Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

QUATTORDICESIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

Fuga dalle notizie. Tra la guerra e la pandemia gli italiani si fidano sempre meno dell‘informazione. Benedetta Barone  su L'Inkiesta il 16 giugno 2022.

Il report annuale del Reuters Institute evidenzia gli andamenti del giornalismo in tutto il mondo. Nel nostro Paese, di fronte a un flusso di notizie maggiore sono tutti più stanchi e scettici. 

È consultabile da mercoledì 15 giugno il Digital News Report 2022, il report annuale del Reuters Institute di Oxford sull‘andamento dell‘informazione, online e non, in Europa, Asia, America Centrale, America Latina e Africa.

L’analisi ha coinvolto oltre 93mila persone in 46 diversi paesi e chiarisce i nuovi flussi di tendenza nel modo in cui cerchiamo, leggiamo e vogliamo le notizie, ma delinea anche di quali notizie abbiamo più bisogno.

Il dato più rilevante, per quanto riguarda l‘Italia, è l‘evidenziato passaggio al digitale a scapito delle testate giornalistiche cartacee. La rivoluzione in questo senso è stata più lenta che altrove, e per molti anni lo stesso mercato online continuava a essere dominato dai canali nazionali tradizionali. Nel 2022, per la prima volta, un organo di origine digitale, Fanpage, ha ottenuto la più ampia diffusione online tra i media coinvolti nel sondaggio (21%), superando un’agenzia di stampa tradizionale come l‘ANSA.

L’impatto della transizione digitale risulta anche dalla struttura del mercato. I ricavi pubblicitari online rappresentano ormai quasi la metà (49%) dei ricavi pubblicitari complessivi. Si tratta di una svolta in un sistema mediatico tradizionalmente caratterizzato da un settore televisivo particolarmente forte. Al tempo stesso, il calo del 31% del numero totale di copie cartacee e digitali vendute in quattro anni è una spia sempre più eloquente delle perdite dell‘editoria italiana. Millecinquecento edicole italiane (il 10% del totale) hanno chiuso nei primi sei mesi del 2020, mentre molte altre si sono ramificate e differenziate iniziando a fornire l’accesso a servizi pubblici o la vendita di cibi e bevande.

Insomma, l‘informazione si sposta su smartphone e pc. Ma questo, lungi dal rassicurare, è in realtà fonte di disagi e diffidenze, che gli ultimi tre anni di eventi catastrofici e mediaticamente ridondanti – il Covid e la guerra in Ucraina, per esempio – hanno accumulato e acuito.

Secondo il report, in tutto il mondo si registra una news avoidance, una fuga dalle notizie: il 38% della popolazione le evita. Il 43% accusa il sovraccarico di informazioni sull‘andamento della pandemia e questo rende il 36% di loro tristi o umorali ed esausto il restante 29%. Da altri punti di vista, non sono invece abbastanza imparziali (29%).

Nel nostro Paese, in particolare, solo il 13% considera le testate giornalistiche libere da influenze politiche e appena il 15% le considera affrancate da ascendenti di natura economica. La fiducia italiana nei confronti dell‘informazione è scesa del 5%. È un trend piuttosto sorprendente, considerando che durante i mesi più difficili della pandemia da coronavirus la credibilità nei confronti dei media e del loro ruolo sociale era molto cresciuta nella popolazione.

Sembra che il giornale a cui ancora si attribuisce maggior credito sia l‘agenzia ANSA, seguito da Il Sole 24 Ore e da SkyTg24, che pure perdono entrambi una posizione rispetto all‘anno precedente. L‘ultimo posto nella scala della fiducia spetta a Libero, mentre il Corriere della Sera si aggiudica il quarto.

Lo scorso anno, ultimo era Fanpage che pure raggiunge la copertura settimanale più ampia. 

La parola d‘ordine sembra quindi smettere di faticare per ottenere notizie, dato che il paywall è sempre meno popolare e vincono le testate che consentono una registrazione gratuita ai propri contenuti. Ma contemporaneamente, forse proprio a causa dell‘eccessiva fluidità informativa, nessuno sembra davvero contento: oltre ai problemi di fiducia prima citati, emergono anche numerosi crucci a proposito della privacy e del trattamento dei dati personali che accettiamo ogni volta che ci presentano dei cookie. Solo il 33% dice di essere a proprio ago a proposito degli e-commerce e appena il 25% a proposito delle piattaforme social.

Eravamo ucraini: ora la guerra sparisce dai media. La sensazione è che la guerra ci appassioni soltanto di riflesso, cioè nella misura in cui può animare il pollaio, generare polemiche...Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 16 giugno 2022.

Sarà che Sverodonetsk, con quei suoni tutti aguzzi, ha un nome meno suadente di Marioupol, sarà che la resistenza ucraina inizia a scricchiolare e che in fondo il Donbass rimane un’esotica polveriera di milizie e nazionalismi contrapposti che percepiamo (a torto) assai lontana dall’Europa. Sarà per tutti questi motivi ma è innegabile che da diversi giorni la guerra in Ucraina è scivolata in fondo nelle edizioni cartacee dei giornali e nelle timeline dei siti web.

Eppure negli impianti Azot di Sverodonetsk assediate dall’armata russa si sta consumando la stessa tragedia dell’Azovastal con migliaia di civili in trappola mentre nel Lugansk sono state scoperte fosse comuni e crimini contro i civili proprio come a Bucha. Sul fronte si continua a morire l’empatia dei primi tempi però non c’è più. Ma l’invasione di Putin non metteva in gioco la nostra stessa libertà, e gli ucraini non erano forse i “nuovi partigiani” che, come Davide contro Golia, resistevano al tiranno?

Parliamo in particolar modo della stampa “atlantista” che si è sperticata nelle lodi al presidente Zelensky e al coraggio dei suoi compatrioti, la stessa che ci ha mostrato le città ridotte in poltiglia, i corpi straziati sotto le macerie, i video con le esecuzioni dei civili. E che tuonava contro l’assuefazione e l’indifferenza all’orrore perché “je suis Ucraina” e così via. La sensazione, persistente e sgradevole, è che la guerra ci appassioni soltanto di riflesso, cioè nella misura in cui può animare il pollaio, generare polemiche politiche interne con tutto il noto campionario di invettive da talk show o da editoriale indignato che conosciamo.

Ci serve ossia per catalogare alleati e avversari nel giochino del “posizionamento”, «giornalisti con l’elmetto» da una parte, (Mieli, Riotta) loschi «putiniani» dall’altra (Orsini, Santoro). Entrambi a “libro paga”: chi della Cia, chi del Cremlino, a seconda delle narrazioni. I meschini attacchi agli ucraini che non si arrendono e «ci fanno aumentare le bollette del gas» e le vergognose liste di proscrizione del Corriere della sera in fondo sono le due facce della stessa medaglia e riflettono il carattere fazioso e provinciale del nostro dibattito pubblico, la scarsa propensione all’analisi e all’obiettività del nostro giornalismo, la mancanza di una sguardo che a volte riesca a volare oltre il cortile di casa.

Ucraina: le domande del Financial Times e l'attivismo francese. Piccole Note il 31 maggio 2022 su Il Giornale. 

“Le condizioni nel Donbass sono indescrivibilmente difficili” ha affermato Zelensky, uscendo fuori dalla bolla informativa sulla guerra ucraina. Dopo aver celebrato la grande vittoria di Kiev, che avrebbe costretto il nemico a ripiegare nel Donbass, ammettere che la guerra va male non è facile.

Il punto è che dall’inizio dell’invasione si parla di carri armati russi distrutti come giocattoli, di jet abbattuti come mosche, di un esercito falcidiato (sarebbero 30mila i russi morti: cosa impossibile: sarebbero costretti al ritiro), di una catena di comando in confusione…

E ora si scopre che in Donbass le cose non vanno bene, anzi che i russi stanno guadagnando terreno, avanzando con lentezza come già fecero in Siria, e si apprestano a prendere tutta la regione di Lugansk, per poi passare a quella di Donetsk.

In tema di guerre l’Occidente è abituato a convivere con le bolle dell’informazione che ha celebrato come grandi vittorie strategiche quelle conseguite in Afghanistan, Iraq e Libia, quando in realtà era una macelleria consumata contro eserciti di straccioni, che nulla potevano contro i sofisticati e potenti armamenti americani e Nato.

Nel caso ucraino l’invincibile armata ha a che fare con un esercito vero e qui la bolla non poteva reggere. Celebrare i successi della resistenza ucraina ha uno scopo ben preciso: alimentare la prospettiva che la guerra possa portare alla sconfitta della Russia o che l’Ucraina possa conservare la sua integrità territoriale.

Ciò serve a persuadere l’Occidente a inviare tante armi al popolo ucraino, il quale viene così mandato allo sbaraglio per sconfiggere la Russia per contro terzi. Piccolo segnale in tal senso anche il riserbo assoluto sul numero dei soldati ucraini caduti, perché tale numero sarebbe insostenibile e costringerebbe il mondo a pensare in maniera più realistica e a come far finire in fretta questa follia.

Un tema che inizia ad affiorare, tanto che ultimamente è stato affrontato anche da un fondo del Financial Times, che nel titolo chiede: “Qual è la fine del gioco dell’America per la guerra in Ucraina?”.

Dopo aver spiegato gli indiscutibili successi politici dell’America, cioè il distacco della la Russia dal resto dell’Europa, il suo indebolimento economico e la richiesta di adesione alla Nato di Finlandia e Norvegia, FT si chiede però cosa davvero voglia Washington, dal momento che, al di là della “retorica ottimistica”, non si capisce cosa vuol dire conseguire “una vittoria strategica sulla Russia” e su quale “accordo territoriale” si impegnerebbe a “incoraggiare” l’Ucraina a trattare (si noti che si parla di accordi territoriali, cioè che l’Ucraina potrebbe essere costretta a cedere qualcosa…).

Articolo interessante anche laddove spiega che Polonia e Gran Bretagna sono i Paesi più ingaggiati in questa guerra, tanto che Jeremy Shapiro, direttore della ricerca del Consiglio europeo per le relazioni estere, ha dichiarato: “Gli inglesi sono in realtà un passo avanti rispetto agli americani, e continuano a guardarsi alle spalle per accertarsi di essere seguiti”.

Rilievo vero, tanto che Biden ieri ha detto niet all’invio di missili a lungo raggio all’Ucraina, contrapponendosi ai falchi. Tale invio, infatti, avrebbe provocato un’escalation, avendo Mosca avvertito che se tali armi fossero state usate contro il suo territorio, avrebbe risposto oltre i confini ucraini.

Da rilevare anche le dichiarazioni del generale Mark Milley a Fox News, il quale ha detto di non sapere come evolverà la guerra, se vincerà una parte o l’altra o si arriverà ad aprire “trattative di pace”, ma che il quadro sarà “più chiaro tra alcune settimane”.

Sebbene vaghe, tali dichiarazioni sono state sottolineate con enfasi da Ria Novosti, che ha voluto ricordare come il Comandante in capo dell’esercito americano abbia avuto una conversazione telefonica con il suo omologo russo alcuni giorni fa. Evidentemente i due graduati qualcosa si sono detti (l’idea che tra qualche settimane il quadro sarà più chiaro sembrerebbe delineare l’ipotesi di un accordo in stile coreano, sul punto vedi Piccolenote).

Quanto a Germania, Italia e Francia, i Paesi più interessati alle trattative, ci stanno provando a fare qualcosa, ma con ben scarsi risultati. La nazione più attiva in tal senso è indubbiamente la Francia, tanto che il Financial Times, ha voluto ricordare che “Macron ha gettato nella costernazione a Kiev quando ha esortato le capitali occidentali […] a ‘non cedere mai alla tentazione dell’umiliazione né allo spirito di vendetta’ quando si tratta di negoziare con la Russia”.

La reazione delle autorità ucraine, però. non ha bloccato l’attivismo di Macron, come dimostra la conversazione telefonica avuta con Putin tre giorni fa insieme a Scholz e l’intervista di Lavrov alla Tv nazionale francese di due giorni fa, che evidentemente era un’apertura verso Mosca.

Non sappiamo, però, se la Francia ha messo in campo qualche negoziato concreto e se la ministra degli Esteri francese Catherine Colonna, appena nominata da Macron, abbia recato a Kiev qualche messaggio in tal senso.

Nessuna indicazione di sorta, anche perché, peraltro, la visita è stata offuscata dall’uccisione di un giornalista francese inviato a Severodonetsk, dove si sta concentrando l’avanzata russa.

Frédéric Leclerc-Imhoff è morto mentre si trovava su un bus che stava evacuando i civili dalla zona. Secondo le autorità ucraine, alcune bombe russe sarebbero cadute nei pressi del convoglio e “le schegge delle granate hanno perforato la corazza dell’auto, [causando] una ferita mortale al collo” del malcapitato.

Sul profilo ufficiale di twitter di Macron si legge altro: il giornalista era “a bordo di un autobus umanitario, insieme ai civili costretti a fuggire per sottrarsi alle bombe russe ed è stato colpito a morte” lasciando indefinita la causa. Abbiamo notato che la traduzione automatica italiana di Twitter riporta anche “colpi d’arma da fuoco”. 

In Ucraina sono presenti, e tanto, i servizi segreti francesi, che evidentemente hanno passato al presidente tale informazione discordante, che cambia il quadro, La Francia ha aperto un’inchiesta sull’accaduto, ma è difficile che smentiscano le autorità ucraine.

All’attivismo spuntato della Francia, con la  Germania a rimorchio, si affianca quello più confuso, ma efficace, di Erdogan. Ne scriveremo in una nota successiva.

Santoro al lavoro per il pluralismo dell'informazione (e non solo). "È in atto un linciaggio contro i pacifisti". E difende Salvini. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 31 maggio 2022.

Venticinque parlamentari chiedono alla alla Rai di commissionare un sondaggio per chiedere agli italiani se sono soddisfatti di come la tv pubblica sta seguendo il conflitto in Ucraina. In corso c'è il tentativo di creare un contenitore che raccolga il dissenso contro il governo. E sul viaggio a Mosca del leader leghista il giornalista aggiunge: "Non è mai stato attaccato dal sistema come oggi che lavora per la pace".

La scusa è la risoluzione parlamentare in cui si vorrebbe impegnare la Rai a commissionare un sondaggio per chiedere agli italiani se sono soddisfatti o meno di come la tv pubblica sta seguendo il conflitto in Ucraina, in realtà in corso c'è un tentativo sul medio termine di creare un soggetto, un contenitore, che raccolga il dissenso pacifista, contro il governo, contro il 'tradimento' dei 5 Stelle e del Pd.

Farsi riconoscere. Come i giornali stranieri raccontano la propaganda filorussa nei media italiani. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta l'1 Giugno 2022.

Le Figaro, Le Monde, El País, Politico, Guardian, Reuters e altri quotidiani di tutto il mondo hanno scritto della presenza di opinionisti alquanto discutibili nella tv di casa nostra, l’unica che dà spazio ai funzionari del governo di Vladimir Putin.

«Nei salotti televisivi italiani non è raro trovare personalità vicine alle posizioni del Cremlino, determinate a difendere la politica di Vladimir Putin». Un articolo del Figaro di domenica scorsa denuncia le cattive abitudini dei palinsesti italiani, che da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina danno sempre più spazio alla propaganda russa: «Per aumentare l’audience – si legge nell’articolo – gli studi non esitano a chiamare relatori molto vicini al Cremlino».

Il primo nome citato è ovviamente quello di Alessandro Orsini, presentato come ricercatore specializzato in sociologia del terrorismo e docente alla Luiss di Roma, di cui vengono ripresi alcuni dei virgolettati più agghiaccianti – non c’è bisogno di citarli ancora – e dell’eccessiva disponibilità di Bianca Berlinguer nel lasciarlo parlare a ruota libera.

Le Figaro è solo l’ultimo quotidiano straniero, in ordine cronologico, a criticare i salotti televisivi italiani.

«Fino a poco tempo fa, Alessandro Orsini era solo un personaggio secondario, uno di quegli esperti intercambiabili – e più o meno seri – che popolano i set dei talk show politici italiani», scrive il Monde. «Con la sua voce morbida e lo sguardo da eterno studente un po’ sognante, con l’invasione dell’Ucraina Orsini è diventato una star. Come? Andando oltre: ha difeso la politica russa attraverso la denuncia della Nato e di ogni forma di aiuto all’Ucraina, il tutto in nome del non allineamento e del pacifismo. Dall’inizio della guerra, e più volte al giorno, le sue critiche si sono concentrate su Kiev e su coloro che cercano di aiutare l’Ucraina».

Orsini non è l’unico protagonisti filoputiniani delle emittenti italiane: nel mirino dei quotidiani stranieri c’è ovviamente anche l’intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, andato in diretta con traduzione simultanea su Rete 4.

In quell’intervista Lavrov ha avuto l’opportunità di dare forza alla retorica russa sulla guerra in Ucraina, di sostenere le forze armate del suo Paese che «hanno attaccato esclusivamente le infrastrutture militari», di inventare che «gli orrori commessi nella città di Bucha sono stati una messa in scena», e che l’Ucraina è governata da personalità vicine al nazismo. Poi alla domanda se il presidente ucraino Volodymyr Zelensky fosse ebreo, Lavrov ha risposto: «Potrei sbagliarmi, ma anche Hitler aveva origini ebraiche». E nessuno a ribattere da studio.

Rimanendo in Francia, Liberation descrive una «onnipresenza di ospiti pro-Putin» nelle tv italiane. Poi cita il politologo filo-Cremlino Dmitry Kulikov, intervenuto in diretta su La 7: «Voi siete gli unici a invitarci», ha ammesso riferendosi alle tv italiane. E ci mancherebbe.

Il quotidiano francese spiega che i sostenitori di Vladimir Putin hanno un tavolo aperto sui talk show televisivi transalpini – transalpini dalla prospettiva francese – e che i loro commenti spesso oltraggiosi inondano i talk show. A volte anche in modo esasperato e oltraggioso: «Dovremmo inviare a Torino un missile nucleare Satan», aveva detto la giornalista russa Yulia Vityazeva dopo la vittoria dell’Eurovision Song Contest da parte della Kalush Orchestra.

«Da Nadana Friedrichson, giornalista del canale televisivo Zvezda (che dipende dal ministero della Difesa russo) a Piotr Fedorov del Vgtrk, gruppo mediatico statale russo, passando per il popolare presentatore Vladimir Soloviev, il propagandista più famoso del Cremlino, i difensori della causa di Putin hanno spesso una poltrona, via Skype, negli infiniti talk show dei canali pubblici o privati italiani», nota Liberation.

La propaganda del Cremlino nella tv italiana è ormai un tema di discussione che va oltre i confini nazionali. In Spagna El País nota la distanza tra le posizioni dell’Unione europea – con la Commissione che oscura l’agenzia Sputnik e l’emittente Russia Today – e quelle dell’Italia. Mentre El Confidencial dà peso alla condiscendenza con cui Giuseppe Brindisi su Rete 4 ha salutato Lavrov dopo il suo intervento, con quel «Buon lavoro, ministro» che è sembrato un po’ fuori luogo mentre il suo Paese invade la vicina Ucraina con carrarmati, droni e soldati.

«Qualsiasi giornalista vorrebbe intervistare Lavrov o la sua portavoce, Maria Zajarova, ma giornalismo e propaganda dovrebbero essere diversi: qui è stata consentita una grossolana manipolazione della verità, senza contraddittorio», si legge sul quotidiano spagnolo.

Tutti hanno notato che i programmi italiani in prima serata danno regolarmente spazio a ospiti indecenti – consiglieri di Putin, giornalisti della tv di Stato russa, funzionari pubblici – che portano argomentazioni a favore dell’invasione o ripetono le solite fantasie del Cremlino.

E non solo. Quando a metà marzo i missili russi hanno colpito una centrale nucleare ucraina, Marc Innaro, corrispondente da Mosca per la Rai, ha parlato di «incendio scoppiato dopo un sabotaggio», cioè la stessa pista seguita dall’agenzia statale russa Tass. In quegli stessi giorni, su Rete 4 l’idealogo del Cremlino Alexander Dugin spiegava in un buon italiano che l’invasione di Putin è una «guerra di valori, una guerra spirituale».

È per questo che Politico, in un articolo pubblicato a fine maggio diceva che la Russia può considerare l’Italia come il ventre molle della sua macchina propagandistica: «La tendenza attuale va oltre gli storici legami del Partito comunista con l’Unione Sovietica ai tempi della Guerra Fredda, è probabilmente anche il risultato di un modello televisivo ormai marcio, e di un certo tipo cultura del dibattito pubblico che ha dominato il Paese da quando l’ex primo ministro Silvio Berlusconi (per inciso fino ad ora arcirussofilo) ha fondato il suo impero dei media in primi anni ’80», si legge nell’articolo.

Tutti i quotidiani e gli opinionisti, all’estero, evidenziano un grande bias del giornalismo e dei talk show televisivi del nostro Paese: confondere il pluralismo con la parità di trattamento di tutte le opinioni nello spazio pubblico. Il pluralismo e la libertà di parola sono fondamentali per la democrazia, ma la democrazia richiederebbe una verità basata sull’evidenza.

«L’ Italia è vista come un potenziale cavallo di Troia per la disinformazione del Cremlino», scrive Politico. «Anche durante la pandemia l’obiettivo della Russia era di dare l’impressione che le strategie di Pechino e Mosca fossero più efficaci contro il virus rispetto alla democrazia occidentale».

Anche il quotidiano britannico Guardian aveva ripreso l’argomento nella prima metà di maggio, partendo dall’indagine del Copasir, la commissione parlamentare per la sicurezza dell’Italia, scattata dopo le proteste per l’intervista al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov su Rete 4. Lo stesso aveva fatto l’agenzia internazionale Reuters, ricordando che «l’Italia non ha tradizione di interviste televisive aggressive con i politici».

Alcuni esperti e opinionisti dotati di buon senso hanno iniziato a rifiutare le partecipazioni a questi talk show, un piccolo gesto di protesta contro lo spazio dato alla propaganda russa. Nathalie Tocci, numero uno dell’Istituto per gli affari internazionali dell’Italia, aveva rifiutato di partecipare a un programma perché uno degli ospiti era un funzionario dal ministero della Difesa russo: «Non sono disposta a diventare complice della disinformazione», era stata la sua spiegazione. Un segnale di speranza, sorpassato a destra da chi si fa guidare dalla propaganda del Cremlino nel pieno di una guerra voluta da Vladimir Putin.

Bieloitalians. L’informazione italiana oggi è un problema internazionale, ma il putinismo ne è l’effetto, non la causa. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 23 Maggio 2022.

Se giornalisti, politici e intellettuali di altri Paesi vogliono capire per quale ragione proprio qui le bufale più inconsistenti e i propagandisti più screditati trovano una così benevola accoglienza, devono avere la pazienza di risalire un po’ più indietro nel tempo.

Dagli Stati Uniti all’Europa, dalla Cnn a Politico, passando per il canale franco-tedesco Arte, il resto del mondo comincia a interrogarsi con angoscia sulla straordinaria capacità di penetrazione della propaganda russa in Italia, ma rischia di scambiare l’effetto per la causa. Vladimir Putin non è infatti l’artefice della disinformazione così diffusa nel nostro Paese, se non in minima parte. Ne è piuttosto il beneficiario.

Il fatto che prima Giuseppe Conte, poi Matteo Salvini e infine anche Silvio Berlusconi abbiano preso posizione, sebbene con diverse sfumature e ripensamenti, contro il sostegno militare a Kiev, non può non preoccupare i nostri alleati. Tanto più tenendo in conto come la stessa Giorgia Meloni fino a ieri non fosse certo ostile a Putin, e tutt’ora faccia a gara con Salvini nel contendersi l’amicizia di Viktor Orbán, cioè il migliore alleato di Putin in Europa.

Se a tutto questo aggiungiamo pure i numerosi distinguo che si sentono a sinistra, la posizione che nel resto dei Paesi occidentali accomuna circa due terzi del sistema politico e dell’opinione pubblica – vale a dire il semplice sostegno all’Ucraina – appare qui appannaggio di una minoranza nemmeno molto consistente (in pratica il Pd di Enrico Letta e i piccoli partiti di area liberaldemocratica, Più Europa, Azione, Italia viva, con qualche occasionale sbandamento anche lì).

Giusto un mese fa, notavo su queste pagine come, nonostante o forse proprio a causa degli imbarazzanti trascorsi putiniani di tanti politici italiani, i nostri rappresentanti non avessero dato affatto un cattivo spettacolo. Anzi, date quelle premesse, un mese fa pareva di assistere piuttosto a un miracolo di consapevolezza e responsabilità, da parte della politica, cui faceva però da contraltare l’impazzimento del sistema dell’informazione, che dava (e continua a dare) il peggio di sé. La novità dell’ultimo mese è che un bel pezzo del sistema politico, semplicemente, si è accodato.

Ciò nonostante, gli agenti di Putin che probabilmente hanno alimentato questa naturale tendenza dell’informazione e della politica italiana, secondo me, hanno buttato i soldi, pagando per servizi che avrebbero ricevuto comunque gratis.

L’idea che dietro lo spettacolo di certi talk show e di certi giornali che oggi giustamente scandalizza il mondo ci siano operazioni coperte del Cremlino mi persuade tanto poco quanto l’antica teoria secondo cui dietro il comportamento corrivo della stampa ai tempi di Mani Pulite ci fosse una manovra della Cia o della finanza internazionale. Come non ho mai creduto che i direttori di tutti i principali giornali dei primi anni Novanta fossero la longa manus di un governo americano deciso a vendicare l’affronto di Sigonella, così non penso che direttori e conduttori di oggi siano agli ordini di Putin

Intendiamoci, non metto in dubbio l’influenza che servizi segreti o grande finanza possono esercitare sulle vicende politiche. Al contrario, penso che la cultura antipolitica, antiparlamentare, populista del novanta per cento del giornalismo e dell’intellettualità italiana costituisca il terreno ideale per qualsiasi operazione del genere, a un punto tale da renderle persino superflue.

È da qui che bisogna partire se si vuole capire perché negli Stati Uniti, per fare solo un esempio, ci sono oggi la Fox e canali di informazione della destra cospirazionista come Breitbart, ma ci sono anche il New York Times, il Washington Post e la Cnn, e a nessuno potrebbe mai capitare di confonderli, mentre in Italia le stesse parole d’ordine dei populisti, a cominciare dalla campagna contro la «casta», nascono proprio dalle testate più autorevoli e blasonate, come il Corriere della sera (subito seguito da tutti gli altri). È da qui che bisogna partire se si vuole capire perché né in America, né Francia, né in Germania né altrove, all’interno dell’Occidente democratico, si vede nulla di paragonabile a quello che ogni giorno si vede alla televisione italiana.

Se giornalisti, politici e intellettuali di altri Paesi vogliono capire cosa sta succedendo in Italia, per quale ragione proprio qui le bufale più inconsistenti e i propagandisti più screditati trovano una così benevola accoglienza, devono avere la pazienza di risalire un po’ più indietro nel tempo. Il putinismo di oggi, infatti, è semplicemente l’altra faccia del populismo. E il populismo non nasce certo col Movimento 5 stelle.

In verità, bisognerebbe risalire alle origini stesse dello Stato unitario. Il disprezzo per la democrazia parlamentare, i suoi riti e le sue lentezze, è una caratteristica della cultura italiana sin dal 1870, e cioè da quando, come scrisse Benedetto Croce, la «prosa» dell’ordinaria amministrazione prese il posto della «poesia» del Risorgimento, delle guerre d’indipendenza e dei moti rivoluzionari.

Di qui la demonizzazione del «trasformismo». Di qui la pubblica esecrazione di Giovanni Giolitti, contro cui si scagliano poeti, retori e moralisti di destra e di sinistra, il Gaetano Salvemini che gli dà del «ministro della malavita» e il Gabriele D’Annunzio alla guida di quelle «radiose giornate» di maggio che precipiteranno l’Italia nella Prima guerra mondiale, contro il volere di Giolitti e della stessa maggioranza parlamentare, messa sotto scacco da una campagna violentissima, nelle piazze e sui giornali: dal Corriere della sera di Luigi Albertini al Popolo d’Italia di Benito Mussolini

È una tradizione antica, che ha spianato la strada al fascismo, e anche nella Repubblica fondata dai partiti antifascisti ha presto ripreso piede, mescolandosi con il sovversivismo di certi movimenti degli anni Sessanta e Settanta in una miscela esplosiva.

Da questo punto di vista, la forza del Partito comunista italiano e anche della Chiesa cattolica, se da un lato ha contribuito a diffondere una certa diffidenza, diciamo così, nei confronti degli Stati Uniti e dell’atlantismo in generale (diffidenza peraltro non sempre infondata), dall’altro è stata anche un argine e un bersaglio di quei movimenti di contestazione. Alla fine, specialmente nel mondo della cultura e della comunicazione, ha prevalso però quell’impasto di ideologia, sentimenti e risentimenti apparentemente immune a tutte le lezioni della storia, che dalla contestazione della società borghese e del regime democristiano degli anni Settanta lasciava cadere le formule più usurate, ma non la sostanza né il fervore anti-politico e anti-istituzionale, riutilizzandoli tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta contro la «Prima Repubblica» e la «partitocrazia». Fino all’apoteosi di «Tangentopoli».

Si potrebbe poi ulteriormente approfondire come questa lettura della nostra storia e persino del nostro carattere nazionale influenzasse gli osservatori stranieri, e viceversa, in un gioco di azione e reazione tra i rispettivi pregiudizi, in cui avranno un ruolo importante gli storici inglesi, da Denis Mack Smith a Paul Ginsborg, segnando il modo in cui le vicende italiane saranno e sono tutt’ora interpretate anche dalla stampa e dagli osservatori internazionali. Di qui, forse, il loro attuale, comprensibile, ma anche ingiustificato stupore.

Altri bieloitalians. L’informazione italiana è pessima, ma è complice e non causa del declino del Paese. Mario Caligiuri su L'Inkiesta il 24 Maggio 2022.

In risposta a Francesco Cundari, Mario Caligiuri spiega che, a suo avviso, la vera colpa dei media è quella di mantenere in vita, manipolando i cittadini, un sistema politico ormai finito e subordinato al potere economico.

Sono grato a Francesco Cundari che non schiaccia sulla cronaca minuta del presente le analisi sulla gigantesca – e strutturale – disinformazione in atto, particolarmente in questo periodo di guerra.

La sua contestualizzazione storica è molto interessante, spaziando dalla nascita dello stato unitario alle culture politiche che in passato hanno egemonizzato la società italiana, da quella cattolica a quella comunista.

Ineteressante anche l’analisi del trasformismo, che, per esempio, vede Mussolini nell’arco di pochissimi anni passare dall’astensionismo all’interventismo.

Trasformismo che viene inaugurato dalle classi politiche toscane, per le vicende dalla capitale e delle ferrovie, diventando poi una cifra distintiva meridionale e adesso nazionale.

Posto questo indubbio merito della riflessione di Cundari, provo a precisare qualche aspetto del sistema mediatico nazionale dal secondo dopoguerra in poi, purtroppo semplificandolo per ragioni di tempo e di spazio.

Prima di tutto va precisato il ruolo dei partiti, i cui organi di stampa facevano opinione ben al di là degli elettori di riferimento.

In secondo luogo, il ruolo della televisione che, gradatamente, riesce a essere sempre più pervasiva, con conseguenze certamente positive negli anni Cinquanta e Sessanta, quando contribuì ad aumentare il livello linguistico, di istruzione e culturale degli italiani.

Secondo me, il piccolo schermo incide nella profonda trasformazione sociale, oltre al ruolo misconosciuto della riforma scolastica di Giovanni Gentile, che assicura le basi e la visione culturale del Sessantotto, con le indubbie conquiste e le indubbie degenerazioni.

Il sistema mediatico si amplia negli anni Settanta e Ottanta con le radio libere e soprattutto con la televisione commerciale.

Sarà l’epoca dei “giornali partito” (Repubblica) e delle “tv partito” (Mediaset).

Inoltre, il controllo delle fabbriche dell’informazione, soprattutto da tangentopoli in poi, segue la logica che potremmo definire “del termitaio”, dal titolo dell’illuminante libro di Alberto Statera che parla dei signori degli appalti che comandano l’Italia: dal ciclo del cemento, oggi diventato fortemente infiltrato dalla criminalità, si sono accumulate risorse diversificate in precise direzioni per acquistare organi di informazione, squadre di calcio e partecipazioni bancarie. Tre ambiti attraverso i quali si può manipolare il consenso e il comportamento dell’opinione pubblica.

I media sono praticamente tutti schierati, a fronte di una debolezza evidente della politica, fenomeno tipico delle democrazie occidentali del XXI secolo. Circostanza che in Italia si è consolidata attraverso partiti personali e con liste bloccate nelle elezioni politiche che determinano già in partenza il numero prevalente degli eletti. La conseguenza inevitabile è la carica degli incompetenti nel Parlamento e al governo.

Una deriva prevista da Ulrich Beck già prima del crollo del muro di Berlino: la politica non è il più il luogo centrale dove si decide il futuro della società, con i Parlamenti costretti a giustificare decisioni assunte altrove.

Per cui anche incompetenti e sconosciuti possono assurgere al ruolo di massimi rappresentanti di una delle dieci potenze industriali del mondo, confermando il fenomeno della decadenza della sfera pubblica.

Il tema su cui insiste Cundari è quello dell’antipolitica. Occorre necessariamente chiarirlo per evitare di confondere, come spesso succede, le cause con gli effetti.

Secondo me, l’antipolitica prevalente non è quella espressa dal sistema mediatico, che segue precise linee economiche: basti vedere la proprietà delle tv e dei giornali, con la Rai da sempre occupata dai partiti, ascoltando negli ultimi anni l’ipocrita e surreale affermazione – sulla quale incredibilmente nessuno si sofferma – di liberarla da essi.

L’antipolitica è quella che popola da lustri il Parlamento, esprimendo personaggi improbabili in ruoli alta responsabilità.

In tale quadro, il sistema mediatico è il maggiore responsabile di questo storytelling: anziché mettere a nudo le insufficienze del sistema lo rende addirittura credibile.

Nei primi anni Novanta, Jacques Séguéla aveva già chiarito che la dichiarazione di un ministro si poteva assimilare a una pagina di pubblicità, mentre nello stesso periodo la nostra veniva definita “La repubblica delle marchette”, per il ruolo preminente della propaganda commerciale nei contenuti delle varie testate.

Alcuni talk show, da quelli di Santoro e Funari fino a quelli di oggi, sono perfettamente funzionali allo schema, finendo con il rafforzare di fatto il debole sistema politico.

Trasmissioni come “Le iene”, hanno offerto, (castigat ridendo mores), qualche spiraglio, poi subito chiuso, sul grado culturale dei nostri rappresentanti politici (che non incide affatto sulle carriere, poiché i requisiti sono di ben altra natura) e sul loro consumo delle droghe (trasmissione mai mandata in onda).

Gianfranco Sanguinetti osservava che «lo spettacolo quando non viene ucciso rafforza sé stesso».

La realtà è davanti agli occhi di tutti, ma non orienta le maggioranze. Allo stesso modo della verità, che è ampiamente sopravvalutata.

Questo dipende dal sostanziale livello di istruzione dei cittadini, che: per tre quarti non riescono a comprendere una semplice frase nella nostra lingua; per quasi un terzo sono analfabeti funzionali; per una quota rilevante si constata un divario preoccupante tra realtà e percezione della realtà.

Con queste premesse, c’è da interrogarsi seriamente sulla reale natura dei risultati elettorali, e quindi della democrazia, nel nostro Paese.

Il sistema mediatico è il complice principale del sistema politico, a sua volta subordinato a quello economico, sia nella dimensione nazionale che nelle alleanze internazionali.

Analizzare il mondo dell’informazione oggi in Italia significa prendere atto della inadeguatezza del sistema politico, mantenuto in vita e reso credibile principalmente da un sistema mediatico che manipola le deboli competenze alfabetiche della maggioranza degli italiani.

Il resto è una conseguenza.

Porre quindi al centro delle azioni politiche l’educazione e non l’economia rappresenta, al di là di ogni ragionevole dubbio, la priorità politica del nostro Paese. E dato che le ricadute delle riforme scolastiche e universitarie si osservano dopo decenni, temo che il peggio debba ancora arrivare. Come eloquentemente dimostra il recente concorso per accedere alla magistratura.

Buongiorno Bieloitalia. Gli ucraini non combattono per procura, sono i nostri compagni contro il fascismo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.  

Kiev denuncia da anni la pianificazione russa volta a cancellare l’Ucraina e a sterminare un’intera nazione. È arrivato il momento di aiutare sul serio un popolo coraggioso che difende la sua indipendenza sul fronte libero dell’Europa.

C’è un formidabile libro di alcuni anni fa scritto da Philip Gourevitch a proposito dell’atroce genocidio in Ruanda del 1994, quello che fece oltre un milione di vittime in poche settimane e tutto il mondo rimase a guardare. Il titolo del saggio è “Desideriamo informarvi che domani saremo uccisi assieme alle nostre famiglie”.

Quell’annuncio insieme burocratico e agghiacciante, come se la notifica di sterminio imminente fosse l’avviso della prossima fermata della metropolitana, è più o meno quello che sta capitando quotidianamente al popolo ucraino in lotta per la sua sopravvivenza. Ogni maledetto giorno a est e a ovest di Kiev suonano le sirene che avvertono dell’arrivo di missili russi, mentre la sera gli ospiti dei nostri talk show fanno un osceno intrattenimento a spese delle vittime che cercano riparo nei corridoi e negli scantinati assieme ai bambini costretti a convivere con gli incubi, il tutto a maggior gloria degli aggressori nazibolscevichi. 

Inascoltati dal 2016, ma in realtà da molto prima, gli ucraini denunciano da anni la pianificazione russa per cancellare il loro paese e per sterminare fisicamente e culturalmente un’intera nazione. Sono stati ignorati, nonostante i russi ci abbiano provato sistematicamente almeno dai tempi dell’Holodomor, della pianificazione staliniana della carestia, a eliminare gli ucraini in quanto nemici del popolo.

Da tempo, gli ucraini avvertono anche noi europei delle intenzioni imperialiste del Cremlino perché sanno che se Putin dovesse prevalere a Kiev, dopo toccherà a noi combattere. 

La Finlandia, la Polonia, la Svezia e i paesi baltici lo sanno benissimo e infatti si mobilitano e prendono decisioni sofferte e storiche che fanno piangere i guitti da talk show.

Noi che siamo più lontani dal fronte, invece, affidiamo la salvaguardia delle nostre libertà alle mani sicure della televisione spazzatura di Urbano Cairo e ai propagandisti russi e bieloitaliani del Cremlino, illudendoci che un solenne inchino a Putin possa farci schivare il colpo e che pettinare il fascismo russo possa rendere Putin ragionevole e caritatevole.

Nel tentativo in corso dei russi di sterminare gli ucraini c’è un’aggravante, rispetto al genocidio Tutsi perpetrato dagli Hutu in Ruanda: gli aggrediti, questa volta, non devono soltanto trovare riparo dai machete aerei russi ed escogitare nuovi modi per resistere e per respingere l’invasore, ma sono anche costretti ad ascoltare i surreali appelli ad arrendersi a mani alzate o a rinunciare a una fetta della propria indipendenza.

Il paradosso è che non si tratta di appelli alla resa lanciati dai russi, i quali invece continuano imperterriti a bombardare i civili indossando gli usuali guanti bianchi già messi in mostra ad Aleppo e a Grozny, ma sono appelli alla capitolazione a cura dei volenterosi complici di Putin in giro per l’Europa e di stanza nei reggimenti dell’operazione speciale televisiva di La7, Rete4 e un pezzo della Rai.

Sentendo il gelido annuncio ucraino «desideriamo informarvi che saremo uccisi dai russi assieme alle nostre famiglie», la risposta degli appeaser bieloitaliani è del tipo: cari ucraini, arrendetevi, lasciatevi soggiogare, in fondo ve la siete cercata. 

Non siamo tutti così, naturalmente, e dobbiamo ancora rallegrarci che Mario Draghi non sia stato rimosso da Palazzo Chigi per andare a svernare al Quirinale, altrimenti oggi anziché del finto piano di pace di Di Maio discuteremmo di una proposta di adesione italiana alla Federazione russa.

Palazzo Chigi, il Quirinale, la Difesa, la Cisl di Luigi Sbarra tengono la barra dritta dell’Italia, ma, come ha scritto Gourevitch nel libro sul Ruanda, le buone intenzioni non bastano perché denunciare il male è tutt’altra cosa rispetto a fare del bene.

Fare del bene oggi è inequivocabilmente salvare l’Ucraina e proteggere gli ucraini con una grande campagna di solidarietà europea e occidentale, accogliendoli a braccia aperte nell’Unione e nella Nato, con aiuti umanitari e finanziari, ma soprattutto con la fornitura accelerata di tutti i sistemi di difesa possibili affinché Kiev rispedisca i russi nelle loro fogne, perlomeno fino a quando continueremo a finanziare lo stragismo russo acquistando il gas e il petrolio dalla cosca del Cremlino. 

Come ha scritto Garri Kasparov su Twitter: senza le armi che ha chiesto, l’Ucraina oggi sanguina e Putin accelera l’annessione di altri territori ucraini, rilasciando passaporti russi ed emettendo rubli, uccidendo e deportando migliaia di ucraini rimpiazzandoli con i russi, come sta facendo da otto anni con l’occupazione della Crimea e del Donbas.

Ha scritto, infine, Kasparov: «Basta pensare alle concessioni che potrebbe fare l’Ucraina, perché l’Ucraina sta pagando un prezzo orrendo in termini di sangue, peraltro sapendo che serviranno decenni per ricostruire il paese; l’Ucraina sta anche pagando il prezzo di anni di debolezza e corruzione delle nazioni europee che hanno concluso affari e stretto rapporti diplomatici con il suo invasore. L’Ucraina ha bisogno delle armi che chiede senza esitazione, e il modo libero è fortunato ad avere un esercito coraggioso e preparato come quello ucraino in prima linea, al fronte di una guerra che gli ucraini non hanno mai voluto e che l’occidente ha fatto finta non esistesse. Gli ucraini non combattano questa guerra per procura, gli ucraini sono i nostri partner». Sono i nostri compagni nella lotta al fascismo.

La giravolta dei media occidentali sulla guerra in Ucraina non è casuale. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 23 maggio 2022.

Nell’ambiente dell’informazione a stelle e strisce esiste un segreto di Pulcinella: il New York Times è la voce delle divisioni nelle stanze dei bottoni. Quando l’equilibrio bipartisan viene meno, quando il partito al potere è lacerato da rivalità intestine e quando la voglia di golpe morbido è nell’aria, il NYT è la piattaforma che dà sfogo alle gole profonde che parlano su ordine di qualche eminenza grigia.

Il NYT avrebbe avuto più difficoltà a guadagnarsi il titolo di “giornale dei record”, una nomea dovuta alla vittoria di 132 premi Pulitzer, se qualcuno non lo avesse scelto per farne il megafono del malcontento e delle lotte (invisibili al pubblico) che pervadono e plasmano lo Stato profondo. Ed è così che il NYT ha potuto pubblicare i Pentagon Papers ai tempi della guerra in Vietnam e le inchieste sullo scandalo Iran-Contras durante l’era reaganiana, sui crimini commessi dalle truppe americane durante la Guerra al Terrore, sull’emailgate durante le presidenziali del 2016 e, oggi, sulla guerra in Ucraina.

Dopo gli articoli rivelatori sul ruolo giocato dall’intelligence a stelle e strisce nella campagna ucraina di eliminazione sistematica degli alti gradi russi in trincea e di neutralizzazione di obiettivi strategici, come il Moskva, il 19 maggio il NYT ha pubblicato un editoriale che ha fatto discutere sia in patria sia all’estero, What is America’s Strategy in Ukraine?, perché lapidario nella forma e nel contenuto: l’Ucraina non può vincere, gli Stati Uniti devono riconoscere la realtà sul campo e agire di conseguenza.

La domanda è (più che) lecita: perché il NYT è diventato il capofila del (crescente) movimento di opposizione al coinvolgimento attivo degli Stati Uniti nella guerra in Ucraina? Tra pericolose fughe di notizie ed editoriali controcorrente, che per via della trasformazione del mondo in villaggio globale possiedono una eco dirompente e ipersonica, il NYT sta in qualche modo influenzando il dibattito sulla guerra sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo occidentale. E la domanda nella domanda è persino più legittima della prima: la tendenza sdoganata dal NYT è sintomatica di una voglia di pace con la Russia o di una parte dell’establishment in rivolta contro la presidenza Biden?

Pace con la Russia, guerra in casa?

L’editoriale offensivo del NYT ha centrato l’obiettivo: dal 19 maggio, in Occidente, non si parla che del modo in cui trovare una soluzione concordata al conflitto, cioè se pace cartaginese – guerra a oltranza con fine l’umiliazione della Russia – o se pace viennese – riattivazione dei canali diplomatici e compromesso accettabile all’unanimità. Il primo a sfidare tale tabù, a onor del vero, era stato Emmanuel Macron. Ma la differenza è sostanziale se a lanciare l’appello è Parigi o un pezzo di Washington.

La campagna di boicottaggio trainata da NYT, ad ogni modo, potrebbe avere a che fare più con la guerra che con la pace. Perché negli Stati Uniti, a breve, avranno luogo le attesissime elezioni di medio termine e i Democratici rischiano di arrivarvi divisi internamente, causa gli screzi tra il duo Biden-Blinken e il resto dell’amministrazione, e indeboliti da fattori esogeni, in particolare l’infelice congiuntura economica del momento – carenza di beni, caro-energia, inflazione. A fare da sfondo, le divergenze di vedute tra Langley, Pentagono e Casa Bianca su come affrontare la principale minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti di questa epoca: la transizione multipolare.

Il NYT, all’interno di questo contesto bellico al quadrato – con gli Stati Uniti impegnati in una guerra per procura in Ucraina e in una guerra civile in casa –, sta dando spazio e visibilità al dissenso del partito antibideniano, espressione dell’ala più moderata dei Democratici e del vivo e vegeto trumpismo. Una questione di guerra, che, però, ha meno a che fare con la Russia e più con gli Stati Uniti: attaccare la gestione del fascicolo ucraino, diffondendo peraltro notizie compromettenti, per screditare la presidenza Biden in vista dell’appuntamento elettorale di medio termine e con orizzonte temporale l’incerto 2024.

Ma non è solo questione di politica interna

La voglia di pace, o sarebbe meglio scrivere di distensione, è nell’aria. E lo è in modo particolare dal 24 aprile, ovvero dal giorno in cui il teorico dell’autonomia strategica, Emmanuel Macron, è stato rieletto alla guida dell’Eliseo. Un evento che ha fatto sospirare Olaf Scholz, oppresso dai Verdi e da Biden, e che è stato accolto calorosamente in quella parte di Unione Europea che anela all’emancipazione (geo)politica dagli Stati Uniti e nella Federazione russa alla ricerca di una via d’uscita dal pantano ucraino.

A partire da quel giorno, dal 24.4, la narrativa europea sulla guerra è cambiata: no ad un accesso dell’Ucraina nell’Eurofamiglia in tempi brevi, no a sanzioni che danneggino eccessivamente l’economia comunitaria, no ad una pace cartaginese con la Russia che rischi di destabilizzare ulteriormente il Vecchio Continente. Perché la geografia conta. La prima regola della geopolitica recita, non a caso, “ricorda con chi confini”. E questo è il motivo per cui se agli Stati Uniti conviene fare dell’Ucraina un ariete contro la Russia, l’Europa ha tutto da perdere da una periferia orientale devastata da fiamme in grado di raggiungere (e far esplodere) la polveriera balcanica.

La rielezione di Macron, in estrema sintesi, ha avuto delle ripercussioni riguardevoli negli Stati Uniti, dove è stata sfruttata dal partito antibideniano per indebolire l’attuale presidenza. Ma c’è di più: se l’ala moderata dei Democratici e i simil-isolazionisti trumpiani invocano una pace non è soltanto per antipatia politica, o peggio per un desiderio di tradire l’Interesse nazionale, ma perché consapevoli che raggiunti gli obiettivi primari attraverso l’Ucraina, equivalenti al disaccoppiamento eurorusso, al rafforzamento della NATO e alla piantatura di semi della discordia nello spazio postsovietico e nella cerchia putiniana, il prolungamento (eccessivo) del conflitto perde significato e aumenta i rischi di uno scontro frontale tra Stati Uniti e Russia.

L’amministrazione Biden è al corrente del conseguimento degli obiettivi primari, e non casualmente ha cominciato a inviare dei segni di distensione in direzione della Russia, ma non sembra avere intenzione di premere l’acceleratore sul processo di pace. Non ora. Non dopo aver approvato un pacchetto di aiuti a Kiev del valore di 40 miliardi di dollari. Non dopo aver tirato fuori dal cassetto la celebre Legge degli affitti e prestiti della Seconda guerra mondiale. Questione di ritorno economico. Volontà di indebolire ulteriormente la Russia, foraggiandola al tempo stesso, impiegando una tattica modellata sulla guerra Iran-Iraq.

L’ala moderata dei Democratici e il partito trumpiano, utilizzando il sistema mediatico come uno strumento per delegittimare la presidenza Biden e sabotarne l’operato, hanno una visione differente dei fatti. La guerra va fermata il prima possibile per evitare escalation esiziali per gli Stati Uniti, per impedire la castrazione dell’Ucraina – che se ridimensionata oltremisura e privata di sbocco sul mare perderebbe valore strategico nel contenimento della Russia – e, soprattutto, perché il testimone del litigio, che è anche il vero obiettivo di lungo termine di Washington, ossia Pechino, nel silenzio prende appunti e trae indirettamente profitto dal conflitto nella speranza di catalizzare la transizione multipolare.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. 

Teste mozzate e corpi maciullati: la guerra su Instagram. Giuseppe De Lorenzo il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Su Telegram i due eserciti registrano le perdite inflitte al nemico. Così si forma un archivio dell'orrore.

C’è il video di un soldato russo legato come un capretto, con gli occhi bendati e le mani legate dietro la schiena. Un carro colmo di cadaveri ucraini in putrefazione. Teste spappolate. Corpi carbonizzati. Distese di fosse comuni. Cadaveri sbranati dai cani, lasciati lì come costolette d’agnello mezze mangiucchiate. Ossa spolpate. Crani maciullati. Occhi fuori dalle orbite o strappati dagli uccelli. E sangue, sangue ovunque. Se dovessimo sintetizzare questa galleria degli orrori, la chiameremmo una “fossa comune” online. Una sorta di calderone di cadaveri, il luogo virtuale dove stanno confluendo tutti i volti, le storie, gli occhi senza vita dei soldati russi e ucraini caduti sul campo di battaglia.

Le immagini dell'orrore

Si è detto spesso che questa guerra, iniziata il 24 febbraio con l’invasione russa, è uno dei conflitti più “coperti” della storia. Merito dei tanti cronisti al fronte, ovviamente. Ma anche e soprattutto della diffusione dei cellulari: ogni smartphone è un possibile testimone. Registra le carcasse dei tank abbattuti diventati la tomba ardente dei soldati. Oppure può essere utile per farsi un selfie con l’invasore di turno, spedito da Putin a morire nell’anonimato. Il generale Tricarico, vedendo le foto dei cadaveri dei militari russi accatastati nei freezer, ha definito la guerra in corso come un conflitto “primordiale” in cui ci si dimentica anche dei propri caduti. O forse, una guerra dove gli orrori - che sono sempre esistiti - vengono banalmente registrati, diffusi, verificati e infine resi noti al pubblico.

Le "spie" in rete

A muoversi in questo cruda melma sono ovviamente le intelligence di tutto il mondo. Ma ci sono anche i cosiddetti Osint, termine che sta per “Open Source Intelligence”, ovvero smanettoni amatoriali che usano le fonti aperte per raccogliere e diffondere notizie, foto e video dai fronti di guerra. Matthew Moran, professore di sicurezza internazionale al King’s College di Londra, descrive questo fenomeno come il lavoro svolto da chi “raccoglie, monitora e analizza informazioni pubblicamente accessibili utilizzando metodi e strumenti specializzati”. Immagini satellitari, geolocalizzazione, analisi grafica, intercettazioni radio. In pratica, fanno il lavoro delle spie, o dell’intelligence, ma senza essere legati a organizzazioni statali. Basta avere una connessione internet e il gioco è fatto.

Il caso più eclatante è sicuramente quello di Bellingcat, che nella guerra russo-ucraina ha ricostruito le “bugie” della Russia sul massacro di Bucha analizzando video, foto satellitari e notizie. Ma non è l’unico caso. Si pensi ai video su Tik Tok che mostravano i movimenti delle truppe russe al confine con l’Ucraina. Oppure ai video di Telegram e alle foto satellitari che hanno svelato l’avanzata di Mosca sul campo. O ai filmati che proverebbero i crimini di guerra. Qualcuno è addirittura riuscito a intercettare trasmissioni radio non crittografate. Per dirla con Moran, questi analisti o investigatori si muovono “come un cercatore d'oro, che setaccia attentamente il fango informativo di Internet alla ricerca” di informazioni preziose per ricostruire gli eventi. Bellingcat ha anche redatto una “guida” per spiegare come diventare un investigatore open source. Facile.

Il gusto per la violenza

Partiamo da una premessa. Dopo aver visionato migliaia di filmati e fotografie, molte delle quali rivoltanti, in redazione ci siamo chiesti se fosse il caso di pubblicare alcuni dei contenuti. Ma soprattutto se rivelare o meno il nome delle chat Telegram su cui abbiamo focalizzato la nostra inchiesta. Abbiamo scelto alla fine di conservare in archivio le immagini, perché eccessivamente drammatiche (pur sempre di persone uccise si parla). E di non fare pubblicità gratuita a canali che vivono di questi orrori, per non portare loro ulteriore traffico.

Perché il problema è che ogni medaglia ha anche il suo rovescio. In questo caso sono due. Primo: non solo i “buoni” fanno uso di questi strumenti: frotte di account russi si muovono nel mare magnum della Rete allo stesso modo degli ucraini. Secondo, a volte il rischio è che attività nate con lodevoli intenti si trasformino in qualcosa di più. O di peggio. Prendiamo ad esempio due account Telegram sul fronte ucraino: D.r.s. e S. Il primo è un calderone di foto di soldati russi trucidati, in alcuni casi con i passaporti o i documenti di identità, per tenere un elenco dei nemici ammazzati. Anche il ministero della difesa di Kiev sta realizzando un archivio simile, pubblicato addirittura in un sito internet ad uso delle madri russe che volessero cercare notizie dei propri figli. Il secondo, invece, è un caso particolare. E interessante.

Il più macabro dei canali Telegram

Il fondatore di S., che ha accettato di parlare col Giornale.it dietro anonimato, inizia a interessarsi di open source intelligence dopo il caso WikiLeaks nel 2010, quando venne rivelato il filmato di un elicottero americano mentre faceva fuoco sui civili. Poi nel 2014 il salto di qualità: S. si mette a lavorare sulla guerra siriana e sull’invasione russa della Crimea. Alla fine del 2021 intravede i primi spostamenti delle truppe di Putin al confine con l’Ucraina e capisce di “dover dedicare una pagina specifica a questa guerra”. Inizialmente S. si limita a pubblicare su Twitter notizie e geolocalizzazioni, compresi video e foto, con “l’obiettivo di coprire a fondo la guerra”. Poi a un certo punto, dopo la strage di Bucha, decide “che non bastava”. “Non riuscivo a sopportare più di trattare i russi come esseri umani - dice - E così ho iniziato a condividere le foto dei loro soldati morti”. Oggi ha accumulato quasi mille file di immagini e decine di video. Ognuno di essi è la fotografia dell’orrore, che S. condivide con i suoi 3mila follower prendendosi gioco delle vittime. Lo seguono media televisivi, agenzie di intelligence, giornalisti più o meno famosi. Si tratta senza ombra di dubbio di uno dei canali più macabri in circolazione. Nessuna censura, e la scelta di utilizzare Telegram non è casuale: si tratta dell’unico social che, di fatto, non pone quasi alcun limite. “Non copro né offusco i volti dei cadaveri, perché altrimenti tornerebbero ad essere solo una statistica. Voglio invece provocare una vera risposta emotiva nel vedere un gruppo di russi morti”. Del milione di visualizzazioni fatte dal suo canale, il 2% almeno vengono dalla Russia. Qualcuno, è sicuro, lo avrà raggiunto.

"Paralizzare il morale dei russi"

L’obiettivo di S., così come quello di altri Osint, è chiaro. “Voglio mostrare al mondo le perdite che la Russia sta subendo. La mia speranza è che il mio lavoro impedisca ai russi di diventare soldati. Voglio che vedano le conseguenze delle loro azioni. Voglio che si sentano in colpa per i crimini che hanno commesso”. Altri Osint o canali si limitano a condividere i nomi e le foto, da vivi, dei militari uccisi. S. invece lavora coi cadaveri. E anche se è impossibile, per noi, verificare che tutti i contenuti arrivino davvero dall'Ucraina, è di per sé un fatto che facendo leva su queste immagini si stia cercando di combattere una parte della battaglia. “Credo che questo aiuterà la guerra psicologica contro la Russia e aiuterà a paralizzare il morale dei soldati russi”. Mestiere complicato, il suo. “Per verificare le immagini mi baso sulle uniformi, sugli equipaggiamenti e sui luoghi operativi dei russi. Inoltre geo-localizzo i luoghi utilizzando informazioni geo-spaziali e dettagli contenuti nei video”. Una volta raccolto il materiale, lo condivide coi i follower e grazie ad una fonte anonima invia il tutto a VKontakte (il Facebook russo) per raggiungere le famiglie dei soldati caduti.

È giusto "giocare" coi cadaveri?

Al netto del nobile scopo per cui combatte, i contenuti condivisi da S., tuttavia, sono file di cui, in teoria, non dovremmo andare fieri. Un video viene indicato come il “tutorial” per uccidere un russo. In un altro si vede un soldato ucraino giocare con la gamba mozza di un soldato avversario: prima gli fa il “solletico” e poi la usa come stampella. Un altro ancora mostra l’esplosione in diretta di un militare di Putin. Un terzo, impossibile da verificare, riprende un uomo che stacca con una mannaia la testa del nemico e poi la mostra felice verso l'obiettivo dopo avergli infilato una bandiera in bocca. Come se non bastesse, c'è anche chi pianta il proprio coltellino - come fosse Excalibur - nell'orbita oculare di un soldato. Si spera già morto.

In questo gioco all'orrore, ogni cadavere viene indicato come “cold boy”, ragazzo freddo. Se il soldato russo è morto carbonizzato, viene soprannominato “barbecue boy”. Se catturato, “bondage boy”. Perché? Sono invasori e forse criminali di guerra, ma pur sempre di uomini senza vita si tratta. Ha senso prendersi gioco di loro? “Quando compi atti così vili contro l'umanità, allora non hai fatto ciò che credo sia necessario nella tua vita per essere rispettato dopo che sei morto”, dice S. “Alcune persone devono togliersi i guanti e insanguinarsi le mani, ma è tutto in nome della pulizia del mondo. Se ignoriamo le atrocità che si sono verificate, lasceremo semplicemente che accadano di nuovo”.

I canali telegram dei russi

In realtà la convenzione di Ginevra obbliga al rispetto del nemico “in ogni forma”, dunque anche il vilipendio di un cadavere potrebbe diventare un crimine di guerra. Per dire: nemmeno Bucha giustifica quel soldato ucraino che fa pipì sul cadavere di un russo e si riprende festante. E forse neppure i corpi disposti a forma di Z sull'asfalto. Il rischio che tutta questa documentazione possa "portare ad accusare l’Ucraina di violare le leggi sul trattamento dei prigionieri” c'è. S. lo sa. Ma i russi fanno pure di peggio. "Per ogni crimine di guerra ucraino vedo più di 20 crimini di guerra russi. Non è nemmeno paragonabile”, assicura S. I fatti di Bucha parlano chiaro. Le bombe sui civili pure. Ma anche il canale D. u. s., gestito da russi, è pieno di atrocità: cadaveri denudati, nemici bruciati, corpi buttati nei cesti dell’immondizia. E ancora: cataste di cadaveri di Azov esposti al pubblico ludibrio, le foto dei nemici deceduti commentate con un sarcastico “zzz” ed espressioni compiaciute tipo “un altro nazista ucraino liquidato”. Ogni foto di un soldato di Kiev ucciso viene corredato con la emoticon di un maiale. Lo stesso si vede in altri numerosi canali Telegram, come I.s. “Ogni singolo esercito del mondo ha commesso un crimine di guerra a un certo punto - fa notare S. - L'Ucraina potrebbe aver aver fatto lo stesso durante questo conflitto, ma in genere si tratta di situazioni una tantum. La Russia, invece, sta commettendo sistematicamente crimini di guerra in ogni singola città e villaggio in cui entra”.

La domanda è: tutto questo serve? Se lo si osserva dal lato ucraino, forse sì. James Rushton, analista britannico, fa un paragone con i campi di concentramento nazisti: “Se nessuno avesse scattato una foto, la gente ci crederebbe?”. Inoltre c’è anche una questione legale: condividere e ricostruire i dettagli di un filmato o di una foto, a volte, può permettere poi alle autorità di punire eventuali crimini di guerra. Lo stesso vale per i soldati russi morti in combattimento: se non ci fossero le immagini a testimoniarlo, forse oggi Putin potrebbe “rivendicare” di aver perso meno uomini di quanti in realtà ne ha mandati a morire. Osservato dal lato russo, invece, la condivisione dei corpi dei miliziani di Azov uccisi ha in fondo la stessa funzione: sollevare il morale di chi combatte, facendogli credere che non lo sta facendo inutilmente. “I russi avanzano, i nazisti muoiono”.

È macabro, ma è la guerra. In tutta la sua atrocità.

Scuola, la guerra in Ucraina e la lezione di Erodoto sulla storia come «autopsia» dei fatti. Marco Ricucci, professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano, su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

Il grande storico greco raccontava gli eventi visti coi propri occhi, i ragazzi oggi sono bombardati dalle immagini della guerra in Ucraina: come aiutarli a orientarsi? Può servire anche l’etimologia «sbagliata» del nome di un bimbo rimasto orfano

Historia magistra vitae. La storia è maestra di vita, anzi compagna della nostra vita scolastica, perché è una materia che studiamo dalle elementari fino alla soglia della maturità. Il padre della storia, a partire dalla famosa celebrazione ciceroniana, è senza dubbio Erodoto di Alicarnasso, greco vissuto tra il VI e V a.C., il quale fu testimone diretto del primo grande scontro tra Oriente e Occidente, tra mondo greco e il mondo persiano. Senza naturalmente voler cedere a tesi «orientalistiche» a partire dalle suggestioni del famoso saggio di Edward Said, per evitare la tentazione di fare anacronistiche attualizzazioni, è vero tuttavia che si scontrarono, in sostanza, due sistemi di valori: la libertà, la democrazia, il pensiero razionalistico, sebbene ai suoi primordi, da una parte, simboleggiata dalla grecità; e dall’altra, il dispotismo, «l’imperialismo», la religione come instrumentum regni, dall’altra, ovvero l’Impero persiano, crogiuolo di una moltitudine di popoli.

Guardiamo poi l’etimologia: il termine «storia» si collega a una radice greca del verbo «orao», che significa vedere, e genericamente indica la ricerca: Erodoto, grazie alla propria «autopsia» cioè attraverso la vista come mezzo più attendibile per avere informazioni sicure, fedeli alla realtà, perlomeno attendibili, viaggia in lungo e in largo e scrive la sua opera monumentale, appunto Le storie, che è poi il titolo. Se veniamo ai nostri giorni, i nostri alunni stanno «vedendo» due fatti della storia umana di portata epocale: la prima pandemia mondiale del terzo millennio e la guerra russo-ucraina, che crea non solo l’orrore, ma anche apprensione perché – si teme- possibile preludio alla terza guerra mondiale, se qualcosa va storto. Lo vedo in classe, e ne discuto, quando leggiamo e commentiamo qualche notizia sui quotidiani, sottolineando che ciò che oggi è cronaca domani sarà presto storia. Qualcuno propone di leggere il conflitto come lo scontro tra due sistemi di valori e visioni del mondo (Weltanschauung), ovvero tra democrazia e «democratura», tra libertà e autoritarismo, insomma tra la libertà e quanto è a essa contraria. Certamente, viviamo tutti un periodo complesso, come è appunto la storia come campo di indagine e materia scolastica.

Il tema storico alla maturità, come tutti noi ricordiamo, fu abolito ufficialmente tre anni fa, ma fu in certo modo ripristinato a seguito delle giuste rimostranze, tra gli altri, della senatrice Liliana Segre. Scrivere dunque la storia, in un tema di maturità, è un banco di prova importante per un adolescente, ormai sulla via della maggiore età e della presa di consapevolezza del senso della responsabilità civiche intese come insieme di diritti e doveri nella nostra Repubblica. In una vecchia intervista al Corriere della Sera , lo storico Andrea Giardina disse giustamente: «Le tracce per i temi storici della maturità, come sono state formulate negli ultimi dieci anni, sono dissuasive, deterrenti, fuori dal panorama culturale. Sono tracce bizzarre che disorientano. Inviterei gli esperti del ministero ad andare a rileggersi le tracce di storia che sono state date ai maturandi negli ultimi 10 anni. Avrebbero subito la risposta sul perché non sono state scelte. La loro stranezza è l’elemento più forte». Come dunque non riconoscere che il tema storico veniva boicottato da intere generazioni di maturandi, per puro disamore verso la formulazione di tracce poco chiare, a volte austere, complicate? Oggi la situazione è diversa: la storia è ritornata nei temi di maturità, distribuita, per così dire, nelle varie tipologie delle tracce dei temi, che i nostri maturandi si presteranno a fare tra circa due mesi scarsi.

Io ho una prima superiore, certamente non posso spiegare cose troppo «difficili» della guerra in corso nel commentare le notizie con cui ogni giorno, da qualunque media, siamo bombardati, ma le nostre ragazze e i nostri ragazzi non sono indifferenti e vogliono capire in un sottaciuto timore di scenari futuribili. Loro, però, sono, grazie ai media e in particolare a Internet, un po’ come Erodoto con la sua «autopsia» di fronte alla storia che si dipana…Nella mia classe di prima superiore, fatta di alunni-generazione-DAD, ho preso spunto da una tranche de vie ovvero da un fatto che ha commosso il mondo intero: una lettera di un bambino ucraino alla mamma, morta durante la fuga in auto. Ho chiesto alla mia classe di scrivere una lettera a questo bambino, Anatoly, come si sentivano di parlargli, con la massima libertà, raccontando quello che avevano capito di questo conflitto. Scrivere è diventato per loro più significativo, e la scuola- forse- un po’ più «affettuosa», come ebbe a dire una volta il Ministro Bianchi. Poi ho fatto una etimologia, forse errata, un po’ come l’erudito del VI d.C., Isidoro di Siviglia: Anatoly deriva dal greco antico «anatole» che significa alba. Ecco tutti aspettiamo, in un giorno prossimo, il sorgere di un nuovo sole di pace.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 3 maggio 2022.

«Un cronista russo che oggi scrive la parola guerra rischia di farsi quindici anni in galera». Quando Gina Chua denuncia quest'ultima complicazione del giornalismo contemporaneo, senza nemmeno accennare ai colleghi ammazzati o feriti in Ucraina dalle bombe di Putin, l'aula magna della Columbia Journalism School si indigna.

Il vero punto però non è esaltare il coraggio degli inviati, dandosi una compiaciuta pacca sulle spalle, che rischia di diventare patetica davanti all'eroismo di chi la guerra la combatte o la patisce in casa propria: «Il problema è che senza risorse e modelli di business efficaci questo giornalismo non si potrà più fare».

E immaginate il futuro delle nostre società, se non sapessimo nulla di quanto accade a Kiev, o nei crescenti angoli del mondo dove i diritti umani più basilari vengono calpestati da egotismo, ideologia, nazionalismo o semplice tornaconto personale.

Messa così, nessun cittadino responsabile può scrollare le spalle davanti alla crisi dell'informazione e tirare a campare. L'occasione per queste riflessioni viene dal weekend che ogni anno la Facoltà fondata da Joseph Pulitzer dedica agli ex alunni per aggiornarli. 

Stavolta l'ospite d'onore è il direttore del Los Angeles Times, Kevin Merida, ex managing editor al Washington Post con Bezos. E la musica non è piacevole: «Io amo la carta. Mi piace averla in mano, sfogliarla, scegliere la sezione da leggere. Mi piace la cura con cui la stampiamo. Però è inutile prenderci in giro: i giornali di carta spariranno tra uno e massimo cinque anni di tempo. Adesso non prendetemi alla lettera, per il gusto di smentirmi: magari qualcuno farà ancora qualche edizione stampata, tipo noi o il New York Times , ma la grande maggioranza diventerà solo digitale o chiuderà».

Merida scrolla la testa, quando pensa che «un tempo al Washington Post avevamo due redazioni separate per web e carta. Vanno integrate subito. Dovrebbero già esserlo ovunque, perché il prodotto è unico. È ridicolo tenerle divise». 

La crisi è in stato così avanzato che «bisogna porre il problema a livello nazionale come industria, perché servono finanziamenti per far sopravvivere il giornalismo soprattutto locale, anche dopo il passaggio al digitale. Noi forse ce la faremo, ma gli altri chiudono, lasciando intere città senza neanche una fonte attendibile di informazione».

Kevin confessa senza reticenze che «la chiave per noi è il marketing, bisogna provarle tutte per fare abbonamenti. Abbiamo anche lanciato un'offerta da un dollaro per 6 mesi, e in parte ha funzionato, perché diversi lettori hanno poi confermato la sottoscrizione. Vanno provate tutte, senza fare gli schizzinosi, perché in gioco è la sopravvivenza, e non bisogna limitarsi ad una sola strategia. 

Noi puntiamo sui servizi per la comunità ispanica in crescita. Organizziamo feste di quartiere con cibo e musica. Sui contenuti è ovvio che qualità, accuratezza e originalità devono distinguere i media tradizionali dai nuovi, ma non basta. Noi per esempio stiamo trasformando la parte immagini, video e non solo, oltre il giornalismo e verso l'intrattenimento».

Dove naturalmente non guasta essere nella città di Hollywood, a poche ore dalla Silicon Valley: «La misura del successo sarebbe se qualcuno che cancella l'abbonamento a Netflix lo facesse con noi». 

Poi va cercato il ricambio, perché senza non c'è futuro: «Dobbiamo sviluppare non solo il linguaggio, ma anche i contenuti per attirare i giovani. Non basta banalizzare i temi, accorciare i pezzi e togliere le parole difficili». 

Su queste macerie, il preside uscente Steve Coll ospita il suo panel dedicato alla difesa della libertà di stampa, perché è minacciata ovunque e tutto si tiene. Tra gli invitati c'è Gina Chua, già executive editor di Reuters e ora executive editor di Semafor, il nuovo media digitale globale fondato da Ben Smith, ex direttore di Buzzfeed. Qui siamo ad un business model unico.

Hanno tra 20 e 30 milioni di finanziamenti per un media solo digitale in inglese, destinato alle classi più istruite e ricche del Pianeta. Perché questa è l'audience ancora interessata all'informazione di qualità, notizie o analisi che spiegano e fanno capire cosa accade, ed è disposta a pagarla. 

Trasformazioni epocali che avvengono sullo sfondo di minacce mortali per l'informazione: «Da una parte c'è Elon Musk - comincia Coll - che compra Twitter presentandosi come l'ambasciatore della libertà di espressione; dall'altra la Russia, che perseguita chi scrive l'evidenza. I media internazionali la stanno abbandonando, per comprensibile paura, ma immaginate come sarà la qualità del giornalismo che dovrà raccontare Mosca dall'esilio».

Gina non esista a rispondere: «Pessima, la qualità sarà pessima. E non è il solo luogo del modo dove il giornalismo decente è condannato all'esilio. Però se è tragico che noi occidentali non sapremo la verità sulla Russia, pensate a quanto più drammatico è che i russi già non sappiano cosa succede a casa loro». 

Tutto perciò si lega al problema delle risorse e i business model, perché senza media indipendenti che riescono a stare in piedi sparisce l'informazione libera e restano solo propaganda e disinformazione. 

E non sarà un danno solo per i giornalisti che perderanno il posto, ma anche per chi non spendendo il dollaro elemosinato da Merida, perderà quella che il presidente Jefferson considerava l'anima della democrazia: «Allo Stato senza i giornali, preferisco i giornali senza lo Stato».

I corpi straziati della guerra. L’escalation dell’invasione russa in Ucraina di pari passo con la diffusione di immagini sempre più crude. Ci sarebbe il codice penale per fermarle, ma prima ancora ci dovrebbero essere il rispetto della dignità e un sentimento di pietà. Michele Partipilo  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Maggio 2022.

Viviamo nella società dell'informazione e la nostra vita è dominata dai media. Ma dei tanti problemi che generano raramente se ne parla. In questo blog proviamo a farlo.

Da settimane siamo bombardati da immagini di guerra che ogni giorno diventano sempre più forti. All’inizio furono solo i volti dei bambini spaesati, costretti a partire in fretta e furia. In braccio alle madri, nei carrozzini, mano nella mano con la nonna. Raccontavano la fuga verso posti più sicuri, fuori dall’Ucaina. Ma negli occhi tristi e spesso bagnati di lacrime si leggeva anche quella domanda che nessuno aveva il coraggio di farsi: perché? Poi foto e filmati, seguendo l’escalation della guerra, si sono fatti sempre più espliciti e impressionanti: soldati feriti, malati moribondi, partorienti in barella. Fino ad arrivare ai corpi mitragliati per strada: non combattenti, ma inermi civili che tentavano di fuggire verso luoghi più sicuri. A testimoniarlo, i trolley , i peluche dei bambini e il cestino con il gatto. Tutti uccisi all’alba di una livida giornata. In tanti hanno pianto davanti a quelle immagini così crude e violente. Ma non era finita. Sono arrivati filmati e foto di corpi carbonizzati dagli incendi o di resti ripescati dalle fosse comuni. Gli invasori non si sono fermati davanti a niente, ma neppure i reporter e i media che ne hanno diffuso i materiali. «Il dovere della cronaca, abbiamo denunciato l’atrocità della guerra», è stato il leitmotiv giustificativo di qualche direttore messo sotto accusa o di fotografi e cineoperatori criticati.

Il nobile mantello della denuncia e dunque dell’impegno civile ha coperto e legittimato quelle immagini impressionanti e raccapriccianti. Sì, proprio come le definisce la legge, la vecchia legge sulla stampa scritta dagli stessi costituenti, che ne vietarono la diffusione. Quella norma non nasce dal nulla, ma è il prosieguo ideale e tecnico dell’articolo 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di espressione per tutti. Vi è posto un solo limite: il buon costume. Così recita il quinto comma: «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume». E il rispetto del buon costume è proprio il concetto cui rimandano la legge sulla stampa e gli articoli 528 e 529 del codice penale, che in concreto definiscono il reato e ne fissano le sanzioni. Il «buon costume» è una nozione elastica, che si adegua ai tempi e alla storia. In passato era strettamente legata alla morale sessuale. Era il freno che bloccava scene di nudo in tv o parolacce e bestemmie. Oggi il turpiloquio è all’ordine del giorno e francamente non sembra una grande conquista di libertà, piuttosto un impoverimento del linguaggio, ormai appiattito sul genitalese.

Nel buon costume i giudici intravedono sempre più il concetto di dignità, di rispetto della persona per quello che è. Guarda caso la dignità è il bene cui dovrebbero far riferimento tutti gli operatori dell’informazione nel loro lavoro. Codici etici e norme deontologiche puntano tutto su questo. La dignità, come l’onore e la privacy, si conserva anche dopo la morte degli interessati. I giornalisti fingono di non saperlo e si accaniscono a riprendere quei corpi già martoriati dalle bombe e dalla ferocia degli uomini. Dimenticano che un conto è informare e un conto è improvvisarsi medici legali, trasformando ogni articolo in un referto necroscopico. Così non si offende solo la dignità di quelle vittime impossibilitate a difendersi e a farsi difendere, ma si uccide anche la pietà. Quel sentimento che ogni uomo o donna dovrebbero provare di fronte alla morte dei loro simili.

Ma la morte l’abbiamo rimossa dal nostro orizzonte culturale e spirituale, ne rimane solo la narrazione, lo spettacolo, la tragedia. Una guerra serve bene a questo, poiché le ragioni della cronaca e della ricerca della verità sembrano un buon motivo per mostrare immagini sempre più violente e impressionanti. Come se la loro diffusione potesse fermare il conflitto. Invece ne fa un film horror, che se fosse tale sarebbe vietato ai minori, invece giornali e tg sono alla portata di tutti. L’importante alla fine è fare audience, se decenni fa bastavano le gambe delle Kessler o l’ombelico della Carrà, oggi funziona meglio un corpo ucciso in un bombardamento.

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" l'8 maggio 2022.

L'indiscrezione sulle informazioni dell'intelligence Usa che hanno consentito agli ucraini di uccidere alcuni generali russi e affondare la nave ammiraglia della flotta nel Mar Nero provoca una tempesta politica a Washington, ma riapre anche l'eterno dibattito sulla responsabilità della stampa che pubblicando certe notizie, spesso di fonte anonima, cambia la storia dell'America (come col Watergate che costò la presidenza a Richard Nixon) e delle sue guerre, a partire dall'effetto sul conflitto del Vietnam della pubblicazione, nel 1971, dei Pentagon Papers.

La logica è sempre la stessa e il New York Times, sul quale sono comparse indiscrezioni che ora fanno temere rappresaglie di Putin, l'ha spiegata più volte ai lettori: se i suoi giornalisti ricevono informazioni rilevanti da fonti attendibili con conoscenza diretta dei fatti, le notizie vengono verificate con altre fonti e poi vengono pubblicate anche se la fonte chiede di restare anonima. In alcune situazioni particolarmente gravi o delicate si può scegliere di non pubblicare o di temporeggiare, ma sono casi rarissimi e la scelta di non dare una notizia spetta ai vertici della testata giornalistica.

È così da oltre mezzo secolo: da quando, proprio nel caso dei Pentagon Papers, la Corte Suprema respinse il tentativo del presidente del tempo (sempre Nixon) di bloccare la pubblicazione sulla base del Primo emendamento della Costituzione Usa: quello che garantisce l'assoluta libertà di espressione. 

Questo spiega perché per adesso non sono emerse forti critiche al Times (abituale bersaglio di media e politici di destra) mentre Biden e gli altri membri del governo che si affannano a smentire se la prendono con le «gole profonde» e non con le ricostruzioni della stampa: magari definite «non accurate», ma senza mettere in dubbio che siano basate su indiscrezioni reali.

Sotto la superficie, comunque, un certo malessere sembra diffondersi anche tra i giornalisti e lo stesso articolo pubblicato ieri da Tom Friedman sul Times sembra portarne qualche traccia. I motivi sono due: intanto i reporter, che vorrebbero evitare questi leak che riducono la credibilità di una stampa già colpita dalle campagne demolitrici di Donald Trump, finiscono, in realtà, per usarli di più spinti dalla concorrenza e dalla velocità del ciclo delle news (quella dell'ammiraglia Moskva l'ha data anche la Nbc che cita uno zampino dell'intelligence Usa pure nell'abbattimento di un aereo da trasporto pieno di soldati russi). 

La guerra in Ucraina, poi, con l'impegno indiretto dell'America e l'imprevedibilità delle reazioni di Putin, pone sfide nuove anche ai media.

Così la guerra sta cambiando l’informazione. C’erano una volta le cronache di guerra di Montanelli, ora dall'Ucraina il racconto è «live» e i telespettatori apprezzano. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.

C’erano una volta le cronache di guerra che arrivavano giorni se non settimane dopo gli eventi. Erano i conflitti raccontati sui quotidiani da Montanelli o Barzini. Al massimo potevano contare su un telegrafo per trasmettere pochi appunti, che in redazione venivano elaborati in articoli veri e propri da giornalisti chiamati «estensori». Poi venne la tv, prima con sgranate immagini in bianconero e poi a colori. Il tempo che intercorre fra il bombardamento e la notizia andò via via accorciandosi. Ci sono sempre più inviati, fotografi e cineoperatori al seguito delle truppe, tanto che dall’altisonante appellativo di inviato o corrispondente di guerra, si passa al meno nobile giornalista embedded, cioè aggregato a uno degli eserciti in lotta e quindi come tale costretto a rispettare ordini e disciplina militare.

Dal 24 febbraio, giorno in cui è esplosa la guerra in Ucraina, abbiamo la versione più moderna di ciò che fu l’inviato di guerra. Giornali, radio, televisioni, siti online non hanno risparmiato risorse per spedire cronisti in ogni angolo della repubblica sotto attacco. Un primo elemento di novità è dato proprio dalla massiccia presenza di giornalisti: mai così tanti in un conflitto, neppure tra i più recenti. In questo esercito di cronisti tante colleghe donne, addirittura in maggioranza se si guarda alle sole televisioni. Secondo elemento è il gran numero di free lance, cioè di giornalisti non legati ad alcuna testata, ma che vendono immagini e servizi al miglior offerente. Di loro se ne servono un po’ tutti, spesso in maniera vile. Perché con un free lance non ti leghi a vita, perché se il «pezzo» non ti piace non lo pubblichi, perché se gli succede qualcosa è un problema suo. E infatti i servizi televisivi dalle zone più a rischio sono quasi tutti opera di questi giornalisti costretti a rischiare più degli altri per avere una chance. Terzo caratteristica mediatica della guerra in corso – è ovvio – il grande ruolo svolto dalla Rete. E questo sotto due aspetti: uno squisitamente tecnologico e l’altro di contenuti. I collegamenti delle redazioni con i giornalisti sul campo avvengono con regolarità e costanza; arrivano corrispondenze, immagini, interviste anche in diretta senza alcun problema. E questo grazie alla serie di opportunità offerte della Rete che ormai consente di superare tutti i limiti delle trasmissioni via cavo o satellitari.

Dal punto di vista dei contenuti siamo ormai abituati a vedere inviati che si riprendono con i telefonini mentre alle loro spalle divampa un incendio, si soccorrono dei feriti, c’è un check point di militari armati fino ai denti. Sì, abbiamo proprio l’impressione - meglio, la convinzione - di vedere la guerra e non una sua rappresentazione. Sono servizi che girano anche sui siti di testate giornalistiche oppure vanno su YouTube o su altri social. E qui le cose si complicano perché non sempre è facile capire il «quando» della notizia. Ma il mix di tecnologia e guerra non ha cambiato solo la figura e il ruolo dell’inviato, ha modificato radicalmente il format dei telegiornali. Fino al 24 febbraio la struttura scimmiottava la piramide informativa tipica dei quotidiani: all’inizio la notizia ritenuta più importante e poi via via con quelle meno rilevanti, per chiudere infine con gli spettacoli e lo sport. Lo schema era rimasto invariato anche durante i due anni di pandemia, durante i quali i telegiornali - a parte sporadiche eccezioni legate a eventi come le Olimpiadi, gli Europei o la ritirata dall’Afghanistan - sono stati praticamente monotematici. Un unico argomento: l’emergenza Covid 19 affrontata in tutte le sfaccettature, dai dati sanitari alle misure del governo, dalle polemiche alle proteste dei ristoratori. In coda, talvolta, qualche residuale notizia di esteri o di sport. Cultura e spettacoli niente, anche perché cinema e teatri erano chiusi. Oggi invece il format è stato rivoluzionato. Forse perché si temeva un calo di ascolti a causa di una nuova serie, prevedibilmente lunga, di telegiornali monotematici. È nato così il tg «a strati»: apertura, notizia sulla guerra e primo collegamento con un inviato; secondo titolo: l’andamento del Covid con servizio dedicato; terzo titolo: altre informazioni sulla guerra e collegamento con altro inviato; quarto titolo: tema politico e relativo servizio o intervista; quinto titolo: ancora notizie dal fronte e nuovi collegamenti, compresi quelli da città in qualche modo coinvolte nel conflitto come Bruxelles, Parigi, Ankara, New York; se non c’è cronaca nera (femminicidio del giorno o morto sul lavoro) servizio di spettacolo o di cultura; ennesimo collegamento con l’Ucraina (a questo punto entrano in scena i free lance) e poi l’immancabile chiusura con lo sport, anzi no: dopo lo sport c’è spesso un ulteriore aggiornamento dal fronte. Così sono confezionati oggi i nostri telegiornali.

Si è passati dal format «panino» che doveva servire a non far scoprire troppo l’orientamento partitico, al modello «pasta al forno» che (forse) non dovrebbe far scappare la gente davanti alle notizie sempre più depressive. È giusto così? I primi dati sugli ascolti dicono di sì. All’ora dei tg davanti allo schermo c’è un numero maggiore di spettatori rispetto al passato. Solo per le due edizioni serali – le principali – Tg1 e Tg2 mettono insieme oltre 10 milioni di utenti e questo nonostante un fisiologico calo di ascolti in questi mesi. È questa l’informazione televisiva che ci piace? Evidentemente sì. È questa l’informazione televisiva che ci fa capire meglio i fatti? Forse no.

L’importanza dei giornalisti di guerra, alla ricerca della verità contro tutte le propagande. La fabbrica dei falsi funziona a pieno regime al servizio della grancassa mediatica di tutte le fazioni coinvolte nel conflitto. L’unico antidoto sono i reporter che rischiano in prima persona. E non si accontentano delle veline. Lorenzo Tondo La Repubblica il 28 Marzo 2022.

Esserci per informare. Andare, restare, guardare, verificare e poi scrivere. In tempo di guerra, come in pace, conta ciò che puoi controllare, anche in condizioni difficili. Riparandosi dall’alto, da dove piovono le bombe, e dai tiri ad altezza uomo, micidiali come un proiettile, devastanti se deflagrano sui media e si propagano a dismisura.

Sofia Gadici per professionereporter.eu il 14 aprile 2022.

Su Instagram ha quasi 350mila followers. Le ultime foto che ha condiviso ritraggono militari, anziani nelle loro case distrutte, armi, bambini, macerie, sfollati, carri armati con una “Z” sulla fiancata. Foto e video che raccontano la guerra in Ucraina. 

Cecilia Sala ha 27 anni, è una reporter che più di altri ha portato sul fronte il “nuovo giornalismo”, multiforme, crossmediale, innovativo. 

Racconta quello che vede sui social, in diretta, lo racconta anche scrivendo articoli per la carta stampata, Il Foglio in particolare, e lo fa attraverso un podcast, il suo Stories.

Il podcast è prodotto da Chora Media, una company italiana fondata nel 2020 da Guido Brera, Mario Gianani, Roberto Zanco e Mario Calabresi, che la dirige. 

In questo contenitore la giovane reporter racconta storie dal mondo con cadenza quotidiana, e ora naturalmente racconta la guerra. 

Si tratta di prodotti audio brevi, 15 minuti al massimo, che sono disponibili gratuitamente sul sito di Chora e sulle principali piattaforme audio (come Spreaker, Spotify, Apple Podcasts). 

Il racconto di Cecilia Sala arriva direttamente dal campo e il risultato è che l’ascoltatore viene trascinato nei fatti grazie a effetti audio reali, pause, una voce che aiuta a comprendere e a calarsi nella realtà.

Il risultato è un successo di pubblico e ottime recensioni degli utenti sulle diverse piattaforme. 

Il suo è il quinto podcast in Italia nella categoria “programmi” di Apple Podcasts, terzo in assoluto su Spotify. 

Per Mario Calabresi Stories è seguito da “più di 100mila persone” e Sala può essere considerata “la prima inviata podcast italiana”. 

Chora Media si è sostituita a tv, radio e giornali: è Chora ad occuparsi di organizzare gli alloggi della sua reporter e i suoi spostamenti, e anche di fornirle un’assicurazione.

Per Sala lo smartphone è lo strumento di lavoro principale. Si informa sui social, filma e registra con il telefonino. Invia i suoi contributi tramite whatsapp, mentre in Italia ricevono il materiale e assemblano il prodotto. Una nuova frontiera del giornalismo.

Prima di raccontare le sue “storie” da Kiev, Sala è andata in Afghanistan quando i talebani hanno riconquistato il potere, ha parlato del Covid in Cina, dell’Iran, di Haiti, di Tonga, Myanmar e Thailandia. 

Oltre al Foglio, in passato, Sala ha pubblicato reportage dall’estero su L’Espresso e Vanity Fair. Ha lavorato anche nella redazione di Otto e mezzo, per SkyTg24, con Rai e Fremantle Media. Con Chiara Lalli è autrice del podcast “Polvere”, che racconta l’omicidio di Marta Russo alla Sapienza ed è diventato un libro Mondadori.

Cecilia Sala è nata a Roma il 25 luglio 1995. Nel 2009, ad appena 14 anni, si è fatta notare pronunciando un discorso pubblico contro la mafia durante la Manifestazione delle Agende rosse. Nel 2013 ha fatto le sue prime apparizioni a Piazzapulita e poi a Announo. 

In seguito ha avuto alcune collaborazioni con Vice Italia e Servizio Pubblico di Michele Santoro. Si è laureata in Economia Internazionale alla Bocconi di Milano nel 2018.

Peggiori dei pm. I giornalisti inquirenti che dubitano delle notizie perché vanno contro le loro opinioni. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

La guerra in Ucraina ha messo in luce un atteggiamento di negazione della realtà che ricorda, nelle sue dinamiche, la caparbietà di certi magistrati attaccati più alle proprie tesi che ai riscontri delle indagini. Quando il fatto non si può più ignorare, passano ad altro con noncuranza.

Il giornalismo impegnato nello scrutinio delle notizie dal fronte ricorda parecchio il pubblico ministero che dà per certo il reato e si incaparbisce nel cercarne la prova.

Non riguarda tutti, ovviamente, ma è abbastanza diffusa la pratica di fare le pulci a una notizia – che so? un ospedale bombardato, una fossa comune, uno stupro di massa – per il solo fatto che è data, e non perché siano manifesti elementi che ne mettono in dubbio la fondatezza. Va avanti dall’inizio di questo macello, e l’andazzo prosegue bellamente, con punte di spudoratezza sempre più imbarazzanti, nel progresso dei resoconti sulla guerra (pardon, sulle operazioni speciali).

Sembra che buona parte del lavoro giornalistico sia meccanicamente e pregiudizialmente orientato a trattare la notizia per destituirne la verosimiglianza, e dunque per rinnegare la verità che essa porta, piuttosto che per fare verità su una notizia che si appalesa discutibile. Con questo, di peggio: che quando poi la notizia trova supporti di conferma (non ricercati, però, da quelli che elevavano equanimi dubbi), allora il rigore del giornalismo che non se la beve dismette il proprio ruolo inquirente.

E passa alla prossima notizia, non per darla ma un’altra volta per contestarla: come il PM che sfoglia il bouquet delle imputazioni quando una sfiorisce per evidente inconsistenza.

Che questo costume esista a me pare abbastanza indiscutibile. Che sia un malcostume è questione di opinioni: ma credo che l’atteggiamento pacifista, certamente legittimo, dovrebbe evitare accuratamente di associarvisi.

Guerra Ucraina, Biloslavo: "verificare l'effettiva strage di civili prima di confermarla, bisogna essere cauti". Da Triestecafe.it il 04 Aprile 2022

In collegamento dalla città ucraina di Kharkiv, il giornalista Fausto Biloslavo ha testimoniato nel programma televisivo 'Controcorrente' quanto sta succedendo nel territorio di guerra, avendo precedentemente detto che teme di essere ad "un punto di non ritorno". "Mi limito a riportare esclusivamente ciò che vedo", inizia così la sua testimonianza, "e bisogna essere cauti. In molti altri conflitti ho visto veri e propri massacri, veri o presunti che fossero, e in questo caso io voglio sapere cosa effettivamente sta succedendo, se si è effettuato un eccidio con vittime legate, chi e come sono state giustiziate, se con un colpo di pistola alla nuca o altro. Quando c'è un conflitto così vasto e devastante bisogna andare molto cauti e attenti ad alzare la bandiera della strage e del massacro prima di avere fonti concrete e indipendenti, anche da giornalisti recati sul posto a verificare", conclude l'inviato. Fonte notizia e foto: servizio 'Controcorrente'

Lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. Paolo Frosina su Il Fatto Quotidiano il 2 aprile 2022.

“Ecco perché sull’Ucraina il giornalismo sbaglia. E spinge i lettori verso la corsa al riarmo”: lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. “Basta con buoni e cattivi, in guerra i dubbi sono preziosi”. 

Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l'allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin". L'ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: "Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni". Toni Capuozzo (ex TG5): "Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos'è la guerra". 

“Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male”. Inizia così l’appello pubblico di dieci storici inviati di guerra di grandi testate nazionali (Corriere, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore), che lanciano l’allarme sui rischi di una narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto sui media italiani (qui il testo integrale sul quotidiano online Africa ExPress). “Noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro: siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti”, esordiscono Massimo Alberizzi, Remigio Benni, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Cristiano Laruffa, Alberto Negri, Giovanni Porzio, Claudia Svampa, Vanna Vannuccini e Angela Virdò. “Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata. Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi“, notano i firmatari. “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo”.

"L’opinione pubblica spinta verso la corsa al riarmo” – Gli inviati, come ormai d’obbligo, premettono ciò che è persino superfluo: “Qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: è l’unico responsabile? Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandino perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin“. Mentre, notano, “manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo”. Quegli stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il due per cento del Pil. Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione. L’emergenza guerra – concludono – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre”.

Alberizzi: “Non è più informazione, è propaganda” – Parole di assoluto buonsenso, che tuttavia nel clima attuale rischiano fortemente di essere considerate estremiste. “Dato che la penso così, in giro mi danno dell’amico di Putin”, dice al fattoquotidiano.it Massimo Alberizzi, per oltre vent’anni corrispondente del Corriere dall’Africa. “Ma a me non frega nulla di Putin: sono preoccupato da giornalista, perché questa guerra sta distruggendo il giornalismo. Nel 1993 raccontai la battaglia del pastificio di Mogadiscio, in cui tre militari italiani in missione furono uccisi dalle milizie somale: il giorno dopo sono andato a parlare con quei miliziani e mi sono fatto spiegare perché, cosa volevano ottenere. E il Corriere ha pubblicato quell’intervista. Oggi sarebbe impossibile“. La narrazione del conflitto sui media italiani, sostiene si fonda su “informazioni a senso unico fornite da fonti considerate “autorevoli” a prescindere. L’esempio più lampante è l’attacco russo al teatro di Mariupol, in cui la narrazione non verificata di una carneficina ha colpito allo stomaco l’opinione pubblica e indirizzandola verso un sostegno acritico al riarmo. Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni e nemmeno chi si informa leggendo più quotidiani al giorno riesce a capirci qualcosa”.

Negri: “Fare spettacolo interessa di più che informare” – “Questa guerra è l’occasione per molti giovani giornalisti di farsi conoscere, e alcuni di loro producono materiali davvero straordinari“, premette invece Alberto Negri, trentennale corrispondente del Sole da Medio Oriente, Africa, Asia e Balcani. “Poi ci sono i commentatori seduti sul sofà, che sentenziano su tutto lo scibile umano e non aiutano a capire nulla, ma confondono solo le acque. Quelli mi fanno un po’ pena. D’altronde la maggior parte dei media è molto più interessata a fare spettacolo che a informare”. La vede così anche Toni Capuozzo, iconico volto del Tg5, già vicedirettore e inviato di guerra – tra l’altro – in Somalia, ex Jugoslavia e Afghanistan: “L’influenza della politica da talk show è stata nefasta”, dice al fattoquotidiano.it. “I talk seguono una logica binaria: o sì o no. Le zone grigie, i dubbi, le sfumature annoiano. Nel raccontare le guerre questa logica è deleteria. Se ci facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice: Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita. Ma una volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati fin qui: lì verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe esercitare l’intelligenza”.

Capuozzo: “In guerra i dubbi sono preziosi” – “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori”, argomenta Capuozzo. “Invece è proprio in queste circostanze che i dubbi sono preziosi e l’unanimismo pericolosissimo. Credo che questo modo di trattare il tema derivi innanzitutto dalla non conoscenza di cos’è la guerra: la guerra schizza fango dappertutto e nessuno resta innocente, se non i bambini. E ogni guerra è in sè un crimine, come dimostrano la Bosnia, l’Iraq e l’Afghanistan, rassegne di crimini compiute da tutte le parti”. Certo, ci sono le esigenze mediatiche: “È ovvio che non si può fare un telegiornale soltanto con domande senza risposta. Però c’è un minimo sindacale di onestà dovuta agli spettatori: sapere che in guerra tutti fanno propaganda dalla propria parte, e metterlo in chiaro. In situazioni del genere è difficilissimo attenersi ai fatti, perché i fatti non sono quasi mai univoci. Così ad avere la meglio sono simpatie e interpretazioni ideologiche”. Una tendenza che annulla tutte le sfumature anche nel dibattito politico: “La mia sensazione è che una classe dirigente che sente di avere i mesi contati abbia colto l’occasione di scattare sull’attenti nell’ora fatale, tentando di nascondere la propria inadeguatezza. Sentire la parola “eroismo” in bocca a Draghi è straniante, non c’entra niente con il personaggio”, dice. “Siamo diventati tutti tifosi di una parte o dell’altra, mentre dovremmo essere solo tifosi della pace”.

Lo "scoop del secolo": Clare Hollingworth, instancabile reporter. Davide Bartoccini il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.

Dall'invasione della Polonia alla Guerra del Golfo, passando per le spie di Cambridge e i conflitti arabi-isreaelini: Clare Hollingworth è stata una reporter instancabile, eppure non si riteneva una donna "coraggiosa", solo una persona che voleva fare bene il suo lavoro.

Nelle foto in posa che la ritraggono da ragazza, l’aspetto di una delle tante giovani e ribelli flapper d’ispirazione americana: capello tagliato alla ‘Bob’ e lunghi fili di perle portati su abiti eleganti che richiamano i grandi party degli ‘anni ruggenti’ favoleggiati da Fitzgerlad. Sul passaporto che ha esibito per l’ultima volta all’aeroporto internazionale di Hong Kong, accanto a una foto dove spiccano i suoi enormi occhialini da vista in acetato scuro, la data di nascita che riporta al 10 ottobre 1911, Inghilterra. Clare Hollingworth è stata la più grande reporter di guerra britanniche, centenaria avventuriera e ribelle scelse di raccontare su giornali eccellenti come Daily Telegraph, Guardian e Economist i conflitti che scuotevano e hanno scosso il mondo. Suo lo scoop del secolo scorso dal titolo "Mille carri armati ammassati al confine con la Polonia. Dieci divisioni sono pronte per colpire"; era il 29 agosto 1939 e due giorni dopo sarebbe iniziata la più grande guerra che il mondo avrebbe mai visto.

La fortuna di un reporter spesso si riduce all’essere nel posto giusto al momento giusto, ma lei, che per raccontare la ‘questione sudeta’ nella Germania dell’ascesa nazista si era avvalsa di un vecchio visto che la spacciava per una sciatrice straniera in villeggiatura, era già al suo posto nell’estate nel ’39. Sottrasse l’auto di un ex-funzionario britannico che frequentava, con la grande ‘union jack’ inglese dipinta sopra la targa, e passò la frontiera dopo aver acquistato vino bianco e un’aspirina. Aveva saputo da una sua buona fonte che stava per succedere qualcosa. Si sistemò su un'altura e proprio da lì vide la nube di polvere alzata da una lunga colonna di carri armati dello stesso colore dell’antracite che esibivano croci a bracci diritti - le Balkenkreuz - sui fianchi: erano le Panzer-Division di Hitler, inviate a conquistare la Polonia e riprendersi Danzica. Contattò l’ambasciatore britannico presso Varsavia, ma non le diede conto pensando fosse un’assurda invenzione. Senza perdere un istante corse a dettare al Telegraph l’articolo che avrebbe annunciato a tutto il Regno Unito che Hitler aveva fatto il suo ennesimo irrimediabile passo verso la guerra. Il dado ormai era tratto.

Anche per la Holligworth, figlia di un fabbricante di scarpe, nata a Knighton, sobborgo di Leicester, cresciuta con la passione per la scrittura che coltivata fina dalla giovanissima età, e quella insana della ‘guerra, il dado era tratto. Quando si vivono certe emozioni, non le si può più abbandonare; così a 27 anni decise che quello sarebbe diventato il suo mestiere: avrebbe raccontato la guerra all’uomo comune. "Non ero coraggiosa – raccontava – Non ero ingenua. Ero consapevole dei pericoli, ma pensavo che fosse una cosa buona da fare, essere testimone in prima persona e vedere. Di solito mi fermavo e dormivo in macchina, mi bastava un biscotto e un po’ di vino, e poi si proseguiva. Erano quel genere di giorni in cui basta avere una macchina da scrivere e uno spazzolino da denti".

La guerra si ampliò su più fronti, e lei proseguì a raccontarla. Nel 1940 si stabilì a Bucarest, dove era corrispondente per il Daily Express. Scoperta dalla Guardia di Ferro di Codreanu a scrivere articoli ‘inaccettabili’ per il regime, ne venne ordinato l’arresto. Le leggenda vuole che lei si presento nuda e senza malizia alla porta: "Non potete portarvi via così, non vedete che sono nuda". Ma le cose forse andarono diversamente: fatto sta che riuscì a mettersi a sicuro e a lasciare la Romania ‘in sicurezza’. Si spostò in Grecia dove gli italiani - ma più i tedeschi con l’Operazione Marita - si erano stabiliti nella prosecuzione della conquista dell’Europa. Allora andò in Turchia e di lì Nord Africa. Quando nel 1942 il generale inglese Montgomery - che non voleva donne tra i piedi - non permise alle giornalisti britannici di superare l’Egitto per seguire quel susseguirsi di battaglie che avrebbero visto il loro culmine nella prima, grande disfatta delle armate del Terzo Reich - El Alamein - lei corse ad Algeri, dove era appena sbarcato il contingente americano di Eisenhower. Lì si fece assumere protempore dalla rivista americana Time: solo per continuare a raccontare il conflitto che imperversava sul fronte nordafricano e che avrebbe cambiato le sorti della guerra. Come tenne a precisare alla BBC anni dopo: "Non ho mai usato il mio essere donna per ottenere una storia, qualcosa, a cui non potesse arrivare anche un uomo". Seguì gli alleati per il resto del conflitto; pare si lanciò addirittura con il paracadute sulla Sicilia, per sempre essere dove era la guerra, fino all’armistizio con la Germania.

Finita la seconda guerra mondiale, l’evento storico più importante della sua vita, quello che la consacrò come prima reporter di guerra donna della storia, si stabilì in a Tel Aviv per raccontare la guerra arabo-israeliana, l’indipendenza e la creazione dello Stato d’Israele; era il ’46. Nel ’62 era di nuovo in Africa, in Algeria, a raccontare la guerra d’indipendenza della colonia francese; poi l’Iran, il Vietnam per raccontare una delle guerra più sanguinose dell’epoca contemporanea e dove durante il lungo soggiorno imparò il vietnamita - da aggiungere al croato, all’arabo e al cinese. Negli anni ’70 l’India, di nuovo l’Iran, il Pakistan, la Cina dove stava morendo il grande dittatore comunista Mao. Appassionata di "cappa e spada" e immersa negli ambienti dove pasteggiava e dilagava lo spionaggio, a Beirut smascherò la spia comunista doppiogiochista Kim Philby, nome in codice Stanley: uno dei "cinque di Cambridge" che da talpe del Cremlino terrorizzavano l’MI6, la CIA e tutto il Blocco atlantico. Sarebbe stato il secondo scoop della sua vita, ma la notizia era troppo imbarazzante, troppo delicata, troppo assurda per essere pubblicata. Assurda ma vera. Come sono spesso le notizie che cambiano la storia.

A suo agio nell’abitacolo di una caccia della Royal Air Force parcheggiato su una pista in Yemen, posava con il casco e la tuta da volo, la tuta anti-g in dosso, il giubbotto salvagente e tutto il resto; prima del decollo. Un colpetto alla spalla del pilota ed era pronta a provare l’ennesima emozione che una donna ultrasessantenne come lei difficilmente avrebbe voluto provare - lei che non si sarebbe mai accontentata di una vita da neo-suffragetta londinese, lì era nel suo habitat naturale, lì era il suo diritto d’essere donna che non aveva nulla da invidiare a nessun uomo, semmai il contrario. "Devo ammettere che mi piace essere nel mezzo di una guerra ... non sono coraggiosa, mi piace e basta" affermò durante un’intervista rilasciata in quegli anni. Era una donna instancabile, appassionata, sempre china sul suo taccuino, lì in un angolo, a buttare giù l’inizio o la fine del prossimo ‘pezzo’ raccontavano i colleghi. Si sposò due volte, e non strinse mai con altri ‘corrispondenti di guerra’ celebri, tra che con il suo secondo marito, che era corrispondente in Medio Oriente per il Time. Aveva delle abitudini peculiari e gli aneddoti su di lei si sono sempre sprecati: aveva imparato a pilotare gli aerei, alla bisogna; beveva birra anche a colazione; dormiva sempre con le scarpe, nel caso fosse dovuta uscire in gran fretta; fino a pochi anni prima della sua morte - che la coglierà a 105 anni - aveva sempre pronto il passaporto sul comodino e uno zaino fatto, con l’essenziale, nel caso fosse stata inviata da qualche parte. Anche se ormai era in pensione. In Asia. Finalmente tranquilla; con una vita piena di ricordi e traguardi straordinari alle spalle.

Quando nel 1990 Saddam Hussein invase il Kuwait a caccia dell’oro nero e di uno sbocco sul mare, con il conseguente scoppio della prima Guerra del Golfo, lei aveva 79 anni. Si propose immediatamente al Telegraph come inviata "speciale". Quella signora attempata, dai pesanti occhiali da vista che inquadravano uno sguardo gentile ma risoluto, si addestrò per settimane dormendo sul pavimento per 5 giorni di seguito - per vedere se ancora era capace: e lo era. Le risposero di no, e lei ci rimase male come una bambina; lei che quando si rivolgeva ai direttori di cui era al soldo, domandava sempre "Dov’è il posto più pericoloso dove andare? Perché è lì che si trovano buone storie. Nei posti più pericolosi del mondo".

Monica Ricci Sargentini per corriere.it il 22 marzo 2022.

«I russi ci stanno dando la caccia, hanno una lista di nomi, compresi i nostri e si stavano avvicinando. Eravamo gli unici giornalisti internazionali rimasti nella città ucraina e da più di due settimane ne documentavamo l’assedio da parte delle truppe russe». 

Inizia così il racconto drammatico del giornalista dell’Associated Press Mstylav Chernov che, insieme al fotografo Evgeniy Maloletka, è stato l’unico a poter documentare quello che è successo nella città che affaccia sul mar d’Azov, la porta del Mar Nero, nel mirino dei militari russi sin dall’inizio della guerra perché la sua conquista permetterebbe il ricongiungimento via terra della Crimea ai territori occupati del Donbass.

Sono stati loro a scattare le foto delle donne incinte portate via in barella dall’ospedale per la maternità colpito il 9 marzo, a farci vedere le fosse comuni dove le vittime dell’aggressione russa venivano gettate per toglierle dalle strade, a mostrarci con video e immagini una guerra che la propaganda del Cremlino vorrebbe nascondere. 

Due testimoni troppo scomodi per essere tollerati. «Stavamo documentando quello che succedeva all’interno dell’ospedale ma alcuni uomini armati hanno iniziato a perlustrare i corridoi — racconta Chernov —. I chirurghi ci hanno dato dei camici bianchi da indossare per passare inosservati.

Improvvisamente all’alba arrivano una dozzina di soldati: “Dove sono i giornalisti per la miseria?”. Guardai le fasce intorno alle braccia, blu per l’Ucraina, e cercai di capire quante possibilità c’erano che fossero dei russi travestiti. Poi mi sono fatto avanti. “Siamo qui per farti uscire” hanno assicurato loro». 

Segue una fuga rocambolesca: «Siamo corsi in strada, abbandonando i medici che ci avevano ospitato, le donne incinte che erano state ferite e le persone che dormivano nei corridoi perché non avevano altro posto dove andare — è il racconto di Chernov —. Mi sentivo malissimo a lasciarli tutti indietro. Nove minuti, forse dieci, un’eternità attraverso strade e condomini bombardati.

Quando i proiettili cadevano nelle vicinanze, ci buttavamo a terra. Il tempo veniva misurato dai colpi, i nostri corpi tesi e il respiro trattenuto. Un’onda d’urto dopo l’altra mi ha scosso il petto e le mie mani si sono raffreddate. Raggiungemmo un ingresso e delle auto blindate ci portarono in un seminterrato buio.

Solo allora abbiamo appreso da un poliziotto perché gli ucraini avevano rischiato la vita dei loro soldati per portarci fuori dall’ospedale. “Se vi beccano, vi faranno dire che tutto ciò che avete filmato è una bugia”, ci spiegò. “Tutti i vostri sforzi e tutto ciò che avete fatto a Mariupol saranno vani”. Così gli stessi che ci avevano scongiurato di mostrare al mondo la loro città morente ora ci chiedevano di lasciarla. Era il 15 marzo. Non avevamo idea se ne saremmo usciti vivi».

L’intuizione

Chernov e Maloletka arrivano a Mariupol il 24 febbraio, un’ora prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Sanno che la città sarà un obiettivo strategico per Putin e decidono di andarci ben sapendo quali sono i rischi. 

L’attacco è da subito brutale, le forze russe bombardano senza pietà, la gente fugge e gli abitanti rimasti sembrano vicini alla resa. «All’inizio non riuscivo a capire perché Mariupol stesse cadendo così velocemente — spiega il giornalista — . Ora so che era per la mancanza di comunicazione.

Senza immagini di edifici demoliti e bambini morenti, le forze russe potevano fare quello che volevano. Ecco perché abbiamo corso dei grossi rischi per poter inviare al mondo ciò che abbiamo visto, ed è questo che ha fatto arrabbiare la Russia tanto da darci la caccia. Non ho mai, mai sentito che rompere il silenzio fosse così importante». 

I primi morti

L’inferno si scatena in un attimo e gli unici giornalisti rimasti sul posto sono proprio Chernov e Maloletka. In città vengono interrotte le forniture di elettricità, gas e acquai. Secondo le autorità di Mariupol i morti finora sono stati 2.400.

«Il 27 febbraio, abbiamo visto un dottore cercare di salvare una bambina colpita da una scheggia — prosegue il giornalista — È morta. È morto un altro bambino, poi un terzo. Le ambulanze hanno smesso di raccogliere i feriti perché nessuno poteva chiamarle visto che non c’era rete e poi era pericoloso guidare nelle strade bombardate.

I medici ci hanno implorato di filmare le famiglie che portavano dentro morti e feriti e di usare il loro generatore per le nostre telecamere. “Nessuno sa cosa sta succedendo nella nostra città” ci hanno detto. I bombardamenti hanno colpito l’ospedale e le case intorno. A volte correvamo fuori per filmare una casa in fiamme e poi tornavamo indietro tra le esplosioni.

C’era ancora un posto in città per avere una connessione stabile, fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel’nykiv Avenue. Una volta al giorno, andavamo lì e ci accovacciavamo sotto le scale per caricare foto e video da inviare al mondo. Le scale non avrebbero fatto molto per proteggerci, ma sembrava più sicuro che stare all’aperto. Il segnale è scomparso il 3 marzo».

Abbiamo provato a mandare i nostri dalle finestre del settimo piano dell’ospedale. E da lì abbiamo visto disfarsi gli ultimi brandelli della solida città borghese di Mariupol. Per diversi giorni, l’unico collegamento che abbiamo avuto con il mondo esterno è stato tramite un telefono satellitare.

E l’unico punto in cui quel telefono funzionava era all’aperto, proprio accanto a un cratere creato da una bomba. Mi sedevo, mi rendevo piccolo e cercavo di trovare la connessione. Tutti mi chiedevano, per favore dicci quando la guerra sarà finita. Non avevo risposta. Ogni singolo giorno circolava la voce che l’esercito ucraino sarebbe venuto a rompere l’assedio. Ma non è venuto nessuno».

L’ospedale bombardato

«A questo punto avevo visto così tanti morti in ospedale, cadaveri nelle strade, dozzine di corpi spinti in una fossa comune — continua Chernov —. Il 9 marzo, due attacchi aerei hanno distrutto la plastica attaccata ai finestrini del nostro furgone. Ho visto la palla di fuoco solo un momento prima che il dolore perforasse il mio orecchio interno, la mia pelle, il mio viso.

Abbiamo visto salire il fumo da un ospedale dedicato alla maternità. Quando siamo arrivati, i soccorritori stavano ancora tirando fuori dalle rovine donne incinte insanguinate. Le nostre batterie erano quasi scariche e non avevamo alcun collegamento per inviare le immagini.

Tra pochi minuti sarebbe scattato il coprifuoco. Un agente di polizia ci ha sentito discutere su come diffondere la notizia dell’attentato all’ospedale. “Questo cambierà il corso della guerra”, ha detto. Ci ha portato in un posto dove c’era corrente e una connessione a Internet.

Avevamo già dato conto di così tante persone morte, anche bambini. Non capivo perché il poliziotto pensasse che queste morti potessero cambiare qualcosa. Mi sbagliavo. Al buio, abbiamo inviato le immagini allineando tre telefoni cellulari con il file video diviso in tre parti per fare più in fretta.

Ci sono volute ore, ben oltre il coprifuoco. I bombardamenti sono continuati, ma i poliziotti incaricati di scortarci attraverso la città hanno aspettato pazientemente. Poi il nostro legame con il mondo esterno è stato nuovamente interrotto.

Siamo tornati in un seminterrato vuoto di un hotel con un acquario ora pieno di pesci rossi morti. Nel nostro isolamento, non sapevamo nulla di una crescente campagna di disinformazione russa per screditare il nostro lavoro.

L’ambasciata russa a Londra ha pubblicato due tweet definendo false le foto di Ap e affermando che una donna incinta era un’attrice. L’ambasciatore russo ha mostrato copie delle foto durante una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e ha ripetuto le bugie sull’attacco all’ospedale per la maternità.

Nel frattempo, a Mariupol, tantissime persone ci chiedevano le ultime notizie sulla guerra. Venivano da me e mi dicevano, per favore filmami, così la mia famiglia fuori città saprà che sono vivo. In quel momento, a Mariupol non c’era più nessun segnale radiofonico o televisivo ucraino. 

L’unica radio che si poteva ascoltare mandava in onda le bugie russe: che gli ucraini tenevano in ostaggio Mariupol, sparavano agli edifici e stavano mettendo a punto armi chimiche.

La propaganda era così forte che alcune persone con cui abbiamo parlato ci credevano nonostante la verità fosse davanti ai loro occhi. Il messaggio veniva ripetuto continuamente, in stile sovietico: Mariupol è circondata. Consegna le tue armi». 

In salvo

Il reportage di Chernov si conclude così: «Il 15 marzo circa 30.000 persone sono uscite da Mariupol, così tante che i soldati russi non hanno avuto il tempo di guardare da vicino le auto con i finestrini ricoperti da pezzi di plastica che sbattevano. La gente era nervosa. Ogni minuto c’era un aereo che passava o lanciava un attacco. La terra tremava.

Siamo passati attraverso 15 posti di blocco russi. A ciascuno, la madre che guidava la macchina su cui eravamo pregava furiosamente, a voce talmente alta da farsi sentire. Mentre li attraversavamo - il terzo, il decimo, il 15esimo, tutti gestiti da soldati dotati armi pesanti - le mie speranze che Mariupol sarebbe sopravvissuta svanivano. Ho capito che solo per raggiungere la città, l’esercito ucraino avrebbe dovuto passare attraverso questo. E non sarebbe successo. 

Al tramonto, arrivammo a un ponte distrutto dagli ucraini per fermare l’avanzata russa. Un convoglio della Croce Rossa di circa 20 auto era già bloccato lì. Abbiamo svoltato verso i campi e le stradine secondarie.

Le guardie al posto di blocco n. 15 parlavano russo con l’accento rude del Caucaso. Hanno ordinato a tutto il convoglio di spegnere i fari per nascondere le armi e le attrezzature parcheggiate sul ciglio della strada. 

Riuscivo a malapena a distinguere la Z bianca dipinta sui veicoli. Mentre ci fermavamo al sedicesimo posto di blocco, abbiamo sentito delle voci. Voci ucraine. Ho provato un enorme sollievo. La madre alla guida dell’auto è scoppiata a piangere. Eravamo fuori. Eravamo gli ultimi giornalisti a Mariupol. Ora non ce ne sono».

Una questione di decenza nazionale. Guerra e pandemia hanno messo a nudo il grosso guaio dell’informazione italiana. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

Quella che si sta aprendo è una discussione delicatissima sul confine tra libertà e responsabilità. Ma la radice del problema sta in quella cultura populista e anti-istituzionale in cui siamo immersi dalla fine della Prima Repubblica.

La guerra in Ucraina sembra purtroppo destinata a crescere d’intensità, almeno nell’immediato, e così le tensioni internazionali e la minaccia nei confronti dei Paesi occidentali, Italia compresa. Allo stesso tempo, come se non bastasse, organizzazioni internazionali ed esperti continuano a metterci in guardia dalla probabilità di nuove varianti e conseguenti nuove ondate del Covid.

Se appena tre anni fa ci avessero detto che un giorno avremmo preso in considerazione il rischio di ritrovarci contemporaneamente nel pieno di una pandemia e di una guerra mondiale combattuta con armi atomiche, anche solo come ipotesi di scuola, ci saremmo messi a ridere. Oggi abbiamo mille ragioni per pensare che un simile scenario resti comunque inverosimile, ma non viene da ridere a nessuno.

Tutto è cambiato e inevitabilmente cambiano anche i termini di antiche discussioni intorno al ruolo e alla responsabilità dei mezzi di informazione, ora che al centro della discussione stanno minacce di tale portata. Sia la guerra contro il Covid sia la guerra in Ucraina si combattono infatti anche su quel terreno. È dunque naturale che in tanti chiedano conto a direttori di giornale, conduttori televisivi, intellettuali e influencer non solo di quello che dicono e che fanno, ma anche delle idee e delle persone cui scelgono di dare voce. Pensare di cavarsela dicendo che c’è la libertà di stampa e bisogna dare la parola a tutti è un modo di eludere la questione.

Se davvero tutti hanno diritto a esprimersi in tv e sulla stampa, allora non ci resta che prendere righello e cronometro, fare le divisioni e assegnare gli spazi, per ripartire equamente tempi televisivi e pagine di giornale tra sessanta milioni di italiani. Ma se così non è, se ammettiamo cioè che a monte viene sempre fatta una scelta, dobbiamo pure accettare che se ne discutano i criteri.

Rispondere a qualsiasi critica gridando alla censura è un modo troppo facile di mettersi al di sopra di ogni obiezione e di non assumersi la responsabilità delle proprie scelte. È più o meno l’equivalente di quello che fanno i magistrati quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale e gridano all’attacco all’autonomia della magistratura come risposta automatica a qualsiasi contestazione. Non per niente giornalisti e magistrati si spalleggiano da trent’anni per difendere esattamente questo equilibrio.

Il proliferare sui mezzi di informazione italiani di no vax e ni vax ieri, e oggi di grotteschi propagandisti di regime, per di più di un regime a noi ostile, non è dunque frutto di un complotto: si tratta del sistema di incentivi e disincentivi che si è naturalmente sviluppato a partire da quelle premesse.

Non abbiamo insomma troppo pluralismo, semmai ne abbiamo troppo poco. Non essendoci vere alternative a quel genere di narrazione, semplicemente non esistono disincentivi alla rincorsa verso il basso.

Salvo minuscole eccezioni, le uniche differenze sono differenze di grado. Fino a ieri, dal punto di vista politico-culturale, il panorama dell’informazione italiana era insomma straordinariamente uniforme. La pandemia prima e la guerra poi, con la minaccia radicale che comportano per tutti noi, hanno messo però in crisi questo equilibrio. Seguire la deriva populista fino alla propaganda no vax e filoputiniana più estrema è un po’ troppo persino per un mondo che fino a ieri ne ha legittimato praticamente tutte le parole d’ordine e tutti i propalatori.

Quando nel corso della pandemia alcuni giornalisti e conduttori televisivi hanno dichiarato di non avere alcuna intenzione di dare spazio alle tesi no vax hanno fatto una scelta sacrosanta, che però andava contro tutto quello che l’intera categoria ha sempre sostenuto.

La stessa questione si ripropone oggi dinanzi ad alcuni personaggi particolarmente grotteschi, capaci di negare anche fatti accertati e documentati, pur di sostenere la propaganda del governo di un altro Paese: un governo che ha bisogno di un simile sostegno per poter continuare impunemente la sua politica, che comporta lo sterminio di migliaia di innocenti in Ucraina e che minaccia apertamente anche noi.

Quella che si sta aprendo è dunque una discussione difficilissima e delicatissima, come qualsiasi discussione sul confine tra libertà e responsabilità. Una discussione in cui qualunque posizione unilaterale sarebbe sbagliata, perché abbiamo bisogno di entrambe le cose: libertà e responsabilità. Ma è anche una discussione necessaria, e tanto più necessaria se non si fermerà a ciò che sarebbe giusto fare oggi, ma andrà alle radici del problema, che sta in quella cultura populista e anti-istituzionale in cui siamo immersi dalla fine della Prima Repubblica.

Dagonews il 7 marzo 2022.

Questa mattina nel suo spazio su Virgin Radio, uno dei più seguiti nell'emittente, Antonello Piroso ha finito il suo intervento sull'invasione russa dell'Ucraina imprecando e scoppiando a piangere. Molti i messaggi arrivati in redazione durante e dopo le sue parole. Eccone la trascrizione. "Immagino abbiate visto l'immagine, o comunque sentito la notizia, del Cristo Salvatore della cattedrale armena di Leopoli portato in salvo in un bunker, insieme ad altre opere d'arte messe in sicurezza per tutelare a futura memoria il patrimonio artistico della città dalla furia distruttrice dell'invasione russa. 

Ma accanto ad essa c'è l'immagine, ancora più devastante, della morte dei civili ucraini. Più di un giornale ha oggi in prima pagina la foto di questa famiglia, padre madre due figli, sterminata dalle schegge di un colpo di mortaio esploso dai russi su un ponte a Irpin, una località nei pressi di Kiev.

Tra le tante ricostruzioni mi sono affidato a quella di Gianluca Panella su La Stampa, un fotoreporter che era lì, e ha potuto testimoniare questo scempio con i suoi scatti.E racconta di aver raggiunto quel luogo di morte non attraverso la strada, su cui era passato il giorno prima in auto, ma attraverso la boscaglia. E perchè? Lo spiega lui stesso: "Un mortaio i cui colpi arrivano su una superficie dura come l'asfalto è ancora più pericoloso, crea danni maggiori perchè le schegge arrivano più lontano, fino al triplo della distanza alla quale arriverebbero se i colpi atterrassero su un terreno morbido".

Una precauzione che quella famiglia in fuga non immaginava di dover adottare, e quindi è scappata attraverso il ponte e lì è stata abbattuta dalle schegge dell'esplosione. Accanto ai corpi, gli zainetti, un trolley e perfino una sportina in cui, forse, c'era addirittura un animale domestico, un gatto, un cane, vai a sapere. Non sono gli unici scatti dall'Ucraina che levano il fiato. C'è anche quella di una famiglia, madre padre bambino, che arriva all'ospedale di Mariupol, l'ingresso al pronto soccorso con la madre dietro urlante, il padre stravolto che stringe un fagottino, il corpo di suo figlio Kirill di 18 mesi avvolto in una coperta già insanguinata, la mano penzolante di un bambino che sta morendo.  

Sullo sfondo, se vedrete l'immagine, c'è un uomo dei soccorsi vestito di rosso che assiste all'arrivo di questa famiglia tenendo le mani in tasca, con lo sguardo che appare quasi indifferente, quando probabilmente è più che altro rassegnato. I medici fanno del loro meglio, ma non c'è niente da fare, il bambino muore anche perchè in quell'ospedale le condizioni sono quelle che sono, manca perfino l'energia elettrica. Ecco, questa è la guerra per i civili, al di là dei dibattiti sugli equilibri geopolitici e sulla realpolitik. 

E' sempre così, per tutti i civili di un qualunque conflitto, non solo di quello odierno in Ucraina, penso alla Siria, ma penso pure al Ruanda e ai Balcani durante la guerra nella ex Jugoslavia, fino a quelli che sono probabilmente in corso anche adesso, e che sono considerati magari minori, in qualche parte del mondo che neppure sappiamo. Ma quello che fa più male è pensare a coloro che decidono, i potenti della terra, un qualunque potente, in questo caso Putin, al fatto che possa andare a dormire la sera come se niente fosse, senza provare un minimo, un minimo, cazzo!, un minimo di umanità". 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 marzo 2022.

Stuart Ramsay, corrispondente di Sky News inviato in Ucraina, è finito in mezzo a un’imboscata mentre documentava la guerra. Sul Daily Mail, ha raccontato la sua esperienza, da cui per fortuna è uscito vivo. Era in auto. 

«Quando la prima raffica di colpi ha perforato il nostro parabrezza, abbiamo pensato di essere incappati in un posto di blocco presidiato da coscritti ucraini nervosi. Ci siamo accasciati sui nostri posti e abbiamo gridato in inglese: “Media . . . Giornalisti!” Il nostro interprete ha gridato lo stesso in ucraino e russo. Ma è stato chiaro quasi subito che non si trattava di un pasticcio, ma di un'imboscata professionale. 

Avevano AK-47 e una copertura così buona che non li abbiamo mai visti, forse erano a 100 metri di distanza. Un'ondata dopo l'altra, i proiettili si sono schiantati contro l'auto mentre volavano intorno a noi frammenti del parabrezza, pezzi del volante e frammenti del cruscotto.

Il rumore frizzante e scoppiettante era spaventoso. Era come essere intrappolati in una lavatrice, tanto era il senso di disorientamento mentre l'auto oscillava sotto l'assalto. 

Eravamo in cinque in un'auto a noleggio, una berlina Hyundai standard da palude, in missione a circa 30 chilometri a ovest di Kiev lo scorso lunedì. Ero sul sedile posteriore sinistro, con il mio produttore sudafricano Dominique van Heerden al centro, accanto a me. È piccola di statura, ma tosta e simpatica, ed è la miglior produttrice con cui abbia mai lavorato. 

I ragazzi sui sedili anteriori erano i più vulnerabili in quel momento. Il cameraman Richie Mockler si è rannicchiato nel vano piedi del passeggero anteriore, cercando di farsi piccolo. Il produttore Martin Vowles, che stava guidando, sapeva che doveva uscire: i conducenti di solito muoiono per primi in un'imboscata.

Martin e il nostro traduttore assunto in loco Andrii, seduti con noi sul sedile posteriore, si sono precipitati verso il lato dell'autostrada e sono riusciti a scivolare in relativa sicurezza lungo un ripido pendio. 

Sono finito in diverse imboscate nei miei 25 anni di carriera come corrispondente di guerra. Di solito, ti sparano alcuni colpi, la maggior parte dei quali ti manca. Questo era diverso, un attacco assolutamente implacabile e concentrato. 

Penso che ci abbiano sparato un minimo di 500 colpi, forse fino a 1.000. E pochissimi proiettili hanno mancato. Dominique ha stretto la sua minuscola corporatura attraverso una fessura della porta ed è scivolata a terra, muovendosi a pancia in giù verso la barriera dell'autostrada che fiancheggiava la strada prima di tuffarsi lungo l'argine.

Ricordo di aver scrutato il cielo luminoso mentre il tetto dell'auto veniva tirato indietro come una scatola di sardine dallo sbarramento implacabile. Mi sono schiacciato di nuovo sul sedile mentre guardavo con uno strano distacco l'auto che veniva fatta a pezzi tutt'intorno a me. 

L'adrenalina è una droga straordinaria. Ricordo di essermi sentito quasi assurdamente calmo mentre riflettevo su quella che presumevo fosse la mia morte imminente. Ricordo anche di essermi chiesto quanto sarebbe stato davvero doloroso quando sarebbe arrivato il momento. 

Non sono veramente religioso, ma mi sono messo a pregare e a parlare con mia moglie e ai nostri tre figli. Ho mormorato i miei saluti e ho detto che mi dispiaceva per tutto il dolore che il mio lavoro aveva portato loro. 

Poi mi hanno sparato. Indossavamo tutti un'armatura, ma sono stato colpito sotto la tuta protettiva, nella parte bassa della schiena.

È strano come funziona la mente in una situazione del genere. La mia prima risposta è stata di assurda sfida verso i nostri aggressori invisibili: “Vaffanculo, non mi ha nemmeno fatto male”, ho detto sottovoce. Era vero, mi è sembrato più di essere preso a pugni che colpito da un proiettile. L'adrenalina e lo shock stavano proteggendo il mio cervello dal registrare che, in realtà, ero stato gravemente ferito. La ferita d'ingresso era nella parte superiore della gamba e l'uscita - un buco molto più grande - era nella parte bassa della schiena. Il proiettile è uscito molto vicino a un rene ma, per fortuna, ha mancato tutti gli organi vitali. 

Il fuoco non si è mai fermato, ma io e Richie sapevamo che dovevamo uscire.

Per qualche motivo, dopo aver iniziato a uscire dall'auto con facilità, mi sono appoggiato all'indietro con calma per recuperare il mio telefono e l'accredito stampa dalla portiera del passeggero come se avessi appena parcheggiato al supermercato locale. È strano come funziona la tua mente sotto stress estremo. 

Non ho memoria di questo, ma Richie ricorda che ho corso fino al bordo del terrapieno prima di perdere l'equilibrio e cadere sul fondo come un sacco di patate. Lui intanto era rimasto incastrato nel vano piedi del passeggero, e riusciva a proteggersi solo grazie al blocco motore e al suo giubbotto antiproiettile. 

Gli abbiamo urlato di unirsi a noi, abbiamo ottenuto solo silenzio in risposta. Temevamo il peggio. Ma alla fine è arrivato, è saltato giù dall'argine verso di noi, mentre il fuoco aumentava di intensità. I nostri aggressori stavano cercando di ucciderci mentre fuggivamo per trovare un riparo ed eravamo disarmati.

La nostra auto a noleggio era completamente distrutta, con grossi pezzi di carrozzeria che giacevano sulla strada. Mettiamola in questo modo: Sky non riceverà indietro il deposito. 

Richie sarebbe senza dubbio morto senza l'armatura militare che indossavamo tutti. Almeno due proiettili sono rimbalzati sulla sua armatura con tale forza che, anche se nulla è effettivamente penetrato nella sua pelle, ha riportato ferite dolorose alla schiena. 

Anche se eravamo tutti miracolosamente scappati dall'auto, eravamo ancora in pericolo. Usando un muro di cemento come copertura, ci siamo diretti verso un'unità di fabbrica con un cancello aperto. Uno per uno, siamo corsi all'interno, cercando un posto dove nasconderci perché eravamo convinti che i tiratori sarebbero venuti a cercarci nel tentativo di finirci. 

Poi una porta si è aperta e tre custodi ci hanno fatto cenno di entrare nel loro laboratorio. Ci sentivamo un po' più al sicuro adesso, ma sapevamo di essere ancora in una posizione molto precaria. 

Quando Martin e Dominique hanno iniziato a contattare disperatamente i colleghi Sky per telefono per organizzare il nostro salvataggio, è scoppiato un feroce scontro a fuoco sull'autostrada sopra, dove eravamo caduti in un'imboscata. Sapevamo che da un momento all'altro i nostri aggressori avrebbero potuto sfondare le porte del garage per finirci.

Soffrivo, ma per lo più ero sollevato dal fatto di poter camminare, nonostante avessi preso una pallottola alla schiena. Ma non avevamo potuto prendere il nostro kit medico dall'auto, quindi non c'erano medicazioni o antisettico. 

L'adrenalina mi stava ancora proteggendo dai pieni effetti della ferita, ma ero abbastanza vigile da preoccuparmi delle mie condizioni: sapevo che sarebbero rapidamente peggiorate se non avessi pulito e medicato la ferita. 

Il nostro team di sicurezza di Sky News ci ha detto era troppo pericoloso tentare un salvataggio ora che era diventato buio e ci siamo rassegnati a passare almeno la notte in officina. 

Ho cominciato a sonnecchiare su un divano e ricordo vagamente di aver percepito una luce lampeggiante e il suono di stivali pesanti. Potrebbe essere questa, mi chiedevo, la fine? Abbiamo tutti pensato così, finché non abbiamo sentito queste parole semplici e adorabili: «Polizia ucraina, venite presto».

Un'unità di polizia locale aveva sfidato gli avvertimenti ed era venuta a salvarci. Mi hanno portato all'ospedale da campo di fronte alla stazione di polizia dove un medico e un'infermiera hanno curato le mie ferite con antisettico e l'hanno fasciato come meglio potevano. Sorprendentemente, il capo della polizia locale ha insistito per ospitarci a casa sua, dove i suoi uomini potevano proteggerci. 

Anche se non abbiamo mai visto i tiratori, in seguito siamo stati informati che erano russi, che operavano come una squadra d'assalto non ufficiale. In effetti, erano probabilmente parte di un'unità di ricognizione russa ed erano lì a riparare un ponte abbattuto dagli ucraini per fermare l’avanzata russa su Kiev.

“Ci stanno bombardando. Stiamo scappando”. Il drammatico reportage di Biloslavo da Kiev. Romana Fabiani lunedì 7 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

“Ci stanno bombardando. Sono razzi russi. Stiamo scappando”. La voce concitata, spezzata dal rumore delle due granate scoppiate a meno di 40 metri. Sono le immagini drammatiche dell’ultimo reportage alla periferia di Kiev di Fausto Biloslavo. Inviato di guerra del Giornale e di Mediaset, cresciuto insieme a Gian Micalessin all’agenzia Albatross di Almerigo Grilz, ucciso in un attentato a Mogadiscio. 

Biloslavo da Kiev: ci stanno bombardando addosso

Al primo colpo di mortaio – racconta il giornalista raggiunto in serata in collegamento con Zona bianca su Rete 4 –  civili nel panico che scappano da tutte le parti. Militari ucraini che cercano di aiutare i più deboli, donne e bambini in fila verso i pullman gialli per raggiungere la stazione dei treni. “Il primo sibilo – racconta Biloslavo – provoca una scossa elettrica lungo la schiena, che serve a reagire subito. Faccio appena in tempo a buttarmi nel canale in mezzo al fogliame, che la granata o il razzo esplode fragoroso in mezzo alla foresta sulla sinistra. Non più di 40 metri. Ma gli alberi attutiscono la sventagliata di schegge. I civili in fila che sperano nella salvezza vengono presi dal panico. Cominciano a correre anziché appiattirsi sul terreno”.

Due razzi a meno di 40 metri dai civili

“Il secondo colpo arriva proprio davanti a noi, a 30 metri sul posto di blocco dell’esercito ucraino all’ingresso di Irpin. Il sobborgo della capitale caduto nelle mani dei russi. Un secondo sibilo, prima dell’impatto, mi fa appiattire ancora di più a terra”. Biloslavo intravede l’esplosione, 30 metri più in là, che alza una colonna di fumo con un fragore che spacca le orecchie. “È il panico totale: i soldati ucraini si ritirano di corsa e i civili sembrano impazziti. Un militare viene colpito alla spalla, un ucraino in fuga a una gamba. Ma le bombe russe uccidono otto civili, più avanti, compresi due bambini secondo Kiev”.

Civili nel panico che scappano invece di appiattirsi a terra

Doveva essere un corridoio umanitario. Doveva. Attraverso il quale i soldati ucraini avrebbero dovuto far uscire i civili in fuga da Kiev. Bombardata dai colpi di artiglieria fin dalla mattina presto. “Ormai i russi sono a 5 chilometri dalla capitale. Dalle prime case della periferia di Kiev”. È l’ultima notizia data da Biloslavo. Coraggioso di reporter di guerra, una vita in trincea nei principali scenari di conflitto nel mondo. A riprendere la guerra dal vivo, in mezzo alle granate. Non nelle reception degli hotel come tanti blasonati colleghi.

Dall’Agenzia Albatros una vita in trincea

Triestino, all’inizio egli anni ’80 Biloslavo sceglie la strada del giornalismo, dopo avere militato a 17 anni, “quando avevo i pantaloni corti” nel Fronte della Gioventù di Trieste.  Nel 1982 segue la guerra del Libano come fotografo freelance. Nel 1987 viene arrestato in Afghanistan dalle truppe governative filo-sovietiche. Dopo un lungo reportage con i mujaheddin del comandante Massoud. Rimane in carcere per sette mesi, riuscendo a rientrare in Italia solo grazie all’intervento diretto del presidente Cossiga.

Inviato in Jugoslavia, Iraq, Libia

Agli inizi degli anni novanta è inviato in Jugoslavia, Croazia, Bosnia e Kosovo. Prima di affrontare l’assedio di Sarajevo conosce Cinzia, triestina, che poi diventerà sua moglie. È tra i primi giornalisti italiani a entrare a Kabul liberata dai talebani. Nel 2003 segue l’attacco all’Iraq fino alla caduta di Saddam Hussein. Nel 2011 è l’ultimo giornalista italiano a intervistare il colonnello Gheddafi. Biloslavo si occupa a lungo  anche del massacro delle foibe e del capitolo insabbiato dell’esodo dei giuliano-dalmati minacciati dalle truppe.

Andrea Nicastro per video.corriere.it il 3 marzo 2022.

Aggressione o equivoco, di sicuro un risveglio brusco per due troupe della Rai oggi a Dnipro, nel centro dell’Ucraina. Quattro uomini, tra agenti di polizia in divisa blu e soldati in mimetica, sono entrati nelle loro stanze d’albergo. L’inviata Stefania Battistini era in collegamento in diretta con Uno Mattina. 

Pistole e kalashnikov piantati in faccia. Urla in russo, spintoni. I due operatori, Simone Traini e Mauro Folio, obbligati a sdraiarsi a terra con la canna del fucile a due centimetri dalla nuca, la giornalista lasciata in ginocchio. Stesso trattamento per i colleghi della stanza accanto, Cristiano Tinazzi e Andrea Carrubba, trascinati con gli altri ancora scalzi. Nessuno degli italiani riusciva a comunicare in russo e per dieci minuti hanno solo sentito minacce urlate. Gli sono stati tolti i telefoni e impedito di chiamare.

I giornalisti Rai sono riusciti a mantenersi calmi fino a che dopo lunghissimi trenta minuti sotto la minaccia delle armi, è arrivato un ufficiale che parlava un poco di inglese. La domanda era perché siete in Ucraina. L’intervento delle forze di sicurezza potrebbe essere scattato per la segnalazione di qualcuno, magari dallo stesso albergo, sull’attività dei cinque stranieri, sempre fuori con telecamere e automobili sino al momento del coprifuoco. 

E’ la stessa Battistini ad inquadrare la vicenda nel clima di guerra che vive il Paese. «Capisco l’estrema tensione, la paura per agenti russi infiltrati, il rischio che qualcuno organizzi attentati alle spalle della linea del fronte. Qui c’è guerra, metà della popolazione combatte, l’altra metà cerca di aiutare, come ha fatto chi, in buona fede, ha pensato di denunciarci. Alla fine la cosa che conta è che si sia tutto chiarito. Hanno fotografato i documenti e restituito le attrezzature. Si sono anche scusati. Possiamo continuare a lavorare».

La paura in diretta. L’inviata Rai Battistini fermata in diretta dai militari: “Kalashnikov puntato a 2 centimetri dalla testa”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

Sono stati momenti di grande tensione quelli vissuti dalla giornalista Rai Stefania Battistini e i due operatori di ripresa Simone Traini e Mauro Folio, inviati a Dnipro, in Ucraina, per seguire il conflitto in corso scatenato dall’invasione delle truppe russe nel Paese.

Battistini e la sua troupe erano a Zaporizhzhia per un collegamento con la trasmissione di Rai1 ‘Uno Mattina’ quando il collegamento, alle 9:12 di stamattina, viene bruscamente interrotto e dallo studio della tv pubblica si vede chiaramente la giornalista alzare le mani di fronte a dei militari.

La giornalista era sul balcone della stanza d’albergo quando agenti delle forze speciali ucraine sono entrate in stanza e li hanno raggiunti, intimando loro di rientrare. “Mentre eravamo in diretta, sono arrivati quattro agenti delle forze speciali”, ha raccontato Battistini ai colleghi di Rainews. “Hanno spalancato la porta urlando coi fucili spianati. Hanno buttato a terra i due operatori di ripresa Simone Traini e Mauro Folio, con il ginocchio premuto sulla loro schiena e il kalashnikov puntato a 2 cm dalla loro testa. Erano evidentemente molto nervosi, quindi poteva accadere qualunque cosa“.

La situazione si è risolta soltanto dopo circa un quarto d’ora, quando nella stanza dell’hotel è giunto il capo della polizia e”siamo riusciti a spiegare chi eravamo e cosa stavamo facendo“.

Un episodio che, spiega la giornalista, “racconta il livello di tensione che sta vivendo il popolo ucraino, per cui qualsiasi attività considerata fuori dall’ordinario viene considerata un’attività nemica, una possibile minaccia. Quindi qualunque giornalista straniero, soprattutto chi si ferma diversi giorni, è considerato un possibile pericolo, un possibile sabotatore, una possibile spia”.

La situazione poi “è tornata alla normalità, devo dire che alla fine si sono anche scusati, hanno detto ‘sorrry’“, ha spiegato la giornalista.

Sentita dall’AdnKronos, Battistini ha anche spiegato che i militari ucraini sono arrivati all’hotel di Zaporizhzhia probabilmente a seguito di una segnalazione fatta dalla direttrice dell’albergo in cui lei e la sua troupe alloggiavano e organizzavano i collegamenti in diretta con i programmi Rai. “Probabilmente per segnalare un’attività secondo lei sospetta. Qui c’è un livello di paranoia totale, ogni cosa che per loro non è usuale ed è considerata una minaccia. Hanno paura, vivono nel terrore che ci siano spie russe, in parte è comprensibile ma per chi fa il giornalista è un incubo“, ha raccontato la giornalista.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Giacovazzo (RAI): l’uccisione del giornalista americano è stato un messaggio alla stampa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Marzo 2022.

La vita a Kiev, da dove mandava i suoi servizi il giornalista del TG2, è drammatica. Bombardano ovunque, e ora c’è un’escalaltion sulla capitale. E’ bruttissima la situazione anche sul mare, di fronte alla Crimea dove stanno spingendo. Oggi nella capitale si sono svegliati con le bombe nei palazzi, la situazione è tragica. Vince la guerra, è questa la cosa che per noi è difficile da digerire

“Quello che è successo al collega del New York Times non è casuale. Non è stato colpito per caso, ne hanno ucciso uno per educarne cento. E’ un messaggio intimidatorio a tutta la stampa, perché loro sanno benissimo che stiamo raccontando le mostruosità che loro stanno commettendo”. A pensarlo è Piergiorgio Giacovazzo, inviato RAI del TG2 a Kiev in Ucraina per raccontare il conflitto con la Russia, il quale appena atterrato a Fiumicino direttamente da Kiev, ha così commentato l’uccisione del collega statunitense Brent Renaud. 

“Un giornalista gira sempre con la scritta press, che è molto evidente -spiega Giacovazzo– Non escluderei che sapessero che si trattava di un americano. Non credo alle coincidenze, non può essere che un cecchino colpisca per sbaglio. Chi spara ha dodici decimi, sono cecchini, è gente allenata. Questo è stato un omicidio volontario”. A Irpin, il luogo dove è stato colpito il giornalista, ex inviato del New York Times, racconta l’ inviato del TG2 “ci siamo stati diverse volte, è un sobborgo di 40mila persone pesantemente bombardato, e ci siamo stati sempre con la paura di essere anche noi in qualche modo colpiti”. 

La vita a Kiev, da dove mandava i suoi servizi il giornalista del TG2, “è drammatica. Bombardano ovunque, e ora c’è un’escalaltion sulla capitale. E’ bruttissima la situazione anche sul mare, di fronte alla Crimea dove stanno spingendo. Oggi nella capitale si sono svegliati con le bombe nei palazzi, la situazione è tragica. Vince la guerra, è questa la cosa che per noi è difficile da digerire”. Analizzando la situazione attuale del conflitto, Giacovazzo spiega che il problema delle milizie russe ora è che “hanno sbagliato i conti, e si sono trovati senza cibo e rifornimenti nei boschi per giorni. Impossibile fare previsioni, ma il tempo fa la differenza. Il tempo sul campo è fondamentale: se i militari russi restano altri 15 giorni nella situazione attuale, per la Russia si mette male. Hanno delle perdite sul campo notevoli, anche se questo è da parte di entrambi gli schieramenti”. 

“Se tra 15 giorni soprattutto sul fronte di Nikolaev, che è importante – continua Piergiorgio Giacovazzo – perché è l’accesso all’Ovest del paese, non riescono ad avanzare da lì, e rimangono contenuti sul fronte Kiev, i russi devono andare alle trattative con meno pretese”. Il giornalista ha ancora negli occhi alcune immagini del conflitto: “Una è una donna ad Irpin. Noi eravamo lì a fare un reportage sui rifugiati che stavano lasciando la città in un momento in cui si poteva uscire. Ad un certo punto inizia un bombardamento fortissimo, tante esplosioni concentrate in pochi minuti. E lì c’era una signora che stava dando da bere ai profughi nel primo punto di accoglienza. Appena cominciato il bombardamento ha lasciato tutto, si è messa a pregare ad occhi chiusi sa pregare per tutto il tempo, fino alla cessazione delle bombe”. 

Un’altra immagine rimasta fissa nella memoria di Giacovazzo “è quella di un uomo che avrà avuto una quarantina d’anni con una bambina in braccio di circa nove mesi, alla stazione di Kiev. Lui la cullava, e piangeva. Doveva lasciarla con la mamma, metterle entrambe su un treno per la Polonia e tornare in città a combattere. La cullava con la paura di non rivederla più, e piangeva. Muoveva le mani come a darsi dei pugni sulle gambe, alla fine, io e il mio collega l’abbiamo abbracciato e gli abbiamo fatto coraggio, senza intervistarlo. Questa è una guerra che spezza le famiglie, ed è questa la sua infamità”. Redazione CdG 1947

Tg2, Piergiorgio Giacovazzo "ha scelto di restare": Kiev bombardata, fiato sospeso in Rai. Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.

È in prima linea ed è l'ultimo dei cronisti Rai rimasti a Kiev, nel fulcro della guerra. La scelta di Piergiorgio Giacovazzo, giornalista del Tg2 che ha deciso restare nella capitale ucraina, nutre il suo senso del dovere di un valore ulteriore, che riguarda il carattere di "missione" connesso a questo mestiere. Stare al fronte o comunque dove piovono bombe e arrivano gli spari dell'artiglieria dovrebbe essere, in generale, il rischio cui si sottopone un inviato di guerra. Ma spesso prevalgono, e in modo ragionevole, gli interessi di preservare la propria incolumità, di non diventare vittima della guerra, oltre a esserne testimone e narratore in tempo reale.

È più importante la Notizia o la Vita? E fin dove ci si può spingere per documentare il fischiare dei proiettili e il fragore delle bombe in diretta? Giacovazzo non si è posto la domanda, o forse se l'è posta, ma ha scelto di rispondere comunque presente, cercando di tutelarsi senza rinunciare al suo ruolo di volto e voce dal teatro del conflitto. È rimasto lì, solo giornalista della Rai, in compagnia degli inviati della Cnn. Da volontario, avendo lasciato il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano la libertà ai propri cronisti di restare o meno in Ucraina. Ha fatto una scelta simile un altro inviato della testata di RaiDue, Leonardo Zellino, lui di stanza in una città poco a nord di Kiev, Novohrad. Ci vuole fegato per mettere in pericolo la propria pelle, d'accordo. Ma ci vuole anche fiuto e consapevolezza che lì si farà la Storia, o almeno un pezzo di storia contemporanea. Dalle vie devastate della capitale ucraina Giacovazzo, in servizio permanente ormai per tutti i notiziari Rai, compreso il Tg1, racconta la tenacia quotidiano di quegli uomini e quelle donne che scelgono di non lasciare il proprio Paese. E anzi si mettono a disposizione per aiutare civili e forze di sicurezza, come quel ristoratore che, pur col locale chiuso, mette a disposizione 250 pasti al giorno per esercito e polizia, senza farsi pagare nulla, ma accettando solo materie prime per preparare, tra le altre cose, della pasta alla bolognese.

Giacovazzo si aggira tra le macerie, i palazzi sfondati e scavati dopo i raid aerei russi, e raccoglie le testimonianze di chi, in modo disperato oppure per non perdere l'ultima speranza, torna nella propria casa semidistrutta per riprendere gli ultimi pezzi di vita, prima di andare via. E poi si addentra nelle viscere di Kiev, scende nei sotterranei della metropolitana, «la più profonda del mondo», rifugio ideale dai bombardamenti dove si sono radunati già 15mila cittadini ucraini, tra cui tantissime donne, 80 neonati, 600 animali domestici, ma nessun uomo in età matura tra i 20 e i 60 anni, perché «sono tutti al fronte», richiamati dalla coscrizione obbligatoria in tempo di guerra. Scene di dolente umanità che si sommano agli scenari geopolitici e alle indiscrezioni belliche. Giacovazzo l'altro giorno ha raccontato di un'operazione di combattenti ceceni mirata a eliminare il presidente Zelensky, ma bloccata dalle milizie ucraine, grazie a una soffiata dei servizi segreti russi, evidentemente non fedeli a Putin.

Raccontare dal campo è una missione speciale ma non impossibile per Giacovazzo, da un anno al servizio della redazione Esteri del Tg2, dopo essersi occupato per lungo tempo di cronaca, con una rubrica dedicata ai Motori. Un'esperienza che sta facendo fruttare nelle strade di Kiev, dopo la mole di esperienza accumulata in redazione, di cui è parte da 25 anni, e alla conduzione del Tg delle 13. Le nozze d'argento con la sua professione, ora consacrate dalla sua avventura più difficile e più gratificante, sono il prodotto anche di un modello in famiglia. Piergiorgio è figlio di Giuseppe, giornalista pugliese, conduttore del Tg1 e poi direttore indimenticato della Gazzetta del Mezzogiorno. È grazie al papà che Piergiorgio deve avere avuto un esempio su come svolgere al meglio questo mestiere. In cui la dedizione a volte diventa sacrificio e il sacrificio sa tingersi di vene di eroismo.

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo. Giornalisti bersaglio in Ucraina, agguato contro la troupe a Kiev: “Erano sabotatori russi”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Marzo 2022. 

Gli spari, l’auto che si ferma, gli inviati che provano a mettersi in salvo, il cameraman che riesce a riprendere la scena. A Kiev una troupe di Sky News britannica è stata bersaglio di un agguato alle porte della capitale. Le accuse sono rivolte a un gruppo di “sabotatori russi”. Il Premier Boris Johnson ha condannato l’episodio lodando il coraggio degli inviati. “La stampa libera non si lascerà intimidire o condizionare da barbari quanto indiscriminati atti di violenza”. Le immagini sono diventate virali sui social in pochissimo tempo.

Le accuse arrivano dalla ricostruzione degli stessi protagonisti, che riprendono le forze ucraine, bersagliati dai proiettili. Decine di colpi. Il filmato mostra in soggettiva l’agguato, con la camera puntata a terra all’interno dell’auto, mentre gli inviati urlano di essere giornalisti e si accertano tra di loro delle condizioni dei colleghi. Gli spari e i proiettili vanno a segno sull’automobile. La scia rossa di un proiettile tracciante rimbalza sull’asfalto. I quattro alla fine sono usciti dall’auto con i giubbotti e gli elmetti e si mettono al sicuro dopo aver attraversato di corsa la strada. Tratti in salvo dalle forza di polizia locale.

Non sono preoccupanti le condizioni dell’inviato Stuart Ramsay chief correspondent di Sky News in Ucraina, colpito di striscio al sedere nell’agguato, né quelle del suo cameraman Richie Mockler: centrato a sua volta da due spari e salvato solo dal giubbotto antiproiettile. A completare la troupe anche i producer inviati da Londra Dominique van Heerden e Martin Vowles e dal fixer locale Andrii Lytvynenko. “Siamo stati fortunati, migliaia di ucraini non lo sono”.

“Il coraggio di questi giornalisti, espostisi a situazioni terribili e pericolose” pur di testimoniare la guerra, “è strabiliante da guardare”, ha aggiunto Johnson. “Essi hanno messo a rischio la vita per dire la verità”, ha aggiunto. La notizia arriva nel giorno in cui Mosca ha praticamente spento i media, compresi quelli occidentali: chi diffonde quelle che il Cremlino definisce fake news sulla guerra e l’invasione dell’Ucraina rischia fino a 15 anni di detenzione dai precedenti tre.

