoli di studio fa il paio con meno controlli. Uno scenario, quest' ultimo, che può portare a dare credito a notizie false.

Nel quadro fornito dall'indagine «Media e fake news» che Ipsos ha realizzato per Idmo (Italian digital media observatory), l'hub nazionale coordinato da Gianni Riotta e partner di Edmo, task force europea contro la disinformazione, spicca come tra gli italiani non ci sia confusione sul significato stesso di fake news, si tratta di notizie tendenziose o completamente inventate, anche se quando c'è da valutare vero o falso la percezione cambia.

Il 73% degli intervistati - mille persone sentite tra l'1 e il 4 febbraio, metà uomini e metà donne, dai 30 ai 64 anni, per il 45% senza diploma, il 37% diplomati e il 18% laureati - ritiene infatti di essere in grado di distinguere un fatto reale da una bufala. Tuttavia, se deve giudicare il comportamento degli altri, il pensiero è che appena il 35% sia altrettanto capace di farlo.

Una differenza di atteggiamento che, anche in questo caso, è più forte tra i più giovani e scolarizzati: quasi otto giovani tra i 18 e i 30 anni di età (quote oltre il 75%) crede più nella propria capacità di saper distinguere i fatti reali dalle fake news che il quella altrui.

 I falsi descritti come più pericolosi risultano essere quelli tendenziosi, costruiti cioè per favorire particolari interessi. Il 60% degli intervistati crede che chi li diffonde sia consapevole del fatto che sono notizie scorrette e più di uno su tre (il 37%) è dell'idea che tale diffusione abbia alla sua radice un tornaconto economico. Sapere che cosa sia una fake news, analizza l'indagine chiesta da Idmo (tra i partner Rai, Tim, Tor Vergata, Newsguard, Gedi, Corriere della Sera , Fondazione Enel) non significa padroneggiare il concetto di «affidabilità» delle informazioni.

La quasi totalità degli italiani ha chiaro che una notizia controllata sulla pagina di un divulgatore (scienziati o debunker, soggetti che svelano i falsi) sia più affidabile, ma sono altrettante le persone che ritengono che la ripresa da parte di più mezzi d'informazione, qualunque essi siano, rappresenti un segno di correttezza di contenuto.

Per il 60% notizia condivisa è sinonimo di affidabilità, mentre il 55% è dell'opinione che è ancora più attendibile se condivisa da un amico molto attivo sui social (quota che sale tra i più giovani e tra i meno istruiti, mentre scende nella fascia d'età 31-50 anni e tra chi ha più titoli di studio).

In un Paese in cui sette persone su dieci attingono esclusivamente informazioni da fonti gratuite e solo una su quattro è disposta a pagare, con ampie quote di italiani che dichiarano di non avere nette opinioni riguardo a fatti di dibattito pubblico, non stupisce come risulti ben radicata una serie di credenze. Il 30% dei cittadini ritiene che l'acqua del rubinetto non sia salutare come quella in bottiglia e che l'Italia non sia il Paese con la percentuale più alta di riciclo dei rifiuti in Europa.

Il 23% avvalora il fatto che l'omeopatia sia in grado di curare, ma il 36% non è sufficientemente informato per esprimersi al riguardo. Una proporzione anche maggiore (45%) non sa dire se la circostanza che l'Italia risulti il secondo Paese manifatturiero d'Europa sia verità o bugia, sebbene chi lo ritenga falso sia solo il 13%.

Ancora: quasi il 40% delle persone è del parere che il tema del cambiamento climatico divida la comunità scientifica, dato che scende tra i più giovani al 32%, tra i più istruiti al 35%. Circa il 30% pensa che l'olio di palma sia più pericoloso del burro per la salute, che una dieta priva di formaggi prevenga diversi problemi intestinali negli adulti. Ultimo, ma non per importanza, poco più del 20% considera i vaccini fattori di indebolimento del sistema immunitario dei bambini.

Stupidario della guerra: quella gara tra i grillini a chi la spara più grossa. Paolo Bracalini il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.

Lacune in diritto internazionale, ignoranza in storia e geografia: le perle di tv e politici.

La crisi ucraina ha messo a dura prova le competenze storiche e geografiche della classe politica italiana. Già capire dove collocare il Donbass è stato impegnativo, ma ci si è messa anche la conformazione geografica dell'Ucraina, con non uno ma addirittura due mari a bagnarne le coste, poi memorizzare i confini (a nord con la Bielorussia, a ovest con la Polonia, a sud con la Moldavia ma occhio che dentro c'è anche la Transnistria...). Uno sforzo cognitivo che non veniva richiesto fin dall'esame di terza media. Molti parlamentari sono crollati psicologicamente. E sono fioriti strafalcioni, gaffe, errori clamorosi. La collezione migliore arriva (ma era prevedibile) dai Cinque stelle, a pari merito con gli ex Cinque Stelle, selezionati non a caso con gli stessi criteri. Il sottosegretario Carlo Sibilia, già noto alle cronache, si è emozionato il 17 marzo facendo gli auguri «alla nostra Repubblica», una data - ha scritto - che «assume un valore speciale perché cade in un frangente storico, col terribile conflitto ucraino, che ci fa apprezzare l'importanza di vivere in un Paese libero e democratico». Peccato che il 17 marzo 1861 sia nato il Regno d'Italia, non la Repubblica italiana. Notevole anche la performance in Senato di Paola Nugnes, ex M5s ora al Misto, che nel suo intervento, forse sconvolta dalla drammaticità del momento, ha parlato per due volte di «Ugraina», con la g, e ha citato «Naomi Chomsky», l'accademico americano che in verità di nome fa «Noam». In una interrogazione parlamentare undici senatori tutti ex M5s hanno chiesto al governo di non condividere l'esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle competizioni sportive, visto che «l'intero consesso sportivo mondiale partecipò nel 2018 alle Olimpiadi di Pyongyang, proprio nel periodo in cui la Corea del Nord era stata accusata da tutti gli organismi internazionali di violare i diritti umani e di voler scatenare una guerra globale grazie agli esperimenti nucleari che stava conducendo». Piccolo dettaglio: le Olimpiadi si tennero a PyeongChang, nella Corea del Sud. Se si parla di gaffe Danilo Toninelli non può mancare, e infatti non manca. In una diretta social l'ex ministro M5s ha spiegato che l'Ucraina «fa parte dell'Unione europea», peccato però che il paese sotto attacco militare russo non faccia assolutamente parte dell'Ue. Proprio tra i grillini si trovano i parlamentari putiniani più o meno espliciti. Uno di loro, il deputato Nicola Grimaldi, ha chiesto che oltre all'intervento di Zelensky il Parlamento italiano organizzi una videoconferenza pure con Putin, «per sentire anche la controparte». Il senatore Vito Petrocelli, presidente della commissione Affari esteri, il 21 febbraio non ha trovato niente di meglio che pubblicare la dichiarazione del portavoce di Putin definendola «un fatto» («La Russia è l'ultimo Paese in Europa che vuole anche pronunciare la parola guerra»). Questo tre giorni prima dell'attacco russo all'Ucraina.

Nella categoria «io lo avevo detto» c'è Piero Fassino, presidente della commissione Esteri della Camera, noto per le profezie che si avverano al contrario. «Non prevedo l'invasione dell'Ucraina, arrivare a Kiev sarebbe azzardato per Putin» ha vaticinato all'inizio delle operazioni militari.

Svarioni anche in campo giornalistico, inevitabili nelle lunghe maratone. Il Tg1 ha preso per buona una finta copertina del Time con Putin con baffetti hitleriani, il Tg2 ha mandato in onda un videogioco di guerra scambiandolo per una «pioggia di missili» sull'Ucraina, Giletti a Non è l'Arena ha parlato di uno «straordinario diario sulla Prima Guerra Mondiale scritto proprio da Dostoevskij», morto nel 1881. Storia e geografia, vittime collaterali del conflitto.

Fake news e... fave così la guerra nel ‘41. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Marzo 2022.

Il 13 marzo 1922 «Il Corriere delle Puglie», antenato de «La Gazzetta del Mezzogiorno», non va in stampa, come ogni lunedì. Scopriamo, così, quel che accadde oggi, nel 1941.

ONDATE DI BOMBARDIERI SULLE POSIZIONI GRECHE -13 marzo 1941. In prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» una foto di alpini impegnati sul fronte greco-albanese. L’Italia è in guerra da 9 mesi. Sebbene il nostro esercito non abbia le risorse per gestire un conflitto, il 10 giugno 1940 Mussolini ha dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Le prime operazioni, come previsto, sono un fallimento. Il 28 ottobre l’esercito italiano aggredisce la Grecia: la tenace resistenza costringe le nostre armate, che subiscono enormi perdite, a retrocedere. Il 9 marzo 1941 il duce ordina di nuovo un attacco improvviso: ancora una volta i greci riescono eroicamente a difendersi. Sulla «Gazzetta», come sempre dall’inizio della guerra, compare con toni trionfanti il bollettino delle forze armate. Nell’articolo di fondo l’«inviato aereo», Arturo Profili, parla di ondate di bombardieri in picchiata sulle posizioni greche: «Ancora una volta l’ala fascista ha dominato incontrastata il cielo delle posizioni elleniche». Oggi le chiameremmo fake news: quelli del marzo 1941 sono, in realtà, giorni di sanguinosi e inutili combattimenti, che si concluderanno con una clamorosa ritirata italiana. Le veline dell’Agenzia Stefani comunicano ai giornali cosa scrivere, cosa omettere, quali notizie sottolineare, su quali sorvolare. Si chiama guerra psicologica e la vediamo in atto anche noi in questi giorni: è la principale arma dell’aggressore. Anche sul fronte interno la propaganda è strumento strategico ed essenziale. L’offensiva di primavera, in effetti, si rivelerà un’azione mal pianificata e mal gestita, con impressionanti sacrifici in termini di vite umane. Solo con l’intervento dell’alleato tedesco, come avverrà in molti altri casi, la situazione si «risolverà»: a fine aprile gli eserciti nazifascisti occupano la Grecia.

REQUISIZIONI DELLE FAVE -Tempi di guerra. Anche in Puglia è arrivato il conflitto: nel novembre del 1940 un violento bombardamento inglese ha sconvolto Taranto. Ma guerra vuol dire anche restrizioni, razionamenti, tessere annonarie. Il Comando del IX Corpo d’Armata – che ha sede a Bari, nel sontuoso palazzo Barone Ferrara, in corso Vittorio Emanuele II – dalle pagine della «Gazzetta» comunica la «requisizione di tutti i quantitativi di fave, favette, favini, in possesso dei produttori, commercianti e detentori a qualsiasi titolo»: devono essere destinati ai bisogni delle Forze Armate. Le infrazioni dell’ordinanza, leggiamo sul quotidiano, saranno punite con la reclusione fino ad un anno.  

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 13 marzo 2022.

"Per me è una cagata pazzesca", così commentava il ragionier Ugo Fantozzi la visione del film La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovic Ejzenštejn del 1925, commento salutato da ben "92 minuti di applausi". A rinverdire i fasti della suddetta battuta del cult Il Secondo tragico Fantozzi, ecco arrivare al Tg1 delle 20.00 il servizio di Giacinto Pinto sulla Scalinata Potëmkin di Odessa, teatro di una delle più memorabili scene del film di Ejzenštejn, vale a dire quella che rievoca la rivolta della città ucraina affacciata sul Mar Nero durante la prima rivoluzione russa risalente al 1905 quando la folla inerme fu attaccata dai cosacchi agli ordini dello Zar.

Una scena parodiata da Paolo Villaggio nel già citato film, nonché più seriamente rivisitata da Brian De Palma nel suo Gli intoccabili. Peraltro, l'eccidio sulla scalinata fu una licenza poetica del regista sovietico, poiché in realtà i cosacchi non trucidarono i civili indifesi sulla scalinata di giorno bensì durante la notte nelle stradine limitrofe. 

Peccato però che il Tg1 cambi maldestramente la Storia e trasformi i cosacchi nei "bolscevichi", come si può vedere nel tweet di Gisella Ruccia del Fatto Quotidiano, corredato dal video tratto dal servizio del notiziario dell'Ammiraglia Rai andato in onda sabato 12 marzo 2022.

Servizio che per illustrare lo svarione ha addirittura inserito le immagini tratte dal film La corazzata Potëmkin senza tuttavia specificare che fossero appartenenti alla pellicola di Ejzenštejn, forse ritenendole erroneamente immagini di repertorio - o magari trasmettendole per tali, non è dato sapere. Comunque sia, una didascalia esplicativa sotto le immagini non avrebbe guastato.

Inutile dire che in rete la "cagata pazzesca" del Tg1 - "su questi scalini Odessa si ribellò ai bolscevichi nel 1905" - è stata fortemente stigmatizzata, e molti utenti si sono domandati come mai nessuno controlli prima di mandare in onda i servizi. Con ogni probabilità, essendo in video 24 ore su 24 a raccontare della guerra, la Direttrice Monica Maggioni è impossibilitata a verificare il corretto operato della redazione (ragion per cui i direttori non dovrebbero fare anche i conduttori...), ma vi sono comunque sette vicedirettori (un record) e una pletora di caporedattori e vicecaporedattori, tutti a spese nostre. Dov'erano? Non si sa.

Irene Soave per il Corriere della Sera il 13 marzo 2022.

Una scena che a molti ha fatto voltare lo sguardo: quella di una bambina, nove anni, ciocche colorate tra i capelli come tante altre sue coetanee, lecca lecca in bocca come Pippi Calzelunghe, e in braccio un fucile. È l'ultima delle foto - quasi tutte di bambini, appena nati o tragicamente uccisi - che stanno facendo la storia simbolica del conflitto ucraino: ieri è diventata «virale», sui social, perché l'ha pubblicata su Twitter l'ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, con la didascalia: «Ora spiegate a lei che sanzioni più pesanti sarebbero troppo costose per l'Europa». 

Per molti che l'hanno condivisa è il simbolo di una guerra combattuta anche contro i bambini: 79, a ieri, sono morti nel conflitto (e più di 100 feriti; 280 scuole bombardate; 9 distrutte). Come Veronika, la neonata figlia della blogger fotografata incinta fuori dall'ospedale di Mariupol. O il bambino Kirill, portato dai genitori a morire in corsia, nella stessa città.

Per molti altri, però, una bambina con un fucile in mano è un cortocircuito visivo inaccettabile, ancor più delle altre foto di bambini di cui questa guerra è purtroppo prolifica. Ancor più controverso può risultare che la foto sia stata messa in scena e scattata in posa: l'autore dello scatto è un fotografo amatoriale di Kiev, Oleksii Kyryschenko, e la bambina, 9 anni, è sua figlia. 

«Il fucile è mio, e ovviamente è scarico», si difende il padre, sui social, dalla marea di commenti montati ieri da tutto il mondo sotto la sua «Young Girl with Candy». «Gliel'ho messo io in mano, non sa sparare, ha nove anni». Oleksii Kyryschenko ne ha 48. «Sono un fotografo per hobby, ho fatto diversi corsi. Ho tre figli, una è lei», scrive in una mail che ha preparato come risposta automatica ai tanti che gli scrivono riguardo a quella foto: sono centinaia. E no, «non potete usare il suo nome», ci dice quando lo raggiungiamo su uno smartphone ormai rovente: il nome di battesimo della bambina non circola nelle tante condivisioni, «e lei stessa sa di essere diventata famosa, suo malgrado, ma non saprebbe bene dire cosa questo significhi». 

La foto è stata scattata prima della guerra. «Due giorni prima. Il 22 febbraio. La tensione che avevamo era già alle stelle. L'intelligence, l'Occidente, ci spiegavano che ci sarebbe stata una guerra inevitabile. Nessuno di noi ci credeva. Anche perché le vere sanzioni verso la Russia sono partite dopo un bel po'». «C'è stato un picnic in quei giorni per il mio compleanno», racconta Kyryschenko. «Siamo andati nel bosco a fare un picnic, tutti e cinque. C'era il sole. Mi sono sdraiato sull'erba e guardando il cielo mi sono detto: e se questo fosse l'ultimo giorno di pace?».

Kyryschenko mette in posa la figlia, che ha i capelli colorati come molte bambine della sua età, ma in patriottici giallo e azzurro, in una casa che sembra già bombardata; scarica l'arma e gliela mette in mano. 

Poi pubblica la foto «in vari gruppi di fotografi amatoriali di cui faccio parte. Quelli in russo mi bannano subito. Quasi tutti hanno da ridire sul fatto che una bambina aveva una pistola in mano. Capisco. Ma io volevo mostrare come sarebbe potuto diventare, a breve, il nostro Paese in guerra». 

Non si sbagliava di molto. Due giorni dopo «le esplosioni ci hanno svegliati all'alba». Subito dopo, la famiglia Kyryschenko scappa verso Ovest, rifugiandosi a casa di amici. «Mi sono registrato per combattere, ma non mi hanno mobilitato: non ho esperienza militare». Quella della bambina senza nome, con ciocche gialle e azzurre nei capelli e lo sguardo all'orizzonte, non è la sola foto di questa serie: un altro scatto della bambina, questa volta in piedi, condivide lo stesso titolo, «Girl with Candy», di fronte a un murale con la scritta «Putin khuylo», più o meno «fottuto Putin». 

Sotto, un account anonimo scrive: «questa foto è falsa, è del 2018». Risponde l'autore: «I russi mentono sempre». Anche nelle foto, e sui social, c'è la guerra.

Lo svarione. Scalinata di Odessa, la figuraccia del Tg1 che parla di “ribellione contro i bolscevichi”. Carmine Di Niro Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

La Rai regala una nuova ‘perla’ nel racconto della guerra in corso in Ucraina dopo l’invasione da parte delle truppe russe. Merito del telegiornale della rete ammiraglia, il Tg1, che nella giornata di sabato 12 marzo ha mandato in onda il servizio dell’inviato Giacinto Pinto da Odessa.

Protagonista dello svarione è proprio la città che si affaccia sul mar Nero, nel mirino di Vladimir Putin per la sua posizione strategica e il suo porto, snodo centrale per il trasporto. 

Pinto mostra nel servizio mandato in onda nell’edizione delle 20 il filo spinato presente sulla scalinata di Odessa, mandando in onda le immagini tratte dal film “La corazzata Potëmkin” di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, la pellicola del 1925 riconosciuta come una delle opere più influenti nella storia del cinema e nota in Italia soprattutto per la citazione cult ne “Il secondo tragico Fantozzi” con Paolo Villaggio.

Nel servizio quindi Pinto spiega che “su questa scalinata nel 1905 Odessa si ribellò ai bolscevichi”. Un errore clamoroso che è diventato oggetti di sberleffo sui social: come noto infatti nel 1905 la ribellione non si stava compiendo nei confronti dei bolscevichi, ma dei cosacchi. La ribellione del 1905 era rivolta contro l’ultimo zar, Nicola II Romanov, che inviò i cosacchi a reprimere le proteste.

Anche l’utilizzo delle immagini tratte da “La corazzata Potëmkin” sono paradossalmente sbagliate: la scena della fucilazione sulla scalinata nel film di Ėjzenštejn non si rifà infatti ad eventi reali, dato che la repressione dei cosacchi avvenne nelle strade della città, e non sulla scalinata.

Una figuraccia che risulta ancora più incomprensibile di fronte ai numeri della redazione del Tg1: mettendo da parte la direttrice Monica Maggioni, che in questi giorni è costantemente in video, il telegiornale della rete ammiraglia può contare su sette vicedirettori e un gran numero di caporedattori e vicecaporedattori. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

I 3 cosmonauti russi e la divisa gialla e blu sulla Iss: «Ma non ci sono legami con la bandiera ucraina». su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.

Tre astronauti russi sono arrivati sull’ISS con una divisa con i colori della bandiera ucraina; nelle foto scattate a terra ne avevano una con colori diversi. Secondo il governo russo, però, i colori della tuta non hanno niente a che fare con Kiev: sono quelli dell’Università dove si sono laureati

Tre cosmonauti russi sono arrivati sulla Stazione Spaziale Internazionale indossando tute di colore giallo e blu: gli stessi della bandiera dell’Ucraina.  

Non è chiaro se però il colore delle tute sia effettivamente un messaggio di pace o sia stato invece casuale: al suo arrivo uno dei cosmonauti, Oleg Artemyev, ha spiegato che ogni equipaggio sceglie i colori delle tute e che questa volta loro hanno scelto il giallo. 

«Avevamo accumulato molto materiale di quel colore», ha detto.  

L’agenzia spaziale russa ha smentito qualunque legame con la bandiera ucraina: «la tuta ha i colori della Bauman Moscow State Technical University, dove i tre cosmonauti si sono laureati», ha detto la Roscosmos. 

Artemyev, Denis Matveyev e Sergey Korsakov sono partiti da Baikour, in Kazakistan, a bordo della navicella Soyuz MS-21. Sono i primi ad arrivare da quando è iniziata la guerra in Ucraina, con l'invasione russa, ormai 24 giorni fa.  

Alla partenza, i tre cosmonauti erano stati fotografati con tute con i colori tradizionali della Russia — bianco e blu. 

Ad accoglierli sull'Iss sono stati due russi, quattro americani e un tedesco: tra loro lunghi abbracci. 

I russi e l'ammutinamento spaziale. Roberto Bonizzi il 20 Marzo 2022 su Il Giornale. 

L' ammutinamento spaziale. Senza urla, comunicati ufficiali, dichiarazioni roboanti. Anzi, proprio in silenzio. Ai tre cosmonauti russi che venerdì notte hanno agganciato la Iss a bordo della Soyuz Ms-21 è bastato un cambio di tuta.

L' ammutinamento spaziale. Senza urla, comunicati ufficiali, dichiarazioni roboanti. Anzi, proprio in silenzio. Ai tre cosmonauti russi che venerdì notte hanno agganciato la Iss a bordo della Soyuz Ms-21 è bastato un cambio di tuta. In volo erano stati ripresi con indosso un'uniforme blu. Ma al momento dell'ingresso nella Iss, i tre si sono presentati in giallo, con evidenti strisce blu. Un messaggio fin troppo esplicito, anche a quella Russia che nello spazio li aveva spediti (e magari adesso ce li lascerà anche oltre i mesi previsti dalla tabella di marcia) prova a smentire che si tratti di un atto deliberato. L'agenzia spaziale di Mosca Roscosmos ci ha tenuto a precisare che «a volte il giallo è solo giallo». E che Oleg Artemyev, Denis Matveev e Sergey Korsakov prevengono tutti dalla stessa università, la Bauman, che ha quei colori nel logo. Una giustificazione «scricchiolante», soprattutto se confezionata a posteriori. Artemyev, da parte sua, aveva accompagnato con una frase sibillina e un largo sorriso la scelta: «È arrivato il nostro turno di scegliere un colore. E, in effetti, avevamo accumulato molto materiale giallo che andava usato. Ecco perché dovevamo indossare il giallo».

Nessuna sfida aperta, un'indicazione sommessa ma chiara. I tre hanno abbracciato i loro sette compagni di avventura. I connazionali Anton Kaplerov e Pyotr Dubrov, il tedesco Matthias Maurer dell'Agenzia spaziale europea (Esa) e gli americani Raya Chari, Thomas Mashburn, Kayla Barrow e Mark Vande Hei della Nasa. L'aggressione russa all'Ucraina ha fatto saltare il piano internazionale per la missione su Marte, che è stato cancellato, ma la collaborazione tra agenzie spaziali per gestire la Iss è rimasta aperta. Anche perché c'erano quei sette esseri umani in orbita e altri quattro ne arriveranno ad aprile, compresa la nostra Samantha Cristoforetti.

A Mosca gli squilli di tromba per «il primo equipaggio totalmente russo ad arrivare sulla Iss da 14 anni a questa parte» hanno virato presto verso un silenzio imbarazzato per l'immagine dei tre alfieri del Cremlino che salutavano il mondo indossando i colori dell'Ucraina. Una richiesta silenziosa di pace agli occhi di quei «professionisti dello spazio» abituati a preparare le missioni per mesi in silenzio e a osservare il nostro pianeta dall'alto. Da lassù, in queste settimane, dev'essere sembrato ancora più assurdo e inspiegabile l'attacco deciso al Cremlino. Qui ci si arrovella sulle motivazioni e le ambizioni recondite di uno zar che ha scelto di rompere l'equilibrio e la pace mondiale. Dallo spazio deve apparire inconcepibile e allucinante.

Nel 1957 i russi spedirono in orbita la cagnetta Laika sulla Sputnik 2. Doveva «sperimentare» la vita nello spazio. Senza nessuna possibilità di sopravvivere. Oggi l'ammutinamento dei tre cosmonauti è un «mayday» inequivocabile lanciato verso casa. Rispettate l'Ucraina. Fate la pace. Sperando che, ai tre cosmonauti, Mosca riservi un destino diverso rispetto alla povera Laika.

Da open.online il 13 marzo 2022.

Dal 2018 Dmitry Rogozin è il direttore generale dell’Agenzia spaziale russa Roscosmos. Prima di ricoprire questo incarico è stato vice primo ministro per sette anni e ambasciatore della Russia alla Nato per tre. Ha due profili Twitter, uno in inglese che ha smesso di essere attivo nel 2017, e uno in russo dedicato a quelle che definisce “note personali”. Come si può immaginare, su questo profilo il racconto della guerra in Ucraina non è esattamente quello che da 17 giorni stiamo leggendo sui media internazionali. 

La scritta che campeggia sopra tutti i tweet è Russian Lives Matter e nel feed possiamo trovare meme sulle Big Tech statunitensi paragonate a gerarchi nazisti, animazioni di Tom and Jerry rielaborate e anche una citazione di Francesca Donato, europarlamentare palermitana eletta nelle liste delle Lega ma poi uscita dal gruppo per le sue posizioni contrarie al Green pass. È da questo account che negli ultimi giorni sono arrivate tutte le minacce russe che hanno riguardato la Stazione spaziale internazionale.

L’ultima è arrivata poche ore fa. Dmitry Rogozin ha pubblicato una mappa in cui vengono evidenziate tutte le porzioni della Terra che di solito sono sorvolate dalla Stazione spaziale internazionale. La mappa è accompagnata da un commento: «Roscosmos ha inviato richieste scritte a Nasa, Canadian Space Agency e Esa per rimuovere le sanzioni illegali verso le nostre aziende». Il messaggio è chiaro: senza l’aiuto della Russia la Stazione spaziale internazionale rischia di cadere. L’urto difficilmente riguarderà la Russia, visto che la stazione sorvola solo poche aree che si trovano lungo i confini Sud della nazione. Rogozin ha chiarito poi che uno dei compiti della Russia nel progetto della Stazione spaziale è quello di correggere l’orbita, operazione di routine che avviene diverse volte nel corso dell’anno. 

Guidoni: «Sono solo schermaglie verbali»

Jonathan Mc Dowell, esperto di meccanica celeste, ha scritto su Twitter che la caduta della stazione sulla Terra non è un problema urgente. La posizione dell’orbita è stata corretta giusto ieri, attraverso mezzi russi. E quindi per i prossimi mesi non sarà più necessario una nuova correzione. Dallo stesso parere anche Umberto Guidoni, l’astronauta italiano che nel 2001 è stato il primo europeo a salire a bordo della Stazione spaziale internazionale: «Si tratta solo di schermaglie verbali e speriamo non si vada oltre». Quello che è possibile invece è che tutta la missione della Stazione spaziale internazionale si chiuda davvero nel 2025, la data che era stata decisa per mettere la parola fine a questo progetto. Si pensava a un prolungamento ma le tensioni nate in queste settimane potrebbero andare avanti ancora per anni.

Rogozin: «Volate pure con i vostri manici di scopa»

Le parole di Rogozin sono rimbalzate anche durante l’ultima diretta di un lancio di Falcon 9, il razzo costruito dalla Space X di Elon Musk. Nei primi giorni dall’inizio della guerra in Ucraina, Rogozin aveva annunciato che Roscosmos avrebbe ritirato il suo supporto tecnico alle missioni sulla Stazione spaziale internazionale. Oltre che a correggere l’orbita la Russia si occupa anche delle Soyuz, le capsule spesso utilizzate per trasportare gli astronauti a bordo della Stazione. 

Secondo Guidoni è proprio qui il problema, visto che per fine marzo è previsto il ritorno a terra di tre astronauti proprio con una Soyuz: due sono russi, uno statunitense. Rogozin aveva commentato la decisione dicendo: «Americani, volate pure con i vostri manici di scopa». Parole riprese il 9 marzo con il lancio di Falcon 9, quando il direttore delle operazioni ha detto ai microfoni: «È tempo di far volare questi manici di scopa». 

Franco Malerba, l’astronauta: «Andai nello spazio con la bandiera europea. Ma Delors non mi volle ricevere». Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.  

L’astronauta: nel ’78 persi la missione per il rapimento Moro. Andremo su Marte, ma non oltre. A Samantha Cristoforetti faccio i miei auguri: non è facile oggi andare sulla Stazione spaziale internazionale

È vero che con un ritaglio di giornale, una volta, si poteva finire nello spazio e diventare il primo astronauta italiano?

«In effetti sì: l’occasione di entrare nel mondo spaziale arrivò con un ritaglio di un giornale in cui si leggeva che stavano cercando scienziati e ingegneri per il primo volo dello Spacelab. Era il Financial Times e me lo portò un collega che era stato in Gran Bretagna per lavoro. Fu tutto molto casuale. Lo conservo ancora».

Franco Malerba, 75 anni nato a Busalla, Liguria, dove da anni organizza l’immancabile Festival dello Spazio, è stato il primo astronauta italiano. Ha fatto parte dell’equipaggio dello Space Shuttle Atlantis partito il 31 luglio 1992 nel corso della missione STS-46. Non la chiamo ex astronauta...

«Noi astronauti non siamo mai ex: siamo come i preti che hanno ricevuto l’investitura e che la portano avanti fino alla fine. Io mi sento ancora come un messaggero».

In tutta la storia, in effetti, siete poco più di 600 a poter dire: siamo andati nello spazio.

«Siamo una popolazione piccola, una specie rara, oggetti da collezione».

Tra pochi mesi saranno passati trent’anni da quel suo volo con lo Space Shuttle. Un volo che in realtà venne ritardato per 14 anni dall’omicidio Moro. Lo ha ricordato proprio lei nel suo libro autobiografico «Professione astronauta. La lunga strada per arrivare allo Spazio».

«È una storia tra le pieghe degli anni di Piombo che non era mai emersa ma di cui fui testimone: l’Italia stava cogliendo insieme alla Germania l’opportunità della corsa allo spazio. Avremmo potuto, in effetti, far parte già da quel maggio del ‘78 — pochi anni dopo la conquista della Luna nel ‘69 — della selezione di punta che portò nelle esplorazioni spaziali i primi europei occidentali, insieme agli americani».

Ricostruiamo il momento: è il 9 maggio del ‘78 e poche ore prima del ritrovamento del cadavere nella Renault 4 rossa in via Caetani, il politico della Dc è stato ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia. Sono mesi di fuoco per l’Italia. Al governo c’è Andreotti. Il Partito Comunista avanza. E proprio in quei mesi si stava giocando una partita all’interno del Patto Atlantico molto importante. L’Europa occidentale era stata chiamata a selezionare gli astronauti per partecipare ai primi lanci dello Space Shuttle. E l’Italia era già entrata a pieno titolo, con lei, nella prima selezione. D’altra parte eravamo, dopo la Germania, i secondi finanziatori del progetto Spacelab. Ma pochi giorni dopo la morte di Moro lei ricevette una telefonata.

«Ricevetti un garbato benservito. Mi dissero che l’Italia non avrebbe fatto parte della missione che, per la prima volta, univa l’Europa con la Nasa in un evidente gesto che non aveva solo un valore simbolico e diplomatico, ma era anche una condivisione operativa nel campo strategico della tecnologia».

Partì un astronauta tedesco, una decisione ineccepibile visto il peso dei finanziamenti di Berlino. Ma, anche con il senno di poi, risulta ancora oggi bizzarro che a lei fossero stati preferiti un olandese e uno svizzero.

«Fu il costo della disattenzione politica e del caos legati all’omicidio Moro. Nei trattati intergovernativi, già al tempo, si parlava esplicitamente del principio del “giusto ritorno” per i Paesi finanziatori. I Paesi Bassi e la Svizzera investivano briciole. Allora avevo 32 anni, l’età ideale per iniziare questo mestiere: prima è difficile per non dire impossibile, perché servono troppe competenze. A 40 anni si ha davanti un orizzonte che non giustifica più il costo dell’addestramento».

Fu solo grazie alla sua testardaggine che l’Italia rimase in scia accumulando, però, un ritardo di oltre dieci anni. Lei partì a 45 anni.

«Saremmo potuti partire prima, questo è certo. D’altra parte ero piuttosto titolato: avevo due lauree, una in Ingegneria elettronica e una in Fisica all’Università di Genova. Avevo lavorato negli Stati Uniti per investire anche sulla lingua inglese e avevo preso un brevetto di pilota privato. Su aeroplanini da quattro soldi, dei Cessna biposto».

Ma prima del ritaglio di giornale voleva fare l’astronauta?

«No. La grande vocazione della mia vita era lavorare nell’ambito della scienza e per questo avevo cercato l’occasione negli Stati Uniti. Avevo lavoravo al Cnr nei laboratori di cibernetica e biofisica: piuttosto gratis dovrei dire. Ero un borsista. Non fu particolarmente gratificante dal punto di vista economico, ma dal punto di vista della dinamica e dell’esperienza molto».

Tornato in Italia fece il servizio militare in Marina, da buon genovese. Poi rifiutò un posto di lavoro negli Usa e fece la selezione. Cosa le disse la sua famiglia?

«Alla mia famiglia non dissi nulla del viaggio a Roma per la selezione presso il centro dell’Aeronautica Militare di Castro Pretorio. In effetti tenni la cosa molto segreta, ma non fu facile. Le prove si tenevano il giovedì, il venerdì e il lunedì. Ma il venerdì sera mi rubarono la valigetta che avevo lasciato nell’auto. Dovetti tornare a Milano di corsa, bloccare la carta di credito e prendere un po di soldi. A quel punto per mia madre la situazione era diventata un po’ sospetta...».

Al rientro abbracciò suo figlio Michele. Se le dicesse che vuole partire per lo spazio?

«Gli direi che è un’esperienza meravigliosa».

Stiamo vivendo una nuova era di turismo spaziale, anche se, per adesso, è per soli ricchi. Ma giusto in caso... trucchi per non stare male fuori dall’atmosfera terrestre?

«Sembra un rimedio della nonna. Mi venne suggerita questa strategia da Frederick Drew Gregory, un collega che era stato per tre volte al comando di una missione. Mi disse: muovi il meno possibile la testa. Se devi guardare a destra muovi solo gli occhi e non il collo. La ragione è semplice: gli organi dell’equilibrio si trovano nelle orecchie e dunque, minimizzandone il movimento, si riducono gli stimoli. Il viaggio può diventare una via Crucis ma, in effetti, a me non accadde».

Altri consigli?

«A causa dell’ipergravità durante il lancio noi sopportiamo un’accelerazione 3G. Il peso del corpo si moltiplica per tre, ma anche quello della tuta. Quando entravamo nello Space Shuttle avevamo uno zaino sopra il petto con due bombolette di ossigeno da usare nell’ipotesi di un lancio di emergenza fuori dalla navetta. Era uno zaino che pesava 10 kg e che dunque diventava di 30 kg. Ricordo che durante la quarantena prima del lancio chiesi a un altro collega, Charles Bolden, se avesse qualche suggerimento. Lui mi disse: quando ti mettono sul sedile ti stringono le cinture delle bombole a morte perché così è scritto nel manuale. Tu allentale. Se ti devi lanciare vuole dire che di problemi ne hai così tanti che le cinture diventano l’ultimo».

Voi astronauti portate sempre qualcosa nello spazio. Lei cosa portò trent’anni fa?

«Ci sono due zainetti, uno ufficiale e uno personale. Nel primo portai delle bandiere: quella italiana, quella della Marina Militare, quella del Cnr, quella dell’Università di Genova, quella delle Nazioni Unite, perché mia moglie Marie-Aude al tempo lavorava a un loro programma, e infine quella europea che fu vittima di una storia un po’ oscura...».

In quale senso?

«Avevo scritto al presidente della Commissione europea, Jacques Delors, che da convinto europeista stavo portando la bandiera europea nello spazio. Ricordo che mi rispose con una lettera ciclostilata. Ci rimasi male. Ma non finì lì, perché poco dopo il mio ritorno dallo spazio venni candidato da Berlusconi all’Europarlamento e venni eletto. Mi dissi che da europarlamentare sarebbe stato un momento magico per restituire la bandiera europea, ma siccome facevo parte di Forza Italia, che in quel momento non aveva una gran reputazione, Delors non accolse l’occasione nemmeno quella volta».

E nello zainetto personale cosa aveva?

«In quello avevo delle medagliette della Madonna della Guardia. Una l’abbiamo portata a Papa Giovanni Paolo II e una al Santuario della Guardia che per me è un luogo molto importante perché da una parte vede Busalla e dall’altra Genova».

Mai avuto paura a fare un mestiere così pericoloso? Prima del suo volo c’era già stato il disastro del Challenger nel 1986.

«Si finisce per diventare, in un certo senso, l’armatura di un personaggio: non sei più te stesso ma quello che la gente si aspetta che tu sia. Comunque dopo il disastro del Challenger la Nasa elaborò una policy per evitare il ripetersi di una cosa orribile: le telecamere durante l’esplosione vennero puntate sui volti dei genitori della maestra che era a bordo. Da allora in poi la procedura fu questa: alle famiglie venivano offerti dei pasticcini e del caffè, poi però, dieci minuti prima del lancio, venivano portate su una terrazza separata. Mio figlio Michele aveva 5 anni. La moglie del comandante era in sostanza la persone da seguire: quando diceva “engines cut off” (il distacco dei motori) allora voleva dire che era andato tutto bene».

Andò tutto bene.

«Sì, ma qualche giorno prima della missione mi approcciarono dei funzionari Nasa per dirmi che avrei dovuto nominare il mio contingency officer... non sapevo cosa fosse. È chi si occupa del recupero dei resti e dell’assistenza alla famiglia. Scelsi Steve Nagel. Quando glielo chiesi mi disse che era un grande privilegio per lui».

Andremo su Marte?

«Sì, ma non oltre... se me lo dicessero non ci scommetterei una cena».

Un’ultima cosa: la sua è stata l’unica bandiera europea portata nello spazio?

«Non lo so, ma io nella mia ci credevo molto. Come oggi: con tutto ciò che sta accadendo in Europa non posso che fare gli auguri a Samantha Cristoforetti. Non è un momento facile per andare nella Stazione Spaziale Internazionale».

Guerra 'stellare'. La propaganda russa sulla “caduta” della Stazione spaziale: perché la minaccia di Mosca non è credibile. Redazione su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

Il conflitto tra Russia e Ucraina ha raggiunto dimensioni ‘stellari’. Il coinvolgimento infatti della Stazione Spaziale Internazionale nella propaganda del Cremlino è una delle novità odierne. È stato infatti Dmitry Rogozin, direttore generale dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, ad evocare il rischio che l’ISS possa cadere per effetto delle sanzioni internazionali disposte contro Mosca.

Tramite il proprio profilo Twitter in russo, dove Rogozin pubblica contenuti della propaganda bellica russa, il capo di Roscosmos ha lanciato una sorta di appello: “Roscosmos ha inviato richieste scritte a Nasa, Canadian Space Agency e Esa per rimuovere le sanzioni illegali verso le nostre aziende”.

Nel tweet c’è quindi una mappa in cui vengono evidenziate tutte le porzioni della Terra che di solito sono sorvolate dalla Stazione spaziale internazionale e dove eventualmente dovrebbe cadere l’ISS.

Per il numero uno di Roscosmos le operazioni delle navicelle russe che riforniscono la Iss sarà interrotta dalle sanzioni, interessando di conseguenza il segmento russo della stazione, che serve, tra l’altro, a correggere l’orbita della struttura. Di conseguenza, ciò potrebbe causare “l’ammaraggio o l’atterraggio” dell’Iss, che pesa 500 tonnellate.

Ma quanto c’è di reale nel rischio evocato da Rogozin? Per l’astronauta italiano Umberto Guidoni “il rischio c’è ma al momento non ci sono effetti. Si tratta solo di schermaglie verbali e speriamo non si vada oltre”, ha spiegato a Lapresse.

Guidoni spiega che la vita della stazione “doveva finire nel 2025” ma si era parlato di prolungarla, invece a questo punto è “probabile” che ciò non avvenga. Allo stesso tempo bisognerà tenere gli occhi puntati su fine mese quando c’è in programma il rientro a terra dalla stazione di due astronauti di Mosca e uno americano tramite una capsula russa Soyuz”.

Tema su cui si è espresso su Twitter anche Jonathan McDowell, astrofisico presso il Centro di astrofisica di Harvard-Smithsonian, che ha ricordato come la posizione dell’orbita è stata corretta giusto ieri, attraverso mezzi russi.

Caracciolo: «L’Ucraina vince solo sui media Putin vuole riconquistare Kiev». Il politologo di Limes: «Zelensky resiste con costi altissimi per il suo popolo». Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Marzo 2022.

Lucio Caracciolo, direttore di «Limes» e docente di Studi strategici alla Luiss (domani a Bari per il festival «Mare d’inchiosto»), dal 24 febbraio assistiamo alla prima guerra in diretta social. Il profilo comunicativo immediato quanto influisce sulle opinioni pubbliche occidentali, compresa sulla italiana?

«Una delle componenti decisive in questo frangente è quella della guerra di propaganda. Sotto questo profilo gli ucraini stanno vincendo contro i russi dieci a zero. I russi non sono portati per la propaganda, ma si dedicano a compattare la propria opinione pubblica interna. Quando vanno all’estero fanno autogol. Gli ucraini sono più abili e hanno l’appoggio - sotto ogni profilo - dal mondo web anglosassone e europeo, che è quello tuttora dominante su scala mondiale».Ucraina, le ambasciate russe combattono sui social la guerra delle fake news. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani l'11 marzo 2022

Qual è la strategia della disinformazione russa? Le ambasciate condividono post di testate ambigue e mischiano factchecking con propaganda, mentre le piattaforme sembrano restare indietro sul controllo dei contenuti

Mentre i soldati combattono intorno alle città ucraine e gli aerei volano sopra Kiev, la Russia combatte un’altra guerra attraverso un impiego alternativo della potenza comunicativa delle ambasciate che rappresentano Mosca all’estero: quella della disinformazione. 

I POST

Le rappresentanze sfruttano le piattaforme social, dove intervengono quasi quotidianamente per far circolare la verità alternativa di Mosca. Nei post si parla di «informazioni antirusse nei media», «presunta distruzione dell’ospedale a Mariupol», e «crimini di guerra» che sarebbero stati commessi dal governo ucraino in Donbass negli ultimi otto anni. 

Basta dare una scorsa veloce alla pagina Facebook dell’ambasciata della Federazione russa a Roma per trovare interventi che rimandano a pagine come War on fakes, una testata che pubblica in parecchie lingue diverse e promette il “factchecking” delle affermazioni false diffuse dalla propaganda ucraina. Ma come ha dimostrato Deutsche Welle, nel debunking vengono mischiate anche informazioni di propaganda russa.  

La propaganda è ancora ovvia in alcuni video nativi di Facebook caricati dalle ambasciate o articoli di RT, la televisione pubblica russa, e Sputnik, un’altra testata controllata dal governo. La linea comunicativa seguita è quella di raccontare la “verità” sulle manovre del governo di Kiev, accusato di trucidare bambini nel Donbass, mentre la Russia sarebbe impegnata “soltanto” a «liberare» e «riunificare» gli ucraini. Frequenti sono anche i riferimenti alle formazioni di estrema destra ucraine come il battaglione Azov e Pravvy Sektor, realtà che giustificherebbero la volontà di Vladimir Putin di «denazificare» l’Ucraina. 

Per il resto, nei post si trovano ampie riprese dei comunicati di Maria Zakharova, la portavoce del ministro degli Esteri russi, i riferimenti su Telegram per continuare a seguire le attività dell’ambasciata e il numero di una hotline di emergenza per episodi di discriminazione e aggressione riconducibili «all’aggravata situazione internazionale e della campagna di informazione antirussa nei media». 

Non mancano anche citazioni di interventi di personaggi pubblici e media italiani ostili alla Nato o simpatizzanti nei confronti di Mosca, come l’intervento di una rifugiata del Donbass su Prima la riviera, un vecchio discorso di Giulietto Chiesa «che già nel 2015 in un convegno rivelò i veri obbiettivi del golpe nazista a #Kiev progettato dagli #USA e dall’#UE che usavano l’#Ucraina come “un bastone contro la #Russia”».

STRATEGIA COORDINATA

Ma la strategia è coordinata con le tante altre ambasciate russe, soprattutto in Europa. A far più notizia negli ultimi giorni è stata quella di Londra, che dal canale Twitter ha spiegato che la notizia del bombardamento dell’ospedale di Mariupol fosse falsa.  

Twitter ha cancellato questo tweet e altri interventi in cui si accusavano le donne apparse nelle immagini diffuse dopo il bombardamento di essere attrici truccate ad hoc. 

I post che alternano fake news a propaganda si trovano anche sulle pagine social dell’ambasciata a Berlino, che parla solo di «operazione militare speciale» quando si occupa dell’invasione e si rivolge pubblicamente al governo per denunciare la “russofobia” che si starebbe diffondendo in Germania.

La rappresentanza ha anche creato un canale Telegram dedicato ai camionisti russi in transito su suolo tedesco e rilancia ogni apertura diplomatica di politici e personaggi pubblici tedeschi anche non di primo piano, come il governatore della Sassonia Michael Kretschmer e il sindaco di Essen. 

Anche in altri paesi le ambasciate propongono contenuti propagandistici spesso provenienti da fonti ambigue, come nel caso della rappresentanza spagnola, che ha diffuso un contenuto che racconta di presunti abusi nel Donbass attraverso la voce di una donna, raccolto da Espìas Rusas, una testata oggi indicata da Twitter come “associata al governo russo”.