La gravissima decisione della Duma ha colpito anche i social network. La stretta era stata annunciata una settimana fa dal Comitato statale per l’editoria e i mezzi di comunicazione aveva intimato a dieci testate indipendenti di cancellare dai loro siti le notizie prese da “fonti nemiche o erronee”, proibendo “con effetto immediato” l’utilizzo della parola guerra. La nuova legislazione è entrata in vigore da oggi. Anche la Rai ha deciso di non trasmettere più dalla Russia per salvaguardare la sicurezza dei suoi corrispondenti e inviati.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

La guerra Russia-Ucraina. Da invasori ad aggrediti, la guerra come non l’abbiamo mai vista solo ora ci indigna. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

L’informazione sulla guerra di Ucraina è di ottimo livello. Perché? Perché è realizzata dalla parte degli aggrediti, di quelli che subiscono l’invasione e i bombardamenti. È la prima volta che succede. Per noi italiani è una assoluta novità. Mi ricordo la guerra in Serbia, alla quale partecipò anche la nostra aviazione e poi il nostro esercito. Gli invasori eravamo noi. L’informazione non si soffermò molto sugli effetti devastanti della guerra sulle popolazioni civili. Ero a Belgrado, ma spesso al mio giornale non piacevano gli articoli che proponevo, o che inviavo.

Preferivano una informazione più ufficiale. Volevano sapere il numero dei raid, gli obiettivi colpiti e magari qualcosa sulle difficoltà del governo di Belgrado. Di bombe a grappolo era meglio tacere. Eppure c’erano. Molti bambini ne restavano vittime. Le bombe a grappolo sono un’arma atroce e vigliacca. Oggi, finalmente, lo sappiamo, perché anche gli americani si indignano per quelle russe. Loro però ne gettavano tante, in silenzio. Poi ci fu l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Precedute da bombardamenti a tappeto. Furono usate anche le bombe al fosforo, quelle che gli inglesi, 60 anni prima, avevano usato per bruciare Dresda, senza motivo. La nostra informazione era molto sobria, anche in quell’occasione. Gran parte dei giornalisti erano “embedded”, termine inglese che vuol dire incorporati. Cioè, viaggiavano con l’esercito invasore, quello degli americani e dei loro alleati. Chiaro che se sei un giornalista embedded non puoi occuparti molto dei nemici. Dei perdenti.

Stavolta le parti sono invertite. Invadono i russi. Bombardano i russi. I nostri sono gli ucraini, che provano a difendersi a fucilate, o con le molotov o con i cavalli di frisia. L’altro giorno ho sentito che stavano piazzando i cavalli di frisia nelle strade per fermare i carri armati. Sapete cosa sono i cavalli di Frisia? Filo spinato arrotolato a grandi cerchi. Fermano facilmente una manifestazione di studenti. Un carro armato li appallottola in un paio di minuti. Finalmente vediamo le cose che non ci hanno fatto mai vedere. Siamo dalla parte dei perdenti. Anche i profughi che partono, piangendo, soffrendo, gridando. Scappano dalla morte e non sanno dove andranno. E i bambini piangono anche loro, tristi, sperduti, e hanno paura. Oppure piangono e hanno paura mentre le mamme li trascinano nei rifugi anti-aerei e anti-missile.  Hanno perso gli amichetti, la scuola, il papà. Non capiscono che succede, vorrebbero giocare. Ma la casa è crollata, e la Tv, finalmente, ce lo fa vedere. Le bombe quando cadono non fanno politica, distruggono e fanno morte.

È una grande novità. Sono cose che non erano mai entrate nella nostra immaginazione. Anche il pacifismo, in gran parte, da noi è stato solo ideologico o di buonsenso. Non partiva dalle emozioni, dall’empatia. Ora si sono rovesciati i valori e i giudizi. A me importa poco che in tutto questo ci sia molta ipocrisia. Che ci si dimentichi di quel che siamo stati noi, di quel che abbiamo fatto noi, della arroganza con la quale pretendevamo di avere la ragione e la civiltà dalla nostra parte mentre sterminavamo popolazioni civili inermi. Mi interessa il rovesciamento. Soprattutto perché ho l’impressione che non potremo più tornare indietro. Far finta di non sapere. Scordarci il pianto. La guerra, amici miei, è così come ce la stanno facendo vedere. I profughi non sono lestofanti, sono povere persone da aiutare. Ucraini, Afghani, Siriani, è la stessa cosa. Ce lo ricorderemo tra un anno? Speriamo di sì.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La tv e l’inganno della guerra. Antonio Scurati su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

Dalle bombe su Bagdad all’11 settembre fino alla guerra in Ucraina, siamo diventati telespettatori di conflitti e sofferenze. E ogni volta ci riscopriamo sgomenti e indifferenti. 

Un uomo cammina in una via nel centro di Kiev. Dietro di lui la scritta «io amo l’Ucraina» e, sull’asfalto, barriere anticarro composte da filo spinato e travi metalliche (Epa)

Da un lato Polina, soltanto dieci anni, e la sua ciocca di capelli rosa; Sasha, la pensionata dilaniata da un razzo perché non aveva voluto abbandonare il suo cane; Oleg, Irina, e i loro due bimbi sterminati mentre fuggivano in auto. Dall’altro lato, tutti noi, al sicuro sul versante incruento del conflitto, noi che ogni mattina sfogliamo l’album delle vittime innocenti mentre sorseggiamo il nostro cappuccino con panna montata e polvere di cacao. È davvero pietà la nostra? L’interrogativo è disturbante ma non deve essere aggirato. E non soltanto per ragioni morali. Dura oramai da troppo tempo questo stridente, agghiacciante contrasto tra «noi» e «loro», questa condizione paradossale che ci consente e, al tempo stesso, ci obbliga a consumare, restando inerti, il dolore degli altri.

Da troppo tempo noi siamo gli spettatori della guerra. L’Ucraina, come abbiamo scoperto solo al momento della sua invasione, è vicina. L’Ucraina è in Europa, come ci viene ripetuto da qualche giorno a questa parte in un tardivo sussulto di coscienza storica. I mass media, vecchi e nuovi, possono, dunque, agevolmente, riversare nelle nostre case linde e sicure immagini di condomini sventrati dai missili russi lanciati su Kiev o su Karkhin. La prossimità tecnologica, la breve distanza geografica facilità il flusso di informazioni quotidiane. Si tratta, invero, di una distanza abissale. Soltanto uno schermo separa oramai la guerra dai suoi spettatori eppure in quel diaframma sempre più sottile, addirittura «ultrapiatto», si spalanca un abisso. Sì, perché da un lato di quello schermo si assiste mollemente a uno spettacolo televisivo, dall’altro lato, nel medesimo istante, si uccide e si muore. Il paradosso è straziante ma non si creda che sia privo di conseguenze anche sul versante privilegiato dello schermo, il nostro versante. La differenza di condizione umana tra noi, spettatori della guerra, e loro, vittime o carnefici di essa, è abissale ma non ci si autoassolva pensando che non via sia relazione, rapporto e responsabilità tra queste due sfere comunicanti, eppure separate, dell’esperienza contemporanea.

Telespettatori totali della guerra, questo siamo diventati da almeno tre decenni noi popoli del privilegiato occidente europeo e questa trasformazione ci ha profondamente segnati – «scavati» oserei dire – nella nostra identità morale, culturale e politica (ma sarebbe più esatto scrivere «impolitica»). La guerra, purtroppo, è un fenomeno antropologico integrale, accompagna cioè l’umanità lungo l’intero corso della sua vicenda terrestre e in ogni aspetto della sua esistenza. La storia che fa di noi gli spettatori della guerra comincia, però, nella notte del 17 gennaio 1991, data d’inizio della Prima guerra del golfo con il primo bombardamento su Baghdad e della prima diretta televisiva mondiale da un fronte di guerra della storia umana. La ricordiamo tutti quella memorabile trasmissione televisiva della CNN, i cui inviati, capitanati da Peter Arnett, si trovavano in un albergo della capitale irachena allorché cominciarono i primi massicci bombardamenti e loro furono in grado di documentarli in diretta grazie a una nuova tecnologia. Tutti noi ricordiamo le immagini del cielo notturno solcato dai traccianti luminosi della contraerea perché quella notte, emozionati e turbati davanti allo spettacolo tragico della guerra, avemmo l’impressione che cominciasse una nuova era della coscienza morale, della compassione tra gli umani e della condivisione dell’altrui sofferenza. Una nuova era per una politica planetaria di prossimità umanitaria in un mondo che la globalizzazione aveva reso piccolo e interdipendente.

Ma ci sbagliavamo: ciò che cominciava quella notte era soltanto un’altra fase della storia della visione in Occidente, una fase in cui la compassione e la coscienza morale si sarebbero progressivamente atrofizzate. Anche prima di allora avevamo potuto osservare a distanza immagini di guerra e distruzione ma mai come dopo di allora le occasioni di assistere in perfetta sicurezza e indifferenza allo spettacolo della sofferenza altrui sarebbero state tanto numerose, quotidiane, immediate. Poi, esattamente dieci anni più tardi, venne l’undici settembre. L’arma micidiale della guerra-spettacolo venne rivolta contro l’Occidente con conseguenze catastrofiche. Se la guerra televisiva a Saddam Hussein era stato un grande successo politico in quanto successo mediatico (la CNN, lavorando in sinergia con il pentagono, era riuscita a trasformare la guerra in un avvincente spettacolo per famiglie), il genio malvagio del terrorismo islamico riuscì a sferrare una formidabile offensiva politica servendosi delle medesime strategie mediatiche. Anche allora noi ci dicemmo che niente sarebbe più stato come prima, che quel fungo di fuoco partorito dai simboli della prosperità occidentale in una tersa mattina di settembre avrebbe segnato uno spartiacque nella storia. Anche allora ci illudemmo.

Se la Prima guerra del golfo era riuscita a riabilitare il ricorso alle armi per la risoluzione dei conflitti internazionali, l’undici settembre ebbe l’effetto perverso di investire nuovamente la guerra di un significato salvifico. Le headline delle televisioni all news titolarono unanimemente war vs. terror (guerra contro terrore). Gli attentati alle torri gemelle non inaugurarono una nuova stagione nelle relazioni internazionali, un’era votata al pacifismo evoluto e intraprendente. Al contrario, riconsacrarono la guerra quale versante virtuoso, trasparente, glorioso della violenza in quanto contrapposto al versante oscuro, vigliacco e maligno rappresentato dal terrorismo. La guerra, demistificata e screditata negli anni ’60 e ’70, tornò ad essere la formidabile macchina mitografica che per millenni, fin dai tempi di Omero, la civiltà occidentale ha celebrato come il più grande spettacolo che sia dato di vedere.

Seguirono altri conflitti armati, altre carneficine in diretta televisiva, percepiti da noi come sempre più distanti, anche quando vicinissimi. Nel frattempo, infatti, noi privilegiati dell’Europa occidentale avevamo subito una mutazione, ci eravamo trasformati in animali anfibi, capaci di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del nostro mondo pacifico e protetto ma anche immersi nella palude insanguinata da vittime di deflagrazioni lontane. Era nato il telespettatore totale: proprio l’informazione capillare dai fronti di guerra, proprio quella marea di immagini terribili in cui nuotavamo quotidianamente senza mai bagnarci avevano tenuto a battesimo una nuova modalità di incomprensione del mondo modellata sull’incapacità cognitiva e pratica dello spettatore televisivo. La televisione aveva canonizzato se stessa elevando a norma di comportamento sociale, civile e politico la passività del proprio pubblico. Eravamo scivolati lungo una china che ci aveva resi telespettatori anche delle nostre stesse vite.

Non c’è, dunque, da stupirsi se allo scoppio di ogni nuovo conflitto armato noi ci riscopriamo sgomenti, impotenti, ignoranti e, in fondo in fondo, indifferenti. Il piano imperialistico di Putin è manifesto da decenni; il suo dispotismo neo-zarista, fondato sulla violenza, sulla sopraffazione e su una cerchia di oligarchi corrotti è palesemente in conflitto con i valori democratici. Già nell’agosto del 2008 le immagini strazianti della popolazione civile georgiana bombardata dai russi fecero il giro del mondo – ricordate la vecchia urlante di Gori? — ma, per l’appunto, erano soltanto immagini. Già nel 2014 i tank del tiranno invasero la Crimea – ed è da allora che si combatte nel Donbass – ma nemmeno questo impedì all’Europa di continuare a fare affari con lui, all’Italia di vendergli autoblindo Iveco, ai politici populisti di indossare magliette con il suo volto (Salvini), di definirlo difensore «dei valori europei e dell’identità cristiana» (Meloni) e a milioni di italiani di continuare a votarli senza problemi.

Ora mi si obietterà che l’Europa sta finalmente reagendo con determinazione al sopruso di Mosca. E’ vero ma io sottolineo il «finalmente». Mi si obietterà che l’album delle vittime innocenti non ci lascia indifferenti. Io temo, invece, che in molti, troppi casi anche l’odierno consumo mediatico di immagini della sofferenza ucraina appartenga al dominio dell’osceno, non del tragico, prolunghi cioè la nostra decennale incapacità di una rappresentazione partecipe e catartica della sofferenza umana. Se così non fosse, non ci troveremmo a questo punto. Abbiamo alle spalle un lungo apprendistato all’irrealtà televisiva, alla passività spettatoriale e al cieco cinismo politico che l’accompagna. Ci attende un compito di rieducazione non meno lungo.

Pensiero unico e videogame: la guerra in tv - La Verità l'1 marzo 2022.

Tra bufale, esagerazioni e manie di protagonismo i primi giorni del conflitto in Ucraina sono stati una débâcle, soprattutto per i tg Rai.

Tra bufale, esagerazioni e manie di protagonismo i primi giorni del conflitto in Ucraina sono stati una débâcle, soprattutto per i tg Rai. E in tutti i talk show regna il conformismo: basta un distinguo sulla Nato per finire in Vigilanza come Marc Innaro.

Rai, scoppia un nuovo caso Innaro: "È troppo filo-Putin, lasci Mosca". Giovanna Vitale su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Il corrispondente della Tv pubblica confeziona un servizio sull'assalto alla centrale nucleare dell'Ucraina basandosi solo sui dispacci della Tass, l'agenza di stampa del Cremlino. Il Pd sulle barricate: "Accredita la propaganda russa".

Ci risiamo, Marc Innaro ci è cascato un'altra volta. Dopo aver sostenuto, sabato scorso al Tg2 Post, la tesi putiniana dell'allargamento a Est della Nato come causa scatenante dell'invasione in Ucraina, il corrispondente Rai da Mosca ha costruito l'intero servizio sull'assedio russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia - trasmesso nel corso dello speciale Tg2 Italia - basandosi unicamente sui dispacci della Tass, l'agenzia di stampa ufficiale dell'ex Urss.

Da iltempo.it il 4 marzo 2022.

È diventata un caso la corrispondenza di Marc Innaro da Mosca. Il giornalista Rai, "sparito" dal Tg1 ufficialmente per l'invio di un inviato del telegiornale della rete ammiraglia del servizio pubblico a Mosca, è accusato da più parti di essere filorusso e di raccontare una realtà che fa comodo al presidente Vladimir Putin. 

Il caso è scoppiato dopo le parole del corrispondente, che è capo della sede Rai a Mosca, al Tg2 Post dove aveva illustrato le "ragioni" della Russia nella guerra in Ucraina, ossia l'innegabile, sostiene Innaro, espansione della Nato a Est.

Il giornalista ha continuato a intervenire nelle altre reti del servizio pubblico, a partire da Rainews24, dove anche oggi venerdì 4 marzo ha dato una lettura da molti giudicata di parte dell'attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia e del presunto ruolo, riferito da Mosca, di sabotatori ucraini nell'incendio dell'impianto ucraino, tra i più grandi se non il maggiore d'Europa.

"Basta con Marc Innaro, il corrispondente filorusso della Rai da Mosca. Basta! Fermatelo" attacca il senatore Francesco Giro con doppia tessera Lega-FI. "Al Tg2 Post ha riferito -senza proferire dubbio- sulle accuse del capo dei servizi segreti verso l’Occidente e il Regno Unito, che giustificherebbero secondo l’ineffabile Innaro la scelta dei russi di attaccare l’Ucraina. Incredibile! 

Un ringraziamento - prosegue Giro - va invece all’ottimo direttore del Tg 2 Sangiuliano che ha bloccato subito le azzardate parole di Innaro ricordandogli che il capo dei servizi russi è la stessa persona (un fantoccio) bastonata da Putin in diretta TV, chiosando che quelle di Innaro erano cavolate. Bravo Sangiuliano! 

E un grazie al direttore del Corriere della Sera, Fontana, che ha fatto altrettanta chiarezza dicendo che i russi sono gli aggressori e gli ucraini gli aggrediti. Pietoso infine il segretario della Cgil Landini che ironizzava su Ungheria e Polonia colpevoli di accogliere solo ora i profughi, come se - conclude Giro - non ci fosse a due passi da noi una guerra vera ed europea".

"Incredibile che Marc Innaro rilanci senza commenti la versione dei militari di Putin sulla mancata catastrofe alla centrale nucleare di Zaporozhye, secondo cui sarebbe stata una responsabilità di ’un gruppo di sabotatori ucrainì mentre ’l’allarme in Occidente sarebbe del tutto ingiustificato, essendo la situazione sotto controllo'", scrive Andrea Romano, deputato PD e membro della Commissione di Vigilanza che si rivolge alla Rai: "Per rilanciare la propaganda di Putin basta e avanza la Tass. Dal servizio pubblico radiotelevisivo ci aspettiamo di più". 

A difendere Innaro scende in campo il vignettista Vauro: "Siamo in un quadro di informazione sempre più militarizzata, sempre più simile alla propaganda. Credo sia ormai un problema della nostra democrazia. L’informazione è totalmente militarizzata. Addirittura Marc Innaro, il corrispondente Rai da Mosca, è stato attaccato dal segretario del Pd Enrico Letta perché fa il suo lavoro, mentre un giornalista ucraino ha attaccato il Corriere della Sera e il suo inviato a Mariupol, Andrea Nicastro, dicendo che è filorusso e che le cose che racconta sono oscenità. A Mariupol c’è il battaglione Azov, composto da nazisti. Attaccare l’inviato di un giornale, in questo caso Nicastro, che sta lì, significa trasformare quel giornalista in un target".

Da open.online il 5 luglio 2022.  

Marc Innaro lascia Mosca. Il corrispondente dalla Russia dei Tg Rai se ne andrà dalla Russia dopo otto anni per tornare in Egitto: ha prestato servizio al Cairo tra 2004 e 2014. 

Il trasferimento sarà effettivo tra qualche settimana ma lui ha confermato lo spostamento al Fatto Quotidiano: «Sono qui da otto anni, non bisogna essere abbarbicati alla poltrona», dice.

Innaro è finito nelle polemiche in questi mesi durante la guerra tra Russia e Ucraina. Durante un collegamento con Tg2 Post alla fine del febbraio scorso aveva detto che «dopo il crollo dell’Unione Sovietica chi si è allargato non è stata la Russia. È stata la Nato». 

Da quel momento il Tg1 ha smesso di utilizzare i suoi servizi e la sua firma da Mosca. Lui ha continuato ad andare in video su Tg2, Tg3, RaiNews e Giornale Radio. 

Successivamente il suo nome è uscito nel famoso (famigerato?) report sui filorussi che infilò persino Corrado Augias tra i putiniani. 

«Mi sarebbe spiaciuto non esserci visto che in quella lista sono finiti colleghi che stimo molto. E anche Oliver Stone, il mio regista preferito», dice lui oggi al Fatto. 

Il quotidiano ricorda che i corrispondenti esteri dipendono direttamente dall’amministratore delegato Carlo Fuortes. Che decide gli spostamenti con l’accordo (facoltativo) dei direttori di testata. 

Innaro andrà a sostituire Giuseppe Bonavolontà, che andrà in pensione. Al suo posto a Mosca potrebbe finire l’inviato del Tg1 Alessandro Cassieri. Con un dettaglio curioso: anche il suo nome era finito nella lista dei putiniani.

Sturmtruppen va alla guerra: i media mondiali tra ridicoli elmetti e immagini di videogames. Da visionetv.it il 25 Febbraio 2022.

Quando pensiamo di aver visto tutto, il mainstream riesce sempre a sorprenderci con brillantissimi effetti speciali. L’ultimo artificio, ma solo in ordine di tempo, è un servizio andato in onda ieri sera al Tg2: il bombardamento di Kiev. Peccato fosse solo un videogioco.

Come hanno scoperto i gamers più esperti, infatti, la tv pubblica nazionale ha mandato in onda immagini tratte dal videogame War Thunder, spacciandole per guerra vera. I professionisti dell’informazione si saranno accorti dell’errore? O forse non è davvero un errore? Perché dopo questi due anni si ha l’impressione che i media abbiano letteralmente fatto a gara nel cercare i modi peggiori per impressionare il loro pubblico.

Puntuali ad ogni guerra riecco le inviate Rai con l’elmetto, che si prodigano nel raccontare scenari terribili di imminenti bombardamenti mentre sullo sfondo c’è gente che passeggia tranquillamente, coppie abbracciate o addirittura bambini che giocano. Poche ore fa sono state diffuse foto di aerei russi abbattuti, ma l’immagine, vecchia di anni, risale probabilmente all’abbattimento di un aereo saudita.

E se commettiamo l’errore di pensare che solo gli italiani utilizzino queste strategie da quattro soldi per intrattenere gli spettatori, dovremo farcene una ragione. Il podio include anche altre nazionalità. Si distinguono per inventiva reporter tedeschi (dotati di elmetto anche loro) che raccontano di gente che si nasconde nei sotterranei a prova di bomba, mentre i cittadini alle loro spalle stanno serenamente entrando nella stazione metro per recarsi al lavoro. O altri che, probabilmente d’accordo con  le giornaliste di Rai2, riproducono la scena in assetto da guerra circondati da gente che fotografa il panorama. 

Sul podio anche gli spagnoli che riprendono la strategia italiana del videogioco con mega bombardamenti, per la precisione utilizzano ArmA3, un gioiello di grafica ed esplosioni, particolarmente adatto alla situazione “allarme in Ucraina”.

Ancora sorpresi? Non dovreste. Ma cosa ci possiamo aspettare dai soliti noti professionisti dell’informazione che ci hanno raccontato la vicenda (o piuttosto il copione)  Covid negli ultimi due anni?  Oppure, ci siamo già dimenticati di Enrico Mentana che manda in onda immagini tratte da Project X?

Era il 7 gennaio del 2021 e si discuteva animatamente su come la democrazia internazionale fosse in grave pericolo a causa dell’insurrezione del giorno precedente a Washington DC. Ecco che arriva in studio su La7 un filmato dove si vede un tipo super palestrato, muscoli lucidissimi,  con tanto di lanciafiamme ed esplosioni alle spalle, che secondo Mentana si sta avvicinando per colpire il Campidoglio a Washington DC.

L’ospite in onda con lui rincara la dose e sconfessa anche quelli che all’epoca si chiesero se le immagini non fossero state altro che  un semplice  errore, una svista “si, Enrico, confermo che i social americani rilanciano la notizia che scene simili stiano avvenendo davanti ad altri Campidogli locali”. Ha confermato, possiamo stare tranquilli.

Più indietro ricordiamo sicuramente le fosse comuni al Central Park di New York, oppure le bare di Lampedusa, che ad agosto 2021 hanno causato problemi anche a  Simona Ventura che in un suo film aveva provato a riutilizzare le stesse immagini del 2013, o ancora i manichini per riempire le terapie intensive Covid, o molto molto altro ancora.

La domanda a questo punto è perché accade. Perché i media sentono il bisogno di propinare materiale falso, visto ormai la truffa è davvero troppo estesa e troppo sistematica per essere un banale errore? Beh, se guardiamo agli ultimi due anni, la risposta sembra chiara. Si vuole costruire una narrativa interamente pilotata, per imporre cosa è bene e cosa è male secondo il sistema. E per un certo periodo ci sono anche riusciti, dobbiamo riconoscerlo. La gente si è affidata solo a loro e hanno incamerato quanto proposto.

Tuttavia, chi ormai è uscito dalla imposizione dei MSM e ha legittimamente cercato altre fonti a cui attingere, si pone un’altra gravosa domanda. Ma chi ci ha mentito in maniera così spudorata adesso, su quanto altro ci ha mentito in passato? MARTINA GIUNTOLI

Il ruolo dei media. Il pressappochismo del dibattito sull’Ue e il bisogno di europeismo critico. Alexander Damiano Ricci su L'Inkiesta il 2 Marzo 2022.

Come scrive Alexander Damiano Ricci nel libro “Propaganda Europa” (Edizioni Gruppo Abele), il dibattito sull’Ue soffre di un livello di approssimazione abbastanza grave, quando in realtà il panorama mediatico italiano avrebbe bisogno di un approccio critico-costruttivo.

Alla mancata problematizzazione delle strategie della Commissione europea, alla forzatura di un dibattito sul futuro dell’Unione presentato alla stregua di Guerre Stellari con tanto di Jedi (integrazionisti) e Sith (sovranisti), all’esistenza di tabù narrativi forti, si aggiunge infine un problema di linguaggi e vocabolario.

In primis, il dibattito sull’Europa soffre di un livello di approssimazione abbastanza grave: basti pensare alle formule vuote «Serve l’Europa», «Ce lo chiede l’Europa», «I soldi dell’Europa» che, di fatto, hanno trasformato l’«Europa» stessa in un feticcio, utile, al massimo, a condurre qualche programma televisivo. Fuor di metafora, dietro alla parola Europa si celano perlomeno tre istituzioni differenti: Commissione, Consiglio e Parlamento.

Probabilmente si potrebbe andare ben più in là, specificando sempre, esattamente, chi si stia chiamando in causa o a chi ci si stia rivolgendo – pensiamo alla Cgue, alle agenzie (Frontex), alla Bce o alle altre istituzioni consultative dell’Ue. 

Può sembrare un problema marginale, ma chi userebbe lo stesso grado di approssimazione in Italia, parlando delle varie componenti dello Stato italiano, nel contesto della cronaca politica? Nessuno. Eppure, una proporzione considerevole delle leggi approvate nei Parlamenti nazionali deriva, in un modo o in un altro – e al netto dei ritardi –, da quanto viene deciso a Bruxelles e Strasburgo.

Detto ciò, nel corso degli ultimi anni sono nate esperienze significative di giornalismo europeo in Italia, anche grazie al finanziamento da parte di alcune istituzioni europee, come il Parlamento europeo. Sebbene alcune di queste non facciano ampio ricorso alla dicotomia sovranista-europeista, vale comunque la pena citarne gli sforzi in termini di offerta di informazione sulle questioni europee.

La testata online Linkiesta.it ha lanciato una piattaforma interna al proprio sito: Linkiesta Europea. Lo spazio si configura come un “sito nel sito” e una homepage composta, da un lato, di articoli informativi circa le questioni di attualità che caratterizzano il lavoro delle istituzioni di Bruxelles e, dall’altro, di pezzi di opinione. In maniera simile, la sezione e newsletter Konrad – L’Europa spiegata bene a cura de il Post offre regolarmente contenuti di approfondimento sulle dinamiche istituzionali di Bruxelles e Strasburgo, come anche dei fatti politici più rilevanti occorsi negli altri Paesi dell’Unione. 

Allo stesso modo, il Foglio ha lanciato la newsletter Europa ore 7. Infine, il quotidiano cartaceo e digitale Domani può vantare, rispetto alla concorrenza, una copertura assidua e regolare dell’attualità politica continentale. Il giornalismo europeo di Domani e probabilmente quello che si avvicina di più allo stile critico-costruttivo di cui avrebbe bisogno il panorama mediatico italiano.

Lo sviluppo di un giornalismo europeo di qualità che passi attraverso canali media tradizionali e mainstream ricopre un ruolo fondamentale nel contesto dello sviluppo di un europeismo critico.

Sebbene gli ultimi due decenni passeranno probabilmente alla storia come l’epoca della nascita dei social media, i media tradizionali rimangono saldamente al timone di quella che potrebbe essere definita come capacita di plasmare e indirizzare il dibattito pubblico nazionale, nonché l’opinione pubblica stessa. Ciò vale in particolare, nel breve periodo, per il media televisivo. 

Oltre a giocare un ruolo chiave nel determinare la strutturazione del dibattito sul futuro dell’Unione europea e la capacità da parte dei cittadini di comprendere correttamente e criticamente la posta in gioco nei processi legislativi europei, i media tradizionali possono avere anche una funzione di veicolazione di messaggi critici portati da attori del cambiamento come Ong e movimenti sociali.

E, quindi, stimolare un processo di trasformazione.

Eppure, nel corso degli ultimi quindici anni, ciò è avvenuto probabilmente soltanto in un’occasione: durante la crisi della potenziale Grexit del 2015. Ed è anche a partire da quell’esperienza che si è cominciata a fare largo, a sinistra, la discussione sull’opportunità di continuare a scommettere su un’evoluzione dell’Unione europea.

Da “Propaganda Europa”, di Alexander Damiano Ricci, Edizioni Gruppo Abele, 160 pagine, 14 euro

"Rischiamo di diventare cinici". Guerra e Covid, lo psicologo: “Bombardati da slogan idioti, la gestione del dolore è un tabù”. Francesca Sabella su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

«Non siamo più in grado di gestire dolore e angoscia, rischiamo di diventare cinici. Bisogna prestare attenzione alla comunicazione dei media, troppo semplicistica e banale e che non ci rassicura affatto, anzi». Parla lo psicologo e docente universitario Oscar Nicolaus.

Professore, dopo due anni di pandemia siamo piombati in una nuova emergenza: una guerra che ha sconvolto il mondo. Da accademico e da esperto a contatto con molti pazienti, com’è messa la nostra mente di fronte a tutte queste prove da superare?

«Credo che se il Covid ha messo a dura prova la capacità di resistere mentalmente, questa guerra unita alla pandemia amplifica ancora di più quello che potremmo definire un sentimento di angoscia e di morte. Bisogna tener conto che la nostra società, le società occidentali in generale, sono poco attrezzate a gestire il dolore. Il dolore è diventato quasi un tabù, basta vedere come si facevano una volta i funerali e come invece li facciamo oggi. In America ma anche qui durano cinque minuti, forse al Sud un po’ di più ma resta che l’elaborazione del dolore è diventata un optional e questo rende ancora più forte e preoccupante questa dimensione che ho definito di angoscia e di morte».

Lei dice che il dolore è diventato un tabù, non è che invece ci siamo abituati al dolore, a vedere immagini strazianti che arrivano dall’Ucraina e in generale un po’ a tutto? Inizialmente anche il Covid e il lockdown ci sembravano situazioni non solo nuove, ma anche insostenibili e invece alla fine ci siamo abituati anche a quello.…

«I rischi, come in tutti i fenomeni complessi che ci riguardano, chiaramente ci sono. C’è il rischio di un’assuefazione che diventa una forma di difesa. Come succede a chi è impegnato sempre con la vita e con la morte delle persone, alla fine si diventa cinici. È una forma di difesa da un dolore, e questo è il vero punto, per il quale non abbiamo strumenti o meglio abbiamo meno strumenti rispetto al passato. Oggi facciamo più fatica a contenerlo e a elaborarlo, anche sul piano sociale. Non è solo un problema mentale, ovviamente, perché la guerra, le distruzioni e la crisi sono problemi concreti. E poi bisognerebbe anche chiedersi come siamo arrivati a tutto ciò e se anche l’Occidente dovrebbe e potrebbe comportarsi in maniera diversa».

Rispetto al passato cosa è cambiato nella gestione del dolore e dell’angoscia?

«Il dolore è stato in qualche modo “cancellato” e uso un’espressione forte. Mi spiego, c’è una sorta di negazione del dolore che porta a considerare superflui certi riti (e ritorniamo ai funerali di una volta). Oggi è un tabù parlare della capacità di soffrire e questo ci ha privato di strumenti mentali per affrontarlo. Durante la pandemia, per esempio, ci siamo accorti di essere impreparati di fronte a tante cose. A partire dalla considerazione che avevamo della scienza. Pensavamo che la scienza fosse un punto di vista perfetto, invece la scienza è un cantiere aperto e non un dogma, e questo ha confuso ulteriormente chi partiva dall’idea di scienza come qualcosa di infallibile. E chiaramente la comunicazione, anzi la mala comunicazione, ha avuto il suo peso in questa confusione generale. Un paziente recentemente mi ha detto: se sto male, vedo che gli altri si allontanano e hanno quasi paura del mio dolore. Questa frase dice bene quello che ci sta succedendo: siamo spaventati dal dolore altrui».

Questa paura del dolore, rischia di farci diventare cinici e freddi di fronte ai drammi di un virus o di una guerra?

«Sì, o cinici o sempre più angosciati perché se il dolore si condivide si sopporta meglio».

Poco fa abbiamo parlato di una cattiva comunicazione dei media durante il Covid, crede che ora con la guerra in Ucraina stia avvenendo la medesima cosa?

«Mi sembra che ci sia da una parte un giusto appello alla solidarietà verso un popolo invaso e massacrato dalla politica imperialistica di Putin, dall’altra parte bisognerebbe anche rendersi conto e ragionare su come siamo arrivati a questo, come abbiamo permesso che tutto ciò accadesse. Forse qualche responsabilità ce l’abbiamo anche noi, e questo lo dico non per depotenziare la critica alla politica guerrafondaia di Putin. Poi, sono passati dieci giorni dall’inizio della guerra, non ho ancora elementi sufficienti per dire se la comunicazione sarà sbagliata, anche questa volta, oppure no».

Sono passati “solo” dieci giorni dall’inizio della guerra ma c’è già stata, da parte di alcuni, una corsa all’acquisto dei bunker mentre molti stanno facendo scorte di cibo. È già piscosi?

«Se davvero c’è un’invasione dei supermercati e la corsa all’acquisto dei bunker è certamente il sintomo di un’angoscia, di una psicosi ancora non a livelli preoccupanti ma sicuramente è l’inizio».

Crede che dopo questi due anni e il prossimo che ci apprestiamo a vivere nel segno di guerre e crisi, siamo sempre più dipendenti dalla tv e dai social, a discapito delle relazioni umane?

«Il Covid ci ha chiuso dentro casa e inevitabilmente ci siamo legati a quegli strumenti che ci raccontavano cosa accadeva fuori. Però, c’è stata una reazione a un certo punto e la gente ha deciso di selezionare le notizie. Per esempio quel bollettino con il numero dei contagi e dei morti diffuso in maniera ossessiva non serviva a nulla, generava solo confusione ed è sicuramente un esempio della cattiva comunicazione. Sarebbe stato più utile capire la reazione psicologica dei cittadini a quelle notizie e dare informazioni utili a capire la pandemia e i punti di vista, a volte contraddittori, degli esperti».

Quindi, troppi errori nella comunicazione?

«Sì. Dovremmo sicuramente capire che gli appelli ottimistici, un po’ banali e fin troppo semplici, alla fine non ottengono il risultato che vogliono anzi peggiorano la situazione. E quindi dobbiamo mostrare i rischi e i pericoli e fare appello alla solidarietà non solo con il popolo ucraino ma anche tra di noi. Basta con questi appelli: andrà tutto bene. Depotenziano l’apparato psichico umano. Serve l’incoraggiamento ma non i consigli idioti. Si ricorda la frase di De Filippo “ha da passà ‘a nuttata”?. Ecco, deve passare ma dipende anche cosa facciamo durante quella nottata. E questo il senso di una comunicazione più seria, quindi meno slogan semplicistici e più messaggi che tengano conto della complessità della natura umana, che ha sempre a che fare con l’improbabile e l’imprevisto».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Simona Siri per “la Stampa” l'8 giugno 2022.

«Sono cresciuta nel piccolo villaggio di Trang Bang nel Vietnam del Sud. Mia madre racconta che da ragazzina ridevo molto. Conducevamo una vita semplice con abbondanza di cibo, dal momento che la mia famiglia aveva una fattoria e mia madre gestiva il miglior ristorante della città. Ricordo che amavo la scuola e giocavo con i miei cugini e gli altri bambini del villaggio, saltavamo la corda, correvamo e ci rincorrevamo con gioia. Fino a quando tutto è cambiato l'8 giugno 1972».

Si apre così l'editoriale pubblicato dal New York Times firmato da Kim Phuc Phan Thi, diventata famosa come «la bambina del Napalm». È lei quella che corre nuda, circondata da altri bambini vestiti, dietro di loro i soldati in divisa, in quella che è forse la fotografia di guerra più famosa della storia, opera dal fotografo Nick Ut. Uno scatto che è diventato il simbolo stesso degli orrori della guerra del Vietnam, la prova davanti alla quale il mondo non si è più potuto nascondere. Un'immagine che è Storia con la S maiuscola, momento universale, ma che racconta anche una vicenda privata, un dramma personale del quale forse ci siamo dimenticati, sopraffatti dal ricordo. 

«Il napalm si attacca a te, non importa quanto velocemente corri, provoca orribili ustioni e dolore che durano una vita», prosegue Kim Phuc Phan Thi. "Non ricordo di aver corso e urlato: "Nóng quá, nóng quá!" (troppo caldo, troppo caldo!) ma i filmati e i ricordi degli altri mostrano che l'ho fatto". E poi più avanti: "Nick ha cambiato la mia vita per sempre con quella fotografia straordinaria. E me l'ha anche salvata. Dopo aver scattato la foto, mise giù la macchina fotografica, mi avvolse in una coperta e mi portò via perché avessi cure mediche. Gli sono per sempre grata. Eppure ricordo anche di averlo odiato, a volte.

Sono cresciuta detestando quella foto. Tra me e me pensavo: "Sono una bambina. Sono nuda. Perché ha fatto quella foto? Perché i miei genitori non mi hanno protetto? Perché ha stampato quella foto? Perché ero l'unica bambina nuda mentre i miei fratelli e cugini nella foto sono vestiti?" Mi sono sentita brutta e mi sono vergognata. Crescendo, a volte ho desiderato scomparire non solo a causa delle mie ferite - le ustioni hanno segnato un terzo del mio corpo e causato un dolore cronico intenso - ma anche a causa della vergogna e dell'imbarazzo della mia deturpazione. Ho cercato di nascondere le mie cicatrici sotto i vestiti. Ho avuto un'ansia e una depressione orribili. I bambini a scuola mi evitavano. I vicini e in una certa misura i miei genitori avevano pietà di me. Crescendo, temevo che nessuno mi avrebbe mai amata". 

Bambina di nove anni all'epoca della foto, oggi Kim Phuc Phan Thi è una donna che si batte per quello in cui crede. Dopo essersi rifugiata in Canada ha dato vita alla Kim Foundation International, un'associazione che offre aiuto ai bambini vittime di guerra. Nel suo editoriale sul New York Times, racconta di aver capito la sua missione solo da adulta, dopo anni trascorsi a rilasciare interviste su quella foto che ha reso e lei i cuginetti "dei simboli, mentre noi siamo esseri umani" e per questo desiderosi di andare avanti, in un processo opposto a quello che fa la fotografia che per sua definizione fissa nel tempo. 

 È anche per questo che oggi "la bambina del Napalm" è un'adulta che pensa che pubblicare le foto degli orrori dell'Ucraina così come quelle delle vittime delle stragi americane da fucili AR-15 - una questione su cui in Usa c'è molto dibattito- sia non solo doveroso, ma necessario. «Il pensiero di condividere le immagini della carneficina, in particolare di bambini, può sembrare insopportabile, ma dobbiamo affrontarlo», dice in conclusione. «È più facile nascondersi dalla realtà della guerra se non ne vediamo le conseguenze».

Perché le foto dell'orrore vanno mostrate. Francesco Maria Del Vigo l'8 Marzo 2022 su Il Giornale.

No. Non possiamo girarci dall'altra parte. Spostare lo sguardo come se "quei corpi a terra senza più calore" fossero un incidente visivo.

No. Non possiamo girarci dall'altra parte. Spostare lo sguardo come se «quei corpi a terra senza più calore» fossero un incidente visivo. Non nascondiamoci - per paura di spaventarci -, dietro le carte deontologiche, gli avvisi per chi è sensibile e i disclaimer di Facebook e Instagram che oscurano le foto delle vittime di un massacro perché potrebbero urtare la nostra sensibilità. Ecco, in questo momento la nostra sensibilità deve essere urtata, strattonata, schiaffeggiata, tirata fuori a forza dalla comfort zone degli algoritmi che tutto ottundono. Dobbiamo spaventarci perché ogni tanto serve anche avere paura, per capire quello che sta accadendo intorno a noi.

La guerra è una realtà che non solo non si può, ma non si deve edulcorare, camuffare, imbellettare dietro una spazzolata di buonismo.

Le immagini e i filmati che arrivano dall'Ucraina sono devastanti e osceni. Sono un pugno in faccia e un calcio nello stomaco. Sono i peggiori incubi che ritornano a pochi passi da casa nostra. Quelli che abbiamo sempre cercato di esorcizzare come qualcosa che, dopo il grande orrore dei conflitti mondiali, non potesse mai più presentarsi in Occidente.

Palazzi distrutti, abitazioni in fiamme, urla strazianti e disumane, corpi escoriati e mutilati, cadaveri ancora in fiamme. Vite stroncate da una morte bastarda mentre cercavano di mettersi al riparo. Questo è quello che arriva dall'Ucraina.

Una mostruosità che dobbiamo avere la forza di vedere. Il giornalismo che chiude gli occhi dei suoi lettori di fronte alla barbarie dei conflitti, non fa un buon servizio all'informazione. È seguendo questa linea di pensiero che il New York Times - nonostante le critiche - ha deciso di pubblicare la foto di una famiglia sterminata mentre cercava di scappare da Irpin per sfuggire alle forze russe. Se, nell'ultimo mezzo secolo, si è presa coscienza della disumanità della guerra è anche grazie alle immagini che ci hanno portato in casa gli effetti di quelle bombe così lontane dalle nostre patinate vite quotidiane.

Le istantanee dei campi di concentramento, dei corpi deformati dalle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki, l'immagine simbolo della guerra in Vietnam con la bambina nuda che fugge da un bombardamento al napalm e, ancora più recenti, i filmati dell'11 settembre con gli uomini che per scappare alle fiamme si lanciano giù dal World Trade Center, le decapitazioni islamiche, il corpo di Aylan senza vita sulla spiaggia turca. È una lista degli orrori, ma anche un monito che non dobbiamo dimenticare.

Sarebbe stato meglio non vedere tutte quelle immagini? Avremmo fatto un servizio migliore alla nostra società e alla storia? No. Purtroppo la vita reale non può essere sottoposta a un parental advisory, non può essere bollinata come i film in tv, non può essere preceduta - come una serie televisiva - dall'avviso «ci saranno scene di morte e distruzione». Quelle scene, purtroppo, ci sono. La morte e la distruzione esistono. Non spariscono se smettiamo di vederle. Spariscono, semmai, se iniziamo a combatterle. Tacerle, normalizzarle, pixellarle, photoshopparle per riportarle a una decente normalità, è un lavoro da struzzo, non da giornalista. Perché la storia è il lungo intreccio di piccoli frammenti di cronaca quotidiana, tasselli che tutti insieme costituiscono l'affresco delle nostre vite. Ed è ancora più importante farlo oggi, nell'era delle fake news e della manipolazione di massa dell'opinione pubblica.

Vietato abituarsi a questo orrore in diretta tv. Giacomo Susca su Il Giornale il 3 marzo 2022.  

Mai come in guerra il racconto della realtà non può prescindere dalla sua rappresentazione. L'invasione dell'Ucraina ha stravolto il palinsesto della quotidianità, deborda dagli spazi informativi tradizionali e invade gli schermi dei telefonini, mettendoci sotto gli occhi in ogni momento l'atrocità della strage alle porte dell'Europa. Il ritorno di scene che sembravano confinate nello sgabuzzino della storia porta con sé il tragico corollario di qualsiasi conflitto, da sempre: le bombe, i cadaveri per le strade, le città ridotte a cumuli di macerie, la disperazione dei profughi costretti a mollare tutto e fuggire. Ciò che rende questa guerra diversa da tutte le altre, però, è la sua visibilità assoluta e immediata. Lontana anni luce dalla Guerra del Golfo, la prima davvero «in diretta», pur nelle primitive immagini ad infrarosso che turbarono le notti dell'Occidente. E molto distante anche dall'ultimo teatro di instabilità del pianeta, in Afghanistan lo scorso agosto, laddove i social network avevano già svolto un ruolo decisivo nel riportare ciò che stava accadendo. Di quel mosaico narrativo sono rimasti nell'immaginario collettivo soprattutto due scatti: gli oltre 600 cittadini afghani accalcati nel cargo Usa che li salvava dall'inferno; e i talebani in posa, armati fino ai denti, nel palazzo presidenziale di Kabul.

Nella settimana che ha messo l'Ucraina al centro delle attenzioni globali le «copertine» che non potremo dimenticare sono già fin troppe. A cominciare dalle ultime 48 ore: il municipio di Kharkiv sotto la pioggia di missili, la torre della tv di Stato in fumo, l'interminabile colonna di mezzi militari russi in marcia verso Kiev, il coraggio dei civili che si oppongono ai carri armati sventolando una bandiera gialloblù... L'album dei simboli si aggiorna in tempo reale, ogni sera i talk show aprono «finestre live» per documentare come la frontiera del tollerabile si stia spostando ancora più in là. Teorizzava Roland Barthes a proposito del potere delle immagini: «La fotografia è violenta, non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista, e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi». Quanto abbiamo di più vicino alla verità, perfino nel campo minato della propaganda bellica. Giusto mostrare l'orrore per smuovere le coscienze, ma alla lunga il paradosso è ottenere l'assuefazione all'inaccettabile. Anche per questo il tempo gioca a favore di chi ha innescato la spirale di morte. «Questo non è un film», ha detto il presidente ucraino Zelensky nel suo appello agli Usa. Nell'era dello streaming l'umana indignazione non può essere «on demand». Dopo due anni di pandemia in lotta contro un nemico invisibile, stavolta è impossibile abituarsi. Vietato restare indifferenti, vietato cambiare canale di fronte all'orrore.

I ragazzi ci giudicano: la guerra vista dagli adolescenti. I giovani a caccia di notizie sui social navigando nel difficile mare delle fake news. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud l'1 Marzo 2022.

Jacopo è rimasto colpito dall’immagine del bambino che piange dietro i vetri della finestra di casa, mentre sotto di lui passano, con il loro rumore di odio e disperazione, i cingolati di quella che una volta si chiamava Armata Rossa, quando i comunisti mangiavano i bambini. Sara esplora qualsiasi social, compreso TikTok, l’ultima moda tra i modi della Generazione Z. Nicolò si affida di più a Instagram. Aurelio va a cercare i post sui social: non è difficile per i nativi digitali, basta guardare tra le tendenze del momento. L’Ucraina, la Russia, Zelensky, Putin, Biden sono tutti nell’empireo dei topic trend.

A CACCIA DI NOTIZIE

Lorenzo dà anche un’occhiata ai giornali e legge qualche articolo perché vuole capire di più, e il post non basta per capire, ma può servire giusto per una spolverata di informazione. O forse di disinformazione: difficile navigare nell’oceano delle fake news, dove l’onda anomala fa gigantesca schiuma.

Federica guarda le città e quelle strade che fino a qualche giorno fa erano probabilmente abitate da automobili e da vita e che adesso sono una piazza d’armi. Roberto segue i missili che squarciano il cielo di Kiev e dell’Ucraina tutta. Leonardo pensa a quel che vede: i banconi dei supermercati vuoti, piene le strade che portano verso un altrove che forse gli automobilisti che le percorrono non sanno neppure dov’è e dove sarà.

Jacopo, Sara, Nicolò, Aurelio, Federica, Leonardo, Roberto, sono alcuni tra le ragazze e i ragazzi della 5ª I del liceo scientifico “Primo Levi”, scuola romana che sta “verso l’Eur” o “verso la Laurentina”, questione di punti di vista.

Hanno vissuto, come tutti quelli dell’età loro, l’esperienza straniante della vita ai tempi del virus: la didattica a distanza, la socialità negata, i molti accadimenti che ne hanno condizionato il loro accesso al mondo e la loro crescita in questi disgraziatissimi anni.

Si preparano alla maturità (la loro è una lunghissima notte prima degli esami, altro che i romanzetti di Moccia e il fontanone del Gianicolo), si preparano alla “nuova normalità” che, come usa dire con frase abusata, “nulla sarà più come prima”.

IL PUTIN VERO COME L’IMITAZIONE DI CROZZA

A qualcuno di loro i discorsi di Putin sono sembrati i discorsi di un imitatore che gli facesse il verso, un Crozza sotto il Cremlino, sulla Piazza Rossa, verso il Teatro Bolshoi o la Basilica di San Basilio. Ma questo Putin non faceva sorridere.

Qualcun altro non giustifica il nuovo zar, ma cerca di comprendere, e «la colpa è della Nato, degli americani» e sa tutto dei missili a Cuba, dell’epoca castrista, di Kennedy che gli bastò minacciare perché i sovietici se ne tornassero a casa, la coda fra le gambe e i missili nel container. E c’è anche chi (ma sì, sono ragazzi, e parlano da rapper e trapper) dice che gli pare di assistere, «scusi la parola, a una gara su chi ce l’ha più lungo».

Sono sportivi i ragazzi della 5ª I del “Primo Levi” che non vivono sulla luna dei videogiochi, ma hanno anche letto “Se questo è un uomo”, come sarebbe bene facessero tanti dei nostri teenager, che se alcuni (molti?) non leggono probabilmente non è colpa loro: la scuola, la famiglia eccetera eccetera in spicciola sociologia.

Sono ragazzi di tutti i giorni: spazieranno un domani dall’ingegneria spaziale alla fisioterapia; qualcuno di loro è un’ipotesi di campione, come Maia, che ha già nel cassetto qualche medaglia internazionale nella disciplina dei tuffi, che è sport aperto alla discussione se si tratti di sport d’acqua per lo splash o d’aria per il volo che propone; qualcuno sfida certi pregiudizi duri a morire, come quello che ti vorrebbe un gigante per giocare a basket, come quello che magari può andare contro il bullismo di chi pensa che la ginnastica artistica non sia proprio il timbro della virilità.

Ma di questi tempi fluidi ancora queste baggianate? “Rappiamoci sopra”. Stanno imboccando il loro futuro in uno di quegli incontri di “avviamento all’università” (quello cui partecipano è organizzato dalla Link Campus University), si entusiasmano per la produzione di un podcast, la prova di organizzazione di un evento, la stesura di un post. Ascoltano, chiedono, commentano: l’Ucraina non è lontana come si potrebbe credere.

L’Europa e BigTech bloccano i media legati alla Russia. Martina Pennisi su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

Gli interventi di Facebook, Google, TikTok e Microsoft dopo l’annuncio della presidente della Commissione europea Ursula von der Layen. 

Europa e BigTech unite contro la Russia. È il quadro che sta emergendo, quantomeno in termini di annunci, nelle drammatiche ore dell’invasione dell’Ucraina. 

Domenica scorsa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato che l’Europa vuole vietare «la macchina dei media del Cremlino. Russia Today e Sputnik, di proprietà dello Stato, e le loro sussidiarie non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin. Stiamo sviluppando strumenti per vietare la loro disinformazione tossica in Europa». 

Nella reazione di ieri del sempre più potente Nick Clegg, da poco promosso alla presidenza degli affari globali di Meta, è evidente la volontà di sottolineare che le misure adottate dalle sue piattaforme arrivano in seguito a un lavoro «a stretto contatto con i governi». Non sono quindi solo frutto di scelte autonome del colosso californiano, che è così meno esposto a dubbi e critiche. «Data la natura eccezionale della situazione attuale, in questo momento limiteremo l’accesso a RT e Sputnik in tutta l’Ue» ha spiegato Clegg. 

Oggi è stato Google a rispondere alla richiesta comunitaria annunciando il blocco dei «canali YouTube collegati a RT e Sputnik in tutta Europa, con effetto immediato. Ci vorrà del tempo prima che i nostri sistemi si attivino completamente». Anche in questo caso la limitazione riguarda solo il Vecchio Continente, con un ritorno del cosiddettosplinternet , termine diventato noto nel 2020 che indica quel fenomeno per cui le leggi dei singoli Paesi o le decisioni delle aziende in nome di privacy o sicurezza — non necessariamente inutili o repressive — stanno spezzettando la Rete in tante parti non collegate fra loro. Tornando ai media russi, anche la cinese TikTok si è allineata alle aziende americane, mentre Twitter si è limitato a dichiarare che etichetterà i tweet che condividono link a siti affiliati al Cremlino. 

Fra le altre mosse: Microsoft ha bloccato i download dell’app Rt sullo store di Windows in tutto il mondo, Google ha sospeso alcune funzionalità delle Mappe in Ucraina, per evitare di fornire informazioni agli attaccanti. E ancora: Elon Musk — rispondendo a una sollecitazione su Twitter del vice premier e ministro per la Trasformazione digitale ucraino, Mykhailo Fedorov — si è attivato per garantire la connessione alla Rete tramite i satelliti Starlink di SpaceX in Ucraina. E Google e Apple hanno inibito i loro sistemi di pagamento Google Pay e Apple Pay ad alcune banche russe.

Tv, dal virologo si è passati all’esperto di geopolitica: ma la cosa peggiore sono i professionisti della rissa. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

L’inevitabile cambiamento di priorità si riflette anche sul piccolo schermo: ma la guerra è una cosa seria e non possiamo permetterci la stupidità dei litiganti per partito preso. 

Lo so, la constatazione rischia di essere banale e fin troppo scontata: «Tutti quelli che fino a ieri facevano gli esperti di Covid adesso sono diventati esperti di geopolitica». Ma ancora una volta è successo, e questa è una delle grandi leggi dei talk: quello che conta è il personaggio, non quello che si dice, quello che conta è la capacità di interpretare un ruolo, non di ragionare. Il ricambio è stato rapido. Da un giorno all’altro siamo passati da virologi, infettivologi, epidemiologi a strateghi militari, esperti di geopolitica, analisti economici. Volti nuovi, mai visti prima. Dal Coronavirus al Putinvirus, a spiegare come il “mostro” sia cresciuto poco alla volta, immerso in una marinatura di dispotismo assoluto, aggressività imperiale, odio per la democrazia occidentale.

Abbiamo il vaccino per fermarlo? L’informazione ha le sue esigenze ma in questi due anni abbiamo imparato come un ingestibile eccesso di informazioni trasformi l’allarme in allarmismo e ci allontani definitivamente dalla comprensione. In più, la tv facilita quei processi di narcisismo, di presenzialismo che finiscono poi per ritorcersi contro la cognizione del fenomeno. Ora bisogna aver grade stima di chi ci aiuta a capire gli obiettivi di Putin, la sua strategia bellica, le sue mire. Esattamente come avevamo stima degli scienziati. La cosa peggiore che possa capitare è che i personaggi che venivano invitati nei talk per svolgere il ruolo della controparte (più correttamente: per suscitare la rissa) vengano ora invitati per parlare dell’invasione della Russia. Abbiamo già visto Francesca Donato passare dal ruolo di no vax a quello di no pax. Era ospite di “Non è l’Arena” e sulle repressioni di San Pietroburgo non ha resistito: «Anche Stefano Puzzer è stato arrestato a Roma. Se dobbiamo parlare della libertà di espressione, non è che diamo dei grandi esempi anche in Italia». Attenzione: dalla competenza alla stupidità il passo è breve.

  Daniele Dell'Orco per “Libero Quotidiano” il 3 marzo 2022.

Sembra quasi un grido d'aiuto quello di Matteo Bassetti, una delle virostar che da due anni spadroneggiano nei piccoli schermi di tutte le case d'Italia per spiegarci le evoluzioni della pandemia da Covid-19.

Nonostante qualche scivolone qua e là, Bassetti, infettivologo del Policlinico San Martino di Genova, è comunque uno dei professionisti più titolati per spiegare le implicazioni dell'epidemia ma pure uno di quelli che non ha mai negato un certo "feeling" con i riflettori.

Ora, però, vista la tragedia della guerra in Ucraina quelle luci si sono spostate altrove, e lui, parlando all'AdnKronos, pare non averla presa bene: «Trovo assurdo oggi non parlare completamente più di Covid come se il problema fosse solo la guerra in Ucraina, che è una tragedia davanti la quale siamo attoniti. Ma non considerare più i rischi legati al virus la trovo un'idea cervellotica e non la comprendo». 

Magari perché, a differenza dell'infettivologia, il giornalismo non è il suo mestiere e forse non sapeva di poter essere sottoposto anche lui un giorno alle leggi della notiziabilità. Quelle stesse leggi che oggi premiano altri profili, molti dei quali magari sconosciuti ai più fino a ieri l'altro, ma professionisti di livello che ora vengono anche ricoperti dalla dolce patina della notorietà grazie al (o sarebbe meglio dire a causa del) conflitto nell'Europa orientale.

Come Dario Fabbri, analista geopolitico nonché saggista e firma del quotidiano Domani per cui cura anche il mensile Scenari. Uno che di equilibri politici internazionali se ne intende e che ora, soprattutto sui programmi di La7, fa sempre più spesso compagnia al pubblico italiano.

Così come Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, prodotto eccellente anche se non molto divulgativo e apprezzato soprattutto dagli addetti ai lavori o dagli appassionati del tema. Ora invece la sua platea grazie alle ospitate da Lilli Gruber, sarà destinata ad ampliarsi parecchio.

Gli sarà d'aiuto anche Germano Dottori, che oltre ad insegnare Studi strategici all'Università Luiss-Guido Carli di Roma, è anche consigliere redazionale proprio di Limes. Lui a Quarta Repubblica è un ospite quasi fisso.

Altro profilo apprezzato dagli autori tv è quello di Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) oltre che già Consigliere Strategico del Ministero della Difesa dal marzo 2012 al febbraio 2014. 

Soprattutto, è membro del Comitato Consultivo della Commissione Internazionale sulla "Non Proliferazione e il Disarmo Nucleare". Un tema di cui si parla sempre più spesso visti i tanti riferimenti agli ordigni atomici fatti dai vari capi di Stato.

Tra i docenti anche Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo dell'ISPI e con la cattedra di Relazioni Internazionali all'Università Bocconi. In rampa di lancio invece Alessandro Marrone, Responsabile Programma Difesa dell'Istituto Affari Internazionali e concentrato anche nel ritrarre il quadro organizzativo pre e post crisi in Ucraina da parte della NATO.

Profilo anche governativo quello di Marta Dassù, che è stata sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri nei Governi Monti e Letta, ma è apprezzata saggista e membro della Commissione Trilaterale e del comitato esecutivo dell'Aspen Institute, oltre che direttrice della rivista Aspenia.

Poi ci sono i sempiterni, che però alle volte rischiano di sembrare off topic. Una lista sarebbe troppo lunga. Si vede sempre più spesso l'economista e politologo Edward Luttwak, che torna di moda quando ci sono (ciclicamente) grandi crisi internazionali come quella recente in Afghanistan, ma che comunque qualche apparizione anche per parlare di politica interna italiana, politica economica o restrizioni pandemiche non si tira indietro. 

O come il filosofo Andrea Zhok, che ha iniziato a brillare in tv da ospite ricorrente di diMartedì in qualità di voce dissenziente sul green pass ma che ora, sebbene l'agenda informativa sia cambiata, nel talk di Floris qualche analisi sul conflitto tra blocco occidentale e mondo post-sovietico la concede comunque.

Dimartedì, "a nome di chi parli?" Veleni e sospetti, botte da orbi su Putin tra Foa e Damilano. Il Tempo l'01 marzo 2022.

Scontro al fulmicotone tra l'ex presidente della Rai, Marcello Foa, e il direttore de L'Espresso Marco Damilano mentre infiamma la guerra in Ucraina. Martedì 1 marzo nel salotto di Giovanni Floris a Dimartedì, su La7, si parla di Russia e di Vladimir Putin. Per Foia l'invasione dell'Ucraina "è un episodio che segna una doppia sconfitta perché in termini strategici chi ricorre all'uso delle armi è il perdente", dice Foa. Per l'ex capo della Rai Putin "hai già perso" ma "ha perso anche l'Occidente perché un tema sensibile come quello dell'Ucraina e i rapporti con la Russia andava gestito in un'ottica di prevenzione e di prospettiva strategica diversa rispetto a quella che è stata scelta negli ultimi anni" dall'Europa e dall'Italia. 

L'incubo peggiore, l'invio di armi può trascinarci in guerra: "Se la Russia attacca i nostri convogli..."

Per Foa "non siamo riusciti a impedire una guerra che forse poteva essere evitata, e in questo momento c'è un sentimento di grande smarrimento. Putin non potrà vincere facilmente perché per farlo l'unico modo è bombardare le città tappeto e secondo me questo, se accadesse, sarebbe veramente la sconfitta definitiva di immagine" del presidente russo. Senza contare che "non credo che i russi accetterebbero che loro fratelli ucraini civili possano essere bombardati impunemente", conclude. 

La parola passa a Damilano che dopo un preambolo sulla repressione dei dissidenti in Russia parte con l'affondo a Foa: "Faceva il commentatore per agenzie come Sputnik e Russia Today, diceva frasi tipo: in 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. Diceva che le rivolte in Ucraina erano pianificate e  guidate dall'Occidente. E oggi in Parlamento vota all'unanimità..." è l'affondo di Damilano secondo cui "il partito di Putin e in questa legislatura, e lo dico anche ad Alessandro Di Battista (presente in studio, ndr) ha avuto per anni la maggioranza. E infatti ha nominato Marcello Foa presidente della RAI proprio perché aveva quel curriculum". 

Dopo l'affondo scatta il botta e risposta con Foa che ribatte: "Non posso accettare in nessun modo questo tipo di critica, io sono venuto qui per parlare di strategie di problemi della Russia non per essere messa sotto accusa con accuse infamanti". Il giornalista controreplica "A nome di chi parla? Per Sputnik o Russia Today?" E Foa: "Mi ha chiesto interventi anche la Cnn. Sono affermazioni scandalose e vergognose", conclude. 

Il sistema-Italia succube di un fornitore dominante: la Russia. Gas, Italia a secco per colpa dei populisti, ma il Fatto Quotidiano lancia una fake: “Eni ha prosciugato l’Adriatico”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

Anche le fake news vanno a tutto gas. Sul Fatto: “Il gas italiano è finito perché Eni ha prosciugato l’Adriatico”. Al contrario, chi si occupa di estrazione gassosa riferisce l’opposto: di giacimenti saremmo ricchi, ma le ricerche sono state fermate. «La vulnerabilità italiana, oggi che il gas russo potrebbe saltare, si rivela a nudo: abbiamo ceduto troppo sul terreno della dipendenza energetica», dice Paolo Scaroni. Il manager, uscito da Eni ormai da anni, può intervenire nel dibattito apertis verbis.

Elenca, intervistato da La7, le occasioni sprecate: prima il referendum sulle trivelle e poi il movimento no-Tap, l’opposizione ai rigassificatori e la rinuncia agli esperimenti sul nucleare di quarta generazione. Errori che, inanellati con sapienza in una sequenza dissennata, hanno portato il sistema-Italia ad essere succube di un fornitore dominante, la Russia, davanti al quale sono stati eliminati uno a uno tutti gli elementi di disturbo. Tutte le battaglie di bandiera del M5s, a ben guardare. Se ne ricorda bene Teresa Bellanova, che proprio per difendere la Tap ricevette, era il 2018, tante di quelle minacce da essere sconsigliata dai funzionari di polizia nel proseguire la sua campagna elettorale in certe località. L’operazione che è stata compiuta negli ultimi anni è da manuale del guastatore.

Si pensi che nel 2020 il gas naturale estratto in Italia era di soli quattro miliardi e 417 milioni di metri cubi in un anno, stando al Piano per la transizione energetica delle aree idonee (Pitesai) del ministero per la Transizione ecologica. Mentre è di 76,1 miliardi di metri cubi il fabbisogno nazionale. Ora da più parti si grida allo scandalo: trent’anni fa ne estraevamo 30 miliardi di metri cubi l’anno. E siamo il Paese che – come ebbe la sventura di far notare per primo Enrico Mattei – avrebbe giacimenti valutati attorno ai 350 miliardi di metri cubi. Si è preferito far finta di niente e importarlo: per il 37,8 per cento quel gas arriva dalla Russia. Ed è un gas politicamente velenoso. Il governo ha intrapreso il percorso del ravvedimento operoso e iniziato il potenziamento nell’estrazione di gas italiano.

Ora è al lavoro «per aumentare le forniture alternative»: il gas naturale liquefatto importato dagli Stati Uniti (su cui Biden ha già dato disponibilità) che però sconta in Italia un limitato numero di rigassificatori in funzione. «Per il futuro, è quanto mai opportuna una riflessione anche su queste infrastrutture» ha auspicato il premier. Il governo intende lavorare «per incrementare i flussi da gasdotti che lavorano non a pieno carico» come il Tap dall’Azerbaijan, il TransMed dall’Algeria e dalla Tunisia, il GreenStream dalla Libia.

Quest’ultimo non va sottovalutato. Ha una portata potenziale di 30 miliardi di metri cubi, un terzo dei nostri consumi, l’attuale è meno di 8 miliardi a causa del caos in cui è precipitato il Paese dal 2011 con l’attacco a Gheddafi di Francia, Usa e Gran Bretagna che poi hanno lasciato la Tripolitania alla Turchia e la Cirenaica a egiziani e russi. E anche il governo di Tokyo sarebbe a lavoro con i partner europei per aumentare la quantità di gas naturale liquefatto (Gnl) destinata all’Europa. Come il Qatar che potrebbe raddoppiare le esportazioni verso Italia, Austria e Germania in pochi giorni. Si pone un problema nell’immediato: compensare quanti nel tessuto produttivo – dalle Pmi alle grandi aziende – vanno incontro a criticità gravi, almeno in una prima fase dello “Switch” al nuovo gas-mix.

Matteo Renzi ha provato a formulare una proposta: stabilire un aiuto europeo di portata perfino superiore a quello per il Covid. «Servono almeno dieci miliardi per le aziende italiane che saranno colpite dalle sanzioni», avvisa il leader di Italia Viva. Silvio Berlusconi sullo stesso tema aveva rilanciato «l’urgenza della riforma del Patto di Stabilità». «La nostra proposta – dice il leader di Azione, Carlo Calenda, al Riformista – è la seguente: vanno riattivate, provvisoriamente, le centrali a carbone sia quelle che sono state messe in stato di conservazione, proprio per tenerle pronte nel caso ci fosse un’emergenza, in modo tale da ridurre la dipendenza dal gas, in generale, di circa il 50% per tutto il periodo della crisi». Matteo Salvini si adegua: «In questa fase sosteniamo il governo su tutto, oggi non è possibile dividersi». Dalla Farnesina, Luigi Di Maio guarda alla sponda sud del Mediterraneo: «Dall’Algeria sono possibili arrivi di quantità di gas importanti».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Ucraina, l'ambasciata russa elogia Marco Travaglio: "Guerra nata dalla troppe bugie". Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.

"Un’analisi delle ragioni del conflitto. Da leggere." Così si legge nel sorprendente tweet dell'Ambasciata russa in Italia che elogia - e rilancia - l'articolo de Il Fatto quotidiano firmato da Barbara Spinelli, giornalista ed ex eurodeputata, intitolato: "Una guerra nata dalle troppe bugie". Una lettura "filo-russa" del conflitto in Ucraina scoppiato dopo l'invasione ordinata da Vladimir Putin alle forze armate di Mosca.

In quel pezzo, osserva Hoara Borselli su Il Tempo, la giornalista se la prendeva con gli Stati Uniti e con l'Europa, colpevoli entrambi di non essere riusciti a prevedere e prevenire l'aggressione della Russia in Ucraina nonostante Putin avesse "già mostrato tutti i sintomi di un'insofferenza evidentemente sottovalutata. L'Europa - scriveva la Spinelli - riconosca i suoi errori e le bugie come responsabili del massacro che sta avvenendo in Ucraina. L'articolo spiega per filo e per segno tutte le ragioni di Putin, anche se poi le definisce 'smisurate'".

E con questo elogio a Travaglio e Spinelli, la Russia, conclude la Borselli, "usando un linguaggio travagliano, fa una bella leccata al Fatto Quotidiano, indicandolo come la vera fonte dell'informazione giusta, in alternativa a quelli che Travaglio (e forse anche Putin) chiama i giornaloni. Ma questa leccata, è chiaro, è la conseguenza della leccata precedente, quella del Fatto verso Santa Madre Russia". Da notare, infine "il voltafaccia. Ma Marco non era il giornalista più filoamericano di tutt'Italia? Una volta dicevano addirittura che fosse l'allievo di Montanelli".  

La «Controinformazione» di Toninelli: l’Ucraina è già nell’Ue. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

L’ex ministro M5S su Facebook nel tentativo di proporre un’informazione alternativa incappa in uno sfondone e include l’Ucraina tra i paesi dell’Ue. 

«L’espansione della Nato a est c’è stata, è stata enorme. E l’Ucraina, facendo parte dell’Unione europea, capite bene che poteva ambire a entrare nella Nato e rompere l’ultimo stato di confine tra la Russia e i paesi della Nato». Così parlò Danilo Toninelli, indimenticato ministro per le Infrastrutture del primo governo Conte, nel suo appuntamento con la «Controinformazione» che conduce su Facebook. L’esponente del Movimento 5 Stelle, non nuovo a clamorose gaffe, dà per scontato e già avvenuto quello che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha appena chiesto per il suo paese vittima dell’invasione russa decretata da Vladimir Putin: l’ingresso nell’Unione europea.

Toninelli da tempo si è dedicato ad un «mestiere», quello della controinformazione, che non maneggia particolarmente bene non essendo mai stato, in nessuna forma, un esperto di comunicazione. E lo ha dimostrato diverse volte, con uscite che hanno scandito la sua ancora breve carriera politica. La gaffe più famosa riguarda il tunnel del Brennero. A margine di un incontro con la commissaria Ue Violeta Bulc disse: «Sapete quante delle merci italiane, quanti degli imprenditori italiani utilizzano con il trasporto principalmente ancora su gomma il tunnel del Brennero?». Peccato che l’opera non sia ancora stata completata e che comunque sarà una infrastruttura esclusivamente ferroviaria...

Nei giorni e nei mesi successivi alla tragedia del crollo del Ponte Morandi l’allora ministro fu protagonista di gesti discutibili. Come l’esultanza, con pugno alzato, per l’approvazione del decreto Genova, o come la proposta di trasformare un viadotto a 45 metri d’altezza un luogo vivibile, in cui «le persone possono vivere, possono giocare, possono mangiare». Tra gli altri exploit si ricorda di quella che volta che chiamato in tv a parlare di veicoli a diversa fonte di alimentazione (con lo slogan «Avanti con l’elettrico») Toninelli ammise di aver acquistato una Jeep Compass diesel, un veicolo di quelli sui quali il governo di cui lui era esponente aveva appena introdotto l’ecotassa per l’inquinamento atmosferico.

L’Ue blocca le tv del Cremlino: stop alle bugie russe sull’ Ucraina. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Febbraio 2022.

“Russia Today e Sputnik, controllate dal governo, e le testate a loro legate non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin e creare divisioni nell’Unione” ha chiosato la presidente della Commissione Ue “Stiamo sviluppando gli strumenti per vietare questa disinformazione tossica e dannosa in Europa”.

L’Unione Europea si schiera contro anche le emittenti russe, emanazione di Mosca, applicando non solo sanzioni economiche. “Con una mossa senza precedenti vieteremo la presenza in Ue della macchina mediatica del Cremlino”, ha annunciato Ursula von der Leyen, presentando altre decisioni prese dall’Ue sul conflitto. 

“Russia Today e Sputnik, controllate dal governo, e le testate a loro legate non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin e creare divisioni nell’Unione” ha chiosato la presidente della Commissione Ue “Stiamo sviluppando gli strumenti per vietare questa disinformazione tossica e dannosa in Europa”.

Nei giorni scorsi Lituania ed Estonia, due ex repubbliche sovietiche oggi membri Ue e Nato, con importanti minoranza russofone, hanno bloccato le trasmissioni sul loro territorio di una serie di emittenti in lingua russa, dopo la diffusione del discorso di Vladimir Putin che annunciava l’invasione. Tra loro ci sono Rtr Planeta, Ntv Mir, Rossija 24, TV Centre International e la bielorussa Belarus 24.

Nessuna tregua per le emittenti nemmeno sui social e in rete. Instagram e Facebook hanno iniziato a identificare, i profili che sono considerati di propaganda, con apposite segnalazioni. Provando, per esempio, a consultare la pagina dell’agenzia di stampa russa Tass, compare un messaggio che avverte l’utente: “Contenuti multimediali controllati dal seguente stati: Russia”.

“Facebook ha contrassegnato questo editore perché ritiene che possa essere totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale di uno stato”, ha spiegato il social. “Questo è stabilito in base a una serie di fattori tra cui, a titolo esemplificativo, il finanziamento, la struttura e gli standard giornalistici”.

In più, Meta ha anche vietato ai media statali russi di pubblicare inserzioni pubblicitarie o trarre profitto dai suoi annunci sulla propria piattaforma in qualsiasi parte del mondo. 

Analoga scelta quella di YouTube. La piattaforma video americana ha sospeso diversi canali russi, tra cui quello del canale di stato RT, impedendo loro di guadagnare dalla presenza sul sito. La decisione è stata motivata da “circostanze straordinarie” ha spiegato Farshad Shadloo, portavoce del sito. RT, ha aggiunto, ed altri canali non saranno accessibili in Ucraina dopo “una richiesta del governo”.  

Nelle ultime 48 ore la società proprietaria di Facebook ha anche rimosso una rete di 40 account, gruppi e pagine che operavano dalla Russia e dall’Ucraina. La società Meta sostiene che un gruppo di hacker ha usato Facebook per attaccare personaggi pubblici ucraini, tra cui funzionari militari, politici e un giornalista. Nelle ultime 48 ore la società proprietaria di Facebook ha anche rimosso una rete di 40 account, gruppi e pagine che operavano dalla Russia e dall’Ucraina. E un portavoce di Twitter ha fatto sapere di aver sospeso una dozzina di account che violavano le regole contro la manipolazione della piattaforma. L’agenzia di stampa Reuters afferma che Meta ha accusato Ghostwriter, un gruppo di hacker che ha tentato di pubblicare video che ritraggono le truppe ucraine come in difficoltà e pronti alla resa, con tanto di bandiera bianca. Il team security di Meta ha adottato misure per proteggere gli account nel mirino ma ha rifiutato di fornire i nomi degli obiettivi, anche se ha fatto sapere di averli avvertiti. E ha trovato collegamenti tra questa rete e un’operazione del 2020 che riguardava il Donbass.

La reazione del Governo Russo

Arriva all’alba di ieri l’annuncio del Roskomnadzor, il “servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa”, che – come segnala Adnkronos – ha chiesto a Meta di eliminare qualsiasi tipo di restrizione, compreso il controllo della veridicità dei contenuti, per i post social degli organi ufficiali di informazioni dello stato. La Russia afferma che Meta non abbia mai risposto, e nel comunicato accusa Facebook di “violare fondamentali diritti umani di libertà”. Inoltre, il socialnetwork di Zuckerberg è accusato di aver censurato i media statali 23 volte dall’ottobre 2020.

Come risultato, l’utilizzo di Facebook verrà limitato a partire da subito all’interno della Russia, anche se non è ancora chiaro in quale modo.

“I cittadini russi usano le nostre app per esprimere le loro opinioni e organizzarsi ad agire”, ha dichiarato Nick Clegg, President of Global Affairs di Meta. “Vogliamo che possano continuare a far sentire la propria voce, condividere che cosa sta accadendo, e organizzarsi tramite Instagram, WhatsApp e Messenger”.

Il Regno Unito chiede l’intervento di Ofcom

Anche da Londra arrivano aperte critiche ai media filo Putin. Dopo che in settimana Nadine Dorries, segretario alla Cultura, aveva scritto all’Ofcom, l’autorità inglese che vigila sui media, accusando RT UK fare “disinformazione dannosa”, ora a prendere posizione contro l’emittente è Boris Johnson.

“Spaccia materiale che fa molto danno alla verità”, ha detto il primo ministro sollecitando Ofcom a riesaminare la posizione di RT UK per verificare se la sua copertura dell’invasione russa “violi le regole vigenti in questo Paese”. Redazione CdG 1947

La battaglia delle parole. Putin sta perdendo la guerra (anche) sul fronte della propaganda. Luigi Daniele su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022

Il Cremlino si aspettava sostegno in patria e la resa della popolazione ucraina, ma i calcoli si sono rivelati sbagliati. Soprattutto ha sottovalutato le capacità mediatiche di Volodmyr Zelensky, che ha mantenuto la comunicazione con i cittadini e con la comunità internazionale, rilasciando frequenti dichiarazioni con toni franchi ma appassionati ed esortando alla resistenza.

«Abbiamo catturato circa 200 soldati russi, molti dei quali hanno sui 19 anni. Sono mal equipaggiati e con un addestramento inesistente: abbiamo loro permesso di telefonare a casa, le famiglie appaiono completamente sorprese»: le parole pronunciate domenica di Borys Kremenetskyla, generale maggiore dell’esercito ucraino, sulla scelta di permettere ai prigionieri russi di chiamare a casa sono solo un esempio di una serie di mosse con cui l’Ucraina, e in particolar modo il suo presidente Volodymyr Zelensky, stanno riuscendo a battere Putin sul piano mediatico.

L’avanzata delle truppe russe, nel primo giorno di conflitto, è sembrata inarrestabile. Per ogni persona che osservava gli eventi da lontano, Kiev era destinata a cadere in poche ore, Zelensky un uomo il cui destinato era segnato. Nel momento in cui scrivo, però, nella capitale si continua a resistere e nonostante i bombardamenti aerei e il fuoco d’artiglieria, l’avanzata russa in Ucraina sembra procedere molto lentamente. Una situazione che rivela una dinamica altrettanto inattesa: nel corso di questa guerra, Putin sta soffrendo lì dove è tradizionalmente forte: nella propaganda.

Come ha affermato il Segretario alla Difesa britannica Ben Wallace, basandosi su rapporti della sua intelligence, l’offensiva decisa da Mosca si basava su due valutazioni: che il supporto al governo da parte degli ucraini sarebbe crollato con l’avanzare delle truppe di Mosca, e che la popolazione russa avrebbe condiviso l’operazione. In quest’ottica, nelle speranze di Putin la superiorità tecnica e numerica dei russi avrebbe garantito un conflitto rapido, con una transizione di potere in tempi brevi. Le cose, però, non stanno andando così.

Prima di tutto, la popolazione ucraina si è dimostrata molto più coriacea di quanto Putin si aspettasse. Soprattutto, già dai momenti iniziali dell’invasione, quelli più incerti e privi di punti di riferimento, si è mostrata fedele al presidente Zelensky. In questo clima, una scelta forte come quella di indire la mobilitazione generale non ha incontrato resistenze da parte della popolazione, anzi negli scorsi giorni migliaia di civili si sono arruolati volontari per provare a difendere le proprie città. Diversi media, inoltre, hanno mostrato come per le strade di Kiev molte persone comuni stiano seguendo le indicazioni del governo, preparando molotov e paracarri per rallentare l’avanzata di Mosca.

Anche in Russia le cose non vanno come sperato da Putin: nonostante la durissima repressione delle manifestazioni e il divieto per i media di chiamare «guerra» il conflitto in corso, decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro l’intervento militare deciso da Putin, e a oggi gli arresti sono circa duemila. Se non bisogna fare l’errore di sovrastimare questa parte della popolazione, confondendola con la “Russia profonda”, non si può d’altra parte sottostimarla, non vedendola come la dimostrazione di un errore di calcolo di Putin che, alla lunga, può intaccare il supporto alla guerra oltre che trasformarsi in problema di ordine pubblico, che il governo russo si troverebbe a gestire in una fase già delicata.

A dimostrazione di queste difficoltà, nel pomeriggio di venerdì Mosca ha compiuto due mosse che stridono fra loro, ma che hanno rivelato come le cose non stessero andando come previsto. Il Cremlino infatti ha dapprima invitato il governo ucraino a Minsk per trattare (segno che la rapida vittoria, forse, non era più vista come certa), e qualche ora dopo Putin ha esortato le forze armate ucraine al colpo di Stato contro quei «neonazisti e drogati» che governano il Paese. Il fatto che a questo invito non sia seguita nessuna reazione dell’apparato militare ucraino, dimostra quanto l’assunto iniziale di Putin fosse errato, e al tempo stesso quanto per i russi l’invasione si stesse rivelando più difficile ed esosa di quanto preventivato.

Ma se l’Ucraina si è scoperta un Paese così unito e pronto al sacrificio è anche merito del suo presidente Volodymyr Zelensky, e delle sue scelte comunicative e mediatiche. Fin dalle primissime fasi dell’invasione, Zelensky ha mantenuto molto attiva la linea di comunicazione con il proprio Paese e con la comunità intenzionale, rilasciando frequentemente dichiarazioni stampa. I toni, da subito, sono stati franchi ma appassionati: il presidente non ha mai nascosto che la difesa ucraina non era in grado di tenere testa a lungo all’esercito di Mosca, ma il governo e la popolazione avrebbero fatto di tutto per difendere il Paese, facendo spesso riferimento al diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Una linea comunicativa che ha dato motivazione alla popolazione ucraina, facendo si che si stringesse attorno al proprio presidente, e che ha presentato al mondo l’Ucraina come Davide contro Golia, stimolando subito accese simpatie e moti di sostegno nell’opinione pubblica di molti Paesi (sostegno che sarà fondamentale nel supporto politico alle sanzioni).

Con l’arrivo dei russi alle porte di Kyiv, Zelesnky ha moltiplicato le comunicazioni informali, pubblicando video e brevi dichiarazioni sui social, formati che rendevano evidenti le difficoltà che lui stesso stava vivendo, definendosi «l’obiettivo numero uno» dell’offensiva russa e affermando in un colloquio con il cancelliere austriaco di «non sapere fin quando sarà in vita», rinforzando così il legame di empatia della popolazione e dell’opinione pubblica internazionale verso di lui e l’Ucraina. Soprattutto, Zelensky è stato da subito chiarissimo nelle sue intenzioni di non abbandonare il Paese e la capitale, e di voler rimanere a fianco delle truppe e della popolazione impegnate a combattere, e lanciando appelli alla popolazione a resistere attivamente e sottolineando l’eroismo dell’esercito.

Due video, in particolare, hanno consacrato quest’immagine: quello pubblicato sabato sera, in compagnia dei suoi ministri nel quartiere governativo di Kyiv, per smentire la notizia secondo la quale era scappato dal Paese, e quello diffuso il giorno dopo, in cui mostrandosi ancora per le strade della capitale rifiuta l’offerta degli Usa, che si erano proposti di aiutarlo a fuggire, affermando «non mi serve un passaggio, mi servono munizioni»; una frase ad effetto, che comprensibilmente nelle ore seguenti è girata molto sui media e sui social e che ha confermato la sua immagine di combattente al fianco del suo popolo, rinforzata anche dalla scelta di apparire, con l’intensificarsi dell’offensiva, sempre in divisa o in abbigliamento tecnico.

Grazie alle sue scelte comunicative, Volodymyr Zelesnky, che nelle intenzioni di Putin doveva essere deposto poco dopo l’inizio dell’invasione, è apparso intransigente, irriducibile, pronto a morire a Kyiv, se necessario, al fianco del suo popolo. Non è un caso, del resto, che sulla stampa e sui social molti lo abbiano paragonato a Salvador Allende, il presidente democraticamente eletto del Cile, che nel 1973 fu deposto dal golpe di Pinochet supportato dagli USA, che rimase a combattere nel palazzo del governo contro le forze golpiste, finendo ucciso.

Zelensky, inoltre, nelle sue dichiarazioni ha sempre tenuto separati Putin e il popolo russo, e la scelta di permettere ai prigionieri di chiamare a casa, così come quella di creare un numero verde per le famiglie russe che hanno soldati al fronte, potrebbero avere un forte effetto psicologico, riuscendo ad ampliare il movimento d’opinione contro l’offensiva presente attualmente in Russia, coinvolgendo anche chi ha i propri cari direttamente impegnati nel conflitto.

L’esito dell’invasione è incerto, così come il destino personale di Zelensky. Nonostante la superiorità tattica russa, le scelte del presidente ucraino hanno avuto un ruolo centrale nel tenere in piedi la resistenza ucraina, facilitando una coesione nazionale e una solidità motivazionale che potrebbero rendere le cose molto difficili all’esercito di Mosca nel lungo periodo. La guerra si combatte anche sul fronte mediatico e propagandistico, e in questo sembra che l’ex comico diventato presidente stia davvero vincendo sull’ex agente del KGB.

Perché l’Ucraina sta vincendo la social media war contro la Russia. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022. 

È come se la fabbrica russa di falsità e disinformazione si fosse inceppata. Mentre in Ucraina si stanno sfruttando al meglio le armi social: sfidano e ridicolizzano i nemici, mostrano al mondo la determinazione di un intero popolo.

Il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov incita i cittadini a postare su Facebook e sulle altre reti sociali le immagini dell’invasione russa con un enfatico «V oi siete le nostre armi!». Volodymyr Zelensky, l’attore considerato fino a ieri un «presidente per caso» diventa in pochi giorni un eroe planetario già consegnato alla storia grazie al suo coraggio, ma anche alla tempestività e alla perizia con le quali ha usato i social media. Pronto a smentire l’insinuazione di una sua fuga e le voci di resa dei suoi soldati, determinato nell’incitare gli ucraini alla resistenza, capace di toccare, coi suoi appelli, il cuore della gente in tutto il mondo.

Il leader ha sfidato gli aggressori di Putin con video diurni e notturni per le strade della capitale postati su Telegram, con raffiche di messaggi su Twitter dove i suoi follower sono passati da 500 mila a quasi 5 milioni in meno di una settimana. Ieri, anche l’invito del presidente ai giovani a mobilitarsi su TikTok: la rete sociale per teenager zeppa di video modaioli, di fitness e di danza, improvvisamente diventata il veicolo che ha meglio documentato nelle settimane scorse i preparativi militari della Russia e sulla quale ora gli influencer ucraini sono passati dalla promozione dei prodotti e dai racconti di viaggio in località esotiche, agli inviti alla resistenza e agli appelli ai loro coetanei russi.

Parlare della guerra in Ucraina come della prima social media war può sembrare banale o fuorviante: in ogni conflitto è importante vincere, oltre a quella del campo, la battaglia della comunicazione per galvanizzare la propria gente, demoralizzare l’avversario e conquistare consenso internazionale da spendere al tavolo dei negoziati. Google e Facebook, poi, sono armi importanti da tempo: centrali, ad esempio, nella rivoluzione della primavera araba di 11 anni fa che non finì bene. Magari fra qualche giorno i russi schiacceranno la resistenza ucraina e metteranno anche qui il lucchetto alle reti sociali, come cercano di fare in patria.

Ma quello che sta succedendo in questi giorni è davvero straordinario e senza precedenti. Un intero popolo, coraggioso e abile nell’uso degli smartphone, inonda l’Ucraina e il mondo di messaggi che colpiscono su vari fronti: sfidano gli aggressori russi (i soldati ucraini che danzano impugnando bazooka e missili anticarro, altri che accolgono il nemico con un “benvenuti all’inferno”), li ridicolizzano (il trattore che si porta via il carro armato in avaria, i cittadini che sfottono i soldati dei tank rimasti senza benzina: “serve una spinta?”), mostrano al mondo la determinazione di un intero popolo (le piazze affollate di gente che riempie migliaia di bottiglie trasformate in bombe Molotov). Molti video diventano manuali di istruzioni: spiegano alla popolazione come difendersi dai cecchini, come preparare ordigni rudimentali, come ostacolare l’avanzata dei russi cambiando la segnaletica stradale, costruendo barricate, incendiando pneumatici. E poi le testimonianze visive dei bombardamenti, dei massacri, delle sofferenze dei civili, dei bimbi. E le immagini – umilianti per Putin – dei prigionieri russi: spesso ragazzi non ancora ventenni, poco addestrati, ripresi mentre, spaventati, parlano al telefono coi loro genitori.

Dalla tribuna dell’assemblea generale dell’Onu, l’ambasciatore ucraino Sergiy Kyslytsya legge uno screenshot preso dal telefonino di un soldato russo morto in battaglia: «Bombardiamo, attacchiamo anche i civili. Eppure ci avevano detto che qui saremmo stati accolti bene dalla gente». Messaggio autentico? Un post manipolato col quale lanciare un’accusa mascherata da autocritica? Nella guerra digitale, si sa, circola di tutto: anche disinformazione e leggende metropolitane.

Come quella del ghost of Kiev: il pilota fantasma che col suo vecchio Mig 29 degli anni Settanta sarebbe riuscito ad abbattere, sbucando dal nulla, almeno sei modernissimi caccia russi. Solo una urban legend, certo: come quella degli eroi dell’Isola dei Serpenti, catturati dai russi e non uccisi come aveva detto lo stesso Zelensky.

Ma abbiamo ormai imparato che in rete è facile confondere i confini tra fatti e suggestioni. Ancor più in tempo di guerra: magari la storia dell’asso dei cieli, ormai virale, diventerà un film e un videogame. Ma - a cavallo tra cronache raggelanti, emozioni, storie di eroismo – non c’è dubbio che per adesso gli ucraini stiano battendo con un punteggio tennistico i russi in quello che sembrava il campo nel quale si erano maggiormente specializzati negli ultimi anni: la guerra ibrida fatta di disinformazione, propaganda, attacchi cibernetici.

È come se la fabbrica russa delle falsità - i giovani softwaristi di San Pietroburgo arruolati dai servizi segreti - fosse improvvisamente entrata in sciopero. Forse Putin dal suo bunker stavolta si è preoccupato soprattutto dell’offensiva militare. Forse l’intelligence Usa ha imparato a contrastare la disinformazione (ad esempio con le denunce che hanno impedito ai russi di costruire un incidente a tavolino per giustificare l’aggressione). O forse tra qualche giorno gli ucraini saranno travolti: fine della loro resistenza, fisica e digitale. Ma le immagini di questi giorni sono ormai nella storia, almeno quanto quelle della rivolta di Budapest del 1956 e della Primavera di Praga soffocata dai tank sovietici nel 1968. Un marchio indelebile che segnerà le nostre coscienze. Anche quelle di chi, qui in America, ha liquidato la guerra come l’affare di un Paese remoto, immerso in una cultura sconosciuta e dagli stili di vita lontani dai nostri. Web e televisioni vanificano questi tentativi di creare una distanza tra noi e loro: ci bombardano di immagini di gente come noi, vestita come noi, con strade e negozi come i nostri. Gente che muore uccisa da armi che l’Europa si era illusa di aver sepolto tra le memorie del Novecento.

Russia, i piani di Putin svelati in un articolo sulla vittoria in Ucraina (pubblicato per errore). Marco Imarisio su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

Nel testo, comparso il 26 febbraio sull’agenzia di stampa Ria Novosti, si legge: «L’Ucraina è tornata in Russia, l’epoca della diaspora del mondo russo sta volgendo al termine». E ancora: «Il dominio occidentale è finito».

L’ora è tutt’altro che incerta. Alle otto del mattino in punto. E forse doveva valere per tutti. La mattina del 26 febbraio è stato pubblicato sul sito della Ria Novosti, l’agenzia di stampa statale, distillatrice dell’ufficialità governativa, una curiosa analisi scritta da uno dei più esperti commentatori della testata. «L’Ucraina è tornata in Russia, l’epoca della diaspora del mondo russo sta volgendo al termine».

L’autore ha un altro nome, ma sembra il riassunto delle personali interpretazioni della storia fatte dal presidente russo in queste ultime settimane.

D’accordo, è un errore. Capita che nella fretta venga pubblicato un articolo che dà per fatto qualcosa che non lo è ancora.

Ma adesso si scopre che anche sul canale televisivo Sputnik e sul suo sito, e su quello di un’altra testata governativa, alla stessa ora dello stesso giorno, era apparso lo stesso articolo che celebrava la vittoria russa dopo due soli giorni di combattimento in Ucraina. E quindi l’ipotesi di un commento trionfale che spiegasse le intenzioni del Cremlino, da trasmettere a reti unificate, prende corpo.

Nel documento, l’Europa e l’Unione europea vengono definite «ingrate e irriconoscenti», soprattutto smemorate, «perché la loro nascita è stata possibile soltanto grazie ai nostri sforzi». «La Russia sta ricreando la sua storica unità: la tragedia del 1991, questa terribile catastrofe della nostra storia, è stata finalmente superata». Non c’era altra scelta, secondo l’entusiasta editorialista. «Con la decisione di non lasciare la soluzione della questione ucraina alle generazioni future, possiamo dire senza un minimo di esagerazione che Vladimir Putin si è messo sulle spalle una responsabilità enorme». Ma per fortuna, è andato tutto bene. «Il nostro problema era il complesso di essere una nazione divisa e umiliata, cominciato quando Madre Russia cominciò a perdere pezzi del suo territorio e poi venne obbligata a riconciliarsi con l’idea di essere divisa in due Stati e in due popoli. Adesso il problema non esiste più: l’Ucraina è ritornata a essere Russia. Questo non significa che le sue istituzioni verranno cancellate, ma saranno ricostruite e torneranno alla loro condizione originaria, essere parte del mondo russo».

In questo scenario di vittoria schiacciante e di fiato alle trombe, l’Occidente è una comparsa balbettante, capace solo di sottovalutare la forza di Putin. «Ma davvero qualcuno a Parigi e Berlino ha potuto credere che Mosca avrebbe rinunciato a Kiev? L’America e l’Europa non hanno avuto la forza di conservare l’Ucraina all’interno della loro sfera di influenza. Più precisamente, avevano una sola strategia: scommettere sul collasso della Russia. Ma era chiaro da quasi vent’anni, dal discorso di Putin a Monaco del 2007, che le pressioni dell’occidente non avrebbero prodotto alcun risultato, perché la Russia è da sempre pronta a fronteggiarli, moralmente e a livello geopolitico».

Ma la grande vittoria ucraina, di preciso dove dovrebbe portarci? L’autore ci offre per interposta persona la risposta di Putin. «Alla costruzione di un nuovo ordine mondiale, che sta accelerando e al tempo stesso sta colpendo l’edificio della globalizzazione anglo sassone. Un mondo multipolare sta finalmente diventando realtà».

Le ultime righe dell’articolo sono le più importanti, perché rivelano la visione e gli obiettivi di Putin. «Questo è un conflitto tra la Russia e l’Occidente, una risposta all’avanzata dell’atlantismo… la Russia non ha solo lanciato una sfida, ha dimostrato che il dominio occidentale è ormai finito. Cina, India, il mondo islamico e l’Africa, il sud est asiatico, tutti hanno capito grazie a noi che ormai l’epoca della dominazione globale dell’Occidente è terminata».

C’è quasi tutto il pensiero di Vladimir Putin. Mancano solo alcuni dettagli.

La guerra non è durata due giorni appena. E poi, un pensiero, uno solo, per il popolo ucraino, avrebbe fatto la sua bella figura.

A corredo dell’articolo era stata scelta una foto della piazza Maidan di Kiev. Se non altro rivela fin dall’inizio quali fossero le intenzioni del Cremlino.

"Disinformazione nel dna di Mosca. Agenti e volontari seminano il caos". Orlando Sacchelli il 28 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il docente di tecniche di comunicazione Dario Fertilio: nessun Paese ha un sistema così esteso per imporre all'avversario il proprio linguaggio.

«La disinformazione è innata, fa parte del dna della potenza sovietica». Non ha dubbi Dario Fertilio, docente di Teoria e tecniche della comunicazione giornalistica all'Università Statale di Milano e autore di diversi saggi dedicati alla disinformazione.

In questi giorni stanno uscendo parecchie fake news sulla guerra in Ucraina. Cosa ne pensa?

«La disinformazione fa parte del dna della potenza sovietica. Gli altri stati hanno messo in atto un sistema di disinformazione concorrente, certamente abile ed efficace ma lontana dall'estensione e dalla tradizione messa in campo dai sovietici e poi dai loro odierni eredi putiniani».

Che differenze ci sono tra la disinformazione occidentale e quella russa?

«In generale la disinformazione militare occidentale punta sulla denuncia dei fatti, quella russa, invece, utilizza un sistema più allargato, chiamato dead hand (mano morta), o in russo sistema perimetrale. Il regime attraverso una rete ad hoc prende in esame tutte le informazioni e ad ognuna di esse applica le tecniche di disinformazione. Poi c'è una rete perimetrale, più estesa, formata da volontari che entrano in azione quando vi è necessità».

Si può parlare anche di due strategie diverse?

«La Russia punta sulla confusione e il disordine. Lo scopo è confondere il nemico, affermando cose diverse e creando panico. Gli Usa invece stavolta hanno puntato tutte le carte sulla pubblicazione delle notizie in loro possesso, provando a disinnescare le minacce».

Cosa si può dire delle parole utilizzate da Putin nel suo famoso discorso di entrata in guerra?

«Si può parlare di una regressione verbale e psicologica, tornando a un linguaggio sovietico. Ha fatto riferimento ad un governo (quello ucraino, ndr) di corrotti, drogati e nazisti, secondo una tecnica tipica del leninismo. Non sappiamo quanto questa scelta sia voluta o meno. Potrebbe anche essere funzionale al desiderio di galvanizzare i nostalgici della vecchia Urss oppure i Naz-Bol (nazisti-bolscevichi) che si riconoscono nel totalitarismo, con il culto del populismo russo. Un altro aspetto sottile della disinformazione è la logomachia, imporre all'avversario il proprio linguaggio».

Ci fa un esempio?

«Si continua a parlare di crisi ucraina, ma è un'invasione vera e propria».

Come si fa ad arginare il rischio di pubblicare l'eventuale disinformazione dei russi e quella degli ucraini?

«Si potrebbero mettere in atto le tre griglie fondamentali, distinguendo la propaganda bianca, quella nera e quella grigia. Con quella bianca si affermano apertamente i propri scopi: ad esempio, i russi intervengono per difendere la propria integrità. La propaganda nera dice una cosa per farne credere un'altra, dirigendo altrove il pubblico. Esempio: la guerra è fatta per liberare l'Ucraina dai nazisti. Infine c'è la propaganda grigia, di cui non si capisce la matrice, come ad esempio la presenza di armi ibride sul campo».

I social network hanno aumentato a dismisura il propagarsi delle fake news. Cosa ne pensa?

«I social non sono altro che una piazza in cui tutti si ritrovano e discutono. Purtroppo chi frequenta la piazza, specie se non ha un'adeguata preparazione, può essere influenzato. Ma è sufficiente andare sui vari siti per toccare con mano quanta disinformazione filorussa viene messa in circolo».

Quale può essere l'antidoto alle fake news?

La stampa libera, consultare diversi giornali e libri, questa rimane la difesa migliore della libertà, attivando gli anticorpi in grado di combattere i tanti virus totalitari che sono in circolazione».

Carri armati, bombe, hacker e fake news. Così si combattono le nuove guerre. Oltre il sangue, il fango e le trincee i conflitti di oggi un ibrido di forza e assedio cognitivo. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 27 febbraio 2022.

Quando gli aerei si schiantarono contro le Torri gemelle, l’ 11 settembre del 2001 – in molti pensarono al manuale che due colonnelli cinesi, Qiao Liang e Wang Xiangsui, avevano scritto nel 1999 e che in Italia era arrivato giusto in quel gennaio: Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione. Qiao Liang e Wang Xiangsui erano vice direttore dell’Ufficio produzione del Dipartimento politico dell’aeronautica militare, l’uno, e colonnello nell’Unità politica dell’aviazione militare della regione di Guangzhou, l’altro – insomma, non proprio strateghi di prima linea ma dentro una lunga tradizione di riflessione sull’arte della guerra. In quel libro, Qiao Liang e Wang Xiangsui definiscono le guerre che abbiamo conosciuto sinora di tipo simmetrico e lineare, in corrispondenza all’approccio razionale tipico dell’Occidente e che l’Occidente ha sempre imposto nei suoi confronti armati, anche con l’Oriente. La rivoluzione copernicana dell’arte della guerra si concentrerebbe nella parola chiave “tecnologia”. Che entra nella guerra e ne cambia silenziosamente l’essenza, dilatandone i confini. Il nuovo modello di conflitto non sarà più puramente militare, ma utilizzerà ogni forma di attacco finanziario, telematico o di tipo terroristico, privando la guerra delle sue caratteristiche di simmetria e linearità. Nel libro si dice anche che tutti abbiamo paura senza che ci sia un contenuto preciso di riferimento: l’Occidente ha paura del terrorismo, che è dappertutto e in nessun luogo, l’Oriente teme un intervento bellico Usa, che potrebbe accendersi contro uno qualunque dei suoi Stati. Tra lo scenario della guerra nucleare, che tutti temevamo e tutti provavamo a esorcizzare, e la guerra convenzionale, quella nel fango e nelle trincee, che ci sembrava appartenere al passato e non più ripetibile – si inframmezzava adesso la guerra asimmetrica. L’attacco terroristico dell’ 11 settembre, al Qaeda prima, l’Afghanistan, l’Isis poi con il Daesh – ci sembrava corrispondessero perfettamente a questa lettura. Di sicuro funzionava meglio della “guerra umanitaria” – quell’ipocrita ossimoro con cui si era giustificato l’intervento contro la Serbia. Però, forse la guerra in Ucraina riapre la riflessione sul significato dell’asimmetria, che non è solo dell’uso della tecnologia, quella degli hacker di guerra e dei trolls, dell’information warfare e nella multidimensionalità militare, cyber e informativa che si sostanzia anche in una sorta di “assedio cognitivo”, con la disseminazione di campagne disinformative d’intensità e profondità variabile. Cosa sta succedendo in Ucraina? Una guerra convenzionale – quella con i carri armati, il fango e le trincee, una estensione “spaziale” e di intensità in uomini e mezzi degli otto anni di guerra “a bassa intensità” nel Donbass – e un conflitto di “narrazioni”: una guerra ibrida, insomma. Che però, a quanto pare, noi occidentali non ci pensiamo minimamente a affrontare nella sua complessità. Di mettere gli scarponi sul campo, proprio non ne vogliamo sapere. Siamo appena andati via dall’Afghanistan, in fretta e furia tale da avere ricordato la fuga da Saigon e aperto mille interrogativi sulla bontà dell’operazione, che facciamo – ritorniamo a combattere? Va bene pilotare i droni da una base militare da Fort Bragg, Carolina del nord, o da Quantico, Virginia, e persino da Sigonella, Sicilia, purché rimanga una guerra “da remoto”. Biden, Johnson e gli europei minacciano, più o meno, sfracelli finanziari contro i russi – ma sono sanzioni che hanno efficacia nel lungo periodo, mentre intanto si combatte nel fango e nella neve, e è lì nelle trincee, nelle pianure, nei porti, nelle strade delle città che si decide la partita, al momento.

Perché l’Occidente è così riottoso a affrontare la guerra? Si potrebbe dire – e meno male. Che l’opzione militare scompaia dall’orizzonte delle “pratiche” delle relazioni internazionali dell’Occidente non può che essere un bene – chi vuol vedere le bare dei propri figli portate a spalla dai commilitoni? Troppe guerre l’Occidente ha fatto, e imposto al mondo, pagando e facendone pagare un prezzo salato.

Nel 2010, a Astana, Kazakistan, alla riunione dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, i capi di stato e di governo di 56 nazioni dissero: «We recommit ourselves to the vision of a free, democratic, common and indivisible Euro- Atlantic and Eurasian security community stretching from Vancouver to Vladivostok». Certo, mancano nell’Osce i sud del mondo e la Cina, da Shangai a Capo Horn, passando per il Capo di Buona Speranza – ma come sarebbe bello, oggi, intanto, un mondo libero, democratico, comune e indivisibile da Vancouver a Vladivostock. E invece.

E invece, la deterrenza nucleare, il terrore e la consapevolezza che una guerra nucleare non ha vincitori e vinti ma solo distruzione di massa, che quindi dovrebbe avere funzionato da spinta alla ricerca di soluzioni politiche – non funziona in Ucraina. E non funziona perché al suo posto subentra una guerra convenzionale. E asimmetrica, perché non c’è alcuna simmetria tra l’esercito russo e quello ucraino, per quante armi, mezzi e istruttori abbia potuto dare l’Occidente. La più antica delle guerre – il più grosso contro quello più piccolo – ritorna e nel cuore dell’Europa. Quell’Europa che ha tra i suoi fondamenti proprio il ripudio della guerra – dopo la distruzione dell’ultima – e che ha faticosamente costruito un percorso di continua giuridicizzazione dei conflitti e degli interessi, si ritrova debole e impacciata.

L’Europa non vuole la guerra, e neanche l’America vuole la guerra – non perché siano sopiti gli istinti predatori o, se si vuole metterla storicamente, quelli di colonizzazione: ma perché nessuno vuole andare a morire in guerra. Le motivazioni “morali” – esportare la democrazia, civilizzare popoli “barbari” – non sembra che riescano poi a reclutare. Va bene “giocare” alla guerra su uno schermo, come fosse una playstation, ma nel fango e nelle trincee, ma che davvero? Morire per gli ucraini?

La guerra non è neppure un volano per l’economia – quella sorta di keynesismo con l’elmetto che aveva come elementi un enorme debito, grandi investimenti produttivi dello Stato, occupazione di massa, buoni salari – come fu per l’America di Roosevelt che difatti venne fuori come la prima potenza dopo la Seconda guerra mondiale proprio per lo sforzo bellico imponente. Troppa tecnologia adesso – le cui ricadute non sono le stesse dell’economia fordista di guerra – poca occupazione. e non sempre la guerra assicura una vittoria elettorale.

Ma – e questa è la domanda cruciale – la Cina e la Russia, che sono le altre potenze mondiali, economiche e militari, la pensano come l’Occidente? Perché, forse, sta tutta qui l’asimmetria.

Russia vs Rep. Il Cremlino smentisce Molinari (ma gli dà ragione). Di Francesco Bechis | 18/11/2021.  

Duro attacco del ministero degli Esteri russo contro il direttore di Repubblica Maurizio Molinari (e la libertà di stampa). Per un editoriale sulle manovre di Putin in Europa riceve in cambio un fiume di insulti. Ma il Cremlino, per negare, conferma tutta la linea, dall’Ucraina al gas. E sui social fa il boom fra gli account sovranisti. 

Libertà di stampa, questione di prospettive. Il governo russo torna a scagliarsi contro Maurizio Molinari. A detta di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, un recente editoriale del direttore di Repubblica sarebbe “un’assurdità deliziosa”. Risale a cinque giorni fa, e si intitola “La morsa di Putin sull’Unione europea”. 

Molinari mette in fila i fronti di tensione fra Europa e Russia: la crisi dei migranti in Bielorussia, usata dal dittatore Alexander Lukashenko come mezzo di pressione contro l’Ue; le manovre di 90.000 militari russi vicino al confine ucraino; la partita del gas, con il gasdotto di Gazprom Nord Stream II ormai ultimato. Quella di Vladimir Putin, spiega il giornalista, è “una minaccia ibrida” e ha l’intento di “generare crisi parallele per stringere in una morsa l’Unione europea”. 

A Mosca non hanno gradito l’analisi, neanche un po’. E infatti non capita tutti i giorni che la potente portavoce di Sergei Lavrov riversi un fiume di inchiostro per “smentire” l’editoriale di un giornale straniero. Nella lunga giaculatoria Zakharova alterna lezioni di giornalismo a durissime stoccate contro Molinari e Repubblica.

Una selezione: per il Cremlino l’articolo del direttore di Rep non sarebbe altro che una “vergognosa missione”, uno “sproloquio”, “calunnie nauseanti”, “bugie sfacciate”, “un’illusione” costruita per “entrare nelle grazie di politici russofobi”.

Fra un insulto e un altro, la portavoce stende un vero e proprio manifesto della politica estera di Putin. Che non sembra smentire affatto la ricostruzione. Così, quando Molinari sottolinea come l’ammassamento di truppe russe a Yelna, a 260 chilometri dal confine ucraino, ripresenti una situazione non dissimile da quella che nel 2014 ha preceduto l’invasione della Crimea, Zakharova non nega, anzi, rivendica. “Mi è piaciuta molto l’espressione ‘tenerlo sotto scacco’ che Lei usa in riferimento alla politica russa in Ucraina e personalmente a Vladimir Zelensky. Prima di tutto è un’espressione bellissima. In secondo luogo, non mi pare che gli scacchi siano vietati, vero? O solo se i russi non vincono?”.

O ancora, quando Molinari ricorda l’ovvio, cioè che il Nord Stream II “aumenterà la dipendenza dell’Europa dalle importazioni di gas russo”, la portavoce irrompe in un’invettiva: “Dottor Molinari, non ama il gas russo? Molto bene. Ho una grande idea: Maurizio per protesta riscaldi la sua casa con copie de La Repubblica”. 

Sono toni duri, fin troppo per chi conosce il galateo della diplomazia russa. In tutto simili a quelli che, poco più di un anno fa, usò il ministero della Difesa russo contro uno speciale de La Stampa – allora diretta da Molinari – sulla spedizione di militari-virologi a Bergamo, la colonna di carri militari in marcia sulla Pontina, gli ufficiali dei Servizi segreti russi presenti nella delegazione. Era il 3 aprile del 2020, in mezzo alla pandemia, e un furibondo Igor Konashenkov, generale della Difesa, chiudeva un profluvio di insulti con un monito eloquente, Qui fodit foveam, incidet in eam, “chi scava una fossa al prossimo ci finirà prima”.

La risposta di Zakharova ha riscosso un notevole successo nella bolla social. Il tweet dell’Ambasciata russa a Roma ha ottenuto quasi 800 retweet in meno di un giorno, buona parte dei quali da contatti anonimi – cosiddetti troll – che si scagliano contro Molinari. Ma l’articolo ha avuto un rimbalzo fuori dal comune: secondo Crowdtangle – programma di analisi social – solo su Facebook ha raggiunto una platea di un milione di persone.

Una costellazione di pagine russe ­– compreso il ministero – e una serie di pagine filo-sovraniste, come “Noi stiamo con la Russia di Putin” e “Amici di Matteo Salvini in Spagna”. Non mancano endorsement istituzionali all’attacco del governo russo. È il caso di Vito Petrocelli, presidente della Commissione Esteri del Senato del Movimento 5 Stelle, convinto che il direttore di Repubblica voglia “incrinare i rapporti tra Italia e Russia”.

Striscia la Notizia, disastro a Mattino 5: "Ecco i bombardamenti in Ucraina". Ma sbagliano video: cosa va in onda. su Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Striscia la notizia, nella puntata del 24 febbraio, smaschera un video fake  mandato in onda durante la puntata di Mattino Cinque. Ecco infatti Francesco Vecchi che trasmette delle immagini impressionanti presentate ai telespettatori come resoconto dei bombardamenti in Ucraina da parte della Russia. Mostra quindi l'attacco di notte che si conclude con una grande esplosione. Si sentono delle persone che urlano. Francesco Vecchi a un certo punto dice pure: "Devo andare in pausa, su quelle immagini ritorneremo".

Peccato che in realtà si tratti di un video che circola in rete già dal 2015 e che nulla abbia a che vedere con il conflitto in corso in Ucraina. Si tratta infatti di una esplosione avvenuta in Cina. Dove peraltro la guerra non c'entrava nulla. Si tratta proprio delle stesse immagini e dello stesso audio come fa vedere il tg satirico di Canale 5.  

Insomma a Mattino 5, "di Vecchi non 'è solo il conduttore ma anche i filmati", commenta ironico Ezio Greggio. E il servizio non si può che concludere con la celebre frase di Emilio Fede: "Che figura di me***"

Cameriere, badanti e amanti: il fuorionda choc sull'Ucraina al Tg3. La gaffe di Lucia Annunziata. Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022.

Enrico Letta parla e Lucia Annunziata fa una gaffe clamorosa. Nello Speciale Tg3 della Rai sull’Ucraina, intorno alle 16.15, va in onda l’intervista al segretario del Partito Democratico davanti all’ambasciata russa a Roma. Letta esprime solidarietà alla comunità ucraina presente in Italia e scatta il commento da studio della giornalista, che si sente però in diretta visto che il microfono non è stato spento durante il collegamento. “Migliaia e migliaia di cameriere e badanti” le parole dell’Annunziata sugli ucraini in Italia, ma non è tutto. Si sente pure un altro ospite aggiungere “amanti”. Una caduta di stile che ha fatto il giro dei social.

Striscia la Notizia, clamorosa gaffe al TgLa7: Putin e il Cremlino? Non proprio, cosa va in onda: e Mentana...Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Scivoloni clamorosi intercettati da Striscia la Notizia. Il tutto nella puntata in onda su Canale 5 giovedì 24 febbraio, puntata del tg satirico di Canale 5 condotta dall'inedita e scoppiettante coppia composta da Silvia Toffanin ed Ezio Greggio. 

La rubrica in questione è un grande classico, uno dei cavalli di battaglia di Striscia, ossia "Striscia lo striscione", curata da Cristiano Militello. E in quest'occasione, oltre ai consueti striscioni, la rubrica si concede una digressione che arriva dritta dritta fino ad Enrico Mentana, o meglio al TgL7a che dirige.

Già, perché nel corso dei titoli di testa di un'edizione del tg, ecco che si è consumato un irresistibile strafalcione. Presentando un servizio sulla crisi russa, ecco la scritta in sovrimpressione, la quale recitava: "Mosca fa precipitare la crisi: sì del Cremino ai separatisti filorussi dell'est Ucraina, con la Crimea un territorio che separi dall'ovest". Già, non "Cremlino", bensì "Cremino". Come il celebre gelato. E chissà la sfuriata di Mentana...

Enrico Mentana? Ecco perché ha chiuso la maratona sulla guerra: ora si capisce tutto...Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 05 giugno 2022

Quella in Ucraina è la guerra ad alta resa mediatica. Dei post, dei tweet, dei video dal fronte sui social nei primi giorni dell'attacco russo, dei protagonisti che si prestano assai bene allo scontro manicheo tra bene e male. Il leader di Kyev, Volodymyr Zelensky, forte di una costruzione d'immagine molto americana è l'eroe buono. Dall'altro lato, il Capo del Cremlino Putin incarna il "cattivo" perfetto di questo canovaccio della storia, con una mimica che marca l'efferatezza delle sue scelte.

È la guerra, insomma, il cui impatto pubblico si intreccia con le logiche della società dei consumi. E per questo esposta all'implacabile legge dell'opinione pubblica che passa oltre. Perché l'attualità è fatta anche di altro, tutto ad alta portata mediatica, per quanto di diversa natura. È il meccanismo che fa vorticare notizie e fenomeni collettivi.

IL CALO

Il sito americano di news Axios ha pubblicato, proprio alla vigilia dei 100 giorni di guerra, alcune cifre fornite dalla società di tracciamento Newswhip, e segnala un calo vertiginoso delle interazioni web riguardanti la guerra tra la prima settimana di invasione e quella più recente: da 109 milioni a 4,8 milioni. Per quanto riguarda le interazioni relative alle "stories" sui social dedicate all'Ucraina - ad esempio i video su Instagram - si è scesi da circa 19 milioni a 345mila (vedi tabella in prima pagina).

Lo studio, inoltre, sottolinea che nel giro di sei settimane, tra aprile e maggio, l'interesse degli utenti verso la vicenda di Johnny Depp e Amber Heard (nel processo che ha tenuto banco sulle testate di tutto il mondo) è stato sei volte maggiore rispetto alla guerra nel cuore dell'Europa. Il calo dell'attenzione per il conflitto è confermato anche da un report dell'italiana Socialcom. Realizzato con l'analisi sulle parole chiave, tra cui "Ucraina", "Putin", Donbass, "invasione", "guerra", in una forbice di tempo dal 24 febbraio (giorno dell'invasione) al 31 maggio. Ebbene, soltanto nei quattro giorni rimanenti nel mese di febbraio le "mentions" furono ben 794mila.

Il mese di marzo ne ha fatte contare 3,27milioni, e giù ad aprile con 2,06 milioni e ancora a maggio con 1,4 milioni. Trend discendente anche per le interazioni. Esplosero negli ultimi quattro giorni di febbraio (oltre 133 milioni), andarono a 200 milioni a marzo per poi scendere vertiginosamente ai 73 milioni di aprile e ai 50,37 milioni di maggio.

ALTRI INTERESSI

Questi numeri, secondo il fondatore della società Luca Ferlaino, «confermano che ormai gli utenti per quanto possa sembrare incredibile si sono assuefatti alla guerra e iniziano a seguire diversi trend». All'ora di cena di ieri, per esempio, i "trend topic" di twitter riguardavano il torneo di tennis parigino del Roland Garros. Questa dinamica, peraltro non riguarda soltanto i social. Anche in campo giornalistico si va superando il monopolio sostanziale che la guerra in Ucraina ha rappresentano in questi tre mesi nella trattazione.

E dunque è una notizia significativa il fatto che il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana abbia deciso di sospendere gli speciali che andavano in onda senza interruzione dal giorno in cui le truppe russe superarono il confine. Una diretta quotidiana di tre ore, dalle 17 allle 20, sabato e domenica compresi. L'annuncio è stato dato con una grafica sul suo profilo social. «Oggi (ieri n.d.r), nel centesimo giorno di guerra completiamo, almeno per ora, i nostri appuntamenti quotidiani delle 17. È giusto così, ora che il conflitto si fa scontro di logoramento. Di fronte a notizie importanti saremo pronti a riaprire lo speciale». 

Una scelta di cui ha ampiamente illustrato le ragioni intervenendo alla trasmissione radiofonica Un giorno da Pecora in onda su Radio1: «Ci sono tante altre cose che accadono» ha detto Mentana, «da vedere, da capire, da raccontare. Di tutto questo ci dobbiamo un po' riappropriare». Ha notato, poi, che la reazione dell'opinione pubblica va mutando, portando a supporto gli ultimi numeri di Open, giornale online di cui è il fondatore: «Le dieci notizie più lette non riguardano la guerra», ha affermato, osservando che molte persone, dopo aver accettato una sorta di «flusso passivo» nella fase iniziale della guerra, «cominciano a dire: "ora mi informo io, quando voglio io". Vuol dire non essere più ancorati al "minuto per minuto" nell'evoluzione del conflitto scoppiato in Ucraina».

Giletti: "Ho avuto un mancamento". Il giornalista interrompe il collegamento da Mosca. Duro confronto con Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo. E Sallusti lascia la trasmissione in polemica con il conduttore. La Repubblica il 5 Giugno 2022.

Prima la tensione, poi la preoccupazione. La trasmissione "Non e' l'arena" con Massimo Giletti in collegamento da Mosca subito dopo l'intervista con Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, ha mostrato una serie di colpi di scena. Prima Alessandro Sallusti, direttore di Libero, apre una polemica durissima sui contenuti dell'intervista a Zakharova, poi improvvisamente Giletti sparisce dal video e la conduzione passa in diretta a Myrta Merlino, giornalista de La 7, che era ospite nello studio di Roma. "Cerchiamo di capire cosa è successo a Massimo", dice Merlino.

Il dibattito prosegue, su Twitter fan e critici della trasmissione si chiedono cosa sia successo a Giletti. Passano i minuti, proseguono i commenti, vengono mandati in onda servizi da Mariupol. La Merlino annuncia: "Eccolo, è ricomparso". E Giletti spiega: "Ho avuto un mancamento, forse gli zuccheri".

E' stato un duro botta e risposta l'intervista di Massimo Giletti alla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che lo ha criticato più volte sulle sue conoscenze del dossier ucraino e dell'impegno della Russia in altri teatri di guerra. E la puntata di "Non e' l'arena" che, come anticipato da Repubblica, andava in onda con il conduttore collegato da Mosca, sullo sfondo della Piazza Rossa, è stata movimentata anche dalla dura presa di posizione di Alessandro Sallusti.

Il direttore di Libero, dopo l'intervista alla portavoce di Lavrov - in cui sono state ribadite le "ragioni russe" della guerra e le accuse all'Occidente di doppi standard - ha deciso di rinunciare al collegamento attaccando il conduttore per essersi, a suo dire, prestato alla propaganda russa. "Mi alzo e me ne vado", ha detto Sallusti, "non farò la foglia di fico", ha concluso il giornalista dopo aver usato dure parole contro il Cremlino e gli ospiti di Giletti a Mosca, tra cui il celebre conduttore russo filo-Putin, Vladimir Soloviev.

"Lei non è mai stato in Donbass, non sta capendo cosa succede lì, non sa a quali bombardamenti è stato sottoposto dal regime di Kiev, lei non capisce cosa significano le persone morte", ha attaccato Zakharova rispondendo a Giletti che le chiedeva a che condizioni Mosca fosse disposta a terminare le ostilità. "I bambini parlano in questo modo!", ha tuonato la portavoce di Lavrov in un passaggio della lunga intervista di una cinquantina di minuti, in cui era collegata via Skype da quello che sembrava un ambiente domestico. "Andiamo insieme in Siria, ad Aleppo", ha proposto in modo sarcastico Zakharova quando Giletti le ha ricordato le azioni delle Forze russe in quel Paese, a sostegno del regime di Bashar al-Assad.

Non è l'Arena, bomba di Myrta Merlino dopo la diretta: "Inquietante. Massimo Giletti..." Libero Quotidiano il 06 giugno 2022

Myrta Merlino ha cominciato la puntata de L'aria che tira ripercorrendo i momenti difficili vissuti ieri sera 5 giugno a Non è l'Arena , su La7, con il malore avuto in diretta da Massimo Giletti: "Quello con Maria Zacharova è stato davvero un incontro inquietante. Chi mi conosce bene, chi lavora con me sa quanto cerco di capire gli altri, ebbene è del tutto inutile con personaggi come quello". E ancora: "ieri sera sono stata travolta da tante stupidaggini. Un tantino troppo. Grande paura per il mio amico Massimo. Mi sono onestamente molto, molto preoccupata per Massimo Giletti, con cui sono amica da una vita. E credo che tutte le ironie sui social siano di cattivo gusto". 

Giletti, nel corso dell'ultima puntata di Non è l'Arena condotta da Mosca, si è infatti sentito male, un mancamento che lo ha costretto ad abbandonare la conduzione per qualche minuto. All'improvviso a dare l'allarme è stata proprio la Merlino, che era tra gli ospiti in studio a Roma. Myrta a un tratto ha esclamato: "Oddio aiutate Massimo". Poi la stessa Merlino ha preso in mano la conduzione del programma per qualche minuto e ha annunciato: "Massimo Giletti ha avuto un mancamento, speriamo di avere notizie presto". Dopo qualche istante, sempre la Merlino ha affermato: "Vedo che Massimo è in piedi, ora ci ricolleghiamo con lui appena sarà in condizioni di parlare". Giletti, una volta tornato in conduzione, ha voluto spiegare cosa è successo: "C'era molto freddo, forse ho avuto un calo di zuccheri".

Non è l'Arena, Alessandro Sallusti lascia la diretta: "Cremlino palazzo di m... basta sceneggiate". Libero Quotidiano il 06 giugno 2022

A Non è l'Arena, il talk show condotto dalla Piazza Rossa di Mosca, da Massimo Giletti su La7, è accaduto di tutto. L'ultima puntata era stata preceduta da fortissime polemiche per la richiesta da parte del conduttore di condurre il programma dalla Russia con un'intervista a Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri del Cremlino, Sergej Lavrov. Tra gli ospiti in collegamento dell'Italia c'era anche il direttore di Libero, Alessandro Sallusti.

E proprio Sallusti nel corso della trasmissione ha deciso di abbandonare la diretta. Dopo che la Zakharova aveva parlato quasi un'ora, il direttore di Libero, rivolgendosi a Giletti, ha affermato: "A questa sceneggiata io non voglio più partecipare, grazie".

E ancora: "Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo. Mi trovo davanti ad un asservimento totale di fronte alla peggiore propaganda che ci possa essere. Il Cremlino è un palazzo di merda, lì il comunismo ha fatto i più grossi crimini". Poi l'affondo: "Rinuncio al compenso pattuito ma non ci sto a fare la foglia di fico a quei due coglioni che hai lì di fianco, me ne vado". Sallusti si riferiva ai due ospiti russi accanto a Giletti, tra cui anche il conduttore televisivo russo Vladimir Soloviev, una delle voci più vicine al presidente Putin e uno degli anchorman più critici nei confronti dell'Italia e del governo Draghi impegnato nella mediazione tra Russia e Ucraina.  

Maria Pia Mazza per open.online il 6 giugno 2022.

Caos e polemiche per l’ultima puntata di Non è l’Arena su La7, andata in onda dalla Piazza Rossa di Mosca. Durante la puntata, Massimo Giletti ha intervistato la portavoce del ministero degli Esteri Russo, Maria Zacharova che, nell’esporre le sue posizioni, ha rimproverato Giletti per le sue osservazioni e domande, ritenute fin troppo semplicistiche e puerili, dicendo: «Mi pare che lei parli per un bambino».

Un’intervista che ha però mandato su tutte le furie il direttore di Libero, Alessandro Sallusti, che ha abbandonato la trasmissione criticando duramente Giletti, descrivendo l’intervista come un «asservimento totale alla peggiore propaganda che ci possa essere, utilizzando anche gli utili idioti che non mancano mai, tra cui Cacciari, che hanno usato la forza evocativa del Cremlino e del suo fascino». 

Sallusti abbandona lo studio: «Noi sappiamo cos’è la libertà e la difendiamo»

«Ma in quel palazzo alle tue spalle, e faresti bene a ricordarlo a chi ti sta di fianco – ha proseguito Sallusti – sono stati organizzati, decisi e messi in pratica i peggiori crimini contro l’umanità del secolo scorso e di questo secolo: quello è un palazzo di merda, perché lì il comunismo ha fatto le più grandi tragedie del secolo scorso e di questo secolo».

Sallusti, prima di abbandonare la trasmissione, ha spiegato al conduttore di Non è l’Arena di essere dapprima «molto orgoglioso di conoscerti e di aver un buon rapporto con te, quando ho saputo che tu andavi a Mosca. Immaginavo avresti parlato al popolo russo, non a quello italiano. 

«Immaginavo – ha proseguito Sallusti – che tu facessi qualcosa, intervistando Putin o un ministro, un qualcosa per cui noi dovevamo andare fieri della nostra libertà di informazione, e invece mi ritrovo qui, in un asservimento totale alla peggiore propaganda che possa esserci».

Il direttore di Libero ha poi aggiunto: «A me fa tristezza vedere un giornalista che stimo venir chiamato “bambino” e “incompetente” da una cretina (la portavoce del ministero degli Esteri Russo, Maria Zacharova, ndr) che non sa nemmeno di che cosa sta parlando, perché noi la libertà ce l’abbiamo e sappiamo che cos’è e ce la difendiamo, io di fare la foglia di fico a quegli altri due coglioni che hai di fianco non ci sto e quindi rinuncio al compenso pattuito, ma a questa sceneggiata non voglio più partecipare, grazie».

Giletti sviene e Myrta Merlino prende le redini della conduzione

Dopo l’intervento di Sallusti, Massimo Giletti ha avuto un mancamento. A prendere temporaneamente le redini della conduzione del talk show è intervenuta Myrta Merlino, che era presente tra gli ospiti della puntata. 

Merlino, dopo essersi accorta che Giletti stava per accasciarsi a terra, ha chiesto aiuto per il collega e ha poi proseguito la conduzione del programma con gli ospiti rimasti in studio, tra cui il deputato Pd, Emanuele Fiano. Giletti si è poi ripreso ed è tornato nuovamente in video, ma non più in collegamento dalla Piazza Rossa, ma seduto e al chiuso. Il giornalista ha voluto rassicurare il pubblico e gli ospiti presenti in studio: «È stata una mancanza di zuccheri, il freddo e ho avuto un mancamento, sto bene, può capitare».

DANDOLO NEWS l'11 giugno 2022 - TUTTI CONTRO “GILETTI DI BACCALA” CON LA BASSA PRESSIONE E IL CREMLINO DIETRO, MA NESSUNO RICORDA CHE LA POTENTISSIMA DIRETTORA DEL TG1 MONICA MAGGIONI SI GENUFLESSE PER BEN DUE VOLTE AL COSPETTO DELLO SPIETATO DITTATORE SIRIANO BASHAR AL ASSAD. IL TUTTO GRAZIE, DICONO LE MALELINGUE, A UNA IN-CONDIZIONATA MEDIAZIONE DI MOSCA…

Alberto_Dandolo: Sto leggendo di tutto su @mgilettifanclubofficial e il suo svenimento durante il collegamento da Mosca e il suo presunto asservimento al regime di Putin. Per carità, certo non è stato un momento epico per il giornalismo d'inchiesta!

Mi domando però anche perché nessuno si ricordi più delle inginocchiatissime interviste (pagate da noi contribuenti!) dell'attuale potentissima direttrice del tg1 Monica Maggioni ad uno dei più spietati dittatori della storia mediorientale, tal Bashar al Assad. Interviste che all'epoca "probabilmente" () ebbero vita anche e soprattutto grazie all' ok "IN - CONDIZIONATO" di MOSCA! "Probabilmente" ...

Ah, non saperlo...

Da liberoquotidiano.it il 10 Giugno 2022.

"Non posso parlare della storia della Russia e del Cremlino, abbia pazienza...": Massimo Cacciari, ospite di Giovanni Floris a Otto e mezzo su La7, ha replicato così alle dichiarazioni di Alessandro Sallusti, che ha definito il Cremlino "un palazzo di mer**". Quando il conduttore gli ha chiesto: "Cosa intende?", il filosofo ha subito perso la pazienza: "Cosa intendo? Quello che sto dicendo, cosa vuole che intenda?". Floris, allora, ha insistito: "La storia del Cremlino è più ampia?".

A quel punto Cacciari ha lanciato una frecciatina: "Una persona poco più che analfabeta dovrebbe conoscere la storia del Cremlino". "C'è stato Stalin", è intervenuto il direttore di Libero. Ma il filosofo ha controbattuto: "Si, così come a Berlino c'è stato Hitler e a Roma Mussolini. Montecitorio però non diventa un palazzo di mer** perché c'è stato Mussolini!". "Vabbè però elogiarlo in quel contesto...", ha continuato Sallusti.

Di fronte a quella interruzione, però, Cacciari ha perso le staffe: "Allora parli lei Sallusti! Non posso discutere!". Il direttore di Libero allora ha preso la parola e ha spiegato: "La tesi del professor Cacciari a un convegno di storia non avrebbe fatto una grinza, ma lì eravamo in un collegamento in diretta con Mosca a parlare di guerra con due propagandisti che dicevano che noi siamo dei criminali. Quindi quella cosa va contestualizzata".

Da liberoquotidiano.it il 10 Giugno 2022.

"E' stata la mia risposta dopo aver sentito più volte come venivano esaltati ed elogiati l'architettura e l'aspetto del Cremlino". Alessandro Sallusti, ospite di Giovanni Floris a Otto e mezzo su La7, ha spiegato perché ha definito il Cremlino un "palazzo di mer**" durante un collegamento con Non è l'Arena domenica scorsa.

"Quello è il luogo dove sono state decise le più grandi purghe, le più grandi pulizie etniche che il mondo forse ha mai conosciuto. Parliamo di decine di milioni di persone trucidate, fatte sparire. Insomma, è il luogo dove sono state decise le più grandi tragedie dell'umanità. Non potevo più sentire certe affermazioni".

L'ultima puntata del talk di La7, infatti, è stata condotta da Massimo Giletti in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca. Accanto a lui il politologo ucraino Vasilj Vakarov e Vladimir Solovyev, il famoso conduttore tv russo. A creare polemica è stata soprattutto l'intervista alla portavoce del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, Maria Zakharova che non solo ha difeso la posizione del Cremlino, attaccando l'Europa e i giornalisti italiani, ma ha anche accusato Giletti di fare ragionamenti infantili, di fronte al suo tentativo di favorire un negoziato.

La situazione ha fatto infuriare il direttore di Libero, che domenica scorsa era ospite della trasmissione di Giletti. "Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo - ha detto Sallusti a Giletti -. Mi trovo davanti a un asservimento totale di fronte alla peggiore propaganda che ci possa essere. Il Cremlino è un palazzo di mer**, lì il comunismo ha fatto i più grossi crimini". E ancora: "Rinuncio al compenso pattuito ma non ci sto a fare la foglia di fico a quei due cog**oni che hai lì di fianco, me ne vado".

Dagospia il 10 Giugno 2022.DA R101

Nel programma radiofonico che ogni giorno conduce insieme a Carlotta Quadri – dal titolo “Facciamo finta che” – Maurizio Costanzo, nell’ambito di un discorso con il professor Raffaele Morelli a proposito dell’ io sociale, ha commentato con poche parole la vicenda di Massimo Giletti in Russia.

All’analisi di Raffaele Morelli “Perché un bravo giornalista per cercare l'audience deve entrare in rapporto con gente così banale, così distruttiva che lo insulta anche?”, Costanzo ha ribattuto “Perché va a rompere le balle al Cremlino. Stesse in uno studio di Roma oppure vai a fare l’inviato con scritto Press e combatti in Ucraina. Quelli lì chi li ha invitati? Li avrà invitati Giletti e la sua redazione, qualcuno li ha chiamati”.

A proposito del malore di Giletti, Morelli: “Io vedo il suo malessere come una ferita che lui ha sentito, ha sentito di essere nel posto sbagliato. Credo che abbia sentito una ferita perché ha visto veramente come è stato trattato”.

Costanzo: “Una cosa psicologica, la penso anche io così”.

Non è l'Arena, Massimo Giletti avvelenato? "A Mosca era da solo...", il sospetto di Myrta Merlino. Gianluca Veneziani Libero Quotidiano l'8 giugno 2022

Myrta Merlino è la persona più autorizzata a commentare quanto accaduto due giorni fa a Non è l'Arena: era ospite in studio a Roma, mentre Giletti era in diretta da Mosca; ed è stata lei la prima ad accorgersi del malore del conduttore e la prima a prendere le distanze dalle parole pronunciate dalla portavoce di Lavrov, Maria Zakharova, nell'intervista.

Merlino, perché ha accettato di essere ospite del programma, nonostante sapesse dell'intervista?

«C'è un elemento di squadra. Sono un volto di rete. Se c'è una puntata complicata con un collega nonché amico che conduce da Mosca e mi viene chiesto da lui, dal direttore di rete e dall'azienda di partecipare, do una mano. Sapevo che avermi in studio sarebbe stato per tutti una garanzia in più».

L'intervista alla Zakharova si poteva evitare?

«Penso che sentire che voci che non ci piacciono sia un pezzo del nostro mestiere. Deve essere un imperativo categorico per noi dare voce a tutti ed essere strumenti affinché gli spettatori si facciano con la loro testa l'idea di quanto sta accadendo. Per questo ero interessata a ciò che avrebbe detto una donna così potente in Russia: volevo capire quale visione del mondo avesse e quali spiegazioni avrebbe dato sulla guerra».

Ma non c'era da aspettarsi che avrebbe dato solo fiato alla propaganda russa?

«In realtà mi ha molto deluso che abbia eluso le domande, non rispondendo nel merito. Pensavo che avrebbe parlato della guerra cominciata con l'invasione della Russia del 24 febbraio. Invece ha parlato solo di ciò che è accaduto prima, della guerra in Donbass nel 2014, di Serbia, Siria. E poi l'ha buttata in caciara, riempiendoci di insulti, e accusando Giletti di essere un bambino. È stata solo un'attività di propaganda violenta. Ieri ho avuto la conferma che lo sforzo di avere un dialogo con persone del Cremlino è inutile».

Non accetterebbe, quindi, più di essere ospite in una puntata in cui è intervistato anche un esponente del governo russo?

«Sì, non ho alcuna voglia di rincontrare la Zakharova. E, in generale, credo non valga la pena parlare con una voce dell'esecutivo di Mosca se questi sono i presupposti, e cioè se non c'è alcuna volontà di capirsi e si negano alle radici le cause di questa guerra».

Il direttore Sallusti ha lasciato il programma definendo l'intervista «un asservimento totale alla peggiore propaganda».

«Io rispetto molto Sallusti, non ha i paraocchi. Ma mi spiace che abbia abbandonato la puntata. Il semplice fatto che fossero ospiti persone libere come lui o Fiano dovevano rassicurarlo che non ci saremmo asserviti alle parole della Zakharova».

Almeno la puntata ha avuto un merito, cioè mostrare a che punto possa arrivare l'aggressività comunicativa russa?

«Credo che abbia messo in luce i trucchi retorici, le furbizie e l'arroganza dei portavoce della propaganda russa. E, solo se conosciamo cosa sia la propaganda di Mosca, possiamo sviluppare gli anticorpi per reagire».

Come giudica il modo in cui Giletti ha condotto l'intervista?

«Non sono abituata a dare patenti sull'operato dei colleghi. Credo semmai che Giletti sia stato fin troppo educato di fronte all'aggressività sgradevole della Zakharova, però le domande le ha fatte tutte».

Nei talk non dovremmo però dare più spazio ai dissidenti russi?

«Dobbiamo dare spazio a tutte le voci. Io a L'aria che tira ho invitato due giornalisti della Novaja Gazeta, oppositori di Putin, e un russo che lavora col Santo Padre per portare il messaggio di pace in Russia. L'importante per noi è verificare sempre e rifiutarsi di prendere per buone a cose che sono il ribaltamento della realtà».

Il Corriere ha pubblicato un elenco di filo-putiniani, sulla base di un'indagine conoscitiva del Copasir (che però ha negato di aver fornito l'elenco). Sono liste di proscrizione?

«Non mi è piaciuto quando il Copasir ha messo bocca nella composizione degli ospiti dei talk show. L'ho considerata un'ingerenza ridicola Dopodiché il Corriere in questo caso ha avuto una notizia: che doveva fare, non pubblicarla?».

Ha sentito Giletti dopo la puntata? Come sta?

«Fortunatamente si è già ripreso. Quando ho visto Massimo svenire, ho avuto la sensazione che le due persone accanto a lui non lo sorreggessero. Non dico che ho pensato che fosse stato avvelenato, ma non si sa mai, era in Russia, da solo...». 

Da adnkronos.com il 6 giugno 2022. 

"Ho l'impressione che lei sia arrivato una settimana fa sulla Terra". Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri della Russia, si rivolge così a Massimo Giletti nella lunghissima intervista sulla guerra con l'Ucraina durante 'Non è l'arena', trasmissione di La7 in onda eccezionalmente da Mosca.

"L'Italia, il suo paese che è membro della Nato, è entrata sul territorio dell'Iraq ed è entrata a Baghdad distruggendo e uccidendo. Mi sta raccontando che non si può entrare con le armi sul territorio degli altri paesi?", dice Zakharova in un passaggio. 

"Ho detto più volte che l'Occidente ha commesso errori e per questo sono stato criticato. Le chiedo di uscire da discorsi storici, siamo nel 2022: ho visto una guerra fatta di stupri, omicidi, bambini ammazzati. Lei che ha una storia importante nella diplomazia deve fare in modo che la parola conti. Non si può continuare a fare la guerra. Io conosco la storia, non vengo da Marte", dice Giletti.

"Siete voi che non vi voltate indietro e non guardate la vostra storia -replica Zakharova-. Senza riconoscere i propri errori del passato non si può parlare del futuro. Vi chiedo di analizzare tutti i passi intrapresi dall'Occidente: l'unica cosa che vogliono ottenere gli Stati Uniti è l'isolamento e la distruzione della Russia. Non capite che con l'interruzione dei rapporti tra Russia e Europa", gli Stati Uniti "creano un danno a voi. Quando lo capirete?". 

Da liberoquotidiano.it il 6 giugno 2022.

Non si placa la polemica sulla conduzione di Non è l'Arena da Mosca. Massimo Giletti ha presentato la puntata di domenica 5 giugno direttamente dalla Piazza Rossa, scatenando la bufera. A lanciare una frecciata prima dell'arrivo di Giletti, Concita De Gregorio. La conduttrice di In Onda in tandem con David Parenzo ha introdotto la trasmissione e lo ha fatto con parole assolutamente taglienti.

Parenzo ha infatti dato la linea a Non è l’Arena: "Subito dopo di noi c’è una puntata evento di Massimo Giletti. Eccezionalmente trasmette in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca. Quindi un grande evento televisivo". A intervenire la De Gregorio che lo ha interrotto: "Come naturale corollario di tutto quello che abbiamo detto finora".

Una vera e propria stoccata, visto che poco prima si parlava dell'indagine del Copasir sulla rete italiana vicina a Vladimir Putin. Lo stesso Parenzo ha notato la battuta al vetriolo, tanto da costringerlo a smentire: "Beh no, anzi è un bel colpo giornalistico trasmettere da Mosca". Insomma, Non è l'Arena in Russia non ha sollevato parecchio clamore solo fuori dalla rete, visto che su La7, tra colleghi, è andato in onda di molto peggio. La reazione di Giletti? Nessuna: il giornalista, anche di fronte agli ospiti più critici, ha difeso la sua scelta. 

Luca Bottura per “la Stampa” il 7 giugno 2022.

In una nota molto amichevole, l'ambasciata russa ringrazia Massimo Giletti per essere stato ospite, l'altra sera su La7, della trasmissione condotta da Maria Zakharova.

Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 7 giugno 2022.  

«Senza promozione succede qualcosa di terribile: niente!». Questa massima di P.T.

Barnum deve proprio essere una delle stelle polari di Massimo Giletti, mattatore senza pari di un modo di fare tv che non va tanto per il sottile. 

Difatti, preceduta da un intenso battage promozionale, l'ultima puntata stagionale di Non è l'Arena è andata in onda da Mosca. Dopo le polemiche su quella in collegamento da Odessa, sarebbe stato opportuno un sovrappiù di cautela; e, peraltro, da nessuna parte tranne che da noi si sente l'esigenza di una specie di par condicio tra gli invasori russi e gli aggrediti ucraini, ma tant' è. E, così, è stata apparecchiata una serata di quelle da far leccare i baffi a rossobruni e putitaliani (e, più in generale, al vasto popolo nazionale dei «Putin-comprensivi»). 

Anche perché, come noto, dai vaccini alla politica interna, a Giletti interessano assai le cosiddette «verità alternative», in un mix di spirito antisistema, (malinteso) pluralismo e instancabile inseguimento di tutto quello che può far impennare l'audience. Al prezzo di farsi (spesso) prendere la mano dal sensazionalismo e dalla ricerca ossessiva dello scoop, appunto come ieri, con il risultato di averci fatto assistere a una trasmissione che, decisamente, «Non è stata un'Arena», ma un Circo Barnum all'ennesima potenza. Una pagina di televisione che resterà agli annali per l'autentica insurrezione sollevata in quei settori dell'opinione pubblica che vorrebbero informazione documentata anziché uno zibaldone, variamente miscelato, di disinformazione-disordine informativo-spettacolarizzazione sfrenata.

E che verrà ricordata per "effetti collaterali" come l'indignazione di un insorgente Alessandro Sallusti che, disgustato dalle continue finestre di opportunità regalate alla peggiore propaganda del Cremlino, se n'è andato in diretta, diventando repentinamente l'idolo (pure a sinistra) di tutti coloro che hanno a cuore la libertà e sono sgomenti di fronte alla brutalità russa. 

A farlo (giustamente) sbottare è stato il lunghissimo soliloquio di Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov e teorica delle fake news come strumento di governo, collegata - chissà perché - via Skype, che si è prodotta nel consueto repertorio di falsità, improperi e minacce contro le democrazie occidentali.E, non paga dell'allucinante quasi monologo di un'ora, si è messa pure a insolentire il malcapitato (a Mosca) Giletti, affiancata - perché gli agit-prop del putinismo sono come le ciliege per certi programmi televisivi, una tira l'altra - dal «megafono dello zar» Vladimir Solovyev (e, sorta di "ufficiale di complemento", dal «politologo ucraino» duramente anti-Zelensky Vasilj Vakarov).

Insomma, la missione pacifista - che qualcuno, magari, con una punta di sarcasmo, ribattezzerebbe "pacifinta" - si è risolta in una Caporetto mediatica. Con tanto di mancamento, dal quale, per fortuna, il conduttore si è ripreso, anche se è stato comprensibilmente costretto a spostarsi dalla Piazza Rossa a una location al coperto. Di sicuro, un lenitivo all'accaduto sarà per lui il tweet solidale di Matteo Salvini (che avrebbe gradito molto farlo eleggere sindaco di Roma), a cui è unito da una visione politica incline (diciamo...) al populismo. Insomma, Giletti è andato nella tana dell'orso per suonare lo spartito del dialogo, ma è ritornato suonato dai putiniani. E, dunque, ci sarebbe tanta materia per riflettere...

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 7 giugno 2022.  

Era facile profetizzare che sarebbe stata una pagliacciata acchiappa- audience, la missione moscovita di Massimo Giletti. Ma che la trasferta russa di "Non è l'Arena" si trasformasse in una débâcle giornalistica di dimensioni planetarie, onestamente non l'aveva previsto nessuno. 

E ora è impossibile non provare tenerezza per il povero Giletti, baldanzosamente partito per Mosca con l'aria di uno che non ha paura di andare nella tana del lupo con la francescana speranza che le parole dolci di un seduttore televisivo avrebbero convinto la furbissima portavoce di Lavrov a rivelargli la segreta via per la pace, e poi infilzato come un pupazzo dalla feroce bionda del Cremlino. 

Perché purtroppo quello che doveva essere il pezzo forte della puntatona moscovita, l'intervista di quasi un'ora a Maria Zakharova, è diventato con impressionante progressione una scena sadomaso in cui l'intervistata si divertiva a schiaffeggiare l'intervistator cortese venuto da lontano. Lui la definiva, con tono ammirato, «la donna che ha rivoluzionato il modo di comunicare », la presentava come «una delle figure più importanti del sistema politico russo», e lei lo liquidava sprezzante: «Lei semplifica troppo: i bambini parlano così». 

Lui si cospargeva il capo di cenere, chiedendo perdono per l'Italia, per l'Europa e per l'Occidente tutto («Anche noi siamo ipocriti», «Non abbiamo voluto vedere», «Abbiamo sicuramente le nostre colpe») e lei lo ripagava con il sarcasmo: «Lei parla come se fosse arrivato una settimana fa sul pianeta Terra». E più lui insisteva a cercare di prenderla con le buone («Lei ha ragione», «Faremo il mea culpa», «Io non le sto dando torto»), più lei calcava la punta del tacco sulla sua schiena: «Quello che dice mi fa ridere», «La sua frase dimostra che lei non ha capito nulla del Donbass », «Dovete vergognarvi».

Il malcapitato è andato avanti per quasi un'ora, come se quella stesse perculando un altro, senza purtroppo riuscire a strapparle non diciamo una notizia ma una sola parola sui massacri di Bucha e di Mariupol. Per fortuna sono arrivati i due interventi dallo studio italiano. Quello di Myrta Merlino, che ha avvertito i telespettatori che avevano appena assistito «all'opera di una perfetta esponente della propaganda russa, che è stata capace di tirare in ballo perfino Johnny Depp senza mai rispondere a una sola domanda». E quello - da applausi - di Alessandro Sallusti, che accortosi di essere davanti a «un asservimento totale alla peggiore propaganda», s' è alzato e se n'è andato «per non fare la foglia di fico in questa sceneggiata ».

Due mazzate - meritatissime - alla trasmissione che hanno fatto passare in secondo piano persino lo svenimento in diretta del conduttore in trasferta («Oddio Massimo! »), poi liquidato come «un mancamento dovuto al calo degli zuccheri » dall'interessato, rientrato in studio per completare l'opera intervistando il più putiniano dei conduttori russi, Vladimir Solovyev, e un politologo ucraino nel ruolo dell'altra campana. Dopo tre ore abbondanti, la sigla finale lasciava in piedi solo una domanda: si poteva fare peggio? No, non si poteva.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 7 giugno 2022.

Che ci sia un problema di permeabilità alla propaganda russa, è sotto gli occhi di tutti. Dice un membro del Copasir, lo speciale comitato parlamentare di controllo sulla sicurezza, che preferisce non essere citato: «Scusate, ma c'era bisogno dei servizi segreti o del Copasir per sapere quello che viene trasmesso in televisione stasera?».

E basta scorrere i social per vedere con quanta foga una schiera di soggetti, spesso anonimi, si scaglia nella pugna quotidiana. «Guarda caso - dice ancora il parlamentare - sono gli stessi che si erano fatti portavoce di bufale sul Covid e sui vaccini, ora in prima linea sulla guerra. Sempre a favore della Russia». 

Epperò l'indagine che il Copasir ha avviato sulla disinformazione che viene dal Cremlino, è cosa ben più seria dell'elenco di alcuni semisconosciuti blogger o influencer che fa capolino su alcuni giornali.

La rete dei simpatizzanti per Putin ovviamente c'è, ma il presidente del Comitato, il senatore Adolfo Urso, FdI, premesso di «aver ricevuto solo questa mattina (ieri, ndr) un report specifico che per quanto ci riguarda, come sempre, resta classificato», ci tiene a mantenere fuori il Copasir da eventuali operazioni opache: «Il Comitato auspica, soprattutto su questa vicenda, che vi sia sempre una corretta attribuzione e riconoscibilità delle fonti». E se ci fossero altre fughe di notizie, non si guardi a loro. L'aria si sta facendo caldissima, insomma. Il presidente Urso perciò insiste: «Mai condotto indagini su presunti influencer».

Nel mirino del Copasir ci sono le operazioni di Mosca, ben note alla Commissione europea, al Parlamento europeo, a Washington. Sono quelle che un altro membro del Comitato, Enrico Borghi, Pd, definisce la «cosiddetta dottrina Gerasimov sulla guerra ibrida. È questo che sta combattendo e cerca di disvelare il Parlamento: disinformazione, propaganda, fake news, tentativi di manipolazione dell'opinione pubblica in Italia e nelle democrazie liberali. Come quella vista nella trasmissione di Giletti, per dire. Ma senza liste di proscrizione: noi diremo come si muove Mosca, ognuno farà poi le sue scelte».

Questa è la linea condivisa dentro il Copasir. Dice Federica Dieni, M5S: «Noi siamo i primi a voler tutelare la libertà di informazione, ma per poterlo fare ci vuole informazione seria e non fatta da soggetti coartati in maniera più o meno lecita o consapevole». 

E anche Raffaele Volpi, Lega: «Il Comitato a non ha avuto, non ha visto né tantomeno redatto liste di nomi di influencer e opinionisti ascrivibili a vicinanze con la Russia». Il punto è che questa indagine ha portato il Copasir su un terreno pericoloso. Ci vuol poco a scivolare in un nuovo maccartismo. Gli ex grillini del gruppo Alt sono già lì strillare: «Metodo infame e pericoloso». Oppure l'ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris: «Non diventi strumento di criminalizzazione del dissenso».

Perfino Giuseppe Conte non si trattiene: «Indegno che si mettano immagini di alcune persone, estraendo opinioni che hanno espresso. Il nostro Paese è bello perché siamo in democrazia, teniamocela stretta». Insorge la Fnsi, perché, come dice il segretario Raffaele Lorusso, «un conto è se si fosse in possesso di prove inoppugnabili su giornalisti a libro paga o organici alla macchina della propaganda filorussa; ben diverso sarebbe se tali elenchi fossero stati compilati sulla base di opinioni che, per quanto considerate sgradite, sarebbero comunque legittime».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.

Se Massimo Giletti mi avesse chiesto un consiglio (la gente dà buoni consigli quando ecc. ecc .) gli avrei sconsigliato il viaggio in Russia. Per un motivo tecnico, innanzitutto. Prima, da Mosca, ha avuto un lungo colloquio con Massimo Cacciari (o con Mauro Corona?) che era in Calabria e poi ha tentato di instaurare un dialogo con Maria Zakharova, ma via Skype. Ovviamente, la portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov era a Mosca.

Se un'intervista, che già si preannunciava piena di insidie, è anche costellata dai fatidici «Lei mi sente? La vedo ma non la sento. Chiedo alla regia di», significa che forse non era il caso. Maria Zakharova, definita una grande esperta di comunicazione, non ha fatto altro che insultare Giletti, dall'inizio alla fine, mettendolo in grande difficoltà. Più il conduttore cercava di instaurare una discussione, più la portavoce usava il sarcasmo nei suoi confronti, senza vergogna. Soprattutto nei confronti dell'Italia. Come se Putin non avesse già da tempo avviato una campagna di disinformazione, soprattutto nel nostro Paese, considerato l'anello debole dell'Ue.

Poi Giletti ha avuto un mancamento, forse dovuto alla tensione nervosa, forse (come poi ha precisato lui) per un calo di zuccheri. Ad annunciarlo, dopo una improvvisa interruzione della trasmissione, è stata Myrta Merlino che era in studio a Roma e ha continuato a condurre il programma per alcuni minuti. 

Poi c'è stata l'uscita non prevista di Alessandro Sallusti che ha abbandonato la postazione: «Mi alzo e me ne vado, non farò la foglia di fico», ha concluso il giornalista dopo aver usato pesanti parole contro il Cremlino e un altro ospite seduto al fianco di Giletti, il conduttore russo Vladimir Solovev (altro campione della propaganda). Viaggio inutile: l'assurdità è che noi italiani dovremmo giustificarci con i russi, che stanno massacrando l'Ucraina, di vivere in un Paese democratico.

Non è l’Arena, è la regola. Il comizio della portavoce di Lavrov dimostra che l’appeasement è più pericoloso della fermezza. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 Giugno 2022.

Dobbiamo essere onesti: lo spettacolo andato in onda domenica non è molto diverso da quello che vediamo abitualmente nei talk show e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.

Per quanto possa apparire bizzarra un’intervista televisiva alla portavoce del ministero degli Esteri russo, via Skype, in cui a essere collegato dalla piazza Rossa è il conduttore italiano, dobbiamo essere onesti: non è che faccia una gran differenza con quello che vediamo abitualmente in tv e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.

Che differenza c’è, infatti, tra intervistare Maria Zakharova, via Skype, da Mosca, e intervistare Alessandro Orsini in studio a Roma, a parte il fatto che nel secondo caso si evitano problemi di connessione? Che differenza c’è tra l’ultima puntata di «Non è l’Arena» e l’ultima puntata di altri cento talk show abitualmente in onda su La7, Mediaset e Rai? Che differenza fa ascoltare le veline del Cremlino – sulla guerra che non sarebbe affatto cominciata il 24 febbraio, cioè con l’invasione russa, ma sarebbe in corso «da otto anni»; sulla «russofobia» dell’Occidente; sui «nazisti ucraini» – direttamente dalla portavoce ufficiale del ministero degli Esteri russo, anziché da giornalisti, generali e geopolitologi italiani?

Il problema non è quanto e come Massimo Giletti abbia saputo tenere testa a Zakharova (pochino, in verità), il problema è il gran numero di cose su cui Zakharova e Giletti erano proprio d’accordo, e con loro una larghissima parte dei giornalisti e degli opinionisti italiani.

Nel corso dell’intervista, infatti, il conduttore si è detto d’accordo su ognuno dei più controversi presupposti della posizione russa, dichiarando in sostanza che la sua interlocutrice aveva ragione su tutto, dagli accordi di Minsk non rispettati, solo dall’Ucraina, par di capire («Io non le sto dando torto, i patti di Minsk non sono stati rispettati, su questo le do ragione…»), alle persecuzioni subite dai russofoni nel Donbass (che quindi, implicitamente, pareva quasi che i russi avessero il diritto di invadere) e perfino sulle colpe e la cecità dell’Occidente, che non avrebbe voluto vedere le malefatte del regime ucraino (e qui almeno Giletti, bontà sua, ha avuto il buon gusto di aggiungere che in compenso non aveva voluto vedere nemmeno i massacri compiuti dai russi in Cecenia).

Concesso tutto questo, cioè quasi tutto, il conduttore si limitava dunque a pregare la sua interlocutrice di far parlare la diplomazia e spiegare al pubblico, ora che il Donbass era in larga parte conquistato, cos’altro volessero per far tacere le armi. Che è sostanzialmente la posizione di un bel pezzo non solo del giornalismo, ma anche della politica italiana (da Giuseppe Conte a Matteo Salvini, per citare solo i più espliciti), e che si può riassumere nel vecchio motto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci il passato. Basta che la guerra finisca subito e che noi si possa stare tranquilli, senza preoccupazioni, senza inflazione e possibilmente col condizionatore acceso. E se adesso pensate che stia esagerando, andate a rivedere l’intervista sul sito di La7 e ascoltate con le vostre orecchie quante volte Giletti ripete alla portavoce di Sergej Lavrov che ha ragione su quanto accaduto in passato, sui torti dell’Ucraina e sulle colpe dell’Occidente, ma che ora, insomma, bisogna guardare avanti («Oggi chi ha sbagliato ha sbagliato, ma non possiamo continuare a fare la guerra, date forza alla parola»).

Il bello, si fa per dire, è che davanti a una simile offerta, decisamente generosa, la reazione della portavoce russa è stata una sequela di offese all’indirizzo del conduttore, del quale non ha esitato a dire che ragionava come un bambino o come uno appena arrivato da Marte, mentre ribadiva che la Russia non aveva pianificato nessuna invasione, che era stata costretta a intervenire dai crimini del regime nazista di Kiev e che non si sarebbe fermata fino a quando non avesse portato a termine l’opera di denazificazione del paese. Altro che cessate il fuoco e trattative di pace.

Tra tanta reciproca comprensione per le dubbie ragioni di Mosca, ben poco è stato detto invece nell’intervista sulle migliaia di civili uccisi, stuprati e torturati (se si eccettua un riferimento volante a Bucha, peraltro nel mezzo di una frase raggelante come «se lei si vuol prendere il Donbass, che c’entra Kiev, che c’entra Bucha…»), sulle deportazioni, sui campi di concentramento – pardon, sui campi di «filtrazione» – o sulle tonnellate di grano rubate agli ucraini e rivendute all’estero sotto il ricatto della carestia, o sul fatto che otto anni fa, quando secondo Mosca sarebbe cominciata davvero la guerra, sono stati i russi a occupare e annettere militarmente la Crimea, cioè un pezzo dell’Ucraina, per poi cominciare a inviare soldati e agenti senza divisa a destabilizzare il Donbass, e da lì ricominciare lo stesso gioco. Che è esattamente quello che faranno domani con quel poco o tanto di Ucraina rimasto ancora libero, se i numerosi fautori dell’appeasement, non solo in Italia, riusciranno a raggiungere il loro obiettivo: riconoscere a Mosca tutto o quasi tutto quello che è riuscita a conquistarsi con la violenza, disarmare gli ucraini e siglare l’ennesimo finto accordo di pace, o di tregua, in attesa del prossimo attacco.

Sarebbe una vergogna. Ma il bello, si fa per dire, è che per Vladimir Putin non sarebbe nemmeno abbastanza, almeno a giudicare dal modo rabbioso e insultante con cui la portavoce del ministero degli Esteri russo ha reagito a un simile assist. A dimostrazione – una volta di più – di come non si possa ragionare con una tigre mentre si tiene la testa tra le sue fauci. Un’antica lezione che non avremmo dovuto dimenticare.

Bufera contro Massimo Giletti: “Colleghi in rivolta”. Alice Coppa il 07/06/2022 su Notizie.it.

Dopo la diretta a shock a Non è l'Arena sarebbe scoppiata una vera e propria bufera a La7 contro Massimo Giletti. 

Secondo indiscrezioni il clima a La7 sarebbe alquanto teso contro il conduttore Massimo Giletti, e molti non avrebbero gradito quanto accaduto nella sua ultima diretta a Non è l’Arena.

Massimo Giletti: La7 in rivolta

Secondo alcuni rumor riportati da Dagospia l’ultima diretta di Non è l’Arena avrebbe suscitato un clima alquanto teso all’interno della rete di Urbano Cairo e per questo è possibile che per il programma tv di Giletti ci siano problemi in futuro.

In molti non hanno gradito in particolare lo scontro avuto dal conduttore e Sallusti, che prima di lasciare lo studio lo ha accusato di “asservimento totale alla peggiore propaganda che ci possa essere” durante l’intervista del portavoce del ministro degli esteri russo Lavrov. Poco dopo Giletti è svenuto, e per alcuni istanti la conduttrice Myrta Merlino si è visibilmente spaventata. A seguire il conduttore è riapparso affermando di aver avuto un semplice calo di zuccheri.

Secondo Dagospia anche i colleghi del conduttore non avrebbero gradito quanto accaduto durante la puntata. La vicenda avrà conseguenze per Massimo Giletti e il suo programma tv?

Polemiche social contro Giletti

Le polemiche contro il conduttore ovviamente hanno preso piede anche sul web e in molti lo hanno accusato di “fare il gioco dei russi”. Chi invece ha mostrato solidarietà a Giletti è stato Matteo Salvini, che attraverso un twett ha scritto: “Un affettuoso abbraccio a Massimo Giletti, giornalista e uomo libero”.

La vicenda avrà ulteriori sviluppi? In tanti tra i telespettatori sono impazienti di saperne di più e le polemiche non sembrano placarsi. 

TUTTI I TWEET SULL’IMBARAZZANTE PUNTATA DI “NON È L’ARENA” IN DIRETTA DA MOSCA!

DAGOSELEZIONE il 6 giugno 2022.

LALLERO@see_lallero

Prima la tensione con Alessandro Sallusti, poi il panico per un improvviso malore per Giletti: puntata di #nonelarena tra polemiche e momenti di apprensione. 

Selvaggia Lucarelli@stanzaselvaggia

L’inviato di guerra Massimo Giletti, in diretta lontano 1000 km dalla prima trincea, ha un calo di zuccheri come una sposina all’altare.

Michele D'Alterio@MikeleDalterio

Giletti come me quando l’interrogazione prendeva una brutta piega

Giuseppe Candela@GiusCandela

Puntata pessima. Senza se e senza ma. E senza scusanti. #nonelarena 

Caciottaro@Caustica_mente

“Se ci troviamo qui a Mosca vuol dire che libertà c’è in Russia” esordisce così la propaganda russa direttamente da Mosca #Nonelarena

Yoda@PoliticaPerJedi

Giletti è quel tipo di giornalista che per raccontare l’invasione dell’Ucraina non va in Ucraina ma in Russia. 

ApocaFede@DrApocalypse

#Giletti è riuscito a trovare l’unico politologo ucraino filorusso che vive a Mosca. Fenomeno #NonelArena 

Gabriele Parpiglia@Parpiglia

#livenonelarena ormai la trasformazione è completata . Ma arrivati a questo punto preferivo l ‘originale. Almeno mi divertivo e non sputtanavo argomenti seri 

Gabriele Parpiglia@Parpiglia

Onestamente a #Nonelarena anzi a #livenonelarena stasera avrebbe potuto dire la sua anche #federicofashionstyle 

ApocaFede@DrApocalypse

mi chiedo come Enrico Mentana possa serenamente continuare ad essere il volto giornalistico di una rete in cui ogni domenica va in onda Giletti con programma impresentabile come #NonelArena

Mario Manca@MarioManca

Mi piacerebbe tanto sapere cosa pensa Lilli Gruber sul condividere lo stesso canale con un uomo che, pur di spettacolarizzare la guerra, si è impuntato sul condurre una puntata di un talk dalla Piazza Rossa. #Giletti 

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Il pattume televisivo che propone Giletti - ancor prima di fare un pessimo servizio di informazione - è un problema per l’editore e per la testata giornalistica. #NonelArena mina la credibilità di ore ed ore di prodotti di daytime realizzate dalla redazione del #TgLa7. #AscoltiTv 

Claudio Cerasa@claudiocerasa

Il problema però è anche chi si stupisce che Giletti faccia il Giletti #mancavasoloilbracciodisilicone

Lorenzo Pregliasco@lorepregliasco

Giletti dice a Zakharova che i media italiani sono gli unici a far parlare i propagandisti di Putin. Come se fosse una cosa di cui vantarsi. Spengo e mi metto a leggere un libro: fatelo anche voi

Giovanni Rodriquez@GiovaQuez

Intervista di #Giletti in sintesi.

Giletti: "Perché non volete la pace?"

Zakharova: "Perché siete delle merde"

Giletti: "Non le do torto, ma possiamo fare pace?"

Zakharova: "No, siete delle merde"

Giletti: "Ha ragione ma facciamo pace?"

Zakharova: "Siete delle merde"

#NonelArena 

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Tra l’altro la tizia del governo di #Putin sta tirando degli schiaffoni (verbali) fortissimi a Giletti dandogli sostanzialmente dell’incompetente. Il fastidio per quello che #NonelArena rappresenta è parzialmente compensato da questa umiliazione di G. nel suo stesso programma.  

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86 

Massimo Galanto@GalantoMassimo

"Il Cremlino è un palazzo di merda. Massimo, dovresti avere il coraggio di dirlo ai tuoi interlocutori lì, sono due coglioni. Non voglio più partecipare a questa sceneggiata, rinuncio al compenso pattuito e me ne vado".

Sallusti choc a #NonelArena 

Dietro la politica@dietrolapolitic

#Sallusti ha praticamente dato a #Giletti del tappetino e a #Cacciari dell'utile idiota e della cretina a #Zakharona e dei coglioni agli altri ospiti di #NonelArena Poi se ne è andato. Un gigante. 

nonleggerlo@nonleggerlo

Momenti drammatici a #nonelarena, quando si è scoperto che La7 paga un gettone di presenza a Sallusti. 

Luca Bottura@bravimabasta

Sallusti a Giletti: "Aiutami a dire che hai fatto una figura di melma senza dirti che hai fatto una figura di melma". #NonelArena 

Luca Bottura@bravimabasta

Merlino a Giletti: "Aiutami a dire che hai fatto un'intervista del menga senza dirti che hai fatto un'intervista del menga". #NonelArena 

nonleggerlo@nonleggerlo

Myrta Merlino: “Massimo ha avuto un mancamento, siamo tutti umani, può succedere. Stiamo cercando di capire. Spero si ricolleghi presto con noi. Ora rimettiamo i piedi nella realtà… questa signora ci ha portati in una realtà parallela" (Myrta in autogestione) #nonelarena

ApocaFede@DrApocalypse

 “Massimo ha avuto un malore al termine di una puntata complicata”. Voluta, pensata, insensatamente realizzata, cavalcata, senza pudore alcuno. “Complicata” per volontà di editore e conduttore #nonelarena #giletti

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Al netto del momento drama del malore di Giletti, il giudizio sulla puntata di #Nonelarena è ignobile. Trasferta inutile a fini giornalistici ma necessaria solo per solleticare l’ego del conduttore, solita propaganda filo Russa in nome di un pluralismo che è solo foglia di fico.

Luca Dondi@lucadondi94

La cosa che trovo più squallida, vomitevole e da radiazione dall’albo sono le risate che Giletti fa con i suoi ospiti rappresentanti della propaganda. Risate e sorrisi mentre si perdono vite e si sparge sangue. Una pagina raccapricciante del giornalismo italiano. #nonelarena 

Caciottaro@Caustica_mente

#Giletti in diretta dalla piazza Rossa di Mosca è il punto più basso del giornalismo televisivo #NonèLArena 

Il Grande Flagello@grande_flagello

Giletti vola fino a Mosca per avere la Piazza Rossa sullo sfondo. Bastava un po' di green screen. #NonelArena

Gabriele Parpiglia@Parpiglia

MARIA ZAKHAROVA 1

#giletti a #mosca per fare interviste via #skype l’evoluzione del non giornalismo. Alla fine il titolo era ‘ #giletti va a #mosca ‘ . Il resto… paga #Cairo contento lui 

Giuseppe Candela@GiusCandela

Giletti da Mosca intervista Cacciari in collegamento dalla Calabria. #NonelArena 

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Cairo che taglia il tagliabile dovrebbe chiedersi l’utilità di mandare Giletti a Mosca che intervista Cacciari in Calabria e una tizia russa che sta in Russia ma collegata su Skype e tutto questo accendendo a Roma uno studio di 700 mq che rimane vuoto #NonelArena #La7

Marco Ferraglioni@MFerraglioni

Mi chiedo perché #MassimoGiletti sia andato a #Mosca per intervistare via #Skype la portavoce del Ministro degli Esteri #Lavrov, ha i soldi da buttare #UrbanoCairo?? Intervista che poteva essere fatta anche da #Roma in remoto #NonelArena

Massimo Falcioni@falcions85

Una diretta così la puoi fare pure col chroma key da casa. Trasferta oggettivamente inutile. Santoro a Belgrado si collegò da un ponte, con la popolazione inferocita. Qui siamo passati dal bunker coi sacchi alla piazza Rossa. Utile a malapena per qualche polemica. Resa? Zero.

nonleggerlo@nonleggerlo

Grandi momenti di televisione, Giletti è live da Mosca e non riesce a collegarsi con gli ospiti da Mosca. “So che possiamo andare in pubblicità, ma vorrei risolvere: per ora vi offro la bellezza del Cremlino” #nonelarena

nonleggerlo@nonleggerlo

Massimo Giletti live da Mosca: “Mi date a schermo pieno il Cremlino, qui dietro alle mie spalle… Cacciari, che impressione le dà vedere il Cremlino?” “L’ho visto altre volte… è la grande Russia” #nonelarena

Luca Bottura@bravimabasta

Solovyev spiega che i giornalisti russi sono dotati di senso dell'umorismo. Anna Politkovskaja probabilmente l'hanno ammazzata per quello: non capiva le battute. #giletti #nonelarena

marco taradash@mrctrdsh

Giletti: “stupri omicidi bambini ammazzati sia da una parte che dall’altra”. Ma che figura meschina. 

jean- jacques r@janavel7

E c'è andato fino a Mosca per fare quella figura di merda giornalistica? #Giletti

Davide Aldieri@Lazzaro1969

Alla fine a Mosca abbiamo mandato il generico di Salvini: Giletti. #NonelArena

@nonelarena 

Luca Bottura@bravimabasta

C'è di buono per i russi che se vedono 'sta roba a Washington, ci cacciano dalla Nato entro 15" #giletti #nonelarena 

Il Grande Flagello@grande_flagello

Giletti in chiusura dissente da Sallusti: "il Cremlino non è un palazzo di merda perchè è bello dal punto di vista artistico" Sipario #NonelArena

Francesco Canino@fraversion

nonostante il battage per il live di Giletti da Mosca, Non è l’Arena ha registrato ieri 888 mila spettatori con il 7.1%. Cifre che ha toccato altre volte e con una concorrenza molto più forte di quella di ieri. #NonelArena #AscoltiTv

Non è l’Arena, è la regola. Il comizio della portavoce di Lavrov dimostra che l’appeasement è più pericoloso della fermezza. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 Giugno 2022.

Dobbiamo essere onesti: lo spettacolo andato in onda domenica non è molto diverso da quello che vediamo abitualmente nei talk show e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.  

Per quanto possa apparire bizzarra un’intervista televisiva alla portavoce del ministero degli Esteri russo, via Skype, in cui a essere collegato dalla piazza Rossa è il conduttore italiano, dobbiamo essere onesti: non è che faccia una gran differenza con quello che vediamo abitualmente in tv e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.

Che differenza c’è, infatti, tra intervistare Maria Zakharova, via Skype, da Mosca, e intervistare Alessandro Orsini in studio a Roma, a parte il fatto che nel secondo caso si evitano problemi di connessione? Che differenza c’è tra l’ultima puntata di «Non è l’Arena» e l’ultima puntata di altri cento talk show abitualmente in onda su La7, Mediaset e Rai? Che differenza fa ascoltare le veline del Cremlino – sulla guerra che non sarebbe affatto cominciata il 24 febbraio, cioè con l’invasione russa, ma sarebbe in corso «da otto anni»; sulla «russofobia» dell’Occidente; sui «nazisti ucraini» – direttamente dalla portavoce ufficiale del ministero degli Esteri russo, anziché da giornalisti, generali e geopolitologi italiani?

Il problema non è quanto e come Massimo Giletti abbia saputo tenere testa a Zakharova (pochino, in verità), il problema è il gran numero di cose su cui Zakharova e Giletti erano proprio d’accordo, e con loro una larghissima parte dei giornalisti e degli opinionisti italiani.

Nel corso dell’intervista, infatti, il conduttore si è detto d’accordo su ognuno dei più controversi presupposti della posizione russa, dichiarando in sostanza che la sua interlocutrice aveva ragione su tutto, dagli accordi di Minsk non rispettati, solo dall’Ucraina, par di capire («Io non le sto dando torto, i patti di Minsk non sono stati rispettati, su questo le do ragione…»), alle persecuzioni subite dai russofoni nel Donbass (che quindi, implicitamente, pareva quasi che i russi avessero il diritto di invadere) e perfino sulle colpe e la cecità dell’Occidente, che non avrebbe voluto vedere le malefatte del regime ucraino (e qui almeno Giletti, bontà sua, ha avuto il buon gusto di aggiungere che in compenso non aveva voluto vedere nemmeno i massacri compiuti dai russi in Cecenia).

Concesso tutto questo, cioè quasi tutto, il conduttore si limitava dunque a pregare la sua interlocutrice di far parlare la diplomazia e spiegare al pubblico, ora che il Donbass era in larga parte conquistato, cos’altro volessero per far tacere le armi. Che è sostanzialmente la posizione di un bel pezzo non solo del giornalismo, ma anche della politica italiana (da Giuseppe Conte a Matteo Salvini, per citare solo i più espliciti), e che si può riassumere nel vecchio motto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci il passato. Basta che la guerra finisca subito e che noi si possa stare tranquilli, senza preoccupazioni, senza inflazione e possibilmente col condizionatore acceso. E se adesso pensate che stia esagerando, andate a rivedere l’intervista sul sito di La7 e ascoltate con le vostre orecchie quante volte Giletti ripete alla portavoce di Sergej Lavrov che ha ragione su quanto accaduto in passato, sui torti dell’Ucraina e sulle colpe dell’Occidente, ma che ora, insomma, bisogna guardare avanti («Oggi chi ha sbagliato ha sbagliato, ma non possiamo continuare a fare la guerra, date forza alla parola»).

Il bello, si fa per dire, è che davanti a una simile offerta, decisamente generosa, la reazione della portavoce russa è stata una sequela di offese all’indirizzo del conduttore, del quale non ha esitato a dire che ragionava come un bambino o come uno appena arrivato da Marte, mentre ribadiva che la Russia non aveva pianificato nessuna invasione, che era stata costretta a intervenire dai crimini del regime nazista di Kiev e che non si sarebbe fermata fino a quando non avesse portato a termine l’opera di denazificazione del paese. Altro che cessate il fuoco e trattative di pace.

Tra tanta reciproca comprensione per le dubbie ragioni di Mosca, ben poco è stato detto invece nell’intervista sulle migliaia di civili uccisi, stuprati e torturati (se si eccettua un riferimento volante a Bucha, peraltro nel mezzo di una frase raggelante come «se lei si vuol prendere il Donbass, che c’entra Kiev, che c’entra Bucha…»), sulle deportazioni, sui campi di concentramento – pardon, sui campi di «filtrazione» – o sulle tonnellate di grano rubate agli ucraini e rivendute all’estero sotto il ricatto della carestia, o sul fatto che otto anni fa, quando secondo Mosca sarebbe cominciata davvero la guerra, sono stati i russi a occupare e annettere militarmente la Crimea, cioè un pezzo dell’Ucraina, per poi cominciare a inviare soldati e agenti senza divisa a destabilizzare il Donbass, e da lì ricominciare lo stesso gioco. Che è esattamente quello che faranno domani con quel poco o tanto di Ucraina rimasto ancora libero, se i numerosi fautori dell’appeasement, non solo in Italia, riusciranno a raggiungere il loro obiettivo: riconoscere a Mosca tutto o quasi tutto quello che è riuscita a conquistarsi con la violenza, disarmare gli ucraini e siglare l’ennesimo finto accordo di pace, o di tregua, in attesa del prossimo attacco.

Sarebbe una vergogna. Ma il bello, si fa per dire, è che per Vladimir Putin non sarebbe nemmeno abbastanza, almeno a giudicare dal modo rabbioso e insultante con cui la portavoce del ministero degli Esteri russo ha reagito a un simile assist. A dimostrazione – una volta di più – di come non si possa ragionare con una tigre mentre si tiene la testa tra le sue fauci. Un’antica lezione che non avremmo dovuto dimenticare.

Gli insulti di Zakharova a Giletti e le lezioni di democrazia. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.  

Più il conduttore cercava di instaurare una discussione, più la portavoce usava il sarcasmo nei suoi confronti, senza vergogna. Soprattutto nei confronti dell’Italia. 

Se Massimo Giletti mi avesse chiesto un consiglio (la gente dà buoni consigli quando ecc ecc) gli avrei sconsigliato il viaggio in Russia. Per un motivo tecnico, innanzitutto. Prima, da Mosca, ha avuto un lungo colloquio con Massimo Cacciari (o con Mauro Corona?) che era in Calabria e poi ha tentato di instaurare un dialogo con Maria Zakharova, ma via Skype. Ovviamente, la portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov era a Mosca. Se un’intervista, che già si preannunciava piena di insidie, è anche costellata dai fatidici «Lei mi sente? La vedo ma non la sento. Chiedo alla regia di…», significa che forse non era il caso. Maria Zakharova, definita una grande esperta di comunicazione, non ha fatto altro che insultare Giletti, dall’inizio alla fine, mettendolo in grande difficoltà. Più il conduttore cercava di instaurare una discussione, più la portavoce usava il sarcasmo nei suoi confronti, senza vergogna. Soprattutto nei confronti dell’Italia. Come se Putin non avesse già da tempo avviato una campagna di disinformazione, soprattutto nel nostro paese, considerato l’anello debole dell’UE.

Poi Giletti ha avuto un mancamento, forse dovuto alla tensione nervosa, forse (come poi ha precisato lui) per un calo di zuccheri. Ad annunciarlo, dopo una improvvisa interruzione della trasmissione, è stata Myrta Merlino che era in studio a Roma e ha continuato a condurre il programma per alcuni minuti. Poi c’è stata l’uscita non prevista di Alessandro Sallusti che ha abbandonato la postazione: «Mi alzo e me ne vado, non farò la foglia di fico», ha concluso il giornalista dopo aver usato pesanti parole contro il Cremlino e un altro ospite seduto al fianco di Giletti, il conduttore russo Vladimir Solovev (altro campione della propaganda). Viaggio inutile: l’assurdità è che noi italiani dovremmo giustificarci con i russi, che stanno massacrando l’Ucraina, di vivere in un paese democratico.

Nota ufficiale di La7 il 23 marzo 2022. 

Massimo Giletti ha condotto per La7 una puntata straordinaria da Odessa in un contesto difficile. Lui, videomaker, operatori e tecnici hanno lavorato al meglio e in una situazione di grande rischio per offrire al pubblico un racconto inedito e originale.

Le critiche che ha ricevuto sono del tutto ingenerose, l’oggettività di quanto è stato fatto è un dato incontrovertibile che il pubblico ha riconosciuto e apprezzato.

R.d'A. per “Avvenire” il 7 giugno 2022.

Un nuovo fronte polemico si aggiunge a quello sulle liste di personalità filorusse, che in tv starebbero sostenendo le tesi di Mosca. Nel calderone finisce Massimo Giletti per la puntata di Non è l'arena, la trasmissione di La7 andata in onda domenica da Mosca, nella quale tra l'altro il giornalista ha avuto un mancamento, mentre il direttore di Libero Alessandro Sallusti abbandonava la scena in aperta polemica per la modalità con cui il conduttore aveva intervistato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

Il giorno dopo, durissime sono le critiche del deputato Pd Andrea Romano: «Ormai siamo un caso internazionale, diamo tribuna ai pifferai di Putin». E parla di «vergognosa propaganda» a La7 Maria Saeli, tesoriere di +Europa. Alla fine, a difendere Giletti resta solo Matteo Salvini con un «affettuoso abbraccio a un giornalista e uomo libero ». Mentre il dem Enrico Borghi, membro del Copasir, vede un «tentativo di manipolazione» con i due propagandisti filo-Putin ad avere spazio in trasmissione. «Disinformazione, propaganda, fake news, tentativi di manipolazione dell'opinione pubblica in Italia e nelle democrazie liberali... È la cosiddetta dottrina Gerasimov sulla guerra ibrida, sulla guerra non convenzionale - spiega Borghi - . È questo che sta combattendo e cerca di disvelare il Parlamento italiano attraverso il Copasir».

La trasmissione ha visto Giletti sulla piazza Rossa, mentre da studio Myrta Merlino conduceva gli interventi. Nulla di grave, comunque, per Giletti, che è riapparso in video dopo qualche minuto di concitazione. Ma restano le sue domande, considerate troppo accondiscendenti nei confronti dell'ospite, collaboratrice dello 'zar'.

Zakharova difende strenuamente la posizione del Cremlino, attaccando l'Europa e i giornalisti italiani che si sono disinteressati del conflitto in Donbass negli ultimi otto anni. La giornalista se la prende anche con Giletti, per i suoi ragionamenti 'infantili', di fronte al tentativo di quest' ultimo di perorare la causa del negoziato.

L'interessato non dà sufficiente prova di forza, secondo Sallusti, che lascia la trasmissione. «Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo - lo accusa - . Mi trovo davanti ad un asservimento totale di fronte alla peggiore propaganda che ci possa essere».

Perciò, taglia corto, «rinuncio al compenso pattuito, ma non ci sto a fare la foglia di fico» agli ospiti russi, due politologi, uno dei quali - il famoso conduttore Vladimir Solovyev - viene subito invitato da Bruno Vespa: «Lo ospiterò a 'Porta a porta' se lui sarà cortese a ospitarmi nel suo programma di Russia1. Così i nostri pubblici potranno confrontare le diverse posizioni sulla crisi ucraina in un sereno dibattito tra persone civili». Insomma, le polemiche sulla gestione dell'informazione nei talk sembrano destinate a proseguire, con gli ascolti che crescono.

Massimo Giletti, "com'è arrivato a Mosca?": Salvini e l'ambasciata russa, cosa non torna sul viaggio. su Libero Quotidiano il 12 giugno 2022.

Continua a tenere banco il caso del viaggio mancato di Matteo Salvini a Mosca. L’ambasciata russa ha diffuso una nota per fare chiarezza, affermando di aver aiutato il segretario della Lega nell’acquisto dei biglietti aerei in rubli: una volta abortita la missione di pace a Mosca, i biglietti sono stati prontamente rimborsati. Giovanni Rodriquez ha però alimentato la polemica, gettando nella “mischia” anche Massimo Giletti, che domenica scorsa ha condotto Non è l’Arena dal Cremlino.

“Se risulta davvero impossibile acquistare il volo per Mosca senza l’intervento diretto dell’ambasciata, Giletti e compagnia davanti al Cremlino come ci sono arrivati, via terra?”, è l’interrogativo avanzato dal giornalista. In merito al caso Salvini, l’ambasciata russa ha spiegato che, a causa delle sanzioni imposte dall’Ue, i voli diretti Roma-Mosca sono stati sospesi e quindi si era reso necessario acquistare biglietti aerei per un volo Aeroflot con partenza da Istanbul, in Turchia. 

“L’ambasciata ha assistito Salvini e le persone che lo accompagnavano - si legge nella nota - nell’acquisto dei biglietti aerei di cui avevano bisogno in rubli tramite un’agenzia di viaggi russa. In quanto il viaggio di Salvini a Mosca non è avvenuto per motivi ben noti, alla fine ci è stato restituito l’equivalente della cifra spesa per l’acquisto dei biglietti aerei in euro. Non vediamo nulla di illegale in queste azioni”.

Benedetta Vitetta per “Libero quotidiano” il 13 giugno 2022.

Dopo l'abbandono dello studio della scorsa settimana, ieri sera- sempre in diretta su La7 - è andato in onda un nuovo confronto tra Massimo Giletti, giornalista e conduttore di Non è l'Arena, e il direttore di Libero, Alessandro Sallusti. E così, in attesa dei risultati di referendum e amministrative, i telespettatori hanno assistito a un altro faccia a faccia di fuoco.

Giletti (ieri sera non più a Mosca ma in Italia, ndr) è subito ritornato alla frase choc urlata per ben due volte da Sallusti domenica scorsa chiedendogli se voleva ribadire che il Cremlino è "un palazzo di m...".

«Sì, assolutamente» ha confermato serenamente il direttore «perché in quel luogo oggi si sta decidendo di sparare su civili, donne e bambini, di affamare popolazioni, ma in un recente passato si sono architettate purghe e pulizie etniche. Quindi sì, non è un bel posto, è un posto sporco e che trasuda sangue da tutte le pietre».

Il confronto tra Giletti e Sallusti è poi proseguito tornando esattamente sulle polemiche della passata trasmissione che, tra l'altro, ha portato bene agli ascolti della rete.

IL GIUDIZIO SU PUTIN «Putin ha ammazzato da sempre, purtroppo, forse noi occidentali abbiamo chiuso gli occhi davanti a quello che hanno sempre fatto» ha proseguito Giletti stuzzicando il collega Sallusti che non ha avuto tentennamenti: «Negli ultimi anni ho pensato che Putin stesse cercando di raddrizzare un po' le cose, ma oggi prendo atto che è in scia coi personaggi che l'hanno preceduto e che, quindi, continua, la maledizione di quel palazzo. Ma alla terza volta che ammazza, ora gli dico che è uno stronzo». E a questo punto è Sallusti a partire all'attacco nei confronti del conduttore: «Continuare a far quello che stai facendo tu stasera, dicendo, siccome noi abbiamo fatto una porcata in Iraq...». Ma Giletti lo interrompe subito e in modo anche parecchio seccato: «Ma questo lo dici tu, io non lo penso, come faccio a pensare una cosa così grave...».

E qui, approfittando della pausa dell'avversario-giornalista, Sallusti affonda il colpo e gli chiede di scegliere da che parte stare: «Tu, Massimo, stasera stai dicendo le stesse cose che ci ha detto lei (Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov, intervistata domenica per oltre un'ora da Giletti, ndr) la volta scorsa: voi occidentali avete fatto guerra sporca e allora perché rompete le palle a noi? Ogni volta bisogna scegliere da che parte stare. Qui non siamo a Ballando con le stelle, in questa trasmissione si parla di cose molto serie» ha proseguito Sallusti accusando l'interlucore di assolvere la propaganda russa.

«Starò sempre dalla parte dell'Ucraina invasa, ma detto ciò non accetto il pensiero unico americano. Le Borse di venerdì sono crollate e la fatica di arrivare a fine mese si sta avvertendo. Se questa guerra non finisce, finisce male» replica stizzito Giletti.

Davanti a cui il direttore di Libero quasi si indigna parlando di «pura e semplice demagogia» quella utilizzata dal noto anchorman de La7.

«Non puoi dire di aver avuto con confronto con la Zakharova, perchè quello che è andato in onda la passata settimana è stato semplicemente un monologo. Era solo propaganda russa che, per di più, colpevolizzava l'Occidente e l'Italia in primis».

L'ultimo appunto del direttore arriva sul proprio sul finale quando fa notare che i russi definiscono quello di Kiev, un regime. «Non lo è affatto e da anni non lo è». Se mai la Russia non è una democrazia. «Ma una democratura» spiega.

Non è l'Arena, Massimo Giletti ad Odessa: "Fare 60 anni sotto un allarme aereo, chi l'avrebbe amai detto..." Libero Quotidiano il 20 marzo 2022.

Massimo Giletti è in Ucraina per raccontare in prima persona la guerra e gli effetti dell'attacco della Russia. Il conduttore di Non è l'Arena, in onda la domenica su La7, ha trasmesso il programma dal centro di Odessa mentre in studio a Roma c'erano gli ospiti tra gli altri come il direttore di Libero Alessandro Sallusti e l'esponente di Leu Nicola Fratoianni. "Oggi c'è qualcosa di strano, abbiamo visto auto crivellate di colpi con feriti a bordo. Il fatto è insolito perché qui è ancora una zona tranquilla", dice Gilletti. Che ricorda di aver compiuto 60 anni proprio nella settimana che l'ha portato in Ucraina: "Fare 60 anni sotto un allarme aereo ad Odessa, chi l'avrebbe amai detto", Giletti parla di pulmini carichi di feriti, mostra i cavalli di Frisia nelle strade della città. Giletti parla anche della caparbietà e dello spirito della resistenza ucraina sempre o più determinata a difendere il proprio Paese: "Chi sa se anche nell'esercito russo c'è questo spirito"; si chiede. 

Giletti, anche per aggirare il problema dell'energia e quello del coprifuoco, ha individuato un rifugio della Croce rossa da dove andrà in onda Non è l'Arena. "Sono venuto qui perché credo che se vuoi parlare di guerra devi vedere" in prima persona, spiega il giornalista che ha poi mandato in onda delle immagini impressionanti, che hanno documentato il volto più drammatico sulla guerra. 

 Da liberoquotidiano.it il 21 marzo 2022.

Scontro a distanza tra Selvaggia Lucarelli e Massimo Giletti sulla diretta della puntata di ieri sera 2o marzo di Non è L'Arena su La7 trasmessa da Odessa, la città assediata dai russi in Ucraina. "La prima parte del collegamento con Giletti in cui lui sembrava in diretta tra spari e missili era registrata alle 18,45 circa, poco prima del coprifuoco. Ovviamente si è ben guardato dal dirlo per non togliere il brivido agli spettatori", ha attaccato la giornalista su Twitter.

Poche ore prima, sempre la Lucarelli aveva criticato il collega sollevando alcuni sospetti: "Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade". E ancora: "A Odessa c’è il coprifuoco dalle 20,00 (lì sono 1 ora avanti). Come faceva Giletti a stare per strada? O lo ha violato o l’inizio era registrato. La cosa più inquietante è che vedi Giletti a Odessa che dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie B". 

Accuse che il diretto interessato respinge alla mittente: "Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento", ha ribattuto Giletti raggiunto a Odessa da Adnkronos. Parole grosse quelle del conduttore che evidentemente è rimasto molto offeso dai tweet di Selvaggia, con la quale, notoriamente, non c'è grande stima.

Da iltempo.it il 21 marzo 2022.

Massimo Giletti ha portato la sua trasmissione Non è l'Arena in Ucraina. Il conduttore domenica 20 marzo ha iniziato la diretta da Odessa mentre partivano i razzi della contraerea ucraina contro un attacco russo. In molti hanno manifestato stima e vicinanza al giornalista per la scelta di raccontare in prima persona la guerra, ma non sono mancate le critiche e le accuse di protagonismo. 

Mentre andavano in onda le prime immagini di Non è l'Arena, Selvaggia Lucarelli ha criticato con una punta di velenosa ironia la "trasferta" del conduttore di La7: "La cosa più inquietante è che vedi Giletti a Odessa che dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie b".

La giornalista su Twitter lancia anche dei sospetti sulla genuinità di quanto visto in tv: "A Odessa c’è il coprifuoco dalle 20,00 (lì sono 1 ora avanti). Come faceva Giletti a stare per strada? O lo ha violato o l’inizio era registrato", è il dubbio della Lucarelli. "Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade" è  l'ultimo affondo all'indirizzo del giornalista.

Da ilfattoquotidiano.it il 21 marzo 2022.  

“Spero che mi sentiate, si sentono i colpi nell’aria e la situazione è molto tesa“. Inizia così il collegamento di Massimo Giletti in diretta da Odessa nella puntata di Non è L’Arena andata in onda nella serata di domenica 20 marzo. Il giornalista è inviato sul fronte di guerra in Ucraina, in particolare nella città portuale epicentro dei combattimenti degli ultimi giorni. 

Proprio mentre era collegato dalla piazza principale è iniziato a sorpresa un attacco aereo e in sottofondo si sono sentiti nitidamente gli spari in corso. “C’è un attacco russo in corso a sorpresa. Questa è la contraerea, forse è in corso un attacco con i droni. Non sappiamo cosa sta succedendo ma questa è la situazione”, ha spiegato Giletti.

E ancora: “Non so per quanto tempo possiamo stare ancora fuori, qui sta succedendo qualcosa“, ha aggiunto mentre il rumore degli spari si faceva sempre più forte. Quindi la telecamera ha inquadrato prima il cielo dove si vedevano nitidamente i “traccianti in aria” dei droni e poi un gruppo di soldati che attraversava la piazza a pochi metri da loro. “Non è scattato l’allarme aereo ma ci stanno facendo cenno che dobbiamo rientrare nel rifugio.

Stiamo vivendo in diretta un attacco che non è stato neanche annunciato”, ha detto ancora Giletti mentre in cielo si vedevano sempre più luci. Quindi, ha salutato il pubblico e chiuso il collegamento per continuare poi la trasmissione nel bunker dove era stato allestito una sorta di “studio”.

 Non è l'Arena, Massimo Giletti umilia Selvaggia Lucarelli: "Quando dà il meglio di sé. E non aggiungo altro". Libero Quotidiano il 21 marzo 2022

Scontro a distanza tra Selvaggia Lucarelli e Massimo Giletti sulla diretta della puntata di ieri sera 2o marzo di Non è L'Arena su La7 trasmessa da Odessa, la città assediata dai russi in Ucraina. "La prima parte del collegamento con Giletti in cui lui sembrava in diretta tra spari e missili era registrata alle 18,45 circa, poco prima del coprifuoco. Ovviamente si è ben guardato dal dirlo per non togliere il brivido agli spettatori", ha attaccato la giornalista su Twitter.

Poche ore prima, sempre la Lucarelli aveva criticato il collega sollevando alcuni sospetti: "Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade". E ancora: "A Odessa c’è il coprifuoco dalle 20,00 (lì sono 1 ora avanti). Come faceva Giletti a stare per strada? O lo ha violato o l’inizio era registrato. La cosa più inquietante è che vedi Giletti a Odessa che dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie B".

Accuse che il diretto interessato respinge alla mittente: "Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento", ha ribattuto Giletti raggiunto a Odessa da Adnkronos. Parole grosse quelle del conduttore che evidentemente è rimasto molto offeso dai tweet di Selvaggia, con la quale, notoriamente, non c'è grande stima. 

Ucraina, il conflitto irrisolto di Massimo Giletti con il giornalismo di guerra. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 04 aprile 2022.

 Per chi si fosse distratto, questa settimana Massimo Giletti è tornato in Ucraina, a Odessa, per documentare sul fronte la Zeta dell’esercito di Putin con la Acca delle Hogan ai suoi piedi. Roba che uno si chiede cosa abbia fatto il popolo ucraino di male per subire l’invasione di Giletti dopo quello dei russi. Il prossimo sarà Godzilla dal Mar Nero, di questo passo. 

Quando si parla di conflitti irrisolti andrebbe analizzato quello di Giletti col giornalismo di guerra perché c’è una balcanizzazione mai risolta dentro di lui tra trash e sensazionalismo di cui l’Unione europea o la Nato o un bravo specialista prima o poi si dovranno occupare.

Per chi si fosse distratto, questa settimana Massimo Giletti è tornato in Ucraina, a Odessa, per documentare sul fronte la Zeta dell’esercito di Putin con la Acca delle Hogan ai suoi piedi. Roba che uno si chiede cosa abbia fatto il popolo ucraino di male per subire l’invasione di Giletti dopo quella dei russi. Il prossimo sarà Godzilla dal Mar Nero, di questo passo.

Fatto sta che anche ieri sera Massimo Giletti detto ormai “Massimo Gilet” da quando si collega con l’Italia solo se sui sacchi di sabbia che lo circondano viene adagiato anche un gilet con la scritta press per aggiungere pathos al mestiere, era lì a fare il duro lavoro dell’inviato di guerra. Che però conduce anche la puntata, coordina lo studio, lancia suoi servizi, lancia la pubblicità, ci aggiorna sugli sviluppi sul posto.

Gli sviluppi sul posto raccontati da Gilet, per la cronaca, sono “S’è sentito un botto”, “Un altro botto”, “Due botti”, roba  che io a un certo punto mi sono chiesta se fosse la guerra o il carico di droga arrivato nel quartiere di qualche boss di Odessa, boh. Ma proseguiamo.

Parte il servizio esclusivo in cui Gilet mostra gli obiettivi sensibili colpiti dai russi a Odessa, nonostante il governo ucraino abbia vietato ai giornalisti di farlo entro le 24 ore dal bombardamento. Le immagini girate all’alba sono impressionanti. Sto parlando delle occhiaie di Giletti alle sei del mattino.

Poi arriva l’ospite d’eccezione, Walter Veltroni, il cui ruolo pattuito col conduttore è stato chiaro fin dall’inizio: «Massimo, io ti dico quanto sei figo a stare lì sotto le bombe, anzi, tra i botti, se tu mi dici quanto è figo il mio libro». «Ok, andata Walter».

Il conduttore Gilet lancia un altro servizio dell’inviato Giletti, questa volta è il tour delle trincee abbandonate con ricerca di souvenir tipo gita sul vulcano con ricerca di pietre laviche per farsi il braccialetto.

I RITROVAMENTI

Non so bene chi abbia convinto Gilet che fare il reporter di guerra sia mostrare quello che trova per terra con la musica horror in sottofondo, fatto sta che ci mostra, nell’ordine: un foglio di giornale russo (ma tu guarda, pensavo che i russi leggessero DiPiù), una scarpa che butta subito per terra perché ha appena scoperto che questi pezzenti di russi non combattono con le Hogan, dei “pezzi tagliati di erba” che non si sa cosa voglia dire.

Soprattutto, molto stupito, continua a mostrare avanzi di cibo. Questa cosa che i soldati mangino lo ha sconvolto parecchio, forse pensava che i russi si ricaricassero alle colonnine della Tesla. 

Poi torna in studio dove Alessandro Sallusti dà della gallina starnazzante a Fabiola D’Aliselio che sembra un’attrice di Forum, una di quelle che vanno da Barbara Palombelli e dicono che si sono separate dal marito e ora litigano su chi dei due debba tenere il coniglietto nano che avevano comprato insieme a una fiera agricola nell’Oltrepò.

Gilet la interrompe bruscamente e annuncia una servizio in cui si parlerà dei FOSSI COMUNI. Forse intendeva l’utilizzo del congiuntivo imperfetto nell’uso comune, non si è capito.

Torna in studio e mette a confronto l’ormai noto giornalista ucraino Valdislav Maistrouk  che presenta come “MAISMAK”. Saranno stati i botti che lo hanno confuso. Maistrouk ascolta le parole di un giornalista russo in collegamento che nega con sorrisetto cinico la strage di civili a Bucha.

Maistrouk dice serafico: «Messaggio per i mandanti e propagandisti: dovete avere paura, devi avere paura fino all’ultimo giorno della tua esistenza, tu ridi ma noi ti troveremo, troveremo tutti e come ha fatto Israele quando vi troveremo, vi puniremo». Una minaccia di morte in diretta tv.

FOSSI COMUNI

Gilet o non sente o sente un altro botto, fatto sta che non batte ciglio e annuncia un altro servizio sui FOSSI COMUNI. Poi lancia un altro suo servizio sul posto in cui mostra che dentro una vecchia stalla ci sono “RESTI DI RUSSI”. Ha detto così eh, non sto inventando.

Dentro la stalla, per la cronaca ci sono solo mattoni e paglia, dunque i russi forse sono tipo i guerrieri di terracotta, una pioggerellina a tradimento li ha sciolti.

Da una certa ora in poi, la confusione si trasforma in delirio. Gilet inizia a innervosirsi per i botti, dice lui, e quindi litiga a caso con gente in studio, toglie la parola a ospiti inermi, maltrattati gratuitamente, ripete che per lui è complicato e devono capirlo, poi “veniteci voi qui sotto le bombe!” perché Massimo Gilet deve ricordarci ogni tre per due quanto è pericoloso stare lì con le sole Hogan a fargli da scudo.

Infine, la deriva più esilarante: da metà puntata in poi comincia a litigare con personaggi immaginari, che noi non vediamo mai e che nella sua testa forse sono quelli della sicurezza ucraina, una cosa tipo tipo “ Beautiful mind, e quindi “tuenti minuts end ai stop!!!”, “tuentifaiv second!”, “Iz ok!”, ma soprattutto “Don’t worry, be happy”. Giuro, l’ha detto. Ha detto “dont uorri bi eppi" a un soldato o a un soldato immaginario, non lo sapremo mai.

Così come non sapremo mai dove sono andati quei botti che verso la fine lui commenta così: «Si sentono dei botti, speriamo che vadano da un’altra parte!».

Insomma, speriamo che cadano in testa a qualcun altro.

E da Massimo Gilet è tutto. 

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Gli insulti choc di Gabriele Muccino a Massimo Giletti: “Truffatore, mediocre, miserabile e ominide”. Il Tempo il 22 marzo 2022.

Senza fine la polemica a distanza tra Selvaggia Lucarelli e Massimo Giletti in cui si è inserito anche il registra cinematografico Gabriele Muccino. La giornalista aveva criticato il collega per la sua diretta di Non è l’Arena da Odessa, accusandolo di aver registrato la prima parte del programma, perché nella città ucraina dalle 20 era in vigore il coprifuoco, e di aver trasformato la guerra «in set di un film di serie B». Giletti aveva replicato netto: «Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a ’Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento». La risposta di Selvaggia Lucarelli non s’è fatta attendere: «La povertà intellettuale di Giletti sta anche nel non saper rispondere nel merito (la spettacolarizzazione della guerra), ma di fare la battuta dal retrogusto maschilista della serie ‘occupati di cose frivole’. Che non racconta nulla di me, ma molto di lui, ancora una volta», ha scritto su twitter la giornalista.

Sotto al post della Lucarelli è apparsa anche una risposta al veleno di Muccino, che ci è andato giù pesante: «Massimo Giletti è un truffatore. Un uomo mediocre con cui io stesso ho avuto indirettamente a che fare. È la miseria di un uomo che si incarna in un ominide». Risponderà ancora e continuerà il botta e risposta?

Dagospia il 23 marzo 2022.Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, è un peccato che Andrea Scanzi, nella sua perla di eleganza stilistica non dimostri lo stesso coraggio che attribuisce a Giletti. Scrive: "...nello scegliere come opinioniste  fisse delle carneadi che nemmeno Tele Fagiolo Morto avrebbe il coraggio di pagare” senza fare i loro nomi, o meglio il suo nome. Grazie per l’ospitalità. Sandra Amurri 

Dall’account facebook di Sandra Amurri 

A proposito del post di Scanzi,una perla di eleganza stilistica che , prescinde, anzi nega la forza delle opinioni e della sacrosanta, libertà di esprimerle (io credo di esserne , umilmente, un esempio) ma che altro non sono che un insieme di parole così grevi da far vergognare qualsiasi essere umano. Scanzi fra l altro , scrive :”Coraggioso mai, se non nello scegliere come opioniste fisse delle carneadi che nemmeno Tele Fagiolo Morto avrebbe il coraggio di pagare.”

Mi chiedo come mai non dimostri lo stesso coraggio  ,che attribuisce a Giletti, nel fare i loro nomi , o meglio il nome, visto che si tratta di me? Timore di essere querelato? Inutile,  il riferimento è così chiaro ,sono la sola giornalista possibile, come lui sa bene. Quanto basta per essere querelato. Alla quale si aggiungerà anche quella di Giletti. 

Aggiungo solo all elegante e rispettoso , per prima cosa  del buon gusto e dell educazione, Scanzi che io mi sono sempre assunta e, continuo ad assumermi, la responsabilità delle mie opinioni senza mai piegarle alla convenienza. Certo, non posso vantare la sua stessa fama in termini di followers ma nella vita si sceglie “come” vivere ed è proprio quel “come” che , per dirla con Vitaliano Brancati “distingue i barbari dagli uomini civili, i santi dai delinquenti”Come dire: meno followers e più rispetto per se stessi e per gli altri,  sempre senza rinunciare  ad esprimere le proprie opinioni e a prendere posizione di fronte ad un’ ingiustizia subita , anche da chi ti è accanto. 

Attendo di avere prova del suo coraggio nello scrivere il mio nome , a meno che non assomigli al “galletto” descritto da Leic che “ in cima  al campanile quando non tira vento manifesta del carattere” . Io , ad esempio non sarei mai capace,come fa lui,  di postare una foto tagliata per “salvare” Conte e Di Maio dal mio giudizio. 

Dal profilo Facebook di Andrea Scanzi il 22 marzo 2022.

“L’ipocrisia è un compito ventiquattr’ore su ventiquattro”, scriveva William Somerset Maugham, e certo non sapeva di riassumere in una frase (anche) la carriera di Massimo Giletti. La sua spettacolarizzazione della guerra in Ucraina, andata in onda domenica sera nella puntata in diretta di “Non è Salvini ma la Meloni” su La7, rappresenta per distacco uno dei momenti più bassi, finti, mesti, caricaturali, cinici e imbarazzanti nella storia del “giornalismo” italiano. E più in generale nella storia dell’uomo. Giletti ha deliberatamente toccato un nuovo livello di sputtanamento giornalistico, esasperando quella sua continua voglia di inabissare etica e morale.

Anchor-man cinico e calcolatore come nessuno, disposto a tutto pur di fare ascolti e generare polemiche, Giletti – tornato con la coda tra le gambe alla consueta domenica sera dopo il mezzo flop di inizio stagione al mercoledì – è sempre stato questa roba giornalistica qua. Molti lo chiamano “Barbaro D’Urso”, che peraltro per lui è pure un complimento (se non altro estetico). “Riccioli di Truciolo” è da anni un obiettivo facile della satira. Qualche battuta tratta da Lercio: “Ricoverato per overdose di luoghi comuni: grave Massimo Giletti”. “Richiesta di Giletti a La7: “Serve uno studio più ampio per contenere tutte le cazzate che spariamo”. “”Non è l’Arena”, Massimo Giletti si commuove per essersi commosso”. “Giletti vince il Pulitzer per lo sguardo da vero giornalista”. “Non è l’Arena: Massimo Giletti si finge prostituta minorenne e si autointervista”. E via così. La decenza non lo ha mai intaccato: volutamente! 

Bravissimo ad avere torto anche quando ha ragione (per esempio quando perorava l’importanza del vaccino invitando dei casi umani novax, e ad osservare lo scontro veniva quasi voglia di tifare per i secondi). Furbissimo nel fingere di sclerare quando sa di essere nel giusto e ha appena portato all’esasperazione dialettica il solito imbecille di turno (che invita per metterlo poi facilmente alla berlina). Scaltro nel trattare i potenti con riverenza e i deboli (o gli scomodi) con la falce fienaia. Coraggioso mai, se non nello scegliere come opioniste fisse delle carneadi che nemmeno Tele Fagiolo Morto avrebbe il coraggio di pagare. 

Giletti – che nel suo genere è un maestro con 12 lauree – è un abilissimo interprete del trash travestito da quasi-giornalismo, e il fatto che sia ancora a piede libero dopo avere invitato Povia in veste di esperto di geo-politica la dice lunga sullo stato terminale del sistema giudiziario italico.

La sua presenza ad Odessa, che certo denota un ardimento fisico non comune, è (per ora) l’ultimo step della sua orgogliosa discesa negli Inferi della morale. Convinto d’essere un po’ la Fallaci e un po’ Santoro, e dunque ignaro di apparire al massimo come un malinconico Scaramacai in trincea, Giletti è andato in Ucraina con sadismo raro, perché in tutta onestà pareva - e pare - che il popolo ucraino abbia già i suoi guai. “Accordo tra Putin e Zelensky sull’inutilità di Giletti in Ucraina”, ha genialmente chiosato la pagina Sinapsi Satiriche.

Giornalisticamente, e anche questa non è una novità, l’Uomo che Sussurrava ai Potenti non ha aggiunto nulla alla narrazione della tragedia ucraina (peraltro già ben raccontata, 24 ore su 24 o quasi, da La7). In compenso, nell’evidente “speranza” di poter commentare in diretta un dramma bellico in piena regola (e il rischio c’è stato, quando sono pericolosamente aumentati gli spari in lontananza), Giletti ha intinto il microfono nel morboso più spinto.

Prima il giornalista preferito da (quel che resta di) Salvini ha teatralmente raccolto una bandiera ucraina tra le macerie di un palazzo, chiedendo al suo cameraman di stringere l’inquadratura per mostrare “la polvere proveniente dal campo di battaglia”. Poi ha colpevolmente mostrato il corpo dilaniato di una ragazza soldatessa uccisa, sottolineando pure “l’odore acre della morte”.

Due commenti tra i mille possibili. “Non aveva nemmeno avvisato sulle immagini forti. È raccapricciante, a dir poco, l'uso che fa di un tale dramma. Il suo sciacallaggio è rinomato…” (Marianna Massa). “Una vergogna inutile, nessun approfondimento, nessuna inchiesta, solo lo scoop della morte in diretta per fomentare contrapposizioni sterili e imbarazzanti in studio...un pessimo gioco stile Giletti,in onda su La7 con lo psicodramma autocelebrativo di Massimo Giletti” (Enrico Balletto). Nient’altro da aggiungere.

Che pena, che imbarazzo, che tristezza.

Massimo Giletti in onda dal fronte e bombardato dall'Italia dei salotti. Il conduttore sfida Putin e conduce il talk da Odessa sotto le bombe. E gli arrivano le critiche: "Spettacolarizza i cadaveri". Ma provate a farlo voi...Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Massimo Giletti maneggia la sua innegabile professionalità televisiva con un paraculismo che lo rende un Jeckill e Hyde dei palinsesti. La settimana scorsa aveva attribuito a un Povia prima antivaccino e ora filoPutin la credibilità di Adenauer; l’altra sera ha condotto la puntata di Non è l’Arena sotto le bombe, da Odessa. Un bipolarismo psicotelevisivo che meriterebbe un’analisi, anche freudiana. Ma non ora.

Concentriamoci, invece, su Odessa. E su Massimo col giubbotto nero, antiproiettile, con la scritta “Press” dei veri inviati nel teatro di guerra, mentre cammina tra i cadaveri dell’Ucraina. E poi su Massimo che si commuove per una donna in lacrime; e documenta gli spari in diretta tirando per la collottola il cameraman; e accarezza un gattino «simbolo della vita che vuole andare avanti». Sarà forse per rompere «la monotonia delle narrazioni di guerra» come dicono i detrattori; o forse per ricordarsi dei suoi trascorsi da inviato ai tempi di Giovanni Minoli; o forse per dedicarsi a un doveroso lavacro penitenziale che lo depuri dalle puntate più trash (Fabrizio Corona e i negazionisti del Coronavirus, il falso matrimonio di Pamela Prati ecc…) di Non è l’Arena. Sarà tutto questo. Ma, insomma, fatto sta che Giletti ha qui compiuto un atto forte e inedito. Ha condotto il suo programma da un rifugio della Croce Rossa nell’Odessa assediata dai russi, appunto. 

Magari l’uomo è stato teatrale (lo è stato). Magari un po’ compiaciuto nel rammentarci che compie gli anni mentre, nella temperie di lacrime e dolore, suona la sirena dell’attacco aereo, come gli ha battuteggiato Mentana, che pure ha ben accolto il suo reportage. Ma, diavolo, condurre un talk sotto le bombe e i razzi delle contraerea non è da tutti. Provate a farlo voi.

In Italia, dacché ho memoria, è un gesto nuovo. Ricordo, tra l’altro, che non è la prima volta che a Massimo parte l’embolo da Peter Arnett; e si ricorda di essere stato un cronistaccio sul campo di battaglia. Nel 2015, per dire, raccontò, in bandana e telecamera, il conflitto dell’Isis da Kurdistan iracheno, nel 2011 si spostò in Afghanistan a documentare la missione italiana dalla trincea. Non pochi anchormen di razza – penso a Corrado Formigli, ma anche all’ultimo Andrea Vianello da Leopoli - si lasciano invadere dalla voglia del racconto in presa diretta sotto i bombardamenti, si mettono l’elmetto e, per una volta, tornano a fare il mestiere vero. La differenza con gli altri colleghi è che Giletti più che raccontare la cronaca fa intrattenimento. Può piacere o no, ma lo fa bene.

Ed è unicamente per questo che suscita sentimenti contrastanti. Prendete Selvaggia Lucarelli: ha twittato sul conduttore parole di fuoco; ha ricordato l'esistenza del coprifuoco in Ucraina alle ore 20 e perciò ha chiesto spiegazioni sulla presenza di Giletti per strada, avanzando due ipotesi: «O lo ha violato o l'inizio era registrato». Poi senza mezzi termini ha parlato di un ulteriore aspetto, che lo ha definito il «più inquietante»: il conduttore a Odessa, «dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie b». Infine Selvaggia ha chiosato: «Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade». Senza polemiche, possibilmente. Giletti ha risposto affermando di apprezzare la Lucarelli solo quando alza la paletta da giurata a Ballando con le stelle. 

Poi c’è stato anche il regista Gabriele Muccino, ad aver preso malissimo la trasferta bellica del conduttore: «Truffatore, mediocre, miserabile ominide», un’opinione che mi pare, onestamente, un tantino esagerata. A Muccino controbatte Rita Dalla Chiesa: «Pochi hanno le palle di andare dove si sta combattendo una guerra odiosa, inaccettabile».

Non fa rischiare solo gli inviati. Rischia in prima persona». La Rita è così: sempre tranchat sulla critica da salotto. E, in effetti, Massimo sotto le bombe si gasa, s’accalora, cede al suo racconto sfiorando l’eventizzazione («Sono venuto qui perché credo che se vuoi parlare di guerra devi vedere» esplicitando quest’idea narrativa dell’ostentazione “corpo dell’inviato”, talora dell’invidiato), rende il reportage quasi una pièce. Giletti è in parte registrato? Probabile, anzi quasi certo. Ma non è importante ai fini della trama. Comunque sia, Giletti sa come fare televisione. Da domenica –ne sono convinto- tornerà a dar voce ai terribili terrapiattisti di ogni latitudine, e alternerà il racconto pruriginoso delle Olgettine e quello fantastico dei nostri ricercatori in fuga come Mattia Barbarossa al Mit. Accosterà pure le denunce dei comuni sciolti per mafia alla storia della pornostar Malena la Pugliese mentre ricorda il suo passato da agente immobiliare. Gilletti è Jeckill e Hyde. Ma quando è Jeckill, resta tra i migliori...

Lo "show" del conduttore tv non è piaciuto ai leoni da tastiera. Massimo Giletti a Odessa, le critiche e lo scontro con Scanzi e Lucarelli: “Ha avuto le palle”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 21 Marzo 2022. 

Tutti, o quasi, contro Massimo Giletti. Leoni e influencer da tastiera, colleghi invidiosi, haters seriali. Il popolo delle rete si scaglia contro il giornalista e conduttore di “Non è l’Arena“, volato a Odessa, nel sud dell’Ucraina, per documentare in prima persona quanto sta accadendo dal 24 febbraio scorso, ovvero dopo l’invasione dell’esercito russo di Vladimir Putin. “Perché credo che se vuoi parlare di guerra devi vedere” ha spiegato Giletti nel corso del suo collegamento di domenica 20 marzo, avvenuto pochi minuti prima che iniziasse il coprifuoco.

Giletti è stato accusato di sciacallaggio. Di voler cavalcare il momento, la drammaticità della guerra in corso da quasi un mese. In effetti uno che vuole approfittare della situazione mette a repentaglio la propria vita e quella dell’operatore, viaggiando in un territorio di guerra e sfidando gli attacchi russi nel bel mezzo di una diretta. O andando in giro in territorio dove in poche settimane sono stati uccisi almeno tre giornalisti oltre a migliaia di civili.

Noi del Riformista abbiamo spesso criticato il modo di fare giornalismo del conduttore di “Non è l’Arena“. Lo abbiamo spesso attaccato dopo alcuni servizi “con effetti speciali” (come dimenticare il Vesuvio che erutta covid) o per essersi spesso fatto telecomandare da indagini della magistratura che poi si sono rivelate un buco nell’acqua. Ma vedere Selvaggia Lucarelli e Andrea Scanzi, due giustizieri (e provocatori) cronici, incollati ai social e sempre pronti a massacrare chiunque osi mettersi di traverso (con “l’attore” sempre pronto a sfornare nuovi libri), attaccare Giletti con parole ignobili è raccapricciante.

Il conduttore di “Non è l’Arena” domenica sera ha raccontato quanto visto in quelle ore ad Odessa, per poi collegarsi poco prima del coprifuoco mentre nei cieli Russia e Ucraina stavano combattendo. Un breve video di pochi minuti per far respirare al suo vasto pubblico (eh si, l’audience delle sue trasmissioni non è basso) il terrore che si vive dal 24 febbraio in quelle zone di guerra. Protetto da un giubbotto antiproiettile con la scritta “press”, e con il caschetto in mano, Giletti ha prima indicato al suo operatore di seguire quanto stava accadendo poco distante, poi c’ha ripensato e l’ha rimproverato in diretta (“Devi stare vicino a me”). Anche Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, ha mandato in onda un servizio dello stesso Giletti. Poi la diretta all’interno di un rifugio della Croce rossa perché in strada era in vigore il coprifuoco.

Durissimi gli attacchi arrivati nelle ore successive alla trasmissione. Per Selvaggia Lucarelli, Giletti ha registrato la prima parte del programma, perché nella città ucraina dalle 20 era in vigore il coprifuoco, accusandolo poi di aver trasformato la guerra ”in set di un film di serie B’‘. Giletti, contattato dall’Adnkronos, ha replicato netto: ”Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a ‘Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento”.

Scandalose le parole di Scanzi, che per un pugno di like e per seguire i trend del momento farebbe di tutto. Secondo l’influencer “Giletti ha deliberatamente toccato un nuovo livello di sputtanamento giornalistico, esasperando quella sua continua voglia di inabissare etica e morale.

Anchor-man cinico e calcolatore come nessuno, disposto a tutto pur di fare ascolti e generare polemiche, Giletti – tornato con la coda tra le gambe alla consueta domenica sera dopo il mezzo flop di inizio stagione al mercoledì – è sempre stato questa roba giornalistica qua. Molti lo chiamano “Barbaro D’Urso”, che peraltro per lui è pure un complimento (se non altro estetico)”.

Non contento, Scanzi prova a infierire senza badare, ovviamente, alle offese: “Giletti – che nel suo genere è un maestro con 12 lauree – è un abilissimo interprete del trash travestito da quasi-giornalismo, e il fatto che sia ancora a piede libero dopo avere invitato Povia in veste di esperto di geo-politica la dice lunga sullo stato terminale del sistema giudiziario italico”.

Duro anche l’attacco di Anna Rita Leonardi (Italia Viva): “Imbarazzante. Ridicolo. Vergognoso.

Per rispetto dei veri giornalisti che, nel silenzio e senza show, raccontano l’orrore della guerra”.

A schierarsi dalla parte di Giletti, Rita Dalla Chiesa: “Pochi hanno le palle di andare dove si sta combattendo una guerra odiosa, inaccettabile. Non fa rischiare solo gli inviati. Rischia in prima persona”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Non è l'Arena, "Giletti sta mostrando tutto": aggirato il divieto ucraino? Cosa manda in onda. Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Massimo Giletti ha deciso di condurre per la seconda volta consecutiva la sua trasmissione di La7 in diretta dall’Ucraina. Un atto coraggioso, una testimonianza preziosa che è stata riconosciuta al giornalista dal primo ospite di serata, ovvero Walter Veltroni. E così la puntata di Non è l’Arena di domenica 3 aprile è iniziata con il racconto di Giletti e le immagini girate in Ucraina.

Selvaggia Lucarelli è però subito partita all’attacco del giornalista di La7: “Per ragioni di sicurezza e strategia il governo ucraino ha vietato la pubblicazione di immagini dei bombardamenti alle infrastrutture, lo ha spiegato molto bene la giornalista prima ospite di In Onda. Alcuni giornalisti sono stati espulsi. Giletti ovviamente sta mostrando tutto”. La Lucarelli si era già scontrata con il giornalista di La7 la scorsa settimana: “C’è il coprifuoco e lui era in strada durante la puntata. O lo ha violato o l’inizio era registrato. L’aspetto più inquietante è che Giletti dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra il set di un film di serie B”.

“Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento”, era stata la replica di Giletti a cui la Lucarelli aveva ribattuto: “La povertà intellettuale di Giletti sta anche nel non saper rispondere nel merito (la spettacolarizzazione della guerra), ma nel fare la battuta dal retrogusto maschilista della serie ‘occupati di cose frivole’. Che non racconta nulla di me, ma molto di lui, ancora una volta”. 

"Stia zitta", "Dice...". Altissima tensione in studio. Luca Sablone il 4 Aprile 2022 su Il Giornale.

Fabiola D'Aliesio si sfoga con la giornalista ucraina: "La pagano bene per piangere in televisione". La replica di Kateryna Nesterenko: "Nel mio Paese c'è la guerra e lei sta sparando favolette russe".

Le terribili immagini che arrivano dall'Ucraina restano oggetto di divisioni e accesi dibattiti nei programmi televisivi, che provano a offrire diversi spunti di riflessione e chiavi di lettura con ospiti che puntualmente non si trovano d'accordo sulle interpretazioni e i ragionamenti del conflitto militare. L'ultima puntata di Non è l'arena, trasmissione in onda la domenica sera su La7, si è occupata di quanto sta accadendo tra Ucraina e Russia: le differenti tesi degli ospiti hanno finito per innescare un acceso dibattito in studio, complicando il lavoro di conduzione di Massimo Giletti che era in diretta da Odessa.

Un duro attacco è stato sferrato da Fabiola D'Aliesio della segreteria federale campana del P.CARC (Comitato di appoggio alla resistenza per il comunismo) nei confronti della giornalista ucraina Kateryna Nesterenko che aveva messo nel mirino la propaganda russa. Le due non hanno trovato un punto d'incontro nelle loro analisi e così lo scontro verbale non è stato altro che la naturale conseguenza. La D'Aliesio ha puntato il dito contro la giornalista ucraina, accusandola di esprimersi con eccessiva enfasi e l'ha accusata di ricevere una serie di compensi economici.

"In Ucraina sono scomparsi 50 giornalisti, desaparecidos del governo Zelensky", è stata la frecciatina della D'Aliesio. Non si è fatta attendere la replica della Nesterenko, che senza pensarci ha risposto all'attacco ricevuto: "La prego di stare un po' più zitta. Per favore, possiamo parlare o dobbiamo urlare come al mercato?". La D'Aliesio ha rimarcato le proprie posizioni e ha fatto notare alla giornalista ucraina di non trovarsi in un luogo pronto ad applaudire ogni sua dichiarazione: "A me paga la volontà di trovare la pace per i miei figli, per i figli di tutti gli italiani e di tutti gli ucraini. Mi paga la necessità di un futuro migliore".

A quel punto la D'Aliesio ha punzecchiato ancora una volta la sua interlocutrice, senza usare mezzi termini per muovere un'accusa sul piano personale: "A lei chi la paga? Signora, stia zitta perché a lei la pagano bene per stare là, per raccontarci le cose e per piangere in televisione". Pure in questa occasione la Nesterenko ha voluto difendere la propria posizione e controbattere: "Non posso stare zitta perché nel mio Paese c'è la guerra e lei sta sparando le favolette russe. Lasciate stare queste fesserie". Il riferimento era alle tesi sulla presenza di realtà neo-naziste tra la popolazione ucraina, per cui il Reggimento Azov è stato accusato.

Fabiola D'Aliesio, la capetta pro Putin dei Carc: "Fan delle Br, quando ci minacciava..." Renato Farina su Libero Quotidiano il 06 aprile 2022.

Domenica sera da Giletti, su La7, c'è stato uno scontro tra un gruppo para brigatista chiamato Carc, rappresentato dalla dirigente nazionale Fabiola D'Aliesio, e il direttore di Libero Alessandro Sallusti. Il tema era la guerra in Ucraina. La signora era nettamente schierata con gli invasori, che sarebbero i veri portatori della pace contro il guerrafondaio occidente. Pacifisti i Carc? Una capessa del Carc che pretende di dare lezioni di democrazia? Sallusti a questo punto ha giocato sulla natura di questa strana entità: Carc (o partito dei Carc) sta per «Comitati d'appoggio alla resistenza per il comunismo». Appoggiano oggi, dopo un letargo di alcuni anni, la gloriosa "resistenza per il comunismo" rappresentata da Vladimir Putin e dai suoi missili iperbarici. E ha svelato l'altarino della signora: «Fa parte dei Carc, un'organizzazione indagata per atti violenti. Non venga qui a fare la santarellina e parlarci di pace». Sia chiaro. Non siamo oscurantisti. Chiunque ha il diritto di parola. Ma qualche volta esiste il diritto di parolaccia quando la spudoratezza arriva a glissare sul "fiume di sangue" versato dagli aggressori.

CAMPAGNA D'ODIO - Noi i Carc li conosciamo bene. Libero non aveva ancora compiuto un mese di vita, che i Carc si fecero sentire. Non dovevamo esistere, noi eravamo escrementi. La nostra colpa era stata l'aver condotto un'inchiesta sul permanere e il riorganizzarsi del terrorismo rosso. Le Brigate Rosse non erano affatto morte. La loro presenza e la loro capacità di semina ideologica e di arruolamento passava da internet. E si serviva di una serie di gruppi e gruppetti a metà tra il sostegno ideologico della rivoluzione, che non è reato, e la tentazione di dar corpo a questa "resistenza" dalla clandestinità.

Dopo due anni le nostre ricerche considerate insulse dalla concorrenza mostrarono di aver visto giusto: l'assassinio di Marco Biagi è ancora lì a gridare l'omertà colpevole dell'opinione pubblica dominante. I giornaloni in quel periodo agostano dedicavano la prima pagina a un fantomatico «Processo ai Tir» (il vero pericolo pubblico secondo Il Corriere della Sera) e ignoravano o trattavano come simpatico folclore i raduni paraterroristici di Assisi con guerriglieri colombiani a indottrinare giovanotti e ragazzette invasate dal mito delle Farce di Che Guevara.

I Carc si fecero vivi con me, che avevo firmato l'inchiesta, ma soprattutto con Feltri. Inviarono vignette spiritose come l'acido muriatico, in una un forbicione tagliava la lingua a Vittorio Feltri. I Carc erano già stati studiati dalla Commissione stragi, come simpatizzanti per l'ambiente della lotta armata, ci chiamò la Digos, con una certa preoccupazione, finì lì.

Essi tornarono nella nostra vita - di Libero intendo - nel 2007. Il ministro dell'Interno Giuliano Amato informò che, grazie all'inchiesta della Digos e al lavoro soprattutto di Ilda Boccassini, erano stati individuati risorgenti gruppi di Brigate Rosse, con una fisionomia diversa dal passato, non più gruppi chiusi e militarizzati, ma un coacervo di vecchi militanti e nuovi antagonisti sensibili al richiamo della foresta rossa. Ne furono arrestati 19.

Che c'entra Libero? Amato disse testualmente: «La redazione del quotidiano Libero era stata presa in seria considerazione... c'era l'intenzione di compiere, entro il prossimo aprile, un attentato incendiario con benzina e acido, da versare all'interno della sede di Libero».

È a questo punto che i Carc si erigono a portavoce dei 19 giovani brigatisti piromani. Sono la loro body gard ideologica. Diffusero perciò comunicati di geometrica impotenza dove si denunciavano «le forze della repressione» e si esigeva «la libertà per i compagni». Stilarono, raccogliendo adesioni tra gli intellettuali firmaioli, tra i quali svettavano i compianti Dario Fo con l'astrofisica Margherita Hack. un manifesto intitolato «No alla persecuzione dei comunisti!». Che è un po' la stessa tesi della signora Fabiana.

RIVOLUZIONARI - E che tipo di comunisti essi siano e che cosa ci si possa aspettare da loro lo si capisce leggendo i loro testi e considerano le loro azioni, almeno quelle che si intestano espressamente. È ancora lì, esposta come un giglio di purezza rivoluzionaria, la loro diffamazione impunita rintracciabile sul loro sito web, e datata 5 settembre 2017. Titolo: «Carlo Alberto Dalla Chiesa, un criminale». È il 35° anniversario del suo assassinio, e loro festeggiano la fine dell'autore dei «crimini perpetrati dallo Stato contro le Brigate Rosse. Pensava di salvarsi dai suoi padrini, come prima di lui Calvi, Sindona e molti altri. Ma ci rimise le penne». Si domandano: «Ma chi era veramente? È stato probabilmente uno dei più riusciti criminali di genio allevati da quell'apparato controrivoluzionario, di lunga tradizione ed esperienza che è l'Arma dei Carabinieri».

Nel 2020 passano all'azione, con un coraggiosissimo episodio di scrittura murale. In pieno Covid, sfidando audacemente le multe da coprifuoco, spennellano Milano con lo slogan «Fontana assassino». Putin buono, Fontana e Dalla Chiesa criminali. Il capolavoro però dei compagni di Fabiola D'Aliesio è il saggio apparso nel febbraio del 2021 dove i Carc si propongono come vendicatori dei brigatisti sconfitti. Qualche frase? Tra le tante perle le più seducenti sono queste tre. 1)«Approfittiamo delle celebrazioni del centenario della fondazione del PCd'I per ritornare su un capitolo luminoso di questa nostra storia: il tentativo di assalto al cielo degli anni '70, la pratica della lotta armata portata avanti dalle Organizzazioni Comuniste Combattenti (che vedevano le loro file composte da migliaia e migliaia di uomini e donne) e in particolare l'esperienza delle Brigate Rosse (Br)» 2) «Le Br hanno lasciato un segno profondo nella lotta di classe presente e passata e a questa molti compagni, giovani e meno giovani, guardano con ammirazione stante il ruolo principalmente positivo che esse hanno avuto nel ridare fiducia nelle possibilità di vincere e di fare la rivoluzione socialista nel nostro Paese». 3) «Le Br furono un'organizzazione rivoluzionaria realmente innovatrice: con la propaganda armata imposero che la rivoluzione socialista è anche un fatto d'armi dimostrando, per la terza volta in Italia dopo il Biennio Rosso e la Resistenza al nazifascismo, la possibilità concreta di dirigere le masse popolari nel passaggio dalla prima (la difensiva strategica) alla seconda fase (l'equilibrio strategico) della Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata». Fabiola dovrebbe passare questo appunto a Putin.

Da video.repubblica.it il 4 aprile 2022.

"Stiamo qui, siamo in diretta e non rientro in hotel. Don't worry, be happy". Durante il collegamento in diretta da Odessa per la trasmissione 'Non è l'Arena', in onda su La7, Massimo Giletti è stato invitato più volte dagli addetti alla sicurezza a rientrare nell'albergo a causa delle sirene. Raccomandazione più volte però rifiutata dal conduttore. Probabilmente ignaro di essere in onda con il microfono acceso, Giletti si è anche lasciato andare a un "non rompere i c...".

Da fanpage.it il 4 aprile 2022.

Momenti di tensione a Non è l'Arena, con Massimo Giletti che è tornato a condurre il programma in diretta da Odessa, dove si era già recato due settimane prima, non senza polemiche. Il giornalista ha condotto nuovamente dal fronte, alternando le immagini realizzate negli ultimi giorni sul campo e il dibattito in studio, dove lo assisteva Tommaso Cerno, ospite abituale della trasmissione.

Le esplosioni in diretta

Nel bel mezzo del dibattito, quando in Italia erano le 23 circa, Giletti ha interrotto a più riprese gli interventi da studio a causa di alcune esplosioni avvertite dal luogo del collegamento: "Ci dicono che ci sono state esplosioni molto vicini a noi, nella zona del porto di Odessa, a circa 700 metri in linea d'area da dove siamo. Ci sono le sirene, noi abbiamo sentito i vetri tremare", ha detto il conduttore mentre operatori e giornalisti presenti si recavano all'esterno per capire cosa stesse accadendo, mentre Giletti spiegava:

Quello che vi possiamo dire è che i botti si sono sentiti molto forti anche in questo posto dove, grazie alla Croce Rossa. Lo dico perché a differenza di quanto scritto da qualcuno con molta ironia non siamo al Grand Hotel. 

Giletti si rifiuta di interrompere la trasmissione

Il conduttore ha quindi iniziato a discutere con alcune persone dietro le telecamere, che evidentemente provavano a convincerlo a stoppare la diretta e andare nei rifugi. Ma Giletti ha tentato di spiegare in inglese come non avesse alcuna intenzione di fermare la diretta per andare a ripararsi altrove: "Le guardie dietro le telecamere mi dicono che devo smettere, ma noi stiamo qui e continuiamo". Un momento di televisione disarticolato ed estremamente confuso per ovvie ragioni, con Massimo Giletti che si è scusato più volte con il pubblico e i suoi ospiti in studio per le molteplici interruzioni dovute ai varii movimenti davanti alla camera.

Giletti ad Odessa ha fatto giornalismo, chi lo critica vuol solo stare nell'arena. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 4 Aprile 2022.

Ho spesso polemizzato a distanza con Massimo Giletti per l’impostazione del suo programma “Non è l’arena” su La7, soprattutto per una sua ritualizzazione della Calabria negativa.

Massimo Giletti ad Odessa

In queste ore si dibatte molto e male sui social sul fatto che il popolare conduttore sia andato sul fronte di guerra ad Odessa a documentare quello che accade conducendo il suo programma da una postazione davanti alla sede della Croce Rossa.

Con pregiudizio e avversione opinionisti di grido e semplici commentatori urlano alla scandalo, qualcuno anche mettendo alla berlina le scarpe griffate di Gilletti indossate sul campo di battaglia. Non si capisce quale sia il problema. Forse quello di restare nell’audience di “Non è l’arena” di cui non fa più parte.

In molti abbiamo visto la guerra documentata. Il racconto in presa diretta, il fumo nero delle incursioni, materiale che consente di potersi fare un’opinione.

Giletti viene accusato di far spettacolo su un dramma. Il racconto della guerra per un giornalista è vedere con i suoi occhi e trasmettere con i mezzi a propria disposizione informazioni verificate.

E’ dai tempi di Plinio il vecchio che conosciamo in questo modo quello che accade nel mondo. Ancora oggi disquisiamo se Indro Montanelli nelle sue celeberrime corrispondenze dalla Finlandia invasa dai russi da un hotel della capitale abbia magistralmente inventato le battaglie incappando in svarioni.

Stiano calmi i critici di queste ore. Massimo Giletti è andato su fronte di guerra ad Odessa a far il suo mestiere. L’abbiamo visto tutti. Se non vi piace fatevene una ragione.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

La banalità del canale. Quelli che su La7 dicono che i russi si impegnano «a non spaventare la gente». Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.

Enormità in diretta televisiva che, più del negazionismo e della contraffazione storica, dimostrano come i danni maggiori arrivino dalle chiacchiere da bar televisivo. 

Il fatto che certe cose si dicano in un programma di intrattenimento popolare, in favore di un’audience in bigodini nell’incombenza del soffritto, anziché dal palco di un convegno accademicamente impettito, non solo non scrimina ma semmai aggrava lo sproposito.

E così se a Tele5Stelle (La7 è dicitura ormai decettiva), in faccia a un’impassibile conduttora, l’influencer Andrea Purgatori dicesse che in Ucraina i russi si stanno impegnando «a non spaventare la gente», gravemente sbaglierebbe chi facesse spallucce pensando che dopotutto è soltanto roba da trivio, modestamente oscena ma incapace di male duraturo come lo scaracchio nell’acquasantiera.

La raffinata contraffazione storica, l’articolato esperimento negazionista, il sapiente bianchetto sul reportage altrimenti impresentabile, sono gli strumenti invalsi con cui si cancellano le colpe e si offende la verità: ma non sono nulla, per efficacia, rispetto alla rimasticatura da bar, nulla rispetto alla potenza consensuale della proverbialità plebea, nulla rispetto alla pensosa balordaggine trasfigurata in realtà per via di reiterazione presso i ranghi più sprovveduti, giusto come certe delicatezze novecentesche si accreditarono tra i rutti di una birreria bavarese più che grazie agli slogan propagandistici di un letterato zoppo.

Vista l’aria che tira, sarebbe troppo facile e insieme sovradimensionato giustapporre all’immagine delle premurosità russe, vagheggiate durante una chiacchiera tra un blocco pubblicitario e l’altro, quella del corpo del bambino esausto di sangue in una via di Kiev, un soggetto probabilmente inetto a comprendere appieno gli intendimenti in realtà moderati degli aggressori.

E infatti non stiamo discutendo di queste miserie – ciò che a sua volta sarebbe troppo semplice e inutilmente sproporzionato – per addebitarle alla responsabilità di chi, con ogni evidenza, non si rende conto di quel che dice: ma per non essere guardati dall’abisso in cui esse sprofondano alla rinfusa con tutte le parole sbagliate e quelle mancate, con tutte le leggerezze che hanno aggravato il conto di tante tragedie, con tutte le bellurie di cui si è incipriato il profilo identico degli aguzzini di tutti i colori, con tutto il sofisticato bene adibito a dissimulare la semplicità del male.

Il commento sulle parole del dem Enrico Letta. Ucraini popolo di “camerieri, badanti e amanti”, Lucia Annunziata e le polemiche sul fuorionda al Tg3. Redazione su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.  

Ucraini popolo di “camerieri, badanti e amanti”. E’ quanto emerge in un fuorionda nel corso di un collegamento del Tg3 all’esterno dell’ambasciata russa a Roma. Molti hanno studiato, si sono laureati e hanno raggiunto nel corso degli anni l’Italia alla ricerca di un futuro migliore, adattandosi e svolgendo anche lavori più umili. Però stando alle parole pronunciate da Lucia Annunziata, conduttrice di “Mezz’ora in più”, quando si parla di cittadini di nazionalità ucraina il riferimento corre alle “centinaia di migliaia di camerieri e badanti“. Il commento della giornalista emerge nel corso dello speciale del Tg3 sulla guerra in corso tra la Russia e l’Ucraina, esplosa nel cuore della notte di giovedì 24 febbraio dopo l’ordine del presidente Vladimir Putin.

Sono circa le 16.15 e mentre l’inviato intervista il segretario del Pd Enrico Letta nel corso del presidio organizzato all’esterno dell’ambasciata russa a Roma, Annunziata si lascia andare a parole che lasciano sgomenti. Parole che coprono parzialmente il discorso del segretario Dem: “Qui in Italia in questo momento il pensiero va alla comunità ucraina fatta di centinaia di migliaia di persone che si sono integrate nel nostro Paese, che sono in questo momento tutte in una condizione terribile di legame con i loro cari che lì stanno rischiando la morte”.

Il fuori onda non è sfuggito al popolo della rete. Sui social, soprattutto su Twitter, sono decine i commenti di indignazione alle parole della giornalista. C’è chi fa notare anche un terzo commento, proveniente dallo studio, e relativo alla parola, in aggiunta a “badanti e camerieri”, “e amanti…“. Espressione che sarebbe stata pronunciata dal giornalista Antonio Di Bella.

E la “sinistra” RAI scivola nello squallore dell’ Annunziata e Di Bella: “”Ucraine cameriere e badanti”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Febbraio 2022.

Il video in questione è diventato virale sui social, ed aspramente criticate le parole dei due giornalisti notoriamente esponenti della sinistra. I due giornalisti oggi si sono scusati per le proprie parole ignobili pronunciate fuorionda. 

“Cameriere, badanti” e “amanti” questi i commenti ‘fuori onda’ nello Speciale Tg3 sulla crisi Ucraina-Russia, pronunciati da Lucia Annunziata e Antonio Di Bella mentre in collegamento parlava Enrico Letta e i due giornalisti del servizio pubblico televisivo, erano convinti di avere i microfoni chiusi. Il video in questione è diventato virale sui social, ed aspramente criticate le parole dei due giornalisti notoriamente esponenti della sinistra. “Uno scivolone inqualificabile, sgradevole, nelle prime ore drammatiche di una guerra che causerà morte distruzione e dolore”, hanno criticato e scritto in precedenza in una nota l’Esecutivo e il Cpo dell’ Usigrai, augurandosi “che i diretti interessati, Antonio Di Bella, neodirettore dell’intrattenimento daytime, Lucia Annunziata tra le giornaliste più autorevoli della nostra azienda, trovino le parole giuste per scusarsi con le donne e gli uomini ucraini e che l’azienda faccia le opportune valutazioni”. 

I due giornalisti oggi si sono scusati per le proprie parole ignobili pronunciate fuorionda. In una lettera aperta, Lucia Annunziata afferma che “ieri, nel corso dello speciale Tg3, ho criticato una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo ‘migliaia di camerieri, cameriere e badanti’. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità“.

Per Lucia Annunziata si è trattato di “un inciampo che un conduttore dovrebbe sempre saper evitare. Me ne scuso, sinceramente. Il lavoro che come trasmissione stiamo facendo da tempo con cura e precisione sulla crisi spero dimostri quanto il nostro impegno nei confronti dell’Ucraina e dei suoi cittadini sia senza alcuna ambiguità al loro fianco”.

Anche Antonio DI Bella con una propria lettera aperta ha fatto pubblica ammenda delle proprie esternazioni imbarazzanti: “Rilevo dai social che alcuni miei commenti in studio ‘fuori onda’ nello Speciale Tg3 sulla guerra possono avere offeso la comunità ucraina in Italia e in particolare la sua componente femminile. Erano frasi da non pronunciare. Me ne rammarico e chiedo scusa alle donne e agli uomini della comunità ucraina in Italia”.

Quel fuorionda dell'Annunziata sugli ucraini che non indigna. Francesca Galici il 28 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nessun particolare clamore, al di là della bolla social, per le parole di Lucia Annunziata e Antonio Di Bella sugli ucraini in Italia: ma non è una novità.

Partiamo dal presupposto che sbagliare è umano. Detto questo, ci sono errori che, da un certo punto di vista, sono più sbagliati di altri. La voce fuori campo di Lucia Annunziata che, durante il Tg3, parlava degli ucraini come di "camerieri e badanti" con Antonio Di Bella che aggiungeva "e amanti" è senz'altro uno degli errori più antipatici da fare in questo preciso momento storico.

Per carità, a onor del vero va sottolineato che, dopo le feroci polemiche che si sono scatenate online su queste parole, Lucia Annunziata ha provveduto a una celere retromarcia, spiegando che la sua altro non era che una critica a "una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo 'migliaia di camerieri, cameriere e badanti'. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità". Bene, giusto.

Ma poi, durante l'ultima puntata di Mezz'ora in più, Lucia Annunziata si è nuovamente incartata. "La comunità ucraina in Italia è molto larga, è una comunità che, tuttavia, non ha il miglior trattamento, è una comunità che fa i lavori più umili, per noi molto utili, soprattutto per i nostri vecchi e le nostre case, una comunità sicuramente non trattata benissimo, insomma, no?!", ha detto l'ex presidente Rai. Una narrazione goffa, quella di Lucia Annunziata, che ha lasciato basito anche Matteo Salvini, in quel momento in collegamento: "Mi scusi, ma da chi non è trattata benissimo?".

Ovviamente, ma è anche superfluo sottolinearlo, al netto di qualche dichiarazione di circostanza, gli intellò non si sono sicuramente sperticati nel criticare le battutine di Lucia Annunziata e Di Bella sugli ucraini e sulle ucraine. Eppure, solo qualche anno fa (era il 2017) il programma Parliamone sabato di Paola Perego era stato brutalmente attaccato dall'intellighenzia rossa e buonista per un cartello nel quale venivano elencati i motivi per i quali gli uomini si sarebbero dovuti fidanzare con le donne dell'Est. Per quelle critiche il programma era stato cancellato, mandando a spasso numerose maestranze.

Ah, i soliti due pesi e due misure dell'ideologia dei buoni. Per il futuro, per evitare altri scivoloni, consigliamo una massima che si impara da piccoli guardando il cartone animato Bambi. C'è una scena in cui il coniglio Tamburino dice: "Quando non sai che cosa dire, è meglio che non dici nulla". Segnatevela, può sempre tornare utile.

“Gli ucraini? Cameriere, badanti e amanti”. Nella frase di Annunziata e Di Bella c’è la sinistra italiana. Luisa Perri il 25 febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

«Cameriere, camerieri, badanti … amanti». Queste le parole usate ieri da Lucia Annunziata e Antonio Di Bella durante la diretta del Tg3 sulla guerra in Ucraina. Parole pronunciate mentre in collegamento parla Enrico Letta e i due sono convinti di avere i microfoni chiusi.

E proprio quel fuori onda dei due giornalisti, volti storici della sinistra televisiva, dice molto di più di una gaffe o di una battuta da bar sport. «Non capisco che cosa ci sia da stupirsi delle frasi della Annunziata e di Di Bella – commenta su Twitter Alessandro V. – La vera sinistra è questa qui. Quella delle campagne manifesto. Dai migranti, all’ambiente ai temi sociali. Il migrante è bello solo in foto, ma lontano da loro». Proprio il fatto che il fuori onda sia arrivato mentre parlava il segretario dem che solidarizzava con la comunità ucraina nel nostro Paese, la dice lunga sul modo di pensare privato di molti giornalisti radical chic. «Ecco a voi la sinistra italiana», cinguetta un altro utente su Twitter.  Mentre la domanda che regna in queste ore è un’altra:  «Ci saranno strascichi o spiegazioni plausibili dell’accaduto?», chiede il sito Vigilanzatv.  

Oggi anche l’Usigrai, sindacato interno dei giornalisti di viale Mazzini, interviene per stigmatizzare l”episodio. Uno scivolone inqualificabile, sgradevole, nelle prime ore drammatiche di una guerra che causerà morte distruzione e dolore”. Lo scrive in una nota l’Esecutivo e il Cpo Usigrai, augurandosi “che i diretti interessati, Antonio Di Bella, neodirettore dell’intrattenimento daytime, Lucia Annunziata tra le giornaliste più autorevoli della nostra azienda, trovino le parole giuste per scusarsi con le donne e gli uomini ucraini e che l’azienda faccia le opportune valutazioni”. Come finirà? Dato che i responsabili della frase sono due big del giornalismo legati al Partito democratico, non avranno alcuna conseguenza. A viale Mazzini funziona così.

Da adnkronos.com il 25 febbraio 2022.

"Cameriere, badanti" e "amanti". Lucia Annunziata e Antonio Di Bella si scusano per le parole pronunciate fuorionda ieri durante uno speciale del Tg3 sulla crisi Ucraina-Russia. Il video in questione è diventato virale sui social, con le parole dei due giornalisti aspramente criticate.

In una lettera aperta, Annunziata afferma che "ieri, nel corso dello speciale Tg3, ho criticato una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo 'migliaia di camerieri, cameriere e badanti'. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità".

Per Annunziata si tratta di "un inciampo che un conduttore dovrebbe sempre saper evitare. Me ne scuso, sinceramente. Il lavoro che come trasmissione stiamo facendo da tempo con cura e precisione sulla crisi spero dimostri quanto il nostro impegno nei confronti dell'Ucraina e dei suoi cittadini sia senza alcuna ambiguità al loro fianco". 

"Rilevo dai social che alcuni miei commenti in studio 'fuori onda' nello Speciale Tg3 sulla guerra possono avere offeso la comunità ucraina in Italia e in particolare la sua componente femminile. Erano frasi da non pronunciare. Me ne rammarico e chiedo scusa alle donne e agli uomini della comunità ucraina in Italia", afferma Di Bella in una lettera aperta.

"'Cameriere, camerieri, badanti ... amanti'. Queste le parole usate ieri da Lucia Annunziata e Antonio Di Bella durante la diretta del Tg3 sulla guerra in Ucraina. Parole pronunciate mentre in collegamento parla Enrico Letta e i due sono convinti di avere i microfoni chiusi. Uno scivolone inqualificabile, sgradevole, nelle prime ore drammatiche di una guerra che causerà morte distruzione e dolore", ha scritto in precedenza in una nota l'Esecutivo e il Cpo Usigrai, augurandosi -come poi avvenuto- "che i diretti interessati, Antonio Di Bella, neodirettore dell'intrattenimento daytime, Lucia Annunziata tra le giornaliste più autorevoli della nostra azienda, trovino le parole giuste per scusarsi con le donne e gli uomini ucraini e che l'azienda faccia le opportune valutazioni". 

Chi può offendere le donne ucraine. Valeria Braghieri il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

C' è chi può dirlo, e chi non può nemmeno pensarlo. Ucraine «cameriere, badanti»... e «amanti». Se lo stereotipo fosse uscito dalle labbra traboccanti testosterone di qualche esponente politico (di destra, ovviamente) noto per l'animo misogino e grossier, la vicenda avrebbe preso più spazio mediatico del conflitto Russia-Ucraina. Ma inaspettatamente la definizione si è fatta largo sulle bocche intellettuali del politicamente corretto. Se le sono scambiate Lucia Annunziata (nella foto) e Antonio Di Bella in un fuori onda dello Speciale Tg3 sulla crisi Russia-Ucraina, mentre veniva intervistato il segretario Pd, Enrico Letta.

Un po' di bufera social, poi i due giornalisti si sono scusati spiegando che non ce l'avevano affatto con le signore ucraine in Italia bensì con un certo modo di vedere le signore ucraine che vengono in Italia. Ed è esattamente quel cliché che stavano stigmatizzando durante lo scambio fuori onda. Peccato che a parlare, nel servizio, non ci fosse «il solito» Salvini della Lega (portatore insano, secondo alcuni, di simili preconcetti e di molto altro), bensì appunto, il moderato, pacatissimo Enrico Letta del Pd. Perciò non si comprende bene l'esigenza dei due conduttori di «difendere» le signore dell'Ucraina dall'intollerabile sentire comune. Ma tant'è... È esattamente questo che intendevano, a quanto pare, Annunziata e Di Bella in quella gaffe non gaffe a microfoni non spenti. Quindi: loro lo hanno detto perché non lo pensano, sono gli altri che non lo dicono a pensarlo... Non sono Annunziata e Di Bella a descrivere le donne dell'Ucraina che arrivano qui da noi. Loro parlano di come tutti gli altri, tranne loro, le vivono. «Cameriere, badanti, amanti». Ecco chi sono: negli occhi una speranza che rasenta l'ingordigia, i capelli di un qualunquissimo castano, una determinazione «bellica» a prendere di mira le categorie deboli, siano anziani dimenticati dai parenti o uomini soli ma con un reddito aggredibile. Ma non lo dicono Annunziata e Di Bella, lo dicono tutti gli altri. E anche se non lo dicono, comunque lo pensano. E Annunziata e Di Bella lo sanno. Non è la prima volta che il primato intellettuale raggiunge vette divinatorie. E non è la prima volta che la gaffe della padrona va in conto alla cameriera... Valeria Braghieri

Lucia Annunziata e Antonio Di Bella chiedono scusa: "Estrema stupidità". Ma c'è chi invoca le dimissioni. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Sta facendo ancora discutere il fuorionda dello speciale del Tg3 dedicato all'invasione russa dell'Ucraina. Mentre il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, parlava, Lucia Annunziata e Antonio Di Bella si sono lasciati andare a commenti tutt'altro che decorosi. "Centinaia di migliaia di cameriere, badanti", è stato quanto affermato dalla Annunziata mentre Di Bella aggiungeva: "E amanti". Da qui la lettera di scuse. 

"Ieri nel corso dello speciale Tg3 ho criticato una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo ‘migliaia di camerieri, cameriere e badanti’ - scrive in una lunga lettera -. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità. Un inciampo che un conduttore dovrebbe sempre saper evitare. Me ne scuso, sinceramente. Il lavoro che come trasmissione stiamo facendo da tempo con cura e precisione sulla crisi spero dimostri quanto il nostro impegno nei confronti dell’Ucraina e dei suoi cittadini sia senza alcuna ambiguità al loro fianco".

A farle eco anche il direttore di Rai Day Time: "Rilevo dai social che alcuni miei commenti in studio ‘fuori onda’ nello speciale Tg3 sulla guerra possono avere offeso la comunità ucraina in Italia e in particolare la sua componente femminile. Erano frasi da non pronunciare. Me ne rammarico e chiedo scusa alle donne e agli uomini della comunità ucraina in Italia". Ma questo pare non bastare ai telespettatori, che ora si riversano indignati sui social chiedendo le dimissioni dei due giornalisti.

Giorgio Gandola per “La Verità” il 26 febbraio 2022.

C'è più realismo in un cartone animato che nella guerra raccontata dalla Rai. Dopo 24 ore di dirette siamo già tramortiti, circondati da missili che piovono in tinello, depistati dalle cronache epifaniche di Monica Maggioni (in onda h24 ma protagonista del buco sul discorso di Joe Biden), travolti da fake news in volo radente. 

E quando ci assopiamo sfiniti davanti all'ennesima cartina con le frecce che indicano Kiev, ecco il brusco risveglio: è in collegamento Stefania Battistini, con un'enorme scritta «press» sull'elmetto e nessuna notizia. Non per colpa sua; chi è sul campo con una telecamera può solo contare le esplosioni e riprendere i sinistri bagliori della tempesta d'acciaio all'orizzonte.

Come ovviare allo stallo mediatico e tenere sveglio il teledipendente? Ci sarebbero i videogame. Come quello mandato in onda giovedì ad Anni 20 Notte di Rai2 per testimoniare una battaglia aerea. Un errore imbarazzante, invece del frammento bellico stava scorrendo sui teleschermi il videogioco ArmA3 prodotto dalla Bohemia interactive studios e uscito nel 2013, costruito con perizia per rappresentare le strategie d'attacco in un conflitto moderno.

Il conduttore Daniele Piervincenzi commentava così il video: «Questa è la contraerea ucraina che cerca di abbattere uno degli aerei da combattimento di Putin. Lo abbiamo trovato in rete, perché questa è una guerra tradizionale ma ha anche una narrazione social, moderna, contemporanea». Soprattutto falsa; nella trappola sono cadute anche alcune emittenti straniere.Se la fonte principale è il Web, i rischi di uscirne a pezzi sono altissimi.

La Rai non ha temuto di correrli e di collezionare gaffe in un numero mai così alto nella storia della televisione: 24 ore da incubo. «Ecco il bombardamento russo dell'Ucraina», annunciava Rainews 24 diretta da Andrea Vianello, che solo qualche giorno fa aveva partecipato a un corso di «Politica e comunicazione» con i big del Pd sul palco. Era l'esplosione di Tianjin in Cina sei anni fa. Molto bene. Ma l'assalto distopico interattivo non è finito.

Quando il Tg2 ha lanciato il servizio «Pioggia di missili su Kiev», i meno giovani saranno andati con il pensiero a Peter Arnett sul terrazzo dell'hotel Rasheed di Bagdad durante la Guerra del Golfo. Errore: quelle immagini appartenevano a un altro videogame, War Thunder. Domanda retorica del segretario della commissione di vigilanza, Michele Anzaldi: «Possibile che un'azienda con 1.700 giornalisti e decine di direttori e vice esibisca un simile, imbarazzante disservizio pubblico? In questo modo viene usato il canone degli italiani?». 

Silente la sbandierata task force sulle fake news, travolta a sua volta dalle fake news. La collezione di immagini fasulle è proseguita ieri con una perla trasmessa sia dal Tg1 che dal Tg2: il sorvolo di una formazione di caccia russi su Kiev, a conferma che lo spazio aereo è in mano all'aviazione putiniana. In realtà si trattava del video di una parata militare del 2020. L'errore è stato commesso anche da Bbc history Italia, ma in questi casi essere in cattiva compagnia non solleva il morale.

 A peggiorare lo scenario c'è lo svarione di Lucia Annunziata e Antonio Di Bella, che a microfono aperto hanno definito gli ucraini «cameriere, camerieri, badanti, amanti». Travolte da una pioggia di critiche e incalzate anche dal sindacato Usigrai, le due firme della Rai hanno dovuto scusarsi. 

Annunziata: «Al di là del contesto e delle intenzioni, quelle frasi sono suonate inopportune, offensive, un atto di estrema stupidità». Per la Rai di Carlo Fuortes e Marinella Soldi una prova del fuoco da brividi e numeri perdenti dei principali tg. I telespettatori sono adulti, quindi in grado di decidere da soli se farsi informare o giocare alla guerra.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 17 marzo 2022.

L'USIGRai, potente sindacato dei giornalisti della Tv di Stato, ha posto la questione qualche giorno fa: "Perché la Rai continua a ricorrere a risorse esterne in Ucraina? Ha forse ritirato le inviate e gli inviati?". Il riferimento è soprattutto al Tg1 diretto da Monica Maggioni, finito varie volte nel mirino dopo il ricorso massiccio a freelance come Valerio Nicolosi di Micromega a Kiev, e altri esterni come in questi giorni Daniele Piervincenzi dal fronte, per citare solo due nomi dei tanti che - pur non essendo dipendenti Rai né tantomeno in forza al Telegiornale - vengono impiegati comunque dal notiziario della Prima rete per raccontare il conflitto russo-ucraino.

Ed ecco che ieri, mercoledì 16 marzo 2022, al Tg1 è comparso - sia nell'edizione delle 13.30 sia in quella delle 20.00 - in collegamento dalla città di Henishek nell'Ucraina meridionale anche Gian Micalessin del Giornale (ma nel sottopancia non vi era alcun riferimento alla testata come accade quando si tratta di giornalisti esterni in collegamento con il notiziario, lasciando quasi intendere che egli fosse un inviato del Tg1).

Quel Gian Micalessin che è un valente giornalista di guerra ma anche ex fidanzato di Monica Maggioni, che lo coinvolge in ogni suo progetto come il regista David Lynch si tira dietro in ogni film surreale il suo "attore feticcio" Kyle MacLachlan. Per citare un solo esempio recente, Micalessin ha collaborato anche con Sette Storie, il programma settimanale della Monica nazionale andato in onda su Rai1 nella seconda serata del lunedì sera con ascolti non entusiasmanti.

Malgrado la fine della loro relazione, tra Micalessin e Maggioni regna a tutt'oggi un sodalizio mirabilmente indissolubile, dimostrato per esempio ai tempi in cui il giornalista la difese a spada tratta quando la Rai non trasmise la sua discussa intervista al Presidente siriano Bashar Assad (vicenda spinosa di cui più nessuno parla...), scrivendo un j'accuse in cui tacciava di "cialtronaggine" e "piccineria" la Tv di Stato, "dove, grazie ai sindacati, beghe, odii e ripicche interne contano molto di più di scoop e notizie esclusive". Collaborando oggi di fatto con la stessa azienda, deve aver cambiato idea.

Il bravo Micalessin fu anche esposto al pubblico ludibrio da Daria Bignardi nel 2007, allorché, intervistando la Maggioni, la conduttrice apostrofò il giornalista con l'epiteto "bel fascistone", rivangando la sua iscrizione al Fronte della Gioventù. Al punto che egli poi scrisse una lettera al Giornale, redigendo una sorta di coming out in cui rispondeva a tono alla Bignardi ammettendo il proprio passato e snocciolando tutto il proprio curriculum professionale - "ho raccontato una quarantina di guerre" - e sottolineando così che, oltre all'Fdg che l'aveva visto militante dai 17 ai 20 anni di età e all'Msi di cui aveva pagato la tessera, c'era molto di più.

Ovviamente non poteva passare inosservata la sua apparizione in quel "Grand Hotel" che è diventato il Tg1 di Monica Maggioni durante la crisi ucraina, con gente che va e gente che viene e si è perso il conto di quanti sono gli interni e quanti soprattutto gli esterni dispiegati nelle varie zone di guerra. E in rete ieri già molti hanno sottolineato il legame fra Micalessin e la Direttorissima, qualcuno sottolineando che la Maggioni ha "sistemato" anche l'ex fidanzato.

A questo punto torniamo al punto di partenza e ci accodiamo alle questioni poste dall'USIGRai. Qual è il trattamento economico riservato agli "inviati esterni"? Oltre alle risorse interne che già paghiamo con il canone, in che modo i freelance incidono sul budget delle testate (che come ben sappiamo, è anch'esso a carico dei cittadini)? Quanto ci costa tutto questo? La Rai deve fare chiarezza.

DAGONEWS il 26 febbraio 2022.

Sono passate da poco le 9.30 quando Monica Maggioni entra nel bar di Saxa Rubra, seguita da un consistente codazzo di giornalisti del Tg1, che l’hanno appena assistita nell’ennesimo speciale di questa mattina sulla guerra in Ucraina. 

“Non si può entrare senza la mascherina anti Covid - le fa notare con  tono deciso una ragazza in fila alla cassa. 

“Non vede che sto bevendo un cappuccino? - risponde stizzita la Maggioni, alzando la voce con aria visibilmente infastidita, mimando il gesto senza avere nulla in mano.

A quel punto tutto il bar si ferma per vedere come va a finire e interviene una giovane vigilante della Rai, che sembra non riconoscere la direttrice: “Signora, le regole sono uguali per tutti. Deve indossare la mascherina, altrimenti deve uscire dal locale”.

Maggioni prova a resistere, insiste nel dire che sta consumando un cappuccino che non c’è ma alla fine capitola. 

Livida, mette la FFP2 ed è anche costretta, su invito dell’agente, a sfoltire parte della sua corte. 

Un assembramento intorno alla cassa è vietato, come è scritto a caratteri cubitali nei cartelli ben visibili all’interno del bar.

Mauro Suttora per huffingtonpost.it il 27 Febbraio 2022.

Ieri sera ho visto un incredibile programma di Rai2 in cui un (finora ottimo) corrispondente da Mosca giustificava Vladimir Putin, accusando il mondo libero di avere umiliato la Russia dopo il crollo del comunismo, e perciò di avergli provocato la frustrazione che ora gli ha fatto invadere l’Ucraina.

Pure io a questo punto sono frustrato: davvero dobbiamo pagare il servizio pubblico per ricevere propaganda putiniana? Inconsapevole, probabilmente. Perché se a un giornalista si chiede non cronaca ma analisi, e poiché ogni misfatto ha il suo antefatto, è possibile che egli si sbizzarrisca andando a ritroso di trent'anni per "capire" e "spiegare" l'invasione dell'Ucraina (anzi dell'Ucrania, secondo la senatrice ex grillina Nugnes).

Un po' come certi ineffabili sociologi tv che commentano i crimini dando la colpa alla società o alla opprimente architettura del Corviale, invece che ai criminali. 

Lo speciale Tg2 ha illustrato la versione di Putin, accusando gli Usa di avere depredato la Russia negli anni '90. Abbiamo altri ricordi. Se  gli oligarchi (vero nome: mafiosi) russi hanno approfittato delle privatizzazioni, che c'entrano gli Stati Uniti?

Sono stati i vari Berezovsky e Abramovich ad arricchirsi, non miliardari o  società americane. I dirigenti di Mosca si sono fatti corrompere da loro concittadini. In ogni caso, è arduo trovare un rapporto causa-effetto fra accadimenti di un terzo di secolo fa e l'aggressione dell'Ucraina, se non nelle personali paranoie di Putin.

Che si comporta da psicolabile fuori controllo: il botulino gli avrà dato alla testa. Insulta perfino il capo dei suoi servizi segreti in diretta tv, una scena da Fantozzi. Dà dei "tossicodipendenti" e "nazisti" ai dirigenti ucraini liberamente eletti (diversamente da lui, che incarcera o avvelena i suoi avversari).

Sono tanti i figli di Putin in Italia: oltre al corrispondente Rai di ieri sera si stanno esprimendo al meglio Travaglio, Salvini, Lerner, Meloni, Grillo, populisti, complottisti, nostalgici fascisti e comunisti. Tutti quelli che "sì, però anche gli Usa, l'Europa, la Nato".

Immagino che nel settembre 1939, dopo che Hitler e Stalin invasero la Polonia, avrebbero opinato "sì, però anche Francia e Inghilterra". Insomma: se un bandito internazionale invade l'Ucraina, è pure colpa nostra.

Lo storico inglese A.J.P. Taylor fece risalire le cause della Seconda guerra mondiale alle angherie subìte dalla Germania col trattato di Versailles. Ma il suo libro uscì nel 1961. Se lo avesse pubblicato nel 1940, mentre le famiglie della Londra bombardata si rifugiavano in metrò così come oggi quelle di Kiev, sarebbe finito linciato dai suoi connazionali. Cari analisti, l'unico Master of war dylaniano in azione adesso è il Ras Putin. Non cercate peli nell'uovo.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 27 Febbraio 2022.

Dopo i vari scempi avvenuti in questi giorni di copertura informativa Rai sulla guerra russo-ucraina, ecco che la questione diventa politica. Ed è il Partito Democratico per tramite del Deputato Andrea Romano, esponente della Commissione di Vigilanza Rai, a diramare di fatto un ultimatum alla Tv di Stato: "La Rai sta svolgendo una preziosa opera di informazione sull'aggressione russa contro l'Ucraina" scrive su Twitter in una iniziale captatio benevolentiae. 

Ma che serve solo a introdurre la batosta: "Ed è ancora più prezioso che la Rai eviti di dare spazio a falsità palesi e interpretazioni compiacenti verso i crimini di Putin. Attiveremo anche la Vigilanza".

Andrea Romano si riferisce al tweet della vicepresidente della Federazione Italiana Diritti Umani, Eleonora Mongelli, che critica una intervista di RaiNews24 in quota Fratelli d'Italia in cui si rilanciavano gli argomenti della propaganda Russa a proposito del Donbass.

Ci arriva notizia che numerosi deputati del Pd starebbero incalzando la segreteria riguardo ai giornalisti Rai tacciati di fare propaganda russa. Nel mirino Alessandro Cassieri e Marc Innaro, corrispondente Rai da Mosca.

Il tutto dopo le gravi accuse della corrispondente freelance da Kiev, Olga Tokariuk, che in un Tweet ha puntato il dito sulla Rai, rea a suo dire di diffondere notizie false su "mitici nazisti ucraini" e di "giustificare Putin".

Frattanto, la Direttrice del Tg1 Monica Maggioni - ieri finita nel mirino di Dagospia per non aver indossato la mascherina nel bar di Saxa Rubra - viene bacchettata sempre su Twitter dal giornalista Michele Arnese per aver "sfumato - diciamo - il vaticanista Ignazio Ingrao che ricordava la visita del Papa all'ambasciatore russo". La Maggioni, secondo Arnese, avrebbe anche "diplomaticamente - diciamo - criticato il Papa per questa mossa".

Stando alle nostre fonti, il Pd sarebbe molto irritato e preoccupato nelle sue proteste contro la Rai, nella quale però nessuno sembra controllare alcunché. "Dov'è l'Ad Fuortes?" è l'interrogativo che circola in queste ore nelle varie sedi della Tv di Stato. 

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 28 febbraio 2022.  

La guerra russo-ucraina crea mostri. E crea soprattutto fake, che nella copertura informativa Rai in questi giorni stanno dilagando, con spezzoni di videogiochi spacciati per immagini dell'attuale conflitto, esplosioni di sei anni fa in Cina tacciati per bombardamenti e così via. 

L'ultima bufala della Tv di Stato pagata dal canone è stata trasmessa su Rai1, ormai trasformata in TeleMaggioni, visto che la Direttrice del Tg1 è praticamente in onda 24 ore su 24.

Monica Maggioni ha mostrato nello speciale Tg1 di questa mattina, 28 febbraio 2022, una copertina di Time sulla quale Vladimir Putin è ritratto come Adolf Hitler, corredata dalla didascalia How Putin shattered Europe's Dream, "Come Putin ha infranto i sogni dell'Europa".

Maggioni ha quindi preso spunto dalla copertina shock per chiedere al corrispondente da Berlino Rino Pellino cosa ne pensasse, dando via quindi a un inane dibattito, visto che la copertina è un falso (la vera copertina è quella pubblicata qui). 

Al Tg1 si sono poi accorti dell'errore e Maggioni ha commentato in diretta che si trattava di un fake chiedendo scusa. Sarà forse il segnale che le occorre un po' di riposo dalle maratone simil-Mentana, estenuanti non solo per lei ma anche per i telespettatori? 

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 28 febbraio 2022.

A Marc Innaro, corrispondente Rai da Mosca, non manca il coraggio. Perché ne serve tanto per provare a giustificare le mosse di Putin mentre cadono le bombe in Ucraina. «Basta guardare la cartina geografica per capire che, negli ultimi 30 anni, chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato», ha sostenuto durante uno Speciale Tg2.

Il fatto che l'espansione Nato non avvenga coi carri armati ma per libera adesione è un dettaglio. Lo stesso direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, presente in studio, ha preso le distanze. Non è bastato a evitare le polemiche social e la protesta del Pd, che vuole un approfondimento in Vigilanza Rai. Forse non avevano mai seguito un servizio di Innaro, sempre piuttosto ossequioso col Cremlino. C'è da capirlo, per fare il giornalista a Mosca di questi tempi serve prudenza.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 6 marzo 2022.

"Ah... anche poeta!", ironizza la signorina Silvani di Anna Mazzamauro nel film Fantozzi del 1975, commentando i versi che lo sventurato ragioniere interpretato da Paolo Villaggio declama rubandoli a Lorenzo de' Medici e spacciandoli per propri. 

"Ah... anche inviato!" si potrebbe commentare dopo aver visto nello speciale mattutino del Tg1 sull'Ucraina il direttore del Giornale Radio Rai Andrea Vianello in collegamento da Leopoli con la direttrice e conduttrice Monica Maggioni, che neanche il settimo giorno si riposa come fece qualcuno più in alto di lei.

Direttori che fanno i conduttori e che ora fanno anche gli inviati, in una gara di ultrapresenzialismo che non si era mai vista nella Storia della Tv pubblica. Ah, come sembra remoto quel marzo 2013 in cui l'USIGRai attaccava a suon di comunicati sindacali Bianca Berlinguer perché da direttrice del Tg3 qual era osava anche condurre il notiziario della Terza Rete, come ha ricordato qualche giorno fa Pinuccio di Striscia la Notizia. Dobbiamo forse aspettarceli anche a Ballando con le Stelle o sul palco dell'Ariston a cantare con La Rappresentante di Lista o con Orietta Berti? Di questo passo, è alquanto probabile.

Vogliamo poi parlare, sempre nello stesso speciale, del raggelante siparietto fra la Maggioni e Andrea Nicastro, inviato del Corriere della Sera (sempre agli esterni la Rai è costretta a rivolgersi, malgrado oltre 1700 giornalisti interni...)? La direttrice del Tg1 chiede al giornalista se ha già pensato a quale argomento tratterà nelle prossime ore per il Corriere, e quello ovviamente le risponde di no. 

La Maggioni a quel punto, ridendo, confessa in diretta che quella è una domanda che non doveva porgli perché ovviamente Nicastro non anticiperà certo a lei che cosa tratterà per il suo giornale in concorrenza con la Rai. La stessa direttrice del Tg1 è costretta ad ammettere che sembra un "discorso tra matti". Il tutto potrebbe ricordare una parodia dei fratelli Marx, e invece - ahinoi - è il racconto della guerra russo-ucraina da parte della principale testata giornalistica d'Italia.

Domenica In, il crollo di Monica Maggioni: "Oggi Andrea Vianello...", il dramma in diretta tv. Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.

Il Tg1 diretto da Monica Maggioni sta profondendo un grande sforzo per offrire vero servizio pubblico con la copertura della guerra in Ucraina. La situazione è difficile così come lo sforzo è immenso, soprattutto da parte di chi sta raccontando il conflitto sul campo. La direttrice del Tg1 ha fatto fatica a trattenere le lacrime durante un collegamento con Andrea Vianello, inviato da Leopoli.

A un certo punto la Maggioni si è infatti rivolta a lui visibilmente commossa: “Lasciami dire non da collega ma da amica: l’idea che tu sia voluto andare lì è molto importante, continua a raccontarci Leopoli un secondo, per favore, per darmi una mano, grazie”. Più tardi collegandosi con Mara Venier a Domenica In la direttrice del Tg1 ha spiegato perché si è commossa: “Faticavo a trattenere le lacrime per due motivi ben diversi tra loro. Il primo è ovviamente il racconto dei profughi ucraini, di cui testimoniamo il dramma da oltre una settimana”. 

Il secondo motivo è invece più personale: “Andrea Vianello è un amico oltre che un collega e mi sono commossa per la sua decisione di andare a fare quello che tutti noi giornalisti vorremmo fare, cioè raccontare ciò che accade direttamente sul campo. E considerando la sua vicenda umana, lo trovo qualcosa di incredibile”. 

Domenica In, lo sfregio di Monica Maggioni alla destra italiana: "Vladimir Putin? In tutti questi anni..." Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.

Negli ultimi giorni, Monica Maggioni è chiacchieratissima: l'ex presidente della Rai è infatti un po' ovunque, prezzemolina televisiva. E per questo è finita anche nel mirino di Striscia la Notizia.

E così oggi, domenica 6 marzo, ecco che la ritroviamo anche a Domenica In, nel regno di Mara Venier, la trasmissione di Rai 1 che per la prima volta da tanto tempo a questa parte non apre parlando dell'emergenza coronavirus. Già, c'è in atto un'emergenza ben peggiore: la terrificante invasione dell'Ucraina scatenata da Vladimir Putin, il presidente di una Russia che sta facendo strage di civili.

Monica Maggioni, insomma, in studio per fare il punto sul conflitto, per un'analisi. La giornalista punta il dito contro Vladimir Putin, affermando che la guerra "è soltanto una sua responsabilità". Dunque, un discorso un poco peloso: "In questi anni ci siamo fatti affascinare dagli uomini forti al potere. E ora vediamo la differenza tra il potere nelle mani di pochi e la democrazia", afferma. Nessun riferimento esplicito, eppure non è difficile cogliere in queste parole un attacco alla destra, ai "sovranisti". Ma, così, è troppo facile: questo Vladimir Putin, questa versione dello zar, questo orrore, francamente fino a pochi giorni fa sembrava del tutto inimmaginabile. E nessuno, in Italia, si sarebbe mai fatto "affascinare" dall'uomo forte al potere che veste i panni del guerrafondaio sanguinario.

Gio.Vi. per "la Repubblica" il 28 febbraio 2022.

Prima ha dato la colpa all'Alleanza atlantica. «Basta guardare la cartina geografica per capire che negli ultimi trent' anni chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato». Poi ha accreditato la tesi putiniana della fuga del presidente ucraino a Leopoli. Il tutto nel giro di 24 ore, quelle cruciali dell'invasione. 

Due servizi trasmessi non dalla Tv pubblica di Mosca, bensì dalla Rai. Firmati dal corrispondente Marc Innaro per il Tg2 Post e il Tg1, hanno fatto saltare sulla sedia Enrico Letta. Irritato, il segretario del Pd, per un'informazione che dovrebbe smontare le fake news del Cremlino, non amplificarle.

Come avrebbe invece fatto RaiNews24 intervistando una sedicente documentarista che ha parlato di «presunte invasioni » e definito il cambio di governo in Ucraina a fine 2013 come «un golpe operato da una manovalanza neofascista ». Parole che hanno subito suscitato la rivolta social. «Quanto detto è di una falsità gravissima, vergognoso per il servizio pubblico», tuona Elena Mongelli, vicepresidente della Fondazione diritti umani. La Rai «disinforma sui nazisti ucraini» e «giustifica Putin», accusa la freelance russa Olga Tokariut. 

Al Nazareno c'è allarme. «In un momento in cui la propaganda russa agisce in modo pervasivo, è inammissibile che vi siano spazi di cedimento nel servizio pubblico. Un conto è la libertà di espressione dei giornalisti, un altro farsi megafono di una parte». Tant' è che la questione, già discussa coi vertici aziendali, verrà ora portata in Vigilanza. Per chiedere, come già si è fatto con gli opinionisti no-vax, di non offrire sponde a quelli filorussi. 

«La Rai sta svolgendo un gran lavoro di informazione sull'Ucraina», premette il commissario dem Andrea Romano. «Proprio per questo deve fare massima attenzione a non diffondere notizie false (come quella di Marc Innaro sabato sera al Tg2 Post, secondo cui la Russia sarebbe stata provocata dall'espansione a Est della Nato) e a non ospitare commentatori compiacenti verso i crimini di Putin come è accaduto a RaiNews24». 

Un intervento, quello nel talk della rete cadetta, per la verità confutato in diretta dal direttore Gennaro Sangiuliano. Il quale ha subito precisato che «una cosa dev' essere chiara: qui c'è un aggressore, cioè Putin, e una vittima, Zelensky e il popolo ucraino», per poi denunciare «la violazione dei trattati internazionali» e stigmatizzare l'uso della forza. «Per me», dice, «parla il mio telegiornale», uno dei pochi ad aver «dato voce agli oppositori del presidente russo».

Ora tocca all'ad Fuortes decidere cosa fare. I corrispondenti, com' è noto, non dipendono dalle testate ma sono nominati dall'azienda. E Innaro sta a Mosca da almeno tre lustri. Forse - si dice in Rai - è arrivato il momento di cambiare.

Marc Innaro silurato dalla Rai? "Cosa è arrivato a dire su Putin e la Russia": rivolta nel servizio pubblico.  Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.

Marc Innaro è il corrispondente Rai che si trova a Mosca ormai da tre lustri e che nelle prime ore dell’invasione russa in Ucraina si è reso protagonista di due interventi che hanno sollevato parecchie polemiche, soprattutto a livello politico. In uno Speciale del Tg2, Innaro ha infatti sostenuto che “basta guardare la cartina geografica per capire che, negli ultimi 30 anni, chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato”.

Affermazione parziale, che trascura un “dettaglio” decisivo, ovvero che l’espansione della Nato è avvenuta per libera adesione e non con la guerra. Lo stesso direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, ha preso le distanze ma non è bastato per evitare le polemiche e soprattutto un approfondimento in Vigilanza Rai. Poi Innaro al Tg1 ha però accreditato la tesi di Vladimir Putin della fuga del presidente ucraino Zelensky a Leopoli, rivelatasi una fake news. 

Anche in questo caso le reazioni politiche non sono tardate ad arrivare, soprattutto dalle parti del Pd: “In un momento in cui la propaganda russa agisce in modo pervasivo - sono intervenuti dal Nazareno - è inammissibile che vi siano spazi di cedimento nel servizio pubblico. Un conto è la libertà di espressione dei giornalisti, un altro farsi megafono di una parte”. Toccherà all’ad Fuortes decidere cosa fare: i corrispondenti dipendono dall’azienda e non dalle testate.

Diego Fusaro si schiera con Putin: "Sciagurato espansionismo della Nato". E pubblica questa foto. Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.

Diego Fusaro, controcorrente per definizione, prima sui vaccini e sul Green pass e ora sulla guerra in Ucraina, sostiene in un tweet sostanzialmente che non è tutta colpa di Vladimir Putin. E pubblica sul suo profilo Twitter una mappa dell'Europa con l'"espansione" della Nato dal 1998 al 2022. Come si vede dalla cartina, da allora a oggi, hanno aderito Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Estonia, Albania, Macedonia, Ungheria, Romania e Bulgaria. 

Quindi, commenta il filosofo: "La ripropongo, perché è tutto qui il cuore del problema. La guerra, che certo condanniamo, è l'esito ultimo di questo sciagurato espansionismo atlantista". Insomma, sembra dire Fusaro, è colpa della Nato se Vladimir Putin si è "innervosito" e ha attaccato l'Ucraina. 

In un tweet precedente aveva scritto: "Putin chiede come condizione fondamentale che Kiev resti neutrale, cioè che non entri né nella Nato né nella Ue. È una condizione ragionevolissima, sta ora alla Ue e alla civiltà del dollaro porre fine al conflitto rispettando questa condizione". 

Massimo Galanto per tvblog.it il 27 Febbraio 2022.

“La comunità ucraina in Italia è molto larga, è una comunità che, tuttavia, non ha il miglior trattamento, è una comunità che fa i lavori più umili, per noi molto utili, soprattutto per i nostri vecchi e le nostre case, una comunità sicuramente non trattata benissimo, insomma, no?!“. 

Così Lucia Annunziata oggi è riuscita nell’impresa di ripetere la gaffe commessa pochi giorni fa, quando, durante lo speciale del Tg3 dedicato alla guerra provocata dalla Russia, credendo di avere il microfono spento, si era fatta sfuggire, a proposito della comunità ucraina in Italia, la certamente sgradevole frase “centinaia di migliaia di cameriere e badanti”.

Un’uscita per la quale poche ore dopo aveva fatto ammenda pubblicamente (ma non in televisione), insieme ad Antonio Di Bella, che aveva completato la frase aggiungendo un sarcastico ed evitabilissimo “e amanti“. 

Nella puntata odierna di Mezz’ora in più, la giornalista, nel porre una domanda a Matteo Salvini, ospite in collegamento, è sembrata incartarsi ed è scivolata nuovamente su una descrizione apparentemente discriminatoria (soprattutto per il modo in cui è stata espressa, più che per i contenuti) della comunità ucraina che vive nel nostro Paese, ma anche dei “vecchi” italiani.

Per la cronaca, anche oggi accanto a Lucia Annunziata in studio era presente Antonio Di Bella, ma stavolta il direttore del daytime Rai ha evitato battute (i più maliziosi aggiungerebbero: o il suo microfono a ‘sto giro era spento). 

Arriveranno le scuse/precisazioni della Annunziata anche stavolta oppure la giornalista ex Presidente Rai deciderà di soprassedere? E, soprattutto, nei prossimi giorni tornerà ad esprimersi in maniera così goffa sulle donne e sugli uomini ucraini che vivono in Italia? 

Tagadà, Andrea Purgatori sorprende tutti: “Vladimir Putin non ha tutti i torti”. Le pesanti accuse ad Europa e Nato. Il Tempo il 24 febbraio 2022

Andrea Purgatori e la situazione di crisi tra Russia e Ucraina. Il conduttore di Atlantide è ospite della puntata del 24 febbraio di Tagadà, programma di La7 condotto da Tiziana Panella, e si sofferma sulla guerra nell’Europa dell’est: “Non si può fare un’analisi corretta di quanto sta succedendo se la facciamo da tifosi, bisogna fare un'analisi fredda e cinica, sennò non ne usciamo. Davvero pensiamo che Vladimir Putin non abbia calcolato le ripercussioni finanziarie su Borse e mercati dopo aver programmato una campagna militare così? Se vogliamo essere tifosi diciamo di no… L’analisi sui mercati si può fare solo tra una settimana. Ma davvero pensiamo che il capo maggiore dell’aeronautica russa si sia messo a piangere perché non può avere il visto per l’Europa dopo le sanzioni? Ma sai quanto gliene frega?”.  

“Il problema - va avanti Purgatori - è sulla distanza. Putin aveva messo in conto persino la manifestazione del Pd davanti all’ambasciata russa, non gliene può fregare di meno. Lui sapeva benissimo che l'Ucraina non sarebbe stata difesa da nessuno, perché la NATO non ha predisposto alcun tipo di contromisura rispetto al fatto che lui da due settimane ha ammassato 200 mila uomini, mezzi militari e aerei ai confini del Paese. Abbiamo visto come si è mossa l’Europa… Non gliene frega niente! Io penso che nel giro di due settimane tutti i Paesi europei andranno a contrattare individualmente con la Russia ciò che gli serve, e penso anche che Putin non interromperà mai il flusso del gas che sta dando sia all’Italia che alla Germania e agli altri Paesi, perché non gli conviene. Si prende le sanzioni su cui si è costruito un paracadute con la Cina dieci giorni fa. L'obiettivo di Putin - conclude il giornalista - è prendersi l'Ucraina perché sostiene, e non ha tutti i torti, che la NATO ha messo i piedi e le mani sull'Ucraina creando un problema di sicurezza alla Russia. Abbiamo vissuto altri momenti complicati e di tensione e le reazioni sono state misurate sul medio-lungo periodo”. 

L'aria che tira, Cecchi Paone a valanga: Putin come Hitler, dittatore nazista. Friedman: e Zelensky è ebreo... Il Tempo il 24 febbraio 2022

"Tutti parlano di Vladimir Putin come di un autocrate perché hanno scheletri nell'armadio, la verità è che è un dittatore". Alessandro Cecchi Paone dipinge così il presidente russo nel giorno dell'invasione militare dell'Ucraina che ha portato la guerra in Euopa. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, il giornalista riprende il ragionamento fatto poco prima da Alan Friedman. 

Ucraina, scatta la grande fuga da Kiev. Il mondo prepara la reazione a Putin

"Ha usato delle parole che nessuno usava, cioè che Putin è un dittatore che non rispetta la democrazia e la libertà" dice Cecchi Paone nella puntata di giovedì 24 febbraio. Il commentatore rincara la dose: "Putin somiglia molto a un nazista, a Hitler, che sta facendo quello che il Fuhrer ha fatto nei Sudeti, con l'Austria e con la Polonia". Friedman a riguardo ricorda che "il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky è un ebreo". Il presidente russo per Cecchi Paone "è un dittatore nazista post-comunista". 

Meloni al fianco di Kiev: "Attacco inaccettabile". Salvini azzera il Pd, l'attacco assurdo su Putin

"Putin andrà avanti con la sua operazione di violenza contro l'Ucraina. La guerra c'è ma l'Europa non entrerà nella guerra, non c'è il rischio di una guerra mondiale ma noi non siamo in grado di fare un bel niente", ribadisce Friedman. 

Gennaro Sangiuliano su Vladimir Putin: "Perché non si fermerà all'Ucraina", i prossimi obiettivi dello zar. Gianluca Veneziani Il Tempo il 25 febbraio 2022.

Per ben comprendere le strategie geopolitiche di Putin sarebbe opportuno leggere il libro del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar (Mondadori), pubblicato per la prima volta nel 2015 e quanto mai profetico e perciò attualissimo.

Sangiuliano, se vogliamo capire Putin dobbiamo tornare a 10 anni prima della sua nascita, quando il padre restò ferito e la madre rischiò di morire per denutrizione durante l’assedio di Leningrado (dal 1941 al 1944)?

«Sì, lui è un figlio dell’Urss e dell’assedio di Leningrado, dove i russi persero 700mila vite umane e Putin subì danni diretti a livello familiare. Tra l’altro in quell’occasione morì il fratello di soli 7 anni, Viktor, che lui non conobbe mai. Tutta la sua psicologia è generata dalla sindrome dell’assedio, ossia dall’idea che la Russia venga assediata e abbia necessità di difendersi dalle minacce esterne. A questo trauma si somma quello della dissoluzione dell’Unione Sovietica: a quell’epoca Putin era il capostazione del Kgb a Dresda. Dopo il crollo dell’Urss lui tornò a vivere a Leningrado. Il suo unico bene era un’automobile Volga, a un certo punto ipotizzò addirittura di mettersi a fare il tassista, non sapendo più come poter sostentare se stesso e la sua famiglia. Tutta questa sua psicologia contorta non giustifica quello che sta facendo ora ma ci aiuta a capirlo». 

Quanto la sua esperienza nel Kgb gli ha permesso di maturare abilità strategiche e diplomatiche che ha messo a frutto in questi giorni?

«Quando crollò l’Urss, il Kgb fu l’unico apparato che restò in piedi e funzionante, essendo un’élite della società russa, uno Stato nello Stato. Il Putin di oggi è ancora il tenente colonnello del Kgb. Lo si era visto già anni fa, con l’intervento in Cecenia, prova generale dell’Ucraina. Putin fu di un’estrema durezza ai limiti della forza bruta»,

Nel suo mito di una Grande Russia, Putin si rifà più all’Impero zarista o all’Unione Sovietica?

«Quando cadde l’Urss, e tutti quanti toglievano i quadri di Marx, Lenin e Stalin dalla stanze, Putin li sostituì con il quadro di Pietro Il Grande, una chiara evocazione della Russia zarista. Il presidente russo ha anche detto però che non si può non rimpiangere l’Unione Sovietica. È singolare a proposito ciò che accade nella parata di maggio per celebrare la vittoria sul nazifascismo: vedi sfilare le unità della Marina cui è stato ridato il simbolo di falce e martello, e altre unità che portano invece il nastrino giallo e nero, i colori dello zar. I riferimenti di Putin sono un miscuglio tra zarismo e comunismo, forze antitetiche sul piano della storia: lui ha cercato di sintetizzare nello spirito russo questi due tratti». 

Il Putin di oggi è più uno strenuo nazionalista o un imperialista?

«È un imperialista che utilizza contro l’Ucraina l’armamentario antinazista, visto che una parte degli ucraini durante la Seconda Guerra Mondiale si schierò con Hitler. La sua filosofia geopolitica di riferimento è il panslavismo: lui desidera un’area di influenza geopolitica che coincida con la vecchia Urss, e quindi comprenda le repubbliche baltiche, la Moldova e le repubbliche dell’Asia centrale e del Caucaso».

Quanto conta in questa missione putiniana il tema dell’identità nazionale?

«Indubbiamente Putin ha ridato orgoglio al suo popolo. Ma, secondo un sondaggio di ieri, “solo” il 53 per cento dei russi condivide la sua iniziativa militare. È sì una maggioranza, ma non schiacciante. La verità è che la società russa si è evoluta, i russi hanno cominciato a viaggiare e ad apprezzare i valori di libertà e democrazia. E in questo momento storico Putin è un personaggio isolato, che vive all’interno della sua cerchia, chiuso nel suo castello, circondato da persone che gli danno una falsa rappresentazione della realtà. Questo isolamento alla lunga può portare alla paranoia».

Questa guerra di Putin si spiega più con l’economia, la geopolitica o l’ideologia? 

«Il fattore prevalente è quello geopolitico. Ma le sue mosse si spiegano anche con una sorta di logoramento del potere. Sono passati più di vent’anni da quando Putin è diventato per la prima volta premier e poi presidente. Il suo potere si è via via logorato, e ora lui prova a ridargli smalto lanciando una guerra patriottica».

L’azione di Putin può essere paragonata alla “guerra di Stalin” all’Ucraina di 90 anni fa che causò la Grande Carestia?

«In questa vicenda ci sono tutte le stigmate della storia. Da una parte gli ucraini ricordano lo sterminio che Stalin fece ai loro danni con la Grande Carestia. A loro volta i russi ricordano come gli ucraini diedero uomini e forze alle Waffen SS».

C’è chi sui giornali italiani ha scritto di “fascismo rosso” a proposito di Putin e c’è chi paragona la sua invasione dell’Ucraina a quella di Hitler della Polonia. Sono paragoni destituiti di senso?

«Sì, non dimentichiamo che Putin era un membro del Partito comunista dell’Urss». 

"Putin? Sta giocando una roulette russa". Caracciolo svela l'impensabile: "C'è il rischio che qualcuno lo...". Zar sostituito? 

Hanno sbagliato i sovranisti europei a elevarlo a loro punto di riferimento?

«Non parlerei di errore. Sbaglia chi esalta Putin, dimenticandosi che noi dobbiamo essere atlantisti. Ma sbagliano anche i liberal che non vogliono comprendere la profondità di certi processi storici. Anche Solzenicyn sosteneva che la Russia non sarebbe mai potuta diventare come gli Usa. E lo stesso Sergej Brin, russo cofondatore di Google, nota come la Russia vada rispettata nella sua peculiarità storica».

Quanto al sogno putiniano di una grande Russia contribuisce la  debolezza di Europa e Usa, private di figure di spessore Trump e Merkel?

«Innanzitutto dobbiamo ricordare che Putin preparava questa mossa da mesi. Non organizzi un’invasione su così larga scala in poche settimane. L’Occidente da 3-4 anni è distratto rispetto alle vicende ucraine, mostrando la sua fragilità. Biden poi non è all’altezza di Obama, Clinton o George W. Bush, non è un leader di statura. Mancano infine figure come Berlusconi, che fece un grande lavoro a Pratica di Mare, consentendo di evitare scene come quelle a cui stiamo assistendo oggi».

Nel suo saggio lei cita il libro Lo scudo e la spada, avidamente letto da Putin, e i libri di spionaggio di John le Carrè, come utili strumenti per comprendere la psicologia del presidente russo. Putin è un personaggio letterario?

«Lui dà l’impressione di confondere letteratura e realtà. Una certa megalomania del personaggio va letta indubbiamente in questa direzione».

Marco Zonetti per vigilanzatv.it l'1 marzo 2022. 

Chi si sintonizzasse sulla Rai per seguire il dipanarsi del conflitto russo-ucraino, si sarà accorto che i collegamenti da Kiev nel notiziario del Tg1 sono gestiti dal giornalista Valerio Nicolosi di Micromega, di fatto una risorsa esterna al Servizio Pubblico.

Questo malgrado per la crisi tra Russia e Ucraina il notiziario della Prima Rete Rai abbia dispiegato ben sette inviati - come ha fatto notare il Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi - senza contare i quattro del Tg2 e quello del Tg3. Per un totale di dodici, ovviamente tutti a spese nostre. Inutile dispiego di mezzi che si sarebbe risparmiato se fosse stato implementato il piano Newsroom, la cui necessità si fa sempre più impellente nel momento in cui tramite le nuove tecnologie l'informazione cambia alla velocità della luce.

Tornando alla stretta attualità, il problema è che i suddetti inviati non si trovano a Kiev e quindi le uniche informazioni riguardanti il luogo attualmente cruciale nel conflitto vengono desunte dai resoconti di Valerio Nicolosi. A questo punto, ci sfugge il senso di aver mobilitato così tante persone, viste anche le continue gaffe che hanno costellato la copertura informativa Rai del conflitto, come più volte segnalato anche da Dagospia.

Per giunta, come mai il buon Nicolosi si trova a Kiev, quando invece gli altri inviati Rai non ci sono? Semplice, perché il giornalista di Micromega ha avuto la lungimiranza di organizzarsi preventivamente, cosa che invece a quanto pare con oltre 1700 giornalisti su cui può contare la tv pubblica, quest'ultima non è riuscita a fare. Tanto, ribadiamo, paghiamo noi. 

Rai, sprechi in Ucraina: chi è l'uomo in collegamento col Tg1, l'ultima follia coi nostri soldi. Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.

Stanno suscitando diverse polemiche i collegamenti da Kiev di Valerio Nicolosi all’interno del Tg1. Il giornalista di Micromega è una risorsa esterna del servizio pubblico, e ciò fa storcere il naso ad alcuni membri della Commissione di Vigilanza Rai, dato che il notiziario può avvalersi di ben sette inviati per raccontare la guerra scatenata in Ucraina da Vladimir Putin. 

In particolare Michele Anzaldi, segretario della Commissione, ha sollevato la questione, che è stata ripresa da Marco Zonetti su vigilanzatv.it: “Il problema è che gli inviati non si trovano a Kiev e quindi le uniche informazioni riguardanti il luogo attualmente cruciale nel conflitto vengono desunte dai resoconti di Valerio Nicolosi. A questo punto, ci sfugge il senso di aver mobilitato così tante persone, viste anche le continue gaffe che hanno costellato la copertura informativa Rai del conflitto, come più volte segnalato anche da Dagospia”.

Inoltre vigilanzatv.it ha spiegato come mai Nicolosi si trovi a Kiev e gli inviati della Rai invece no: “Il giornalista di Micromega ha avuto la lungimiranza di organizzarsi preventivamente, cosa che invece a quanto pare con oltre 1700 giornalisti su cui può contare la tv pubblica, quest’ultima non è riuscita a fare. Tanto, ribadiamo, paghiamo noi”.

"Le tv un bersaglio dai Balcani a Gaza. Ora rischiamo una nuova Sarajevo". Massimo Malpica il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il generale Camporini: "Il cambio di tattica fa parte delle strategie belliche. Per raggiungere i suoi obiettivi Mosca farà più danni e vittime".

È una giornata in cui l'attacco russo all'Ucraina si fa più violento quella che precede il secondo round dei negoziati. E anche il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica militare e della Difesa, ex presidente del Centro Alti Studi della Difesa e oggi responsabile sicurezza e difesa di Azione, vede da parte russa «un cambio di tattica». «Sembra che siamo passati a una fase più muscolare, mettendo sotto tiro tra l'altro elementi classici delle strategie belliche da sempre», esordisce.

Si riferisce alla torre della tv di Kiev?

«La torre delle comunicazioni è da sempre un obiettivo, è stato così durante le campagne dei Balcani e anche a Gaza. Si tratta di obbiettivi molto paganti perché consentono di rendere difficoltose le comunicazioni e la circolazione delle informazioni, qualcosa che a un attaccante fa molto comodo».

Resta il dato di fatto di una guerra che non è stata affatto «lampo». Non c'è il rischio che tra lentezza russa e resistenza ucraina Kiev diventi una nuova Sarajevo?

«Il rischio esiste, perché un generale che ha un obiettivo e non riesce a raggiungerlo con l'uso minimo della forza, tenderà a usare un livello accelerato di forza, con conseguenti maggiori danni e maggiori vittime. Ma questa operazione è partita con un bagaglio di intelligence molto modesto, perché abbiamo ormai l'evidenza che nessuno a Mosca si sarebbe aspettato una reazione così vivace da parte ucraina e una capacità politica di resistere da parte di Zelensky: tutti si aspettavano anzi che la questione si sarebbe chiusa nell'arco di 48 ore e d'altronde Putin lo aveva detto apertis verbis anche a Xi Jinping. Non è andata così, e il tutto presuppone una cattiva base informativa che è arrivata fino a Putin. Questo è gravissimo. Evidentemente il servizio di intelligence russo non ha fornito al capo in testa le informazioni che gli erano indispensabili per prendere le sue decisioni».

Il rischio forse più grande per i russi ora è la guerriglia...

«Secondo me è la disponibilità che sembra essere stata incrementata dalle decisioni occidentali di disporre di armi anticarro che possono essere utilizzate con esiti mortali contro le colonne corazzate. Perché la possibilità di fare agguati diventa di semplicità elementare. I russi potrebbero contrastare questo pericolo solo utilizzando in modo sinergico la fanteria e i mezzi corazzati, con i fanti a terra che prevengono i rischi di imboscate e permettono l'avanzata. Ma questo presuppone degli automatismi tra i vari componenti delle squadre, che però non si acquisiscono in poche settimane, e da quanto ho letto una parte significativa delle truppe russe è formata da ragazzi di leva, poco adatti a mettere in campo queste tattiche sofisticate».

L’Informazione. Gary Shteyngart: «Per sette giorni ho guardato la tv russa. Nel Putin-show i tank arrivano fino a Berlino». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.

Lo scrittore nato a San Pietroburgo, emigrato in America a 7 anni: «Mio nonno, ebreo e ucraino, morì difendendo Leningrado e la Russia dall’avanzata dei fascisti nella Seconda Guerra Mondiale. Dieci anni dopo la sua morte, il fascista Putin è nato nella città che mio nonno difendeva». 

Dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014, Gary Shteyngart si chiuse in un hotel di Manhattan per sottoporsi a un esperimento di cui scrisse sul New York Times: 7 giorni davanti a tre schermi che trasmettevano ininterrottamente i tre canali della tv di Stato russa. Lo scrittore nato a San Pietroburgo, emigrato in America a 7 anni — vero nome Igor, vero cognome Steinhorn, traslitterato male dai sovietici, come racconta nell’autobiografia «Mi chiamavano piccolo fallimento» (Guanda) — si chiedeva come sarebbe emerso da quei 7 giorni. Avrebbe amato Putin? Sarebbe impazzito? Tra un balletto e un film, i notiziari rappresentano l’Ucraina come un Paese in mano ai nazi-fascisti mentre Putin, Salvatore della Nazione, dona caramelle e libri di storia ai bambini profughi del Donbass. «Ed è questa la genialità della tv russa e il motivo per cui guardarla è così doloroso. A meno che tu sia un vero credente, il suo continuo frastuono ti ricorda che sei solo, all’interno dei progetti di un altro uomo: Vladimir Vladimirovich Putin. Questi sono i suoi canali, i suoi show, i suoi sogni, la sua fede. Quando guardi il Putin Show, vivi in una superpotenza. Sei un ribelle in Ucraina che rade al suolo l’aeroporto Donetsk con armi russe. Sei la nonna russofona sulle macerie della sua casa di Lugansk, che grida contro i nazi-fascisti come fece sua madre quando i tedeschi invasero oltre 70 anni fa. Soffrire e sopravvivere: essere russo deve significare questo. Era così nel passato e lo sarà per sempre».

La tv è la principale fonte di notizie per i russi— specialmente di mezza età o anziani fuori da Mosca e San Pietroburgo — ma riesce a condizionare la percezione di questa guerra e a far credere che Putin voglia «denazificare» l’Ucraina?

«Ho parenti che non si sono vaccinati perché ascoltano la propaganda russa e credono che Pfizer e Moderna non siano sicuri. Le loro intere vite sono cambiate per via di questa propaganda. Ora queste imagini dovrebbero giustificare la guerra, ma tutti in Russia sanno che l’Ucraina non è l’aggressore. Solo chi ha subito un totale lavaggio del cervello può pensare che ciò che sta accadendo sia stato causato dagli ucraini. Se la Russia si inventasse che il nemico è la Mongolia e che i mongoli sono fascisti, la gente potrebbe crederci più facilmente ma ci sono 20 milioni di russi che hanno parenti in Ucraina, come fai a convincerli che questa guerra è necessaria? Penso che ci sia una differenza generazionale, i giovani usano molto più internet per informarsi. In Russia c’erano dei meravigliosi giornali, ma quel che era stato costruito dopo il collasso dell’Unione sovietica è stato demolito da Putin per una ragione molto pratica: non può permettersi che si vedano cose come i video di Zelensky in tv».

In solidarietà con gli ucraini ha pubblicato la foto di un piatto di holubtsi, cavolo ripieno, scattata nel celebre ristorante ucraino Veselka a Manhattan: è il suo piatto preferito tra quelli che cucinava sua nonna Polina. «Babuskha Poya» come la chiamava da bambino, era nata in Ucraina che andò a Leningrado (oggi San Pietroburgo) per sfuggire alla fame sotto Stalin.

«La gente andava e veniva, ci sono tante persone di origini ucraine in Russia, incluso uno dei miei migliori amici, che guardano con orrore ciò che sta accadendo. Qualcuno mi ha scritto via email: “Mi vergogno di appartenere ad un Paese che sta infliggendo dolore a quelli che chiama fratelli e sorelle”. Mio nonno Isaac, ebreo e ucraino, morì difendendo Leningrado e la Russia dall’avanzata dei fascisti nella Seconda Guerra Mondiale. Dieci anni dopo la sua morte, il fascista Putin è nato nella città che mio nonno difendeva. E ora questo fascista attacca un presidente ebreo legittimamente eletto in Ucraina, tenta di smembrare il Paese e uccide la sua gente. C’è una strana circolarità nella Storia».

Putin si presenta — anche in tv — come un uomo di profonda fede: a messa, circondato da donne con fazzoletti sul capo e preti barbuti bardati d’oro.

«Tra i consiglieri di Putin ci sono preti ortodossi di destra che lo orientano a pensare che Kiev è il centro e la fonte della civiltà russa e dell’ortodossia orientale e che conquistare quel Paese è un modo non solo di ripristinare un potere imperiale ma anche un potere spirituale».

Fino a dove vuole arrivare Putin?

«In quei sette giorni di tv russa ricordo di aver visto un grafico di pessima qualità che mostrava i tank russi alla Porta di Brandeburgo, come a dire “possiamo conquistare Berlino, possiamo arrivare fino a Londra se vogliamo”. So che non succederà ma è nella mente di quest’uomo e dei preti neofascisti e dei cosiddetti intellettuali che ascolta».

Le proteste in Russia possono avere un impatto?

«Sono piccole proteste. Quando Navalny fu messo in carcere le manifestazioni furono soppresse con inimmaginabile brutalità: c’è un video girato nella mia San Pietroburgo che mostra una Babuskha colpita allo stomaco da un agente antisommossa. Ora guardo queste persone coraggiose: possono perdere il lavoro, la libertà, i mezzi di sostentamento, eppure protestano lo stesso. Ma c’è bisogno che lo faccia l’intera popolazione. Persino in Bielorussia, nonostante le manifestazioni di massa, non sono riusciti a farcela, soprattutto a causa di Putin».

L’altra sua nonna, Galya, che da bambino le dava un pezzo di formaggio per ogni pagina che scriveva (così completò il suo primo romanzo su un’oca magica che guida la rivoluzione socialista in Finlandia), era nata nell’attuale Bielorussia. Quindi ha due nonne originarie di Paesi nelle mire di Putin.

«Uno è caduto, l’altro è sotto parziale occupazione. Ma gli ucraini si sono ribellati all’autocrazia, mentre i russi restano per la maggior parte al fianco di un pazzo. Certo, le elezioni sono fraudolente, ma probabilmente più del 50% della popolazione voterebbe per Putin. Mi dispiace, ma i culti non si formano da soli, ci devono essere persone che vogliono esserne parte. E penso che questo sia succedendo alla Russia. Ma l’Ucraina è la linea del fronte di una battaglia che tutti dobbiamo combattere, anche voi in Italia e noi in America. Quando Trump va in tv e dice che Putin è un genio e altri repubblicani lo seguono, viene meno l’unità necessaria per combattere questa guerra».

 La guerra della Russia in Ucraina e la ricerca della verità sulle orme di Tolstoj. Fernando Gentilini su La Repubblica il 28 febbraio 2022.

Durante la guerra di Crimea i reportage da Sebastopoli dello scrittore Conquistarono il grande pubblico russo, perché erano veri, in un tempo in cui gli altri scrivevano di sciabole luccicanti per autoingannarsi e ingannare. Anche a questo punto della "guerra di Putin" si sente forte il bisogno di evitare la menzogna.  

Mi consolo a immaginare che tra i soldati russi che in questi giorni hanno invaso l'Ucraina, vi sia un ventisettenne in cerca di verità com'era Tolstoj nel 1855, quando combatteva nella guerra di Crimea, pochi chilometri più a sud dell'attuale linea del fuoco. I suoi reportage da Sebastopoli conquistarono immediatamente il grande pubblico russo, perché erano veri.

Diario da Kiev: Svegliato dalle bombe come in un episodio del “Trono di Spade”. Markijan Kamys su La Repubblica il 28 febbraio 2022.

Lo scrittore ucraino, autore di Una passeggiata nella Zona, pubblicato in Italia da Keller, comincia con queste parole il suo racconto dalla capitale ucraina assediata

Prima dell’invasione

Molti ucraini erano convinti che ci sarebbe stata una grande guerra. Molti si stavano preparando. Che diamine, la guerra andava avanti da otto anni, solo che era lontana da Kiev, così lontana che molti nemmeno ne sentivano l’odore. 

Nella sua mente Putin vince sempre. Viktor Erofeev su La Repubblica il 28 febbraio 2022.

Nella mente del leader, tutto è finalizzato alla vittoria e tutto spinge a vendicarsi della Guerra fredda persa.  E c'è un altro aspetto principale da considerare: solo una piccola minoranza della popolazione russa ritiene che la colpa della tensione esistente nelle relazioni russo-ucraine sia della Russia. La stragrande maggioranza l’attribuisce a Kiev, all’America, alla Nato. 

E visto che ci siamo tutti ritrovati all’inferno e che tutti, evidentemente, ci meritiamo questo orrore bellico, le emozioni lasciamole al passato di pace. Adesso guardiamo con realismo la situazione che abbiamo davanti.