Anche in Bulgaria e Grecia le ambasciate hanno compiuto passi falsi: l’ambasciatrice a Sofia si è dovuta scusare col primo ministro bulgaro per aver paragonato l’invasione alla liberazione della Bulgaria 144 anni fa, mentre ad Atene la rappresentanza raccomanda quali canali guardare alla tv. 

È nella prassi che le ambasciate siano bene a conoscenza della politica del paese ospitante, ma è inusuale che si espongano in maniera così esplicita: in passato l’Italia aveva per esempio scelto di espellere dal paese due diplomatici russi che avevano ottenuto documenti Nato segreti da parte del capitano di fregata Walter Biot.

LE PIATTAFORME

Mentre in Russia il governo ha annunciato di volersi sganciare dalle piattaforme social più diffuse, in occidente le BigTech faticano ancora a porre un freno alla propaganda russa diffusa nelle loro reti. 

Intanto, l’ambasciata a Washington ha chiesto al governo americano di intervenire contro le «attività estremiste» di Meta, che ha sospeso la sua regola contro il linguaggio d’odio nei confronti della Russia in alcune regioni del mondo. 

Twitter è intervenuto disattivando una dozzina di profili collegati al governo russo e anche Facebook, YouTube e TikTok hanno oscurato diverse pagine riconducibili alla propaganda russa, come RT e Sputnik. Il social di Mark Zuckerberg ha anche annunciato la creazione di un team di sorveglianza formato da madrelingua russi e ucraini per eliminare tempestivamente contenuti problematici.  

Youtube qualche giorno fa ha annunciato di non permettere più agli account legati alla propaganda russa di stato di guadagnare con i video postati. Ma secondo diversi critici, le iniziative prese finora non sono sufficienti. I primi ministri di Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania hanno firmato a fine febbraio un appello per chiedere alle Big Tech di aumentare il factchecking, disconnettere altri account di propaganda e smettere di vendere pubblicità a utenti controversi. 

Il problema delle aziende tecnologiche è che devono trovare un equilibrio tra la ricerca di contenuti virali come quelli legati al conflitto e la ricerca di credibilità, che i contenuti falsi minano. In più, negli Stati Uniti non c’è una legislazione che argini la diffusione di fake news, motivo per cui molti critici invocano un intervento dell’amministrazione Biden. 

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Odiare Putin non è reato. Le deliranti linee guida di Zuckerberg e il diritto di offendere solo i cattivi del momento. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 marzo 2022.

Facebook e Instagram, svela la Reuters, permettono una deroga temporanea al divieto di offendere se le offese sono rivolte a Putin, Lukashenko o ai soldati che stanno invadendo l’Ucraina.

L’unica ragione per cui abbiamo smesso di andare in chiesa, si scopre in questi anni impazziti, è che il Vaticano non ha pensato a inventare il like, l’unico miracolo cui teniamo, più tangibile dei pani e dei pesci teorici, l’unica liturgia che ci permetta non di cibarci del corpo d’un personaggio di fantasia di duemila anni fa ma di dimostrare che abbiamo un corpo, e un’anima, e soprattutto delle opinioni.

Se il cattolicesimo fosse stato meno arretrato (scambiatevi un segno di pace, ma per favore: noi vogliamo apporci dei cuoricini), saremmo ancora tutti lì, giacché avere dogmi e guide morali ci piace tantissimo, lo confermiamo ogni giorno.

Giovedì, per esempio, la Reuters ha raccontato che Facebook, che ogni giorno ci mette in castigo se diciamo cose come «ricchione» a un vecchio amico con cui condividiamo codici comunicativi ignoti agli impiegati di Zuckerberg, adesso ha deciso che dopo aver fatto le regole fa anche le eccezioni.

Quindi il safe place, il posto in cui nessuno si deve sentire messo a disagio figuriamoci in pericolo, in cui è fatto divieto di mettere in discussione le identità percepite figuriamoci quelle reali, è un po’ meno safe se sei russo. Se sei russo posso minacciarti. Sembra una puntata di Black Mirror, e invece.

«Secondo alcune email interne di cui ha preso visione la Reuters, e in deroga temporanea alle proprie politiche sui discorsi d’odio». Non è la frase più bella del mondo? Se domani un gruppo di donne francesi fa un attentato posso scrivere che le francesi sono tutte troie senza che Facebook mi metta in castigo, impedendomi quel diritto umano che è il like? Col razzismo come siamo messi, Bin Laden lo giustifica, in deroga? Commenti etnici su Saddam Hussein ma più in generale su chiunque venga dall’Iraq sono consentiti, in deroga?

«L’azienda di social network sta anche temporaneamente consentendo alcuni post che invocano la morte di Putin o di Lukashenko, secondo alcune email interne dirette ai moderatori di contenuti». Quel «temporaneamente» m’incanta, sento che lì dentro c’è il grande romanzo postmoderno. La scadenza è nota? Se domani firmano una tregua e i poveri utenti non se ne accorgono per tempo, si ritrovano tutti in esilio dalle piattaforme, banditi dalla possibilità di cuoricinare il cognato perché hanno dato del pompinaro sdentato che deve morire a quel Vladimir che un minuto prima era un criminale ma adesso è una creatura fragile che ha diritto di scorrere il proprio profilo Facebook senza turbarsi?

Le specifiche sono altrettanto incantevoli. Se infatti volete minacciare Putin di morte senza che vi venga impedito di postare i vostri penzierini per giorni, dovete attenervi alle linee guida della deroga. Che, ricopia la Reuters dalle mail interne, dicono che la minaccia non dev’essere una minaccia dettagliata. Non deve, cioè, contenere due o più specifiche. Se dite voglio tagliare la testa a Putin con una roncola sulla piazza Rossa, vi mettono in castigo: c’è la specifica di metodo e quella di luogo (non me lo sto inventando, non ci credo neanch’io ma parla proprio di due specifiche). Ma se dite solo «voglio ammazzarlo domani alle otto» va bene: c’è solo la specifica temporale.

L’ambasciata russa a Washington ha – cosa mi tocca dire – dato una risposta molto più razionale e lucida e liberale di quanto lo siano i dirigenti di Meta (adesso Facebook e Instagram si chiamano Meta, come sapete), ma soprattutto di quanto lo siamo noi, che ci facciamo dare regole su quali parole usare e non usare come fossimo cinquenni con genitori severi, col terrore che ci mandino in camera nostra senza più la possibilità di farci mettere i cuoricini da amici e sconosciuti sulle foto della pizza.

Dice la risposta dell’ambasciata: «Gli utilizzatori di Facebook e Instagram non hanno dato ai proprietari di queste piattaforme il diritto di determinare i criteri di verità». Avete ragione, cari diplomatici russi. Anche perché, come dire, l’algoritmo saprà pure tutto di noi, ma è pur sempre quello che ci consiglia di leggere l’articolo che stiamo per twittare perché non gli risulta che l’abbiamo letto – ignaro che l’abbiamo scritto. O che con squisita ottusità censura Helmut Newton o Michelangelo ritenendo siano immagini uguali al porno amatoriale di vostra cognata.

Come possono piattaforme così strutturalmente fesse mettere in piedi linee guida che pretendono d’essere sofisticate? Certo che si possono minacciare i soldati russi, spiega un’email copiata dalla Reuters, ma solo perché in realtà lo si fa intendendo minacciare genericamente l’invasore, quando si è popolazioni stressate dalla guerra (c’è, giuro, una lista di nazionalità autorizzate a minacciare i russi in deroga; incredibilmente, la lista non include i milanesi che giurano di non dormire per la preoccupazione bellica). E comunque, specifica sempre la delirante email, non si possono minacciare quei soldati russi che siano prigionieri di guerra. Voglio proprio vedere i controllori che vagliano un post alla volta per approfondire se Tizior Tiziokov, di cui un utente si augura il decesso stasera alle sette meno un quarto, sia prigioniero di guerra o no.

Il problema siamo noi, che non vediamo l’ora di trovare religioni prescrittive da rispettare, che siamo contenti se ci trattano come cinquenni. Una non vorrebbe citare «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari» e quel che segue, perché è tra le citazioni più banali che si possano fare. Però ti ci costringono quando, come un mio conoscente ieri su Facebook, esultano perché Facebook ti tratta come un bambino scemo e ti dice su che articoli cliccare e su quali no: «Questo link è di un editore che Facebook ritiene possa essere totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale del governo russo». Prima decidono chi sono i cattivi, e ne siamo contenti perché siamo sicurissimi che noi siamo e saremo sempre i buoni. È ovvio che sia e sarà sempre così, no? Quindi diamo l’unica copia delle chiavi della morale a dei miliardari in dollari, e – purché non ci vietino l’accesso ai cuoricini – lasciamo che decidano chi sì e chi no. Cosa potrà mai andar storto.

Alice Scaglioni per il “Corriere della Sera” l'11 marzo 2022.

Una donna incinta e ferita, con un pigiama a pois, scende le scale dell'ospedale pediatrico di Mariupol distrutto dai bombardamenti. È una delle foto simbolo dell'attacco russo di mercoledì 9 marzo, che tutti abbiamo visto e che ieri è stata usata dalla propaganda russa per sostenere che nella struttura non vi fossero civili.

Alcuni account social - in particolare quello dell'ambasciata russa nel Regno Unito, i cui tweet sono stati oscurati per violazione delle regole della piattaforma - sostenevano che la ragazza dello scatto fosse la blogger di moda Marianna Podgurskaya ingaggiata per una messinscena che includerebbe anche un'altra foto che ha fatto il giro del mondo, quella della donna ferita sdraiata su una barella nel cortile del nosocomio bombardato.

 La donna ripresa sarebbe effettivamente Podgurskaya, che però, contrariamente a quanto sostiene la propaganda, è davvero incinta (come si può vedere dal suo account Instagram) e non è la stessa persona ritratta nello scatto della barella. Le foto sono state realizzate da Evgeniy Maloletka per la Associated Press: un fotografo freelance, pluripremiato, che lavora da anni per l'agenzia e nei giorni scorsi ha firmato anche le immagini del piccolo Kirill e delle fosse comuni. 

Le bufale non si fermano...La Russia smentisce Lavrov e nega bombardamento ospedale: “E’ intatto, ecco le foto. Donna incita? E’ una fake”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

La Russia di Vladimir Putin ama le bufale. E poco importa se la nuova fake smentisce quella precedente. L’importante è continuare a negare. Imbarazzante, a tal proposito, la sceneggiata dell’ambasciatore russo all’Onu, Vasily Nebenzya. Al centro della questione il bombardamento dell’ospedale pediatrico e ostetrico di Mariupol che nei giorni scorsi ha provocato la morte di tre persone, tra cui un bambino, e il ferimento di altre 17 tra donne in gravidanza, sanitari e minori.

Ebbene Nebenzya ha mostrato, nel corso della riunione del Consiglio di sicurezza, presunte foto dell’ospedale pediatrico immacolato, dimenticando tuttavia che nella giornata di ieri il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha invece sostenuto che l’attacco all’ospedale è stato sferrato dopo aver constato la presenza all’interno dell’ospedale del gruppo paramilitare di estrema destra, attivo nel sud dell’Ucraina, e denominato “battaglione Azov”.

“Come avevamo indicato già il 7 o il 6 marzo scorso, l’ospedale era diventato una base del battaglione Azov e le donne e i bambini erano stati portati via”, ha spiegato Lavrov, avallando la tesi di un “terrorismo dell’informazione” che “gonfia l’opinione pubblica in tutto il mondo” e che non prende in considerazione “l’altro lato della situazione“. Poi, senza vergogna, ha aggiunto: “Traete voi la vostra conclusione di come venga manipolata l’opinione pubblica di tutto il mondo”.

Oggi Nebenzya è andato oltre, smontando la versione di Lavrov. “Non è stato distrutto, vedete? Vi sembra un edificio colpito da bombe a grappolo?” ha dichiarato mostrando anche foto della donna incinta ferita (Marianna Podgurskaya, che nelle scorse ore ha partorito) insistendo che si tratta di una “foto falsa” costruita ad arte da una fashion blogger. “Questa è sporca propaganda di cui siamo stufi”.

Insomma la Russia continua a negare l’evidenza delle immagini e dei video girati dai soccorritori dopo il bombardamento avvenuto all’ospedale di Mariupol. Foto e filmati che cristallizzano la presenza di donne in procinto di partorire e minori presenti all’interno della struttura quando è avvenuto l’attacco russo.  Donne incinte portate via in barella, bimbi terrorizzati, sanitari con il volto insanguinato. Insomma di “patetico” c’è solo la propaganda russa che continua a parlare di “operazione militare speciale” in Ucraina, lanciando (oltre a missili e bombe) raffica di fake news.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

La guerra di fake news. Le bufale russe sul bombardamento all’ospedale di Mariupol: dall’influencer ‘attrice’ ai militari del Battaglione Azov sui tetti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Marzo 2022. 

Una battaglia nei cieli e sulla terraferma ucraina, l’altra a suon di disinformazione. È il conflitto in corso tra Russia e Ucraina dopo l’invasione da parte delle forze armate di Vladimir Putin nel Paese, una guerra a base di fake news e propaganda che ha raggiunto il suo culmine, anche per la drammaticità dell’evento, col bombardamento subito dal reparto pediatrico dell’ospedale di Mariupol.

Un argomento trattato oggi in conferenza stampa il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, impegnato nei colloqui con l’omologo ucraino Dmytro Kuleba nel tentativo (fallito) di raggiungere un accordo in particolare sul cessate il fuoco.

Secondo Lavrov l’attacco all’ospedale, che per l’Associated Press ha provocato la morte di tre persone (tra cui un bambino) e il ferimento di altre 17, è stato strumentalizzato dalla propaganda ucraina allo scopo di “manipolare l’opinione pubblica di tutto il mondo”. Per il fedelissimo di Putin nell’ospedale “già da tempo era sotto controllo del battaglione d’Azov, diventando quindi la base del reparto ultra-radicale ucraino”. Dichiarazioni che fanno il paio con quelle del ministero della Difesa russo, che ha definito “l’attacco all’ospedale denunciato dall’Ucraina una messinscena provocatoria”.

Una versione smentita da più circostanze. A sostegno della tesi russa è stato diffuso infatti un video che riprenderebbe la presenza di soldati sul tetto di una delle strutture che compongono l’ospedale: peccato però che il video in questione non riprenda l’edificio colpito dai bombardamenti russi, ma un secondo edificio distante addirittura quindici chilometri dall’ospedale.

La presenza di militari del battaglione Azov, estremisti di destra che hanno la loro ‘base’ proprio a Mariupol, sarebbe invece denunciata da una fonte anonima al giornale russo Lenta.ru, organo di informazione controllato dallo Stato russo, una circostanza smentita dal governo ucraino di Volodymyr Zelensky e che proveniente da media non indipendenti non può essere considerata attendibile. 

Ma ad ulteriore riprova della presenza di civili nell’ospedale ci sono le foto pubblicate nei minuti successivi ai bombardamenti, con civili, bambini, medici ed infermieri in fuga sanguinanti dalle macerie della struttura.

A tal proposito ha iniziato a circolare una bufala, anche sui social italiani e condivisa dal profilo Twitter dell’ambasciata russa nel Regno Unito, che il social ha cancellato in quanto viola le proprie regole. Secondo l’ambasciata tra i civili fotografati in quei momenti vi era una donna incinta, la blogger e influencer ucraina Marianna Podgurskaya.

L’ambasciata da una parte smentisce la tesi di Lavrov, ammettendo la presenza dei civili ucraini, dall’altra accusa Podgurskaya di essere la stessa persona prima in piedi e poi su una barella trasportata dai militari a favore di telecamera del fotogiornalista di Associated Press Evgeniy Maloletka. 

Peccato che le due persone siano vestite in maniera diversa, con la influencer che indossa un pigiama. Dai video inoltre si nota chiaramente come le due donne non siano la stessa persona.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il bombardamento dell'ospedale pediatrico di Mariupol. Chi è Marianna Podgurskaya, la blogger ucraina incinta bersaglio della propaganda russa: “Ha partorito una bambina”. Vito Califano su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

Marianna Podgurskaya ha partorito. La donna incinta, fotografata in fuga dall’ospedale bombardato nell’assedio di Mariupol, diventata suo malgrado protagonista e oggetto della propaganda di Mosca, ha dato alla luce una bambina. Lo fa sapere la giornalista Olga Tokariuk. La donna era stata fotografata nell’ospedale pediatrico di Mariupol bombardato nel pomeriggio di 9 marzo. Distrutto il reparto di maternità e ginecologia, tre vittime, 17 feriti.

Kiev ha accusato Mosca di “atrocità” e “crimini di guerra”. Il Cremlino ha commentato la vicenda parlando di “fake news”. Il primo vice rappresentate della Russia alle Nazioni Unite ha dichiarato che l’edificio colpito era stato rilevato dalle truppe ucraine. Sergey Lavrov, nel punto stampa dopo l’incontro in Turchia con l’omologo ucraino, il ministro degli Esteri Dmytro Kuleva, aveva detto che l’ospedale “era la base del Battaglione Azov” e che “i civili ucraini sono stati usati come scudo”.

La propaganda russa ha coinvolto gli account social dell’ambasciata di Mosca in Italia. “Il tentativo di gonfiare lo scandalo attorno alla presunta distruzione da parte della Russia dell’ospedale a Mariupol è il massimo del cinismo e della campagna di menzogne sulla nostra operazione militare speciale in Ucraina”. Alcuni account hanno messo tutto in discussione a partire dalle fotografie di Marianna Podgurskaya, una donna incinta fotografata in alcuni scatti, in fuga dall’ospedale.

Non una vittima ma una blogger di moda, ingaggiata per una messa in scena, portata di proposito sul posto per la propaganda di Kiev. Ma Podgurskaya è effettivamente un’influencer che vive a Mariupol. Abbastanza per giustificare la sua presenza nella struttura. Sul suo profilo si possono vedere numerose immagini che la mostrano davvero incinta. Su Instagram l’influencer è seguita da quasi 56mila follower. È solita pubblicizzare e testare prodotti di bellezza. La foto mentre scappava all’ospedale era stata scattata da Evgeniy Maloletka, freelance pluri-premiato, per Associated Press. Podgurskaya ha partorito ieri sera, lei e la bambina stanno bene ma, aggiunge Tokariuk, fa molto freddo a Mariupol e i bombardamenti continuano. 

Non c’è alcuna solida prova a sostegno delle tesi dei russi: non si può definire Podgurskaya come un’attrice piazzata di proposito nell’ospedale a recitare la parte della donna incinta. Non ci sono prove neanche del fatto che l’ospedale fosse diventato un covo di combattenti nazisti ucraini. L’Ambasciata russa nel Regno Unito aveva accostato due foto, con due diverse donne incinte, bollandole come “FAKE”: una delle due è in barella, l’altra la blogger Podgurskaya.

“È la beauty blogger Marianna Podgurskaya, davvero incinta. In realtà ha interpretato i ruoli di entrambe le donne incinte nelle foto. E le prime foto sono state effettivamente scattate dal famoso fotografo propagandista Evgeniy Maloletka, piuttosto che da soccorritori e testimoni come ci si aspetterebbe”, aveva risposto a un utente su Twitter l’ambasciata. Si trattava però di due donne diverse, vestite diversamente, come mostrato anche da altri video girati sul posto, e Twitter ha rimosso il post dell’ambasciata. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha confermato almeno 18 attacchi contro ospedali o centri medici da quando l’invasione russa è iniziata, due settimane fa. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Nell'ospedale c'era il battaglione Azov, spunta la verità russa su Mariupol. Il Tempo il 10 marzo 2022.

Per il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, l’ospedale pediatrico di Mariupol era usato come «base del battaglione Azov». Lo ha detto nel corso della conferenza stampa che si è svolta dopo l’incontro con il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. Lavrov ha risposto a una domanda sull’attacco a Mariupol facendo riferimento al reparto militare ucraino. Nel bombardamento su un reparto maternità e un reparto pediatrico durante il cessate-il-fuoco concordato per consentire ai civili di fuggire, sono morte -secondo Kiev - 3 persone fra cui una bambina di 6 anni e altre 17 sono rimaste ferite. 

Nel frattempo sulla città sono ripresi i bombardamenti. Mosca ha annunciato di aver preso il controllo di «diversi quartieri». Secondo Kiev, un convoglio umanitario che cercava di raggiungere la città è stato costretto a fare marcia indietro a causa dei combattimenti; e Kiev ha anche accusato Mosca di aver deliberatamente impedito l’evacuazione dei civili perché non è riuscita a impossessarsi della strategica città portuale sul Mar Nero. 

Nicola Porro a gamba tesa sul "coro" per l'Ucraina: la verità su Mariupol, guerra e propaganda. Il Tempo il 10 marzo 2022

I giornali mostrano le foto dei crateri causati dall'attacco russo a Mariupol. Ma l'ospedale pediatrico di cui si parla da 24 ore "non è stato colpito. La guerra è una tragedia" ma non bisogna fare "propaganda", dice Nicola Porro nella sua consueta rassegna stampa sui social. Il giornalista che conduce su Rete 4 Quarta repubblica ammette: "Io non ero lì ma i giornali dicono chiaramente come sono andate le cose", ossia che i bambini non erano l'obiettivo dell'attacco russo, che "ha fatto tre morti di cui un bambino".

Mariupol è una "città martire" dove sono morti 1.170 civili, spiega Porro, "ma in termini giornalisti fa più effetto l'ospedale per i bambini". "Questo è il senso della guerra", commenta con amarezza. 

Nicola Porro a gamba tesa sul "coro" per l'Ucraina: la verità su Mariupol, guerra e propaganda. Il Tempo il 10 marzo 2022.

Tra le segnalazioni della stampa quotidiana Porro commenta divertito la prima pagina di Libero che mostra le foto di Enrico Letta, Romano Prodi e Matteo Renzi, tutti in compagnia di Vladimur Putin. "Sostanzialmente tutti i presidenti del Consiglio italiani hanno ricevuto e hanno coccolato" il presidente russo, dice Porro che commenta il fondo del direttore Alessandro Sallusti: "Il messaggio è: ragazzi, mettetevi d'accordo. Se il Putin di ieri era accettabile per tutti era accettabile anche da Salvini. Se il Putin di oggi che è un guerrafondaio e un criminale di guerra è diverso rispetto a quello di ieri, non si capisce perché Salvini è l'unico che rimane incastrato" dal rapporto col presidente russo. Colpiti e affondati. 

Guido Crosetto, guerra social sull'ospedale bombardato a Mariupol tra fake e smentite. Il Tempo l'11 marzo 2022.

Le bombe russe continuano a cadere sull'Ucraina. Nella città portuale di Mariupol è stato colpito e distrutto un ospedale pediatrico. L'attacco ha provocato la morte di almeno 17 persone, secondo il governatore della regione. Le autorità ucraine hanno parlato di bambini e donne in travaglio sotto le macerie. Ma secondo la portavoce del Ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, l’ospedale era diventato una base dell’esercito ucraino una volta evacuati i pazienti all’interno della struttura. Alcuni utenti, a sostegno delle affermazioni della Russia, avevano condiviso un video per sostenere che sui tetti del nosocomio fossero appostati dei soldati ucraini. "C’è un problema - scrive Open smentendo la notizia - hanno sbagliato di molto l’edificio".

Sulla questione che ha infiammato i social è intervenuto anche Guido Crosetto, il co-fondatore di Fratelli d'Italia ed ex deputato. Su Twitter ha cinguettato: "Ieri la notizia del bombardamento di un ospedale pediatrico. Oggi molti siti dicono che era un ex ospedale, sgombrato ed utilizzato da militari". E ancora: "Noi leggiamo, da lontano, senza poter verificare e vorremmo che chi ci dà le notizie, approfondisse i fatti, cercando la verità".

Un dubbio lecito quello di Crosetto ai tempi della guerra che si combatte anche sui social tra fake news e successive smentite. I timori dell'ex parlamentare hanno scatenato un’accesa discussione sul web con il giornalista Rai Alessandro Antinelli che - su Twitter - ha pubblicato il video dell’Associated Press che mostra tutta l'atrocità compiuta.

L’ex deputato ha raccontato, poi, di aver condiviso (dopo il suo primo tweet) un thread di David Puente sul caso Mariupol. Il giornalista dimostra che le immagini russe siano prese da altri “siti” ospedalieri e che per l'ennesima volta si tratta solo di propaganda lontana dalla verità e dalle immagini della reale devastazione. 

Soldati Ucraini nei condomini, il video che fa discutere. Gianluca Di Feo il 10 marzo 2022 su La Repubblica.

Da due giorni queste immagini stanno animando un dibattito internazionale. Sono state girate da un drone russo e mostrano soldati ucraini posizionati nei condomini di Mariupol, la città dove è stata bombardato l’ospedale pediatrico. Il video è stato diffuso mercoledì mattina da un canale dei separatisti russi del Donbass. Nella prima scena si vede un missile controcarro ucraino appostato su un tetto, con un soldato mimetizzato che controlla l’arma. Poi c’è l’immagine di un complesso di edifici civili, diverso da quelli dove è stato ripreso il missile controcarro, con mezzi militari ucraini parcheggiati tra i palazzi. Entrambi i gruppi di abitazioni sono stati geolocalizzati: si trovano all’estrema periferia di Mariupol, a decine di chilometri di distanza dall’ospedale pediatrico. In particolare, il complesso dove sono parcheggiati i veicoli militari ucraini pare essere stato abbandonato dagli abitanti: i parcheggi sono deserti, non c’è traccia di automobili. Bisogna anche ricordare che più volte le truppe russe alla periferia di Kiev sono state riprese mentre si rifugiavano all’interno di zone residenziali. La presenza di soldati all’interno di edifici civili giustifica i bombardamenti? E’ un dibattito antico, ripetuto spesso nell’ultimo secolo. L’unica certezza è che in tutti i conflitti moderni è la popolazione a pagare il prezzo di vittime più alto.

Andrea Marinelli,Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.  

Un punto sul conflitto, con numeri che non hanno il valore di un bilancio effettivo perché le parti, oltre a spararsi sul serio, sono impegnate nel duello della propaganda: nulla di strano, è la nebbia di guerra, è l'inganno, è una forma di pressione psicologica per confondere il nemico ed esaltare gli amici. I russi hanno avanzato su Kiev molto lentamente a causa dei loro guai logistici - in parte cronici - e per la feroce resistenza incontrata. 

Il sito Oryx , che prova a raccogliere dati sulla base di video e altro materiale, ha preparato una prima tabella: Mosca avrebbe perso 130 tank, 84 blindati, oltre 170 mezzi per il trasporto delle truppe, 18 lanciatori di razzi multipli - le famose katyusha -, 10 aerei, 11 elicotteri, centinaia di camion di supporto/logistica.

Minori, in apparenza, le perdite di Kiev: 46 carri armati, 35 blindati, una cinquantina di mezzi per il trasporto truppe, 8 aerei, 64 veicoli per la logistica. Nota. C'è un maggior numero di filmati che riguardano i militari inviati da Putin, pochi quelli che riguardano gli avversari. Kiev, oltre a cercare di celare i suoi caduti, diffonde clip ridotte sulle azioni per non dare punti di riferimento sui reparti: ecco perché queste cifre vanno prese con grandissima cautela.

Sempre i russi hanno lanciato 600 missili dall'inizio del conflitto, ordigni particolarmente devastanti. Il dispositivo L'Armata ha mobilitato 179 mila uomini, di questi ne ha impiegati il 95% ed altri stanno arrivando. Lo schieramento era composto originariamente da 2.600 tank e 3.100 cannoni, ma sono stati inviati ulteriori mezzi ed equipaggiamenti. Un video da Melitopol mostra un treno blindato, un mezzo quasi d'altri tempi: la linea ferrata è fondamentale per la logistica e i russi già in passato, in Crimea, hanno usato uno dei due convogli ferroviari speciali, Baikar e Amur.

Proprio la dipendenza dai binari ha inciso sulla logistica. I mezzi sono arrivati fino in Bielorussia via treno e poi hanno dovuto proseguire via terra creando il «drago» lungo oltre 60 chilometri, la colonna che scende verso Kiev. Oggi è a circa 25 chilometri. La mancanza di benzina, i problemi di manutenzione, il fango e gli ostacoli frapposti dalla resistenza hanno allungato i tempi. Ma c'è chi offre attenuanti: è nel loro stile procedere per fasi, senza fretta, specie se non usano subito la potenza di fuoco.

Gli aiuti e le vittime Il presidente Zelensky ha aperto le porte ai volontari stranieri disposti a battersi: ne sono arrivati 17-20 mila (dati provvisori) da ogni parte del mondo. Molti sono veterani ed è chiaro che potrebbero portare esperienza. È un'estensione di quanto è già avvenuto nel Donbass: anche qui è stata ampia la presenza di miliziani venuti dall'estero e finiti nelle trincee contrapposte, molti gli estremisti di destra. 

Altro capitolo, gli armamenti: gli Usa, la Nato, oltre 25 Paesi (Italia inclusa) hanno spedito tonnellate di forniture belliche a Kiev. Una cifra su tutte: 17 mila missili anti-carro. Il ministero della Difesa ucraino sostiene di aver ucciso 11 mila soldati russi, ma i numeri non sono confermati. Nei giorni scorsi Mosca ammetteva di aver perso circa 500 uomini, con oltre 1.600 feriti. La Difesa russa sosteneva a sua volta di aver ucciso 2.870 soldati ucraini, di averne feriti 3.700 e catturati 572.

Anche qui, sono bollettini inverificabili: Kiev ha ammesso un centinaio di vittime. Paga un prezzo la popolazione. «La Russia ha danneggiato e distrutto 202 scuole, 34 ospedali, oltre 1.500 edifici residenziali», ha scritto su Twitter Mykhailo Podoliak, consigliere del presidente ucraino. «L'esercito russo non sa combattere contro altri eserciti, ma è bravo a uccidere i civili». Dall'inizio dell'attacco avrebbero perso la vita in 406 (fonte Onu), mentre 801 sono rimasti feriti. Nessuno nega possano essere molti di più.

Lorenzo Nicolao per corriere.it l'8 marzo 2022.  

La utilizza Zelensky da Kiev per spronare e incitare i suoi connazionali alla resistenza, la utilizzano molti ucraini nel tentativo di controbattere la propaganda russa e diffondere quante più informazioni possibili sulla guerra. 

L’applicazione di messaggistica istantanea Telegram è in questi giorni protagonista di tutte le comunicazioni legate al fronte ucraino del conflitto. Fondata da, ironia della sorte, i fratelli e miliardari russi in esilio Pavel e Nikolai Durov, l’app è tra le armi mediatiche alleate più utilizzate da coloro che vogliono resistere all’esercito russo.

Telegram è la chat più usata in Ucraina

Il presidente ucraino ne aveva già fatto un ampio utilizzo per vincere le elezioni nel 2019. Ora quello stesso strumento può essere fondamentale anche per il campo di battaglia. Già utilizzata da oltre 550 milioni di utenti in tutto il mondo, da quando è nata nel 2013, Telegram è diventata anche la più popolare in Ucraina, molto utile per la sua funzione di criptare e cancellare i messaggi una volta che vengono letti dal destinatario.

Ben prima della recentissima legge di Putin nei confronti dei social media, per arrestarne l’uso sul territorio russo, l’applicazione di messaggistica era stata bloccata dal Cremlino nel 2018, dopo che i fondatori si erano rifiutati di condividere i dati dei loro utenti con il governo di Mosca, con episodi alterni sulla limitazione e sulla ripresa del funzionamento di Telegram nei mesi successivi. 

Se da una parte la dispersione delle informazioni diffuse tra gli utenti dell’app ha presentato un problema dal punto di vista dell’attendibilità delle notizie, dall’altra rende i contenuti e gli utenti che li diffondono molto più difficili da intercettare per qualsiasi metodo di censura.

«Non vogliamo che Telegram sia utilizzato come un mezzo per incitare alla guerra», aveva precisato Durov, ma è anche vero che l’applicazione si sta rivelando uno dei pochi mezzi per sfuggire al controllo dei russi e a controbattere l’ondata di disinformazione diffusa dal Cremlino. 

Non a caso il quartier generale dell’azienda legata all’app si trova a Dubai, impenetrabile e ben lontana dalla logica delle comunicazioni europee. Tra le sue principali rivali nell’offrire servizi simili, Whatsapp di Meta e Signal.

Le app usate dagli ucraini

Ogni mezzo, anche di carattere tecnologico, è al momento cruciale per difendersi dai bombardamenti. Non mancano le app che possono mandare alla popolazione ucraina delle notifiche riferite alle zone che saranno bombardate a breve, come quelle che registrano gli spostamenti dell’esercito russo. 

Non a caso sono state le più scaricate negli ultimi giorni, utili soprattutto per chi non è in grado di ascoltare le sirene d’emergenza delle città colpite. Allo stesso tempo è fondamentale la possibilità di consultare le mappe senza necessità di una connessione internet, come al contrario le chiamate attraverso tecnologia VoIP, che con la minima connessione internet garantisce la possibilità di effettuare telefonate. 

Le più scaricate

Secondo i dati rilasciati da Apptopia, che diffonde dati di mercato e soluzioni di intelligence basate sul web e sulle prestazioni delle app mobili, le applicazioni più scaricate in Ucraina sono attualmente Telegram, Signal, Zello Walkie Talkie, per le comunicazioni audio rapide, versione digitale dei vecchi Walkie Talkie, e Bridgefy, chat in grado di funzionare grazie al bluetooth e senza il supporto di internet, efficace fino a cento metri di distanza.

Sono queste le applicazioni che permettono ai cittadini ucraini in questo momento di comunicare fra di loro, anche nei contesti geografici più esposti agli attacchi russi. Fino a questo momento molti di questi supporti digitali erano stati usati con successo in caso di calamità naturali, aree difficilmente raggiungibili con altri mezzi di comunicazione, spedizioni in montagna e grandi eventi.

Per le mappe e i monitoraggi del traffico aereo tra le app più scaricate ci sono anche Maps.me e Flightradar. Dal 24 febbraio, giorno d’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina lo spazio aereo del Paese è chiuso ai voli commerciali, così da permettere un più facile controllo dell’aviazione russa nella zona. 

Infine Starlink, strumento di comunicazione satellitare di Elon Musk ancora attivo, soprattutto nelle aree dell’Ucraina dove le infrastrutture internet sono state distrutte, e per questo è presto diventato uno dei principali obiettivi degli hacker russi.

Estratto dell'articolo di Anna Zafesova per “la Stampa” l'8 marzo 2022.  

Non solo l'ultima apparizione televisiva di Vladimir Putin pare essere stata pesantemente manipolata per sovrapporre la sua immagine a quella di un manipolo di hostess che lo stavano ascoltando composte (e si spiega perché apparivano vicino al presidente, e non ai soliti dieci metri di distanza che riserva agli interlocutori in carne e ossa). Ma la hostess più vicina, una bionda che sorride e annuisce mentre ascolta il capo del Cremlino minacciare guerra a oltranza all'Ucraina, è un volto conosciuto. È già apparsa altre volte accanto al leader russo.

Era stata una pescatrice in un'azienda visitata dal presidente qualche anno fa, e aveva suscitato la curiosità dei giornalisti come la misteriosa venditrice di gelato che ogni agosto vendeva a Putin un cornetto alla panna al salone aerospaziale di Zhukovsky, per poi sparire nel nulla. Di solito i dittatori hanno dei sosia, delle controfigure che devono correre rischi al posto loro. Putin ha invece un popolo di sosia, concittadini fidati e simpatici, con i quali non si corre mai il rischio di una frase sbagliata, meno che mai una protesta.

L'ex ministro degli Esteri russo Andrey Kozyrev sostiene che «Putin crede ai suoi propagandisti», e questo spiega anche l'errore di aver attaccato sottovalutando la forza sia della resistenza ucraina sia della reazione occidentale. 

Ma se ormai da anni il presidente russo incontra degli ologrammi e degli attori al posto del popolo, si capisce la sua ostinazione a non voler lasciare pietra su pietra delle città ucraine: se anche qualcuno gli mostra quelle immagini di morte e distruzione, le considererà dei fake come quelli nei quali abita da anni.

La manipolazione dei fatti. Le fake news di Putin per giustificare l’invasione dell’Ucraina. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

«Guerra? di quale guerra parli figlio mio? In Ucraina è in corso una operazione antinazista, sappiamo tutto, e non accade nulla di quel che dici. Sei impazzito?». Questo è il tenore delle conversazioni di molti ucraini che hanno parenti che vivono in Russia, che telefonano stupiti per non aver ricevuto alcun messaggio, alcun segno di preoccupazione. I casi si moltiplicano: in Russia la stragrande maggioranza dei cittadini crede alla versione governativa secondo cui si sta svolgendo in Ucraina una fraterna operazione di pulizia di elementi nazisti rifiutati dallo stesso popolo ucraino che accoglie con feste e canti i soldati russi corsi in soccorso del paese fratello.

Si tratta di un classico “pattern” russo: Stalin che non invade la Polonia con Hitler, ma corre al soccorso delle sue minoranze etniche dopo il dissolvimento del governo di Varsavia nel settembre 1939. E poi corre al fraterno soccorso dei finlandesi nei mesi successivi per ricondurli alla ragione e quindi dei Paesi Baltici che avevano bisogno di una raddrizzata, e poi della Bessarabia che richiedeva aiuto. Poi, dopo la Grande Guerra Patriottica (nome diverso dalla nostra Seconda Guerra mondiale e che inizia soltanto con l’aggressione hitleriana all’Unione Sovietica) abbiamo tutta la sfilza degli aiuti fraterni agli operai tedeschi in sciopero nel 1953, al socialismo ungherese assaltato da una rivoluzione operaia e studentesca nel 1956, al socialismo dal volto umano a Praga nel 1968, alla traballante Polonia nel 1980 costretta a farsi un colpo di Stato da sola per evitare il peggio, all’Afghanistan dal Natale 1979 e poi le festose guerre cecene in atroci bagni di sangue anche per l’abitudine inveterata – e siamo già in epoca post-sovietica – di compiere stragi e massacri, sostenuti sul fronte interno da un apparato di menzogne di Stato.

Ieri il New York Times riraccontava il caso del signor Misha Katsurin e di suo padre Andrei. Misha viveva fino a ieri in Ucraina a Kiev e suo padre in Russia a Nizhny Novgorod. Dopo i primi giorni di guerra, Misha ha cominciato a chiedersi come mai suo padre non lo chiamasse per avere sue notizie e quando finalmente lo chiamò per dirgli in che condizioni erano sotto le bombe russe, suo padre lo interruppe irato gridando che gli che stava raccontando balle e che non c’era alcuna guerra in Ucraina, e che la rapida azione di polizia per colpire centri neonazisti non era una guerra ed era molto irritato. I russi sanno pochissimo della guerra e meno ancora le madri dei giovani soldati che muoiono e che sono stati arruolati prevalentemente nella Russia asiatica e non in quella europea. Ma che da qualche giorno vengono anche dalla Russia europea dove il governo ha fatto chiudere tutti i social usati nel resto del mondo e ha costretto i giornalisti stranieri alla fuga minacciandoli con una nuova legge approvata a spron battente dalla Duma, con cui si punisce con multe, arresti e galera fino a 15 anni, chiunque divulghi anche fuori dalla Russia notizie che le autorità russe decidono a loro discrezione essere false. Il che significa che la propaganda sostituisce la verità secondo le leggi di una antica scuola nell’arte della manipolazione. Più esattamente si tratta di quel prodotto che in inglese si chiama “fabrication” che non ha in italiano l’equivalente “fabbricazione”.

I dizionari avvertono che una fabbricazione non consiste in una banale menzogna, ma in un’opera di sapiente sostituzione di una realtà fabbricata da specialisti come un complicato presepe, che può sostituire come un fondale di teatro, a misura e perfettamente, la realtà vera, sicché nessuno sia più nelle condizioni di distinguere tra una “fabrication” e ciò che è realmente accaduto. È questo genere di abilità che onora più di un secolo di esperienza. La realtà che sostituisce a misura l’altra realtà – quella che banalmente possiamo considerare “vera” – ha la qualità della credibilità e della cura del dettaglio a livelli manicali. Ciò che accade oggi nella Russia di Putin durante questa invasione di uno Stato contiguo e formalmente libero e indipendente, non era stato dispiegato con tanta accuratezza dai tempi di Youri Andropov, il geniale capo del Kgb che fu eletto segretario generale del Pcus e che aveva una visione modernissima non soltanto dello spionaggio ma della sostituzione di realtà reali con altre immaginarie.

Andropov aveva una strategia dichiarata: sedurre l’Occidente con pronunciate dimostrazioni di quel genere dii modernità – inclusa la sua stessa immagine di sofisticato intenditore di whisky e cultore di musica jazz americana – che commuovono gli occidentali sensibili ai più semplici messaggi culturali – per poi scaricare sullo stesso Occidente il peso e il costo del fallimento economico sovietico, cominciando a sganciare i “buffer States” che si chiamavano ”satelliti” (quasi tutti oggi membri della Nato) come poi accadde con la caduta ampiamente programmata del Muro di Berlino:_ fu Andropov a scegliere come regista della futura operazione di svendita del debito sovietico il giovane (allora) Michail Gorbaciov, per la sua aria occidentale e persino per il fatto di avere una moglie non priva di fascino come Raisa Maksimovna Gorbaceva.

Fra la teoria di Andropov (che morì precocemente per un fulminante tumore) e la svendita e decomposizione dell’Urss passarono parecchi anni, ma il disegno sia pure in modo caotico andò in porto ed è a quel disegno che oggi Putin si oppone pensando di poter riavvolgere il passato su un nastro magnetico e riportare le cose ai tempi in cui l’Ucraina era soltanto una delle tante regioni sovietiche “carne della nostra carne, sangue del nostro sangue”. La sua teoria del tutto sciagurata del recupero del tempo e del territorio ha richiesto un ammodernamento della tecnica della “fabbrication” e del controllo e sostituzione dei media, oggi rappresentati prima di tutto dal mondo on line, anch’esso sostituito con un fondale, lo stesso fondale che ha indotto il vecchio Andrei Katsurin a rispondere al figlio: “Ma sei, impazzito? Di quale guerra parli? Non c’è alcuna guerra”.

Ciononostante, ogni giorno ci sono in Russia decisione di manifestazioni contro la guerra, promosse da Alexey Navalny, l’oppositore di Putin arrestato dopo un dirottamento e sbattuto in galera, da dove gli è stata tuttavia concessa la possibilità di comunicare con la sua rete. Putin considera Navalny più utile da vivo, in prigione e in grado di organizzare qualche manifestazione, che non farlo sparire dalla faccia della Terra, privandolo di uno strumento di controllo propagandistico che permette di individuare e neutralizzare i gruppi di opposizione più radicali.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Anna Zafesova per “la Stampa” l'8 marzo 2022.  

Non solo l'ultima apparizione televisiva di Vladimir Putin pare essere stata pesantemente manipolata per sovrapporre la sua immagine a quella di un manipolo di hostess che lo stavano ascoltando composte (e si spiega perché apparivano vicino al presidente, e non ai soliti dieci metri di distanza che riserva agli interlocutori in carne e ossa). Ma la hostess più vicina, una bionda che sorride e annuisce mentre ascolta il capo del Cremlino minacciare guerra a oltranza all'Ucraina, è un volto conosciuto. È già apparsa altre volte accanto al leader russo.

Era stata una pescatrice in un'azienda visitata dal presidente qualche anno fa, e aveva suscitato la curiosità dei giornalisti come la misteriosa venditrice di gelato che ogni agosto vendeva a Putin un cornetto alla panna al salone aerospaziale di Zhukovsky, per poi sparire nel nulla. Di solito i dittatori hanno dei sosia, delle controfigure che devono correre rischi al posto loro. Putin ha invece un popolo di sosia, concittadini fidati e simpatici, con i quali non si corre mai il rischio di una frase sbagliata, meno che mai una protesta.

L'ex ministro degli Esteri russo Andrey Kozyrev sostiene che «Putin crede ai suoi propagandisti», e questo spiega anche l'errore di aver attaccato sottovalutando la forza sia della resistenza ucraina sia della reazione occidentale. Ma se ormai da anni il presidente russo incontra degli ologrammi e degli attori al posto del popolo, si capisce la sua ostinazione a non voler lasciare pietra su pietra delle città ucraine: se anche qualcuno gli mostra quelle immagini di morte e distruzione, le considererà dei fake come quelli nei quali abita da anni.

Da quel bunker virtuale - secondo alcune indiscrezioni, Putin non si trova né al Cremlino, né in una delle sue dacie a Sochi, ma in un rifugio segreto sull'Altaj - è difficile vedere anche quella Russia che protesta contro la guerra, e accorgersi dell'esistenza di una nuova generazione che non soffre delle manie imperiali postsovietiche. Quasi tutti quelli che sono scesi in piazza domenica contro la guerra, e sono stati arrestati, sono giovani, e l'hashtag #pu-teens nei social segnala quei ragazzi che sono nati sotto Putin, che non hanno mai visto altro che Putin, e che vogliono vedere una Russia diversa.

Come la 19enne Anna Simonyan, che ha raccontato alla Novaya Gazeta di essere stata picchiata dai poliziotti dopo essere stata fermata alla manifestazione. Al commissariato del quartiere Brateevo l'hanno minacciata di stupro e sottoposta alla tortura del «waterboarding». La 18enne Cristina conferma, e aggiunge che gli agenti maltrattavano non solo le ragazze, ma anche i maschi, soprattutto quelli con i capelli lunghi. 

E Alessandra Kaluzhskikh, 26 anni, è riuscita addirittura a registrare un pezzo di interrogatorio, dove si sentono i rumori dei pugni e degli schiaffi, le sue grida, e le urla dei poliziotti - tra cui anche due donne - che la insultano e le dicono che «Putin ci ha detto di ammazzare quelli come te, i nemici del popolo».