C’è un aspetto principale da considerare: appena il 4 per cento della popolazione russa ritiene che la colpa della tensione esistente nelle relazioni russo-ucraine sia della Russia.

«Shock e vergogna», la società russa condanna la guerra di Putin. E scatta la censura.  Il Dubbio il 26 febbraio 2022.

Dagli accademici ai giovani, passando per star della Tv e figlie dell’èlite, le reazioni all'attacco in Ucraina. Il conduttore della Tv pubblica Ivan Urgant ha scritto un semplice «No alla guerra» su Instagram, postando un quadrato nero in segno di lutto. Il giorno dopo, il suo programma è stato sospeso.

Dagli accademici ai giovani, passando per star della Tv e figlie dell’èlite: «shock» e «vergogna» sono le due parole che più di tutte si sentono e leggono sui social tra i russi, tre giorni dopo l’inizio dell’attacco delle truppe di Mosca all’Ucraina. La guerra nel Paese considerato fratello ha travolto la società russa, soprattutto nelle grandi città, scatenando non solo le proteste di piazza di venerdì – chiuse con oltre 1.800 arresti giovedì – ma anche la reazione di dissenso di figure interne al sistema.

Il conduttore della Tv pubblica Ivan Urgant, famoso tra l’altro per i suoi show canori di Capodanno tutti in italiano, ha scritto un semplice «No alla guerra» su Instagram, postando un quadrato nero in segno di lutto. Il giorno dopo, il suo programma è stato sospeso anche se la rete Rossiya24 ha garantito che continuerà a lavorare per l’emittente. Defezioni si sono registrate tra il personale straniero dell’emittente Russia Today, megafono del Cremlino, mentre «in segno di protesta» si è dimessa dalla carica di direttore del teatro statale Meyerhol di Mosca, Elena Kovalskaya. «Non puoi lavorare per un assassino e ricevere da lui lo stipendio», ha scritto su Facebook.

Elena Chernenko, la più celebre giornalista russa di politica estera che lavora al quotidiano Kommersant (di proprietà di uno degli oligarchi vicini a Vladimir Putin, Alisher Usmanov) è stata espulsa dal pool del ministero degli Esteri, dopo aver lanciato una petizione contro la guerra che ha raccolto centinaia di firme in poche ore. Le petizioni per dire no al conflitto si moltiplicano: quella promossa dall’attivista per i diritti umani Lev Ponomarev sul sito Change.org, che chiede la fine dell’invasione russa, ha ottenuto oltre mezzo milione di firme in poco più di 24 ore. Il giorno dopo l’invasione, un gruppo di ricercatori e giornalisti scientifici russi ha scritto un lettera aperta di condanna dell’aggressione militare. «Si tratta di una decisione fatale che causerà enormi perdite umane e minerà le basi del sistema di sicurezza collettiva», recita il testo firmato da oltre 2mila studiosi, «la responsabilità per aver scatenato una nuova guerra in Europa ricade interamente sulla Russia».

Non è una dichiarazione da poco se si calcola che molti dei firmatari è membro d’istituzioni statali come l’Accademia delle Scienze russa. Tra chi ha aderito figurano anche Andrei Geim e Konstantin Novoselov, vincitori del premio Nobel nel 2010, per gli studi sul grafene. A condannare su Instagram l’invasione dell’Ucraina anche le figlie di uomini dell’èlite russa: Lisa Peskova, primogenita del portavoce del Cremlino Dmitri Peskov e Sofia Abramovich, figlia di uno degli oligarchi della prima ora, Roman Abramovich. «La Russia vuole la guerra con l’Ucraina», con la parola “Russia” barrata e sostituita da “Putin”, ha scritto Sofia Abramovich, aggiungendo che «la più grande e più efficace bugia della propaganda del Cremlino è che la maggior parte dei russi sono con Putin».

Già due settimane fa, i sondaggi indipendenti del Levada registravano un fatto inedito: la guerra era la seconda paura più grande dei russi. Sempre il Levada ha rilevato, pochi giorni fa, che solo il 45% dei russi è in favore del riconoscimento delle due repubbliche separatiste del Donbass, a cui poi è seguito l’intervento militare.

 Anna Zafesova per “il Foglio” il 26 febbraio 2022. 

(…) Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov dice che la Russia “non ha intenzione di invadere” mentre i carri armati russi sono alla periferia di Kyiv. (…) E Vladimir Putin insiste che il governo ucraino è una “banda di drogati neonazisti” assistiti da “consulenti americani”, mentre gli ucraini si preparano in massa a difendere le loro città.

(…)  Sono le stesse bugie che raccontano i media (…), per convincere i russi che a) non si tratta di una guerra, b) anche se fosse una guerra, è giusta e preventiva, c) magari non si chiama guerra, ma è un trionfo: gli ucraini si stanno arrendendo a battaglioni.

È la stessa narrazione usata da sempre dall’Unione sovietica, per tutte le sue guerre di invasione (…) Una fede quasi magica nelle parole, e l’insistenza della propaganda putiniana sulla sua terminologia diventa a sua volta un ulteriore motivo di scontro con l’occidente che si rifiuta di riconoscere che i bombardamenti di Kyiv e Kharkiv abbiano come obiettivo la “liberazione” dell’Ucraina dalla “oppressione del governo nazista”. 

Ed è proprio questa dissociazione cognitiva orwelliana a spezzare, all’improvviso, la pazienza rassegnata di molti russi. Il silenzio, la paura, il talento di guardare altrove ed evadere nella vita privata affinati ancora sotto il totalitarismo sovietico e rispolverati negli ultimi mesi di arresti e censure del dissenso, non resistono di fronte a quella che appare la madre di tutte le bugie.

Tra l’altro, proprio la retorica dei “popoli fratelli” va a ritorcersi contro il regime, perché molti russi condividono con Putin l’incapacità di credere in una Ucraina indipendente dalla Russia, ma proprio per questo non riescono a capacitarsi di una Russia che bombarda l’Ucraina. 

I post “No alla guerra” si moltiplicano, alla protesta social si uniscono anche la figlia dell’oligarca Roman Abramovich, del portavoce di Putin Dmitri Peskov, e tanti altri insospettabili. (…) Un risveglio improvviso, che spinge le autorità russe a prendere, per la prima volta, provvedimenti per limitare la diffusione di Facebook.

Zelensky vs. Putin: la guerra della comunicazione si mette male per la Russia. Luca Poma su Affari Italiani Sabato, 26 febbraio 2022.

Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin: la guerra in Ucraina mette a nudo due diversi stili di comunicazione, analizziamo le differenze.

“Buongiorno a tutti gli Ucraini. Circolano informazioni false su internet che dicono che io starei chiedendo al nostro esercito di deporre le armi e che è in corso un’evacuazione. Bene, io sono qui, a Kiev. Non deporremo le armi, e difenderemo il nostro Stato, perché la nostra arma è la verità, e la verità è che questa è la nostra terra, il nostro Paese, i nostri figli, e noi difenderemo tutto questo. Questo è ciò che volevo dirvi, gloria all’Ucraina.”

Questa è la trascrizione letterale di un video registrato e diffuso oggi di prima mattina dal Presidente della Repubblica di Ucraina Volodymyr Zelensky, da Kiev, dove guida la resistenza nelle città sotto attacco delle forze della Federazione Russa, che hanno invaso l’Ucraina 3 giorni fa.

In un precedente video registrato ieri a tarda sera, sempre a Kiev, con indosso un maglione in stile militare, aveva detto: “Siamo qui, siamo a Kiev, stiamo difendendo l’Ucraina. Sono io l’obiettivo di Putin, e la mia famiglia è l’obiettivo numero due”, scandendo lentamente e convintamente le parole, e indicando poi – uno per uno – i quattro fedelissimi del Governo accanto a lui. La moglie e i due figli sarebbero infatti ancora nel Paese, e secondo i servizi di intelligence la famiglia Zelen’sky sarebbe il primo target di Mosca: Putin avrebbe dato ordine di eliminare il Presidente a qualunque costo.

Volodymyr Zelenskyi: da attore a presidente sotto assedio

44 anni, Volodymyr Zelenskyi è a capo della repubblica semipresidenziale dell’Ucraina da pochi anni. Nato nel gennaio del 1978, da padre docente e madre ingegnere, si laurea in giurisprudenza, e diventa poi nel 1997 un attore comico, senza alcuna contiguità con il mondo della politica. Gli ucraini lo conoscono bene per il personaggio che interpreta nella trasmissione “Servitore del popolo”: un professore di storia onesto che decide di diventare presidente sfidando gli oligarchi ucraini. Il passo dalla fiction alla realtà è sorprendentemente breve: sulla scia del successo del programma TV, insignito anche di diversi premi internazionali, Zelenskyi fonda l’omonimo partito, Servitore del popolo, si candida alle elezioni e il 20 maggio 2019 vince le presidenziali con il 73,22% dei voti. Il suo partito vince inoltre le elezioni politiche indette subito dopo la sua elezione, conquistando la maggioranza in Parlamento.

Filoeuropeista, Zelen’sky, ha spinto fin da subito per l’ingresso dell’Ucraina nell’UE (anche se nessun dossier per l’ingresso ne nell’Unione ne tanto meno nella NATO è stato fin qui formalizzato), scatenando così le ire del Cremlino. Ha voluto senza esitazione prendere le distanze dalla Russia di Putin, che considererebbe l’Ucraina ancora come una sua appendice, con il sogno di restaurare il dominio territoriale dell’ex URSS. Le dichiarazioni del neo Presidente Ucraino furono inequivoche: “Vogliamo un’Ucraina forte, potente e libera, che non sia la sorella minore della Russia, che non sia un partner corrotto dell’Europa, ma che sia solo la nostra Ucraina indipendente”.

Ora la crisi è al suo apice, con l’esercito Russo che è penetrato da più fronti in Ucraina e preme sulla capitale. Per certo si sa che gli americani avevano già messo a disposizione un elicottero militare con adeguata scorta, destinazione Leopoli, due giorni prima che cominciasse l’invasione, ma niente da fare: il Presidente non è scappato. Il Corriere della Sera riporta quanto segue: “’Giovedì sera ci ha impressionati’, racconta uno sherpa UE che ha sentito una sua telefonata dal nascondiglio segreto preparato per tempo, a prova d’intercettazioni: ‘Eravamo in videoconferenza e a un certo punto Zelensky ha detto: Questa potrebbe essere l’ultima volta che mi vedete vivo…. E si vedeva che non recitava, l’angoscia del momento c’era tutta’”.

Ucraina, l'ex comico Zelensky: il successo del suo nuovo personaggio

L’ex comico, Presidente apparentemente forse un po’ improvvisato, in queste ore buie per l’intera Europa, e tragiche per l’Ucraina, sapientemente e del tutto inaspettatamente sta dipingendo con successo il contorno del suo nuovo personaggio, poggiato su pilastri robusti e di prim’ordine: coraggio, coerenza, sprezzo del pericolo, attaccamento ai valori della sua Patria, resistenza a costo della vita.

Russia, Putin: stile in TV serio, leggermente sovrappeso

Lo “stile” di Vladimir Putin per contro appare in TV serio, leggermente sovrappeso dopo i quasi due anni di totale isolamento per il Covid, che pare avergli generato molta ansia: nella Sua Dacia ha fatto predisporre un sofisticato sistema di sterilizzazione anti-virus, con quarantena obbligatoria di 7 giorni per chiunque lo volesse vedere, tanto che recentemente il Segretario Generale dell’ONU, in viaggio in Russia per incontri istituzionali, non è riuscito a combinare un incontro. Chiuso in sé stesso, i bene informati osservano come non ascolti più con attenzione neppure le voci dei Suoi più stretti Consiglieri. Al Cremlino si respira un’aria pesante, come quando in una riunione ieri l’altro ha convocato i vertici delle Forze Armate e dell’Intelligence chiedendo a margine di una conferenza stampa a reti unificate: “Siamo tutti d’accordo sulla strategia di gestione della questione Ucraina?”. Calato il gelo, nessuno ha fiatato, tutti hanno fatto cenno di si con la testa, un’immagine che ha ricordato Hitler quando interrogava, a scopo meramente formale, i suoi generali.

Zelensky vs. Putin: il successo del presidente ucraino su quello russo nella guerra della coomunicazione

A fronte di uno Zelenskyi in mimetica, che entra ed esce dal bunker, e si muove agilmente in Kiev dando ordini alle truppe e tenendo viva la resistenza – inaspettata – del popolo Ucraino, Putin fa poi un altro scivolone dal punto di vista reputazionale: sollecita i generali Ucraini a “tradire il Presidente”, chiedendo alle alte gerarchie dell’esercito di Kiev di destituirlo: “Se volete salvare Kiev, prendete il potere nelle vostre mani, sarà più facile per me negoziare con voi, piuttosto che con questa banda di drogati e neonazisti che si è stabilita a Kiev”, spiega Putin con il volto livido.

Alle accuse di contaminazioni naziste in Ucraina mosse da Putin, Zelensky aveva già risposto con un video diventato virale, girato durante il primo giorno dell’invasione, dicendo: “La Russia ci ha attaccato a tradimento questa mattina, come ha fatto la Germania nazista negli anni della Seconda guerra mondiale. Vi hanno detto che siamo nazisti, ma come fa un popolo a essere nazista quando ha perso oltre 8 milioni di vite nella vittoria contro il nazismo? Come posso essere io accusato di essere un nazista? Chiedetelo a mio nonno, che ha combattuto tutta la Seconda guerra mondiale nella fanteria dell’Armata Rossa ed è morto con i gradi di colonnello dell’Ucraina indipendente”.

Putin: Rolex e colpi bassi

In ogni caso, un appello “al golpe” viscido e poco onorevole, quello lanciato dallo “zar” Putin, che vorrebbe ricostruire la grande Russia ma deve anche fare i conti con significativi problemi economici che mettono a rischio la tenuta sociale nel suo Paese: stipendi medi di 300 dollari o poco più, in larga parte ai limiti della sussistenza, un PIL inferiore a quello della sola Italia, all’orizzonte mesi se non anni di lacrime e sangue per le nuove sanzioni – durissime – decise da UE e USA, e il pugno duro non solo più contro dissidenti politici e giornalisti, ma ora anche contro la popolazione civile; solo ieri, 1.500 arresti tra manifestanti pacifici che nelle città più importanti della Russia imbracciavano cartelli con scritto “Questa non è la guerra della Russia, è la guerra di Putin”.

Mentre l’occidente blocca il suo (assai ingente) patrimonio personale all’estero, Forbes fa il conto del valore degli orologi da polso del Presidente Putin come sono apparsi nelle foto ufficiali: oltre 550.000 euro. In molti si chiedono: sarebbe questo il “padre della nazione” che mette sempre al primo posto gli interessi dei suoi cittadini? Lo storytelling farlocco orchestrato dal Cremlino, e che ha tenuto banco per 20 anni, inizia a mostrare le prime – vistose – crepe.

Opposta la narrazione di Volodymyr Zelens’kyi: da sempre nemico di oligarchi e della casta corrotta e arricchita, che spadroneggia in Ucraina come in Russia e fin dai primi giorni nel mirino del suo mandato presidenziale, è ora in “trincea” per il suo popolo. Nonostante gli USA abbiano nuovamente rinnovato ieri le offerte per un corridoio di fuga da Kiev adeguatamente protetto, ha detto: “Ho bisogno di munizioni anticarro, non di un passaggio”. Passaggio che i Russi sostengono però alla fine abbia accettato, riparando questa mattina a Leopoli, a pochi chilometri dal confine con la Polonia: nessuna replica per ora dal Presidente Ucraino, la battaglia della propaganda quindi continua.

Zelensky Vs. Putin: per concludere

Come ben sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operare. Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, capacità di gestire scenari di crisi e propensione ad assumersi le proprie responsabilità, tono deciso ma caldo, da comandante in capo responsabile per il proprio popolo: ecco i pilastri sui quali Volodymyr Zelen’skyi sta efficacemente costruendo la propria rinnovata immagine, a rischio della vita.

Putin è isolato e “paria” per pressoché tutte le nazioni del mondo, con la Russia schiacciata dalla sua arroganza e macchiata dal crimine dell’invasione di uno Stato sovrano in Europa. Forse vincerà sul terreno, e porterà a casa il successo della sua “operazione militare speciale”, ma dal punto di vista della gestione della reputazione e del nation branding, a dispetto degli enormi mezzi dedicati alla propaganda, specie on-line, il Presidente Russo, in realtà, ha già perso questa guerra della comunicazione.

AGGIORNAMENTO del 26/02/22 h 19:23: a proposito di ecosistemi digitali, il noto collettivo internazionale di cyberattivisti “Anonymous” si è schierato contro le attività militari di Mosca. Dopo la TV di Stato russa “RT News”, sono stati messi off-line il sito del Ministero della Difesa, del colosso del gas Gazprom, dell’azienda statale di armamenti Tetraedr, e infine – clamorosamente – mentre scriviamo anche il sito della Presidenza Russa Kremlin.ru è irraggiungibile. «Vogliamo mandare messaggi al popolo russo perché possa essere libero dalla macchina della censura statale». Chi di cyberwar colpisce… dal blog creatoridifuturo.it

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” il 25 giugno 2022.  

Vien da chiedersi cosa avrebbero fatto o detto a Bianca Berlinguer se il suo programma andasse male in ascolti. No, davvero, perché nonostante il successo di pubblico la nostra è ormai puntualmente massacrata. Persino adesso che #Cartabianca è finito, c'è chi continua a polemizzare. L'ultimo della (lunghissima) lista è Aldo Grasso: il noto giornalista del Corriere della Sera ha scritto un piccato articolo sui talk show, esordendo così: «È finita Cartabianca e, in tutta onestà, spero non torni più».

Secondo Grasso ci sarebbe un problema alla base di tutti i talk show Rai che, a suo avviso, ormai «inquinano il dibattito pubblico, creano mostri e diffondono menzogne e malafede» mentre andrebbero guidati da «persone che sappiano affrontare la complessità» della realtà. Il pregresso di cotanto astio è noto: Berlinguer è diventata invisa al mondo intero nel momento in cui ha dato spazio a Alessandro Orsini, le cui posizioni sono considerate filo-russe.

Da allora, i rossi compagni della Berlinguer le hanno voltato le spalle. Come è noto, si è provato persino a fare chiudere il programma, salvato da Carlo Fuortes. Non fosse stata per l'entrata a gamba tesa dell'ad Rai, #Cartabianca sarebbe già diventata #Cartastraccia.

Il programma è stato quindi confermato per l'autunno eppure c'è chi, come Grasso, ne invoca la chiusura. Berlinguer ha fatto l'unica cosa che al momento le è consentita: difendersi. Da sola. Inutile sperare in alleati. 

Così, ha pubblicato un post di fuoco su Facebook iniziando con il sottolineare il conflitto di interessi alla base dello stigma di Aldo Grasso. Il ragionamento è semplice: per chi scrive Grasso? Per il Corriere. E chi è l'editore? Cairo. E cosa fa Cairo in tv? DiMartedì su La7, che è diretto concorrente della Rai.

«Ma vi sembra normale che il critico televisivo del gruppo editoriale al quale appartiene la trasmissione mia diretta concorrente, Dimartedì, si auguri la chiusura d'autorità di Cartabianca?», esordisce su Facebook Berlinguer. «E dico "d'autorità" dal momento che gli ascolti ci hanno costantemente premiato, ma per Aldo Grasso la risposta positiva del pubblico sarebbe un criterio valido solo per le tv commerciali perché i loro bilanci dipendono dagli ascolti, non per il servizio pubblico. La Rai, finanziata in parte dal canone, cioè dai soldi dei cittadini, dovrebbe invece disinteressarsi del consenso degli ascoltatori».

A questo punto la Berlinguer sfata il falso mito degli ascolti che non contano: «Ma chi altri dovrebbe giudicare, se non quegli stessi cittadini che pagano il canone e gestiscono il telecomando, della qualità e del gradimento di una trasmissione? O a decidere del destino di un programma devono essere, in singolare sintonia, il critico televisivo del gruppo editoriale concorrente e una parte della classe politica?». L'obiezione non fa una piega.

Vediamo cosa risponderà Grasso o uno dei tanti franchi tiratori di Berlinguer che, a quanto pare, non hanno nessuna voglia di prendersi una vacanza.

Gli italiani, la pace e i silenzi sui crimini di Mosca. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.  

Decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze russe, della deportazione di 300.000 bambini 

Ma si troverà prima o poi qualcuno in Italia disposto a spendere il proprio nome chiamando certe cose con il loro nome? Si troverà pure prima o poi qualche pensoso intellettuale, qualche celebre attore o accademico, qualche eminente prelato noto alle cronache o almeno qualche conduttore di talk show, disposto a parlare chiaro e a dire che quello che le autorità russe stanno facendo in Ucraina è qualcosa che prima di oggi solo Hitler e Stalin avevano osato fare? Magari auspicando anche un tribunale per giudicare le loro colpe? Non parlo della guerra che Putin ha scatenato il 24 febbraio. La guerra, si sa, è una sporca faccenda in cui non si va per il sottile. Sono sacrosanti i tentativi di darle qualche regola, naturalmente, ma bisogna rassegnarsi al fatto che il più delle volte queste regole lascino il tempo che trovano. Nulla e nessuno, ad esempio, riuscirà mai ad impedire ad un belligerante l’uso di un’arma cosiddetta «proibita» (tipo le bombe a grappolo che i russi infatti impiegano con la massima disinvoltura) se non il timore che pure l’avversario impieghi la medesima arma contro di lui.

Ma qui si tratta di cose diverse, di cose che con la guerra, con lo scontro tra i combattenti non c’entrano nulla. Qui si tratta di decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla (quindi di presumibili soppressioni) di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze di Mosca.

Di un feroce e radicale tentativo di snazionalizzazione di tutti i territori occupati, a base di libri in lingua ucraina proibiti e distrutti, del divieto di istruzione nelle scuole secondo i programmi fin qui adottati, di soppressione di tutti i mezzi di comunicazione (radio, tv, telefonia) e di connessione che non siano quelli russi. E si tratta infine — fatto di una crudeltà inimmaginabile, repugnante ad ogni animo umano — della deportazione in Russia non si capisce a qual fine (semplicemente per privare di forze future il nemico? Per «rieducarli»? Per darli in adozione?) di migliaia e migliaia (c’è chi dice trecentomila!) bambini ucraini. Si badi: di ognuna di queste azioni compiute dalle autorità russe vi sono troppe notizie circostanziate, troppe prove raccolte sul campo, troppe testimonianze dirette, perché si possa nutrire un ragionevole dubbio su quello che è il dato centrale: nei territori dell’Ucraina che occupa, Mosca sta mettendo in atto una vera e propria politica di tipo genocidiario mirante alla cancellazione di fatto dell’identità nazionale di quel popolo. Una politica del tutto analoga a quella che la Germania nazista mise in atto, ad esempio, durante la Seconda Guerra mondiale nella parte di Polonia occupata che intendeva annettere. Non si prefigge del resto oggi il medesimo scopo Putin?

Ebbene, ma se questo è vero bisogna allora dire alto e forte che è inutile, addirittura grottesco, che un Paese coltivi in tutte le occasioni la sua memoria antifascista, celebri ogni anno la «giornata della memoria» e la «giornata del ricordo», non cessi di evocare ad ogni occasione le colpe di chi contro le infamie del totalitarismo ottanta anni fa «doveva parlare ma non parlò», per poi oggi osservare, invece, un sostanziale silenzio su quanto sta accadendo dalle parti del Donbass e dintorni.

Sì, come avete capito, quel Paese è l’Italia. Siamo noi. Come è possibile che il nostro discorso pubblico ma anche quello culturale e religioso (certo, anche quello culturale e religioso) avvezzi così tanto a frequentare i diritti umani, la legalità, la solidarietà, la giustizia, preferiscano però discettare magari sulla «pace» ma di fatto continuino da settimane a non dire nulla circa i crimini su grande scala che la Russia sta commettendo in Ucraina? L’unica speranza di fermare i quali è invece che se ne parli, che se ne parli molto (in modo tra l’altro che Sua Eccellenza l’ambasciatore Razov informi adeguatamente il suo governo) e forse che non ci si limiti a parlare. Ma magari anche per auspicare che gli organi di giustizia internazionale si attivino maggiormente per raccogliere prove e nomi di sospetti criminali russi, di responsabili russi, da trascinare domani in giudizio come si fece ottanta anni fa in una città tedesca che tutti sappiamo come si chiamava.

I talk, la contrapposizione e la ricerca dell’ospite «scomodo». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.  

Se si invitano persone normali, anche preparate, c’è il rischio della prevedibilità, della monotonia. La rottura sta solo nella rissa. 

È finita #cartabianca e, in tutta sincerità, spero non torni più. Non mi riferisco alla trasmissione in sé, né alla conduttrice (per me Bianca Berlinguer potrebbe anche presentare Sanremo), ma al modello di talk show del servizio pubblico. Ogni volta che il reale appare nella sua drammaticità, dobbiamo registrare come i talk inquinino il dibattito pubblico, creino «mostri», diffondano menzogne e malafede, favoriscano l’indistinguibilità. Per questo, l’ospite più ricercato è quello considerato «scomodo», l’intellettuale dai toni wagneriani, costantemente in dissenso. La negazione, si sa, è lo «scomodo» di ogni cultura e avere a disposizione uno spazio di alterità cui delegare le nostre inquietudini torna sempre utile. Così il conduttore può affermare: «Il mio è un programma che fa parlare tutti». Se si invitano persone normali, anche preparate, c’è il rischio della prevedibilità, della monotonia (come il talk di Gianrico Carofiglio).

La rottura sta solo nella rissa: per questo, nella scelta degli ospiti, bisogna considerare la contrapposizione, il tafferuglio, il parapiglia. Anche in termini linguistici, il talk è un esercizio intrinsecamente populista (ragion per cui i più bravi non li frequentano, non è il loro ambiente). Normale che ciò succeda nelle tv commerciali perché i loro bilanci dipendono dagli ascolti, dalla pubblicità. Ma la Rai può fare qualcosa di diverso? O si limiterà ancora, stancamente, a sventolare le bandiere del pluralismo, dell’obiettività, della completezza dell’informazione (inganni atroci)? Lo spazio dell’opinione televisiva è quello di una negoziazione continua tra nobili aspirazioni a informare e logiche «volgari» del mezzo, compresi gli ascolti; questo vale anche per il servizio pubblico. A maggior ragione, i talk in Rai vanno guidati da persone che sappiano affrontare la complessità, sia pure senza rinunciare a una linea dichiarata, a una passione ironica e disincantata.

Il mondo capovolto e la nuova diplomazia. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2022. 

Il mondo alla rovescia. Il tema del mondo capovolto, dove i ruoli di preda e cacciatore, ricco e povero, forte e debole vengono invertiti con un effetto comico, è un tema antichissimo. Nelle feste di Carnevale, i giullari incoraggiavano il popolo a esprimere, attraverso la parodia, il rovesciamento dei valori.

Qui è Carnevale tutto l’anno, qui tutti vanno in tv a fare i giullari. Il combattivo Michele Santoro difende l’agguerrito Matteo Salvini, «attaccato perché è per la pace». Marco Rizzo, segretario di un Partito comunista, appoggia l’ex leghista Francesca Donato, no vax, no euro, sì Putin, candidata sindaca a Palermo. Angelo Guglielmi, il mitico ex direttore di Rai3, stigmatizza la decadenza dei talk show ma salva Bianca Berlinguer: «#Cartabianca è la più scanzonata, le sue sveltezze sono stimolanti».

L’inadeguatezza, alla rovescia, si chiama scanzonatezza. La Nazionale continua a collezionare brutte figure (salvo ieri sera) ma il ct Roberto Mancini ribadisce di avere «entusiasmo da vendere», come se le scelte dei giocatori e dei moduli di gioco dipendessero da altri. «Mi manda Capuano» è la nuova parola d’ordine della diplomazia. Potremmo andare avanti così, di rovescio in rovescio.

A furia di giravolte, il mondo alla rovescia non riesce più a farsi beffe di un mondo perennemente rovesciato. 

Il richiamo della foresta rossa. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2022.

Dobbiamo condannare l’aggressore e sostenere l’aggredito. L’equidistanza, davanti all’orrore che vediamo, è una forma di astensione. Un errore che abbiamo già commesso, nel XX secolo, e l’abbiamo pagato caro.  

Ascolto e leggo - ogni giorno, da più di tre mesi - affermazioni strabilianti sull’invasione dell’Ucraina. L’infamia - come vogliamo chiamarla? - viene taciuta; le responsabilità, sfumate; l’orrore, addolcito. Poiché quelle opinioni arrivano anche da persone intelligenti, mi domando: c’è qualcosa che mi sfugge? La guerra è una grandine che distrugge i pensieri. Forse sta accadendo anche a me, e non me ne rendo conto.

Qualche esempio del mio stupore. Carlo Rovelli, fisico: «Bisogna uscire da questa logica per cui bisogna stare da una parte o dall’altra». Mi perdoni, professore, ma questa logica appare invece rigorosa. Dobbiamo condannare l’aggressore e sostenere l’aggredito. L’equidistanza, davanti all’orrore che vediamo, è una forma di astensione. Un errore che abbiamo già commesso, nel XX secolo, e l’abbiamo pagato caro.

Ginevra Bompiani, editrice e scrittrice: «Fino all’anno scorso prendevo come unità di misura il Covid, ma era più facile perché nessuno aveva una posizione ragionevole (...) Ora con la guerra è diverso, perché la metà del Paese è contro il governo sull’invio delle armi» e «Draghi se ne frega». Mi scusi, ma esiste un parlamento, e sostiene la posizione del governo. E poi: se non aiutiamogli ucraini a resistere, dovranno arrendersi, con le conseguenze del caso. Oppressione per loro, nuovi rischi per noi.

Michele Santoro, giornalista televisivo: «Putin non è il nostro peggior nemico, il nemico più mostruoso è la guerra». Mi perdoni, il decorato collega, ma davvero non capisco. Chi l’ha scatenata, questa guerra? Io? Lei? Il Grande Puffo? Questa guerra insensata - città distrutte, civili uccisi, bambini deportati, rischi globali - l’ha voluta, preparata (negandolo) e scatenata una persona, e si chiama Vladimir Putin. E lui potrebbe farla smettere: anche oggi. Vogliamo dirlo?

Ho scelto tre persone, ma potrei elencarne trenta o trecento, anche tra amici e conoscenti. Esiste un comun denominatore? Forse sì, ed è biografico. Ho la sensazione che quanti, in gioventù, hanno guardato con fastidio all’America e con speranza al comunismo oggi fatichino a giudicare un regime che dice d’ispirarsi all’Unione Sovietica. Sanno che Putin è un tiranno, certo. Ma il richiamo della foresta rossa agita i pensieri.

Il consenso per Putin? Figlio di una "propaganda aggressiva come in epoca sovietica". Euronews Italiano il 4 giugno 2022.

La retorica della grande Russia, del genocidio perpetrato da Kiev nel Donbass, l'idea che la NAto voglia espandersi ancora ed ancora ad est. C'è tutto questo nelle emissioni della propaganda del Cremlino e per la gran parte dei russi che si informano solo con la TV, è verità. Ma se due mesi fa secondo il Levada Center il consenso per l'attacco militare contro l'Ucraina era ad oltre l'80 per cento, oggi, secondo un sondaggio dello stesso centro sociologico, l'unico indipendente in Russia classificato dalle autorità come agente straniero, il consenso scende al 73 %. Comunque numeri bulgari che il direttore del centro, il sociologo Lev Gudkov, spiega così: "In pratica c'è un blocco totale delle informazioni e la censura. Un'enorme massa della popolazione riceve notizie solo in TV. E dalla TV arriva una demagogia così aggressiva dritta verso il pubblico, bugie e propaganda, manipolazione delle immagini e suggestioni davvero molto forti. "

La propaganda ha alzato i livelli che si erano sviluppati, ed erano caratteristici, dell'era sovietica: questa è la psicologia di una fortezza assediata Lev Gudkov Direttore del Levada Center 

"Non stiamo parlando solo dell'effettivo impatto improvviso della propaganda, - continua Gudkov - la questione è molto più seria, la propaganda ha alzato i livelli che si erano sviluppati, ed erano caratteristici, dell'era sovietica: questa è la psicologia di una fortezza assediata, della lotta con l'Occidente, questo è consolidamento attorno alla leadership del Paese, in generale sembra che l'intero contesto sia tornato all'epoca sovietica: contrapporsi all'Occidente, due potenze, combattere il nemico e fare affidamento sul capitale morale acquisito con la vittoria sul nazismo".

La lettera Z usata come propaganda pro Putin: reato penale in Germania

 "La retorica della lotta al nazismo, a prescindere da chi verrà dichiarato nazista oggi. C'è appoggio alla guerra, c'è approvazione per le azioni di Putin, il suo rating rimane ad un livello molto alto, come è sempre accaduto durante le campagne militari, durante la seconda guerra in Cecenia, la guerra in Georgia o l'annessione della Crimea. Ora il consenso si avvicina al suo picco più alto".  

La rete di Putin in Italia: chi sono influencer e opinionisti che fanno propaganda per Mosca. Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2022.

Il materiale raccolto dal Copasir individua i canali usati per la propaganda e ricostruisce i contatti. Così la «macchina» fa partire la controinformazione nei momenti chiave attaccando i politici pro Kiev e sostenendo quelli dalla parte dei russi. 

La rete è complessa e variegata. Coinvolge i social network, le tv, i giornali e ha come obiettivo principale il condizionamento dell’opinione pubblica. Si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia. La rete filo-Putin è ormai una realtà ben radicata in Italia, che allarma gli apparati di sicurezza perché tenta di orientare, o peggio boicottare, le scelte del governo. E lo fa potendo contare su parlamentari e manager, lobbisti e giornalisti.

L’indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall’intelligence individua i canali usati per la propaganda, ricostruisce i contatti tra gruppi e singoli personaggi e soprattutto la scelta dei momenti in cui la rete, usando più piattaforme sociali insieme — da quelle più conosciute come Telegram, Twitter, Facebook, Tik Tok, Vk, Instagram, a quelle di nicchia come Gab, Parler, Bitchute, ExitNews — fa partire la controinformazione.

L’invio delle armi

Agli inizi di maggio, quando l’esercito russo appare in difficoltà sul campo, l’argomento privilegiato è l’invio delle armi italiane all’Ucraina. La campagna di strumentalizzazione via social si concentra sull’immagine delle bolle di spedizione dei dispositivi militari, sottolineando la data dell’11 marzo: una settimana prima dell’approvazione del decreto in Parlamento che avverrà il 18 marzo. A condurre gli attacchi è Maria Dubovikova, giornalista russa che vive a Mosca e ha oltre 40mila followers su Twitter con l’account @politblogme. Nel mirino finisce Pietro Benassi, rappresentante diplomatico italiano presso l’Ue nonché ex consigliere diplomatico di Conte a Palazzo Chigi. Ma il vero bersaglio delle imboscate via social è Draghi, la cui maggioranza ha ben tre leader, Salvini, Berlusconi e Conte, che non si sono schierati senza se e senza ma con l’Ucraina, il Paese aggredito da Putin.

«Non in mio nome» è il motto rilanciato su decine di profili filorussi dell’estrema destra, che spesso si incrociano con negazionisti del Covid e no vax, per contestare a Palazzo Chigi di aver spedito le armi «senza il consenso del popolo italiano». Le accuse ricorrenti a Draghi vanno dal «mandarci in guerra» mettendo a rischio la sicurezza della nazione «per l’ambizione di diventare segretario generale della Nato», all’«aver causato l’aumento del costo dei generi alimentari ed energetici e la chiusura di numerose aziende».

Il 3 maggio, quando Draghi critica duramente in conferenza stampa l’intervista rilasciata dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov a Rete4, su Twitter — che secondo il report fa spesso da «cassa di risonanza delle fake news» — si scatenano i post. «Non tutela gli interessi italiani e ha un’impostazione dittatoriale», è l’accusa contro il premier, che rimbalza sui social in sintonia con la portavoce di Lavrov, Maria Zakharova, la quale accusa «i politici italiani di ingannare il loro pubblico».

Il bombardamento di messaggi anti governativi e filo-putiniani aumenta in corrispondenza dei passaggi politicamente decisivi. Così è stato quando si è votato la prima volta sull’invio di armi e così sarà il 21 giugno, quando si voterà la risoluzione sulla guerra invocata dal M5S di Conte. In questa scia si fa notare Giorgio Bianchi, definito dai report periodici che gli apparati di sicurezza inviano al governo «noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso». Bianchi gestisce il canale Telegram Giubbe Rosse (@rossobruni), che conta almeno 100 mila appartenenti e ha preso di mira più volte il presidente del Copasir, Adolfo Urso.

Ucraini neonazisti

Quello degli ucraini bollati come «neonazisti» è un filone molto battuto dai sostenitori di Putin e spesso rilanciato da Alberto Fazolo. È un economista e pubblicista che in tv e su Facebook ha sostenuto che «i giornalisti uccisi in Ucraina negli ultimi 8 anni sono 80 e questo numero elevato è correlato alla presenza di formazioni paramilitari di matrice neonazista». In realtà, evidenziano gli analisti, «i giornalisti uccisi a partire dal 2014 sono circa la metà, ma il post di Fazolo ha registrato moltissime condivisioni sia su profili Facebook filorussi, sia su canali Telegram».

Il piano del 2019

Manlio Dinucci ha 84 anni, è un geografo e scrittore promotore del comitato «No Guerra No Nato». Un suo articolo che sostiene come «l’attacco anglo-americano a Russia e Ucraina era stato pianificato nel 2019» è diventato una sorta di manifesto «di mezzi di informazione statali russi e utenze che sostengono l’invasione dell’Ucraina». Passaggi del suo libro La guerra - È in gioco la nostra vita, pubblicato dalla ByoBlu Edizioni — editrice di un canale digitale e tv più volte tacciato di «disinformazione» — sono stati citati da Putin nel discorso del 9 maggio per le celebrazioni del Giorno della vittoria. Le tesi di Dinucci sono state riprese dallo stesso Bianchi, Alessandro Orsini — il docente licenziato dall’Università Luiss dopo il clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive — e Maurizio Vezzosi: 32 anni, è un reporter freelance che racconta il conflitto dall’Ucraina e invita lettori e telespettatori «a informarsi non rimanendo alle notizie in superficie perché molti ucraini pensano che Zelensky sia responsabile della situazione, molti lo ritengono un “traditore”».

La resa di Petrocelli

La rete si muove in pubblico, ma anche riservatamente. Agli inizi di maggio, quando il grillino anti governativo Vito Petrocelli si rifiuta di lasciare la presidenza della commissione Esteri nonostante gli ultimatum espliciti di Conte, gli attivisti filo Putin si mobilitano per una campagna di mail bombing verso indirizzi di posta elettronica del Senato. In prima linea ci sono canali Telegram no vax e pro Russia come @robertonuzzocanale, @G4m3OV3R e @lantidiplomatico, un sito che raccoglie documentazione per sostenere la scelta di Petrocelli di restare inchiodato alla poltrona, contro le indicazioni del partito.

Su Antidiplomatico, che negli anni in cui Grillo guardava con simpatia a Putin era vicino alle posizioni di Manlio Di Stefano e Alessandro Di Battista, è attiva anche la freelance Laura Ru. Si chiama Laura Ruggeri vive a Honk Kong e scrive su Strategic Culture Foundation, ritenuta dagli analisti «rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr» e che, assieme a Russia Today, è artefice di una campagna massiccia contro le sanzioni. La tesi della portavoce Zakharova — «l’Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia» — viene periodicamente rilanciata dal «noto giornalista e diffusore di disinformazione» Cesare Sacchetti, che sul suo canale Telegram conta oltre 60mila iscritti: «L’Ue è costretta a tornare sui propri passi e a pagare il gas in rubli».

Su questi temi si muovono, sottotraccia, anche personaggi vicini a quei partiti che si smarcano dalla linea di Draghi. Il putiniano di ferro Claudio Giordanengo, che nel 2019 si candidò per la Lega al comune di Saluzzo, sui social attacca Draghi, Speranza, Biden. Questo il suo messaggio via chat del 2 giugno: «AVVISO AI TERRORISTI - Si informa che l’Ucraina sta vendendo vari stock di armi di ogni genere. Visitate i siti!! (Dark Net). Sottocosto missili anticarro Javelin originali Usa a 30 mila euro al pezzo. Ottimo affare, il prezzo originale è 250 mila dollari cadauno. Ma a loro che importa? Gli imbecilli occidentali glieli regalano». E poiché la rete dei putiniani d’Italia va oltre i confini di partito e schieramento, Giordanengo rilancia gli attacchi a Draghi del fondatore di Italexit: «Gianluigi Paragone inchioda il premier sulla guerra: “Si muove come un socio di Biden”. Italia sottomessa sulla guerra”». Per ingrossare l’esercito dei filo-putiniani d’Italia, ci sono movimenti che agiscono attraverso i siti in lingua russa. Su VKontakte (VK) troviamo la Rete dei Patrioti, che posta (in italiano) messaggi contro Salvini, forse con l’obiettivo di «rubare» proseliti alla Lega.

La rete di Putin in Italia: ecco chi sono gli opinionisti ed influencer che sostengono Mosca. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Giugno 2022.  

Il materiale raccolto dal Copasir individua i canali usati per la propaganda e ricostruisce i contatti. Così la «macchina» fa partire la controinformazione nei momenti chiave attaccando i politici pro Kiev e sostenendo quelli dalla parte dei russi

La rete pro Putin è variegata e diffusa fra i social network, i salotti televisivi tv, ed i giornali, attaccando i politici schierati con l’ Ucraina e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia, molto attiva nei momenti chiave del conflitto con un unico scopo principale: il condizionamento dell’opinione pubblica.

La cordata filo-Putin che tenta di orientare, o ancora peggio boicottare, le scelte del governo Draghi  è ormai ben radicata in Italia potendo contare su manager, lobbisti, giornalisti e parlamentari, circostanza questa che allarma non poco i nostri servizi . L’indagine avviata dal Copasir attraverso i “servizi” italiani è arrivata ormai nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall’intelligence italiana ha messo a fuoco i canali dei sostenitori filorussi usati per la propaganda, ricostruendo le connessioni tra i singoli personaggi ed i gruppi, ma soprattutto la strategia nella scelta dei momenti in cui , usando più piattaforme sociali insieme da quelle più conosciute come Facebook, Twitter, Instagram, Telegram, Tik Tok, al russo Vk, a quelle di nicchia come ExitNews ed altre minori, la “rete” attiva la controinformazione filorussa.

il presidente russo Vladimir Putin

L’ argomento privilegiato agli inizi di maggio, quando l’esercito russo era in difficoltà sul campo di battaglia, è l’invio delle armi italiane all’Ucraina. La campagna di strumentalizzazione avviata via social si focalizza sull’immagine delle bolle di spedizione dei dispositivi militari, evidenziando la data dell’11 marzo, cioè una settimana prima dell’approvazione del decreto in Parlamento che avviene una settimana dopo e cioè il 18 marzo.

A condurre gli attacchi è Maria Dubovikova, una giornalista russa che vive a Mosca e su Twitter utilizzando l’account @politblogme annovera oltre 40mila followers . A finire nel mirino delle polemiche ed attacchi strumentali è l’ambasciatore Pietro Benassi, rappresentante diplomatico italiano presso l’Ue nonché ex consigliere diplomatico di Conte a Palazzo Chigi. Il vero bersaglio degli attacchi via social in realtà è il premier Mario Draghi, la cui maggioranza ha ben tre leader di partito e cioè Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giuseppe Conte, i quali non si sono mai schierati “senza se e senza” in favore dell’Ucraina, il Paese aggredito da Vladimir Putin.

Maria Dubovikova

Su decine di profili filorussi dell’estrema destra italiana, che spesso viaggiano insieme ai “negazionisti” del Covid e dei no vax rilanciano il motto “Non in mio nome” contestando a Palazzo Chigi di aver spedito le armi «senza il consenso del popolo italiano». Le accuse continue al premier Draghi spaziano dal «mandarci in guerra» così mettendo a rischio la sicurezza della nazione «per l’ambizione di diventare segretario generale della Nato», all’«aver causato l’aumento del costo dei generi alimentari ed energetici e la chiusura di numerose aziende». 

Lo scorso 3 maggio, allorquando il premier Draghi critica duramente in una conferenza stampa  l’intervista rilasciata a Rete4 dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov , si scatenano i post filtrassi su Twitter che spesso funge da «cassa di risonanza delle fake news». L’accusa contro il premier italiano, che rimbalza sui social è «Non tutela gli interessi italiani e ha un’impostazione dittatoriale», in perfetta sintonia con Maria Zakharova la portavoce del ministro Lavrov, che a sua volta accusa «i politici italiani di ingannare il loro pubblico». 

Vladimir Putin premia Maria Zakharova

Un vero e proprio bombardamento di messaggi anti governativi e filo-russi aumenta esponenzialmente in concomitanza dei passaggi politicamente decisivi, come avviene quando si è votato la prima volta sull’invio di armi e così accadrà il prossimo 21 giugno, quando si voterà la risoluzione sulla guerra invocata dal M5S di Conte, che rischia di essere spuntata dal pressoché sicuro “flop” elettorale del M5S in caduta libera di consensi dell’elettorato. In questa scia si fa notare tale Giorgio Bianchi, che viene indicato dai report periodici che gli apparati dei servizi inviano Palazzo Chigi, come un «noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso» il quale gestisce il canale Telegram Giubbe Rosse (@rossobruni), che conta almeno 100 mila appartenenti e più volte ha attaccato con critiche aspre il senatore Adolfo Urso presidente del Copasir.

Gli ucraini bollati vengono sovente indicati ed accusati come «neonazisti» sulla scia di una teoria mediatica molto usata dai sostenitori di Putin e che viene spesso rilanciato da Alberto Fazolo un economista e pubblicista che in tv e su Facebook, sostenendo che «i giornalisti uccisi in Ucraina negli ultimi 8 anni sono 80 e questo numero elevato è correlato alla presenza di formazioni paramilitari di matrice neonazista». Gli analisti dell’intelligence, evidenziano che in realtà, «i giornalisti uccisi a partire dal 2014 sono circa la metà, ma il post di Fazolo ha registrato moltissime condivisioni sia su profili Facebook filorussi, sia su canali Telegram».  

Manlio Dinucci è un geografo e scrittore che ha 84 anni, promotore del comitato «No Guerra No Nato». in quale sostiene in suo articolo che «l’attacco anglo-americano a Russia e Ucraina era stato pianificato nel 2019» teoria diventata una sorta di manifesto «di mezzi di informazione statali russi e utenze che sostengono l’invasione dell’Ucraina». Ne ipassaggi del suo libro “La guerra – È in gioco la nostra vita“, pubblicato dalla semiclandestina ByoBlu Edizioni società editrice di un canale digitale e tv più volte tacciato di «disinformazione» a cui Google ha tolto ogni introito pubblicitario, guarda caso sono stati utilizzati e ripresi da Vladimir Putin nel suo discorso del 9 maggio in occasione delle celebrazioni annuali a Mosca, per il Giorno della vittoria. Le tesi di Dinucci guarda caso sono state riprese da  Alessandro Orsini  il docente licenziato dall’Università Luiss a seguito del clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive, e reporter freelance Maurizio Vezzosi 32 anni, che racconta il conflitto dall’Ucraina e invita lettori e telespettatori «a informarsi non rimanendo alle notizie in superficie perché molti ucraini pensano che Zelensky sia responsabile della situazione, molti lo ritengono un “traditore”».

La rete filoputiniana si muove in pubblico, ma anche dietro le quinte. Agli inizi di maggio, quando il senatore grillino Vito Petrocelli noto per le sue posizioni anti governative si rifiuta di lasciare la presidenza della commissione Esteri nonostante gli “ultimatum” anche di Conte, ecco che gli attivisti filorussi si attivano per mettere in piedi una campagna di mail bombing rivolta agli indirizzi di posta elettronica del Senato. Fra i più attivi compaiono i canali Telegram “no vax” e “pro Russia” come @robertonuzzocanale, @G4m3OV3R e @lantidiplomatico, che raccoglie documentazione per sostenere la decisione di Petrocelli di restare inchiodato alla poltrona, contro le indicazioni del partito. 

La sede del DIS, centrale di coordinamento dei “servizi” italiani

Su Antidiplomatico che negli anni in cui Grillo guardava con simpatia a Putin era vicino alle posizioni di Manlio Di Stefano e Alessandro Di Battista, è molto attiva anche la freelance Laura Ru, la quale in realtà si chiama Laura Ruggeri vive a Honk Kong e scrive su “Strategic Culture Foundation“, che viene ritenuta dagli analisti dell’ intelligente una «rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr» e che, unitamente a Russia Today, è artefice di una campagna massiccia contro le sanzioni nei confronti di Mosca. La tesi della Zakharova portavoce di Lavrov, che «l’Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia» — viene periodicamente rilanciata dal «noto giornalista e diffusore di disinformazione» Cesare Sacchetti, il quale conta oltre 60mila iscritti sul suo canale Telegram sostiene che «L’Ue è costretta a tornare sui propri passi e a pagare il gas in rubli». 

Sottotraccia su questi temi si muovono anche personaggi “vicini” a quei partiti che si smarcano dal Governo Draghi. Come Claudio Giordanengo “putiniano” di ferro , il quale nel 2019 si candidò per la Lega al comune di Saluzzo, ed attacca Biden, Draghi e Speranz sui social . Questo il suo incredibile messaggio via chat del 2 giugno: «AVVISO AI TERRORISTI – Si informa che l’Ucraina sta vendendo vari stock di armi di ogni genere. Visitate i siti!! (Dark Net). Sottocosto missili anticarro Javelin originali Usa a 30 mila euro al pezzo. Ottimo affare, il prezzo originale è 250 mila dollari cadauno. Ma a loro che importa? Gli imbecilli occidentali glieli regalano».

La rete dei “putiniani d’Italia” oltrepassa i confini di partito . Giordanengo rilancia gli attacchi del fondatore di Italexit al premier Draghi : «Gianluigi Paragone inchioda il premier sulla guerra: “Si muove come un socio di Biden”. Italia sottomessa sulla guerra”». Per aumentare il numero di “filoputiniani” italiani, si muovono movimenti che utilizzano i socialnetwork in lingua russa. Su VKontakte (VK) si trovano la Rete dei Patrioti, che scrive e pubblica post (in italiano) con messaggi contro Salvini, con l’obiettivo di provare a «rubare» sostenitori alla Lega.

Le polemiche dopo gli articoli del Corriere. Lista di proscrizione dei ‘filoputiniani’ d’Italia, il Copasir nega tutto: “Nessuna indagine su presunti influencer pro-Russia”. Redazione su Il Riformista il 6 Giugno 2022. 

Ma da dove è sbucata fuori la lista di nomi di giornalisti, politici e opinionisti vari associati alla propaganda del Cremlino che il Corriere della Sera da domenica ha sparato in prima pagina? La ‘lista di proscrizione’ è stata attribuita dal quotidiano di via Solferino al Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che però oggi tramite il suo presidente, il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso, nega tutto.

Nessuna lista dei filoputiniani è stata stilata dal Copasir, dice Urso al mattino intervenendo su RaiNews 24: “La lista l’ho letta su giornale, io non la conoscevo prima”, assicura il senatore meloniano, che sul tema ricorda comunque l’esistenza di una indagine conoscitiva “per quanto riguarda la disinformazione e la propaganda che avviene anche, ma non solo, attraverso la rete cibernetica. E laddove lo riterremo opportuno, alla fine di questa indagine faremo una specifica relazione al Parlamento”.

Tesi confermata dal leghista Raffaele Volpi, già Presidente del Copasir ed ex Sottosegretario di Stato alla Difesa, secondo cui il comitato “non ha avuto, non ha visto né tantomeno redatto liste di nomi di influencer e opinionisti ascrivibili a vicinanze con la Russia”.

A fare ulteriore chiarezza è quindi una nota ufficiale del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che assicura di “non aver mai condotto proprie indagini su presunti influencer e di aver ricevuto solo questa mattina un report specifico che per quanto ci riguarda, come sempre, resta classificato. Peraltro, il Comitato si attiene sempre scrupolosamente a quanto previsto dalla legge 124/2007: non e’ una commissione di inchiesta, ma organo di controllo e garanzia; non ha poteri di indagine, ma ottiene informazioni dagli organi preposti, nel corso di audizioni o sulla base di specifiche richieste, anche al fine di realizzare, ove lo ritenga, relazioni tematiche al Parlamento”.

Nell’elenco dei profili dei presunti filoputiniani pubblicato dal Corriere della Sera c’erano volti noti e non: tra i primi Vito Petrocelli, senatore espulso dal Movimento 5 Stelle ed ex presidente della Commissione Esteri del Senato, oltre a Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo, spesso ospite di trasmissioni televisive e dibattiti politici.

Proprio quest’ultimo ha annunciato che farà causa per diffamazione al quotidiano dopo gli articoli a firma Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni. Rivolgendosi al direttore Luciano Fontana, il professore di sociologia del terrorismo sottolinea che “chiunque legga il contenuto di questo articolo si rende conto immediatamente che la mia foto è stata inserita a caso, immotivatamente, senza alcun senso. Il Copasir ha indagato su di me e non ha trovato assolutamente niente. Caro Luciano Fontana, so che il suo desiderio è di vedermi dietro le sbarre, ma sarà frustrato. Nessuno mi arresterà ed io continuerò a parlare contro le politiche inumane del governo Draghi in Ucraina volte a sirianizzare quella guerra dietro richiesta della Casa Bianca”. 

Altri presunti influencer del Cremlino sarebbero, secondo il Corriere della Sera, Manlio Dinucci, 84enne geografo e scrittore promotore del comitato “No Guerra No Nato”. Con lui Maurizio Vezzosi, reporter freelance; Giorgio Bianchi, gestore del canale Telegram Giubbe Rosse; Alberto Fazolo, economista e pubblicista spesso ospite in tv.

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.

Il dossier sui «putiniani» d'Italia è destinato ad ingrossarsi. Dopo l'articolo del Corriere di ieri, è la vicepresidente del Copasir Federica Dieni (M5S) a confermare il lavoro che il comitato sta portando avanti per mettere a punto la rete degli italiani filo Putin composta di politici, economisti, freelance, opinionisti: «Stiamo facendo gli approfondimenti sulle forme di disinformazione e di ingerenza straniere. Siamo in attesa di alcune risposte».

Un lavoro complesso quello del Copasir, un'indagine su tv, giornali, social network per fare chiarezza su un'eventuale minaccia «ibrida» russa che tenterebbe di influenzare il dibattito nei Paesi occidentali con propaganda, disinformazione, fake news. 

L'indagine, avviata nei primi giorni del mese scorso, fa seguito all'approfondimento già avviato sul tema, anche con le audizioni del direttore dell'Aise Giovanni Caravelli, del direttore dell'Aisi Mario Parente, del presidente dell'Agcom Giacomo Lasorella e dell'ad della Rai Carlo Fuortes. Fuortes avrebbe ragionato sulla necessità di rivedere il format dei talk, soprattutto su temi complessi come quello della guerra, evitando le contrapposizioni urlate per lasciare più spazio agli approfondimenti.

Si verificano le attività di chi avrebbe veicolato notizie false ai fini della propaganda filo russa. Il 25 aprile il senatore M5S Vito Petrocelli venne espulso dal Movimento 5 Stelle per un post su Twitter dove augurava con un'ironia sprezzante buona festa della Liberazione mettendo al posto della «zeta» normale la «Z» grande, simbolo delle armate di Putin. Era presidente della commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli e non voleva saperne di dimettersi, nonostante gli ultimatum espliciti di Conte.

Secondo quanto risulta al Copasir in quell'occasione gli attivisti filo Putin si sono mobilitati per una campagna di «mail-bombing» verso indirizzi di posta elettronica del Senato. Una campagna che il senatore Petrocelli non smentisce, ma la ridimensiona: «Erano mail contrarie alla mia rimozione dalla presidenza della commissione. Ma erano tutte mail con nome e cognome, qualcuna anche con la città», dice. Poi aggiunge: «Io non sono putiniano. Ormai nel nostro Paese c'è un neo maccartismo dilagante che continua a crescere e non si fermerà». 

È cominciato il 4 maggio il lavoro del Copasir e ulteriori elementi potrebbero essere acquisiti nella missione che il comitato farà prima a Washington il 12 giugno e poi a Bruxelles. Tra i personaggi che avrebbero fatto parte della «rete» secondo gli apparati di sicurezza c'è Manlio Ducci, 84 anni, che ha scritto un libro sulla guerra che lo stesso Putin ha citato il 9 maggio per le celebrazioni del giorno della Vittoria. Anche Alessandro Orsini ha sposato le sue tesi e con lui Giorgio Bianchi un freelance che risulta essere «stato presente in territorio ucraino con finalità politiche di attivismo politico-propagandistico filorusso».

Bianchi non smentisce la sua presenza in Ucraina, ma respinge al mittente l'accusa di essere putiniano: «Oggi fare il proprio lavoro con onestà intellettuale e dire delle cose che non sono allineate ti fa finire in questa sorta di "lista di proscrizione"». Tra gli attivisti è citato anche l'economista Alberto Fazolo e lui dice di provare «compassione per i servizi d'intelligence costretti a fare certe cialtronate». C'è poi Maurizio Vezzosi per il quale il dossier è «un goffo tentativo di delegittimazione a ogni costo».

La lista dei putiniani un “avvertimento” dei servizi segreti a leghisti e grillini? Il Corriere della Sera ha ricevuto i report prima del Copasir ma così l’intelligence scavalca il Parlamento. Paolo Delgado su Il Dubbio l'8 giugno 2022.

Tenuta a freno per ovvie esigenze diplomatiche, l’irritazione del Copasir e del suo presidente Adolfo Urso è stata negli ultimi giorni comunque palese. Di buone ragioni per essere imbufaliti i parlamentari del Comitato di controllo sui servizi segreti ne hanno sin troppe. Prima di tutto il fatto che il report dei servizi sulla disinformazione filorussa nei media e sui social italiani sia finita nella redazione del Corriere della Sera 48 prima di arrivare alla sua corretta destinazione, il Copasir stesso, secondo una delle più inveterate ma anche peggiori abitudini italiane. Poi il fatto che proprio il Copasir sia stato adoperato come paravento e in ultima analisi anche capro espiatorio. La versione cartacea del quotidiano di via Solferino lasciava capire nel titolo che la fonte erano i servizi di intelligence.

Nella versione online, però, al posto dei servizi figurava il Copasir stesso, che infatti è diventato subito il bersaglio di critiche e polemiche a partire dall’attacco durissimo di Giuseppe Conte contro le “liste di proscrizione”. Ma soprattutto il combinato tra la fuga di notizie di un’indagine appena agli inizi e la forma con la quale è stata poi diffusa dal quotidiano milanese falsa completamente l’impostazione del Comitato, che punta a un’indagine conoscitiva e non alla diffusione alla cieca di nomi, in un pastone nel quale chi esprime opinioni critiche ma pienamente legittime finisce accostato a giornalisti russi stipendiati e sospettato di essere a libro paga. Per il Copasir, infine, l’elemento saliente è individuare i metodi sui quali si basa la strategia di disinformazione e condizionamento più che additare colpevoli.

L’incidente però pone quesiti irrisolti: perché una parte dell’apparato di sicurezza ha deciso, dribblando il Copasir, di far uscire una lista con l’inevitabile conseguenza di esercitare un condizionamento sul dissenso, omologato senza mezzi termini a una losca militanza ‘ putiniana’? E ancora, quanto va messa in relazione la fuga pilotata di notizie con la convocazione dell’ambasciatore russo Razov alla Farnesina. L’ipotesi secondo cui la convocazione sarebbe stata una sorta di “ultimo avvertimento” prima della cacciata di Razov dall’Italia sembra a dir poco improbabile. Non si capisce bene quale sarebbe l’interesse dell’Italia nel diventare il Paese più falco e più impegnato in uno scontro diretto e frontale con la Russia, anche senza contare i rischi di ritorsione sul piano della fornitura di gas. D’altra parte la convocazione aveva certamente il valore di segnale, rincarato dalla scelta inusuale di specificare che la convocazione è stata decisa dal ministro degli Esteri Di Maio “di concerto con palazzo Chigi”, cioè con il beneplacito e forse anzi con la spinta diretta di Mario Draghi.

In parte il segnale è certamente destinato a essere recepito dagli alleati occidentali. Sull’Italia grava sin dall’inizio della guerra il sospetto della possibile cedevolezza, derivato in parte da precedenti storici ormai degenerati in pregiudizio, in parte dalle oggettive difficoltà che la crisi internazionale determina in Italia più che in quasi tutti gli altri Paesi occidentali, in parte dal fatto che i primi due partiti della maggioranza siano stati qui molto vicini a Putin. Più o meno obtorto collo l’Italia è dunque destinata ad alzare i toni più degli altri Paesi europei per dimostrare di essere come gli altri Paesi europei, in particolare sul fronte dei media.

Ma il segnale è anche rivolto al fronte interno in particolare, ma non solo, in vista del dibattito parlamentare del 21 giugno. Le forze politiche meno schierate, in particolare Lega e M5S, difficilmente potrebbero non prestare orecchio alle sirene di un’opinione pubblica tiepida verso la politica del governo nella crisi internazionale e contraria all’invio delle armi. La situazione non è ancora a rischio ma se l’ostilità nei confronti dell’impegno italiano crescesse e si radicalizzasse i riflessi sulla tenuta di quelli che a conti fatti sono il primo e il secondo partito della maggioranza sarebbero inevitabili. L’avvertimento è dunque indirizzato a quell’area molto composita, non sempre limpida ma di certo neppure sempre torbida, che soffia sul fuoco del dissenso.

Ma se questo fosse vero e se la fuga di notizie rispondesse a un calcolo strategico, come è possibile e forse probabile, si tratterebbe di una parte dello Stato che si muove all’insaputa di un’altra parte dello Stato stesso, e segnatamente del Parlamento di cui il Copasir, che in questa vicenda è stato ignorato e quasi usato come paravento, è espressione diretta.

DAGOREPORT l'8 giugno 2022.

Ecco come è andata. Due giorni prima che il Corriere pubblicasse la presunta "lista dei Putiniani" affibbiata dalle due giornaliste al Copasir, si è tenuto un incontro allargato sulla "disinfornazione" in Italia. Presenti i vertici del Dis e della Cybersicurezza più altri funzionari di vari ministeri (Viminale, Farnesina).

Lì è circolato un report di poco conto, fatto dall'intelligence e dei reparti cybersicurezza usando fonti aperte come se ne fanno di continuo (‘’Domani’’ ne aveva pubblicato uno a marzo, ma senza parlare di lista, dove si indicava una senatrice ex M5S e profili di Qanon). Un dossier che qualcuno degli astanti ha passato al Corriere prima ancora che arrivasse al Copasir.

Per fare un po’ di casino, il Corriere ha sparato un titolo esagerato (nessuno dei nomi è attenzionato dai servizi, non esistono liste su cui lavora l'intelligence, e ci mancherebbe pure) tirando in ballo il povero Copasir. Che però non ha alcun potere di investigare chicchessia. Ora che il pasticcio ha sollevato un polverone gigantesco (sul nulla), però, qualcuno nei servizi rischia di pagare davvero il conto.

Putinopoli. L’assurda commedia sulle «liste di proscrizione» nel paese della libertà di sputtanamento. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 9 Giugno 2022.

In Italia, in nome del diritto all’informazione, i giornali pubblicano continuamente liste di presunti corrotti, mafiosi, pedofili e molestatori, sulla base del nulla. Ma guai a definire «putiniano» chi passa le sue giornate a difendere le ragioni di Putin

di Kelly Sikkema, da Unsplash

In Italia è possibile pubblicare sui giornali liste di presunti corrotti e presunti mafiosi alla vigilia delle elezioni (ma anche durante e dopo, a dire il vero). È possibile dare del mafioso, del corrotto o dell’eversore a ministri, presidenti del Consiglio e presidenti della Repubblica sulla base di testimonianze di terza o quarta mano, sulla base di accuse crollate in tribunale o prima ancora di arrivarci, sulla base di intercettazioni telefoniche di cui è stata manipolata la registrazione o la trascrizione.

In Italia, infatti, è possibile pubblicare sui giornali, corredate di foto, le private telefonate di chiunque, su chiunque, comunque siano state intercettate, anche illegalmente (è successo), persino se tecnicamente manipolate (è successo anche questo), quale che sia il contenuto della conversazione e anche nel caso in cui la persona che parla o di cui si parla non abbia commesso alcun reato, anche nel caso in cui non sia stata mai nemmeno accusata né sospettata di averlo fatto, persino nel caso in cui l’intera vicenda non abbia, come si suol dire, alcuna rilevanza penale.

In Italia giornali, telegiornali e talk show, sulla base di simili dossier, hanno stilato ogni sorta di lista, e ogni qual volta qualcuno ha provato a dire che non era un modo di fare da Paese civile, e ha proposto di mettere un freno a questo schifo, l’intera stampa italiana, con rare eccezioni, è insorta gridando alla «censura» e al «bavaglio», in nome della libertà di informazione.

Fior di politici, registi, attori, soubrette, maestri d’asilo e professoresse di liceo sono finiti sui giornali, sotto titoli infamanti, sempre con tanto di foto, additati come pedofili, prostitute, molestatori, per il semplice fatto di essere stati accusati, sospettati o anche solo nominati da terze e quarte persone nel corso di un interrogatorio o di una telefonata o persino per un sms, esposti a qualunque calunnia e millanteria. E anche questo andazzo è stato difeso come libertà di stampa, come dovere giornalistico di dare tutte le notizie, come trasparenza.

L’unica cosa che proprio non si può dire di nessuno, a quanto pare, è di essere un sostenitore di Putin. L’unica definizione che proprio non è accettabile mettere per iscritto, se non si vuole suscitare un’ondata di indignazione per le infami «liste di proscrizione» e il vergognoso assalto ai diritti costituzionali del cittadino, è quella di «putiniano». Non conta il fatto che le persone in questione siano arrivate persino a insinuare che i massacri di Bucha gli ucraini se li fossero fatti da soli, che l’intenzione di invadere l’Ucraina da parte di Putin fosse una «fake news americana», che non bisognasse aiutare gli ucraini perché tanto Putin avrebbe vinto lo stesso in pochi giorni e che non bisognasse aiutarli perché un Putin in difficoltà era troppo pericoloso (insomma, che occorresse dargliela vinta, come avrebbe detto Totò, a prescindere). Macché. Il fatto non conta mai niente.

L’unica notizia di cui i giornali non possono dare conto è il fatto che nel pieno di una guerra, sulla base di segnalazioni dei nostri servizi segreti e dei servizi alleati, il comitato parlamentare preposto ha lanciato un allarme sull’attività di infiltrazione e disinformazione russa in Italia. Questo no, questo per i nostri neo-garantisti non è tollerabile. Tanto meno si può sopportare che qualche giornale arrivi al punto da insinuare che chi passa l’intera giornata in tv a difendere le ragioni di Putin stia facendo, per un motivo o per l’altro, il gioco di Putin.

Che dire? Lo spettacolo è talmente ridicolo che non vale la pena nemmeno discuterne oltre, perché manca con ogni evidenza il presupposto della buona fede. Perché si può discutere di tutto e con tutti, anche con chi neghi la sfericità della Terra, ma non si può discutere con un terrapiattista dentro una stazione orbitale: al massimo, per un po’, puoi provare a gesti, puoi sforzarti di indicare quel grande pallone colorato che ti gira di fronte, ma quale argomentazione puoi sviluppare?

Le cose, sull’Ucraina e sull’Italia, non potrebbero essere più chiare di così. Ed è una chiarezza che illumina implacabilmente ciascuno di noi.

Spesso in questi giorni ripenso a quella frasetta da cioccolatino che capita continuamente sotto gli occhi sui social network, quella che invita a essere sempre gentili con gli sconosciuti perché ognuno di loro sta combattendo una guerra di cui tu non sai niente (o qualcosa del genere). Ebbene, ultimamente mi è venuto da pensare che non è solo stucchevole, è anche infondatamente ottimista. Da mesi, infatti, siamo circondati da persone che stanno combattendo una guerra atroce di cui sappiamo tutto, e ci comportiamo da grandissimi stronzi lo stesso.

La lista dei "putiniani d'Italia" del Corsera si tinge di giallo. Daniele Dell'Orco l'8 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il Copasir costretto a smentire di aver stilato un indice con professionisti, reporter e influencer accusati dal giornale di via Solferino di appartenere ad una rete guidata da Mosca. E Travaglio si inalbera.

Il Copasir ha sconfessato il Corriere della Sera riguardo la lista di proscrizione dei "putiniani d'Italia" stilata dal principale quotidiano nostrano. A fornirla non sarebbero stati gli 007 come invece scritto nel pezzo firmato da Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini.

Un fatto che merita di essere approfondito e che ha scatenato una feroce bagarre anche sulle emittenti tv, col direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio che si è sentito chiamato indirettamente in causa visto che alcuni dei nomi indicizzati dal Corsera, come il prof. Alessandro Orsini, scrivono sul giornale di Travaglio (e dell'accademico a cui la Nato piace davvero poco pubblica anche il libro).

"Questa lista dei filoputiniani pubblicata dal Corriere è una cosa vergognosa. Una volta i giornali i dossieraggi li svelavano e li denunciavano, non facevano da buca delle lettere e da ventilatore per spargere lo sterco in giro per la rete e per le edicole", ha detto a "Dimartedì" (La7) in risposta a Beppe Severgnini che, invece, nelle vesti di avvocato della testata che lo ospita, ha rigettato nel modo più assoluto le accuse di gogna contro la testata di via Solferino.

E tuttavia, la gogna il Corsera ha provato a crearla, mettendo alla berlina professionisti, giornalisti, influencer che sarebbero così legati al Cremlino da "influenzare il dibattito nei Paesi occidentali con propaganda, disinformazione, fake news". Una fitta rete di personalità che, si legge ancora nel pezzo, "si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia", e "tenta di orientare, o peggio boicottare, le scelte del governo".

Oltre a sembrare piuttosto inverosimile o quantomeno non provata una capacità penetrativa del genere, il grande fallo del Corriere è stato quello di essersi fatto scudo dietro al Copasir, il cui presidente Adolfo Urso (FdI) ha dovuto provvedere a smentire che i nomi pubblicati siano mai stati sottoposti all’attenzione dell’organo: "La lista - ha detto Urso - l’ho letta sul giornale, io non la conoscevo prima. Noi abbiamo attivato un’indagine alla fine della quale, ove lo ritenessimo, produrremo una specifica relazione al Parlamento".

Poi la parziale rettifica, con un documento che sarebbe in effetti arrivato sulla sua scrivania, ma solo ieri mattina e comunque dal contenuto classificato. Dunque, o il Corriere aveva a disposizione una lista secretata frutto di un'indagine svolta dal Copasir su personalità italiane che diffondono informazioni gradite alla Russia (e sarebbe grave solo pensarlo), oppure ha bluffato.

La semplice volontà di smascherare i "disinformatori" non può essere sufficiente per spiegare un metodo così poco etico. Anche perché, e lo ricordava anche Nicola Porro su questa testata, "se un giornalista, che dobbiamo ammettere non conosciamo, scrive sui suoi social: 'La Ue costretta a tornare sui suoi passi e pagare il gas in rubli', come riporta il Corrierone, può forse dire una sciocchezza (peraltro non superiore a chi dichiarava che non avremmo mai pagato neanche indirettamente il gas in rubli), ma non per questo deve essere una spia al soldo di Putin".

La guerra in Ucraina è caratterizzata come mai prima da gigantesche campagne di propaganda e disinformazione. Reciproche. Il ruolo dei media liberi, soprattutto se di Paesi non implicati direttamente nel conflitto, dovrebbe essere quello di aiutare le persone a smascherare la propaganda, a distinguere le notizie vere da quelle false e ad indirizzarli per poterle contestualizzare. A prescindere dalla narrazione che l'una o l'altra notizia possano rischiare di sostenere.

Perché il rischio di tacciare per disinformatore al soldo di Putin chiunque possa anche solo vagamente rappresentare una voce di dissenso, oltre che infangare la reputazione di costoro, è quello di produrre un effetto ben più pericoloso della propaganda: l'ininformazione.

Ossia creare un circolo pericoloso per cui qualsiasi notizia, anche vera, diffusa da qualche canale "demonizzato", possa essere considerata in automatico fake.

L'Occidente non può sostenere le proprie ragioni, e quelle del popolo ucraino, basandole sulla superiorità morale e sulle caratteristiche liberali che lo differenziano dalla Russia, utilizzando metodi del genere e introducendo la "presunzione di verità", con dei media che rivendicano per sé e solo per sé la capacità di diffondere notizie vere fino a prova contraria e allo stesso tempo demonizzano o silenziano chiunque possa rischiare di fornirla, una prova contraria.

Anche perché si tratta di un meccanismo applicabile a moltissimi argomenti e non solo alla guerra. Il grande equivoco in cui si sta inciampando in questo Paese è quello di pensare che dipingendo un quadro più chiaro, completo e indipendente possibile della situazione si possa fomentare un pensiero antiatlantista, antieuropeo e filorusso. Invece è tutto l'opposto: la censura e la demonizzazione creano le fascinazioni. La verità, anche se a volte fa male, no.

Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022. 

L'attacco del ministero degli Esteri di Mosca all'Italia per la «violazione dei diritti dei cittadini russi» era stato pianificato già dagli inizi di marzo, pochi giorni dopo l'invasione dell'Ucraina. Una campagna di disinformazione che ha due obiettivi: denunciare la «russofobia» e dimostrare che «le sanzioni contro la Russia danneggiano soprattutto i Paesi che le applicano». 

È uno dei temi su cui più si mobilita la rete dei sostenitori di Putin - politici, influencer, giornalisti freelance - con interviste tv, post sui social network e petizioni, rilanciati dai siti web filorussi. Su questa attività, che punta a diffondere notizie false per scopi di propaganda, l'indagine del Copasir è in fase avanzata. 

Gli analisti e gli esponenti del Comitato parlamentare di controllo sull'attività dei servizi segreti prevedono che la pressione aumenterà nei prossimi giorni, come sempre avviene in corrispondenza di scadenze politiche e parlamentari cruciali: il 21 giugno il premier Mario Draghi riferirà alle Camere in vista del Consiglio europeo e poi si voterà la risoluzione di maggioranza sulla guerra.

Un appuntamento decisivo per chi ha come obiettivo il boicottaggio dell'azione del governo e contesta, oltre alla scelta dell'Italia di aderire convintamente alle sanzioni contro Mosca, l'invio di armi e apparecchiature militari alle autorità ucraine. Come si è visto sin dalle prime settimane del conflitto, la propaganda si attiva per screditare l'azione dell'esecutivo guidato da Draghi e per dimostrare che le sanzioni «danneggiano soprattutto chi le decreta».

La «russofobia»

Il 5 marzo l'ambasciata russa in Italia posta sulla sua pagina Facebook un annuncio esplicito: «A causa dell'aggravata situazione internazionale e della campagna di disinformazione anti russa dei media, il numero di casi di discriminazione nei confronti dei cittadini russi all'estero è aumentato vertiginosamente». 

Sui canali Telegram viene rilanciato il messaggio per giorni, l'Italia è accusata di essere in prima linea nella «russofobia» e il 28 marzo si avvia la petizione su Change.org «contro la disumanizzazione del popolo russo da parte dei nostri media».

Esattamente quanto denunciato dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov due giorni fa, nel suo ennesimo attacco al nostro Paese. Le sanzioni Negli ultimi giorni la tesi più accreditata dalla rete filorussa è che «la colpa del taglio delle forniture di gas verso l'Europa è dell'Ucraina» e soprattutto che «l'Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia». 

È il cavallo di battaglia della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova: «Per la mancanza di materie prime russe molti produttori di carta, vetro, cosmetici, potrebbero dover chiudere». 

Messaggio rilanciato da Cesare Sacchetti, gestore di un canale Telegram con oltre 60 mila iscritti, ritenuto uno degli appartenenti al circuito della disinformazione: «L'Ue è costretta a tornare sui propri passi e pagare il gas in rubli». 

Alle sanzioni come boomerang per chi le applica attinge anche il freelance Giorgio Bianchi. Intervenendo il 2 aprile in collegamento dall'Ucraina al convegno della «Commissione dubbio e precauzione», il giornalista definì le sanzioni «la pistola che spara direttamente nelle mutande del contribuente e delle imprese europee». I gruppi filorussi si scatenano su Twitter e Telegram, prendendo di mira il governo italiano anche su aspetti apparentemente minori: «Si è esportato il 20% in meno del vino friulano.

Una cosa è certa: le sanzioni all'Italia stanno funzionando». 

I documenti riservati

Ci sono diverse influencer russe attive, secondo gli apparati di sicurezza, nel lavoro di disinformazione e propaganda. Una è Ekaterina Sinitsyna, residente da tempo nel nostro Paese, la quale ha pubblicato un video mostrando documenti riservati che avrebbe ricevuto dall'ambasciata ucraina in Italia in cui viene «accusata di attività volte all'incitamento all'odio, alla violenza, alla discriminazione e alla propaganda di guerra» e ha raccontato di aver «inoltrato il messaggio all'ambasciata russa», marcando così la propria posizione. 

Il post di Maria Dubovikova, che invece risiede a Mosca - «L'Osce ha armato sottobanco gli ucraini contro i russi» - è stato condiviso dal blog maurizioblondet.it . Ieri sera Maurizio Blondet, criticando il servizio del Corriere , rivendicava la libertà di chi «ha e difende opinioni contrarie a quelle prescritte dal potere del Draghistan».

Da liberoquotidiano.it il 6 giugno 2022.

Orsini pronto a rispondere al Corriere della Sera. Il professore di Sociologia del terrorismo, da mesi al centro della polemica, avrebbe querelato il quotidiano diretto da Luciano Fontana.

A svelarlo Il Fatto Quotidiano, che spiega le motivazioni. Nella giornata di domenica 5 giugno il Corsera pubblicava foto e nomi dei personaggi oggetto di indagini da parte del Copasir. Loro, Orsini compreso, venivano descritti come la rete italiana di Vladimir Putin.

Più nello specifico le accuse al sociologo erano legate alla tesi da lui ripreso di Manlio Dinucci, geografo e promotore del comitato "No guerra no Nato". Ma non solo, perché il quotidiano definiva il professore un "docente licenziato dall’Università Luiss dopo il clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive".

Peccato però che Orsini sia stato rimosso dalla direzione dell’Osservatorio Internazionale dell’università di Confindustria, ma rimane comunque professore associato presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’ateneo. 

"Chiunque legga il contenuto di questo articolo - ha perso le staffe su Facebook dopo il pezzo a firma di Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni - si rende conto immediatamente che la mia foto è stata inserita a caso, immotivatamente, senza alcun senso. 

Il Copasir ha indagato su di me e non ha trovato assolutamente niente. Caro Luciano Fontana, so che il suo desiderio è di vedermi dietro le sbarre, ma sarà frustrato. Nessuno mi arresterà ed io continuerò a parlare contro le politiche inumane del governo Draghi in Ucraina volte a sirianizzare quella guerra dietro richiesta della Casa Bianca". Da qui la controrisposta

Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 13 giugno 2022.

Di presentazioni non ha bisogno. Per il professor Alessandro Orsini c'è - di fatto - un «prima» e un «dopo» la guerra. Prima, lo invitavano a svolgere analisi sulla sicurezza internazionale nei ministeri e alla presidenza del Consiglio. Uno dei suoi numerosi libri, Anatomia delle Brigate rosse, è stato ben recensito anche sulle riviste di Harvard. I suoi studi sono pubblicati tutt'oggi su siti del governo italiano. Da quando è iniziato il conflitto tra Russia e Ucraina, però, è diventato qualcosa più che un accademico. E più che un protagonista. 

Per tanti è un nemico. Accetta di andare in tv solo da Bianca Berlinguer e da Massimo Giletti, ma sulla sua persona e sulle sue idee si è scatenato il putiferio. Prima di questa, non ha mai rilasciato interviste sulla carta stampata. Domani uscirà un suo nuovo libro.

Nei giorni scorsi è stato incluso nella lista dei «putiniani» d'Italia pubblicata dal Corriere della Sera. 

Persone che con una rete usata in modo strumentale farebbero propaganda per la Russia.

«La mia foto e il mio nome sono stati inclusi in quella lista in modo del tutto immotivato. A ogni modo, Franco Gabrielli ha smentito e sbugiardato il Corriere. L'articolo è condito tra l'altro da due fake news».

Quali?

«Non è vero che io sia stato licenziato per le mie analisi sull'Ucraina e non è vero nemmeno che la Luiss mi abbia rimosso dal mio incarico di direttore dell'Osservatorio sulla sicurezza internazionale. L'unica cosa vera è che la Luiss ha lanciato un comunicato stampa per attaccarmi». 

Solidarietà dai suoi colleghi della Luiss per quel comunicato?

«L'ho ricevuta da un solo professore, ma in privato». 

Era Sergio Fabbrini?

«Figuriamoci, mi detesta, è un mio acerrimo nemico, il tipico accademico italiano che lavora con il curaro».

È vero che ha deciso di fare causa al Corriere?

«Il Corriere della Sera ha deciso di criminalizzare il dissenso politico. Una causa è il minimo di ciò che merita. Qualcuno ha detto che devo smentire le accuse, ma non ci sono accuse contro di me e quindi non posso smentire niente. Accade nelle dittature: gli oppositori politici vengono criminalizzati senza prove affinché non possano difendersi». 

Sul suo Osservatorio molto si è scritto. Secondo la Stampa, ad esempio, non avrebbe prodotto niente.

«È falso. Ho fondato e diretto l'Osservatorio sulla sicurezza internazionale della Luiss dal 2016 al 2022. Seguiva la politica in 149 Stati. L'Osservatorio ha lavorato sette giorni su sette per sei anni: un fondo speciale consentiva di pagare le analiste anche nei giorni di festa». 

Con quali risultati?

«L'Osservatorio ha pubblicato 31.184 articoli sul sito "Sicurezza internazionale". E ha prodotto 6 monografie e 5 articoli su riviste scientifiche ritenute "eccellenti" dal ministero dell'Università secondo la classificazione Anvur. La sola coordinatrice, Sofia Cecinini, ha pubblicato due monografie accademiche: Le sanguinarie. Storie di donne e di terrore (Luiss UP 2018, ndr) e La guerra civile in Libia (Carocci 2021, ndr)». 

Parliamo di lei? A quale cultura politica appartiene?

«Sono un riformista e un moderato». 

Moderato?

«Esatto. Credo nei cambiamenti progressivi e graduali. I grandi sconvolgimenti creano squilibri e talvolta disastri. Il mondo non va distrutto e ricreato, ma va cambiato gradualmente con l'aiuto della conoscenza. La tolleranza e il rispetto verso il prossimo possono albergare soltanto nella moderazione».

Cosa si sente di prevedere sulla guerra? Una pace è possibile?

«Prevedo che, una volta conquistato il Donbass, Putin cercherà di capire se l'Occidente vuole dargli le garanzie che richiede. Se prevale la linea Biden-Johnson, credo che marcerà su Kiev per abbattere Zelensky». 

Lei si è schierato per lo stop alle armi.

«È inutile che l'Italia dia armi pesanti agli ucraini se poi vengono massacrati uno per uno. Se Biden non vuole combattere contro la Russia, non spinga gli ucraini a farlo al posto suo e tratti con Putin. Biden aveva assicurato che le armi avrebbero ucciso un sacco di soldati russi spingendo Putin alla pace». 

Così è andata?

«È accaduto il contrario, come avevo previsto sin dal primo giorno dell'invasione: gli ucraini hanno ucciso migliaia di soldati russi e Putin ha devastato tutto. Questa è una guerra in cui la Russia è disposta all'escalation nucleare. A me interessa proteggere i civili ucraini e non la Nato». 

Lei è anti americano?

«Non sono anti americano. Gli Stati Uniti mi hanno dato molto e ripropongo in Italia ciò che ho imparato in quel Paese: la difesa del territorio e della vita degli europei viene prima di tutto».

Ma è critico su Biden.

«Critico le politiche di Biden in Ucraina perché calpestano questi due assunti che le ho detto. Sono sempre pronto a difendere gli Usa. Se però la Casa Bianca mette a repentaglio la vita degli europei per dissanguare la Russia, mi ribello». 

Di come si sta comportando l'Europa che dice? Hanno scritto di lei anche che è anti europeo.

«È falso, sono un sostenitore dell'Unione europea, anche se la guerra in Ucraina ha reso evidente il suo fallimento politico. La Ue era nata per promuovere la pace. Oggi è soggetta alle direttive della Nato che, dopo il bombardamento illegale della Serbia e della Libia, si è trasformata in alleanza offensiva». 

Le sanzioni? Servono?

«Le sanzioni possono essere utili come merce di scambio al tavolo delle trattative, ma non fermano la guerra». 

Orsini è anti Nato?

«Non sono anti Nato. Nel mio libro Viva gli immigrati (Rizzoli, ndr) ho proposto un progetto di sviluppo della Nato alternativo a quello della Casa Bianca. Ho spiegato che la Nato avrebbe dovuto svilupparsi in Nord Africa e non ai confini della Russia. La mia riforma era nell'interesse nazionale dell'Italia e pure dell'Ucraina». 

Questo dell'«interesse nazionale» dell'Italia è un po' un suo pallino. Ne parla spesso.

«L'interesse nazionale è al centro di tutti i miei ragionamenti geopolitici. Amare lo Stato italiano significa conoscere i suoi interessi e difenderli». 

Come si spiega il suo successo di questi mesi?

«Una delle ragioni è che le persone non ne possono più di sentirsi dire bugie. Troppi esperti italiani di politica internazionale, prima di parlare, aspettano di capire quale sia la posizione del governo in carica. La gente non è stupida». 

Come vive questa fama improvvisa?

«La vivo come se non esistesse. La mia vita non è cambiata. Sono rimasto una persona molto semplice con una vita altrettanto semplice e appartata. Amo la montagna, dove cerco di trascorrere tutto il tempo possibile tra il verde e gli animali». 

Che cosa farà quando la televisione non si occuperà più di lei?

«Starò benissimo perché trascorrerò più tempo in famiglia da cui dipende per intero la mia felicità».

Non è che il suo obiettivo è la politica? Si candiderà al Parlamento?

«Se volessi prendere voti direi che il mio pubblico preferito sono i disoccupati o magari gli operai». 

E invece?

«Il mio pubblico preferito sono gli studenti delle scuole superiori. Che non votano». 

Che messaggio vorrebbe inviare agli studenti?

«Il primo messaggio è l'amore per lo Stato: i problemi dell'Italia possono essere risolti soltanto se lo Stato diventa più forte. Per combattere contro la mafia, aiutare i poveri e difendere le imprese, serve uno Stato ricco e potente».

Secondo?

«La lotta contro tutte le forme di razzismo e discriminazione. E il terzo messaggio è l'amore per la società libera che coincide con l'amore per la pace: le società libere, in guerra, finiscono per chiudersi. Guardi che cosa sta accadendo con le liste di proscrizione nostrane». 

E Furio Colombo che abbandona il Fatto per colpa sua?

«Furio Colombo ha tartassato Travaglio perché mi cacciasse dal Fatto e poi ha avuto l'impudenza di dire che è stato censurato».

Pensa di essere frainteso?

«Non mi è mai capitato che un mio critico mi abbia attribuito un'idea mia. Quando sento i miei critici attaccarmi, mi domando di chi diavolo stiano parlando». 

La cosa che le pesa di più?

«Che la pagina Wikipedia a me dedicata sia caduta sotto il controllo di un gruppo di "haters"».

Una battaglia a cui tiene particolarmente?

«Prima di morire, Antonio Iosa, una vittima delle Brigate rosse, mi fece promettere che avrei raccontato la sua storia, oggi disponibile nel docufilm Il gambizzato. La memoria di Iosa va tenuta viva per proteggere i nostri giovani dai brigatisti irriducibili che vanno in giro a rivendicare con orgoglio i loro omicidi. Nel mio libro Anatomia delle Brigate rosse (Rubbettino, ndr), ho spiegato come i brigatisti rossi riducevano i loro nemici a una categoria inferiore a quella dell'uomo attraverso un'ideologia disumanizzante, che spogliava le vittime della loro umanità. I brigatisti irriducibili mi odiano e questo vuol dire che la mia collaborazione con l'associazione delle vittime del terrorismo ha dato buoni frutti».

Domani per Paper First esce il libro Ucraina. Critica della politica internazionale. Di che cosa parla?

«Il libro è innanzitutto il tentativo di mettere la cultura scientifica al centro del dibattito sulla guerra in Ucraina. L'idea che l'invasione russa sia priva di cause esprime una cultura antiscientifica. Tutti i fenomeni sociali hanno una o più cause. Weber diceva che una spiegazione non è davvero scientifica se non è anche una spiegazione causale. Ricostruisco le relazioni conflittuali tra la Russia e la Nato per far emergere le cause ignorate nel dibattito nostrano. Introduco molte informazioni che non hanno circolazione a casa nostra».

“Tra schifosi ci si intende”. Massimo Gramellini umilia Alessandro Orsini: perché il prof è terrorizzato da Putin. Il Tempo il 20 marzo 2022

Il professor Alessandro Orsini da quando è scoppiata la guerra tra Russia ed Ucraina è diventato uno dei volti più noti dei talk show italiani che approfondiscono il tema del conflitto. Nel suo Caffè sul Corriere della Sera Massimo Gramellini ha voluto proprio mandare alcuni messaggi ad Orsini: “Ogni giovedì sera mi sintonizzo con la piazza del bravissimo Formigli per assumere la mia dose settimanale di professor Orsini. Spiace per gli altri aspiranti al titolo, ma la vera star del Pacinarcisismo è lui, grazie alla faccia sofferta e a quel tono di voce tra l’assertivo e il piagnucoloso con cui ricostruisce le cause della guerra ucraina dai tempi di Gengis Khan. Stavolta ci ha spiegato che tra l’Occidente e Putin non c’è differenza. Schifoso lo zar, schifosi noi: e tra schifosi ci si intende”.

Gramellini, dopo la frecciata neanche tanto criptica, continua il suo discorso: “Orsini sembra posseduto da una sorta di timor panico nei confronti di Putin, lo nomina il meno possibile e quasi mai per parlare delle sue malefatte, che comunque non considera peggiori delle nostre. La sconfitta dell’invasore, che rallegra i poveri di spirito, è ciò che egli più teme, perché a quel punto, dice, Putin potrebbe arrabbiarsi sul serio. Quanto alla caduta del satrapo slavo, non fa parte delle opzioni di Orsini e forse neppure delle sue speranze. La mia rimane che un giorno a Mosca un omologo del professore possa dire in un talk show che i russi fanno schifo come gli occidentali. Significherebbe che anche lì è arrivata la libertà”. Messaggio forte e chiaro.

Otto e mezzo, Tomaso Montanari a valanga. Minacce contro le liste dei putiniani. Valentina Bertoli su Il Tempo il 06 giugno 2022.

All’alba di una nuova crisi diplomatica tra l’Italia e la Russia, Tomaso Montanari, storico dell’arte e accademico, ospite a “Otto e mezzo”, assume una postura rigida rispetto all’indagine del Copasir sulla presunta propaganda filorussa dei media italiani: “Le liste di proscrizione sono un pessimo segnale. Se mi avessero inserito tra i putiniani, li avrei querelati”.

Dopo 103 giorni di un conflitto logorante tanto sul campo di combattimento quanto su quello propagandistico (la guerra portata avanti dal Cremlino in territorio ucraino), Giovanni Floris, temporaneamente alla conduzione del programma quotidiano di LA7, propone una ricostruzione chiara e sintetica delle vicende che stanno mettendo in discussione uno dei valori fondanti della democrazia italiana: la libertà di espressione. Il Comitato per la Sicurezza della Repubblica ha infatti fatto chiarezza sull’attiva propaganda pro-Putin che giornalisti e politici italiani avrebbero messo in piedi per condizionare l’opinione pubblica, individuando i nomi di chi avrebbe corrotto la libera circolazione delle idee. “Le liste di proscrizione sono un pessimo segnale. Abbiamo bisogno di informazioni, di analisi approfondite. Individuare i putiniani rappresenta  i valori occidentali di cui ci sciacquiamo la bocca? C’è un grande polverone, c’è tanta ambiguità e non fa onore alla democrazia italiana” è stato netto Montanari, chiamato ad esprimersi sul tema nel corso della puntata del 6 giugno. Dopo aver citato George Orwell, ha aggiunto: “Quando la retorica del nemico  inizia a prendere la nostra democrazia, è allarmante”. Il saggista ha allora fatto il punto sulla possibilità, per i giornalisti occidentali, di intervistare la controparte russa: “È un bene poter ascoltare diverse prospettive, ma bisogna fare attenzione. La Russia non conosce la libertà, è vero. Non è bene cadere in una superiorità sistemica, però. Nessuno ci assicura i valori democratici”. Il professore Montanari non ha usato eufemismi sulla mossa del Copasir e sulla pretesa di preservare l’autonomia editoriale e informativa: “Se mi avessero inserito nella lista, li avrei querelati”.

Il Corriere stila liste di proscrizione: combattono Putin facendo peggio di lui. Polemiche per l’articolo contro influencer, giornalisti e opinionisti definiti “putiniani”. Ma è sbagliato agire come nelle dittature. Nicolaporro.it il 6 Giugno 2022.

La differenza, riteniamo, che ancora esiste tra una democrazia liberale come l’Italia e un regime pseudodemocratico come la Russia, è che dalle nostre parti il dissenso dovrebbe essere non solo permesso, ma tutelato. Esiste forse una democrazia senza una minoranza? È ancora legittimo essere contrari alla spedizione di armi in Russia? Si può criticare Mario Draghi per le sue posizioni filo-atlantiche?

Vedete, questo Giornale ha poco da farsi perdonare. Era filo-atlantico quando la sinistra sfilava per le strade bruciando le bandiere americane. Era filo-Nato quando i missili in Europa piacevano solo a pochi tra gli intellettuali che oggi ci danno lezione di americanismo. È lo è tutt’ora. Senza se e senza ma, e soprattutto senza un passato da far dimenticare. Non abbiamo scheletri nell’armadio e per noi non c’è una lotta che continua.

Ecco perché quando leggiamo, come è successo ieri, sul Corriere della Sera il seguente pezzo: «Influencer e opinionisti. Ecco i putiniani d’Italia», corredato da nove fotine segnaletiche, saltiamo sulla sedia. Così come quando leggiamo, nella titolazione, la suggestione di una «rete che fa partire la controinformazione» e di una «macchina che si attiva nei momenti chiave». Probabilmente è colpa nostra, lo ammettiamo. È passata solo una settimana dall’anniversario della morte del commissario Calabresi, costruita anche da liste di proscrizione simili, da appelli giornalistici decisamente di tutt’altro tenore, ma altrettanto superficiali e complottisti.

Noi non siamo la Russia e non siamo più l’Italia degli anni di piombo, e non possiamo confondere il dissenso, anche quello più urticante e peloso, con la listarella dei venduti. Se un giornalista, che dobbiamo ammettere non conosciamo, scrive sui suoi social: «La Ue costretta a tornare sui suoi passi e pagare il gas in rubli», come riporta il Corrierone, può forse dire una sciocchezza (peraltro non superiore a chi dichiarava che non avremmo mai pagato neanche indirettamente il gas in rubli), ma non per questo deve essere una spia al soldo di Putin. E se lo fosse, converrebbe averne qualche prova in più.

È il tono che dà la misura della musica. E la musica, pur essendo in difesa della nostra causa, che resta quella di essere saldamente ancorati all’Occidente, ha il tono inquietante che usavano gli invasati di sinistra contro i nemici del popolo. Oggi succede che i nemici del popolo siano i loro compagni di ieri, e cioè i filorussi. Ma il sapore amaro in bocca resta il medesimo.

Se pensiamo di vincere la guerra tappando la bocca agli Orsini di turno e facendo liste di proscrizione degli influencer che criticano Draghi, sbagliamo due volte. La prima è perché rendiamo eroico e affascinante il dissenso anche quando esso è semplicemente nonsenso. La seconda è perché la forza dell’Occidente, oltre alle armi che servono eccome, è la sua predisposizione alla libertà: nel mercato, nelle opinioni e negli usi. Nicola Porro, Il Giornale 6 giugno 2022

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 giugno 2022.

Caro Dago, premesso che io mi vergogno a parlare delle tragedie ucraine dal comodo di un divano e senza mai avere visto nella mia vita una sola pietra di quella regione, e dunque che leggo avidamente quanti ne scrivono con cognizione di causa, Lucio Caracciolo come Domenico Quirico come il generale Fabio Mini, il cui articolo sul “Fatto” non me lo perdo mai.

Detto questo ho un certo imbarazzo a vedere di giornalisti che mettono in una lista di proscrizione altri giornalisti e mi sto riferendo agli elenchi di “filoputiniani” di cui il tuo sito si è occupato e si occupa ripetutamente. Per antica esperienza disdegno le classificazioni facili e essenzialmente polemiche, classificazioni di cui ho esperienza in prima persona. In un libro dov’erano indicati spregiativamente i nomi degli adulatori di Silvio Berlusconi trovai una volta il mio di nome, e questo perché in vista di una partita di Champions del Milan mi ero augurato che la squadra italiana vincesse.

Trovare il nome di Alessandro Orsini in una lista di “filoputiniani” è una baggianata, un insulto all’intelligenza. Orsini ha tutto il diritto di dire quello che pensa senza essere insultato. Dubito che uno come il da me stimatissimo Lucio Caracciolo gli darebbe la qualifica di ”filoputiniano”. 

La tragedia ucraina è di tali proporzioni, oltre che risalire a cause che risalgono molto indietro nel tempo, da non ammettere semplificazioni polemiche distribuite a destra e a manca come fossero colpi di scimitarra. Non servono a niente, non attenuano la tragedia rappresentata dai colpi di fuoco che si susseguono a decine e decine di migliaia, non risparmiano la vita di un solo combattente o di un solo civile.

Tutto è intricatissimo. Ci sono molte e buone ragioni per mandare armi micidiali agli ucraini, c’è qualche ragione per chiedersi se a questo modo non si protrae lo stallo fra i due eserciti combattenti e dunque il prosieguo della distruzione di un’intera nazione. Non lo so non lo so non lo so. Voglio leggere e poi ragionarci sopra. Voglio sentire tutti gli strumenti dell’orchestra intellettuale. Ne voglio sapere di più di più di più. Da qualsiasi parte venga questo di più.

"Liste di proscrizione? Non si ragiona più". "Io filo Mosca? Non parlo con i mentecatti". Massimo Malpica il 6 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il filosofo: "I servizi fanno il loro mestiere, abbiamo scoperto l'acqua calda? Vanno a individuare quelli che secondo loro danno una mano al nemico".

Un elenco di influencer, giornalisti, opinionisti considerati di fatto un veicolo della propaganda putiniana, un ingranaggio nella macchina della disinformazione di Mosca.

La «lista di proscrizione» dei filo-Putin italiani, stilata dal Copasir e pubblicata ieri dal Corriere della Sera, ha acceso le polemiche. Va bene che i torti e le ragioni di questo conflitto sono evidenti, ma il clima è un po' da caccia alle streghe. Non basta cambiare canale se parla un ministro russo o un esperto che invita l'Ucraina alla resa?

Sul rischio che il vento che soffia intorno al conflitto in Italia e in Europa odori di maccartismo e che ci sia uno sbilanciamento sul pensiero unico Massimo Cacciari, come sempre, dice la sua senza giri di parole. «Non è questione di sbilanciamento, è questione che non emerge alcuna volontà di ragionare sulle cose», spiega il filosofo al Giornale, «ma d'altra parte era così già col Covid, ormai è un costume italiano, non c'entra nulla con la Russia».

Italiano e non solo, se pensiamo al Cern che vuol cacciare gli scienziati russi dai suoi laboratori o a Wimbledon che ha chiuso le porte ai tennisti russi, ma certo in Italia la messa all'indice è molto forte, come dimostra il caso Orsini.

«Quando c'è una guerra, e noi abbiamo di fatto dichiarato guerra alla Russia, è evidente che non collabori con il nemico in nessun campo».

Ma qual è il confine tra la libertà di pensiero e di opinione e l'intelligenza con il nemico, restando all'ipotesi dello stato di guerra di fatto? Non è più possibile esprimere il proprio parere?

«Ma io non esprimo pareri, esprimo dei dati di fatto. Conoscendo le ragioni di questo conflitto non faccio altro che richiamare a queste ragioni la situazione del rapporto tra Ucraina e Russia, la sua storia. E una persona ragionevole non fa altro che richiamare le cause che hanno condotto a questa tragedia. Perché se non si affrontano e non si comprendono le cause, come per una malattia, non si potrà neanche mai trovare la terapia. Tutto qua, un discorso di pura razionalità occidentale. Se poi le regole fondamentali della nostra razionalità europeo-occidentale sono andate a ramengo, non c'è modo di intendersi, è evidente. Non c'è modo di intendersi né io intendo discutere con chi ormai ha portato il cervello all'ammasso: non me ne frega niente».

Non c'è possibilità di dialogo tra i due «fronti», quindi?

«È evidente che non c'è nessuna possibilità di dialogo con chi lo rifiuta. Come faccio a dialogare con lei se lei lo rifiuta, o se dice che due più due fa cinque, e sbaglio io se dico che fa quattro? Non è che c'è una diversità di opinioni, non è che io dica opinioni. Io dico ragioniamo sulle cause, vediamo se ragionando sulle cause si può anche intravedere una prospettiva di un accordo di pace. La guerra, insegnano a Scienze politiche, è l'extrema ratio della politica. Qui c'è stato Putin che evidentemente non ha tenuto in nessun conto questa aurea regola e ha combinato un disastro. Ma al disastro combinato da Putin si è risposto come si sta rispondendo...»

Cioè?

«Sembrerebbe - io mi auguro che non sia così - senza la volontà di cercare una soluzione di trattativa e di accordo, che so benissimo essere molto difficile. Quanto a queste liste di proscrizione, sappiamo bene che i servizi fanno il loro mestiere, scopriamo l'acqua calda. In situazioni delicate come queste, i servizi fanno il loro lavoro, vanno a individuare quelli che - secondo loro, con qualche fondamento, con nessun fondamento - danno una mano al nemico. Dovremmo saperne qualcosa della storia dei servizi segreti italiani. Però fanno il loro mestiere».

Anche la Commissione di vigilanza e le polemiche sul contenimento delle ospitate «non allineate» nei talk show sono esercizio di mestiere?

È tutta una logica da Paese in guerra. Se un Paese è in guerra funziona così. Funziona che i servizi segreti cercano, a torto o a ragione, ogni possibile anche involontario collaboratore. Funziona che non trasmetti nessuna informazione che provenga dal nemico. Funziona che scappano censure di un tipo o di un altro, anche non attraverso diktat dei governi, ma con comportamenti adottati dai direttori dei giornali, dal suo direttore, dagli altri. Non lo devo insegnare a lei che è giornalista».

Anche lei, che pure si è detto favorevole all'invio di armi a Kiev, è stato tacciato di «filoputinismo».

«Non mi confronto con i mentecatti. Non ho nessun interesse a farlo. Sono troppo vecchio ormai per perdere tempo a discutere con i deficienti». 

DAGOREPORT il 7 giugno 2022.

Ecco come è andata. Due giorni prima che il Corriere pubblicasse la presunta "lista dei Putiniani" affibbiata dalle due giornaliste al Copasir, si è tenuto un incontro allargato sulla "disinformazione" in Italia. Presenti i vertici del Dis e della Cybersicurezza più altri funzionari di vari ministeri (Viminale, Farnesina).

Lì è circolato un report di poco conto, fatto dall'intelligence e dei reparti cybersicurezza usando fonti aperte come se ne fanno di continuo (‘’Domani’’ ne aveva pubblicato uno a marzo, ma senza parlare di lista, dove si indicava una senatrice ex M5S e profili di Qanon). Un dossier che qualcuno degli astanti ha passato al Corriere prima ancora che arrivasse al Copasir.

Per fare un po’ di casino, il Corriere ha sparato un titolo esagerato (nessuno dei nomi è attenzionato dai servizi, non esistono liste su cui lavora l'intelligence, e ci mancherebbe pure) tirando in ballo il povero Copasir. Che però non ha alcun potere di investigare chicchessia. Ora che il pasticcio ha sollevato un polverone gigantesco (sul nulla), però, qualcuno nei servizi rischia di pagare davvero il conto.

Estratto dell’articolo di Renato Farina per “Libero quotidiano” il 7 giugno 2022.

Il Corriere della Sera domenica ha pubblicato foto segnaletiche, nomi e dati sensibili di nove cittadini, i quali non risultano condannati da nessuna parte, e neppure indagati, ma che intanto sono stati marchiati a fuoco sulla pubblica piazza come traditori della patria.

Questo elenco, che aspetta solo di essere appeso sui piloni della luce con scritto Wanted o Achtung Banditen e un cappio quale monito, non è stato compilato dopo una faticosa e scrupolosa ricerca sul campo, ma è la pura e acritica trascrizione di una soffiata, si presume d'alto livello. Da parte di chi? Del controspionaggio italiano o del Copasir?

Non si scappa. O è stata l'Aisi, agenzia dei servizi interni, che avrebbe individuato le quinte colonne del Cremlino su ordine del Copasir a sua volta terminale della ricerca e quindi anch' esso sospettabile di aver passato le carte. 

Quello del primo quotidiano italiano per diffusione e fama nel mondo, sia chiaro, non è stato un incidente, ma una precisa scelta di giornalismo bellico. A dare il sigillo di sacralità al pacco sono state infatti le firme della vicedirettrice Fiorenza Sarzanini (versante servizi segreti e ministero dell'Interno) e della parlamentarista Monica Guerzoni (agganci al Copasir). Sono prime penne, si muovono sempre su terreni solidi. La serietà nei secoli delle due giornaliste fa escludere che abbiano raccolto una patacca. Ma non credo sia legale appendere la gente per i piedi.

Beh, diciamolo. Tutto ciò è abbastanza schifoso, ma sarebbe almeno plausibile in un Paese che abbia sospeso la libertà di parola e di pensiero (art. 21 della Costituzione), avendo dichiarato lo stato di guerra e la legge marziale. Le tre cose non ci risultano, ma forse ci hanno nascosto qualcosa. […] 

Scrivono Sarzanini & Guerzoni: «L'indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall'intelligence individua ecc». Trattasi insomma di retata commissionata dal Copasir ai servizi i quali pescano nove presunti merluzzi-spia e li passano al Copasir e da lì (o dall'Aisi o dal Dis) finiscono in via Solferino.

[…] La frase dove casca l'asino/a è la prima: «L'indagine avviata dal Copasir». […] Il Copasir non può permettersi di avviare alcunché. Qui ci interessa il comma 2 del citato art.30: «Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l'attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell'esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni». Verifica, vigila, controlla.

Arretriamo dall'art. 30 all'art. 8, che perentoriamente afferma: «Le funzioni attribuite dalla presente legge al Dis (organo di coordinamento), all'Aise (servizio estero) e all'Aisi (servizi interni) non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio». Né dal Copasir né dal Corriere.

Il Copasir è un arbitro, non tira calci al pallone. Indagini competono solo ai servizi che hanno per leader Elisabetta Belloni, la quale risponde al sottosegretario della presidenza del Consiglio delegato all'intelligence, Franco Gabrielli. Se hanno notizie di reato informano la polizia giudiziaria. Nessun altro può archiviare informazioni personali, esito di indagini su chicchessia, e specialmente su parlamentari, anche se si chiamano Petrocelli, o come Salvini varcano il portone di un'ambasciata persino di Paesi ostili. 

[…] «Attività conoscitiva» non schedatura da affidare ai servizi e poi diffondere tramite Corriere della Sera. Troppo zelo patriottico? O qualcuno al Copasir e/o alla testa dei servizi e/o in via Solferino punta a un coinvolgimento irreversibile nel conflitto che la Russia sta conducendo in Ucraina? Come disse qualcuno è il caso che il Parlamento «controlli i controllori». […]

F. Bor. per “la Verità” il 7 giugno 2022.

Due giorni, tre pagine. Domenica mattina, a pagina 6, il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo a firma Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini con un titolo suggestivo e diretto: «I putiniani d'Italia». Sommario: «Il materiale raccolto dai servizi individua i canali usati per la propaganda e ricostruisce i contatti. Così la Rete fa partire la controinformazione». Ieri il ritorno di fiamma: il giornale di via Solferino ha insistito con la pubblicazione della lista di proscrizione dei presunti putiniani italiani. Una «rete», così la definiscono gli augusti colleghi, di «politici, economisti, freelance, opinionisti», i quali incarnerebbero la «minaccia ibrida russa». Che cosa farebbero questi agenti nemici?

Semplice: tenterebbero di «influenzare il dibattito nei Paesi occidentali con propaganda, disinformazione, fake news». Si potrebbe obiettare che è esattamente ciò che fa la gran parte della stampa cosiddetta mainstream, solo in un'altra direzione. In ogni caso, il Corriere procede tetragono e coglie l'occasione per ribadire nomi e cognomi dei sospettati di tradimento.

Giornalisti come Giorgio Bianchi e Maurizio Vezzosi, analisti come l'ottantaquattrenne Manlio Dinucci e vari altri. Persone che in molti casi non si conoscono fra loro e le cui posizioni sono sempre state espresse alla luce del sole. In pratica, a costoro si rimprovera di avere idee diverse da quelle del nostro governo. Il punto è: chi li rimprovera? 

E di che cosa lì accusa nello specifico? Ecco, questo passaggio non è molto chiaro. Secondo il Corriere a occuparsi delle quinte colonne moscovite in Italia sarebbe stato il Copasir, e a tal proposito il giornale esibisce le dichiarazioni del vicepresidente Federica Dieni dei 5 stelle. «Stiamo facendo approfondimenti sulle forme di disinformazione e di ingerenze straniere», dice la signora, «siamo in attesa di alcune risposte». Quindi non solo il comitato avrebbe elaborato il catalogo di nemici del popolo, ma starebbe addirittura allargando l'indagine, in cerca di altri pericolosi sabotatori.

Piccolo problema. Adolfo Urso, senatore di Fratelli d'Italia e presidente del Copasir, fornisce una versione decisamente diversa. «In merito a quanto riportato da alcuni organi di stampa», dice Urso in una nota stampa, «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica rileva di non aver mai condotto proprie indagini su presunti influencer e di aver ricevuto solo questa mattina un report specifico che per quanto ci riguarda, come sempre, resta classificato. Peraltro», continua il senatore, «il Comitato si attiene sempre scrupolosamente a quanto previsto dalla legge 124/2007, non è una Commissione di inchiesta ma organo di controllo e garanzia; non ha poteri di indagine ma ottiene informazioni dagli organi preposti, nel corso di audizioni o sulla base di specifiche richieste, anche al fine di realizzare, ove lo ritenga, relazioni tematiche al Parlamento». 

Insomma, Urso, presidente del Copasir, smentisce ciò che il Corriere della Sera ha affermato per ben due giorni di fila. E cioè che sia stato il suo comitato a mettere in piedi il bailamme sui putiniani. Non solo.

Urso conclude il suo comunicato stampa con una sorta di ammonimento, auspicando «soprattutto su questa vicenda, che vi sia sempre una corretta attribuzione e riconoscibilità delle fonti proprio al fine di garantire quella libera e corretta informazione che è alla base della nostra democrazia, e che ciascuno si attenga alle proprie responsabilità, nella piena e leale collaborazione tra gli organi dello Stato». 

Capite bene che qui qualcosa non torna. Se non è stato il Copasir a indagare sui putiniani immaginari, chi è stato? Secondo quanto risulta alla Verità, esiste effettivamente un report sull'attività online a favore di Mosca ed evidentemente è stato realizzato dal Dis o direttamente dall'Aisi secondo il metodo che in gergo si chiama «da fonti aperte». In pratica si setaccia il Web e si passano in rassegna i social secondo parole chiave. Questo report (che contiene anche informazioni sulle minacce rivolte allo stesso Urso) è stato sì consegnato al Copasir, ma soltanto ieri mattina (lunedì) intorno alle 10. Quindi 24 ore dopo l'uscita dell'articolo sul Corriere. Curioso, no? 

Se le cose stanno così, per quale motivo il Corriere ha sentito l'esigenza di tirare in mezzo il Copasir anche se non c'entrava direttamente? Il comitato guidato da Urso si sta occupando di monitorare l'attività dei talk show italiani, specialmente quelli della Tv di Stato in relazione a possibili infiltrazioni russe. Ma non si è mai dedicato alla compilazione di liste di proscrizione di giornalisti, opinionisti o influencer. La sensazione, dunque, è che qualcuno stia cercando di rimescolare le carte, attribuendo al Copasir una attività di indagine che in realtà è stata svolta dai servizi, e come tale non dovrebbe avere natura politica.

È un modo per lanciare messaggi o per intimidire qualche esponente politico a mezzo stampa? Oppure è un tentativo di gettare fango sulle voci critiche attribuendo la responsabilità a un organo istituzionale? Non lo sappiamo, e forse dovrebbe essere il Corriere a chiarirlo, spiegando da dove provengano certe informazioni: sono veline? 

Oppure davvero il Copasir ha prodotto un elenco di putiniani e Urso mente (improbabile, ma chissà)? Comunque sia, ormai la frittata è fatta. I nomi dei reprobi sono finiti in prima pagina, le accuse a mezzo stampa sono state formulate, il fango è stato sparso in abbondanza. In fondo non stupisce, non è la prima volta che accade. Sconforta un po' che il più blasonato quotidiano italiano si presti a certe operazioni. Dopo tutto, però, i giornali sono lo specchio della nazione.  

Alessandro Orsini & Co, il sospetto sulle liste dei "filo-Putin" del Corriere: ciò che i servizi tacciono. Renato Farina Libero Quotidiano il 07 giugno 2022

Il Corriere della Sera domenica ha pubblicato foto segnaletiche, nomi e dati sensibili di nove cittadini, i quali non risultano condannati da nessuna parte, e neppure indagati, ma che intanto sono stati marchiati a fuoco sulla pubblica piazza come traditori della patria. Questo elenco, che aspetta solo di essere appeso sui piloni della luce con scritto Wanted o Achtung Banditen e un cappio quale monito, non è stato compilato dopo una faticosa e scrupolosa ricerca sul campo, ma è la pura e acritica trascrizione di una soffiata, si presume d'alto livello. Da parte di chi? Del controspionaggio italiano o del Copasir? Non si scappa. O è stata l'Aisi, agenzia dei servizi interni, che avrebbe individuato le quinte colonne del Cremlino su ordine del Copasir a sua volta terminale della ricerca e quindi anch' esso sospettabile di aver passato le carte. Quello del primo quotidiano italiano per diffusione e fama nel mondo, sia chiaro, non è stato un incidente, ma una precisa scelta di giornalismo bellico. A dare il sigillo di sacralità al pacco sono state infatti le firme della vicedirettrice Fiorenza Sarzanini (versante servizi segreti e ministero dell'Interno) e della parlamentarista Monica Guerzoni (agganci al Copasir). Sono prime penne, si muovono sempre su terreni solidi. La serietà nei secoli delle due giornaliste fa escludere che abbiano raccolto una patacca. Ma non credo sia legale appendere la gente per i piedi.

CONFLITTO DICHIARATO?

Beh, diciamolo. Tutto ciò è abbastanza schifoso, ma sarebbe almeno plausibile in un Paese che abbia sospeso la libertà di parola e di pensiero (art. 21 della Costituzione), avendo dichiarato lo stato di guerra e la legge marziale. Le tre cose non ci risultano, ma forse ci hanno nascosto qualcosa. In realtà il Governo convintamente sostiene che il nostro Paese non sia entrato in guerra, ma con sanzioni e invio di armi si limiti a sostenere il diritto alla legittima difesa di un Paese amico invaso da un potenza imperiale. Non è scattato l'art. 78 della nostra Magna Carta: «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari». Dopo questo episodio da stato di guerra latente ci aspettiamo però che qualcuno alla Camera e al Senato si alzi dal suo scranno e tiri le conseguenze del sasso tirato nello stagno dal Corriere e dai servizi segreti perché sia ufficializzata la belligeranza. Per parecchi parlamentari periclitanti potrebbe essere un'idea salvifica: è l'unico caso che la nostra Costituzione (art. 60, comma 2) prevede come giustificazione per congelare per legge il Parlamento così com' è ed evitare elezioni sine die. Guerra lunga, vita lunga. Ma non è questo il tempo dell'ironia. E allora osserviamo con un po' di apprensione quel che è successo di illegale. Scrivono Sarzanini & Guerzoni: «L'indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall'intelligence individua ecc». Trattasi insomma di retata commissionata dal Copasir ai servizi i quali pescano nove presunti merluzzi-spia e li passano al Copasir e da lì (o dall'Aisi o dal Dis) finiscono in via Solferino.

Chi scrive detesta farsi eco di una schedatura, per cui niente nomi. Ma - prima di essere pescato pure lui- dichiara di essere lontano dalle loro posizioni, anche se ammetto che certi servizi dal Donbass di uno di loro, comunista, sono istruttivi. La frase dove casca l'asino/a è la prima: «L'indagine avviata dal Copasir». Copasir è l'acronimo di Comitato Parlamentare perla Sicurezza della Repubblica, istituito con l'art. 30 della legge che riforma i servizi segreti (n.124 del 2007). Il Copasir non può permettersi di avviare alcunché. Qui ci interessa il comma 2 del citato art.30: «Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l'attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell'esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni». Verifica, vigila, controlla. Arretriamo dall'art. 30 all'art. 8, che perentoriamente afferma: «Le funzioni attribuite dalla presente legge al Dis (organo di coordinamento), all'Aise (servizio estero) e all'Aisi (servizi interni) non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio». Né dal Copasir né dal Corriere. 

MA QUALE INDAGINE

Il Copasir è un arbitro, non tira calci al pallone. Indagini competono solo ai servizi che hanno per leader Elisabetta Belloni, la quale risponde al sottosegretario della presidenza del Consiglio delegato all'intelligence, Franco Gabrielli. Se hanno notizie di reato informano la polizia giudiziaria. Nessun altro può archiviare informazioni personali, esito di indagini su chicchessia, especialmente su parlamentari, anche se si chiamano Petrocelli, o come Salvini varcano il portone di un'ambasciata persino di Paesi ostili. L'unica attività nota del Copasir, riconducibile alle informazioni sulla guerra in Ucraina, è stata la seduta del 1° giugno, nell'ambito dell'«Indagine conoscitiva sulle forme di disinformazione e di ingerenza straniere, anche con riferimento alle minacce ibride e di natura cibernetica».

Quel giorno si è svolta l'«Audizione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio in materia di informazione e di editoria, senatore Rocco Giuseppe Moles». «Attività conoscitiva» non schedatura da affidare ai servizi e poi diffondere tramite Corriere della Sera. Troppo zelo patriottico? O qualcuno al Copasir e/o alla testa dei servizi e/o in via Solferino punta a un coinvolgimento irreversibile nel conflitto che la Russia sta conducendo in Ucraina? Come disse qualcuno è il caso che il Parlamento «controlli i controllori». Caso mai ci fosse qualche dubbio sulla liceità dei comportamenti di Orsini e compagnia, fatto salvo il diritto di contrastarne le idee e di mettere in guardia chi se le beve come oro colato, a tagliare la testa al toro è l'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu), vincolante per il nostro Paese: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere odi comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera». Amen. 

È un imbarbarimento anche questo o è politica? Medvedev e le parole sull’Occidente strumentalizzate per coprire gaffe Corriere e debacle Johnson, salvato da Biden. Paolo Liguori su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

La guerra è barbarie. Naturalmente il vero crimine è la guerra. Non ci sono crimini di guerra peggiori di altri. Ormai queste frasi vengono prese come una banalità quotidiana perfino da voi che ci state ad ascoltare. E invece queste frasi hanno un senso ed un significato, perché è dal primo giorno di questa guerra che noi dal Riformista Tv, dal giornale e da interventi in qualsiasi sede abbiamo sempre sostenuto: “Deve finire subito, a qualsiasi costo!”

Ma naturalmente non è l’interesse prevalente. L’interesse prevalente è farla durare molto. Farla durare a scapito dell’Europa, non dell’Ucraina, non contro la Russia. Ma a scapito dell’Europa, dei paesi della loro economia e della loro libertà.

Il fatto che questa barbarie della guerra duri da oltre 100 giorni – siamo quasi a un terzo dell’anno – sta provocando un imbarbarimento di tutti i rapporti, di cui neppure ci accorgiamo. Tre giorni fa, è stata fatta una cosa incredibile, indicibile: la Macedonia e la Bulgaria hanno deciso di chiudere lo spazio aereo al volo con il quale il ministro degli esteri russo, che comunque resta il ministro degli esteri russo in carica, voleva recarsi in Serbia, un paese comunque simpatizzante, alleato della Russia.

Non doveva passare. Pena: essere abbattuto. Non si può minacciare un aereo di uno Stato di abbattimento senza rischiare rappresaglie che potrebbero estendersi in tutto il mondo, a navi, aerei, trasporti. Questi sono passi in avanti verso la barbarie che non dovrebbero essere mai concessi. È inutile che si dice “noi siamo dalla parte giusta. Siamo dalla parte dell’Ucraina. Siamo dalla parte di Zelensky”. Impedire gli spazi aerei è una cosa barbarica. Una cosa che non ha fatto neppure la Nato quando gli è stato chiesto dall’Ucraina, perché le conseguenze sono inimmaginabili e micidiali. Questa è la situazione ma nessuno ha aperto bocca.

Invece, c’è stata una grande levata di scudi per quello che ha detto Medvedev, il numero due della Russia. Anche qui siamo alla propaganda. Cosa ha detto? “L’Occidente ci vuole distruggere. E io odio gli occidentali che ci vogliono distruggere. Li vorrei distruggere io”. Avulsa dal contesto, la frase ‘l’Occidente ci attacca’ – che si pone in una situazione difensiva dai punti di vista culturale, politico e storico – diventa agghiacciante: “Vogliamo distruggere e cancellare gli occidentali”. Perché è stata caricata così tanto in questo senso dai giornali e dai mezzi d’informazione dell’Occidente? Perché contemporaneamente in Italia avveniva un fatto che non aveva precedenti: ovvero, la lista di proscrizione con le foto sul principale giornale Il Corriere della Sera, attribuita al Copasir.

Ma il Copasir ha subito smentito. Noi stessi abbiamo detto: “Copasir, sei un organismo che controlla i servizi o fai dello spionaggio, o fai le liste di proscrizione?” Il Copasir ha risposto di non fare niente di tutto questo. È venuto fuori che è il DiS – Dipartimento per la Sicurezza – quello famoso, presieduto dalla Belloni, che aveva questo tipo di liste, poi date alla giornalista del Corriere della Sera.

Perché e perché le hanno pubblicate in quel modo? È stata una gaffe terribile. In altri tempi, il Corriere della Sera avrebbe pagato dazio per questa cosa. Tuttavia, il discorso di Medvedev ha tamponato, facendo scomparire questa notizia. D’altra parte, anche la notizia che Johnson ha avuto una mazzata terribile dai suoi deputati conservatori in Inghilterra – quasi la metà gli si sono rivoltati contro – è stata molto sottovalutata. Hanno detto: “Si, una vittoria triste. Una vittoria con una forte ferita”. Alcuni hanno poi detto che finirà come la May: “Tra qualche mese cucineranno Johnson”. Nessuno ha detto che Johnson è rimasto in piedi stavolta solo perché l’appoggio dell’amministrazione Biden è stato formidabile.

È un imbarbarimento anche questo o è politica? È politica imbarbarita. Perché Biden rappresenta un’amministrazione della sinistra americana del partito democratico che dà un appoggio strumentale ai conservatori inglesi per far continuare la guerra. Si può dire: quelli che furono i Kennedy, i Bob Kennedy, la sinistra americana ora in Europa sono diventati sostenitori dei conservatori inglesi. Certo è successo in tempo di guerra che l’amministrazione repubblicana americana ebbe una collaborazione stretta con Chuchill e i conservatori inglesi ma era una guerra mondiale. Questa volta è una guerra europea, fomentata prima di tutto dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti, che vogliono far durare chissà fino a quando. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Io, pannelliano e amerikano, finirò in una black list? I putiniani d’Italia e la caccia alle streghe lanciata dal Copasir: sembra di essere su Scherzi a parte. Valter Vecellio su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

Scrivo dagli Stati Uniti, e da qui tutte le cose italiane e italiote mi sembrano più ovattate e chissà se è il modo giusto per valutarle: la distanza aiuta a volte, altre inganna.

Questa storia del Copasir, per esempio. Se prima era un sospetto espresso con un sorriso tra le labbra, ora comincia a essere una quasi certezza, sorrido molto meno. Premetto che considero Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni due tra le più brave giornaliste su “piazza”. Hanno buone fonti, sanno quello che scrivono, scrivono quello che sanno. Se dunque sul Corriere della Sera viene pubblicato un articolo dal titolo “La mappa ricostruita dagli 007. I putiniani d’Italia tra social, tv e stampa”, non si può che correre a leggere cosa scrivono. Sarzanini, che del Corriere è vice-direttrice e avrà senza dubbio anche curato il titolo.

L’incipit è quanto di più intrigante: “La rete è complessa e variegata. Coinvolge i social network, le tv, i giornali e ha come obiettivo principale il condizionamento dell’opinione pubblica. Si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia. La rete filo Putin è ormai una realtà ben radicata in Italia, che allarma gli apparati di sicurezza perché tenta di orientare, o peggio boicottare, le scelte del governo. E lo fa potendo contare su parlamentari e manager, lobbisti e giornalisti…”. Perbacco! Una cosa più che seria: inquietante. Una piovra putiniana ci avvolge e soffoca. Ancora: “L’indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall’intelligence individua i canali usati per la propaganda, ricostruisce i contatti tra gruppi e singoli personaggi e soprattutto la scelta dei momenti in cui la rete, usando più piattaforme sociali insieme fa partire la controinformazione”.

Doppio perbacco! I nomi, fuori i nomi di questa rete malefica ordita dal Cremlino, chi sono gli artefici, i protagonisti di questo diabolico progetto destabilizzante?

Il primo nome è quello di Maria Dubovikova, giornalista russa che vive a Mosca, si dà da fare con Twitter e i social; le sue filippiche rimbalzano “su decine di profili filorussi dell’estrema destra, che spesso si incrociano con negazionisti del Covid e no vax, per contestare a Palazzo Chigi di aver spedito le armi senza il consenso del popolo italiano”. Una blogger, insomma. Portatrice di messaggi sgradevoli e falsi; depistanti. È una costante, per quel che riguarda quel paese. Ricordate la bufala dell’Aids risultato di esperimenti innominabili e oscuri da parte dell’esercito Usa? Era tutta farina del sacco Kgb, si scopri’: attraverso un giornale indiano filo-sovietico, la notizia approda prima in Brasile, rilanciata da Mosca e poi in tutto il mondo. Jean-Francois Revel nel suo “La conoscenza inutile” già quarant’anni fa aveva raccontato tutto, per filo e per segno.

C’è poi Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov; accusa “i politici italiani di ingannare il loro pubblico”. Chissà cos’altro ci si attende dalla portavoce di Lavrov? Finalmente gli italiani: “Si fa notare Giorgio Bianchi, definito dai report periodici che gli apparati di sicurezza inviano al governo noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso”; l’economista e pubblicista Alberto Fazolo; Manlio Dinucci 84 anni, geografo e scrittore promotore del comitato «No Guerra No Nato». E dire che li avevamo considerati dei Carneade qualunque. Pericolosissimo Dinucci: “Le sue tesi sono state riprese dallo stesso Bianchi, Alessandro Orsini – il docente licenziato dall’Università Luiss dopo il clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive – e Maurizio Vezzosi: reporter freelance che racconta il conflitto dall’Ucraina e invita lettori e telespettatori a informarsi non rimanendo alle notizie in superficie perché molti ucraini pensano che Zelensky sia responsabile della situazione, molti lo ritengono un “traditore””.

Però si parla anche di politici, di parlamentari. Chi sono le quinte colonne putiniane? Si fanno i nomi dell’ex presidente della commissione esteri, il Vito Petrocelli; e di Claudio Giordanengo definito putiniano di ferro e candidato per la Lega a Saluzzo; “Attenti a quei due”, insomma; e in effetti, c’è di che preoccuparsi. Poi si ritorna a chi inquina i pozzi via social. Si distingue la freelance Laura Ruggeri: vive a Hong Kong e scrive su “Strategie Culture Foundation”, ritenuta dagli analisti «rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr» e che, assieme a “Russia Today”, è artefice di una campagna massiccia contro le sanzioni. Ora lo capisco da dove attingono Vauro, Michele Santoro, Moni Ovada e compagnia. Con rispetto parlando, sembra che il dossier elaborato dai servizi di sicurezza sia una sorta di assemblaggio di una quantità di articoli, inchieste, interviste pubblicate su giornali e riviste; per un lettore un attimo attento, nulla di nuovo.

Che qualcuno dei “servizi”, pressato forse dalle petulanti richieste del Copasir, abbia messo insieme in fretta e furia questo bignamino, così da far contenti i suoi membri che vogliono giocare a Mata Hari, e potersi dedicare come è giusto a indagini vere, discrete e riservate, da eventualmente consegnare al presidente del Consiglio, lo si può capire. Che all’interno del Copasir nessuno obietti a questo inutile dire e fare, e che pensino addirittura di andare in missione a Washington a far perdere tempo anche agli americani, ecco: questo lo si capisce molto meno. Poi viene in mente che il presidente della commissione antimafia Nicola Morra giorni fa, molto seriamente, ha chiesto di sollevare un giornalista del “Tg1” colpevole di eccesso di scoreggia e d’aver chiesto una raccomandazione.

Tutto si tiene, insomma: questa è l’attuale classe politica quella che è. È augurabile che si riesca prima o poi a mandarli a casa; nel frattempo attendiamoci altre puntate in quella che sembra una variante di “Scherzi a parte”. E mi chiedo se io pure, nonostante il mio essere “amerikano” radicale, dai tempi di Marco Pannella e pannellato tuttora, occidentale e anti Putin 24 carati, per questi dubbi non sarò inserito qualche lista di proscrizione. Quanto al Copasir sono formidabili davvero, a partire dal suo presidente Adolfo Urso: prima scagliano la pietra e di fatto promuovono una specie di caccia alle streghe; poi ritirano la mano dicendo che non si deve fare la caccia alle streghe. Le sciabole stanno a terra e le fodere combattono; oppure altra più colorita e volgare espressione in uso a Napoli. Valter Vecellio

 Bye Bye Furioll narcisismo dal volto disumano di quelli per cui pure la guerra è un pretesto per parlare di sé. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 10 Giugno 2022.

Possono cambiare i governi, le guerre e le alleanze internazionali, ma mai apparirà nella storia una crisi umanitaria o un conflitto planetario tanto drammatico da non poter fare degnamente da sfondo alle nostre rievocazioni compiaciute e alle nostre rivendicazioni stizzite.

Quali che siano le loro posizioni sulla guerra, non si può dire che i grandi nomi del giornalismo italiano perdano mai di vista la scala delle priorità. Che siano infatti fermamente schierati in favore dell’Ucraina, come Furio Colombo, o invece quotidianamente impegnati dalla parte opposta, come Michele Santoro, o anche capaci di svariare su entrambe le fasce, come Massimo Giannini, è rassicurante verificare ogni giorno come vi sia ancora qualcosa che li unisca tutti, al di sopra di ogni divisione di parte.

Prendete Santoro, che in un’intervista alla Stampa ieri si è mostrato indignato perché i telegiornali «vedono le cose come le vede il governo ucraino». Forse perché parlano di «guerra» invece che di «operazione speciale» (chissà qual è l’altro modo di «vedere» i bombardamenti, le deportazioni dei civili, le torture e le esecuzioni sommarie).

Santoro glissa peraltro sul fatto che nove decimi dei talk show italiani sono pieni a tutte le ore del giorno e della notte proprio del punto di vista del Cremlino, spesso rappresentato da propagandisti russi regolarmente stipendiati dal governo o da società controllate. Lo dimostra banalmente il fatto che giornali e televisioni di ogni angolo del pianeta, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Germania alla Finlandia, guarda un po’, da settimane s’interrogano sull’incredibile capacità di penetrazione della propaganda russa nelle tv italiane. Articoli e servizi sulla Cnn o le Monde a proposito del problema dei telegiornali troppo filo-ucraini denunciato da Santoro, invece, non se ne sono visti. Chissà perché.

In compenso, alla domanda «lei come racconterebbe la guerra?», il padre di Samarcanda risponde testualmente: «È significativo che io non abbia una trasmissione, nonostante migliaia di persone scrivano sui social che mi vorrebbero in tv». E così siamo finalmente arrivati al punto.

No, non mi riferisco al fatto che questi troll russi stanno cominciando a giocare pesante con la disinformazione online (deduzione lecita, dalle parole del conduttore, ma non decisiva); mi riferisco all’unica cosa che evidentemente sta davvero a cuore all’intervistato, all’unica passione così accecante da spiegare l’incredibile sequela di non sequitur di cui è costellata la sua intervista (tipo «senza le armi americane gli ucraini avrebbero scelto altri modi di combattere e non saremmo arrivati alla distruzione dell’Ucraina», subito dopo essersi detto contrario a inviare armi perché «ci sono già gli americani a farlo»). Quale sia quest’unica passione, che del resto lo accomuna a tanti illustri colleghi, anche di idee diverse, non credo ci sia bisogno di dirlo. Lo dicono fin troppo chiaramente loro.

Naturalmente ognuno ha il suo stile e le sue ragioni. La citazione delle parole «semplici e perfette» pronunciate due mesi prima da Mario Draghi con cui ieri il direttore della Stampa cominciava il suo editoriale – «Esprimo la mia solidarietà a tutti i giornalisti de La Stampa e al suo direttore» – si poteva giustificare comunque con un dato di cronaca: la singolarissima vicenda dell’attacco al giornale da parte dell’ambasciatore russo, in particolare per un articolo di Domenico Quirico, invero tutt’altro che ostile, culminata in una surreale denuncia per «apologia di reato e istigazione a delinquere» che la procura di Torino ha ovviamente archiviato (questa la notizia, diciamo così).

Ben altro livello raggiungeva invece l’articolo di Furio Colombo su Repubblica. Impropriamente titolato sulla realpolitik, Kissinger e la guerra in Ucraina, il commento era in pratica un soliloquio di 5253 caratteri spazi inclusi dedicato per nove decimi ai personali ricordi dell’estensore. Un articolo in cui le parole «Ucraina» e «ucraini» comparivano una sola volta, al terzultimo capoverso (fondamentalmente per formulare la non rivoluzionaria tesi che Henry Kissinger sia un realista e non sia «arruolabile» da nessuno).

Tutto il resto era una nostalgica rievocazione di un «Harvard International Seminar» cui parteciparono, pensate un po’, solo tre italiani: Alberto Arbasino, Raffaele La Capria e Colombo medesimo. E giù venti e passa righe su quanto Kissinger tenesse alla qualifica di «Doctor», per arrivare finalmente al cuore del discorso.

Questo: «Kissinger è orgoglioso ma non vanesio. Quando per esempio è accaduto che, nel mezzo di una conversazione lui mi chiamasse “Furio” (con buona pronuncia italianizzata, a differenza di quasi tutti i nuovi amici americani) subito dopo, quando è toccato a me dire “Doctor Kissinger”, lui mi ha fermato ingiungendomi No, please, call me Henry. E da allora, per decenni – anche quando dissentiva con forza da tutto ciò che scrivevo sulla guerra nel Vietnam – siamo rimasti a quel rito amichevole (molto importante nella vita sociale americana) del primo nome».

Se penso a quante ironie si sono fatte a suo tempo su Massimo D’Alema, dopo che in un’intervista aveva raccontato di salutare al telefono la segretaria di Stato americana Condoleezza Rice con un confidenziale «bye bye Condy», direi che questi quindici anni non sono passati invano. Com’era prevedibile, la gara dell’egolatria tra politici e giornalisti è stata stravinta dai nostri colleghi.

Possono cambiare i governi, le guerre e le alleanze internazionali, ma mai apparirà nella storia una crisi umanitaria o un conflitto planetario tanto drammatico da non poter fare degnamente da sfondo alle nostre rievocazioni compiaciute e alle nostre rivendicazioni stizzite, per ricordare al mondo chi siamo e cosa vogliamo, si tratti di un trattato di pace o di una trasmissione televisiva.

Antonio Bravetti per “La Stampa” il 9 giugno 2022.

«C’è Draghi dietro la lista dei filorussi? ». Michele Santoro chiama in causa il presidente del Consiglio: la democrazia in Italia «non è in buona salute» e il premier «ha il dovere di dirci la verità. 

Cosa pensa della lista?

«È un abuso di potere. Una lista di opinionisti, tra cui un parlamentare, indagati dai servizi segreti per aver semplicemente espresso critiche sull’invio di armi. E un giornale pubblica le loro foto come fossero dei ricercati. Da chi ha avuto queste informazioni il Corriere della sera? Se non gliele ha date il Copasir, allora da dove sono uscite? Dai Servizi? Dal governo? Da Draghi? Il premier ha il dovere di dirci la verità». 

Le è piaciuta la diretta di Giletti da Mosca?

«Non ho ancora avuto modo di vederla, ma ognuno fa le trasmissioni come sa e chi le vede le critica». 

Il direttore di Libero, Sallusti, se n’è andato indignato.

«Sapeva come si sarebbe svolta la trasmissione, poteva non andarci. È grave che non si critichi Sallusti per quello che ha detto sul Cremlino: espressioni insopportabili, ha ricoperto la storia di parolacce». 

Lei come racconterebbe la guerra?

«È significativo che io non abbia una trasmissione, nonostante migliaia di persone scrivano sui social che mi vorrebbero in tv. Ho lottato tanto contro le censure di Berlusconi e mi trovo a subire la censura di chi di fatto controlla la Rai da anni, il Pd. Non ha più sezioni sul territorio, le ha in Rai». 

Cosa le piace in tv?

«Report è un ottimo programma. I tg sono desolanti: tutti con le telecamere piantate nello stesso modo, vedono le cose come le vede il governo ucraino. Da mattina a sera abbiamo una rappresentazione del dolore, che va fatta, ma andrebbe completata con analisi e punti di osservazione diversi». 

Tipo?

«L’Ucraina non è una democrazia compiuta. Prima dell’invasione c’era un altissimo tasso di corruzione, oligarchi che dominavano la politica, partiti e giornali sciolti di forza, giornalisti uccisi». 

Non è propaganda putiniana questa?

«Chi dice la verità è putiniano? Non ci faccio più caso, mi hanno chiamato giullare, fascista. Quello che dico sull’Ucraina sono fatti che nessuno può mettere in discussione».

Sempre contrario all’invio delle armi?

«Certo, ci sono già gli americani a farlo, sono otto anni che armano gli ucraini. Davvero pensate che senza le nostre armi non si sarebbero difesi? I Paesi piccoli, senza scatenare guerre mondiali, hanno sempre vinto contro i Paesi grandi. L’Afghanistan ha buttato fuori i russi, il Vietnam gli Usa».

Dovremmo abbandonare gli ucraini?

«Senza le armi americane gli ucraini avrebbero scelto altri modi di combattere e non saremmo arrivati alla distruzione dell’Ucraina. Kiev e Mosca sparano e i cannoni, di una parte e dell’altra, seminano distruzione in una guerra infinita. Con la guerriglia non ci sarebbe stata». 

Ma quale guerriglia se Mosca ha bombardato Kiev?

«Se resisti in un certo modo chi aggredisce alza il tiro e i morti aumentano. Ripetiamo pure mille volte che il responsabile è Putin, non li faremo resuscitare».

Non la spaventano le parole di Medvedev?

«Sono parole di guerra, che peso possono avere? Servono a chi le pronuncia per presentarsi come un combattente indomito». 

Scenderebbe in piazza contro Putin?

«No, perché sarei allineato col 99% dei telegiornali, il 97% delle forze politiche e il 90% della informazione e della stampa. Sarebbero come le manifestazioni della camicie nere a favore dell’intervento in Africa di Mussolini».

Siamo in un regime fascista?

«Certamente no, ma nemmeno in una democrazia in buona salute».

Fonderà un partito?

«Se dovessi decidere di farlo convocherò una conferenza stampa, prima di allora mi rifiuto di rispondere a questa domanda: lede i miei diritti di cittadino. O mettiamo in discussione anche questa libertà?». 

Cosa pensa del viaggio di Salvini in Russia?

«È un po’ come la trasmissione di Giletti: male non fa, bisogna vedere se può far del bene. Se tornasse dalla Russia con un ramoscello di pace, perché dovremmo essere contrari?».

Giuliano Amato dice che la Costituzione giustifica l’invio di armi.

«Amato si arrampica sugli specchi. In ultima analisi dice che “è un problema di coscienza”. Il custode delle leggi passa dallo Stato di diritto allo Stato etico?».

Berlusconi poteva fermare Putin?

«Berlusconi è uno che la guerra la aborre quanto me, ne sono convinto. Credo che se avesse potuto fare qualcosa di persona lo avrebbe fatto, magari avrà pure provato a telefonare a Putin. Mi piacerebbe chiederglielo, ma ormai ha tanti di quei filtri...»

Il dossier. Lista di proscrizione dei “putiniani”, i nominati querelano il Corriere per il “processo in contumacia”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

Le polemiche per l’elenco dei presunti “putinani” d’Italia scodellati sul Corriere della Sera non si placa. Sbattuti dal quotidiano della ‘borghesia italiana” in pagina con tanto di foto segnaletica, come se fossero protagonisti di una retata di polizia, i giornalisti e ‘influencer’ tacciati di essere al servizio della propaganda del Cremlino passano al contrattacco.

Il primo ad aver annunciato querela contro via Solferino era stato il più noto, Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo, spesso ospite di trasmissioni televisive e dibattiti politici. “Farò causa al Corriere della Sera. Anche per tutti i miei colleghi liberi che devono subire le prepotenze di Luciano Fontana. E per i tanti adolescenti che credono in un Paese più libero e onesto di quello in cui viviamo. Il 14 giugno uscirà il mio nuovo libro in cui parlo anche del Corriere della Sera, della Repubblica e della Stampa. I giovani hanno molto da sapere sul modo in cui questi tre quotidiani fanno ‘informazione’“, ha scritto sui social, attaccando a testa bassa il direttore del Corriere Luciano Fontana e le due autrici degli articoli, Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni.

Lista di proscrizione dei ‘filoputiniani’ d’Italia, il Copasir nega tutto: “Nessuna indagine su presunti influencer pro-Russia”

Ma Orsini non è il solo. Come riporta oggi Il Fatto Quotidiano, altri nomi presenti nella lista del Corriere sono pronti per le vie legali. Il primo è il fotoreporter freelance Giorgio Bianchi: “Querelo sicuramente”, spiega Bianchi a Tommaso Rodano. “Avevo già una pendenza con il Corriere che mi aveva definito ‘negazionista’, aggiungo anche questa. Sono un giornalista, racconto quello che succede in Donbass da anni. Non ho mai fatto ‘attività propagandistica filorussa’ come hanno scritto tra virgolette. E non sono proprietario del canale ‘Giubbe Rosse’, un altro falso. Per me è un danno professionale enorme. Hanno piazzato la mia foto e il mio nome indicandomi come una sorta di ripetitore delle parole del governo russo. Mi hanno processato in contumacia”.

Potrebbe sporgere querela anche Maurizio Vezzosi, reporter freelance. Su Facebook Vezzosi ricordava come il suo nome “viene accostato ad un pietoso quanto improbabile epiteto. Spiacevolmente evidente è il goffo tentativo di delegittimarmi ad ogni costo, fosse anche quello dello scadere nel ridicolo: dimostrando, oltretutto, di ignorare pressoché in toto il contenuto delle mie riflessioni e delle mie analisi. A buon diritto, ci si aspetterebbe qualcosa di un poco più serio da un giornale che fu la voce della classe dirigente italiana”. 

Ancora più paradossale il caso di Manlio Dinucci, 84enne geografo e scrittore promotore del comitato “No Guerra No Nato”, ex collaboratore de Il Manifesto. Pur non avendo voluto rilasciare dichiarazioni, martedì ha accusato Sarzanini, vice del Corriere, di dover rispondere “di un falso che ha scritto”. Negli articoli era riferito che Putin avrebbe ripreso alcuni passaggi di un libro di Dinucci (La Guerra – E’ in gioco la nostra vita) durante il comizio del 9 maggio scorso in occasione delle ‘Giornata della vittoria’, in memoria della capitolazione della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. 

Le smentite di Copasir e intelligence

Sulla ‘lista di proscrizione’ dei presunti influencer di Putin Italia sia Copasir che intelligence hanno smentito lo ‘scoop’ del Corriere. Il primo a intervenire era stato Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica citato proprio dal quotidiano come artefice dell’indagine sui ‘putiani’.

“La lista l’ho letta su giornale, io non la conoscevo prima”, aveva assicurato il senatore di Fratelli d’Italia, col Copasir che poi aveva ribadito di “non aver mai condotto proprie indagini su presunti influencer e di aver ricevuto solo questa mattina un report specifico che per quanto ci riguarda, come sempre, resta classificato”.

Successivamente sullo stesso caso era intervenuto anche Franco Gabrielli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi. Secondo Gabrielli non arriva dall’intelligence la lista dei presunti putiniani, con i Servizi che “non hanno stilato alcuna lista di politici, giornalisti, opinionisti o commentatori, né hai mai svolto attività di dossieraggio”.

Un tavolo “di confronto – aveva spiegato Gabrielli – istituito sin dal 2019 presso il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza e al quale partecipano le diverse amministrazioni competenti per materia, la cui attività, svolta esclusivamente sulla base di fonti aperte, mira non all’individuazione di singoli soggetti, bensì alla disamina di contenuti riconducibili al fenomeno della disinformazione“. Alla luce di ciò le notizie su una presunta attività di dossieraggio e su eventuali liste “sono dunque destituite di ogni fondamento“, aveva concluso l’ex capo della Polizia.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

La lista di proscrizione del Corriere della sera? Una oscenità. Via Solferino pubblica un catalogo (con foto) dei putiniani d’Italia. Ma anche il Copasir prende le distanze. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 6 giugno 2022.

Il linguaggio ricorda gli schedari della polizia politica di uno Stato delle banane a caso: «Giorgio Bianchi, noto freelance italiano in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso». Stop. Quello di Bianchi è solo uno dei nomi della fantomatica “rete” putiniana d’Italia su cui sta indagando il Copasir (il comitato di controllo parlamentare sulla sicurezza e i servizi) e che il Corriere della Sera, giornale della borghesia liberale, ha avuto la cortesia di raccogliere in una simpatica lista di proscrizione con tanto di fotine e didascalie dei protagonisti: mancavano solo i numeri di cellulare e gli indirizzi.

Ci sono fotoreporter come Bianchi, freelance e influencer come Laura Ruggeri e Maurizio Vezzosi, vecchi comunisti come Manlio Dinucci, l’ormai noto professor Alessandro Orsini, ma anche parlamentari della repubblica come il pentastellato Vito Petrocelli. Secondo il Corriere costoro non agiscono spontaneamente, ma si muovono coordinati come una falange in una «rete complessa e variegata che coinvolge socialnetwork, tv e giornali», con una preferenza per il web: Twitter, Facebook, Tik Tok, Telegram, Instagram. ExitNews le piattaforme da dove lanciare i dardi avvelenati della propaganda putiniana.

E nulla avviene a caso: «La rete si attiva nei momenti chiave del conflitto», giurano Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini, autrici dello “scoop”. Siamo ai limiti della mitomania, un po’ come accadeva con la “geometrica potenza” che i quotidiani negli anni di piombo attribuivano alle Brigate rosse senza alcuna cognizione di causa. Ma a riprova della forza di questa Russia connection ci sarebbero le apparizioni televisive nei passaggi cruciali della crisi ad esempio come durante il voto sull’invio di armi a Kiev e con il mail bombing a senatori e deputati. E non è necessario sostenere la guerra di Putin per finire in lista, basta schierarsi contro le sanzioni a Mosca o pensare che siano nocive per l’Unione europea e si viene automaticamente arruolati nella diabolica rete. Attenzione poi, non tutto avviene alla luce del sole: «La rete si muove in pubblico ma anche riservatamente» esercitando in modo subdolo pressioni sul mondo della politica e dell’informazione.

Insomma, stando agli «allarmi» del Copasir parrebbe che una significativa fetta della società italiana che conta sia sul libro paga del Cremlino, Peccato che nessuno parli di finanziamenti russi né tanto meno ne fornisca un indizio concreto. Non c’è alcun archivio Mitrokin da spulciare, nessuna spia o “nemico interno” da scovare, solo persone colpevoli di esprimere le proprie opinioni per quanto stupide o faziose possano essere. Ma qui siamo nel campo del confronto delle idee, del dibattito democratico e non si capisce cosa mai c’entrino i nostri servizi segreti.

I proscritti hanno forse commesso dei reati o sono accusati di averli commessi? Niente affatto. E soprattutto niente che giustifichi lo zelo maccartista con cui il Corriere sbatte i “mostri” in prima pagina. La lista dei putiniani d’Italia è uno dei punti più bassi che la nostra informazione ha toccato da quando l’esercito di Mosca è entrato inm Ucraina, un misto di squadrismo e cialtroneria, un esercizio del tutto speculare al negazionismo sui crimini russi a Bucha e Mariupol o alla narrazione tossica degli “ucraini tutti nazisti”. Va da sé che la vicenda ha generato ruvide polemiche e lo sconcerto degli interessati (Orsini deciso di querelare il quotidiano di via Solferino).

Al punto che lo stesso presidente del Copasir Adolfo Urso (Fdi) si è sentito in dovere di intervenire, smentendo in parte l’esistenza di uno schedario di personalità filorusse: «La lista l’ho letta sul giornale, io non la conoscevo prima». Ma confermando l’indagine in corso: «Ho ricevuto proprio stamane un report specifico sulla questione, ma si tratta di materiale che come sempre resta classificato». Siamo curiosi di sapere cosa mai uscirà fuori dall’indagine e cosa saranno capaci di inventarsi per giustificare questo (probabile) spreco di denaro pubblico. Nel frattempo i cataloghi dei nemici politici, e le liste dei cattivi lasciamoli fare a Russia Today e ai servizi di sicurezza del Cremlino. Una democrazia come la nostra non ne ha bisogno. 

Come l’Ovra, come la Stasi? Giornalisti controllati, il Copasir si sostituisce ai servizi segreti e il Corriere pubblica la lista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 giugno 2022.

Ha assunto dimensioni molto limitate una polemica che qualche anno fa avrebbe travolto partiti e governo. Il Copasir, che è un organismo parlamentare col compito di vigilare sui servizi segreti, ha deciso di vigilare, invece, sulla correttezza dell’informazione. Violando apertamente l’articolo 21 della Costituzione (che non risulta essere stato sospeso) e addirittura fornendo ai giornali delle vere e proprie liste di proscrizione con le quali si addita al ludibrio pubblico un certo numero di giornalisti, o opinionisti o ospiti televisivi. Accusati – appena con qualche cautela e diplomazia – di essere al servizio della Russia di Putin. Un grande giornale come il Corriere della Sera ha pubblicato la lista addirittura corredandola con le fotine segnaletiche dei bersagli.

A mia memoria non era mai successo. Ero piccolo negli anni cinquanta, ma un’iniziativa di questo genere, avviata da un organismo parlamentare e realizzata con la collaborazione dei grandi giornali indipendenti, non credo sia mai avvenuta. Neanche quando la guerra fredda era asperrima e lo scontro tra i partiti e gli schieramenti molto duro.

Ci sono due domande da porre. La prima è per quale mai ragione il Copasir indaghi sui giornalisti. Io avevo capito che doveva vigilare sul buon funzionamento dei servizi segreti, e non sostituirsi ad essi, per di più debordando persino dai compiti degli stessi servizi segreti. La seconda riguarda la libertà di stampa. Quando i servizi segreti, o qualcosa che li riguarda e li adopera, si immischia nei giudizi sulla buona e la cattiva stampa, è inutile stare a sottilizzare: la libertà di stampa è sospesa. I precedenti che vengono in mente, qui nell’Europa occidentale, sono quello dell’Ovra e quello della Stasi. L’Ovra era la polizia segreta fascista. La Stasi era la polizia segreta della Germania comunista.

Lista di proscrizione dei ‘filoputiniani’ d’Italia, il Copasir nega tutto: “Nessuna indagine su presunti influencer pro-Russia”

Forse è successo qualcosa del genere anche negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Cinquanta. In un periodo buio per la democrazia americana. Che fu chiamato il “maccartismo”, perché un certo senatore Joseph McCarthy, repubblicano reazionario, si inventò un comitato speciale per la sicurezza dello Stato che indagava e perseguitava intellettuali, artisti, giornalisti, attori e registi di sinistra. Accusandoli di essere agenti inconsapevoli del comunismo. Cioè della Russia. Durò quattro anni il maccartismo poi fu spazzato via da una decisione del Senato.

Durante il maccartismo, effettivamente, l’Fbi si occupava dei giornali e dei giornalisti. Però lo faceva di nascosto. Qui da noi, invece, pare che abbiamo parecchia faccia tosta più di Mccarthy: dichiariamo apertamente che la libertà di stampa deve essere controllata dai servizi segreti. Andiamo bene…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Otto e mezzo, collera di Marco Travaglio contro il Corriere: “Putiniani? Schedati i critici del governo Draghi”. Il Tempo il 07 giugno 2022

Marco Travaglio è furibondo per la lista dei presunti putiniani d’Italia pubblicata dal Corriere della Sera. Il direttore de Il Fatto Quotidiano torna ad attaccare il giornale di Urbano Cairo nel corso della puntata del 7 giugno di Otto e mezzo, talk show di La7 condotto da Giovanni Floris (sostituisce momentaneamente Lilli Gruber, positiva al Covid): “Non c’è nessun allarme dei servizi, visto che questo sarebbe comunicato dai servizi. C’è un articolo con nove fotosegnaletiche - mostra in diretta la pagina del pezzo in questione -, questo sarebbe l’allarme dei servizi? Questo è un giornale che parla di un’inchiesta del Copasir che avrebbe ricevuto materiale dai servizi segreti su presunti putiniani e il giorno dopo viene smentito dal presidente del Copasir, che dice di non possedere quell’elenco e di aver ricevuto un rapporto il giorno dopo l’uscita di questa roba qua. Questa roba qua ricorda i dossieraggi del Sifar del generale Di Lorenzo degli anni ‘60, le schedature alla Fiat con il credo politico dei dipendenti negli anni ’70, le schedature di Pio Pompa nel Sismi del generale Pollari negli anni 2000 e della Security Telecom di Giuliano Tavaroli negli stessi anni e dagli stessi fornitori. Le ricordo in modo particolare perché c’ero in entrambi gli schedari. All’epoca si schedavano gli anti-berlusconiani, prima i comunisti, adesso si schedano i putiniani e i critici del governo Draghi”.

“In questo articolo non c’è - dice con tono sostenuto Travaglio - una sola prova che queste persone siano putiniane, può essere che lo siano e può essere che non lo siano, tra l’altro non esiste il reato di putinismo che io sappia. Non si capisce a che titolo i nostri servizi segreti, sempre che lo abbiano fatto, stiano monitorando e spiando dei privati giornalisti, dei freelance, degli economisti, dei professori e addirittura dei parlamentari per le loro idee dissonanti rispetto a quelle del governo”.

Travaglio va avanti senza che nessuno lo possa fermare sulle polemiche scaturite dai giudizi sulla guerra tra Russia e Ucraina: “A casa mia la differenza tra Russia ed Italia è che in Russia si usano i servizi segreti per intimidire e scovare gli oppositori, nelle democrazie liberali i servizi segreti si usano per tutelare le libertà costituzionali e tutelare prima di tutto il dissenso. Se si trattasse di tutelare il consenso non ci sarebbe bisogno della democrazia. La libertà di opinione non può essere utilizzata solo per parlar bene del governo. Deve rispondere il governo di ciò che stanno facendo i servizi segreti”. 

Dal “Fatto quotidiano” il 9 giugno 2022.

Le bugie di Riotta sull’addio di Colombo

Caro Travaglio, non sapevo che lei e voi del Fatto aveste buttato fuori Furio Colombo perché non la pensava come voi (cioè non tollerava il Prof. Orsini come collega) e che lei avesse “cazziato” alcuni giornalisti dissidenti su questa questione, almeno stando a quanto ha riferito Gianni Riotta a DiMartedì. 

Se ciò non fosse vero, come credo, allora la cosa sarebbe da querela, anche se immagino lei preferirà percorrere altre strade. Quanto alle cosiddette “liste di proscrizione”, la punta dell’iceberg è stata quella del Corriere, ma sotto c’è molto altro di torbido che tanto sotto non è, perché credo stia molto sopra. Delfino Biscotti

Risposta di Marco Travaglio

Caro Biscotti, i nostri lettori sanno bene come sono andate le cose perché abbiamo reso pubblica l’intera polemica innescata da Colombo: lui mi ha chiesto di cacciare Orsini e, siccome io non caccio nessuno, se n’è andato a “Repubblica” con Riotta & C. Non ho mai cazziato giornalisti dissidenti e la redazione non ha mai espresso solidarietà all’aut-aut che mi aveva posto Colombo. Riotta è un volgare mentitore che risponderà in tribunale delle sue falsità.

Marco Travaglio, la sua lista di proscrizione: i nomi, la vergogna che non potrà mai cancellare. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 10 giugno 2022.

«Semel in anno licet insanire», una volta all'anno è lecito impazzire ma forse un anno è poco, facciamo dieci - e però accade che Libero e Il Fatto stiano curiosamente convergendo sull'indegnità delle «liste di proscrizione dei putiniani» pubblicate dal Corriere, ossia quelle in cui un titolo di via Solferino aveva usato per definire «Influencer o opinionisti: ecco i putiniani d'Italia» con tanto di foto segnaletiche e dossieraggi vari, tutto materiale raccolto non è chiaro ancora da chi, visto che i servizi segreti hanno lasciato il Corriere con il cerino in mano.

Non è neanche la prima volta che due estremi come Libero e Il Fatto inavvertitamente si toccano: i primi di marzo avevano pure convenuto nel condannare con altrettanta decisione le prime listarelle di proscrizione del nientino giornalistico chiamasi Gianni Riotta, ancora più ignobili e scadenti perché dentro ci aveva infilato praticamente chiunque gli stesse sulle balle. Ma qui siamo alla serie B, mentre le due paginone color bile (erano verdine) del Corriere della Sera dovrebbero essere la serie A del giornalismo, e invece le colleghe Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini - piena solidarietà di categoria da parte nostra - hanno pestato una memorabile velina senza neppure sapere chi fosse il velinaro. A Libero non piace. Al Fatto neppure.

LISTE D'AUTORE - Ciò posto, possiamo anche chiudere in cordialità e gaiezza la fase delle fellatio tra Libero e Il Fatto, essendosi instaurato un clima di equa e tonificante lealtà atta a creare un clima sereno e distensivo che riconosca interamente il merito altrui. Il quale, nel caso, è questo: sono più bravi loro. Nell'individuazione, ideazione, classificazione e uso reale delle liste di proscrizione loro sono i numeri uno, assieme ai loro sponsorizzati grillini: anche se l'esperienza dei vari Marco Travaglio e Peter Gomez e Gianni Barbacetto poggia su scuole di formazione che sfiorano addirittura la Prima Repubblica, anzi, sono degli autentici veterani - medagliati al disvalore - che hanno fatto evidentemente scuola.

Parliamo dei mitici autori dei tomi Onorevoli wanted, Se li conosci li eviti, Colti sul fatto e Bugiardi senza gloria, ma soprattutto narriamo le gesta dei grandi ispiratori (e rilanciatori) della nondimeno mitica «Lista nera del M5S» (i grillini) che dall'estate 2014 metteva alla berlina «il giornalista del giorno» segnalato come nemico pubblico del Cremlino di Sant' Ilario, Genova.

Il «Premio Stercorario» (definizione di cui lo scrivente rivendica la primogenitura a proposito di un collega, correva l'anno 2008) riportava al portale di Beppe Grillo e ai voti confluiti sui peggiori dei peggiori. Al primo posto c'era Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, che pure non era stato per niente severo nei suoi giudizi: «Grillo è violento come il capo della tifoseria camorrista del Napoli. È intriso di sporcizia morale. È un putrido e turpiloquente tribuno del nulla, perché non ha un programma, non ha un progetto, ha consiglieri ridicoli a partire dalla capigliatura e che hanno un'idea della realtà connaturale solo a certi dementi teorizzatori del governo mondiale. Grillo è il male assoluto». 

Una critica accorata, dunque, dopodiché, nell'elenco, seguivano la firma del Corriere Pierluigi Battista, poi lo scrittore-autore e notoriamente modesto Corrado Augias, poi il solito Alessandro Sallusti che s' infila sempre da tutte le parti, e che mosse una critica politica giudicata non costruttiva: «Grillo non è un interlocutore politico, è uno stronzo». Il Fatto seguiva e alimentava la classifica anche contro Gad Lerner, Massimo Gramellini, addirittura Carlo De Benedetti oltre a Maria Novella Oppo dell'Unità ed Ezio Mauro quando era direttore di Repubblica.

EMINENZE GRIGIE - Sì, certo, lo sappiamo che non sono liste dei servizi segreti, del Copasir e dintorni: sono legittime (nel senso: non costuiscono reato) ma fanno schifo uguale, perché puntano il dito di una maggioranza verso un singolo. E mica ci son state solo quelle. Ancora nel 2014 il signor Rocco Casalino fece sapere a Nicola Porro (che allora conduceva Virus su Raidue) che nessun grillino sarebbe intervenuto in trasmissione se ci fosse stato lo scrivente come previsto. 

E andò così: io andai, loro disertarono. Porro si rivolse al presidente della Commissione di Vigilanza Rai, che però era un certo Roberto Fico del Movimento 5 Stelle. Analogo veto lamentò anche Gaia Tortora su La7 nel programma Omnibus, c'era una vera e propria lista che riguardava anche Vittorio Sgarbi, Alessandro Sallusti (sempre lui), Claudia Fusani a sempre nuovi entrati. Va ricordato che all'epoca, questi qui, quelli delle liste, erano al governo.

Intanto le eminenze grigie (di capelli, ormai) continuavano a compilare sul Fatto le loro severe liste di «indegni» già condannati (in giudicato) o non condannati (non in giudicato) o anche solo rinviati a giudizio o anche solo indagati o anche assolti che però furono «coinvolti» nell'inchiesta X (seguivano estratti di qualche sentenza) che però nell'insieme erano gli «impresentabili», ecco. E va detto: nel fare e quindi riconoscere certe liste i numeri uno sono loro. Il podio è cosa loro e la loro consulenza ci è preziosa.

"Critiche russe a Draghi". Così le carte degli 007 "svelano" solo l’ovvio". Stefano Zurlo l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Nel report del Dis nulla di eclatante: cinque italiani attenzionati per le posizioni filo Zar.

Dossieraggio no, ma lettura con gli occhiali sì. Con nomi e cognomi dell'ala filorussa del giornalismo italiano. E poi attenzione spasmodica per le mosse del Cremlino e per la macchina della propaganda putiniana. Il Dis un po' fa il suo mestiere e un po' inscatola l'ovvio. Chiudendolo sottovuoto in documenti oggi declassificati. 

Così veniamo a sapere che anche la spilla con l'emblema della Nato sfoggiata da Mario Draghi sarebbe la prova delle sue segrete aspirazioni: il premier punterebbe dritto alla poltrona di segretario della Nato al posto dell'uscente Stoltenberg, prossimo governatore della Banca centrale della Norvegia. Siamo ai limiti del ridicolo, naturalmente, ma questo è il menu proposto dagli 007 del Dis: per la disinformazione russa lo stemma dimostra il cinismo di Draghi che sarebbe disposto a mettere a repentaglio la sicurezza dell'Italia pur di raggiungere l'obiettivo e il Dis naturalmente sottolinea le manovre degli avversari. 

Siamo davvero su un crinale sottile, perché basta stare seduti in salotto, davanti al telecomando, per avere più o meno le stesse informazioni, ma questo passa il convento che spia gli agit prop al servizio di Mosca.

«A partire dalla seconda metà di aprile - si legge nel dossier tricolore - le narrative diffuse dalla propaganda russa hanno registrato critiche all'operato del Presidente del consiglio Mario Draghi ritenuto responsabile, con la linea d'azione adottata dal suo governo, dell'aumento dei prezzi dei generi alimentari ed energetici, della chiusura di numerose aziende, nonché di aver colpito il popolo italiano con misure sanitarie inutili e di trascinare il Paese in guerra». 

Insomma, i nostri 007 hanno scoperto che la Russia ce l'ha con Roma e non si spiega il cambio di passo rispetto al passato per Super Mario.

Il Dis osserva che gli account che fanno la ola a Putin soffiano sulle divisioni: di qua i tedeschi, tendenzialmente buoni, perché non vogliono perdere il gas russo, di là un Draghi a stelle e strisce, «allineato alle decisioni americane e disinteressato alle sorti del suo popolo».

Ci sono poi cinque italiani sotto osservazione, ma non attenzionati secondo la prosa faticosa del dipartimento che coordina i nostri Servizi, nel testo ora disponibile sulle interferenze e le ombre russe: Alberto Fazolo, economista e giornalista, più volte ospite di programmi nazionali, che ha denunciato l'uccisione di alcuni giornalisti in territorio ucraino; Francesca Donato, l'eurodeputata uscita dalla Lega che Russia Today ha lodato per aver votato contro l'invio di armi in Russia; Giorgio Bianchi, freelance presente in Ucraina ma dalla parte di Mosca; Francesca Totolo, blogger sempre schierata contro l'Ucraina e infine Rosangela Mattei, nipote di Enrico Mattei, di cui viene ripresa un'intervista ammirata dagli influencer di Mosca. 

Ma c'è di più: di delirio in delirio, di complotto in complotto, si scava, o meglio si ricama, anche sulla morte di Mattei, precipitato col suo aereo a Bascapè il 27 ottobre 1962. Un mistero italiano in piena regola, oggetto di infinite ricostruzioni e dietrologie e libri e film, memorabile quello di Rosi.

È incredibile, ma tutto questo non bastava: così gli spot moscoviti intravedono lo zampino maligno della Nato nella caduta del velivolo e il Dis annota con tenacia. In ogni caso, «il Cremlino starebbe provvedendo al reclutamento dei principali esponenti dell'intellighenzia per creare consenso nella popolazione russa». Un altro dettaglio che francamente non è sfuggito all'opinione pubblica, perché i commentatori russi ripetono sempre, in tutte le trasmissioni, la stessa colonna sonora. La campagna acquisti passa attraverso i canali Telegram «o altri social dotati di un rilevante seguito». Ma sulle modalità del controllo Gabrielli insiste: nessun giornalista o politico è oggetto di investigazione o monitoraggio. 

Ci si limita a mettere in fila le pietre e le pietruzze dello scandalo: l'intervista del ministro degli Esteri russo Lavrov a Zona Bianca e poi, zigzagando qua e là, il Primato Nazionale di Francesca Totolo e il canale Giubbe rosse, «noto per la matrice ideologica euroasiatica», pane quotidiano degli articoli di Giorgio Bianchi. Francamente sconosciuto a tutti gli altri. O quasi.

Chi contesta non fa propaganda. Marco Gervasoni l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Se è una commedia buffa, quella delle cosiddette "liste di proscrizione" dei putinisti è durata troppo.

Se è una commedia buffa, quella delle cosiddette «liste di proscrizione» dei putinisti è durata troppo. Con la pubblicazione del bollettino dei Servizi sulla «disinformazione russa», voluta opportunamente dal sottosegretario Gabrielli, speriamo si chiuda una vicenda che assomiglia a una pochade, come spesso accade quando l'Italia si trova in guerra. Per capirla partiamo dal primo conflitto mondiale. I servizi di informazione delle democrazie, Francia, Stati Uniti, ma anche Italia e Regno Unito, cercavano le spie tedesche e le scovavano tra personaggi insospettabili e nascosti. Chi invece diffondeva propaganda contro la guerra o per il nemico, veniva censurato alla fonte: non poteva scrivere o parlare. Oggi, invece, le democrazie continuano a perseguire le attività spionistiche, ma la propaganda a favore del nemico viene consentita. Altrimenti durante la guerra fredda l'Unità, sempre schierata con l'Urss, non avrebbe mai dovuto uscire. Nel caso in questione, ci pare che i servizi si siano impegnati a scoprire ciò che a tutti era noto: bastava fare zapping e seguire i social per sapere che i nomi citati nella lista simpatizzano più o meno esplicitamente per la Russia. Diffondono notizie identiche a quelle veicolate dal Cremlino. Quindi dove sta il lavoro dell'intelligence? Cosa hanno scoperto di tanto segreto? L'altro elemento riguarda la attività dei «disinformatori»: si tratta certamente di propaganda anti Nato e pro Putin. Molte delle loro affermazioni sono fake news, tutte sono aberranti. Obiettivamente favoriscono la Russia, con cui siamo indirettamente in guerra: e si sa che quelle della propaganda sono comunque armi. Riconosciuto questo, cosa possiamo fare? Negli Usa, in Francia e in Italia durante la Prima guerra mondiale sarebbero finiti in carcere, oggi, fortunatamente, hanno il diritto di scrivere pubblicamente le loro scempiaggini. E nostro dovere è quelli di controbattere e anche di esecrarli. L'ultimo aspetto della vicenda riguarda i profili citati. Con tutto il rispetto per le persone soi disant «proscritte», se Putin puntasse su di loro per vincere la guerra di propaganda, sarebbe davvero messo male, visto che essi non sono, per usare un eufemismo, figure centrali nella comunicazione in Italia. Che però ora si ergeranno a vittime di una «dittatura Draghi»: inesistente perché nelle dittature, come quelle del loro amico Putin, sarebbero già in galera da tempo. E tuttavia, in ragione di qualche funzionario forse troppo zelante, ora possono presentarsi come martiri della libertà, sfruttando uno dei grandi caratteri dell'italiano: il vittimismo.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 10 Giugno 2022.

Sono costretto a segnalare altri pericolosi putinisti che si aggirano nelle redazioni dei giornali italiani, dando seguito alla denuncia del Corriere della Sera circa l'esistenza di una rete «complessa e variegata» che nel nostro Paese fa propaganda per lo zar russo. 

Secondo il quotidiano, per questa struttura lavorerebbero diversi influencer e commentatori, i quali condizionerebbero con i loro interventi di «contro informazione» l'intera opinione pubblica italiana. Nei giorni scorsi mi ero permesso di aggiungere alla lista di proscrizione redatta dal giornale di via Solferino, anche il nome di due collaboratori della medesima testata, ovvero l'ex ambasciatore Sergio Romano e l'esiliato speciale in America Federico Rampini. 

In un suo articolo il primo metteva in dubbio l'efficacia delle sanzioni contro Mosca e il secondo addirittura si chiedeva se fosse giusto, per sottrarsi ai ricatti del Cremlino, soggiacere a quelli di Pechino. 

Tuttavia, oggi mi trovo nella condizione di denunciare nuove subdole argomentazioni filo Putin, ad opera di opinionisti in servizio presso alcuni cosiddetti quotidiani indipendenti. Sulla prima pagina di Repubblica, per esempio, è comparso un incredibile articolo a firma di Furio Colombo, fresco di addio al Fatto in polemica con la linea del duplex Travaglio-Orsini.

Secondo l'ex spicciafaccende in America di casa Agnelli, la redazione a cui ha detto addio sarebbe infestata da agenti al servizio del nuovo zar. Tuttavia, leggendo il suo articolo sulle pagine del quotidiano diretto da Maurizio Molinari, si capisce che la polemica serviva a celare il vero obiettivo, ovvero traslocare presso un'altra testata per disseminare dubbi sulla strategia dell'Europa in difesa dell'Ucraina. 

Già dal titolo si intuisce dove l'ex direttore dell'Unità voglia andare a parare: «L'ora della Realpolitik». Segue un nostalgico ricordo di quando lo stesso Colombo ebbe la fortuna di incontrare Henry Kissinger, ovvero il diplomatico più diplomatico che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, e di sentirsi dire «please, call me Henry», ovvero un amichevole «chiamami Enrico, per favore». E così, ecco Furio che per la vicenda Ucraina chiama in ballo Enrico come mai ci si poteva attendere dopo la sfuriata, e conseguente porta sbattuta, a Travaglio.

Riporto testualmente: «L'insegnamento di Kissinger è che lo stato delle cose conta più dei progetti, quelli aggressivi e quelli eroici. Non è una sgridata agli ucraini che resistono e un gesto di tolleranza per i russi che si ostinano. È la stessa posizione che ha indotto la potentissima America a interrompere la guerra in Vietnam. Non importa se una visione politica (russa) sia giusta o distorta, se una resistenza (ucraina) sia eroicamente condotta.

L'importante è interrompere, perché i contendenti sono destinati a restare uno accanto all'altro e in mezzo all'Europa. È la politica della realtà che ha sempre guidato Kissinger».

Dal tono adorante si comprende che Colombo riconosce l'autorevolezza dell'ex segretario di Stato di Nixon e fa l'esegesi del suo pensiero. 

Che tradotto in parole comprensibili al volgo significa una sola cosa: a prescindere da torti e ragioni, si deve interrompere la guerra. Capito il concetto? Il povero Zelensky dovrebbe rassegnarsi a fare pace con Putin.

Ma ancor peggio è ciò che nell'edizione dello stesso quotidiano è stato pubblicato dall'inviato nel Donetsk. Fabio Tonacci dà voce al comandante del plotone (ucraino) in panne, facendogli dire che «i locali aiutano le truppe nemiche, rivelano loro le nostre posizioni e i nostri spostamenti. Io guido tre plotoni, siamo gli ultimi in questa zona (a 30 chilometri da Severodonetsk, ndr), e ci tocca difenderci da quelli che siamo venuti a proteggere». 

Ma è anche peggio quello che Tonacci fa dire a Rita e Vadim. La prima è furiosa con l'esercito di Kiev, il secondo, con il torace avvolto da una benda su cui affiora una macchia di sangue, racconta che «i soldati ucraini sono entrati in casa nostra, mi hanno picchiato con il calcio del fucile per farci sloggiare. Vi sembra normale?». 

Vadim, che lavorava come autista per i pompieri, alla fine conclude: «Non ci interessa sotto quale autorità vivremo, per noi l'unica cosa importante è che finisca». Insomma, subdolamente Tonacci demolisce una narrazione lunga tre mesi, con i buoni da una parte e i cattivi dall'altra, insinuando dubbi sulla strategia della guerra di liberazione: un chiaro favore a Putin. 

E che dire di Domenico Quirico che sulle pagine della Stampa se la prende con Joe Biden che stringe la mano a Mohammed bin Salman, quel simpatico principe che ha fatto segare in due - letteralmente - il povero Jamal Khashoggi all'interno dell'ambasciata di Istanbul?

Per l'inviato del quotidiano sabaudo, il presidente americano crede che tutto sia permesso e di potersi permettere tutto. E conclude: un meccanismo che dovrebbe indignare e far riflettere. Un altro assist a Putin da segnalare agli addetti alle liste di proscrizione. 

Ps. Fa piacere che, anche se con tre mesi di ritardo, alcuni commentatori siano arrivati alle conclusioni a cui questo giornale era giunto fin dall'inizio della guerra. Segno che non è mai troppo tardi per raccontare i fatti senza i pregiudizi dell'ideologia e della propaganda. 

Diego Messa per lastampa.it il 10 Giugno 2022.

Franco Gabrielli ha osservato con fastidio le polemiche di questi giorni sull’indagine del Copasir, basata su un documento sulla disinformation in Italia, e su quella che sembra essere una disinfo ops pro Russia per mestare e confondere le acque nel dibattito pubblico italiano. E così ha deciso di pubblicare i dati del documento integrale.

«Il perdurare di una campagna diffamatoria circa una presunta attività di dossieraggio da parte della comunità di intelligence (in realtà inesistente), mi ha convinto a chiedere al Dis di declassificare il tanto evocato ed equivocato Bollettino sulla disinformazione che avrebbe ispirato il noto articolo apparso sul Corriere della Sera». 

L'Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica lo mette per iscritto, per sgombrare molti degli equivoci nati su questo argomento da alcune settimane. 

«Auspico che la sua lettura integrale porti alla definitiva cessazione di ogni infamante sospetto sull'attività dell'Intelligence nazionale o su fantomatici indirizzi governativi volti a limitare il diritto di informazione».

Il Bollettino sulla disinformazione «compendia l'attività di uno specifico tavolo creato nel 2019, coordinato dal Dis, e e al quale partecipano, oltre ad Aise e Aisi, l'Ufficio del Consigliere militare del Presidente del Consiglio, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, i ministeri dell'Interno e della Difesa.

Di recente è stato esteso al Dipartimento dell'Informazione e dell'Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Mise, all'Agenzia per la cybersicurezza nazionale e all'Agcom».

Del lavoro «è dato conto in tutte le relazioni periodiche al Parlamento». Così il sottosegretario Franco Gabrielli, in una nota in cui annuncia la declassificazione del bollettino «visto il perdurare di una campagna diffamatoria circa una presunta attività di dossieraggio». 

Il Bollettino riguarda «un'analisi del fenomeno basata unicamente su fonti aperte e non contiene, considerata la fisiologica diffusione, alcun elemento proveniente da attività di intelligence».

Gabrielli: «Né dossieraggi né Grande Fratello. Le fake news non sono opinioni». Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.

«Il perdurare di una campagna diffamatoria circa una presunta attività di dossieraggio da parte della comunità di intelligence, in realtà inesistente, mi ha convinto a chiedere al Dis di declassificare il tanto evocato ed equivocato bollettino sulla disinformazione che avrebbe ispirato il noto articolo apparso sul Corriere della Sera». Franco Gabrielli non ne può più dei «sospetti infamanti» sui servizi segreti e in 40 minuti di conferenza stampa difende gli 007 italiani e spiega genesi e obiettivi dell’ sulla propaganda filo-russa, anticipato domenica 5 giugno dal Corriere.

«Nessun limite al diritto di informazione»

Positivo al Covid, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio per la Sicurezza della Repubblica si collega da casa con la Sala polifunzionale. Il tono è severo, Gabrielli respinge l’accusa di dossieraggio e di «fantomatici indirizzi governativi volti a limitare il diritto di informazione». Spiega che il testo di 7 pagine «compendia l’attività di uno specifico tavolo creato nel 2019, coordinato dal Dis e al quale partecipano Aise, Aisi, ufficio del Consigliere militare del premier, ministeri di Esteri, Interno, Difesa, dipartimento dell’Editoria di Palazzo Chigi, Mise, Agenzia per la cybersicuezza e Agcom. E spera che la lettura integrale del piccolo fascicolo consegnato ai giornalisti spazzi via la bufera mediatica.

«Documento inviato al Copasir»

Ma la questione non si chiude qui, Gabrielli lascia capire che ci sarà un’indagine interna: «Il fatto stesso che un documento classificato sia stato diffuso è una cosa gravissima e nulla rimarrà impunito». Quelle pagine dovevano rimanere nell’ambito dei relatori e quindi dello staff : «Il documento è arrivato nelle mani dei giornalisti non perché sceso dal cielo. È stato editato il 3 giugno e le stesse tempistiche fanno pensare che ci sia stata una mano solerte». E poiché anche il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti è stato tirato in ballo, l’ex capo della Polizia conferma che «il report di cui si sta parlando è lo stesso mandato al Copasir, che lo ha ricevuto il 6 giugno».

«Le fake news e la loro orchestrazione»

La cosa che più sta a cuore è Gabrielli è smentire l’accusa di dossieraggio lanciata da più parti agli 007 italiani. «Non esiste un Grande Fratello in Italia, una Spectre — rassicura il sottosegretario a palazzo Chigi —. Nessuno vuole investigare sulle opinioni delle persone. Si riesumano tempi e circostanze che ci eravamo lasciati alle spalle». La libertà di opinione è sacra. Ma una cosa è esprimere le proprie idee perché «tutto ciò che è un diverso pensiero è una ricchezza», altra invece, chiarisce Gabrielli, «sono le fake news e la loro orchestrazione che, qualora accertata, potrebbe essere oggetto di un’attività di altro tipo».

Il caso Petrocelli

E qui l’esponente del governo ricorda che l’ex presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, non è stato oggetto di alcuna attività di controllo dell’intelligence: «È la cosa che mi ha dato più fastidio. L’ho detto anche in occasione del viaggio di Salvini in Russia, non ci sono giornalisti né politici». Il documento al centro delle polemiche è stato declassificato in data 10 giugno e consegnato alla stampa. Si era deciso di tenerlo riservato per «salvaguardare le persone citate», ma il clamore provocato dall’inchiesta ha convinto il governo a renderlo pubblico.

Il tavolo sulla disinformazione

Ora l’Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica dovrà decidere il destino del tavolo sulla disinformazione coordinato dal Dis: «Se un risultato ipoteticamente positivo ha un prezzo così alto, si impone una riflessione sulla sua utilità. Dal momento che non si raccontano cose particolarmente significative sulla sicurezza nazionale». E infine, Draghi era a conoscenza del lavoro svolto dal Dis sulla minaccia della guerra ibrida? «I 4 bollettini — risponde Gabrielli — non avevano mai evidenziato particolari significative emergenze che sono state da me rappresentate specificamente al presidente del Consiglio».

Il bollettino «desecretato» e i nomi nelle analisi da marzo. Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.

I quattro report dall’inizio della guerra. «Ma non c’è stata alcuna investigazione». 

Il documento declassificato dal governo e reso pubblico dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli è composto da sette pagine. Si intitola «Hybrid Bulletin» e analizza quanto accaduto sulla «Disinformazione nel conflitto russo-ucraino» tra il 15 aprile e il 15 maggio. Non è l’unico. Lo stesso Gabrielli ha specificato che dall’inizio del conflitto scatenato dall’invasione russa in Ucraina sono stati compilati «quattro bollettini». I nomi contenuti nell’ultimo bollettino sono soltanto alcuni di quelli emersi nel corso di questi mesi durante l’attività di monitoraggio, ricognizione dei contenuti della Rete internet, dei social network, delle televisioni e di tutti quei canali dove si pensa possano essere diffuse false notizie ai fini di propaganda. Un lavoro, ha specificato il sottosegretario, che non implica «investigazioni» e viene condiviso «tra i servizi segreti, l’Ufficio del Consigliere militare del presidente del Consiglio, il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, i ministeri dell’Interno e della Difesa» ma non viene interamente trasmesso al governo. Gabrielli ha specificato che l’ultimo bollettino è stato redatto il 3 giugno ed è stato inviato al Copasir il 6 giugno.

Il senatore Petrocelli

Il sottosegretario ha specificato che «sotto investigazione non ci sono giornalisti e politici». Tra i nomi che hanno attirato l’attenzione, ma che non sono mai stati oggetto di «attenzione» del tavolo di lavoro c’è quello di Vito Petrocelli, che all’inizio di maggio aveva rifiutato di lasciare la presidenza della commissione Esteri nonostante gli ultimatum espliciti di Conte. Il 5 giugno il Corriere ha rivelato che proprio in quei giorni gli attivisti filo Putin si sono mobilitati per una campagna di mail bombing verso indirizzi di posta elettronica del Senato. In prima linea c’erano canali Telegram no vax e pro Russia come @robertonuzzocanale, @G4m3OV3R e @lantidiplomatico, un sito internet che aveva sostenuto la sua scelta di non dimettersi. E lo stesso senatore ha poi dichiarato: «È una cosa di cui sono al corrente perché quelle mail sono arrivate anche a me. C’è stata una campagna di mail bombing, durata circa due settimane, destinata a tutti i componenti della commissione Esteri — me compreso — e ai componenti della Giunta per il Regolamento. Un testo ben preciso in cui c’era scritto `siamo contrari´ alla rimozione di Petrocelli dalla presidenza della commissione... una cosa del genere, insomma si chiedeva di non procedere e rispettare il diritto a votare in un certo modo».

Gli altri nomi

Nel corso dei mesi scorsi il monitoraggio dei vari canali ha anche evidenziato l’utilizzo di dichiarazioni e interviste di freelance, influencer, studiosi che hanno espresso posizioni filorusse come Manlio Dinucci, Maurizio Vezzosi e Alessandro Orsini. Oppure Laura Ruggeri che vive a Honk Kong e scrive su Strategic Culture Foundation, una rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr che con Russia Today si è concentrata sulle sanzioni. Nell’ultimo bollettino non sono citati. Si parla invece di Maria Dubovikova, giornalista russa che vive a Mosca e ha oltre 40mila followers su Twitter con l’account @politblogme dove ha pubblicato articoli sull’invio delle armi alle autorità ucraine; di Alberto Fazolo, economista iscritto all’albo dei Pubblicisti del Lazio; di Giorgio Bianchi, definito «noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filo-russo». Chi ha redatto il documento segnala il legame tra la propaganda filo-russa in Italia e l’azione dei movimenti no vax e no Green pass.

Disinformazione

Tra le informazioni false più condivise e rilanciate, il documento dei Servizi annota la notizia di biolaboratori occidentali in Ucraina, l’impiego di armi chimiche da parte di Kiev, la denazificazione, la russofobia e «la brutalità dell’esercito di Kiev in contrapposizione alle presunte gesta eroiche dei soldati russi».

Il sottosegretario Gabrielli contro la fuga di notizie sui servizi italiani : “nulla resterà impunito”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2022. 

Il termine "riservato" ha detto Gabrielli, "è proprio il minimo sindacale e risponde all’esigenza di tutelare le persone che sono coinvolte. Proprio perché riteniamo che sia prevalente che i cittadini sappiano che nel nostro Paese non esiste nessun Grande Fratello, nessuna Spectre e che nessuno, tanto meno il governo del Paese, ha ad oggetto quello di investigare sulle opinioni, abbiamo ritenuto necessario per la massima trasparenza il passo di declassificare questo bollettino".

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli con delega alla Sicurezza ci va giù duro sulla lista dei “putiniani” pubblicata dai media nei giorni scorsi. In una conferenza stampa odierna è stato molto chiaro sulla disinformazione russa finita in pasto alla stampa, come suo stile: “C’è una mano solerte dietro la diffusione del bollettino , un fatto gravissimo e rispetto al quale nulla resterà impunito, credo che lo dobbiamo al Paese“.

Il Bollettino sulla disinformazione russa che siamo in grado di farvi leggere integralmente, non attiene alla sicurezza nazionale “ma a salvaguardare le persone che sono citate nei documenti”. Facendo “due fugaci riferimenti a persone non è possibile sostenere che questa attività abbia a che fare con le opinioni dei cittadini di questo Paese”. “Le opinioni sono rispettate sempre, cosa diversa sono le fake news e la loro orchestrazione che, qualora accertata, potrebbe essere oggetto di un’attività di altro tipo“, ha spiegato, continuando: “L’unico antidoto alla propaganda è la libera informazione, la libertà di espressione, un bene prezioso da salvaguardare sempre. Tutto ciò che è un diverso pensiero è una ricchezza“.

“Il Bollettino, come già anticipato, compendia l’attività di uno specifico tavolo creato nel 2019, coordinato dal Dis e al quale partecipano, oltre ad Aise e Aisi (le due agenzie di intelligence italiane ex Sisde e Sismi), l’Ufficio del Consigliere militare del Presidente del Consiglio, il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, i ministeri dell’Interno e della Difesa“, ha spiegato Gabrielli “Di recente è stato esteso al Dipartimento dell’informazione e dell’editoria della presidenza del Consiglio dei Ministri, al Mise, all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale e all’Agcom. Di ciò è dato conto in tutte le relazioni periodiche al Parlamento. Tale Bollettino – precisa – riguarda un’analisi del fenomeno basata unicamente su fonti aperte e non contiene, considerata la fisiologica diffusione, alcun elemento proveniente da attività di intelligence”.

Il termine “riservato” ha detto Gabrielli, “è proprio il minimo sindacale e risponde all’esigenza di tutelare le persone che sono coinvolte. Proprio perché riteniamo che sia prevalente che i cittadini sappiano che nel nostro Paese non esiste nessun Grande Fratello, nessuna Spectre e che nessuno, tanto meno il governo del Paese, ha ad oggetto quello di investigare sulle opinioni, abbiamo ritenuto necessario per la massima trasparenza il passo di declassificare questo bollettino“.

Giornalisti o politici oggetto di investigazione o di monitoraggio da parte dell’intelligence? “No, senza se e senza ma. Non ci sono né giornalisti e men che meno politici, l’ho detto in maniera chiara” anche sulla vicenda che ha coinvolto il senatore Matteo Salvini, su questo “bisogna essere chiari o rischiamo di farci male”, ha affermato ancora Gabrielli. 

In relazione al rapporto tra Palazzo Chigi e il bollettino sulla disinformazione, il sottosegretario Gabrielli spiega: “Non ho percepito una sfiducia da parte di Draghi, il report era a conoscenza del suo staff. I 4 bollettini da febbraio non avevano mai evidenziato particolari significative emergenze e sono state da me rappresentate specificamente al presidente del Consiglio. Il report è lo stesso che è stato trasmesso al Copasir. E’ stato protocollato il 3 di giugno e il Copasir lo ha ricevuto il 6″, spiega il sottosegretario rispondendo alle domande dei cronisti in conferenza stampa.

“L’attività dell’informativa non ha nulla a che vedere con l’intelligence, nulla che possa essere schedatura, dossieraggio, di persone. L’attività è di ricognizione, nulla che possa essere identificato con la schedatura e il dossieraggio. Ognuno di noi ha una sua storia. Alcune insinuazioni non riconoscono il valore di quello che si è fatto“, ha aggiunto il sottosegretario Gabrielli , sottolineando che “non esiste un “Grande Fratello“, nessuno vuole investigare sulle opinioni delle persone“.

Sulla disinformazione il sottosegretario Gabrielli ha aggiunto in conferenza stampa: “La disinformazione è figlia della minaccia ibrida e il tavolo istituito nel 2019 e coordinato dal Dis non porta avanti un’attività iniziata con la guerra in Ucraina ma prima della pandemia, su sollecitazione della Ue e dei partner atlantici affinché i Paesi alleati si dotassero di sistemi di monitoraggio della minaccia ibrida“.

Sul ruolo dell’ex presidente della Commissione Esteri del Senato, il sottosegretario Franco Gabrielli ha voluto fare chiarezza una volta per tutte: “Con riferimento all’ex presidente della commissione Esteri, Vito Petrocelli, che si è sentito giustamente leso da questa vicenda” sulla cosiddetta lista dei putiniani “vorrei rassicurarlo che il suo nominativo non compare in nessun tipo di investigazione, così come non esistono i nominativi che sono stati fatti dal giornale e presenti anche nel bollettino: un conto è riportare dichiarazioni, un conto svolgere approfondimenti e investigazioni”. 

Adesso l’Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica dovrà decidere il destino del tavolo sulla disinformazione coordinato dal Dis: “Se un risultato ipoteticamente positivo ha un prezzo così alto, si impone una riflessione sulla sua utilità. Dal momento che non si raccontano cose particolarmente significative sulla sicurezza nazionale”. Il premier Draghi era a conoscenza del lavoro svolto dal Dis sulla minaccia della guerra ibrida, “I 4 bollettini — ha spiegato Gabrielli — non avevano mai evidenziato particolari significative emergenze che sono state da me rappresentate specificamente al presidente del Consiglio”.

Gabrielli annuncia: "Saranno presi provvedimenti seri". La mappa dei putiniani d’Italia, ecco il documento integrale dei servizi segreti. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Giugno 2022. 

Il dossier segnaletico del Corriere – con i riferimenti e le foto dei filorussi – non era tale. Non doveva essere diffuso, perché ingenera una serie di malintesi, anche spiacevoli. E certamente il governo, le istituzioni non mettono in discussione la libera facoltà di prendere le parti dell’uno o dell’altro, rispetto alle questioni internazionali. “Meno che mai i giornalisti, i parlamentari, gli opinion maker”. Lo dice il Sottosegretario con delega all’Intelligence, prefetto Franco Gabrielli, che intende chiarire – una volta per tutte – le polemiche innescate dal dossier riservato sugli agenti di influenza filorussi che il Dis ha predisposto e qualcuno ha fatto illecitamente avere al Corriere della Sera.

Stravolgendone il senso, confondendo i piani e last but not least, vanificandone l’effetto. Così Gabrielli indice una conferenza stampa a Palazzo Chigi, collegandosi però da casa: ha il Covid, ma ci teneva a dare subito una risposta istituzionale forte. “Perché siamo davanti a polemiche molto gravi, perché le autorità di governo non hanno mai messo mano a liste di soggetti che hanno manifestato opinioni personali”, rassicura quando appare collegato in video conferenza da casa. Precisa dunque la natura dell’informativa, la tipica reportistica OSINT, che nasce dall’osservazione di fonti aperte: una mappatura di ciò che si trova in Rete, di quel che arriva all’utente medio. Ma che era comunque una informativa classificata come riservata, da non diffondere.

E saranno presi provvedimenti seri, assicura Gabrielli. “Niente rimarrà impunito”, dice. Aggiungendo che una indagine interna è stata aperta e che i responsabili verranno a galla. Ma sui principi cardine, non si discute: “libertà di opinione, di critica, di stampa devono essere tenute fuori da queste polemiche”. D’altronde non si tratta di una attenzione recente, sul fenomeno delle fake news. La Rete, le nuove modalità con cui si forma l’opinione pubblica richiedono un monitoraggio che non ha alcun carattere repressivo, né censorio. “Le attività di monitoraggio sulla guerra ibrida nascono da prima, addirittura da prima della pandemia. Le minacce di natura ibrida sono subdole, si insinuano. Le attività di intelligence OSINT non sono identificabili con attività di dossieraggio. La migliore cura contro la disinformazione è la libera informazione, e dunque la pluralità delle voci e delle opinioni”.

Adesso che i buoi sono fuggiti dalla stalla, c’è solo una operazione da fare: quella che gli anglofoni chiamano di open disclosure. Mario Draghi stesso avrebbe ispirato la libera uscita, a questo punto, del documento. Lui e il suo staff sono stati tenuti al corrente di tutte le fasi, secondo la ricostruzione del capo dell’intelligence. “Abbiamo ritenuto di declassificare il bollettino OSINT. Che peraltro aveva classifica Riservato, il minimo. L’esigenza di questo momento è quella di ribadire come non esistano altre finalità rispetto a quelle dell’attenzione al variegato mondo dell’informazione diffusa”, conclude Gabrielli.

E dopo di lui, parlano le carte: ecco appena desecretato il famigerato dossier. Tra le narrative pro Cremlino diffuse via social, vi si legge, vi è “il frequente ricorso a informazioni e prodotti audiovisivi decontestualizzati ed artefatti riproposti in lingua originale, con l’intento di inquinare e sovraccaricare il dibattito interno, decostruire la narrativa dei mezzi di informazioni nazionali ed occidentali in generale, ostacolare il processo di verifica delle informazioni stesse – consapevoli della difficoltà di riscontrare le evidenze sul campo – lasciando ampio spazio al dubbio e all’incertezza, ovvero predisporre l’opinione pubblica ad accogliere la narrativa favorevole a Mosca”.

“A partire dalla seconda metà di aprile, le narrative diffuse sui canali online dalla propaganda russa hanno continuato a riguardare la presenza di biolaboratori occidentali in Ucraina, l’impiego di armi chimiche da parte di quest’ultima come pretesto per operazioni flase flag, la denazificazione di quella Nazionale, la Russofobia, la brutalità dell’esercito di Kiev in contrapposizione alle presunte gesta eroiche dei soldati russi, nonché la strumentalizzazione dei sondaggi relativi alla guerra e i costanti attacchi all’immagine di Zelensky“.

Il Riformista ha avuto una copia del documento appena declassificato, eccola in anteprima.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Ilario Lombardo per "La Stampa" l'11 giugno 2022.

Liste di proscrizione, dossieraggio, mandato politico. Parole che fanno ripiombare l'Italia nelle zone oscure della propria storia e che rischiano di sfregiare la credibilità delle istituzioni, dai servizi segreti al governo. È questo il rischio che ha percepito Mario Draghi nella confusione del dibattito che si è scatenato in questi giorni, dopo la notizia di un report degli 007 su una presunta rete di opinionisti etichettati come «filoputiniani»: il pericolo di uno scivolamento verso un epilogo pericoloso che stava per investire direttamente la presidenza del Consiglio. Sentire in programmi televisivi e leggere sui giornali interrogativi e ipotesi sul ruolo che avrebbe avuto il governo nello schedare pareri contrari, ha convito Draghi che fosse arrivato il momento di intervenire.

La decisione di indire la conferenza stampa di Franco Gabrielli, e di declassificare il rapporto dell'intelligence, nasce da qui. Da questa preoccupazione.

 Il premier d'accordo con il sottosegretario con delega ai servizi segreti capisce che è necessaria un'operazione di totale «trasparenza», nella convinzione che «non possono esserci ombre» su Palazzo Chigi. Sarà Gabrielli, collegato a distanza, a spiegare cosa sapeva e fino a che punto Draghi. A chiarire il senso dell'ormai famoso Hybrid Bullettin, una relazione sullo stato delle cose della disinformazione che si presume abbia la regia del Cremlino e che potrebbe avere avuto un'intensificazione con la guerra in Ucraina.

Sono quattro i bollettini da febbraio a oggi, rivela il sottosegretario. E tutti e quattro erano stati messi a conoscenza dello staff del presidente del Consiglio. 

L'ultimo viene protocollato il 3 giugno e inviato al Copasir, il comitato parlamentare che esercita il controllo sull'intelligence, il 6 giugno.

A Draghi non vengono segnalate particolari emergenze, semplicemente perché, a detta di Gabrielli, non ce ne sono. Il report lavora su fonti aperte, perlopiù commenti sui social e interventi televisivi. Niente di misterioso, niente che possa minare la sicurezza della Repubblica e attivare indagini vere e approfondite dell'intelligence. Gabrielli e Draghi sono in contatto continuo. Da quando è cominciata l'invasione russa in Ucraina si sentono «quotidianamente»: «E non ho percepito particolari criticità», spiega l'ex numero uno della Polizia, considerato da sempre uomo di fiducia del presidente del Consiglio.

Le scorie del sospetto, però, sono difficili da smaltire. Se sarà necessario, il premier è pronto a tornare anche personalmente sull'argomento. Nel clima di scontro tribale tra le opinioni, Draghi non accetta di passare per censore. Tanto più perché, all'interno del bollettino, il monitoraggio si concentra diverse volte su tesi critiche nei confronti del capo del governo, ritenuto «responsabile della crescita dei prezzi dei generi alimentari ed energetici», «allineato alle decisioni americane» e «disinteressato alle sorti del suo popolo». Leggendo, qualcuno potrebbe per questo poi sentirsi autorizzato a pensare che la censura sia conseguente, macchinata da Palazzo Chigi per soffocare la diffusione di argomenti del genere.

Non è così, ripete più volte Gabrielli, consapevole delle possibili interpretazioni del documento e degli effetti delle rivelazioni di stampa.

Non c'è alcun mandato politico a indagare su professori e ospiti dei talk show, confermano fonti vicine al capo del governo. Il bollettino, nato nel 2019 sotto la responsabilità del Dipartimento dell'informazione per la sicurezza (Dis), forse non sopravviverà in questa forma, di analisi molto superficiale della rete e del suo flusso isterico. Ma ciò non significa che governo e intelligence saranno meno preoccupati a respingere l'opera di infiltrazione, di falsificazione e di hackeraggio che sono le armi della guerra ibrida, in cui la Russia di Vladimir Putin si è rivelata maestra. 

Il falso dossier filo-Putin. Gabrielli smaschera il Corriere della Sera: il sottosegretario smonta il falso dossier sui filo-Putin. Claudia Fusani su Il Riformista l'11 Giugno 2022. 

Pensavano fosse dossieraggio e invece è un riassunto ben fatto di voci, attori, protagonisti, comparse e copioni dei talk show andati in onda negli ultimi tre mesi nelle tv pubbliche e private. E un distillato del magma che ogni giorni i social ributtano dal web. Convinti di essere piombati in una fase cupa della democrazia, della serie “aiuto, spiano i giornalisti” e “profilano cosa fanno, dicono, come e dove vanno”, ci riscopriamo in un venerdì di metà giugno con un documento in mano lungo sette pagine sicuramente utile da un punto di vista giornalistico. Totalmente innocuo dal punto di vista della privacy e della libertà di opinione.

Tanto per essere chiari e restare su questo punto che è senza dubbio il più delicato, nel “Bollettino” che è stato redatto “sulla base di fonti aperte” cioè web, social, tv, radio, giornali e siti di informazione, ci sono 6 nomi di italiani e altrettanti di giornalisti più o meno russi e più o meno giornalisti diventati “famosi” in questi tre mesi di guerra grazie agli inviti nei talk televisivi. Rispetto a ciascuno di questi nomi «non c’è alcuna attività di profilazione né attenzionamento, solo report sulla base di fonti aperte finalizzati a descrivere specifiche tendenze». Soprattutto non sono citati nè il professor Alessandro Orsini né il senatore Vito Petrocelli (ex M5s) che invece erano stati indicati nella “lista di proscrizione”. «Nessuna spectre e nessun Grande Fratello», ha detto il “capo politico” della nostra intelligence, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti Franco Gabrielli che da domenica scorsa, giorno in cui il Corriere della Sera ha rivelato il dossier sugli antiputiniani, si è trattenuto con grande fatica dall’esternare e commentare quello che è uscito su quotidiani e tv.

E ieri, dopo lunga riflessione a livello di governo, ha deciso di mettere le carte in tavola. «Abbiamo declassificato il documento – ha detto in una conferenza stampa in cui era collegato da remoto in quanto “positivo al Covid” – perché riteniamo che sia prevalente che i cittadini possano valutare da soli che nel nostro Paese che non esiste nessun Grande fratello, nessuna spectre e che nessuno, tanto meno il governo, indaga sulle opinioni». Pubblicare tutto per far cessare «ogni infamante sospetto sull’attività dell’intelligence nazionale o su fantomatici indirizzi governativi volti a limitare il diritto di informazione». E perché la buona informazione è sempre «l’antidoto contro la disinformazione che è da anni e grazie al web elemento protagonista della minaccia ibrida». Quindici, venti minuti di lettura (per stare larghi) e della famigerata “lista di proscrizione” restano sei italiani ritenuti “diffusori di notizie filorusse” nell’ambito del conflitto russo-ucraino. Riportiamo qui i nomi solo perché sono estremamente familiari a chiunque di noi segue i talk show serali.

Troviamo Alberto Fazolo, “economista iscritto all’albo dei giornalisti del Lazio come pubblicista” che su La 7 ha detto una sera che “in Ucraina negli ultimi 8 anni sono stati uccisi 80 reporter” introducendo così, si legge nel Bollettino, «un nesso di consequenzialità tra l’elevato numero di decessi dei giornalisti e la presenza sul quel territorio di formazioni para-militari di matrice neonazista (come il battaglione Azov)». Si trova Rolando Dubini, definito come «uno degli utenti più attivi nella pubblicazione di contenuti su canali italiani filo-russi dedicati al sostegno della guerra in Ucraina» e Francesca Donato, eurodeputata ex Lega descritta su Russia Today come “colei che ha votato contro l’invio di armi in Ucraina”. Molto ma molto meno di quello che si potrebbe raccontare di Donato dopo averla ascoltata due sere in tv. Citati anche Giorgio Bianchi, “noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filo-russo”; Rosangela Mattei, nipote di Enrico (una sua intervista è stata “rilanciata sui social da noti influencer antigovernativi e filorussi”) e Francesca Totolo, blogger del Primato nazionale che ha ripreso un tweet di “una campagna mediatica contro il presidente Zelensky”.

Nel Bollettino, tra i “momenti più significativi osservati” si segnala l’intervista rilasciata dal ministro degli Affari esteri russo Lavrov a ZonaBianca su Rete 4” dove “diversi passaggi sono stati ripresi e strumentalizzati in chiave disinformativa”. E poi ci sono i giornalisti russi, i presunti giornalisti, i rappresentanti istituzionali russi ospitati su emittenti televisive italiane, tutti rilanciati con “ampia visibilità” dallo stesso account dell’ ambasciata russa in Italia. Francamente, ciascun giornalista italiano che segue l’attualità sarebbe stato in grado di redarre un report forse anche più ricco e stimolante di questo. Così come ciascun giornalista italiano, una settimana dopo l’inizio della guerra, ha capito il fenomeno a cui il Bollettino dedica le prime due pagine: i no vax, no mask e no pass erano tutti passati armi e bagagli sulla nuova passerella mediatica, cioè anti Nato e a favore di Putin.

È il partito antisistema che una volta trovava spazio e rappresentanza nel populismo di Lega e 5 Stelle e ora sta con Putin pur di stare contro Draghi e il governo considerati “responsabili dell’aumento dei prezzi e della crisi energetica”. Gabrielli sta valutando l’opportunità di andare avanti con la redazione del Bollettino nato nel 2019 e che è solo la sintesi di un monitoraggio che la Ue ha chiesto di attivare dopo che Brexit e elezione Usa 2016 sono state condizionate da attività di depistaggio e inquinamento via web. Altra cosa è la “manina solerte e che, promette Gabrielli, non resterà impunita”, che ha consegnato ai media il Bollettino.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a  L'Unità.

Giacomo Amadori per “La Verità” l'11 giugno 2022.

Eccolo finalmente il report sui «putiniani d'Italia». Per alcuni lo scoop del Corriere della sera di domenica scorsa smascherava una specie di Ovra che da settimane pedinava influencer, giornalisti, parlamentari, manager e lobbisti che parteggiano per la Russia. E per questo, dopo la pubblicazione di nove faccine sul giornale, erano partite accuse contro il governo di produrre liste di proscrizione. Accuse respinte da un indignato sottosegretario (con delega ai servizi) Franco Gabrielli, il quale ha «declassificato» il documento, indetto una conferenza stampa e consegnato ai giornalisti il tanto vituperato documento non più riservato. Sette pagine di informazioni raccolte su fonti aperte dai reparti cyber dei nostri servizi. Nessun dato sensibile riguardante i soggetti citati, solo lunghe dissertazioni sulle loro opinioni e sulla gestione di informazioni più o meno veritiere. 

I cronisti di via Solferino avevano fatto riferimento allo scoperchiamento di «una rete filo Putin complessa e variegata», una macchina ben oliata, che «si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev». Per il Corriere ci troveremmo di fronte a una «realtà che allarma gli apparati di sicurezza perché tenta di orientare, o, peggio, boicottare le scelte del governo». Ma nei report prodotti dal Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che dipende da Palazzo Chigi, tutto questo non c'è, mentre emerge il tentativo, anche un po' grossolano, di denunciare le legittime critiche al governo e di infilare in un unico calderone internauti pro Putin, sovranisti e no vax.

I «cattivi» sono individuati in modo netto: «La disinformazione - in ambito nazionale - viene veicolata da gruppi e canali con un'adesione media rilevata tra le 50.000 utenze (per quelli più visibili e strutturati), sino a un minimo di 10.000. Tali gruppi si caratterizzano per i profili di contiguità con i movimenti antisistema no vax, no greenpass, nonché con forme associative locali che espongono una chiara posizione ideologica filorussa ed eurasiatista, sovrapponendosi a narrative di matrice sovranista e nazionalista». Gli analisti evidenziano come, all'interno di «narrative inedite» e «anti atlantiste», fiocchino sulla Rete le critiche (ovviamente ingiuste a giudizio dei dipendenti di Chigi) al premier Mario Draghi, «ritenuto responsabile dell'aumento dei prezzi» e «di aver colpito il popolo italiano con misure sanitarie inutili e di trascinare il Paese in guerra». 

Nel report vengono citati articoli e video prodotti in Italia e rilanciati da soggetti istituzionali russi, anche se Mosca non viene individuata come committente. Essere apprezzati (anche a propria insaputa) al Cremlino e dintorni sembrerebbe colpa imperdonabile.

È finito nella lista nera anche «un documentario sulla tematica della russofobia, mandato in onda sull'emittente Russia Today con traduzione in italiano, all'interno del quale si fa riferimento diretto all'eurodeputata Francesca Donato, descritta come colei che ha votato contro l'invio di armi in Ucraina». Agli analisti non piacciono neanche i siti maurizioblondet.it e L'antidiplomatico e i canali «Roberto Nuzzo» e «Russia amica» che, «portando avanti una campagna di disinformazione all'interno di comunità italiane e francesi», «rilancia informazioni estrapolate da account Twitter riconducibili al Cremlino» ed è «particolarmente attivo nella diffusione di contenuti nell'ambito delle principali comunità online no vax». Alcune interviste finiscono nel mirino solo perché rilanciate «sui social da noti influencer antigovernativi e filorussi», come è accaduto con le dichiarazioni rilasciate al nostro giornale da Rosangela Mattei (la nipote di Enrico), colpevole di aver descritto il premier come «troppo amico degli americani».

Anche il successo dell'intervista del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, trasmessa da Zona Bianca su Rete 4 sembra aver scombussolato gli uomini del Dis, a detta dei quali la trasmissione con il politico «ha catalizzato a lungo il dibattito sulle principali piattaforme social (e non solo su queste), nel cui ambito diversi passaggi dell'intervento sono stati ripresi e strumentalizzati in chiave disinformativa». Su pagine Web riconducibili «alla matrice sovranista», qualcuno sarebbe addirittura arrivato a indicare «l'evento mediatico quale esempio lampante di libertà di stampa». Comunque nel documento non ci sono schedatura e le citazioni sono per lo più incidentali. Il canale Giubbe Rosse, «noto per la matrice ideologico eurasiatista (fondato dal filosofo Aleksandr Dugin, ndr)», avrebbe «fortemente criticato l'operato del senatore Alfonso Urso», il presidente del Copasir di cui viene storpiato il nome di battesimo (Adolfo).

I contenuti di questo sito sarebbero stati colpevolmente «rilanciati dal canale riferibile a Giorgio Bianchi, noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso». La blogger Francesca Totolo è ricordata per aver ripreso un tweet critico di un «partito conservatore olandese» sul presunto patrimonio milionario del presidente ucraino Zelensky. Un'«insinuazione» ritenuta evidentemente imperdonabile. Inchiodato alle sue responsabilità anche l'economista e giornalista Alberto Fazolo, per i conti errati sui reporter uccisi in Ucraina negli ultimi otto anni: non sarebbero 80, ma 40. 

È finito sul report (ma non sul Corriere) anche Rolando Dubini, gestore del sito Facebook che ha promosso, attraverso il Comitato Ucraina antifascista», una manifestazione milanese pro Russia. L'apparentemente innocuo hashtag #Finlandia sarebbe utilizzato «dai disinformatori per diffondere la retorica tendenziosa secondo la quale la Nato starebbe continuando il proprio progetto di espansione a Oriente, noncurante delle gravi conseguenze e della destabilizzazione geopolitica che ciò implicherebbe». Nel mirino anche il canale del sito Web «di disinformazione italiana "Visione Tv"», che avrebbe «strumentalizzato» niente meno che le parole del Pontefice in chiave anti Nato.

Ma i cyberesperti evidenziano anche la presunta «inversione del trend della disinformazione». Infatti «sarebbe in atto un rallentamento dell'attivismo online della Russia, a favore di una posizione difensiva basata sulla controdeduzione, in chiave pro Cremlino, delle notizie provenienti dall'Ucraina e dall'Occidente, definite come fake news». Una tendenza che al Corriere, però, si sono dimenticati di sottolineare.

DAGONOTA l'11 giugno 2022.

La figura barbina del Corriere! Lo scoop patacca sulla "lista dei putiniani" è soprattutto lo specchio dello stato disastroso in cui versa il giornalismo italiano. Ieri Cazzullo a La 7 (di proprietà di Cairo, come il Corriere) per giustificare il fatto che 6 nomi assenti dal documento desecretato da Gabrielli erano stati "aggiunti" dal suo giornale, ha detto che il report era in realtà solo una sintesi di un carteggio più ampio arrivato alle colleghe Sarzanini e Guerzoni.

Peccato che nemmeno oggi - nell' arrampicata sugli specchi del Corriere per giustificare il suo operato - non si capisca da dove le giornaliste abbiano tirato fuori nomi "pesanti" come quelli di Orsini e del senatore Petrocelli. 

Altro paradosso: il pessimo lavoro del giornale più istituzionale d'Italia ha indebolito il Dis della Belloni, la posizione di Gabrielli e quella del presidente del Consiglio, tirati dentro una polemica sul nulla da chi non vedeva l'ora di strumentalizzare un finto scandalo per attaccare Draghi e i suoi collaboratori. Indebolendo proprio le più importanti istituzioni del Paese. E tutto grazie a un report informativo di poco valore ingigantito da Corriere.

In un paese normale uno scandalo del genere segnerebbe la fine di carriere giornalistiche (e non solo), ma siamo in Italia. Per fortuna della redazione di quello che un tempo era il giornale più autorevole e rispettato.

Claudio Antonelli per "La Verità" l'11 giugno 2022.

Prima vera conferenza stampa politica per il sottosegretario ai Servizi, Franco Gabrielli. Dopo le polemiche scatenate dalla diffusione di un report prodotto dal Dis da parte del Corriere della Sera e dopo un confronto con il Copasir, il delegato all'intelligence ha sentito la necessità di indire un punto stampa e desegretare il documento, fino a ieri mattina classificato come «riservato».

Dopo averne illustrato il metodo di realizzo tramite la scansione del Web e la raccolta di informazioni anche numeriche, i contenuti e le finalità, ha spiegato che è stato realizzato nell'ambito del Comitato sulla disinformazione (costituito nel 2019) a cui partecipano esponenti del Dis, rappresentati, anche a turnazione, dell'Aisi, Aise, l'ufficio del consigliere militare del premier, delegati del ministero degli Esteri, dell'Interno e della Difesa. 

Mentre solo dallo scorso febbraio sarebbero presenti anche il Dipartimento dell'editoria, il Mise, l'Agenzia nazionale della cybersecurity e l'Agcom. Insomma, una folta rappresentanza da cui, per usare il termine dello stesso Gabrielli (collegato da remoto per via del Covid), è spuntata una «mano lesta» che ha girato ai giornalisti del Corriere il file già l'indomani, sabato 4 giugno.

«Questa vicenda», ha spiegato il sottosegretario, «impone delle riflessioni. Se un documento che non contiene nulla di particolarmente rilevante per la sicurezza nazionale ha finalità positive ma poi genera un costo così elevato, significa che bisogna prendere provvedimenti». Visto che i report del Dis non crescono sugli alberi, per Gabrielli è gravissimo che il bollettino sia stato diffuso e «chi mi conosce sa», ha aggiunto, «che il fatto non resterà impunito. Lo dobbiamo al Paese, alla credibilità di un comparto al quale - e lo so perché ci lavoro da tempo - appartengono persone di cui faremmo volentieri a meno, ma ci sono tanti altri professionisti che svolgono il proprio lavoro con serietà e dedizioni. A questi ultimi dovremo dare risposte chiare». Cosa intenda Gabrielli per «il fatto non resterà impunito» forse lo capiremo fra qualche settimana.

Ma le frasi sopra sono pesantissime, tanto più alla luce di mandato decisamente ampio.

Va ricordato inoltre che il suo arrivo, in parallelo con la nomina di Elisabetta Belloni, era mirato ad avviare l'Agenzia nazionale per la cyber security e fare pure una sorta di repulisti della precedente gestione. Il riferimento è al periodo di Giuseppe Conte, alle deleghe che il premier giallorosso non ha mai mollato e all'attività di Gennaro Vecchione, precedente direttore del Dis. Non possiamo dimenticare che uno degli elementi che ha spezzato la precedente maggioranza e consentito l'arrivo di Draghi è stato proprio il bliz di Conte sull'Agenzia della cyber. Il tentativo, notte tempo, di creare una Fondazione tutta interna al Dis ha fatto intervenire i ministri del Pd, di Iv e pure l'opposizione. Da lì l'effetto valanga. L'importanza dell'agenzia la si comprende anche dalla fretta con cui è stata avviata appena giunto Draghi a Palazzo Chigi.

A quel punto, messa in sicurezza l'Acn, era chiaro che l'arrivo della Belloni al Dis avrebbe dovuto consentire una stretta dei bulloni che si erano allentati. Magari con l'ingresso di professionalità un po' troppo esterne alla macchina. 

La vicenda della candidatura della Belloni al Colle ha non solo interrotto il riassetto, ma anche di nuovo mischiato le carte. Dalle parole di Gabrielli si comprende che il riassetto potrebbe ripartire ora. D'altronde, la conferenza stampa non è certo stata indetta contro il Corriere. Anzi lo stesso Gabrielli ha elogiato l'opportunità delle domande di una delle autrici del bollente articolo, guarda caso sull'eventualità di usare i servizi per monitorare le attività di disinformazione e influenza del popolo italiano da parte di Stati esteri. Insomma, linea sottile quella tra repressione delle opinioni e lotta alle fake news.

Certamente, i fendenti di Gabrielli ricadranno su coloro che dentro gli apparati o le istituzioni hanno pensato bene di fare uscire il report e mettere il governo in difficoltà, di descriverlo come uno schedatore di dissidenti. Un'ipotesi non troppo peregrina. C'è infatti da comprendere un'ultima anomalia. 

Il comitato sulla disinformazione si è riunito solo quattro volte prima del 2022 e altrettante (partorendo 4 report, forse contenenti gli altri nomi citati dal Corriere) a partire da febbraio. Un dettaglio importante. Soltanto l'ultimo dei report è stato inviato al Copasir, il quale, nella persona del presidente Adolfo Urso, l'ha ricevuto lunedì 6 giugno alle ore 10. Tre giorni dopo la riunione e due dopo l'invio al Corriere. Perché gli altri report non sono stati condivisi? 

Certo, in questo Urso è citato in prima persona quale vittima di accuse e di attenzione da siti pro Russia e, inoltre, da un mese il Comitato ha avviato interlocuzioni con i vertici Rai e Agcom sulla presenza di russi nei talk show. Però gli stessi che hanno diffuso il report secretato avrebbero potuto voler tirar dentro il Copasir. Nel secondo articolo del Corriere, quello uscito lunedì mattina, si cita il Copasir come se abbia avuto un ruolo attivo nell'avvio del report e quindi nella presunta schedature dei filo Putin.

Cosa non vera, perché Urso ha ricevuto il file per ultimo. I rappresentanti del Copasir saranno da lunedì a mercoledì prossimi negli Usa. Incontreranno i colleghi del Selecte Committe on Intelligence. Parleranno di collaborazione e forse delle reciproche analisi sui tentativi di infiltrazione cinese. Screditare il Copasir alla vigilia di un viaggio così delicato avrebbe potuto far comodo a qualcuno.

Lista putiniani, il report diventa un caso: perché Alessandro Orsini e altri 5 nomi non ci sono nel bollettino.

Giada Oricchio su Il Tempo l'11 giugno 2022.

Putiniani a chi? I nomi non tornano. Franco Gabrielli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti, ha chiesto al Dis e ottenuto di declassificare il bollettino sulla disinformazione del conflitto russo-ucraino all’origine dell’articolo apparso il 5 giugno scorso sul Corriere della Sera in merito alla rete di giornalisti, influencer e opinionisti italiani accusati di diffondere la propaganda del Cremlino sull’invasione dell’Ucraina. La notizia, corredata da foto, ha scatenato una bufera e indignato una parte della stampa che ha gridato alle liste di proscrizione.

Nel report si legge che “il perdurare del conflitto russo-ucraino fa registrare una diffusione trasversale della narrativa tra le varie piattaforme”. Si confermano la rilevante diffusione del fenomeno su Telegram (seguono Facebook e Twitter) e una certa continuità con la disinformazione attuata in merito alla pandemia da Covid-1 9. Inoltre, la linea narrativa pro Cremlino si adatta al target specifico di ognuno di questi social network.

Tuttavia, come rileva anche il sito Dagospia, c’è una stranezza: nel documento dei servizi segreti si citano Giorgio Bianchi del canale Telegram “Giubbe Rosse”, il canale “Roberto Nuzzo”, la blogger Francesca Totolo, l’economista Alberto Fazolo e il sito “L’antidiplomatico”, ma non c’è traccia dei più noti Alessandro Orsini, professore di sociologia, Vito Petrocelli, senatore M5S ed ex capo della Commissione esteri,  Manlio Dinucci, Maurizio Vezzosi, Maria Dubikova, Claudio Giordanengo e Laura Ruggeri. Nomi pubblicati, invece, dal Corriere della Sera e etichettati come “putiniani”. Perché? E in base a quale prova?

Mario Giordano per “La Verità”.

Caro Franco Gabrielli, caro sottosegretario e «autorità delegata alla sicurezza pubblica», le scrivo questa cartolina con un po' di timore. Tutti me lo sconsigliano. «Lascia stare», dicono. 

All'uomo che gestisce per conto del governo i servizi segreti italiani, già capo della Polizia, già direttore del Sisde e dell'Aisi, già prefetto dell'Aquila, prefetto di Roma e capo della Protezione civile, non si possono che rivolgere complimenti e riveriti omaggi. Nonostante le sue origini toscane possano far pensare a una sua capacità innata di apprezzare la schiettezza, gli amici cari mi suggeriscono di non sperimentare sulla mia pelle se questi tratti le siano rimasti attaccati dopo la lunga immersione negli apparati.

Perciò, bando alla schiettezza, rinuncio a ogni sincerità, e la dico che per lei ho solo stima. Lei non ha mai sbagliato nulla. Mai. Anche quando, per dire, nel 2015 era prefetto di Roma e le organizzarono sotto gli occhi quei funerali show dei Casamonica con le carrozze, la musica del Padrino e gli elicotteri che spargevano petali di rosa. Fu colpa del clima di Ferragosto, della distrazione di qualche ufficio, delle informazioni insufficienti, colpa di chi aveva permesso a un elicottero di volare sui cieli della Capitale impunemente per omaggiare un boss. «È accaduto qualcosa che non doveva accadere», disse lei.

Ma nessuno, ovviamente, osò fargliene una colpa. In fondo lei era solo il prefetto, il massimo rappresentante dello Stato, mentre lo Stato veniva umiliato: che poteva farci?

Un'altra dote che tutti le riconoscono è la sua moderazione nelle esternazioni.

Si fatica a trovare qualche sua frase fuori posto. 

Sì, una volta, per esempio, se la prese con gli aquiliani rei di non «aver reagito» abbastanza bene al terremoto e loro non ne furono felici. Ma si sa, questi abruzzesi sono permalosi. E poi, da capo della Polizia, attaccò Matteo Salvini che da ministro dell'Interno osava indossare qualche volta le maglie della Polizia.

Certo: per farlo ha aspettato che Salvini non fosse più ministro, ma sono certo che non è per mancanza di coraggio. Macché. È solo che finché Salvini era al Viminale non le veniva in mente di criticarlo. Proprio non le veniva. Può essere una colpa? 

Ma proprio perché lei è così bravo, mi domando: chi diavolo gliel'ha fatto fare di organizzare la conferenza stampa di venerdì? Come le è saltato in mente di presentarsi a dire «non c'è un dossier sui filo russi» tenendo in mano il suddetto dossier? 

Come pensa di poter essere ancora credibile se il documento che non doveva esistere, esiste a tal punto che viene contestualmente desegretato? Come pensa di poter tranquillizzare gli italiani se si viene a sapere che di documenti segreti per altro non ce n'era solo uno ma addirittura quattro? È normale che in un Paese democratico i servizi segreti stilino liste di persone colpevoli solo di criticare Draghi?

Lei, caro Gabrielli, ha detto che verranno puniti i colpevoli della fuga di notizia. Le scrivo per questa cartolina per pregarla di non farlo: il problema infatti non è chi ha dato la notizia sul dossier, il problema è che esiste il dossier. Anzi, senza la fuga di notizie non sapremmo quanto rischiano la nostra libertà e la democrazia nelle mani di persone come lei. 

Claudio Antonelli per “la Verità” il 13 giugno 2022.

Il 18 maggio scorso il Copasir, comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sente per circa due ore il presidente dell'Agcom, Giacomo Lasorella. Tema: fake news. O meglio, la convocazione viene organizzata la settimana precedente, alla pari di quella del numero uno della Rai Carlo Fuortes, con l'obiettivo di fare chiarezza sulla presenza di ospiti russi o filo russi nei talk show della tivù di Stato. Nel corso dell'audizione di Lasorella, il Copasir apprende che il comitato per la disinformazione, costituito nel 2019 e tornato in piena funzione nel febbraio scorso, ha stilato un report modello Osint sulla presenza di propaganda filo russa nel Web. 

Non sappiamo quanto Lasorella sia entrato nei dettagli, ma la conferma dell'attività di stesura di un bollettino ibrido arriva ai membri del comitato dal direttore del Dis, dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

Il 24 maggio Elisabetta Belloni varca, infatti, le porte di Palazzo San Macuto. L'incontro era già in agenda da tempo, ma è l'occasione per il Copasir di chiedere conferma delle dichiarazioni di Lasorella. Il capo del Dis viene sentito anche sugli altri ambiti di cronaca e sulla possibilità che ci siano influencer giornalisti a libro paga dei russi. 

Non risultano particolari rivelazioni, ma il meccanismo avvia un link con il comitato interministeriale sulla disinformazione tanto che, nella seduta del 3 giugno, come confermato dal sottosegretario Franco Gabrielli nella conferenza stampa di venerdì, viene editato un bollettino spedito tramite busta a San Macuto.

Il contenuto finirà nelle mani del presidente, Adolfo Urso, alle 10 del mattino di lunedì 6 giugno. Il Corriere con una serie di imprecisioni aveva dato conto del bollettino già la domenica, titolando la pagina: «La lista dei filo Putin». Inserendo foto e nomi di professori od opinionisti non presenti nel bollettino. Questo perché fino alla desegretazione fatta da Gabrielli, in occasione della conferenza stampa, nessuno pubblicamente ventila l'ipotesi di altri report. La realtà è che ne esistono quattro. Cosa che ha spinto il Copasir a rivolgersi direttamente all'Autorità delegata per chiedere l'acquisizione degli atti.

Cioè degli altri tre bollettini.

Il vice direttore del Corriere, Aldo Cazzullo, si è spinto a dire in tivù che quello reso pubblico è solo un «bigino» del lavoro del Dis, e che il Corriere avrebbe reso conto della totalità dei report. L'indomani le affermazioni di Cazzullo vengono smentite dai colleghi operativi che infatti si sono limitati a raccontare ciò che era da subito chiaro. Il Corriere aveva sbirciato anche gli altri report. Generati con lo stesso schema: un po' attività Osint e un po' commento politico sugli oppositori online di Mario Draghi. È quindi importante che il Copasir acquisisca il resto del materiale che andrebbe desegretato (al pari del quarto bollettino) per verificare con certezza se vi sia e con quale riferimento il nome di Vito Petrocelli, grillino fino a poco tempo fa presidente della Commissione Esteri del Senato spinto alle dimissioni per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina. Il tema di fondo è questo.

Il mandato del Copasir è vigilare sui servizi ed evitare che essi possano occuparsi di un parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni, anche ove propenso a dire bestialità. Così come sarà importante verificare se il tentativo di far passare il Copasir come parte attiva (Il Corriere riportava richieste e attenzioni del Comitato in relazione al report) sia stato un semplice pasticcio o un modo per ammantare di ulteriore valenza politica un report che di per sé viaggia molto sul filo del rasoio: la stessa linea che separa l'esercizio delle opinioni dalle cosiddette fake news.

Tanto più nel momento in cui ben sei membri del Comitato sono oggi in partenza per gli Stati Uniti. Organizzati incontri a livello di Congresso, con i membri del Select committee on intelligence, l'equivalente del Copasir, e anche del Cfius, comitato sugli investimenti esteri. Una sorta di comitato del golden power. Tra i temi sarà toccato quello dell'influenza cinese nei rispettivi Paesi. Il giorno in cui si riuniva il comitato sulla disinformazione, il Copasir sentiva in modo informale Patrick Shiflett, senior national officer dell'Fbi.

Organizzato tramite ambasciata, l'incontro ha toccato il tema dell'inchiesta dei fondi cinesi e nell'articolo del Corriere si faceva esplicito riferimento ad attività investigative contro Donald Trump. Molto strano visto che l'Fbi ha non tali competenze, né all'estero né in Patria. Dall'articolo, salvo mettere in connessione la visita con l'audizione del funzionario Usa, non si capiva chi avesse più interesse: gli americani a ricevere informazioni dall'Italia relative a dossier anti Cina e magari anti Trump, o vice versa?

I temi aperti, infatti, sono più di uno. Basti pensare all'Italygate e all'incredibile vicenda di Joseph Mifsud, ancora oggi dissolto nelle nebbie del Russiagate. Più semplicemente, il Copasir e i comitati gemelli Usa parleranno di normative golden power e del pericolo delle guerre ibride, soprattutto quelle finanziate dai cinesi. Tema estremamente d'attualità. Ormai è chiaro che dietro numerose attività dell'intelligence russa ci sono spesso denari e finanziamenti di Pechino.

Italian pravda. Così la disinformazione russa viene alimentata dai putiniani a loro insaputa. Giuliano Cazzola su Linkiesta il 14 Giugno 2022.

Lo strano caso della propaganda del Cremlino che nasce in Italia senza avere bisogno di aiutini o altro da Mosca.

Franco Gabrielli, in conferenza stampa, ha reso noto che esiste da tempo un’opera di monitoraggio sulla disinformazione i cui esiti vengono periodicamente raccolti e pubblicati in un Bollettino che «compendia l’attività di uno specifico tavolo creato nel 2019, coordinato dal Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, ndr)». Pertanto nessun dossieraggio; nessuna lista di proscrizione. A me, però, è rimasta l’impressione che il sottosegretario abbia voluto ricondurre a normale routine l’azione di monitoraggio, allo scopo di ridimensionare, nell’opinione pubblica, la gravità del fenomeno disinformazione.

Negli Stati Uniti le operazioni informative di Vladimir Putin sono state prese sul serio. Il Congresso ha impiegato tre anni di indagini, ha pubblicato un rapporto di mille pagine con la seguente conclusione: nel 2016 ci fu una grande rete di contatti tra la Russia di Putin e diversi consiglieri della campagna elettorale di Donald Trump per interferire sulle elezioni presidenziali a favore di Trump. 

Il rapporto della commissione Intelligence del Senato (dove il partito repubblicano aveva la maggioranza) conferì un imprimatur bipartisan ai sospetti che da tre anni hanno assediato la Casa Bianca: il cosiddetto Russiagate non fu un’invenzione dei media ma una precisa strategia coordinata dal Cremlino che cercò di influenzare il risultato elettorale a favore di Donald Trump «quando possibile screditando» la sfidante democratica Hillary Clinton e «contrastando pubblicamente lei a favore di lui».

Nelle elezioni del 2021, invece, uno degli elementi chiave della strategia di Mosca è stato quello di sfruttare persone legate all’intelligence russa per diffondere accuse infondate (per colpire l’opinione pubblica americana) contro il presidente Biden attraverso media, funzionari e personalità di spicco americani, alcuni dei quali, come già anticipato, molto vicini al presidente Donald Trump e alla sua amministrazione.

Se si approfondiscono meglio le modalità della attività di influenza informatica, ci si imbatte in uno stillicidio di fake news che viaggiano sui social allo scopo di raggiungere il maggior numero di persone possibile, per fare di loro degli ulteriori diffusori, ciascuno nel suo ambito; e, quando vi siano le condizioni, di influire sui media soprattutto televisivi. Non è però una storia solo americana.

A oggi, il team di NewsGuard ha identificato e sta monitorando 229 domini – alcuni dei quali hanno già dato spazio in passato a propaganda e disinformazione filo-russe – che hanno pubblicato informazioni false sul conflitto tra Russia e Ucraina. Ben 25 trasmettono in lingua italiana. 

Da noi la rivista Affari Internazionali (dell’autorevole IAI) ha affrontato compiutamente i tre livelli operativi della propaganda russa: uno tattico per confondere le unità nemiche e guadagnare l’iniziativa militare; uno operativo e strategico per ammorbidire le popolazioni dei Paesi in cui l’esercito russo opera e minimizzarne la volontà di resistenza; e infine uno politico e strategico a lungo termine per influenzare le élites di un Paese terzo.

La guerra in Ucraina dimostra – secondo l’articolo – quanto queste tre dimensioni siano fra loro complementari e contribuiscano ad amplificare gli effetti delle decisioni politiche e militari assunte da Mosca. L’obiettivo di tali azioni è quello di infittire la nebbia di guerra, seminando dubbi sugli eventi al fronte e indebolendo la posizione di chi sostiene il diritto di Kyiv di difendersi da un esercito colpevole di crimini di guerra. 

A partire dal 24 febbraio 2022, la Russia ha provato effettivamente a raccogliere i frutti di quanto seminato nel corso degli ultimi dieci anni. In Italia tale campagna ha sfruttato in primis la spontanea prossimità delle élites del paese alle posizioni del Cremlino. 

Già nel 2019, venne osservato che, a prescindere dal loro colore politico, tutti i governi hanno favorito un dialogo incondizionato con la Russia. Il contesto politico italiano ha in ogni caso fornito alla dialettica russa un terreno fertile. 

Dopo il 2014-2015, il senso di subalternità politica a Berlino e Parigi è stato cavalcato mediante la diffusione di fake news riguardanti gli effetti delle sanzioni sull’economia italiana, prestando in tal modo argomenti per chi – a Roma – ha sempre favorito uno stretto rapporto commerciale con Mosca. Contribuendo a deviare l’attenzione del pubblico dall’aggressione russa verso dibattiti come quello sull’ipotetica co-belligeranza della Nato, Mosca cerca di sfruttare tendenze pregresse proprie del panorama dell’opinione pubblica italiana per indebolire la posizione politica di Roma e seminare zizzania nella comunità euroatlantica.

Un vantaggio della propaganda indirizzata alle élite – spesso supportata da viaggi pagati nella Crimea occupata, facilitazioni agli investimenti, interviste esclusive o trattamenti di favore – risiede nel fatto che gli individui coinvolti agiscono da moltiplicatori di influenza, portando le narrazioni approvate dal Cremlino a diversi pubblici già da loro fidelizzati. Ciò permette di subappaltare de facto la parte più difficile delle operazioni propagandistiche, ovvero l’ancoraggio del proprio messaggio a specifiche situazioni politiche e la conversione di tali operazioni informative rivolte alle élite in una propaganda fruibile dall’intera popolazione.

In Italia, l’apice di questo approccio – secondo la rivista – è stata la missione delle forze armate russe nella zona di Bergamo durante le prime fasi della pandemia, missione che, nonostante il modesto contributo nella lotta al virus da Covid-19, ha dato lustro alla Russia e alla sua virus diplomacy.

Secondo Affari internazionali tuttavia la strategia russa rivolta ai leader d’opinione italiani sembra aver avuto un impatto limitato a fronte di una classe dirigente italiana mostratasi (grazie al governo Draghi) meno ricettiva, perché la propaganda e la disinformazione sono efficaci solo se il contesto politico lo permette. Ma proprio questo è il punto. 

La domanda che si pone la rivista è se abbia senso percepire come un successo russo attitudini politiche che sembrano piuttosto il portato di processi e percezioni tutti interni all’Italia e che trovano nella propaganda russa solo una propria espressione. Quest’ultima considerazione, ad avviso di chi scrive, costituisce la pietra d’angolo del dossier Ucraina. 

In sostanza, la disinformazione in certi ambienti viene prodotta in proprio; anzi – mi sentirei di aggiungere – capita che siano gli amici di Putin a loro insaputa a imbeccare la propaganda del Cremlino. Un caso per tutti: la versione di Sergei Lavrov a proposito della cosiddetta messa in scena sulla strage di Bucha, ha il copyright di un ex corrispondente di guerra italiano, la cui ricostruzione è stata diffusa dai nostri talk show, praticamente senza contraddittorio con i corrispondenti che si trovavano sul posto. 

L’area filo-russa si interseca – fino a giustapporsi in taluni casi – con quella collaudata dei no vax, tuttora operativa. Questo movimento si è dotato di una vera e propria piattaforma molto attiva e presente di controinformazione, ha fondato una casa editrice che pubblica gli scritti dei santoni antivaccino, promuove iniziative che hanno parecchio influenzato l’opinione pubblica, giocando su più livelli di narrazione: quella popolare/politica attinente alle congiure dei poteri forti, al profitto di Big Pharma, al grande reset tramite iniezione, quella pseudo scientifica sugli effetti collaterali e/o sulle terapie alternative. 

Tutto ciò premesso – anche nella prospettiva di una nuova guerra fredda – dovrebbe essere di conforto sapere che i servizi stanno vigilando. 

Putiniani d'Italia, ecco i documenti che mancano: chi ha passato le carte al Corriere?. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 12 giugno 2022.

Il caso non è risolto. Perché il sottosegretario Franco Gabrielli ha chiesto (e ottenuto) dal Dis la desecretazione di un solo bollettino sulla "disinformazione" nel conflitto russo-ucraino. Ce ne sono quattro. Gli altri tre restano riservati. E questo spiegherebbe perché la conta dei filo-putiniani non torna. Nel "hybrid bulletin" declassificato - una sorta di rassegna stampa ragionata sui canali che diffondono "fake news" contro Nato, Ucraina, Usa e pro Cremlino - sono menzionati cinque soggetti. Negli articoli del Corriere che ha fatto esplodere il caso delle "liste di proscrizione" si citavano anche altri nominativi. Che, evidentemente, sono presenti nelle diverse edizioni del resoconto, quelle che sono ancora classificate come riservate. Ma parimenti sfuggite alla regola della riservatezza. Esempio: all'appello mancano freelance, influencer e studiosi come Manlio Dinucci, Maurizio Vezzosi, Alessandro Orsini, Laura Ruggeri, Maria Dubovikova. E lo stesso Vito Petrocelli, ex presidente della Commissione Esteri del Senato, noto per le sue simpatie moscovite.

Ora: Gabrielli ha giurato che nessuno di questi soggetti, men che meno quelli che siedono in Parlamento, è stato obiettivo di indagini da parte dell'intelligence. E, in effetti, dalla lettura del bollettino desecretato viene fuori l'attività di reportistica realizzata dal Dis, in collaborazione con i servizi interni, esterni e la Farnesina. Nient' altro. Resta il fatto che la vicenda ha imbarazzato Mario Draghi. E la circostanza che Gabrielli abbia voluto scegliere la trasparenza, ma desecretando solo una parte del materiale veicolato, non aiuta a chiudere il caso. Il sottosegretario con delega ai Servizi è furente per la fuga di notizie. E non ha fatto nulla per dissimulare il disappunto durante la conferenza stampa di venerdì. Il bollettino sulla "disinformazione" è la sintesi del lavoro di un tavolo al quale partecipano, tra gli altri, Servizi, Presidenza del Consiglio, Esteri, Difesa, Interno, Agcom. Poi, una volta redatto, il resoconto viene spedito al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Insomma passa di mano in mano. Troppo. Tant' è che, se da un lato Gabrielli annuncia che la fuga di notizie non resterà impunita, dall'altro, per il futuro, si potrebbe interrompere la prassi del tavolo allargato. Per evitare la tentazione che qualcuno faccia circolare altro materiale riservato, mettendo in ambasce il governo. Con il premier che si ritrova additato come quello che vuole reprimere il dissenso, compilando liste di eretici da mettere all'indice. 

Draghi ha già i suoi problemi nel tenere unita la maggioranza sulla politica estera. La coalizione è alla ricerca di un compromesso sulla risoluzione da presentare in vista delle comunicazioni del capo del governo che precederanno il Consiglio europeo del 23 e 24 giugno. 5 Stelle e Lega chiedono uno stop all'invio di armi a Kiev e premono affinché vi sia una richiesta di ripresa del negoziato. E questo è il fuoco amico. Il fuoco nemico è contenuto nell'"Hybrid bulletin". Dove si dà conto della narrativa veicolata dalla propaganda russa per colpire Draghi, «ritenuto responsabile - con la linea adottata dal suo governo - dell'aumento dei prezzi di generi alimentari ed energetici, della chiusura di aziende, nonché di avere colpito il popolo italiano con misure sanitarie inutili e di trascinare il Paese in guerra». Il caso comunque non finisce qui. «C'è un problema di serietà e di trasparenza che deve essere affrontato dal Parlamento nel suo complesso», dichiara il senatore azzurro Maurizio Gasparri, «Chi ha sbagliato deve pagare». La verità non la sapremo mai, dice Massimo Cacciari, filosofo finito in vari elenchi di non-allineati: «Mi piacerebbe sapere se questa farsa l'abbia commissionata il governo, se sia frutto di qualche scriteriato all'interno dei Servizi, chi l'abbia trasmessa ai giornali. Ma figuriamoci se lo sapremo mai». 

Giacomo Amadori per “La Verità” il 13 giugno 2022.

È partita la caccia alla talpa che ha consegnato ai giornalisti del Corriere della sera il report riservato (il grado più basso di segretezza in una scala di 5 - riservato, riservatissimo, segreto, segretissimo, segretissimo Nato) sulla presunta disinformazione in Italia. A quanto risulta alla Verità i sospetti si stanno concentrando su un dirigente che avrebbe rapporti datati con una delle giornaliste che hanno pubblicato l'articolo. Va detto però che la lista dei possibili protagonisti della fuga di notizie è piuttosto variegata.

L'elenco è ampio visto che all'ultima riunione del tavolo sulla cosiddetta minaccia ibrida della disinformazione, che dal 2019 si sarebbe riunito meno di una decina di volte, avrebbero partecipato esponenti dei nostri apparati di sicurezza (Dis, Aisi e Aise), dei ministeri degli Affari esteri, dell'Interno, della Difesa e dello Sviluppo economico (coinvolto nell'oscuramento di alcuni canali tv), del Dipartimento dell'informazione e dell'editoria che dipende da Palazzo Chigi, della neonata agenzia per la cybersicurezza nazionale e dell'Agcom.

Ma il documento potrebbe non necessariamente essere stato consegnato alle croniste da uno dei partecipanti alla riunione sopracitata, ma essere uscito da un cassetto di un ufficio di piazza Dante, sede del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, dove si riunisce il gruppo di lavoro.

La talpa certamente starà tremando dopo aver sentito le dure parole pronunciate da Gabrielli, che vale la pena riportare: «È una cosa gravissima e che ha creato grande discredito. Ovviamente per chi mi conosce sa che nulla rimarrà impunito». Ha spiegato di doverlo al Paese e alla credibilità della nostra intelligence che ha ricordato di frequentare da lustri (è stato direttore dell'Aisi) e in cui, purtroppo, «ci sono persone di cui volentieri faremmo a meno». Nell'interesse degli 007 perbene invece ha promesso «adeguate risposte». Parole che potrebbero far pensare che Gabrielli abbia chiaro in testa chi ci sia dietro alla fuga di notizie.

Questa caccia all'uomo (o alla donna) non si deve, però, alle informazioni contenute nel bollettino, la cui divulgazione non rappresenta in alcun modo «un pericolo per la sicurezza nazionale». La fuga di notizie ha creato indubitabile imbarazzo. Infatti, anche se Gabrielli ha negato dossieraggi di semplici cittadini, di giornalisti o di politici, le spiegazioni non hanno convinto. Infatti nel report ci sono i nomi di soggetti accusati solamente di avere posizioni più o meno filorusse. 

Il sottosegretario ha provato a minimizzare: «Le persone citate nel bollettino lo sono con riferimento a due vicende molto specifiche non alle loro opinioni». Non è proprio così, ma pazienza. L'ex capo della Polizia ritiene diffamatoria qualsiasi ipotesi di «attività di penetrazione informativa» ordinata da Palazzo Chigi. Nessun indirizzo in tal senso sarebbe stato dato ai servizi dal suo ufficio di autorità delegata. Ma ha ammesso l'esistenza di «un lavoro di intelligence sulle fonti aperte».

Quando i giornalisti gli hanno chiesto se esista una propaganda organizzata a colpi di fake news anche per condizionare il Parlamento, Gabrielli si è quasi illuminato e ha ricordato che la disinformazione è la «figlia minore della modalità con la quale si possono recare danni significativi alla sicurezza di uno Stato». Poi ha ribadito: «Le opinioni anche quelle non consone ai propri pensieri devono essere sempre rispettate. Cosa diversa sono le fake news e l'attività volta a una diversa» e non meglio identificata «orchestrazione», di qualche rete straniera, che, qualora individuata, «potrebbe essere oggetto di un'attività di altro tipo». Insomma, da quel monitoraggio blando si può passare a investigazioni più invasive. Perché le «insidie» possono nascondersi dappertutto ed è questo il motivo per cui siamo tutti potenzialmente sotto osservazione.

La «minaccia ibrida» dunque è un babau che consente di monitorare l'intera popolazione. Non esiste Grande fratello, ma forse un Piccolo fratellino sì. Un occhiuto controllo che si giustifica con il solito leit-motiv: è l'Ue che ce lo chiede (insieme con i «partner atlantici»). 

Bruxelles ci avrebbe invitato a «fare un focus sulla disinformazione perché è ovvio che esistano anche delle intenzionalità, delle etero direzioni di questi fenomeni»: «Siamo in una lista di Paesi ostili e quindi possono essere posti in essere comportamenti che attengono alla minaccia ibrida», ha avvertito Gabrielli. Alla fine le analisi «hanno eminentemente un carattere ricognitivo» con un però: «Nell'ambito delle singole responsabilità i soggetti che partecipano al tavolo hanno la possibilità di sviluppare» gli approfondimenti.

Ai benpensanti e a chi si scandalizza per questo monitoraggio Gabrielli ha rinfrescato la memoria un po' stizzito, ricordando la vicenda di Cambridge analityca, la società di consulenza che era in grado di influenzare le campagne elettorali grazie a Internet. I veri target dell'attività dei nostri 007 sarebbero i cittadini che diffondono la propaganda e le fake news di potenze straniere in cambio di denaro o per altri inconfessabili motivi. Ma intanto nella rete degli analisti finiscono anche le libere opinioni.

È questo il motivo che probabilmente ha portato Gabrielli ad annunciare provvedimenti disciplinari senza troppi giri di parole: «Il documento è arrivato nelle mani dei giornalisti non perché è sceso dal cielo» ma grazie a «qualche mano solerte». Così per questioni «minimali e marginali» sarebbe stato gettato «grande discredito» sui nostri servizi segreti. E tutto questo per colpa del «vezzo di passare le carte di qualche infedele operatore». 

La conseguenza di questo pasticcio, però, non sarebbe né quello di desegretare questi report, né quello di cambiare le modalità di raccolta delle informazioni da inserire nei documenti classificati, magari trascrivendo solo ciò che merita veramente e non materiale disordinato raccolto con la pesca a strascico. No, la soluzione pare essere la cancellazione del tavolo sulla minaccia ibrida: «Sicuramente questa vicenda ci pone delle riflessioni perché se poi il risultato ipoteticamente positivo ha un prezzo così alto è ovvio che si pone una riflessione sull'utilità» del gruppo di lavoro, dal momento che nei report «non si raccontano cose particolarmente significative sotto il profilo della sicurezza nazionale» ha concluso Gabrielli.

Quindi avremo il nostro capro espiatorio, non avremo più il tavolo, mentre continueremo ad avere cyber analisti che controllano quello che scriviamo sui social o sui siti Internet. Conviene farsene una ragione. Nessun governo di destra o di sinistra rinuncerà mai ai suoi strumenti di controllo. Tanto più in periodi difficili come quelli che viviamo.

Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” il 17 giugno 2022.

I nomi del professor Alessandro Orsini, dell'ex presidente della commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli e di altre persone citate dal Corriere della Sera nell'articolo del 5 giugno sui "putiniani d'Italia" non compaiono nei primi tre bollettini sulla cosiddetta "disinformazione" redatti tra febbraio e aprile dal Dis […] 

Non c'erano nel quarto Hybrid Bulletin, declassificato su impulso del sottosegretario ai Servizi, Franco Gabrielli, per respingere l'accusa di "schedature" e "dossieraggi" ai danni di giornalisti e altri oppositori della linea di sostegno militare all'Ucraina. E non ci sono neanche negli altri tre.

La conferma è arrivata martedì sera da Adolfo Urso […] presidente del Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi. […] Urso ha partecipato a DiMartedì […] su La7: "Noi abbiamo chiesto, appreso dell'esistenza, anche dei tre precedenti report - ha detto - e posso dirvi […] che la lista di proscrizione non c'è né nel documento che voi conoscete e nemmeno nei precedenti report".

Il Corriere non ha scritto di una lista elaborata dai Servizi, ma solo di "materiale raccolto" dall'intelligence. A quanto ci risulta, il nome di Orsini e altri pubblicati dal quotidiano compaiono in documenti preparatori giunti al tavolo che elabora i bollettini su notizie provenienti da fonti aperte: il riferimento al professore riguarderebbe un'intervista rilanciata da piattaforme digitali ritenute riconducibili a Mosca. Petrocelli, già espulso dal M5S, non sarebbe invece indicato in alcun modo. 

[…] Sembra concentrarsi su ambienti di intelligence la ricerca di chi abbia trasmesso al Corriere informazioni e forse il documento allora "riservato", ma il 4 giugno l'Hybrid Bulletin era già arrivato anche ad altre amministrazioni.

IL DOCUMENTO SULLA DISINFORMAZIONE IN ITALIA. ECCO IL DOCUMENTO SULLA DISINFORMAZIONE IN ITALIA DA CUI IL “CORRIERE” AVREBBE TIRATO FUORI LA LISTA DEI “PUTINIANI” - C’E’ UN’UNICA GRANDE STRANEZZA: NEL REPORT NON CI SONO TUTTI I NOMI TIRATI IN BALLO DAL QUOTIDIANO - VENGONO SI’ CITATI IL CANALE TELEGRAM “GIUBBE ROSSE” DI GIORGIO BIANCHI, L’ECONOMISTA ALBERTO FAZOLO, IL CANALE “ROBERTO NUZZO”, IL SITO L'ANTIDIPLOMATICO - MA NON V’E’ TRACCIA DI ALESSANDRO ORSINI, VITO PETROCELLI E GLI ALTRI (MANLIO DINUCCI, MAURIZIO VEZZOSI, MARIA DUBIKOVA, CLAUDIO GIORDANENGO E LAURA RUGGERI) - COME MAI QUESTA STRANEZZA? COME SI SPIEGA?

Dagospia il 10 Giugno 2022.  Speciale disinformazione nel conflitto russo-ucraino, periodo 15 aprile-15 maggio, realizzato a cura del DIS, con i contributi di AISE, AISI e MAECI

Il perdurare del conflitto russo-ucraino fa registrare una diffusione trasversale della narrativa tra le varie piattaforme, ma con diversi livelli di coinvolgimento e di capacità di propagazione del messaggio in ragione delle peculiarità di ciascun canale mediatico.

Si conferma la rilevante diffusione del fenomeno su Telegram, attraverso il quale la disinformazione — in ambito nazionale — viene veicolata da gruppi e canali con un'adesione media rilevata tra le 50mila utenze (per quelli più visibili e strutturati), sino ad un minimo di 10mila. Tali gruppi si caratterizzano per i profili di contiguità con i movimenti antisistema no-vax/no-greenpass, nonché con forme associative locali che espongono una chiara posizione ideologica filorussa ed eurasiatista, sovrapponendosi a narrative di matrice sovranista e nazionalista.

Attraverso il medesimo strumento trovano, altresì, continuità le attività condotte dai media Russia Today e Sputnik, impegnati ad aggirare le misure di interdizione adottate nei loro confronti a livello europeo. Uno schema comportamentale simile si registra anche sulla piattaforma Facebook, dove numerosi gruppi — sia pubblici che privati — raccolgono mediamente l'interesse di 10mila utenti ciascuno, veicolando in prevalenza messaggi di propaganda filorussa e di diffuso sostegno simpatetico nei confronti della Russia e del suo Vertice politico, spesso idolatrato e posto in contrapposizione positiva rispetto al Governo italiano. 

Anche i contenuti diffusi su Facebook trovano elementi di continuità con la disinformazione sulla pandemia da Covid-1 9, nonché con il filone delle teorie cospirative. Anche il social media Twitter si conferma cassa di risonanza per fake news e propaganda, con il duplice scopo di aumentare la propagazione del messaggio — soprattutto se originato da canali ufficiali — ovvero di incrementare il rumore di fondo, ostacolando così la ricerca e la verifica della fonte delle informazioni stesse.

Tra i momenti più significativi osservati nel periodo in esame spicca l'intervista rilasciata dal Ministro degli Affari Esteri russo LAVROV a "ZonaBianca", che ha catalizzato a lungo il dibattito sulle principali piattaforme social (e non solo su queste), nel cui ambito diversi passaggi dell'intervento sono stati ripresi e strumentalizzati in chiave disinformativa. 

Tra le tendenze emerse più di recente, si rilevano:

• una inversione di trend della disinformazione russa, la quale ha subito un forte rallentamento nella sua intensità e l'adozione di una postura difensiva. Nel merito; il Cremlino nelle ultime settimane ha messo in atto prevalentemente attività tese ad una controdeduzione delle narrative occidentali e all'ampliamento del consenso interno ed esterno, attraverso l'ingaggio di figure di alto livello con profili social caratterizzati da un grande seguito, unitamente al coinvolgimento di personalità di pregio all'estero;

• un generale rallentamento anche nelle attività di influenza cinesi. 

Le narrative pro Cremlino diffuse via social

A partire dalla seconda metà di aprile, le narrative diffuse sui canali online dalla propaganda russa hanno continuato a riguardare la presenza di biolaboratori occidentali in Ucraino, l'impiego di armi chimiche da parte di quest'ultima come pretesto per operazioni false flag, la denazificazione di quella Nazione, la Russofobia, la brutalità dell'esercito di Kiev in contrapposizione alle presunte gesta eroiche dei soldati russi, nonché la strumentalizzazione dei sondaggi relativi alla guerra e i costanti attacchi all'immagine di Zelensky. In tale quadro, sono state registrate le seguenti narrative inedite:

• le critiche all'operato del Presidente del Consiglio Mario DRAGHI, ritenuto responsabile - con la linea d'azione adottata dal suo Governo - dell'aumento dei prezzi dei generi alimentari ed energetici, della chiusura di numerose aziende, nonché di aver colpito il popolo italiano con misure sanitarie inutili e di trascinare il Paese in guerra. In tale ottica, si evidenzia la contrapposizione, enfatizzata in chiave divisiva da taluni account social, tra la scelta della Germania di non rinunciare al gas russo, tutelando così il popolo tedesco, e quella del Premier DRAGHI, descritto come allineato alle decisioni americane e disinteressato delle sorti del suo popolo;

• la convinzione di un'imminente entrata in guerra dell'Alleanza Atlantica, che starebbe dispiegando equipaggiamento e personale militare ai confini con l'Ucraina, lasciando così presagire un più ampio sviluppo del conflitto; 

• la preparazione, da parte ucraina, di offensive che prevedano l'impiego di sostanze chimiche, fra le quali quelle a base di cloro, per le quali far ricadere la responsabilità sui militari russi (c.d. false flag operation);

• la delegittimazione dell'attività di informazione dei media occidentali circa il conflitto in corso. In tal senso, l'Ambasciata russa in Italia ha condiviso la dichiarazione di Dmitry POLYANSKIY, vice Ambasciatore russo all'ONU, che accusa i media occidentali ed ucraini di ingaggiare una "guerra dell'informazione" a favore del Governo di Kiev, citando una presunta "fabbrica delle fake news" occidentale ed ucraina, unitamente ad una serie di eventi descritti come "provocazioni ucraine" in cui i media occidentali avrebbero avuto il ruolo consensuale di filmare e diffondere avvenimenti creati ad arte; 

• le dichiarazioni stampa del portavoce del Ministero degli Affari Esteri russo, Maria ZAKHAROVA, la quale ha affermato che '7..] Voglio che i cittadini italiani sappiano la verità. Poiché i politici italiani stanno ingannando il loro pubblico [...]. L'iniziativa di condurre interviste non è venuta dal Ministero degli Esteri russo, ma dai giornalisti italiani" definiti dalla stessa come "insistenti" nel richiedere l'intervista;

• il malcontento e la sfiducia dei soldati ucraini prigionieri nei confronti del proprio esercito, accusato dagli stessi, durante presunte interviste rilasciate ai media propagandistici russi, di utilizzare i civili come scudi umani, ovvero di pianificare esecuzioni di massa nella regione di Kharkiv, di cui incolpare l'armata russa; 

• la pianificazione a tavolino del conflitto da parte degli Stati Uniti, che avrebbero inviato droni Switchblade all'esercito di Kiev, dopo averne addestrato, mesi prima dell'inizio del conflitto e in territorio americano, gli operatori ucraini addetti al loro utilizzo;

• il supporto russo alla campagna elettorale di Marine Le Pen per le presidenziali in Francia, continuando, nel contempo, a stigmatizzare gli effetti delle sanzioni, propagando, in un’ottica di ribaltamento, notizie sulle pesanti conseguenze che esse avrebbero sui membri dell’Unione Europea. 

• il frequente ricorso a informazioni e prodotti audiovisivi decontestualizzati ed artefatti, spesso riproposti in lingua originale, con l'intento di inquinare e sovraccaricare il dibattito interno, decostruire la narrativa dei mezzi di informazioni nazionali ed occidentali in generale, ostacolare il processo di verifica delle informazioni stesse - consapevoli dello difficoltà di riscontrare le evidenze sul campo - lasciando ampio spazio al dubbio ed all'incertezza, ovvero predisporre l'opinione pubblica ad accogliere la narrativa favorevole a Mosca; 

• il tentativo di screditare l'operato delle organizzazioni internazionali tra le quali l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) in Ucraina, impegnate nell'individuare potenziali violazioni del diritto umanitario internazionale da parte di ambo le forze armate impegnate nel conflitto. 

In particolare, a seguito della pubblicazione di un report prodotto dall'OSCE dal quale non emergerebbero violazioni umanitarie attribuibili alle forze armate ucraine, è fortemente incrementata la diffusione, sia sui principali blog di controinformazione che su social network in lingua italiana, di contenuti relativi a:

l'impiego, da parte delle formazioni armate ucraine, di veicoli blindati sottratti con la forza alla Missione OSCE, avvenimento nascosto da quella dirigenza; l'ammissione, da parte di un dipendente dell'OSCE detenuto nella "Repubblica popolare di Luhansk", circa la trasmissione di informazioni riservate' ai servizi di intelligente ucraini e stranieri; la prolifica produzione da parte delle ONG straniere' di milioni di contenuti informativi falsi sull'operazione speciale russa in Ucraina;

il presunto rinvenimento, nel garage dell'edificio sede dell'OSCE a Mariupol, di svariate cariche di lancio per mortaio di fabbricazione italiana', poi cedute ad una delle parti del conflitto; il sequestro, da parte delle truppe della "Repubblica Popolare di Donetsk", dell'archivio dell'OSCE a Mariupol, che conterrebbe le prove dei crimini di Kiev del 2014, coperti dall'OSCE, il quale non ne avrebbe dato notizia nei suoi report;

• la viralizzazione dell'intervista rilasciata dal Ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa, Sergej LAVROV, al programma "Zona Bianca", in onda su Rete4, durante la quale quel Ministro ha dichiarato che "il fatto che Zelensky sia ebreo non significo niente, anche Hilter lo era, i peggiori antisemiti sono gli ebrei- . Tale affermazione è stata poi rilanciata da varie fonti giornalistiche nazionali (Il Fatto Quotidiano, Giornale, Corriere della Sera e da numerose fonti della disinformazione sul tema ("maurizioblondet.it" e il noto l'antidiplomatico");

• l'uccisione in territorio ucraino di numerosi giornalisti di guerra; secondo Alberto FAZOLO, economista iscritto all'albo dei giornalisti del Lazio come pubblicista ed intervenuto durante il programma "DiMartedì" (in onda su La7), il numero di reporter rimasti uccisi in Ucraina negli ultimi otto anni ammonterebbe a circa ottanta, introducendo così un nesso di consequenzialità tra l'elevato numero di decessi dei giornalisti e la presenza sul quel territorio di formazioni para-militari di matrice neonazista (come il Battaglione Azov).

Principali narrative diffuse via Telegram

Il canale @Sptnkita, verosimilmente riconducibile alla testata Sputnik Italia e creato successivamente all'oscuramento su territorio europeo dei media governativi di quel Paese, si è recentemente distinto per la assidua condivisione di contenuti in lingua italiana a supporto della narrativa filorussa. 

Detta attività non è tuttavia passata inosservata, incorrendo nella chiusura del medesimo canale da parte della stessa Telegram. In sua sostituzione, è stato prontamente aperto il canale di backup "BAOSPTNK" (@Baosptk). Il Centro culturale russo a Roma ha intensificato l'attività sul proprio canale Telegram, volta ad amplificare la propaganda ufficiale relativa al conflitto in Ucraina.

Altrettanto degna di nota la manifestazione pro-russia promossa dal 'Comitato Ucraina Antifascista (Stella Rossa)", organizzazione no-profit attiva in opere di solidarietà per l'Ucraina e il Donbass, tenutasi il 25 aprile u.s. in piazza Venezia a Milano per "celebrare la liberazione dal nazifascismo" e chiedere "la pace in Donbass e la Democrazia in Ucraina". 

Il gruppo Facebook collegato a tale evento è amministrato da Rolando DUBINI, uno degli utenti più attivi nella pubblicazione di contenuti su canali italiani filo-russi dedicati al sostegno dell-operazione militare speciale" in Ucraina, dei quali fanno parte utenti afferenti alla galassia no-vax.

Particolarmente rilevante la creazione di un gruppo denominato "United Information Front", apparentemente impiegato per coordinare le azioni congiunte del gruppo "Cyber Front Z", nato con l'obiettivo di contrastare la propaganda anti-russa dei Paesi occidentali. la declinazione italiana di questo gruppo ha assunto la denominazione di "Comitato per il Donbass antinazista", attivo nello smascherare la disinformazione ucraina e contrastare la c.d. "isteria anti-russa".

Significativa, inoltre, la diffusione, su canali in lingua italiana, di numerosi documentari a supporto della propaganda pro-Russia, tra i quali: 

- "Donbass ieri oggi e domani', documentario sulla regione contesa, sottotitolato in inglese; o un documentario del 2018 realizzato del canale televisivo satellitare arabo Al Mayadeens ed incentrato sui principali biolaboratori attivi a livello mondiale, oro strumentalizzato per corroborare le attuali narrative disinformative in merito;

-un documentario sulla tematica della russofobia, mandato in onda sull'emittente Russia Today con traduzione in italiano, all'interno del quale si fa riferimento diretto all'eurodeputata Francesca DONATO, descritta come colei che ha votato contro l'invio di armi in Ucraina; 

-un documentario, condiviso dall'Ambasciata Russa in Italia, che denuncia la situazione politica in Ucraina successivamente al "colpo di stato" del 2014 (in occidente qualificato come "rivoluzione di Maidan"), i presunti crimini di guerra commessi dagli ucraini nel Donbass, le violazioni del diritto internazionale per il trattamento dei prigionieri di guerra russi e le fake news ucraine sul conflitto. 

Sono state registrate inedite narrative relative all'introduzione di ingenti incentivi russi per l'apertura di nuove imprese commerciali ed industriali, operanti ad esempio nel settore metalmeccanico, in contrapposizione a quanto accade invece in Italia, dove i ventilati tagli energetici approvati dal Governo Draghi determinerebbero, invece, una pesante penalizzazione del sistema industriale del Paese.

Il canale "Giubbe Rosse" (@rossobruni), noto per la matrice ideologica eurasiatista, ha fortemente criticato l'operato del senatore Alfonso URSO e del relativo partito di appartenenza (Fratelli d'Italia), dopo che quest'ultimo ha annunciato con un tweet I apertura di un'istruttoria del COPASIR e delle audizioni dei vertici Agcom e Rai, a valle delle dichiarazioni della portavoce di LAVROV, Maria ZAKHAROVA. 

Alcuni dei contenuti prodotti da "Giubbe Rosse" sono stati poi rilanciati dal canale riferibile a Giorgio BIANCHI, noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filo-russo. Il canale del sito web di disinformazione italiana "VisioneTV" ha, invece, strumentalizzato la dichiarazione del Pontefice in relazione alla presunta responsabilità del conflitto in capo all'Alleanza Atlantica, definendola una "brutale critica alla NATO da parte di Papa Francesco".

Detto contenuto è stato poi rilanciato anche dalla testata giornalistica digitale russa "gazeta.ru", a sua volta ripresa dal canale "Roberto Nuzzo", precedentemente emerso in relazione ai movimenti No-Vax e No-GreenPass. Da ultimo, il canale "RA — Russia Amica", particolarmente attivo nella diffusione di contenuti nell'ambito delle principali comunità online no-vax, sta portando avanti una campagna di disinformazione all'interno di comunità italiane e francesi.

I contenuti, principalmente attinenti a teorie del complotto e anti-governative, riportano notizie sia vere, commentate in chiave pro-Russia, sia tendenziose, o comunque non verificate, presentate come se fossero vere. In particolare, detto canale rilancia informazioni estrapolate da account Twitter riconducibili al Cremlino, principalmente afferenti allo screditamento della NATO, alla presenza di laboratori biotecnologici statunitensi in Ucraina, alla giustificazione dell'operazione militare in difesa delle popolazioni russofone oppresse dai "nazisti" ucraini.

 Principali narrative diffuse via Twitter

'L'Ambasciata russa in Italia ha dichiarato in un post di aver subito un atto vandalico al cancello della propria sede, imbrattato con vernice rossa; l'autore del gesto sarebbe stato fermato dai militari dell'Esercito presenti a presidio del perimetro della sede istituzionale. Nel merito, vale sottolineare come la "vernice rossa" usata in gesti dimostrativi di questo tipo, all'interno del dibattito social, rappresenterebbe metaforicamente il "sangue" versato in Ucraina.

L'account di quell'Ambasciata ha poi dato ampia visibilità alle numerose interviste rilasciate da rappresentanti istituzionali russi su emittenti televisive italiane. Su tutte, vale segnalare quelle della portavoce del Ministero degli Affari Esteri russo Maria ZAKHAROVA, nonché quella del Ministro LAVROV a "ZonaBianca". A seguito di quest'ultima hanno immediatamente acquisito rilevanza gli hashtag #Rete4 e #ZonaBianca, in associazione ai quali si registrano sia posizioni favorevoli che contrarie a quanto sostenuto da quel Ministro. 

In parallelo, l'hashtag #Draghi, a seguito della conferenza stampa del 2 maggio u.s., è stato incluso in oltre 38.000 tweet in più lingue, tra cui l'italiano, ed in relazione al quale figurano sia post a supporto delle posizioni espresse dal Presidente del Consiglio dei Ministri in merito all'intervista a LAVROV, sia diversi post dove si ritiene che lo stesso Premier non tuteli gli interessi dell'Italia e abbia un'impostazione dittatoriale.

Si inserisce in tale cornice anche l'intervista all'Ambasciatore russo in Italia Sergey RAZOV rilasciata al programma "Staseraitalia", sempre su Rete4, in cui lo stesso diplomatico ha richiamato l'impegno e la proattività di Mosca nell'identificare e "sostituire" le aziende italiane in Russia (circa 4001 con aziende di altra nazionalità, con il verosimile intento di acuire il senso di preoccupazione dell'opinione pubblica in relazione al futuro delle imprese e dell'economia nazionali. la presenza su Twitter di varie figure istituzionali russe, come quelle citate, è stata inoltre percepita dalle utenze più affini alle posizioni di Mosca, come un'apertura al dialogo dimostrata dalla Federazione con le principali controparti europee, Italia inclusa. 

Con particolare riferimento al nostro Paese, sono emerse, inoltre, narrative che tendono a porre in antitesi le figure del Ministro degli Esteri DI MAIO e di LAVROV, elogiando le elevate qualità diplomatiche di quest'ultimo, asseritamente non pienamente colte dal pubblico italiano.

Analogamente rilevante la narrativa anti-atlantista gravitante attorno alla figura del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario DRAGHI, in relazione al quale si segnala un'intervista a Rosangela MATTEI, nipote di Enrico MATTEI, rilasciata il 25 Aprile a "La Verità" e rilanciata sui social da noti influencer antigovernativi e filorussi. In tale contesto, la morte di MATTEI viene strumentalizzata e interpretata in chiave anti-governativa ed anti-NATO; il Premier DRAGHI viene descritto come "troppo amico degli americani", mentre la NATO viene accusata di aver colluso con il fine di eliminare l'imprenditore italiano. 

L'intervista si conclude con le affermazioni secondo le quali l'Algeria fornirebbe gas all'Italia solo grazie all'operato di Mattei e che, successivamente alla sua morte, la Russia sarebbe stata l'unico Paese ad aiutare la nazione algerina. È altresì emerso un costante flusso di immagini di repertorio che ritraggono DRAGHI mentre indossa una spilla da giacca con l'emblema della NATO, ancora una volta strumentalizzate per giustificare una presunta aspirazione personale del Premier a diventare Segretario Generale dell'Alleanza, per la quale porrebbe a rischio la sicurezza della sua stessa nazione.

Il 26 aprile u.s., un tweet del partito conservatore olandese "Forum voor Democratie" ha dato vita a una campagna mediatica contro il Presidente ZELENSKY: ripreso anche da influencer italiani (ad es. la blogger Francesca TOTOLO del "Primato Nazionale"), il tweet sostiene che il patrimonio del Presidente ucraino ammonti a $850 milioni, la maggior parte dei quali accumulati dopo essere stato eletto Premier.

La principale ragione di queste continue insinuazioni da parte dei canali di propaganda filorussa sarebbe da iscrivere al coinvolgimento di Zelensky nelle rivelazioni dei Pandora Papers, spesso rievocati per ricordare la disonestà di colui che rappresenta il volto della resistenza ucraina all'invasione russa. 

Da ultimo, l'hashtag #Finlandia è stato usato dai disinformatori per diffondere la retorica tendenziosa secondo la quale la NATO starebbe continuando il proprio progetto di espansione ad Oriente, noncurante delle gravi conseguenze e della destabilizzazione geopolitica che ciò implicherebbe.

Così facendo, il Presidente PUTIN sarebbe quindi costretto a porre in essere misure drastiche di contenimento e di difesa, paventando la concreta possibilità dello scoppio di un conflitto atomico. In tal modo, si cercherebbe di deresponsabilizzare la Russia in relazione all'invasione in atto, nonché alle continue minacce rivolte ai Paesi occidentali. 

Principali narrative diffuse via Facebook 

Sergey MARKOV, politologo, giornalista ed ex consigliere del Presidente russo, ha condiviso sul proprio profilo l'immagine del presunto bunker sotto l'acciaieria di Azovstal, estrapolata in realtà dal gioco da tavola Blackout. l'immagine, poi condivisa dalle trasmissioni TV "Piazzapulita" e "Controcorrente", e l'intera vicenda sono state strumentalizzate da account social filorussi e della disinformazione nazionale per criticare l'operato dei media occidentali e, nello specifico, delle menzionate trasmissioni e delle relative emittenti.

Assume crescente rilevanza, su pagine riconducibili alla matrice sovranista, la narrativa secondo la quale l'attenzione mediatica sviluppatasi a valle dell'osservazione di LAVROV sulla presunta origine ebrea di Hitler rappresenti in realtà un escamotage dei media mainstream per distrarre l'opinione pubblica italiana dagli effettivi contenuti dell'intervista. In tal senso, numerosi profili Facebook interpretano l'evento mediatico quale esempio lampante di libertà di stampa — in contrapposizione ad un'asserita censura politica e ad un giornalismo nazionale ritenuto fazioso e controllato —nonché punto di vista autorevole sulla realtà degli accadimenti bellici e politici. Gli stessi profili accusano inoltre il Premier DRAGHI di aver partecipato in passato ad analoghi programmi televisivi con l'intento di diffondere fake news.

Ultime tendenze

Tra le tendenze rilevate più di recente dall'osservazione del fenomeno, emergono le seguenti: 

• sarebbe in atto un rallentamento dell'attivismo online della Russia a favore di una posizione difensiva basata sulla controdeduzione, in chiave pro-Cremlino, delle notizie provenienti dall'Ucraina e dall'Occidente, definite come foke news. Ad esempio, c fronte del risalto dato in Europa e nel resto del mondo alla notizia secondo la quale la Russia non escluderebbe un intervento nucleare, la Federazione russa ha reagito diffondendo la notizia dell'avvenuta acquisizione da parte Ucraina di droni dotati di armi chimiche e batteriologiche; 

• il Cremlino starebbe provvedendo al reclutamento dei principali esponenti dell'intellighenzia per creare consenso nella popolazione russa. Ciò avviene ingaggiando personaggi pubblici caratterizzati do un livello culturale medio-alto, come professori e ricercatori, nonché online, dove il noto gruppo Cyber Front Z avrebbe avviato una campagna di reclutamento di gestori di canali Telegram o di altri socio/ dotati di un rilevante seguito;

• è interessante notare come la medesima tecnica sia stata utilizzata anche dall'Ucraina, attraverso la legione "libertà alla Russia" - unità militare ucraina, formato da oppositori politici, ex prigionieri di guerra e disertori russi - che starebbe coinvolgendo giovani russi acculturati per diffondere messaggi unti-Putin e per organizzare azioni dimostrative. Oltre a ciò, l'Ucraina starebbe avviando una campagna di reclutamento interno alla Russia per compiere piccole azioni di sabotaggio, ad esempio nella rete ferroviaria;

• l'ingerenza e la manipolazione informativa russa continuano a declinarsi in due direttrici tecnico comunicative: l'una orientata verso l'interno, che fa leva sull'orgoglio nazionale per risvegliare il sentimento nazionalista della popolazione. l'altra verso I esterno caratterizzata da attività sofisticate, adottive, puntando anche all'utilizzo di risorse intellettuali di pregio, nella forma di cittadini russi residenti all'estero;

 • nel medesimo periodo si è osservato anche un generale rallentamento dell'attività d'influenza di origine sinica.

E Putin ha perso l’ “amico” Donald Trump…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2022. 

La testimonianza di poche ore fa di Liz Cheney la figlia di Dick , l’ex potentissimo Vicepresidente USA inchioda definitivamente Trump alle proprie responsabilità sul tragico assalto alla Casa Bianca del 6 Gennaio 2021. I Repubblicani lo scaricano cinque mesi prima delle prossime elezioni di medio termine in cui si rinnovano trentaquattro seggi su cento del Senato e tutta la Camera . Ció influisce direttamente sulle candidature repubblicane al Parlamento il prossimo 8 Novembre 2022 e apre la strada a forti novità per le Presidenziali del 2024 , da scegliersi nelle prossime Primarie . Il Partito Democratico appare in prospettiva ingessato nell’attuale coppia Biden Harris. 

Ma il Governo in carica sembra sempre di più aver ripristinato l’antico salubre rispetto tra i due Partiti in competizione , superando le feroci divisioni , autolesive dell’interesse di medio-lungo termine degli USA. Putin non troverà più alcun alleato sul territorio statunitense . L’Europa respira .

Per le complicità italiane del Presidente russo le prospettive sono unanimemente negative.

Matteo Salvini fa sempre più fatica a svincolarsi dalla prolungata contiguità russa e dai sondaggi impietosi . Giorgia Meloni cerca frettolosamente di far dimenticare la sua dichiarata preferenza per Trump , sigillata dalla calda accoglienza del rude Segretario di Stato americano Mike Pompeo in visita in Vaticano per rimproverare al Pontefice l’eccesso di contiguità con il Presidente cinese Xì. La Meloni fu l’unica politica italiana ricevuta a braccia aperte dal Ministro degli Esteri di Trump. 

Molto più nota la conclamata amicizia con il presidente ungherese Viktor Orban , “mantenuto” da Putin con forniture di gas e petrolio a prezzi inferiori al mercato per i fortunati proxy del Presidente . Silvio Berlusconi rivela un’insolita timidezza verso l’invasore russo. Trascurabili errori le molteplici onorificenze date da Mattarella a vari russi su richiesta di Di Maio , e quello di Confindustria per l’ultimo viaggio a Mosca , a ridosso dell’invasione dell’Ucraina. Redazione CdG 1947

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.

L'Occidente sta perdendo la guerra economica che ha improvvidamente scatenato pretendendo di interferire in un'operazione militare russa limitata e giustificata. So da tempo che questa è la tesi con la quale Mosca cerca di giustificare l'invasione di un Paese sovrano, ma una cosa è leggere di queste tesi propagandistiche, ridicole davanti al massacro di un popolo e della stessa gioventù russa mandata a morire in guerra. 

Altra cosa è vedere, mentre sono in viaggio tra Kazakistan e Uzbekistan, l'efficace architettura della campagna di regime dei tg russi, molto seguiti anche nelle repubbliche ex sovietiche dove le reti locali tendono ormai a ignorare il conflitto, condotti da giornalisti-oratori abilissimi nel cucire a ritmo incalzante interviste ad automobilisti arrabbiati alla pompa di benzina, immagini di scaffali mezzi vuoti, cibi coi prezzi impazziti: inquadrature a raffica dettagliatissime, da frutta e verdura al pane di Lariano. Poi si passa al Similac per neonati introvabile negli Usa (crisi che non c'entra con la guerra), e ai rubinetti del gas che si chiudono. 

A dimostrazione della tesi di fondo, viene riproposto di continuo (5 volte nello speciale domenicale di NTV) un articolo del Guardian titolato sull'Occidente che sta perdendo la guerra economica: tesi confermata dai commentatori trumpiani della Fox americana che ridicolizzano le mosse di Biden. Oltre al solito Tucker Carlson, Maria Bartiromo, Greg Gutfeld e altri. C'è spazio anche per un'intervista di Berlusconi al Giornale . La pagina ripresa è titolata sulla sconfitta della Russia, ma lo spettatore non lo sa: sente solo il passaggio, evidenziato in giallo nel testo e tradotto dallo speaker, nel quale il Cavaliere chiede vie d'uscita per Putin.

Mancano le immagini di distruzione e morte. Gli unici carri armati che si vedono sono quelli turchi: sfilano mentre lo speaker riferisce dell'ostilità di Erdogan all'allargamento della Nato a Svezia e Finlandia. Ed ecco che si apre un altro capitolo: Occidente fin qui rimasto compatto? Macché: europei e americani sono divisi su tutto. Vengono ripresi spezzoni dei distinguo di Orbán e di qualche altro leader europeo. Infine brevi flash di frasi di Biden, Draghi o Macron, liquidate come velleitarie, inframmezzate da lunghi brani dell'intervista-monologo del 3 giugno nella quale un Putin suadente, rammaricato, rassicurante, spiega che la Russia sta facendo le cose in un modo ragionevole a un giornalista che si limita ad annuire. 

IL DOSSIER DESECRETATO. Corriere, intelligence e putiniani: ci disinformiamo benissimo anche senza l’intervento di Mosca. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 10 giugno 2022.

Nel dossier dell’intelligence sulle attività di disinformazione russa non ci sono le informazioni di cui aveva parlato il Corriere della Sera nel contestato articolo del 5 giugno (contestato per le foto dei “putiniani” più che per il contenuto) dedicato proprio a quel dossier.

Esiste del materiale dell’intelligence, esiste una indagine del Copasir, ed esiste un folto gruppo di putiniani italiani le cui opinioni vengono quasi certamente amplificate da interventi digitali di Mosca. Ma le tre cose non sono legate.

Giornali e politica sono in grado di generare caos mediatico e istituzionale da soli anche senza supporti esterni. Con un dibattito pubblico di questo livello, che bisogno c’è di scatenare i professionisti della disinformazione?

E così si chiude una delle più bizzarre polemiche del giornalismo politico italiano recente. Nel dossier dell’intelligence sulle attività di disinformazione russa non ci sono le informazioni di cui aveva parlato il Corriere della Sera nel contestato articolo del 5 giugno (contestato per le foto dei “putiniani” più che per il contenuto) dedicato proprio a quel dossier.

La polemica era partita storta: il Corriere aveva pubblicato un articolo molto vago e confuso, con evidenti forzature. Il “materiale raccolto dall’intelligence” usato per una “indagine del Copasir” portava le giornaliste autrici del pezzo a raccontare di una “rete” di putiniani che “si attiva nei momenti chiave del conflitto”.

Esiste del materiale dell’intelligence, esiste una indagine del Copasir, ed esiste un folto gruppo di putiniani italiani le cui opinioni vengono quasi certamente amplificate da interventi digitali di Mosca. Ma le tre cose non sono legate.

Il dossier dell’intelligence, de-secretato dal sottosegretario con delega Franco Gabrielli, è soltanto una descrizione dei temi e delle fake news rilanciate da account e testate simpatizzanti di Putin.

Il Copasir si sta occupando di social media e dell’infowar del Cremlino, per capire come si trasformi la discussione pubblica in un’arma.

E ci sono tanti personaggi – da Alessandro Orsini a Giorgio Bianchi – che vivono un momento di insperata popolarità social e televisiva grazie alle loro opinioni filo-russe, assai poco censurate ma anzi contese da giornali, tv e teatri.

Tra le tre cose non c’è il nesso cui pareva alludere il Corriere e che ha indignato tanti opinionisti e intellettuali che già temevano una qualche forma di persecuzione da parte dei servizi segreti italiani dei presunti esponenti della “rete” dei putiniani (che nella titolazione del Corriere diventava “Rete” con la maiuscola, cioè Internet, giusto per confondere ulteriormente). 

COSA SAPPIAMO 

L’articolo del Corriere non era preciso, le foto lo rendevano allusivo, ma anche le polemiche successive erano assolutamente pretestuose e ingenue, tanto che nessuno degli indignati è mai stato in grado di articolare di cosa erano accusati i servizi segreti. Così come il Corriere non era in grado di spiegare in che senso i “putiniani” fossero una rete, invece che un insieme di esibizionisti, magari a volte in buona fede.

Sappiamo che la Russia di Vladimir Putin da anni cerca di intossicare il dibattito pubblico dei paesi obiettivo, con la diffusione di notizie false o verità artefatte che poi vengono amplificate da opinionisti amici che guadagnano rilevanza social grazie a una rete di bot (account fasulli, gestiti dalla Russia).

Chi, nella polemica sull’articolo del Corriere, nega l’esistenza di attività di disinformazione russa è semplicemente poco informato.

Ma neppure l’inchiesta americana culminata nel rapporto Mueller è riuscita a dimostrare un coordinamento esplicito tra Putin e la campagna elettorale di Donald Trump nel 2016, che per il Congresso americano è stata ufficialmente beneficiaria inconsapevole di attività di supporto e hackeraggio russa a sostegno della sua candidatura contro Hillary Clinton.

Quasi certamente adesso sta succedendo qualcosa di simile, le strutture russe di infowar sanno come rendere più virali i contenuti funzionali alla loro propaganda. Ma forse, nel caso dell’Italia, non hanno neppure bisogno di impegnarsi tanto.

Giornali e politica sono in grado di generare caos mediatico e istituzionale da soli anche senza supporti esterni. Con un dibattito pubblico di questo livello, che bisogno c’è di scatenare i professionisti della disinformazione? Ci disinformiamo benissimo da soli. 

STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

Cose dell’altro Polo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.

Magari la cosa sconvolgerà solo me, ma rimango ogni volta basito dai dibattiti della tv russa. Lì di pacifisti non ce ne sono, ed è ancora il problema minore. Nel salotto di Vladimir Solovyov l’altra sera si discuteva il destino dei tre «mercenari» britannici e marocchini arrestati. Un ospite suggeriva di metterli al muro senza farla tanto lunga, ma veniva zittito da un altro che proponeva di appenderli. Scelta duramente criticata da un terzo ospite, per il quale sarebbe stato meglio squartarli, a riprova che la varietà di opinioni è il sale della democrazia. Il conduttore fingeva di indignarsi, per cui si tornava al quesito di base: fucilarli o impiccarli? Un quarto convitato azzardava l’ipotesi di rilasciare i prigionieri in cambio del ritiro delle sanzioni, ma veniva guardato da qualcuno con compassione e da qualcun altro con sospetto. Leggiamo e sentiamo dire ogni giorno che questa guerra sancirà la fine della Fine della Storia, cioè del dominio dell’Occidente a trazione anglosassone, e l’avvento di un mondo multipolare. Da occidentale non anglosassone ne sono preoccupato, ma anche incuriosito e persino contento. Però lo sarei di più se chi in Italia esercita lo spirito critico in un certo modo non fosse così egoista da riservarlo tutto alle storture del polo occidentale e ne conservasse un pezzetto anche per quelle, ben più sconvolgenti, degli altri poli. Tra la Cnn e Solovyov, come tra il Green Pass e la chiusura coatta di Shanghai, c’è ancora qualche differenza, o no?

Noi e la Russia, un grande equivoco. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.

Il secolare carattere illiberale di chi comanda in Russia, la secolare, abituale brutalità dei suoi metodi, la mancanza di un’opinione pubblica in grado di giudicare liberamente, nonché l’assenza di un effettivo multipartitismo, sono dati di fatto irrefutabili. 

Siamo a favore di un’Ucraina libera e indipendente perché saremmo affetti da russofobia: questa è l’accusa che le autorità russe rivolgono da mesi all’«Occidente»: un termine che per esse comprende ormai tutti i Paesi che condannano la loro guerra d’aggressione contro Kiev. Ed è appunto per ritorsione alla nostra presunta russofobia che l’ex presidente russo Medvedev ha appena dichiarato che lui a noi occidentali ci «odia» e, bontà sua, ci considera una massa di «bastardi e degenerati». Ho fatto allora un esame di coscienza il cui risultato vorrei sottoporre a sua eccellenza Medvedev — tramite i buoni uffici dell’ambasciatore Razov che sono sicuro trametterà tutto a Mosca — per capire se davvero quanto io e insieme a me credo moltissimi altri proviamo nei confronti della Russia sia russofobia o invece magari, vedi caso, qualcos’altro.

Il popolo russo, forse a causa dell’elemento popolare e contadino in esso ancora così forte che ricorda da vicino l’antica condizione contadina del Mezzogiorno, o forse a causa del suo passato di antica miseria e di oppressione, suscita in me un sentimento immediato di simpatia e di amicizia. Come molti italiani non dimentico poi i tanti episodi di umanità di cui quel popolo diede prova verso i nostri soldati durante la loro terribile ritirata dell’inverno 1942-1943, nonostante fossero i soldati di un esercito nemico mandati dal fascismo a combattere in quella che forse è stata la più sciagurata delle sue sciaguratissime imprese militari.

Conta d’altro canto — e come conta! — l’immane tradizione letteraria e culturale russa. Ogni europeo degno di questo nome si è nutrito delle pagine di Herzen e di Turgeniev, di Cechov e di Tolstoj, dei versi di Blok, di Anna Achmatova, di Brodskij. Contraendo un debito che non può essere dimenticato.

Traendone però anche una lezione non meno importante. E cioè che da due secoli, forse con la sola eccezione sia pure rilevantissima di Dostoevskij, quella cultura —la massima espressione della coscienza e dell’anima russa — è stata sempre all’opposizione del governo del proprio Paese. E sempre ne ha ricevuto in cambio censura, persecuzioni di ogni genere, galera e non poche volte addirittura la morte. Se dunque per russofobia s’intende criticare duramente il governo russo, allora, mi pare, Medvedev e i suoi amici dovrebbero innanzi tutto dare uno sguardo al passato (e forse anche al presente) del proprio Paese: la più formidabile tradizione di russofobia non devono andare a cercarla in Occidente. Ce l’hanno in casa.

Né si tratta certo solo del passato. Per essere un governo che si propone di denazificare il mondo a cominciare dall’Ucraina, il governo di Mosca dovrebbe cominciare a spiegare come mai, ad esempio, proprio negli ultimi anni la lista dei suoi oppositori è diventata una lunga lista di morti ammazzati. In perfetta continuità, si direbbe, proprio con i metodi hitleriani. Dovrebbe spiegare come mai da anni le rivoltellate e il polonio costituiscono gli strumenti preferiti che esso adopera nei confronti dei suoi oppositori. Ovvero, per dirne un’altra proprio di queste ore, come mai il rabbino capo della comunità ebraica abbia appena deciso di fuggire dalla Russia. Non sarà che la cosiddetta russofobia degli occidentali «bastardi e degenerati» ha forse qualcosa a che fare con quanto si è appena detto? C’è da pensarci, caro Medvedev.

In realtà il secolare carattere illiberale di chi comanda in Russia, la secolare, abituale brutalità dei suoi metodi, la mancanza da sempre di una magistratura indipendente, di una stampa e di un’autorità religiosa libere, e quindi di un’opinione pubblica in grado di giudicare liberamente, nonché l’assenza di un effettivo multipartitismo, sono dati di fatto irrefutabili. Si dà il caso però che la Russia non sia uno staterello. È il più grande Paese del nostro continente, ricchissimo di materie prime e per l’appunto con una congenita tradizione dispotica. E poiché nel caso di una grande potenza è assai improbabile che possa esserci un’effettiva separazione fra il suo regime interno e la sua politica estera, è fin troppo ovvio che per un’Europa intenzionata a mantenere la propria indipendenza questa Russia rappresenti un formidabile problema geopolitico.

La cui essenza può essere posta in questi termini: o Mosca rinuncia in maniera chiara alla sua vocazione espansionistica, o inevitabilmente il resto dell’Europa è costretta a prendere le misure precauzionali del caso. Misure che se vogliono essere efficaci — dati gli attuali rapporti di forza militari, dato che un eventuale esercito europeo tuttora appartiene al campo dei futuribili, dato che è tuttora (e chissà per quanto tempo) ignoto da chi esso prenderà mai ordini, e dato infine che tale futuribile esercito europeo ben difficilmente disporrà di armi atomiche — non possono che significare una cosa sola: l’alleanza dell’ Europa con gli Stati Uniti.

La cosiddetta russofobia di noi europei che ci riconosciamo nell’Occidente, se ne convinca sua eccellenza Medvedev, non è altro che la consapevolezza dell’insieme e della gravità di tali problemi. Anzi in definitiva di uno solo: della tenace impermeabilità storica del regime russo alla libertà. Ci si può stupire se l’invasione dell’Ucraina ha reso tutto ciò ancora più forte ed evidente?

I rossobruni. I due nemici dell’Ucraina e la guerra ideologica dei finti pacifisti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'11 Giugno 2022.

Il popolo ucraino si difende dall’invasione russa ma non deve fronteggiare solo i massacri e i bombardamenti, ma anche i fan del Cremlino di destra e di sinistra che in tv giustificano la carneficina di Mosca.

C’è forse qualcosa di peggio che assistere alla revoca disperante del «mai più» in cui per decenni abbiamo creduto di poter confidare: ed è lo spettacolo che non si limita a mettere nel nulla quella speranza, ma la insulta.

Non c’è solo la guerra nell’Europa che si immaginava immunizzata: c’è lo squadernarsi esemplare dell’idea falsa che l’Italia ha di sé e ha dato di sé durante il corso della pace europea, e il ripresentarsi sostanzialmente per identico di tutta la tigna civile che ci ha infilato per vent’anni nel regime nero e poi ci ha condotto ad uscirne dopotutto inalterati nell’impianto di una democrazia incerta, accidentata, vulnerata da un’avversione quasi antropologica degli italiani per quel sistema di convivenza.

Non sarebbe meno orribile la guerra alle nostre porte se ad assistervi, da qui, non fosse il consorzio fascio-comunista che con strabiliante naturalezza, e pure con pretesa di incensurabilità, insegna ai bombardati, agli abbattuti con il colpo alla nuca, ai torturati, alle donne e ai bambini stuprati, che la pace rende liberi.

L’orrore sarebbe lo stesso, ma non vi si aggiungerebbe quello di cui fa mostra l’armata rosso-nera che rivendica la gratuità del proprio negazionismo e denuncia l’illiceità della presunta lista di proscrizione perché attenta all’autonomia e all’indipendenza della militanza stalinian-goebbelsiana.

Sarebbe uguale la tragedia dei profughi, ma non finirebbe nell’immondezzaio che li qualifica come «passanti». Sarebbe uguale il suono della guerra nelle orecchie di quelli che vivono da tre mesi sotto terra, ma almeno non ci sarebbe uno smartphone o un pc a riportargli il contrappunto pacifista dell’opinionismo che gli spiega che sono cattivi genitori perché in dittatura i bambini sono felici.

Sarebbe uguale il sangue sulla faccia delle donne incinte, ma ripulendosene esse non saprebbero di aver svelato la messinscena che le aveva assoldate per simulare ferite farlocche. Sarebbero uguali, cioè morti, quelli ammazzati da un missile piovuto su una stazione ferroviaria, ma i loro parenti non avrebbero dovuto apprendere dalla cronaca balistico-pacifista che l’ordigno era démodé a Mosca, e dunque inevitabilmente l’avevano cannibalizzato gli ucraini su indicazione di Joe Biden e magari – perché no? – con il consenso di Mario Draghi.

Fronteggiano due tipi di nemici, gli ucraini. Fronteggiano quelli che vogliono denazificarli; e poi fronteggiano quelli che da qui, da tre mesi, foltissimi a destra e a manca, offrono il loro contributo pacifista alla denazificazione. Ti raccomando gli uni e gli altri.

Masha e Orsini. Anche i finlandesi criticano la propaganda russa nella tv italiana. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta l'8 Giugno 2022.

Un articolo del giornale Yle denuncia la presenza di commentatori, giornalisti e politici del Cremlino nei nostri talk show. I discorsi di Lavrov, la condiscendenza dei presentatori e i legami di certi leader di partito con Mosca mostrano ancora una volta l’inadeguatezza di certi salotti televisivi.

«Commentatori filoputiniani e giornalisti e politici russi sono apparsi nei programmi tv del Paese, anche sui canali dell’emittente dello Stato». Il Paese in questione è l’Italia, ovviamente. E l’accusa stavolta arriva dalla Finlandia.

Si allunga l’elenco di Paesi che denuncia la presenza di figure filorusse nei talk show televisivi e nei telegiornali italiani. A inizio settimana il sito della tv finlandese Yleisradio Oy, abbreviata in Yle, ha pubblicato un articolo – firmato dalla giornalista Jenna Vehviläinen – che riprende alcuni dei casi più eclatanti in cui la propaganda del Cremlino è stata trasmessa in diretta tv nazionale in Italia.

Il punto di partenza è ancora una volta quella prima domenica di maggio, quando su Rete 4, a Zona Bianca, è andata in onda un’intervista al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Quarantadue minuti di discorso con traduzione simultanea che giustificava e legittimava l’invasione dell’Ucraina. Lavrov è arrivato a dire: «Potrei sbagliarmi, ma anche Hitler aveva origini ebraiche». E nemmeno l’ombra di un contraddittorio. Anzi, alla fine dell’intervento il presentatore Giuseppe Brindisi ha salutato il ministro di Putin: «Buon lavoro, ministro». Quanto meno fuori luogo.

Lavrov non è l’unico ospite filorusso apparso nei talk, spiega Yle: «I giornalisti che lavorano per l’agenzia di stampa statale russa Sputnik, ad esempio, sono apparsi sulle tv private, e all’inizio del conflitto la Rai mandava in diretta i commenti molto comprensivi di Marc Innaro, suo corrispondente da Mosca».

Non è un caso, insomma, che il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), l’organo del Parlamento che esercita il controllo parlamentare sull’operato dei servizi segreti, abbia avviato a inizio maggio un’indagine per scovare eventuali legami tra gli ospiti di certi programmi televisivi e i vertici russi.

L’emittente finlandese Yle ha intervistato la direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), Nathalie Tocci, che ha rifiutato di partecipare a un programma perché uno degli ospiti era un funzionario dal ministero della Difesa russo e ha scelto di stare lontana dai salotti tv. «L’Italia tradizionalmente non ha competenze di politica estera molto solide. È forse la prima volta in decenni che ogni giorno i media hanno bisogno di competenze di politica estera», spiega Tocci.

Ma la mancanza di know how non è l’unica motivazione, non basta a spiegare tutta questa propaganda russa nella televisione italiana. «I rapporti storicamente solidi tra Italia e Russia contribuiscono a creare questo clima: le relazioni culturali e sociali, e gli stretti legami economici, hanno tenuto vicini i due Paesi», dice la numero uno dello Iai.

La conferma arriva anche da un sondaggio del Pew Research Center del 2021: gli italiani tendono ad apprezzare Vladimir Putin, in Europa solo i greci hanno un indice di gradimento superiore.

Se durante la Guerra Fredda era soprattutto il Partito Comunista Italiano ad avere legami con l’Unione Sovietica, nel XXI secolo è la destra ad avere i rapporti più saldi con la Russia putiniana. Da Forza Italia di Silvio Berlusconi alla Lega di Matteo Salvini, i leader populisti hanno sempre mostrato simpatia per la Russia e il suo presidente.

«Durante la guerra – scrive Jenna Vehviläinen su Yle – il primo ministro Mario Draghi ha preso una posizione netta a favore dell’Ucraina. Quando ha incontrato il primo ministro Sanna Marin a Roma a metà maggio ha anche promesso di sostenere la domanda di adesione della Finlandia alla Nato. Salvini, dal canto suo, si è opposto all’invio in Ucraina di armi e aiuti a Kiev, e anche all’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato. Di recente ha persino pianificato un viaggio in Russia, ma poi ha rinunciato di fronte alle critiche di molti politici della maggioranza».

Enrico Mentana, la fucilata (contro la Berlinguer?): "Ieri ho guardato un po' di tv e ho capito che..." Libero Quotidiano l'08 giugno 2022

Non si placa la polemica sui talk che strizzano (o che lo strizzerebbero) a Vladimir Putin. Già nei giorni scorsi Massimo Giletti è stato oggetto di diverse critiche dopo la decisione di condurre Non è l'Arena da Mosca. E oggi Enrico Mentana arricchisce la lista dei programmi nel mirino. O almeno sembra che lo faccia. Il tutto con un post sibilino su Facebook, dove il direttore del Tg di La7 scrive: "Ieri sera ho guardato un po' di tv e ho capito che questa invasione ucraina in Russia, fomentata dal regime illiberale italiano, va fermamente condannata". Una frecciata, che questa volta, non può essere indirizzata a Giletti. Semplicemente perché non era in onda.

Ieri, martedì 7 giugno, erano infatti "di turno" Bianca Berlinguer con CartaBianca e Giovanni Floris con DiMartedì. Conferme che fanno pensare che Mentana si riferisca proprio a uno dei due. D'altronde anche la Berlinguer ha ricevuto la sua dose di accuse, dopo la decisione di ospitare Alessandro Orsini. Il professore di Sociologia del terrorismo è addirittura finito nella lista dei "putiniani" del Corriere della Sera. Oltre a lui, nell'ultima puntata di Rai3, c'era anche Michele Santoro. Un altro nome da giorni sulla bocca di tutti a causa delle sue posizioni controcorrenti sulla guerra.

Dall'altra parte su La7, tra gli ospiti c'erano Alessandro Di Battista e Marco Travaglio, strenui sostenitori della libertà di parola, ma anche Alberto Fazolo convinto che le parole di Medvedev siano state pronunciate da un privato cittadino. Insomma, a chi Mentana faccia riferimento non è dato sapersi, ma i nomi sembrano essere due. Lui stesso era stato chiaro sulle ospitate dei cosiddetti "filo-Putin": "Mi onoro oggi di non invitare chi sostiene o giustifica l'invasione russa in Ucraina. Scrissi qui cinque mesi fa che mi onoravo di non aver mai ospitato nel tg che dirigo nessun esponente dei no vax. E uso quelle stesse parole per rivendicarlo, senza dover aggiungere nemmeno una virgola".

diMartedì, “fa pena”. Gianni Riotta esagera con la promessa a Massimo Cacciari: “Da oggi in poi...” Il Tempo il 07 giugno 2022

“Non mi sono pentito di aver fatto la lista dei putiniani”. Tra gli ospiti della puntata del 7 giugno di diMartedì, talk show di La7 condotto da Giovanni Floris c’è Gianni Riotta, giornalista che ad inizio marzo pubblicò un primo elenco di presunti sostenitori delle tesi della Russia dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. “Guerra in Ucraina. Destra, sinistra e no Green Pass: identikit dei putiniani d’Italia” il titolo del pezzo, riassunto in un breve catenaccio: “Uno studio della Columbia University analizza il fenomeno dei ‘Putinversteher’ nostrani, per i quali il presidente russo fa solo ‘gli interessi nazionali’. Da Savoini a Fusaro, da Spinelli a Mattei a Foa, ecco chi giustifica il Cremlino”. Durante il programma tv Riotta però non rinnega quanto fatto, anche alla luce di una nuova lista pubblicata dal Corriere della Sera: “Io non mi sono pentito, perché non c’era nessuna animosità”. 

Floris interrompe il suo ospite, che citava il caso specifico di Barbara Spinelli, chiedendogli una cosa ben precisa: “Non mi interessano i singoli nomi, mi interessa il concetto. Perché stili una lista di persone che la pensano tutte allo stesso modo?”. Riotta replica citando un articolo di Le Monde, ma Marcello Sorgi, altro ospite in studio, gli fa notare che non c’erano singoli nomi nel pezzo francese sull’ondata putiniana in Italia. “Non sono io, tutto il mondo ha scritto queste cose” dice ancora Riotta, che definisce vergognosi i dubbi di Spinelli sulla strage di Bucha in Ucraina, uno dei momenti più bui della guerra iniziata lo scorso 24 febbraio.

Riotta tira fuori un altro obiettivo prima di concludere: “Il professor Cacciari oggi dice una cosa folle, dice che non lo attacco più perché il mio padrone ha chiesto di non attaccarlo. Ma da oggi in poi lo attaccherò tutti i giorni. Non l’ho attaccato più perché faceva pena”.

Stasera Italia, Pier Ferdinando Casini: chi sono i filorussi in Parlamento. "Centrali estere" e soldi, sospetto choc. Il Tempo il 06 giugno 2022.

Nella polemica sui filo-Putin italiani di queste ore tra liste, presunte inchieste e nomi spiattellati sui giornali, Pier Ferdinando Casini a Stasera Italia, su Rete 4, disegna uno scenario inedito sul "partito dei filorussi" che in Italia c'è già. È una forza politica trasversale nel Parlamento e che pesca sui politici che rischiano di non essere rieletti. "Sono molto più adescabili da parte di iniziative dell'influenza russa", dice l'ex presidente della Camera nella puntata del talk di lunedì 6 giugno. 

"Il partito filorusso è trasversale e attraversa diverse forze politiche" e coinvolge "associazioni culturali, alcune finanziate anche da centrali esteri, non solo russe ma anche di altri Paesi assertivi..." afferma Casini che da politico navigato commenta: "È ovvio che ci siano". 

La conduttrice Barbara Palombelli appare sorpresa e sottolinea come vada sempre salvaguardato il diritto di ognuno di esprimere la propria opinione, seppur controversa. Ma Casini spiega che la libertà di pensiero è garantita in Italia e che intendeva altro. "Non facciamo i finti ingenui", è la stoccata alla conduttrice: "Sto parlando di gente che vive in un limbo e magari partecipa ad associazioni anche finanziate dall'estero", che a detta dell'ex presidente della Camera sarebbero non pochi (e "adescabili" ora che siamo a fine legislatura). Un sottobosco parlamentare che poco c'entra con chi fa apertamente sostiene posizioni in favore della Russia e con i quali "farei un dibattito in qualsiasi trasmissione", argomenta Casini che conclude: "L'importante è che la postura del governo" sulla guerra non venga influenzata. 

I putiniani d'Italia più sgangherati che pericolosi. Quell'Armata Brancaleone che allarma il Copasir. Paolo Bracalini il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dallo show di Giletti a Orsini, gli "infiltrati" fanno di tutto per essere scoperti.  

Tra svenimenti e risse in tv l'armata rossa dei putiniani d'Italia più che preoccupare fa ridere. Il Copasir e i servizi segreti si sono attivati per monitorare le attività di questa pattuglia di opinionisti, professori e influencer (a vario titolo) e scoprire i loro legami segreti con la Madre Russia, ma nel più dei casi basta un telecomando per seguirne i movimenti alla luce del sole, anzi di telecamera. Il teatrino messo in piedi da Non è l'Arena ha poco da nascondere oltre a quel che si vede. Un perfetto cast per arrivare allo scontro in diretta, solleticando il vasto settore dell'opinione pubblica che crede a tutte le teorie purché siano considerate opposte a «quello che vogliono farvi credere». In questo caso appunto il filo-putinismo secondo cui la versione occidentale del conflitto, con la Russia aggressore e l'Ucraina vittima, è tutta una mistificazione orchestrata dalla Cia e dalla finanza internazionale per nascondere le colpe della Nato, degli Usa e dell'Europa. Come prima il pensiero no-vax e tutta la schiera di medici controcorrente non asserviti a Big Pharma, anche il pensiero filo-russo più che un'attività di intelligenza con il nemico è un fortunato filone del grande circo dei talk show. Giletti ha provato a sfruttarlo organizzando una tragica diretta da Mosca, con mancamento incorporato, utilizzando due alfieri della propaganda di Mosca. Magari lo show sarà anche stato apprezzato all'ambasciata russa in Italia, ma pensare che la trasmissione di Giletti sia parte di un piano segreto per influenzare l'opinione pubblica italiana è fare un torto all'intelligence di Mosca. Non servono grandi indagini dei nostri 007, l'armata Brancaleone dei putiniani d'Italia fa di tutto per essere scoperta. Non per nulla è alimentata da ex tribuni televisivi come Santoro, che conoscono la pancia dell'italiano medio, e hanno intuito quanto fertile possa essere questo filone, che poi non è altro che una nuova incarnazione del vecchio sentimento anti-occidentale e anti-americano. Lo sa bene il professore Alessandro Orsini, tra i primi scopritori del filone d'oro, passato rapidamente dalle aule universitarie ai salotti tv come ospite star, strappato alla concorrenza a suon di ricchi contratti. Altri «pericolosi» infiltrati da Mosca, secondo le liste del Copasir, hanno avuto meno fortuna, come Alberto Fazolo. Anche lui comunque presente in tv, dichiaratamente comunista si definisce «militante internazionalista», scrive per una casa editrice che si chiama Red Star (stella rossa), ed è convinto che l'Ucraina sia un covo di nazisti e fascisti, senza bisogno che qualcuno lo paghi in rubli per pensarlo.