Il «nemico del popolo» è un concetto che in Russia ha un suono inequivocabile, è il termine con il quale venivano bollati i milioni di vittime delle repressioni staliniane. Qualcosa che alle nuove generazioni appariva come ormai relegato alle lezioni di storia. Ma ieri due poliziotti sono venuti a bussare alla porta del dodicenne Kirill, colpevole di aver contestato durante una lezione l'insegnante, e di aver detto in classe che quella che ufficialmente viene chiamata «operazione militare speciale» è una guerra, dove gli aerei russi bombardano quartieri abitati da civili. 

A raccontarlo è sempre Novaya Gazeta, ormai ultimo media indipendente sopravvissuto - non si sa ancora per quanto - grazie al Nobel per la pace del suo direttore Dmitry Muratov. Il mito della «prima generazione non frustata» che avrebbe portato la libertà sopravvive in Russia da metà Ottocento. Si è potuto realizzare però, fino a un certo punto, soltanto negli ultimi tre decenni, dopo la fine del totalitarismo sovietico. Già prima della guerra, metà degli under 24 russi volevano emigrare in Occidente. Ora, anche questa nuova generazione ha conosciuto le «fruste»della paura e della repressione.

Falsi di guerra. Gianni Riotta spiega la campagna europea per contrastare la disinformazione russa. Maurizio Stefanini su l'Inkiesta l'8 marzo 2022. 

Con l’attacco all’Ucraina, i media sono stati travolti da fake news provenienti da Mosca, come ad esempio la notizia della fuga di Zelensky. Nelle redazioni non è sempre facile distinguerle. Per combattere questo conflitto parallelo, l’Unione Europea ha creato lo European Digital Media Observatory (Edmo), nel board c’è l’editorialista di Repubblica.

«La notizia che non ci fossero combattimenti dei russi attorno alla centrale nucleare era falsa. I combattimenti c’erano. La notizia che Zelensky aveva lasciato la Ucraina per andare in Polonia era una notizia falsa, Zelensky era ancora in Ucraina. Il nostro compito è distinguere tra le notizie quelle che sono vere, cioè confermate da fonti autorevoli e indipendenti, e riferirlo alla popolazione. Una volta accertate quelle che sono le notizie false e quelle che sono le notizie vere, i giornali possono poi evidentemente prendere tutta la linea politica che vogliono».

Editorialista di Repubblica, dopo essere stato tra l’altro direttore del Tg1 e del Sole 24 ore, e direttore della Scuola di Giornalismo della Luiss, Gianni Riotta ha appena scritto un articolo sull’identikit dei putiniani in Italia che citava un pezzo di Linkiesta.

Ieri è nata la Task Force europea sulla guerra in Ucraina, e Riotta ne fa parte in rappresentanza dell’Italia. «Oltre un anno fa – dice Riotta a Linkiesta – l’Unione Europea ha istituito lo European Digital Media Observatory (Edmo), apposta per combattere la disinformazione. Io sono nel loro Board. In seguito hanno creato gli Osservatori Nazionali, e io coordino l’osservatorio italiano. È composto dalla Luiss, da Tor Vergata, dalla Rai, da Tim, e con la collaborazione di numerose testate giornalistiche: Repubblica, Corriere della Sera, Pagella Politica… Già da un anno stavamo in realtà lavorando sull’Ucraina, oltre che sul Covid e sui altro. Ad esempio, abbiamo lavorato con Harvard University e con il ministero degli Esteri a una ricerca su QAnon. Come da Trump e dagli Stati Uniti, sono passati con la loro disinformazione all’Italia. Adesso questa Task Force è stata creata ad hoc. Presidente è la professoressa Claire Wardle, della Brown University».

Quindi informazioni sull’Ucraina ci sono già?

Basta guardare il sito di Edmo. Lì abbiamo già catalogato una montagna di false notizie sulla guerra: bombardamenti che ci sono e che vengono indicati come falsi; dichiarazioni di politici che sono false; dichiarazioni di giornalisti che sono false… Tutte vengono schedate e messe sul sito dell’Osservatorio Europeo in francese e inglese, per poi essere tradotte nel sito dell’osservatorio italiano.

Ma queste notizie nascono dal normale caos di ogni guerra, o c’è una regia vera e propria? Ed è una regia analoga di quella che ha lavorato in passato per diffondere notizie filo-Putin o è una regia diversa?

C’è una regia molto precisa, in realtà. Il vecchio Evgenij Prigožin, l’oligarca detto “il cuoco di Putin” perché ha fatto i soldi con una catena di ristoranti, già parecchi anni fa aprì a San Pietroburgo, al numero 55 di Via Savushkina, una Agenzia di Ricerca Internet che veniva indicata come la fabbrica dei troll, per le loro decine e decine di addetti che producevano false news. Ma la grande propaganda russa in questo settore va molto indietro nel tempo, fino a quella polizia segreta zarista Okhrana che fabbricò i Protocolli dei Savi di Sion. Ad esempio, nel libro di Thomas Rid “Misure attive”, tradotto dalla Luiss, si mostra come anche in tempo di guerra fredda i russi siano stati campioni nel mischiare dati veri e dati falsi. È quello che stanno facendo anche in questi giorni. Torniamo ad esempio a quando le agenzie di stampa hanno scritto che Zelensky era scappato in Polonia. Poi quando guardi vedi che era stato il Presidente della Duma a dare la notizia. Dice l’agenzia: “Fuga di Zelensky in Polonia”. Si sa come si lavora nelle redazioni. Non con la calma di una biblioteca, ma sotto adrenalina. La gente legge, sbaglia, e nel frattempo è passata nella opinione pubblica l’idea che Zelensky se ne è andato. A Edmo le lingue europee le parlano tutte. E noi lavoriamo con vari esperti, che esaminano parecchie notizie.

Il che non impedisce che certe balle vengano ripetute impunemente. Ad esempio, “le 14.000 vittime del genocidio nel Donbass”…

Questa me la ripetono in continuazione nei talk show. “Ma lei ha mai parlato delle 14.000 vittime del genocidio nel Donbass?” Ma quelli sono i caduti in tutta la guerra da entrambe le parti. Ma l’idea in realtà è antica. Se tu ripeti una bugia tante volte, alla fine diventa vera (Goebbels).

"Il governo di Zelensky ha mentito sull'assassinio di nostro figlio". Il caso di Andrea Rocchelli ucciso nel Donbass. Valeria Di Corrado Il Tempo l' 08 marzo 2022

«L’attuale governo ucraino, per ciò che attiene all’uccisione di Andrea, ha proseguito nella linea scelta del precedente, negando la dinamica dei fatti ricostruita dalla magistratura italiana, mentendo e soprattutto costruendo false verità». Ci sono storie nelle storie e, soprattutto nelle guerre, non è tutto bianco o nero. Non concedono sconti al governo di Zelensky i genitori di Andrea Rocchelli, il fotoreporter di Pavia ucciso il 24 maggio del 2014, all’età di 31 anni, insieme all’attivista per i diritti umani Andrej Mironov.

Le vittime si trovavano nelle vicinanze della città di Sloviansk, nella zona orientale dell’Ucraina, per fare un reportage sulle condizioni dei civili durante il conflitto del Donbass, esposti al fuoco incrociato dell’esercito ucraino e delle postazioni dell’artiglieria separatista. Nei pressi di una fabbrica trasformata in deposito di armi dai filorussi, i due sono stati attinti da colpi di mortaio provenienti dalla collina occupata dalle postazioni ucraine del battaglione Azov. Rocchelli e Mironov sono morti, mentre il fotoreporter francese William Roguelon era rimasto gravemente ferito. La Corte d’assise di Pavia il 12 luglio 2019 aveva condannato un militare della Guardia Nazionale ucraina, Vitaly Markiv, a 24 anni di reclusione per concorso di colpa nell’omicidio di Andrea e Andrej e aveva giudicato lo Stato ucraino responsabile delle loro morti. Il 3 novembre 2020 la Corte d’assise d’appello di Milano aveva assolto l’imputato italo-ucraino «per non aver commesso il fatto», scarcerandolo; sentenza poi confermata anche dalla Corte di Cassazione il 9 dicembre scorso.

«Le immagini di questi giorni ci richiamano alla mente le immagini di 8 anni fa, oggi come allora le prime vittime della guerra sono i civili, che soffrono lutti, privazioni, traumi, fuga - hanno raccontato all’Adnkronos Rino Rocchelli ed Elisa Signori, papà e mamma del fotoreporter- Andrea aveva scelto proprio questo punto di vista, la quotidianità dei civili, per raccontare l’Ucraina del 2014. Scattò nel febbraio immagini parlanti della cosiddetta "rivoluzione della dignità" di Maidan, vivendo giorno dopo giorno quella protesta pacifica con i cittadini di Kiev scesi in piazza, e tornò nel Donbass nel maggio a documentare la quotidianità stravolta degli abitanti di Sloviansk, colpevoli solo di voler vivere in pace mentre intorno a loro si scatenava una spietata guerra fratricida».

La violenza delle bombe che devastano tutto, i giovani che imbracciano le armi, la disperazione di chi fugge: nelle foto di Andrea Rocchelli ci sono tutte le espressioni di questa guerra civile. Un paio di mesi prima della sua uccisione, la Crimea veniva annessa dalla Russia. Allora sono scattate le prime sanzioni verso la Russia, inasprite in questi giorni dopo la decisione di invadere l’Ucraina. «Per quanto riguarda il governo di Putin ci associamo convintamente alla condanna dell’invasione in corso e siamo solidali con la popolazione che la subisce - specificano i genitori di Andrea - Contiamo molto sul fatto che l’amicizia italo-ucraina, dichiarata a parole e confermata anche nei fatti, induca l’Italia a pretendere che l’Ucraina assuma le sue responsabilità e si faccia giustizia su questo caso».

Nell’inchiesta «La disciplina del silenzio», andata in onda a febbraio sul programma di RaiNews24 «Spotlight», è stato intervistato un militare che si trovava sulla collina da dove, secondo i pm italiani, sono partiti i colpi che hanno ucciso Andrea e Andrej. L'ex soldato ha spiegato che l'ordine di sparare sarebbe stato impartito personalmente dal comandante della 95esima Brigata, Mikhailo Zabrodskij, oggi deputato presso il parlamento ucraino e membro del gruppo per le relazioni interparlamentari con l’Italia. Pur respingendo ogni addebito, Zabrodskij ha dichiarato alla tv di non poter smentire né le ricostruzioni certificate dalla giustizia italiana, né le parole dei testimoni. Ha ammesso che tutte le forze presenti a Karachun - compresi gli uomini della Guardia Nazionale - erano sotto il suo comando.  

Rai, se Viale Mazzini si ritira dalla Russia e schiaffeggia lo zar Vladimir Putin. Francesco Specchia Libero Quotidiano il 7 marzo 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

«Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia, il resto è propaganda». Quando, nel 1997, Horacio Verbitsky nel suo libro Un mundo sin periodistas - Un mondo senza giornalisti, descrisse l’essenza stessa di questo estenuato mestiere, Putin iniziava la sua inarrestabile scalata al potere attraverso colpetti astuti e calibrati di propaganda contro la libertà d’espressione, 

Riempie d’un certo orgoglio che oggi, un quarto di secolo dopo, davanti alla legittimazione russa della censura totale, la Rai volti le spalle all’autocrate, e ritiri i propri giornalisti dal fronte ucraino. Non è una resa burocratica, né un atto di vigliaccheria. Tutt’altro. È più uno scatto d’orgoglio contro la nuova normativa putiniana che prevede multe possenti e fino a 15 anni di carcere per chi diffonde “informazioni false sull’esercito” o “lesive dell’interesse russo”. In pratica, sul modello cinese, qualsiasi forma di diniego al governo verrà spenta e messa ai ceppi.

Da Viale Mazzini l’ad Carlo Fuortes è scattato in un riflesso pavloviano. E, piuttosto che trasformare i propri 4 inviati e 2 corrispondenti in appecoronati latori di veline dal Cremlino, ha preferito ritirarli, data l’impossibilità di esercitare dignitosamente il mestiere. Spiega la Rai in uno scarno comunicato: «In seguito all’approvazione della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità, a partire da oggi la Rai sospende i servizi giornalistici dei propri inviati e corrispondenti dalla Federazione Russa. La misura si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese. Le notizie su quanto accade nella Federazione Russa verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell’Azienda in servizio in Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia». Come dire: Putin non ci può tappare la bocca, sicché noi lo lasciamo a imbrodarsi, da solo, come un Riccardo III° shakespeariano nel lago di sangue di Bosworth, tra i partigiani della sua informazione e i fantasmi delle vittime della sua follia. 

Gli inviati Rai hanno quindi varcato a ritroso i confini; i corrispondenti, come il controverso Marc Innaro accusato in questi giorni di eccessi putiniani, dovranno decidere se lasciare la Russia o mettersi in ferie. Comunque sia la libera stampa –come la Nato, come l’Europa- ha oggi la propria rivincita. E si coagula tutta contro la «criminalizzazione del giornalismo indipendente», come afferma Tim Davies direttore generale della mitica Bbc che si era defilata già qualche ora prima della Rai ripristinando il ritorno alla mitica trasmissione a onde corte della Radio Londra dei tempi bui degli assalti nazisti. Dopo la Rai, lasceranno i teatri di guerra, via via, a grappolo, le tv tedesche, Bloomberg, Abc, Cbs, la canadese Cbc. Anche Mediaset, attraverso le decisa presa di posizione del direttore del Tg5 Clemente J. Mimun, annuncia di ritirare l’inviato: «Siamo stati costretti. La Russia sta perdendo su più fronti. Sul terreno in Ucraina sta incontrando più difficoltà di quanto immaginasse. Sul piano economico ha già perso 300 miliardi di euro». Aperta parentesi. A fronte di questo, strappa un applauso la presenza inaspettata a Leopoli di Andrea Vianello neodirettore dei giornali di Radio Rai è tornato a macinare suola da scarpe come inviato al confine della Polonia. L'immagine di Andrea sul teatro di guerra, barba sfatta sotto il rombo dei mortai in lontananza, è significativa, specie considerando in fatto che il vecchio anchorman, non molto tempo fa, ebbe un ictus che per un po' lo privò della favella (non per nulla, Monica Maggioni, fresca direttrice del Tg1 e già presidente a Viale Mazzini, a vedere il collega, ha pianto). 

Chiusa parentesi. 

Ha comunque ragione Mimun quando afferma: «E su quello dei media Putin, sa quanto conti l’informazione, e quindi pone limitazioni.  Credo pure che non tutti i russi sappiano quello che il loro governo sta combinando». Lo crediamo anche noi.

Ma forse quei russi continueranno a ignorarlo, considerando che milioni di loro si troveranno in balia della feroce propaganda del partito. Non è un caso che, per evitare la galera, la Novaya Gazeta -uno dei pochi giornali indipendenti russi, il cui direttore Dmitrij Muratov ha vinto nel 2021 il premio Nobel per la pace- annunci che cancellerà i contenuti  sull’invasione dell’Ucraina, facendo  intendere che interromperà la copertura delle operazioni militari. 

Eppure, vibra una luce in questa enorme cappa di censura che avvolge luoghi, voci e notizie, che copre gli sguardi liberi, che talora ha spinto  grandi testate verso le fake news (qualcuno ha usato immagini tarocche, della guerra del 2014, o quelle dei videogames). È la luce di una reazione, che scopre il lato oscuro di Putin. Il quale, in questa convulsa “guerra asimmetrica” fatta di hacker, fake, bugie spacciate per orgoglio della grande madre Russia, fatica a tenere il passo di Zelensky. Il presidente ucraino ex uomo di spettacolo comunica alla velocità della luce, smentisce le notizie russe coprendole con altre notizie, e viene supportato dai social della gente comune. La denuncia delle donne ucraine stuprate; l’arresto della vecchina che dimostrava al Cremlino reggendo a fatica i cartelli; la messa in gabbia dei bambini che lanciano fiori; lo zingaro che ruba un carrarmato dell’Armata Rossa: sono immagini che stanno facendo il giro del mondo e che svelano il volto del tiranno. Putin vuole spegnerle, non riuscendo più a rincorrerle. Il suo esilio dalla realtà inizia dall’esilio  della libera stampa. (Ed è uno dei motivi per il quale lo stesso Putin in questo ore sta spegnendo Internet, che non è esattamente un gesto da persona salda...)

Vladimir Putin, testimonianza-choc dell'ex giornalista Bbc: "Fu straordinario. Quando lo ho intervistato...", chi è veramente lo zar. Libero Quotidiano il 07 marzo 2022

Che Putin sia impazzito sono in molti a pensarlo. Adesso lo sostiene anche uno che lo zar lo ha visto da vicino: Andrew Marr, giornalista britannico e intervistatore di punta della Bbc. "E' uno degli uomini piu' intelligenti che abbia mai intervistato, ma oggi appare impazzito", ha detto. Il conduttore, come riporta l'Ansa, spesso ha avuto a che fare con personalità nazionali e internazionali per il suo talk-show politico domenicale, record di ascolti. Anche se nei mesi scorsi ha deciso di lasciare la tv pubblica dopo oltre 20 anni di carriera per dedicarsi a un giornalismo più di opinione.

Pur non trovandosi d'accordo con Putin sotto molti punti di vista, il giornalista ha raccontato di esserne rimasto comunque molto colpito dopo l'intervista del 2014: "Fu straordinario, con la sua famosa freddezza, quello sguardo di ghiaccio di cui molti parlano. Devo dire che, ascoltandolo, mi fece l'impressione di uno degli uomini più intelligenti che abbia mai intervistato". 

Adesso, però, con l'invasione dell'Ucraina le cose sarebbero cambiate: "Potrebbe non essere più così". Marr poi ha aggiunto: "Negli ultimi 50 anni ci è capitato come Paese di dover affrontare leader impazziti, della cui stabilità mentale non eravamo più sicuri, o di affrontare minacce nucleari. Ma mai di affrontare le due cose insieme". Secondo lui, inoltre, "Putin è davvero in difficoltà a Kiev. La sua macchina da guerra non pare così guerriera e, francamente, cosa gli resta se non le armi atomiche?".

Piazzapulita, Corrado Formigli difende i prof "filo-Putin" e manda in tilt la sinistra: "Barbarie culturale". Il Tempo il 07 marzo 2022.

"Siamo giornalisti, non generali": Corrado Formigli affida a Fecebook un lungo sfogo dopo le polemiche che hanno travolto la sua trasmissione su La7, Piazzapulita, per aver ospitato voci in dissenso sulla narrazione della guerra in Ucraina. Si tratta di due docenti universitari, Alessandro Orsini della Luiss e Donatella Di Cesare della Sapienza. Il primo in studio aveva sottolineato le responsabilità della Nato nella nascita del conflitto, la seconda aveva promosso l'idea di un pacifismo assoluto sostenendo che l'Ucraina non avrebbe dovuto opporsi alla forza militare russa. 

"Sulla guerra in Ucraina a Piazzapulita abbiamo le idee chiare: si tratta di una gravissima aggressione di un pericoloso dittatore, Putin, che calpesta la sovranità di una nazione democratica" scrive il giornalista nel suo post, "ma il dovere di chi fa informazione, una volta espresso il proprio punto di vista, è offrire più strumenti a chi guarda o legge, all'opinione pubblica".

Per Formigli "ci sono già troppi elmetti in giro" e il dovere di un giornalista è anche mettere  "a confronto chi crede nella necessità di intervenire più massicciamente in Ucraina armando un popolo aggredito e chi invece crede che questa sia una via foriera di ulteriori massacri". In questo contesto bisogna chiedersi se è "possibile che ogni dissenso rispetto alla ragione delle armi debba essere bollato come 'putinismo'?"

Formigli ricorda come i due professori "sono stati bersagliati, trattati da quinte colonne sovietiche". La Di Cesare è stata protagonista di un duro scontro con Guido Crosetto, ex ministro e tra i fondatori di Fratelli d'Italia, Orsini con altri ospiti e in seguito ha ricevuto una pubblica sconfessione da parte della sua università.  "Non è possibile, questa è una barbarie culturale" denuncia il conduttore di Piazzapulita. "L'opinione pubblica si forma non restringendo il dibattito bensì allargandolo anche alle posizioni più radicali. Trattare i telespettatori da bambini è un vecchio riflesso che speravamo scomparso" argomenta il giornalista che annuncia che giovedi prossimo due docenti saranno di nuovo ospiti in studio. 

Alessandro Orsini arriva fino al Parlamento europeo. La vicepresidente Picierno è sconcertata: vergogna. Il Tempo il 23 marzo 2022.

Non si placa la polemica su Alessandro Orsini. Il direttore dell'Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss è finito nel mirino di Pina Picierno, la vicepresidente del Parlamento Europeo ed europarlamentare per il Partito Democratico: “Sono sconcertata da questo continuo e immorale tentativo di confondere torti e ragioni, verità e menzogna, aggressori e aggrediti. Che vergogna”. A scatenare le reazioni della Picierno è stata l’ospitata del professor Orsini a Cartabianca e le sue parole sulla Russia e su Vladimir Putin.

Simone Canettieri per Il Foglio il 23 marzo 2022.

Il professor Alessandro Orsini è sotto contratto Rai. Il docente della Luiss, diventato famoso per le sue posizioni per così dire non ostili al regime russo di Vladimir Putin, è da due puntate retribuito dalla trasmissione di Rai3 "Carta bianca" condotta da Bianca Berlinguer. 

A Viale Mazzini si parla di un compenso di "circa 2mila euro a puntata". Il contratto prevederebbe sei appuntamenti. Il professore Orsini teorizza dall'inizio della guerra in Ucraina che "Putin ha vinto". E che  "Biden vuole la guerra perché gli conviene". E "se ce la guerra è colpa dell'occidente". Dunque secondo Orsini "bisogna avere il coraggio di ammettere che Putin ha già vinto".  

Interpellata dal Foglio Bianca Berlinguer non conferma e non smentisce: "I contratti della Rai devono rimanere in Rai, come succede in tutte le reti. Non ho altro da aggiungere". 

Orsini è la punta di diamante insieme a Mauro Corona e Andrea Scanzi.  Eppure anche ieri Carta bianca è stata battuta negli ascolti dalla concorrenza della televisione commerciale: ieri sera infatti si è fermata al 5,1 per cento di share, superata da Di Martedì su La7 (7,1 per cento) e Fuori dal Coro (5,6 per cento).

Il professor Alessandro Orsini a Cartabianca e i 2.000 euro a puntata: Romano (Pd): «La Rai non paghi i pifferai di Putin». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.

Il contratto di duemila euro a puntata e le critiche del Pd per le posizioni espresse dal docente di sociologia del terrorismo. Intanto Wikipedia oscura la pagina. 

No ai sostenitori di Putin in Rai: arriva dai parlamentari del Pd la protesta contro la scelta della trasmissione di Bianca Berlinguer, Cartabianca, in onda su Rai 3, di mettere sotto contratto Alessandro Orsini , professore di Sociologia del terrorismo alla Luiss, direttore e fondatore dell'Osservatorio sulla sicurezza internazionale. Il professore, che ha fatto parlare di sé nei giorni scorsi per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina, percepirebbe duemila euro a puntata come ospite. «È assolutamente inaccettabile che le risorse del Servizio Pubblico Radiotelevisivo vengano utilizzate per finanziare i pifferai della propaganda di Putin #StandWithUkraine», scrive su Twitter il deputato del Pd, Andrea Romano, membro della commissione parlamentare di Vigilanza. «Orsini è giusto esprima liberamente il suo pensiero, ci mancherebbe. Che io lo debba però anche pagare, anche no. Roba da matti», scrive su Twitter il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, anche lui del Pd, come Valeria Fedeli, che chiede un «approfondimento in Vigilanza, anche sul compenso». Si aggiunge alle critiche Marco Di Maio, deputato di Iv: «Prendere soldi dalla nostra tv di Stato per andare in tv a esprimere posizioni pro-Putin è troppo. La Rai, almeno la Rai, non può essere equidistante». E intanto Wikipedia ha oscurato la sua pagina.

Orsini e? giusto esprima liberamente il suo pensiero, ci mancherebbe.

Ma cosa dice Orsini che suscita così tanta rabbia?

Il professore non sostiene decisamente Putin, ma nemmeno lo contesta. Ad esempio ricordando che anche gli americani attaccarono una democrazia come quella cilena di Salvador Allende oltre a invadere stati sovrani come l’Iraq. Critica invece apertamente il presidente ucraino, sostenendo che Zelensky ha come strategia quella di portarci tutti alla terza guerra mondiale perché sa che i russi, non potendo vincere e non potendo perdere la faccia, saranno costretti a usare armi di distruzione di massa: «Se davvero Putin, in un condizione disperata in cui rischia di perdere la guerra in Ucraina, dovesse usare la bomba atomica, l’Europa sarebbe moralmente corresponsabile», ha detto. Quindi bisogna far vincere la guerra a Putin per evitare il rischio legato alla bomba atomica? «Se si pone il discorso in quest’ottica, dico facciamo vincere la guerra a Putin», ha sottolineato il docente. 

Imbarazzante che la Rai metta sotto contratto Alessandro Orsini per parlare a #cartabianca. Ognuno può pensarla come vuole, ma prendere soldi dalla nostra tv di Stato per andare in tv a esprimere posizioni pro-Putin è troppo.

Per Orsini, sempre parole sue, «Zelensky era una sorta di supereroe», ma la sua «percezione sta cambiando perché adesso lui diventa un ostacolo alla pace» e quindi «va isolato così come Boris Johnson che disprezza profondamente l’Unione Europea ed è il più guerrafondaio dei leader europei, il primo a voler mandare le armi in Ucraina». Orsini contesta pure la scelta dell’Italia di supportare la resistenza ucraina: «Il fatto che abbiamo assunto una postura bellicistica nei confronti dell’Ucraina ha portato ad un’escalation. Abbiamo più morti, Putin ha fatto sfoggio di armi terrificanti. Vedo immagini di devastazione dappertutto, bambini e donne incinte massacrate», afferma. Per il professore, «l’Italia e l’Europa stanno dando armi, stanno portando sanzioni ad un livello altissimo. È chiarissimo cosa stanno facendo per la guerra. Cosa stanno facendo per la pace? Niente», aggiunge.

Da la7.it il 23 marzo 2022.

La gaffe di Di Battista sui "missili supersonici", il Sottosegretario Della Vedova lo corregge: "Ipersonici...". Poi il botta e risposta: "Non è il mio campo, sono obiettore di coscienza", "Anche io, ma leggo"

Rai, 2mila euro a puntata al docente filorusso. E il pacifista Di Battista cade sul missile in tv. Paolo Bracalini il 24 Marzo 2022 su Il Giornale.

La Berlinguer assolda Orsini. Dal Pd a Iv: "Inaccettabile coi soldi pubblici".

I talk show sono affamati di personaggi che sostengano posizioni diametralmente opposte, così da scatenare lo scontro, meglio ancora la rissa. Sul versante dei filoputiniani c'era carenza di esperti disposti a sostenere le ragioni del Cremlino, ma per fortuna poi è venuto fuori (merito di Formigli su La7) il professor Alessandro Orsini, della Luiss, la versione geopolitica del medico no vax. In breve tempo si è guadagnato la stima di quelli che pensano che la guerra sia colpa della Nato, dell'Ucraina, degli Stati Uniti, ma non di Putin (una fetta di opinione pubblica non facilmente quantificabile ma probabilmente più numerosa di quanto si pensi). E le tv se lo sono subito conteso (sul versante cartaceo invece è stato il Fatto a prenderselo come nuova firma). Finora però, a quanto si sa, Orsini andava gratis in tv, ora invece gli hanno offerto un bel contratto da 2mila euro a puntata. Il problema è che è la Rai, servizio pubblico, a pagare il professore per sostenere che «se Putin è un mostro, allora lo siamo sicuramente anche noi», che la guerra è colpa della Nato che ha «terrorizzato» Putin e che l'unica soluzione è che l'Ucraina si arrenda ai russi. Perle di saggezza che Bianca Berlinguer, conduttrice di Carta Bianca, ha pensato bene di assicurarsi mettendo Orsini sotto contratto - svelato dal Foglio - per sei puntate, a 2mila euro l'una. Interpellata dal Foglio Bianca Berlinguer non smentisce: «I contratti della Rai devono rimanere in Rai, come succede in tutte le reti. Non ho altro da aggiungere».

Chi ha qualcosa da aggiungere invece sono i parlamentari di Pd, Fdi e Iv. «È assolutamente inaccettabile che le risorse del Servizio Pubblico Radiotelevisivo vengano utilizzate per finanziare i pifferai della propaganda di Putin» twitta il deputato dem Andrea Romano. Sempre Pd annunciano che il caso verrà portato in Vigilanza Rai perché«la Rai non è un'azienda privata, si paga il canone». Il renziano Michele Anzaldi chiede «chiarimenti immediati» dall'ad Rai Carlo Fuortes, e anche il deputato della Vigilanza di Fdi, Federico Mollicone, si domanda per quale motivo «la Rai continui a siglare contratti con gli opinionisti».

Sul tema invece nessun commento da M5s e Lega, i due partiti più in imbarazzo per le relazioni (non sempre alla luce del sole) intercorse nel passato con la Russia, soprattutto durante il governo gialloverde. Il partito di Conte è in difficoltà, diviso tra l'ala atlantista di Di Maio e la fronda dei putiniani pentastellati (primo tra tutti Vito Petrocelli, grillino presidente della commissione Esteri del Senato). Chi può esporsi in tv senza problemi, essendo un ex (ma solo formalmente) è Alessandro Di Battista, anche lui su posizioni anti-Nato. Anche Dibba è un teorico della resa alla Russia: «Parliamo della guerra in Ucraina, degli errori dell'Europa e della necessità, secondo me, di trattare con la Russia» ha twittato l'altro giorno. Per lui Draghi è un «suddito di Washington» che aumenta le spese per le armi. Materia su cui ha mostrato poca dimestichezza, da obiettore di coscienza, parlando in tv di missili «supersonici» invece di «ipersonici».

Servizio Putin. Il tono apostolico del prof. Orsini nella ruminazione di un qualche sproposito. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Analisi dello sguardo e della postura dell’accademico che dovrebbe curare meglio l’esposizione delle sue divagazioni sconclusionate.

È abbastanza sleale far le pulci alle divagazioni del prof. Alessandro Orsini, quello della misurazione delle sanzioni su base quantitativo-omicidiaria du côté de chez teenagers: tot bimbi sventrati ti revoco lo swift, tot mutilati vai rimandato a settembre, poi se la curva scende sei riammesso a lezione e ti abbuono le donne stuprate. Diciamo che a botte di duemila euro si screditano per conto loro, queste belle trovate.

Invece è più leale occuparsi delle cose che l’accademico dei lettori affranti avrebbe modo di sorvegliare: la cadenza borgatara opposta al cognome illustre, le manine febbrili a lambire le tempie nell’agevolazione dell’arringa alla Monty Python, però seria seria, ispiratissima, con l’occhio celestino inquirente nel vuoto, e poi, a fesseria distribuita, quel suo implicarsi in una calma spossata e malinconica, fino a che gli arriva qualche bestemmia che lo risveglia, tipo che Putin ha preso qualche chilo, e allora un trasalimento gli ricompone i pensieri e gli riarma la gesticolazione che interviene ad adiuvandum nel discorzo – con la zeta – e nei mi dispiasce ma Zalensky è un rettiliano e va isolato.

Se dismettesse quel tono apostolico, quello sguardo impietrito nella ruminazione del prossimo sproposito, quella convinzione rabbiosa e infondata di non essere riconosciuto per quel che è, mentre stia tranquillo che si è capito benissimo, allora la sua dottrina si scaricherebbe finalmente di tutto quell’aggravio e andrebbe in serena decantazione. E tra le cose un po’ buffe che arrivano dal tinello mentre indora il soffritto e scende la pasta ci sarebbe anche quello, il contributo in purezza del prof. Orsini, che va bene per tutta la famiglia.

Ma per ora ci tocca così.

Il Pd annuncia interrogazione in Vigilanza. Alessandro Orsini, il prof “pifferaio” di Putin sotto contratto con la Rai per ‘Cartabianca’: bufera sul compenso da 12mila euro. Fabio Calcagni su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

È giusto che la Rai, la tv di Stato, paghi per diffondere tesi “non ostili” al presidente russo Vladimir Putin nel bel mezzo del conflitto scatenato dallo Zar del Cremlino in Ucraina?

Il caso riguarda la presenza a ‘Cartabianca’, il programma di approfondimento di Rai3 condotto da Bianca Berlinguer, del professore Alessandro Orsini. Chi sta seguendo i programmi tv sulla guerra in Ucraina ha ormai imparato a conoscerlo molto bene: docente della prestigiosa università Luiss, che lo ha recentemente ‘censurato’ per le posizioni filo-russe, è da poco tra le firme del Fatto Quotidiano.

Ma Orsini, come scriveva Il Foglio stamane, è stato arruolato anche da ‘mamma Rai’. Per il sociologo ci sarebbe un compenso di 2mila euro a puntata per sei appuntamenti da opinionista del programma di Rai3, che vede tra le sue fila anche Mauro Corona e Andrea Scanzi, sempre del Fatto Quotidiano di Travaglio. Interpellata dal Foglio, la Berlinguer non ha confermato o smentito la notizia: “I contratti della Rai devono rimanere in Rai, come succede in tutte le reti. Non ho altro da aggiungere“, ha spiegato la conduttrice.

Un accordo che non è piaciuto a parte del Parlamento. “Non esiste né può esistere alcuna ‘par condicio’ tra aggredito e aggressore. Ed è assolutamente inaccettabile che le risorse del Servizio Pubblico Radiotelevisivo vengano utilizzate per finanziare i pifferai della propaganda di Putin”, è l’accusa che arriva dal Dem Andrea Romano.

Ancora dal PD la senatrice Valeria Fedeli, membro della commissione di Vigilanza Rai, spiega che la presenza e l’accordo economico preso tra la tv e Orsini sarà “affrontato in commissione”. “Quale è la ragione per cui pago, come servizio pubblico, una persona che sostiene certe tesi?”. “Se il tema è il pluralismo è un errore: non può esserci par condicio tra aggrediti e aggressore. Il pluralismo non può essere dare ragione a tutti e due perché l’Ucraina sta subendo una guerra e il servizio pubblico non può prestarsi a fare disinformazione, deve distinguere tra opinione e disinformazione. Il servizio pubblico ha la responsabilità di informare correttamente, non può diventare il megafono degli aggressori. Va fatto un serio approfondimento in Vigilanza”, ha spiegato la Fedeli parlando con l’AdnKronos.

Una polemica infuocata dalle parole pronunciate martedì sera da Orsini nello studio di ‘Cartabianca’. Per il sociologo “se davvero Putin, in un condizione disperata in cui rischia di perdere la guerra in Ucraina, dovesse usare la bomba atomica, l’Europa sarebbe moralmente corresponsabile”. Per Orsini insomma, per evitare il rischio legato alla bomba atomica, dobbiamo far “vincere la guerra a Putin”.

Per Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, su Orsini “l’amministratore delegato Rai Fuortes ha il dovere di dare chiarimenti immediati, oggi stesso. E’ una materia troppo delicata per farla passare in cavalleria come tutte le questioni Rai. Il Parlamento e i telespettatori che pagano il canone hanno il diritto di sapere chi viene pagato dalla Rai con i soldi pubblici, come vengono scelti gli opinionisti, quali criteri vengono seguiti per la stipula di onerosi contratti“. Secondo Anzaldi infatti “non è accettabile che, con i tempi della Vigilanza, se ne parli tra settimane o mesi. Altrimenti finirà in nulla di fatto, come abbiamo già visto con i no-vax, il cui regolamento è stato approvato a pandemia passata e dopo mesi in cui gli opinionisti anti-scienza hanno imperversato nelle trasmissioni del servizio pubblico“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 24 marzo 2022.

Mentre il caso di Alessandro Orsini, professore di Sociologia del Terrorismo Internazionale contrattualizzato a #Cartabianca su Rai3 con il compenso di 2000 euro a puntata per sei puntate, sta offuscando per fragore mediatico perfino la guerra in Ucraina, ecco che dal vertice Rai, ovvero Carlo Fuortes, accusato di non aver preso posizione mentre infuriava la polemica, arriva la reazione in risposta al putiferio mediatico e istituzionale.

Una nota di Viale Mazzini informa infatti che "La Direzione di Rai 3, d'intesa con l'amministratore delegato della Rai, ha ritenuto opportuno non dar seguito al contratto originato su iniziativa del programma #Cartabianca che prevedeva un compenso per la presenza del professor Alessandro Orsini nella trasmissione".

Per direzione di Rai3 s'intende Franco Di Mare, che però al momento riveste ancora provvisoriamente il ruolo visto che dal prossimo giugno le direzioni di rete di fatto scompariranno sostituite da quelle di genere, e il programma condotto da Bianca Berlinguer finirà sotto l'egida di Mario Orfeo, responsabile dell'Approfondimento.

Riguardo al discusso contratto, non sfugge quella non esattamente sibillina formula "originato su iniziativa di #Cartabianca", che denota una presa di distanza da parte di Di Mare e di Fuortes rispetto alla scelta della conduttrice di contrattualizzare Orsini. Berlinguer darà battaglia come quando Di Mare rimosse Mauro Corona, che poi obtorto collo il direttore di Rai3 dovette tuttavia riprendersi nel programma piegandosi al volere dell'influente conduttrice? Staremo a vedere.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 24 marzo 2022.

Come ampiamente previsto e congetturato da Dagospia e VigilanzaTv, la rescissione (e sconfessione) da parte del Direttore di Rai3 Franco Di Mare e dell'Ad Carlo Fuortes del contratto di 2.000 euro a puntata per sei puntate al Professore di Sociologia del Terrorismo Internazionale Alessandro Orsini a #Cartabianca ha fatto infuriare la conduttrice Bianca Berlinguer, la cui furibonda nota conferma la tesi che la scelta di contrattualizzare il discusso docente filoputiniano era solo ed esclusivamente sua e che la Rai ha voluto prenderne pubblicamente e fattivamente le distanze.

"Apprendo" - dichiara Berlinguer - "che il contratto sottoscritto dalla Rai e dal professore Alessandro Orsini sarà interrotto per decisione della direzione di Rai3 senza che io sia stata consultata in merito. Una decisione che limita gravemente il mio ruolo di autrice e di responsabile di #Cartabianca per quanto riguarda la questione fondamentale della scelta degli ospiti e di conseguenza dei contenuti sui quali si costruisce la discussione".

E la Berlinguer precisa: "Aggiungo che non condivido la decisione di escludere una voce certamente rappresentativa di un'opinione presente nella società italiana e tra gli studiosi, in quanto ciò porterebbe a una mortificazione del dibattito che per essere tale deve esprimere la più ampia pluralità di idee. Non è forse questa la missione del servizio pubblico?"

Dalle parole della conduttrice trapela in tutta la sua evidenza la determinazione a dare battaglia, preannunciando così un bis del caso di Mauro Corona, caso che vide la giornalista opporsi a spada tratta contro la scelta di Di Mare di estromettere l'alpinista dalla trasmissione, obbligando infine il Direttore di Rai3 a ingoiare il rospo e a riammetterlo fra mille polemiche. Succederà così anche per Orsini?

Frattanto, il professore fa sapere in un post Facebook di essere pronto a partecipare gratis alla trasmissione della Berlinguer. "Apprendo che la Rai ha deciso di rescindere il mio contratto stipulato per sei puntate con #Cartabianca. 

Molte altre trasmissioni di informazione mi avevano offerto compensi ben superiori a quello della Rai.  

Ho scelto Bianca Berlinguer perché penso che sia una garanzia di libertà. Questa libertà va difesa. Per questo motivo, annuncio che sono pronto a partecipare alla trasmissione di Bianca Berlinguer gratuitamente". 

Annunciando per domani un articolo sul Fatto Quotidiano, questa sera, il professore della discordia potrà trovare intanto consolazione, conforto e riparo tra le virili braccia di Corrado Formigli a Piazza Pulita su La7. Pagato, ovviamente. 

Ucraina: Rai, non si procederà con il contratto di Orsini.  ANSA il 24 marzo 2022 - "La direzione di Rai 3, d`intesa con l`amministratore delegato della Rai, ha ritenuto opportuno non dar seguito al contratto originato su iniziativa del programma "Cartabianca" che prevedeva un compenso per la presenza del professor Alessandro Orsini nella trasmissione". Lo annuncia una nota di Viale Mazzini.

Giampiero Mughini per Dagospia il 24 marzo 2022.

Caro Dago, di mestiere sono uno che legge giornali e libri e che in ciascun campo pregia particolarmente i pareri che in un certo modo vanno controcorrente. E’ la bellezza del vivere in Italia, un Paese dove la discussione e il confronto non comporta stanze chiuse, o confini invalicabili.

Trattandosi di questa puttanissima guerra in cui un Paese europeo come l’Ucraina è costantemente sotto un diluvio di bombe e di fuoco, figurati se non cerco di capirne di più, di saperne di più, di mettere nel conto ragioni che a prima vista sfuggono ai più.

Figurati se non mi ci butto in picchiata nel leggere gli articoli della professoressa Donatella Di Cesare, quelli su “Fatto” dell’ex generale Fabio Mini, oppure le volte che il professore Alessandro Orsini è chiamato in tv a dire la sua, lui che sull’argomento in questione ne sa dieci o quindici volte più della media di quelli che aprono bocca in televisione. 

Resto perciò di stucco innanzi alla barbarie di chi sta lanciando grida di dolore perché una trasmissione Rai ha offerto duemila euro a puntata a sei interventi del professore Orsini, che qualcuno definisce “un pifferaio” di Putin, ossia lo insulta selvaggiamente. Mi intendo come pochi altri dello stare “in minoranza” su un argomento diffuso, e dunque sto interamente dalla parte del professor Orsini. E non perché condivida al cento per cento i suoi argomenti, ad esempio non sono così convinto ma Putin abbia “già vinto”. Detto questo, guai se lui e gli altri che ho citato non ci fossero. Quanto saremmo più poveri di idee e di intelligenza. 

Aldo Grasso per Oggi il 24 marzo 2022.

È il grande momento del prof. Alessandro Orsini, il “ribelle della Luiss”, l’opinionista che ha lasciato un giornale (scusandosi con molta modestia “con tutti coloro che avevano sottoscritto un abbonamento solo per leggere i miei articoli”) per approdare al Fatto Quotidiano (ribattezzato la “Pravda Italiana”). La sua tesi di fondo è che vi sarebbe, sì, una responsabilità militare di Putin nello scoppio del conflitto, ma vi sarebbe una ben più grande responsabilità politica della Nato, nell’aver spinto Putin a confliggere. Motivo per cui è meglio. Lasciare l’Ucraina al suo destino.

Tesi oppugnabile, fallace ma ognuno è libero di dire la sua. Ciò che è insopportabile è che gli Orsini si atteggino a intellettuali scomodi, a voci fuori dal coro, perseguitati. Spero che si rendano conto che sono invitati non per le loro (povere) idee ma solo perché sono esca per il falò dei talk, per la rissa e la ressa degli ascolti. Hanno convertito il martirio in professione. La tv dà alla testa, a chi la frequenta.

 Che stupidità cancellare il contratto al “putiniano” prof Orsini. Non si tratta di condividere le tesi di Orsini sulla guerra in corso: più che un “intellettuale scomodo” sembra una macchietta. Ma ha tutto il diritto di esprimere le sue idee...di Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 24 marzo 2022.

Così la Rai ha deciso di stracciare il contratto al professor Alessandro Orsini per motivi di «opportunità», come recita l’algido comunicato della direzione di Viale Mazzini. Avrebbe dovuto partecipare a sei puntate del talk show Carta Bianca per circa 12mila euro di compenso ma le ruvide polemiche sulle presunte posizioni “putiniane” del professore hanno spinto i vertici della tv di stato a prendere la più pavida e la più stupida delle decisioni: censurarlo.

Non si tratta di condividere le tesi di Orsini sulla guerra in corso, il saccente giustificazionismo con cui da un mese commenta l’invasione russa, il disprezzo che mostra per la resistenza ucraina, la compiaciuta certezza con cui afferma che «Putin ha già vinto» invitando tutti ad accettare le condizioni dello zar. Con quegli occhi perennemente sgranati, il tono di voce stentoreo, la parlantina esagitata e quell’aria un po’ mitomane, come una specie di Stanis Larochelle del mondo accademico italiano, Orsini più che un “intellettuale scomodo” sembra una macchietta. Ma ha tutto il diritto di esprimere le sue idee sulla tv pubblica come, peraltro, è concesso 24 ore su 24 ai suoi tanti detrattori. Cancellarlo dal panorama mediatico perché ha posizioni contrarie a quelle del governo Draghi è una porcheria.

Questo giornale, fin dal primo giorno di guerra, si è schierato senza se e senza ma con il presidente Zelensky e il popolo ucraino perché crede nel diritto alla sovranità dei popoli e nella resistenza all’oppressione di chi è sotto occupazione militare. Ma crede con altrettanta forza nella libertà di espressione, nel confronto democratico delle idee, nella possibilità di difendere opinioni lontane dal mainstream e dal pensiero unico senza dover subire conseguenze da parte dei soliti, zelanti censori.

Salvatore Merlo per “il Foglio” il 24 marzo 2022.  

Gli hanno tolto i titoli e gli consegnano la matricola Rai, lo sottraggono all’accademia e lo depositano all’osteria. Il che, da un certo punto di vista, è persino rassicurante. 

Insomma ci voleva davvero la nostra cara vecchia televisione di stato, il servizio pubblico, in pratica ci volevano Bianca Berlinguer e Carlo Fuortes, per restituire Alessandro Orsini, lo spiritato professore che fa esultare i putinisti di mezza Italia, al suo più consono collocamento: lo spettacolo circense di “#Cartabianca”.

Su Rai 3. “E d’altra parte”, dice Aldo Grasso, ridendo, “non fai davvero fino in fondo parte del circo finché non ti danno l’ingaggio”. Dunque eccolo, l’ingaggio rivelato dal Foglio.it. Un contratto, dodicimila euro e sei puntate in prima serata per ribadire che Vladimir Putin ha già vinto e gli ucraini si dovrebbero   arrendere subito.

“Fosse spiritoso, ma sono sicuro che non lo è, adesso Orsini potrebbe ribaltare la sceneggiatura”, spiega Grasso, sul filo dell’ironia. “Potrebbe stupirci dicendo che Putin è in realtà un mascalzone e che la resistenza ucraina è eroica”. Teatro. “Così ribalterebbe ‘#Cartabianca’ e in qualche modo giustificherebbe il fatto che il servizio pubblico si sia prestato a questa operazione”.

Il cui senso qual è esattamente? “Boh, Bianca Berlinguer segue uno schema fisso: vede uno strambo nelle trasmissioni altrui e subito lo paga. Corona, Scanzi e adesso Orsini”. 

E in effetti “#Cartabianca” è una trasmissione particolarmente densa, ricca di... sbrigliati, per così dire. “Altroché”, ride Aldo Grasso. “Bianca Berlinguer vede Mauro Corona dalla Bignardi, e poiché quello le sembra abbastanza fuori di melone, lo scrittura alla Rai. Poi vede Scanzi dalla Gruber, e lo scrittura alla Rai.

Infine vede Orsini da Formigli, e lo scrittura alla Rai”. Tutti sotto contratto. L’ingaggio, appunto. Ma esattamente a che servono queste persone? “E’ come al circo, ha presente? Lì c’è la donna cannone, il nano, il pagliaccio, quello che cammina sulle mani... Ecco. 

Dalla Berlinguer invece c’è Corona che fa il mattocchio, Scanzi che fa la parte del grillino (mezzo) alfabetizzato, e adesso c’è pure Orsini che fa il professore un filo invasato”. Horror-show? “Diciamo che raccatta il peggio di un genere già orrido di suo, il talk. Modestamente sono trent’anni che lo dico: il talk fa veramente schifo”. E “#Cartabianca” rappresenta degnamente il genere.

“Sì, ma realizza anche un paradosso”. Quale? “Gli altri conduttori più fanno cose orribili più fanno ascolti, di solito. La Berlinguer, al contrario, insegue gli altri, spesso li supera nell’orrido, e però incredibilmente fa ascolti sempre peggiori”. Una maledizione. 

Martedì scorso, Floris, che in quanto a bislacchi non è secondo a nessuno, ospitava Dibba straparlante di missili “supersonici”, tipo Mazinga Zeta, e ha fatto il 7,2 per cento di share. Berlinguer è arrivata ultima, dopo Rete 4 che da par suo sfoderava Dugin, cioè l’ideologo matto di Putin.

 E dire che in questa rincorsa all’ospite più strambo, la figlia di Enrico Berlinguer vantava la presenza di Mauro Corona, il quale rivelava come ad Aviano ci siano “ottanta bombe atomiche sotterrate sotto la base militare”. Bum-bum. E’ sfortunata la Berlinguer con gli ascolti? “No, guardi. Non è sfortunata: è negata. Ci avete fatto caso che non sa mai quando interrompere l’ospite? Interrompe sempre nel momento sbagliato. Una cosa che ormai non imparerà mai più. Non c’è niente da fare”. Tuttavia pare le vogliano consegnare la striscia di informazione di Rai 3, quella pregiatissima, attaccata al telegiornale. “Ah, bene. Auguri”.

Meloni: difendo Orsini ma non lo condivido. La Lega: certi virologi prendono 2000 euro per 10 minuti. Francesco Severini giovedì 24 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Il professor Orsini e le sue tesi sulla guerra Russia-Ucraina continuano a tenere banco anche oggi sui social. Con renziani e dem uniti nel sostenere la tesi che il professore non dovrebbe esporre in tv le sue tesi filo-Putin. E sull’altro fronte M5S, Sgarbi, Lega e FdI che difendono il diritto di parola di Orsini.

Meloni: difendo Orsini ma non sono d’accordo con le cose che dice

Sull’argomento anche Giorgia Meloni ha scritto su Fb un post in difesa del docente della Luiss:  “Io non sono d’accordo con molte delle cose che dice il prof. Orsini, ma per questo lo voglio difendere. Mi spaventa una Nazione nella quale la televisione di Stato consente di sostenere unicamente le stesse tesi che sostiene il Governo. Mi spaventa quando colpisce me, e quando colpisce chi non la pensa come me”.

Capitanio (Lega): non è questione di cachet, le posizioni di Orsini sono sgradite ad alcuni partiti

Il capogruppo della Lega in Commissione di Vigilanza Rai Massimiliano Capitanio spiega all’Adnkronos la sua posizione sul caso Orsini: “Sarebbe più onesto dire che le posizioni di Alessandro Orsini non sono gradite ad alcuni partiti e ad una parte della Rai, piuttosto che farne una questione di cachet“.

Capitanio: Orsini ha un curriculum di tutto rispetto

“Per Capitanio, dunque, “il tema del cachet è solo un pretesto: 2000 euro lordi a puntata, più o meno 1500 euro netti per un paio d’ore in prima serata su Rai3, forse sono troppi – chiarisce – ma è anche vero che in televisione, soprattutto quando si tratta di competere con il mercato privato, tutto è relativo. Alessandro Orsini – tiene a sottolineare Capitanio – è direttore e fondatore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss e del quotidiano Sicurezza Internazionale, professore associato nel Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, ha pubblicato libri con le maggiori università americane e i suoi articoli sono apparsi sulle più autorevoli riviste scientifiche internazionali specializzate in studi sul terrorismo”.

Il governo Renzi chiamò Orsini a collaborare come esperto di terrorismo

E “durante il governo Renzi e poi Gentiloni, è stato nominato membro della commissione del governo per lo studio dell’estremismo jihadista con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri nel 2016. Senza contare tutto il resto. Insomma un curriculum del genere e una posizione divisiva come la sua, anche su un tema grave come la guerra, purtroppo hanno un prezzo”.

Si dovrebbe parlare anche dei compensi dei virologi…

“Se bisogna parlare di compensi, senza voler neppure entrare in quelli stellari di Sanremo, allora occorre farlo davvero analizzando i gettoni di presenza di centinaia di comparse irrilevanti. Cito – esemplifica Capitanio – le parole dell’agente di un virologo molto presente sulle tv private: ‘Per un contributo di 10 minuti su Skype o attraverso lo studio televisivo dell’università ci si attesta intorno a 2000 euro più Iva’“.

Orsini smentisce: “Mai giustificato Putin”. E attacca il Pd: “Sono di sinistra ma schifato”.  Lucio Meo venerdì 25 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.  

“Ho sempre detto che Putin è l’aggressore”. Il professor Alessandro Orsini è intervenuto ieri sera a Piazzapulita, su La7, dopo la cancellazione del suo contratto con Cartabianca, programma di Raitre in cui è stato ospite per 2 puntate. Orsini è stato aspramente criticato per opinioni e posizioni sulla guerra tra Ucraina e Russia. “Sui giornali hanno scritto che io non condannato apertamente Putin, è una bugia. Ho condannato in maniera fermissima l’invasione di Putin, ho sempre detto che Putin è l’aggressore e Zelensky è l’aggredito”, dice Orsini rispondendo a Corrado Formigli.

Orsini e le accuse di essere filo-russo

“Ho ricevuto la notizia della cancellazione di un contratto firmato e approvato”, dice riferendosi al caso Cartabianca. “Sono venuto a Piazzapulita il 3 marzo, da quel giorno ho rinunciato a circa 30mila euro di compensi. Ci sono gli audio in cui comunico che sarei stato presente gratuitamente. Ho accettato poi l’offerta di Cartabianca, tra l’altro la più bassa tra tutte quelle ricevute. Sono onorato per il fatto che vengano offerti soldi per le mie competenze. E’ chiaro che le mie parole abbiano colpito consorterie molto potenti, compreso il governo”, aggiunge.

“Una ricercatrice ha detto che io avrei rapporti con il Cremlino, sul sito che dirigo è comparso un articolo sul vaccino russo, scritto da un professionista che ha utilizzato dati tecnici. Io ho viaggiato tanto nella mia vita, non ho mai messo piede in Russia, non ho un amico russo. Ho sempre respinto inviti a pranzo e a cena dalle ambasciate. Ho lavorato in maniera pubblica per la commissione dello studio della radicalizzazione jihadista all’epoca diretta da Marco Minniti, ho lavorato per il governo italiano ma non sono certo un agente segreto”, prosegue.

La delusione della sua sinistra che lo censura

Poi le accuse al Pd, che ne ha chiesto la cancellazione dalla Rai. “La mia cultura politica è un coacervo di contraddizioni, ho un’impronta francescana su cui si sono impiantati socialismo e liberalismo. Dai 15 anni fino alla laurea sono stato nel movimento giovanile della Cgil, prima della laurea ho chiuso completamente con la politica. Oggi mi sento un uomo di sinistra schifato. Se penso ai valori per cui mi sono battuto e vedo parlamentari che hanno avuto la mia stessa storia e mi vogliono censurare…”, afferma ancora.

Alessandro Orsini via da Cartabianca, Giorgia Meloni senza pietà: in Rai solo chi sostiene le tesi del governo. Il Tempo il 24 marzo 2022.

Il caso del professor Alessandro Orsini infiamma la polemica politica e fa emergere il cortocircuito dell'informazione in Rai e non solo. Il docente esperto di geopolitica è diventato uno delle voci più ascoltate e controverse durante la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, e le sue tesi sul ruolo della Nato e dell'Europa nella genesi del conflitto hanno avuto grossa eco sui media e sui social. La notizia di un contratto per una collaborazione retribuita con il programma di Rai3 Cartabianca, condotta da Bianca Berlinguer,  ha scatenato l'inferno tanto che Viale Mazzini ha stoppato tutto, con la più classica delle pezze che si rivelano peggiore del buco. 

La leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, con un post su Twiiter, ha puntato il dito contro il pasticciaccio della Rai sul prof: "Non sono d’accordo con molte cose che dice Orsini, ma mi spaventa una Nazione nella quale la tv di Stato consente di sostenere unicamente le stesse tesi del governo. Una democrazia prevede libertà di pensiero: per esercitare il libero arbitrio serve il confronto tra tesi diverse", ha twittato la presidente di FdI.  

"La direzione di Rai 3, d'intesa con l'amministratore delegato della Rai, ha ritenuto opportuno non dar seguito al contratto originato su iniziativa del programma Cartabianca che prevedeva un compenso per la presenza del professor Alessandro Orsini nella trasmissione", aveva fatto sapere la rete del servizio pubblico dopo si era venuto a sapere che Orsini avrebbe ricevuto un compenso di circa duemila euro a puntata, per un totale di sei appuntamenti. Intanto il professore Orsini giovedì 24 marzo è ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita, su La7, insieme tra gli altri a Selvaggia Lucarelli, Nathalie Tocci, Federico Fubini, Angela Mauro, Mario Calabresi e Alberto Negri.

Alessandro Orsini e lo sfogo a Piazzapulita: "Io quinta colonna di Putin? Vergognatevi". Chi lo vuole censurare. Il Tempo il 25 marzo 2022.

"Lei che rapporti ha con la Russia?" Alessandro Orsini, professore associato nel Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss viene intervistato da Corrado Formigli a "Piazzapulita", durante la puntata di giovedì 24 marzo. Il prof è finito al centro di una "potente" bufera per le sue posizioni critiche nei confronti della Nato, da molti denunciate come filo-Putin. La goccia che ha fatto traboccare il vaso - già colmo - la revoca della Rai del contratto di collaborazione con "Cartabianca", la trasmissione condotta da Bianca Berlinguer.  

"Io quinta colonna di Putin? È una grandissima vergogna, sul mio sito non c'era nessun elogio del vaccino Sputnik. I miei rapporti con la Russia? Non ho mai messo piede in Russia e non ho un amico russo" si sfoga il prof con Formigli che lo definisce appestato. “Su di me menzogne e calunnie, tra queste quella secondo cui sarei avido: da quando sono venuto l’ultima volta a Piazzapulita, il 3 marzo scorso, ho rinunciato a 30mila euro di compensi. Di tutte le trasmissioni che mi avevano offerto un compenso economico, ho accettato Cartabianca, che mi offriva il più basso. Le mie analisi sulla guerra in Ucraina hanno toccato consorterie potenti che si stanno coalizzando per colpirmi: innanzitutto il governo, di cui sono stato sostenitore e teorico”.

“Ho sempre sostenuto il governo Draghi quando ha fatto delle politiche di pace – spiega – ad esempio in Libia quando si rifiutò di dare le armi a Tripoli, per non creare una escalation militare. Tuttavia in Ucraina ha fatto una scelta opposta: questo perché il governo italiano non vuole che scoppi l’inferno in Libia, altrimenti l’Italia sarebbe travolta, mentre l’Ucraina è lontana. Non mi reputo una vittima, ma non ho paura di ci mi attacca. Come il Corriere della Sera – prosegue Orsini – che mi ha messo in bocca parole che mai ho pronunciato. Ha scritto sul sito che non ho mai chiaramente condannato Putin, una grandissima menzogna, io ho sempre fermissimamente l’invasione di Putin, ho sempre detto che Putin è l’aggressore e che Zelensky è l’aggredito e che sono totalmente schierato con l’Ucraina”.

Alessandro Orsini a PiazzaPulita: "Io quinta colonna di Putin? Vergognatevi", Rai demolita punto per punto.  Libero Quotidiano il 24 marzo 2022.

Uno dei casi del giorno, anzi della settimana, è quello del professor Alessandro Orsini: oggi, giovedì 24 marzo, la Rai ha "stracciato" il contratto che aveva con CartaBianca, il programma di Bianca Berlinguer su Rai 3. La ragione? Troppo filo-Putin. Una cacciata chiesta a gran voce in primis dal Pd.

E lo stesso Orsini in serata era ospite di Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7, per un'attesissima intervista sulla vicenda. E Orsini si toglie più di un sassolino dalle scarpe: "Io quinta colonna di Vladimir Putin? È una grandissima vergogna, sul mio sito non c'era nessun elogio del vaccino Sputnik". Dunque, interpellato da Formigli, rincara: "I miei rapporti con la Russia? Non ho mai messo piede in Russia e non ho un amico russo", taglia corto spazzando via le polemiche.

Dunque, il professore ricorda come "in dieci giorni ho rifiutato 30mila euro di compensi. Mi sento onorato che ci siano trasmissioni che mi offrono dei soldi", ha aggiunto. In giornata, Orsini aveva detto di essere pronto a partecipare a CartaBianca "anche gratis". La Berlinguer, con un comunicato stampa, aveva aspramente criticato i vertici di Viale Mazzini, rivelando di essere stata scavalcata e aggiungendo che, a suo giudizio, lo stop ad Orsini è una compressione della libertà d'espressione, "un atto grave". Formigli, da par suo, ha ricordato: "Continueremo a ospitare Orsini e a fargli domande". 

Nicola Porro, retroscena sul contratto di Alessandro Orsini: "Chi gli ha offerto di più". Libero Quotidiano il 24 marzo 2022.

"Ti diamo 3.500 euro per venire da noi". Il retroscena sul caso del contratto del professor Alessandro Orsini, ingaggiato come esperto di geopolitica nella trasmissione di Bianca Berlinguer Cartabianca e poi stracciato dalla Rai lo ha rivelato Nicola Porro nella sua Zuppa di Porro di stasera, 24 marzo. Il professore finora non ha "beccato un euro per andare in tv, come molti di quelli che vengono a Quarta Repubblica", ha puntualizzato il giornalista che poi ha ripercorso le tappe della vicenda. "Ê stato contattato da Rai 3 e la cosa incredibile è che il Parlamento si è messo a litigare per il suo contratto".

A questo punto il retroscena: la Rai aveva offerto a Orsini "2 mila euro a puntata per sei puntate, quindi 12 mila euro totali", ma "un’ora dopo aver avuto questa offerta quelli di Giovanni Floris gli avrebbero detto: 'Ti diamo 3.500 euro per venire da noi'", rivela Porro precisando che si tratta di una indiscrezione ottenuta da fonti attendibili. L'asta su Orsini ha una motivazione chiara: il prof fa ascolti "perché ha una posizione diversa degli altri e ha il coraggio di esternarla". 

In ogni caso Orsini non è l'unico ad ottenere elevati compensi per le sue ospitate in tv. Basta pensare  ai "5mila euro" che incassa il virologo Roberto Burioni per le sue "lezioni" a Che tempo che fa. "Perché Burioni sì e Orsini no?" si chiede Porro.

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 26 marzo 2022. 

(…) L'eco della grancassa russa è regolarmente on air anche qui da noi, un'ospitata dietro l'altra. Non è un caso che la Tass, l'agenzia di stampa del governo di Mosca, abbia appena celebrato Alessandro Orsini, direttore dell'Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss, che da un mese sostiene che "per ogni battaglia persa da Putin siamo obbligati a preoccuparci di più". Per la Tass, è "l'esperto italiano che accusa l'Ue di intensificare il conflitto invece di cercare la pace". E per pace, si intende naturalmente la resa degli ucraini.

Posizioni che anche all'interno dell'università intitolata a Guido Carli creano imbarazzi e accese discussioni fra accademici. Con una fronda piuttosto nutrita di prof, nel cui novero spiccano personalità illustri come Sabino Cassese, decisamente turbati dal fatto che il collega Orsini si fregi in tv del brand Luiss, "la casa di tutti", per esprimere punti di vista personali, giudicati "gravi".  

Da qui la richiesta di una presa di posizione, cioè quantomeno la rimozione di Orsini da capo dell'osservatorio, consegnata nei conversari di questi giorni ai vertici del dipartimento dell'ateneo. Che però al momento non sono intenzionati a procedere, nel nome della libertà assoluta di pensiero.

C'è anche chi fa notare le contraddizioni del professore neo-ingaggio Rai a Carta Bianca (ma con contratto azzerato post-polemiche), che in un articolo sul Fatto di ieri ha denunciato la "compenetrazione tra il potere politico-economico e i centri di ricerca". 

Dimenticando forse che l'Eni, forza economica di primo livello, finanzia proprio il suo osservatorio, tramite uno studio sulla geopolitica dell'energia attivo da qualche anno, che l'università ha poi affidato a Orsini. (...)

Alessandro Orsini, "così lo hanno consacrato". L'analisi che umilia la Rai sul prof epurato. Il Tempo il 26 marzo 2022.

Il prontuario del martirologio televisivo. Sembra questa la parabola che ha intrapreso Alessandro Orsini, docente della Luiss e al centro delle polemiche per i suoi interventi sulla guerra in Ucraina nei talk tv. Posizioni su cui non è difficile intravedere uno sbilanciamento sul lato Putin. Un articolo di Salvatore Merlo sul Foglio ricostruisce il percorso. “Non lo conosceva nessuno, era praticamente invisibile”, è l’esordio del pezzo, che descrive l’onda di visibilità su cui è poggiato il prof. “Ma la definitiva fortuna di Orsini, la sua consacrazione, l’elevazione finale, si è consumata soltanto quando la Rai, bontà sua, dopo avergli fatto un contratto televisivo da 12mila euro si è pentita e gliel’ha stracciato davanti”.

Dunque, scrive Merlo, i dirigenti Rai gli hanno conferito “la più ambita delle lauree del nostro Paese, una medaglia che in Italia vale assai più del premio Nobel: il titolo ufficiale di epurato. Cacciato, scomodo”. Si tratta di “un’ambitissima che richiede molta comprensione di sé, molto tempo e un grande impegno. In principio fu l’editto bulgaro. Da allora in poi chiunque venga tagliato da un palinsesto tv ritiene in buona fede d’esser Michele Santoro o Enzo Biagi, se non Piero Gobetti”.

Perciò “in quanto epurato e imbavagliato non la smette più di parlare e di comparire. Insomma: altro che i duemila euro a puntata che gli voleva dare la Rai. Bazzecole. Adesso Orsini ne vale almeno quattro mila”. Insomma, non c’è nulla di meglio, in Italia, che essere “martire mediatico”.  

Alessandro Orsini e lo sfogo a Piazzapulita: "Io quinta colonna di Putin? Vergognatevi". Chi lo vuole censurare. Il Tempo il 25 marzo 2022.

"Lei che rapporti ha con la Russia?" Alessandro Orsini, professore associato nel Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss viene intervistato da Corrado Formigli a "Piazzapulita", durante la puntata di giovedì 24 marzo. Il prof è finito al centro di una "potente" bufera per le sue posizioni critiche nei confronti della Nato, da molti denunciate come filo-Putin. La goccia che ha fatto traboccare il vaso - già colmo - la revoca della Rai del contratto di collaborazione con "Cartabianca", la trasmissione condotta da Bianca Berlinguer.  

"Io quinta colonna di Putin? È una grandissima vergogna, sul mio sito non c'era nessun elogio del vaccino Sputnik. I miei rapporti con la Russia? Non ho mai messo piede in Russia e non ho un amico russo" si sfoga il prof con Formigli che lo definisce appestato. “Su di me menzogne e calunnie, tra queste quella secondo cui sarei avido: da quando sono venuto l’ultima volta a Piazzapulita, il 3 marzo scorso, ho rinunciato a 30mila euro di compensi. Di tutte le trasmissioni che mi avevano offerto un compenso economico, ho accettato Cartabianca, che mi offriva il più basso. Le mie analisi sulla guerra in Ucraina hanno toccato consorterie potenti che si stanno coalizzando per colpirmi: innanzitutto il governo, di cui sono stato sostenitore e teorico”.

“Ho sempre sostenuto il governo Draghi quando ha fatto delle politiche di pace – spiega – ad esempio in Libia quando si rifiutò di dare le armi a Tripoli, per non creare una escalation militare. Tuttavia in Ucraina ha fatto una scelta opposta: questo perché il governo italiano non vuole che scoppi l’inferno in Libia, altrimenti l’Italia sarebbe travolta, mentre l’Ucraina è lontana. Non mi reputo una vittima, ma non ho paura di ci mi attacca. Come il Corriere della Sera – prosegue Orsini – che mi ha messo in bocca parole che mai ho pronunciato. Ha scritto sul sito che non ho mai chiaramente condannato Putin, una grandissima menzogna, io ho sempre fermissimamente l’invasione di Putin, ho sempre detto che Putin è l’aggressore e che Zelensky è l’aggredito e che sono totalmente schierato con l’Ucraina”. 

Guerra in Ucraina, Enrico Mentana a gamba tesa sul caso Orsini. La scelta del direttore e Dario Fabbri conferma. Giada Oricchio su Il Tempo il 26 marzo 2022.

Il dualismo Dario Fabbri-Alessandro Orsini. L’invasione dell’Ucraina per mano della Russia ha portato in tv volti sconosciuti al grande pubblico. Dopo l’era dei virologi e immunologi star a causa della pandemia da Covid, è il turno degli esperti di geopolitica. Fra i tanti, due spiccano per antitesi: il sociologo Alessandro Orsini e il coordinatore America di Limes, Dario Fabbri. Opposti per stile, analisi politiche, modo di comunicare, empatia e “stipendio”.

Il direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale, professore associato di Scienze politiche della Luiss, va ripetendo di trasmissione in trasmissione che “se Putin è un cane schifoso, lo siamo anche noi, l’Ucraina deve arrendersi. Se Putin perdesse la guerra e dovesse usare la bomba atomica, l’Europa sarebbe moralmente corresponsabile”. Asserzioni che lo hanno portato a un contratto con la Rai: 12.000 euro per 6 puntate di #cartabianca condotto da Bianca Berlinguer su Rai3. Ma il PD si è messo di traverso e ha chiesto all’azienda pubblica di “non pagare i pifferai del regime russo” (noi saremmo i topi che lo seguono ciecamente?).

Così i vertici di Viale Mazzini hanno stracciato l’accordo e hanno messo Orsini a far compagnia al cavallo di bronzo, simbolo di forza e potere (sic!), fuori ai cancelli. Dall’altra parte, dicevamo, c’è Dario Fabbri, consigliere scientifico della rivista Limes e grande esperto di America e Medio Oriente: chi ancora non ha sentito le sue disamine non sa cosa si perde. Preciso, competente, equilibrato e mai saccente o didattico (potrebbe considerando l’enorme preparazione, ma ha l’intelligenza di trattare i telespettatori da pari dotati di un comprendonio minimo). Fabbri è ospite fisso e unico degli speciali del TG LA7 condotti da Enrico Mentana.

Nello studio sono solo loro due, da quando il 24 febbraio è iniziata l’aggressione del Cremlino. Al massimo ci sono la bravissima Francesca Mannocchi e un inviato sul posto. Il direttore ha scelto un taglio asciutto, prettamente informativo e analitico per raccontare la guerra che sta cambiando il mondo. Ma ieri ha voluto aprire una parentesi sul caso Orsini divenuto “l’epurato martire del pensiero libero” a seguito del clamoroso dietrofront della Rai che per tanti scrittori e giornalisti è stato un errore pari e uguale a quello del regime della Federazione russa.

Anche Enrico Mentana ha bollato la scelta come censura: “Si può essere d’accordo o no con alcune posizioni, ma è giusto dar spazio a tutti. La questione dei compensi è una cosa, quella della libertà di espressione un’altra ed è proprio ciò che distingue l’Italia da un Paese che tanto stiamo criticando per il bavaglio all’informazione”. E a proposito di compensi ha aggiunto con orgoglio: “Da noi per fortuna vengono tutti gratis, Fabbri lo può confermare, noi non paghiamo nessuno” e il giornalista con un sorriso composto e accennato: “Sì, sì, confermo, assolutamente”.

Estratto dell’articolo di Gianluca Roselli per “il Fatto quotidiano” il 27 marzo 2022.

(...) Aldo Grasso l'ha aspramente criticata. Non rispondo mai ai critici televisivi. Faccio solo notare che non ho mai letto una recensione negativa di Aldo Grasso ai programmi della rete del suo editore.

Michela Tamburrino per “La Stampa” il 27 marzo 2022.  

Al centro della bufera suo malgrado. Ma sarebbe sbagliato pensare che Bianca Berlinguer, autrice e conduttrice di Cartabianca, su Rai 3, non sia avvezza a traversare di questi mari.

Le era già successo, con l'alpinista-scrittore Mauro Corona, che un suo ospite venisse allontanato dalla trasmissione da lei condotta. E in questi giorni si sarebbe voluto «replicare l'allontanamento», con Alessandro Orsini, docente di Sociologia del Terrorismo alla Luiss, che ne prende già le distanze. A fare chiarezza su quanto accaduto è l'altra protagonista della storia, Bianca Berlinguer.

Berlinguer, ma chi è il professor Alessandro Orsini?

«È uno studioso che esprime posizioni presenti nell'opinione pubblica e tra gli analisti. Io sono per il pluralismo sempre e questa condizione è inderogabile soprattutto in una situazione così delicata. 

Orsini peraltro ha sempre cercato di analizzare le cause di quanto accade, senza negare che la Russia sia l'aggressore. E io non mi stanco di ribadirlo nel corso dell'intero programma».

Poi che cosa è successo?

«Dopo che altre trasmissioni gli avevano fatto proposte economicamente più allettanti, gli ho offerto un contratto per sei puntate e così lui ha deciso di scegliere Cartabianca, convinto di poter esprimere lì il suo pensiero in piena libertà».

La Rai ha poi rescisso il contratto a seguito di un'alzata di scudi di Pd e Italia Viva in Vigilanza che ritenevano le sue posizioni lesive di una sensibilità comune.

«Io ritengo che loro abbiano pieno diritto a esprimere la loro opinione ma le decisioni della Rai non possono essere condizionate da quello che pensano i politici». 

Invece è accaduto, il contratto è stato cassato e lei ha lamentato di non essere stata avvertita.

«Mi sono sentita amareggiata e colpita nelle mie prerogative di autrice e responsabile del programma, che si esprimono anche nella libertà di decidere quali ospiti avere, quali contenuti dare per disegnare, insieme alla mia squadra, la fisionomia della trasmissione. Invece la decisione è stata presa senza che io venissi consultata». 

Una mancanza da parte dell'ad Carlo Fuortes? «

No, con lui ho sempre avuto rapporti di estrema correttezza». 

Praticamente lei ha vissuto un déjà vu, perché tutto questo era già accaduto con Mauro Corona.

«Esatto, un déjà vu. Anche lì una disdetta arrivata senza che io fossi stata avvertita. In quel caso Corona mi aveva chiamata "gallina", e dunque un provvedimento si imponeva, ma non un'interdizione per tutta la stagione. 

E il suo ritorno quest' anno è stato molto apprezzato dal pubblico. Comunque il professor Orsini ha proposto di sua volontà di continuare la sua partecipazione a titolo gratuito, e gli sono molto grata». 

Non pensa che questa polemica abbia invece fatto passare Orsini per un martire della libertà di pensiero?

«Credo che ci sia stata una sua demonizzazione che non comprendo e non condivido. Questo modo di discutere è sbagliatissimo tanto più in un momento come questo, quando è richiesta la massima circolazione delle idee».

Sembra che il cda Rai voglia vietare le ospitate retribuite.

 «Sarebbe un boomerang. È un'ipocrisia fingere che non si sia consolidato in questi anni un mercato di opinionisti, e se la Rai si sottraesse sarebbe fuori dai giochi a tutto favore della concorrenza». 

Si dice che lei peschi opinionisti solo da una certa testata. È vero?

«Questa non l'avevo ancora sentita. Basta una verifica per scoprire che è un'affermazione falsa». 

Dunque Orsini ci sarà martedì prossimo?

«Per quanto mi riguarda sì, come detto a titolo gratuito».

Non ne risentirà la trasmissione di tutta questa bagarre?

«Di certo non ne risentirà il pluralismo. Anche quando ero il direttore del Tg3 ritenevo che l'unico modo per permettere al telespettatore di costruirsi un suo pensiero fosse quello di far ascoltare più voci, anche contrastanti, ovviamente autorevoli». 

Il mercato degli opinionisti non è esploso in pandemia con i virologi, alcuni muniti di agenti, ospiti ovunque?

«I medici che sono venuti da noi, Bassetti, Crisanti e Galli, hanno partecipato a titolo gratuito, senza mai neppure adombrare alcuna ipotesi di compenso».

I politici del Pd che l'hanno attaccata, l'hanno mai chiamata?

«Solo Valeria Fedeli, ma perché ci lega un rapporto di stima. Molto correttamente mi ha chiamata per comunicarmi la sua posizione e io le ho detto che non la condividevo».

 Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 29 marzo 2022.

Alessandro Orsini, docente di Sociologia del Terrorismo Internazionale e oggi assiduo opinionista televisivo, passa al contrattacco dopo essere stato tacciato di essere un "pifferaio della propaganda di Putin" dal Deputato del Pd Andrea Romano, esponente della Commissione di Vigilanza Rai.

Su Facebook Orsini ha annunciato di aver dato mandato a uno studio legale di querelare l'Onorevole dem, che lo "sta diffamando".

“Gli avvocati" - precisa il professore - "mi dicono che Andrea Romano, come parlamentare, gode della tutela garantitagli dall’art. 68 della Costituzione, che bloccherebbe il procedimento e renderebbe inutile la mia querela. 

Solo se rinunciasse a questo privilegio, potrei chiedere ai giudici di accertare, come ha detto Romano e come dovrebbe dimostrare, se io sono davvero il pifferaio di Putin. Questa sera sarò a #CartaBianca su Rai Tre. Gratuitamente”.

Un atto di sfida, quello di Orsini, non soltanto ad Andrea Romano ma anche alla Rai, che ha stracciato il suo contratto nel programma condotto da Bianca Berlinguer. La quale dal canto suo con altrettanta temerarietà riaccoglie nel suo studio il professore - ancorché non pagato - malgrado l'opposizione dei vertici Rai, ovvero il Direttore di Rai3 Franco Di Mare e lo stesso Ad Rai Carlo Fuortes, che gli hanno impedito di percepire i pattuiti 2.000 euro a puntata per sei puntate.

Non si è fatta poi attendere la risposta dell'On. Romano all'annuncio di querela da parte di Orsini. "Forse Alessandro Orsini preferisce quei regimi politici, come la Russia di Putin, nei quali ai deputati non è permesso di esercitare il loro pieno mandato anche esprimendo giudizi politici di merito. 

O forse, per quanto bizzarro possa apparire, il Professor Orsini non conosce l'articolo 68 della Costituzione Repubblicana, laddove si afferma che 'i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni'. Un grave limite di ignoranza, che si somma alle gravissime falsità espresse da Orsini". 

Il parlamentare dem, in aula alla Camera dei Deputati, ha proseguito quindi: "Ma qui non siamo a Mosca, non siamo nella Duma di Putin. Siamo nel Parlamento della Repubblica Italiana. 

E i parlamentari della Repubblica Italiana, per quanto possa dispiacere ad Alessandro Orsini, sono liberi di esprimere qualsiasi opinione nell'esercizio del proprio mandato. E io confermo, nel pieno esercizio del mio mandato parlamentare, che le tesi espresse da Orsini sull'aggressione all'Ucraina sono quelle di un "pifferaio di Putin". Ovvero di chi ripete per filo e per segno le argomentazioni con cui i civili ucraini vengono massacrati ogni giorno dalle forze armate russe".

Secondo l'On. Romano, Alessandro Orsini "puntava a ricevere un sostanzioso compenso dalla Rai, dal Servizio Pubblico Radiotelevisivo, per rilanciare le tesi di Putin e del regime putiniano". 

Una "pretesa" da parte del professore "non tanto di affermare tesi profondamente sbagliate e persino immorali, ma la pretesa di essere pagato dagli italiani che finanziano il Servizio Pubblico Radiotelevisivo".

Il deputato Dem ha concluso il suo intervento illustrando il motivo della scelta del termine che ha fatto infuriare Orsini: "Forse potremmo ricordare che 'pifferaio' era una espressione usata da Elio Vittorini nei confronti di Palmiro Togliatti, nel secondo dopoguerra. Ma non sono sicuro che Orsini sia a conoscenza della discussione che si svolse nel secondo dopoguerra intorno alla rivista Il Politecnico".

Marco Zonetti per vigilanzatv.it l'11 aprile 2022.  

La Rai ha risposto ufficialmente all'interrogazione dell'Onorevole Andrea Romano (Pd), esponente della Commissione di Vigilanza, riguardo al caso del Professor Alessandro Orsini e del suo contratto a #Cartabianca.  

L'On. Romano, che ha definito il docente della Luiss "pifferaio della propaganda di Putin", aveva interpellato istituzionalmente la Rai per chiedere:

1) delucidazioni sulla veridicità delle notizie di stampa riguardo alla contrattualizzazione di Orsini nel programma di Rai3 condotto da Bianca Berlinguer con un compenso di 2.000 euro a puntata per sei puntate; 

2) se confermata, in base a quale criterio sarebbe stata approvata tale somma visto che per il Professore era la "prima utilizzazione" in Rai; 

3) se e come Bianca Berlinguer avesse "rispettato i criteri di deontologia professionale previsti dal contratto di Servizio 2018-2022".

Come da documento che pubblichiamo qui sotto, l'azienda ha risposto ai quesiti dell'Onorevole Romano, confermando in primis l'esistenza del contratto e la sua rescissione. 

"Nel merito dell'interrogazione si precisa che" - scrive la Rai - "inizialmente era previsto un accordo a titolo oneroso tra il professor Alessandro Orsini e Rai3, cui il Direttore della Rete, d'intesa con l'Amministratore Delegato della Rai, ha ritenuto opportuno non dare seguito".

Ma la Rai va oltre, perché in conclusione precisa che: "la responsabilità editoriale è del Direttore di Rai3, che con riferimento all'intervento del Professor Orsini nella puntata dello scorso martedì 5 aprile, ha definito 'alcune affermazioni riprovevoli, assolutamente incondivisibili'". 

E qui siamo di fronte a una bomba, perché - oltre a fare proprie le parole durissime del Direttore di Rai3 Franco Di Mare sul docente della Luiss - ufficialmente l'azienda ribadisce che la responsabilità editoriale di #Cartabianca è di Di Mare. Responsabilità editoriale che, tuttavia, - assieme alla risposta della Rai all'Onorevole Romano - viene di fatto sconfessata dalla conduttrice Bianca Berlinguer, che persevera, seppur a titolo gratuito, a invitare Orsini in trasmissione e che ha ribadito al Corriere della Sera che, con Di Mare, non parla da un anno e mezzo.

Quindi, noi cittadini che paghiamo il canone ci domandiamo:

1) Se ufficialmente a #Cartabianca dovrebbe comandare Di Mare, ma a conti fatti è la Berlinguer a decidere degli ospiti da invitare in trasmissione, per quale motivo continuiamo a pagare il lauto stipendio del Direttore di Rai3 (oltre 220.000 euro annui)?  

2) Visto che la Rai e l'Amministratore Delegato fanno proprie le parole di Di Mare e giudicano le affermazioni del Professor Orsini "riprovevoli e assolutamente incondivisibili", per quale motivo al mondo continuano a permettere che egli vada ospite nell'unica trasmissione di approfondimento Rai in prima serata? E' una presa in giro, non solo a noi cittadini, ma anche alla Commissione di Vigilanza? Sarebbe il caso che ai piani alti di Viale Mazzini si mettessero d'accordo. Soprattutto con se stessi.

Da iltempo.it il 29 marzo 2022.

Guerra totale in casa Rai. Manuela Moreno, conduttrice di Tg2 Post, tira un fendente clamoroso a Bianca Berlinguer in diretta. Sullo sfondo, come da giorni a questa parte, la vicenda del sociologo Alessandro Orsini la cui partecipazione a Cartabianca è stata bloccata per le sue opinioni troppo filorusse che avevano fatto esplodere la rivolta del Pd.

Così si è venuto a sapere che Orsini aveva firmato un contratto di dodicimila euro con Cartabianca per sei puntate, duemila euro a puntata. E proprio su questo punto la Moreno si è scatenata: in chiusura della puntata di questa sera, Moreno in diretta ha detto: «Ringraziamo i nostri ospiti, che non abbiamo dubbi vengano per il piacere di stare con noi, visto che non sono pagati. Vero direttore?», ha chiesto rivolgendosi al direttore del Tg2, presente in studio.

E Gennaro Sangiuliano ha chiosato: «Assolutamente, mai pagato un ospite». E così Bianca Berlinguer è servita.

Vincenzo Esposito per corriere.it il 31 marzo 2022.  

Alessandro Orsini è tornato in tv, a «Cartabianca», ma stavolta senza gettone dopo le polemiche delle scorse settimane per l’accusa di essere filo-Putin. Martedì sera neanche il tempo di apparire in video e subito ha scatenato forti reazioni, perché, nel bene o nel male, il sociologo nato a Napoli nel 1975, divide e fa pensare con le sue tesi da «pecora nera». Ha un grandissimo seguito su Facebook che ormai si può chiamare comunità. Gente che discute, fa domande, gli chiede consigli e Orsini non si sottrae. 

Ad esempio: «Miei amati e giovanissimi amici, alcuni di voi, in lacrime, mi dicono di essere “a pezzi” perché “sono stato bocciato a scuola” o perché “mi sono diplomato con un voto bassissimo”. Mi scrivete che “lei, professor Orsini, per me è un eroe”. Miei cari amici, che cosa vi distrugge e quale eroe potrei mai essere? Sono un uomo che si porta addosso una quantità di sconfitte che desta impressione. Sono stato rovinosamente bocciato al primo anno del liceo classico.

Trasferitomi da Napoli a Latina, cambiai scuola, ma i miei problemi non finirono e nemmeno le sconfitte. Faticai sempre e fui rimandato in due materie al terzo anno, chimica e matematica. Mi sono diplomato al liceo classico Dante Alighieri di Latina con un voto bassissimo, 40/60, che, a quei tempi, significava che, tra i promossi, eri uno degli ultimi. I miei professori pensavano che non avessi alcun talento per andare all’Università». Una risposta nella quale il sociologo racconta molto di sé. 

La carriera

Non si è mai arreso, come suggerisce di fare a tutti nei suoi post, e si è laureato alla Sapienza, poi dottorato alla Roma Tre e ha fondato l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss, di cui è direttore, come del quotidiano Sicurezza Internazionale. È specializzato in “strategie di ingresso in gruppi violenti motivati da odio ideologico”, è stato nominato membro della commissione del governo per lo studio dell’estremismo jihadista nel 2016. Niente male per uno bocciato al primo anno di liceo a Napoli e arrivato al diploma con difficoltà. 

Le ragioni

E della sua città, al di là della guerra russo-ucraina, cosa ne pensa? Il suo pensiero affidato a un post del marzo 2020. E anche qui si racconta. Si inizia con la domanda (retorica) «Napoli è una città inferiore?». E poi: «Non mi offendo per gli insulti e spiego il significato della mia affermazione. (...) La vita sociale non sarebbe infatti possibile se gli uomini non avessero uno schema codificato per distinguere l’inferiore dal superiore su cui fondare le routine con cui producono la società.(...) È perché il camorrista è un essere inferiore che lo evitiamo. Quante volte i ragazzi di 14 anni si disperano per avere commesso una malefatta che ha rovinato la loro vita e dicono: “Ero confuso. Non mi sono reso conto che stavo sbagliando”.

A Napoli, quando frequentavo le scuole medie, ne ho visti di quattordicenni in simili condizioni pedagogiche. E a vent’anni li ho ritrovati in carcere. Tornati in libertà, ho letto le loro lettere piene di dolore e di pentimento, e raccolto le loro testimonianze: “Alessandro, io non ho avuto nessuno che mi abbia aiutato a capire che cosa fosse bene e che cosa fosse male”. Superiore e inferiore sono categorie spesso utilizzate con intenti ignobili, come dimostra la storia repellente di tutti i razzismi, ma non ci sono dubbi sull’inferiorità morale di Napoli. Napoli è una città inferiore per molte ragioni morali. Mi limito a indicarne quattro per motivi di sintesi. 

La prima ragione è che l’omicidio del 15enne (Ugo Russo, ucciso il primo marzo 2020 da un carabiniere che voleva rapinare, ndr) non ha provocato un’insurrezione popolare contro la microcriminalità. I napoletani sono assuefatti. È accaduto, accadrà di nuovo e i napoletani non daranno vita a una rivolta per una vita civile migliore. La seconda ragione, è che un adolescente impara che non si esce di casa indossando oggetti di valore. Derubato, gli viene detto: “Sciocco, che cosa ti aspettavi?”.

Dunque, la routine che riproduce la società napoletana è fondata sull’idea della normalità della criminalità». E poi: molti furti non vengono denunciati perché «Sporgere denuncia è tempo perso». La quarta ragione è che a Napoli la coscienza morale è divisa: alcuno sono contro il carabiniere, altri contro il rapinatore. «A Siena, che è una città moralmente superiore a Napoli, nessuno si schiererebbe con il quindicenne». Ma la domanda è: e a Roma, Milano, Londra o New York anche?

PiazzaPulita, Alessandro Orsini: "Il segretario della Nato un pazzo. Dietro alla guerra...", la bomba del prof. Libero Quotidiano l'08 aprile 2022.

Alessandro Orsini non usa mezzi termini nei confronti della Nato. Ospite a PiazzaPulita nella puntata in onda su La7 giovedì 7 aprile, il professore di sociologia del terrorismo si trova davanti all'ambasciatore Riccardo Sessa. "Per me - esordisce nello studio di Corrado Formigli, prima di dire la sua sulla guerra in Ucraina - è un privilegio avere un dialogo con un ambasciatore del suo calibro ma non sono d'accordo con lei. Intanto sono affascinato dalle differenze: lei è un ambasciatore e dà più importanza alla forma, io sono uno studioso e quindi alla sostanza. Nella sostanza è chiaramente la Nato".

Per Orsini infatti l'Alleanza atlantica "ha fatto cose gravissime". Non a caso secondo il professore, il numero due della Nato, il sottosegretario Mircea Geona è stato intervistato dallo stesso Formigli e "ha detto un sacco di menzogne". Ma non è finita qui, perché Orsini prosegue: "Se vogliamo capire cosa sta accadendo dobbiamo capire che l'Italia sta agli Stati Uniti come la Bielorussia sta alla Russia. Quindi super potenze che comandano stati satellite che non hanno autonomia". Il conduttore a quel punto lo incalza, chiedendo quali siano le menzogne citate. "Io ora le sto facendo vedere il processo di costruzione sociale della menzogna da parte della Nato. Nel campo della sicurezza internazionale l'Italia non ha nessuna autonomia: la prosecuzione di questa guerra farà bene agli Stati Uniti ma non a noi, perché distruggerà la nostra economia". 

Ma non è tutto, il sociologo contesta alla Nato anche un'altra menzogna, quella di aver diffuso l'idea che Vladimir Putin volesse fare una guerra lampo. "Questo fa capire che siamo tutti dentro una propaganda". Poi la stoccata finale a Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato: "Quando il Papa dice siete pazzi, siccome ormai si dice qualunque cosa: Di Maio dice che Putin è un animale, Biden dice che Putin è un macellaio, allora io penso di poter dire che il segretario generale della Nato è un pazzo. È un pazzo - rincara la dose Orsini -, i Paesi che stanno sostenendo l'Ucraina si coordinano segretamente attraverso la Nato, è la Nato che è dentro questa brutta storia". 

Enrico Mingori per tpi.it il 6 aprile 2022.

Prima l’università Luiss che prende le distanze dalle sue posizioni sulla guerra in Ucraina. Poi la Rai che gli cancella il contratto già firmato con il programma Cartabianca. E adesso anche l’Eni, pronta a tagliare i fondi al suo Osservatorio sulla Sicurezza internazionale. Un’altra mazzata in arrivo, per il professor Alessandro Orsini, il sociologo del terrorismo diventato il personaggio più discusso dei salotti tv che parlano di guerra in Ucraina.

Una fonte qualificata interna a Eni ha riferito a TPI che l’azienda non ha intenzione di rinnovare il finanziamento che eroga dal 2016 all’Osservatorio interno alla Luiss diretto da Orsini, cifra il cui ammontare è coperto da riservatezza. Interpellata dal nostro giornale, la società ci fa sapere in via ufficiale che “non commenta l’indiscrezione”. Ma la decisione sembra ormai presa.

Non sono note le motivazioni all’origine della scelta, ma è logico pensare che abbiano avuto un peso le polemiche scaturite per le posizioni assunte dal professore sull’invasione russa dell’Ucraina e sulla strategia dell’Occidente rispetto al conflitto in corso. Interpellato da TPI, Orsini non ha voluto commentare la notizia. 