Difficile anche guardare Vito Petrocelli, detto «Petrov», come una spia russa. L'ex grillino è riuscito a farsi cacciare persino dal Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte, che pure è di bocca buona quanto a parlamentari. Malauguratamente messo a presiedere la commissione Esteri del Senato, Petrov-Petrocelli è stato così astuto da scrivere un tweet con una Z maiuscola (simbolo delle armate russe in Ucraina) in bella vista, dando a Conte l'assist per farlo fuori. E poi farsi defenestrare anche dalla commissione del Senato. Una strategia furtiva degna di un agente del Kgb, non vi è dubbio.

Ma altre schiere di pensatori e opinionisti sono pronti ad arruolarsi nella legione russa, in cambio di uno straccio di invito in tv. Se la propaganda di Mosca si affida a questa rete per cambiare le sorti del conflitto, significa davvero che al Cremlino la situazione non è buona.

Lasciateli parlare. Mi raccomando, che nessuno contraddica il pacifista comunista sindacalista collaborazionista. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 7 Giugno 2022.

In un Paese dominato dalla narrazione filoputiniana sembra ancora incredibile che le fake news pro-Cremlino vengano segnalate dai giornali, che qualcuno sollevi il dito contro le farneticazioni dei neneisti e che il palinsesto non sia ancora tutto nelle loro mani.

Ma vogliamo difenderlo sì o no il diritto del pacifista comunista sindacalista collaborazionista di non finire nelle liste di proscrizione? Che Paese è mai diventato, il nostro, se non garantisce il diritto all’anonimato del pacifista comunista sindacalista collaborazionista che quando bombardano un ospedale dice che era un covo di nazisti?

Che democrazia è mai questa se al pacifista comunista sindacalista collaborazionista si vuole applicare la tortura del contraddittorio, sopprimendo il diritto al monologo sui cadaveri finti di Bucha e sulle attrici assoldate sul set dei bombardamenti per infangare l’immagine dei denazificatori?

A quale livello di inciviltà ci stiamo riducendo se lasciamo che il pacifista comunista sindacalista collaborazionista possa dire soltanto in prima serata, e soltanto su Raiuno, Raidue, Raitre, Canale5, Rete4, Italia1 e LaZ, che i bambini stuprati in Ucraina erano provocanti?

Quanto ancora dobbiamo aspettare affinché al pacifista comunista sindacalista collaborazionista sia garantita la libertà di contribuire all’allestimento dei palinsesti, finora inammissibilmente lottizzati da omosessuali e drogati? Vogliamo denunciare, una buona volta, che l’orribile gogna di cui è vittima il pacifista comunista sindacalista collaborazionista è soltanto l’ultima formula adoperata dall’imperialismo guerrafondaio per conculcare il sacrosanto diritto di dire chiaro e tondo che l’Ucraina è uno Stato canaglia e che Zelensky non paga l’IMU?

O invece vogliamo continuare così, lasciando che la stampa massonica e la finanza usuraia proseguano con il genocidio culturale della tradizione pacifista comunista sindacalista collaborazionista?

Nasce Forza Russia: i putiniani d'Italia stanno preparando un partito pacifista. E il Copasir indaga. Pasquale Napolitano il 6 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il Copasir mette sotto i riflettori il partito "Forza Russia". Più che filo-putiniani, i politici e gli intellettuali che sostengono le ragioni di Mosca sembrano essere semplicemente alla ricerca del proprio minuto di visibilità.  

Il Copasir mette sotto i riflettori il partito «Forza Russia». Più che filo-putiniani, i politici e gli intellettuali che sostengono le ragioni di Mosca sembrano essere semplicemente alla ricerca del proprio minuto di visibilità. In molti escono dal cono d'ombra e discettano in tv e sui media di questioni geopolitiche. Per altri (Michele Santoro) è l'occasione per abbandonare il lungo esilio dalla tv italiana. Ora sognano addirittura una lista elettorale. Magari con Alessandro Di Battista leader. Il partito «Forza Russia» è trasversale: dal grillino Petrocelli al sindacalista Giorgio Cremaschi. Il Corriere della Sera fa nomi e cognomi dei putiniani d'Italia e anticipa un'indagine del Copasir.

Il portavoce di «Forza Russia» protesta: «Ormai nel nostro Paese c'è un neo maccartismo dilagante, che continua a crescere e non credo si fermerà» attacca il senatore Vito Petrocelli interpellato dall'Adnkronos. «Non è una novità. Dal giorno in cui ho votato contro la risoluzione del governo sull'invio delle armi in Ucraina è sempre stato così. Non mi sorprende. È un clima che non mi piace, un neo maccartismo appunto, e non credo finirà» rimarca l'ex grillino. I putiniani italiani cercano di capitalizzare le simpatie pro-Zar: «Una lista pacifista? Io non escludo nulla al 100% ma allo stato attuale non mi riconosco in nulla. Del resto lo avevo detto anche a Conte che non avevo intenzione di tentare una nuova candidatura parlamentare, per me il terzo mandato era fuori luogo. Preferirei fare altro, lavorare nel contesto delle relazioni internazionali» spiega Petrocelli, ex presidente della commissione Esteri del Senato.

Nel partito Forza Russia, Petrocelli è in buona compagnia. Non c'è solo l'onnipresente Alessandro Orsini. Le porte si sono spalancate per il giornalista Fulvio Grimaldi. Tra gli attivisti di «Forza Russia» spuntano lo storico Angelo d'Orsi, Luciano Canfora, Diego Fusaro. Tessera d'onore a Michele Santoro. La lista è in mano al Copasir che, al netto della pericolosità delle posizioni espresse dai putiniani, una indagine conoscitiva l'ha avviata. Per comprendere se vi siano flussi di denaro da Mosca volti a finanziare la propaganda del Cremlino in Italia e in Europa

Il presidente del Copasir Adolfo Urso non si sbottona: «Nessun commento». Mentre Federica Dieni, vicepresidente del Copasir chiarisce: «Stiamo facendo gli approfondimenti sulle forme di disinformazione e di ingerenza straniere. Siamo in attesa di alcune risposte rispetto alle nostre richieste». Cosa c'è di concreto? Agli atti dell'indagine ci sarebbero una serie di note provenienti da diversi ambiti, sia su soggetti russi sia su una serie di personaggi che invece farebbero da cassa di risonanza delle linee del Cremlino. Il materiale il cui contenuto è stato anticipato dal Corriere della Sera - sarebbe stato acquisito nel corso delle diverse audizioni già svolte sul tema nelle scorse settimane. Ulteriori elementi potrebbero essere acquisiti nella missione che il Copasir farà a Washington dal 12 giugno e successivamente a Bruxelles. Non è escluso che dopo le trasferte in Usa e in Belgio, il Comitato possa redigere una relazione conclusiva. Elio Vito, altro componente del Copasir alza il tiro: «Quella che deve aumentare è la consapevolezza dell'attualità e della gravità della minaccia che rappresenta per la nostra democrazia e per la nostra libertà l'attività di disinformazione e di ingerenza straniera, compiuta anche tramite modalità ibride e cibernetiche». Il monitoraggio del Copasir potrebbe aumentare nei prossimi giorni in vista del passaggio in Parlamento il 21 giugno prossimo: giorno in cui il premier Draghi dovrà riferire in Aula sulle future iniziative contro Mosca, tra cui il nuovo invio di armi. E proprio in quel momento che Forza Russia potrebbe trovare una sponda parlamentare per aumentare la pressione.

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 10 Giugno 2022.

«Ma che gli è preso a Michele?». Nel clan Santoro di un tempo la domanda se la fanno in molti. È vero che quando faceva il conduttore tv amava e sapeva confezionare i programmi con piglio da tribuno che imponeva le sue idee con forza. 

Ora, però, con quel suo livore antiucraino, più che putiniano lui è lo zar di Mosca a sembrare santoriano. In un'intervista tra le tante - quella a La Stampa - ieri ha sparato a zero contro Kiev con argomenti che manco su twitter tracciano la linea. 

Al punto che sull'account del quotidiano torinese i commenti contro sovrastavano quelli a favore di Santoro.

Il problema non è il posizionamento geopolitico di Michele. Grazie a Dio - più qui che in Russia - c'è libertà di opinione. Ma lui le ha messe tutte insieme con una confusione che nemmeno il miglior Aulin ci aiuterebbe a rimetterci in sesto. Così invecchia male. A 70 anni a nessuno di noi vecchietti verrebbe in mente di invocare per lui la pensione, ma c'è uno stile anche nel chiudere una carriera che ha avuto momenti esaltanti. Il declino non è una scelta. 

Le liste dei filorussi sono opera di Mario Draghi, «dietro c'è lui». Lamenta di non avere una trasmissione, nonostante «migliaia di persone scrivano sui social che mi vorrebbero in tv». Le primarie catodiche, insomma. 

Sul Pd e la Rai ha il nostro stesso giudizio, quindi non vale. Sentenzia poi che l'Ucraina non è una democrazia compiuta, nega di essere putiniano e ne dice così tante che è impossibile stargli appresso. E così manda in fumo la popolarità di un tempo, apprezzata allora anche a destra. Tutto per qualche intervista in stile casinista.

ALTRI TEMPI «Ma che gli è preso a Michele?», rimbomba al telefono la domanda di quelli che lo adoravano. Davvero non è più il tempo di Samarcanda. E chi se lo perdeva il giovedì sera quel programma... Faceva arrabbiare a volte, ma era tv vera, creava discussione autentica nelle case, nelle piazze, sul lavoro, al bar. «Hai sentito ieri Santoro»?, era il commento ricorrente. 

L'autodistruzione non era contemplata. Su tutte le cose che ha detto, fa sorridere vedere il premier - che pure di cose strane ne ha combinate negli ultimi tempi - come mandante della lista immortalata sul Corrierone. Basta google per capire chi sta con chi, non servono i servizi segreti, tantomeno Palazzo Chigi. Ma davvero fanno scandalo? È forse la prima volta che appaiono liste di proscrizione? Ci sarebbero elenchi lunghissimi da diffondere, giornali e giornaletti come elenchi del telefono.

Nell'intervista di ieri Santoro attacca anche il direttore di Libero. Alessandro Sallusti ha recentemente ricordato quando toccava a lui vedere la propria faccia proprio nelle altre liste, quelle mandate in giro da Beppe Grillo sulla rete. 

Casualmente Santoro se la prende proprio con Sallusti per la trasmissione da Giletti, in cui il direttore ha manifestato indignazione per le tesi russe: «È grave che attacchi il Cremlino e nessuno lo critichi», ha detto Santoro e tutti a chiedersi se invece non fosse Lavrov.

Ma il massimo arriva quando si lamenta di qualche parolaccia pronunciata da Sallusti nei confronti dei guerrafondai presenti a Non è l'Arena. Ohibò, poffarbacco. Santoro diventa chierico e testimonia che non si dicono quelle parole. 

Come se fosse possibile dimenticare Annozero. Su La7 lo aprì al grido «Incazziamoci tutti...» e «fanc... ai partiti...», poi ripetuto in modalità martellante nella trasmissione.

IL CONTRATTO Ancora "meglio" aveva fatto alla Rai, dove aveva avuto cura di farsi confezionare un contratto blindato per evitare problemi. Il "vaffanbicchiere" all'allora direttore generale Mauro Masi fu epico e furbetto. Voleva dire il tradizionale vaffa, virò su un'alternativa senza senso. Paura della parolaccia? No, di Masi che invece non aveva paura di lui. Tanto è vero che dopo la Rai Masi è diventato amministratore alla Consap e poi è arrivato al vertice della banca del Fucino. A Santoro sono rimaste le intemerate contro gli altri. Ma stavolta ha puntato, sbagliando mira, su Sallusti, un altro che non si spaventa e al massimo lo considera come un troll sulla rete.

Simone Canettieri per ilfoglio.it il 6 giugno 2022.

Sergej Razov è stato convocato questa mattina dalla Farnesina. L'ambasciatore russo in Italia alle 11 ha avuto un colloquio con Ettore Sequi, segretario generale del ministero degli Esteri. Il quale al nome del governo italiano ha chiesto all'ambasciatore delle ultime dichiarazioni su media e politici italiani. L'iniziativa di convocare l'ambasciatore parte da Luigi Di Maio ed è stata concordata con Palazzo Chigi.

Razov in questi ultimi giorni è stato molto al centro della cronache. Da una parte per i suoi incontri con Matteo Salvini, dall'altra per le parole molto aggressive nei confronti della politica e dalla stampa italiana. Lo scorso 2 giugno non è stato invitato dal Quirinale alla cerimonia per la festa della Repubblica.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022. 

Il 2 giugno, per la prima volta, non è stato invitato al Quirinale e c'è rimasto male, l'ambasciatore russo Sergey Razov: «La politica è politica - ha sospirato amaro - ma in tutti questi anni io e mia moglie abbiamo assistito con grande piacere al solenne ricevimento del presidente della Repubblica Italiana».

Ecco, però, che entro pochissimi giorni, l'ambasciatore offeso potrebbe già consumare la sua «vendetta», perché dopo due anni di pandemia, il 12 giugno, tornerà in presenza la festa per la Giornata della Russia a Villa Abamelek, la sua residenza romana immersa in un parco di 27 ettari nei pressi del Gianicolo, con più di mille invitati, tra diplomatici, politici, addetti militari, fuochi pirotecnici e musica dell'Inguscezia, come da tradizione.

E allora attenti agli inviti: nel 2018 c'era già Matteo Salvini (con Gianluca Savoini) all'epoca ministro dell'Interno. Salvini che poi in ambasciata è diventato quasi un habitué: quattro gli incontri con Razov negli ultimi mesi accompagnato dal suo consulente Antonio Capuano per preparare il viaggio a Mosca, poi tramontato. 

E quest' anno? «Le relazioni sono come un mosaico, cose belle e meno belle», ama dire sempre Razov, che voleva passare per colomba prima che gli spuntassero gli artigli del falco: «Lui combina l'arroganza con la spregiudicatezza», disse una volta l'ex deputato (FI) Fabrizio Cicchitto.

Già il cognome suona bellicoso: Razov. E al di là delle frasi ad effetto - «Abbiamo teso una mano di aiuto agli italiani e ora qualcuno vuole mordere questa mano» - il primo a mordere di solito è lui, 69 anni, ambasciatore da 9 per l'Italia e San Marino. Come due giorni fa, quando ha fatto pubblicare sul profilo Facebook dell'ambasciata un dossier di attacco all'Italia del ministero degli Affari Esteri di Mosca.

O come quando dopo l'invio delle armi in Ucraina disse: «È come cercare di spegnere il fuoco col cherosene, le sanzioni non resteranno senza risposta». Tra il 1975 e il 1990, la sua carriera è interna al Partito comunista dell'Urss. Poi lascia per la diplomazia. Parla bene l'italiano, l'inglese, il polacco e il cinese (è stato ambasciatore anche in Mongolia, Polonia, Cina). 

Sposato, due figli, Razov è scaltro, preferisce lavorare sottotraccia, ma le terrazze di Roma non gli dispiacciono. Se lo ricordano ancora in Campidoglio, in un'ottobrata del 2019, insieme ai principi Sforza, l'ambasciatore Umberto Vattani, Maria Pia Ruspoli, fare al microfono il discorso di saluto per il Premio Pushkin. E va molto fiero anche delle sue onorificenze: per esempio l'Ordine dell'Amicizia della Federazione Russa, una stella raggiante in oro in cui campeggia il globo terrestre circondato da una corona d'olivo. Sul retro l'iscrizione in cirillico «Pace e Amicizia». Si fa per dire.

La campagna della Russia anti Italia pianificata all’inizio di marzo. Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 6 Giugno 2022.

La propaganda sulle armi, le sanzioni e la «russofobia» partita dal ministero degli Esteri di Mosca e subito rilanciata da social, influencer e opinionisti.  

L’attacco del ministero degli Esteri di Mosca all’Italia per la «violazione dei diritti dei cittadini russi» era stato pianificato già dagli inizi di marzo, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina. Una campagna di disinformazione che ha due obiettivi: denunciare la «russofobia» e dimostrare che «le sanzioni contro la Russia danneggiano soprattutto i Paesi che le applicano».

È uno dei temi su cui più si mobilita la rete dei sostenitori di Putin — politici, influencer, giornalisti freelance — con interviste tv, post sui social network e petizioni, rilanciati dai siti web filorussi. Su questa attività, che punta a diffondere notizie false per scopi di propaganda, l’indagine del Copasir è in fase avanzata.

Gli analisti e gli esponenti del Comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi segreti prevedono che la pressione aumenterà nei prossimi giorni, come sempre avviene in corrispondenza di scadenze politiche e parlamentari cruciali: il 21 giugno il premier Mario Draghi riferirà alle Camere in vista del Consiglio europeo e poi si voterà la risoluzione di maggioranza sulla guerra. Un appuntamento decisivo per chi ha come obiettivo il boicottaggio dell’azione del governo e contesta, oltre alla scelta dell’Italia di aderire convintamente alle sanzioni contro Mosca, l’invio di armi e apparecchiature militari alle autorità ucraine. Come si è visto sin dalle prime settimane del conflitto, la propaganda si attiva per screditare l’azione dell’esecutivo guidato da Draghi e per dimostrare che le sanzioni «danneggiano soprattutto chi le decreta».

La «russofobia»

Il 5 marzo l’ambasciata russa in Italia posta sulla sua pagina Facebook un annuncio esplicito: «A causa dell’aggravata situazione internazionale e della campagna di disinformazione anti russa dei media, il numero di casi di discriminazione nei confronti dei cittadini russi all’estero è aumentato vertiginosamente». Sui canali Telegram viene rilanciato il messaggio per giorni, l’Italia è accusata di essere in prima linea nella «russofobia» e il 28 marzo si avvia la petizione su Change.org «contro la disumanizzazione del popolo russo da parte dei nostri media». Esattamente quanto denunciato dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov due giorni fa, nel suo ennesimo attacco al nostro Paese.

Le sanzioni

Negli ultimi giorni la tesi più accreditata dalla rete filorussa è che «la colpa del taglio delle forniture di gas verso l’Europa è dell’Ucraina» e soprattutto che «l’Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia». È il cavallo di battaglia della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova: «Per la mancanza di materie prime russe molti produttori di carta, vetro, cosmetici, potrebbero dover chiudere». Messaggio rilanciato da Cesare Sacchetti, gestore di un canale Telegram con oltre 60 mila iscritti, ritenuto uno degli appartenenti al circuito della disinformazione: «L’Ue è costretta a tornare sui propri passi e pagare il gas in rubli».

Alle sanzioni come boomerang per chi le applica attinge anche il freelance Giorgio Bianchi. Intervenendo il 2 aprile in collegamento dall’Ucraina al convegno della «Commissione dubbio e precauzione», il giornalista definì le sanzioni «la pistola che spara direttamente nelle mutande del contribuente e delle imprese europee». I gruppi filorussi si scatenano su Twitter e Telegram, prendendo di mira il governo italiano anche su aspetti apparentemente minori: «Si è esportato il 20% in meno del vino friulano. Una cosa è certa: le sanzioni all’Italia stanno funzionando».

I documenti riservati

Ci sono diverse influencer russe attive, secondo gli apparati di sicurezza, nel lavoro di disinformazione e propaganda. Una è Ekaterina Sinitsyna, residente da tempo nel nostro Paese, la quale ha pubblicato un video mostrando documenti riservati che avrebbe ricevuto dall’ambasciata ucraina in Italia in cui viene «accusata di attività volte all’incitamento all’odio, alla violenza, alla discriminazione e alla propaganda di guerra» e ha raccontato di aver «inoltrato il messaggio all’ambasciata russa», marcando così la propria posizione. Il post di Maria Dubovikova, che invece risiede a Mosca — «L’Osce ha armato sottobanco gli ucraini contro i russi» — è stato condiviso dal blog maurizioblondet.it. Ieri sera Maurizio Blondet, criticando il servizio del Corriere, rivendicava la libertà di chi «ha e difende opinioni contrarie a quelle prescritte dal potere del Draghistan».

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 5 giugno 2022.

I sondaggi, le coalizioni e la legge elettorale con cui si voterà nel 2023, ossia gli argomenti che tanto appassionano i media e la classe politica, rischiano di essere quelli sbagliati. La variabile decisiva, nell'ultimo anno di legislatura, promette di essere un'altra: il «fattore S», inteso come «servizi segreti». 

L'Italia e gli italiani si trovano infatti in mezzo a una partita giocata dalle "agenzie" dei Paesi più importanti a colpi di avvertimenti, dossier e possibili ricatti, il cui obiettivo è regolare conti lasciati in sospeso e condizionare il risultato delle elezioni politiche.

Uno dei pochi parlamentari che, per via del curriculum, conosce certe dinamiche, sente aria di cataclisma. «C'è stata un'accelerazione, l'impressione è che la situazione stia precipitando». 

Hanno iniziato i servizi italiani, facendo emergere alcuni dettagli degli incontri tra Matteo Salvini e l'ambasciatore russo a Roma, Sergej Razov. Tutti i leader e i responsabili della politica estera dei partiti hanno colloqui, spesso frequenti, con i capi delle principali delegazioni diplomatiche, però chi ne è al corrente si guarda bene dal rivelarne l'esistenza. Per Salvini, che pure aveva raccontato in pubblico di aver parlato con Razov, è stata fatta un'eccezione, segno che a lui è dedicata un'attenzione particolare.

La mossa di Vladimir Putin è arrivata subito dopo. Da piazza Smolenskaya, sede del ministero degli Esteri, hanno fatto sapere che il tentativo di dipingere come un'operazione di spionaggio la missione russa che si presentò in Italia nella primavera del 2020, autorizzata dal secondo governo Conte, «dimostra la moralità di alcuni rappresentanti delle autorità pubbliche e dei media italiani».

Parole che a Roma sono lette come un avvertimento, nemmeno velato: se gli uomini di Sergej Lavrov parlano di «moralità», è perché sono al corrente di qualche segreto inconfessabile da parte di esponenti, attuali o recenti, delle nostre istituzioni. Il linguaggio di chi si sente tradito lascia intuire qualcosa riguardo al resto.

Ieri il Corriere della Sera ha raccontato di un altro avvertimento. Lo ha recapitato Patrick Shiflett, alto dirigente dell'Fbi che si occupa di controspionaggio e in particolare della "China Initiative", l'operazione avviata dal dipartimento della Giustizia statunitense per reprimere lo spionaggio e il furto di segreti industriali da parte del governo di Pechino. Il 24 maggio Shiflett si è presentato a Roma, davanti ai membri del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica, per dire che a Washington è stata aperta un'inchiesta allo scopo di appurare se la Cina ha finanziato la prima campagna elettorale di Donald Trump. Non ha aggiunto altro, ma se ha sorvolato l'Atlantico per fare una cosa del genere, vuol dire che in quei faldoni ci sono anche nomi di personaggi italiani, ovviamente tenuti coperti.

Chi a Roma è al corrente dei rapporti tra Washington e Pechino, contattato da Libero, punta il dito sugli investimenti fatti dalla Cina nelle reti e nelle altre infrastrutture italiane. È un argomento che il Copasir tiene sotto i riflettori da tempo. 

Nel dicembre del 2019, quando era guidato dal leghista Raffaele Volpi, il comitato aveva chiesto per la prima volta al governo, all'epoca guidato da Giuseppe Conte e tinto di giallorosso, di «escludere» le aziende cinesi «dall'attività di fornitura di tecnologia per le reti 5G», il nuovo standard di comunicazioni cellulari, ritenuto «di importanza strategica» dagli americani. Salvini, che nell'occasione vestiva le parti dell'accusatore, disse che «troppe cose non tornano nei rapporti tra M5S e Cina, a partire dal ministro Patuanelli che minimizza la relazione del Copasir sul 5G».

È il periodo in cui Luigi Di Maio sottoscrive l'adesione dell'Italia (unico Paese del G7) alla Via della Seta, il programma varato dal regime di Pechino per estendere la propria influenza commerciale e politica. Una scelta per la quale al dipartimento di Stato americano si erano detti «preoccupati», senza far cambiare idea al nostro ministro degli Esteri. 

Una fonte diplomatica assicura che adesso Mario Draghi e Franco Gabrielli hanno riportato la situazione sotto controllo, e l'Italia non è più ritenuta a rischio d'infiltrazione, almeno da parte della Cina. È la conferma di quanto sia forte il legame che unisce Washington a Draghi, nonché una delle tante questioni che separano il premier dal suo predecessore a palazzo Chigi.

La cosa, però, non pare destinata a finire con la "normalizzazione" delle relazioni internazionali da parte di questo governo, nel quale Di Maio veste i panni dell'ultrà draghiano e atlantista. Sono rimasti vecchi conti da regolare, nell'agenda di Washington come in quella di Mosca, e la sfida per chiuderli è appena iniziata. In attesa di capire se anche a Pechino vorranno tuffarsi nella mischia: cose da dire ne avrebbero tante, pure loro. 

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 5 giugno 2022.

L'escalation del Cremlino contro l'Italia non è una sorpresa. L'attacco durissimo che il ministro degli Esteri russo ha scagliato venerdì contro gli ultimi due esecutivi - Conte bis e Draghi - accusati di essere «servili e miopi», oltre che dal basso «carattere morale », unito al messaggio trasversale lanciato ieri per denunciare la campagna antirussa sui media tricolori, addirittura le discriminazioni subite dai cittadini di Mosca, sono il segnale di una controffensiva mirata a far esplodere le contraddizioni in seno a un Paese e a una maggioranza di governo non sempre granitici nel condannare l'aggressione militare di Putin all'Ucraina.

Abitati anzi da esponenti di primo piano, politici e giornalistici - dal leader della Lega Matteo Salvini ad alcuni conduttori dei principali talk show - inclini a manovrare di sponda con lo zar, indulgendo sulle sue ragioni e insistendo sulla necessità di accoglierne le richieste, pur di far cessare la guerra che sta incendiando il Vecchio Continente. 

Un giochino che tuttavia la fermezza del premier Draghi e le iniziative del Copasir (che ha acceso un faro sui programmi Rai sensibili alle ragioni del Cremlino) hanno portato allo scoperto. Facendo irritare i russi. «Sono nervosi perché hanno capito che l'Italia, considerata da sempre un Paese amico, non è più manovrabile come un tempo né come loro credevano che fosse», spiega un qualificato analista del settore.

Il ventre molle d'Europa, in sostanza, si sta rivelando meno cedevole e più resistente del previsto. Non esattamente una buona notizia per chi contava su di noi per far breccia nell'opinione pubblica europea e rompere l'isolamento di Mosca. 

Difatti, secondo chi la materia la maneggia da sempre, è soprattutto uno l'aspetto che sta irritando l'entourage di Putin. Legato, appunto, alla penetrazione della disinformazione sulla Tv pubblica italiana, non più efficace come all'inizio del conflitto.

Nei primi due mesi, non c'era trasmissione in cui non fosse presente un rappresentante del governo russo, anche sotto mentite spoglie, a perorare la causa di Mosca. Adesso, invece, non solo accade molto meno, ma in alcuni programmi - vedi in particolare la puntata di Report del 9 maggio, dedicata alla controversa spedizione russa mascherata da aiuto anti-Covid - vengono esplicitamente additati i metodi utilizzati da Putin per spiare e infiltrare l'Italia. Un attacco che finisce per smentire in modo palese la propaganda, costruita dal Cremlino, dell'Italia amica della Russia. Contro cui reagire con la stessa forza, denunciando attraverso il report ministeriale «un'aperta campagna anti-russa da parte dei media italiani ». Utile pure a fini interni.

Secondo gli analisti, l'avvertimento sarebbe infatti diretto anche all'ambasciata moscovita di stanza a Roma. Gli uomini di Putin vogliono capire perché prima erano i diplomatici capitanati da Sergey Razov a "gestire" e di fatto imporre gli ospiti russi nella Tv di Stato italiana, mentre oggi la loro presenza si è diradata sin quasi a scomparire. 

È scritto chiaramente in un passaggio del documento diffuso su Facebook: «I connazionali sono preoccupati per il limitato accesso ai media russi in Italia e, di conseguenza, per la mancanza di informazioni obiettive sulla politica e sulle azioni della Russia nel quadro dell'operazione militare speciale, che è particolarmente significativa nel contesto della pressione propagandistica dell'Occidente ».

Per il governo di Mosca «la trasmissione di informazioni sugli eventi viene effettuata esclusivamente sulla base di fonti occidentali o ucraine» e «questo approccio parziale ha un'influenza chiave sull'atteggiamento degli italiani nei confronti dei cittadini russi che vivono in Italia, così come degli immigrati di lingua russa dall'ex Unione Sovietica». Eccolo il punto dolente, che ha mandato in tilt il Cremlino. «La verità è che la dottrina Gerasimov per cui la guerra si combatte anche in modo non tradizionale, attraverso la disinformazione, sta mostrando la corda», conclude un esperto dei Servizi. «La fermezza di Draghi, insieme alle contromisure adottate dal Copasir, l'hanno svelata agli occhi degli italiani. E i russi non riescono ad accettarlo».

Guerra e TV, il cinismo della realpolitik. Fulvio Abbate su Il Riformista il 2 Giugno 2022. 

Infine, sulla terra e il destino d’Ucraina, accanto alle artiglierie degli invasori russi, giunse un’arma non meno dirompente, affidata quest’ultima alle parole, ai discorsi, forse perfino al chiacchiericcio ordinario, buttato lì come nulla fosse: l’argomento assoluto e inappellabile della cosiddetta realpolitik. Il cinismo, sovente interessato, di chi fin dall’inizio ha ritenuto che gli ucraini dovessero arrendersi, così per forza di cose, così poiché la loro lotta, di più, la loro resistenza era del tutto velleitaria, estranea perfino alla rispettabilità stessa di questo termine riferito alla dignità e alla sopravvivenza.

Sia per ragioni evidenti di sproporzione legate agli armamenti, ai rispettivi arsenali, sia perché addirittura la fatica e il coraggio dei suoi combattenti, compresa la popolazione civile, non andavano affatto ritenuti frutto di una “resistenza”, semmai di una guerra tra nazioni, dunque di bieco nazionalismo, e in quanto a questo la Russia di Putin, a dispetto della sua condotta criminale, restava comunque una rispettabile super potenza, insomma, assai meglio non svegliare dal suo letargo millenario l’orso russo. Cinismo e pavidità, e ogni etica possibile da ritenere un surplus, un ingombro non necessario, perfino a dispetto e all’evidenza dei massacri, dei morti civili innocenti. Tutto ciò perfino pronunciato con sicumera filosofica.

E ancora chi, dalla comoda tribuna dei talk, persona già nota per avere collaborato con “Russia Today”, prova addirittura a spiegare che proprio l’etica nella vicenda ucraina dovrebbe essere messa tra parentesi, al contrario facendo semmai caso all’inutilità delle sanzioni, così “perché le sanzioni danneggiano innanzitutto noi, la nostra economia”, argomento inaffondabile della destra bottegaia e sovranista in un Paese, l’Italia, che più di ogni altro si è distinto nel pubblico sostegno all’infamia russa di Putin. L’avanzare progressivo e inesorabile delle realpolitik, appunto. Come arma di dissuasione civile ed etica. Magari accompagnata dall’immagine di chi come Salvini, a dispetto perfino di se stesso mesi prima, ospite indesiderato in una cittadina al confine polacco davanti al sindaco locale, prova ora a inventarsi “messaggero di pace”, mediatore, immaginando una propria nuova gita a Mosca.

Realpolitik e ancora cinismo nella retromarcia del cantante amato dalle platee già sovietiche che dapprima si dissocia dall’amico Putin, addirittura ospitando alcuni profughi ucraini nella propria masseria, salvo poi, ospite del “Maurizio Costanzo Show” rimangiarsi tutto. Segno che proprio l’arma della realpolitik sta lavorando meglio degli obici e dei “katiuscia”. E ancora, nella medesima foto di gruppo, molti altri, mobilitati sul campo sempre in nome del realismo, pronti a dire fin dal primo momento che l’Ucraina non potrà mai vincere la “sua” guerra, parole che implicitamente nascondono la convinzione dei satrapi di Mosca, gli stessi secondo i quali l’Ucraina non può dirsi nazione, ma va ritenuta piuttosto nella sua interezza, dunque non meno del Donbass e della Crimea, parte non scorporabile della Grande Madre Russia infine putiniana.

Le parole di Pier Paolo Pasolini riferite un tempo proprio al ricatto della realtà, allo stato delle cose, supportate dal sinonimo caro al cinismo politico – la realpolitik, appunto – anche questa volta suonano esemplari, e si stendono come un sudario sui morti che non avranno giustizia. Realpolitik contrabbandata come forma di intelligenza politica superiore pronta a cancellare ogni possibile eventuale processo sui crimini di guerra che dovrebbe vedere la Russia portata alla sbarra quando i serventi al pezzo delle artiglierie torneranno alle loro case.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Augusto Minzolini per il Giornale il 2 giugno 2022.

Comprendo il travaglio di Belpietro che mi accusa di non avere idee sulla guerra. In realtà il sottoscritto e questo giornale sulla crisi ucraina hanno avuto fin troppe idee. Tutte improntate al realismo e condite con un pizzico di pragmatismo, non certo con le pseudo ideologie che la pandemia si è portata dietro. 

Consultare le collezioni dei quotidiani per credere: prima degli altri abbiamo ipotizzato un epilogo coreano, il rischio di un conflitto che potrebbe andare avanti per anni ad alta o bassa intensità e, addirittura, la prospettiva di un Paese diviso in due, immaginando quasi tre mesi fa un ipotetico confine che somigliava molto a quello che ora sta venendo fuori dal campo di battaglia. L'unica idea, invece, partorita dalla eccelsa mente di Belpietro è stata quella di criticare l'invio delle armi. Magari se avessimo seguito il suo suggerimento avremmo avuto la pace ma non avremmo avuto più l'Ucraina. Una Pax russa che forse avrebbe salvato la coscienza a Belpietro ma non la vita e la libertà degli ucraini. au.min.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 3 giugno 2022. 

Augusto Minzolini deve avere la mente un po' annebbiata. Dopo aver censurato il discorso che Silvio Berlusconi ha pronunciato a Treviglio (in cui diceva che è sbagliato inviare armi all'Ucraina) e dopo aver nascosto quello che il Cavaliere ha detto a Napoli (ovvero che «la Ue dovrebbe convincere Kiev ad accogliere le domande di Putin»), sul Giornale di ieri ha pubblicato l'intervento del leader di Forza Italia con il titolo «La Russia ha già perso».

Peccato che di fianco ci fosse un altro titolo che smentiva il primo: «Il Donbass è quasi russo». Ma che la mente del direttore del Giornale sia un po' annebbiata lo prova il fatto che rimprovera a me ciò che dice Berlusconi e rivendica come un successo di aver pronosticato mesi fa una soluzione coreana per l'Ucraina, ovvero la divisione in due del Paese. L'unica cosa che dimentica di dire è che la guerra di Corea fece più di 2 milioni di morti prima che le potenze in campo si accordassero per una tregua. È quello che ipotizza anche per Kiev?

Augusto Minzolini per “il Giornale” il 4 giugno 2022.

A me Maurizio Belpietro fa sorridere. Mi rimprovera che io dica una cosa sulla guerra in Ucraina e, a suo parere, Berlusconi un'altra. Se anche fosse, ma non penso, io ragiono da sempre con la mia testa mentre lui quando era direttore del Giornale forse no. Mi rimprovera di aver pronosticato un epilogo coreano per l'Ucraina: io certo non lo desidero, ne soffro, ma purtroppo facendo il giornalista non posso nascondere la cruda realtà.

Ora Zelensky ammette di aver perduto il 20% del territorio ucraino. Il sottoscritto aveva scritto il 13 aprile scorso, cioè non ora ma due mesi fa: «l'Ucraina filorussa, quindi, nei piani dello Zar occuperebbe più di un quinto dei territori di quella attuale». Appunto, il 20%. La «verità» - mi consenta l'amico Belpietro il gioco di parole con il nome della sua testata - è che se vuole capire qualcosa di più di ciò che sta accadendo senza ubriacarsi di ideologia, pacifista o guerrafondaia poco importa, dovrebbe leggere di più Il Giornale. È un consiglio fraterno. Abbracci.

Lo ha detto l'ex cancelliera nella prima intervista pubblica dalla fine del suo mandato. LaPresse/Ap / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2022.

(LaPresse) «Questo attacco all'Ucraina non ha scuse. Si tratta di un attacco brutale che viola il diritto internazionale, per il quale non ci sono scuse»: lo ha detto l'ex cancelliera Angela Merkel nella prima intervista pubblica rilasciata dalla fine del suo mandato nel settembre scorso, alla Berliner Ensamble. «Si tratta di una violazione oggettiva di tutte le norme di diritto internazionale. E' un grosso errore della Russia» ha concluso.

Merkel rompe il silenzio: «In Ucraina barbara guerra di aggressione della Russia». L'ex cancelliera tedesca contro Putin. Che non cita mai...su Il Dubbio il 02 giugno 2022.

È una «barbara guerra di aggressione» quella che il presidente russo Vladimir Putin ha scatenato contro l’Ucraina. Ne è convinta l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel, che nel suo primo discorso pubblico a sei mesi dalla fine del suo incarico descrive come un «punto di svolta di grande portata» l’invasione russa dell’Ucraina.

«La mia solidarietà va all’Ucraina che è stata attaccata e invasa dalla Russia», ha detto Merkel, «e sostengo il suo diritto all’autodifesa». L’ex cancelliera, che ha subito critiche per essere andata avanti con il raddoppio del gasdotto russo-tedesco Nord Stream, ha affermato che l’invasione dell’Ucraina è «la più clamorosa violazione» del diritto internazionale avvenuta in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. «Nessuno è in grado davvero di stimare i vasti effetti di questo conflitto armato», ha proseguito Merkel, che ha poi definito la strage di Bucha «rappresentazione dell’orrore».

Durante il suo discorso Merkel non ha menzionato nemmeno una volta il presidente russo Vladimir Putin, con cui aveva rapporti cordiali, e ha avvertito che «non dovremmo mai dare la pace e la libertà per scontate». In questa «tristezza senza fine», Merkel ha visto un «raggio di speranza» nel sostegno a Kiev dato da Polonia, Moldavia e altri Paesi confinanti e ha chiesto ai tedeschi di fare la loro parte per l’unità dell’Europa in una situazione, come quella attuale, in cui «è vitale che l’Europa sia coesa». 

Stefano Graziosi per “La Verità” il 3 giugno 2022. 

Alla fine si è svegliata. Dopo un lungo silenzio, Angela Merkel ha parlato dell'invasione russa dell'Ucraina, definendola una «barbara guerra di aggressione». E pensare che, se l'Ue non è oggi in grado di mettere in campo una risposta forte al Cremlino, è in gran parte proprio colpa dell'ex cancelliera: quella stessa Merkel che, fino a quattro mesi fa, molti elogiavano come un gigante della politica internazionale.

Eh sì, perché è stata proprio la cancelliera a condurre una strategia di avvicinamento a Russia e Cina: una strategia condivisa anche da Olaf Scholz (che fu vicecancelliere nel suo ultimo gabinetto) e che ha coinvolto l'intera Ue. 

Non dimentichiamo che lo scellerato trattato sugli investimenti tra Bruxelles e Pechino, siglato a dicembre 2020, fu un'operazione guidata proprio dalla Merkel, la quale fu anche un'accanita sostenitrice del controverso gasdotto Nord Stream 2, a cui Donald Trump comminò pesanti sanzioni nel dicembre 2019.

Del resto, Trump aveva messo in guardia dal pericolo dell'avvicinamento tra Germania e Russia già nel 2018. «La Germania è prigioniera della Russia perché sta ricevendo tanta energia dalla Russia», disse, «Noi dovremmo proteggerla e loro riempiono di soldi Mosca costruendo il gasdotto». Parole che, rilette oggi, suonano profetiche.

Eppure, all'epoca, gli europeisti acritici (anche di casa nostra) bollavano Trump come un populista, mentre vedevano nella Merkel una statista. Uno statista, secondo la medesima vulgata, si sarebbe d'altronde dovuto rivelare anche Joe Biden che - era maggio 2021- revocò le sanzioni al Nord Stream 2 senza adeguate contropartite né da Mosca né da Berlino. È del resto per disastrose scelte di politica estera come questa che l'attuale presidente americano si sta ritrovando oggi progressivamente con le spalle al muro. 

I Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo hanno deciso infatti che non appoggeranno le sanzioni occidentali alla Russia: in quel consesso svolgono significativamente un ruolo decisivo Arabia saudita ed Emirati arabi che, oltre ad essere membri dell'Opec, erano un tempo agganciati all'orbita statunitense. 

Sia Riad che Abu Dhabi hanno tuttavia raffreddato i rapporti con Biden a causa della sua disastrosa apertura all'Iran e delle sue posizioni sul conflitto nello Yemen. Questo ha spinto i due Paesi del Golfo sempre più tra le braccia di Mosca, mentre Biden sta ora cercando disperatamente di organizzare un tardivo incontro con Mohammad bin Salman.

Tra l'altro, mentre l'Ue finalizza difficoltosamente un sesto pacchetto di sanzioni zeppo di deroghe e che non entrerà paradossalmente in vigore prima di sei mesi, l'India sta incrementando l'acquisto di petrolio russo: secondo Cnn, il volume di importazione sarebbe nove volte maggiore rispetto all'anno scorso. Si tratta di un enorme problema per l'Occidente, che vede così indebolite le proprie sanzioni e che si trova costretto a subire un inquietante (ancorché parziale) allineamento tra Nuova Delhi, Mosca e Pechino. 

Ma i problemi riguardano anche l'Africa. Oggi, il leader dell'Unione africana, Macky Sall, incontrerà a Sochi Vladimir Putin per discutere di fertilizzanti e del blocco cerealicolo. Ricordiamo che, oltre alla Cina, anche la Russia ha ultimamente consolidato la propria influenza sull'area (specialmente Nord Africa e Sahel).

Non è inoltre escluso che il Cremlino possa far leva sulla crisi alimentare per dirigere delle ondate migratorie verso l'Ue. Purtroppo, su questo fronte, si sconta la miopia di Washington e Bruxelles, che non hanno elaborato un'adeguata strategia geopolitica per l'Africa in questi anni, lasciando il continente alle pericolose mire sino-russe. 

L'invasione dell'Ucraina frattanto non si ferma. Volodymyr Zelensky ha reso noto che circa un quinto del territorio ucraino è attualmente in mano russa, mentre il generale ucraino Oleksiy Gromov ha detto che la conquista dell'intera regione di Lugansk da parte degli invasori sarebbe vicina.

Nel mentre, Londra si è impegnata ad inviare a Kiev sistemi missilistici a medio raggio. Sistemi simili sono stati promessi anche dalla Casa Bianca, per quanto, secondo il Guardian, saranno soltanto quattro e occorreranno almeno cinque settimane per un adeguato addestramento al loro uso. 

Tutto questo, mentre, stando a Politico, vari parlamentari statunitensi bipartisan starebbero pressantemente chiedendo al Pentagono precise rendicontazioni degli aiuti, oltre a informazioni sul tracciamento delle armi inviate a Kiev.

Va da sé che questi fattori rischiano di azzoppare ulteriormente la leadership di Biden, che non è in grado di assumere una posizione chiara, perché ostaggio delle divisioni in seno al Congresso e alla stessa Casa Bianca, senza contare i suoi imbarazzanti cortocircuiti (come quello di allentare adesso la pressione su uno stretto alleato di Mosca come il Venezuela). 

Insomma, l'eredità della Merkel e le contraddizioni di Biden continuano ad affossare la deterrenza occidentale nei confronti di Russia e Cina, rendendoci vulnerabili a potenze ostili e revisioniste. Dove sono finiti tutti quelli che li definivano due grandi statisti?

L’urlo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.

L’altra sera, scanalando tra i talk, mi sono imbattuto in un’immagine familiare: il professor Cacciari che sbuffa e sbraita. Non ho capito perché, ma ha poca importanza. Cacciari sbuffa e sbraita a prescindere, con l’aria di chi ti concede la grazia di venire in tv mentre avrebbe di meglio da fare (andare in un’altra tv). Qualcuno sostiene che il suo sbuffare sbraitando e sbraitare sbuffando sia un vezzo caratteriale. Qualcun altro che faccia parte di una tecnica intimidatoria per far sentire l’interlocutore un cretino. In effetti gli interlocutori contro cui si scaglia, quasi sempre senza essere stato provocato da loro, tendono ad assecondarlo con sorrisi impacciati e un rispetto non giustificato dal suo comportamento. E pensare che basterebbe una parolina per smontarne la tracotanza a senso unico: Shanghai. Cacciari è uno di quelli che, prima di buttarsi sulla guerra, ha sbraitato e sbuffato in tutti i microfoni che l’Italia del Green Pass era una dittatura sanitaria, ma si è sempre scordato di dedicare anche solo un minuto d’indignazione a quanto stava succedendo in una dittatura vera, la Cina, dove si viene ingabbiati nei condomini al minimo sospetto di contagio. Pare che l’altra sera il bersaglio della sua ira prefabbricata fosse Gad Lerner, polemista di vaglia, uno capace di azzannarti alla giugulare. Ebbene, persino lui sembrava in soggezione, come se riconoscesse a Cacciari una patente di superiorità culturale. A riprova che in questo Paese, per essere presi sul serio, è sufficiente prendersi molto sul serio

Alessandro Bergonzoni per “il Venerdì di Repubblica” il 6 maggio 2022.

C'è chi nega, chi prega, chi lega, chi frega, chi spiega e stratega, chi annega, chi arma, chi tace e consente o non sente, ragione. 

Non riusciamo neanche a salvare gli uccelli dei cucù nè i lupi dalla luna mentre spirano venti di guerra, anzi di più. La maggior parte di noi scompare senza aver mai visto una giraffa, non abbiamo la pazienza di notare l'impercettibile movimento delle statue morenti, il rantolo delle spese (anche militari) vive. 

Non risparmiamo ma ci risparmiamo: c'è chi s' espone, chi si regala, chi nemmeno si presta e non misura la profondità delle scuse. Siamo incensurati nell'anima, indecisi tra un Dio curioso e uno furioso. 

Facciamo conversioni a "o" tornando sempre alla stessa religione, impauriti dalla resurrezione dei binari morti e dalle loro vite parallele. Incapaci di parlarci da uomo a uovo, timorosi degli altri generi che generano differenza e diffidenza. Vivendo tra fasti e fastidi, non abbiamo ancora scoperto il preservativo per le pene, per non metterne al mondo altre, avendo un debole per la forza (neanche troppo debole).

Tagadà, "Dove sta scritto, dimmelo". A Tagadà finisce malissimo: che lite tra Travaglio e Parsi. su Libero Quotidiano il 26 maggio 2022

Il prof. Vittorio Emanuele Parsi ha bacchettato Marco Travaglio sulla conoscenza della Costituzione nello studio di Tiziana Panella a Tagadà su La7. Il direttore del Fatto Quotidiano, parlando dell'aiuto offerto dal nostro Paese agli ucraini in guerra, ha spiegato che l'Italia per legge non potrebbe inviare armi ad altri. Ma poi è stato subito smentito da Parsi, che ha detto: "L'articolo 11 non dice che non si possono inviare armi. Lei non conosce la Costituzione!". "Lei è un costituzionalista?", gli ha chiesto allora Travaglio, innescando un serrato botta e risposta.

"Basta aver fatto educazione civica - ha proseguito il professore -. Non sappiamo nemmeno quanto siano state utili queste armi". Parsi, poi, ha provato a contestualizzare la questione: "Il fatto che l'Ucraina abbia speso molto per le armi mi sembra sia stato il minimo sindacale visto quello che è successo dopo. Se si guardano le classifiche delle armi si vede per esempio, incredibilmente, che la Grecia, che è uno dei Paesi con il Pil più piccolo nell'Ue, ha uno dei bilanci militari più grandi. Come mai? Una semplice questione di diffidenza nei confronti della Turchia". 

Il professore, infine, ha spiegato: "Quello che ci risulta è che i russi stanno patendo grossi danni materiali. Come mai non volano? Come mai uno che ha una superiorità nell'aria non dovrebbe usarla? In ogni caso i russi non ci stanno andando piano, stanno prendendo di mira la popolazione civile per fare pressione sul governo, stanno bloccando la fuoriuscita di grano chiedendo la revoca delle sanzioni. Non sono gli inglesi e gli americani che mandano armi, le mandano i tedeschi, i francesi, gli spagnoli, gli italiani: tutta la Nato manda armi perché ritiene che la minaccia russa all'Ucraina sia una minaccia all'ordine internazionale e alla sicurezza europea".

Disinformazione, i talk italiani sono in contrasto contro le indicazioni dell’Ue. VITALBA AZZOLLIN, giurista, su Il Domani il 19 maggio 2022.

Da anni l’Ue pone in essere azioni tese a contrastare fake news e fenomeni similari. A seguito dell’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, alcuni media russi sono stati sospesi in tutto il territorio dell’Unione.

Tuttavia, giornalisti dei media sospesi e propagandisti russi colpiti da sanzioni continuano a essere invitati nei talk show italiani, con buona pace della lotta alla disinformazione e alle sanzioni dell’UE. Il governo non pare preoccuparsene.

Il Copasir, invece, si sta preoccupando di «preservare la libertà, l’autonomia editoriale e informativa e il pluralismo da qualsiasi forma di condizionamento», ma non è chiaro in base a quali competenze.  

Dopo l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, il tema della disinformazione a opera di governi stranieri si è reso più evidente. Da anni l’Unione europea cerca di contrastare fake news e fenomeni similari e media russi sono stati sospesi a seguito della guerra.

Tuttavia, i propagandisti russi continuano a essere invitati nei talk show italiani, con buona pace della lotta alla disinformazione e alle sanzioni Ue, ma il governo non pare preoccuparsene.

Se ne preoccupa, invece, il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica). 

L’UE CONTRO LA DISINFORMAZIONE

La Commissione europea definisce come disinformazione «un’informazione rivelatasi falsa o fuorviante», divulgata per «distrarre e dividere, insinuare il seme del dubbio distorcendo e falsando i fatti, al fine di disorientare i cittadini, minando la loro fiducia nelle istituzioni e nei processi politici consolidati».

Nel 2015 il Servizio europeo per l'azione esterna (Seae) ha istituito la task force East StratCom, per affrontare le campagne di disinformazione da parte della Russia. East Stratcom dispone della piattaforma EuvsDisinfo, il cui obiettivo è  «aumentare la consapevolezza e la comprensione» sulle operazioni di disinformazione del Cremlino» e aiutare i cittadini a «resistere alla manipolazione delle informazioni digitali e dei media». EuvsDisinfo elenca 13.851 casi di disinformazione circa la guerra in Ucraina.

Nel 2018 la Commissione Ue ha indicato principi e obiettivi delle azioni volte a sensibilizzare l'opinione pubblica alla disinformazione e a contrastare tale fenomeno (comunicazione COM-2018 236, “Contrastare la disinformazione online: un approccio europeo”). Dalla comunicazione è scaturito un codice di autoregolamentazione elaborato, tra gli altri, da rappresentanti delle piattaforme online, dell'industria della pubblicità e dei principali inserzionisti – adottato anche da Facebook, Google, Twitter e Microsoft - che prevede, ad esempio, la trasparenza dei messaggi pubblicitari di natura politica e il contrasto a profili falsi e “bot”.

Nel marzo 2019 è stato anche implementato un Sistema d’allerta rapido, piattaforma a disposizione di istituzioni Ue e Stati membri dove raccogliere dati sulle campagne di disinformazione online e analisi di fact-checker.

Nel 2020 il Parlamento UE ha costituito una commissione per le interferenze estere nei processi democratici nell'Unione (INGE), il cui mandato si è concluso nel marzo scorso con la raccolta di «prove complete e consolidate» su tali interferenze. A seguito dell’inizio guerra, è stata creata una nuova commissione speciale (INGE 2) per proseguire il lavoro della prima, specie in considerazione della «campagna di disinformazione» russa, «caratterizzata di una malevolenza e da una portata senza precedenti, con l'obiettivo di ingannare i suoi cittadini così come la comunità internazionale».

Infine, servirà a contrastare la disinformazione anche Digital Service Act, in forza del quale gli operatori di grandi dimensioni avranno l'obbligo di analizzare i rischi sistemici che generano e di adottare misure idonee a ridurli; la Commissione, a propria volta, vigilerà circa il rispetto degli obblighi da parte di piattaforme e motori di ricerca.

I TALK SHOW ITALIANI

Considerata l’entità e gli impatti della disinformazione russa, il 2 marzo il Consiglio dell’Ue ha deciso, tra le sanzioni adottate a seguito dell’aggressione della Russia all’Ucraina, la «sospensione delle attività di radiodiffusione di Sputnik e Rt/Russia Today» nell’Unione, definiti da Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, come «armi nell’ecosistema del Cremlino».

Secondo la Commissione europea, la libertà di espressione implica «il diritto di ricevere informazioni obiettive sugli eventi attuali» e può essere limitata a tutela di interessi pubblici «in modo proporzionato».

La Federazione europea dei giornalisti ha definito un errore combattere la disinformazione con la censura da parte dell’UE e in Italia da più parti sono stati espressi dubbi circa la compatibilità di questo tipo di sanzioni con la libertà di espressione e informazione sancita costituzionalmente.

Tuttavia, finché ci sono le sanzioni l’Italia è vincolata alla loro applicazione. Nonostante ciò, nei talk show nazionali continuano a essere invitati giornalisti che lavorano in organi di informazione sospesi dall’Ue e propagandisti colpiti da sanzioni, e ciò può configurare un aggiramento delle sanzioni stesse. «Non è una censura delle opinioni» - ha affermato un’esponente della Commissione europea qualche settimana fa - «ma c'è una clausola di non elusione e questa clausola di non elusione si applica anche ai giornalisti. Quindi la libertà di espressione non può essere invocata da altri media per aggirare le sanzioni».

Qualche giorno fa, in un talk show è stata ospitata Tatiana Kukhareva, giornalista russa di Sputnik, uno dei media bloccati in Ue. Pochi giorni prima, in un altro talk show della stessa rete era stato invitato Dmitry Kulikov, oggetto di sanzioni da parte dell'Unione europea perché ritenuto uno dei principali propagandisti della «narrazione del Cremlino» - come riporta il testo del provvedimento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Ue – che ha «giustificato» e «sostenuto attivamente» le azioni russe contro l’Ucraina.

La televisione italiana consente comunque di continuare a divulgare in prima serata la propaganda russa, attraverso taluni personaggi invitati  nei programmi nazionali. Tuttavia, il governo non pare preoccuparsi dell’eventuale aggiramento delle sanzioni né, più in generale, dell’orientamento opposto a quello dell’Ue contro la disinformazione.

Di quest’ultima sembra preoccuparsi, invece, il Copasir, con l’audizione - tra gli altri - dell’amministratore delegato della RAI, Carlo Fuortes. Ma su quest’iniziativa sorgono perplessità. Ai sensi di legge (art. 30, l. n. 124/2007), la competenza del Comitato è quella di verificare che l’attività dei servizi segreti si svolga nel rispetto della Costituzione e in conformità alla legge, e non quella di indagare sugli inviti televisivi al fine di «preservare la libertà, l’autonomia editoriale e informativa e il pluralismo da qualsiasi forma di condizionamento», come affermato dal presidente del Copasir, Adolfo Urso.

Nonostante le rassicurazioni circa la non-ingerenza nelle attività dei media, il dubbio che ciò possa comunque avere una qualche incidenza sorge lo stesso. 

VITALBA AZZOLLINI, giurista. Giurista, lavora presso un'Autorità indipendente. È autrice di articoli e paper in materia giuridica, nonché di contributi a libri per IBL. A titolo personale.

LA RISOLUZIONE. Tanto rumore per nulla, nella risoluzione sugli ospiti Rai nessuna limitazione. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 17 maggio 2022

In nessuna delle due risoluzioni che saranno discusse stasera in commissione Vigilanza Rai è previsto un vero limite agli ospiti da invitare nei programmi: insomma, nessun limite a esperti controversi come Orsini

Già il testo proposto dal presidente Alberto Barachini (senatore di Forza Italia) era rimasto piuttosto vago nella definizione degli obblighi della televisione pubblica nella scelta degli ospiti da invitare.

Il documento alternativo presentato dal Movimento 5 stelle è breve: propone soltanto un «invito alla società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo a rispettare il dettato e lo spirito del contratto di servizio». 

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

«Porta a porta», il linguaggio assennato di Vespa contro il circo mediatico. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 15 maggio 2022.  

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, il talk di Rai1 ha sempre tenuto la barra dritta. Su un evento così gravido di conseguenze anche per la nostra vita futura non si può eludere la complessità 

Da un po’ di tempo, ho deciso di non occuparmi delle trasmissioni che trasformano un problema serio come la guerra in circo mediatico, che alimentano la creduloneria. Finirei col fare il loro gioco. Gli «sfessati», per usare la felice definizione di Fedele Confalonieri, resteranno tali, continueranno a propalare le loro edificanti frottole con cui mascherano la realtà, incuranti di chi manifesta loro disdegno. E con loro i negazionisti, i propagandisti a libro paga, i professionisti della resa, i putiniani nostrani, i Travaglio (intesi come categoria). Sotto il segno del «contraddittorio» vedo solo un senso di abbandono e un’incombente catastrofe e non sono certo io quello che può, con i suoi graffiti quotidiani, porre un confine tra la libertà di opinione e il circo con le ballerine russe.

Ucraina Russia, le notizie di oggi sulla guerra

Ho scritto con piacere della trasmissione di Enrico Mentana che va in onda ogni giorno nel tardo pomeriggio (con gli interventi di Francesca Mannocchi, Diego Fabbri e Luca Steinmann); ho scritto di Fabio Fazio, elogiando la sua compostezza, indispensabile per invitare ospiti competenti ed evitare ogni tipo di cagnara. Non mi resta che fare un ulteriore sforzo e segnalare che da quando la Russia ha invaso l’Ucraina «Porta a porta» di Bruno Vespa ha sempre tenuto la barra dritta. C’è chi insegue il prof. Orsini e chi intervista il presidente Zelensky e queste sono differenze sostanziali. Come ho scritto più volte, Vespa non è un santo del mio paradiso, spesso ci siamo punzecchiati ma, in occasioni come queste, gli vanno riconosciute doti di professionalità e responsabilità. Gli perdono persino i plastici. Su un evento così tremendo e gravido di conseguenze anche per la nostra vita futura non si può eludere la complessità. E c’è un solo modo per farlo: sgonfiare ogni vescica malefica con gli spilli di un linguaggio assennato, tenendosi alla larga dai circensi.

Stop alle frottole. L’inganno retorico del “no alla guerra” con cui i finti pacifisti confondono le acque. Antonio Preiti su L'Inkiesta il 13 Maggio 2022.

Il racconto di quello che accade dipende dai frame (le cornici di senso) entro cui viene inquadrato. L’opinionismo pseudo-complesso è riuscito, a forza di slogan e accostamenti fuorvianti, a ribaltare i fatti evidenti dell’invasione e creare un mondo alla rovescia.

Ricordiamo le ore del 24 febbraio, incollati a Skytg24, a internet e a tutto il resto, per vedere le immagini degli inviati a Kyiv, per capire la situazione: quella è proprio la piazza principale della capitale e nessuno è per strada; l’altra è Odessa, ancora intatta, e già imparavamo a conoscere Mariupol, la città di Maria, che già nel nome evocava, a suo modo, qualcosa del martirio successivo. Cosa sta succedendo? Davvero è un’invasione? Davvero Putin sta bombardando città, civili e incenerendo tutto quello che trova per la sua strada?

Non avevamo bisogno di opinioni, ma di fatti, di sapere le cose. E sui sentimenti non c’era molto da dire: orrore, pietà per morti innocenti, simpatia totale per un popolo che, in fondo, vuole essere come noi, far parte del nostro mondo, vivere come viviamo noi. Le parole usate al tempo erano le parole della verità: bombe, invasione, morti civili, orrori, massacri. Non erano ancora arrivate la “geopolitica” e il dominio ambiguo dell’opinionismo.

In quei giorni già lontani, ma non tanto da non potersi ricordare con precisione, il bailamme opinionistico non era ancora avviato perché in quelle ore sarebbe stato inaccettabile. C’era solo da dire dell’orrore, del resto nulla.

La parola comune in quei giorni era “invasione”, in consonanza con tutto il mondo occidentale che diceva: “Stop invasion”, “Stop war”. Non si sa come, il linguaggio da noi è però presto scivolato nell’ambiguità: lo “Stop war” è diventato “No alla guerra”. Una volta passati dallo “Stop alla guerra”, con l’implicita intuizione che c’è qualcuno che deve fermarsi, al “No alla guerra”, dove le due parti sono equivalenti, si stabilisce lo scarto del significato e la cristallina separazione tra aggressore e aggredito. Mentre nello “Stop all’invasione” vi è l’identificazione, l’immedesimazione e il comune sentire con qualcuno che una mattina si sveglia e si trova invaso; nel “No alla guerra” c’è una distanza emotiva, un guardare le cose da lontano e dove prima c’era orrore, e ci si sentiva coinvolti, adesso c’è sempre l’orrore, ma da guardare da remoto, senza compassione. E questo è il primo passo.

Il secondo è l’ingresso sulla scena mediatica della “geopolitica”. Questa disciplina (che non è una scienza, e neppure una quasi-scienza, basata com’è su una speciale considerazione di alcuni elementi delle vicende degli stati, elementi ritagliati e assurti a valore assoluto) per definizione non è “morale”, non ha aspetti valoriali; insomma è (vorrebbe essere) come una legge della fisica, per cui esisterebbero dei fattori oggettivi che spingono gli Stati a comportarsi come si comportano. È una sorta di determinismo, neutro e lontano. Allora diventa “naturale” che se uno stato si sente “minacciato”, allora ricorra all’aggressione, anzi alla guerra, visto che il termine aggressione è presto scomparso.

Nella geopolitica non c’è posto per le decisioni soggettive, e per la responsabilità di chi le prende, e meno che mai per un giudizio morale: aggressore e aggredito sono sullo stesso piano nella logica geopolitica: uno vuole conquistare e l’altro non vuole farsi conquistare. Così messa la questione, diventano pari. Noi che c’entriamo? Il fatto che un popolo che vive in democrazia e non vuole perderla; che si sente europeo e per questo è disposto a combattere; che vuole difendere i propri confini e la propria indipendenza, non valgono più nulla.

Una volta che dal giudizio di merito, in cui c’è uno stato che, in spregio al diritto internazionale, ne invade un altro, il frame della vicenda, cioè la sua cornice semantica, non è più l’invasione ma diventa “la guerra”. Stabilire il frame dominante nella contesa politica è cruciale: se il focus è sull’immigrazione, allora vincerà il partito che su quel frame conquista la posizione dominante; se il frame non è l’invasione (atto unilaterale violento), ma “la guerra” (stato delle cose senza espressione di responsabilità), allora vinceranno gli annessi e connessi della “guerra”, come, ad esempio: “Non è l’unica guerra, ma ci sono altre guerre che non consideriamo”, “Anche la Nato ha fatto guerre”, “Le guerre sono tutte negative e non importa chi comincia”, “Bisogna muoversi per la pace” e così via, sommergendo l’“hic et nunc” (il qui e ora specifico: un Paese illegittimamente invaso da un altro) sotto una pletora di opinioni sempre più astratte, sempre più “liberate” dai fatti, sempre più ambigue.

Per altro, un’invasione può finire in generale in due modi: o l’aggressore ritorna sulle sue posizioni di partenza (visto che l’Ucraina non ha mire di occupare la Russia) o gli aggrediti si arrendono e finiscono di essere nazione. C’è anche un terzo modo, naturalmente: che i contendenti (visto com’è scomparso l’aggressore?) s’accordino su una qualunque soluzione. Curiosamente tutto il parterre dei “pacifisti” oscilla tra il secondo e il terzo modo di far finire la guerra, ma non sul primo che sarebbe il più ovvio. Il frame del “No alla guerra” ha spostato completamente la semantica del discorso. Adesso si discute delle ragioni dell’uno e dell’altro e, soprattutto, sentendo la propria impotenza rispetto alla soluzione-principe per far finire la guerra (il ritiro di Putin), chiedono la resa degli ucraini (a loro dispetto, perché hanno dimostrato in tutti i modi possibili e immaginabili che non vogliono farsi conquistare dai Russi) e per ottenere la resa degli ucraini chiedono che l’Occidente non invii loro armi. Risultato? Per avere la pace sono pronti, sempre sulla testa degli Ucraini, a dare la vittoria a Putin.

Ultimo passaggio, ma non di minore importanza, dello spostamento semantico di queste settimane è l’auto-attribuzione della bandiera morale dei “pacifisti” contro chi è favorevole agli aiuti militari agli Ucraini.

Loro sono per la pace, ne consegue, ovviamente, che tutti gli altri sono per la guerra (per la continuazione della guerra, per essere esatti). Così il capolavoro semantico è compiuto: chi vuole la pace si erge a paladino del bene e lascia agli altri ciò che rimane dopo aver tolto il bene. Così, quanti dicono che sia giusto aiutare l’Ucraina a difendersi si devono giustificare, spiegare perché lo dicono, e così diventano loro sotto attacco.

Ma la regola della conquista del frame in politica è ferrea: chi si deve difendere ha già perso. Ovviamente finché accetta la postura da accusato. Ed è così che la situazione si ribalta: chi ha solidarizzato immediatamente con l’aggredito, e della cui evidenza di aggredito prima nessuno aveva dubbi, si trova oggi nella posizione dell’aggressore, perché aiuta… gli aggrediti. Basta spostare il frame, occupare il campo semantico del dibattito, e abbiamo così un mondo sottosopra.

Le bombe, le vittime, i crimini scompaiono dalla mente e rimane una Babilonia di parole che cancella ogni sentimento umano. Quei sentimenti che il 24 febbraio erano nitidi, coinvolgenti e veri. L’ambiguità del linguaggio crea l’ambiguità dei sentimenti e l’ambiguità della politica.

L'imperio mediatico della banalità. Perché è scoppiata la guerra in Ucraina, vietato riflettere su quanto sta accadendo. Francesco Fronterotta su Il Riformista il 12 Maggio 2022. 

L’attuale dibattito sull’invasione russa dell’Ucraina presenta una serie di tratti degni di nota, e allo stesso tempo profondamente inquietanti, perché indicativi di un clima di grande confusione, nella migliore delle ipotesi, o di odiosa disonestà, innanzitutto sul piano intellettuale e metodologico. A dominare il dibattito è lo schema aggressore-aggredito, che svelerebbe tutto ciò che vi è da sapere e da capire su questa guerra. Se tale schema offre a prima vista un facile punto di vista sugli eventi e, di conseguenza, una sicura base per prendere posizione su di essi (non vi sono dubbi, credo, su chi abbia avviato la guerra e su quale paese sia stato invaso), emerge il problema tipico di ogni vicenda storica, per come viene illustrata fin dalle scuole elementari, per la comprensione della quale è inevitabile distinguere una molteplicità di cause, dirette e indirette, prossime e remote, esplicite e implicite.

Non occorre tornare a Tucidide, come ha fatto, peraltro assai lucidamente, Luciano Canfora, per cogliere il punto: basta dare un’occhiata a qualunque manuale scolastico di storia contemporanea tuttora in uso, per constatare che, fra le cause della seconda guerra mondiale, vengono annoverate per esempio, oltre alle responsabilità immediate e innegabili della Germania nazista, le pesanti condizioni imposte dai vincitori alla stessa Germania, dopo la sua sconfitta nella prima guerra mondiale, con il trattato di Versailles (anche per questo mai ratificato dagli Stati Uniti), che avrebbero condotto alla progressiva destabilizzazione della Repubblica di Weimar e all’ascesa del nazismo. Una simile, plausibilissima, diagnosi, fa di chi la formula un sostenitore di Hitler o conduce comunque a una qualche forma di giustificazione del suo operato? Non mi pare né mi pare che qualcuno lo abbia mai sostenuto. Una compiuta comprensione degli eventi e delle loro cause non implica una presa di posizione, ma piuttosto contribuisce a formare una condizione più favorevole per tentare di prospettare delle vie di uscita dall’impasse che invece si produce quando ci si limita a schemi eccessivamente semplicistici e, per così dire, “bloccati”.

A ciò si obietta, ed è questa una seconda fuorviante premessa dell’attuale dibattito, che coloro i quali sono vittime di invasione, bombardamenti e di tutte le infami vicende che la guerra porta sempre con sé – non vi sono guerre “giuste”, ve ne sono semmai di inevitabili, né, soprattutto, vi sono guerre “pulite” o disciplinate dal diritto – non sono in una situazione favorevole al ragionamento, alla comprensione storica e all’esame della complessità, perché, appunto, non possono che agire secondo una schema semplice e primordiale: o combattono in propria difesa o fuggono (se possono) o muoiono. L’assunto è, ancora una volta, talmente vero che va capovolto, proprio nella misura in cui “noi”, cioè tutti coloro i quali sono “al di fuori” della cerchia dei combattimenti, e dunque soffrono, pensano ed eventualmente agiscono per porvi fine, abbiamo il dovere morale, in virtù del privilegio della sicurezza che ancora preserva la nostra condizione materiale, di ricorrere al ragionamento, alla conoscenza e alla comprensione più articolati e più efficaci per giungere a una visione delle cose che consenta di prospettare vie di uscita dalla guerra, in nome di chi la subisce e nel quadro di una situazione generale che tenga conto della salvezza di tutti i popoli europei e del mondo intero.

In breve, appunto perché non ci si può aspettare da chi è sotto le bombe, l’aggredito, che “ragioni”, giacché può solo difendersi dall’aggressore, è invece doveroso aspettarsi da chi per il momento assiste soltanto alla tragedia che “ragioni” sulle sue possibili soluzioni, interrompendo la logica primordiale dell’aggredito e dell’aggressore (se ci limitassimo a questa logica, l’unica sua conseguenza sarebbe che la difesa dell’aggredito non può escludere, anzi dovrebbe pretendere, la sconfitta dell’aggressore, generando così un nuovo aggredito a sua volta legittimato a difendersi dall’aggressore e così via). Ne consegue una terza premessa fallace e pericolosa dell’applicazione dello schema aggressore-aggredito: in virtù della sua apparente linearità e limpidezza, questo schema comporterebbe sul piano etico l’imperativo di “prendere posizione” per l’aggredito e contro l’aggressore, la necessità di “parteggiare” – un interrogativo ossessivamente ripetuto a chiunque partecipi all’attuale dibattito (“con chi stai?”) e che conduce a classificare quanti rifiutano la legittimità teorica dell’interrogativo stesso come partigiani dell’aggressore (“pro Putin”, “sostenitori del tiranno”, “difensori del genocida” e così via).

Ancora una volta, la pena infinita e la solidarietà concreta per le vittime della guerra, che non sono naturalmente vittime astratte, ma vittime di qualcuno che le ha aggredite, non possono esimere dal constatare che “noi”, se vogliamo assumerci il difficile, e questo sì imperativo, compito di prospettare vie verso la pace, non possiamo “prendere posizione” o “parteggiare”, perché ciò implica un coinvolgimento da una parte o dall’altra, che è evidentemente in contrasto con ogni istanza di mediazione, per sua natura “terza” rispetto all’aggressore e all’aggredito. Se ritenessimo di non voler mantenere questo ruolo “terzo” nella speranza di giungere alla pace, non potremmo che adeguarci alla logica di questa scelta e, abbandonando ogni ipocrisia, riconoscerci come parte in causa, quindi davvero “prendendo posizione” e “parteggiando”, schierandoci e intervenendo da una delle due parti. Il compito della pace è incompatibile con questa opzione.

Queste tre premesse confluiscono verso il punto focale della questione, che si lascia riassumere così: semplicità versus complessità. Si tratta di una questione filosofica fondamentale, che non può essere elusa. Che l’attitudine alla complessità possa assumere, e abbia talvolta assunto, i tratti dell’oscurità, vale a dire di un’intenzionale confusione che pregiudica la comprensione, è fuori di dubbio. Ciò è stato storicamente segnalato, e viene costantemente stigmatizzato, da non pochi filosofi detti, per l’appunto, “analitici” che individuano, e ridicolizzano, attraverso una rappresentazione caricaturale della complessità, un’artificiosa e ideologica posizione filosofica concorrente della loro (per lo più caratteristica del pensiero cosiddetto “continentale” europeo). Andrebbe però sottolineato, con la stessa chiarezza e fermezza, che la semplicità prende spesso i tratti della semplificazione, cioè di un tentativo di applicare schemi analitici, necessariamente semplici e semplificanti, a ciò che non è semplice né semplificabile, ossia alla vita e alla storia. La semplicità diviene allora “sempliciotta” e produce un’analisi assai scarna, non nel senso dell’essenzialità e della limpidezza, bensì della povertà dei suoi strumenti e della miseria del suo esito. È la miseria dell’analisi e della filosofia che la propugna, quando pretende di applicare una sua logica, di per sé legittima, a ciò che a quella logica risulta irriducibile.

Ecco che allora si dipingono, per denigrarli, i sostenitori della complessità del reale e della storia come continuatori della posizione no-vax o come consapevoli o inconsapevoli nostalgici del comunismo sovietico nei quali sorgerebbe un irriflesso istinto pro-russo. Le due tesi sono ridicole e disoneste, anche se talvolta capita che siano vere: la questione no-vax attiene alla ricerca e alla scienza, e un rifiuto immotivato e ingiustificato di un risultato scientifico acquisito è, fino a prova contraria, semplicemente l’esito antiscientifico dell’ignoranza; la questione della guerra attuale, invece, attiene a considerazioni di ordine storico-politico, dunque a posizioni individuali o collettive che, in quanto argomentabili, ricadono in ultima analisi nell’ambito delle opinioni. In che modo poi il socialismo, anche reale, il comunismo o il marxismo-leninismo porterebbero a simpatizzare per la Russia o per Putin non si capisce davvero, vista la condizione e la storia recente di quel paese e dei suoi leader e visto che, fra l’altro, le simpatie per Putin hanno animato piuttosto, negli ultimi decenni, le destre europee più o meno estreme.

Forse, e questo costituisce uno spunto di riflessione da riprendere in altra occasione, a una prospettiva di sinistra, autenticamente democratica e socialista, sta piuttosto a cuore il multilateralismo internazionalista di contro a un globalismo a senso unico. Ho assistito a uno sketch nella trasmissione televisiva Piazza Pulita (dello scorso 5 maggio) in cui Stefano Massini, ha pronunciato un apologo: “I filosofi e il cretino”. Di fronte a un incidente stradale, di cui sono evidenti le responsabilità, intervengono tre filosofi, Socrate, Platone e Aristotele, che evocano come cause dell’incidente astruse motivazioni indirette (la famiglia, la scuola guida e altro ancora) per giustificare il colpevole, confondendo e oscurando (non è chiaro se in buona o cattiva fede), con il loro esame “complesso”, i termini effettivi della situazione. Si tratta evidentemente di un’accusa rivolta alla complessità malsana della filosofia e dei “filosofi” rispetto alla semplicità ingenua ma intelligente dei fatti che anche il “cretino” riesce a constatare. Ciò esemplifica bene il clima attuale e ne denuncia la pochezza e la superficialità. Francesco Fronterotta

Da adnkronos.com il 13 maggio 2022.

"Condivido gli stati d'animo di Furio Colombo e nella sostanza, al di là dei dettagli, condivido il suo punto di vista. Ne scriverò su 'Il Fatto' di domani con la consueta libertà che il giornale mi ha sempre garantito". Gad Lerner anticipa all'Adnkronos il proprio punto di vista sulla lettera aperta di Furio Colombo al 'Fatto', nella quale prende le distanze da Alessandro Orsini sulla guerra Ucraina-Russia.

"Come faccio a scrivergli accanto? Chi dei due è il falsario?", scrive nella lettera Colombo sottolineando di essersi trovato all'improvviso a scrivere sul 'Fatto', che ha contribuito a far nascere con Padellaro e Travaglio, accanto ad un collega "che non conoscevo e che non vorrei conoscere, caro a tutti coloro che pensano che l’America sia il vero pericolo dei popoli e delle democrazie, e che l’invio di armi ai resistenti invasi e assediati dal rischio imminente di distruzione totale sia un sacrilegio".

Furio Colombo è stufo di Alessandro Orsini e litiga con Marco Travaglio. Terremoto al Fatto Quotidiano. Il Tempo il 13 maggio 2022.

Le posizioni di Alessandro Orsini sulla guerra in Ucraina spaccano i vertici de Il Fatto Quotidiano. A criticare il professore associato presso l'Università Luiss e specializzato in sociologia del terrorismo, che tiene una rubrica sul giornale diretto da Marco Travaglio in merito al conflitto con la Russia è Furio Colombo, ex deputato e tra gli editorialisti storici del quotidiano. “All'improvviso mi sono trovato a scrivere su questo giornale, che avevo contribuito a far nascere con Padellaro e Travaglio, accanto a un collega che non conoscevo e che non vorrei conoscere, caro a tutti coloro che pensano che l’America sia il vero pericolo dei popoli e delle democrazie, e che l’invio di armi ai resistenti invasi e assediati dal rischio imminente di distruzione totale sia un sacrilegio” la prima parte delle parole di Colombo in una lettera aperta indirizzata e pubblicata proprio dal Fatto.

"Ma devo per forza notare e far notare che - prosegue Colombo - Alessandro Orsini, entrato all’improvviso e con veemenza nel giornale di Travaglio e di Padellaro, ha funzionato come il frate che solleva i confratelli e i fedeli per riformare una chiesa. Dopo di lui niente è più come sembra, perché Orsini ha scosso con forza e con violenza la fiducia di chi legge e di chi scrive su un giornale su cui lascia una pesante impronta, una sorta di esclusiva. Non sono il solo in Italia a sapere che gli ‘studi’ di Alessandro Orsini falsificano fino ai dettagli la storia di questo Paese e del contesto politico e umano di cui siamo parte. Con lui non siamo mai al dubbio o al suggerimento, ma alla affermazione o negazione assoluta priva di alternative. Come fai a scrivergli accanto? Chi dei due è il falsario?”. 

Travaglio non ha risparmiato una stoccata al collega Colombo nella sua replica al veleno: “Tu non condividi quello che scrivono Fini e Orsini e immagino che la cosa sia reciproca. Io, soprattutto sulla guerra in Ucraina, non condivido ciò che scrivi tu, ma pubblico tutto ciò che scrivi tu. Dov’è il problema? Siamo un giornale, non una caserma. Siamo in democrazia, mica in Russia. Sul fatto c’è posto per tutti. Non esistono ‘falsari’ né delinquenti, dunque ‘scrivere accanto’ a un professore che la pensa diversamente non è ‘complicità’: è pluralismo”.

Il giornalista Furio Colombo, persona seria, sospende la collaborazione col “Fatto Quotidiano”: “Non voglio essere complice di Orsini”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Maggio 2022.  

Colombo: "Penso che il prof. Orsini sia stato over-celebrato dalla serata che 'Il Fatto' ha organizzato per lui e non voglio apparire in alcun modo lo sponsor di un simile personaggio....è un 'Fatto quotidiano' che non conosco...". 

Adesso i dubbi e le intenzioni di Furio Colombo  messe nero su bianco stamattina sul suo quotidiano, diventano certezze : “Non capisco più il mio giornale!” aggiungendo “Comunico che non continuerò la mia collaborazione al ‘Fatto quotidiano’ fino a quando ci sarà questa posizione sulla guerra in Ucraina, sul divieto, si presume costituzionale, di mandare armi all’Ucraina e sulla celebrazione di un personaggio di cui non ho stima, che è il professor Orsini. Penso che il prof. Orsini sia stato over-celebrato dalla serata che ‘Il Fatto’ ha organizzato per lui e non voglio apparire in alcun modo lo sponsor di un simile personaggio”. 

Furio Colombo ex direttore dell’ Unità e professore alla Columbia University a NYC

L’editorialista del giornale, fondato da Antonio Padellaro e Marco Travaglio, giornalisti dei quali è stato direttore al quotidiano L’ UNITA’, racconta che “Travaglio e Padellaro, gentilmente, mi hanno chiesto di non interrompere. Ma, purtroppo, non è possibile, perché è un ‘Fatto quotidiano’ che non conosco…“. Insomma il professore più contestato che c’è, che fa aumentare l’audiance dei talk show con i suoi proclami anti-europei, accusato a ragione di “filo putinismo”, quello del “mio nonno ha avuto un’infanzia felice sotto il fascismo”, continua a generare scontri e polemiche. 

Anche nella redazione romano del Fatto Quotidiano le polemiche sono accese da giorni. E sulle pagine del giornale Furio Colombo, che in passato come dicevamo è stato anche direttore dell’Unità, oggi ha dato sfogo a tutto il suo disappunto. Convinto di dover “respingere le visioni di Orsini, basate su informazioni distorte: dopo di lui niente è più come sembra. Non sono il solo in Italia a sapere che gli studi di Alessandro Orsini falsificano fino ai dettagli la storia di questo Paese e del contesto politico e umano di cui facciamo parte”. La super celebrazione del professore, alla serata organizzata a teatro nei giorni scorsi, da Travaglio e Padellaro è inaccettabile per Colombo, che è stato professore di giornalismo e comunicazione alla Columbia University a New York.

il filorusso Alessandro Orsini

Dal Fatto si arrampicano sugli specchi prendono tempo e sperano in un ripensamento: “Furio Colombo interrompe la collaborazione con noi? Ribadisco: ‘Il Fatto quotidiano’ è il giornale di Colombo e attendiamo i suoi prossimi commenti come in questi ultimi, quasi, 13 anni – dice Travaglio all’Adnkronos – . Come ho scritto, la linea del quotidiano non la dà Orsini né Colombo, ma è il frutto di un’opera collettiva, anche se convenzione vuole che la linea la dia il direttore. Spero che quello di Furio sia solo un momento di smarrimento, e che continui a scrivere per la testata“. A dire il vero secondo noi i veri “smarriti” sono Padellaro e Travaglio !

Sulle posizioni di Furio Colombo che negli anni è stato anche senatore e deputato prima per i Ds e poi per il Pd (con il più alto numero di voti “ribelli”, ovvero contro il suo partito, secondo Openparlamento), Marco Travaglio rivendica “la diversità delle opinioni espresse” da diversi collaboratori, “anche perché su questi temi ciascuno deve essere libero di dire ciò che ritiene“.

Alessandro Orsini peraltro dovrà aggiornare il suo curriculum non essendo più direttore dell’Osservatorio internazionale della Luiss, università della Confindustria intestata a Guido Carli che ha deciso di non confermarlo nell’incarico avendo deciso di sopprimere l’intero osservatorio, il cui sito è stato già rimosso dal web, fondato proprio dal docente noto per le sue recenti posizioni filo-Mosca. Orsini resterà comunque professore associato nel dipartimento di Scienze politiche. Dalla Luiss confermano che “l’accordo di collaborazione con Eni per l’Osservatorio sulla sicurezza internazionale, affidato dall’ateneo al professor Alessandro Orsini, è giunto a scadenza da circa due mesi. E non sarà rinnovato. Per questa ragione, i canali di comunicazione dell’Osservatorio, incluso il sito internet, ‘Sicurezza internazionale‘, non sono più attivi“. 

È probabile che a indurre i vertici della Luiss, presieduta dall’ ex presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, verso una decisione già auspicata da molti docenti tra i quali autentici luminari come il professor Sabino Cassese) siano le ultime dichiarazioni pubbliche di Orsini , secondo il quale : “Hitler non aveva intenzione di far scoppiare una guerra mondiale. La Germania invase la Polonia; Inghilterra e Francia si erano alleate con la Polonia e scattò un effetto domino che Hitler non si aspettava“.

Affermazioni queste che hanno indotto il giornalista e saggista Claudio Velardi, già capo dello staff di Massimo D’Alema durante la sua presidenza a Palazzo Chigi, ha annunciato il suo addio all’università romana, in evidente polemica, anche se non esplicita, con Orsini: “Da molti anni insegno in un Master Luiss, vergognandomene un po’ perché non mi sento mai all’altezza – ha scritto Velardi – ma piuttosto fiero di essere parte di un network di qualità. Ho deciso di non farlo dal prossimo anno. È il momento di compiere qualche piccolo gesto di ribellione civile“.

Il padre nobile del Fatto forse se ne va. Intervista a Furio Colombo: “Orsini peggio di Putin, al Fatto non c’è più libertà”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Maggio 2022 

Furio Colombo: “Ho chiesto a Travaglio di fermarsi, non può celebrare Orsini come una star”. Furio Colombo, 91 anni, ha lavorato a La Stampa, è stato editorialista di Repubblica, ha scritto per il New York Times e ha diretto L’Unità dal 2001 al 2005. Due volte deputato (Pds e Ds), senatore (per il Pd), si è candidato come segretario del Partito Democratico nel 2007. Ha iniziato a collaborare con Il Fatto Quotidiano nel 2009, sin dal primo giorno di vita della testata fondata da Antonio Padellaro.

Lei ha scritto una lettera importante, al Fatto. Coraggiosa e credo anche dolorosa.

Dolorosa ma doverosa. Ci sono stati tanti casi, nella storia. Alcuni famosi e altri rimasti ignoti, ma di cui qualcuno ha memoria. Montanelli che dice addio al Corriere prima, per un cambio di linea politica nel 1973, e più avanti anche al Giornale che aveva fondato. Il dissidio fortissimo interno ai quotidiani della sinistra ai tempi di Praga, e non solo. E tanti altri di cui non si è scritto. La battaglia delle idee non può essere sempre incruenta.

Come si può comporre questo dissidio?

Io credo che non possa esserci una ricomposizione, dal momento che Il Fatto Quotidiano ha non solo voluto Orsini tra le sue firme ma ha anche creato una grande serata in suo onore, come sua nuova star, una cosa che non è mai stata fatta.

Una operazione di identificazione delle posizioni di Orsini con quelle del Fatto?

Lo hanno accolto, come dicevo, come una star. Con un trattamento che non è mai stato riservato a nessun altro, a mia memoria, nei giornali e in questo giornale in particolare. E io non voglio essere associato minimamente a quella persona e alle sue parole: lui non è come Putin. È un po’ peggio di Putin. E io non voglio essere corresponsabile…

Hai scritto “complice”.

Ecco, complice è la parola giusta. Perché si è complici anche quando si fanno passare certe cose nel silenzio, quando ci si affianca a certi personaggi, a certe situazioni senza protestare. Non è la mia storia.

E tu protesti. Con un aut-aut. O lui o te?

Lo direi in modo un po’ più profondo e un po’ più vero: io non posso essere chiamato a far parte di coloro che lo garantiscono. Io non voglio essere complice di un personaggio che considero non rispettabile. (Pausa) Non rispettabile né scientificamente, né moralmente. E quindi ho pregato Marco di farne a meno.

Non ti ha ascoltato.

Non se ne fa a meno e anzi si organizza la serata “in onore di Orsini”. E devo dire che il punto risolutivo è proprio questo, la serata in suo onore. E’ questo che trasforma il giornale in qualcosa di diverso, in una manifestazione pubblica che sposa un pensiero particolarissimo a danno di tutti gli altri.

Scusami, quando dici che li hai pregati, significa che ne avete discusso, che hai suggerito di trovare un compromesso accettabile per la coesistenza di tutti?

Prima di questa lettera ne abbiamo parlato, con Marco Travaglio, certo. Da settimane. L’ho pregato di intervenire, di dire, di far dire, di rispondere alle provocazioni in un certo modo. Di stabilire una posizione più alta. Gliel’ho suggerito, eccome. Ma niente. Vedo che non mi ha mai ascoltato. E allora mi sono visto costretto ad agire di conseguenza e ho scritto questa lettera.

Rimane uno spazio di libertà, come lo chiama Travaglio, il Fatto?

Finché c’è un personaggio come Orsini, e le notizie che porta fresche fresche tutti i giorni dalla Russia, no.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Furio Colombo per il “Fatto quotidiano” il 13 maggio 2022.  

All'improvviso mi sono trovato a scrivere su questo giornale - che avevo contribuito a far nascere, con Padellaro e Travaglio - accanto a un collega che non conoscevo e che non vorrei conoscere, caro a tutti coloro che pensano che l'America sia il vero pericolo dei popoli e delle democrazie, e che l'invio di armi ai resistenti invasi e assediati dal rischio imminente di distruzione totale sia un sacrilegio.

E mi sono trovato a dover leggere il testo di un altro collega che mi racconta, al rovescio, la terrificante Guerra mondiale che ho vissuto e che conosco e ricordo da bambino in fuga, in una versione in cui Hitler era di origine ebraica e non aveva alcuna intenzione di fare la guerra che distruggerà l'Europa. Aggiungendo una affermazione che nega la Storia ed è inaccettabile anche come post verità in quella frase "i tedeschi (i tedeschi delle Fosse Ardeatine e di via Tasso) proteggevano gli italiani mentre gli americani invadevano il Paese, abbandonato a stupri e violenze in libertà".

È inevitabile respingere visioni che portano disorientamento e informazioni inesistenti o distorte, se compaiono accanto al tuo lavoro nel giornale per cui scrivi, fiducioso, da molti anni. Ci sono decine di film italiani del primo Dopoguerra che raccontano l'immediata presa di possesso, dunque di occupazione dell'Italia, da parte dei comandi tedeschi nei giorni dell'Armistizio (8 settembre 1943). 

"Su di voi io ho carta bianca", grida un ufficiale tedesco a militari italiani che non vogliono obbedire all'occupazione dell'Italia, eseguita dalla Wehrmacht, subito dopo l'uscita dell'Italia dalla guerra. Uno dei soldati, nel film di Steno, è l'attore Totò, che grida al tedesco: "Ci si pulisca il culo con quella carta", frase celebre allora, e a mente fresca e memoria immediata oggi un documento.

Ma devo per forza notare e far notare che il primo dei due casi citati, Alessandro Orsini, entrato all'improvviso e con veemenza nel giornale di Travaglio e di Padellaro, ha funzionato come il frate che sollevai confratelli e i fedeli per riformare una chiesa. Dopo di lui niente è più come sembra, perché Orsini ha scosso con forza e con violenza la fiducia di chi legge e di chi scrive su un giornale su cui lascia una pesante impronta, una sorta di esclusiva.

Non sono il solo in Italia a sapere che gli "studi" di Alessandro Orsini falsificano fino ai dettagli la storia di questo Paese e del contesto politico e umano di cui siamo parte. Ma non sono affatto maggioranza, anche se Orsini tenta tenacemente di apparire perseguitato. Con lui non siamo mai al dubbio o al suggerimento, ma alla affermazione o negazione assoluta priva di alternative. 

Come fai a scrivergli accanto? Chi dei due è il falsario? "Nei confronti di chi mi odia provo una certa compassione", ha detto Orsini giorni fa all'Ansa. Pensate che qualcuno di noi possa accomodarsi nella sua compassione? Intanto, però, Orsini aggiunge: "L'esempio delle follie degli ultimi giorni riguarda l'ingresso di nuovi Paesi nella Nato, un pericolo enorme per l'umanità". 

Pensate: Svezia e Finlandia presentate senza ridere come un pericolo enorme per l'umanità. Ma il pericolo enorme sarebbe più guerra russa, dunque smettete di provocare. Abbassatevi al livello giusto. Infatti prontamente il ministro russo Lavrov completa la frase di Orsini nella stessa giornata in cui scrivo: "Questa è una guerra che porrà fine al superpotere americano".

E dunque aprirà la strada al super potere russo che, per qualche ragione, per alcuni, non solo per Lavrov, è il preferito. Infatti la sera dell'11 maggio, la sala Umberto di Roma aveva esaurito i posti (ingresso a 25 euro) per ascoltare Orsini nello show Ucraina: tutto quello che non ci dicono, in cui tutti sono falsari tranne lui e tranne i suoi non pochissimi seguaci. 

È accorsa infatti una folla di personaggi autorevoli, da Alessandro Di Battista all'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, ognuno che esclamava entrando: "Finalmente possiamo sentire la verità". La verità, in questo mondo perfettamente modellato sull'anti-vax (stessa persuasione esaltata di possedere una conoscenza superiore delle cose e dalla scoperta dell'inganno). E chi non capisce è un venduto.

Le parole chiave della nuova militanza sono tre: l'America (non è tollerato l'errore di dire "Russia"), che ha voluto e provocato la guerra con tutta la sua distruzione e i suoi morti e i suoi profughi, avvenuti a causa della Nato; le armi (non ne mandate a chi sta difendendo fino alla fine case, famiglie e città, altrimenti i russi, che si stanno difendendo dagli americani, dovranno continuare a bombardare); il pacifismo, molto raccomandato da Orsini se si tratta di resa e di togliere di mezzo un presidente vanitoso e ingombrante dell'Ucraina che si oppone a una realistica pace con consegna alla Russia delle parti già scelte del suo Paese.

L'invenzione della verità alternativa di Donald Trump ha fatto molta strada. Orsini, che studia molto, ne ha fatto il suo strumento preferito. Oppure si tratta di un'invenzione usata per tenere vivo il credente, e confondere gli avversari. Esempi: "Bisogna avere il coraggio di ammettere che Putin ha già vinto". "Hitler non aveva alcuna intenzione di far scoppiare la Guerra mondiale". "Questa è una guerra persa in partenza. O noi diamo a Putin quello che vuole o lui se lo prende lo stesso".

"Zelensky è un pericolo per la pace. Va abbandonato. Politicamente è un incapace". "Il governo Draghi è un governo di burattini nella mani della Casa Bianca". "Anche nelle dittature un bambino può essere felice". L'invenzione della verità alternativa di Donald Trump ha fatto molta strada. E io una cosa so con certezza. Non voglio essere complice.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 13 maggio 2022.

Caro Furio, l'amicizia e la riconoscenza che mi legano a te dai tempi dell'Unità, dove mi accogliesti insieme a Padellaro nel 2002, mi spinge a pubblicare questa tua invettiva che nessun direttore, nemmeno tu all'Unità, pubblicherebbe mai. Perché contravviene a una regola non scritta ma aurea di tutti i giornali: scrivere tutto ciò che si pensa, ma senza metter le mani addosso e le dita negli occhi ad altri collaboratori. Cosa che tu fai col prof. Alessandro Orsini e con Massimo Fini (senza citarlo). Orsini e Fini, se vorranno, ti risponderanno. Io lo faccio subito per rispetto dei lettori, abituati a un giornale libero e plurale, non a un ballatoio di comari che si lanciano piatti e stracci.

Partiamo da Fini, "l'altro collega". La sua controlettura del 25 Aprile riflette la sua visione provocatoria, peraltro arcinota a noi che lo leggiamo (e anche a te, che hai elogiato il suo ultimo libro), della guerra civile italiana in cui gli occupanti anglo-americani, purtroppo nostri nemici, per fortuna ci liberarono insieme ai partigiani italiani dagli occupanti nazisti, purtroppo nostri alleati. 

Peraltro Fini non ha mai scritto che Hitler fosse ebreo (l'ha detto Lavrov e lo scrissero alcuni storici, ripresi nel 2010 dal Corriere). Con il suo articolo ho fatto quel che faccio sempre con tutti (incluso te): l'ho letto, l'ho condiviso in parte, ma non tutto e l'ho pubblicato. Lerner mi ha inviato un pezzo polemico con Fini: l'ho condiviso in parte, ma non tutto e l'ho pubblicato, con una postilla per evitare l'effetto ballatoio delle repliche e controrepliche infinite. 

Orsini non è arrivato al Fatto facendo irruzione manu militari ("entrato all'improvviso e con veemenza nel giornale"): l'ho chiamato io, appena ho saputo che la sua rubrica di geopolitica sul Messaggero non veniva più pubblicata perché si discostava dal pensiero unico sulla guerra e la sua università, sempre per le sue idee, gli creava seri problemi. Proprio per questo è nato il Fatto nel 2009: per dare un tetto a chi ha qualcosa da dire, ma non sa più dove dirlo. 

Due anni fa seppi che Lerner lasciava Repubblica perché non ci si riconosceva più: lo chiamai e gli dissi che il Fatto era casa sua, pur dissentendo con lui su molte cose. Idem Orsini: non aveva più un giornale, ora ce l'ha. E scrive liberamente il suo pensiero, che non collima certo con le frasette caricaturali (mai pubblicate sul Fatto, spesso mai neppure dette in tv) da te collezionate dalle "cronache" dei giornali dediti alla quotidiana character assassination per manipolare le sue tesi e farlo apparire una spia di Putin (anziché lo studioso che nel 2018, in Parlamento, predisse la guerra in Ucraina). 

Anche i testi di Orsini li leggo, in parte li condivido, in parte no, e li pubblico. Mi sarei aspettato un tuo plauso, visto che la terrificante Guerra mondiale che hai vissuto da bambino in fuga fu preceduta dal giuramento dei professori universitari al regime fascista: davvero ti pare uno che "tenta tenacemente di apparire perseguitato" un professore che perle sue idee viene ostacolato dal suo ateneo, si vede stracciare un contratto Rai già firmato e viene trascinato al Copasir, mentre il programma che osa ospitarlo è in odor di chiusura?

L'idea poi che io abbia deciso come pensarla sulla guerra dopo il suo arrivo è bizzarra: pensavo le stesse cose anche prima, ispirandomi non a Orsini ma alla Costituzione. La lezione teatrale l'abbiamo organizzata noi per dargli modo di illustrare il suo pensiero senza insulti né interruzioni: una bella serata piena di informazioni e di cittadini (soprattutto giovani), quasi tutti nostri lettori vecchi e nuovi. 

C'erano anche Di Battista e Alemanno: avevano comprato il biglietto, dovevamo cacciarli a pedate? Mi autodenuncio: c'ero anch' io, alla sala Umberto, diversamente dal cronista de La Stampa che ha fatto dire a Orsini "Putin ha già vinto'" (frase mai detta quella sera). Non ho visto "antivax" né sentito le frasi" chi non capisce è un venduto" e "tutti falsari tranne lui". Forse la "verità alternativa" non è un'esclusiva di Trump.

Caro Furio, tu non condividi quello che scrivono Fini e Orsini e immagino chela cosa sia reciproca. Io, soprattutto sulla guerra in Ucraina, non condivido ciò che scrivi tu, ma pubblico tutto ciò che scrivi. Dov' è il problema? Siamo un giornale, non una caserma. Siamo in democrazia, mica in Russia. Sul Fatto c'è posto per tutti. Non esistono "falsari" né delinquenti, dunque "scrivere accanto" a un professore chela pensa diversamente non è "complicità": è pluralismo.

I nostri lettori sono così maturi da comprenderei nostri diversi punti di vista e poi formarsi un'opinione informata. Orgogliosi di un giornale che - unico in Italia e forse non solo - ospita dibattiti come questo. Senza filtri e senza limiti, salvo uno. Quando nascemmo, il 23 settembre 2009, Padellaro scrisse che la linea politica del Fatto è la Costituzione Repubblicana. 

Infatti è dall'Articolo 11 che deriva il nostro "no" fermo e risoluto all'invio di armi in una guerra fuori dalle nostre alleanze. Ed è l'Articolo 21 che tiene le nostre porte sempre aperte a chi viene censurato o attaccato per le proprie idee. Quindi sì, continueremo a essere il giornale di Colombo, di Fini, di Orsini e di tutte le altre firme che sono arrivate fin qui e che spero arriveranno ancora ad arricchire la nostra comunità di uomini liberi. Giornalisti e lettori.

Intervista a Furio Colombo. Articolo di Paolo Flores d'Arcais per MicroMega.net il 17 maggio 2022.

Ricostruiamo intanto quello che è successo.

“Il Fatto quotidiano” era abituato al fatto che il mio pezzo domenicale spesso non fosse in sintonia con la linea del giornale, cioè del suo direttore, talvolta in vera e propria opposizione. La cosa era diventata anzi abituale con il mutare della linea del giornale sull’aggressione della Russia di Putin contro l’Ucraina. Il mio articolo previsto per domenica 8 maggio era particolarmente critico sulla questione. Quell’articolo, con le critiche rivolte ad Alessandro Orsini e Massimo Fini (su cui tornerò), non è stato pubblicato. Non era mai accaduto. 

Non solo non è stato pubblicato, ma contemporaneamente il quotidiano che avevo contribuito a fondare tredici anni fa ha preparato una grande festa di “incoronazione” per il nuovo personaggio della politica italiana, il professore Orsini, appunto, al quale il Fatto ha offerto un teatro con 500 spettatori al prezzo di 25€ per l'ingresso.

Una vera e propria celebrazione nella quale Orsini è stato formalmente adottato come un personaggio chiave del giornale. Il che impediva e impedisce assolutamente a una persona come me di restare sulle stesse pagine. Sulla sostanza inaccettabile degli articoli di Orsini mi ero già espresso nei miei articoli, facendo chiaramente capire che non potevo avere un falsario come collega. La cosa, però, non solo è andata avanti, ma è diventata la celebrazione del falsario. 

Insomma, Travaglio non ha pubblicato il mio articolo in cui esprimevo i motivi per cui non mi era possibile avere Orsini come collega, e in cui criticavo Massimo Fini che stava teorizzando l'idea che i veri liberatori dell'Italia furono i tedeschi e i veri invasori dell'Italia furono gli americani. Il che rendeva impossibile la coabitazione anche con Fini, ovviamente. 

Che cosa vuol dire la frase assolutamente incosciente di Fini quando sostiene che i tedeschi proteggevano gli italiani mentre gli americani li invadevano? Dal momento che io c'ero, ragazzo ma ben consapevole, dal momento che ho visto, dal momento che posso testimoniarlo, dal momento che ricordo i luoghi e le modalità delle esecuzioni, delle fucilazioni, delle case di torture, delle persecuzioni e di tutto quello che è avvenuto al popolo italiano e agli ebrei italiani, questa vergogna non era più tollerabile. Perciò ho fatto sapere a Travaglio che non avrei più mandato altri articoli, che la mia partecipazione al quotidiano che avevo contribuito a fondare nel 2009 si chiudeva lì.

Travaglio nelle sue telefonate mi ha ribadito le sue ragioni, cercando di far rientrare la mia decisione ma insistendo nella difesa di Orsini e Fini, sostenendo che ci sono tanti modi di vedere la vita e di interpretare gli eventi, e naturalmente richiamando i tanti anni di lavoro comune. Ma non poteva funzionare. C’era il macigno delle falsità, sull’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, come “raccontata” da Orsini, e sui nazisti in Italia come “raccontati” da Fini. 

Anche con Padellaro ho avuto più di una telefonata, con lui il rapporto, anche umano, è molto più stretto, Padellaro oltre che firma del giornale e suo primo direttore per sei anni, resta uno degli editori. Inoltre il rapporto con lui era ancora più antico. Avevamo diretto un giornale insieme, avevamo deciso insieme che cosa si può accettare e cosa no, avevamo stabilito insieme che la notizia-bugia non si deve pubblicare mai. 

Ti riferisci all’epoca in cui dirigevi l’Unità con Padellaro condirettore?

Sì, e siccome in quella situazione abbiamo lavorato molto bene, in un accordo completo che abbiamo ritrovato anche all'inizio della fondazione del Fatto Quotidiano, prima sotto la sua direzione poi sotto quella di Travaglio, sembrava che un antico rapporto anche di solidarietà e di comprensione e condivisione delle cose che accadono nel mondo potesse continuare. Improvvisamente con la guerra scatenata dalla Russia di Putin contro l’Ucraina e con lo spostamento fortissimo, disorientante e disorientato, di una parte dell'opinione pubblica italiana verso la Russia, questo rapporto si è incrinato in modo non più sopportabile.

Tu hai l'impressione che le posizioni di Travaglio e di Padellaro siano le stesse o che ci siano delle differenze?

Ho l'impressione che ci siano delle differenze, forse anche sostanziali, ma Padellaro, da buon editore, si trova nella condizione di non poter perdere un direttore che funziona bene con un certo tipo di pubblico. Padellaro sostiene Travaglio perché Travaglio è il giornale. Verso Travaglio nutro stima e amicizia, ma non per quello che sta facendo adesso, ecco perché mi sono dovuto allontanare dal giornale. 

Il Fatto Quotidiano è ormai diventato anche il giornale di Orsini. Il giornale non aveva mai offerto una serata di festa e di celebrazione a un suo collaboratore, pur avendone avuti molti di notevole rilievo. L'arrivo di Orsini segna una mutazione, una rottura di continuità, segna nella vita del giornale un'epoca nuova, e quest'epoca nuova è un'epoca brutta perché è caratterizzata dall’alterazione della verità, da verità “alternative” come lo staff di Trump ha ribattezzato le menzogne, una situazione che non doveva essere sponsorizzata dal Fatto Quotidiano con il proprio nome e la propria firma. 

Questa tua decisione, che immagino particolarmente dolorosa, segna una svolta nella tua vita professionale, ma anche nella tua vita personale. Che reazioni hai avuto?

Molte e molto positive e affettuose dall’esterno del giornale; poche, anch’esse molto affettuose, dall'interno. Dalle lettere vedo però che nei più, tra quanti mi rinnovano stima e solidarietà, prevale il desiderio di accompagnare la solidarietà nei miei confronti con la volontà di non risultare ostili al clima filorusso che si è creato nel giornale. Sono quindi perlopiù lettere prudenti, che si limitano ad attestati di stima ma che non entrano nel merito. Solo in pochi parlano delle cose di cui scrivevo e dicono che di quei contenuti, ovviamente a difesa coerente degli ucraini, sentiranno la mancanza.

A te sembra davvero che ci sia questa persecuzione maccartista nei media rispetto a chi ha le posizioni di Orsini, di D'Orsi, di Montanari, di Travaglio?

Ma per favore! Ma lo sanno cosa è stato il maccartismo? 

E tuttavia sostengono di essere coerentemente per la pace, contro i “guerrafondai” che vogliono mandare armi alla resistenza ucraina.

Il titolo di domenica scorsa del Fatto, prima pagina e caratteri cubitali, era "I nostri ‘aiuti’ a Kiev vanno al traffico di armi". Ti rendi conto? Bisogna dire che i pacifisti hanno contribuito a creare un grande pasticcio e una grande confusione. Prendiamo la frase del papa che dice che “la pace porta la pace, la guerra non può portare la pace”: si tratta di una frase gentile ma insensata, perché la pace porta la pace se c’è la pace, ma se c’è la guerra bisogna che cessi la guerra perché ci sia la pace.

Ma guerra e pace sono due nomi generici, ogni guerra ha poi il suo nome proprio, e ogni pace il suo. E in questo caso il nome proprio della guerra è aggressione in atto dell’esercito di Putin contro l’Ucraina e la resistenza dei suoi cittadini, e pace vuol dire che l’esercito invasore sia costretto a rientrare nei propri confini. Invece secondo i pacifisti l'unico modo per ritrovare la pace è la resa degli ucraini. Questa è infatti la posizione che si trae dalle loro affermazioni: si sta invocando la resa per poter smettere questa carneficina che sarebbe provocata dalla “inutile” resistenza. 

Questo però è il mondo alla rovescia. Ed è questo che ha portato alla spaccatura tra Il Fatto Quotidiano di Travaglio e, ormai, Orsini, e me perché non siamo più nell’ambito delle opinioni, per quanto discutibili, tipo “questa guerra si poteva evitare che scoppiasse, c'erano tutti gli elementi per poter trattare”, oppure “peccato che la Nato sia stata così aggressiva, certo che la Russia non poteva stare ferma”. Ci sono tanti argomenti per affrontare questo tema, ma “il mondo alla rovescia” per cui si identifica la pace con la resa degli ucraini è al di fuori di ogni possibile verità.

Ma secondo te i media, e in particolare la televisione che è quella che ancora oggi ha maggiore influenza, rispettano la verità dei fatti o sono sbilanciati in una propaganda?

Distinguerei l’informazione televisiva che riporta le notizie, i reportage, dai talk show. Nei reportage, quelli almeno dei telegiornali che vedo io, non vedo questa propaganda, anzi – come del resto anche negli Stati Uniti – sono estremamente prudenti nel dare le notizie su quello che accade, nessuno esalta la crudeltà e la cattiveria. Nessuno inizia il suo racconto dicendo “un'altra azione criminale compiuta dalle truppe russe ha avuto luogo ieri in un qualche villaggio”. 

Insomma, direi che non ci sono elementi di propaganda nel racconto dei fatti. Mi riferisco in particolare a La7 che è estremamente cauta nel dare e nel verificare anche notizie scandalosamente crudeli; l'inviato le racconta e basta, senza commenti e senza enfasi. Non è mai propagandistica. Altro discorso invece per i talk show, dove vedo molta propaganda. Non c'è dubbio che alcuni talk show sono decisamente putiniani, mentre altri sono, più seriamente, un tentativo di far esprimere opinioni anche molto diverse, ma senza calpestare le verità di fatto.

Hai qualche esempio di questi talk show più putiniani?

Per esempio tutti quelli a cui ha partecipato Orsini, tutti quelli nel quale è stato il personaggio chiave. Orsini è diventato il leader di questa nuova posizione, ma esiste una notevole moltiplicazione di personaggi à la Orsini. Non sarei in grado di indicare esattamente le trasmissioni, perché non le seguo tutte in modo così regolare. 

In alcuni di questi talk show vengono spesso invitati “giornalisti” russi. Metto “giornalisti” fra virgolette, perché io un giornalista russo vero, l'ho conosciuto, anzi una giornalista, Anna Politkovskaja, fatta ammazzare da Putin. Che impressione ti fa vederli in tv?

Mi fanno l’impressione che mi ha sempre fatto l'Unione Sovietica e poi, dopo il breve intervallo non sovietico, l'arrivo al potere di Vladimir Putin. Ho l'impressione di un Paese in stato di asfissia dal punto di vista della conoscenza dei fatti.

Tu hai avuto una vita giornalistica straordinariamente ricca. Se non sbaglio la tua prima intervista, trentenne, fu alla vedova di Roosevelt, Eleanor.

Sì, esatto, gennaio ‘61. 

Da allora hai intervistato praticamente tutti i personaggi più importanti di un'intera epoca storica e i tuoi interventi la domenica sul Fatto dimostravano quanta attenzione hai per la realtà quotidiana. Ora che non hai più il Fatto Quotidiano, che progetti hai?

Al momento sono fermo, non per intenzione, non per programma. Sto studiando la situazione e le opportunità che potrei avere.

Lettera di un lettore al “Fatto quotidiano” il 19 maggio 2022.

Ho letto su MicroMega il punto di vista di Furio Colombo sulla decisione di non collaborare più al Fatto. Mi ha sorpreso la seguente dichiarazione: "Il mio articolo previsto per domenica 8 maggio era particolarmente critico sulla questione. Quell'articolo, con le critiche rivolte a Orsini e Fini, non è stato pubblicato. Non era mai accaduto". Mi meraviglia la mancata pubblicazione nella data prevista della rubrica, in relazione al principio di pluralismo alla base dell'informazione. Ho frainteso qualcosa? Francesco Zaccaria

Risposta di Marco Travaglio

Caro Zaccaria, rispondo a lei e anche ai lettori Emanuele Meli e Valerio Avanzi che mi hanno posto la stessa domanda (le moltissime altre sul caso che non abbiamo potuto pubblicare usciranno online nella nostra sezione Extra). Per amicizia, rispetto e carità di patria ho finora evitato di rispondere alle falsità che va diffondendo Furio Colombo su giornali e tv. Ma quella che sia lui il censurato (da me!) è troppo grossa per lasciarla correre. L'unica censura in tutta questa storia è quella che Colombo pretendeva da me, quando mi ha ripetutamente chiesto di cacciare dal Fatto Quotidiano il professor Orsini, "reo" di non pensarla come lui.

Gli ho risposto, sbalordito, che non era una richiesta né liberale né democratica, anzi inaccettabile per la mia concezione della libertà di pensiero e del pluralismo e irricevibile per la storia del nostro giornale. E lui se n'è andato, malgrado i tentativi di molti di noi di farlo ragionare. Alla fine l'ha ammesso anche lui sul Riformista: "Ho pregato Marco di farne a meno" (di Orsini). Poi però ha aggiunto che "al Fatto non c'è più libertà": invece c'è sempre stata e sempre ci sarà; non ci sarebbe più se avessi accettato il suo diktat di cacciare un professore per le sue idee.

Non so altrove, ma qui funziona così: i commentatori concordano col direttore gli articoli che, una volta approvati, vengono scritti e pubblicati. Con tre soli limiti: il Codice penale, per tentare di evitare condanne per diffamazione; l'oggettività dei fatti; e il rispetto per gli altri collaboratori del giornale, che possono dissentire gli uni dagli altri, ma non usare il Fatto per insultarsi e diffamarsi fra loro.

Purtroppo Colombo, sabato 7, mi ha inviato un pezzo che oltrepassava tutti e tre i limiti: offendeva e diffamava Fini e Orsini attribuendo loro tesi e intenzioni mai espresse, financo una fantomatica complicità nella guerra di Putin all'Ucraina. L'ho dunque pregato di rimandarlo con tutte le sue opinioni intatte, anzi con un'esplicitazione ancor più dichiarata del suo dissenso da Fini e Orsini (e da me), ma senza insultarli, anche perché altrimenti Fini e Orsini avrebbero avuto tutto il diritto di usare il Fatto per ripagarlo della stessa moneta, trasformandoci in un ballatoio di comari per la gioia dei nostri avversari e lo sconcerto dei nostri lettori.

Colombo ci ha pensato qualche giorno, poi mi ha inviato la nuova versione, che è uscita venerdì. Anche lì le false accuse abbondavano (Fini veniva addirittura scambiato per Lavrov, non avendo mai detto che Hitler era ebreo). Ma a quel punto - per amicizia, rispetto e carità di patria - ho deciso di fare un'eccezione e di pubblicare tutto, limitandomi a correggere le fake news più marchiane. La stessa mattina Colombo mi ha telefonato per comunicarmi che, se non avessi cacciato Orsini, avrebbe lasciato il Fatto. Me lo sono fatto ripetere più volte, perché non ci volevo credere. Purtroppo era tutto vero.

Orsini-Travaglio, oggi amici ma ieri si insultavano. Paolo Bracalini il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il prof accostò i No Tav alle Br e il direttore lo attaccò. "Cattivo giornalista, mi ha rovinato la vita".

«Travaglio è un cattivo giornalista e mi ha rovinato la vita». Firmato professor Orsini, editorialista del Fatto di Travaglio. Possibile? Possibilissimo, basta tornare indietro qualche anno. Quando Orsini faceva ancora il professore e non l'ospite tv a pagamento o lo showman in teatro (nel filone complottista «vi svelo quel che il sistema non vi dice»), vergò un articolo proprio sul Giornale in cui paragonava i No Tav (coccolati da Travaglio e da Beppe Grillo) alle Brigate rosse. «Come i brigatisti rossi, i black bloc vogliono distruggere il capitalismo. Con i rivoluzionari delle Br sembrano avere in comune anche il linguaggio» scriveva Orsini nel 2011. Sul suo blog Travaglio lo interpretò a modo suo, accusandolo di aver infangato l'onore dei No Tav (il primo bacino elettorale del M5s), una branca del mondo black bloc. Scatenando peraltro un'orda di haters contro Orsini: «Ho ricevuto tante mail di insulti. Molti mi hanno criminalizzato per una cosa mai detta, mi hanno dato del corrotto, del criminale, del porco, del servo di Berlusconi...» spiegò.

Tutta colpa del suo futuro amico e direttore Marco Travaglio, verso cui Orsini esprimeva un pessimo giudizio. «Non ha letto nemmeno una parola di ciò che ho scritto, fornendo un esempio di cattivo giornalismo. Non ho mai neppure citato i No Tav nel mio articolo». E allora perché questo attacco, gli venne chiesto. Spiegazione di Orsini: «Perché Travaglio ragiona in maniera primitiva: se scrivi un articolo per il Giornale sei moralmente corrotto. Sei sul libro paga di Berlusconi. Tengo a precisare che non ricevo compensi per i miei articoli. Il fatto che debba precisarlo mi fornisce una misura precisa del clima da inquisizione in cui siamo precipitati. Se avessi scritto le stesse cose su il Fatto Quotidiano, Travaglio mi avrebbe applaudito». Una sorta di profezia.

A dieci anni di distanza dallo scontro Travaglio-Orsini, i due si ritrovano dalla stessa parte della barricata. Entrambi Nato-scettici (guai a dire filo-Putin), entrambi vicini al M5s, che vorrebbe candidare il professore alla politiche dell'anno prossimo. Ovviamente il Fatto si oppone, come il M5s, alle nuove regole sugli ospiti dei talk show Rai pensate per evitare la propaganda subliminale filorussa, discusse ieri sera in Vigilanza (dove i grillini hanno presentato una proposta di risoluzione sul «pluralismo» degli opinionisti in Rai, cioè per far ospitare gli amici loro). Ed entrambi difendono la Berlinguer, minacciata di chiusura di Cartabianca (che ha offerto un ricco contratto a Orsini, per fare compagnia a Scanzi, opinionista a pagamento della trasmissione di RaiTre). E infatti si racconta di un incontro tra l'ad Rai Carlo Fuortes e la figlia dell'ex segretario Pci, in cui l'ad avrebbe confermato fiducia, stima e l'assicurazione che Cartbianca non verrà chiuso. Solo una raccomandazione a stare attenti agli ospiti schierati con Mosca. Una soluzione alla tarallucci e vino in pieno stile Rai.

Apprendisti stregoni Colombo, Flores e la gauche grillina che scopre solo ora l’orrore del populismo. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 19 Maggio 2022.

L’ex direttore dell’Unità che ha portato Travaglio sul giornale fondato da Antonio Gramsci e il filosofo che ha aperto Micromega a pm e girotondini inorridiscono davanti alle posizioni dei loro ex compagni di strada. Ma a essere contromano sono proprio loro due.

Se dovessi dire i due nomi che storicamente hanno fatto di più, tra la fine degli anni Novanta e i primissimi anni del Duemila, per spingere il giornalismo, la cultura e i partiti della sinistra italiana sulle posizioni oggi rappresentate dal Fatto quotidiano e dal Movimento 5 stelle, direi senza dubbio Paolo Flores d’Arcais e Furio Colombo. Il primo, come direttore di Micromega, fece del suo “almanacco di filosofia” la tribuna di tutti i pubblici ministeri di maggior grido e il megafono di tutti i movimenti della «società civile» che contestavano i partiti della sinistra da posizioni proto-grilline, in particolare al tempo dei cosiddetti girotondi. Il secondo, come direttore dell’Unità, con Antonio Padellaro al fianco come condirettore (e successore), fece altrettanto sul giornale fondato da Antonio Gramsci, affrontando per questo non poche polemiche con i dirigenti e anche con qualche militante del partito di riferimento (i Democratici di sinistra), forte dei notevolissimi e innegabili risultati ottenuti in termini di copie vendute. Tra le scelte indimenticabili di quella stagione va ricordata anche quella di assegnare una rubrica fissa, sull’Unità, a Marco Travaglio.

Confesso dunque di aver letto con sentimenti contrastanti l’accorata intervista di Colombo a Flores, su Micromega, in cui racconta la sua decisione di lasciare il Fatto quotidiano, vale a dire il giornale fondato da Padellaro con Travaglio e con lo stesso Colombo, praticamente come una costola della loro Unità, una sorta di scissione politico-giornalistica, perfettamente coerente con le loro passate battaglie.

Prima di proseguire, a beneficio dei lettori più giovani o smemorati, è forse utile ricordare che una delle questioni maggiormente divisive, come si direbbe oggi, tra partito e giornale, era rappresentata allora dalla dura campagna condotta da Colombo per affermare l’importanza di definire il governo Berlusconi del 2001 un vero e proprio «regime», paragonandolo esplicitamente al regime fascista, e accusando tutti quei dirigenti dei Ds e del centrosinistra che non ritenevano né giusto né conveniente prendere una simile posizione di essere sostanzialmente traditori e quinte colonne del nuovo fascismo arrembante, o poco meno (spesso anche qualcosa di più).

Le posizioni di Flores e Micromega erano su questo, e su molte altre cose, largamente coincidenti con quelle dell’Unità di Colombo, come lo erano le firme dei principali collaboratori, a cominciare ovviamente da Travaglio.

Fa dunque un certo effetto vedere oggi i due principali artefici di questo movimento politico e culturale, culminato prima nella fondazione del Fatto (con tutta la galassia editoriale connessa) e poi nel Movimento 5 stelle, ritrovarsi improvvisamente all’opposizione delle loro creature, dopo essere entrambi inorriditi dinanzi alle prese di posizione assunte da tanti loro amici e compagni di strada della gauche grillina sulla guerra di Putin.

Flores infatti si è giocato subito il rapporto con qualcuno dei suoi collaboratori scagliandosi contro le dichiarazioni del presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, e in particolare contro il comunicato dell’associazione sul massacro di Bucha, definendolo giustamente «osceno», in un articolo carico di sacrosanta indignazione contro il «ponziopilatismo» di chi mette sullo stesso piano, sotto l’etichetta del «furore bellicistico», aggressori e aggrediti.

Colombo non ha esitato a polemizzare direttamente col suo giornale, il Fatto, per lo spazio e l’accoglienza dati ad Alessandro Orsini e alle sue singolari tesi strategiche e storiografiche, ma anche per analoghe uscite di altre più antiche firme del giornale, come Massimo Fini, sulla correttezza del comportamento delle Ss in Italia. Posizioni che hanno suscitato qualche protesta anche da parte di un altro recente acquisto del giornale come Gad Lerner.

Personalmente trovo sorprendente la loro sorpresa. Per quale ragione al mondo il giornale che da oltre un decennio tratta Beppe Grillo come un leader politico visionario e anticipatore, appoggiando senza riserve il partito che ha sdoganato in Italia la paccottiglia no vax, la caccia alle scie chimiche e la propaganda russa sull’annessione della Crimea, dovrebbe ora censurare le teorie di un Orsini?

È comunque degno di nota anche il modo in cui il Fatto ha aperto il dibattito al contributo dei lettori, con titoli surreali quali «Colombo sbaglia, ma resti» (lunedì 16 maggio), ma soprattutto con contributi come quello pubblicato ieri in cui l’affezionato Luca Menichetti scrive: «(…) Colombo avrebbe potuto esprimere tutte le sue perplessità senza quei toni ultimativi. Toni che lo fanno assomigliare a un qualsiasi editorialista di Linkiesta o del Foglio. Il mio appello a Furio Colombo: non butti via così la sua reputazione».

Sono d’accordo con il lettore del Fatto. Come ha scritto anche Giuliano Ferrara, proprio sul Foglio, rivolgendosi direttamente a Lerner e Colombo: «Continuate a collaborare tranquilli».

Intendiamoci, ciascuno ha diritto di ricredersi sulle battaglie combattute in passato e sui propri compagni di strada. Quello che però non si può sostenere è che siano tutti gli altri ad avere improvvisamente fatto inversione e a essere finiti contromano. Vale la regola della barzelletta: se la radio dice che c’è un pazzo contromano e la tua risposta è che i pazzi sono molti di più, evidentemente, è il momento di fare una sosta.

Annessi e connessi. Massimo Gramellini su Corriere della Sera il 18 maggio 2022.  

Non so se sia putiniano, ma di sicuro Putin non è più orsiniano. Ha dimenticato di definire «annessione» , nonostante la prof.ssa Di Cesare gli avesse suggerito da tempo la risposta esatta. E ha persino negato che la scelta di campo di quei due Paesi rappresentasse di per sé un gesto minaccioso nei confronti del suo, smentendo clamorosamente la compagnia disarmante (a senso unico) dei talk show. Putin allineato sulle posizioni dei «giornaloni»? In realtà si conferma il classico boss che rispetta soltanto chi non ha paura di lui, , la Russia è sempre più isolata e la situazione è destinata a peggiorare, rivelando un certo sprezzo del pericolo, ma soprattutto — e lo trovo imperdonabile — una scarsa conoscenza delle tesi del prof. Orsini sulla forza inarrestabile della macchina bellica russa e sul sostegno alla causa da parte di Cina, India e Repubblica Galattica di Star Wars. Con l’arietta tollerante che si respira da quelle parti, al colonnello catastrofista (probabilmente una spia di Biden o, peggio, di Caprarica) si consiglia comunque un periodo di digiuno precauzionale. P.S. Lunga vita televisiva ai pacifisti strabici, a cui vorrei sommessamente ricordare che la critica non è censura, nemmeno quando a farla siamo noi del «mainstream», che almeno per un giorno possiamo quasi dirci putiniani.

Dalla crisi della sinistra alla questione Nato. Armi e propaganda soppiantano la politica, la guerra delle parole tra menzogne e ideologia. Michele Prospero su Il Riformista il 18 Maggio 2022. 

Colpita da pietre multimediali che, si sa, non ragionano con troppa sottigliezza, Donatella Di Cesare non è fuggita dallo spazio pubblico. I furiosi liberali non intendevano contrastare le sue idee più provocatorie (“l’annessione” di Svezia e Finlandia alla Nato), ma solo annichilire con un insulto definitivo il lavoro che sta dietro ad una carriera prestigiosa. Proprio su questo giornale la filosofa del linguaggio ha posto nei giorni scorsi una questione cruciale: mai la sinistra nella storia repubblicana ha rinunciato alla forza della politica per cedere tutto alle armi, alle sanzioni, all’economia di guerra.

Con la sua virata atlantista, Letta rafforza la presa del Nazareno verso influenti ambienti politico-culturali, ma lascia incredulità in una componente del suo tradizionale elettorato. A questi militanti in fuga si rivolge Conte con le uscite pacifiste, che accantonano le voci del suo Ministro degli esteri (“Putin è peggio di un animale”). Oltre alle scaramucce elettorali, il dato più rilevante è che in Italia manca una maggioranza politica che condivida una lettura delle cause, delle implicazioni e delle prospettive della più grave crisi geopolitica dal dopoguerra. Senza una lettura di sistema, c’è chi suggerisce (in sintonia con l’ordoliberalismo tedesco ostile alla Spd) di ridimensionare il supporto in armi pesanti preferendo indirizzare le misure coercitive verso l’adozione di più estese sanzioni economiche. Se l’obiettivo della proposta è umanitario, occorre precisare che tra il 1990 e il 2003 “l’embargo finanziario e commerciale ha contribuito a creare un disastro umanitario, uccidendo circa 500.000 civili iracheni, secondo le stime dell’Unicef” (John J. Mearsheimer, Why Leaders Lie. The Truth about Lying in International Politics, Oxford, 2011).

Armi, geopolitica, economia, costi umani non sono separabili nella valutazione dell’evento. Almeno la Lega, con la sua parola d’ordine vagamente leninista “pace e lavoro”, conferisce una visione di sistema alla spiegazione della emergenza. E, in coerenza con una interpretazione del conflitto attenta alle ricadute negative sui ceti produttivi della escalation militare, respinge la prospettiva di un ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, percepito come contrastante con la soluzione politico-diplomatica.  Una lettura ideologica della guerra in corso come conflitto tra democrazia (quella ucraina, che scioglie i partiti, ospita la sola voce del presidente, che dirige anche il televoto nel festival della canzonetta) e autocrazia (quella russa, che non placa le voci dissonanti della banca centrale, della oligarchia, di alcuni media) ostruisce lo spazio della manovra. La tendenza a ricoprire con il linguaggio dei valori la disputa militare è ricorrente nella politica americana. In essa, nota Mearsheimer, “le élite di solito agiscono come realiste e parlano come liberali, il che richiede invariabilmente l’inganno, la menzogna”.

La ragione della esagerazione simbolica, e persino del ricorso al falso, è che entro un sistema politico iper-armato (con robusti deterrenti nucleari) e sicuro (anche grazie all’isolamento garantito “da due enormi oceani”) “l’unico modo in cui i suoi leader possono giustificare ambiziose crociate globali è quello di convincere il popolo americano che problemi nel complesso minori sono in realtà dei pericoli gravi e crescenti”. Non solo la fabbrica putiniana di fake news (l’obiettivo della denazificazione, l’aiuto patriottico alle minoranze in lotta per l’autodeterminazione territoriale) ha invaso la rappresentazione con i ritmi della propaganda. L’arsenale dell’amplificazione e della menzogna è condiviso anche dalla coalizione occidentale (e dai suoi media), che parla di genocidio, di macelleria criminale pronta alla conquista feroce della vecchia Europa. L’ideologia ha ripescato analogie con Hitler per recuperare così anche le stesse norme utilizzate nella battaglia contro il nazismo e distribuire armi sofisticate, aiuti finanziari immediati, informazioni utili per la chirurgica eliminazione fisica di 12 generali e l’abbattimento spettacolare di navi.

Il pericolo effettivo sprigionato da uno Stato dal grande arsenale nucleare e dal piccolo potenziale economico (il Pil russo è appena il 3,5% di quello dei paesi della Nato) viene ingigantito dalle narrazioni che sorreggono la spirale della paura attribuendo a Mosca un disegno strategico-espansivo in evidente contrasto con le effettive dotazioni tattiche disponibili. Accanto all’amplificazione della Russia come reincarnazione totalitaria dell’impero del male, che solo le armi possono arginare (non disprezzando anche un tirannicidio), la comunicazione fa precipitare il demone putiniano nell’infinitamente piccolo (un terzo dei militari caduto in battaglia) e descrive uno zar malato “che si cura con sangue di cervo” (l’immagine è del Corriere) alla guida di paese vulnerabile. L’inno alle armi vale sia perché la logica di potenza russa è inarrestabile senza il fuoco sia perché la fragilità dei moscoviti è eclatante dinanzi all’arsenale tecno-militare allestito dall’Occidente, che ora può abbattere lo spettro di Golia e celebrare la reconquista. La propaganda soppianta la strategia realista e le cancellerie credono alle finzioni che servono solo per eccitare un pubblico altrimenti distratto.

La Nato sembra guardare oltre la mera difesa che limita-rallenta l’esercito russo per ipotizzare la via della offensiva, con un allargamento della competizione. I fucili non possono sostituire la politica e l’ulteriore prova di forza, con l’allargamento dell’Alleanza atlantica a Svezia e Finlandia, allontana una più durevole sistemazione dei nodi dell’equilibrio europeo. Come nota Mearsheimer (The Tragedy of Great Power Politics, New York, 2001), il pericolo che spesso insidia la strategia geopolitica degli Usa è un eccesso di ideologia, che nelle sue credenze riconduce “alla cultura politica americana che è profondamente liberale e di conseguenza ostile alle idee realiste”.  Quanto più ripesca i valori morali, in nome di una missione universale per la democrazia, tanto più l’America imbraccia il fucile per disegnare l’ordine del mondo (5 guerre dopo il crollo dell’Urss, in trincea per 24 anni tra il 1989 e il 2021). E l’ideologia, utilizzata per superare l’antica ambizione europea al multipolarismo e spianare una egemonia unipolare, presenta rischi. È vero che la Russia appare troppo debole sul piano militare per poter decidere gli equilibri territoriali oltre i propri confini. E però rimane ancora troppo forte, grazie alle armi di distruzione di massa, per essere sacrificata come una voce insignificante nella geopolitica europea. Occorre prendere sul serio quanto la Russia ripete da trent’anni.

Ricorda Mearsheimer: “Nel 1993 la Russia, abbandonando l’antica dottrina sovietica che escludeva di assumere la responsabilità nella prima attivazione delle armi nucleari, ha chiarito che avrebbe iniziato una guerra nucleare qualora la sua integrità territoriale fosse stata minacciata. Le azioni nella repubblica separatista della Cecenia dimostrano chiaramente che la Russia è disposta a condurre una guerra brutale quando ritiene che i suoi interessi vitali siano minacciati”. Anche se indebolita sul versante militare, con l’inevitabile rinuncia alle sue escursioni su territori altrui con truppe mercenarie, sul piano geopolitico (dalla finlandizzazione dell’Ucraina si rischia di precipitare nella ucrainizzazione della Finlandia) la Russia continua ad essere un partner temibile per via delle testate atomiche. Per questo la gestione del ridimensionamento del potere russo dopo l’avventura ucraina, che ha mostrato la più spietata logica di potenza e sterminio, deve essere oculata al fine di evitare la sindrome della umiliazione. La forma del diritto, che invita al ritorno allo status quo ante, con il ripristino della integrità territoriale dello Stato aggredito, deve essere integrata con la logica della potenza, che mostra la pretesa di Mosca al controllo di territori. Il diritto dell’aggredito va combinato con l’elemento geostrategico, cioè con il dato relativo al governo dello spazio che pare diverso tra prima e dopo l’evento bellico.

Tornare semplicemente ai confini originari comporta la possibilità di una guerra infinita con l’accrescimento del disordine nell’area europea. Calibrare diritto e forza, nello ruolo della politica di trovare il necessario compromesso, è la soluzione meno costosa per i principi superiori della sicurezza. Ciò esige la maturazione di uno specifico interesse europeo, non sempre collimante con l’obiettivo strategico americano che rivendica un forte principio di leadership. Spesso la costruzione della sicurezza americana produce un’asimmetria per cui la tranquilla egemonia dell’impero postula l’endemica insicurezza dei paesi rivali e anche degli eserciti alleati.  L’ampliamento della Nato si configura come una occasione per definire un continente a doppia lealtà, quella dei paesi dell’area veteroeuropea, che negli obblighi delle alleanze non rinunciano alla ricerca di margini di autonomia, e quella dei paesi nordici (e dell’ex Patto di Varsavia), che coltivano il legame americano come asse prioritario, non solo in vista del sistema della sicurezza.

L’ulteriore richiesta di sicurezza militare dei due paesi scandinavi (già garantita dalla clausola di “difesa reciproca” per via dell’appartenenza all’Ue) ha un costo di destabilizzazione e di esposizione al rischio che prevale sui benefici. Si profila in un certo senso uno scambio ineguale: i tradizionali paesi europei meno hanno da guadagnare dall’ampliamento della Nato rispetto al di più che hanno da perdere, precipitando negli obblighi militari che scattano nella gestione dell’emergenza della zona pericolosamente vicina alla Russia.  Rispetto al vincolo con il vecchio continente alla ricerca dei perduti postulati della sovranità, nei paesi nordici si profila la preferenza per una relazione speciale con gli Usa in un quadro che tende a trascurare gli interessi politico-diplomatici, economici, geopolitici europei.

La potenza americana, per i suoi obiettivi strategici, non si cura di un territorio costretto ad ospitare molteplici crisi (politica, militare, economica, energetica, umanitaria). Con la Nato che “abbaia” verso est e rafforza il complesso russo dell’accerchiamento, l’Europa precipita in una strutturale incertezza. Con il restringimento della mondializzazione, essa viene colpita nelle sue esigenze non occasionali tese alla globalizzazione come terreno di una cooperazione pacifica e multilaterale. Michele Prospero

Se Orsini piange, Di Cesare non ride. Non guardando la tv italiana, Svezia e Finlandia preferiscono entrare nella Nato. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 13 Maggio 2022.

Evidentemente le loro opinioni pubbliche, storicamente pacifiste e neutraliste, negli ultimi tempi sono state sottoposte a una dieta informativa molto diversa dalla nostra.

Evidentemente svedesi e finlandesi non leggono la stampa italiana, non guardano la tv italiana, non ascoltano le complesse analisi di filosofi, storici, sociologi, politologi e geopolitologi italiani. Evidentemente le loro opinioni pubbliche, storicamente pacifiste e neutraliste, negli ultimi tempi sono state sottoposte a una dieta informativa molto diversa dalla nostra, se a larghissima maggioranza adesso, tutto d’un tratto, invocano l’adesione dei loro paesi alla Nato.

L’annuncio ha indignato la filosofa Donatella Di Cesare, che in un tweet ha parlato ieri di «annessione alla Nato», forse confondendosi con la Crimea annessa dalla Russia, o magari solo per mantenersi competitiva, come personaggio televisivo, rispetto alla concorrenza di Alessandro Orsini. Ma per quanto possa essere sgradevole dirlo, si deve riconoscere che buona volontà, impegno e determinazione non possono eguagliare il dono innato, il talento puro, la superiore naturalezza con cui già il 29 aprile il biondo Maradona dei nostri talk show scoccava un insuperabile: «Ogni volta che sento che un paese vuole entrare nella Nato, soprattutto se vicino ai confini con la Russia, io piango».

Evidentemente svedesi e finlandesi non conoscono o non capiscono le preoccupazioni della filosofa Di Cesare («Prima delle paure di svedesi e finlandesi c’è l’esigenza di una coabitazione dei popoli europei», li aveva ammoniti) e non si curano nemmeno di far piangere Orsini.

Evidentemente non hanno seguito le complesse argomentazioni con cui da mesi agli italiani viene spiegato, a ogni ora del giorno e della notte, come e perché quella in corso sia una guerra per procura, e come sia stata la Nato a provocarla, e proprio per il fatto di avere semplicemente lasciato che si parlasse di un suo eventuale allargamento fino ai confini russi, con l’adesione dell’Ucraina.

Altrimenti certo oggi un paese come la Finlandia, che confina con la Russia e che dalla Russia è stato già invaso in passato, mai e poi mai penserebbe di chiedere, proprio ora, l’adesione all’alleanza atlantica, andandosi a cacciare in un simile pericolo. Evidentemente finlandesi e svedesi non hanno capito che è Joe Biden il bellicista, che se non fosse per gli Stati Uniti e la Nato la guerra sarebbe finita da un pezzo, che il problema non è mica Vladimir Putin, il quale al contrario ultimamente «fa il moderato» (giuro che un giornale italiano lo ha scritto davvero, mentre il moderato in questione continuava a far bombardare, giustiziare e deportare migliaia di civili ucraini). Il problema è il «Partito unico bellicista», rappresentato da chi non vuole lasciare l’Ucraina al suo destino.

Proprio così: l’invasore è il «moderato», chi vuole aiutare la resistenza degli aggrediti è il «bellicista», la guerra è pace e la pace è guerra, il lupo sarà anche stato sopra ma è ovvio che l’agnello ha provocato. È chiaro che svedesi e finlandesi non capiscono niente di geopolitica. È evidente che le loro opinioni pubbliche hanno perso qualunque contatto con la realtà: vedono il pericolo dove non c’è e non lo vedono dove c’è, mettendo a rischio se stessi e noi. Farebbero bene a seguire il dibattito italiano.

O forse – azzardo l’ipotesi – siamo noi italiani che faremmo meglio a seguire qualche minuto del dibattito finlandese? 

Penzierini e cuoricini. La mezz’ora di “Soncini putiniana” e l’incantevole show dell’opinionismo social. Guia Soncini su L'Inkiesta il 13 Maggio 2022.

La nostra eroina non ha resistito alla tentazione di commentare un post cretino, scatenando le classiche reazioni pavloviane: incomprensioni, offese e inconsapevoli ammissioni di stupidità.

Di recente scorrevo la pagina Facebook d’un grande quotidiano, e sotto a un elzeviro breve e nitido c’era un commento così incapace di comprendere il testo, così ottuso e perentorio, che fino a qualche anno fa avrei detto: ah, quegli scemi di cui una volta ignoravamo l’esistenza e che i social ci fanno incrociare.

Solo che quel commento lo lasciava una tizia i cui prodotti culturali hanno grandemente influenzato la mia crescita. Solo che la tizia non era la tizia che mi aveva formato: era una sua mutazione, esposta alla capacità di renderci imbecilli che ha l’internet. Di renderci tifosi, ottusi, analfabeti, cani di Pavlov, spaventati dalle ipotassi quanto lo siamo da interlocutori che non sappiamo collocare: sarà della mia curva o di quella avversaria?

E quindi questa è la storia di una mezz’ora martedì sera, una mezz’ora in cui sono diventata ufficialmente putiniana, qualunque cosa significhi (che ti piacciono le sneaker di Gucci, credo, il che non possedendo io sneaker di Gucci mi ha un po’ destabilizzata).

Poiché la vita è sceneggiatrice, martedì sera mi accingevo a dialogare col miglior intellettuale della mia generazione (non che sia una gara granché competitiva), Claudio Giunta, nel programma radiofonico di Giancarlo Loquenzi, Zapping. L’idea di convocare Giunta mi era venuta dopo aver ascoltato, in una sua conversazione con Daniele Rielli, alcune considerazioni sull’inadeguatezza degli umanisti a interpretare il presente. Il liceo classico aprirà pure la mente ma non ti prepara a leggere le curve pandemiche.

Fin qui il mio essere improvvisamente militante putiniana sarebbe stato fuori tema (non ho neanche fatto il classico, anche se in altre scuole mi hanno bocciata quasi quanto Orsini), ma a un certo punto di quella conversazione Giunta aveva emesso una sentenza: «Chi partecipa ai social non è il frutto più intelligente del cestino».

Mi era tornata in mente un’amica che mi raccontava le facce che faceva il suo psicanalista quando lei cercava di spiegargli le interazioni dentro Instagram. Chissà che effetto facciamo, a uno sano di mente, noialtri coi cuoricini degli sconosciuti.

Insomma, mezz’ora prima di parlare in radio del mio essere un frutto mezzo marcio, ho aperto Twitter. È necessario precisi una cosa. Non seguo, su Twitter, quasi nessuna persona che conosco. Le persone che conosco, e che nella vita sono normodotate, su Twitter diventano gente di Twitter: pronta a cuoricinare i peggio scemi, purché della loro stessa curva di tifoseria. Se li cuoricinano mi compaiono, se mi compaiono penso «oddio ma chi è questo cretino», se lo penso ho un problema di continenza e finisce che lo dico.

Il tweet che mi compare martedì, cuoricinato da Loquenzi (la vita è sceneggiatrice), è d’un nomignolo qualunque, e fa così: «Un esercito che si ritira portandosi via gli elettrodomestici razziati e lasciando sul terreno i cadaveri dei commilitoni non merita di vincere una guerra». È, converrete, un capolavoro. C’è tutto: l’etica della guerra (le guerre col bon ton che fanno i buoni, signora mia, lo diceva pure quel De Gregori che eran belle); la faciloneria della condanna morale da parte di chi ha sempre vissuto in una società in cui il microonde ce lo compriamo senza troppi problemi; il merito che vale la vittoria, tipo il bel gioco nelle partite. È difficile riuscire a essere così tante volte stupidi in così poche righe.

Poiché in negozio mi hanno detto che la castità e la continenza me le daranno, ma non subito, rilancio questo penzierino aggiungendone uno mio, che fa così: «io questo zoo di vetro in cui mi fate comparire gente che fa la morale a chi è così povero da aver bisogno di rubare un elettrodomestico e la fa pure col tono dolente di chi ha il compito di svelarvi verità scomode, io la terra che vi manderei a zappare non ve lo so spiegare».

Lo scambio prosegue per un po’, nomignolo mi addita al pubblico ludibrio accusandomi di «giustificare la brutalità dell’esercito russo», io dico veramente le stavo solo dando del pirla, lui dice che ora cancellerò vergognandomi, io penso ma se mi dovessi vergognare ogni volta che incrocio un pirla sull’internet sarei già morta – cose così. Intanto Claudio Giunta sta chiamando l’operatore per cambiare numero di telefono e non essere costretto a parlare con la frutta bacata che sono.

Le risposte al framing «Soncini putiniana» che varrebbe la pena citare sono moltissime, e costituiscono un’eccelsa spiegazione della crisi dell’editoria: perché spendere venti euro per un romanzo, quando hai sul telefono, gratis, gente che a «zoo di vetro» risponde «dallo zoo casomai viene questa signora», non avendo reperito gratuitamente su Spotify le hit del trapper Tennessee Williams e pensando quindi io le abbia dato (a lei, proprio a lei) della scimmia in gabbia.

Perché sfogliare il sussidiario da cui i tuoi figli apprenderanno (forse) l’esistenza di Bava Beccaris, se puoi invece impiegare quei minuti per prendere il telefono e comunicare ai tuoi follower che questa cosa che dice la Soncini della guerra che difficilmente si fa con le buone maniere è una stronzata, «tra europei la guerra, fino alla WW1 inclusa, era una cosa fra eserciti e si faceva con un minimo di ritegno (specie per le popolazioni civili e le strutture non militari)» (l’acronimo della prima guerra mondiale è anglofono perché il bon ton bellico l’ha studiato a Eton).

Se vogliamo assegnare alla tv la responsabilità d’averci esposti all’opinionismo dei sociologi scemi, dei filosofi rincoglioniti, dei virologi vanesi, dobbiamo però riconoscere ai social quella d’averci esposti a milioni di carneadi che si sentono intelligenti perché hanno sghignazzato sulla gif d’un esponente della tifoseria avversaria. Mica lo so cosa faccia più danno alle già non spiccate doti dialettiche delle masse.

E comunque ho selezionato le eccellenze, ma non è che – nella mia mezz’ora da putiniana – le centinaia di commenti di sfaccendati smaniosi di dirci che loro stanno dalla parte giusta fossero tutti capolavori, eh. C’era anche l’ordinarietà, divisa perlopiù in due filoni di sofisticata interpretazione intellettuale: quelli «ah quindi quando stuprano le donne è perché si sentono soli», e quelli «ah quindi posso venire a rubare a casa tua». (Filone minore ma interessante, quelli «ah quindi i soldati russi hanno dichiarato guerra perché gli serviva il televisore nuovo». Le guerre le decidono i soldati, spiega il solito sussidiario). Anche per quest’anno il premio Hitchens per la dialettica temo non verrà assegnato ai nomignoli di Twitter.

Coi quali comunque non è neanche giusto prendersela. Un po’ perché sono un incantevole spettacolo gratuito. Martedì mattina avevo pubblicato un articolo su Orsini, e quindi martedì sera osservavo l’incrocio di incidenti stradali: in una direzione i «putiniana, puntesclamativo», nell’altra i «vuoi sminuire Orsini perché dice il vero». E tutto senza pagare il biglietto per lo spettacolo d’opposti pavlovismi. 

Non è giusto accanirsi su di loro anche perché non è una colpa essere nati in un tempo di ruoli saltati. Una volta esisteva il pubblico: c’era, tra chi scriveva e chi leggeva, una reciproca selezione. Io sapevo per chi scrivevo, il lettore sapeva per cosa pagava. 

Adesso tu scrivi una cosa piuttosto semplice, la cosa viene rilanciata da gente con un po’ di follower, la leggono migliaia di persone che una volta non avrebbero mai approcciato niente di più sofisticato delle risate a denti stretti della Settimana Enigmistica, e si sentono pure equipaggiate per commentare, perché illuderle che la conversazione sia orizzontale è il welfare che siamo riusciti ad accroccare: il modo in cui evitiamo si deprimano troppo osservando le loro vite.

Se pensate che basti non stare sui social, vi ricordo l’elzevirista citato all’inizio: qualcuno, il vostro giornale o altri, comunque la vostra opera d’ingegno sui social ce la metterà, e se la palleggeranno questi qui.

Persone che una volta sarebbero entrate a casa tua a svolgere mansioni umili e guardandosi intorno avrebbero sospirato «quanti libri, li ha letti tutti», e adesso te le cantano alla pari, ti spiegano che sei putiniana ma a loro non la si fa, e già che ci sono ti dicono anche che non sai usare la punteggiatura, apparecchiare la sintassi, domare gli anacoluti, niente, non sai esprimerti, oltre che essere filorussa (stai con Togliatti o con Vittorini, con Pierre o col principe Andrej, con Ashley Wilkes che va a combattere una guerra che gli fa schifo o con Rhett Butler che ne approfitta per farci i soldi tanto sa che si perde).

Va detto che la mutazione è apparente: fuori dall’internet son rimasti uguali. Entrano in casa, sospirano «quanti libri, li ha letti tutti», riparano il tubo, chiedono d’essere pagati in nero. Poi tornano a casa e scrivono su un social che Putin va squalificato dall’Eurovision, e i politici ci rubano i soldi del gas.

Piccolo schermo italiano. Il sospetto dei Servizi sulla presenza di opinionisti nei talk show a libro paga di Putin. Linkiesta il 9 Maggio 2022.

Il Copasir sentirà nei prossimi giorni il direttore dell’Aisi Mario Parente, l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes e il presidente dell’Agcom Giacomo Lasorella. Il primo maggio, in prima serata, sono andate in onda contemporaneamente l’intervista a Lavrov su Rete4 e quella al giornalista Solovyev su La7, entrambi sotto sanzioni da parte dell’Italia e della Ue. 

La presenza di opinionisti stranieri nei talk show italiani non sarebbe solo un caso. Ma «un’operazione di disinformazione organizzata e pensata a monte da uomini del governo russo». Secondo quanto riporta Repubblica, è questo il sospetto del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che ha programmato nei prossimi giorni una serie di audizioni: il direttore dell’Aisi Mario Parente, l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes e il presidente dell’Agcom Giacomo Lasorella.

Il sospetto – scrivono Tommaso Ciriaco e Giuliano Foschini – nasce da una serie di circostanze emerse nel corso delle ultime audizioni. Ci sarebbe la certezza che alcuni degli opinionisti stranieri chiamati dai talk show italiani siano a libro paga del governo di Vladimir Putin.

C’è il caso di Nadana Fridirkhson, presenza fissa in alcuni programmi (recentemente a Carta Bianca ), che lavora per la tv del ministero della Difesa russa. Ma sono arrivate informazioni dello stesso tipo per almeno altre tre persone.

Come si è spiegato nel corso degli incontri al Copasir, la questione non riguarda la necessità di un contraddittorio. Ma attiene alla questione della propaganda. Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per le politiche di sicurezza, nello spiegare il motivo per cui si era deciso di mettere al bando Russia Today e l’agenzia Sputnik, aveva detto che, dal loro punto di vista, erano «armi nell’ecosistema di manipolazione del Cremlino», che «bombardano le menti e gli spiriti: l’informazione è il combustibile della democrazia. Se l’informazione è di cattiva qualità, anche la democrazia è di cattiva qualità».

«Se dunque si è deciso di chiudere Russia Today e Sputnik», dice a Repubblica una fonte della nostra intelligence, «per una questione di sicurezza nazionale, per quale motivo permettiamo che altre persone pagate da Mosca vengano a portare gli stessi concetti nelle nostre tv?».

Il terreno è scivoloso. Perché, evidentemente, c’è di mezzo la libertà di informazione. Ma secondo il Copasir è cruciale. Anche perché è stato lo stesso comitato, per primo, in piena pandemia a sollevare il caso delle operazioni russe in Italia in tema di disinformazione. L’intenzione ora è di procedere per gradi. Per il momento verrà ascoltato soltanto il management della televisione pubblica. Anche per capire come gli opinionisti vengono scelti e invitati, se esiste una lista e se c’è qualcuno, magari in ambasciata, che offre i contatti.

Una circostanza non è sfuggita: il primo maggio scorso contemporaneamente in prima serata in Italia sono andate due interviste. Quella al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov su Rete4 e quella al giornalista amico di Putin Vladimir Solovyev su La7. Due voci ufficiali di Putin entrambi sotto sanzioni da parte dell’Italia e della Ue.

"Il Cremlino paga gli opinionisti nei talk show italiani", allarme dei Servizi. Così la propaganda russa entra nella nostra tv. Tommaso Ciriaco,  Giuliano Foschini su La Repubblica il 9 Maggio 2022.

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov durante l’intervista di domenica 1° maggio su Rete4. 

Il sospetto del Copasir che chiederà agli autori dei talk show chi sceglie gli ospiti. Il caso del Primo maggio con Lavrov e Solovyev in onda nello stesso momento.

Dietro la presenza di opinionisti stranieri nei talk show italiani non ci sarebbe soltanto il giornalismo. O il caso. Ma "un'operazione di disinformazione organizzata e pensata a monte da uomini del governo russo". E' questo il sospetto del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che ha programmato nei prossimi giorni una serie di audizioni: il direttore dell'Aisi, Mario Parente (l'11 maggio).

"Ecco chi c'è dietro gli ospiti dei talk". Il sospetto del Copasir. Alessandro Ferro il 9 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il Copasir sospetta che possa esserci una regia occulta che veicola la propaganda dietro l'ospitata di alcuni esponenti russi sottoposti a sanzioni all'interno dei talk italiani.

Il sospetto, perché dovranno esserci le prove per parlare eventualmente di accusa, è comunque pesante: gli ospiti russi che alcuni talk show televisivi italiani hanno visto protagonisti nei giorni scorsi non sarebbe soltanto informazione, giornalismo, contraddittorio. No, si tratterebbe di "un'operazione di disinformazione organizzata e pensata a monte da uomini del governo russo". È quanto ipotizzato dal Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), che vuole vederci chiaro e andare a fondo nella vicenda tant'é che ha convocato per mercoledì prossimo Mario Parente, direttore dell'Aisi (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna), il giorno dopo l'ad della Rai Fuortes (12 maggio) e una settimana dopo anche Giacomo Lasorella, presidente Agcom.

Dove nascono i sospetti

Su La7, come abbiamo visto sul Giornale.it, si era posto il problema legato a Nadana Fridirkhson, ospite molto frequente in alcuni programmi. Tanto che Nona Mikelidze, Nathalie Tocci e Andrea Gilli avevano deciso di declinare l'invito di Floris per la presenza della "giornalista della tv del ministero della Difesa russo", che suscitò ilarità generale quando lei stessa parlò di "censura" se non avrebbe avuto la possibilità di rispondere. Nelle ultime audizioni, come spiega Repubblica, alcune situazioni avrebbero fatto avanzare il sospetto che ospiti e opinionisti stranieri siano pagati dal Cremlino per dire quello che dicono.