L’Osservatorio sulla sicurezza internazionale, fondato dal docente sei anni fa, si occupa di ricerca, consulenza, organizzazione di eventi pubblici: la sua missione – si legge sul sito – è “creare ponti tra il mondo accademico e il pubblico, con l’obiettivo di consentire un processo decisionale informato sulle questioni di sicurezza internazionale”. L’osservatorio edita anche il quotidiano online Sicurezza Internazionale, diretto dallo stesso professor Orsini e a cui lavorano una decina di giovani analisti.

Il finanziamento di Eni ha ad oggetto in particolare la realizzazione di un progetto intitolato “Geopolitica dell’energia”, dedicato – come viene spiegato in un vecchio comunicato stampa – alla “analisi dei fenomeni di natura sociale, politica e culturale che caratterizzano i Paesi dell’area Mediterranea e del Medio Oriente e del loro impatto sul business dell’energia”. Eni specifica che il finanziamento non è erogato direttamente all’osservatorio di Orsini, bensì alla Luiss, che lo ha poi affidato al professore. 

DAGONEWS il 6 aprile 2022.

Di Mare in peggio! Il direttore di Rai3, prossimo alla pensione (lascerà a giugno), continua a picchiare duro sulla Berlinguer e su Alessandro Orsini. 

Il professore idolo dei putiniani è finito sulla graticola per aver detto, ieri sera a Cartabianca: “Preferisco che i bambini vivano in una dittatura, piuttosto che muoiano sotto le bombe in nome della democrazia”.

E Franchino ha preso la palla al balzo per tornare ad attaccare la sua nemica numero uno: "Frasi riprovevoli, Rai3 si dissocia. Il talk è un modello da ripensare se cerca solo l'effettaccio per aumentare mezzo punto di share".

La Berlinguer è stata accusata neanche troppo velatamente da Di mare di usare Orsini per racimolare qualche spettatore in più, in un programma che non ha mai brillato per ascolti. I due si erano già scazzati per il contratto da due mila euro chiesto dalla Berlinguer per Orsini e che Di mare, dopo una serie di polemiche politiche, aveva fatto bloccare dall’ad Rai Fuortes.

Da adnkronos.com il 6 aprile 2022.

"Io non ragiono in un'ottica politica ma umanitaria: preferisco che i bambini vivano in una dittatura e non muoiano sotto le bombe in nome della democrazia. Un bambino può essere felice anche in una dittatura". E' un passaggio dell'intervento del professor Alessandro Orsini a Cartabianca su Raitre.

Da iltempo.it il 6 aprile 2022.  

Alessandro Orsini torna ancora una volta a Cartabianca nonostante le polemiche delle scorse settimane. Il direttore e fondatore dell'Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS è ospite della puntata del 5 aprile del talk show di Bianca Berlinguer che va in onda su Rai3 prende di mira Volodymyr Zelensky: “Zelensky deve darsi una calmata, non può decidere da solo e farci precipitare nella terza guerra mondiale. Politicamente Zelensky è un incapace totale.

Il governo italiano deve rendersi disponibile al riconoscimento del Donbass e della Crimea. Noi dobbiamo insegnare ai giovani a lottare per la libertà di pensiero. Stiamo vivendo un’ondata di maccartismo, non si può riflettere sulle origini della guerra. Io sono qui e non arretro”. Orsini risponde poi alle solite e note accuse: "Quando mi si dice che sono filo-Putin sono solo vili calunnie. Io nel 2017 pubblicavo sul mio sito articoli intitolati 'Tutti gli omicidi di Putin'". 

Nel corso del programma è intervenuto anche Gianni Cuperlo, membro del Partito Democratico e della Direzione Nazionale dei dem: "Orsini avrà letto le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana... L'Ucraina è stata invasa e aggredita e il suo popolo ha scelto la via della resistenza. Oggi lavorare per la pace significa sostenere quella resistenza”.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 7 aprile 2022.

Le parole del Professore di Sociologia del Terrorismo Internazionale Alessandro Orsini nell'ultima puntata di #Cartabianca riguardo ai "bambini felici in dittatura" hanno fatto emergere tutti i dissidi che spaccano Rai3, ormai senza il minimo controllo nel periodo di transizione che precede il cambio di passo in Rai, ovvero il passaggio dalla spartizione per reti a quella per generi.

Dal prossimo settembre, infatti, #Cartabianca non dipenderà più dalla Direzione di Rai3 bensì dalla Direzione Approfondimento in mano a Mario Orfeo, che sarà operativo di fatto dal prossimo giugno. Al momento dunque è ancora Franco Di Mare a dirigere i programmi di Rai3, ma solo nominalmente.

Ecco perché la sua presa di posizione contro le parole di Orsini, da lui definite riprovevoli, e la sua precedente decisione di stracciare il contratto del docente della Luiss nel programma lasciano il tempo che trovano contro la conduttrice Bianca Berlinguer, che difende come una tigre (e non certo di carta, per usare una citazione cara al suo retroterra comunista) le sue scelte. Lo fece lottando con gli artigli e con i denti per riavere Mauro Corona cacciato dalla trasmissione ai tempi in cui Di Mare era titolare effettivo di Rai3, spuntandola. Figuriamoci adesso in questo periodo di vacatio.

Tanto che, dopo il commento di Di Mare sulle parole di Orsini, Berlinguer si è inalberata ancora una volta, dichiarando: "Trovo, come dire?, bizzarro che il direttore di una rete della Rai prenda le distanze da una trasmissione della stessa rete perché non condivide le opinioni espresse, all'interno di un dibattito plurale, da uno degli ospiti. Opinioni, per altro, contestate assai efficacemente da altri presenti in studio. E trovo ancora più eccentrico che le idee del direttore di rete sulla concezione del pluralismo e sulle sue regole vengano comunicate a un'agenzia di stampa (l'ANSA ndr), senza che, ancora una volta, la stessa conduttrice sia stata consultata in merito".

Sempre all'ANSA ha affidato il suo attacco a Franco Di Mare il Deputato Gianni Cuperlo, unico dem a difendere Orsini quando gli fu stracciato il contratto dalla Rai, e guarda caso ospite accanto al Professore nella puntata successiva del programma. "Ho partecipato all'ultima puntata di #Cartabianca su Rai 3 e ho espresso le mie opinioni in dissenso esplicito dal professor Orsini. Ho grande rispetto per la Rai, la prima industria culturale del paese, ma trovo stupefacente che il direttore della rete che quel programma ospita lo attacchi in sede pubblica. Mutuando quel film verrebbe da dire 'Rai, abbiamo un problema!'".

Il Direttore (ancora per poco) Di Mare può contare sulla difesa del Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi, che scrive su Facebook: "Complimenti al coraggio e all’onestà intellettuale del direttore di Rai3, Franco Di Mare, che denuncia: a #Cartabianca è andata in onda informazione 'riprovevole', con le parole di Orsini sui bambini. Ora la Rai sia conseguente: questo non è pluralismo ma becera spettacolarizzazione persino di una guerra e del dramma che stanno vivendo milioni di ucraini. Il Cda e l’Ad Fuortes hanno il dovere di intervenire a tutela della vera informazione".

Già, il CdA e l'Ad Fuortes. A parte il Consigliere di Amministrazione in quota Dipendenti Riccardo Laganà che esterna assiduamente i propri pareri e palesa costantemente la sua presenza, il resto del CdA Rai sembra composto da fantasmi, visto che non si sente né si legge mai una qualsivoglia opinione da parte degli altri consiglieri in quota Pd (Francesca Bria), M5s (Alessandro Di Majo), Forza Italia (Simona Agnes) e Lega (Igor De Biasio). 

La Presidente Rai Marinella Soldi è praticamente desaparecida da mesi, mentre l'Ad Carlo Fuortes è riemerso per rilasciare un'intervista auto-encomiastica al Corriere della Sera per poi tornare subito a rinchiudersi nella roccaforte di Viale Mazzini, ormai più blindata di Fort Knox. Cosa ne pensano i vertici Rai di quanto sta accadendo a #Cartabianca? Cosa ne pensano delle parole di Alessandro Orsini? Cosa ne pensano delle tetragone prese di posizione della Berlinguer che vanno di fatto contro le decisioni dell'azienda? Per ora, da quelle parti, silenzio di tomba. 

Carmelo Caruso per “il Foglio” il 7 aprile 2022.

“Chi porta quel cognome deve proteggerlo e tutelarlo. Bisogna farne manutenzione continua. E’ come un pezzo di cristallo. E’ fragile”. B-e-r-l-i-n-g-u-e-r. “E’ il nostro patrimonio, il nostro tesoro”. Bianca sta tutelando quel patrimonio? “Sta dentro a un meccanismo, un ingranaggio. Si chiama televisione. Credo che si sia lasciata prendere. Ma lei è la figlia di Enrico. Non può dimenticarlo. A volte bisogna nascondersi per difendersi”.

Luigi Berlinguer, il cugino, si nascondeva. “Ho passato la vita a farlo”. E le piaceva? “Non potevo fare altrimenti. Prima veniva lui. Il capo del comunismo europeo. Prima veniva Enrico e dopo c’eravamo noi. Io”. Chi siete? “Una famiglia un cognome che è anche il cognome della pulizia. Un giorno bisognerà farne la storia. E’ bislacco, quasi greco. C’è stato un tempo in cui non lo conosceva nessuno mentre adesso basta solo pronunciarlo e si drizzano le orecchie”. 

Non è dolce da ripetere? “Certo che lo è, ma è pure un ingombro. I Berlinguer non possono essere anonimi. Non lo saranno mai”. Lei continua a preferire l’ombra? “La preferisco. E’ uno strano destino, quello nostro. Non dobbiamo cercare la luce ma allontanarci dalla luce”.

E infatti, Luigi, continua a de-berlinguerizzarsi malgrado i suoi quasi novant’anni, dopo essere stato dirigente del Pci, ministro della Pubblica istruzione, “papà riforma”. E’ la sua personale deterrenza. La televisione la guarda? “Il Tg1”. Gli svalvolati la divertono o la spaventano? “Ce ne sono tanti, eh?”. Sono un catalogo s-ragionato. C’è il professor narciso, il castigatore del narciso e poi ci sono anche i conduttori spaesati. “Lo so. Non mi sorprende”. 

Neppure un po’? “Ho sempre avuto una scarsa opinione di un certo modo di fare televisione. Approfondimento zero, il resto è circo”. Sono migliori i giornali? “In un certo senso sì. Ma la televisione è un ‘partito’ enorme. La televisione è un mezzo facile e l’Italia non ama le cose difficili”. ) E come le persone che hanno letto qualche libro, e che preferiscono raccogliersi dunque in solitudine, Luigi, l’altro Berlinguer, dice che questa televisione, in tempo di guerra, lo frastorna e lo assorda.

La sua Bianca, a volte, la frastorna? “Mi dispiace sentire che nel suo programma c’è spazio per gli svalvolati. Io credo che non riesca a imporre la sua linea, che abbia paura di perdere il suo programma, di vedersi ridimensionata. Ha lottato per conquistarlo”. Parla da Berlinguer, da quasi zio? “Per me è come se fosse una nipote. Le voglio bene. Ne conosco le asprezze”.

E infatti i “Berlinguer” hanno tutti “il caratterino” che è sempre il buon giornalismo come è stato quello “berlinguer”, un giornalismo “distaccato”, “competente”, “austero”. Luigi pensa ad esempio che dovrebbe essere lei, Bianca, a dire “giù le mani dal mio cognome”, insomma a tirarsi indietro. La televisione se ne è servita? “Non c’è dubbio che per noi è stato un vantaggio portare quel cognome. Per me, per Bianca, che è addirittura la figlia di Enrico. Ma è vero anche che la televisione se ne è servita.E’ la stessa televisione che oggi la costringe ad abbassare la sua qualità per cercare gli ascolti”.

La preferiva direttrice del Tg3. “La preferivo allora che non la vedevo in onda ma la sapevo lavorare laboriosamente, in silenzio. E’ stata bravissima. Come tutti i Berlinguer è severa, ambiziosa”. 

Oggi conduce Cartabianca e ogni settimana, il suo programma, fa notizia per qualche stramberia. “Lo so”. C’è Alessandro Orsini, il professore che fa l’epurato che parla, il giornalista lampadato, il montanaro con la fiaschetta.“E poi ci sono i filorussi che sono tantissimi” aggiunge l’altro Berlinguer. E secondo lei perché? “Non ho mai capito per quale ragione siano così tanti. Me lo chiedo”.

Li invitano per fargli dire che la Russia ha i suoi motivi. “E sento dire che in pratica la Russia si riprende quanto ha perso in passato. E chi gliela avrebbe assegnata l’Ucraina? Trovo tutto quanto grottesco”. Che c’entra la figlia di Berlinguer con questa stalla? “Niente. Il suo nome è innascondibile. E’ il suo cognome che li legittima. Loro si lucidano, lei si sporca”. 

(askanews il 7 aprile 2022) – “Cara Bianca, mi accingo ad inviare questa smentita al Foglio affinché la pubblichi. La invio anche a te, affinché ne faccia l’uso che più ritieni opportuno. Con la stima e l’affetto di sempre. Tuo Luigi”. 

Luigi Berlinguer ha inviato una lettera a Bianca Berlinguer per scusarsi e comunicare di aver smentito l’intervista pubblicata dal Foglio in cui critica la cugina conduttrice di CartaBianca per l’utilizzo del cognome che porta. 

“Non sono riuscito a parlarti al telefono e quindi – scrive Luigi Berlinguer a Bianca- ti scrivo queste poche righe. Anzitutto per scusarmi, avendo letto ciò che Il Foglio ha rappresentato come mia intervista. In verità, non mi era stata annunciata alcuna intervista da parte del giornalista che mi ha telefonato, il quale mi ha fatto domande su argomenti disparati e mai avrei immaginato che invece volesse confezionare un articolo tutto su di te”. 

“Non immaginavo neppure – sottolinea- che le mie parole fossero raccolte col precipuo scopo di denigrarti. Ciò che, ti assicuro, non è mai stata mia intenzione fare. Anzi ho sempre pensato, e lo sai, che le posizioni di prestigio che hai occupato e che ancora occupi, siano il riflesso delle tue innegabili capacità professionali”.

Pd, guerra contro Bianca Berlinguer: dove si spingono per screditarla (e cosa c'è dietro). Gianluca Venziani su Libero Quotidiano l'08 aprile 2022

Sia chiaro, molto meglio Telekiev di Telekabul. Ma i rossi (?) continuano a usarle tutte per fare incazzare nera Bianca. Le frasi del prof Alessandro Orsini al programma Cartabianca su RaiTre, condotto da Bianca Berlinguer, hanno attivato il fuoco poco amico del Pd che ricorre a ogni arma pur di colpire la giornalista, "rea" di essere troppo dissonante rispetto al mainstream dem.

Orsini, in modo criticabile, aveva detto: «Preferirei vedere i bambini crescere in una dittatura che morire per le bombe sganciate in nome della democrazia». Bianca si era limitata a farlo parlare, come dovrebbe essere normale in una democrazia. Ma ciò è reputato connivenza col nemico. Prima il direttore di rete Franco Di Mare (su imbeccata del Nazareno?), ha sparato un colpo, esploso a scoppio ritardato: «Frasi riprovevoli, Rai3 si dissocia. Il talk è un modello da ripensare se cerca l'effettaccio per aumentare lo share».

Poi Il Foglio, ormai voce del Pd, ha "intervistato" Luigi Berlinguer, cugino di secondo grado di Bianca, per farlo sparlare di lei. Lui, quasi 90enne, ha abboccato: «Credo che Bianca si sia lasciata prendere. Ma lei è la figlia di Enrico. Non può dimenticarlo. Chi porta quel cognome deve tutelarlo», avrebbe detto. Avrebbe. Perché poi Luigi ha rivelato di non aver rilasciato alcuna intervista, ma di essersi concesso solo una chiacchierata col giornalista del Foglio. Ah, cosa non si fa pur di far la guerra alla Berlinguer... 

Berlinguer: «Orsini a Cartabianca? Do spazio a tutti. Lo share non è una cosa negativa». Maria Teresa Meli su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.  

La conduttrice di Cartabianca e le frasi di Alessandro Orsini sui «bimbi felici in dittatura»: «Invitarlo non significa condividere». 

Bianca Berlinguer, la prima domanda è d’obbligo dopo le polemiche di queste ultime ore: ma perché invita a «Cartabianca» il tanto contestato Alessandro Orsini, direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale?

«Perché ritengo che un dibattito pluralista debba dare spazio a tutte le opinioni, cosa che fanno o che almeno dovrebbero fare tutti i programmi televisivi di informazione. Facciamo parlare chi dice che bisogna sostenere l’Ucraina inasprendo le sanzioni e inviando nuove armi e chi invece pensa che per salvare le vite degli ucraini si debba arrivare il prima possibile, e in tutti i modi e a qualsiasi prezzo, a una pace».

Il direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale però è accusato da più parti di guardare con un occhio non antipatizzante alla Russia, insomma viene considerato filo-Putin.

«Orsini ha sempre detto che l’aggressore è la Russia, ma pensa che l’Ucraina sia destinata a soccombere e quindi ritiene che occorra giungere il più rapidamente possibile alla pace, anche se questa pace esigesse condizioni imposte dai russi. D’altra parte, se do la possibilità a qualcuno di esporre liberamente le proprie idee, questo non significa certo che le debba condividere. Ma mi chiedo: Orsini ha il diritto di far conoscere la sua opinione oppure no, tenuto conto che nessuno mette in dubbio la sua competenza di studioso? Viviamo ancora in un Paese in cui ognuno può dire quello che pensa?».

Berlinguer, nell’ultima puntata di «Cartabianca» Orsini l’ha detta veramente grossa ed è subito scoppiata l’ennesima polemica: ha sostenuto che i bambini possono essere felici in una dittatura. Franco Di Mare, direttore di Rai 3, cioè la rete che manda in onda la trasmissione da lei condotta, si è dissociato e ha attaccato il suo programma per quelle affermazioni.

«Io non sento Franco Di Mare neanche per telefono da un anno e mezzo, cioè dal giorno in cui abbiamo litigato per la cacciata di Mauro Corona. Ora non voglio fare commenti su di lui se non ribadire ciò che ho già detto, che trovo bizzarro che io debba apprendere la sua opinione sul mio lavoro dalle agenzie di stampa».

Però non ci sono stati solo i rilievi di Franco Di Mare. Lei ieri è stata attaccata anche da Luigi Berlinguer che in un’intervista al «Foglio» l’ha invitata a proteggere il cognome che porta e ha criticato un certo modo di fare televisione.

«Luigi Berlinguer è un cugino di secondo grado di mio padre, che io non vedo dal giorno del funerale di papà, il 13 giugno 1984. Detto questo, mi ha appena inviato una lettera in cui scrive che non avrebbe mai immaginato che le sue parole fossero destinate a un’intervista, “raccolta col precipuo scopo di denigrarti. Cosa che non è mai stata mia intenzione fare. Anzi ho sempre pensato che le posizioni di prestigio che hai occupato e ancora occupi siano il riflesso delle tue innegabili capacità professionali”».

Ma non è forse vero che alcuni talk show italiani, al contrario di quelli degli altri paesi europei, sono troppo attaccati allo share? Chi li critica sostiene che ne sembrano quasi ossessionati e quindi viene invitato solo chi suscita polemiche e provoca la rissa perché così sale l’ascolto.

«Ma, mi scusi, i giornali voi li scrivete perché non siano venduti? Lo share non è necessariamente un elemento negativo. Dopodiché, io non sono una che pur di fare ascolto è disponibile ad accettare qualunque cosa. Semplicemente, come ho fatto anche nel periodo della pandemia, cerco di dare spazio a tutte le opinioni, naturalmente selezionandole in base alla competenza che esprimono. Io non credo, e questo lo pensavo anche da direttore del Tg3, al giornalismo obiettivo: in qualche modo il giornalista condiziona sempre il racconto che fa. E allora per essere corretti verso i nostri telespettatori occorre offrire in tv un confronto tra opinioni differenti, cosicché possano formarsi una propria personale idea. Dirò di più: proprio in quanto servizio pubblico, la Rai è tenuta a rappresentare posizioni diverse».

Berlinguer, un’ultima domanda: Orsini parteciperà alla prossima puntata di Cartabianca o dopo quest’ultima polemica sarà assente?

«Per quanto mi riguarda ci sarà».

La proposta della Vigilanza Rai. Le regole anti-Orsini per i talk show Rai: stop al “pollaio” e ospiti gratis dopo il caso Cartabianca. Roberta Davi su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Dopo le polemiche, i fatti. In Commissione di Vigilanza Rai si discuteva ormai da diversi giorni sulla possibilità di intervenire sui talk show ‘pollaio’ della tv di stato che, anziché fare informazione sulla guerra in Ucraina, spesso sembrano puntare su commentatori controversi, chiamati appositamente per alimentare lo scontro. E così il presidente Alberto Barachini ha inviato a tutti i componenti della bicamerale di controllo una “proposta di risoluzione sulla presenza di commentatori e opinionisti all’interno dei programmi Rai“, scrive Repubblica. Ossia un ‘regolamento’ in cinque punti, da trasformare in una mozione unitaria votata dai gruppi parlamentari, con il chiaro obiettivo di promuovere la giusta ‘raffigurazione dei fatti’, bloccando spettacolarizzazioni e dibattiti urlati.

Un provvedimento arrivato dopo la bufera che ha coinvolto il professore di Sociologia del Terrorismo Internazionale alla Luiss di Roma Alessandro Orsini, ritenuto filo-putiniano, ospite (a pagamento) della trasmissione Cartabianca, condotta da Bianca Berlinguer su RaiTre.

La proposta

Primo punto della risoluzione elaborata dalla Commissione di vigilanza Rai: ospitare in trasmissione “solo persone di comprovata competenza e autorevolezza“. Un modo per mettere un freno agli ospiti ‘tuttologi’ chiamati con il solo fine di ottenere qualche punto in più di share.

Secondo punto: deve essere inserita una “rotazione delle presenze“, in modo da promuovere “la pluralità delle voci”, così da evitare che la trasmissione sia popolata sempre dagli stessi ‘amici’ del conduttore.

Terzo:  “Privilegiare” le ospitate a titolo gratuito, ossia senza nessun compenso. Quarta ‘regola’, fondamentale: evitare “la rappresentazione teatrale degli opposti e delle contraddizioni” per andare alla ricerca della spettacolarizzazione a tutti i costi e quindi dell’audience.

Quinto e ultimo punto: garantire la veridicità delle notizie nonché delle fonti, contrastando le fake news e puntando “ad assicurare l’equilibrio corretto delle posizioni esposte”.

Il fine di questo ‘regolamento’, con ‘l’invito’ a seguirlo, è riuscire a garantire, anche grazie alla selezione di ospiti e opinionisti, una raffigurazione fedele dei fatti: soprattutto se si parla di una guerra come quella che sta sconvolgendo l’Ucraina. Anche per ‘marcare la differenza’ del servizio pubblico rispetto ai canali commerciali.

Il caso Orsini

 “Il talk è un modello da ripensare se cerca solo l’effettaccio per aumentare mezzo punto di share” ha dichiarato il direttore della terza rete Franco Di Mare all’indomani delle ultime esternazioni di Alessandro Orsini sulla guerra in Ucraina dal salotto di Cartabianca. Una visione quindi condivisa dalla vigilanza Rai.

Il docente della Luiss ha infatti partecipato alla trasmissione martedì 5 aprile nonostante la Rai ne avesse bloccato il compenso. “Preferisco che i bambini vivano in una dittatura piuttosto che muoiano sotto le bombe in una democrazia” ha affermato Orsini. “Per quanto sia innamorato della civiltà liberale e abbia sempre promosso i valori del liberalismo, per me la vita umana, la vita dei bambini, è più importante della democrazia e della libertà, anche perché un bambino anche in una dittatura può essere felice, perché un bambino può vivere dell’amore della famiglia.” Parole definite da Di Mare “riprovevoli, assolutamente incondivisibili, di cui il professor Orsini si assume naturalmente la responsabilità”.

La giornalista Bianca Berlinguer, in un’intervista al Corriere in merito alle polemiche che hanno travolto il suo talk show, ha invece un parere diverso sulla questione: “Ritengo che un dibattito pluralista debba dare spazio a tutte le opinioni, cosa che fanno o che almeno dovrebbero fare tutti i programmi televisivi di informazione” ha sottolineato.

Bianca Berlinguer: “Orsini ha il diritto di far conoscere la sua opinione?”

Intervistata da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera, Bianca Berlinguer ha difeso la possibilità di ospitare Orsini nella trasmissione da lei condotta. “D’altra parte, se do la possibilità a qualcuno di esporre liberamente le proprie idee, questo non significa certo che le debba condividere. Ma mi chiedo: Orsini ha il diritto di far conoscere la sua opinione oppure no, tenuto conto che nessuno mette in dubbio la sua competenza di studioso?” ha dichiarato. 

Sul direttore Franco di Mare ha detto che non lo sente “neanche per telefono da un anno e mezzo” ossia dal giorno in cui hanno litigato per via della cacciata di Mauro Corona, e di aver appreso la sua opinione dalle agenzie di stampa.

E alla domanda in merito ai talk show italiani, che al contrario di quelli di altri paesi europei sembrano ‘troppo attaccati allo share’, la Berlinguer ha risposto: “Lo share non è necessariamente un elemento negativo. Dopodiché, io non sono una che pur di fare ascolto è disponibile ad accettare qualunque cosa. Semplicemente, come ho fatto anche nel periodo della pandemia, cerco di dare spazio a tutte le opinioni, naturalmente selezionandole in base alla competenza che esprimono. Io non credo, e questo lo pensavo anche da direttore del Tg3, al giornalismo obiettivo: in qualche modo il giornalista condiziona sempre il racconto che fa.” Per poi aggiungere: “Dirò di più: proprio in quanto servizio pubblico, la Rai è tenuta a rappresentare posizioni diverse.” Roberta Davi

Marco Zonetti per vigilanzatv.it l'8 aprile 2022.  

Tanto tuonò che piovve. Dopo mesi e mesi di polemiche, fin dai momenti più cupi dell'emergenza Covid-19, e conseguentemente allo scoppio del caso relativo al Professor Alessandro Orsini e del suo contratto (rescisso) con #Cartabianca su Rai3, la Commissione di Vigilanza Rai si è decisa a regolamentare gli opinionisti nei programmi di approfondimento e nei talk politici. 

VigilanzaTv pubblica in anteprima esclusiva il testo inviato dal Presidente della Commissione di Vigilanza Rai Alberto Barachini ai senatori e deputati che la compongono, chiamati dunque a presentare i propri emendamenti che saranno poi discussi nella votazione che si terrà con ogni probabilità la prossima settimana.

Come si può vedere dallo screenshot qui sotto, le norme proposte sono quelle di

1) selezionare quali commentatori e opinionisti solo persone di "comprovata competenza e autorevolezza nella materia di cui si discute (no quindi ai "tuttologi" che discettano d'immunologia e la puntata successiva d'ingegneria strutturale, insomma); 

2) prevedere una rotazione delle presenze, al fine di "favorire la pluralità delle voci" (ponendo così un freno alla dinamica del "salottino" dei soliti noti, e di amici, amichetti, amiconi, cognati, cugini, comari e compari che fanno il bello e il cattivo tempo nei talk show);

3) privilegiare le presenze a titolo gratuito, per evitare disparità di trattamento tra i commentatori e gli opinionisti; 

5) contrastare il fenomeno della disinformazione garantendone la veridicità nonché la rigorosa selezione delle fonti, assicurando l'equilibrio corretto delle posizioni esposte.

Abbiamo lasciato di proposito per ultima la quarta norma indicata nella bozza della proposta di risoluzione perché è quella a nostro avviso più "succosa", ovvero:

4) "non favorire la rappresentazione teatrale degli opposti e delle contraddizioni alla ricerca della spettacolarizzazione e del dato di ascolto". 

Una norma che potremmo chiamare ironicamente "Lodo #Cartabianca", giacché contiene le parole esatte utilizzate proprio ieri dal Direttore di Rai3 Franco Di Mare per stigmatizzare le dichiarazioni del Professor Orsini sui bambini ucraini.

"Ormai il talk è' un modello da ripensare, se il risultato cercato è' unicamente quello dell'effettaccio a tutti i costi, magari nel tentativo di aumentare di mezzo punto lo share" è stata infatti la frecciata di Di Mare all'acerrima nemica Bianca Berlinguer, che già gli aveva imposto il ritorno dell'alpinista/opinionista Mauro Corona in trasmissione e che ha insistito per richiamare Alessandro Orsini malgrado la Rai gli avesse stracciato il contratto.

A proposito di Mauro Corona, non essendo egli esattamente un esperto di geopolitica né un politologo, né tantomeno un immunologo o un esperto di strategie militari, continuerà a far parte del cast fisso di #Cartabianca allorché dovesse passare la norma della Vigilanza Rai che vuole solo "persone di comprovata competenza e autorevolezza nella materia di cui si discute"?

E non essendo Maddalena Loy un'epidemiologa né una virologa, continuerà a essere invitata a #Cartabianca a disquisire di Covid-19 e varianti? E quali emendamenti proporranno senatori e deputati dei vari schieramenti? Vi terremo aggiornati. 

Rai, Vespa: "Orsini non lo invito. Con la guerra nel mio talk non c'è posto per il né-né".  Lorenzo De Cicco La Repubblica il 9 aprile 2022.  

Intervista al conduttore di 'Porta a Porta': "La pandemia ci ha insegnato quanti danni può fare una informazione distorta... Non giudico Bianca Berlinguer, in ogni trasmissione se si usano toni troppo alti si stona"Sulle poltrone della "terza Camera", che governa da 26 anni filati, Alessandro Orsini non lo farebbe accomodare. A Bruno Vespa il talk formato "né né", specialmente in tempi di guerra, proprio non piace.

Vespa, ha detto che trasformare la questione Russia-Ucraina "in un derby alla Roma-Lazio è avvilente". C'è stata una degenerazione in questi anni, nei salotti tv, prima col Covid ora con la guerra?

"La pandemia ci ha insegnato quanti danni può fare una informazione distorta.

Bianca Berlinguer per “la Stampa” il 12 aprile 2022.  

La settimana prossima la commissione parlamentare di vigilanza inizierà a discutere di una proposta di risoluzione presentata dal presidente Alberto Barachini a proposito della "presenza di commentatori e opinionisti all'interno dei programmi Rai". 

La questione mi interessa molto, e non certo perché abbia dato credito a chi ha voluta presentare l'iniziativa come il "lodo Cartabianca": piuttosto perché come responsabile e autrice di un programma televisivo di informazione ritengo si tratti di un tema assai delicato per l'intero servizio pubblico.

Il testo prevede cinque regole. La prima chiede di selezionare "la competenza e l'autorevolezza" delle persone chiamate a esprimere la propria opinione. Giusto. Ma qui voglio ricordare - ed è solo un esempio - che l'ospite oggetto della più recente polemica (Alessandro Orsini) è persona di indiscussa competenza, titolare di un curriculum prestigioso anche a livello internazionale, docente universitario specializzato in sociologia del terrorismo e autore di numerose pubblicazioni.

Ne consegue che la contestazione nei suoi confronti sembra derivare non da una carenza di titoli, bensì dal contenuto delle sue posizioni sull'invasione dell'Ucraina da parte della Russia. 

Dunque, per decidere dell'opportunità della sua presenza in una trasmissione Rai si dovrebbe formulare un giudizio sulla accettabilità politica o meno delle sue opzioni. Ma chi dovrebbe assumersi la responsabilità di un simile compito che potrebbe rischiare di somigliare, al di là delle intenzioni, a una sorta di tribunale politico? 

Un'altra regola entra nel merito dello specifico televisivo proponendo la non reiterazione delle presenze degli ospiti. Ma qui il discorso riguarda esclusivamente la struttura e il linguaggio dei programmi. Programmi che producono affezione: un rapporto cioè di consuetudine anche emotiva tra il pubblico (una parte di esso) e chi esprime un'opinione identificabile e "riconoscibile".

E' una legge della televisione, osservata da tutti i talk show, ma anche dall'intera offerta dei palinsesti che di per sé non pregiudica in alcun modo il contraddittorio per altro richiesto in primo luogo dal pubblico e che anche per questo è interesse prioritario, di chi ha la responsabilità di un programma, favorire e garantire.

La pluralità delle voci è, come è ovvio, il principio al quale attenersi, ma bisogna intendersi sul significato di quella stessa pluralità, che non può essere solo la proiezione televisiva delle diverse posizioni politico partitiche. Ma deve esprimere anche gli orientamenti di quelle aree della società che non si sentono rappresentate istituzionalmente.

E nelle nostre trasmissioni sul coronavirus e sulla guerra abbiamo cercato di dare voce, tra gli altri, a questi sentimenti. E qui si arriva alla preoccupazione, espressa nella proposta di risoluzione, per una "teatralizzazione e spettacolarizzazione" del confronto, ma - ancora una volta - chi decide quale forma, quale stile e quale parola del dibattito costituisce "spettacolo" e quale invece, discussione intellettuale? In base a quali criteri estetici o di sociologia della comunicazione? E chi soprattutto dovrà valutarlo? Chi se non colui o colei che firma il programma, che lo conduce e ne è responsabile, insieme agli autori?

In altra parte del documento viene raccomandato di «privilegiare le presenze a titolo gratuito al fine di favorire la libera espressione delle opinioni». Preciso che per quanto riguarda Cartabianca si tratta solo di pochissimi contratti, su centinaia di ospiti nel corso della stagione, e di compensi sensibilmente inferiori a quelli della concorrenza. 

Qui andrebbe detto, fuori da ogni ipocrisia, quanto è noto a tutti gli addetti ai lavori: da anni esiste un mercato degli opinionisti, al quale la Rai potrebbe sottrarsi solo nel caso che decidesse di rinunciare a competere con le altre emittenti, a ignorare fino a cancellare gli indici di ascolto e, di conseguenza, a disertare il mercato pubblicitario. Se questo si vuole dal servizio pubblico, lo si dica. E' un'ipotesi che assolutamente non condivido ma che può essere seriamente argomentata.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 13 aprile 2022.

Dal contratto di 2 mila euro a puntata negato alla controproposta di una partecipazione gratuita, fino alla protesta ufficiale legata alla sua semplice presenza in studio. Da un mese a Cartabianca tiene banco il caso Orsini, con il docente di sociologia del terrorismo che, in breve tempo, si è trasformato a tutti gli effetti nel faro della trasmissione. 

Accentratore, dominatore, assolutamente centrale. E più gli scontri si alimentano, più il professore guadagna spazio. Martedì sera i minuti in video di Orsini sono stati ben centodieci sui centosessanta complessivi. 

Di fatto, se si elimina l’ormai classico siparietto tra Bianca Berlinguer e Mauro Corona, Orsini ha saltato solo l’ultimo quarto d’ora di talk, quando in scena sono entrati Fabio Dragoni, Valentina Petrini e Valerio Rossi Albertini.

Una vera e propria metamorfosi per la trasmissione di Rai 3 che, da quando ha deciso di puntare sul fondatore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss, ha anche incrementato i suoi ascolti. 

Una coincidenza che ha evidentemente spinto il programma ad una ridefinizione dei blocchi, una volta rigidi e dagli interventi alternati ed ora sostituiti da un unico filo conduttore.

E così la nuova Cartabianca ha deciso di affidarsi allo zoccolo duro, con un ‘capitano’ ben definito. Se Orsini è la stella, in questo strano sistema solare i pianeti che gli girano attorno tendono a replicarsi di settimana in settimana. C’è Gianni Cuperlo, presente pure il 5 aprile, c’è Anastasia Kuzmina, praticamente stabile dal giorno dell’esplosione del conflitto russo-ucraino, c’è la filosofa Donatella Di Cesare, già invitata il 15 e 29 marzo. 

“Professore, mi raccomando, stiamo attenti perché sennò ci tocca passare tutta la settimana più a rispondere alle polemiche che a occuparci della trasmissione”, gli dice la Berlinguer in occasione del suo ingresso in studio. 

Le stesse polemiche che però alimentano la fiammella, puntualmente rianimata. Perché se – al di là del rischio concreto di saturazione – Orsini al momento è la gallina dalle uova d’oro, è altrettanto innegabile una debolezza oggettiva di Cartabianca, che sembra non essere munita di un eventuale piano b.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 13 aprile 2022.

Ancora una volta, Alessandro Orsini è stato ospite di Cartabianca e ha goduto di un trattamento diverso rispetto agli altri ospiti, avendo modo di parlare in solitaria per circa 10 minuti per esporre il suo pensiero e replicare alle polemiche della settimana. Anzi, alle polemiche che accompagnano le sue apparizioni televisive da quando è scoppiato il conflitto in Ucraina. 

Per l'ennesima volta, infatti, Alessandro Orsini ha ribadito la sua posizione ma non ha mancato di sferzare l'Italia con parole ben poco gratificanti per il Paese in cui è quasi quotidianamente in tv con un tono costantemente autoreferenziale, non senza citare in svariati momenti i suoi libri, di cui l'ultimo è stato anche messo in grafica durante l'intervista. Immancabile anche il passaggio sulla presunta limitazione della libertà di espressione, nonostante abbia diritto ogni settimana a uno spazio in solitaria nel programma di Rai3 per esporre il suo pensiero senza contraddittorio che, ovviamente, viene commentato anche negativamente da parte di chi, in una democrazia, la pensa diversamente. 

"Ho sempre condannato con la massima fermezza l'invasione, considero Putin un dittatore brutale. Sono un grandissimo sostenitore della società libera e aperta. Sono nati degli equivoci, per evitare le polemiche avrei voluto dire che sono stato strumentalizzato. Ma per stare tutti tranquilli dico che sono stati degli equivoci", ha detto il professore davanti a una sorridente Bianca Berlinguer davanti a queste ultime parole di Alessandro Orsini. 

Il professore ha spostato tutto il discorso sul piano sociologico parlando di "violenza simbolica" su una domanda posta da una giornalista sulla condanna dell'invasione alla quale lui non ha voluto rispondere. Alessandro Orsini si è posto su un piano vittimistico rispetto all'opinione pubblica, ponendosi come unico baluardo nella difesa del pluralismo. "La violenza simbolica è importante non soltanto con riferimento all'Ucraina o quando mi dicono o ci dicono che siamo putiniani. Non dobbiamo identificarci con questa ingiusta etichetta. Se noi accettiamo lo stigma, e questo vale con le violenze psicologiche che subiscono gli omosessuali, le donne e i neri... Ci dev'essere la ribellione ribellione, fondamentale nel progresso", ha detto il professore.

Alessandro Orsini, salito sul pulpito che gli è stato offerto da Bianca Berlinguer a Cartabianca, ha puntato il dito contro la cultura italiana per gli attacchi che sta subendo in questo momento storico: "Quando l'uomo è sopraffatto da una quantità di informazioni che non riesce a gestire, io nei miei libri scrivo che entra in modalità codice binario, ossia un sovraccarico di informazioni e quindi diventiamo tutti filoputiniani o filoamericani", ha detto Alessandro Orsini. Il professore ha poi aggiunto: "La mente umana non è non è in grado di farsi carico di tutte queste informazioni. Per me è normale, perché è il mio lavoro, ma l'uomo comune, anche alcuni giornalisti e alcuni politici, non conoscono la politica internazionale, l'hanno scoperta all'improvviso e sono stati sopraffatti". 

Il professore ci ha tenuto a dire che "noi abbiamo questo problema culturale in Italia, il nostro Paese non conosce la politica internazionale, perché noi non ce ne siamo mai occupati. E ci sono tantissimi italiani che non capiscono e davanti a questa quantità di informazioni e questa trama così complessa, la mente si chiude e dice bene o male".

Francesca Galici per il Giornale il 13 aprile 2022. 

Nonostante le polemiche, anche interne alla Rai, sulla presenza di Alessandro Orsini a Cartabianca e, soprattutto, sulle sue esternazioni in merito alla guerra in Ucraina, il professore continua a essere il principale ospite del talk del martedì sera di Rai3. Dopo aver fatto il suo solito soliloquio iniziale, Alessandro Orsini si è confrontato con gli altri ospiti e, nonostante i richiami della Rai, non sono mancati i momenti di caos. 

Tra le svariate affermazioni fatte nel corso della sua analisi, Alessandro Orsini ha sostenuto che "gli Stati Uniti non vogliono fare la pace". Ma il professore Orsini ha ampliato il suo discorso, riportando quanto detto già la scorsa settimana, quando il professore aveva definito Zelensky un incapace. Nell'ultima puntata di Cartabianca, invece, il presidente Ucraino è stato definito "intransigente" per non aver accettato a priori, prima dell'invasione, di dichiarare la neutralità del suo Paese, come pare sia stato proposto 5 giorni prima dell'inizio della guerra. 

"La guerra l'ha fatta perché c'è stato un problema di intransigenza da parte di Zelensky, perché noi dobbiamo cercare di comprendere anche un po' la politica interna dell'Ucraina. Putin chiedeva la neutralità dell'Ucraina e la rinuncia all'ingresso nella Nato. La Russia non aveva un interesse. Se invece di fare una valanga di esercitazioni della Nato in Ucraina avessimo assunto una postura diversa, secondo me questa tragedia non sarebbe scoppiata", ha affermato il professore, che nei suoi interventi ha condannato l'invasione russa ma anche l'atteggiamento della Nato. 

"Ho detto che la strategia dell'Europa di mandare armi avrebbe portato ad una mattanza e i fatti mi hanno dato ragione. Da quando abbiamo dato armi all'Ucraina abbiamo avuto molti più morti tra i civili e tra i soldati, molte più fosse comuni e molte più città devastate", ha detto il professore, pur non condannando la decisione di inviare le armi.

Alessandro Orsini, quindi, ha ribadito che il suo ragionamento è fatto in chiave umanitaria: "Per aprire un varco a un ragionamento umanitario la prima cosa da fare è demistificare la propaganda occidentale e uno dei suoi punti di forza è la rappresentazione degli ucraini come un un unicum e non come un plurale. Ma scusate, voi avete chiesto a tutti i bambini ucraini massacrati se vogliono resistere? È possibile che dobbiamo avere una rappresentazione così distorta dei fatti per cui esiste questa idea così propagandistica secondo la quale tutti gli ucraini sono uguali?". Ancora una volta il professore è tornato a coinvolgere l'elemento della popolazione più fragile per sostenere il suo pensiero, esattamente come aveva fatto una settimana fa. Un ragionamento smontato dalla ballerina Anastasia Kuzmina, che ha spiegato al professore come, al di là di alcune parti di popolazione, la maggior parte sia a favore della resistenza che, quindi, non è propaganda occidentale.

Inoltre, il professore ha insistito sul fatto che l'Italia debba momentaneamente rompere con l'Europa e rapportarsi direttamente con Putin: "Draghi abbia il coraggio di dire a Putin: 'Se noi la smettiamo di inviare le armi, cosa sei disposto a dare in cambio?'. L'Italia deve dare una rottura momentanea in seno all'Europa e individuare una propria linea per la pace. Fino a quando l'Italia sarà a rimorchio dell'Europa e a rimorchio degli Stati Uniti...".

In Italia può parlare solo chi vuole armare l'Ucraina, Vittorio Feltri in soccorso del prof Alessandro Orsini. Il Tempo il 14 aprile 2022.

La libertà di pensiero, se non è morta, è moribonda e l'esempio lampante è che il professor Alessandro Orsini, una delle poche voci fuori dal coro sulla guerra in Ucraina, "viene coperto di insulti" e "censurato". Vittorio Feltri sulla prima pagina di Libero affronta il tema spinoso della libertà di pensiero e di stampa in un momento in cui i media "si stanno occupando fino alla nausea" della guerra scatenata dalla Russia di Vladimir Putin. 

Il direttore editoriale del quotidiano, come è noto, è per una resa degli ucraini destinati in ogni caso a soccombere alla potenza delle forze armate di Mosca. "È obbligatorio, per essere à la page, dire che gli ucraini che affrontano a viso aperto i soldati di Mosca sono eroi perché preferiscono morire piuttosto che soccombere a Putin. Siamo alla celebrazione dell'eroismo come valore assoluto", scrive Feltri nel suo editoriale in cui ribadisce: "È sciocco battersi alla morte contro un avversario che ti sovrasta".

"Anche in Italia, forse in Europa, è passato il principio che la libertà di pensiero è concessa esclusivamente a chi dice che è necessario fornire armi a Zelensky per resistere - argomenta il direttore - Se qualcuno invece sostiene che non è lecito rinforzare l'esercito ucraino destinato alla sconfitta, apriti cielo: viene coperto di insulti, censurato". Come Orsini, "che ha idee non conformi alla vulgata di moda, se in tv osa contraddire i soloni sostenitori della necessità di combattere, viene censurato. Vietato dichiarare che l'importante è limitare le stragi e quindi la diffusione di carrarmati e roba simile". Feltri ammette di non poter condividere ogni sua dichiarazione, "tuttavia le sue affabulazioni sono interessanti e le ascolto volentieri, escono da una bocca collegata bene col cervello. Non capisco perché, con tutti i cretini che ingombrano il video, l'unico da espellere sia lui". Il motivo? "Evidentemente la libertà di pensiero se non è morta è moribonda", conclude il direttore.

Gli astrusi provvedimenti nei talk e la lezione di Fabio Fazio. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 13 Aprile 2022.  

Il più ridicolo di questi provvedimenti dice più o meno così: bisogna invitare «solo persone di comprovata competenza e autorevolezza» ma non bisogna pagarle.

Per una volta vorrei essere neneista (né con la Vigilanza, né con la Berlinguer), ma forse anche un po’ hegeliano, per quel che mi ricordo della sacra triade dialettica. Riassunto delle puntate precedenti. La commissione di Vigilanza Rai (un organismo che disapprovo di cuore, prova vivente della mano dei partiti su Viale Mazzini), sta per varare una serie di provvedimenti a proposito della «presenza di commentatori e opinionisti all’interno dei programmi Rai». Il più ridicolo di questi provvedimenti, espresso in due punti, dice più o meno così: bisogna invitare «solo persone di comprovata competenza e autorevolezza» ma non bisogna pagarle, perché il ruolo di ospite non diventi una professione. Ma questi signori sanno che la competenza e l’autorevolezza hanno un costo? Altrimenti si alimenta solo il narcisismo.

Alla Commissione di Vigilanza ha risposto Bianca Berlinguer, con una difesa molto pretestuosa: show, don’t tell (mostra cosa sai fare, non raccontare). Alla tesi e all’antitesi, vorrei aggiungere una sintesi da servizio pubblico (le tv commerciali hanno altre finalità). Da quando c’è la pandemia, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, Fabio Fazio ha preso alcune decisioni molto serie circa il suo programma: ha cercato di informare il più possibile sulla situazione, ha sempre invitato ospiti competenti e misurati, ha separato i momenti più «leggeri» da quelli più strettamente legati al momento drammatico che stiamo vivendo. Ha evitato in maniera sistematica la cagnara, la rissa, il folklore e, alla fine, «Che tempo che fa» è un talk show Rai che non ha alcun bisogno dei pleonastici provvedimenti della Vigilanza. I modi con cui Fazio presenta possono piacere o non piacere ma, in tutta onestà, gli vanno riconosciuti gli sforzi di cambiamento che ha fatto per allestire un programma all’altezza dei tempi che stiamo vivendo. P.S. Il prof. Orsini è un problema della Luiss non della Rai.

Da corriere.it il 20 Aprile 2022.  

L’instancabile Alessandro Orsini torna ospite su Rai3 — come tutti i martedì a Cartabianca — e genera sempre nuove polemiche parlando della guerra in Ucraina. Dopo aver attaccato il governo Draghi per «la totale subordinazione all’America» accusando il segretario dem Enrico Letta di «ambire al posto del segretario della Nato Stoltenberg», ieri sera il professore esperto in Sociologia del terrorismo — per sostenere la sua tesi sullo stop all’invio delle armi — ha raccontato una nota personale che ha scatenato polemiche sui social: «Sono in contatto con famiglie a Mariupol che mi scrivono tutti i giorni e mi dicono “Professore, parli. Voi italiani siete impazziti a dare armi”. Queste donne che mi scrivono con bambini morti non hanno voce, la propaganda della Nato ci fa credere che tutte queste persone vogliano la guerra. Ci sono migliaia di mamme, bambini e genitori che non vogliono la guerra».

«Come fa a sentire le mamme di Mariupol visto che io son due mesi che non ho contatti con le mie amiche?», si domanda un’utente su Twitter. La stessa osservazione che fanno in molti: «Come se avessero il tempo di scrivere a lui, tra una bomba e l’altra…». Esattamente come quando si schierò per «i bambini che vivono in una dittatura piuttosto che per quelli che muoiono sotto le bombe in una democrazia», ieri sera Orsini ha insistito ancora sul tema: «L'Italia fino al 1945 non è stata mai una democrazia liberale — ha detto — e mio nonno ha avuto un'infanzia felice».

Anche su quest'ultima frase su Twitter si sono scatenati e non sono mancate dure critiche e prese in giro: «Il fascismo ha fatto anche cose buone, ha fatto vivere un’infanzia felice al nonno di Orsini», «Quando Orsini dirà che suo nonno viaggiava su treni che arrivavano sempre in orario, ci fermiamo, o proviamo un all-in?», «Beato il nonno di Orsini, mio padre con i fascisti non ha avuto questa fortuna». «Chissenefrega se milioni di bambini ebrei, zingari e con handicap sono finiti nelle camere a gas, il nonno di Orsini era felice». 

Orsini, nuovo scontro a Cartabianca: "Mio nonno durante il fascismo ha avuto un'infanzia felice. Le mamme di Mariupol mi scrivono: italiani fermate la guerra". Valeria Forgnone su La Repubblica il 20 Aprile 2022.  Le nuove dichiarazioni del docente della Luiss ospite come tutti i martedi da Bianca Berlinguer accendono il dibattito in studio e sui social. "Come fa a sentire le donne ucraine?". Poi spiega perché Putin ora in Ucraina "è il Padre eterno". M5S intanto smentisce l'ipotesi di candidare il docente alle prossime Politiche.

"Mio nonno durante il fascismo ha avuto un'infanzia felice". È la nuova dichiarazione provocatoria del professore della Luiss Alessandro Orsini che qualche settimana fa aveva detto in tv: "Anche nelle dittature un bambino può essere felice". Le sue parole hanno acceso il dibattito nello studio della trasmissione Cartabianca su RaiTre, dove è ospite tutti i martedì (e anche in questo caso non sono mancate le polemiche sul compenso

Cartabianca, Alessandro Orsini: "Il fascismo? Mio nonno stava benissimo", il gelo della Berlinguer. Libero Quotidiano il 20 aprile 2022

Alessandro Orsini continua a far parlare di sé. Il professore di sociologia del terrorismo alla Luiss è stato ospite di Bianca Berlinguer a Cartabianca su Rai 3. Dopo una lunga discussione tra lui e il giornalista Antonio Caprarica sulla guerra in Ucraina, si è arrivati a parlare anche di fascismo. E a tal proposito Orsini ha detto: "L'Italia, fino al 1945, non è mai stata una vera democrazia liberale. Col fascismo, una dittatura, mio nonno ha avuto comunque un'infanzia felice". Un'affermazione che, neanche a dirlo, ha fatto discutere parecchio. 

"Sono un ricercatore sul campo e vi posso garantire che in Paesi mediorientali, come l'Oman, c'è un sultanato ma con una società fondata sulla famiglia", ha proseguito il professore. Che poi, incalzato dalla conduttrice, ha puntualizzato: "Io sono un antifascista radicale". Poi un attacco all'Unione europea: "L'Occidente non sta facendo nulla per la pace. Dobbiamo renderci disponibili a riconoscere l'indipendenza del Donbass e a ritirare le sanzioni. Draghi deve dire che non invierà più armi a Zelensky". 

Orsini non ha risparmiato critiche nemmeno a Mario Draghi e a Enrico Letta. Nel primo caso, infatti, ha detto che il nostro governo "è totalmente subordinato agli Stati Uniti". Poi ha accusato il segretario del Pd di ambire "a prendere il posto del segretario della Nato, Stoltenberg". Il professore, come ripete già da un po' in tv, è contrario all'invio di armi in Ucraina. E per giustificare la necessità di uno stop, ha raccontato: "Sono in contatto con famiglie di Mariupol che mi scrivono tutti i giorni e mi dicono: 'Professore, parli. Voi italiani siete impazziti a dare armi'. Queste donne mi scrivono con bambini morti che non hanno voce".

Filippi, lo storico anti bufale sul fascismo: «Orsini? Con Mussolini non avrebbe avuto libertà di parola». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

L’autore di «Mussolini ha fatto anche cose buone» e le frasi del docente di Sociologia del terrorismo: «Illiberale l’Italia prima del Duce? Allora perché Mussolini ne distrusse l’impianto?»

«Il professor Alessandro Orsini (chi è) ? Gode di una libertà, quella di parola, che avrebbe avuto nell’Italia liberale, ma di certo non in quella fascista». Francesco Filippi, storico, ha scritto Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, libro dal titolo ironico che ripercorre e smonta (con strumenti storiografici) tutte le bufale che continuano a circolare sul fascismo e commenta così le affermazioni del docente di Sociologia del terrorismo .

Filippi, il professor Orsini commentando l’evoluzione della guerra in Ucraina, ha innescato l’ennesima bufera in tv, affermando: «L’Italia fino al 1945 non è stata mai una democrazia liberale e mio nonno ha avuto un’infanzia felice». Da storico che ne pensa?

«Per quanto riguarda la prima parte delle affermazioni di Orsini, è bene ricordare che l’Italia ha avuto il suffragio universale maschile nel 1912, le garanzie dello Statuto Albertino restano tali fino al 1922 ed erano in linea con le allora espressioni democratiche più avanzate in Europa: da lì si arriverà poi al progresso e a un mondo assai più libero. Tanto è vero che la prima cosa fatta dal regime fascista fu appunto reprimere direttamente di queste libertà: quella di stampa, la possibilità di sciopero, di assembrarsi e di creare partiti politici. Se, come Orsini afferma, l’Italia non fosse stata una democrazia liberale, non si capisce perché il fascismo si impegnò a distruggere tutto. Non commettiamo anacronismi». 

E la seconda parte della frase, quella sul «nonno felice durante il fascismo»?

«Non conosco la parabola del nonno di Orsini. Le testimonianze dirette di quel periodo sono soltanto una delle tante fonti. Inoltre: estendere l’esperienza di singoli e farne una lettura analitica e complessiva di intere fasi storiche mi sembra quantomeno miope, per non usare altri termini. Orsini, insomma, gode di una libertà, quella di parola, che avrebbe avuto nell’Italia liberale ma non in quella fascista». 

Il professore si è poi affrettato a rimarcare: «Io sono un antifascista radicale». Ritiene razionale affermare le due frasi precedenti e poi questa?

«Dipende molto da cosa Orsini intende con “antifascista radicale”. L’antifascismo è il rifiuto della dittatura e del totalitarismo. Non so in cosa consista il suo “radicale”. A me pare un antifascismo all’acqua di rose: trovo difficile incastrare in maniera diretta queste affermazione, non c’è il filo logico che ci si aspetta da un discorso».

Perché dopo 77 anni si continua a evocare così frequentemente il fascismo come termine di paragone?

«Nel caso italiano ci sono fondamentalmente due motivi per questo richiamo. Il fascismo è stato un racconto potentissimo, che non è stato contrastato con un contro racconto altrettanto forte dopo la fine della guerra. Il secondo motivo: tra le tante definizioni che possiamo dare, il richiamo al fascismo è anche un sinonimo per spiegare la crisi di questa democrazia. Mi riferisco al ritorno dell’uomo forte, un richiamo apprezzato da più settori di questo Paese».

Ma Orsini è di destra o di sinistra?

«Non saprei. Non sono francamente interessato alla vicenda. Figure come quella del professore, visibili oggi nel panorama dell’informazione, sono il prodotto di una distorsione mediatica: c’è necessità di creare l’effetto tifoseria. Ma non si può dividere tutto tra bianco e nero».

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2022.

Noi orsiniani della prima ora siamo affascinati dalla dialettica sinuosa del professor Orsini, che, depurata dall'uso ossessivo di «Signori miei» e «Il punto fondamentale è», funziona più o meno così. 

Io detesto Putin, nessuno lo detesta quanto me, ma lui è dominante e sta sventrando l'Ucraina Io sono un amante degli Stati Uniti, nessuno è più atlantista di me, però, come ho più volte dimostrato, è tutta colpa della Nato Io mi sento europeo, lasciatemi dire che nessuno apprezza l'Europa più di me, ma l'Italia farebbe meglio a uscire momentaneamente dalla Ue per trattare coi russi

E gli ucraini? Io soffro per gli ucraini, nessuno soffre per loro quanto me, però devono accettare di perdere un pezzo del Paese pur di evitare altro sangue (Non è chiara la ragione per cui i tagliagole ceceni al servizio di Putin, rimasti padroni del terreno, dovrebbero rinunciare a infierire sugli ucraini, come non è chiaro chi concretamente potrebbe loro impedire di farlo: forse Orsini medesimo). Io sono per l'autodeterminazione dei popoli, nessuno eccetera eccetera, ma è più importante salvare i bambini, come mi chiedono le mamme di Mariupol (che dai bunker vedono la tv italiana e hanno la mail di Orsini). 

Io sono antifascista, nessuno è più antifascista di me, eppure mio nonno durante il fascismo ha avuto una vita felice Adoro questo modo di argomentare e voglio subito farlo mio: io sono un fan dell'Orsinese, nessuno lo è più di me, però penso che il professor Orsini sia un gran paraculo.

Francesco Boezi per ilgiornale.it il 21 aprile 2022.  

Il professor Alessandro Orsini, ormai noto per le sue idee anti-occidentaliste rispetto al conflitto scatenato alle porte d'Europa da Vladimir Putin, ha scritto una lettera che è stata pubblicata a mezzo social e che è indirizzata al direttore del "Corriere della Nato", il modo con cui il docente della Luiss definisce il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana ed il quotidiano. 

Orsini si difende rispetto ad una delle ultime asserzioni relative alla guerra in Ucraina, tra quelle che hanno fatto scalpore, che sono circolate: una, in particolare, che il professore dice di non aver mai proferito. "Lei - scrive l'esperto di geopolitica su Facebook - continua a mettere sulla mia bocca parole mai pronunciate per scatenare campagne d’odio contro di me. In queste ore vengo insultato violentemente per avere detto che mio nonno ha avuto un’infanzia felice sotto il fascismo".

Poi la specificazione: "Ma io non ho mai pronunciato la parola "fascismo" giacché mio nonno è nato nel 1908. Ne consegue che l’infanzia di mio nonno è avvenuta sotto la monarchia di Vittorio Emanuele III e non sotto Mussolini, di cui peraltro mio nonno era un oppositore".

Insomma, il direttore del Corriere viene tirato in ballo per aver quantomeno interpretato male, anche dal punto di vista storico, le dichiarazioni di Orsini, che dal suo canto continua con le sue argomentazioni: "Che in queste ore vengano intervistati pseudo storici del fascismo per smentirmi è grottesco giacché, a Carta Bianca, non ho mai parlato di fascismo. Ben diversamente, ho accennato alla struttura sociale dell’Oman e al ruolo che la famiglia occupa nell’architettura relazionale di quel Paese", ha scritto, dopo aver ricostruito la vicenda esistenziale e bellica del nonno.

Dunque le interviste agli storici che Il Corriere della Sera sta pubblicando, stando al punto di vista di Orsini, partirebbero da considerazioni che il professore non avrebbe esposto. E l'esperto dichiara di essersi riferito all'Oman, e non al fascismo, e di aver citato l'infanzia del suo familiare che tuttavia non ha avuto a che fare - insiste - con il ventennio di Benito Mussolini.

A questo punto della missiva, spuntano i consueti toni anti-atlantisti cui il neo opinionista de Il Fatto Quotidiano ci ha abituato: "La politica del governo Draghi verso l’Ucraina è un fallimento totale. Il governo Draghi sta conducendo una politica criminale verso l’Ucraina alimentando la guerra dall’esterno". 

Tesi che, come spiegato questa mattina sul Giornale da un articolo di Domenico Di Sanzo, sembrano persuadere anche Giuseppe Conte che, da leader grillino, starebbe pensando di riposizionare il suo MoVimento sulla scia dell'anti-sistemismo orsiniano. 

 Da liberoquotidiano.it il 27 Aprile 2022.

Alex Orlowski, in un durissimo post pubblicato sul suo profilo Twitter attacca Bianca Berlinguer e la trasmissione Cartabianca, su Rai 3. "Praticamente le tv Italiane sono monopolizzate dalla propaganda russa", osserva il regista ed esperto di marketing politico e monitoraggio dei social media. "Cartabianca dopo la guerra dovrete vergognarvi". Quindi, rivolto alla conduttrice: "Alessandro Orsini imbarazzante e leccac*** dei russi". 

Il professore infatti, ospite della Berlinguer aveva detto che "se davvero la Russia dovesse colpire un paese della Nato, l’Italia dovrebbe dichiarare la neutralità e, se le circostanze internazionali costringessero a tanto, dovrebbe avviare il processo di fuoriuscita dalla Nato".

E ancora: "Noi italiani non possiamo seguire questi pazzi scriteriati. Oggi siamo di fronte alla ribellione delle élite nei confronti delle masse e perseguono interessi contrari a quelli delle masse. Ha ragione il Papa, siamo in mano a un gruppo di pazzi. Io disprezzo Putin, come disprezzo anche Biden e Johnson. Stanno combattendo una guerra sulla pelle degli ucraini e rischiano di portarci a una guerra mondiale", dice il docente di sociologia del terrorismo internazionale". 

E concludeva Alessandro Orsini: "Se il principio è che tutti coloro che resistono rispetto a un invasore straniero sono come i partigiani italiani, allora anche i talebani che resistevano all’invasione americana sono come i partigiani". 

Dottoressa arriviamo alla radice del problema, gli Stati Uniti ci stanno portando ad una guerra che noi europei non vogliamo, ci stanno portando al disastro, e poi quando gli americani si sono infiltrati nel governo Italiano?

Francesca Galici per il Giornale il 27 Aprile 2022.

Momenti di forte imbarazzo a Cartabianca per Bianca Berlinguer durante l'ultima puntata, che ha visto lo stravolgimento della scaletta per lasciare spazio a un'ampia argomentazione del professor Galli sul suo libro. Inevitabile il momento in solitaria di Alessandro Orsini, per la seconda volta di seguito in collegamento e non presente in studio. 

Il professore ha avuto modo di esporre la sua idea senza contraddittorio, solo con un timido accenno da parte di Bianca Berlinguer, che ha spinto il professore a dichiarare che disprezza anche Vladimir Putin. Successivamente, in collegamento da Mosca è stata ospite Nadana Fridrikhson, giornalista russa dell'emittente Zvezda tv, canale patriottico militare russo di proprietà del ministero della Difesa.

Inevitabile la sua posizione estremamente schierata in favore di quella che in più occasioni ha definito come "operazione militare speciale" russa, guardandosi bene dal definirla guerra o invasione, per liberare il Lugansk e il Donbass. Ha rifuggito l'etichetta di propagandista del regime di Vladimir Putin, ha accusato i presenti in studio di non lasciarla libera di esprimere le proprie opinioni e ha accusato gli ospiti di Cartabianca di muovere gravi insinuazioni nei suoi confronti e verso la Russia senza avere nessuna prova in mano a supporto di quanto dichiarato.

Ma a sorprendere più di tutto, ma forse nemmeno troppo, non è tanto l'ovvia posizione di Nadana Fridrikhson ma l'esordio nell'intervento di Alessandro Orsini, che si è cimentato in una vera e propria sviolinata nei confronti della giornalista russa tra lo stupore dei presenti.

"Alla Fridrikhson io vorrei dare il benvenuto e spero che lei con noi si senta a casa, perché noi nei suoi confronti abbiamo soltanto un grande rispetto. Ci tengo a dirle che io amo il popolo russo, la Russia è un grande Paese, voi potete essere orgogliosi essere russi. Noi abbiamo tante cose da ammirare alla Russia e mi dispiace per le discriminazioni che i cittadini russi stanno subendo in Europa a causa di questa guerra. Io voglio farle sapere che io sono dalla parte dei cittadini russi che vengono discriminati", ha detto Alessandro Orsini tra i sorrisi imbarazzati di circostanza dei presenti. 

Il professore ha chiesto, al termine del preambolo, che cosa l'Italia potrebbe fare per mediare e "fermare questo bagno di sangue". La giornalista ha divagato, spostando il focus dell'argomento nel totale silenzio di Alessandro Orsini, tanto da costringere Bianca Berlinguer all'intervento, riportando la discussione sui binari nella prospettiva che l'Ucraina, ora, è il Paese invaso.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 27 Aprile 2022.

Solito monologo di un quarto d'ora scarso, esattamente 12 minuti, per Alessandro Orsini a Cartabianca, dove ormai gli viene garantito il suo spazio in solitaria e senza contraddittorio, con la sola presenza di Bianca Berlinguer a tentare di porre un freno alle sue dichiarazioni, anche se in maniera molto blanda. Come al solito, il professore non ha mancato di attaccare Mario Draghi e i suoi ministri, ma ha messo nel suo mirino, non certo inaspettatamente, anche Boris Johnson e Joe Biden, chiamandoli pazzi. 

Si è proclamato scettico anche sulle parole di Sergio Mattarella, criticandolo per le sue parole sulla Resistenza: "Se paragoniamo la resistenza ucraina a quella dei partigiani in Italia, servono motivazioni molto forti affinché io non debba paragonare ai partigiani quello che hanno fatto i talebani contro gli Stati Uniti. Se il principio è che tutti coloro che resistono rispetto ad un invasore straniero sono come i partigiani italiani, allora anche i talebani che resistevano all’invasione americana sono come i partigiani". 

"Io penso che Johnson sia uno di quei pazzi di cui ha parlato il Papa", ha detto il professor Orsini che, come sua consuetudine, ci ha tenuto a ricordare che lui aveva già quasi anticipato le parole del Papa dicendo che il primo ministro inglese è un guerrafondaio tempo fa. "Io disprezzo profondamente Boris Johnson, lo considero un pericolo per l'Europa e per l'umanità. Penso che davvero la Russia dovesse colpire un Paese della Nato, penso che l'Italia dovrebbe immediatamente dichiarare la neutralità e se le circostanze internazionali costringessero a tanto, l'Italia dovrebbe avviare il processo di fuoriuscita dalla Nato", ha dichiarato Alessandro Orsini, che ha parlato di "pazzi scriteriati".

Il suo riferimento è anche agli americani e Joe Biden, che Orsini definisce "personaggi pericolosissimi che meritano tutto il nostro disprezzo". Ma davanti alla ripetizione da parte del professore della Luiss della parola "disprezzo", Bianca Berlinguer ha posto un'obiezione logica ad Alessandro Orsini in merito al contesto: "Lei non pensa che il personaggio più pericoloso di tutti sia il presidente russo, che sia lui il più grande ostacolo alla ricerca di una soluzione pacifica?". 

Come al solito, dando un colpo al cerchio e uno alla botte e un contentino al pubblico italiano, Alessandro Orsini ha dichiarato: "Se vuole possiamo metterla in questi termini, così accontentiamo una parte del pubblico. Io disprezzo Putin e disprezzo profondamente anche Biden e anche Johnson, così per par condicio siamo tutti più sereni". Per Alessandro Orsini "Stanno combattendo una guerra sulla pelle degli ucraini e rischiano di portarci ad una guerra mondiale".

L'"effetto domino" che il Fuhrer non si aspettava. L’ultima di Orsini: “Hitler non voleva la Seconda Guerra Mondiale, colpa di alleanze militari come Nato”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Aprile 2022. 

La sai l’ultima di Alessandro Orsini, il professore piuttosto (eufemismo) critico con l’Occidente sulla guerra in Ucraina scatenata dalla Russia di Vladimir Putin? Ha fatto discutere come altre uscite sulla Nato o sul fascismo, siparietti televisivi da talk show dove comunque vige sempre il pensiero unico secondo molti: dove non si può esprimere altra idea che quella filo-USA e anti-russa. Ebbene: Adolf Hitler non aveva alcuna intenzione di far scoppiare la Seconda Guerra Mondiale, ha detto il professore in Sociologia del terrorismo internazionale ospite al programma Accordi&Disaccordi.

Il parallelo tra il conflitto esploso nel 1939 e quello che sta succedendo in questi giorni in Ucraina dopo l’invasione della Russia parte dalle alleanze militari dei Paesi europei. E sul fatto che l’ingresso di nuovi Paesi nella Nato – come Svezia e Finlandia hanno esplicitato dopo l’invasione annunciata da Vladimir Putin – sia “un pericolo enorme per l’umanità”. Orsini parla di un “effetto domino”. Di Hitler che “ha invaso la Polonia senza l’intenzione di far scattare” il conflitto e che l’atto del primo settembre 1939 scatenò un risultato che “non si aspettava”. Il professore ha spiegato che “a differenza di quello che moltissimi pensano, la seconda guerra mondiale non è scoppiata perché Hitler a un certo punto, deliberatamente, ha deciso di attaccare Inghilterra, Francia, Polonia e Russia“.

Al contrario: “Hitler non aveva intenzione di far scoppiare la seconda guerra mondiale. Quello che è successo è che i Paesi europei hanno creato delle alleanze militari, ognuna delle quali conteneva un articolo 5 della Nato, cioè un articolo che prevedeva nel caso di attacco di un Paese straniero che tutti i membri della coalizione sarebbero entrati in guerra». Dunque, ha proseguito, “quello che successe è che il 1 settembre del ’39 la Germania invase la Polonia: Inghilterra e Francia si erano alleati con la Polonia e si creò un effetto domino, a cui Hitler non aveva interesse e che Hitler non si aspettava nemmeno che scattasse”.

Tutto per arrivare alla situazione di oggi in Ucraina: “Adesso arrivo ad oggi, perché i nostri leader mondiali sono dei pazzi che ci stanno portando verso il baratro: chiarito che la seconda guerra mondiale non è scoppiata perché a un certo punto l’ha deciso Hitler, ma perché erano state stipulate delle alleanze militari simili alla Nato, è chiaro che da un punto di vista statistico maggiore è il numero dei Paesi europei ai confini con la Russia che entrano nella Nato, maggiore è la probabilità di una catastrofe nucleare, maggiore è la probabilità che scoppi la terza guerra mondiale“.

Prima del primo settembre 1939 Hitler aveva invaso Renania e Cecoslovacchia, costruito e aperto il campo di concentramento di Dachau, per non parlare delle atrocità commesse solo in Germania e le successive invasioni di Francia e Regno Unito tra le altre – quest’ultima fallita come in Russia. Aveva scritto il Mein Kampf dopo l’arresto per il fallito colpo di stato del Partito Nazista del 1923. Ne La mia battaglia il dittatore sosteneva la superiorità della razza ariana, cioè il ceppo etnico che include tutti i popoli europei. Dichiarava inoltre che la crisi della Germania è dovuta a un complotto degli ebrei e dei comunisti. Infine invocava la nascita di una nuova, grande Germania, sotto la guida di un furher, un capo supremo. Lo spazio vitale del Terzo Reich. Tutto questo sarebbe diventato Seconda Guerra Mondiale e sarebbe stato chiamato come Seconda Guerra Mondiale o suo antefatto: era comunque guerra. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Marianna Aprile per “Oggi” l'1 maggio 2022.

Esistono due Alessandro Orsini: il sociologo esperto di terrorismo internazionale e geopolitica; e il personaggio televisivo che surfa tra Cartabianca e Piazzapulita ma soprattutto sulle ondate polemiche per le sue posizioni – anti Nato, anti Draghi − sulla guerra in Ucraina. 

L’Orsini 1 si divideva tra università, libri in grado di suscitare dibattiti, un’ipertrofica pagina Facebook, qualche ospitata in tv e, dal 2014, una rubrica - atlantista - sul Messaggero (Atlante). L’Orsini 2 è evoluzione recente ed è costata al professore il trasloco dal Messaggero al Fatto Quotidiano, oltre a mille battibecchi televisivi su bambini felici in dittatura e nonni che lo erano altrettanto nei primi anni del 1900.

Insomma, se l’Orsini 1 studiava la radicalizzazione dei terroristi sul web, l’Orsini 2 si è radicalizzato in tv. Entrambi diffidano della carta stampata, sospettata di alterare volutamente toni e contenuti. E infatti interviste Orsini non ne rilascia, preferisce il piccolo schermo, dove sa di avere maggior controllo. 

La prima volta che ci mette piede è il 17 gennaio del 2010, a Tv2000, invitato per aver denunciato concorsi truccati alla facoltà di Sociologia di Chieti. Da allora, ci è stato centinaia di volte, anche se solo di recente il grande pubblico si è davvero accorto di lui.

Le istituzioni, invece, lo conoscono da tempo e sono molte quelle che negli anni gli hanno chiesto analisi sulla sicurezza internazionale, dalla Presidenza del Consiglio al Parlamento, al ministero della Difesa, degli Esteri, dal Comando generale Guardia Costiera a importanti multinazionali.

Ma da dove arriva e chi è Alessandro Orsini? Si laurea in Sociologia a Roma (era andato via da casa a 18 anni, mantenendosi facendo il cameriere), fa il dottorato di ricerca a Tor Vergata, dove nel 2013 fonda e dirige il Centro per lo studio sul terrorismo internazionale. Dopo una borsa di studio a Boston, nel 2016 entra alla Luiss e fonda Sicurezza Internazionale (quotidiano on line di politica internazionale) e l’Osservatorio sulla sicurezza internazionale, che dirige. Nel frattempo, pubblica libri su Isis, immigrazione e uno – controverso – su Gramsci e Turati. Innesca dibattiti nei quali però rimane sempre un po’ sullo sfondo. Fin qui, l’Accademia.

E il privato? È nato a Napoli e ci è rimasto fino al primo anno delle superiori, in una casa in centro. A scuola non ci stava bene, era timido, bullizzato ed è lì che probabilmente è nato quel riflesso condizionato che lo porta a vedere le polemiche di cui è protagonista come un accerchiamento da cui difendersi. Quando ha 15 anni, la sua famiglia lascia Napoli e lui si diploma al Liceo Classico Dante Alighieri di Latina, dove fa il rappresentante di classe e poi di istituto, e dove entra in contrasto con preside e professori.

Tranne che con una, quella di filosofia, che per lui diventa una specie di guida. Gli attriti coi docenti non sono però una novità, ne sa qualcosa il suo ex prof di religione a Napoli, con cui da adolescente battibeccava. 

Se a scuola le cose vanno un po’ così, a casa il giovane Orsini scopre il gusto per lo studio. Passa ore nella biblioteca del padre, sogna di fare lo scrittore e inizia in quarta elementare a scrivere racconti. Col papà, mancato qualche anno fa, ha un rapporto strettissimo. Lui, Arturo Orsini, era direttore della Scuola di psicologia clinica della Sapienza di Roma, dove era ordinario di Teoria e tecniche dei test di personalità. Stimatissimo psicoanalista junghiano, “misurava” l’intelligenza dei bambini. 

Chi conosce Alessandro sostiene sia stato lui a trasmettergli l’attaccamento alla famiglia. Orsini ne è gelosissimo, non vuole si parli della moglie, dei figli. Pare sia ossessionato dall’idea che si sappia da dove fa il pendolare con Roma e le città in cui il lavoro lo porta. Un’ossessione legata a ragioni di sicurezza, essendosi a lungo occupato, Alessandro, di terrorismo e formazioni di estrema destra.

Poi però se si scorre (dimolti anni) la sua pagina Facebook si deduce che la casa di campagna che gli fa da buen retiro è nelle Marche («La Regione più bella d’Italia, quindi del mondo», scrive), e che nei dintorni di Chieti sono tutti i luoghi del cuore in cui si rifugia appena può, dal monastero di San Francesco di Guardiagrele (dove ha scritto parte dei suoi libri) al piccolo comune di Rapino («Il luogo che amo di più al mondo», scrive) alle campagne e le montagne in cui da bambino si arrampicava sugli alberi e oggi si perde in passeggiate.

Nella biblioteca di Guardiagrele il prof da ragazzo ha letto il primo libro di quello che sarà il suo “maestro”, il sociologo Luciano Pellicani: una volta a Roma, durante il suo dottorato di ricerca si procurerà il numero di Pellicani e lo chiamerà da una cabina a gettoni sulla Laurentina, per manifestargli ammirazione.

Pellicani lo inviterà a casa e diventeranno amici. Ma a parte lui, Orsini coltiva amicizie molto lontane da quelle dell’accademia: il suo giro stretto non è fatto di professori ma di amici di lungo corso, molti dei quali non hanno studiato. A uno di loro, oste a Guardiagrele, ha rubato l’espressione “Bello de Peppe”, con cui apostrofa su Facebook i suoi seguaci ( I belli de Peppe, appunto), accomunati dal non aderire ad alcun partito e dal porsi sempre fuori dalla narrazione dominante, su qualsiasi tema. Il “manifesto” di Orsini, insomma, è nato in trattoria.

Dicono che nel privato sia diverso da come appare in tv, abbia la battuta pronta, una certa ironia e sia persino ridanciano. Di certo, a riflettori spenti dimentica giacche e cravatte nell’armadio (non li mette neanche per fare lezione alla Luiss) e veste in jeans, sneakers e t-shirt che su Facebook gli attirano anche qualche critica per eccesso di esibizione muscolare. 

Del resto, quei muscoli li coltiva con una certa tenacia fin da quando era bambino. Aveva 9 anni quando, forse per aiutarlo a vincere timidezza e bulli, suo padre lo portò a scuola di karate, a Napoli. Orsini ha studiato col maestro Isidoro Volpe ed è diventato – quando viveva già a Roma − cintura nera studiando due stili, lo shotokan e lo shyto ryu. Agli amici racconta che è stato proprio il karate a renderlo la persona che è, a dargli una disciplina rigorosa, insegnargli il senso dell’onore in combattimento.

Una disciplina di autodifesa, in cui lo scontro inizia sempre con una parata o un contrattacco. Schema facilmente rintracciabile anche nelle polemiche pubbliche che riguardano Orsini: magari provoca, ma non attacca mai per primo. Dopo il karate, è passato al full contact e alla boxe. 

Nel frattempo, ha giocato a calcio, arrivando a giocare in seconda categoria (ala destra), e fino a prima della pandemia era in una squadra di amatori marchigiana. Nei tempi morti (ma come fa ad averne?) corre. È un grande appassionato di musica ma anche qui tende a fare il bastian contrario (ha teorizzato il «coraggio musicale»): se tutti impazziscono per i Måneskin lui propone di ascoltare i Misto nocivo, Nino D’ Angelo, ma anche gli AC/DC.

Ma soprattutto i Ramones: sulla sua pagina Facebook c’è anche un video al concerto di Marty Ramones ad Ascoli Piceno nel 2018 («A un concerto punk, la transenna è trincea», scrive). Da ragazzo Orsini aveva persino una cover band del gruppo punk, i Punkina, di cui era chitarra e voce. 

La musica è anche una delle cose che lo lega a suo fratello Andrea, cantautore, che su Facebook sovente ringrazia Alessandro per ispirargli brani ( Fratello, Ego sono alcuni dei titoli) e temi. E forse giusto Andrea potrebbe aiutarci a risolvere l’enigma Orsini, a capire se ci provoca o ci prende in giro tutti quando scrive: «Io sono un modo di pensare, leggetemi molto, ammiratemi poco».

Maria Teresa Meli per corriere.it il 2 maggio 2022.

E uno, e due, e tre… e quattro, cinque sei… Ma quante frasi shock ha pronunciato il professor Alessandro Orsini? Fatto sta che alla sua ennesima esternazione, la Luiss ha deciso di chiudere l’Osservatorio per la sicurezza internazionale da lui diretto. 

Al momento non è dato sapere se ciò gli procurerà qualche ospitata tv in meno, ma visto l’ampio materiale a disposizione, si può già compilare un’antologia delle frasi «più significative» del professore.

Si può cominciare, ad esempio, dalle sue prime profezie: «Bisogna avere il coraggio di ammettere che Putin ha già vinto». E ancora: «Questa è una guerra persa in partenza. O noi diamo a Putin quello che vuole o lui se lo prende lo stesso». 

Il prof a marzo ne era convinto. I fatti gli hanno dato torto, ma lui ha continuato a elargire consigli. E dato che a suo giudizio il conflitto si sarebbe concluso con un successo del presidente russo, Orsini si è sentito in dovere di invitare l’Ucraina alla resa. Del resto, per dirla con le sue parole: «Anche nelle dittature un bambino può essere felice». Quindi che problema c’è ad arrendersi a Putin?

L’Ucraina, però, ha continuato la sua resistenza e il professore, inviperito, ha lanciato i suoi strali su Zelensky: «È un pericolo per la pace. Va abbandonato. Deve darsi una calmata, politicamente è un incapace». 

Visto che il presidente ucraino non lo ascoltava, Orsini si è messo a dare qualche suggerimento a Mario Draghi: «L’Italia deve fare tre cose. Rompere con la Ue, riconoscere le colpe dell’Occidente e quelle di Putin, dirsi disponibile al riconoscimento, a guerra in corso, del Donbass e della Crimea».

Il presidente del Consiglio, ovviamente, non ha seguito la «dritta» fornitagli e il professore se ne è avuto a male: «Il governo Draghi è un governo di burattini nelle mani della Casa Bianca, sono d’accordo con Putin su questo», ha tuonato qualche giorno fa. 

Sarebbe un errore però credere che Orsini non critichi anche il presidente russo. Per lui Putin è «pericoloso a livello 10». Peccato che però dopo questa affermazione sul presidente russo aggiunga con grande convinzione: «E considero anche Biden pericoloso a livello 10. È un traditore dell’Europa, la sta accoltellando alle spalle. In relazione all’Ucraina considero Putin pericoloso quanto Biden».

Ma Orsini non è prodigo solo di «buoni consigli», il professore nelle più che frequenti apparizioni televisive elargisce con generosità anche le sue interpretazioni storiche. Come quando ha detto con aria candida: «Durante il fascismo mio nonno ha avuto un’infanzia felice». 

Fino all’ultima rilettura dei fatti passati, che ha convinto la Luiss a recidere i legami: «Hitler non aveva intenzione di far scoppiare la seconda guerra mondiale. Quello che è successo è che il primo settembre del ’39 la Germania invase la Polonia, Inghilterra e Francia erano alleate della Polonia, e si creò un effetto domino a cui Hitler non aveva interesse».

In attesa della prossima puntata, c’è da aggiungere solo una cosa: anche il prof ha un cuore. Tanto che gli può scappare facilmente qualche lacrimuccia: «Ogni volta che sento un Paese che vuole entrare nella Nato, soprattutto se è vicino ai confini della Russia, io piango».

Orsini, alla Luiss chiude il suo Osservatorio sulla sicurezza internazionale. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

L’università fa sapere che il sito non è più attivo da oggi perchè è «scaduto l’accordo di collaborazione con Eni» per realizzarlo e «non sarà rinnovato». 

Da due mesi ormai crescevano gli imbarazzi e le discussioni tra gli accademici della Luiss. Il motivo? Sempre lo stesso: le «sparate» filo-Putin in televisione del collega Alessandro Orsini, che alla Luiss insegna Sociologia del terrorismo internazionale. È professore associato.

Così, sarà solo una coincidenza, ma dopo l’ultima uscita di Orsini venerdì sera ospite di Nove, in cui ha parlato di Hitler quasi giustificandolo, ieri l’ateneo romano ha emesso una stringatissima nota. Ecco il testo: «La Luiss comunica che l’accordo di collaborazione con Eni per la realizzazione dell’Osservatorio sulla Sicurezza internazionale, affidato dall’Ateneo al Professor Alessandro Orsini, è giunto a scadenza da circa due mesi e non verrà rinnovato. Per questa ragione, i canali di comunicazione dell’Osservatorio, incluso il sito internet “Sicurezza internazionale” (anche questo diretto da Orsini, ndr), da oggi non sono più attivi». Punto.

Chiuso l’Osservatorio e chiuso il sito internet, che comunque non veniva più aggiornato da almeno due settimane. La Luiss assicura che i progetti di ricerca con Eni continueranno su altri fronti. Insomma, nessuno scandalo.

Certo, però, venerdì sera, intervenendo nella trasmissione Accordi&Disaccordi Orsini per molti ha esagerato, scatenando poi il solito inferno sul web. Il professore, ricostruendo le cause della seconda guerra mondiale, ha detto che «Hitler invase la Polonia senza l’intenzione di far scattare» il conflitto. «Il primo settembre del ’39 la Germania invase la Polonia e poiché Inghilterra e Francia si erano alleate con la Polonia si creò un effetto domino, a cui Hitler non aveva interesse...». Parole che, al di là delle smentite, devono aver costituito la goccia finale che ha fatto traboccare il vaso della pazienza del prestigioso ateneo intitolato a Guido Carli.

Già il 4 marzo scorso, infatti, all’alba della guerra e del «fenomeno Orsini», la Luiss aveva preso posizione, esprimendo «piena solidarietà al popolo ucraino» e invitando «chi ha responsabilità di centri di eccellenza come l’Osservatorio sulla Sicurezza internazionale», cioè proprio Orsini, ad «attenersi al rigore scientifico dei fatti, senza lasciar spazio a pareri di carattere personale che possano inficiare la reputazione dell’ateneo». Nel frattempo sarebbe stato interpellato anche un costituzionalista di fama per un parere pro veritate su come gestire il rapporto col professore. Licenziarlo? Impossibile (Orsini è un dipendente pubblico) né tantomeno censurarlo (in virtù dell’articolo 21 della Costituzione). E dunque si continua. Almeno fino alla prossima puntata.

Orsini attacca Cacciari: “Stupidaggine assoluta su ruolo dell’Italia nella NATO”. Ilaria Minucci il 27/04/2022 su Notizie.it.

Alessandro Orsini si è scagliato contro Massimo Cacciari, che ha criticato le sue affermazioni sul conflitto russo-ucraino e il ruolo dell’Italia nella NATO.

Lo scrittore Alessandro Orsini ha deciso di pubblicare un post sul suo account Facebook ufficiale per smontare le affermazioni recentemente rilasciate da Massimo Cacciari.

Il filosofo, infatti, ha espresso alcune considerazioni in merito alla guerra in Ucraina e ha esaminato la posizione e le sorti dell’Italia nella NATO nel caso in cui la Russia dovesse decidere di attaccare l’alleanza atlantica.

Bollando come “ridicolaggini” le analisi di Cacciari, Orsini ha scritto: “La teoria di Massimo Cacciari, secondo cui nessun Paese si salverebbe nel caso in cui scoppiasse la terza guerra mondiale, è una stupidaggine assoluta”.

A scatenare una simile reazione nello scrittore, è stata la reazione dell’ex sindaco di Venezia alle sue affermazioni a Cartabianca.

Nella serata di martedì 26 aprile, infatti, entrambi erano ospiti del programma e Orsini ha dichiarato che “l’Italia dovrebbe dichiarare la propria neutralità” in previsione di attacco russo alla NATO e scoppio della Terza Guerra Mondiale. Le posizioni dello scrittore, però, sono state descritte come “ridicolaggini” da Cacciari.

“Da escludere la distruzione di tutti i Paesi in caso di Terza Guerra Mondiale”

Il post condiviso su Facebook da Orsini, poi, prosegue nel seguente modo: “Sempre secondo l’opinione del buon Cacciari, l’eventuale dichiarazione di neutralità dell’Italia non salverebbe nemmeno il nostro Paese dalla distruzione.

Doppia stupidaggine assoluta. La terza guerra mondiale, ove scoppiasse (speriamo mai) non distruggerebbe tutti i Paesi. Questo al cinema, per qualche filosofo che ha dato il cervello all’ammasso. Nel mondo ci sono circa 200 Stati, mica verrebbero bombardati tutti. La Russia non avrebbe nessun interesse a bombardare il territorio italiano, se il nostro Paese si dichiarasse neutrale. Se la Nato vuole spingere per la terza guerra mondiale, come sta facendo, vada in malora, con tutti i filosofi chiacchieroni che dicono ridicolaggini in televisione.

Oramai il cervello è completamente puntato all’ammasso e quindi evviva i Cacciari – e ha concluso –. Niente terza guerra mondiale per i nostri figli”.

Federico Capurso per “La Stampa” il 28 aprile 2022.  

Il senatore Vito Petrocelli è sempre più isolato, tra il procedimento di espulsione dal Movimento e il tentativo di rimuoverlo dalla presidenza della commissione Esteri.

«Vergognoso», strepita sui social, rivendicando la coerenza della sua posizione in politica estera, «la stessa del governo Conte I e del programma con cui sono stato eletto, prima che arrivassero il Pd e Draghi».

Ma per Petrocelli il vero problema non è lo strappo con il suo partito, né l'alleanza con i Dem o l'appoggio al governo Draghi: «Mi fa soltanto un po' male - scrive - il silenzio assordante di Beppe». Ecco, è la distanza che per la prima volta sente con Beppe Grillo; di questo, soprattutto, non riesce a farsene una ragione. 

Perché tra i due c'è un filo rosso che li lega da anni e che si è stretto proprio attorno a una comune visione di politica estera: l'amore per il regime cinese. E di sponda, per la Russia. Petrocelli si definisce «filocinese» e Grillo da anni usa il suo blog come megafono della propaganda della Repubblica popolare.

Quando non lo fa in prima persona, si avvale dei contributi di Fabio Massimo Parenti, un professore di geopolitica che insegna - non a caso - alla China foreign affairs university di Pechino. E chi è il politico italiano di cui Parenti condivide, più di ogni altro, idee e posizioni in materia di politica estera? Petrocelli, ovviamente. 

Ne rilancia tweet, pensieri e spunti. Un triangolo di ferro che ora appare spezzato, ma che sopravvive nella vicinanza di idee. Proprio ieri, poche ore prima dello sfogo del senatore, Grillo pubblica infatti sul suo blog un articolo di Parenti in cui si sostiene che la Cina può «fornirci un approccio unico ed efficace per costruire la pace» attraverso la sua «globalizzazione inclusiva».

Un modello che - vale la pena ricordarlo - si avvale di un sistema di prestiti a Paesi economicamente poveri, ma ricchi di materie prime, per aumentarne il debito pubblico e tenerli al giogo. 

Eppure, «l'Occidente - scrive Parenti - non sta investendo in piani per l'integrazione, ma sta scegliendo la corsa al riarmo, che può e deve essere assolutamente fermata». 

Così, il filo gira e chiude il cerchio. Il problema di Grillo, Parenti e Petrocelli, partendo dalla Cina come promotrice di pace, arriva al rifiuto del riarmo dei paesi occidentali (dimenticando, forse, il recente piano cinese di riarmo nucleare e di enormi investimenti in tecnologie militari).

Nella linea politica di Grillo, più filocinese che pacifista, si innesta anche la nuova posizione del M5S di Conte, che chiede al governo di stabilire prima l'uso che si farà delle armi che stiamo inviando in Ucraina, se per difendersi o per contrattaccare. 

E lo stesso Petrocelli, nelle ultime settimane, aveva lanciato strali contro l'invio di aiuti militari in Ucraina - ma senza fare le distinzioni che fa Conte - e si è ritrovato solo, con i parlamentari M5S intenti a cannoneggiare contro di lui per spingerlo alle dimissioni da presidente della commissione Esteri.

Anche il titolare della Farnesina Luigi Di Maio, da Strasburgo, gli chiede di «considerare la situazione e dimettersi dalla presidenza. C'è un parere unanime dei gruppi parlamentari che gli chiede di lasciare». 

La formula per costringerlo a un passo indietro, però, deve essere ancora trovata. La giunta per il Regolamento del Senato si è riunita ieri, ma non ha ancora individuato quali siano le strade legittime per arrivare alla sua rimozione.