La questione principale non è legata al contraddittorio degli ospiti in studio o dei conduttori, ma riguarda il delicatissimo tempa che è legato alla propaganda. Josep Borrell, politico spagnolo che è "l'Alto rappresentante dell'Unione europea per le politiche di sicurezza", aveva iniziato con il dire che l'agenzia russa Sputnik e il quotidano Russia Today fossero delle "armi nell'ecosistema di manipolazione del Cremlino", che "bombardano le menti e gli spiriti: l'informazione è il combustibile della democrazia. Se l'informazione è di cattiva qualità, anche la democrazia è di cattiva qualità". A questo punto la domanda dell'intelligence italiana è nata spontanea: se vengono chiusi, in Russia, questi due veicoli di propaganda "per una questione di sicurezza nazionale, per quale motivo permettiamo che altre persone pagate da Mosca vengano a portare gli stessi concetti nelle nostre tv?".

Cosa vuole sapere il Copasir

Il Copasir ha "recepito" anche le parole di Borrell e vuole vederci chiaro. Anche perché, in piena pandemia, lo stesso Comitato aveva sollevato il problema delle losche operazioni dei russi ufficialmente venuti per portare aiuti ma che nel frattempo potrebbero aver fatto altro. Le domande saranno facili: chi sceglie di chiamare come ospite una data persona e perché? C'è qualcuno che dall'esterno "suggerisce" alcuni nomi o sono decisioni indipendenti di una data testata? Esiste una regia occulta o è semplice e pura informazione e giornalismo?

Marco Zini per tag43.it il 9 maggio 2022.

Come in un giallo di Agatha Christie, anche il caso della chiusura di Cartabianca, controverso talk show del martedì su Rai Tre, ha i suoi assassini nascosti nel retro del palcoscenico di viale Mazzini, quartier generale della tivù di Stato. 

Il programma di Bianca Berlinguer, infatti, avrebbe dovuto fermarsi alla fine di giugno per poi riprendere come ogni anno il 6 settembre, come si può evincere dall’ultimo listino pubblicitario della tv pubblica, aggiornato allo scorso 27 aprile. 

È stato quindi un blitz consumato negli ultimi giorni, e che nessuno nella redazione che lavora al programma si aspettava. Soprattutto dopo i buoni ascolti dell’ultimo mese, dove si sono toccati picchi del 7 per cento di share, ovvero 1 milione e 300 mila persone a seguire il programma, col risultato di superare più volte il diretto concorrente Di Martedì, il programma di Giovanni Floris su La7.

L’accusa di fare da megafono alla propaganda russa

Eppure tutto questo non è bastato. Certo, nelle ultime settimane dove come tutti i talk di attualità anche Cartabianca si è focalizzato sulla guerra in Ucraina, sono piovute critiche sullo spazio dato a rappresentanti russi e accuse al programma di essere una sorta di prolungamento della comunicazione del Cremlino.

L’hanno soprannominato Tele Putin (epiteto che riecheggia il Tele Kabul con cui veniva definito il tg della terza rete quando a dirigerlo c’era Sandro Curzi) anche per via della presenza ormai fissa del professore filorusso Alessandro Orsini.

Ma è davvero l’accademico della Luiss il problema? Difficile crederlo, visto che il professore spopola anche su altre tivù, in primis La7, e che l’accusa di fare da megafono alla propaganda di Mosca non riguarda certo solo il talk di Berlinguer.

I dubbi montano, tanto che all’interno della Rai e in alcuni giornali, su tutti Il Fatto quotidiano, comincia a farsi strada il sospetto che Orsini sia stato usato come casus belli da parte di chi, nemici interni e esterni all’azienda, e una parte del mondo politico, mal sopporti la presenza di Cartabianca nel palinsesto Rai.

Del resto Carlo Fuortes, che a luglio dello scorso anno Palazzo Chigi ha fortemente voluto al vertice dell’azienda, in questi mesi non si era mai lamentato apertamente con Berlinguer. 

Il precedente di Mauro Corona e il casus belli Orsini

Anche se certo non ha giocato a suo favore il fatto che la conduttrice si senta padrona del programma, e pensi di non dover rendere conto a nessuno, non solo all’amministratore delegato ma nemmeno al direttore di rete Franco Di Mare, con cui aveva già avuto un aspro scontro su uno degli ospiti fissi del programma, lo scrittore montanaro Mauro Corona.

Adesso è arrivato come un ciclone il caso Orsini, prima con la messa nel mirino del contratto (bloccato) che assoldava il professore come ospite fisso, poi per le sue opinioni abrasive su Mario Draghi e la posizione degli americani rispetto alla guerra. 

L’irritazione di Palazzo Chigi e i mal di pancia di Pd e Italia Viva

Il sospetto di cui sopra fa riferimento a una battaglia politica nel vecchio stile della prima repubblica. A combatterla sono stati i governisti Italia Viva e il Partito democratico, sempre più insofferenti verso un programma dove spesso viene dato spazio agli esponenti del Movimento 5 stelle. 

Ci stiamo avvicinando alle prossime elezioni amministrative del 12 giugno. E il centrosinistra ha bisogno di vincere o almeno di mantenere la leadership in diversi comuni. Secondo i fautori dell’intervento a gamba tesa della politica, che della Rai è il vero editore, Berlinguer era diventata scomoda e bisognava agire subito.

Così Fuortes nei giorni scorsi aveva tenuto a ribadire davanti alla Commissione di vigilanza che i talk «non sono la forma ideale per l’approfondimento giornalistico». E che insomma la Rai non può comportarsi come una tv commerciale. Ma le parole sono apparse strane per un’azienda che pesa sul nostro debito pubblico e che pesca soldi nelle tasche degli italiani. 

«L’idea di giornalisti, operatori, scienziati, intellettuali chiamati a improvvisare su qualsiasi tema non penso possa fare un buon servizio pubblico», ha detto l’ad annunciando “discontinuità” già dai prossimi palinsesti.

Il cambio di linea sui talk show e i precedenti di Giletti e Porro

Ci si chiede dunque se il neo acquisto Marco Damilano, chiamato per una striscia serale di 200 puntate a partire dal prossimo autunno, affronterà un solo tema, di cui è esperto, o anche lui si cimenterà in argomenti variegati come fanno i vituperati opinionisti?

Lo share dietro cui molti anchorman si trincerano, «non può essere l’unico criterio di valutazione di un programma», ha ribadito l’amministratore delegato. Un ribaltamento, come se la Rai, oltre che di canone, non vivesse di introiti pubblicitari la cui entità è modulata proprio sugli indici di ascolto. 

Intanto nei corridoi di viale Mazzini si evoca il ripetersi di una storia già vista in passato, ricordando come la concorrenza abbia più volte beneficiato delle “epurazioni” dei conduttori Rai. 

Massimo Giletti con l’Arena e Nicola Porro con Virus-Il contagio delle idee, ad esempio, sono diventati punti di riferimento rispettivamente a La7 e Rete4 dopo che Viale Mazzini aveva cancellato i loro programmi. La vicenda che ha per protagonista la combattiva Bianca ripeterà lo stesso copione?

Servizi segreti, "i 4 opinionisti tv a libro paga di Shoigu e Putin": il clamoroso report, ecco i nomi. Libero Quotidiano il 09 maggio 2022.

Allarme dei Servizi segreti sulla presenza di opinionisti russi nei talk show italiani. Il sospetto del Copasir, riporta La Repubblica, è che dietro di loro ci sia una "operazione di disinformazione organizzata e pensata a monte da uomini del governo russo". Per fare luce sulla questione, nei prossimi giorni saranno dunque sentiti il direttore dell'Aisi Mario Parente (l'11 maggio), l'amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes (il 12) e il presidente dell'Agcom Giacomo Lasorella (il 18). Di certo c'è che alcuni degli opinionisti stranieri chiamati nei salotti televisivi italiani sono a libro paga di Vladimir Putin. In primi c'è il caso di Nadana Fridirkhson, che è stata ospite a Cartabianca su Rai tre e a Otto e mezzo su La7, che lavora per la tv del ministero della Difesa russa, guidato da Sergei Shoigu. 

Almeno altre tre persone sono nel mirino dei Servizi. Il sospetto è che non si tratti di normali contraddittori in tv ma di vera e propria propaganda.  

Il Copasir vuole procedere per passi. Il primo è ascoltare il management della televisione pubblica. Perché se da una parte c'è il Cremlino che decide chi far parlare dei suoi opinionisti e cosa deve dire, dall'altra parte c'è anche chi li sceglie e li invita. La domanda è: "C'è qualcuno, magari in ambasciata, che offre i contatti? Gli autori dei programmi si muovono in autonomia o c'è una regia?". Del resto non è sfuggito ai Servizi che il primo maggio scorso sono state trasmesse contemporaneamente due interviste: quella al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov su Rete4 e quella al giornalista fedelissimo di Putin Vladimir Solovyev su La7. Entrambi sono voci ufficiali di Putin. Entrambi sotto sanzioni. 

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 9 Maggio 2022.

Prima Matteo Salvini (Lega), poi Daniela Santanché (FdI) e Pier Ferdinando Casini (Autonomie). Anche ieri è stata una giornata di solidarietà per la conduttrice Bianca Berlinguer: un coro quasi unanime a difesa del suo programma #CartaBianca, nel quale spicca l'assenza del Pd.

Per l'ex direttrice del Tg3, l'appuntamento è per giovedì prossimo, al settimo piano di viale Mazzini. Qui Berlinguer dovrebbe avere il colloquio decisivo sulle sorti del talk con l'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes.

Proprio nel giorno in cui lui sarà in audizione davanti al Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) a riferire, per l'appunto, sulla presenza in Rai di ospiti considerati megafoni della propaganda russa. 

Ufficialmente il problema su cui la conduttrice è stata chiamata a riflettere da Fuortes (ma anche dal direttore degli Approfondimenti, Mario Orfeo) è quello che il manager ha posto alla Vigilanza: l'inadeguatezza, ai fini dell'informazione, di un tipo di format in cui «giornalisti, scienziati, intellettuali sono chiamati a improvvisare su qualsiasi tema».

Ma andando al sodo, la questione riguarda più strettamente gli ospiti che si prestano alla propaganda filoputiniana, su cui Palazzo Chigi, nel colloquio avuto con Fuortes mercoledì scorso, avrebbe richiamato l'ad. 

Si tratta del professore Alessandro Orsini, in primis, e poi anche dei vari giornalisti russi, alcuni dei quali, come Nadana Fridrikhson, lavorano ufficialmente nelle strutture governative russe.

Presenze che, se permanessero nelle ultime sei puntate, metterebbero a rischio il futuro del programma che il 21 di giugno lascerà il posto a un format estivo condotto da Giorgio Zanchini. E questo benché Berlinguer si sia già rifiutata di assumere la conduzione di programmi alternativi su RaiTre o altrove.

In viale Mazzini non confermano l'ultimatum e professano stima nei confronti di Berlinguer. Ma invitano anche a osservare il nuovo corso della Rai. Che è già in onda: l'esempio citato è la trasmissione Dilemmi, guidata al lunedì, in seconda serata su RaiTre, dallo scrittore Gianrico Carofiglio.

Qui il confronto su un tema (diverso per ogni puntata) è circoscritto a due soli ospiti e le regole vengono dichiarate in partenza. Primo, non si attacca l'avversario su fatti personali. Secondo, non si manipolano le frasi dell'altro. 

Terzo, le affermazioni vanno dimostrate. La prima puntata è stata sul tema: è giusto mangiare gli animali? Duellanti: Giulia Innocenzi, giornalista e attivista vegana, e Oscar Farinetti, imprenditore di Eataly.

L'effetto (e il ritmo) è lontano anni luce dagli attuali talk. Il programma è stato contestato dal centrodestra in commissione di Vigilanza perché il conduttore è stato parlamentare del Pd.

E la politica anche ieri si è presa il suo spazio. «La Rai è al servizio del pubblico o al servizio di qualche agente e del Pd? Sono politicamente lontano da Berlinguer ma difendo il confronto, il dibattito libero e garbato, il pluralismo. Chiudere #CartaBianca puzzerebbe di censura e di favore ad altre reti e ad altri interessi, economici e politici», ha detto Salvini. E Santanché: «L'azienda è diventata terreno di scontro tra le varie anime del Pd, che puntano a misurare la rispettiva forza e presa sulla Rai.

Vittima di questo scontro tra "bande" del Pd è finita la trasmissione condotta da Berlinguer». «Vorrei continuare a dissentire con la trasmissione di Bianca Berlinguer. La censura non è mai una soluzione e la Rai negli anni è stata grande perché è la casa di tutti gli italiani e delle loro opinioni, anche di quelle da cui io discordo nettamente», ha aggiunto Casini. 

E solidarietà, questa volta unanime, è stata espressa al direttore del Tg2 , Gennaro Sangiuliano, per la stella a cinque punte trovata nell'ascensore della sede della redazione.

Lo strano putinismo degli antiputiniani mette nel mirino Cartabianca. Schiere di censori democratici fissano paletti al pluralismo. Fino a considerare possibile la chiusura di un programma del servizio pubblico. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 9 maggio 2022.

All’inizio sembrava solo idiozia pura. Quella che cancellava i corsi universitari su Dostoevskij, quella che espelleva dai tornei atleti indisponibili all’abiura del regime, quella che escludeva i gatti russi dalle competizioni feline internazionali. Ma col passare delle settimane l’idiozia si è rivelata una smania paradossalmente putianiana, portata avanti dagli anti putiniani più convinti, tendente a schiacciare ogni punto di vista dissonante non con la forza delle argomentazioni – che di certo non mancherebbero – ma con quella dell’imperio, del “taci, il nemico ti ascolta”.

Così, con l’elmetto in testa, schiere di censori democratici marciano per la campagna di Russia fissando paletti al pluralismo, stilando liste di giornalisti e intellettuali apostati, mettendo bocca sui palinsesti televisivi. Fino a considerare possibile (al momento non c’è nulla di ufficiale) la chiusura di un programma del servizio pubblico, Cartabianca, condotto da Bianca Berlinguer, finito nel mirino del politicamente corretto dal giorno dell’invasione russa in Ucraina. Troppi ospiti non graditi a chi gira in tasca con verità preconfezionate e inscalfibili: dal professore “non allineato” Alessandro Orsini, in realtà così supponente ed egocentrato dal servire meglio di chiunque altro la causa ucraina e atlantista, alla giornalista della tv russa Zvezda Nadana Fridrikhson, liquidata come «spia» senza alcuna prova.  

La magnificenza piccina. Così Orsini ha reso di nuovo grande (cioè orrenda) la televisione italiana. Guia Soncini su L'Inkiesta il 10 Maggio 2022.

In un secolo di budget risicati, non si può più puntare al sublime ma solo al raccapricciante. Ci rimane l’egomania del professore, che regala scene degne dei grandi classici, a cominciare dalla storia favolosa di una sua telefonata con la editor Rizzoli. Un’altra indagine di Guia Soncini.

Visto che coi discorsi teorici sulla tv che ha senso solo se giganteggia, cioè se è orrenda oppure favolosa (e farla favolosa è sempre più difficile: sono finiti i soldi), visto che con la teoria gli intellettuali che questo secolo si merita non capiscono, proviamo con una formula a prova di scemi: gli esempi.

Certo, potrei citare Carmelo Bene che, nella tv del secolo scorso, citava Artaud, e parlava del teatro di testo come «un teatro di invertiti, di droghieri, di imbecilli, di finocchi, in una parola: di occidentali»: potrei chiedervi se davvero vi serve altro per capire Orsini da Giletti, ma non so se ho già detto quanta fiducia ho nella vostra capacità di capire le allegorie e di riconoscere una domanda retorica di fronte alla quale tacere vergognandovi. Quindi, gli esempi concreti.

Elenco non esaustivo e non meditato – buttato giù senza consultare testi né concedersi ripensamenti – dei momenti televisivi che hanno formato i miei coetanei, cresciuti in quell’età dell’oro della tv in cui essa era già a colori e fatta di più canali, ma non era ancora ridotta a gif, meme, on demand e altre antitelevisività. In ordine casuale, né cronologico né di prevalenza nell’immaginario.

La men-che-diciassettenne Ambra Angiolini che dice che Satana sta con Occhetto (dev’essere stato allora che Enrico Letta ha capito che bisognava allargare il suffragio ai sedicenni). Bellini e Cocciolone. Santoro che dice a Celentano: questo è il tuo microfono, io voglio il mio microfono. Alfredo Rampi nel pozzo. Sandra Milo che urla «Ciro, oddio chi» e fugge dallo studio lasciando lì attoniti Alessandro Gassman e Francesca d’Aloja. Gianni Morandi in mutande per protestare contro la dittatura dell’auditel. Walter Nudo che promette «a Natale tutti insieme». Rutelli che non sarà mai più sé ma sempre e solo Alberto Sordi, grazie a Corrado Guzzanti. Anna Falchi che dice a Pippo Baudo «sotto la mia gonna sta succedendo di tutto». Alba Parietti che mugola Etienne. Paolo Frajese che prende a calci un rompicoglioni. Il plastico della villetta di Cogne. La Carrà con madre Teresa di Calcutta. La Carrà con Benigni che la insegue. La Carrà coi fagioli. Celentano che scrive «La caccia è contro l’amore» senza accentare la “e”. Frizzi che comincia con un discorso imbarazzato una puntata di varietà cui toccava andare in onda tre ore dopo l’attentato in cui era morto Falcone. I ripetenti che infine imparano «La nebbia agli irti colli» da Fiorello. Proietti che imita Gassman che legge Dante davanti a Gassman con un figlio in braccio. Angela Finocchiaro cui chiedono come faccia una donna come lei a far tutto, e lei che risponde «Ah, io sniffo». L’uomo in ammollo, due fustini al posto di uno, che peso la spesa con queste scarpe poi. Emilio Fede con le riprese notturne delle bombe su Baghdad alle spalle, cioè un indecifrabile schermo verde. Eccetera.

Cosa c’entra tutto questo con Orsini, diranno i miei piccoli lettori. E io potrei dire «Lo sapreste se aveste letto i miei libri», che è una frase molto orsiniana. L’altro giorno mi hanno girato uno status di Facebook scritto quattro anni fa da Orsini, giacché quando uno diventa famoso si dà la caccia all’archivio delle stronzate rinfacciabili. Il penzierino del caso parlava di Gramsci, e terminava con queste due strazianti frasi: «Non leggere soltanto i miei post. Leggi anche un mio libro».

Mi è tornato in mente domenica sera, mentre Orsini diceva a Giletti, vatti a ricordare a proposito di cosa, «Lo spiego anche nel mio libro, che sarà pubblicato tra qualche settimana, sull’Ucraina». Poiché la corrispondenza tra cuoricinabilità dell’autore e share televisivo esiste più spesso di quella tra la familiarità del suo faccione e le vendite d’un eventuale libro (specie in un’epoca in cui qualunque influencer o ospite televisivo pubblica libri, e quasi nessuno compra libri), nei momenti di malumore io vado a guardare le vendite dell’ultimo Orsini. Certo, è del 2019 e non della settimana scorsa. Certo, parla di politiche migratorie e non di guerra. Tuttavia, com’è possibile che un libro del più discusso ospite televisivo dell’anno abbia, in tutto il 2022, venduto solo 521 copie (su un totale di 1180 in tre anni)?

Ma non divaghiamo. A un certo punto della sua favolosa conversazione con Giletti, dopo aver riassunto la propria montecristica vita in «ho denunciato alla magistratura tutti i baroni più corrotti della mia disciplina» e quindi mi hanno distrutto la carriera, «sono stato bocciato da professori senza uno straccio di internazionalizzazione», passa a esporre il caso Claudio Gatti, che io e il suo attrezzatissimo pubblico («L’unico pubblico che mi interessa è quello dei diciottenni», aveva detto poco prima) ignoravamo, ma che ascoltiamo con gli occhioni sgranati, mentre Orsini continua a ripetere che ha anche gli audio WhatsApp, tipo fidanzata cornuta.

«La mia editor Rizzoli ha fatto anche un libro tre anni fa con questo Gatti. Questo Gatti le ha telefonato, senza dirle che stava investigando su di me, e le ha detto che io a lui ero antipaticissimo, che detesta il mio pacifismo, le ha fatto anche domande sulla mia vita privata. Questa editor gli ha detto guarda, Alessandro Orsini è un ragazzo onestissimo, che ha dedicato tutta la sua vita agli studi, e quindi non mi piace questo tuo atteggiamento».

Tutto questo dovrebbe servire a spiegarci perché Gatti ha poi intervistato per La Stampa professori ostili a Orsini, ma a quel punto cosa volete ce ne importi degli articoli su Orsini, quando dalla sua bionda voce abbiamo appreso: che esistono editor così coglioni da riferire ad autori cosa dicono di loro altri autori (tre quarti del lavoro dell’editor consistono nello smistare cattiverie dette da autori su altri autori); che esistono autori così coglioni da credere a editor che raccontano di averli difesi.

Credo a tutto, quando si tratta di editoria, ma non alla non professionalità nel pettegolezzo. Quando ieri pomeriggio chiamo «questa editor», ella è inconsapevole della performance televisiva con cui venti ore prima Orsini ha deliziato il pubblico di La7, nonché del fatto che Gatti pubblichi con Rizzoli (con cui, da sommaria ricerca su Amazon, Gatti non parrebbe in effetti aver fatto libri in questo secolo: ne esistono un paio degli anni Novanta). Dice che lei Orsini non lo sente praticamente mai, hanno avuto una cordiale conversazione un mese fa quando lui ha proposto un libro sull’Ucraina che alla fine Rizzoli ha deciso di non pubblicare, con la solita vecchia scusa che a farlo uscire così in fretta non si fa in tempo con le prenotazioni.

(Il libro sull’Ucraina di Orsini uscirà edito da PaperFirst, che ha pubblicato i più recenti libri di Gatti: ma che coincidenza pazzeschissima).

Comunque, in quella che è forse la più bella mezz’ora di televisione dai tempi di Ambra e Satana, l’invettiva di Orsini poi cresceva, lamentando che Gatti non avesse riportato che lui aveva avuto «il coraggio di denunciare la corruzione dell’università», la quale aveva in cambio «distrutto la mia carriera, mi hanno bocciato mille volte ingiustamente nei concorsi, io vado fiero di essere stato bocciato nei concorsi». Orsini, vieni qui, abbracciamoci, io pure alla patente, quattro volte, e ti ho detto di quando a storia del cinema risposi «I russi se li guarda lei»?

«Dottore mi scusi se mi accaloro, ma lei non può capire che inferno sia stata la mia vita accademica». Orsini è Ugo Tognazzi. «Questa storia la conoscono tutti in Italia». Orsini è Sergio Castellitto. «In epoca covid non possiamo chiedere aiuto per non far entrare estranei in casa». Orsini non ha la babysitter: è le mamme dei gruppi Facebook, è Angelina Jolie, è Levante (perché non c’è una foto di Orsini che allatta, dove sono i social media manager).

«Vede, il mio ragionamento è difficile da capire». Orsini è Wittgenstein, è quello al quale le canzonette le recensisce Roland Barthes, è quello che ti lascia non dicendoti che sei troppo per lui ma che lui è troppo per te.

«Sono stato un grande ammiratore della Raggi, stimo moltissimo la Carfagna, la Berlinguer è un pezzo di storia del giornalismo italiano, non merita questo trattamento». Orsini è un post per la festa della mamma; anche se, quando Giletti gli chiede se ’sto figlio senza balia se lo sciroppi lui anche la notte, esita come quando all’esame non ti chiedono l’argomento a piacere: «Forse, ogni tanto», risponde con l’aria di chi non sa cosa sia la notte, di chi si accinga a dire quant’è fiero, a quell’esame da papà dell’anno, d’esser stato bocciato. Orsini è la televisione, in tutta la sua magnificenza piccina, quella d’un secolo di budget poco ricchi.

Massimo Giletti, schiaffo a Pd e compagni: "Facevano la fila per cenare con Putin e ora criticano noi". Libero Quotidiano l' 08 maggio 2022

Massimo Giletti fa di testa sua. In vista della puntata di Non è l'Arena in onda su La7 domenica 8 maggio, il conduttore svela i suoi ospiti. Intervenuto ai microfoni di Rtl 102.5, il giornalista confessa: "Per la gioia di chi vuole fare le liste di prescrizione dei giornalisti e mettere in testa il Copasir a qualsiasi tipo di televisione, ci saranno il professor Cacciari e Orsini. Sarà interessante ascoltare cosa avranno da dire. E ci sarà anche un giornalista russo, Vladimir Solovyov. Ascolteremo anche la sua voce se si può ancora fare". 

E alla domanda se per caso se la va a cercare, Giletti non è meno schietto: "Credo che nel momento in cui nel nostro Parlamento c'è la maggioranza di persone che facevano la fila per andare a mangiare con Putin e lo ritenevano un punto di riferimento, adesso veniamo accusati noi? Ma di che cosa?".

Insomma, Giletti sfida la censura che si è abbattuta sulla Rai. O meglio, su CartaBianca. L'ospitata di Alessandro Orsini, ritenuto da viale Mazzini filo-Putin, avrebbe scatenato l'ira dei vertici, che ora rischia di mandare a casa Bianca Berlinguer. Alla faccia della democrazia, verrebbe da dire non solo a Giletti. 

Giada Oricchio per iltempo.it il 9 maggio 2022.

“È vero che è una spia?” e il professor Alessandro Orsini replica: “Io assediato”. Nella puntata di Non è l’Arena, il programma di LA7, domenica 8 maggio, Massimo Giletti ha intervistato il sociologo dell’Università Luiss di Roma finito sotto accusa per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina e, al termine del faccia a faccia, gli ha chiesto: “Una persona importante mi ha detto che alla Luiss l’ha messa Massolo dei Servizi segreti, è vero?”.

Orsini, accusato di essere filo-Putin, la prende alla larga: “Massolo è uno degli uomini migliori della Repubblica italiana, ma se davvero mi ci avesse messo lui all’Osservatorio, non sarei stato bocciato mille volte nei concorsi come mi è successo perché sarei stato protetto.

Invece ho fatto una gavetta pazzesca incluso il dottorato di ricerca senza borsa e ho fatto il cameriere per mantenermi agli studi. Se mi avessero messo i Servizi segreti avrei messo i manifesti perché sarebbe stato un onore come italiano”.

Giletti lo incalza e il professore puntualizza di essere arrivato alla Luiss nel 2001: “Sono stato l’ultima ruota del carro fino al 2009 quando grazie alla pubblicazione di alcuni miei importanti studi scientifici la Luiss mi diede una cattedra a contratto. Ero un super precario con contratto a 12 mesi che poteva non essere rinnovato. Nel 2016 sono diventato professore associato sempre per merito delle mie pubblicazioni nei board più prestigiosi d'America”.

Dunque, come spiega le indiscrezioni sulla sua persona? Orsini si sente accerchiato: “Intorno a me c’è un delirio collettivo, un giorno sono una spia russa, un altro una spia italiana. Ai miei detrattori dico di farmi la gentilezza di mettersi d’accordo, è semplicemente un impazzimento collettivo dove non si capisce più da che parte colpirmi”.

I nuovi mostri in tv. Quando Paolo Mieli recensì favorevolmente l’antigramsciano Alessandro Orsini ora divenuto “professore mitomane”. Michele Prospero su Il Riformista l'8 Maggio 2022. 

Adesso è cominciata la caccia grossa al cinghiale televisivo Alessandro Orsini. Sulla Stampa si riproducono i reiterati giudizi negativi dei commissari dell’abilitazione scientifica nazionale per concludere che il suo curriculum non è proprio adatto per la partecipazione al talk show. Per vendere chiacchiere nel salotto tv si dovrebbe dunque superare una prova selettiva per titoli e pubblicazioni nel settore disciplinare della sociologia politica. Strano che tutte le rivisitazioni della biografia del “professore mitomane”, come lo chiamano adesso al Corriere, abbiano taciuto della straordinaria promozione che ottenne a mezzo stampa (la loro) qualche tempo fa.

L’antigramsciano e giustizialista Roberto Saviano esaltò su Repubblica la fatica letteraria del sociologo che scandalizzò non poco, per le sue tesi teoricamente balbuzienti e per una dimestichezza con la filologia quanto meno creativa, ogni serio conoscitore del pensatore sardo. Persino Paolo Mieli recensì sul Corriere il pamphlet antigramsciano e sulle pagine dell’inserto settimanale del quotidiano venne concesso ampio spazio al saggista per un irrituale tentativo di difendersi dalle contestazioni critiche che naturalmente aveva incontrato un’opera così controversa (Gramsci “liberticida”, “un orrore”, maestro di una pedagogia dell’intolleranza e padre della violenza politica). Il senso della sua opera su Gramsci verrà così riassunto dallo stesso Orsini: “Per essere liberi, bisogna uccidere Gramsci. Il mio libro è un tentativo di strappare Gramsci dalle nostre menti”.

Mieli recensiva favorevolmente il libro di Orsini mettendolo insieme ad altri testi che gettavano qualche ombra su momenti ambigui della lunga storia del Pci. Rimarcando lo scarso rilievo dato da “Rinascita” alla morte di Ruggero Grieco avvenuta nel 1955, Mieli non rinunciava alla forzatura interpretativa: “La rivista annuncia che a Grieco sarà dedicato «ampio spazio nei prossimi numeri». Il che però non accade. Sarà Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, a ripescare Grieco scrivendo, nel 1966, la prefazione a una raccolta di suoi scritti”. Non andò proprio così, ovviamente. Dopo cinque numeri, proprio sul mensile “Rinascita”, comparve un grande saggio di Mauro Scoccimarro, lungo ben dieci pagine. Si sa che quando c’è da infliggere qualche graffio sul corpo del vecchio nemico tutto fa brodo e la presunta notizia della dimenticanza serve per sorreggere, oltre le emarginazioni reali di un dirigente rimarcate più di altri da Gerardo Chiaromonte, una storia romanzata di dispetti, odi, risentimenti.

Quando si trattava di incensare il critico della “orrenda mente di Gramsci”, come scriveva Orsini (che si vanterà: “io in Italia, sono stato il più grande carnefice di Gramsci”), e di rintracciare nel Pci la matrice culturale del terrorismo rosso, le cautele critiche dei giornaloni scomparivano. E anche le rotative della Rizzoli si aprivano generosamente al sociologo che urlava: “io voglio uccidere Gramsci nella mia mente”. Come si poteva nella Rizzoli e nei grandi giornali, oggi così indignati per le uscite provocatorie del docente della Luiss, non guardare con trasporto generoso al sociologo che dopo il volumetto dipingeva Gramsci come “la grande vergogna del genere umano”, uno “storpio cervello liberticida”, un “demente liberticida”, una “nauseante immondizia”?

L’Orsini su cui oggi si esercita la strategia della denigrazione del mostro televisivo, che parla e non possiede le referenze specialistiche per esibirsi nel circolo infinito della chiacchiera che produce nuova chiacchiera, è però un semplice virus bizzarro uscito dai laboratori editoriali. Con un antigramscismo dozzinale l’hanno inventato dal nulla e dovrebbero perciò sentirsi condannati a tenerselo stretto come carne della loro stessa carne anche quando ricama su Hitler non responsabile della guerra e rimpiange i bambini felici sotto il totalitarismo nero. Per ostacolare un discorso critico sulla guerra per procura non avrebbero potuto inventare una maschera della commedia migliore. Michele Prospero

È la propaganda putiniana, bellezza. L’aggressione russa all’Ucraina e la resa del giornalismo italiano. Carmelo Palma su Linkiesta il 9 Maggio 2022.

Il modo in cui molti media hanno manipolato le dichiarazioni di Zelensky e Stoltenberg sulla Crimea mostra come l’invasione di Mosca sia ridotta a uno show tragico. Il mito della complessità è diventato un espediente per non guardare il fondo dell’abisso di ciò che sta succedendo.

Era prevedibile che la guerra della Russia all’Ucraina e all’Occidente avrebbe rapidamente sostituito il Covid nel grande laboratorio dell’inquinamento informativo, dell’alienazione cognitiva e del dirottamento del dibattito pubblico in una direzione cospiratoria. 

Non stupisce quindi che le piattaforme mediatiche e digitali, che per due anni hanno presentato la pandemia come un esperimento politico pianificato ai fini del grande reset planetario e i vaccini come strumento di biopolizia, oggi siano le più scatenate a riscrivere secondo la vulgata putiniana pure la vicenda bellica, nel rovesciamento grottescamente accusatorio della favola di Fedro, dando quindi ragione al lupus superior – la Russia – sugli oltraggi subiti dall’agnus inferior – l’Ucraina.

Ma a fare male al principio e al mestiere della libera stampa non sono solo i piazzisti delle verità alternative e i copia-incollatori delle veline di Mosca, ma anche i gerenti del circo Barnum di giornali e (soprattutto) tv, ridotti a palcoscenico dell’informazione spettacolo, della lotta nel fango dei nani e delle ballerine, dei personaggismi e dei padreternismi, delle «parole importanti» e dei «dubbi legittimi», di «quello che c’è dietro» e di «quello che non ci dicono», del «non si permetta» e del «vergognatevi», cioè a un grande mercato di bias trasformati in merce, in una pastura ghiottissima per spettatori che non vedono l’ora di sapere quello che hanno sempre saputo e di capire quello che hanno sempre capito. 

Così di questa guerra si continua a parlare su giornali e tv come si è parlato per due anni di Covid, tra negazionismi e scandalismi giustapposti e orchestrati. Insomma si parla di una rappresentazione propagandistica e contro-propagandistica della guerra, che non ha praticamente relazioni con la sua realtà, con quello che ci aspetta, con quello che i cittadini hanno non solo il diritto di conoscere, ma anche il dovere di comprendere della Russia di Putin e della sua vendetta incubata per due decenni e esplosa esattamente come e dove era previsto che esplodesse, mentre la gran parte della politica italiana, che ha passato due decenni a negare o a relativizzare la sfida putiniana, ancora pochi giorni prima dell’aggressione diceva agli americani – agli americani! – di calmarsi e di non gettare benzina sul fuoco.

Ecco, l’informazione italiana – non gli epigoni di Giulietto Chiesa, proprio quelli rispettabili, quelli scientifici, quelli studiati, che ostentano il disallineamento dalla contesa trovando troppo volgare simpatizzare per un popolo aggredito – continua a discutere di questo, cioè di altro rispetto alla guerra: della benzina sul fuoco americana – forse che sì, forse che no e domani si ricomincia. E poi – lieve variazione sul tema – si passa a discutere di cosa vuole davvero l’America, cosa vuole davvero l’Europa, cosa vuole davvero l’Ucraina – cosa vuole l’Ucraina! – e si finisce col rappresentare questa guerra come un effetto collaterale dell’indecisione o della protervia occidentale e Putin stesso come un personaggio di cui, in fondo in fondo, saremmo noi gli autori: non i suoi filosofi di corte, gli ideologici dell’Eurasia, i dinamitardi dell’escatologia nichilista e la mafia dei siloviki.  

Anche il mito della complessità è diventato un espediente elusivo e digressivo per non guardare il fondo dell’abisso di questa guerra, con le sue Bucha conosciute e sconosciute, con le sue domande fondamentali sulla responsabilità politica della vita e della morte, sul rapporto tra la violenza e l’obbedienza e tra la libertà e il potere. Senza il senso della tragedia, non si può avere, né trasmettere il senso della realtà: della nostra e della loro, di quel che sta davvero accadendo in Ucraina e di quel che sta accadendo in Italia sul piano economico e sociale e che continuerebbe ugualmente ad accadere anche se l’Italia diventasse, come vorrebbero Conte e Salvini, una seconda Ungheria. 

Le tv, i giornali e, a rimorchio, le camere dell’eco dei social trasformano ogni giorno la tragedia della guerra nello spettacolo di una pace immaginaria, che gli italiani finiscono per considerare a portata di mano, ma pregiudicata dalla pervicace e irragionevole indisponibilità ucraina al compromesso. Un esempio paradigmatico di questa informazione che mastica, rumina e rimastica la verità fino a trasformarla in un bolo di menzogne è quello rappresentato negli ultimi giorni dalla questione del presunto conflitto a distanza tra Zelensky e Stoltenberg. 

In realtà il Presidente ucraino ha detto che per fermare la guerra e iniziare il negoziato è necessario che la Russia torni sulle posizioni precedenti il 24 febbraio (data di inizio della nuova aggressione) e Stoltenberg ha affermato che la Nato non riconoscerà mai l’annessione illegale della Crimea, dichiarata unilateralmente da Mosca e che per quanto riguarda una possibile soluzione di pace si rimetterà comunque alla decisione del governo e del popolo ucraino. 

Il racconto è stato capovolto: agli italiani è stato raccontato attraverso ogni canale informativo che Zelensky avrebbe offerto alla Russia la Crimea e le porzioni di Donbass occupate prima del 24 febbraio e che la Nato avrebbe bloccato la sua iniziativa di pace dichiarandosi indisponibile ad accettare le concessioni di Kiev. Morale: sono la Nato e gli Usa a non volere la pace e a costringere Zelensky alla guerra.

Con una informazione così non ci si può stupire che gli italiani siano inclini a pensare che per propiziare la pace sia meglio disarmare gli aggrediti e i politici populisti si ingegnino a rafforzare questa inclinazione e a salutarla come una prova di saggezza, non come una contraddizione o un’ipocrisia. La cattiva coscienza giornalistica finisce così per rispecchiarsi nella cattiva coscienza politica di chi smercia e conforta l’illusione che le cose (per noi) si possano aggiustare chiamandosi fuori dal conflitto, che si possa fermare il mondo chiedendo di scenderne e autoproclamando la pace nazionale di una guerra internazionale. 

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 28 aprile 2022.

Veleni e sospetti rischiano di far naufragare la risoluzione della Commissione di vigilanza Rai che dovrebbe regolare la presenza di commentatori e opinionisti nei talk show della tv pubblica.

Una risoluzione ribattezzata «Orsini», dal nome del commentatore, il professor Alessandro Orsini, che respinge la definizione di «filoputiniano» ma che di fatto, in ogni programma di cui è ospite, accetta di fare il controcanto alle posizioni filoucraine. Ed è proprio su di lui che si allungano i sospetti di quanti, in Vigilanza, avevano sposato il testo del presidente Alberto Barachini (FI) volto a imporre la rotazione dei commentatori, preferendo quelli senza compenso.

Il retroscena - raccolto al termine della riunione di martedì sera della Vigilanza conclusasi con un nulla di fatto, ma negato dal leader M5S - racconta che la presenza di due soli membri grillini su nove sia stata determinata da «fattori esogeni». Primo: Giuseppe Conte, leader del M5S, avrebbe incontrato Orsini, apprezzandone il «pensiero laterale» sul conflitto in corso.

Secondo: la candidatura del professore sarebbe qualcosa di più di un'idea.

A queste indiscrezioni che spiegherebbero perché martedì i grillini abbiano espresso in Vigilanza, attraverso Alberto Airola, contrarietà al testo, di cui vorrebbero il ritiro, ritenendolo un'ingerenza nell'attività interna della tv pubblica, si aggiunge la versione di Michele Anzaldi. Il segretario della Commissione di vigilanza (Italia viva), come al solito non la manda a dire e, nel rilevare la presenza nel talk Rai CartaBianca di «ben tre opinionisti del Fatto quotidiano (Scanzi, Orsini, Di Cesare, ndr )», attacca: «Se il M5S vuole difendere il cachet di Scanzi e dei collaboratori del Fatto , è libero di farlo, ma la Vigilanza ha il dovere di andare avanti. Ci sono i numeri per approvare la risoluzione».

Ma è davvero così? I membri sono 40: ai nove contrari del M5S si aggiungono i due di Fratelli d'Italia, più per spirito di opposizione che per convinzione. Dei 29 restanti, la risoluzione può fare affidamento di certo sugli otto leghisti, gli otto tra Forza Italia e i centristi, i cinque del Pd (a patto che si tenga conto dei loro emendamenti), i due di Italia viva e i due di Leu. Totale: 25 voti certi.

Dunque i numeri ci sarebbero, ma il presidente Barachini non è convinto di proseguire a colpi di maggioranza su un tema così delicato: «Prendo tempo - dice -: valuterò se tentare il voto, riformulare la risoluzione o ritirarla. Ma in quest' ultimo caso sarò costretto a rilevare come il M5S abbia fatto retromarcia su un provvedimento che aveva condiviso».

Intanto la polemica sugli ospiti della tv pubblica cresce: nel mirino è finita un'altra ospite di CartaBianca, Nadana Fridrikhson, giornalista della tv russa filoputiniana Zvedza , rispetto alla quale Andrea Romano (Pd) ha auspicato un'audizione del Copasir per valutare se sia lecito invitare organi della propaganda putiniana in Rai. Mercoledì prossimo in Vigilanza sarà audito l'ad, Carlo Fuortes, il primo ad annunciare l'adozione di un regolamento per gli ospiti dei talk. Chissà se ci metterà mano anche se dovesse mancare l'indirizzo della commissione 

Ucraina, Copasir attiva indagine conoscitiva sulle forme di disinformazione e ingerenza dall'estero. La Repubblica il 19 Maggio 2022. Lo riferisce il presidente Urso. "Il Comitato procederà con ulteriori audizioni e missione a Bruxelles".

Il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, nella seduta di oggi ha deciso di attivare una "indagine conoscitiva sulle forme di disinformazione e di ingerenza straniere, anche con riferimento alle minacce ibride e di natura cibernetica". A renderlo noto è il presidente del Copasir, il senatore Adolfo Urso.

L'indagine fa seguito all'approfondimento già intrapreso dal Comitato sulle tematiche in questione, anche attraverso lo svolgimento delle audizioni del direttore dell'Aise, Giovanni Caravelli, del direttore dell'Aisi, Mario Parente, dell'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes (ascoltato dopo l'intervista del ministro degli Affari esteri russo Sergej Lavrov su Rete4 e le presenze di giornalisti di Mosca in alcuni talk-show), e del presidente dell'Agcom, Giacomo Lasorella. 

"Nell'ambito dell'indagine conoscitiva - spiega Urso - il Comitato procederà con ulteriori audizioni tra le quali sono già in programma quella del direttore generale del Dis, ambasciatrice Elisabetta Belloni, del direttore generale dell'Agenzia per la cybersicurezza nazionale, professor Roberto Baldoni, del direttore e del sottosegretario di Stato con delega per l'informazione e l'editoria, senatore Giuseppe Moles, del direttore del Servizio polizia postale e delle comunicazioni, dottor Ivano Gabrielli. Ulteriori approfondimenti saranno svolti attraverso una missione che il Copasir svolgerà a Bruxelles per un confronto con gli organismi e i gruppi di lavoro che in ambito comunitario sono impegnati sulle medesime tematiche".

L'indagine conoscitiva si affianca a quelle già in corso: sul dominio aerospaziale quale nuova frontiera della competizione geopolitica; sulle prospettive di sviluppo della difesa comune europea e della cooperazione tra i Servizi di intelligence; sulle modalità di attuazione della desecretazione degli atti per una migliore conservazione e accessibilità dei documenti.

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 28 aprile 2022.

«Ma sono giornalisti russi o agenti di Mosca?». Se lo chiede la Commissione di Vigilanza Rai, pronta a chiedere - sarebbe la prima volta - un'audizione congiunta con il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. L'obiettivo è capire, tramite le informazioni in possesso della nostra Intelligence, se gli ospiti della tv di Stato che ripropongono in loop la propaganda del Cremlino si muovano effettivamente come rappresentanti della stampa estera o piuttosto come funzionari del governo di Putin.

La richiesta di audizione congiunta è stata avanzata martedì sera da Andrea Romano, deputato Pd e membro della Vigilanza. Ma ha il sostegno di altri commissari, tanto che il presidente dell'organismo, il forzista Alberto Barachini, ha deciso di sottoporre il tema al numero uno del Copasir, Adolfo Urso di FdI. Secondo fonti della Vigilanza, se il Copasir desse il via libera, la seduta potrebbe essere calendarizzata già la prossima settimana, forse in coincidenza con l'audizione dell'amministratore delegato Rai Carlo Fuortes, in programma il 4 maggio.

«Vogliamo capire se si tratta di giornalisti russi che operano liberamente o addirittura di funzionari del governo russo che diffondono la propaganda del Cremlino», spiega Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva in Vigilanza. Del resto l'altro ieri a CartaBianca, su Rai 3, è stata ospitata, in collegamento da Mosca, Nadana Fridrikhson, giornalista di "Zvezda", emittente controllata direttamente dal Ministero della Difesa russo.

Sul terzo canale, Fridrikhson ha sostenuto concetti così: «L'operazione militare speciale russa ha il compito di terminare la guerra iniziata dal regime di Kiev sostenuto dagli Stati Uniti». Secondo Anzaldi, «alla luce della pericolosa deriva presa dall'informazione del servizio pubblico, sarebbe davvero opportuno che i presidenti delle due commissioni, Barachini e Urso, quanto meno si parlassero e valutassero insieme la situazione».

Se non si potesse procedere a un'audizione congiunta, per le ragioni di riservatezza che regolano le sedute del Copasir, aggiunge Anzaldi, «serve comunque una forma di lavoro comune tra Vigilanza e il Comitato parlamentare sulla sicurezza della Repubblica, perché siamo nel pieno di una guerra e in guerra l'informazione diventa ancora più a rischio di propaganda militare».

Tesi condivisa dal dem Romano: «Sarebbe estremamente importante che la Vigilanza audisse insieme al Copasir l'ad Fuortes». Per il parlamentare del Pd, la seduta congiunta «avrebbe l'obiettivo di coinvolgere tutto il Parlamento in un passaggio delicatissimo nella vita del servizio pubblico radiotelevisivo, chiamato a esercitare il massimo equilibrio». Senza accendere le telecamere per i propagandisti a libro paga del Cremlino.

La richiesta a Urso sarà formalizzata in queste ore, proprio mentre in Vigilanza si litiga sui gettoni per le ospitate nei talk, dopo il caso di Alessandro Orsini, a cui CartaBianca, dopo le polemiche, ha azzerato il contratto da 2mila euro a puntata. Barachini, con l'appoggio di quasi tutti i partiti, ha proposto un regolamento che chiede alle trasmissioni di evitare l'effetto pollaio, di invitare solo esperti qualificati e soprattutto di privilegiare le ospitate gratuite.

Ma il progetto si è arenato: il voto sulla risoluzione era in programma l'altro ieri, ma è stato rinviato a data da destinarsi. Il motivo? Si è messo di traverso il M5S, passato dall'offensiva contro gli «stipendi stellari» dei conduttori Rai alla difesa strenua dei cachet. «Abolendo i compensi per gli ospiti si fa un favore a Mediaset e alle reti private », è la tesi dei grillini. Quindi nessuno tocchi i gettoni.

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 29 aprile 2022.

«Non sono una spia, sono una giornalista», dice Nadana Fridrikhson, cronista della tv russa Zvezda. Negli ultimi giorni è stata ospite di varie trasmissioni italiane, suscitando le ire di alcuni parlamentari, che l'accusano di essere al servizio della propaganda del Cremlino. «È una funzionaria del ministero della Difesa russo», dice Andrea Romano (Pd). Lui e Michele Anzaldi (Iv) vorrebbero sollevare il caso in commissione di Vigilanza Rai e al Copasir, per capire a che titolo parli Fridrikhson quando interviene nei programmi del servizio pubblico. 

Lei è una spia russa?

«È una stupidaggine, io sono una giornalista».

Alcuni parlamentari vorrebbero portare il suo caso in Vigilanza Rai e al Copasir.

«Ora i deputati controllano se sono una spia? Quello italiano è spionaggio: farebbero lo stesso con un giornalista americano o ucraino? Non credo. Questo è un atteggiamento parziale nei confronti della Russia e nei miei confronti come giornalista russa. Cos' è? Non è un esempio di censura?». 

Dicono che le sue opinioni sono «criminali».

«Lo fanno solo perché sono una giornalista russa e sto esprimendo il mio punto di vista. Consiglio ai vostri deputati di lasciare i loro uffici accoglienti, andare nel Donbass e parlare con le persone lì. Poi si confrontino pure in commissione, ma almeno vedranno cosa sta realmente accadendo. E non si impegneranno più in queste sciocchezze».

L'accusano di negare l'invasione russa.

«Ignorano la realtà e i fatti. La guerra è iniziata nel 2014, quando è iniziato il regime di Kiev. Sfortunatamente, Kiev non ha rispettato gli accordi di Minsk e l'Ue non ha influenzato Poroshenko e Zelensky. Il bombardamento di civili nel Donbass è continuato. La Russia ha riconosciuto l'indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Lugansk. Questa è un'operazione militare speciale, perché la Russia sta aiutando due repubbliche». 

Non sta ripetendo la propaganda di Mosca?

«Se la Russia avesse iniziato una guerra, avremmo visto un quadro diverso. Ma gli Stati Uniti e i Paesi della Nato continuano con le forniture militari a Kiev, comprese le armi offensive. Per che cosa? Gli Usa beneficiano di un conflitto militare in Europa, ma perché i Paesi europei ne hanno bisogno? E l'Italia?» 

In Italia chiamiamo «guerra» quella che lei definisce «operazione militare speciale».

«La Russia ha dichiarato che l'obiettivo è controllare le regioni di Donetsk e Lugansk». 

E l'assedio di Kiev? Gli attacchi sul resto dell'Ucraina?

«Stiamo aiutando le repubbliche di Donetsk e Lugansk a riprendere il controllo sulle regioni». 

Qui in Italia è libera di parlare, a Mosca è lo stesso?

«Ho partecipato a vari programmi italiani. Sono stato etichettata ovunque. Per voi una giornalista russa è uguale alla propaganda e mente. Questo è un atteggiamento di parte. Le mie parole sono state distorte, non sempre mi permettevano di rispondere alle bugie sulla Russia. Non vi sto rimproverando, ma non ripetete il mantra sulla libertà di parola. Anche la vostra è propaganda». 

In Russia è possibile esprimere opinioni diverse da quelle di Putin?

«Sì, ci sono canali tv in Russia dove le persone esprimono opinioni diverse». 

Putin minaccia di usare l'atomica, i russi non temono una Terza guerra mondiale?

«La Russia non userà armi nucleari. O almeno non sarà la prima a farlo. Su questo Putin è stato chiaro, più volte». 

Non le suscitano effetto le immagini di Mariupol distrutta?

«A Mariupol ho visto scene pesanti. Cadaveri nei cortili delle case, non tutti i morti sepolti. Ho parlato con i residenti, mi hanno detto cose terribili. Hanno raccontato come le forze armate ucraine abbiano utilizzato gli edifici residenziali, come Azov abbia sparato ai civili. In che modo i servizi di sicurezza ucraini abbiano perseguitato persone per le loro opinioni dopo il 2014. Come i dipendenti dei servizi di sicurezza ucraini abbiano interrogato persone "sleali" verso il regime di Kiev. Se qualcuno ha dei dubbi, vada a Mariupol a parlare con le persone». 

Gli ucraini, però, non hanno accolto i russi come liberatori.

«Dici che i residenti di Mariupol odiano la Russia? Allora chiediti perché i rifugiati vengono in Russia, io ho passato il confine con loro».

Cosa sanno, cosa pensano i russi degli orrori di Bucha?

«C'è stata una terribile tragedia a Bucha. La Russia sa chi ha commesso quei crimini e Putin ha detto a Guterres che i tentativi di incolpare la Russia sono cinici. Quando Claudio Locatelli in tv cita un articolo della Cnn per dire che l'esercito russo avrebbe violentato le donne, questo non è giornalismo, questa è una bugia. Non ci sono prove. Abbiamo bisogno di un'indagine internazionale sulla tragedia di Bucha».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 29 aprile 2022.

Mentre in Italia negazionisti di Bucha e propagandisti del Cremlino sono in tv a «dire la loro», in Russia si arrestano e si processano, con il rischio di decine di anni di galera, giornalisti ormai eroici che dicono il vero sulla guerra. Dopo il caso del politico Vladimir Kara-Murza, tocca adesso alla reporter Maria Ponomarenko finire in carcere (fino al 22 giugno) con l'accusa di aver «diffuso disinformazione sull'esercito russo», ossia aver riferito che era stato bombardato dai russi il teatro drammatico di Mariupol mentre era pieno di civili, con centinaia di morti (alla fine il bilancio è stato di 300 morti).

Ria Novosti, l'agenzia del Cremlino, ha raccontato così la cosa, giusto per farvi un'idea dei livelli di falsità a cui è ormai giunto il regime: «Maria Ponomarenko ha diffuso un falso su un presunto attacco delle forze aerospaziali russe a un teatro drammatico a Mariupol. Secondo il dipartimento militare russo, il teatro è stato fatto saltare in aria dai nazionalisti Azov». Chi dice il contrario va in cella. 

Ponomarenko, che ha due figlie di 16 e 13 anni, lavora per il canale RusNews, ma il procedimento penale che le viene intentato è per la pubblicazione di informazioni il 17 marzo in un canale Telegram con 1600 persone. «Andrà tutto bene.

Ognuno avrà quello che merita», ha detto Maria, chiusa in una gabbia durante l'udienza che ha convalidato l'arresto. Quasi lei a rincuorare noi. 

«Ovd-Info» ha ricordato che Ponomarenko era già stata arrestata nel 2021, mentre raccontava le manifestazioni che chiedevano il ritorno al voto per i comuni del territorio di Altai, e nel marzo 2022, per i reportage scritti sule manifestazioni contro la guerra a Novosibirsk. 

È stata anche più volte multata, una volta si presentò in tribunale con una maschera con la scritta «Putin dimettiti». Il vecchio non sopporta di esser sfottuto da una donna di 44 anni. Solo dall'approvazione (il 5 marzo) della nuova legge, che punisce fino a 15 anni chi pubblica quelle che secondo Putin sono «fake news», il regime ha arrestato tanti giornalisti e attivisti (senza contare i circa 200 reporter indipendenti fuggiti all'estero).

A San Pietroburgo l'artista Sasha Skochilenko è stato incarcerato perché sospettato di aver sostituito i cartellini dei prezzi nei supermercati con informazioni sui civili uccisi nell'attentato al teatro Mariupol. Sono stati messi in cella il giornalista ucraino Dmitry Gordon e una serie di giornalisti russi, che meritano tutti di essere nominati e non dimenticati: Isabella Yevloeva (Fortanga), Sergei Mikhailov (Listok), Mikhail Afanasyev (Novyi Fokus) Ilya Krasilshchik, Alexander Nevzorov, Andrey Novashov (Sibir.Realii, Tayga.info). Questa è la Russia oggi, un carcere a cielo aperto sempre più simile alla Corea del Nord.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 29 aprile 2022.

Parrebbe sfuggito a molti, ancorché pubblicato sul Corriere della Sera, un intervento di Corrado Formigli, conduttore del talk show Piazza Pulita su La7, riguardo alla risoluzione al vaglio della Commissione di Vigilanza Rai sulla regolamentazione degli opinionisti nelle trasmissioni di approfondimento, dopo la deflagrazione del caso degli ospiti tacciati di essere filoputiniani come il Professor Alessandro Orsini. 

Se la stampa ha insistito sulla ventilata norma che privilegerebbe gli ospiti non pagati a quelli contrattualizzati o remunerati con gettoni di presenza, il punto nodale della risoluzione (nonché quello più avversato) è invece quello che mira a garantire il pluralismo delle opinioni favorendo la rotazione degli opinionisti, limitando così lo strapotere di certe onnipresenti testate giornalistiche (vedi Fatto Quotidiano) delle quali essi sono spesso firme, se non addirittura direttori, e delle agenzie da cui talora sono rappresentati.

Necessario ricordare che la Commissione di Vigilanza e le agenzie di spettacolo (nelle cui scuderie, accanto a entertainer, showgirl e mattatori della risata, sono da tempo confluiti per l'appunto anche illustri firme dei quotidiani e conduttori di talk show politici) è in corso una lunga guerra che vede al momento trionfare le seconde, malgrado l'approvazione del testo votato in Commissione all'unanimità - e da ben due legislature - sul conflitto d'interessi tra agenti, conduttori e società di produzione Rai. Una risoluzione che, a conti fatti, non è mai stata applicata dalla Rai, come vedremo in seguito.

Tornando alle dichiarazioni rilasciate al Corriere da Formigli, quest'ultimo ha deplorato il giro di vite della Vigilanza sugli ospiti, definendola "un'idea balzana" e sostenendo categoricamente che la scelta spetti in ultima analisi al conduttore, "libero di decidere come e chi invitare in studio", una posizione con la quale concorda anche il Direttore del Fatto Marco Travaglio. 

Il conduttore di Piazza Pulita è in forza a La7, una tv commerciale, quindi le sue decisioni non rientrano nelle competenze della Commissione di Vigilanza Rai, ma egli è anche uno dei giornalisti/conduttori rappresentato da un agente, ovvero Beppe Caschetto titolare della Itc 2000. Quindi, ferma restando l'assoluta buona fede di Formigli che non mettiamo in dubbio, anche lui è di fatto parte in causa.

Varie volte abbiamo trattato della Itc 2000, agenzia che rappresenta un vero e proprio unicum in Italia visto che ne fanno parte tutti i principali conduttori di talk show politici e di attualità italiani. Limitandoci esclusivamente a chi tratta temi legati all'attualità politico-istituzionale e internazionale, parliamo di professionisti quali Formigli, per l'appunto, Lilli Gruber, Giovanni Floris, Lucia Annunziata, Fabio Fazio, Massimo Gramellini, ai quali aggiungiamo opinionisti/conduttori quali Roberto Saviano e Luca Telese. Tutto consultabile sul sito ufficiale dell'agenzia.

Sempre nell'ambito dell'informazione, della Itc 2000 è entrata da poco a far parte anche Roberta Rei, finora in forza alle Iene, che la prossima estate andrà a condurre con Giorgio Zanchini il programma di approfondimento su Rai3 in onda il martedì sera al posto di #Cartabianca. Rappresentata dalla scuderia di Beppe Caschetto è anche Ilaria D'Amico, in trattative per condurre un talk su Rai2 in prima serata, come segnalato da Dagospia.

Sempre nelle file della Itc 2000 troviamo Mia Ceran, fino a qualche tempo fa al timone di Quelli che il calcio che, spostato in prima serata su Rai2, ha chiuso dopo poche puntate per bassissimi ascolti, accanto a Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu (anch'essi rappresentati da Caschetto). Se gli ultimi due sono stati prontamente ricollocati a diMartedì (condotto dal compagno di scuderia Floris), Ceran è stata indicata da TvBlog come possibile conduttrice di un prossimo talk show pomeridiano su Rai2. E della Itc 2000 fa parte Geppi Cucciari, fino a qualche settimana fa co-conduttrice del talk di attualità Un giorno da Pecora su Rai Radio Uno, popolarissimo spazio che - seppur in maniera irriverente - offre grande ribalta ai politici italiani.

In forza alla Itc 2000, anche Daria Bignardi, già Direttrice di Rai3, nonché i giornalisti Valentina Petrini (ex conduttrice di Nemo su Rai2 accanto a Enrico Lucci, anch'egli rappresentato da Caschetto) e Antonino Monteleone, ospiti ricorrenti del compagno di scuderia Formigli a Piazza Pulita. Così come Saviano è di casa da Fabio Fazio, entrambi come abbiamo visto facenti parte della Itc 2000; che annovera nel suo carnet anche Luciana Littizzetto, a sua volta nel cast di Che tempo che fa, programma in cui il commento sull'attualità è prevalente, a maggior ragione ai tempi dell'emergenza Covid-19 e ora durante la guerra in Ucraina.

Alla luce di tale disamina risultano tanti, e in crescita, i volti dell'informazione italiana rappresentati da Beppe Caschetto, nomi ritenuti autorevoli e spesso alle redini dei talk show italiani o radiofonici più seguiti. Una posizione di fatto dominante che, se non inquietare, dovrebbe far perlomeno riflettere e che invece, visto lo scarso interesse della stampa, parrebbe ordinaria amministrazione. Invece la domanda ci pare del tutto lecita: è normale che quasi tutti i presentatori dei talk d'informazione e di approfondimento in Italia siano rappresentati dallo stesso agente? Nel momento in cui un conduttore inviti nella sua trasmissione opinionisti - talvolta anche più d'uno - che fanno parte della stessa scuderia non si prefigura forse un conflitto d'interessi?

Per quanto riguarda la Rai, il Segretario della Commissione di Vigilanza Michele Anzaldi ha invitato il Presidente Alberto Barachini, autore dell'ostacolato testo che vorrebbe regolare il ricorso agli opinionisti nei talk show, a chiedere a Viale Mazzini un rapporto sull'effettiva applicazione della invece già approvata all'unanimità - e da ben due legislature come abbiamo già detto - risoluzione che dovrebbe limitare l'egemonia degli agenti, e alla quale né l'ex Ad Fabrizio Salini né l'attuale Carlo Fuortes paiono aver dato seguito. Il rapporto latita, gli agenti - alcuni più di altri - se la godono, i cittadini pagano. 

Dal virus alle bombe: così finisce l’infanzia dell’Occidente. Essere sotto i riflettori non è più una garanzia, non dissuade più. Basta vedere i talk show in tv: vince il peggiore, anzi viene invitato apposta. Invece di affermare, il tipo si afferma. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 maggio 2022.

Il segnale è stato la mascherina che non abbiamo tolto. Ma mica per il Covid. Non l’abbiamo tolta per la guerra. Insomma non l’abbiamo tolta perché siamo ancora tutti in difesa come quando le squadre di calcio facevano il catenaccio. Perché non puoi fare finta di niente se, dopo due anni di virus, ti capita una Ucraina che sembra faccia ricominciare tutto daccapo. È come se avessimo perso l’innocenza non solo dell’inevitabile eterno progresso, domani sarà meglio di oggi. Ma del fatto che non ci potesse succedere. Una pandemia come se stessimo nel Medio Evo. E una guerra quando ci sentivamo tutti garantiti che no, meno che mai in Europa potrebbe avvenire.

Il risultato è la mascherina conservata dopo averla tanto imprecata. E dopo aver tanto giurato che, vedrai, quando tutto sarà finito. Ma, finita una ondata, è cominciata l’altra. E ancora siamo lì, in un tempo supplementare continuo. E poi, la guerra: impossibile al tempo delle atomiche, la certezza che a nessuno verrà in testa di distruggere il mondo distruggendo sé stesso. Caduta l’illusione di una convivenza garantita dalla deterrenza nucleare. Anzi Putin non è che se lo sia lasciato sfuggire, non si può escludere una bombetta del genere. Ma così, poca roba, al massimo solo mezza Ucraina incenerita.

Né, diciamoci la verità, si potevano immaginare atrocità da secoli delle barbarie. No, oggi si fa la guerra intelligente, tutto droni e mani pulite. E un solo morto è già uno scandalo. E poi, sotto gli occhi del mondo, ci sono satelliti che dallo spazio vedono fino a 40 centimetri di distanza, figuriamoci. C’è Internet. E ci sono i cellulari che subito mandano sui social, la guerra in tempo reale diffusa da una parte all’altra del globo. Eppure qualcosa deve essere successo nel genere umano se è andata come quando nelle strade ci sono le telecamere di controllo: io rapino e uccido lo stesso.

Essere sotto i riflettori non è più una garanzia, non dissuade più. Basta vedere i talk show in tv: vince il peggiore, anzi viene invitato apposta. Invece di affermare, il tipo si afferma. Non siamo allo scemo del villaggio preannunciato da Umberto Eco, ma certo lì lì. Prima i virologi, ora gli strategici. La linea della tollerabilità sempre un po’ più avanti. Quella del disgusto sempre un po’ più indietro. E più aumentano gli impostori, più diffidiamo di tutto. Se non lo possiamo accettare, teniamoci la mascherina. O sotto sotto speriamo nell’uomo forte che per un po’ metta tutto a posto. Diciamo alla Putin? Pur essendo sempre la democrazia il migliore dei governi possibili.

Del recente sogno del mondo aperto, resta il web. Ma non impedisce che si passi dalla globalizzazione alle autarchie. Meglio tenersi tutto in casa, piuttosto che rischiare in posti meno costosi ma non si sa domani. Meglio rinunciare a qualcosa, piuttosto che dipendere da pochi oligopoli che controllano troppo per non tentare di strangolarti al momento opportuno. Meglio rialzare qualche muro, piuttosto che trovarsi un carro armato alla porta. Meglio aderire a un’alleanza militare, piuttosto che contare nella propria ex splendida neutralità. Dal paradiso perduto della caduta delle frontiere, alla scoperta del grande inganno.

Eppure l’energia garantita è sempre stata una illusione. Dal «tutti a piedi» delle guerre del Golfo, al sole e al vento al posto del petrolio. E quanto al gas, perché la fine delle armi mi deve costare un grado di temperatura in meno in casa? Infranti troppi tabù perché per l’Occidente non sia arrivata la fine dell’infanzia. E per l’Europa l’ora di non contare sempre sul sangue delle Normandie per poi sparare comodamente sullo zio Sam. Troppo di ciò che finora era impossibile, è stato ora possibile. E anche la normalità, come il futuro, non è più quella di una volta. Il Covid ci ha tolto le strette di mano e gli abbracci, i volti e le presenze, i cinema e i viaggi, l’intimità e la fiducia reciproca. Il martirio dell’Ucraina ci ha tolto la pace, meno scontata e meno per sempre. Ci ha tolto la convinzione che la storia non potesse più ripetersi. E l’Ucraina siamo noi. Ne usciamo un po’ disillusi, un po’ depressi, un po’ allarmati, un po’ invecchiati. Ne usciamo, anzi ne entriamo in emergenza permanente. E con un diverso modo di essere giovani per i nostri giovani. Abbiamo scoperto un mondo troppo in maschera perché non si debba ancora per un po’ conservare tutti la mascherina.

Così si rafforza l'idea che la Russia non è una nazione europea amica. FABRIZIO GALIMBERTI su Il Quotidiano del Sud il 5 maggio 2022.

AL G20 in Indonesia ci sarà anche Putin; in una conversazione con il Presidente indonesiano Joko Widodo, Putin ha confermato la sua partecipazione. Il Governo indonesiano ha anche invitato, come osservatore, il Presidente ucraino Zelensky. L’appuntamento, tuttavia, è a novembre, e di qui ad allora può succedere di tutto.

Certamente, Zelensky ha più volte detto di voler incontrare Putin, ma al Cremlino non c’è interesse a questo appuntamento. La strategia del presidente russo è chiara: se incontro ci ha da essere, deve avvenire da una posizione di forza, con un’Ucraina bombardata e domata, non prima. Talché l’incontro non sarebbe che una resa di Zelensky. Il presidente dell’Ucraina si è mostrato molto abile in una “guerra parallela”, quella che si dipana nei giornali e nelle TV.

In quest’ottica mediatica, e visto che Putin rifiuta un incontro faccia a faccia, forse Zelensky potrebbe allora mandargli una lettera, una lettera aperta che potrebbe suonare così:

A Vladimir Putin Presidente della Federazione Russa

Signor Presidente, Come avrebbe detto Talleyrand, la vostra invasione del mio Paese, “è peggio di un crimine, è un errore”. Molti anni fa, il 25 settembre del 2001 (dieci anni dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina), lei pronunciò un discorso a Berlino, al Bundestag, discorso che fu lungamente applaudito dai parlamentari: «La Russia è una nazione europea amica… Una pace stabile per il continente è una meta fondamentale per la nostra nazione… Diritti e libertà democratiche sono la chiave delle nostre politiche interne». Allora lei aveva 48 anni. Quest’anno ne compirà 70, e sembra che «Una pace stabile per il continente» non sia più il suo obiettivo. Perché?

Perché lei teme che la sicurezza della Russia sarebbe minacciata se l’Ucraina venisse a far parte dell’Unione europea e/o della NATO. Ma la NATO è un’alleanza puramente difensiva. Nessuno vuole invadere la Russia come lei ha invaso l’Ucraina. Le nazioni baltiche si unirono alla NATO perché avevano paura della Russia, e lei ha appena confermato che queste paure avevano un solido fondamento. La sua guerra contro di noi è un errore perché ha rafforzato la nozione che la Russia non è «una nazione europea amica».

Se lei voleva impedire che la NATO si allargasse verso di noi, tutto quello che ha ottenuto è di avere altre due nazioni sulla soglia della Russia – Svezia e Finlandia – apprestarsi ad aderire alla alleanza del Nord-Atlantico.

La sua guerra contro di noi è un errore perché ha distrutto, nella sfera economica, la nozione che la Russia possa essere un partner affidabile per scambi e investimenti; scambi e investimenti che sono e saranno necessari perché la sua economia possa risollevarsi dal baratro in cui è caduta. Ma la sua guerra è anche un crimine. Non solo per i massacri, gli stupri, le uccisioni di civili inermi e le devastazioni inflitte nei confronti di obiettivi non-militari. È un crimine perché ha seminato odio. Voi non avrete mai l’Ucraina. Potete occuparci, ma non ci schiaccerete mai. La Russia è diventata un paria nel concerto delle nazioni, e la vostra invasione rimarrà sempre, negli occhi del mondo, un costante testimone della brutalità delle vostre azioni.

Quando il giornalista «crea» la notizia. Mondo politico e professionale in subbuglio dopo il caso Lavrov. Nulla di nuovo sotto il sole: da Enzo Biagi a Oriana Fallaci ogni scoop ha scatenato un putiferio. I politici conoscono bene il baratto per avere visibilità. Michele Partipilo su la Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Maggio 2022.

Viviamo nella società dell'informazione e la nostra vita è dominata dai media. Ma dei tanti problemi che generano raramente se ne parla. In questo blog proviamo a farlo.

Da qualche giorno il mondo politico e mediatico italiano è agitato dal «caso Lavrov», il potente ministro degli Esteri russo. Il fatto: domenica 1° maggio nel talk show di Rete 4, Zona Bianca, Giuseppe Brindisi ha intervistato il fedelissimo di Putin, un vero e proprio scoop. Per circa 40 minuti il ministro ha detto di tutto e di più in risposta a qualche timida domanda del giornalista. Le reazioni sono state immediate. Dal Pd agli esponenti di governo, per finire allo stesso presidente Draghi, sono partite bordate contro Brindisi, accusato di non aver incalzato il suo ospite e che Zona Bianca si sia così trasformata in uno strumento della propaganda del Cremlino in Italia. L’episodio, letto insieme alla crescente presenza di ospiti filo russi in tv, ha alimentato il sospetto che si stia utilizzando la guerra in Ucraina come tema per spaccare la maggioranza di governo e far cadere. Insomma, l’occhio è sempre alle elezioni.

Anche molti giornalisti non sono stati teneri con Brindisi. Ma qui il motivo è ben chiaro e, prima ancora che da possibili rilievi professionali e deontologici, è costituito dalla gelosia verso un collega che è riuscito a fare un bel colpo.

E veniamo ora alle questioni che il caso ha sollevato. Innanzitutto va ribadito che è libertà del giornalista intervistare chiunque egli ritenga che in quel dato momento storico possa riscuotere l’interesse del pubblico. Lavrov è sicuramente personaggio di grandissimo interesse in questa fase, così come lo erano i Casamonica quando furono intervistati da Vespa; come lo era Raffaele Cutolo quando fu intervistato da Enzo Biagi; come lo era l’ayatollah Khomeini quando fu intervistato da Oriana Fallaci.

Non a caso l’intervista – si legge sui dizionari – è una delle attività tipiche del giornalismo, oltre che un diffuso genere letterario. Recentemente il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha tentato di trasformarlo anche in un genere politico facendosi un’autointervista, ma questo è un altro discorso. Una buona intervista richiede al giornalista una grande preparazione e la consapevolezza del fatto che in quel momento sta «creando» lui la notizia. Si può sempre discettare circa il suo ruolo, cioè se si sia limitato a concedere una visibilità più o meno ampia al suo interlocutore, oppure se lo abbia stretto nell’angolo con domande scomode o contestandogli fatti precisi. Insomma, se si sia trattato di un’intervista scendiletto o no. Ciascuno – come appunto nel caso Lavrov – è libero di farsi un’idea, che però è quasi sempre dettata più dalle personali simpatie che da una valutazione oggettiva.

L’opinione pubblica, però, non conosce che cosa c’è dietro l’intervista e quali meccanismi la governano, al di là della nobile motivazione di dare un contributo alla conoscenza dei fatti. Innanzitutto vi sono interviste che hanno valore per il solo fatto di essere riusciti a interloquire con un certo personaggio. È il caso – per esempio – della regina d’Inghilterra che non concede interviste. Fu il caso di Indro Montanelli quando nel 1959 intervistò Giovanni XXIII: era la prima volta di un Papa. Ma dietro un’intervista ci sono anche molte zone grigie. Più importante è il ruolo dell’intervistato, più paletti pone il suo addetto stampa circa le domande che è possibile rivolgergli.

A volte c’è un vero e proprio elenco di questioni vietate. Per onestà il giornalista dovrebbe rifiutarsi di fare interviste con molte limitazioni, perché è altissimo il rischio di trasformarsi in megafono di qualcuno. Per decenni, i giornalisti sono stati condannati per diffamazione proprio perché ritenuti dai giudici «cassa di risonanza» per giudizi diffamatori espressi dagli intervistati. I magistrati ritenevano all’epoca che il giornalista dovesse fare da censore: di fronte al politico che tacciava un ministro di essere un ladro o un corrotto, il giornalista doveva cancellare quel passaggio.

Per fortuna, in seguito a una sentenza del 2001 delle Sezioni Unite della Cassazione, si sono cominciati a fare dei distinguo sul ruolo e il peso pubblico di accusato e accusatore. Un influsso notevole lo ricopre anche il carisma dell’intervistato: quando Fabio Fazio ha avuto in diretta papa Francesco a Che tempo che fa sembrava un praticante al primo giorno di lavoro e anche lì domande incalzanti non se ne sono sentite. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, l’intervista è frutto di un baratto. Ti intervisto, magari va in prima pagina se tu mi dici… L’interlocutore, soprattutto se è un politico accetta di buon grado; anzi, spesso previene il giornalista: il suo ufficio stampa chiama in redazione e «offre» delle affermazioni clamorose ed esclusive in cambio di una visibilità più o meno ampia. Nel caso Lavrov come è andata?

Brindisi poteva tentare di essere un po’ più ficcante, anche se non è facile incalzare il ministro degli Esteri russo. Senza contare che nessuno conosce le «condizioni» poste per concedere l’intervista e che alla fine l’importante era fare lo scoop, tanto che lo stesso Brindisi – forse per far schiattare ancor più d’invidia certi colleghi – ha detto che sta cercando Putin.

Otto e mezzo, "tv italiane in mano ai russi". Lilli Gruber provoca e Alessandro De Angelis non si trattiene. Il Tempo il 06 maggio 2022.

“Le televisioni italiane in mano ai russi? C’è un bel circo”. Alessandro De Angelis, vicedirettore dell’Huffington Post, ha spiegato a Lilli Gruber la sua lettera aperta al presidente della Federazione russa, Vladimir Putin. “Si tratta di una provocazione” ha detto il giornalista venerdì 6 maggio a Otto e Mezzo, il talk politico di LA7, prima di bacchettare i mass media del Bel Paese: “Non voglio generalizzare, ma c’è un bel circo in Italia. Nelle televisioni straniere c’è un altro approccio. Noi siamo arrivati al punto che il Copasir si occupa degli ospiti o che il ministro degli Esteri russo Lavrov fa un comizio che neanche sulla tv russa. Non c’è stata una domanda”.

De Angelis precisa che è solo responsabilità dei giornalisti e non c’è niente di censurabile però si diffondono a macchia d’olio “opinionisti filorussi”. Gruber lo interrompe: “E quindi stai dicendo che la propaganda russa controlla i mezzi di informazione italiani” e il giornalista con tono bonario ma piccato: “Diciamo che se fossi il portavoce di Putin sarei contento e soddisfatto del ventre molle dell’Italia. C’è un certo clima… siamo tutti pacifisti, nessuno vuole la guerra, ma il meraviglioso arcobaleno pacifista è diventato un arcobaleno dietro cui c’è di tutto. Salvini per far dimenticare il Metropol, prega per Mariupol, Conte ora sostiene l’opposto di due mesi fa ed è pacifista, c’è uno sfilacciamento”.

L’ultimo affondo è per il premier Mario Draghi che tra pochi giorni incontrerà il presidente americano Joe Biden: “Ci va dopo 15 mesi dal suo insediamento. A Roma ancora non è stato nominato l’ambasciatore americano. Vogliamo dire che siamo un paese protagonista?!”.  Lapidaria la risposta di Gruber e Lucio Caracciolo: no, non risulta.

La propaganda dei putiniani non ci fa paura… Fateli parlare! La differenza tra un regime e una democrazia sta tutta qui, e farebbe bene a ricordarlo il presidente del Copasir che annuncia un’inchiesta sulle «ingerenze straniere nella nostra informazione». Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 maggio 2022.

Uno degli aspetti più urticanti della propaganda putiniana è il vittimismo. La retorica del “siamo circondati”, della Russia bersaglio dell’imperialismo yankee, dei nazisti ucraini, delle bugie occidentali.

È un espediente necessario per rovesciare la narrazione della guerra, trasformare gli aggressori in aggrediti e l’invasione dell’Ucraina in legittima difesa. Serve anche a giustificare i propri misfatti agli occhi del mondo (un po’ come le guerre Usa per esportare la democrazia) e a influenzare l’opinione pubblica del blocco nemico. Quella russa non ne ha affatto bisogno: i giornalisti contrari all’invasione sono stati arrestati, licenziati o comunque messi in condizioni di non nuocere, come i colleghi di Novaia Gazeta che hanno deciso di sospendere le pubblicazioni per non finire nel tritacarne.

Stessa sorte per i dimostranti pacifisti finiti a migliaia nei commissariati di Mosca, San Pietroburgo e Vladivostok. Oltre cortina la censura è totale e non c’è alcuna possibilità di esprimere opinioni diverse da quelle del Cremlino e dello stato maggiore dell’esercito. Ma in un sistema democratico le cose funzionano diversamente, le opinioni circolano in libertà, la polizia non chiude le redazioni e non colpisce i giornalisti non allineati al mainstream.

Neanche negli Stati Uniti di Biden, da tempo in prima linea nel conflitto con Mosca, dove il New York Times rivela che i servizi di intelligence Usa hanno aiutato Kiev a uccidere una decina di generali russi localizzandone la posizione. Questo ha mandando su tutte le furie il Pentagono che ha definito «irresponsabile» la scelta del quotidiano newyorkese, ma non potendo smentire la notizia e soprattutto non potendo far nulla per impedirne la pubblicazione.

La differenza tra un regime e una democrazia sta tutta qui e farebbe bene a ricordarlo il presidente del Copasir Adolfo Urso che annuncia un’inchiesta sulle «ingerenze straniere nella nostra informazione». Che cosa ha in mente il Comitato di controllo dei servizi segreti? Di spulciare le scalette dei programmi televisivi per segnalare il nemico interno? E cosa va mai blaterando il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di vigilanza Rai Michele Anzaldi (sempre lui) quando chiama «spie di Mosca» i giornalisti russi invitati nelle trasmissioni italiane? Oppure il piddino Andrea Romano che chiede al Copasir e alla vigilanza Rai di «indagare» sugli ospiti di Cartabianca?

È vero, i nostri talk show pullulano di intellettuali “putiniani” , di opinionisti “equidistanti”, di negazionisti delle stragi di Bucha e Mariupol, di accademici rossobruni ossessionati dall’antiamericanismo, di mitomani della geopolitica, di divulgatori compulsivi di fake news, di pacifisti pieni di se e di ma quando si tratta di schierarsi con la resistenza ucraina. Ma per nostra fortuna non siamo nella Russia di Putin, nessuna opinione per quanto odiosa, per quanto in malafede deve finire sotto l’occhiuta minaccia della censura. Non siamo neanche nella Germania dell’Est o nell’America del maccartismo e della caccia alle streghe come forse crede Aldo Grasso che pochi giorni fa sul Corriere ha stilato una lista di proscrizione degli intellettuali che ritiene “vicini al Cremlino”.

Un conto è contestare nel merito tutte le sciocchezze che vengono dette sulla guerra, altra cosa è delegittimare gli avversari, additarli in pubblico, equipararli ad agenti nemici, pretendere che scompaiano dagli schermi. Non abbiamo bisogno di patriot act che mettano il filo spinato sull’informazione, di petulante paternalismo, gli italiani non sono dei bambini rintronati, hanno opinioni e convinzioni indipendentemente da quel che gli dicono i media. Gli zelanti bulletti che invocano mordacchie e inchieste e ispezioni e commissioni dovranno rassegnarsi: continueremo a vedere in tv i vari Orsini, Santoro, Montanari, Di Cesare, Vauro, Capuozzo e compagnia bella sostenere che la responsabilità della guerra è della Nato e di quei tipacci degli ucraini. Noi lo abbiamo fatto fin dal primo giorno.

Toni Capuozzo, il "ricatto" del Battaglione Azov? "Cosa avrebbero chiesto per salvare 15 civili". Libero Quotidiano il 06 maggio 2022.

Tanta la propaganda che si sta costruendo attorno all'acciaieria di Azovstal a Mariupol. L'impianto siderurgico, nel quale sono rinchiusi civili ucraini, marines e soldati del battaglione Azov, è sotto bombardamento russo da giorni. Una situazione insostenibile, che rende difficile anche l'evacuazione dell'edificio. La tentazione di fare propaganda, però, sia da parte russa che da parte ucraina è sempre piuttosto forte. 

Dell'argomento ha parlato anche Toni Capuozzo sulla sua pagina Facebook: "Non so se sia vero che i resistenti dell'Azovstal abbiano chiesto una tonnellata di cibo per ogni quindici civili da rilasciare: la fonte è russa, e ovviamente non farebbe loro onore". Questa notizia, infatti, è stata riferita a Ria Novosti da uno dei funzionari che sta conducendo le trattative con gli assediati. 

Il giornalista poi, parlando sempre dei soldati Azov, ha aggiunto: "So quel che leggo sul Corriere della Sera di oggi, che li descrive come dei soldati Ryan da salvare, e paragona la loro canzone a 'Bella Ciao'. Peccato che inneggi a Stepan Bandera, eroe del collaborazionismo con i nazisti". E non è tutto, perché - continua Capuozzo - ci sarebbe stato anche un altro equivoco: "Il Primo maggio dal concertone di Roma hanno spedito i saluti a Kiev, senza accorgersi che quella festività è abolita in Ucraina dal 2014".  

Toni Capuozzo, l'intervista a Lavrov: "Compresi i passaggi antisemiti", la soffiata che imbarazza Mediaset. Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Forse per zittire critici e complottisti su Sergey Lavrov sarebbe servita solo Oriana Fallaci. E' la tesi di Toni Capuozzo, che su Facebook dice la sua sul caso mediatico e politico della settimana: il ministro russo, domenica, sera, è stato ospite di Giuseppe Brindisi a Zona Bianca. Un colpaccio, per il talk di Rete 4 e per Mediaset tutta. Uno scoop giornalistico lungo 40 minuti che però, fin da subito, si è scontrato con le critiche di Pd, governisti, Mario Draghi, colleghi giornalisti e commentatori vari, pronti a gettare la croce su Brindisi accusandolo di essere stato troppo morbido con l'ospite eccellente (e assai scomodo, in quanto "nemico di guerra".

La tesi è che Zona Bianca sia stata nient'altro se non il megafono della propaganda del Cremlino in Italia, senza filtri e senza un vero contraddittorio, per usare le parole, durissime e inusuali, pronunciate dallo stesso premier Draghi contro Brindisi nel corso di una conferenza stampa ufficiale. "Parlano di intervista, ma nei fatti è stato un comizio", ha detto Draghi attirandosi le congratulazioni degli anti-russi di ferro e la rabbia di chi, come Mario Giordano, ha rovesciato le critiche: "Che fa, Draghi? Ci dà lezioni di giornalismo? Ci vuole dare pure un decalogo su come si fanno le interviste?", gli ha risposto il conduttore di Fuori dal coro, sempre su Rete 4. 

Capuozzo Draghi non lo nomina mai, nel suo lungo post su Facebook, ma il riferimento è anche a lui. "Per far contenti tutti, forse", ci sarebbe voluta la Fallaci. "Ma, non essendoci Lei (che avrebbe fatto diventare l’intervista un confronto, una sfida) quel che doveva essere, e probabilmente è stato pattuito, pur di avere l’intervista, è stato: delle domande che permettessero all’ospite di fare il suo discorso – compresi  i passaggi più antisemiti - e a noi di conoscerne il punto di vista, le verità di parte, le deformazioni". 

Il confine tra la trasparenza assoluta e la più subdola propaganda è sottile, a volte, ma pur sempre vero che mai come in questa guerra l'Occidente è pieno di fonti più o meno dirette, spesso in tempo reale, testimonianza, documenti, opinioni, punti di vista. La manipolazione delle notizie, insomma, tende a venire "disinnescata" dall'abbondanza delle stesse. Un fact-checking continuo. Tutto sta, ovviamente, nella "ricerca" del lettore. Di sicuro, però, a Zona Bianca "è stata fatta  non educazione, non pedagogia, non propaganda, non giudizio ultimativo - conclude Capuozzo -, ma semplice informazione, e ora ne sappiamo tutti qualcosa in più, liberi di trarne noi il giudizio".

Fabrizio Roncone per "Sette - Corriere della Sera" il 6 maggio 2022.

Sul Foglio sparano la notizia che il Movimento 5 Stelle avrebbe intenzione di arruolare il leggendario professor Alessandro Orsini, ciuffetto biondo, voce tremula e sinuosa («Signori miei...»), sguardo vitreo, già eroe mediatico filorusso celebrato dalla Tass, l'agenzia di stampa del macellaio che sta a Mosca. 

I grillini smentiscono, il loro presunto capo - Giuseppe Conte - s'aggiusta la pochette e nega imbarazzato: ma la possibilità di ritrovarci Orsini in Parlamento invece c'è, ed è concreta. 

Del resto di personaggi televisivi come Orsini ne nascono uno ogni trent'anni. Forse l'ultimo è stato Nino Frassica. «Io mi sento europeo, lasciatemi dire che nessuno apprezza l'Europa più di me: però l'Italia dovrebbe uscire, momentaneamente, dall'Unione Europea» (per capirci: questo è Orsini, non Frassica).

«Io sono antifascista, nessuno è più antifascista di me: eppure mio nonno durante il fascismo ha avuto una vita felice». Poi, per non essere frainteso: «Un bambino può essere felice sotto una dittatura». 

Orsini ha potenzialità enormi. Quello che può aver detto ieri sera in tv è niente rispetto ai numeri che potrebbe fare a Montecitorio. Per i grillini sarebbe una bella iniezione di vitalità. Li farebbe tornare alla loro meravigliosa stagione di politica visionaria, psichedelica.

Quando Alessandro Di Battista suggeriva di trattare con i terroristi dell'Isis. Michele Giarrusso, mimando il segno delle manette, urlava: «Renzi sarebbe da impiccare!». E Paola Taverna appena più sobria: «Berlusconi? Un giorno de questi je sputo». 

Mentre Manlio Di Stefano, portandosi avanti con straordinario intuito, volava a Mosca per partecipare al congresso di Russia Unita, il partito di Putin, annunciandogli l'imminente scioglimento della Nato.

È chiaro che anche Orsini, in una simile compagnia, farebbe la sua figura. È nel pieno delle forze (47 anni), è colto, ha un curriculum robusto e insegna nel dipartimento di Scienze politiche della Luiss. Nei 5 Stelle porterebbe freschezza e quel miscuglio di arroganza e mitomania tipica delle sbornie mediatiche («Mi scrivono migliaia di mamme da Mariupol»). 

La Rai, non casualmente, aveva deciso di ingaggiarlo per 2 mila euro a puntata. Il Pd è insorto: «È una cifra immorale!». Ma perché: Frassica costerebbe tanto di meno?

Orsini dichiara guerra a tre giornali italiani: "Campagna d'odio" e "caccia all'uomo". Il Tempo il 07 maggio 2022.

Alessandro Orsini è diventato uno dei personaggi di Maurizio Crozza. Un'imitazione come al solito molto divertente. Il professore, finito nelle polemiche per le sue "ospitate" in tv per parlare della guerra in Ucraina, ha apprezzato il personaggio messo in scena dal comico. Lo ha fatto con un lungo post su Facebook, dove, però, non ha risparmiato una stoccata a tre giornali italiani, Repubblica, Corriere della Sera e La Stampa, definendoli "estremisti" che portano avanti "campagne d'odio" contro "gli oppositori del governo" di Mario Draghi.

Ecco cosa ha scritto Orsini su Facebook: "Crozza svolge una funzione molto importante nella nostra società politica: la funzione di irriderci per moderarci. L’irrisione della satira è fondamentale durante i processi di radicalizzazione che investono una società quando i conflitti sono in procinto di diventare dirompenti. L’Italia, anche a causa delle politiche disumane del governo Draghi verso l’Ucraina, è su questa strada. In un tempo di radicalizzazione collettiva, continuamente alimentata dalle campagne d’odio scatenate da Corriere della Sera, Stampa e Repubblica - tre quotidiani estremisti che aggrediscono gli oppositori del governo Draghi attraverso una spietata caccia all’uomo - Crozza stempera e umanizza. In un tempo disumano alimentato dalle politiche inumane del governo Draghi verso l'Ucraina, Crozza ci ricorda che siamo umani. In un tempo radicale, Crozza ci ricorda che un tempo eravamo moderati e ridevamo. Non esiste una forza moderatrice più grande di Crozza. Siccome amo la moderazione; siccome penso che la moderazione sia il bene più grande del mio Paese e siccome la proteggo, non posso non amare Crozza. Cercherò di indossare sempre lo stesso abito (lavato e pulito) per rendergli più facile la vita. Quanto alla lampada alle mie spalle non posso garantire: non è casa mia, ma il salone di un albergo".

Da liberoquotidiano.it il 6 maggio 2022.

Il professor Orsini è forse una delle figure più controverse che siano mai apparse nel dibattito da talk nel nostro Paese. Professore universitario, analista e per molti vicino a posizioni filo-Putin. 

Il prof che nei talk show tra la 7 e la Rai afferma senza problemi che "i bambini vivono bene anche sotto le dittature" e che la "guerra è colpa della Nato", avrebbe addosso il mirino dei nostri servizi segreti. Il motivo?

Il Copasir vorrebbe vederci chiaro sulla presunta collaborazione tra lo stesso Orsini e il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, il Dis. Il dipartimento a quanto pare starebbe tardando nel fornire ulteriori dettagli sui punti di contatto tra la propria attività e quella da docente e analista di Orsini.

Su questo fronte si apre, come riporta il Foglio, un problema non da poco. Il ritardo nel fornire le informazioni al Copasir potrebbe essere dovuto ai rapporti tra Giampiero Massolo, capo del Dis tra il 2012 e il 2016. A quanto pare sarebbe stato proprio Massolo il primo ad essere accostato vicino al nome di Orsini. A quanto pare niente di vero. Massolo sarebbe andato su tutte le furie.

Da qui la mossa, sempre secondo quanto riporta il Foglio, di far sapere ai parlamentari che fanno parte del Copasir la sua totale lontananza da Orsini. Insomma Massolo ha spiegato nelle segrete stanze che da lui non è partita alcuna sponsorizzazione per il professore "zarino".

Ma non finisce qui. Sulle origini del "fenomeno Orsini" ci sarebbe anche il nome di Paolo Ciocca, vicedirettore del Dis tra il 2013 e il 2018. Proprio Ciocca si sarebbe attivato per dare il via all'Osservatorio per la sicurezza internazionale fondato alla Luiss nel 2016. 

Ora però il Copasir vuole fare luce sui rapporti "segreti" del professore dalla chioma ribelle che ormai presenzia da settimane sulle nostre tv. Insomma Orsini è finito al centro delle indagini degli 007. Una spy story che aumenterà di certo l'ego del professore.

La dinamica della provocazione che si instaura nei talk show. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 5 Maggio 2022.

Nascono così i talking heads (esperti di tutto, cioè di niente), nasce il bullismo mediatico, nascono gli esecrabili che hanno continuamente bisogno dell’esecrazione. 

Il talk show è un gioco al massacro, di sua natura. Era inevitabile che Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini, due uomini di cultura, venissero alle mani, era fatale che lo scontro accadesse proprio al «Maurizio Costanzo Show». C’è una strada dei talk più alta, ed è quella percorsa da Larry King e David Letterman (tanto per citare due nomi), e una strada più bassa, quella di Jerry Springer e Geraldo Rivera. In Italia, abbiamo preferito la seconda come fosse una recita nata dal borborigmo di un dio incupito (avremmo dovuto accorgercene subito, quando il MCS cominciò a mandare in onda i morti con Nik Novecento). Così il talk diventa un luogo dove tutti, indistintamente, hanno diritto di parola (una vale una), sia essa l’espressione del più vieto senso comune o rappresenti invece la trasgressione spettacolarizzata, o, ancora, una marginalità irrappresentabile.

Il senso più stringente del talk consiste nel trasformare in freak i suoi protagonisti. Nascono così i talking heads (esperti di tutto, cioè di niente), nasce il bullismo mediatico, nascono gli esecrabili che hanno continuamente bisogno dell’esecrazione. Umberto Eco paragonava la dinamica della provocazione che si instaura nel talk al meccanismo psicologico delle dispute in osteria. Bisogna partecipare ai talk show? Enrico Mentana ha deciso di non invitare chi giustifica l’invasione russa in Ucraina e i vari negazionisti. Carlo Fuortes, ad della Rai, ha scoperto che «chiamare giornalisti, operatori, intellettuali, scienziati a improvvisare su qualsiasi tema non può essere un buon servizio pubblico». Alcuni studiosi giustamente si rifiutano di partecipare ai talk dove si mescola analisi e propaganda. Altri ancora dicono di no, accusando i talk di pensare solo agli ascolti e non alle conseguenze, specie se si parla di pandemia o di guerra. Bisogna lasciare i talk in mano alla caciara disinformata o informarsi su chi c’è prima di accettare l’invito?

Non c'è talk show senza dibattito. Stefano Zecchi il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Chiunque dovrebbe andare a dire la propria opinione (se ne ha una ed è capace di argomentarla), senza preoccuparsi se si troverà interlocutori che non la pensano come lui.

«Adesso le dico chi saranno gli altri ospiti insieme a lei». «Non si preoccupi, non m'interessa, vanno sempre bene», rispondo a chi m'invita a un talk show.

Se prima poteva essere una curiosità il fatto di sapere insieme a chi ci si sarebbe messi a parlare, adesso sta diventando una discriminante. «Se c'è quello/a non ci vengo», è sempre più spesso la risposta all'invito. Non la mia risposta, comunque. Ma io vengo da un'altra storia, quella del Maurizio Costanzo Show, quando il conduttore della trasmissione non era il protagonista della serata, ma il padrone di casa, che faceva parlare tra loro i suoi ospiti. Oggi è molto diverso, il conduttore è un politico, anche se vorrebbe mostrarsi al di sopra delle parti, è un giustiziere, anche se vorrebbe mostrarsi la persona più tollerante di questo mondo pieno di infamie.

Chiunque dovrebbe andare a dire la propria opinione (se ne ha una ed è capace di argomentarla), senza preoccuparsi se si troverà interlocutori che non la pensano come lui: è il gioco dialettico della democrazia. E invece fioccano i rifiuti, anche di persone di cui varrebbe la pena conoscere il proprio parere. Il perché lo si capisce: si ha la percezione che il luogo in cui si va finire è dominato da chi dovrebbe difendere e rispettare il proprio punto di vista e invece è schierato tutto da una parte col risultato di mettere in difficoltà chi non sta da quella parte.

Non è il talk show sul banco degli imputati, semmai sono i conduttori di alcuni programmi che non sono adeguati: non si nasce conduttori di talk show. Un tipo di trasmissione che rappresenta una caratteristica specifica della televisione, dalla quale si possono avere notizie, orientamenti, approfondimenti importanti, se vengono rispettate alcune regole essenziali, innanzitutto un conduttore non dominatore, ospiti che siano consapevoli di quello che dicono, e non la sparino grossa per far casino. Lo share si tiene alto anche senza conduttori dominatori e ospiti cialtroni. E l'approfondimento si sviluppa, eccome, talvolta col sorriso, altre con discussioni accese: un approfondimento che ha dato fastidio anche alla mafia.

E, infatti, Maurizio Costanzo è stato un esempio: una redazione formidabile, «allestitori» del programma di livello, ne ricordo solo uno tra i tanti bravissimi, Alberto Silvestri. Nelle molte volte che sono stato ospite di Porta a porta, Bruno Vespa è sempre stato un eccellente, equilibrato padrone di casa. Con un altro modello comunicativo Fabio Fazio dialoga con un ospite, andando generalmente in profondità all'argomento. E poi arriva Michele Santoro, che non ha mai fatto mistero da che parte guarda: il suo ultimo talk show è geniale, rovescia i modelli convenzionali e s'inventa un nuovo ruolo dell'ospite e del conduttore. Ha messo la pietra tombale sul vecchio talk show, rinnegando anche i suoi figli (o quelli che avrebbero voluto avere lui per padre), tipo Floris, Formigli, Gruber.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 5 maggio 2022.

Contrordine compagni. Dopo oltre due anni di rincorsa al talk show di virologi e sedicenti tali, ora tocca agli opinionisti «bellici» iniziare a fare distinguo, a mettere i puntini sulle i, a prendere le distanze. È una tendenza che è appena iniziata e, garantito, diventerà virale.

L'altra sera Nona Mikelidze, Nathalie Tocci e Andrea Gilli hanno declinato l'invito di Giovanni Floris a DiMartedì su La7 perché «il problema è Nadana Fridrikson, "giornalista" della tv del ministero della Difesa russo», come ha spiegato il professore del Defence College, l'università della Nato.

Tra l'altro, durante la puntata la giornalista russa è inciampata nell'umorismo involontario lamentando di essere vittima di censura: «Se non mi permette di rispondere, la considero censura». Risate in studio.

In ogni caso, è scoppiata un'altra guerra: quella dell'opinionista. Per capirci, meglio stare alla larga dai programmi nei quali ci sono voci troppo chiaramente (o troppo faziosamente) vicine a posizioni russe. Qualcuno parla pro Putin? Allora non vengo.

Una polemica che discende (anche) dall'intervista a Lavrov a Zona Bianca su Rete4 e che è senza dubbio condizionata anche dal comprensibile timore di diventare parte/vittima/complice di fake news oppure di notizie subdolamente distorte.

Non a caso ieri il Copasir presieduto da Adolfo Urso ha deciso di «svolgere un approfondimento sull'ingerenza straniera e sull'attività di disinformazione (...) con particolare riferimento al conflitto tra Russia e Ucraina». Insomma, si è capito subito che quello di DiMartedì non sarebbe rimasto un caso isolato.

E difatti, proprio ieri pomeriggio la brava Marta Ottaviani, autrice di Brigate Russe, ha diffuso il proprio scambio di messaggi con la redazione di Otto e mezzo, sempre su La7. All'invito a partecipare al programma di Lilli Gruber, ha risposto di no perché «non credo che la guerra contro l'Ucraina sia da voi stata trattata in modo corretto e imparziale». E tanti saluti. Una presa di posizione tranchant ma chiarissima che lei ha confermato nel tardo pomeriggio a Zapping su Radio1 e diventerà un precedente inevitabile per chi parteciperà ai talk show. Ma non solo.

Intanto, durante l'audizione in Vigilanza l'ad Rai, Carlo Fuortes, ha dichiarato che l'azienda sta «ragionando sulle policy, penso che l'ospite che partecipa non debba ricever e che il format talk show non sia l'ideale: chiamare giornalisti, operatori, intellettuali, scienziati a improvvisare su qualsiasi tema non può essere un buon servizio pubblico». 

E lo ha dimostrato pure il siparietto quasi fisico al Maurizio Costanzo Show tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini che, dopo una riflessione di Al Bano su Putin, hanno alzato i toni arrivando quasi a scontarsi. «Sono allibito» ha poi detto Sgarbi. «Tra noi due s' è solo trattato di diverse sfumature di pensiero e di parola, e semmai di tono della voce» ha poi replicato Mughini su Dagospia. In ogni caso la puntata è andata in onda ieri sera in versione completa, diventando l'ultimo caso in ordine di tempo di confronti accesi in materia di Russia e Ucraina.

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 5 maggio 2022. 

«Penso che il format talk show per l'approfondimento giornalistico in un'azienda che fa servizio pubblico non sia il format ideale. Negli ultimi decenni c'è stato un abuso di questa forma, che invece è molto adatta all'intrattenimento ma su temi leggeri, non su temi importanti come quelli politici o culturali». L'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, in audizione ieri sera in commissione parlamentare di Vigilanza, fa calare la mannaia sui dibattiti tra ospiti eterogenei sui temi dell'informazione.

«L'idea di giornalisti, operatori, scienziati, intellettuali chiamati a improvvisare su qualsiasi tema non credo che possa fare un buon servizio pubblico. È l'opposto di quello che la Rai ha fatto per lungo tempo» ha proseguito Fuortes, citando gli esempi virtuosi di Sergio Zavoli e Enzo Biagi. Per Fuortes anche il tema dello share va circoscritto: non può essere «l'unico criterio di valutazione di un programma» ha detto, riferendosi al fatto che molti talk ospitano le polemiche per fare più ascolti.

Quelle di Fuortes sul destino dei talk show non sembrano essere solo parole: l'ad ha promesso che la «discontinuità» rispetto al passato sarà presente già nei prossimi palinsesti. Quanto al problema della remunerazione degli ospiti in tv, Fuortes si è limitato a dire che, personalmente, ritiene che non dovrebbe essere prevista. Del tema si sta occupando l'ad insieme con il consiglio di amministrazione e il direttore degli Approfondimenti, Mario Orfeo. 

In Vigilanza è stato anche sollevato il tema della polemica sulla presenza del direttore del Tg2 , Gennaro Sangiuliano, alla Conferenza programmatica di Fratelli d'Italia. Sul punto Fuortes ha chiarito che il direttore aveva chiesto l'autorizzazione per una moderazione, non per un intervento. La questione, ha concluso l'ad, sarà approfondita dalla Direzione Risorse Umane.

All'inizio dell'audizione il presidente della Vigilanza Alberto Barachini ha richiamato l'iniziativa del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) di svolgere «un approfondimento sulla ingerenza straniera e sulla attività di disinformazione, anche al fine di preservare la libertà e l'autonomia editoriale e informativa da qualsiasi forma di condizionamento, con particolare riferimento al conflitto tra Russia e Ucraina».

«L'iniziativa del Copasir - ha detto Barachini - conferma la mia personale convinzione che sia necessaria una policy sugli ospiti della tv pubblica oggetto di una proposta di risoluzione in corso di esame». Fuortes ha annunciato l'accordo con i sindacati sull'informazione notturna dei Tgr che passerà sul web e per la quale sono previste nuove assunzioni. E c'è intesa anche sul lavoro agile e i profili professionali degli inviati.

Alessandro Orsini, curriculum e articoli sotto la lente. "Non ha i titoli per parlare di Ucraina", l'inchiesta di Claudio Gatti. Il Tempo il 05 maggio 2022.

Il professor Alessandro Orsini finisce sotto la lente del giornalista Claudio Gatti. Il docente della Luiss combatte la sua "battaglia culturale" come la definisce spesso in tv contro una narrazione sbilanciata, a suo dire, a favore dell'Ucraina e che nega le responsabilità di Nato e Occidente nel conflitto. L'esperto di sociologia del terrorismo ha raccolto schiere di sostenitori ma anche attirato critiche feroci. 

Con un lungo articolo la Stampa mette sotto la lente curriculum e competenze di Orsini "andando a scavare nel suo percorso scientifico", scrive Gatti che ammette la "sua devozione allo studio" ma punta il dito sulle competenze. Nell'articolo vengono riportaste le affermazioni di un sociologo dell'Università di Torino, Francesco Ramella: "Dietro l'assertività di Orsini, nei Cv che ho potuto visionare online non trovo una singola pubblicazione scientifica sulla materia in cui si cimenta in Tv. Allora mi domando: lo si invita per l'originalità o la profondità del suo sapere scientifico, o perché sa creare un meccanismo morboso di attenzione mediatica?".

Gatti ammette che Orsini ha pubblicato numerose pubblicazioni sul terrorismo rosso, nero e jihadista e sul tema ha avuto importanti incarichi all'Università di Roma Tor Vergata prima di dirigere l'Osservatorio per la sicurezza internazionale della Luiss. "Ma prodotti scientifici di questi due centri non se ne trovano", si legge nell'articolo.

Vengono riportati inoltre altri giudizi non proprio lusinghieri di colleghi sul metodo sociologico usato dal prof nei suoi studi sul terrorismo. "Ho l'impressione che, con il suo lavoro, Orsini voglia costruire delle tipologie e dinamiche generali, per poi applicarle anche in contesti storici dove non funzionano", afferma ad esempio lo storico della Northern Illinois University Brian Sandberg. "Con l'invasione russa dell'Ucraina, i massmedia italiani gli hanno dato l'opportunità di farlo. E lui ci si è buttato a capofitto", conclude Gatti che nell'articolo afferma di aver chiesto a Orsini un dialogo ma questi avrebbe rifiutato. 

Russia-Ucraina, Alessandro Orsini al contrattacco. Siluro a Massimo Giannini: linciaggio da regime. Il Tempo il 05 maggio 2022.

La reazione di Alessandro Orsini all'articolo pubblicato giovedì 5 maggio da La Stampa che mette in dubbio le competenze e i titoli accademici del professore della Luiss che non sarebbe qualificato per parlare della guerra in Ucraina è arrivato nel pomeriggio con un lungo post pubblicato su Facebook. Il docente della Luiss si rivolge direttamente al direttore de La Stampa, Massimo Giannini, e oltre a difendersi sul piano della solidità dei suoi studi e delle sue pubblicazioni accusa il giornale torinese e altri media mainstream di voler portare il Paese verso "qualcosa di simile a una società autoritaria in cui la Costituzione resta immutata, ma coloro che criticano il governo in carica vengono trattati con le stesse tecniche dei regimi non liberi: attacchi personali, affermazioni falsificate e manipolate, aggressioni quotidiane, linciaggi mediatici, denigrazioni e molto altro". 

"Il suo problema non è che io parli dell’Ucraina, ma che io parli male delle politiche degli Usa, dunque della Nato, dunque governo Draghi sull'Ucraina" argomenta Orsini che ricorda che "ci sono centinaia di commentatori in TV sull’Ucraina che non hanno uno straccio di profilo scientifico. Lei però fa scavare soltanto nella mia vita". 

Il docente di sociologia del terrorismo afferma che i titoli accademici "non mi mancano" anche se "non contano niente. Conta soltanto il contenuto di un’affermazione". In ogni caso rivendica che i suoi "libri sono stati pubblicati dalle più importanti università americane. Non basta? Noam Chomsky è uno degli intellettuali più autorevoli del mondo: non ha nemmeno una pubblicazione scientifica sull’Ucraina, ma dice sull'Ucraina cose molto importanti". Insomma, impedire a qualcuno di esprimere un'opinione non è altro che "discriminazione", attacca Orsini che a Giannini, ospite fisso di Otto e mezzo su la7, dice: "Lei parla di Ucraina: che titoli ha sull’argomento?".  

Ma come si spiegano le critiche di vari colleghi riportate nell'articolo di Claudio Gatti? Orsini afferma di aver "denunciato il sistema dei concorsi truccati in Italia alla magistratura e che, per questo motivo", è stato "bocciato mille volte nei concorsi", e quindi è "ovvio" che "baroni della sociologia politica" oggi "parlino male di me".

Poi l'affondo: "Ho l’impressione che il suo quotidiano, in ottima compagnia di altre testate un tempo autorevoli, ci stiano facendo scivolare verso qualcosa di simile a una società autoritaria in cui la Costituzione resta immutata, ma coloro che criticano il governo in carica vengono trattati con le stesse tecniche dei regimi non liberi: attacchi personali, affermazioni falsificate e manipolate, aggressioni quotidiane, linciaggi mediatici, denigrazioni e molto altro", scrive Orsini che denuncia anche la politica che vuole zittire i "pochi intellettuali critici" tramite il Copasir. 

Claudio Gatti per “la Stampa” il 5 maggio 2022.

Ogni crisi fa emergere i suoi esperti. La pandemia ne ha prodotti moltissimi, la guerra in Ucraina, uno su tutti: il Professor Alessandro Orsini. Come nel caso dei virologi, anche lui si è affermato per via della sua casacca di accademico. O meglio ancora, di ricercatore sul campo, o "field researcher", come ama dire in inglese. 

In televisione, il Professor Orsini indossa quella casacca in modo assertivo, impartendo nano-lezioni ricche di termini come «specializzazione delle funzioni», ma andando a scavare nel suo percorso scientifico, emergono una dote e un problema. La dote, unanimemente riconosciuta, è la sua devozione allo studio. Il problema è messo in evidenza dal Professor Francesco Ramella, sociologo dell'Università di Torino. 

«Dietro l'assertività di Orsini, nei Cv che ho potuto visionare online non trovo una singola pubblicazione scientifica sulla materia in cui si cimenta in Tv. Allora mi domando: lo si invita per l'originalità o la profondità del suo sapere scientifico, o perché sa creare un meccanismo morboso di attenzione mediatica?» osserva il sociologo, stigmatizzando «la commistione che avviene in alcuni talk-politici tra il ruolo dell'esperto e quello dell'opinion maker».

Ma da studioso universitario, e più precisamente professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, Orsini un'expertise indubbiamente la ha.

In un campo soprattutto: quello del terrorismo. Ha infatti pubblicato svariate monografie e ricerche "etnografiche" su terrorismo rosso, nero e jihadista. Abbiamo dunque fatto un approfondimento (la versione completa della nostra inchiesta si trova sul sito de La Stampa). 

Il Professor Orsini si è rifiutato di parlarci, ma dal suo Cv si viene a sapere che dal 2013 al 2016 «è stato direttore del Centro per lo studio del terrorismo dell'Università di Roma Tor Vergata» e che dai primi del 2017 è «direttore dell'Osservatorio per la sicurezza internazionale della Luiss», due cariche apparentemente importanti in due istituti universitari di tutto rispetto che hanno lanciato la sua figura mediatica. Ma prodotti scientifici di questi due centri non se ne trovano. 

Nel caso di Tor Vergata, si trova traccia solo di una conferenza tenuta due mesi e mezzo dopo la costituzione del Centro stesso. Null'altro per il resto dei tre anni. Ci viene poi spiegato che la struttura «non ha mai fatto nulla», e che «è rimasto sulla carta». Parole di Franco Salvatori, all'epoca direttore del Dipartimento di Tor Vergata a cui era affiliato il Centro di Orsini.

Quando abbiamo chiesto dettagli al direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, quello al quale sono legati Orsini e il suo Osservatorio di studi sulla sicurezza, ci è stato detto che questo «non è supervisionato dal Dipartimento». Né il Direttore delle relazioni esterne né la Direzione Generale ci hanno saputo dire chi alla Luiss ha finora avuto la responsabilità di supervisionare le attività del centro di Orsini, o quali attività abbia mai svolto l'Osservatorio. Il 30 aprile, la Luiss ha poi comunicato che «i canali di comunicazione dell'Osservatorio da oggi non sono più attivi». 

Continuiamo lo scavo. Laureato in sociologia, con un dottorato in Teoria e storia della formazione delle classi politiche, Alessandro Orsini acquisisce notorietà come esperto di terrorismo grazie al volume Anatomia delle Brigate Rosse, pubblicato sia in Italia sia negli Stati Uniti (dalla prestigiosa Cornell University Press).

In termini di metodologia sociologica, il volume di Orsini offre un qualcosa di molto innovativo, che ha fatto sicuramente colpo sugli americani. Parliamo del cosiddetto Dria (acronimo di Disintegrazione, ricostruzione, integrazione, alienazione), un modello interpretativo del processo di radicalizzazione dei brigatisti che l'autore spiega essere stato «costruito principalmente ricorrendo a testimonianze di brigatisti pluriomicidi», ma grazie anche a deposizioni processuali, risoluzioni strategiche, documenti e lettere private di brigatisti. 

Si può dunque immaginare la sorpresa quando, in un post della pagina Facebook del Professore relativo al successivo libro dell'Isis, si parla del modello Dria e si dice che «si basa sull'analisi comparata della vita di 39 jihadisti che hanno realizzato un omicidio o una strage nelle città occidentali».

Al di là della discordanza sulla sua origine, il modello Dria sarebbe dunque universale. In altre parole, studiando Sociologia a Trento, Renato Curcio avrebbe ideato le Brigate Rosse in base agli stessi meccanismi che, fumando marijuana a Bruxelles fuori dalle moschee salafite, hanno spinto Abdelhamid Abaaoud a ideare la strage del Bataclan. Non siamo i soli ad avere delle perplessità. «Ho l'impressione che, con il suo lavoro, Orsini voglia costruire delle tipologie e dinamiche generali, per poi applicarle anche in contesti storici dove non funzionano», ci dice lo storico ed esperto di violenza religiosa della Northern Illinois University Brian Sandberg. 

Pubblicazioni come questa non hanno aiutato Orsini a ottenere il riconoscimento dei colleghi, che per due volte non gli hanno riconosciuto l'abilitazione al concorso di nazionale di idoneità all'insegnamento universitario di prima fascia di Sociologia politica, quello dei professori ordinari. Ci è riuscito solo al terzo tentativo nel luglio del 2020.

Ma in Sociologia generale.

Nel negargli l'abilitazione da ordinario di Sociologia politica, il suo collega della Luiss, Professor Raffaele De Mucci, ha scritto che nei suoi lavori, «contrariamente all'insegnamento di Weber, è la realtà che deve adattarsi al modello, non viceversa», e ha parlato di «improbabile approccio metodologico». Il Professor Franco Pina, ordinario di Sociologia dell'Università di Torino, ha invece scritto che appare «più proteso a cercare conferme dei suoi schemi interpretativi che a mettere alla prova ipotesi teoriche definite sulla scorta della letteratura o di proprie elaborazioni». 

Mentre il professor Roberto Segatori, sociologo dell'Università di Perugia, ha criticato il suo «certo riduttivismo interpretativo». Questa nostra ricostruzione non fa neppure un cenno alle posizioni prese dal professor Orsini sull'Ucraina, perché non si intende in alcuno modo mettere in discussione la legittimità delle sue opinioni di non esperto in materia. È difficile però non notare che corrispondono a un'esigenza da lui espressa in un volume pubblicato solo negli Usa - quella di «mettere in discussione il pensiero convenzionale su determinati fenomeni politici». Con l'invasione russa dell'Ucraina, i massmedia italiani gli hanno dato l'opportunità di farlo. E lui ci si è buttato a capofitto

Aldo Grasso per corriere.it il 3 maggio 2022.

Luca e Paolo, con una canzoncina delle loro, scuola «Cavalli marci», hanno spiegato in maniera perfetta come funzionano oggi i talk show nel nome del contraddittorio. Meglio di una dissertazione teorica. Luca e Paolo sono i volti comici di «diMartedì», La7. L: «Floris? Siamo d’accordo. È bello il contraddittorio!».

P: «Per esempio no… se io dico che le mele fanno puzzare i piedi…». L: «No, spetta… le mele non fanno puzzare i piedi…». P: «Come no…cosa fai mi vuoi censurare?». L: «No, dico semplicemente che non è vero… stai dicendo una cosa che semplicemente non…». P: «Ah, perché adesso io non posso dire che le mele fanno puzzare i piedi…». L: «No… figuriamoci lo puoi dire, ma proprio non è…». P: «Non solo fanno puzzare i piedi… ma è pure chiaro che dietro il mercato delle mele… c’è la massoneria…». L: «No, guarda no… non c’è la massoneria…». P: «Ah no, non c’è la massoneria, lo dici tu perché segui il mainstream…».

E così via, in meno di tre minuti hanno riassunto tre ore di un dibattito televisivo ai tempi dell’invasione russa dell’Ucraina. Il contraddittorio è una discussione pubblica fra più persone che sostengono e difendono opinioni contrarie: di solito, bisogna aggiungere l’aggettivo «civile» perché non si trascenda. Ma, anche senza passare alle vie di fatto, di civile c’è ben poco, ripensando a tutto l’armamentario retorico usato nei talk: continue interruzioni, sovrapporsi di voci, insulti, baruffe, tafferugli.

D’altronde, senza rissa il talk s’ammoscia. Il talk è teatro perché si fonda su una compagnia di giro (con qualche new entry), sulla creazione fantasmatica del nemico da «uccidere», sulle affermazioni in libertà, senza controllo. Chiude Paolo: «E no, no, ti sbagli… sto proprio dicendo delle scemenze a ca… di cane ma sono sulla televisione italiana, mi pagano un tot a minchiata e se ne dico tante finisco pure in prima pagina… e in tutti i teatri venghino signori, venghino». Sipario.

"È caduto a terra": scoppia la rissa tra Sgarbi e Mughini. Francesca Galici il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

Vittorio Sgarbi sarebbe caduto a seguito di una rissa con Giampiero Mughini, che però ha negato lo scontro fisico con il critico d'arte.

Sarebbe finita in rissa la partecipazione di Giampiero Mughini e Vittorio Sgarbi al Maurizio Costanzo show. Ad anticipare quanto sarebbe accaduto nello storico programma della seconda serata di Canale5 è Dagospia, che è entrato il possesso delle immagini della registrazione del programma al quale erano stati invitati il giornalista e il critico d'arte, che già in passato erano stati protagonisti di uno scontro televisivo molto acceso. La puntata andrà in onda domani sera e non è stato noto se lo scontro verrà tagliato o se, invece, verrà mandato in onda integralmente. A Dagospia, però, Giampiero Mughini ha smentito che ci sia stato qualcosa in più di un violento scontro verbale

Lo scontro tra Giampiero Mughini e Vittorio Sgarbi sul palco del Maurizio Costanzo show sarebbe nato durante una discussione sulla Russia. I due, come spiega anche il sito televisivo Tvblog, "avrebbero assunto fin da subito posizioni agli antipodi". Niente di diverso rispetto a quanto accade regolarmente nei talk show di tutti i palinsesti televisivi italiani, se non fosse che "Sgarbi sarebbe addirittura caduto a terra" a seguito della rissa con Mughini. Così riportano sia Tvblog che Dagospia, che pubblica anche alcuni frame tratti dalla registrazione, in cui si vedono i due in piedi nel pieno fervore della discussione, davanti a una impietrita Iva Zanicchi, anche lei presente in studio durante il dibattito.

Tuttavia, Giampiero Mughini ha contattato Dagospia per fornire la sua verità si quanto sarebbe accaduto al Maurizio Costanzo show, ridimensionando l'entità dell'accaduto: "Le foto che hai pubblicato su quanto avvenuto tra me e Vittorio al teatro Parioli non danno conto di quanto è realmente è avvenuto. Tra noi due s’è solo trattato di diverse sfumature di pensiero e di parola, e semmai di tono della voce, quanto a qualcosa che mi pare attenesse alla guerra in Ucraina e ai suoi infiniti e drammatici annessi e connessi. Nient’altro che questo".

Vittorio Sgarbi ha fornito la sua versione dei fatti al Corriere della sera: "È la seconda volta che, sempre lui, vuole passare alle mani. Io sono un noto polemista verbale, ma mi fermo a quello, fosse anche per un senso estetico". Il critico d'arte ha spiegato che tutto sarebbe nato da una riflessione di Al Bano, "che suscitava qualche mormorio in platea in cui in pratica non sconfessava Putin. A quel punto volevo rovesciare sul piano dialettico la situazione dicendo che il problema non era tanto Al Bano che non poteva più andare a cantare in Russia ma i tanti artisti e sportivi russi che non possono esibirsi qui, in Italia".

A quel punto, però, sarebbe intervenuto Giampiero Mughini, che "risposto ricordando Sala che aveva chiesto al direttore Gergiev di rinnegare Putin per poter dirigere alla Scala, ho ribattuto e Mughini si è alzato per venire a picchiarmi... Io mi sono rovesciato sulla sedia". Alla fine, su rchiesta di Maurizio Costanzo, ci sarebbe stata una pace di facciata: "Abbiamo fatto una sceneggiata perché Costanzo ha detto che se non riuscivamo a fare pace noi come si poteva sperare nella pace tra Russia e Ucraina, quindi abbiamo accettato a malincuore. Mughini, però, invece di darmi la mano ha allungato un pugno chiuso".

Il precedente tra i due risale al 2019, quando i due discuterono animatamente nello studio di Stasera Italia su Rete4. Il quel caso la causa fu la crisi del governo Conte I. Probabilmente l'obiettivo della reunion sul palco del Maurizio Costanzo show era la riappacificazione tra i due che, però, non sembra sia stato raggiunto.

Giuseppe Candela per Dagospia il 3 maggio 2022.

È finita a mazzate tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini. Una rissa, accennata da Tvblog, avvenuta oggi pomeriggio durante la registrazione del "Maurizio Costanzo Show", in onda domani sera in seconda serata su Canale 5. Tensione esplosa durante un dibattito sulla Russia, con successivo scontro fisico e caduta per terra di Sgarbi. Dagospia mostra in esclusiva le prime immagini. I due erano già arrivati allo scontro fisico nel 2019 durante una puntata di Stasera Italia.

Caro Dago, le foto che hai pubblicato su quanto avvenuto tra me e Vittorio al Tearo Parioli non danno conto di quanto è realmente è avvenuto. Tra noi due s’è solo trattato di diverse sfumature di pensiero e di parola, e semmai di tono della voce, quanto a qualcosa che mi pare attenesse alla guerra in Ucraina e ai suoi infiniti e drammatici annessi e connessi. Nient’altro che questo. Giampiero Mughini

Chiara Maffioletti per corriere.it il 3 maggio 2022.  

(...) Sgarbi: «Sono esterrefatto: è la seconda volta che, sempre lui, vuole passare alle mani (era successo nel 2019 a Stasera Italia, ndr .). Io sono un noto polemista verbale, ma mi fermo a quello, fosse anche per un senso estetico». Cosa ha fatto degenerare la situazione? «In puntata Al Bano ha fatto una riflessione coraggiosa ma che suscitava qualche mormorio in platea in cui in pratica non sconfessava Putin. 

A quel punto volevo rovesciare sul piano dialettico la situazione dicendo che il problema non era tanto Al Bano che non poteva più andare a cantare in Russia ma i tanti artisti e sportivi russi che non possono esibirsi qui, in Italia. Mughini ha risposto ricordando Sala che aveva chiesto al direttore Gergiev di rinnegare Putin per poter dirigere alla Scala, ho ribattuto e Mughini si è alzato per venire a picchiarmi... Io mi sono rovesciato sulla sedia». 

La finta pace

Tutto per uno scambio su Putin, quindi? «Sì. La rissa è stata vissuta da tutti con aria esterrefatta. Io ho ricevuto molti applausi. Tra l’altro Mughini mi ha attaccato anche poco dopo, abbiamo litigato ancora ma solo verbalmente, per le mie posizioni sul Covid, che sono poi anche quelle di Bassetti, quando ho detto che chi usa la mascherina dubita dei vaccini. Mi aveva attaccato indirettamente anche parlando male di Carmelo Bene, di cui era stata riproposta una rissa, dicendo che era cattiva televisione. Ripeto, io non posso certo rinnegare quelle verbali, sono per le tv dell’imprevisto, che rompe gli schemi. Ma tendo a evitare anche solo per ragioni estetiche i pugni... dopo la lite con Mike, però, mi sono premurato di chiedere che non taglino questo spezzone. Non lo faranno». 

Ma alla fine vi siete chiariti? «Abbiamo fatto una sceneggiata perché Costanzo ha detto che se non riuscivamo a fare pace noi come si poteva sperare nella pace tra Russia e Ucraina, quindi abbiamo accettato a malincuore. Mughini, però, invece di darmi la mano ha allungato un pugno chiuso».

LA REPLICA DI SGARBI A DAGOSPIA il 3 maggio 2022.

Come vedrai (domani sera al Costanzo Show), difendendo artisti, musicisti, sportivi, sono stato insultato, aggredito e buttato per terra da Mughini che pretendeva che un direttore d’orchestra per suonare si dichiarasse contro Putin, dimenticando che gli sportivi che lo avevano fatto non sono comunque stati ammessi a giocare.

Inutili le sue smentite: le immagini implacabili dimostreranno che lui si è alzato per venire alle mani, e mi ha spinto facendomi travolgere da sedie e quadri.

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 maggio 2022.

Caro Dago, ti chiedo una piccola cortesia. Siccome è un’intera mattinata che ricevo telefonate e mail in cui mi chiedono che cosa sia accaduto davvero ieri pomeriggio sul palco dei Teatro Parioli dove stavamo registrando una puntata celebrativa del quarantennale del Costanzo show, approfitto delle tue pagine per dare una risposta che valga per tutti coloro che mi si sono rivolti a farmi la domanda di cui ti ho detto. 

Sono arrivato in un’età in cui la mia memoria seleziona categoricamente le cose rilevanti da quelle che non lo sono. Delle prime mi ricordo fin nei dettagli. Le seconda le cancello completamente. Ebbene non ricordo nulla di rilevante che sia accaduto ieri al Parioli. Se non il piacere di rivedere vecchi amici quali Maurizio Costanzo in primis, Paolo Bonolis. Luca Laurenti, Al Bano, Vittorio Sgarbi, Iva Zanicchi. Non ricordo assolutamente null’altro. Giampiero Mughini

Da professionereporter.eu il 2 maggio 2022. 

Cortesie fra giornalisti. Il tema sono le conferenze stampa trasformate, talvolta, in interviste.

27 aprile, Greta Privitera, collaboratrice del Corriere della Sera, pubblica un intervista -domande e risposte- con il vice premier della Moldavia, Nicu Popescu, sulla situazione nella Transnistria filorussa. 

28 aprile, Tonia Mastrobuoni, corrispondente de la Repubblica da Berlino, su Twitter attacca: “Questa non è un’intervista anche se il atCorriere l’ha vestita così. È una conferenza stampa alla quale ho partecipato anche io, oltre a decine di altri giornalisti. Un appello: aboliamo le finte interviste? Che ne dici atGretaPrivitera?”. Giovanni Armanini ribatte: “Nuovi generi letterari”. E Tornabuoni: “Purtroppo antichissimi, caro Gio”. 

A questo punto, in difesa di Privitera, interviene Davide Frattini, corrispondente dal Medio Oriente del Corriere. Rivolgendosi a Tornabuoni, twitta: “Beh antico almeno fino al 2012, quando un incontro con Papandreou – dov’è c’eravamo tutti (Sole, Repubblica + 4 giornali stranieri) e credo quindi si possa definire conferenza stampa – diventò questa tua “intervista”. Citando un’intervista di Tornabuoni sulla Stampa all’ex premier greco Papandreu. 

Risponde Tornabuoni: ”Non ho mai camuffato una conferenza stampa da intervista. In quel caso concordammo un incontro in pochi con Papandreou. Le interviste in più colleghi stranieri si fanno regolarmente, una conferenza stampa è proprio un’altra roba”. 

Sempre 28 aprile, anche Privitera aveva twittato: “Cara collega, cosa non si capisce dell’attacco: ‘Popescu ha convocato un incontro con la stampa’? Nessuno l’ha spacciata per intervista esclusiva. In più, dopo l’incontro, ho parlato con il portavoce che sento dall’inizio della guerra e che mi ha fatto fare altre domande”. 

Tornabuoni: “Non erano le tue domande, ma quelle di decine di colleghi. In tutti i giornali seri del mondo, in tutte le agenzie che ieri hanno ripreso le sue dichiarazioni non ce n’è uno che l’abbia mascherata da intervista. Smettiamola di fare i furbi, once for all”.

Mughini e Sgarbi, i due moschettieri. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2022.

Trent’anni fa, vedendo Mughini e Sgarbi bisticciare in qualche talk show, ci si chiedeva: chi bisticcerà tra trent’anni al posto loro? Sempre loro. Siamo un Paese dove non c’è ricambio generazionale nemmeno nelle risse televisive. Li ho osservati in azione sul palco di Costanzo, mentre si scambiavano parolacce e spintoni per qualche ragione che non ricordo già più, davanti a un Al Bano allibito che al confronto sembrava il maestro di Karate Kid.

Loro invece facevano venire in mente i vecchietti terribili del Muppet Show o i capifamiglia del paese di Don Camillo che si scazzottano nonostante l’artrosi. Ma quelli almeno avevano l’alibi dell’ignoranza. Sgarbi e Mughini sono maledettamente colti. Hanno aperto migliaia di libri, leggendoli per davvero quasi tutti. Hanno visitato centinaia di mostre e speso gran parte della loro vita nella frequentazione della bellezza.

Se dovessi augurarmi qualcosa per l’avvenire di mio figlio, vorrei che capisse d’arte e di tanto altro (politica esclusa) come Sgarbi e di letteratura e di tanto altro (calcio escluso) come Mughini. Ma allora perché si riducono ogni volta a mettere in scena la versione macchiettistica di sé stessi? Per restare fedeli a un personaggio? Per paura di invecchiare?

Temo c’entri purtroppo il carattere. E dico purtroppo perché Sgarbi e Mughini sono la prova vivente che la cultura non rende più saggi, ma si limita a rinforzare chi lo è già. Perciò regalerò l’opera omnia di Heidegger ad Al Bano.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 maggio 2022.

Caro Dago, sii così cortese da farmi da vettore di una missiva che non saprei come altrimenti fare arrivare al mio vecchio amico Massimo Gramellini. 

Caro Massimo, mi spiace che nei tanti anni in cui ci conosciamo fin dal giorno in cui mi invitasti alla festa del tuo matrimonio con Maria Laura tu si sia occupato di me e della mia possibile “artrosi” (non ne soffro minimamente forse in ragione dell’essere stato un atleta di tutto rispetto) solo in occasione di un episodio trascurabilissimo e di certo quanto di più lontano dalle mie abitudini e dalla mia indole.

Ti è mai capitato altre volte di vedermi litigare o lanciare insulti a qualcuno? Ti è mai capitato?, dimmelo. Tutto il contrario, non rispondo mai nemmeno agli insulti via cartacea. Beniamino Placido mi ha insultato per anni dalle pagine di un quotidiano italiano lettissimo, mai una volta ho replicato. Solo quando incontrai la sua ex moglie e mia cara amica Nadia Fusini, le dissi di riferire a Beniamino che se lo avessi incontrato in carne e ossa gli avrei fatto fare il giro di Piazza Navona a calci in culo. Ma la mia era solo un’iperbole, io a Beniamino volevo bene e come avrei potuto altrimenti con l’intelligenza e l’ironia che si ritrovava?

Se io soffro di una qualche certa libidine del battagliare contro Vittorio Sgarbi? Ma non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Oltretutto io condivido la buona parte delle sue “tirate”. A dirla con Carlo Michelstaedter io condivido la sua capacità di “persuasione”, non la sua “rettorica” (l’avere quel meraviglioso libro di Michelstaedter in prima edizione è uno dei vanti della mia biblioteca). Allo stesso modo condividevo la sua “tirata” , quella sera al Parioli, contro il fatto che nelle competizioni internazionali sia posto un veto agli atleti russi. Che incredibile porcata, e del resto ne avevo scritto in questi termini in casa Dago.

C’era solo una sfumatura di pensiero che ci divideva, un’inezia. Solo che d’un tratto dalla sua bocca è venuta fuori a ripetizione la parola “imbecille” rabbiosamente indirizzata a me. A ripetizione. Tu che sei un uomo d’onore, caro Massimo, che cosa avresti fatto? Avresti porto elegantemente l’altra faccia? Non credo. E difatti io mi sono limitato a fare due passi in avanti e dargli una spintarella, giusto una spintarella. Una spintarella che m’è venuta proprio bene dato che non soffro minimamente di “artrosi”. Tutto qui. Mille cose buone, caro Massimo. 

Ps. Alcuni poveracci che hanno perso l’occasione di tacere hanno parlato di una “mischia furibonda” tra me e Vittorio ovviamente mai esistita. Poveracci. Giampiero Mughini

Francesco Boezi per “il Giornale” il 5 maggio 2022.

È finita in rissa tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini. Qui a fianco la sequenza di quanto accaduto martedì pomeriggio al teatro Parioli di Roma, durante la registrazione del «Maurizio Costanzo Show», in onda ieri sera su Canale 5. 

La tensione è esplosa durante un dibattito sulla Russia, con successivo scontro fisico e caduta per terra del critico d'arte. I due erano già arrivati allo scontro nel 2019 durante una puntata di «Stasera Italia». La pace è stata imposta dal conduttore: «Come è possibile sperare in una pace tra Russia e Ucraina se non siete in grado di farla voi?». I due polemisti hanno acconsentito, pur loro malgrado. Ma Sgarbi lamenta: «È lui che è passato alle mani. Io non passo mai allo scontro fisico, quantomeno per estetica» 

Giampiero Mughini difende la scelta della Ue di inviare armi in Ucraina e delimita i ragionamenti della sinistra alla Santoro. La Pace proibita di Michele Santoro è il ritorno della sinistra massimalista?

«Lasciamo perdere le definizioni troppo affrettate. Diciamo che i personaggi in questione, da Michele Santoro a Sabina Guzzanti, lo sappiamo da sempre a quale latitudine se ne stanno scolpiti come nella pietra. Detto questo, il dramma con cui ci stiamo confrontando è molto complesso. Non è facile uscirne con una sola verità pronunciata a voce alta una volta per tutte».

Da che partito è rappresentata tale area?

«Per certi aspetti dal Movimento 5 Stelle, e ammesso che loro siano in grado di rappresentare qualcuno». 

Poi ci sono posizioni come quella di Orsini.

«Nell'analisi del professor Alessandro Orsini, che è persona rispettabilissima, c'è un'atroce verità. Che se colpisci gravemente l'Armata Rossa c'è il rischio di una sua reazione bestiale».

Però lei concorda sull'invio di armi in Ucraina da parte dell'Ue.

«Se c'è una guerra in cui qualcuno ha aggredito qualcun altro, mi sembra elementare il dover aiutare l'aggredito in modo che non debba trattare da posizioni di estrema debolezza. L'Unione europea è fatta da Paesi molto diversi tra loro. E con tutto questo l'Ue è stata molto compatta, a cominciare dall'avere deciso tutti assieme e le sanzioni e l'invio delle armi». 

Come interpreta la prospettiva occidentale?

«Noi dobbiamo convivere pacificamente con la Russia e comprenderne al meglio le ragioni. E tanto più che se si formasse un'alleanza anti-occidentale russo-cinese-indiana allora sì che sarebbero ca...amari. Non dimentichiamoci che i nostri sono Paesi dove se decidi di risparmiare abbassando di un grado il riscaldamento consentito, in molti si mettono a piangere. Da quell'altra parte, dico in Russia, sono assuefatti al salario medio di 400 euro».

Si tratta di uno spartiacque per l'Occidente.

«C'eravamo acquartierati in una pace che durava da oltre mezzo secolo. Adesso la parola è passata ai cannoni e ai droni. Per non dire di peggio, il che è tuttora possibile». 

Come sta la globalizzazione?

«A me la globalizzazione sembrava un fenomeno positivo. Che i russi venissero a passare la vacanze nei luoghi più belli d'Italia, mi sembrava un'ottima cosa. E a questo proposito sto attento a quel che fanno e pensano i russi più ricchi. Com' è che in poche settimane ne siano morti ben sette in condizioni misteriose? È in quegli ambienti che si sta muovendo qualcosa di anti-Putin?». 

Che ne pensa di Zelensky?

«Un uomo che non aveva un curriculum politico di eccellenza ma che quando la situazione s' è fatta dura ha mostrato carattere. Nelle prime settimane dell'offensiva sovietica e quando noi tutti pensavamo che quell'offensiva avrebbe avuto la meglio in poche settimane, lui ha detto di non avere bisogno di "un passaggio" per filarsela via e bensì di armi per resistere».

Si fa un gran parlare di «antisemitismo» da parte russa.

«Al momento, checché ne dica Lavrov, l'antisemitismo non ha nulla a che vedere con quel che sta succedendo in Ucraina. E dire che Lavrov passava per un uomo intelligente agli occhi degli uomini politici occidentali che lo avevano frequentato. Forse parla al modo in cui lo ha fatto su ReteQuattro perché altrimenti Putin lo spedirebbe dritto filato in Siberia». 

Lo scoop di Giuseppe Brindisi?

«Ha fatto benissimo, anche se forse la parola "intervista" non è la più giusta». 

Papa Francesco vuole incontrare Putin.

«Il Papa si barcamena e temo che a differenza di Giovanni Paolo II il suo ruolo non sarà determinante in questa occasione».

Barbara Visentin per corriere.it il 4 maggio 2022.

Uno spettacolo non degno di due uomini di cultura: così Al Bano riassume la rissa che ha visto protagonisti Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini nella puntata del «Maurizio Costanzo Show» che andrà in onda questa sera. Il cantautore di Cellino San Marco era presente all’alterco ed è stato anzi involontariamente la miccia che ha fatto degenerare la situazione. 

Al Bano, ci spiega che cosa è successo?

«Tutto è nato perché Maurizio Costanzo mi stava intervistando sul tema del buon Putin e ancor prima che potessi rispondere, non richiesto è intervenuto il signor Mughini. È scoppiata una rissa pazzesca, sono abbastanza sconvolto. Spiace vedere due uomini coltissimi che si azzuffano come fosse una rissa da bar di periferia». 

Ma qual è stata la  dinamica?

«È stato Mughini che si è alzato ed è andato verso Sgarbi, Sgarbi a quel punto si è alzato a sua volta, sono volate parolacce e spinte. Ma se non tagliano la scena la vedrete in tv: è stato uno scontro Muhammad Ali - Mike Tyson» 

A quel punto lei è intervenuto?

«Sono intervenuto con Iva Zanicchi, ma siamo intervenuti tutti per sedare questa vicenda anche pericolosa per certi aspetti perché Sgarbi è caduto indietro con la sedia, spinto da Mughini, e un quadro è caduto a 5 centimetri da Sgarbi. È stato incredibile e inaspettato». 

Quindi è stata proprio una cosa fisica?

«Certo, fisica, fisica, ma anche le parole è meglio dimenticarle, sono volate tante parolacce, una scena per niente elegante, sentire quel tipo di linguaggio neanche da estrema periferia da due uomini di grande cultura». 

Come si spiega l’accaduto?

«Sicuramente c’è della ruggine vecchia fra loro due che è tornata a galla. Uno che non sopporta l’altro, mondi diversi. Alla fine il buon Costanzo ha cercato di mediare, ha detto “datevi un segno di pace”, nessuno dei due era d’accordo, ma in nome delle telecamere c’è stato un saluto con il pugno».

Cosa stava dicendo su Putin per far scattare questa reazione in Mughini?

«Stavo incominciando a rispondere, l’argomento era interessante, ma non ho fatto in tempo a proseguire che Mughini mi ha interrotto dicendo “gli esponenti di musica leggera non devono parlare di politica”. Ma chi cacchio sei tu per dirmi cosa devo dire io? L’ho trovato un gravissimo errore interrompermi così. Sgarbi ha preso le mie difese e poi abbiamo perso il filo del discorso». 

Vorrebbe ricevere delle scuse da Mughini?

«No, no, per l’amor di Dio, io sono tranquillo. Mughini poi è venuto a dirmi che non era contro di me. Ma certo vedere due uomini di cultura che si scontrano come pugili alle prime armi non lo accetto. C’è l’arma dell’intelligenza, perché arrivare alle mani con parolacce irripetibili? Come uomini di cultura sono entrambi da 10 e lode, come pugili sono da zero sotto zero». 

Qualche settimana fa lei ha detto che non andrà più a suonare in Russia.

«L’ho detto e lo confermo. Attenzione: parlo della Russia di Putin, non della Russia dei russi. Ero un grande fan di Putin, un grande fan. Ma vedere i carri armati che violentano una terra non mi sta bene come essere umano che vive la realtà di questo periodo. Putin avrebbe anche ragione perché l’America non è giusto che invada pacificamente un territorio come l’Ucraina che di fatto sta sotto la Russia e la Nato ha le sue intelligenti colpe, ma doveva giocare di attesa, temporeggiare».

Spera nel Papa, che ha detto di voler incontrare Putin?

«Mi auguro che il Papa riesca a fare un miracolo, è già in odore di santità. Ma con Putin, oggi come oggi, è un po’ difficile».

Iva Zanicchi in mezzo a Sgarbi e Mughini: panico puro durante la rissa, la sua frase sottovoce. Libero Quotidiano il 05 maggio 2022.

Alla fine la rissa tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini al Maurizio Costanzo Show è andata in onda, e il video è diventato virale sui social dopo 24 ore di indiscrezioni, retroscena e ricostruzioni fornite dai testimoni oculari presenti in sala. In quella manciata di lunghissimi secondi, a fare impressione sono soprattutto le facce degli altri ospiti sul palco. 

Innanzitutto, Iva Zanicchi. Lei è seduta tra Sgarbi e Mughini, e quando i due arzilli galletti si alzano per suonarle, l'Aquila di Ligonchio li guarda stranita, non credendo forse ai suoi occhi. Quando i tuttologi si mettono le mani addosso, per davvero, Iva si mette le mani sul volto e sulla testa. Poi trova il coraggio di dire, sottovoce: "Mi sono seduta nel posto sbagliato". Accanto a lei c'è Giuseppe Cruciani, il conduttore della Zanzara che della rissa (verbale) ha fatto un tratto distintivo. Ma stavolta è stato troppo anche per lui. Resta seduto a lungo, poi quando tutto sembra placarsi Mughini riprende a insultare Sgarbi al grido "ti prendo a calci" e in quel momento Cruciani gli si avventa contro per trattenerlo, temendo il peggio.  

Dall'altro lato del palco c'è Al Bano, le cui parole su Putin hanno scatenato l'inferno (fatto singolare, né Sgarbi né Mughini, di fatto, sostengono tesi diverse dalle sue. Semplicemente, i due litiganti hanno litigato per il gusto di farlo). Il crooner di Cellino San Marco è il primo a soccorrere Sgarbi, stramazzato al suolo dopo lo scontro fisico. E in fondo, Paolo Bonolis, spesso condannato per la sua tv giudicata troppo "trash" se la ride sotto i baffi. Per una volta, è solo spettatore.

Vittorio Sgarbi contro Mughini, "parlavano di Putin poi il pugno in faccia". Il testimone oculare della rissa. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Al Maurizio Costanzo Show c'è stata una rissa. Una tele-rissa: Giampiero Mughini e Vittorio Sgarbi sono arrivati alle mani, come accadde nel 2019 quando su Rete 4, nel programma di Giuseppe Brindisi, volarono le sedie. La spiffera su quello che è accaduto al Maurizio Costanzo Show arriva da Dagospia, ma nella Suite 102.5 - in radiovisione su RTL 102.5 - Gabriele Parpiglia (autore televisivo) svela i particolari inediti della rissa tra Sgarbi e Mughini al Maurizio Costanzo show (che andrà in onda domani sera).

"Cosa è accaduto? Mughini, in versione ultrà, al Maurizio Costanzo show mentre si parlava con Al Bano di Putin e se fosse giusto o meno eliminare gli sportivi dalle competizioni, se fosse giusto andare a cantare per Putin quando si poteva (tra l’altro non è andato solo Al Bano, sono andati tantissimi altri cantanti italiani e sportivi). Sgarbi, allora, inizia a difendere la categoria di chi non doveva essere eliminato (gli sportivi non c’entrano niente). Mughini, a quel punto, come quando un toro vede rosso, inizia a offendere Sgarbi, che replica bloccandosi su una parola ben precisa che non ho il coraggio di ripetere. A quel punto Mughini si alza, Sgarbi si alza e Mughini si avvicina e gli dà un destro", racconta Parpiglia. "Dalle fotografie non si capisce. Dopo cerca di prenderlo per la gola, Sgarbi non se l’aspettava, cade a terra dietro i suoi quadri esposti…. Si vedono addirittura i calzini rossi di Sgarbi che fa un volo"

Grazia Sambruna per mowmag.com il 4 maggio 2022.

"È successo tutto in un lampo, neanche il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo e già quei due anziani si stavano menando di brutto". 

Così Marco Salvati, storico autore di Paolo Bonolis, ci racconta le botte da orbi tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini durante la registrazione del Maurizio Costanzo Show, a cui lui ha assistito, in rappresentanza del team di Avanti un altro, dalla prima fila del Teatro Parioli di Roma.

La puntata, celebrativa dei 40 anni del programma, andrà in onda questa sera, mercoledì 4 maggio, a partire dalle 23.45 su Canale 5 e, con ogni probabilità, conterrà anche l'alterco tra i due riottosi intellettuali televisivi in versione estesa. Le prime immagini della lite, sono già state diffuse da Dagospia e hanno inevitabilmente fatto il giro del web. 

Ma non abbiamo resistito alla tentazione di farci raccontare questa epica vicenda da un prestigioso testimone oculare come Marco Salvati che ci risponde mettendo subito le mani avanti: "Quella scena è stata uno choc e proprio perché è stata uno choc, forse qualcosa ho rimosso. Ricordo bene, però, le risate che ci siamo fatti con Paolo (Bonolis, ndr) per l'assurdità dell'intera vicenda, non riuscivamo a smettere!". 

Non dubitate, amanti del trash, possiamo assicurarvi che, choc o no, i retroscena e gli aneddoti che l'autore ci ha regalato siano davvero più precisi di un foglio Excel. E no, garantisce lui: "Non si è trattato di una finta, quei due si sono menati sul serio!". 

Allora, cos'è successo?

Sgarbi stava presentando due opere d'arte, una del Canova e l'altra del Cagnacci, riprodotte su tela. A un certo punto ha detto di essere felice di parlare di queste cose così belle, durante il periodo di guerra che il mondo sta attraversando, citando poi il conflitto tra Russia e Ucraina, ovviamente. Da qui, il finimondo.

Come mai?

Bella domanda! La situazione si è resa subito convulsa ma, da quello che sono riuscito a evincerne, Mughini ha reagito male al fatto che Sgarbi avesse citato l'Ucraina perché l'aveva ritenuta un'uscita fuori luogo: il contesto era la celebrazione dei 40 anni del Maurizio Costanzo Show e parlare di guerra non c'entrava nulla, insomma. Ne è nata una piccola disquisizione sulla pace ma qualcosa deve essere andato storto perché Sgarbi si è acceso in 3,2,1 ed è intervenuto in modo verbalmente molto aggressivo... La rissa, insomma, è partita mentre stavano entrambi parlando di pace. Bellissimo. 

Concordiamo. Le parole scatenanti le ricorda? 

Prima di tutto, Sgarbi ha dato a Mughini del coglione. O qualcosa del genere. Di sicuro, subito dopo, gli ha gridato anche: "Rottinculo". Poi si è alzato in piedi, dall'alto dei suoi quasi 70 anni che avrebbe compiuto di lì a poco (l'8 maggio, ndr) e anche Mughini, 81enne, ha lasciato la sedia, come fossero agli angoli di un ring. Subito hanno iniziato a spintonarsi a vicenda. Se da questo spintonamento, Mughini ne è uscito con un piccolo caracollio che lo ha fatto retrocedere di un paio di passi, Sgarbi invece è rovinosamente caduto all'indietro e non solo: una delle due tele, quella del Cagnacci, gli è pure cascata addosso. 

E in tutto questo, Cruciani?

In tutto questo Cruciani non ha fatto un cazzo e si è goduto la scena. 

Anche lei se l'è goduta?

Non saprei dire... È stato uno spettacolo imbarazzante. Quindi meraviglioso. Vi ho assistito sentendomi travolto: tra il divertito e lo stupefatto. 

Non le ha dato l'impressione di una telerissa finta, di qualcosa di organizzato a tavolino?

Assolutamente no. L'ho detto subito ai miei vicini della prima fila: "Sta succedendo davvero, questi due anziani malconci si stanno menando sul serio!". 

E poi com'è finita?

Beh, li hanno divisi e hanno mandato la pubblicità.

Durante la pausa pubblicitaria lo scontro, almeno verbale, è proseguito?

No. Anche perché, come si vedrà nella puntata di questa sera, Costanzo ha furbescamente fatto sedere al posto di Sgarbi un campione di pugilato. Vittorio, a quel punto, è subito sceso in prima fila con noi, in modo da poter stare ancora più lontano da Mughini. Ma c'è un colpo di scena... 

Speriamo sia un degno di quanto occorso finora...

Sì. Devo dire che alla fine i due, come se nulla fosse appena successo, si sono comportati da gentiluomini, stringendosi la mano. "Non è la prima volta che ci affrontiamo", si sono detti. E Sgarbi, intelligentemente, ha chiuso dicendo: "Se neanche due singole persone riescono a essere civili parlando del conflitto, figuriamoci quanto potrà essere difficile trovare un accordo per due intere nazioni!". Lì, è partito l'applauso. 

Tra i due chi era Putin e chi Zelensky?

Beh, è partito tutto dall'aggressione di Sgarbi, quindi in questo senso lui è stato il Putin della situazione (ride, ndr). Anche se poi è quello che ci ha rimesso di più, cascando a terra così rovinosamente. Inoltre, per quello che ho capito dalla concitazione del momento, devo dire che Mughini e Sgarbi non è che avessero pareri contrastanti o fossero "avversari". Si stavano entrambi dichiarando neutrali, auspicando la pace. Non c'era nessun tipo di contrasto, fino a che... è scoppiata la rissa. 

Quindi si sono menati pur essendo d'accordo?

Sì. E andata esattamente così. Molto cringe. 

Ma in tutto ciò, secondo lei, le risse in tv "funzionano" ancora o hanno fatto il loro tempo?

Personalmente, a me diverte il sangue. Sono una specie di Cruciani che si trattiene molto perché facendo tv, certe cose le devo censurare. Non ho mai fatto una televisione "rissaiola", a meno che Ciao Darwin possa rientrare in questa definizione ma non credo: quel programma è un gioco dove non si è mai menato nessuno. L'unica mia perplessità sul momento è stata quella di interrogarmi in merito all'opportunità di mandare in onda questa patetica rissa tra signori âgée. Ma, fortunatamente, non era un problema mio. 

E se invece lo fosse stato? L'avrebbe mandata in onda?

Sì. La notizia è uscita subito quindi non si poteva più evitare la messa in onda. Sarebbe folle tagliarla, a questo punto. Anzi, addirittura si potrebbe parlare di censura. Il problema si sarebbe posto realmente se non se ne fosse saputo niente, ma oggi con i social, gli smartphone e via dicendo... sarebbe stato impossibile che non se ne parlasse già durante la stessa registrazione. 

A maggior ragione, mi perdoni se torno su questo punto, non può proprio essere stata una mossa per lanciare il programma?

No, assolutamente. Oddio, Sgarbi durante la rissa aveva in mano il suo nuovo libro su Raffaello. Quindi non saprei, magari avrà voluto immolarsi in nome della sua stessa opera. Ma davvero non credo che sia così pazzo (ride, ndr).

Tra l'altro: da quel che lei ha potuto vedere, Sgarbi si è fatto male sul serio cadendo?

Ne dubito. Appena sceso dal palco, è venuto a sedersi proprio di fianco a me: non aveva ferite né contusioni. Comunque, davvero: non so ancora se continuare a ridere o sentirmi sotto choc. In ogni caso, non essendosi poi fatto male nessuno, a maggior ragione si può dire: tutto bellissimo.

Fabrizio Biasin per “Libero Quotidiano” il 6 maggio 2022.

Ma che cazzo avete combinato?

«Perché "avete"? Io che c'entro?». 

Vuoi dirmi che non era tutto organizzato? Che non ne sapevi niente? Ma cosa abbiamo, l'anello al naso?

«Ma sei pazzo? Ma quale organizzato, ma ti pare? Stava procedendo tutto nella massima serenità, poi quei due sono esplosi ed è successo quello che è successo».

"Quei due" sono Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini, l'intervistato, invece, è Giuseppone Cruciani, testimone oculare della tele-rissa che tutto il mondo-parlare-fa (si fa per dire) e che è andata in scena mercoledì notte al Maurizio Costanzo Show. 

Dai, racconta.

«Beh, che tra i due non corra buon sangue lo sanno tutti da tempo. Nel 2019 da Brindisi (conduttore di Rete4 ndr) andò in scena il primo round ma riuscirono a dividerli in tempo».

Stai dicendo che Costanzo li ha messi sul palco per fare il secondo round?

«Ma neanche per idea! Non c'era la minima avvisaglia, nessun principio di ostilità, poi ci siamo messi a parlare delle sanzioni agli artisti russi e...». 

...ed è scoppiato il casino...

«Sgarbi gli ha dato dell'imbecille e al primo imbecille Mughini è scattato...». 

...Tipo Jacobs a Tokyo 2020... Ma secondo te c'era premeditazione? Cioè, voleva dargliele davvero?

«Ma no! Nessuno voleva la rissa, né gli autori, né Costanzo e neppure i due. Sgarbi, per dire, non si aspettava l'aggressione e infatti si è fatto trovare impreparato...».