Certo, potrebbe sempre convincerlo Grillo, se non fossero già chiare le sue idee.

Rai, tensioni sui limiti per i talk show. M5S contro le regole «anti Orsini». Antonella Baccarodi su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2022.  

La risoluzione della Commissione di vigilanza per regolare le presenze di commentatori e opinionisti rischia di naufragare. Tra veleni, sospetti e contrasti interni.

Veleni e sospetti rischiano di far naufragare la risoluzione della Commissione di vigilanza Rai che dovrebbe regolare la presenza di commentatori e opinionisti nei talk show della tv pubblica. Una risoluzione ribattezzata «Orsini», dal nome del commentatore, il professor Alessandro Orsini, che respinge la definizione di «filoputiniano» ma che di fatto, in ogni programma di cui è ospite, accetta di fare il controcanto alle posizioni filoucraine. Ed è proprio su di lui che si allungano i sospetti di quanti, in Vigilanza, avevano sposato il testo del presidente Alberto Barachini (FI) volto a imporre la rotazione dei commentatori, preferendo quelli senza compenso.

Il retroscena — raccolto al termine della riunione di martedì sera della Vigilanza conclusasi con un nulla di fatto, ma negato dal leader M5S — racconta che la presenza di due soli membri grillini su nove sia stata determinata da «fattori esogeni». Primo: Giuseppe Conte, leader del M5S, avrebbe incontrato Orsini, apprezzandone il «pensiero laterale» sul conflitto in corso. Secondo: la candidatura del professore sarebbe qualcosa di più di un’idea.

A queste indiscrezioni che spiegherebbero perché martedì i grillini abbiano espresso in Vigilanza, attraverso Alberto Airola, contrarietà al testo, di cui vorrebbero il ritiro, ritenendolo un’ingerenza nell’attività interna della tv pubblica, si aggiunge la versione di Michele Anzaldi. Il segretario della Commissione di vigilanza (Italia viva), come al solito non la manda a dire e, nel rilevare la presenza nel talk Rai CartaBianca di «ben tre opinionisti del Fatto quotidiano (Scanzi, Orsini, Di Cesare, ndr)», attacca: «Se il M5S vuole difendere il cachet di Scanzi e dei collaboratori del Fatto , è libero di farlo, ma la Vigilanza ha il dovere di andare avanti. Ci sono i numeri per approvare la risoluzione».

Ma è davvero così? I membri sono 40: ai nove contrari del M5S si aggiungono i due di Fratelli d’Italia, più per spirito di opposizione che per convinzione. Dei 29 restanti, la risoluzione può fare affidamento di certo sugli otto leghisti, gli otto tra Forza Italia e i centristi, i cinque del Pd (a patto che si tenga conto dei loro emendamenti), i due di Italia viva e i due di Leu. Totale: 25 voti certi. Dunque i numeri ci sarebbero, ma il presidente Barachini non è convinto di proseguire a colpi di maggioranza su un tema così delicato: «Prendo tempo — dice —: valuterò se tentare il voto, riformulare la risoluzione o ritirarla. Ma in quest’ultimo caso sarò costretto a rilevare come il M5S abbia fatto retromarcia su un provvedimento che aveva condiviso».

Intanto la polemica sugli ospiti della tv pubblica cresce: nel mirino è finita un’altra ospite di CartaBianca, Nadana Fridrikhson, giornalista della tv russa filoputiniana Zvedza, rispetto alla quale Andrea Romano (Pd) ha auspicato un’audizione del Copasir per valutare se sia lecito invitare organi della propaganda putiniana in Rai. Mercoledì prossimo in Vigilanza sarà audito l’ad, Carlo Fuortes, il primo ad annunciare l’adozione di un regolamento per gli ospiti dei talk. Chissà se ci metterà mano anche se dovesse mancare l’indirizzo della commissione.

 Scandal di martedì L’auto che segue Orsini, la trattativa notturna e la soluzione Bianca-Giletti per fregare Floris. Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Aprile 2022.

Sembra meno credibile di una puntata della serie televisiva di Shonda Rhimes, ma le fonti di Soncini (ebbene sì) raccontano di autori di La7 che nottetempo offrono contratti alla voce più antioccidentale della tv italiana affinché lasci la Rai. Con l’uomo tutto d’un prezzo che chiama Berlinguer e Berlinguer che lo offre all’Arena sapendo che il conduttore detesta, ricambiato, i colleghi della rete

Uno di questi giorni parleremo di “Scandal”, lo sceneggiato inverosimile e realistico in cui tutti spiavano tutti, tutti tramavano su tutto, e qualunque persona apparentemente normale aveva commesso almeno un omicidio: il trattato sul presente che all’epoca della messa in onda non avevamo riconosciuto come tale. Ma oggi vorrei parlare di una scena di “Scandal” con protagonisti romani. 

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Vi racconto questa storia così come mi è stata raccontata, non ho idea se sia avvenuta davvero (mica mi avrete presa per una che dà delle notizie), e ve la racconto non tanto come segno di fiducia nella mia fonte (la quale giura sia andata esattamente così) quanto in omaggio a quella vecchia regola che diceva «print the legend»: se una storia è bella, chissenefrega se è fantasiosa.

È la notte di martedì 19 aprile, e il professor Alessandro Orsini, uscito dal posto dal quale era in collegamento con Carta Bianca, la trasmissione di Rai 3 condotta da Bianca Berlinguer, s’accorge d’essere seguito da una macchina.

È un’auto dei servizi, con a bordo due sicari il cui scopo è impedire che Orsini racconti di ricevere telefonate da Mariupol sfidando il senso del ridicolo del pubblico italiano, che rischia di svegliarsi dal collettivo rincoglionimento e pensare che, se deve sentire tutte queste stronzate, preferisce i racconti mitomani del cognato su quanti chili ha sollevato in palestra, e la tv può pure spegnerla?

È un’auto del suo fan club, che vuole manifestargli la propria vicinanza, dirgli che crede a tutto, al nonno con l’infanzia felice, al primato delle lauree in materie umanistiche, alla cosmica giustizia poetica per cui, cribbio, prendono soldi per andare ospiti della Rai cani e porci, stai a vedere che solo Orsini deve andare in tv gratis?

È Scanzi che abbassa il finestrino e ammette «se pagano me, è effettivamente vergognoso che non paghino te»? È una Batmobile? È una carrozza che sta per trasformarsi in zucca? È Bianca Berlinguer che sta andando a ringraziarlo perché grazie a lui finalmente il suo è il programma che fa più ascolto il martedì sera?

Macché. Sono due autori di Floris, cioè di Dimartedì, il programma concorrente di Carta Bianca che Giovanni Floris conduce il martedì sera su La7. Se intendete interrompermi chiedendomi perché due autori di Floris dovrebbero approcciare Orsini il martedì notte in mezzo alla strada, invece di chiamarlo con tutta calma al telefono di giorno, andarlo a cercare all’università o dovunque il nostro eroe del libero pensiero trascorra le giornate, sappiate che non siete adatti a “Scandal” e alla sterminata sospensione dell’incredulità necessaria a credere che Olivia Pope uccida il vicepresidente degli Stati Uniti con una sedia che ripetutamente gli sfascia in testa, e nessuno lo venga mai a sapere.

Vi prego quindi di non interrompermi mentre sono intenta a print the legend. Dice the legend che in questo martedì notte questi due figuri approccino Orsini, che già di base non è soddisfatto. È vero che, dopo che i moralisti han chiuso i bar e il suo contratto retribuito, egli ha fatto quello cui urgeva dire la verità alla nazione e ha continuato comunque a partecipare a Carta Bianca, ma mica è contento, e vorrei vedere voi: fareste con lo stesso entusiasmo il vostro lavoro, se non vi pagassero? (Scusate, ho sbagliato domanda: voi in effetti state su Twitter tutto il giorno gratis, convinti che alla nazione urga conoscere il vostro punto di vista sul mondo. Ma io parlavo di gente le cui opinioni hanno un mercato).

Quindi gli autori di Floris gli dicono: professore, venga da noi, faccia lei la cifra, c’è un bonifico in bianco pronto per lei. Orsini, uomo tutto d’un prezzo, dice scusate un attimo, e davanti a loro chiama quella che per gli italiani è la figlia di Enrico Berlinguer, e per Mauro Corona è «Bianchina».

Che devo fare, Bianca, questi mi pagano e voi no. (È una ricostruzione senza che io purtroppo abbia la registrazione, e quindi non sono in grado di dire se, in privato, Orsini chiami la Berlinguer come in onda «dottoressa», o come Corona «Bianchina»).

La Berlinguer, che mi piace immaginare coi bigodini in testa già a letto mentre Manconi al suo fianco interpreta Raimondo Vianello, gli dice: dammi tempo fino a domani, trovo una soluzione.

Il giorno dopo, arriverebbe la soluzione, che ha un nome, un cognome, e una fasciatura alla mano (sulla quale pare sia caduta una libreria: il peso della cultura): Massimo Giletti. Non vi sto a ricostruire perché proprio Giletti, giacché temo di perdermi: le correnti di La7, in cui tutti odiano tutti, ricordano il Pd (parlandone da vivo).

A spanne: da Formigli, Orsini non può andare perché (dicono) ormai troppo legato al Fatto Quotidiano, il che non starebbe bene all’ospite abituale Mario Calabresi; se va da Floris, la Berlinguer minaccia sfracelli; la soluzione è il conduttore che a La7 tutti odiano, in quella bislacca percezione della gente di televisione per cui Non è l’arena è una burinata che abbassa il livello della rete e Otto e mezzo è una sciccheria che lo alza.

Poiché l’antipatia è un fenomeno biunivoco, Giletti ricambierebbe l’insofferenza nei confronti degli altri conduttori dell’emittente, e quindi sarebbe ben lieto di assecondare l’idea di Bianca Berlinguer: se tu lo paghi, caro Massimo, io posso continuare a farlo venire gratis e a battere quel tizio che va in onda il martedì e che io detesto come ci si detesta tra avversari professionali e tu detesti come ci si detesta tra cognati.

E quindi domenica scorsa Orsini va da Giletti, e a un certo punto – che delizia di buone maniere – gli dice «io sono venuto da lei questa sera perché mi piace il suo modo di condurre», invece che: sono qui per la fattura.

Però la puntata di Giletti fa un ascolto inferiore al solito. Non solo, ma l’altroieri, martedì, il nostro eroe torna là dove la sua presenza è gratuita, da Bianca Berlinguer, e, pur continuando nel suo ruolo di Lina Sotis della geopolitica («So benissimo che Lukashenko è un dittatore e Draghi è un gran signore»), non riesce a farle vincere la serata.

E quindi la domanda è: questo accordo paga-uno-prendono-due continuerà? Domenica Orsini sarà di nuovo da Giletti, e così per le prossime tre domeniche, come dicono dalle parti della Rai, o era un contratto per un’unica apparizione e nessuno ha mai pensato di tenerlo lì come arredo fisso, come giurano a La7? È vero che ieri Floris gli ha offerto tremila euro a puntata e Orsini, uomo tutto d’un prezzo, li ha rifiutati? Mi piacerebbe essere un hacker da “Scandal”, spiare contratti e bonifici, sapere e potervi svelare la verità sulla trattativa Stato-Orsini; anche solo per poter poi dire, come Ale a Bianchina, «io l’avevo affermato tre settimane prima del capo della Cia».

Da "Oggi" il 27 aprile 2022.

A scuola era timido, bullizzato. È andato via da casa a 18 anni, mantenendosi facendo il cameriere. I luoghi del cuore sono nei dintorni di Chieti in cui si rifugia appena può, dal monastero di San Francesco di Guardiagrele (dove ha scritto parte dei suoi libri) al piccolo comune di Rapino («Il luogo che amo di più al mondo»), l’attaccamento alla famiglia su cui è riservatissimo. E poi la prima volta in tv, il rapporto con il padre, luminare della psicologia e docente alla Sapienza.

Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica un ritratto di Alessandro Orsini, il professore più controverso della tv, tra famiglia, infanzia (scriveva racconti alle elementari), adolescenza tra Napoli e Latina, impegno politico nel liceo classico in cui si è diplomato e una passione per il karate (ma anche per full contact e boxe) seconda solo a quella per la musica, specie quella punk: è stato chitarra e voce di una cover band punk dei Ramones.

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 28 aprile 2022.

Veleni e sospetti rischiano di far naufragare la risoluzione della Commissione di vigilanza Rai che dovrebbe regolare la presenza di commentatori e opinionisti nei talk show della tv pubblica.

Una risoluzione ribattezzata «Orsini», dal nome del commentatore, il professor Alessandro Orsini, che respinge la definizione di «filoputiniano» ma che di fatto, in ogni programma di cui è ospite, accetta di fare il controcanto alle posizioni filoucraine. Ed è proprio su di lui che si allungano i sospetti di quanti, in Vigilanza, avevano sposato il testo del presidente Alberto Barachini (FI) volto a imporre la rotazione dei commentatori, preferendo quelli senza compenso.

Il retroscena - raccolto al termine della riunione di martedì sera della Vigilanza conclusasi con un nulla di fatto, ma negato dal leader M5S - racconta che la presenza di due soli membri grillini su nove sia stata determinata da «fattori esogeni». Primo: Giuseppe Conte, leader del M5S, avrebbe incontrato Orsini, apprezzandone il «pensiero laterale» sul conflitto in corso.

Secondo: la candidatura del professore sarebbe qualcosa di più di un'idea.

A queste indiscrezioni che spiegherebbero perché martedì i grillini abbiano espresso in Vigilanza, attraverso Alberto Airola, contrarietà al testo, di cui vorrebbero il ritiro, ritenendolo un'ingerenza nell'attività interna della tv pubblica, si aggiunge la versione di Michele Anzaldi. Il segretario della Commissione di vigilanza (Italia viva), come al solito non la manda a dire e, nel rilevare la presenza nel talk Rai CartaBianca di «ben tre opinionisti del Fatto quotidiano (Scanzi, Orsini, Di Cesare, ndr )», attacca: «Se il M5S vuole difendere il cachet di Scanzi e dei collaboratori del Fatto , è libero di farlo, ma la Vigilanza ha il dovere di andare avanti. Ci sono i numeri per approvare la risoluzione».

Ma è davvero così? I membri sono 40: ai nove contrari del M5S si aggiungono i due di Fratelli d'Italia, più per spirito di opposizione che per convinzione. Dei 29 restanti, la risoluzione può fare affidamento di certo sugli otto leghisti, gli otto tra Forza Italia e i centristi, i cinque del Pd (a patto che si tenga conto dei loro emendamenti), i due di Italia viva e i due di Leu. Totale: 25 voti certi.

Dunque i numeri ci sarebbero, ma il presidente Barachini non è convinto di proseguire a colpi di maggioranza su un tema così delicato: «Prendo tempo - dice -: valuterò se tentare il voto, riformulare la risoluzione o ritirarla. Ma in quest' ultimo caso sarò costretto a rilevare come il M5S abbia fatto retromarcia su un provvedimento che aveva condiviso».

Intanto la polemica sugli ospiti della tv pubblica cresce: nel mirino è finita un'altra ospite di CartaBianca, Nadana Fridrikhson, giornalista della tv russa filoputiniana Zvedza , rispetto alla quale Andrea Romano (Pd) ha auspicato un'audizione del Copasir per valutare se sia lecito invitare organi della propaganda putiniana in Rai. Mercoledì prossimo in Vigilanza sarà audito l'ad, Carlo Fuortes, il primo ad annunciare l'adozione di un regolamento per gli ospiti dei talk. Chissà se ci metterà mano anche se dovesse mancare l'indirizzo della commissione 

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 28 aprile 2022.

«Ma sono giornalisti russi o agenti di Mosca?». Se lo chiede la Commissione di Vigilanza Rai, pronta a chiedere - sarebbe la prima volta - un'audizione congiunta con il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. L'obiettivo è capire, tramite le informazioni in possesso della nostra Intelligence, se gli ospiti della tv di Stato che ripropongono in loop la propaganda del Cremlino si muovano effettivamente come rappresentanti della stampa estera o piuttosto come funzionari del governo di Putin.

La richiesta di audizione congiunta è stata avanzata martedì sera da Andrea Romano, deputato Pd e membro della Vigilanza. Ma ha il sostegno di altri commissari, tanto che il presidente dell'organismo, il forzista Alberto Barachini, ha deciso di sottoporre il tema al numero uno del Copasir, Adolfo Urso di FdI. Secondo fonti della Vigilanza, se il Copasir desse il via libera, la seduta potrebbe essere calendarizzata già la prossima settimana, forse in coincidenza con l'audizione dell'amministratore delegato Rai Carlo Fuortes, in programma il 4 maggio.

«Vogliamo capire se si tratta di giornalisti russi che operano liberamente o addirittura di funzionari del governo russo che diffondono la propaganda del Cremlino», spiega Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva in Vigilanza. Del resto l'altro ieri a CartaBianca, su Rai 3, è stata ospitata, in collegamento da Mosca, Nadana Fridrikhson, giornalista di "Zvezda", emittente controllata direttamente dal Ministero della Difesa russo.

Sul terzo canale, Fridrikhson ha sostenuto concetti così: «L'operazione militare speciale russa ha il compito di terminare la guerra iniziata dal regime di Kiev sostenuto dagli Stati Uniti». Secondo Anzaldi, «alla luce della pericolosa deriva presa dall'informazione del servizio pubblico, sarebbe davvero opportuno che i presidenti delle due commissioni, Barachini e Urso, quanto meno si parlassero e valutassero insieme la situazione».

Se non si potesse procedere a un'audizione congiunta, per le ragioni di riservatezza che regolano le sedute del Copasir, aggiunge Anzaldi, «serve comunque una forma di lavoro comune tra Vigilanza e il Comitato parlamentare sulla sicurezza della Repubblica, perché siamo nel pieno di una guerra e in guerra l'informazione diventa ancora più a rischio di propaganda militare».

Tesi condivisa dal dem Romano: «Sarebbe estremamente importante che la Vigilanza audisse insieme al Copasir l'ad Fuortes». Per il parlamentare del Pd, la seduta congiunta «avrebbe l'obiettivo di coinvolgere tutto il Parlamento in un passaggio delicatissimo nella vita del servizio pubblico radiotelevisivo, chiamato a esercitare il massimo equilibrio». Senza accendere le telecamere per i propagandisti a libro paga del Cremlino.

La richiesta a Urso sarà formalizzata in queste ore, proprio mentre in Vigilanza si litiga sui gettoni per le ospitate nei talk, dopo il caso di Alessandro Orsini, a cui CartaBianca, dopo le polemiche, ha azzerato il contratto da 2mila euro a puntata. Barachini, con l'appoggio di quasi tutti i partiti, ha proposto un regolamento che chiede alle trasmissioni di evitare l'effetto pollaio, di invitare solo esperti qualificati e soprattutto di privilegiare le ospitate gratuite.

Ma il progetto si è arenato: il voto sulla risoluzione era in programma l'altro ieri, ma è stato rinviato a data da destinarsi. Il motivo? Si è messo di traverso il M5S, passato dall'offensiva contro gli «stipendi stellari» dei conduttori Rai alla difesa strenua dei cachet. «Abolendo i compensi per gli ospiti si fa un favore a Mediaset e alle reti private », è la tesi dei grillini. Quindi nessuno tocchi i gettoni.

Natalia & Guia. Aspesi mi ha raccontato la sua infanzia felice (con tutto il rispetto per nonno Orsini). Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Aprile 2022.

Ho chiamato la 93enne giornalista più brava d’Italia e lei mi ha detto che degli anni della seconda guerra mondiale ha i ricordi che si hanno d’una fanciullezza normale, con quel problema delle uova dei vicini di casa sfollati.  

«Siccome io son terrapiattista, come sai, dico che è tutta una roba voluta dall’Ente Supremo Terrapiatta che vuole fare in modo che la Terra scompaia. È uno dei passaggi verso la fine del mondo. Tu ridi, ma è vero». Ho chiesto conto a una novantatreenne delle analogie di pensiero tra lei e un ospite di talk-show, e questo è un resoconto di quel quarto d’ora di chiacchiere. 

«Sai cosa c’è? Che dovrebbero essere eliminate le opinioni». Natalia Aspesi compie 93 anni a giugno, vive a Milano (ci viveva anche durante la seconda guerra mondiale), potreste aver letto qualcosa di suo negli ultimi decenni, non guarda i talk-show, e quando la chiamo sta leggendo un libro sulle influencer. «Se il mondo dei social è così, in confronto questo Orsini è un genio».

Questa non è un’intervista. Questa è una conversazione privata tra due amiche, al termine della quale una delle due dice «ma queste cose posso scriverle?», e l’altra risponde «tanto mi sgridano già».

Sono tre giorni che penso a Natalia, che mi dice da sempre che lei degli anni della seconda guerra mondiale ha i ricordi che si hanno d’un’infanzia normale («io mi ricordo che avevo giornate felici, giocavo, certo poi la notte dormivamo in cantina»). Sì, come nei trenta secondi di tv che sono il penultimo scandale du jour pervenuto. Né lei né io guardiamo i talk-show, quindi la cosa più complicata è spiegare l’una all’altra chi sia il professor Orsini («quello che sembra Nosferatu») e cos’abbia detto. Siamo d’accordo già prima di cominciare che il problema sia la formula televisiva italiana, più che lo specifico Orsini. «Non c’è nessuna etica in chi fa quel mestiere: è vero che devi avere tanti spettatori, ma riducendo un popolo a un’ignoranza bestiale?»; anche se di Orsini «mi piace l’accanimento con cui si ostina a essere sé stesso».

Mi sacrifico io a guardare (un pezzetto di) Cartabianca. La prima cosa che noto è che Alessandro Orsini, come la più parte dei docenti universitari, ha un italiano assai traballante. Dice «alzare» con la zeta dolce, dice «molto tragico». (Sono una grande utilizzatrice di accrescitivi per i superlativi, ma io sono consapevole che una maestra elementare mi segnerebbe con la matita blu ogni «stupendissimo»; mi sbaglierò, ma mi pare che Orsini non abbia la stessa consapevolezza rispetto ai propri «molto tragico»).

Ma sto divagando (strano). Dunque collegato con Bianca Berlinguer c’è lo scandaloso Orsini (uno che non sapevamo chi fosse fino a un attimo fa, e di cui ci saremo dimenticati finito il suo attimo di fama: rileggerò tra dieci anni questo articolo e il suo nome mi farà l’effetto di quello di Sonia Cassiani); e a un certo punto dice quel che diventerà ritaglio per il quale scandalizzarsi sui social. Trascrivo, casomai non foste passati da nessuna piattaforma negli ultimi giorni.

C’è Antonio Caprarica che dice: «Non si dà il caso di popoli oppressi con un’infanzia felice. Non c’è infanzia felice nelle dittature». C’è Orsini che risponde: «L’Italia, fino al 1945, non è stata mai una democrazia liberale, e mio nonno ha avuto un’infanzia felice».

Apriti cielo, apriti social: mio nonno è tornato da Birkenau di trenta chili, mio padre non lavorava perché s’era rifiutato di prendere la tessera del partito fascista, tu a noi infanzia felice non ce lo dici capitoooo.

(Nota fattuale a margine: Repubblica – e non è certo l’unica testata a farlo, solo quella che ho aperto per prima – titola il ritaglio video «Mio nonno ha avuto un’infanzia felice sotto il fascismo»; ma Orsini non dice mai che sta parlando del fascismo, e dubito si riferisca a quegli anni, considerato che è del ’75, e che suo nonno sarà stato bambino nei primi anni del Novecento. E questo è tutto quel che ho da dire su un paese che ha lo stesso sprezzo per i virgolettati e per la matematica).

La prima cosa che penso è: ma certo che era felice, mica aveva un’infanzia non in guerra cui paragonare la propria, quando sei piccolo qualunque condizione tu viva ti sembra la norma. La seconda cosa cui penso è: e infatti Natalia dice sempre che era felice, durante la guerra. Si vede che Caprarica non l’ha avvisata. E quindi la chiamo.

«I bambini passano il tempo a giocare alla guerra. È l’unico gioco che i maschi pirla piccoli fanno. Film, giochi: passano la vita ad ammazzarsi tra di loro. Forse bisogna spiegargli che esiste davvero». Mi viene in mente quella volta che intervistai Madonna, il figlio Rocco era piccolo, mi disse che erano stati attentissimi a non fargli vedere film di guerra, a non comprargli armi giocattolo, ma un giorno quello aveva comunque imbracciato un oggetto oblungo e si era messo a fingere fosse un mitra. Non interrompo Natalia citandole Madonna, sta sbuffando contro gli psicologi: «Adesso son lì che dicono che questi bambini tutta la vita saranno dei disgraziati, ma cosa ne sai, ma perché».

Dice Natalia dei talk-show che «La vecchiaia o l’aver vissuto in altre epoche non mi fa capire queste cose, accetto di non capire, non è che pensi d’aver ragione io», e naturalmente ha ragione e lo sa, ma mi sembra più interessante quel che dice della sua vita tra i dieci e i quindici anni, della sua vita in guerra.

«Io avevo un solo problema: che non mangiavamo, perché non c’era da mangiare. Quindi, oltre a essere magrissima, il che rimpiango, avevo sempre fame. L’unica cosa che mi è rimasta della guerra è che non posso lasciare nel piatto nulla, perché se ne metto un cucchiaio o venti li mangio tutti. Poi non è che fossi così piccola, quand’è finita la guerra avevo quindici anni, avevo già avuto l’adolescenza, le danze, i flirt. Non mi ricordo l’orrore: sarò rincoglionita. Oh, ma facevo le medie, andavo a scuola, andavo a pattinare, passavo in una strada dove tutti i giorni c’era un vecchio con la patta aperta: la guardavo, e poi proseguivo. Nel campo sportivo suonava l’allarme antiaereo, mi toglievo i pattini, e andavo a cercare il primo rifugio. Ci son passata ieri, era in via Verga. Forse è anche che dove abitavamo noi non c’era tanta devastazione. L’unica casa crollata che ho visto era la palazzina gemella nostra, e infatti noi abbiamo dovuto ospitare, era obbligatorio, le famiglie che avevan perso la casa. Avevo una signora che allevava le galline sul nostro balcone: non ci ha mai dato un uovo».

"Perché è stato scelto lui e non c'è una rotazione?" Lo show di Orsini a Cartabianca tra fascismo e mamme di Mariupol, Anzaldi: “Siamo passati da Enzo Biagi a un opinionista sconosciuto”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

A Carabianca scopriamo che il nonno di Alessandro Orsini “ha avuto un’infanzia felice durante il fascismo” e che le donne ucraine che si trovano a Mariupol, assediata da settimane dai russi e quasi del tutto conquistata, scrivono al professore della Luiss per chiedergli di fermare la guerra e fermare l’invio di armi a Kiev. Guerra che la “Russia, piuttosto che perdere, lancerà bombe atomiche” così “rischiamo un’ecatombe”. Nuove polemiche dopo l’ennesima performance di Orsini nella trasmissione condotta su Rai tre da Bianca Berlinguer. Le parole del professore e collaboratore de Il Fatto Quotidiano hanno suscitato indignazione sui social e sui media, scatenando anche la reazione della vigilanza Rai che da tempo segnala “lo spettacolo teatrale dell’opinionista” con l’obiettivo di ottenere un “mezzo punto di share” in più.

Raggiunto dal Riformista, Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, sottolinea le parole “populiste, da ultimo della classe” di Orsini che da settimane è ospite fisso a Cartabianca dove l’unico assente è un vero e sano contraddittorio.

Onorevole Anzaldi, cosa l’ha turbata delle dichiarazioni del professor Orsini a Cartabianca sul fascismo?

“Mi sembra che prima di tutti siano stati turbati i telespettatori, che hanno protestato sui social, e poi la stampa che ha ripreso quelle parole indegne sul fascismo, io sono intervenuto dopo. È evidente che il messaggio che passa dalle parole di Orsini è un’esaltazione, una normalizzazione del regime fascista, un messaggio inaccettabile su una rete pubblica, a maggior ragione a poche ore dalla celebrazione del 25 aprile. Il fascismo è stato un regime dittatoriale che ha privato della libertà tutti gli italiani, che ha perseguitato ebrei, comunisti, socialisti, omosessuali, che ha avallato e condiviso la Shoah di Hitler. È inaccettabile che si possa sentirne parlare in quei termini. Siamo passati dalla Rai di Enzo Biagi in prima serata e dei film come ‘Una giornata particolare’ di Scola, che informavano e ricordavano agli italiani cosa avesse rappresentato il fascismo, alla prima serata di Rai3 che spiega quanto si vivesse bene sotto Mussolini”.

Crede che Orsini sia stato sprovveduto?

“Non so se Orsini si sia reso conto dell’inaccettabile messaggio che ha trasmesso, ma è la conseguenza di una precisa scelta editoriale della trasmissione: dare uno spazio enorme e senza contrappesi ad un opinionista fino a qualche settimana fa sconosciuto, che la conduttrice avrebbe addirittura voluto retribuire. Perché è stato scelto proprio Orsini? Perché non c’è una rotazione degli opinionisti, come propone la commissione di Vigilanza? Se Orsini l’ha fatto di proposito, lo scenario che si apre è gravissimo, ovvero apologia di fascismo. Se l’ha fatto senza rendersene conto, conferma la sua inadeguatezza. Spettacolarizzare a fini di audience una tematica delicata come la guerra porta a queste conseguenze, sono incomprensibili le ragioni che spingono il servizio pubblico ad avallare una simile tv. Tra l’altro non c’è solo fascismo, da attacchi all’Unione Europea, al Governo italiano, al presidente Draghi: un opinionista chiamato in qualità di esperto dovrebbe dare elementi per riflettere o dovrebbe fare propaganda politica? Attendiamo una risposta anche dall’Agcom, di cui si sono perse le tracce da mesi”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

"Perché è stato scelto lui e non c'è una rotazione?" Lo show di Orsini a Cartabianca tra fascismo e mamme di Mariupol, Anzaldi: “Siamo passati da Enzo Biagi a un opinionista sconosciuto”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

A Cartabianca scopriamo che il nonno di Alessandro Orsini “ha avuto un’infanzia felice durante il fascismo” e che le donne ucraine che si trovano a Mariupol, assediata da settimane dai russi e quasi del tutto conquistata, scrivono al professore della Luiss per chiedergli di fermare la guerra e fermare l’invio di armi a Kiev. Guerra che la “Russia, piuttosto che perdere, lancerà bombe atomiche” così “rischiamo un’ecatombe”. Nuove polemiche dopo l’ennesima performance di Orsini nella trasmissione condotta su Rai tre da Bianca Berlinguer. Le parole del professore e collaboratore de Il Fatto Quotidiano hanno suscitato indignazione sui social e sui media, scatenando anche la reazione della vigilanza Rai che da tempo segnala “lo spettacolo teatrale dell’opinionista” con l’obiettivo di ottenere un “mezzo punto di share” in più.

Raggiunto dal Riformista, Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, sottolinea le parole “populiste, da ultimo della classe” di Orsini che da settimane è ospite fisso a Cartabianca dove l’unico assente è un vero e sano contraddittorio.

Onorevole Anzaldi, cosa l’ha turbata delle dichiarazioni del professor Orsini a Cartabianca sul fascismo?

“Mi sembra che prima di tutti siano stati turbati i telespettatori, che hanno protestato sui social, e poi la stampa che ha ripreso quelle parole indegne sul fascismo, io sono intervenuto dopo. È evidente che il messaggio che passa dalle parole di Orsini è un’esaltazione, una normalizzazione del regime fascista, un messaggio inaccettabile su una rete pubblica, a maggior ragione a poche ore dalla celebrazione del 25 aprile. Il fascismo è stato un regime dittatoriale che ha privato della libertà tutti gli italiani, che ha perseguitato ebrei, comunisti, socialisti, omosessuali, che ha avallato e condiviso la Shoah di Hitler. È inaccettabile che si possa sentirne parlare in quei termini. Siamo passati dalla Rai di Enzo Biagi in prima serata e dei film come ‘Una giornata particolare’ di Scola, che informavano e ricordavano agli italiani cosa avesse rappresentato il fascismo, alla prima serata di Rai3 che spiega quanto si vivesse bene sotto Mussolini”.

Crede che Orsini sia stato sprovveduto?

“Non so se Orsini si sia reso conto dell’inaccettabile messaggio che ha trasmesso, ma è la conseguenza di una precisa scelta editoriale della trasmissione: dare uno spazio enorme e senza contrappesi ad un opinionista fino a qualche settimana fa sconosciuto, che la conduttrice avrebbe addirittura voluto retribuire. Perché è stato scelto proprio Orsini? Perché non c’è una rotazione degli opinionisti, come propone la commissione di Vigilanza? Se Orsini l’ha fatto di proposito, lo scenario che si apre è gravissimo, ovvero apologia di fascismo. Se l’ha fatto senza rendersene conto, conferma la sua inadeguatezza. Spettacolarizzare a fini di audience una tematica delicata come la guerra porta a queste conseguenze, sono incomprensibili le ragioni che spingono il servizio pubblico ad avallare una simile tv. Tra l’altro non c’è solo fascismo, da attacchi all’Unione Europea, al Governo italiano, al presidente Draghi: un opinionista chiamato in qualità di esperto dovrebbe dare elementi per riflettere o dovrebbe fare propaganda politica? Attendiamo una risposta anche dall’Agcom, di cui si sono perse le tracce da mesi”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista. 

L'indiscrezione sulle politiche. “Alessandro Orsini candidato con il M5s”, la notizia sul professore che imbarazza il Pd e Letta. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Alessandro Orsini piace così tanto al mondo del Movimento 5 Stelle che si parla di una sua candidatura alle prossime elezioni. Lo scrive il quotidiano Il Foglio in un nuovo capitolo della saga dell’analista geo-politico e sociologo che con le sue posizioni molto critiche con l’Occidente e a favore della resa dell’Ucraina a fronte dell’invasione russa è diventato tra i volti più noti e presenti in televisione a commentare la guerra scatenata da Vladimir Putin.

Orsini dopo la botta di celebrità arrivata soprattutto con le ospitate a Cartabianca, su Rai3, e a Piazza Pulita, su La7, è diventato una firma de Il Fatto Quotidiano. È la voce che dice “tutto quello che non vi dicono” sulla guerra, come dal titolo – slogan trito e ritrito, per niente populista considerata anche la costante presenza in tv dell’esperto – dell’evento organizzato dall’editore del quotidiano di cui sarà protagonista il prossimo 10 maggio al teatro Sala Umberto a Roma. Quella della sua candidatura è un’indiscrezione, al momento non confermata da alcuna fonte – né dal Movimento né dallo stesso professore -, più una suggestione che una possibilità.

Eppure. “Certo! Anzi, la cosa non ci stupirebbe. Sarebbe il nostro nuovo capitan De Falco o Paragone. Personaggi che quando vennero candidati erano popolari e in grado di polarizzare. D’altronde, Casalino ha sempre avuto questo pallino: tv, pop, temi divisivi uguale voti”, si legge su Il Foglio nel passaggio dell’articolo che cita parlamentari grillini in Transatlantico.

E il Partito Democratico è imbarazzato, quantomeno perplesso. Soprattutto dopo il botta e risposta del segretario Enrico Letta che su Twitter ha smentito un articolo dell’esperto della Luiss in cui si leggeva che Letta, con il Presidente del Consiglio Mario Draghi e il Commissario Europeo Paolo Gentiloni, ambisce “a prendere il posto di Stoltenberg come segretario generale della Nato” evidenziando le ragioni dell’“asservimento alle direttive della Nato, contrarie agli interessi nazionali dell’Italia e dell’umanità”.

C’è ancora tempo, manca un anno alle politiche – salvo colpi di scena clamorosi – ma tra i dem già starebbe serpeggiando un certo imbarazzo. “Orsini, con i suoi giudizi strampalati, è ormai diventato un protagonista del circo mediatico. Ritengo plausibile che qualcuno provi a candidarlo. Sarebbe alquanto stravagante che lo facesse un partito dell’attuale maggioranza. Ricordo che tutti i principali provvedimenti adottati dal governo Draghi, tanto vituperati dal professore, sono stati presi all’unanimità. Così la candidatura di Orsini sarebbe veramente lunare, e comunque contro ogni singolo partito di maggioranza”, ha dichiarato l’ex capogruppo Pd in Senato Andrea Marcucci. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 20 aprile 2022.

Primo pomeriggio, Transatlantico semideserto. Parlamentari grillini spiaggiati sui divanetti. C'è chi è divertito, chi è un po' disgustato, chi è molto realista. E' la fotografia dell'attuale M5s. "Certo! Anzi, la cosa non ci stupirebbe. Sarebbe il nostro nuovo capitan De Falco o Paragone. Personaggi che quando vennero candidati erano popolari e in grado di polarizzare. D'altronde, Casalino ha sempre avuto questo pallino: tv, pop, temi divisivi uguale voti".

Più passano i giorni e più la chiacchiera diventa voce attendibile e si veste da ipotesi: e se il M5s candidasse il professor Alessandro Orsini alle politiche? Giuseppe Conte dice che è prematuro di nomi. Ma tra gli alleati del Pd a qualcuno è saltata la mosca al naso. Il tema delle candidature nel M5s è come la kriptonite: l'ex premier non ha ancora sciolto il nodo, non banale, del terzo mandato.

(…) l'attrazione di un pezzo di mondo grillino che conta verso Orsini c'è, eccome. E cresce giorno dopo giorno. (…) Orsini, quando non è ospite in tv a #Cartabianca su Rai3 o a Piazza Pulita su La7, scrive per il Fatto. E proprio il giornale diretto da Marco Travaglio, e molto ascoltato dal capo del M5s, lo ha lanciato sul palco per un monologo sull'ucraina il prossimo 10 maggio, al teatro Sala Umberto. Lo spettacolo è accompagnato in rete dall'espediente del venghino, siori venghino per ascoltare "tutto quello che non vi dicono" sulla guerra. Un richiamo alla vecchia propaganda social di Beppe Grillo, correva l'anno del Signore 2013. Il passo da prof. a on. per Orsini non è impossibile.

I parlamentari del Movimento ne discutono, questo sì, garruli. Conte svicola con chi gli fa battute piene di giusta curiosità. E tutte queste suggestioni si ingrossano fino a far scattare strani campanelli nel Pd, che poi sarebbe l'alleato del M5s, finché proporzionale non li separi.

Ieri Enrico Letta, per la prima volta, è stato costretto a un tweet per smentire un articolo del sociologo della Luiss che tutte le tv si litigano. Non era un pezzo di geopolitica su Putin e Zelensky, ma una roba a metà fra il retroscena e l'editoriale. Il prof. ha accusato il segretario del Pd, ma anche Paolo Gentiloni e Mario Draghi, "di ambire a prendere il posto di Stoltenberg come segretario generale della Nato" evidenziando in questa una delle ragioni dell'"asservimento alle direttive della Nato, contrarie agli interessi nazionali dell'italia e dell'umanità". 

Letta ha negato qualsiasi addebito. Ma al Nazareno hanno iniziato a farsi un po' di domande. Di questo tenore: "Vuoi vedere che ce lo troviamo candidato con i grillini? E come faremmo, in quel caso, a correre insieme al M5s?". (…) 

Lettera a un Orsini mai NATO. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

I l professor ha spiegato più volte che per decrittare il suo pensiero bisogna leggere i suoi libri. Così ne ho letti un paio, e per soprammercato ho letto alcuni suoi articoli, compreso l’ultimo, in cui intende «diffondere un minimo di serenità» circa i rischi di guerra nucleare. Orsini esordisce sostenendo che «per piegare gli ucraini» a Putin bastano e avanzano le armi convenzionali. Però poi, con quel modo sinuoso di argomentare che definirei «logica di San Damiano» (tira la pietra e nascondi la mano) afferma che, anche nel caso in cui la Russia lanciasse l’atomica sull’Ucraina, gli Stati Uniti non risponderebbero. La qual cosa, in effetti, ci rasserenerebbe tantissimo, se fossimo russi. Quel che più colpisce, nell’implacabile dipanarsi del pensiero , è il suo disinteresse per tutto ciò che non sia un interesse, economico o militare. Le aspirazioni dei popoli, per esempio. Il fatto che i Paesi dell’Est abbiano scelto liberamente di mettersi sotto l’ombrello della Nato. O che gli ucraini, sempre per esempio, non vogliano rinunciare alla loro libertà, neanche a costo della vita, e nonostante che a chiederglielo sia il professor Orsini. Credo dipenda dal fatto che il professore ha letto bene i suoi libri, ma con minore attenzione quelli di un altro studioso come lui, che, per quanto meno colto di lui (non era neanche docente universitario), sosteneva una tesi più coraggiosa: la Storia non è solo geopolitica, la Storia è storia di lotta per la libertà. Si chiamava Benedetto Croce.

L’equivoco Orsini: non è pluralismo, è incompetenza…La presenza di Orsini in tv non è sintomo di pluralismo, ma di povertà del livello del nostro dibattito che si sposta sempre più in basso, in basso, in basso... Davide Varì su Il Dubbio il 9 aprile 2022.

E ora passiamo all’equivoco Orsini. Il censurato più presenzialista della storia dell’informazione italiana è infatti diventato il martire della controinformazione, quella secondo cui all’origine della guerra non ci sarebbe Putin col suo battaglione di oligarchi ma bensì la Nato.

La storia è nota: secondo i teologi della geopolitica, lo spostamento sempre più a Est dell’alleanza atlantica avrebbe generato nell’animo più profondo del popolo russo una sorta di sindrome da accerchiamento, tale da rendere “inevitabile” l’invasione dell’Ucraina. E di fronte a questa singolare argomentazione, qualche incauto e zelante censore (vedere dalle parti di Italia Viva) ha accusato Orsini di filoputinismo chiedendo alla Rai la sua immediata rimozione. Errore marchiano: in questo modo Orsini ha avuto buon gioco nel presentarsi come vittima della “censura di regime”. Il nostro “regime”, non quello di Putin (sic!).

Ma è chiaro che siamo di fronte a un equivoco. Il problema del professore non è certo il suo presunto putinismo, ma la sua evidente incompetenza sulle questioni russe accompagnata da una modesta capacità di analisi politica: alle Frattocchie non avrebbe superato il primo anno. Volete una prova delle sue astruse teorie? Non più di qualche giorno fa, non so bene in quale delle trasmissioni in cui disegna scenari e abbozza visioni, il professore andava spiegando che l’Italia dovrebbe riconoscere in modo unilaterale l’indipendenza del Donbass dall’Ucraina. Ma vi immaginate? In piena guerra e in un mondo diviso di nuovo in blocchi, la piccola Italia, provincia dell’impero, dovrebbe rompere con la Nato, e forse anche con l’Ue, per regalare il Donbass a Putin. A che titolo e con quale credibilità non è dato sapere. E tutto questo per il bene dei bambini che, sempre secondo il buon Orsini, vivono meglio in una dittatura piuttosto che in guerra.

Insomma, occorre uscire dall’equivoco: la presenza di incompetenti in tv non è sintomo di pluralismo ma il segno della povertà del livello del nostro dibattito che si sposta sempre più in basso, in basso, in basso… Lì dove gli Orsini sguazzano.

“Contro i poteri forti”. Alessandro Orsini è incontenibile: sono un guerriero, voglio creare un'Italia libera. Il Tempo il 03 aprile 2022.

Alessandro Orsini studia da leader. Fuori dagli studi televisivi, ospite d’onore del quarto incontro della commissione Du.Pre (Dubbio e Precauzione), passa al contrattacco. Accusato di essere putiniano, al centro di un caso che interessa politica e informazione, prova a saldare le «persone molto belle» accorse ad ascoltarlo a Roma, a Testaccio, o online: «I miei calunniatori mi danno della vittima, ma io sono un guerriero, forgiato nello scontro e nella lotta, non ho paura dei poteri forti che potrebbero colpirmi. Io non ho paura di Draghi, dei suoi ministri, non ho paura di tutti i parlamentari e di tutte le università che mi attaccano. Non sono una vittima, sono un guerriero della cultura e continuerò a parlare tutti i giorni. Chiedo ai miei volgari calunniatori cos’altro devo fare per farvi capire che non ho paura di nessuno? Devo forse insultare Draghi o tutti i suoi ministri? Non capite che questo è il senso profondo della vita di uno studioso? È l’esempio pedagogico che un professore deve dare agli studenti. Io vivo per la famiglia. Ho una macchina scassata, faccio una vita semplicissima. Che mi vogliono togliere? Provo tristezza per questi poverini». 

Il suo orizzonte non si limita al dibattito sull’Ucraina, è più lontano: «L’obiettivo che perseguo è una comunità politica che discuta di qualsiasi argomento liberamente, senza violenze e minacce, che non si faccia corrompere da offerte economiche. Se vogliamo raggiungere degli obiettivi non dobbiamo lasciarci sopraffare. Non bastano gli sfoghi, serve una strategia. Dobbiamo studiare le mosse per raggiungere l’obiettivo». Un movimento, un partito? Orsini risponde: «Oggi ci sono battaglie e guerre nel mondo della cultura. Voglio cogliere le opportunità strategiche che la guerra in Ucraina offre al nostro Paese. Voglio creare un Paese più libero». 

Orsini si sente accerchiato: «Sono stato aggredito, intimidito, minacciato, spaventato, assediato, ma non bisogna essere emotivi perché dobbiamo fronteggiare e contrattaccare delle forze potentissime. Faccio tutto questo per formare il mio Paese, perché io sono riconoscente allo Stato per quello che ha fatto per me, per aver pagato i miei studi». Orsini annuncia un manifesto «per la pace con cinque proposte a Draghi per uscire da questo inferno. Esiste un’alternativa alla politica del governo che sta facendo scelte deleterie che spazzeranno via tante aziende italiane e porteranno un’ondata di disoccupazione. Con un’interpretazione alternativa tu rendi il governo criticabile, così si crea un Paese libero». Per il professore associato nel dipartimento di Scienze politiche della Luiss la sua vicenda non è cosa da poco: «Io un estremista? Ho inventato un modo nuovo di fare sanzioni per salvare la vita dei bambini. I giornalisti non mi rispondono nel merito, mi danno dell’incapace e incompetente, sono disumani, degli sciacalli a cui non interessa della vita dei bambini. Se perdo - conclude Orsini - il lavoro torno a fare il cameriere, so fare tutto, so pulire i bagni».

Talk show Ucraina, Vittorio Sgarbi fa a pezzi Lilli Gruber: "La più faziosa". Mentana e Formigli, che bordate. Il Tempo il 7 marzo 2022

Enrico Mentana? È come Vladimir Putin: "occupa gli spazi di tutti". Vittorio Sgarbi a valanga sui protagonisti del talk show h24 dedicato alla guerra in Ucraina. Il critico d'arte e parlamentare del gruppo misto ha dato i volti ai giornalisti tv che raccontano da undici giorni l'invasione russa. Per Sgarbi il numero uno è Nicola Porro, "l'unico non schierato. E' evidente che Putin ha torto in quanto ha iniziato questa azione militare, ma quante guerre hanno fatto gli Stati Uniti? Pensiamo solo all'Iraq, alla Libia, all'Afghanistan..." argomenta Sgarbi. 

Il sottotetto, è che altri invece sono schierati a prescindere. Come Lilli Gruber e il suo Otto e Mezzo su La7: "La sua è la peggiore trasmissione televisiva per contenuti e ospiti, ma è la migliore come ritmo". In ogni caso "è la trasmissione più tendenziosa di tutte. Lei ha già la verità in tasca, però il suo ritmo narrativo è intelligente grazie al fatto che ha pochi ospiti", spiega il critico d'arte ad Affaritaliani. 

Meglio Barbara Palombelli, "l'anti-Gruber", mentre "Mentana è come Putin". Con le sue maratone occupa gli spazi degli altri. Con l'elezione del presidente della Repubblica, ad esempio, ha occupato lo spazio di Myrta Merlino, un'altra che ha già le risposte in tasca" attacca Sgarbi. Il direttore del Tg La7 "si comporta esattamente come Putin, lui occupa lo spazio degli altri, nel caso del Quirinale per 15 ore dicendo sempre le stesse cose noiose. Perfino la povera Tiziana Panella è diventata sua ospite".

Siluri anche a Giovanni Floris ("Un ragazzo sensibile, è come Zelensky,") e Corrado Formigli ("una Gruber di serie B"). Stringendo, ecco la classifica sgarbiana: come detto vince Porro, poi ecco Massimo Giletti,  Veronica Gentili, Palombelli, Concita De Gregorio, Brindisi, Floris, Formigli, Mentana. Fanalino di coda come facilmente intuibile la Gruber. 

Giampiero Valenza per ilmessaggero.it il 7 marzo 2022.

È la prima guerra nella storia dell’uomo che si fa (anche) con i minivideo virali di TikTok. Il social media cinese ha annunciato che non farà trasmettere più live dalla Russia per un principio di precauzione. Ma intanto, nel resto del mondo, il conflitto diventa virale. L’hashtag Ukraine a più di 23.3 miliardi di visualizzazioni. Ucraina, dunque il suo hashtag italiano, ne ha 881 milioni. 

«Come piattaforma, questa guerra ci ha sfidato a confrontarci con un ambiente complesso e in rapido cambiamento mentre cerchiamo di essere una rete, una finestra e un ponte per le persone in tutto il mondo». dicono dal social. «TikTok è uno sbocco per la creatività e l'intrattenimento che può fornire una fonte di sollievo e connessioni umane durante un periodo di guerra in cui le persone affrontano un'immensa tragedia e isolamento - dicono - Tuttavia, la nostra massima priorità è la sicurezza dei nostri dipendenti e dei nostri utenti e, alla luce della nuova legge russa sulle Fake news, non abbiamo altra scelta che sospendere il live streaming e i nuovi contenuti per il nostro servizio video in Russia mentre esaminiamo le implicazioni per la sicurezza di questa norma».

Il racconto su TikTok

@giacomo_panozzo con il suo “Tuffo nel passato”, racconta le motivazioni storiche attorno al conflitto tra Ucraina e Russia. Poi c’è @gianmarizzo, che sta affrontando il tema parlando anche dei profili dei due leader di Russia e Ucraina. @Will_ita sta descrivendo, in sintesi, gli attacchi in Ucraina. Ma prima ha descritto le origini di Vladimir Putin e la vita di Volodymyr Zelensky. Il giovane tiktoker @diegofusina ha risposto alla domanda “Ma è vero che noi giovani italiani saremo reclutati durante la guerra?”.

L’avvocato Angelo Greco, noto per postare mini-video su temi legali, sta cercando di raccontare il diritto internazionale sul suo profilo @angelogrecoofficial. @stellac.real aggiorna la cronaca presentando anche temi di scenario più virali, rispondendo a questioni come “L’Italia entrerà in guerra?” o descrivendo alcune simulazioni del conflitto. @torcha, che racconta quotidianamente la cronaca, spiega il conflitto. In uno dei video pubblica i consigli dello psicologo su come gestire l’ansia a seguito delle notizie che arrivano dall’area di crisi.

Molto virali sono i video di Alessandro Barbero, dove il docente dell’Università del Piemonte Orientale, racconta il profilo storico dei rapporti tra Ucraina e Russia. Anyta (@anytainshere), tiktoker russa d’origine ucraina, che ha anche partecipato a Italia’s Got Talent, racconta quale sia la situazione nel Paese. «Sono preoccupata perché c’è molta tensione, si vedono passare tutti i giorni i carri armati, come se fosse normale. In alcune città ci sono tantissimi rifugiati che vengono dalla zona del Donbass», racconta, lanciato un appello alla pace.

Poi ci sono molti ucraini che stanno raccontando la guerra. Come @alexhook2323, arruolato tra le forze militari di Kiev. O @valerissh che prima ha fatto vedere i danni dei bombardamenti e poi la vita in un rifugio antiaereo con i genitori. Nataly con il suo account @chernobyl_guide mostra le immagini di Chernobyl. Alina (@alina_volik) mostra le immagini dell’Ucraina prima dell’inizio del conflitto e racconta questi giorni di invasione.

Attenzione ai fake

Su TikTok, però, in molti hanno postato video mettendo Live fatti da profili fake con sirene che danno l’allarme antiaereo e immagini ripetute. Durante la pseudo-diretta chiedono contributi economici. Le trasmissioni arrivano nei “per te” (quindi, nella selezione che suggerisce lo stesso TikTok con il suo algoritmo) facendo cadere tanti nel tranello.

Da parte russa, molti influencer filo-russi hanno pronunciato tutti uno stesso appello difendendo le scelte di Mosca. Questi video sono stati messi a confronto dagli stessi utenti social per dimostrare come le parole fossero davvero identiche. E nella rete c’è già chi pensa come sia al centro di un’operazione di propaganda per giustificare la missione militare.

La guerra Russia-Ucraina. Da invasori ad aggrediti, la guerra come non l’abbiamo mai vista solo ora ci indigna. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

L’informazione sulla guerra di Ucraina è di ottimo livello. Perché? Perché è realizzata dalla parte degli aggrediti, di quelli che subiscono l’invasione e i bombardamenti. È la prima volta che succede. Per noi italiani è una assoluta novità. Mi ricordo la guerra in Serbia, alla quale partecipò anche la nostra aviazione e poi il nostro esercito. Gli invasori eravamo noi. L’informazione non si soffermò molto sugli effetti devastanti della guerra sulle popolazioni civili. Ero a Belgrado, ma spesso al mio giornale non piacevano gli articoli che proponevo, o che inviavo.

Preferivano una informazione più ufficiale. Volevano sapere il numero dei raid, gli obiettivi colpiti e magari qualcosa sulle difficoltà del governo di Belgrado. Di bombe a grappolo era meglio tacere. Eppure c’erano. Molti bambini ne restavano vittime. Le bombe a grappolo sono un’arma atroce e vigliacca. Oggi, finalmente, lo sappiamo, perché anche gli americani si indignano per quelle russe. Loro però ne gettavano tante, in silenzio. Poi ci fu l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Precedute da bombardamenti a tappeto. Furono usate anche le bombe al fosforo, quelle che gli inglesi, 60 anni prima, avevano usato per bruciare Dresda, senza motivo. La nostra informazione era molto sobria, anche in quell’occasione. Gran parte dei giornalisti erano “embedded”, termine inglese che vuol dire incorporati. Cioè, viaggiavano con l’esercito invasore, quello degli americani e dei loro alleati. Chiaro che se sei un giornalista embedded non puoi occuparti molto dei nemici. Dei perdenti.

Stavolta le parti sono invertite. Invadono i russi. Bombardano i russi. I nostri sono gli ucraini, che provano a difendersi a fucilate, o con le molotov o con i cavalli di frisia. L’altro giorno ho sentito che stavano piazzando i cavalli di frisia nelle strade per fermare i carri armati. Sapete cosa sono i cavalli di Frisia? Filo spinato arrotolato a grandi cerchi. Fermano facilmente una manifestazione di studenti. Un carro armato li appallottola in un paio di minuti. Finalmente vediamo le cose che non ci hanno fatto mai vedere. Siamo dalla parte dei perdenti. Anche i profughi che partono, piangendo, soffrendo, gridando. Scappano dalla morte e non sanno dove andranno. E i bambini piangono anche loro, tristi, sperduti, e hanno paura. Oppure piangono e hanno paura mentre le mamme li trascinano nei rifugi anti-aerei e anti-missile.  Hanno perso gli amichetti, la scuola, il papà. Non capiscono che succede, vorrebbero giocare. Ma la casa è crollata, e la Tv, finalmente, ce lo fa vedere. Le bombe quando cadono non fanno politica, distruggono e fanno morte.

È una grande novità. Sono cose che non erano mai entrate nella nostra immaginazione. Anche il pacifismo, in gran parte, da noi è stato solo ideologico o di buonsenso. Non partiva dalle emozioni, dall’empatia. Ora si sono rovesciati i valori e i giudizi. A me importa poco che in tutto questo ci sia molta ipocrisia. Che ci si dimentichi di quel che siamo stati noi, di quel che abbiamo fatto noi, della arroganza con la quale pretendevamo di avere la ragione e la civiltà dalla nostra parte mentre sterminavamo popolazioni civili inermi. Mi interessa il rovesciamento. Soprattutto perché ho l’impressione che non potremo più tornare indietro. Far finta di non sapere. Scordarci il pianto. La guerra, amici miei, è così come ce la stanno facendo vedere. I profughi non sono lestofanti, sono povere persone da aiutare. Ucraini, Afghani, Siriani, è la stessa cosa. Ce lo ricorderemo tra un anno? Speriamo di sì.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Social War, i pericoli delle grandi piattaforme schierate contro la Russia. ERNESTO BELISARIO su Il Domani il 06 marzo 2022.

È anche grazie ai social che possiamo restare informati sugli ultimi aggiornamenti e prendere posizione contro quello che sta accadendo.

Non possiamo però commettere l’errore di considerare le piattaforme neutrali in questo conflitto.

I social si sono schierati e partecipano ad un nuovo tipo di conflitto. Molti diranno che si sono schierati dalla parte giusta. Ed è vero. Ma questa osservazione non può distrarci dal riflettere sul fatto che quello che stiamo vivendo rischia di rappresentare un pericoloso precedente. ERNESTO BELISARIO

La mappa sbagliata: scoppia il caso sul libro a scuola. Francesca Galici il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

Una cartina ferma al 1989 e imprecisioni storiche: dopo la denuncia di una madre ucraina, la casa editrice promette di ristampare il libro.

I fari del mondo sono tutti puntati sull'Ucraina e non è facile spiegare, soprattutto ai più piccoli, perché in questo momento sia in corso una guerra in Europa. Il supporto dei libri di testo in questo caso è fondamentale per dare ai giovanissimi una prima idea, facendo ricorso alla geografia e alla storia del Novecento. Ma una donna ucraina, sposata con un italiano e da molti anni residente nel nostro Paese, ha denunciato errori nei libri in uso nelle scuole del nostro Paese.

Tetyana Bezruchenko Ceppici è originaria del Donbass e ha due figlie e una di queste frequenta la scuola delle Marcelline di Milano, dove viene adoperato un manuale di geografia Garzanti Dea, edizione 2019, che risulta essere molto poco accurato proprio nella parte relativa alla Russia e all'Europa dell'est. "Non parlerei di mancato aggiornamento, ma di una versione singolare della realtà politica recente che sembra riprodurre la propaganda del Cremlino", ha detto Tetyana Bezruchenko Ceppici a il Messaggero. La donna in questi giorni è molto attiva per dare un aiuto concreto al suo Paese e alla sua città, Mariupol, ormai completamente distrutta dalla guerra.

"L'autore di questo manuale di geografia (Alberto Fré. Namaskar, Europa volume 2, DeaScuola Garzanti Scuola) descrive i fatti recenti trascurando completamente l'obiettività", spiega ancora la donna. Nel manuale indicato da Tetyana Bezruchenko Ceppici c'è una carta geografica non accurata: "Quando abbiamo ricevuto i libri di testo, ho scoperto con mia figlia questa piantina e ho letto che la Regione russa include gli stati baltici, Estonia, Lituania, Lettonia, la Bielorussia, l'Ucraina e la Moldova, come se fossimo ancora al 1989, e che la popolazione della Repubblica federale russa è di 146 milioni e 544 mila abitanti, e include la Repubblica di Crimea e di Sebastopoli".

A Mariupol, come spiega la stessa Tetyana, vive ancora sua madre, che in questi giorni di combattimenti ha trovato rifugio nella cantina della sua casa con pochi viveri e coperte. Suo fratello invece, risiede a Irpin, anche questa città ormai assediata dai russi. "Mi sembra di venire defraudata di una parte di me, come quando arrivata in Italia ho scoperto che molte delle verità che ci venivano conculcate non erano altro che propaganda, pura propaganda in nome dell'ideologia", ha detto ancora la donna. Come riferisce il Messaggero, la casa editrice ha fatto sapere che provvederà a effettuare una ristampa corretta del libro mentre il docente della scuola frequentata dalla figlia di Tetyana Bezruchenko Ceppici ha assicurato che durante la lezione correggerà gli errori del libro.

Dagospia il 6 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo: “La casa editrice D Scuola ha a cuore, attraverso i propri libri, di proporre contenuti sempre corretti, esaurienti e adeguati a ragazze e ragazzi dei diversi ordini di scuola. Per questo motivo è sempre disponibile a un confronto aperto con tutti i propri interlocutori affinché le informazioni veicolate siano il più possibile imparziali. 

In merito alla definizione di “Regione Russa” usata in una edizione del 2019 del volume Namaskar 2, la casa editrice segnala che il termine “regione” deve intendersi convenzionalmente come area geografica, come ad esempio accade nello stesso volume per la penisola iberica o per l'arcipelago britannico: i diversi stati vengono così inseriti all'interno di zone geografiche, con i confini politici sempre debitamente evidenziati. 

Pur non avendo ricevuto alcuna lettera dall'Ambasciata d’Ucraina in merito a questo tema, D Scuola segnala che ha intrapreso autonomamente l’aggiornamento e modifica della dicitura “Regione Russa” nella versione digitale del libro di testo, sostituendola con i nomi dei singoli stati, tra cui, naturalmente, l’Ucraina. 

Una ristampa del libro cartaceo sta per essere pubblicata, e siamo disponibili ad ascoltare ed accogliere le istanze che ci verranno espresse dai rappresentanti dell’Ambasciata d’Ucraina quando prenderanno contatto diretto con noi. 

La casa editrice si scusa se involontariamente ha urtato la sensibilità dei lettori e ribadisce la propria disponibilità immediata.” Ufficio stampa D Scuola 

Marina Valensise per “il Messaggero” il 6 marzo 2022.

Non è solo Putin a falsificare la storia dell'Ucraina, ma anche certi libri di testo in uso nelle scuole italiane. La denuncia viene da una ucraina russofona del Donbass, sposata da vent' anni con un ingegnere italiano, e madre di due figlie, una delle quali, oggi dodicenne, frequenta a Milano la seconda media dalle Marcelline di Piazza Tommaseo, e studia la geografia su un manuale Garzanti DEA pubblicato nel 2019, ma stranamente poco aggiornato alla realtà politica.  

«Non parlerei di mancato aggiornamento, ma di una versione singolare della realtà politica recente che sembra riprodurre la propaganda del Cremlino», dice Tetyana Bezruchenko Ceppici, che ha particolarmente a cuore la questione e da quando l'Ucraina è stata invasa dall'esercito russo, si mobilita per denunciare le storture che rischiano di deformare il giudizio delle giovani generazioni. 

«L'autore di questo manuale di geografia (Alberto Fré. Namaskar, Europa volume 2, DeaScuola Garzanti Scuola) descrive i fatti recenti trascurando completamente l'obiettività» insiste Tetyana Bezruchenko Ceppici. Difficile darle torto. A pagina 246, in effetti, il paragrafo su la Regione russa è pieno di inesattezze, a cominciare dalla cartina geografica: «Quando abbiamo ricevuto i libri di testo, ho scoperto con mia figlia questa piantina e ho letto che la Regione russa include gli stati baltici, Estonia, Lituania, Lettonia, la Bielorussia, l'Ucraina e la Moldova, come se fossimo ancora al 1989, e che la popolazione della Repubblica federale russa è di 146 milioni e 544 mila abitanti, e include la Repubblica di Crimea e di Sebastopoli». 

Quanto all'Ucraina, un'ucraina russofona vissuta nel Donbass come lei non riesce quasi a credere quello che si legge in questo manuale e cioè che «le regioni orientali del Paese a forte minoranza russa hanno seguito l'esempio della Crimea, iniziando a reclamare la propria autonomia, sostenute dalla Russia».  

Nata nel 1972 a Mariupol, importante porto siderurgico sul Mar di Azov, oggi bersagliato dalle bombe di Putin, dove sua madre settantenne sopravvive nella cantina di casa con scorte di pane e acqua, telefonando due volte al giorno al figlio che abita a Irpin per dirgli che è ancora viva, Tetyana Bezruchenko Ceppici ha vissuto sulla sua pelle la disinformazione sovietica e la liberazione mentale dall'ideologia dopo il crollo dell'Urss. «Mi sembra di venire defraudata di una parte di me, come quando arrivata in Italia ho scoperto che molte delle verità che ci venivano conculcate non erano altro che propaganda, pura propaganda in nome dell'ideologia». 

 E comincia a raccontare almeno tre episodi che lasciano esterrefatti e aiutano a capire la nube di intossicazione ideologica che ancora avvolge il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, e quanti come lui non hanno ancora preso coscienza del cambio di passo imposto dalla storia: «Da bambina, sognavo di adottare un piccolo bambino americano per sottrarlo alle ingiustizie del capitalismo e offrirgli quello che avevamo noi in Urss. 

Più tardi, quando sono arrivata a Milano, e ho cominciato a studiare l'italiano, a chi mi domandava chi ha inventato la radio, rispondevo Popov. Non avevo mai sentito parlare di Marconi, e mi sembrava un insulto vedermi defraudare del nostro eroe nazionale, a vantaggio di uno sconosciuto scienziato italiano. Più tardi, ho capito che l'insulto vero era un altro, era quello della falsificazione sovietica. E infine solo in anni recenti ho scoperto l'altra impostura sovietica ai danni del Pinocchio di Collodi.  

In Russia la favola italiana circola sotto mentite spoglie, grazie al plagio di Alexiei Tolstoi, che cinquant' anni dopo, nel 1936, pubblicò Buratino, riscrivendo le avventure di Pinocchio a uso e consumo dei bambini sovietici, a costo di amputarne l'umanità, il valore dell'amicizia, della riconoscenza, e l'importanza di questi valori nella crescita di un individuo».  

Quanto al manuale di geografia, la lettera di protesta da parte dell'Ambasciatore dell'Ucraina in Italia sembra non essere mai pervenuta alla casa editrice D Scuola, che assicura però di aver intrapreso la modifica nella versione digitale, e promette una ristampa corretta. Mentre dalle Marcelline di Piazza Tommaseo, in attesa di una nuova edizione o di un altro libro di testo, il prof di Geografia, Simone de Rose, ha risposto al reclamo di Tetyana Berzuchenco assicurando di correggere nelle lezioni le molte imprecisioni del manuale di Alberto Fré sulla Regione russa.

Fake news, dall'asilo bombardato dagli ucraini al nazismo delle autorità di Kiev: è caccia ai “miti di guerra”. È il risultato di un’analisi del NewsGuard, un’organizzazione con sede negli Stati Uniti che monitora l’affidabilità delle notizie e dei siti web di informazione. Simona Antonucci Venerdì 4 Marzo 2022 su il messaggero.it

Sabotatori di lingua polacca o l’asilo bombardato a Luhansk dalle forze ucraine, armi biologiche in Europa orientale o basi nato a Odessa. Sarebbero tutte fake news, “miti di guerra” scoppiati insieme con il conflitto tra Russia e Ucraina. In particolare, le affermazioni sul genocidio e le autorità di Kiev che sostengono il nazismo sarebbero tra le falsità più comuni diffuse online.

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L'ANALISI

È il risultato di un’analisi del NewsGuard, un’organizzazione con sede negli Stati Uniti che monitora l’affidabilità delle notizie e dei siti web di informazione, perché nel divulgare narrazioni ingannevoli, alle fonti dei media statali russi si sarebbero aggiunti siti meno noti.

E così, in questi drammatici giorni, alle armi belliche, si aggiungono quelle dell’informazione e della controinformazione, creando nuovi fronti: le intrusioni telematiche e le narrazioni, il falso, il vero, il manipolato, l’inganno, con esplosioni anche via social, da Facebook a Twitter a Telegram.

I videogiochi

Giornalisti di tutto il mondo hanno scoperto e denunciato molti video e foto fake. Immagini di altri conflitti e di altri anni, in arrivo da Gaza o dal Libano. Persino videogiochi finiti in tv. Virale, giorni fa, un video visto 27,5 milioni di volte e condiviso da migliaia di utenti, che mostra alcuni uomini in tuta militare che urlano e ridono in russo mentre si paracadutano su quello che è stato indicato come territorio ucraino. Si tratterebbe di un filmato effettivamente girato da un membro delle forze armate russe ma, come dimostrato, vecchio, tratto da un’esercitazione, che era stato già condiviso nel 2015 su Instagram. Il caricamento su TikTok, da parte del primo utente, ha portato molti a credere che si trattasse di un video attuale.

Il referendum del 2014

Una confusione esplosiva su cui si comincia a fare chiarezza. Il NewsGuard ha pubblicato una top 10 dei “miti di guerra” Russia-Ucraina, tra cui un attacco a un impianto chimico in Ucraina orientale e la rivendicazione della legittimità del referendum del 2014 sull’adesione della Crimea alla Russia. L’allarme è arrivato proprio mentre Facebook e Instagram lunedì annunciavano di voler bloccare l’accesso ai media statali russi RT e Sputnik in tutta l’UE. TikTok ha seguito subito l’esempio, mentre YouTube ha bloccato le emittenti sulla sua piattaforma nel Regno Unito e in Europa. Twitter ha scelto bloccare RT e Sputnik nell’UE.

114 domini web

NewsGuard sta monitorando 114 domini web tra cui fonti di media statali russi come RT, Sputnik e Tass, ma ha messo in guardia sul fatto che siti web senza collegamenti diretti con il Cremlino stanno usando per fare propaganda le piattaforme di social media tradizionali. «La Russia», sostiene NewsGuard, «impiega una strategia multistrato per introdurre, amplificare e diffondere narrazioni false e distorte in tutto il mondo. Contando su un mix di fonti ufficiali dei media statali, siti web e account anonimi, diffonde interessi del Cremlino per minare i suoi avversari». 

Meta

«I suoi siti web», aggiunge l’organizzazione americana «finanziati e gestiti dal governo usano piattaforme digitali come YouTube, Facebook, Twitter e TikTok». Una bomba mediatica che ha messo in allerta le principali piattaforme di social media sulla disinformazione legata all’invasione russa. Il proprietario di Facebook e Instagram, Meta, ha lanciato un “centro operativo speciale” per monitorare i contenuti relativi al conflitto, mentre Twitter ha detto di aver sospeso più di una dozzina di account che hanno avuto origine in Russia. E così YouTube e TikTok anche loro a monitorare i contenuti legati al conflitto.

La classifica

Questi sono i 10 principali “miti di guerra” Russia-Ucraina di NewsGuard - seguiti dall'analisi di NewsGuard

Il genocidio

 “I residenti di lingua russa nella regione del Donbas in Ucraina hanno subito un genocidio”. L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa non ha trovato alcuna prova di ciò.

Cloro nel Donbas

“Sabotatori di lingua polacca hanno tentato di bombardare un impianto di cloro nel Donbas”. Il video dell’attacco, per il quale non ci sono prove, è stato registrato giorni prima che si presume abbia avuto luogo.

L'asilo a Luhansk

“Le forze ucraine hanno bombardato un asilo a Luhansk, Ucraina orientale, il 17 febbraio 2022”. Il bombardamento proveniva dal fronte russo-separatista. 

Ucraina, il governo denuncia: «Molte donne violentate dai soldati russi, la Nato deve agire ora»

Amnesty International

“La Russia non ha preso di mira le infrastrutture civili in Ucraina all’inizio dell’invasione”. Un giorno dopo l’invasione, Amnesty International ha documentato almeno tre attacchi militari russi contro aree civili in Ucraina.

Il nazismo

“Il nazismo è dilagante nella politica e nella società ucraina, sostenuto dalle autorità di Kiev”. Il candidato del partito nazionalista di estrema destra, Svoboda, ha ottenuto l’1,6% dei voti alle elezioni presidenziali del 2019.

Il colpo di stato

“L’occidente ha organizzato un colpo di stato per rovesciare il governo ucraino pro-Russia nel 2014”. Non ci sono prove a sostegno della teoria che la rivoluzione di Maidan del 2014 in Ucraina sia stata un colpo di stato orchestrato dai paesi occidentali.

Le armi biologiche

“Gli Stati Uniti hanno una rete di laboratori di armi biologiche in Europa orientale”. Le affermazioni sono basate su un travisamento del programma di riduzione della minaccia biologica del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

La base militare a Odessa

“La Nato ha una base militare a Odessa, nell’Ucraina meridionale”. Le basi militari straniere non sono permesse in Ucraina.

 Nazioni Unite

“La Crimea si è unita legalmente alla Russia”. L’Assemblea delle Nazioni Unite ha dichiarato illegittimo un referendum del 2014 che ha sostenuto l’adesione della Crimea alla Russia.

Russia comunista

“L’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia comunista”. L’eredità comune di Russia e Ucraina risale a più di 1.000 anni fa.

La verità, quindi, sarebbe una vittima della guerra.

Guerra in Ucraina, le peggiori fake news "smontate" una per una. Federico Bianchetti su skuola.net il 4 Marzo 2022.

Il 24 febbraio i primi missili di Mosca colpivano gli obiettivi militari ucraini sancendo l’inizio del conflitto russo-ucraino. Contemporaneamente, un’ondata di disinformazione si è abbattuta sui siti internet di tutta Europa. La Corea del Nord che interviene a sostegno del Cremlino, bandiere russe issate su edifici governativi ucraini, l'invasione americana della Russia: in questi giorni tutti noi abbiamo assistito a queste forti immagini e notizie, Non solo social e siti specializzati: buona parte delle bufale legate al conflitto arrivano anche da siti istituzionali. L'uso di immagini vere, ma legate ad altri contesti, è l'arma numero uno per i professionisti della disinformazione …

Smontate una ad una le fake news sulla guerra in Ucraina ma quanto c'è di vero?

EDMO, l’Osservatorio Europeo sulla Disinformazione Online, nella prima metà di febbraio aveva infatti già rilevato una crescita esponenziale di fake news legata ad un eventuale conflitto. L'inizio delle ostilità ha poi convinto l'agenzia a rilasciare un archivio con le principali bufale legate alla guerra in Ucraina. Leggi anche: Attacco a Zaporizhzhya: cosa succede se viene colpita una centrale nucleare in Ucraina (spiegato in modo semplice) Guerra in Ucraina, Ministro Bianchi: "Pronti ad accogliere bambini e ragazzi ucraini a scuola" Guerra in Ucraina, il Ministro Bianchi invita i prof a parlarne a scuola Paracadutisti russi a Kharkov, soldati ucraini trucidati a Kiev: le fake news della propaganda Propaganda, strategia militare, nell'era di internet le fake news diventano l'arma in più. In molti abbiamo visto  un video pubblicato dall’account “Made in Russia” poi circolato su molte pagine Facebook, che mostra centinaia di paracadutisti russi atterrare indisturbati nella città ucraina di Kharkov, che invece, secondo il New York Times, è ancora sotto controllo ucraino. E ancora, qualche giorno fa era circolato un video che mostrava soldati ucraini uccisi in combattimento alle porte di Kiev. Immagini e video vere, ma estrapolate da altri contesti. Infatti, i paracadutisti russi erano parte di un’esercitazione in Ucraina del 2014, mentre il video della strage di soldati ucraini risalirebbe almeno al 2015 e si tratterebbe di un conflitto avvenuto nel Donbass, tra esercito ucraino e i paramilitari dell’auto proclamata Repubblica di Lugansk. A smontare l'impianto di fake news molte agenzie internazionali, Al Jazeera in primis. Kim Jong-Un invia truppe in Ucraina, Biden vuole invadere la Russia: falso Ma non finisce qui. Le fake news più fantasiose vedono l'invio di truppe in Ucraina da parte della Corea del Nord di Kim Jong-Un, a sostegno dei militar russi. Tuttavia il coinvolgimento della Corea del Nord non è stato confermato da alcuna dichiarazione del leader Jong-Un. In questa speciale rassegna, non può mancare il nemico americano. Un'altr fake news, circolante in Portogallo, infatti parlava della decisione del Presidente Biden di invadere la Russia, su richiesta del Ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. La notizia, che circolava su diversi siti in Lituania, è stata prontamente smentita da ambo le parti. La portata della disinformazione Tra i video più visti, c'è anche quello raffigurante il toccante saluto dei milita ucraini alle proprie fidanzate. Il video è circolato su molti social, tra cui Facebook e Youtube, ma è stato poi dichiarato falso. Si sarebbe infatti trattato di un documentario, dal titolo “The war of Chimeras” di Anastasia Starozhytska & Maria Starozhytska. Va però detto che non è semplice orientarsi nel marasma generale della disinformazione moderna. E in merito ad un fenomeno sempre più dilagante, l'Ansa riporta le parole di Francesco Pira, professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Messina e Presidente dell’Osservatorio Nazionale sulle fake news di Confassociazion “In Ucraina in questo momento si stanno combattendo due guerre: una conle armi tradizionali e l’altra a colpi di fake news. La disinformazione ha assunto un ruolo di primo piano in questo nuovo conflitto. Rispetto alle guerre più recenti assistiamo ad una situazione totalmente diversa”. Stampa Segnala Condivid

Guerra Ucraina e fake news: dal 'fantasma di Kiev' al finto ritiro. Rita Bartolomei il 27 febbraio 2022 su quotidiano.net

Ucraina, la guerra è anche d'informazione. Tra aerei fantasma, Ghost di Kiev e molto altro. Ha cominciato il ministero della Difesa russo, postando un video che avrebbe dovuto dimostrare il ritiro delle truppe dalla Crimea. Era il 16 febbraio, il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, non ci era cascato e aveva ribattuto a Putin: "La Russia conserva la capacità di invadere senza preavviso", era stata la sua analisi. Sappiamo com'è finita. La guerra è anche via social, da Facebook a Twitter a Telegram. 

Le insidie sono quotidiane. Giornalisti di tutto il mondo, dalla Cnn alla Bcc a Usa Today, hanno scoperto molti video e foto fake. Immagini di altri conflitti e di altri anni, in arrivo da Gaza o dal Libano.  Persino videogiochi finiti in tv. Tra le ultime storie incerte c'è quella del Ghost di Kiev, il 'fantasma' presentato - anche dal ministero della Difesa ucraino - come asso dell'aviazione che avrebbe abbattuto sei aerei russi e già su Wikipedia, che però si mantiene prudente.

David Cenciotti, 46 anni, ingegnere informatico, ex ufficiale dell’Aeronautica, pilota privato e giornalista, è abituato a sminare le trappole. ‘The aviationist’, il suo 'blog aeronautico’, dal 2006 è un punto di riferimento per il settore.

David, avete scritto del Ghost e di altri casi, descritti come ’nebbia di guerra’.

“E le reazioni sono state delle più diverse, comprese le accuse di essere filo russi”.

Invece.

“Invece sono analisi basate su elementi oggettivi. Che inducono alla prudenza. Bisogna essere molto cauti. Naturalmente vale per entrambe le parti”.

Spieghi.

“Parlando del Ghost di Kiev: intanto, conoscendo il velivolo, ritengo altamente improbabile che la storia sia reale. Non posso escludere che possa essere stato abbattuto qualche velivolo russo. Ma sei da un solo pilota in così poco tempo è davvero molto difficile”.

Perché?

“Quel Mig 29 è stato costruito tra gli anni Sessanta e Settanta. Credo che il primo volo sia del ’77. Come concezione questi aerei risalgono a una cinquantina di anni fa, sono entrati in servizio una decina di anni dopo. Si confrontano con un’aviazione dotata di sistemi molto più avanzati. Poi: se anche fosse carico di missili, ne porterebbe sei. Davvero difficile pensare che possa aver abbattuto sei aerei russi, utilizzando tutte le armi a disposizione”.

La sua conclusione?

“Ci possono essere stati abbattimenti. Ma che sia stato un solo pilota... E poi non ci sono evidenze di battaglie aeree. Inoltre è stato condiviso migliaia di volte un video del presunto abbattimento di un aereo russo. Indicato da molti come la prova dell’esistenza di questo pilota leggendario. In realtà si trattava di immagini registrate su un simulatore di volo molto famoso. E molto realistico. Ma sempre simulatore era”.

Si poteva capire?

“Con qualche attenzione sì. Dal suono del velivolo al modo in cui si muoveva la camera”.

Sono comparsi anche videogiochi presentati come bombardamenti.

“Molte volte cadono nel tranello anche gli addetti i lavori. Questa guerra di informazione riguarda entrambe le parti.  Quindi bisogna prendere ogni cosa con molta attenzione. Perché non è detto che se è stata condivisa da un ente ufficiale, necessariamente sia vera”.

In questi giorni si è parlato e scritto molto anche di altri voli fantasma, comunque misteriosi. Come un jet privato Mosca-Nassau, che ha sfidato le bombe per raggiungere il paradiso fiscale. Magari a bordo qualche oligarca russo.

“Non è uno di quelli che abbiamo osservato. Mi è capitato invece di vedere le segnalazioni di aerei in partenza, con molta probabilità, dall’Ucraina, diretti in Romania o in Polonia. Voli misteriosi perché in una zona di conflitto, con uno spazio aereo che sostanzialmente dovrebbe essere chiuso, hanno sfidato  la possibilità di essere abbattuti e intercettati. Questo è l’aspetto più strano. E su questo possiamo esprimerci perché abbiamo visto gli screenshot. I voli quindi ci sono stati”.

Sono voli fantasma?

“Diciamo che sfuggono al tracciamento delle piattaforme,  possiamo anche chiamarli così. Me ne sono stati segnalati 5, nello screenshot se ne vedono 4, procedono insieme. La segnalazione è delle 14.40 di venerdì, sono diretti verso la Polonia. Non possiamo dire con certezza da dove siano partiti. Ma sono aerei da trasporto, An 26 Antonov. Aerei che sono registrati ma anche costruiti in Ucraina. Quindi possiamo dire con ragionevole certezza che sono partiti da quel Paese". 

Perché la Russia vuole invadere l'Ucraina (forse) 

Le 10 bufale sulla guerra in Ucraina. Secondo «NewsGuard», la propaganda russa può contare su oltre 100 siti e sono almeno dieci le principali fake news: eccole. Da cdt.ch il 4 marzo 2022  

La propaganda russa può contare su oltre 100 siti e sono almeno dieci le principali bufale diffuse. Lo spiega un report del Centro di monitoraggio della disinformazione sul conflitto Russia-Ucraina diffuso da «NewsGuard». Ad oggi, il team del network giornalistico sta monitorando 116 domini che hanno pubblicato propaganda e disinformazione filo-russa. «I tre siti più influenti noti per essere finanziati e gestiti dal governo russo - scrive «NewsGuard» - sono le fonti dei media statali RT (Russia Today), TASS e Sputnik News, ma ci sono anche siti anonimi, fondazioni e siti di ricerca gestiti con finanziamenti non chiari, alcuni dei quali potrebbero avere collegamenti non dichiarati con il governo russo». Il network «monitora queste fonti e queste strategie dal 2018», usate anche con la pandemia, e analizza «le principali false narrazioni sull’invasione dell’Ucraina».

Le 10 bufale sulla guerra

«NewsGuard» ha anche individuato le 10 principali bufale sulla guerra Russia-Ucraina su cui ha fatto fact-checking:

- I residenti di lingua russa del Donbass sono stati vittime di un genocidio;

- Sabotatori di lingua polacca hanno tentato di bombardare un impianto di trattamento delle acque reflue nel Donbass;

- Le forze ucraine hanno bombardato un asilo nel Lugansk il 17 febbraio 2022;

- La Russia non ha preso di mira infrastrutture civili in Ucraina;

- Il nazismo, sostenuto dalle autorità di Kiev, è prevalente nella politica e nella società ucraine;

- L’Occidente ha organizzato un colpo di Stato per rovesciare il governo ucraino filorusso nel 2014;

- Gli Stati Uniti possiedono una rete di laboratori di armi biologiche nell’Europa orientale;

- La Nato ha una base militare a Odessa;

- La Crimea si è unita alla Russia legalmente;

- L’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia comunista.

Guerra Ucraina-Russia, 'piovono' fake news sul web: ecco le prove. Adnkronos il 05 marzo 2022

Il quadro delineato da fonti di apparati di sicurezza italiani all'Adnkronos. 

Sono emerse "evidenti indicazioni", fin dall’inizio della guerra ta Russia e Ucraina, circa "l'ampia diffusione di fake news volte a distorcere la realtà degli eventi sul campo, al fine di nascondere insuccessi e orientare l'opinione pubblica" rispettivamente a favore di Mosca e Kiev. Lo riferiscono fonti di apparati di sicurezza italiani all'Adnkronos.

"Su un account social riconducibile ad ambienti filo-russi ad esempio, il 2 marzo sono stati messi a confronto due video identici, evidenziando che uno risalirebbe al 2019 inerente la tecnologia militare ucraina, mentre il secondo, pubblicato in questi ultimi giorni, mira a mostrare la cattura di mezzi tecnologici militari russi da parte dell’Ucraina. L’unica differenza nei due video è la bandiera ucraina, la quale nel primo video è apposta sul mezzo militare, mentre nel secondo è sostituita da una 'Z' per indicare l’appartenenza del veicolo all’esercito russo", spiegano le fonti.

"Medesima tecnica nelle immagini manipolate dagli account supporter dell’una o dell’altra parte con sovrapposizione di sigle che riconducono agli eserciti nemici" è riscontrabile su altri account social.

"Allo stesso modo la Tv di Stato bielorussa ha presentato l'esplosione in piazza della Libertà del 1 marzo 2022 a Kharkiv come una provocazione dei nazisti ucraini, mentre il missile che ha colpito l'edificio non sarebbe in dotazione all'esercito ucraino", proseguono le fonti.

"Ulteriore esempio della diffusione di campagne mediatiche di disinformazione da entrambe le parti contendenti, è rappresentato da un tweet del 1 marzo 2022 in cui viene dichiarata la distruzione di un convoglio militare russo nella regione di Mykolaiv costituito da 800 veicoli, senza alcuna prova evidente della consistenza della colonna, né della sua distruzione", si aggiunge. 

Le più clamorose fake news della Russia sull’Ucraina. Redazione il 06 Marzo 2022 su positanonews.it. 

Le più clamorose fake news della Russia sull’Ucraina , sono riportate dal sito techprincess . La guerra tra Russia e Ucraina, oltre alla consueta drammaticità propria di ogni conflitto armato, sta portando un elemento di novità.

Mai come in questo caso, anche in virtù dell’utilizzo dei social a livello planetario, si guerreggia anche attraverso la comunicazione. Vi abbiamo raccontato di come, almeno in questo frangente, sia l’Ucraina il Paese in vantaggio. Per la capacità di presidiare le piattaforme con un’informazione (e una controinformazione) di qualità. E perché, elemento non piccolo, il presidente Zelensky sta facendo ricorso a tutte le sue qualità di attore (il mestiere che svolgeva professionalmente prima di dedicarsi alla politica). Ed è innegabile come sia capace, per adoperare un’espressione abusata, di bucare il video.

Mosca, dal canto suo, arranca. Perciò, in netto ritardo su questo terreno, si affida a un’informazione disordinata e inattendibile. Cercando inoltre, a suon di bufale, di mostrare la propria onnipotenza bellica e la prostrazione degli ucraini assediati.

Gli stessi social stanno si stanno adoperando per frenare la diffusione delle fake news della Russia. Vediamo però, tra quelle circolate in questi giorni, alcune delle più clamorose.

Il report di NewsGard

NewsGard, società americana che si che si occupa di valutare l’affidabilità di siti di informazione, ha finora individuato 116 siti di propaganda pro Putin, che riversano in rete notizie inattendibili.

Nel report compaiono anche le dieci principali fake news della Russia sulla guerra in Ucraina. Eccole.

manifestazione ucraina

Il genocidio del Donbass

La Corte Penale Internazionale, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa hanno riferito di non avere mai trovato prove di un presunto genocidio nel Donbass. Ovvero la regione dell’Ucraina orientale in parte occupata dai separatisti sostenuti dalla Russia dal 2014.

Diversi rapporti segnalano violenze o restrizioni alla libertà, ma “le informazioni disponibili non hanno fornito una base ragionevole per ritenere che l’attacco fosse sistematico o diffuso”.

Il tentativo di bombardare un impianto di trattamento delle acque reflue nel Donbass

Altra fake news proveniente dalla Russia è quella diffusa attraverso un video condiviso nella Repubblica popolare di Donetsk, in Ucraina orientale, sostenuta dalla Russia. Dove si vedrebbero soldati locali che impediscono a sabotatori di lingua polacca di far saltare in aria dei contenitori di cloro in un impianto di trattamento delle acque reflue. Ma si è scoperto che il video era stato girato ad arte e manipolato.

Il bombardamento ucraino di un asilo

Secondo Mosca l’esercito ucraino avrebbe bombardato un asilo nel villaggio di Novaya Kondrashovka, che si trova nella repubblica di Lugansk controllata dai separatisti, nell’Ucraina orientale. Invece i bombardamenti provenivano da sud.

L’attacco russo non ha coinvolto infrastrutture civili

Questa fake news della Russia è ampiamente sbugiardata dalle immagini che ogni giorno girano sui social.

Amnesty International ha inoltre dichiarato che l’esercito russo ha effettuato “attacchi indiscriminati in aree civili e attacchi a luoghi protetti come ospedali”.

La denazificazione dell’Ucraina

Si tratta di uno dei cavalli di battaglia di Putin. In Ucraina esistono certamente gruppi radicali di estrema destra, che secondo un report di Freedom House del 2018 sono una “minaccia allo sviluppo democratico dell’Ucraina”.

Ma alle elezioni parlamentari del 2014 il partito nazionalista di estrema destra Svoboda ha preso appena il 4,7% dei voti.

Inoltre, in un discorso tenuto il 24 febbraio (giorno dell’invasione russa), il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che è ebreo, ha commentato: “Vi è stato detto che siamo nazisti. Ma come può sostenere il nazismo un popolo che ha perso più di 8 milioni di vite nella battaglia contro il nazismo?”

L’organizzazione di un colpo di stato per rovesciare il Governo ucraino filorusso nel 2014

Manca qualunque prova a sostegno della tesi per cui la rivoluzione di Maidan del 2014 in Ucraina sia stata un colpo di stato organizzato dai Paesi occidentali.

È stata semmai una rivolta popolare a cacciare l’allora presidente Viktor Yanukovich.

Le armi biologiche degli Usa nei laboratori dell’Europa orientale

La fake news della Russia si è amplificata in queste ore, ma esiste dal 2016. E vuole che gli Stati Uniti abbiano una rete di laboratori di armi biologiche a ridosso dei confini russi nell’Europa orientale.

La verità è che gli Usa forniscono aiuti ai laboratori ucraini dal 2005, quando il Ministero della Salute dell’Ucraina e il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti hanno siglato un accordo per limitare la minaccia del bioterrorismo.

La base militare Nato a Odessa

Questa bufala risale al dicembre 2021, quando diversi siti di notizie vicini a Mosca hanno affermato che la Nato ha costituito una base navale a Odessa, città portuale del sud dell’Ucraina.

È vero che la Nato ha rafforzato la sua presenza sul Mar Nero dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014. Ma le basi militari straniere non sono consentite in Ucraina, secondo l’articolo 17 della costituzione del Paese.

L’annessione legale della Crimea alla Russia

Nel marzo 2014 il Primo Ministro separatista russo, Sergei Aksyonov, ha indetto un referendum sullo status della Crimea, che ha portato all’annessione della penisola alla Russia. Il governo russo aveva dichiarato che il referendum per l’annessione si era svolto nel rispetto del diritto internazionale, contrariamente alla verità.

Il referendum si è invece tenuto nel contesto di un’aggressione armata, e perciò non è affatto riconosciuto dal diritto internazionale.

È stata la Russia comunista a creare l’Ucraina moderna

Nonostante Putin abbia detto che “i bolscevichi hanno inventato l’Ucraina”, il Paese aveva combattuto e ottenuto l’indipendenza nel 1918. Poi, nel 1922, i bolscevichi russi hanno sconfitto il governo nazionale ucraino e fondato la Repubblica socialista sovietica ucraina. Per i successivi 69 anni l’Ucraina è stata parte dell’URSS.

Altra fake news della Russia, o meglio di Putin, è quella per cui Mosca avrebbe concesso all’Ucraina l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Invece sono stati gli ucraini a sceglierla, nel 1991, con un referendum democratico (in cui ha scelto l’indipendenza il 92% dei votanti).