È andato giù al primo colpo, effettivamente Rocky era un'altra cosa...

«È caduto all'indietro e all'inizio ci siamo spaventati: ha perso gli occhiali, gli è caduto un finto quadro in testa...». 

Curiosa questa cosa del quadro che cade in testa a Sgarbi.

«Eh, pare una metafora». 

Poi ti sei messo in mezzo a fare da paciere come un Fabio Fazio qualunque, da te non ce lo aspettavamo francamente.

«Al Bano ha "raccolto" Vittorio, io ho preso Giampiero e in qualche modo l'ho salvato». 

In che senso?

«Se andava avanti faceva danni più gravi di quelli che ha fatto. Gli ho evitato guai peggiori. Io sono da sempre perla filosofia "evviva lo scontro verbale", ma mai quello fisico». 

Che ti ha detto Mughini?

«Mi ha detto "se uno viene insultato cosa deve fare?", gli ho risposto "digli tutto quello che vuoi ma non andare oltre". Chi mette le mani addosso passa automaticamente dalla parte del torto, Mughini ha sbagliato».

Quindi stai dalla parte di Sgarbi?

«Non sto dalla parte di nessuno, ma non mi piacciono le mani addosso. Evviva il trash talking e la rissa verbale, ma non si deve andare oltre». 

Beh, anche sul linguaggio c'è un limite.

«Ma va, ci sta che un conflitto tra due "nemici" venga risolto con epiteti liberatori». 

Costanzo come l'ha presa?

«Ha insistito perché i due facessero pace e, infatti, alla fine si sono dati il "pugnetto" ma, ti dirò, non erano troppo convinti... Diciamo che è stata una finta pace». 

E Bonolis?

«Era molto divertito. Mi ha detto "è stato uno dei momenti televisivi più belli di sempre". Anche io, ti dirò, mi sono più divertito che scandalizzato». 

Ne ero certo. E Al Bano?

«Ha detto che era scioccato, ma poi ha cantato serenamente la sua canzone. Anzi, la trasmissione in generale è andata avanti tra i sorrisi. Pure la Zanicchi ha cantato». 

Insomma, un fuoco di paglia.

«In realtà i due si sono beccati anche sul tema mascherine, ma lì si è messa in mezzo la Zanicchi ed è tornata subito la calma».

Mica male il Costanzo Sciò...

«Eh, la prima puntata c'è stato Santoro contro Mentana, la seconda Mughini-Sgarbi, chissà la terza!». 

Che mi dici dei criticatissimi talk italiani?

«Ah, guarda, io sono assolutamente "pro": è giusto che in tv vadano i putiniani, è giusto che questa sorta di "teatro delle opinioni" dia spazio a tutte le voci. Da questo punto di vista siamo meglio noi di tanti altri Paesi».

Non si rischia di esagerare?

«La verità è che queste trasmissioni sono viste sempre dallo stesso numero di persone, un milione o poco più, una piccola parte di italiani che vuole il contraddittorio. E se uno dice "io non partecipo perché ci sono Tizio e Caio" stia pure a casa e non rompa i coglioni».

E sulla questione "ospiti a pagamento" con chi stai?

«Ma che problema c'è se uno viene pagato? All'inizio uno viene gratis perché ha bisogno di visibilità, poi è normale che riceva un compenso per il tempo impiegato e tutto il resto. Alcuni dicono che i soldi condizionano le ospitate ma, credimi, è una cazzata». Io credo in te sempre, Giuseppe.

Rissa al Costanzo Show con Mughini, Sgarbi: “Mi ha aggredito come Putin con l’Ucraina”. Scontro sulla guerra tra il critico d'arte e il giornalista. E' il secondo round dopo la lite furiosa nel 2019 negli studi di Stasera Italia. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 4 maggio 2022.

Sgarbi contro Mughini, capitolo secondo. Eh si, perché non era bastata la lite furiosa nel 2019 negli studi di Stasera Italia, con tanto di sedie tirate e insulti da una parte e dall’altra. Ne è servita un’altra, a regolare i conti tra il critico d’arte più famoso d’Italia, 69 anni, e il giornalista 81enne.

A fare da ring questa volta si è prestato niente meno che il Maurizio Costanzo Show, argomento della lite: la guerra in Ucraina. E la posizione del nostro paese sulla questione, con i due contendenti su posizioni opposte. In mezzo, Giuseppe Cruciani de La Zanzara, che ha cercato di dividerli, e Iva Zanicchi, che ha assistito inerme alla scenata. Presente anche Al Bano, anch’egli ospite dello show che però non si è concluso con un bicchiere di vino e un panino a suggellare un momento di felicità. Anzi.

«Mughini mi ha aggredito come ha fatto Putin con l’Ucraina mentre io, dopo le parole di Al Bano che diceva che Putin era amico dell’Italia, ho detto che il problema era che gli artisti russi non potessero venire in Italia – spiega ora Sgarbi – Lui ha difeso Sala che ha cacciato il direttore d’orchestra della Scala e io ho detto che l’arte non può essere sottomessa». Fino all’apoteosi. «Al che lui si è alzato per menarmi e io sono caduto, ma lo ringrazio». In che senso? «Ha creato una situazione molto simpatica come accadeva i primi anni da Costanzo,  è andato a mio favore perché io sono risultato la vittima: insomma, io ero l’Ucraina e lui la Russia».

Se tre anni fa il conduttore Giuseppe Brindisi e alcuni assistenti di studio riuscirono a separarli, durante la registrazione della puntata del Maurizio Costanzo Show dunque non c’è stato proprio nulla da fare, e i due sono venuti alle mani. Come sono andate veramente le cose, e se Sgarbi dice la verità, non lo sapremo mai, o forse sì, se solo Costanzo fosse così generoso da trasmettere un momento di tanto alta televisione. D’altronde, i due non sono nuovi a situazioni del genere. Celebri le litigate di Sgarbi con Giuliano Ferrara, con tanto di schiaffo del primo al secondo, quella con Alessandra Mussolini, apostrofata come «ignorante fascista», e quella con Mike Bongiorno, che per fortuna si limitò a imprechi verbali del critico contro uno dei conduttori più famoso del piccolo schermo italiano. Idem per Mughini, che spesso per via della sua fede calcistica, visceralmente juventina, ha avuto più di una volta diverbi, anche importanti, con personalità del mondo dello spettacolo e dello sport. Il più delle volte in diretta, con tanto di insulti e improperi. Insomma, la lite da Costanzo è l’episodio più recente della saga, ma siamo pronti a scommettere che non sarà l’ultimo.

Striscia la Notizia, "com'è andato il 18 maggio?". La mega rissa tra Sgarbi e Mughini a Stasera Italia. Libero Quotidiano il 18 maggio 2020.

"Com'è andato il vostro 18 maggio?". Striscia la notizia lo chiede ai telespettatori su Twitter con un video stra-cult con alcuni tra i momenti più trash degli ultimi mesi di tv italiana.

Come dire, dopo 69 giorni di lockdown, i nervi sono a fior di pelle e il vero inizio della Fase 2 era (e sarà) ad altissimo rischio. Non a caso, nel collage di gaffe, fuorionda e tentativi di fuga dall'Isola dei famosi, spicca la mitologica rissa a Stasera Italia del luglio 2019 tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini, finita con i due a darsi calci e spintoni in diretta alle spalle di una sconcertata ma quasi divertita Maria Giovanna Maglie. A suon di "Pezzo di m***", "Ti prendo a pedate in c***", sembrano quasi le normali reazioni di molti automobilisti italiani che si sono ritrovati di nuovo imbottigliati in coda al semaforo dopo 2 mesi di strade deserte o quasi.

Ottavio Cappellani per la Sicilia l'8 maggio 2022.

Invidio molto Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini, invidio la loro serietà, essi prendono se stessi molto seriamente, al punto da passare all’insulto o, come si dice, alle vie di fatto, per difendere una propria opinione. Io ho avuto e ho perso questa caratteristica, si è lentamente staccata da me come una pellicina morta (chi si prende seriamente avrebbe detto: come una pelle di serpente). 

Difendere una propria idea mi sembra offensivo contro la mia stessa idea. Nietzsche (che non amo, un parvenu del pensiero in mano alla spirocheta pallida) diceva che le idee non hanno bisogno di essere difese, il ragionamento è simile al mio ma all’opposto: io sostengo che un’idea che abbia bisogno di essere difesa, con gli insulti o con le mani, non è una buona idea. Il tipo che sbatte il pugno sul tavolo per sottolineare la propria idea ci significa che quell’idea non è capace di sbattere il pugno sul tavolo da sola. 

Credo che la rissa sia partita riguardo qualcosa che ha a che vedere con la Russia, o l’Ucraina, o qualcosa del genere: roba sulla quale né Sgarbi né Mughini hanno un briciolo di potere: le loro idee sulla questione valgono quanto un sospiro dentro un uragano. E però siamo qui a parlarne, come in memoria dei vecchi tempi, quando il nostro mondo era il condominio, e ci si insultava contro dai balconi stendendo il bucato, mentre i coinquilini commentavano l’insulto più feroce o attendendo con ansia che le due si strappassero i capelli.

E’ vero, “c’è vita” in tutto questo, lo ha detto Maurizio Costanzo commentando l’accaduto: c’è la vita che si prende sul serio, che crede disperatamente di essere qualcuno, o qualcosa; Sgarbi si crede Sgarbi come Mughini si crede Mughini; e io invidio queste forme di esistenza arcaiche, barbare, vichinghe, romane direi, ariane quasi, dove la serietà veniva presa come una forma di intelligenza. Li invidio perché la serietà è facile, facilissima: basta esibire un grugno, un digrignare di denti, un insulto, un abbaiare, un do di petto. 

Franco Battiato, che era un fine umorista, odiava i do di petto, li definiva “fascisti”, eccitano la bestialità della folla. Non esisterebbe la serietà di Sgarbi o di Mughini se non esistesse la bestialità della folla.

E’ la stessa folla che si offende, molto seriamente, di fronte ad alcuni “joke”, di fronte ad alcune battute. Davanti alla satira, che sviscera la logica inesistente della “serietà”, la bestialità non può che “offendersi”, grugnire, sventolare un femore in maniera aggressiva come in “Odissea nello Spazio”. 

Invidio, in Sgarbi e in Mughini, questa totale mancanza di ironia, questa facilità di rapporto con il proprio pensiero. Io da me pretendo l’ironia feroce, quella capace di fare esplodere un cervello, il mio per primo: esigo la capacità di pensare contro me stesso. Conosco abbastanza bene la retorica del fascismo e del terrorismo, retoriche serissime. Le conoscono molto bene anche Sgarbi e Mughini, che possiedono entrambi intelligentissime ironie. E fatevela una risata: siate sconfitti in nome di un sorriso. Lasciate la serietà ai poveri di Spirito.

Diario della resistenza. L’orrore di Mariupol raccontato dalla moglie di un soldato ucraino. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 30 Aprile 2022.

Yuliia Fedosiuk ha 29 anni ed è sposata con Arseniy, militare del battaglione Azov che proprio in questi giorni sta lottando nella città del sud-est del Paese: «Il loro appello è rivolto ai Paesi dell’Unione europea, chiedono di tirarli fuori da quell’inferno, a partire dai cittadini feriti e indifesi a cui le armate russe non consentono di scappare».

«Gli ucraini non perderanno la speranza nemmeno davanti a tutto l’orrore e la distruzione di Mariupol, la resistenza non si fermerà». Yuliia Fedosiuk ha 29 anni ed è sposata con Arseniy, anche lui 29enne, soldato del battaglione Azov che proprio in questi giorni sta lottando a Mariupol in un teatro di guerra fatto di macerie e sangue.

Yuliia risponde al telefono da Roma. Dice che da otre due mesi vive un misto di paura e speranza: gli attacchi russi sul territorio della sua Ucraina sono terribili, ma non smette di pensare nemmeno per un minuto che gli ucraini possano avere il futuro che vogliono e che meritano.

Il battaglione Azov in cui combatte suo marito in questo momento rappresenta l’ultima resistenza all’offensiva russa a Mariupol. Il porto del sud-est del Paese è stato definito la «Aleppo europea» dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea, Josep Borrell. Una città rasa al suolo, che però ancora può essere salvata. Della simbolica acciaieria Azovstal costruita nel 1933, all’inizio dell’epoca sovietica, è rimasto ormai poco più che la carcassa, ma al suo interno trovano riparo circa 600 soldati feriti e mille civili, protetti dal labirinto delle camere sotterranee. In tutta la città, invece, si stima che rimangano circa 100mila persone. Ma per tutti le condizioni di vita sono critiche: giovedì le autorità locali hanno dichiarato Mariupol vulnerabile alle epidemie, a causa delle spaventose condizioni sanitarie in gran parte della città e dal fatto che ci sono ancora migliaia di cadaveri ai bordi delle strade.

«L’appello di Arseniy e degli altri soldati che sono con lui è rivolto ai Paesi dell’Unione europea, chiedono di tirarli fuori da quell’inferno, a partire dai cittadini feriti e indifesi a cui le armate russe non consentono di scappare», dice Yuliia, che tutti i giorni dialoga con il marito.

Possono tenersi in contatto con discreta frequenza grazie ai modem di Starlink, il servizio di internet satellitare della SpaceX di Elon Musk. «Possiamo chattare, ma non possiamo parlare, non sento la sua voce perché la qualità della connessione non ce lo consente». Non è sempre stato così: «A inizio mese – aggiunge – non l’ho sentito per una settimana, ed è stato terribile perché non c’era modo di avere informazioni, e in generale tutte le notizie che arrivavano dal fronte non erano di prima mano quindi non sempre ci si poteva fidare. Pregavo tutti i giorni perché fosse ancora vivo».

Mercoledì mattina alcune decine di persone, soprattutto mogli, sorelle e madri dei soldati del battaglione Azov hanno manifestato a Kiev per chiedere corridoi umanitari a Mariupol, per evacuare i civili e i militari feriti. Si sono dipinte il viso di rosso, come il sangue dei loro compatrioti e familiari. Hanno intonato l’inno nazionale e scandito slogan rivolti al governo di Kiev, all’Onu, alla Croce Rossa: «Salvate Mariupol», «Salvate i bambini», «Salvate i nostri soldati», «Salvate Azovstal».

Il timore di molti ucraini come Yuliia che hanno contatti diretti con chi sta al fronte è che l’orrore di Mariupol possa ripetersi anche altrove, in altre città.

«Arseniy e gli altri soldati del battaglione Azov sanno che le forze russe non si fermeranno: l’armata russa, dicono, è disposta a proseguire questa strage in tutto il Donbass e tutta la parte orientale dell’Ucraina», dice Yuliia.

Yuliia è originaria di Leopoli, città dell’Ovest dell’Ucraina, ma si è trasferita a Kiev una decina d’anni fa per finire l’università e per muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Nella capitale ha conosciuto Arseniy, ma nel 2014 lui ha seguito il battaglione Azov nel Donbass. «Per molti anni l’ho visto appena 4 o 5 volte l’anno, non di più», spiega Yuliia.

Sul ruolo del battaglione Azov in Donbass negli ultimi otto anni si è parlato molto. Si è parlato dell’estremismo di destra, delle aggressioni ai cittadini filorussi, dei metodi brutali e violenti. Ma spesso sono generalizzazioni, spesso i racconti sono esagerati, spiega Yuliia.

Dopotutto, in ogni situazione di conflitto l’entropia dell’informazione schizza alle stelle. Come è accaduto dall’inizio dell’invasione russa del 24 febbraio. E tra fake news, propaganda russa e altre negligenze dei media, per un cittadino comune è difficile farsi strada nell’enorme rumore di informazioni che circolano. «C’è una parte dei media e dei giornalisti che sta facendo buon lavoro, raccontano la guerra dal fronte o con equilibrio – dice Yuliia – ma in troppe testate ci sono infiltrazioni della propaganda russa, si sentono finti esperti che parlano a sproposito di neonazismo dell’Azov, tutto questo inquina il dibattito e non aiuta a capire la realtà».

Ora che è in Italia, Yuliia vive a Roma in un appartamento insieme ad altre tre donne, tutte mogli di soldati del battaglione Azov arrivate nella capitale italiana grazie ad alcuni amici che vivono qui da tempo.

Dall’Italia spera di aiutare a diffondere meglio il messaggio di aiuto che ogni giorno arriva da suo marito: «Vogliamo dire a tutta l’Italia e all’Europa che Putin non si fermerà con l’Ucraina, è un nemico della civilizzazione e dei valori occidentali. Noi ucraini ora vogliamo combattere, vogliamo vincere la nostra guerra, ma abbiamo bisogno dell’aiuto degli Stati europei. E speriamo che arrivi presto l’embargo alle fonti energetiche russe, che ancora finanziano lo spargimento del nostro sangue».

Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

«Siamo venute a Roma per raccontare la verità su Mariupol, i nostri mariti non sono dei neonazisti, stanno resistendo nell'acciaieria ma il tempo stringe». Parla con un filo di voce Kateryna Prokopenko, illustratrice 27enne e moglie di Denis Prokopenko, l'uomo che guida la resistenza di Mariupol, il comandante del reggimento Azov. Additato da Putin come vertice di quelle forze «neo-naziste» da cui l'Ucraina deve essere «liberata» e decorato da Zelensky come «eroe» del Paese. «Sono orgogliosa di mio marito, per districarsi dalla propaganda occorre guardare ai fatti: lui e i suoi uomini stanno difendendo tutti noi» scandisce. Il pericolo di perdere per sempre il suo compagno è reale: «So che potrei non rivederlo mai più, se succederà non sarà per niente, si saranno sacrificati per il loro Paese. Questa sarà l'unica consolazione».

Le mogli dell'Azov Con Kateryna sono arrivate in Italia altre tre compagne di combattenti intrappolati nell'acciaieria. C'è Yulya Fedosiuk, 29enne, ex assistente di un parlamentare del partito di Zelensky, che non vede il suo Arseniy da «due lunghissimi mesi». «Lo sento al telefono - dice - ho saputo che dieci giorni fa è riuscito a raggiungere gli altri nell'acciaieria nuotando da una sponda all'altra del fiume». C'è Anya Naumenko, 25 anni, di Kharkiv, manager, che sta con Dmytro Danilov dal 2014: «Avremmo dovuto sposarci a maggio, chissà», sospira. «Ci parliamo ogni due giorni, di solito gli racconto del nostro cane e di altre amenità». C'è anche Andrianova Olha, 31enne, titolare di un asilo nido a Leopoli, moglie di Petrenko Serhiy, ex canoista olimpionico ora nel reggimento.

Ad accompagnare le signore dei combattenti a Roma è Pyotr Verzilov, fondatore delle Pussy Riot ed editore di Mediazone , «l'unico sito di notizie in Russia assieme a Meduza a raccontare la guerra in Ucraina. È stato bloccato, ma i nostri lettori sono aumentati», spiega questo dissidente diventato noto quando nel 2018, per protestare contro le persecuzioni politiche, osò interrompere la finale dei Mondiali di calcio sotto gli occhi esterrefatti di Putin. Poche settimane dopo, l'avvelenamento: si riprese a Berlino, nello stesso ospedale dov' è stato poi curato Navalny. 

«Dopo il suo arresto, con le proteste e la dura repressione che ne è seguita, mi sono convinto che sarei stato più utile fuori di prigione, quindi fuori dalla Russia». In Ucraina sta girando un film sul conflitto con l'amico Beau Willimon, il creatore della serie House of cards : «Abbiamo incontrato Zelensky e parlato con lui anche di amore, perché il documentario indaga su come le relazioni nascano, restino vive e muoiano in tempi di guerra», anticipa Verzilov al Corriere in videochiamata da Roma insieme alle quattro donne, tra le protagoniste del film. 

La storia d'amore di Kateryna è nata a distanza: «Ho conosciuto Denis nel 2015 sui social: io ero a Kiev, lui combatteva nel Donbass. Abbiamo iniziato a fare del trekking insieme. Fino a una vacanza nel 2018, tra le cascate norvegesi. Una mattina Denis mi indicò un pacchetto, l'hanno portato i troll , ha detto: dentro c'era un anello con incisa una montagna». Poi le nozze.

A ricordarle che suo marito è un personaggio controverso, accusato di essere alla guida di un reggimento neo-nazista, perde la sua flemma pacata: «È propaganda. Se difendere il proprio Paese da aggressioni esterne significa essere nazionalisti, allora sì, Denis è un nazionalista: come puoi dirti ucraino se non sei disposto a salvare il tuo Paese fino alla morte? Ma nazista no. Nel reggimento ci sono anche ebrei. Nazista è l'espansionismo di Putin». Concorda l'amica Yulya Fedosiuk: «Batterti per il tuo Paese vuole dire difendere la gente dai crimini degli aggressori. Non è la lingua a identificare una nazione ma i valori condivisi. La cultura della resistenza ai soprusi è nel nostro dna. Il movimento di dissenso russo invece è ancora agli albori».

Arrendersi? Mai Rispetto alle incerte possibilità della diplomazia, una cosa non si deve chiedere, osserva Katerina: «Come possiamo accettare una resa imposta dagli aggressori, dopo i massacri di civili?». Rispetto a quanti anche in Italia invocano una resa, Yulia è perentoria: «Anche da voi circola molta propaganda. Ieri passeggiando per Roma abbiamo visto un manifesto contro il reggimento Azov. Ci sono ancora alcuni politici qui che si fanno portavoce degli interessi di Mosca, anche un gruppo di intellettuali ha scritto una lettera per invitarci ad arrenderci e porre fine alla guerra, senza dire però che è stata la Russia a iniziarla». Lo scorso 21 aprile Putin ha ordinato di sospendere il previsto assalto finale all'acciaieria. «I russi continuano a sganciare centinaia di bombe al giorno.

Mio marito - subentra Anya - è stato ferito la scorsa settimana». Storie di resistenza quotidiana. «Mangiano una volta al giorno, hanno perso almeno 10 chili», racconta. Preparano zuppe di patate e pane, mescolando acqua con pane raffermo. Il loro umore dipende dal momento: l'altro giorno Dmytro era affranto per la morte di due suoi amici. Un altro era sollevato perché era riuscito a lavarsi i capelli, non faceva una doccia dal 23 febbraio! Ha esultato anche quando è riuscito a prendere dell'acqua fresca fuori dall'acciaieria. Un lusso. Di solito bevono "acqua tecnica", quella per il funzionamento dei macchinari».

 Battaglione Azov, chi ha portato le mogli dei "nazisti ucraini" in Italia. "E' la prova della propaganda". Libero Quotidiano il 29 aprile 2022.

Kateryna Prokopenko, 27 anni, illustratrice e moglie di Denis Prokopenko, l'uomo che guida la resistenza di Mariupol, il comandante del reggimento Azov, e Yulya Fedosiuk (nella foto), 29 anni, ex assistente di un parlamentare del partito di Zelensky, che non vede il suo Arseniy da "due lunghissimi mesi" sono arrivate in Italia per "raccontare la verità su Mariupol. I nostri mariti non sono dei neonazisti", raccontano al Corriere della Sera, "stanno resistendo nell'acciaieria ma il tempo stringe". 

I loro mariti sono i "neonazisti" dai quali secondo Vladimir Putin l'Ucraina deve essere "liberata". "Sono orgogliosa di mio marito, per districarsi dalla propaganda occorre guardare ai fatti: lui e i suoi uomini stanno difendendo tutti noi", dice Kateryna. "So che potrei non rivederlo mai più, se succederà non sarà per niente, si saranno sacrificati per il loro Paese. Questa sarà l'unica consolazione".

Le mogli dei combattenti dell'Azov sono state accompagnate a Roma da Pyotr Verzilov, fondatore delle Pussy Riot ed editore di Mediazone , "l'unico sito di notizie in Russia assieme a Meduza a raccontare la guerra in Ucraina. È stato bloccato, ma i nostri lettori sono aumentati", annuncia il dissidente diventato famoso nel 2018 quando, per protestare contro le persecuzioni politiche, osò interrompere la finale dei Mondiali di calcio sotto gli occhi esterrefatti di Putin.Pyotr fu avvelenato poche settimane dopo, ma fu curato e si riprese nello stesso ospedale di Berlino dove è stato poi curato Navalny. Ma sui social si scatenano: "È la prova della propaganda ucraina in Occidente". 

Annozero. La sinistra santoriana e la tragicommedia della controinformazione. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 7 Maggio 2022.

In nessun paese occidentale come in Italia le tesi più ardite e strampalate hanno così tanto spazio nei media. Il rischio è che cresca sempre di più quell’area complottista vicina a Conte, influenzando la posizione atlantica dell’Italia.

All’allarme sulla censura contro il pacifismo italiano (la Pace proibita) lanciato da Michele Santoro al teatro Ghione di Roma e sulla piattaforma iperpopulista ByoBlu risponderei parafrasando Mark Twain che smentiva la notizia della sua morte pubblicata su un’agenzia: «Spiacente di deludervi, ma la notizia della morte dell’informazione libera è grossolanamente esagerata». 

In nessun paese occidentale come in Italia le tesi più ardite e strampalate sono diventate il sale dei talk show, o meglio dei trash-show, che hanno come protagonisti i personaggi più stravaganti e mattoidi, i complottisti più esagitati, i conduttori più felici di fare caciara che di dare informazioni attendibili e verificate. Il risultato è che, com’è avvenuto per la pandemia, tutte le tesi sono considerate equivalenti per cui ogni falso storico che volumi di studi hanno smentito viene presentato come un’opinione legittima: il complotto ebraico mondiale, Hitler che era ebreo, la terra piatta, i vaccini che uccidono, il falso sbarco sulla luna. Di questo soffre l’informazione, e non solo quella italiana, che comunque, a scanso di equivoci, non ha bisogno di nuove regole, gabbie, intromissioni ma solo, come ha argomentato sul Foglio Enrico Mentana, di informazione buona che scacci quella cattiva. Più che di serate al teatro Ghione, di serate davanti alla tv a guardare The Newsroom, la serie americana che racconta benissimo il conflitto tra informazione e audience. 

In occasione della guerra, come ha scritto Mario Lavia, dentro questa bolla mediatica sta crescendo in Italia un’area politica che unisce il M5S di Conte, il giornale di Marco Travaglio, l’estrema sinistra, e aree di pacifismo cattolico, in una convergenza oggettiva (per usare un termine della vecchia sinistra marxista, caro a me come a Francesco Cundari) con il nemico per eccellenza Matteo Salvini. Ognuna di queste componenti, ovviamente, ha una sua specificità. Le motivazioni del mondo cattolico, per esempio, nascono da un pacifismo integrale che ha ben poco a che spartire con chi ha sostenuto nel mondo ogni genere di lotta armata purché antiamericana e antioccidentale e oggi sostiene apertamente la Russia di Putin. 

Politicamente quest’area pone al Partito democratico un enorme problema di alleanze perché, l’hanno detto esplicitamente due dei principali protagonisti, ovvero Michele Santoro e Giuseppe Conte, si propone di rappresentare quella parte del paese che si oppone alla al sostegno militare all’Ucraina. E ciò tocca un punto essenziale dell’identità del Pd di Letta, ovvero la collocazione euro-atlantica. Il vecchio leone televisivo e il gerundista di Volturara Appula sono anche una calamita per gli orfani del Conte «punto di riferimento fortissimo dei progressisti», che infatti tacciono imbarazzati.

Al di là dei numeri dei sondaggi è fuori di dubbio che sull’invio delle armi ai combattenti ucraini il paese è spaccato a metà e che questa divisione lacera profondamente (of course) la sinistra. Per me e per molti altri, ciò significa che la linea di conflitto passa nelle famiglie, tra gli amici, come già avvenuto per la pandemia e i vaccini. 

Ne ha scritto benissimo Luigi Manconi su Repubblica: si tratta di argomenti profondi che riguardano i valori fondanti: la vita e la morte, la libertà e l’oppressione, la pace. E, sempre su Repubblica, Gianni Riotta ha ricordato come tali divisioni si siano già presentate di fronte al tema della guerra. Il fatto è che se avessimo seguito Neville Chamberlain e non Winston Churchill, Charles Lindbergh e non Franklin Delano Roosevelt oggi il tanto vituperato occidente non vivrebbe in democrazia ma nella distopia raccontata da Philip Roth nel suo Complotto contro l’America o nel classico la Svastica sul Sole di Philip K. Dick, dove hanno vinto i pacifisti di allora e nazisti e giapponesi dominano il mondo. (Anche qui due serie tv da non perdere: Il complotto contro l’America e The man in the high castle).

Non voglio fare analisi geopolitiche delle quali non sarei capace, vorrei solo dire sommessamente e con rispetto che ciò per cui si battono oggi i miei vecchi amici e compagni, e cioè il disarmo dell’Ucraina e una pace che somiglia molto alla pax romana, è l’opposto delle ragioni per le quali siamo diventati di sinistra. 

Io ricordo di essere diventato di sinistra non malgrado l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, ma contro quell’invasione, con in mente l’immagine di Ian Palach. Che si chiamassero paesi comunisti, come io mi andavo definendo, non me ne importava un fico secco, anche se quelli del Partito comunista italiano mi definivano anticomunista ero orgogliosamente di sinistra, antisovietico quanto antiamericano. Ero contro gli imperialismi. E pensavo, allora come oggi, che un popolo ha diritto a difendere la propria indipendenza con le armi, come il Vietnam ieri e l’Ucraina oggi. Punto.

Michele Santoro, Funari e gli altri: quando il talk show inventò l’indignazione della gente comune. Trent’anni fa, ai tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni hater. Ma quello, a differenza di quanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo. Giandomenico Crapis su L'Espresso il 16 Maggio 2022.

La storica Simona Colarizi nel saggio “Passatopresente” (editori Laterza ), uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo.

Il colpo da ko di Giovanni Minoli a Massimo Giletti. "Ospiti strani", cala il gelo sui giornalisti russi. Arnaldo Magro su Il Tempo il 18 maggio 2022.

Memore di cotanta saggezza, Massimo Giletti inizia la sua «Arena» nel migliore dei modi. Con l'intervista «agguerritissima» ad un giornalista russo collegato. Dopo le accuse di eccessivo puntinismo rivolte a La7 tutta, il giornalista scalpita per dimostrare a tutti quanti l'imparzialità della sua trasmissione: «Innanzitutto chiariamo una cosa, voi giornalisti russi avete voce solo da noi in Italia o parlate anche in altre parti del mondo?». Peccato però che la risposta del collega russo, sia inappellabile: «È proprio così, noi parliamo soltanto da voi in Italia».

Un uppercut a freddo, che stenderebbe anche il Mike Tyson della tivù. Brutto colpo ma si va avanti. Giletti è troppo scafato per accusare. Stoicamente resiste e si ributta a testa bassa nel match. L'intervista al maestro di giornalismo Giovanni Minoli, potrebbe/dovrebbe almeno secondo gli autori risollevare il livello della puntata. Minoli invece è pure lui implacabile ed assesta una frase da ko tecnico. «Il migliore rimane Mentana, non cerca ospiti strani per il mero ascolto, come invece fate voi». «Ogni intervista è un match», disse lo stesso Minoli. «Se puoi vincere, dipende da come ti senti. Addirittura da quello che hai mangiato. Dalla fame che dimostri di avere. La velocità di reazione è frazione di un secondo». Vien da pensare che a Minoli, prima di quell'intervista, non sia stato dato granché da mangiare. 

Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” il 18 maggio 2022.

Michele Santoro raddoppia. Dopo il successo della sua "Pace proibita" - la serata-evento al Teatro Ghione ignorata dai media tradizionali ma capace di raggiungere "più di un milione di persone" - il giornalista parla quasi da leader politico del movimento pacifista. 

Nella sede nazionale della stampa, a fianco di Sabina Guzzanti e del direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, Santoro lancia il suo appello ai partiti in Parlamento: "C'è un'opinione pubblica bloccata, non rappresentata. Chiediamo un riequilibrio delle rappresentanze di tutte le posizioni nel servizio pubblico". Per Tarquinio c'è "un conformismo bellico mai visto con questa intensità nella stampa italiana", con "liste di proscrizione per chi non si adegua alla narrativa dominante".

Guzzanti denuncia il "linguaggio di guerra" a cui il giornalismo si è abituato dall'inizio della pandemia. Santoro cita i servizi del Tg1: "Dieci minuti per festeggiare la vittoria dell'Ucraina all'Eurovision, celebrandone lo spirito guerriero. Non una parola di pace. C'è una violazione dello spirito della carta dei servizi Rai". 

Secondo i sondaggi - aggiunge - "il 50% degli italiani sono contrari all'invio di armi, eppure per i telegiornali del servizio pubblico non esistono e i giornalisti Rai con un'opinione critica non possono esprimersi. Si faccia un sondaggio per verificare se gli italiani sono soddisfatti della qualità dell'informazione pubblica e poi si proceda a riequilibrare il mondo in cui la Rai racconta la guerra". 

Santoro si è poi rivolto ai partiti con parole di sfida: "Non è mia intenzione fondare un partito, ma c'è un popolo che chiede di essere rappresentato, che vuole risposte. Se non gliele danno Pd e 5Stelle, dovrà dargliele qualcun altro...".

Da liberoquotidiano.it il 21 maggio 2022.

L'informazione e la guerra in Ucraina, la parola pace scomparsa. Michele Santoro, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, nella puntata del 20 maggio, non usa mezzi termini: "In Rai ci sono 1700 giornalisti, quanti hanno preso posizione critica sulla guerra? Te lo dico io, quasi nessuno". 

E ancora, attacca il giornalista: "Siamo più americani o più russi? Poniamoci questa piccola domanda. Se l'informazione ufficiale, il servizio pubblico, è così omogenea e così militarizzata cosa resta per contrapporsi a questo? La rete". Sulla rete, prosegue Santoro, "i pareri sono molto diversi, ognuno crea e si riconosce in una certa community".

Adesso, si chiede il giornalista: "Io dovrei bombardare le community che sono contrarie al pensiero dominante? Ma che domande mi fate? Siete caduti dal letto. Ma bombardiamo l'informazione che fa la Rai", tuona Santoro. 

"Metaforicamente", lo interrompe quindi la Merlino. "Una metafora che vale per tutti", ribatte il giornalista. Che continua: "Cerchiamo di aprire un dialogo ma quando tu ti rivolgi al Pd e al M5s che gestiscono la Rai, perché è così, senza ipocrisie, e cerchi di aprire un ponte, loro nemmeno ti rispondono. Non rispondono a un milione di persone".

"Ma che cosa dobbiamo fare?", conclude Santoro: "Queste posizioni andranno all'assalto del pensiero unico. Io non dirò mai Orsini sì e Orsini no".

La Rai non rispetta il contratto di servizio, siluro di Michele Santoro: informazione a senso unico sull'Ucraina. Il Tempo il 17 maggio 2022.

Dopo il successo della prima iniziativa, Michele Santoro torna alla carica presentando un nuovo appuntamento di "Pace proibita". "Ce n'è bisogno perché come abbiamo tolto il bavaglio alla parola pace che sembrava quasi una parola proibita", spiega il giornalista in collegamento, martedì 17 maggio, con Tagadà, il programma di La7. Per l'ex volto della Rai qualcosa si muove, perché "la politica si è messa in cammino e ha cominciato a pronunciare questa parola con più frequenza di prima".   

Diverso il discorso per i media: "Nell'informazione non è stato registrato ancora questo cambiamento", afferma Santoro che lancia una stoccata proprio al servizio pubblico: "Specialmente quella della Rai, che continua a essere un'informazione unilaterale fatta soltanto da un unico punto di vista". Poi l'affondo sulle responsabilità di viale Mazzini: "Noi riteniamo che il contratto di servizio che lega alla Rai agli italiani imponga di dare voce a questo milione di persone che sono state coinvolte dalla nostra protesta", attacca Santoro.  

Il giornalista ribadisce di essere contrario all'invio di armi all'Ucraina anche perché "impedisce all'Italia di svolgere quel ruolo internazionale che potrebbe avere senza coinvolgerci direttamente nel conflitto". Poi il giornalista ricorda come nei primi giorni della guerra "siamo stati invasi dalle immagini di cittadini ucraini che preparavano barricate e molotov", in realtà hanno combattuto con "i cannoni, i missili e strumenti di guerra sofisticati con i quali gli americani hanno armato la difesa ucraina", che in ogni caso "è legittima", ammette Santoro. Ma dietro c'è la mano di una "potenza molto lontana da noi" che ha operato "all'insaputa dell'Europa" che si è dovuta accodare agli interessi degli Stati Uniti, attacca il giornalista. 

Maurizio Caverzan per “La Verità” il 17 maggio 2022.

Il fastidio, il disappunto, l'insofferenza, l'irritazione, la contrarietà: scegliete voi il sostantivo che più vi aggrada, la sostanza non cambia. La postura psicologica, l'atteggiamento mentale e il senso di superiorità con cui i sacerdoti della cultura, intellettuali autorevolissimi, titolari di cattedre accademiche e giornalistiche, analizzano il dibattito in corso sulla guerra in Ucraina è sempre la medesima. 

Man mano che le posizioni pacifiste conquistano consensi il disappunto dei benpensanti si fa gradualmente più intollerante. Gli esempi virtuosi sono Enrico Mentana, che si onora «di non invitare chi sostiene o giustifica l'invasione russa in Ucraina», e Bruno Vespa, che «ha sempre tenuto la barra dritta», lo elogia Aldo Grasso sul Corriere della Sera. 

Tutti gli altri conduttori di talk, rimandati al tribunale dell'ortodossia teleatlantica. «C'è chi insegue il prof. Orsini e chi intervista il presidente Zelensky e queste sono differenze sostanziali», rincara il critico televisivo del principale quotidiano nazionale. Dietro la difesa del contraddittorio c'è «un senso di abbandono e di incombente catastrofe», si allarma. Perciò è più che mai urgente «porre un confine tra la libertà di opinione e il circo con le ballerine russe». Cioè, chi dissente non è quasi mai attendibile, è impresentabile, inadatto (unfit) al vero dibattito democratico.

In alcuni casi, come nella campagna che Il Foglio persegue da giorni, l'insofferenza verso gli «altrimenti pensanti», come si chiamavano i dissidenti nell'era dell'Unione sovietica, si carica di moral suasion nei confronti del troppo liberale Urbano Cairo. Suvvia, è così bravo come editore del Corriere della Sera, «che a sfogliarlo ogni mattina si sente di nuovo il profumo della classe dirigente», cosa aspetta a mettere in riga i feudatari di La7 «descamisada»? 

La strategia della persuasione non disdegna i toni del bullismo verso gli irregolari. Nelle redazioni dei giornali seri, almanacca Giuliano Ferrara, «non esplodono i narcisismi comici di professori della serie B promossi nella serie A della Grande Storia per il loro quarto d'ora di fama».

Però, «l'editore dovrebbe riflettere», consiglia il fondatore del Foglio, perché «siccome da nessuna parte spuntano le bischerate putiniane e i negazionismi tipici dei talk show di fattura nazionale italiana», qui è in gioco «la tenuta mentale e morale di un mezzo di comunicazione di larga udienza e influenza». In buona sostanza, se non si fa pulizia di questi impresentabili «anarcosituazionisti», faremo presto a mollare La7 al suo destino di televisione inaffidabile. 

È la demonizzazione del dissenso, prosecuzione dell'arte della guerra nel campo dell'informazione. «In termini psicoanalitici si tratta di una proiezione inconscia dell'aggressività degli spettatori», spiega Massimo Recalcati. «È in piccolo quello che accadde con la guerra. Esiste una torbida attrazione umana per lo scontro, la violenza, il conflitto, la lotta a morte, la contrapposizione bellica. 

L'aspetto preoccupante», prosegue il cattedratico sulla Stampa, «è che sempre più la nostra televisione si presta ad alimentare questa logica primitiva facendo molto spesso scivolare dietro le quinte i contenuti del dibattito». Detto in modo più diretto, la televisione è diventata un territorio per spiriti primordiali e istinti belluini. E tutto in nome dell'audience, qualcosa di riprovevole e deprecabile. Quasi quanto i sondaggi che evidenziano in modo corale la contrarietà degli italiani all'invio di armi in Ucraina.

Si manifesti con gli ascolti tv o nei rilevamenti degli istituti di ricerca, l'orientamento dell'opinione pubblica resta un fatto superfluo. 

Sospettati d'intelligenza con il nemico, da settimane i conduttori dei talk show sono costretti a giustificare il proprio lavoro e gli editori devono spiegare ad autorità politiche esterne come la commissione di Vigilanza sulla Rai e quella di controllo sui Servizi segreti (Copasir) perché nelle loro televisioni si invitano Tizio o Caio. 

È inquietante ciò che sta accadendo a Cartabianca di Bianca Berlinguer dopo che l'idea d'invitare il professor Alessandro Orsini ha scatenato il fuoco di fila di numerosi esponenti di un partito che si chiama democratico. Siamo alla «morte dei talk», scrive in un lungo articolo su The Post International Carlo Freccero: «Oggi si processa il concetto stesso di dissidio e conflittualità».

«Penso che il talk show per l'approfondimento giornalistico per un'azienda che fa servizio pubblico non sia l'ideale», ha scandito l'amministratore della Rai Carlo Fuortes davanti alla Vigilanza. «È un format più adatto all'intrattenimento, ai temi leggeri, non a quelli importanti». Per i temi importanti, gli esperti devono essere approvati da codici deontologici e super-organismi. 

Difendere il criterio del conflitto delle interpretazioni, per esempio invitare ospiti filorussi e anti-Nato, per Recalcati equivale a «invitare a un dibattito sulla pedofilia un pedofilo praticante», o «sulla Shoah uno storico negazionista». Siamo davvero arrivati a questo? Davvero il pubblico televisivo non ha sufficiente maturità per valutare e pesare le diverse posizioni?

L'allarme diffuso durante la pandemia contro la partecipazione ai talk show di no-vax ha impedito all'Italia di essere uno dei Paesi con la più alta percentuale di vaccinati al mondo? La pax culturale e la tregua del buon senso richiedono l'allineamento dei disturbatori. 

Accantonata quando bisognava schierarsi con l'Ucraina o con la Russia, improvvisamente rispunta la complessità. I se e i ma riaffiorano per fare la radiografia al dissenso. I custodi dell'atlantismo vogliono distribuire il pass di quello accettabile. Allo scopo, potrebbero creare una nuova commissione da aggiungere a quella di Vigilanza. E chiamarla Sorveglianza ed esclusione. Ovviamente, in nome della democrazia.

Dagospia il 29 aprile 2022. “È BIDEN CHE SI DEVE FERMARE" – A PIAZZAPULITA VOLANO GLI STRACCI TRA SANTORO E MIELI – "TU VUOI PIU’ ARMI E IO NO, HANNO VOLUTO LE ARMI A BAGHDAD E IN AFGHANISTAN. QUAL È STATO IL RISULTATO? LO STESSO CHE CI SARÀ IN UCRAINA. CI SARÀ LA DISTRUZIONE DEL PAESE" - MIELI: "PERCHÉ NON DICI CHE ANCHE PUTIN SI DEVE FERMARE? CHI E’ CHE HA INVASO L’UCRAINA?" 

Da lastampa.it il 29 aprile 2022.

"Fermatevi. Fermatevi". Michele Santoro si scalda parlando di Ucraina e dell'invio delle armi a Kiev con Paolo Mieli a 'Piazzapulita' su La7. "In questo momento è Biden che si deve fermare - spiega Santoro lasciando attonito Mieli - Vuoi le armi? Hanno voluto le armi a Baghdad e in Afghanistan. Qual è stato il risultato? Lo stesso che ci sarà in Ucraina. Ci sarà la distruzione dell'Ucraina", conclude Santoro.

Santoro vs Mieli, match in tv tra i due leoni, questa è l’Italia. Santoro vs Mieli, match in tv tra i due leoni del giurassico, paradigma di questa l'Italia che non conta niente ma dove si discute tanto. Pubblicato il 1 Maggio 2022 da Sergio Carli su blitzquotidiano.it.  

Paolo Mieli e Michele Santoro litigano in tv. Non guardo quasi mai la televisione, solo dvd e serie Netflix. Ma il fiero scontro fra i due personaggi mai rassegnati di un’era ormai giurassica è proposto da una nuvola di siti.

Una lite da bar, una roba veramente imbarazzante, di due vecchi che litigano. Ma pateticamente. Perché poi non dobbiamo fermiamoli fermatevi fermiamoci. Pensate rivangano i tempi della guerra del Golfo conto Saddam Hussein.

Cosa ci ha messo l’Italia nella Guerra del Golfo? Cocciolone che è stato abbattuto e si è messo a piangere alla tv irachena, facendoci deridere da tutto il mondo.

Noi contiamo zero nel mondo, nemmeno ci invitano ai summit dove si decide qualcosa. Siamo dei poveretti, stiamocene buoni. Siamo un miracolo della storia, da sei milioni di baionette a sesta potenza industriale (poi retrocessa per colpa della Cina) e ottavo pil del mondo. Ma il livello del dibattito in corso in Italia sulla guerra in Ucraina è paradigma della nostra irrilevanza. Un Paese che si divide sulle esternazioni (in senso cossighiano) di un tale Alessandro Orsini che pontifica sulla guerra in Ucraina ha quello che merita nella considerazione delle grandi potenze.

 Caro Santoro, è inutile stare a discutere tanto, a fare tanti dibattiti

L’Italia è felice di stare sotto l’ala del Patto Atlantico, pregasse  Santoro ogni mattina per ringraziare il Signore che i marines sono sbarcati qua e non un po’ più a ovest. Lui dove sarebbe Santoro se avessero preso il potere i suoi amici? E Mieli ? dove sarebbe se avessero vinto gli amici di suo padre quando era comunista? Dove staremmo tutti? dove sarebbero i due contendenti di questo inverecondo spettacolo?

Stessero zitti e pregassero che Putin siano schiacciati dagli ucraini. Come peraltro gli ucraini fecero con gli italiani (e i tedeschi) 80 anni fa.

Giampiero De Chiara per “Libero quotidiano” il 30 aprile 2022.

Paolo Mieli contro Michele Santoro o viceversa, ma non cambia sostanzialmente nulla. Sono stati loro due i veri protagonisti a PiazzaPulita, giovedì 28 aprile su La7. Il loro dibattito, incentrato sul conflitto in Ucraina, è stato commentato, sviscerato e rilanciato sui social ed è stato anche da viatico per l'ottimo risultato di ascolti che ha fatto gongolare il conduttore Corrado Formigli. La7 ha infatti registrato 1.023.000 spettatori con uno share del 6.3%, migliorando il dato delle ultime settimane: sfondando il milione di audience e il 6% di share, non raggiunto nelle due precedenti puntate.

Merito anche dei vari argomenti e degli altri ospiti del talk. La trasmissione era incentrata, ovviamente, sull conflitto in corso, sul rischio della terza guerra mondiale, raccontato grazie ai reportage sul campo di Luciana Coluccello e Gabriele Micalizzi e commentati da Stefano Cappellini, Annalisa Cuzzocrea, Alberto Negri e Marco Tarquinio, dalla responsabile della società Dante Alighieri di Kiev, Alona Kliulieva e dall'ex parlamentare del centrodestra Nunzia De Girolamo, ora conduttrice tv. 

Certo è che il punto di attrazione più alto, con più appeal è stato il segmento dell'accesa discussione tra l'ex direttore del Corriere della sera e il creatore e conduttore di Samarcanda, uno dei simboli di quel Tg3 chiamato Telekabul. Un vero colpaccio, da parte di Formigli, avere in studio due pezzi da novanta che si confrontano su un tema così attuale, con due linee di pensiero così differenti.

Una sorta di par condicio (mantra e anche limite degli ultimi trenta anni di ogni talk politico della tv italiana di stato e privata) che, alla fine dei giochi, ha fatto apparire i due come quei personaggi che hanno detto e dato tanto al dibattito politico e televisivo, ma non hanno più quella spinta, quelle idee per interpretare originalmente e al meglio il presente, per non dire il futuro. Un po' come quei vecchi calciatori che si affidano solo alla loro pregevolissima tecnica, ai loro eccezionali "piedi buoni, cui però manca il fiato e la corsa per reggere i 90 minuti di un match.

Anche lo scontro verbale (rispettoso come ogni disputa in tv dovrebbe essere, anche se spesso ultimamente non è stato così) ha ricalcato quello di due boxeur di grandissima classe che ormai combattono per lo spettacolo, per il pubblico come due "vecchie" glorie nel più puro stile Usa. «In questo momento è Biden che si deve fermare - si agitava Santoro lasciando incredulo Mieli- Hanno voluto le armi a Baghdad e in Afghanistan. Qual è stato il risultato? Lo stesso che ci sarà in Ucraina. Ci sarà la distruzione dell'Ucraina».

Un Santoro d'annata che rivolgendosi al suo interlocutore esclamava: «Tu vuoi un maggiore invio di armi o che la guerra si fermi? Fammi capire, vuoi più armi?», agitando la sua folta chioma ormai completamente bianca («Danny De Vito reincarnato nel corpo di Mario Sconcerti», ha poi scritto su Twitter il giornalista Antonello Piroso), con Mieli pronto a controbattere: «Sì». Innescando la reazione di chi non aspettava altro per potergli rispondere: «Sì? Ed io no... questa è la differenza frame e te, fondamentale». 

Fondamentale differenza, secondo Santoro, che non è certo una novità per entrambi. I due, seppur provengano dalla stessa parte politica: la sinistra extraparlamentare, da molti lustri sono su posizioni diverse su qualunque argomento da talk politico. Ed ecco così che l'ex tribuno del popolo di Samarcanda rinfacciava all'ex presidente di Rcs che, «noi non abbiamo combattuto per Baghdad. Tu eri contro, ma noi non siamo andati a difendere Baghdad». Con Mieli che perdeva la calma per chiedere: «Ma perché a Baghad hai detto Bush fermati e non Bush e Saddam fermatevi?». Ed eccoli che si torna agli anni quando i due erano i protagonisti del dibattito politico e televisivo, creandolo loro stessi, mentre oggi eccoli trasformati in attori di una narrazione decisa da altri. 

"Siete chiacchieroni", "Imbecille". Scontro tra il giornalista ucraino e la Maglie. Marco Leardi il 29 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il giornalista ucraino accusa la Maglie di parlare a vanvera sull'Ucraina e il confronto tv si infiamma. "Che discorsi fai? Ringrazia che sei lontano, due schiaffoni non te li levava nessuno".

Ancora scintille. Ancora toni accesi e contrasti. Nei dibattiti televisivi sul conflitto in Ucraina è diventato sempre più difficile tenere i nervi saldi, anche sulla tv nostrana. Stamani, in diretta a L'Aria che tira, su La7, si è consumato un durissimo scontro tra il giornalista ucraino Vladislav Maistrouk e Maria Giovanna Maglie. I due sono arrivati ai ferri corti proprio quando si stava discutendo delle soluzioni per porre fine alle ostilità. Il cronista collegato da Kiev ha infatti contestato alcune argomentazioni udite in precedenza, con modi che hanno fatto innervosire la collega. Così, la situazione è degenerata.

"Quando i vari propagandisti italiani che si mascherano dietro al titolo di giornalista raccontano che bisogna trattare e parlare, dicessero a Putin di smettere di sparare e non agli ucraini di smettere di chiedere armi", ha attaccato Maistrouk, noto al pubblico italiano per sua la strenua difesa della linea di Kiev. A quel punto Maria Giovanna Maglie - sentitasi chiamata in causa - ha preso la parola per controbattere. "Ci sono persone, caro amico ucraino, che hanno la capacità di rendere antipatiche le loro cause, anche quando sono le più importanti e le più nobili. E tu sei tra costoro, per il modo arrogante che hai di dire le cose!", ha chiosato la giornalista, accendendo letteralmente le polveri.

Tanto è bastato, infatti, per far esplodere l'alterco. "Io non voglio essere simpatico a lei, non me ne frega niente", ha ribattuto Maistrouk, mentre la collega italiana tornava nuovamente a bacchettarlo. "La questione non è essere simpatico, ma essere convincente. Cosa credi, che la gente voglia fare il negoziato senza Putin? Che discorsi fai? È chiaro che i negoziati si fanno con Putin", ha strillato la Maglie. Da Kiev è arrivata l'ulteriore replica: "Siete soltanto dei chiacchieroni! Quando vi viene chiesto cosa proponente, non dite mai niente di niente. Dite 'vogliamo la pace', ma noi ucraini siamo i primi a volere la pace perché siamo noi a morire. Sta parlando a vanvera la signora!".

Il tentativo di dialogare a quel punto è tramontato del tutto, tra accuse reciproche e toni ormai alle stelle (anche da un punto di vista strettamente acustico). Infervorato con l'interlocutrice, a un tratto Maistrouk ha dato l'impressione di volersi trattenere. "Non voglio esprimermi riguardo alla signora...", ha annotato. E la Maglie, implacabile: "È meglio che tu non ti esprima. Ringrazia il cielo che sei lontano, perché due schiaffoni non te li levava nessuno. Ma fammi il piacere, imbecille!".

Nella bagarre di quel momento, il giornalista ucraino ha poi trascinato anche la conduttrice. "Che esperti invitate?", ha lamentato Maistrouk, rimproverando a Myrta Merlino di aver dato spazio, oltre che alla stessa Maglie, anche al collega Francesco Borgonovo, da lui definito "propagandista". "Myrta, hai un minimo di tatto a invitare due ragazze i cui mariti stanno combattendo in Ucraina per poi fargli sentire un propagandista italiano?", ha nuovamente attaccato il cronista di Kiev. E la Maglie: "Tu sei pazzo. Tu non stai bene!".

L'ucraino Maistrouk impazzisce: "Propagandisti putiniani, igiene mentale". Myrta Merlino lo caccia, caos a La7. Libero Quotidiano il 29 aprile 2022.

È una furia Vladislav Maistrouk, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira su La7, nella puntata del 29 aprile. Prima attacca Maria Giovanna Maglie, poi, non soddisfatto, il giornalista ucraino si sfoga contro Francesco Borgonovo de la Verità: "Quando tu chiami propagandisti e giornalisti, stai mischiando tutto", dice rivolto alla Merlino. "Sei una giornalista? Sì. Allora, Borgonovo è un propagandista putiniano, uno della Pravda italiana". "Qui ci vuole l'embargo alla vodka", ribatte ironico Borgonovo. "Non mi interessa la sua opinione. È una questione di igiene mentale", sbotta Maistrouk. "Sono inalberato, è stata uccisa la mia collega, voi mettete in discussione tutto".  

A questo punto la conduttrice è costretta a intervenire: "Vlad, no, così non va bene. Vorrei darti una visione realistica dei fatti", cerca di farlo ragionare la Merlino. "Vlad, devi ascoltare gli altri. Le discussioni si fanno ascoltando il prossimo, altrimenti fai un pessimo servizio alla tua causa e non sei tu a dare la patente di chi può parlare e chi no". E aggiunge: "Di igiene mentale parla il regime russo per mettere il bavaglio alle persone, mi rifiuto. Io ascolto con piacere anche le opinioni che non mi piacciono per niente, questa è l’Italia". 

Ma Maistrouk è incontenibile e non si ferma. È un fiume in piena. Quindi la conduttrice è costretta a prendere una drastica decisione, una decisione che non avrebbe mai voluto prendere: "Non è il modo di stare in televisione Vlad. Devo chiudere il collegamento. Detesto mandare via gli ospiti, ma così non è fattibile, non è un dialogo civile". "Stiamo combattendo per la libertà e la democrazia". chiosa la Merlino.

Talk show Ucraina, Vittorio Sgarbi fa a pezzi Lilli Gruber: "La più faziosa". Mentana e Formigli, che bordate. Il Tempo il 07 marzo 2022.

Enrico Mentana? È come Vladimir Putin: "occupa gli spazi di tutti". Vittorio Sgarbi a valanga sui protagonisti del talk show h24 dedicato alla guerra in Ucraina. Il critico d'arte e parlamentare del gruppo misto ha dato i volti ai giornalisti tv che raccontano da undici giorni l'invasione russa. Per Sgarbi il numero uno è Nicola Porro, "l'unico non schierato. E' evidente che Putin ha torto in quanto ha iniziato questa azione militare, ma quante guerre hanno fatto gli Stati Uniti? Pensiamo solo all'Iraq, alla Libia, all'Afghanistan..." argomenta Sgarbi. 

Il sottotesto è che altri invece sono schierati a prescindere. Come Lilli Gruber e il suo Otto e Mezzo su La7: "La sua è la peggiore trasmissione televisiva per contenuti e ospiti, ma è la migliore come ritmo". In ogni caso "è la trasmissione più tendenziosa di tutte. Lei ha già la verità in tasca, però il suo ritmo narrativo è intelligente grazie al fatto che ha pochi ospiti", spiega il critico d'arte ad Affaritaliani. 

Meglio Barbara Palombelli, "l'anti-Gruber", mentre "Mentana è come Putin". Con le sue maratone occupa gli spazi degli altri. Con l'elezione del presidente della Repubblica, ad esempio, ha occupato lo spazio di Myrta Merlino, un'altra che ha già le risposte in tasca" attacca Sgarbi. Il direttore del Tg La7 "si comporta esattamente come Putin, lui occupa lo spazio degli altri, nel caso del Quirinale per 15 ore dicendo sempre le stesse cose noiose. Perfino la povera Tiziana Panella è diventata sua ospite".

Siluri anche a Giovanni Floris ("Un ragazzo sensibile, è come Zelensky") e Corrado Formigli ("una Gruber di serie B"). Stringendo, ecco la classifica sgarbiana: come detto vince Porro, poi Massimo Giletti,  Veronica Gentili, Palombelli, Concita De Gregorio, Brindisi, Floris, Formigli, Mentana. Fanalino di coda come facilmente intuibile la Gruber. 

2 più 2 uguale 5. Confesso di avere capito Orwell solo oggi, guardando la tv italiana. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 20 Aprile 2022.

Il cuore del problema, nei giorni in cui Putin non esita a decorare i soldati responsabili dell’occupazione di Bucha, è sempre lo stesso: come ottenere non dal singolo, ma da una massa di persone, la negazione dei dati di fatto più elementari.

Lo confesso, sarà stato il fatto di averlo studiato a scuola, sarà stata l’influenza di una formazione togliattiana, ma a me i romanzi di George Orwell, fino a oggi, erano sempre sembrati una lettura magari anche piacevole e interessante, certo però tutt’altro che illuminante. “1984” in particolare: tutta quella storia su un regime distopico che si sforza tanto per spingere le persone a negare che due più due faccia quattro, sinceramente, non mi pareva un’idea così geniale, né come immagine letteraria né come analisi politica. Ora capisco che mi sbagliavo.

Il cuore del problema è esattamente quello: la negazione dell’evidenza. Come ottenere non dal singolo, ma da una massa di persone, la negazione dei dati di fatto più elementari. Come raggiungere questo sommo grado di disumanizzazione, in cui entrano in gioco intelligenza e sensibilità, perché per trasformare un essere umano in una cosa occorre amputarlo di entrambe. Per isolarlo efficacemente dal mondo esterno occorre un’opera di desensibilizzazione che ne atrofizzi tanto i sentimenti quanto le facoltà intellettuali.

Affinché il male diventi effettivamente una banalità, affinché stuprare una donna accanto al cadavere del marito e di fronte ai figli divenga come pagare un conto corrente alla posta, come cambiare una lampadina, c’è bisogno di una particolare formazione. E anche per ignorare, difendere, manipolare o semplicemente fingere di non vedere tutto questo.

Seguendo il grottesco dibattito sulla guerra alla tv e sui giornali italiani, tralasciando i casi di più evidente malafede, spiegabili in altro modo, mi sono convinto che la questione decisiva sia proprio quella: la possibilità di negare persino che due più due faccia quattro, e di convincersene sinceramente.

Le ragioni possono essere molte, più o meno scontate, dalla dissonanza cognitiva alla semplice paura, e conseguente rimozione della realtà. Ma di tutti i modi per alimentare un simile atteggiamento il più diffuso e il più dannoso mi pare un modo di argomentare, forse anzitutto una posa, che consiste nella svalutazione dei dati di fatto più evidenti proprio perché evidenti, dunque troppo semplici, troppo elementari, con un impercettibile slittamento del discorso dalla semplicità del fatto alla semplicità del ragionamento che ne prende atto, che sarebbe dunque prova di un modo ingenuo, semplicistico, non abbastanza raffinato di pensare. È un gioco delle tre carte da quattro soldi, ma è anche il trucco più insidioso, perché fa appello alla vanità di ciascuno di noi. E chi di noi vorrebbe passare per un sempliciotto, per quello che se la beve, che non capisce cosa c’è dietro?

Presi dal terrore di passare per fessi, in tanti esitano, timorosi di essersi lasciati sfuggire qualche elemento decisivo, frastornati da tante fumose allusioni a manovre e macchinazioni dietro le quinte. E così arrivano a negare persino quello che hanno davanti. Perché, alla fine dei conti, l’elogio della complessità serve solo a negare l’evidenza.

Quando ero bambino mio fratello maggiore mi poneva spesso quel diabolico indovinello: «Pesa più un chilo di piombo o un chilo di paglia?». Essendoci cascato già, ricordavo che c’era il trucco, ma non ricordavo quale, e così rispondevo sicuro, ogni volta: «Un chilo di paglia!».

Dovendo trovare una spiegazione all’orrore morale e intellettuale di tanti discorsi che ancora oggi sentiamo fare in tv e sui giornali, mentre in Russia Vladimir Putin non esita a decorare al valore la brigata responsabile dell’occupazione di Bucha, inviando così all’intero esercito un chiarissimo messaggio di incoraggiamento e approvazione, non trovo altra spiegazione. Gridano che un chilo di paglia pesa più di un chilo di piombo, con fermissima convinzione, per timore di passare per fessi, cioè per conformarsi alle aspettative dell’ambiente, dei colleghi, dei datori di lavoro o del pubblico (possibilmente pagante) che sentono o immaginano attorno a sé, esattamente come il personaggio di Orwell gridava infine, con un senso di autentica liberazione, che due più due fa cinque. Almeno non si dessero arie da anticonformisti.

Estratto dell'articolo di Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.

Assistiamo da quasi due mesi a "una guerra in diretta". L'intervento armato della Russa in Ucraina, infatti, è stato seguito dai media fin dall'inizio. In tempo reale. Uno spettacolo di violenza, che ha sollevato indignazione, preoccupazione. Paura. Presso una larga maggioranza di persone. 

Anche per questo, è divenuto "permanente". Perché lo "spettacolo della paura", come si sa, suscita e stimola l'attenzione. Fa "ascolti". Tanto più quando si tratta di uno spettacolo che "riproduce" la realtà. Ma provoca dibattito. Perché solleva dubbi.

Sospetti. Fino a "negare" l'evidenza dei fatti, confondendo, talora annullando, la distinzione fra vittime e aggressori. Come si sta verificando in questa occasione. Il sondaggio condotto di recente da Demos per Repubblica fornisce, al proposito, numerosi motivi di riflessione. E preoccupazione. 

Sottolinea, anzitutto, quanto sia ampia l'attenzione degli italiani nei confronti della guerra tra Russia e Ucraina. Quasi sette persone su 10, infatti, si dicono (molto o abbastanza) informate sugli avvenimenti e l'evoluzione del conflitto.

Nella maggioranza dei casi, giudicano positivamente la rappresentazione della guerra offerta dalla tv. Un po' meno, la narrazione e la cronaca proposte dai giornali, apprezzate, comunque da metà dei cittadini. 

La tv, d'altronde, costituisce da tempo il principale canale di informazione. Gli italiani si dicono, invece, molto meno soddisfatti del ruolo svolto dai talk show. Che enfatizzano il conflitto in Ucraina, fino a trasformarlo in un "spettacolo permanente", nel quale, di fronte alle immagini della tragedia, recitano "attori" di diversa professione e impostazione.

Esperti di geo-politica e di guerra, cronisti, giornalisti, analisti, opinionisti. Politici e militari. Presenti dovunque. Hanno occupato la scena dove prima intervenivano altri "specialisti della paura". Virologi e medici che si occupavano - e si occupano - di un problema fino a ieri dominante e, pressoché, unico. Nella vita pubblica e personale. Il Covid. Oggi largamente oscurato e messo in ombra dall'intervento russo in Ucraina.

Nell'insieme, però, la "comunicazione" intorno alla guerra suscita, fra i cittadini, un atteggiamento scettico. In parte, diffidente. Quasi metà degli italiani (intervistati da Demos), infatti, ritiene l'informazione sul conflitto "distorta e pilotata".

Quasi una persona su quattro, in particolare, la ritiene faziosa. Ed esprime un approccio "negazionista", quasi complottista. Ritiene, cioè, che le notizie e le immagini dei massacri compiuti siano largamente false o falsificate. Amplificate e/o costruite ad arte dal governo ucraino. 

E, dunque, "ispirate" da Volodomyr Zelensky per delegittimare la figura di Vladimir Putin e "criminalizzare" l'azione dell'esercito russo. Oltre gli stessi limiti segnati da una guerra. Per costruire un "nuovo muro". Contro la Russia.

Effetto talk show. Un italiano su quattro diffida delle notizie sugli orrori commessi dai russi in Ucraina.  L'Inkiesta il 19 Aprile 2022.

La diffidenza verso l’informazione sulla guerra è diffusa e politicamente trasversale, ma risulta particolarmente estesa nelle componenti che si collocano più a destra. La maggioranza si documenta in tv ed è stanca dello spettacolo permanente del conflitto. 

La guerra in diretta, i talk show, le notizie in tempo reale. Tutto da quasi due mesi. Uno spettacolo di violenza – spiega Ilvo Diamanti su Repubblica – che ha sollevato indignazione, preoccupazione e paura. E sollevato anche molti dubbi e sospetti. Fino alla negazione dell’evidenza dei fatti, confondendo, a volte annullando, la distinzione fra vittime e aggressori.

Secondo un sondaggio condotto da Demos per Repubblica, un italiano su quattro diffida delle notizie sugli orrori russi nella guerra in Ucraina, definendoli come propaganda di Kiev.

Quasi sette persone su dieci si dicono (molto o abbastanza) informate sugli avvenimenti e l’evoluzione del conflitto. Nella maggioranza dei casi, giudicano positivamente la rappresentazione della guerra offerta dalla tv. Un po’ meno, la narrazione e la cronaca proposte dai giornali, apprezzate, comunque da metà dei cittadini.

La tv costituisce da tempo il principale canale di informazione. Gli italiani si dicono, invece, molto meno soddisfatti del ruolo svolto dai talk show che enfatizzano il conflitto in Ucraina, fino a trasformarlo in un «spettacolo permanente» nel quale, di fronte alle immagini della tragedia, recitano «attori» di diversa professione e impostazione. Esperti di geo-politica e di guerra, cronisti, giornalisti, analisti, opinionisti, politici e militari. Hanno occupato la scena dove prima intervenivano altri «specialisti della paura», ovvero virologi e medici che si occupavano del Covid, oggi largamente oscurato e messo in ombra dall’intervento russo in Ucraina.

Nell’insieme, però, la comunicazione intorno alla guerra suscita, fra i cittadini, un atteggiamento scettico. Quasi metà degli italiani intervistati da Demos ritiene l’informazione sul conflitto «distorta e pilotata». Quasi una persona su quattro, in particolare, la ritiene faziosa. Ed esprime un approccio negazionista, quasi complottista, ritenendo cioè che le notizie e le immagini dei massacri compiuti siano largamente false o falsificate. Amplificate e/o costruite ad arte dal governo ucraino. E, dunque, «ispirate» da Volodomyr Zelensky per delegittimare la figura di Vladimir Putin e «criminalizzare» l’azione dell’esercito russo.

La diffidenza verso l’informazione sulla guerra appare diffusa e politicamente trasversale, ma risulta particolarmente estesa nelle componenti che si collocano più a destra. Fra gli elettori dei Fratelli d’Italia è al 60%. È, tuttavia, maggioritaria anche nella base della Lega e del Movimento Cinque Stelle. E, appena più ridotta, tra chi vota Forza Italia. Solo gli elettori del Pd affermano, in gran parte, di credere alla rappresentazione della guerra proposta dai media.

Il profilo della «diffidenza mediatica» è enfatizzato quando si osservano la ri-costruzione e l’attribuzione delle responsabilità di fronte agli effetti sanguinosi e tragici dell’invasione russa. In questo caso, quasi un quarto degli italiani (intervistati) manifesta «distacco». Ritiene, cioè, le notizie e le immagini che provengono dal centro della guerra false. Una «montatura del governo ucraino», raccolta dai nostri media per interesse politico e per alimentare gli indici di ascolto e di consumo mediatico.

Così, spiega Diamanti, possiamo assistere alle immagini e alla cronaca della guerra come se non ci riguardassero. Da spettatori. Tuttavia, siamo consapevoli che si tratta di uno spettacolo che ci potrebbe coinvolgere. Per questo, è diffusa la tentazione di restare lontani, al di qua dello schermo.

Tutti prosciutti. I talk, Conte e i piazzisti del sé della televisione italiana. Guia Soncini su Linkiesta il 15 Aprile 2022.

Una volta prendevamo in giro Baudo che diceva di tutte «L’ho scoperta io», e ora siamo diventati come lui e neppure ce ne accorgiamo, clienti e pusher dello spaccio di opinioni.

Come se il declino delle élite non fosse sufficientemente certificato, per un attimo ieri ho pensato che, a sessant’anni dal “Penelope va alla guerra” di Oriana Fallaci, fosse il caso di scrivere “Il prosciutto va alla guerra”, la cronaca struggente – dalla quarta di copertina: fa ridere ma anche pensare – di cosa significa avere qualcosa da vendere quando la comunicazione (e cioè: gli spazi di vendita) è monopolizzata dalla guerra.

L’economia dell’attenzione funziona sempre nello stesso modo: prima era solo pandemia, ora è solo guerra, domani solo chissà. Ora è solo Ucraina, e un giornalista mi raccontava di recente d’aver ricevuto, da una profuga afghana con cui era in contatto, un messaggio che diceva: ma di noi non ve ne importa più niente? La stessa persona mi diceva d’essersi, tre anni fa, assicurata un’intervista a Zelensky che non è mai stata pubblicata perché la risposta del giornale fu qualcosa tipo «ma chi lo conosce».

Quindi ieri mattina mi sono svegliata e, invece di scendere in pigiama a prendere il cappuccino, mi sono vestita e persino pettinata (o quasi) e persino truccata, ho acceso la telecamera del computer e mi sono collegata con un talk-show del mattino, Coffee Break, peraltro condotto da colui che venticinque anni fa era il mio capufficio (in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti).

A un certo punto ho smesso di guardare la televisione. Se smettete di leggere perché vi sembra una frase scema, vi capisco: anni fa anch’io ritenevo «non ho la televisione» la più imbecille delle affermazioni. Poi mi si è frammentata l’attenzione, e ho smesso di riuscire a seguire qualcosa per più di dieci minuti, il che esclude qualunque programma della tv italiana (durata media: tre ore; percepite: quindici). Faccio uno sforzo la settimana di Sanremo, e poi ci metto un mese a riprendermi.

Questo per dire che sono ignara di molte delle dinamiche da talk-show: ne guardo brandelli se devo scriverne, ma ieri ero lì che assistevo come fosse inedito a uno spettacolo che probabilmente è noto a chiunque abbia con la tv un rapporto da spettatore costante.

La prima cosa che ho notato, collegata con Coffee Break, è stata la cartina. Quindi Andrea Pancani (il mio ex capufficio) lo sa, che non sappiamo di cosa stiamo parlando. Che ieri eravamo esperti di epidemiologia e oggi di Europa orientale e domani chissà, ma devono aiutarci con le illustrazioni per non farci fare brutta figura.

La seconda e più importante cosa è stata la disperazione. C’erano due ospiti in studio, un altro collegato da casa sua, e poi è arrivato un tizio a fianco d’un inviato. I quattro avevano in comune una cosa, e non era l’essere maschi (anche se a un certo punto ho meditato di mettermi a strillare «non mi fate parlare perché sono l’unica femmina», ma poi mi veniva da ridere: è un ottimo momento per approfittarsene, essendo donne, ma devi riuscire a restare seria se vuoi farlo).

La cosa che avevano in comune era «solo una battuta». «Solo una battuta» era la premessa con cui interrompevano il conduttore che tentava di toglier loro la parola, o si prendevano un turno di parola non loro. «Solo una battuta» era la premessa a un intervento d’un paio di minuti, e qui ho opinioni che non condivido.

Da una parte due minuti sono televisivamente interminabili, e un evidente tentativo d’uccidere di noia il pubblico, e un segno di disperazione che mi straziava il cuore: guardalo, pulcino, che s’aggrappa al suo intervento come Leonardo DiCaprio alla zattera del Titanic, illuso sia risolutivo, illuso che cambi qualcosa, illuso di dire cose dirimenti.

Dall’altra due minuti (ma pure due ore) non bastano a risolvere una guerra, ma neppure una pandemia, ma neppure a spiegare un qualsivoglia romanzo figuriamoci nazione figuriamoci equilibrio internazionale. A un certo punto ho pensato di dire: ci sono delle bellissime pagine di Nabokov sul fatto che non ci si può illudere d’aver capito la Russia avendo letto “Anime morte” di Gogol’, e noi ci illudiamo d’aver capito la Russia perché abbiamo visto due video su TikTok; ma poi ho pensato che sarei sembrata la solita stronza che cita gli Adelphi per darsi un tono.

Guardavo di soppiatto l’orologio, mentre nello studio con cui ero collegata risolvevano i problemi del mondo, e pensavo alla scrittrice che cito all’inizio dell’“Economia del sé”, quella che quando ero io la conduttrice e lei quella con un libro da vendere disse «Il libro si può anche citare, non è un prosciutto».

Pensavo: mancano dieci minuti alla fine e nessuno ha ancora citato il mio prosciutto, cosa son venuta a fare, ho già un sonno da morire. Pensavo: sai che c’è, quando a un minuto dalla fine lo citeranno, io dirò, come Laura Morante in “Turné”, «io la cultura in trenta secondi non ce la faccio». Poi non l’ho fatto, perché sono una vile. Nel frattempo Andrea si collegava col programma successivo, dove annunciavano come ospite Conte (il già segnaposto, non l’ancora cantante), e io pensavo ma quasi quasi quando finiamo non spengo, ma quasi quasi è il giorno in cui recupero tutta la tv che non ho visto negli ultimi anni.

Guardavo Conte e pensavo che è tutto prosciutto, tutto «io», tutti piazzisti del sé: «Sono stato il primo a dire che Biden ha fatto benissimo», diceva quello, e io pensavo a quando prendevamo in giro Baudo che diceva di tutte «L’ho scoperta io», e ora siamo tutti Baudo, e neppure ce ne accorgiamo.

Sono stata bambina nel Novecento: ci dicevano di stare attenti a quelli che volevano venderci la droga fuori da scuola. Mentre l’intervistatrice di Conte continuava a ripetere «eterogenesi dei fini», pensavo che siamo privi di strumenti: nessuno ci ha avvisati per tempo di stare attenti non solo al commercio di stupefacenti ma anche ai gorghi della programmazione televisiva. Sbadigli sopra un cappuccino, paghi il conto al tuo destino, ed è un attimo accendere per vendere il tuo salume e ritrovarti cliente dello spaccio d’opinioni.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.  

Per una volta vorrei essere neneista (né con la Vigilanza, né con la Berlinguer), ma forse anche un po' hegeliano, per quel che mi ricordo della sacra triade dialettica. Riassunto delle puntate precedenti. La commissione di Vigilanza Rai (un organismo che disapprovo di cuore, prova vivente della mano dei partiti su Viale Mazzini), sta per varare dei provvedimenti a proposito della «presenza di commentatori e opinionisti all'interno dei programmi Rai».

Il più ridicolo di questi provvedimenti dice più o meno così: bisogna invitare «solo persone di comprovata competenza e autorevolezza» ma non bisogna pagarle, perché il ruolo di ospite non diventi una professione. Ma questi signori sanno che la competenza e l'autorevolezza hanno un costo? Altrimenti si alimenta solo il narcisismo. Alla Commissione di Vigilanza ha risposto Bianca Berlinguer, con una difesa molto pretestuosa: show, don't tell (mostra cosa sai fare, non raccontare).

Alla tesi e all'antitesi, vorrei aggiungere una sintesi da servizio pubblico. Da quando c'è la pandemia, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, Fabio Fazio ha preso alcune decisioni molto serie circa il suo programma: ha cercato di informare il più possibile sulla situazione, ha sempre invitato ospiti competenti e misurati, ha separato i momenti più «leggeri» da quelli più strettamente legati all'attuale momento drammatico.

Ha evitato in maniera sistematica la cagnara, la rissa, il folklore e, alla fine, «Che tempo che fa» è un talk show Rai che non ha bisogno dei pleonastici provvedimenti della Vigilanza. I modi con cui Fazio presenta possono piacere o no ma, in tutta onestà, gli vanno riconosciuti gli sforzi di cambiamento che ha fatto per allestire un programma all'altezza dei tempi che stiamo vivendo. P.S. Il prof. Orsini è un problema della Luiss non della Rai.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 14 aprile 2022.  

In altri tempi e in un altro Paese il servizio di Gaetano Pecoraro delle Iene riguardo al caso degli opinionisti in Rai, e più specificamente alla vicenda del docente della Luiss Alessandro Orsini, avrebbe scatenato un putiferio mediatico. 

Invece, nel silenzio generale, nel suddetto servizio del programma di Italia1 sono state udite testimonianze illustri che fanno alquanto riflettere e che, se corrispondenti al vero, getterebbero una livida luce sullo stato dell'informazione pubblica italiana.

In primis le parole del giornalista del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi, presenza fissa remunerata a #Cartabianca condotto da Bianca Berlinguer su Rai3. Interpellato nel servizio delle Iene sulla questione degli ospiti pagati nei talk Rai, Scanzi ha risposto: "Io sono in una posizione scomoda e non mi va di dire nulla pubblicamente, anche perché francamente saranno anche cazzi miei.... saranno anche cazzi miei se vengo pagato e quanto vengo pagato, se non fossi uno dei pagati la farei anche l'intervista ma non mi va perché sono in mezzo a vari fuochi, la Rai, Il Fatto Quotidiano, eccetera, quindi qualsiasi cosa dico mi massacrano e viene anche addosso a me... e anche dico mezza cosa poi verrebbe strumentalizzata. E io diciamo che ho degli imperativi dall'alto nei posti dove ho dei contratti per cui tutto sommato è meglio se non apro bocca".

A parte che, se e quanto viene pagato Scanzi - nel caso si tratti della Rai - non sono solo "cazzi suoi" ma anche degli italiani che pagano il canone, quindi è del tutto lecito interrogarsi su quali siano i suoi compensi.

Ma poi che genere d'imperativi, e da parte di chi? Dei vertici Rai? Di Bianca Berlinguer? Di La7, dov'è contrattualizzato nel programma Otto e mezzo di Lilli Gruber? Dalla direzione del Fatto? Mistero, il giornalista delle Iene non gli ha chiesto delucidazioni. Alla domanda specifica sul caso Orsini, il giornalista del Fatto ha invece risposto: "Se lo difendo è comunque una difesa di partito perché lui fa parte del Fatto Quotidiano; se lo difendo poco s'incazza il Fatto, se lo difendo troppo s'incazza la Rai, son proprio nel mezzo".

Essendo attualmente al vaglio della Vigilanza una proposta per regolamentare gli ospiti dei talk del servizio pubblico, Le Iene ha dato quindi spazio a due esponenti della Commissione: al Segretario Michele Anzaldi (Iv), che fra le altre cose ha ricordato il compenso pattuito per Orsini nel contratto con #Cartabianca poi rescisso dalla Rai (2.000 euro a puntata per sei puntate, ovvero 12.000 euro); e al Deputato del Pd Andrea Romano, colui che più di ogni altro si è scagliato contro Orsini, definendolo qualche settimana fa "pifferaio della propaganda di Putin", e che nel programma di Italia1 ha ribadito la sua contrarietà alla contrattualizzazione del docente della Luiss.

Istanze rifiutate categoricamente da Angelo Guglielmi, Direttore storico di Rai3 interpellato dalle Iene, secondo il quale la Commissione di Vigilanza Rai è il male assoluto - in sintonia con Aldo Grasso, rilanciato da Dagospia - poiché organo che legittima l'ingerenza della politica sulla Rai.

Al punto che, dietro la proposta contenuta nella risoluzione al vaglio della Commissione, secondo la quale è necessario garantire il pluralismo nei talk show si celerebbe - a detta di Guglielmi - l'espediente di salvaguardare quello dei partiti, "cosa inaccettabile". Per lo storico Direttore di Rai3, insomma, "La Vigilanza deve sparire!". 

Sempre in chiave "antipolitica", il servizio del programma di Italia1 ha quindi intervistato Carlo Freccero, già Direttore di Rai2, che ha stigmatizzato - al pari di Toni Capuozzo, anch'egli interpellato dalle Iene - il pensiero unico dominante in base al quale vengono "in un modo molto subdolo" messe a tacere le voci dei "dissidenti" come Orsini.

Freccero ha poi sottolineato come il Tg1 di Monica Maggioni abbia "soppresso" i titoli di testa del notiziario per sostituirvi "la copertina unica, che è per emozionare, sedurre, far passare un'idea sola, ecco questo è un esempio di come la libertà di espressione venga occultata da tecniche di propaganda".

A sentire invece il parere affidato alle Iene da un alto dirigente Rai che ricopre una posizione apicale e che ha preferito restare anonimo (e del quale pareva di percepire un lieve accento toscano), Bruno Vespa - che ha ribadito a Repubblica di non voler categoricamente invitare Orsini - non lo vuole in trasmissione perché "gli sta sul cavolo quello che dice". 

Il dirigente ha parlato poi delle ospitate che in Rai sono contrattualizzate per un pacchetto di 6,8,10 puntate, accanto però agli ospiti fissi, una situazione di "giungla" che viene cavalcata dalla politica. Secondo l'anonimo pezzo grosso Rai, infatti, "si fa il caso di Orsini ma non si fanno altri casi che magari fanno più comodo, tipo Porta a Porta che fa uso di ospiti fissi, come Antonio Polito che percepisce un gettone".

Il dirigente si è poi indirettamente riferito alle rivendicazioni di Bianca Berlinguer sulla libertà del conduttore di scegliersi gli ospiti che meglio crede. "Sì certo, ma se questo ospite è scelto per creare polemiche e non aggiungere altro, come per esempio Corona a #Cartabianca, questa cosa va a incidere sulla linea editoriale del Servizio Pubblico, che invece dovrebbe un po' discostarsi dalla ricerca della provocazione, anche con delle voci discordanti come quella di Orsini". 

E a quel punto il dirigente poi ha sganciato la bomba: ovvero che, a suo parere, il docente della Luiss non è finito nel mirino per i 2.000 euro a puntata, bensì per motivi politici. E quali potrebbero essere questi "motivi politici" li ha illustrati in tutta semplicità Freccero: Orsini andrebbe contro al "racconto atlantista del Governo italiano" e quindi va zittito.

Le Iene hanno anche parlato con il diretto interessato, mandando in onda solo uno stralcio della conversazione telefonica intrattenuta con il docente della Luiss. "Io sono napoletano, a Napoli si chiama il Cappottone" ha tuonato Orsini. "Io sono isolato, sono minoritario, e quindi mi fanno il Cappottone, in quella che io chiamo l'orgia illiberale, tutti contro uno. Che è una cosa che mi fa schifo perché è umanamente immorale che tu mi fai 99 contro uno.

Ed è proprio un discorso di umanità che queste cose non si fanno, capito? Adesso loro vogliono portare avanti questa cosa contro di me, e allora fate, fate" - Alessandro Orsini conclude lanciandosi in una profezia che avrebbe fatto impallidire Cassandra - "ché, se le cose prendono la piega che secondo me prenderanno, vedrà quanti italiani verranno sulle mie posizioni". Siamo tutti avvisati. 

Il circo in diretta. La finta equanimità del talk che ospita i pagliacci e accredita gli stronzi. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 14 Aprile 2022.

Il gioco di contrappunto è semplice: far parlare neneisti e pseudo-pacifisti, propalare dubbi su episodi acclarati e cercare di mettere Russia e Ucraina sullo stesso piano.

Già non andrebbe bene se fosse una gara a mettere sul palco, o in prima pagina, il maggior numero di mentecatti, farabutti, mentitori, magliari: in una parola il maggior numero di stronzi. Non andrebbe bene perché l’oggetto sociale della cosiddetta informazione, per quanto già abbondantemente sfigurato, degraderebbe a puro protocollo circense, con lo stalinista “Né con le stuprate né con la Nato” al posto del mangiaspade e con il sindacalista che cerca prove dell’immoralità degli orfani ucraini al posto dell’ammaestratore di pulci.

Solo che la gara non è questa: è peggio. La gara è ad accreditarli, gli stronzi. E dunque se chiami lo sfiancato degli autunni caldi a dire che Zelensky è un dittatore, che l’Ucraina stava sotto a una dittatura, che i russi hanno aggredito, sì, ma una dittatura, che ci vuole la giustizia internazionale, sì, ma per processare la dirigenza ucraina, allora non fai circo, che già sarebbe male, ma lo rendi istituzionale e lo legittimi in equipollenza a qualsiasi rappresentazione diversa. E amen se in una c’è l’uomo più forte del mondo che solleva macigni di cartapesta, ovvero l’analista che spiega che Biden istruisce i passanti ucraini a camuffarsi da cadaveri, e dall’altra questa noia, questa storia scontata, questa menata insopportabile del tiranno che invade e mette a ferro e fuoco un Paese libero che poi è tutto da vedere quanto fosse libero.

Secondo questo bel procedimento sarebbe perfettamente ammissibile, perfettamente congruo e altrettanto serio, oggi, un bel talk sui Protocolli dei Savi di Sion, perché è indiscutibile che esistano autorevolissime voci che ne reclamano la veridicità, laddove l’autorevolezza dipende appunto dal fatto che in qualche fogna social o televisiva l’argomento è propugnato. Ed è il procedimento per cui sulla news dell’ospedale bombardato fa fede equiparabile l’agenzia russa secondo cui era un covo di nazisti, perché questo conta, la capacità recipiente ed equanime dell’informazione che si mostra rigorosa nella misura in cui raccomanda di ricordare che magari c’è Auschwitz, d’accordo, ma signora mia c’è anche il professor Stracazzi che dice che era un parco giochi.

Il giornalismo che fa mostra di lavorare in contrappunto, dando spazio un giorno sì e l’altro pure a quello che chiede l’abolizione della guerra tramite l’abolizione di chi la subisce e mettendolo dirimpetto, ma una volta al mese, a quello che proprio non ce la fa a giustificare gli stupri di massa perché c’è la presunzione di innocenza, ecco, fa un lavoro particolare: il complemento delle operazioni speciali. Un circo che sarebbe ingiusto vietare, per carità, ma non pagargli il biglietto sarebbe almeno da considerare.

La parrocchietta. L’iperbole geopolitica e l’alibi del pluralismo dell’informazione italiana. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 13 Aprile 2022.

Che cosa ha pubblicato la rivista Limes su Russia e Ucraina, letto alla luce della massima salveminiana secondo cui l’imparzialità è un sogno e la probità è un dovere.

Lo scorso fine settimana è accaduta una cosa interessante in quella sorta di sacrestia comunitaria dell’informazione che sono i social, dove i chierici e i ministranti della libera stampa discutono, bisticciano e (a volte) si menano dopo la messa. 

La cosa interessante non è che anche in questo week end, come del resto avviene tutti i giorni, giornalisti e lettori (chi è senza peccato eccetera eccetera) abbiano preso a punzecchiarsi su quanto scritto o taciuto dalle rispettive testate: è interessante, anzi decisamente essenziale, proprio l’oggetto della discussione, rappresentato dal nodo scorsoio del rapporto tra pluralismo e responsabilità, a cui sta finendo letteralmente impiccata la libera informazione in Occidente e con lei quel suo sottovalutato sottoprodotto politico, che è la democrazia.

Ecco la vicenda in breve, come raccontata direttamente dalla testata protagonista della querelle, cioè Limes, in un thread su Twitter. 

La tabella non esprime l’opinione di Limes ma del professor John O. Willerton, politologo dell’Università dell’Arizona e uno dei massimi esperti americani di Russia. 1/3

È infatti estrapolata fuori contesto da un articolo pubblicato sul numero 11/2021 di Limes (“CCCP, il passato che non passa”) nel quale il professor Willerton scrive: “La tabella fissa undici importanti aspetti della società russa. 2/3

La colonna di sinistra presenta la mia valutazione, basata su opinioni correnti nella società russa, mentre la colonna di destra fornisce in breve la versione iperbolica che pervade la percezione americana.” 3/3

La tabella in questione era questa, ed esponeva in modo sintetico quale sarebbe la realtà della Russia e quale sarebbero le balle che sulla Russia gli americani amano raccontarsi. Le balle, per fare un esempio, sono che Putin ammazzi oppositori e giornalisti e invada Paesi terzi, che la Crimea sia stata annessa illegalmente e che si possa parlare di dittatura putiniana.

La realtà è che i giornalisti e gli oppositori muoiono, sì, ma «in zone violente» (Anna Politkovskaja fu ritrovata morta nell’ascensore di casa, Boris Nemtsov nei pressi del Cremlino) e «a causa di scandali di corruzione» (i morti di mafia, quando la mafia ufficialmente non esisteva, morivano tutti ammazzati da mariti cornuti); la Russia tende un po’ ad allargarsi, è vero, ma «salvaguarda la sua sfera di influenza in Ucraina e Georgia». Quella della dittatura putiniana e dell’assenza di vere opposizioni (se non in esilio, in galera o al cimitero) poi è la madre di tutte le balle, perché in Russia esiste un «sistema decisionale verticale» ma «elezioni regolari con più candidati».

La difesa di Limes è dunque (traduzione mia dal birignao giornalistichese del thread): 

«Mica siamo noi a dire quelle cose, le ha dette questo tizio, noi le abbiamo solo pubblicate e peraltro questo tizio mica dice le cose che voi dite che lui dice»;

«Questo tizio è uno studioso autorevole della Russia ed è pure americano: quindi come vi permettete di criticarci, voi che non parlate russo e magari leggete pure gli articoli degli americani con Google Translate, se non ve li traduciamo noi?»;

«Noi siamo un esempio di testata pluralista, proprio perché pubblichiamo questi servizietti propagandistici, anche se non li condividiamo; siete voi il pericolo per la democrazia, perché volete impedire agli italiani di leggere gli originali contributi di un americano che dice che Putin non è un dittatore e sono gli americani a essere fuori di testa».

L’articolo di Willerton, sfigurato secondo Limes da estrapolazioni fuori contesto, dice esattamente quel che riporta la tabella e lo dice pure peggio. Censura la «caratterizzazione da cartone animato» della realtà russa; irride Navalny («Aleksej 2% secondo il gradimento dei sondaggi russi»), ammette che non c’è dubbio che la Russia «sia intervenuta pesantemente in Ucraina», ma a seguito del «colpo di stato del 2014» e – a conferma della famosa massima per cui, se li torturi abbastanza a lungo, i numeri confesseranno quello che vuoi – spiega che dal 2017 a oggi sono morti più giornalisti statunitensi che russi, per non dire degli indiani e dei messicani e che l’economia della Federazione, giovandosi della cura di Putin, «torna a avvicinarsi a quello della Germania in termini di Pil assoluto».

Chi fa quel particolare mestiere delle armi che è l’informazione (perché ne uccide più la penna ecc. ecc.), se ha un minimo di etica della professione, sa di muoversi a cavallo di una contraddizione permanente. Deve cioè accettare, da una parte, che i fatti e i giudizi non si possono davvero separare, perché qualunque fatto è già di per sé un giudizio, cioè un modo per collegare vari fenomeni secondo relazioni, che si possono dimostrare fondate secondo un metodo condiviso, ma la cui verità non può essere considerata auto-evidente.

Dall’altra parte, pur consapevole di questo, un onesto operatore dell’informazione (usiamo il gergo sindacale, per modestia e umiltà) deve accettare con Orwell che «la libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro» e che i nemici della libera stampa sono in primo luogo i nemici di un’etica del discorso razionale e i propalatori di verità che oggi diremmo parallele. 

È una contraddizione, questa, risolta nella famosa formula salveminiana, per cui, se «l’imparzialità è un sogno», a maggior ragione «la probità è un dovere».

L’informazione non può essere neutrale – perché si parte sempre a raccontare da un sapere limitato e parziale, che precede la cosa raccontata e che ne determina l’interpretazione – ma non può essere arbitraria e disonesta al punto da destituire di fondamento la realtà, surrogandola con una versione addomesticata e photoshoppata, secondo il disegno fornito direttamente dal sovrano. Putin, o chi per lui.

La discussione sul pluralismo, sulla completezza e sulla responsabilità dell’informazione – cioè su quello che fino a pochi anni fa era considerato l’inestinguibile capitale civile dei sistemi democratici e la garanzia della loro tenuta – è ormai esplosa in Italia (e non solo in Italia) in una direzione esattamente contraria a quella della salveminiana probità. 

Il pluralismo è l’estensione ai bari di un uguale titolo di seduta al tavolo delle comparsate e al desco dei gettoni tv. La completezza dell’informazione è la par condicio delle cazzate e l’alibi del clickbaiting universale. Neppure la più piccola scemenza, se genera dibattito, indignazione e sconcerto – cioè, pubblicitariamente, numeri – deve essere risparmiata al lettore e radio-telespettatore.

Il diritto al dissenso è il riconoscimento di una speciale immunità giornalistica per gli agenti del caos, così oggi il dossieraggio e il depistaggio è diventato un’impresa nobile, da liberi pensatori. La responsabilità delle testate è di mettere a disposizione i propri inchiostri per rendere la notte nera dell’informazione ancora più nera, di modo che tutte le vacche, quelle putiniane e quelle antiputiniane, siano indistinguibili ed equivalenti. Tutte innocenti, tutte colpevoli, tutte uguali. 

Così il dubbio, il vecchio vaccino del dubbio contro il fanatismo, diventa la pozione magica del correttismo negazionista: infatti, ci spiegano i cerimonieri della dubbiosità retequattrista e lasettista, abbiamo il dovere di dubitare anche delle vittime ucraine, fino a che non dimostreranno di non essersi aggredite, bombardate e ammazzate da sole. 

La democrazia in Italia e in Occidente rischia di morire proprio di questa informazione “pluralistica”, di cui con sussiego scientifico Limes rivendica il merito e a cui pure chi male non si è condotto dall’inizio della guerra di Putin all’Ucraina rende uno scappellamento obbligato.  

Eppure Limes e il suo direttore Lucio Caracciolo non sono nuovi a operazioni di volontario e involontario fiancheggiamento filo-russo e anti-ucraino, con lezioni impartite ex cathedra, dall’alto di un’autorevolezza riconosciuta a prescindere.

Sui social, nei giorni della discussione sull’articolo dell’autorevole filorusso americano, di cui abbiamo parlato prima, è uscita anche una perla del numero di Limes dell’aprile 2014, due mesi dopo, si badi bene, l’invasione da parte della Russia dell’Ucraina e l’accaparramento della Crimea: si tratta di un pezzo contro la violenza sciovinista ucraina di una sorta di lupo grigio in salsa russa, Egor Prosvirnin – anche lui, ironia della sorte, morto “accidentalmente” lo scorso anno cadendo da una finestra – che accusava Putin di essere troppo compromissorio e che scriveva papale papale: «Putin è spesso paragonato a Hitler. Si ripete spesso l’orribile parola Anschluss… Ma quale Anschluss! Qui si tratta di una vera e propria guerra come quella per l’unificazione italiana! E Putin non si comporta come il diabolico Führer, che aveva l’idea folle di creare un regno mondiale, ma come Vittorio Emanuele II, che riunì un popolo diviso in vari Stati in un’unica nazione».

Nello stesso numero del 2014, campeggiava anche un lungo estratto dell’intervento, con cui Putin stesso giustificava la secessione della Repubblica di Crimea dall’Ucraina e la sua annessione alla Federazione Russa e un altro intervento per salutare con favore la fine degli accordi di Helsinki sull’inviolabilità delle frontiere e sull’integrità territoriale degli stati.

Più recenti sono state le scivolate del direttore di Limes Caracciolo sull’invasione che non ci sarebbe mai stata e a cui potevano credere solo i gonzi ingannati dalla propaganda americana  e la derubricazione, di cui ha scritto ieri Francesco Cundari, della resistenza ucraina e degli ucraini stessi a mero mezzo della guerra tra Usa e Russia. Dei pupazzi nelle mani di altri, non dei protagonisti di una vera epopea civile, prima che militare, che ha stupito sia gli aggressori, che credevano a una guerra lampo, sia gli alleati, che avevano subito proposto a Zelensky di rifugiarsi all’estero.

Allora la domanda è: perché quegli stessi nomi della politica e dell’informazione democratica, che attaccano testate e reti televisive per le tribune propagandistiche che offrono settimanalmente al professor Alessandro Orsini, pensano che sia oltraggioso criticare Limes e Caracciolo che offrono pagine e penna a contributi altrettanto ignominiosi?

Ognuno risponda come vuole, ma è una domanda che chiama evidentemente in causa il funzionamento della parrocchietta dell’informazione progressista e la sua idea degli alleati e dei nemici dell’Italia.

Mal di Tv. Luciano Scateni il 9 Aprile 2022 su La Voce delle Voci.

Forse non c’è il quadro statistico delle gravi disfunzioni mentali indotte prima dalla pandemia e ora dalla tragedia dell’Ucraina ma, ad intuito e per educazione professionale alla lettura degli eventi della vita, è lecito non eccedere nel contare i casi di gravi danni mentali, come la depressione, l’aggressività gratuita e incontrollata. Ben più diffusi sono i disagi minori, il sonno disturbato, il rifiuto di subire ad ogni ora di un’intera giornata l’inarrestabile valanga di notizie, immagini, interviste, dissertazioni di opinionisti e presunti tali, pareri e il loro contrario, prima di rifugiarsi in sé stessi nel tentativo di esorcizzare la ‘paura della guerra’. Aggravante di non poco conto è il funambolico presenzialismo di giornalisti o comunque di conduttori/conduttrici di Tg, annessi e connessi, ma soprattutto di ospiti globetrotter, che saltellano da un canale all’altro sdoppiandosi a velocità come Fregoli non saprebbe emulare. Un nome su tutti, l’‘americano’ Rampini, che in camicia e bretelle di ordinanza occupa come una trottola tutti i canali e più del solito ora che deve promuovere la vendita di un suo libro. Gli manca solo si intrufolarsi in ‘Ulisse, il piacere della scoperta’ di Alberto Angela, nell’intervallo tra un atto il successivo della Bohème, nel notiziario del traffico sul raccordo anulare di Roma.

Amputano gambe e mani, ammazzano soldati e civili. Si chiamano ‘mine’, sono ordigni di morte, sepolti sotto terra per essere invisibili. L’Italia è tutt’altro che estranea alla loro produzione. Ma è anche il Paese di Vito Alfieri Fontana, che ne ha fabbricate e vendute in quantità. Comproprietario della Tecnovar, dava lavoro a 350 dipendenti per la produzione che includeva mine antiuomo, primo acquirente l’Egitto.

Vito, ripudia il ruolo di imprenditore della morte e mette la sua esperienza al servizio della vita, chiude l’attività e diventa sminatore, per restituire futuro a bambini, uomini e donne nell’Est europeo, in Africa, in quei paesi dove rovine, campi, colline, sono coperte di ordigni inesplosi. Rispondere al figlio più piccolo che gli ha chiesto “Papà ma tu sei un assassino? Perché proprio tu?” La svolta è frutto dell’incontro illuminante con un sacerdote: “Fabbricavo mine anti-uomo, ora semino pace”. In lui, così si racconta, convivono da tempo fede, coerenza, consapevolezza che il passato non si può cancellare, ma riscattare sì. Chiusa l’attività, Fontana lavora per Intersos, organizzazione umanitaria che aiuta le vittime di guerre. Nel ‘99 è in Kosovo come sminatore.  In vent’anni sono state disinnescate 300 mila mine. Tra Iran e Iraq ce ne sono tra 30 e 40 milioni, molte sono vicine a sorgenti d’acqua, ad acquedotti. La Croce Rossa parla di 150 milioni di mine. Tra le zone bonificate da Vito le piste delle Olimpiadi invernali a Sarajevo. Oggi da sminare è specialmente la Libia. Vito: “Penso che i prossimi fronti di lavoro dovrebbero essere la Siria (dove hanno utilizzato le mine degli ex arsenali di Saddam) e la Libia, dove si impiegano mine fabbricate in Belgio”.

Se non c’è, Mattarella dovrebbe commissionare il conio di una medaglia molto speciale da appuntare sul petto di questo eroe del nostro tempo. Ecco la natura delle storie da raccontare per far bene alla salute mentale dei teleutenti a compensare l’angoscia per i massacri di Bucha e Kramatorsk, lo spettro di un conflitto mondiale con la Russia, che gli Stati Uniti che non escludono.

No… non è la BBC. Luciano Scateni l'8 Aprile 2022 su La Voce delle Voci.

L’età della saggezza senile è condizione preziosa. Trasmette il ricco patrimonio dell’esperienza a ‘chi viene dopo’. Purtroppo c’è un ma,  la perdita fisiologica dei tesori custoditi dalla memoria. Quella cosiddetta ‘corta’, del dimenticare in pochi secondi fatti appena accaduti, l’altra che ignora nomi ed eventi del passato prossimo e ancor più del remoto. Con tutto il rispetto per la longevità televisiva e il percorso professionale senza uguali, supponiamo che Maurizio Costanzo conservi un ricordo approssimativo del suo celebratissimo ‘Show’ e dunque che non riconosca più la responsabilità di aver intuito per primo, a fini dell’audience, la rissa, le urla, il turpiloquio, lo sgradevole ricorso a insulti e parolacce, elementi disdegnati dalla Tv che lo hanno preceduto, utilizzati per ricadute in rialzo sui dati di ascolto. Esempio culmine dell’intuizione è stato l’esordio televisivo, su cui ha poi lucrato per decenni, di uno Sgarbi, sboccato, strumentalmente insolente, aggressivo, urlante. Con questa strategia, anno dopo anno, sono volati in alto i decibel vocali di conduttori e conduttrici, di giornalisti, talkshow men e di chiunque altro si è posto l’obiettivo di aumentare gli ascolti per strappare più ricchi contratti. Lo hanno capito più di altri i produttori di spot pubblicitari, in onda a livelli audio palesemente più alti rispetto al volume dei programmi. Il fenomeno ha conosciuto il suo culmine con le varianti che il dramma della pandemia e da oltre un mese la tragedia dell’aggressione russa in Ucraina hanno introdotto in tutti i palinsesti dell’universo televisivo. Nell’ossessivo tam tam sul Covid, l’emittenza pubblica e privata si sono sfidati a caccia dell’esperto e ci hanno fatto scoprire che l’Italia è terra di poeti e navigatori ma specialmente di virologi, immunologi, opinionisti titolati o solo idonei ad alimentare dispute rissose fino alla nausea, fino al rigetto per intolleranza delle dosi massicce d’informazione e disinformazione. Oliato il sistema e in presenza di una sempre più diffusa contestazione del guazzabuglio scientifico, al coronavirus è succeduto il ‘caso’ Ucraina’ e l’arruolamento per raccontarlo di giornalisti da studio, inviati, esperti di geopolitica, storici, ambasciatori, opinionisti tuttologi. In campo, per non farsi mancare nulla, anche Monica Maggioni ed Enrico Mentana, direttori di Tg1 e La7.

In Rai sembra farsi strada un rinsavimento, tardivo ma benvenuto, di quanti ne hanno abbastanza di discettatori di professione, i più a ingaggio permanente di Rai e private (number one è ‘Rampini ogni minestra’), altri come invasori estemporanei, che pur di riconquistare spazi televisivi perduti hanno imboccato la strada del negazionismo delle barbarie di Putin.  Il caso Orsini, ingaggiato per sostenere l’assurdo della corresponsabilità di Mosca e Kiev per quanto avviene in Ucraina, finalmente induce a pentimento la Rai e boccia gli attraversamenti del sociologo filo russo nelle reti pubbliche. La Tv del ‘di tutto di più? Potrebbe andare oltre, profittare per cancellare il reiterato ricorso a ospiti più meno competenti (più meno potenziali sobillatori con tesi opposte e liti).  È tempo di strategia riformatrice? Controprova convincente sarebbe la direttiva interna che vieti di trasformare i format, soprattutto pomeridiani, in succursali di commissariati di polizia, stazioni dei carabinieri, aule di tribunale, redazioni di cronaca nera, che ogni giorno ospitano criminologi, avvocati, testimoni, vittime di reati.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 31 marzo 2022.

In pochi se ne sono accorti, ma in sordina e grazie al “lavoro, lavoro e ancora al lavoro” c’è una trasmissione che piano piano sta scalando le gerarchie degli ascolti e iniziando a insidiare i propri competitor sul terreno del talk televisivo. 

Si tratta di Zona Bianca, che nell’ultima domenica è arrivata a un soffio dal raggiungere Non è l’Arena (4.7% di share di Rete4 contro il 5% di La7) e punta “a mettere la freccia” nelle prossime settimane. Se gli riuscirà o meno lo staremo a vedere, certo è che fino a poco tempo fa sembrava impensabile. 

Non si tratta comunque di un caso, visto che il timoniere del programma ci ha spiegato che dietro a questi risultati c’è una vera e propria strategia pianificata da Mediaset nel corso di diversi mesi: giocarsi le proprie carte attraverso questo format per contrastare l’egemonia di Massimo Giletti. 

E fedele ai dettami di Zdenek Zeman, perché, come vedremo, più che al calcio è rimasto affezionato agli insegnamenti dell’eretico allenatore boemo, l’importante alla fine anche nella vita è segnare un gol in più dell’avversario.

È la filosofia di Giuseppe Brindisi, giornalista e conduttore di Zona Bianca, che abbiamo incontrato per parlare di come vengono costruiti oggi i talk, delle immancabili polemiche sugli ospiti (“chi dice di essere censurato è sempre in Tv, ormai è una moda”), sulla libertà di espressione (“noi diamo parola a tutti”) - come nell'ultima puntata a Maurizio Murelli, neofascista condannato a 17 anni e sei mesi per concorso in omicidio volontario in un servizio del direttore di MOW Moreno Pisto - sulla responsabilità di chi amplifica certe tesi controverse (“a volte mi sono pentito di avergli dato voce”), senza dimenticare una sua vecchia passione, il calcio, che però ormai lo ha deluso: “Gli Europei sono stati una illusione ottica, non abbiamo più fatto crescere i talenti. Ma io rimango sempre un integralista zemaniano”. 

Partiamo da una nota positiva per il tuo programma. Zona Bianca, che nelle ultime settimane sta marcando stretto Non è l’Arena intorno al 5% di share. 

Siamo molto soddisfatti. Ci siamo spostati dal mercoledì alla domenica proprio perché l’azienda voleva inseguire Giletti e si è pensato che Zona Bianca fosse il programma migliore per contrastare Non è l’Arena. Abbiamo lavorato per mesi per costruirci il nostro “tesoretto” di pubblico in un giorno difficile. La vera sfida era questa. Non è facile, ma i risultati ci stanno dando ragione. Siamo vicini e siccome io e la mia squadra siamo molto competitivi tra un po’ proviamo a mettere la freccia. 

I talk spesso sono al centro delle polemiche per gli ospiti che invitano. Ultimamente si è parlato molto del professor Alessandro Orsini, in particolare per il compenso che avrebbe ricevuto a Cartabianca sulla Rai che poi è stato annullato. Voi come vi regolate con i compensi per gli ospiti?

Tutti gli ospiti politici vengono a Zona Bianca gratuitamente. Non solo i politici in senso stretto, anche gli opinionisti. Se qualcosa come produzione paghiamo, riguarda soltanto i personaggi esterni a questo ambito. Se invitiamo Al Bano, per esempio, gli riconosciamo un cachet. Ma in generale la nostra policy è di non pagare. Lo facciamo solo se hanno una funzione che può servire davvero dibattito, quindi prevediamo un “gettone”. Ma parliamo di cifre molto molto limitate. 

Al di là del compenso, Orsini ha lamentato di essere ostacolato perché le sue tesi escono dal racconto “mainstream” o dalla “narrazione ufficiale.

Guarda, quando sento parlare di “mainstream” o “narrazione ufficiale” posso andare giù di testa. Orsini dice di essere censurato, ma in realtà è in tv più volte al giorno e scrive per i giornali o viene intervistato. Quelli come Orsini che parlano di “mainstream” sono i primi che ne fanno parte. Gli fa comodo nella loro narrazione essere censurati. 

È diventato un mestiere gridare alla censura per poi avere visibilità?

È diventata una moda che a me fa veramente schifo. Provo ribrezzo per questo atteggiamento, perché non bisogna perdere un po’ di onestà intellettuale. Quando mi parlano di “narrazione ufficiale”, come dicono i giovani mi “sale il crimine”. Noi che siamo “mainstream” non facciamo nessun tipo di censura. Il talk deve essere una contrapposizione fra varie tesi, a parte alcuni programmi che hanno un messaggio univoco da lanciare. Quindi noi a Zona Bianca abbiamo interesse ad avere più voci e a non limitare nessuno. 

Sei stato accusato di interrompere troppo spesso certi ospiti con argomenti un po’ al limite.

Quando sento delle castronerie provo a dire la mia. È più forte di me. Ma non interrompo nessuno. Anzi, a volte sono orgoglioso di interrompere quelle che ritengo delle ricostruzioni palesemente false o surreali. Va bene tutto, ma a un certo punto bisogna dire basta. 

Bianca Berlinguer che conduce Cartabianca alle critiche di Aldo Grasso ha risposto: “Non ho mai letto una recensione negativa ai programmi della rete del suo editore (La7 di Urbano Cairo, ndr). Anche nella critica c’è spesso un vizio di fondo?

Non entro nella questione tra Berlinguer e Grasso, però parto dall’idea che chi parla di giornalismo libero, dei duri e puri, mi fa un po’ sorridere. Io ricordo sempre che dalla Bibbia in poi un editore fa emergere gli aspetti che sono funzionali alla sua narrazione. Per questo, nel rispetto della deontologia professionale e dell’onestà intellettuale è chiaro che una televisione abbiamo una sua linea editoriale. 

Poi è responsabilità di chi conduce fare i conti con la propria coscienza ed essere il più obiettivo possibile. Ma io di filantropi che si mettono a buttare milioni di euro per produrre giornali o programmi televisivi non ne ho mai conosciuti. Come nella Bibbia, se l’editore è Dio non troverai certo delle pagine benevole sul diavolo… 

C’è mai stata una volta che ti sei pentito di aver dato spazio a qualcuno per parlare nei tuoi programmi?

È successo più volte. Mi è capitato di avere la netta impressione di essere utilizzato per promuovere delle tesi che altrimenti non avrebbero avuto altro spazio. E in quei casi mi pento di essere stato l’amplificatore di teorie strampalate, come quelle dei vari complottisti.

Ma se mi guardo indietro credo di aver comunque fatto il mio lavoro mettendo a confronto delle opinioni, sperando che la gente sia riuscita a capire qual è quella giusta. Sempre che esista una opinione giusta. Più volte ci ho pensato, ma in linea di massima credo di aver fatto bene a contrapporre opinioni diverse anche dalle mie. E quando penso che una sia totalmente strampalata lo metto in evidenza. 

Chi ti piacerebbe avere ospite e non sei ancora riuscito ad averlo?

Difficile fare un nome, sarebbero tantissimi… 

Ti faccio un nome: Adriano Celentano. Ricordo quando, dopo le critiche che ti rivolse via social, lo invitasti a discuterne in diretta.

Lui mi piacerebbe molto averlo ospite, soprattutto perché apprezzo il Celentano artista. E poi quando vieni attaccato per cose che non pensi che siano giuste, per di più da un pulpito importante come quello di Celentano, ti viene voglia di avere la possibilità di discuterci. Quindi sì, lui mi piacerebbe davvero. Mi aveva chiamato “l’interruttore” perché secondo lui interrompo troppo spesso… Non credo verrà mai, però l’invito per lui è sempre valido.

Per anni ti sei occupato di sport, in particolare di calcio. È ancora fra i tuoi interessi?

Sono stato un innamorato perso del calcio, ma negli ultimi tempi lo seguo molto meno. Non mi piace più. Sono un integralista zemaniano, perché ho iniziato a lavorare nel ‘90 durante l’epopea di Zeman a Foggia, poi l’ho seguito ovunque e mi sono appassionato al personaggio e al suo modo di lavorare. È un marziano”. Ha fatto battaglie che gli sono costate la carriera. Se fosse stato più furbo probabilmente avrebbe ottenuto più risultati. Ha sempre propugnato l’idea del lavoro, mentre il calcio di adesso è la negazione di questa idea.

Come mai?

Lo testimoniano i risultati. Non ci si vuole più allenare duramente, si offrono contratti milionari a dei ragazzini... Come diceva Zeman, “finché ci sarà un ragazzino con un pallone per strada il calcio sopravviverà”, ma in Italia siamo ancora più in crisi, non vedo in giro tanti talenti. 

Eppure, solo otto mesi fa abbiamo vinto un Europeo.

Prima ci hanno sempre aiutato i talenti. Otto mesi fa, secondo me, ci siamo invece fatti ubriacare dalla vittoria degli Europei che è stata, con il senno di poi, una congiuntura astrale favorevole. In quei giorni potevano calciare la palla in tribuna e un refolo di vento l’avrebbe mandata in rete. È stata una illusione ottica. Il calcio italiano è da rifondare, solo che sono molto pessimista. 

Secondo te Roberto Mancini è giusto che rimanga alla guida della Nazionale?

Rimarrà soprattutto perché rinunciare a 4 milioni di euro l’anno non credo sia facile, avrei problemi anch’io a farlo. E penso che anche la Federazione avrebbe dei grossi problemi a pagare un altro stipendio. Per cui c’è un interesse comune a continuare insieme.

Dai virologi ai "guerrologi", le nuove risse tv. Laura Rio il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

Gli esperti di geopolitica hanno soppiantato i medici. Anche negli scontri.

Tra un po' cominceranno a tirarsi ceffoni. Come Will Smith contro Chris Rock. Il livello della rissa nei talk show sta sorpassando ogni livello. Soprattutto se si considera che quelli che guerreggiano tra loro parlano di una guerra vera, di persone innocenti ammazzate. Da settimane virologi e infettivologi che ci hanno elargito angoscia e notti insonni per due anni parlando e sparlando di Covid sono stati sostituiti dai «guerrologi». Che, come puntualmente succede quando s'accende la telecamera, si fanno prendere dall'ebbrezza della televisione, una malattia di stagione che dà alla testa, che trasforma i più pacati studiosi in ringhiosi campioni della contrapposizione. L'ultima delle scazzottate è andata in scena l'altra sera a Cartabianca, a Raitre, televisione pubblica, e questo è ancora più grave. Protagonisti l'ormai notissimo Alessandro Orsini, docente di sociologia del terrorismo internazionale alla Luiss e Vittorio Emanuele Parsi, docente alla Cattolica. È finita tra «sei ridicolo» e «non sai dire nulla» con Parsi che se ne è andato indispettito: «Era questo che volevo evitare, fare da cassa di risonanza a queste buffonate. Vi saluto».

Ormai è lunga la lista di esperti, professori, filosofi, strateghi miliari, generali che vengono assoldati dai talk show. E, si sa, i toni accesi aumentano l'audience. E c'è chi sceglie, come fanno Berlinguer, Formigli o Giletti, di invitare gli opinionisti che fanno più scalpore, trasformandoli in personaggi e lo giustificano in nome della libertà di espressione. Insomma, prima c'era la contrapposizione tra Sì Vax e No Vax, ora quella tra Sì War e No War (contro Putin). Sfumature, dubbi e dibattito civile sono banditi: si può essere solo pro o contro.

Chi ha capito alla perfezione il meccanismo dei talk show (e ci è saltato sopra) è Orsini. Al di là di quanto dice è balzato alla fama nazionale in poche ospitate. Attirandosi le accuse (rigettate) di filo-putiniano si è aggiudicato un posto in prima fila nel dibattito. Appena si siede al tavolo di Cartabianca o di Piazza Pulita, c'è qualcuno che comincia a sbuffare o che comincia a insultarlo. Se il suo aplomb glielo concedesse, Mario Calabresi lo prenderebbe per il collo. O a schiaffi, per restare in clima hollywoodiano. Lui di rimando, infila una provocazione dopo l'altra, alza sempre più l'asticella, spara bordate contro il «pensiero dominante» in nome della «complessità dell'analisi» («Ci sono tre grandi vigliacchi: la Nato, l'Ue e gli Stati Uniti»), ha detto l'altro ieri). Dopo che i vertici Rai hanno stracciato il contratto (duemila euro a puntata) che gli voleva fare Bianca Berlinguer, è assurto al ruolo di martire.

Tra gli altri No War o filo-putiniani (per dirla con i detrattori) si annoverano anche la filosofa Donatella Di Cesare, il fisico Carlo Rovelli e lo storico Luciano Canfora. Contro di loro si scaglia spesso la direttrice dell'Istituto Affari Internazionali Nathalie Tocci che li tratta con sufficienza. Ma urla e risse si accendono soprattutto quando vengono messi uno contro l'altro esperti e giornalisti: pensiero complesso e semplificazione portano a scontri epocali.

C'è chi cerca di sottrarsi a questo giochino: per esempio il direttore di Limes Lucio Caracciolo: poche sue parole, precise, autorevoli, valgono ore di altri discorsi. Lo stesso dicasi per l'analista di geopolitica Dario Fabbri. O per Paolo Magri, docente alla Bocconi e vice presidente Ispi. Non per nulla, chi li invita, Gruber, Mentana, Maggioni stanno alla larga dalle risse. Lunga anche la lista dei generali chiamati a spiegare le strategie di guerra come Camporini, Bertolini o Rossi che vediamo spesso a Mediaset, Rai e La7.

Insomma, chiudere i talk non si può. Offrire agli spettatori un barlume di comprensione è necessario. Dosare la presenza degli incendiari si deve.

Da video.corriere.it il 30 marzo 2022.

Scontro in tv a Cartabianca, su Rai 3, tra i docenti Vittorio Parsi e Alessandro Orsini. Orsini, professore della Luiss, tornava come ospite nella trasmissione di Bianca Berlinguer dopo la polemica sui compensi e sulle sue posizioni rispetto alla guerra in Ucraina. 

Anche questa volta al centro del dibattere il conflitto tra Russia e Ucraina. Parsi, politologo alla Cattolica e collegato da casa, minaccia di andarsene. Quindi é incalzato da Orsini: «Non hai detto nulla, stai facendo una figuraccia. Hai fatto un intervento da saccente, non hai nulla da dire». Pronta la replica: «Volevo evitare proprio questo, volevo evitare di fare da cassa di risonanza a questa buffonate», le parole di Parsi prima di interrompere il collegamento.

Luca Roberto per ilfoglio.it il 30 marzo 2022.

Premette che non lo ha fatto con supponenza. "Semplicemente, era impossibile discutere. E allora mi sono detto: ma perché devo prestarmi a queste buffonate? Per questo me ne sono andato da Cartabianca".

Il professor Vittorio Emanuele Parsi insegna Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano. È un accademico serio, trent'anni di aule, convegni, decine di pubblicazioni. Martedì sera ha abbandonato il collegamento con il programma di Bianca Berlinguer su Rai Tre quando i tre tenori della sparata ipersonica Alessandro Orsini, Andrea Scanzi e Donatella Di Cesare, contrapposti in studio alla ballerina ucraina Anastasia Kuzmina e a Guido Crosetto, hanno iniziato a deragliare dai binari della discussione e gli hanno impedito di formulare analisi di senso compiuto sulla guerra in Ucraina.

"Il mio errore è stato quello di non capire prima di andarci che tipo di trasmissione fosse", racconta al Foglio. "Già da come venivo interrotto ho capito che non fosse il mio posto. Poi quando si è passati al dibattito da osteria ho realizzato che non c'era nient'altro da fare se non andarsene. Non avevo nessuna voglia di calarmi nell'arena, come se fossimo dei gladiatori".

Eccolo, allora, lo show del martedì sera: che pur dando fondo al tridente delle presunte vittime del maccartismo ha perso ancora una volta la sfida dello share con Di Martedì, nonostante Floris conducesse dal salotto di casa con il Covid. E continuamente intervallato da spazi pubblicitari.

Quello di Parsi potrebbe sembrare l'atto d'accusa di uno snob del mezzo televisivo. Eppure il politologo torinese, che ha appena pubblicato un saggio con il Mulino (Titanic: naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale) e giustamente vorrebbe pure poterlo presentare, con il talk-show ha un rapporto di lunga data.

"Ho iniziato a partecipare alle trasmissioni quando avevo 35 anni. E sempre gratis. Credo che l'accademico così come l'intellettuale non debbano rinunciare a parlare a tutti: andare dove c'è la gente. E però questo livello così basso non lo avevo mai visto. Credo nel dibattito pubblico, non nella pubblica canea", dice oggi.

Perché il format è diventato questo prodotto decotto che al libero contrapporsi delle idee preferisce la polarizzazione estrema? "Forse perché è più attento alla costruzione di carriere televisive che al veicolare informazioni che siano utili al pubblico. Certo, cercare di acquisire notorietà in un momento come questo, mentre c'è gente che muore davvero, lo trovo sinceramente deprecabile. E anche fare i censurati ma stare sempre in tv non è proprio il massimo".

Funziona così, lo abbiamo ripetuto in più occasioni: il circo prevede che ci sia il matto, l'influencer, l'indignato, la ballerina. E poi anche l'esperto, "ma solo da noi il criterio di competenza viene tenuto completamente al riparo dall'oggetto della discussione. Come se l'accademico in se avesse il potere di dire qualsiasi cosa, avesse la verità assoluta in tasca. E poi c'è un meccanismo francamente insostenibile", sostiene Parsi.

Quale? "L'utilizzo delle metafore, delle analogie, come se la complessità dello scenario internazionale fosse semplificabile con le dinamiche del quotidiano. Già Giovanni Sartori ci aveva avvertiti. Ecco, quando noi accademici andiamo in tv dobbiamo stare molto attenti a distinguere il livello delle analisi dalle reazioni di pancia".

In pratica ci vuole una sorta di Aventino degli esperti dalle trasmissioni urlate? "Fortunatamente non tutto è governato con queste regole. Ci sono programmi più pacati, seppur popolari, in cui è ancora possibile discutere: penso a Tagadà, ItaliaSì. Sulla tv svizzera italiana c'è un format che si chiama '60 minuti'. Sei esperti scelti con criterio discutono, moderati da un conduttore che non ti parla continuamente sopra. Condividendo le regole del gioco, il metodo, che è centrale. Perché se contesti quello salta tutto, è impossibile far confrontare idee contrapposte. Lì si fa vero servizio pubblico".

Ma allora perché, pur con un continuo dissanguamento di ascolti, da noi il talk si porta sbracato, selvaggio? "È una tv vecchia, fatta con idee vecchie e per i vecchi". E quindi difficilmente potrà avere un futuro, parrebbe di credere. "Io credo che il pubblico alla fine si stancherà della riproposizione costante di queste dinamiche da arena. Non serve a comprendere le cose ma a prendere una parte". 

Dopo l'esperienza a Cartabianca ha smesso con la tv? "No, ci torno oggi stesso. Ripeto, gli accademici non devono rinunciare a parlare al grande pubblico. Servono però confini e cornici precise. Una cosa è certa: a Cartabianca non ci metterò mai più piede".

Marco Zonetti per viglianzatv.it il 30 marzo 2022.

#Cartabianca, programma in onda il martedì sera su Rai3 condotto da Bianca Berlinguer, non brilla certo per ascolti e da anni soccombe costantemente alla concorrenza di La7 con diMartedì, ma senz'altro ogni settimana riserva qualche polemica che tiene banco per i sette giorni successivi, alimentando se non l'audience almeno l'interesse mediatico sulla trasmissione. Fino alla prossima rissa in studio.

Prima il caso dell'alpinista Mauro Corona, poi quello della pasionaria no vax Maddalena Loy, in seguito la lite furibonda tra Andrea Scanzi - ospite fisso pagato della trasmissione - e il professor Alberto Contri, da ultimo la vicenda di Alessandro Orsini, docente della Luiss accusato di essere filo-putiniano... insomma, non c'è mai un attimo di pace per il talk di "approfondimento" della prima serata di Rai3, sovvenzionato dal canone dei cittadini.

Sulla scia della puntata di ieri, martedì 29 marzo 2022, con il ritorno a titolo gratuito del professor Orsini dopo che i vertici Rai gli avevano stracciato il contratto con il programma, contratto in base al quale la Berlinguer aveva con lui pattuito un compenso di 2.000 euro a puntata per sei puntate, ecco che è scoppiata l'ennesima bagarre settimanale, questa volta con il politologo Vittorio Emanuele Parsi, che ha lasciato - indignato - lo studio.

Michele Anzaldi, Segretario della Commissione di Vigilanza Rai, commenta così su Facebook l'accaduto: "Lo spettacolo imbarazzante dato ieri in prima serata su Rai3 da #Cartabianca, su una tematica delicata come quella della guerra in Ucraina, che sta vedendo migliaia di morti e milioni di profughi, dovrebbe portare i vertici Rai ad un’immediata riflessione: quello che è andato in onda è davvero servizio pubblico?".

E precisa: "Basta analizzare il programma per interrogarsi se sia davvero opportuna una spettacolarizzazione del genere di un dramma internazionale. A partire dall’episodio che ha riguardato il professor Vittorio Emanuele Parsi, uno degli accademici italiani di relazioni internazionali più noti e riconosciuti, costretto ad abbandonare il programma per gli evidenti errori ripetuti, anche dalla stessa conduttrice che ignora l’invio di armi dalla Turchia all’Ucraina.

Parsi ha preferito sfilarsi ed è stato colpito dagli insulti in diretta di un altro ospite, il professor Orsini, che ha avuto uno spazio spropositato e senza precedenti, addirittura con intervista a tu per tu durante la quale ha potuto ripetere che questa guerra è colpa dell’Unione Europea (e non di Putin che ha invaso un paese con i carri armati), che Nato, Ue e Usa cono 'tre grandi vigliacchi', che 'l’Italia deve rompere con l’Unione Europea', addirittura ripetendo in faccia alla ballerina ucraina Kuzmina 'vi stiamo mandando al massacro, stiamo giocando con voi, vi stiamo usando come carne da macello' senza alcun freno da parte della conduttrice".

Quindi il Segretario della Vigilanza ricorda l'annuncio di querela di Orsini al deputato del Pd Andrea Romano, che la scorsa settimana lo aveva tacciato di essere un "pifferaio della propaganda di Putin". il docente della Luiss ha, secondo Michele Anzaldi, "potuto attaccare personalmente un commissario della Vigilanza, il collega Andrea Romano, usando la tv pubblica per regolare i suoi conti personali. La colpa di Romano? Aver fatto il suo lavoro di componente della Vigilanza Rai: i presidenti Barachini, Fico e Casellati mi auguro che intervengano a tutela delle prerogative del Parlamento". 

A quel punto L'On. Anzaldi chiama in causa la composizione del parterre sottolineando: "D’altronde che il dibattito fosse viziato lo si poteva capire dalla scelta degli ospiti: ben 3 su 5 erano collaboratori del Fatto Quotidiano (Scanzi, Orsini, Donatella Di Cesare), in realtà 3 su 4 visto che Parsi se n’è andato subito.

Questo è pluralismo? E’ normale che per parlare di guerra all’Ucraina si invitino contemporaneamente ben 3 collaboratori della stessa testata, la cui linea editoriale è contro l’Ue, contro l’Alleanza Atlantica, contro gli Usa e contro il Governo italiano? È la Rai o il Fatto Tv? 

Che questo 'circo', come è stato definito (da Aldo Grasso, ndr), rappresenti un contributo all’informazione, al pluralismo e alla comprensione di fatti complessi come un conflitto bellico appare davvero improbabile. Che poi gran parte degli ospiti siano addirittura retribuiti, scritturati per ricoprire una parte, merita un approfondito chiarimento in commissione di Vigilanza, affinché i cittadini ne siano pienamente informati".

Anzaldi chiede: "È servizio pubblico? 3 ospiti su 5 del Fatto, vertici aprano riflessione". A Cartabianca show del Fatto, vendetta di Orsini contro Romano e spettacolarizzazione guerra: “Vi stiamo mandando al massacro”. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2022. 

“Lo spettacolo imbarazzante dato ieri in prima serata su Rai3 da Cartabianca, su una tematica delicata come quella della guerra in Ucraina, che sta vedendo migliaia di morti e milioni di profughi, dovrebbe portare i vertici Rai ad un’immediata riflessione: quello che è andato in onda è davvero servizio pubblico?”. Lo scrive su Facebook il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi.

“Basta analizzare il programma – osserva Anzaldi – per interrogarsi se sia davvero opportuna una spettacolarizzazione del genere di un dramma internazionale. A partire dall’episodio che ha riguardato il professor Vittorio Emanuele Parsi, uno degli accademici italiani di relazioni internazionali più noti e riconosciuti, costretto ad abbandonare il programma per gli evidenti errori ripetuti, anche dalla stessa conduttrice che ignora l’invio di armi dalla Turchia all’Ucraina.

Parsi ha preferito sfilarsi ed è stato colpito dagli insulti in diretta di un altro ospite, il professor Orsini, che ha avuto uno spazio spropositato e senza precedenti, addirittura con intervista a tu per tu durante la quale ha potuto ripetere che questa guerra è colpa dell’Unione Europea (e non di Putin che ha invaso un paese con i carri armati), che Nato, Ue e Usa cono ‘tre grandi vigliacchi’, che ‘l’Italia deve rompere con l’Unione Europea‘, addirittura ripetendo in faccia alla ballerina ucraina Kuzmina ‘vi stiamo mandando al massacro, stiamo giocando con voi, vi stiamo usando come carne da macello’ senza alcun freno da parte della conduttrice.

Lo stesso Orsini che in diretta televisiva ha potuto attaccare personalmente un commissario della Vigilanza, il collega Andrea Romano, usando la tv pubblica per regolare i suoi conti personali. La colpa di Romano? Aver fatto il suo lavoro di componente della Vigilanza Rai: i presidenti Barachini, Fico e Casellati mi auguro che intervengano a tutela delle prerogative del Parlamento. D’altronde che il dibattito fosse viziato lo si poteva capire dalla scelta degli ospiti: ben 3 su 5 erano collaboratori del Fatto Quotidiano (Scanzi, Orsini, Di Cesare), in realtà 3 su 4 visto che Parsi se n’è andato subito. Questo è pluralismo? E’ normale che per parlare di guerra all’Ucraina si invitino contemporaneamente ben 3 collaboratori della stessa testata, la cui linea editoriale è contro l’Ue, contro l’Alleanza Atlantica, contro gli Usa e contro il Governo italiano? È la Rai o il Fatto Tv? Che questo ‘circo’, come è stato definito, rappresenti un contributo all’informazione, al pluralismo e alla comprensione di fatti complessi come un conflitto bellico appare davvero improbabile. Che poi gran parte degli ospiti siano addirittura retribuiti, scritturati per ricoprire una parte, merita un approfondito chiarimento in commissione di Vigilanza, affinché i cittadini ne siano pienamente informati”. 

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2022.

La Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) farebbe bene a invitare i docenti incardinati a tenersi lontano dai talk show televisivi (un rettore sicuramente si opporrà, quello dell'università per stranieri). Di solito, questi professori, così corteggiati dai conduttori per dar lustro ai peggiori bar di Caracas, fanno una pessima figura e intaccano l'immagine dell'università di appartenenza.

È successo persino nei momenti più delicati della pandemia, con alcuni accademici del settore che hanno dato il peggio di sé. Sta succedendo ora con una guerra in corso. Che i docenti vadano in tv a spezzare il pane del loro sapere è sacrosanto, basta che frequentino le trasmissioni giuste: per esempio, quelle di Rai Storia, quelle di #maestri, quelle di divulgazione. Il resto non fa per loro.

Lo strano connubio tra accademia e tv è iniziato molti anni fa quando, per sopperire alla mancanza di docenti, alcune università hanno cominciato a chiamare, come professori a contratto, gente di spettacolo che garantisse loro «visibilità» e notorietà. Se non vado errato, nell'ambito delle comunicazioni, è stata La Sapienza di Roma a chiamare per prima Maurizio Costanzo, l'inventore dei «casi umani».

Nella sua presunzione e nel suo desiderio di apparire, il professore di ruolo non s' interroga sulle trasmissioni ospitanti, venendo meno a un sacro principio ermeneutico: è il contesto a determinare il testo. Non s' interroga cioè sui motivi per cui è stato invitato e così finisce prigioniero dei meccanismi infernali del talk, dove è bandita ogni complessità, dove regna la radicalizzazione, dove la rissa è l'alimento degli ascolti.

Così, spesso, vengono a nudo la pochezza di certi docenti, le inclinazioni caratteriali, il narcisismo incontenibile, la disinformazione. A scapito del buon nome delle università. P.S. Il discorso è generale, vale per tutti i talk, non solo per quello di Bianca Berlinguer.

Gli scafati. Non sappiamo niente, eppure non perdiamo mai l’occasione di spiegare tutto. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Marzo 2022.

In un mondo in cui si cerca di verificare in tempo reale ogni informazione, dall’Ucraina agli Oscar l’inspiegabile manda tutti in tilt e non ce ne facciamo una ragione. 

Se oggi Orson Welles mettesse su “La guerra dei mondi”, la diretta radiofonica fintamente interrotta da un’invasione aliena, non ci crederebbe nessuno. Perché i consumi culturali sono più frammentati e quasi nessuno guarda o ascolta le cose mentre vanno in onda; perché abbiamo strumenti che rendono difficili i misteri, e basta una telecamera di Google View per sapere che in quel punto della Terra non ci sono omarini verdi; e perché ci appassiona moltissimo smontare il giocattolo per vedere com’è fatto.

Nelle tre ore successive alla diretta di Welles, ci sarebbero già mille articoli che spiegano, che dubitano, che ipotizzano spiegazioni, che giurano che a noi non la si fa. L’epoca in cui è più facile falsificare qualunque cosa, in cui qualunque propaganda – bellica o d’altra natura – è possibile, questa è anche l’epoca in cui più ci teniamo a sentirci scafati.

La giornalista russa che ha fatto irruzione col cartello anti-Putin è vera o è falsa? La foto di Nicole Kidman agli Oscar è vera o è falsa? La bambina col fucile e il lecca lecca è vera o è falsa? L’avvelenamento di Roman Abramovich è vero o è falso? Cosa significa vero? Cosa significa falso? Una foto non è comunque falsa, fermando un istante senza mostrarci il prima e il dopo, il contesto, l’intenzione? Una scena televisiva non è comunque falsa, citando quel Nanni Moretti d’epoca che «uno non è spontaneo a casa sua da solo, figuriamoci se è spontaneo davanti a una telecamera»?

Anne Applebaum da massima studiosa dei gulag è divenuta massima studiosa di “Che tempo che fa”. Settimane fa ha criticato un intervento di Roberto Saviano, l’altroieri ha commentato l’apparizione da Fazio di Marina Ovsyannikova, che forse ha fatto irruzione in uno studio televisivo russo ed è per questo divenuta istantaneamente la nostra eroina. D’accordo, in un regime non ci sono programmi non in differita. D’accordo, la multa che le hanno fatto prima di rilasciarla non è convincente. Ma noi non vogliamo dubbi, complessità, sfumature. Anzi, siamo prontissimi a dare dei complottisti a coloro che osino confutare la costruzione del santino del giorno.

Perché abbiamo tantissimo bisogno di santini. Di poster. Di simboli. Di tenere separati i buoni e i cattivi e rifiutare l’idea che qualcosa contenga entrambi i caratteri.

Comunque: Applebaum dice che non sa, non ha un’opinione (l’unica vera presa di posizione eroica in questa dittatura della dichiarazione), ma che certo la Ovsyannikova ci sta impietosendo raccontando che i poveri russi sono vessati dalle sanzioni, e insomma è propaganda.

Forse la Ovsyannikova che viene lievemente multata mentre supponiamo regimi che i dissidenti come minimo li avvelenino è come Abramovich che è stato forse avvelenato e forse no, che a sua volta è come i filmati che vediamo di dissidenti portati via perché hanno un cartello bianco o osano parlare con una troupe televisiva magari per difendere Putin: screziature della realtà e non della perfezione cui ci hanno abituato le sceneggiature di spionaggio.

Pensiamo di stare dentro “The Americans” e invece, persino nel regime dei cattivi, siamo innanzitutto in mezzo a una cialtronata in cui vengono fatti tutti gli errori che gli umani fanno nelle democrazie e altrove.

Per una Politkovskaja che riesci ad ammazzare, chissà a quanti altri sbagli il dosaggio di veleno, chissà Abramovich in che nutrita compagnia si trova. Per un Sindona, anche da noi, chissà quanti se la sono cavata per la goffaggine del sicario. Quelli che dovrebbero rendere impenetrabile la propaganda di regime, e ti portano via in ceppi se hai un cartello bianco, perché non confiscano le telecamere a chi filma il tutto? Che colabrodo di regime è mai questo?

È il regime non nell’epoca dei cinegiornali ma in quella delle telecamere nei telefoni, in cui è impossibile che di qualcosa non restino tracce. Il dettaglio più involontariamente esilarante di “House of Cards” era che il vicepresidente degli Stati Uniti portava una giornalista nella stazione della metropolitana per spingerla sotto a un treno in un punto cieco del binario, e però prima di quel punto cieco ci saranno state duecento telecamere che li riprendevano assieme, e invece nessuno sapeva fosse con lei.

Dopo poche ore dagli Oscar sappiamo che la foto della Kidman stravolta non era stata scattata mentre Smith schiaffeggiava Rock, ma ore prima, in un momento innocuo, stava guardando Jessica Chastain, epperò non sappiamo se quella è una vera dissidente, se quell’altro è stato avvelenato davvero, non sappiamo niente.

Quel che sappiamo è che abbiamo bisogno di suggestioni, e non ci importa se la bambina col fucile è in posa, se la giornalista forse non è una vera dissidente, se Abramovich sta solo proteggendo il proprio patrimonio. Sappiamo riconoscere solo cosa funziona sul mercato delle emozioni. «L’hanno avvelenato» sì, «forse è più complicato di così» no.

DAGONOTA il 28 marzo 2022.

Meglio piangere (o ridere?) dello spettacolo offerto in tv e sui giornaloni dai “tuttologi” che si sono immolati sul tema del virus Covid 19 vestendo il camice bianco (Alberto Zangrillo), salendo in cattedra nei panni del medium (Paolino Mieli) nei giorni dell’elezione del capo dello Stato o indossando l’elmetto per i tempi di guerra in Ucraina (Gastone Breccia). 

Forse accecata dai lampi sul campo di battaglia dopo ore in diretta, la mezza-busta del Tg1, Monica Maggioni, spacciava ai tele-morenti le immagini di un War Game per un bombardamento su Kiev e un raid dei Mig russi di repertorio girato a Mosca. Il mezzo è il miraggio, parafrasando il sociologo Marshall McLuhan.  

Meglio non è andata neppure con gli Otelma in mutande e fischietto della nazionale pallonara, buttata fuori dai mondiali dopo averci annunciato che avremmo spezzato le reni alla Macedonia del Nord. Dalla Corea alla Macedonia c’è sempre un Nord nel destino degli azzurri. Chissà, guardare ai fenomeni occulti, alle stesse coincidenze - che Leonardo Sciascia considerava “le sole cose sicure” -, non avrebbero provocato meraviglia, panico e rancori nelle redazioni sportive listate a lutto. 

“Noi pensiamo al fondo che la storia non possa ripetersi, e invece ecco il paradosso: la cosa più meravigliosa è il ritorno di quel che avremmo dovuto aspettarci”, ha osservato Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” accostando il “sacro” di una guerra e il “profano” di una partita di calcio. Già, s’interroga il corsivista di via Solferino: qualcuno pensava sul serio che Mad-Vlad invadesse l’Ucraina o immaginava davvero che l’Italia di Mancini, campione d’Europa, facesse fiasco con i macedoni? No! 

Eppure, spiega ancora Di Stefano, bastava un minimo di prudenza da parte degli esperti di politica internazionale, dei commentatori di calcio e dei “tuttologi” à la carte saliti in cattedra per schivare certe figure barbine. Ai quindici minuti d’insuccesso, però, ormai non sembra farne a meno un giornalismo frustrato dalla disfatta della firma in edicola. 

Eccoli tutti a cercare un lampo di pubblicità nei salotti televisivi che, quanto a professionalità e competenza degli ospiti, spesso fanno rimpiangere le discussioni da bar sport. Oppure ripubblicare il proprio articolo sui social con la speranza che qualcuno alla fine lo legga.  

Ah, gli esperti! Come ignorare l’insegnamento del fisico danese, Niels Bohr: “Un esperto è un uomo che ha fatto tutti gli errori possibili in un campo molto ristretto”. Navigare tra le fesserie degli imbonitori catodici qualcuno ha detto: “Ci si allarga il sedere mentre si rimpiccolisce il cervello”. 

Ora si può perdonare allo storico (senza storia) Mieli “il sensitivo” di aver percepito l’ascesa di Mario Draghi al Quirinale. Peccato da spirito maligno rispetto a quando ha asserito che Internet sarebbe stata ”una moda passeggera come il borsello da uomo”. Ma continuerà a sorprenderci alla pari del prof. Zangrillo che nel pieno della pandemia dichiarò: “Il Covid 19 è clinicamente morto”.  

Quanto al Von Clausewitz dell’”Espresso”, il prof. Gastone Breccia, che aveva spiegato tutte le ragioni per le quali Putin non avrebbe invaso l’Ucraina, ci mette nella condizione di apprezzare l’intelligenza soltanto dopo aver penetrato, appunto, certe sue sciocchezze.   

Da “il Giornale” il 26 marzo 2022. 

Bella inchiesta del Fatto sui compensi degli ospiti fissi nei talk show. Ci sono tutti, divisi per rete e per programma, con tanto di cachet. Per esempio a Cartabianca, dove è ospite pagato Scanzi, a Mauro Corona danno 800 euro a puntata.

A Otto e mezzo, dov' è sotto contratto Travaglio, danno 2mila euro a Severgnini. E poi tanti altri ospiti seriali, con relativo cachet. Mancano giusto due compensi, quelli di Travaglio e Scanzi. Non avevano il numero di telefono.

Giampiero Mughini per Dagospia il 26 marzo 2022.

Caro Dago, se non fosse ripugnante sarebbe vomitevole questa “chiacchiera” diffusa sull’eventuale cachet del professore Alessandro Orsini ove fosse stata confermata la decisione della direzione di “Cartabianca” a ospitarlo per sei puntate al prezzo di 2000 euro ciascuna. 

Ma così vengono 40 euro al minuto, s’è scandalizzato un qualche semianalfabeta non ricordo su quale giornale. E giù articoli se sì o no vanno pagati quelli che vanno ad “esprimere opinioni” nei talk-show.

Ne sta parlando uno che mai nella sua vita è andato in tv gratis un solo minuto. O forse sì, tre o quattro volte sono andato gratis all’ “Aria che tira” condotta dalla mia amica Myrta Merlino sulla 7. 

Beninteso, l’ho fatto ma non lo rifarò mai più. Né vado mai per un cachet che non mi sembri adeguato a quel che so e so fare.

Vedo adesso che alla Rai stanno ponzando se eliminare i cachet a chi va nei “talkshow”. E come se i bilanci della Rai-“servizio pubblico” fossero inficiati dai 500 o 800 o 1000 euro che pagavano ogni volta a quel tipo di ospiti (quorum ego) che si accomodavano su un loro set televisivo, e non dalle centinaia di stipendi pagati a ex direttori, ex vicedirettori, ex caporedattori che attualmente vanno in Rai solo per raccattare la mazzetta dei giornali.

So invece come vanno le cose nel canale tv di proprietà di Urbano Cairo, dove abitualmente non viene pagato nessuno. E tuttavia allibisco a leggere – a meno che non sia una fake news – che uno studioso in gambissima come ha l’aria di essere il Dario Fabbri, se ne sta ogni giorno gratis di fronte a un Enrico Mentana che gli lascia la parola di tanto in tanto.

Un idraulico o un elettricista venisse a casa vostra per tutto il tempo che Fabbri passa a casa Mentana, ne trarrebbe non meno di 200-300 euro a botta. Non meno. E’ singolare l’idea che i semianalfabeti si fanno del lavoro intellettuale, e a parte il fatto che non sembrano conoscere il dato elementare di ogni prestazione professionale pagata in fattura. Che il fisco trattiene il 50 per cento dell’importo, e dunque gli eventuali 2000 euro pagati al valentissimo professor Orsini corrispondono a 1000 euro da spendere in vini e mignotte.

Solo che il lavoro intellettuale non si alimenta solo di vini e mignotte. Ci sono i libri da comprare, tanti. Ci sono i libri più rari che ti devi procurare, e quelli costano eccome. Ci sono i giornali da andare a prendere in edicola ogni mattina. Ci sono gli abbonamenti a riviste di carta, a Netflix, ad Amazon prime, alla magnifica Anteprima che Giorgio Dell’Arti manda ogni mattina sui nostri computer. Potrei continuare a lungo. 

Nella media io spendo per quel tipo di strumenti non meno di 1500 euro al mese, e anche se non è questo il punto. Il punto è che se vuoi dire qualcosa di assennato o comunque di stimolante – come lo sono di certo le opinioni del professor Orsini – devi stare ore e ore con un libro in mano e meglio se hai una matita con cui sottolineare le parti rilevanti.

Un’ultima cosa. I cachet dati a pagare una prestazione intellettuale sono largamente inferiori a quelli pagati a un comico, a un cantante, a una influencer di cui è noto quanto corte siano le gonne che indossa abitualmente. 

Per carità, provate a parlare di cose di cui sapete. Non a dire quattro sciocchezze pur di fare rumore con la bocca. Parlate di cose di cui sapete. Come fa il professor Orsini. 

E soprattutto non date a intendere che per voi il denaro è roba che non conta così tanto. Vi si legge in volto che per denaro dareste vostra sorella ai beduini. Amen.

Fatture in visibilità. Lo strano paese che si scandalizza perché ogni tanto pagano gli ospiti tv e non perché spesso ci vanno gratis. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.

La smania di apparire gratuitamente pur di farsi riconoscere e salutare il giorno dopo dal pizzicagnolo sotto casa. Ma la verità è che i programmi ben fatti costano e se il palinsesto è scarso è anche colpa degli opinionisti a buon mercato.

Un paio d’anni fa, un tizio che conosco mi chiese quanto mi desse per la mia rubrica un giornale su cui avevo per un po’ tenuto, appunto, una rubrica. Il tizio fa tutt’altro lavoro, molto ben pagato, e il nuovo direttore di quel giornale gli aveva offerto di tenere, l’avrete già capito, una rubrica. Gli dissi quanto avevano pagato me, aggiungendo che era una miseria. Lui mi rispose che il direttore gli aveva offerto un terzo. La settimana dopo aprii quel giornale, e c’era la sua rubrica.

Mesi fa, m’hanno chiesto d’andare ospite in un programma televisivo. Ho chiesto una cifra. Mi hanno offerto una cifra con uno zero in meno. Ho detto che per quella cifra non stavo neanche rispondendo a quella telefonata, figuriamoci truccarmi e pettinarmi e trovare una camicetta senza macchie di sugo.

Lo stesso giorno, ero a pranzo con un tizio che di mestiere fa andare la gente in televisione. Gli ho raccontato la telefonata del mattino. Mi ha detto: secondo me dovresti andarci comunque. Ho chiesto perché, ha risposto: perché così ti fai vedere. (Cento punti fragola per lui, per non aver usato il frasifattese «visibilità»).

Ho chiesto: e poi, dopo che mi sono fatta vedere; ha risposto: ti propongono altre cose. Altre cose gratuite o sottopagate, avendomi vista in cose gratuite o sottopagate e avendo quindi capito che vengo via all’ingrosso. Mi ha detto che non capivo, che era un investimento.

D’ora in poi, tutti i nomi che userò in questo articolo non saranno nomi: saranno archetipi. Non voglio entrare nei casi personali e impicciarmi delle fatture altrui, voglio solo che affrontiamo l’indicibile italiano: i soldi, quella benedizione (altro che sterco del demonio).

La salute senza i soldi, diceva la saggia balia ligure d’una mia amica, è una mezza malattia. Chiunque dica che i soldi sono un tema volgare ha troppi soldi (o non abbastanza cervello). Chiunque dica che i soldi non risolvono i problemi non ha mai avuto un problema serio (o gliel’ha risolto qualcun altro). Chiunque dica che in tv bisogna andare gratis è un imbecille se spettatore, e uno che rovina il mercato se presente negli studi televisivi.

È per i Damilano (archetipo) che vanno in tv gratis, che siamo messi così, mica per le Tina Cipollari (archetipo) che ci vanno a pagamento. È per i Damilano (sempre archetipo) che le produzioni televisive italiane sono così imbarazzanti: secondo voi Gassman andava gratis a StudioUno? Zavoli faceva gratis “La notte della repubblica?” Sì, lo so: Maria De Filippi condusse gratis Sanremo, e quella è una parte del problema. Il ricatto morale del servizio pubblico. Ma posso assicurarvi che le produzioni di Maria De Filippi sono posti molto seri in cui tutti sono pagati molto bene: mica sono talk politici.

Con gli stessi pollici inutilmente opponibili con cui twittava sdegno per i duemila miseri euro che davano a questo Orsini di cui non avevo fino a questa settimana mai sentito parlare (non guardo i talk: non hanno abbastanza budget per accattivarmi), il ceto medio riflessivo twittava ammirazione per l’intervista fatta a un ministro russo da Christiane Amanpour, sulla Cnn. Fatta cioè col budget d’una tv a pagamento (in Italia la gente paga la tv solo se ci metti le partite, altro che interviste di politica estera), dalla più famosa giornalista del mondo, una che gratis neanche risponde alla mail con cui le chiedi di partecipare al tuo programma: davvero ci stiamo meravigliando perché i nostri programmi non riescono nello stesso modo?

La tv non è gratis, non è beneficenza, non è Emergency. Produce profitti mandarla in onda, produce profitti produrla, produce profitti condurla. Perché mai dovrei venire gratis ad aumentare i tuoi profitti? Posso farlo una volta l’anno, se ho un prosciutto da vendere, ma perché dovrei stare dieci ore in diretta la sera delle elezioni senza potermi togliere le scarpe, gratis?

Quando ero piccina, avevo amiche che venivano invitate al Maurizio Costanzo Show (che allora era l’unico talk della tv italiana: sembra di parlare di fantascienza). Accadeva già (e più di adesso: c’era meno frammentazione) quel fenomeno per cui, quando vai in tv, il giorno dopo ti sembra che quel programma l’abbia visto il 90 per cento della popolazione: tutti quelli che incontri ti dicono «t’ho visto in tv». Ricordo un’amica emozionata perché il fornaio che in genere a stento la salutava le aveva detto «ti ho vista da Costanzo». Ma avevamo vent’anni: eravamo ontologicamente sceme.

Questi che adesso vanno in tv gratis e di anni ne hanno cinquanta e un impiego in un giornale o all’università già ce l’hanno e insomma non sono così disperati da dover cogliere l’occasione di «farsi vedere», questi che scusa hanno? La stessa dei nostri vent’anni: gli piace essere riconosciuti dal fornaio, o al ristorante, o dal parcheggiatore abusivo.

D’altra parte i social sono pieni di collaboratori pagati due lupini e un’oliva che linkano i loro articoli ringraziando i giornali che li ospitano: grazie di farmi esistere.

Il tizio molto ben pagato che citavo all’inizio, lui continua a fare quella rubrica praticamente gratis. Gli sembra di sparire se non compare su un giornale, gli sembra di esistere solo se la sua fotina sta sul giornale. In un’epoca in cui i giornali non li leggono neanche più quelli che li fanno. Possiamo davvero meravigliarci se qualcuno brama l’esistenza in un mezzo che ha ancora milioni di spettatori? Se la smania d’apparire porta le Cipollari che hanno studiato a fare l’errore di andare in tv senza emettere fattura? Possiamo davvero trasecolare della loro indignazione davanti agli Scanzi, ai Travaglio, agli Orsini (tutti archetipi, per carità) che, per fare quello che loro fanno o farebbero gratis, senza emettere fattura e anche portando le pastarelle a chi li ospita, riescono invece a farsi retribuire degnamente?

Solo che i nostri eroi, invece di trasformare quell’invidia in motivazione, e iniziare a pretendere anche loro un cachet non simbolico, decidono di buttarsi sulla morale. Che, come le loro presenze televisive, non costa niente

Di culone e di piselli Manuale per non andare in tv e non gareggiare fuori categoria. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Per quanti dibattiti filosofici possiamo fare sull’identità di genere, ci sono contesti in cui conta molto se sei maschio o femmina. Sia in televisione sia in piscina.

Quanto conta il corpo, e soprattutto quando conta? Nell’occidente annoiato abbiamo in anni recenti cominciato a cercare alternative alle spiegazioni più ovvie, e quindi a dire che ognuno era bello a modo suo e più eri deforme più non vedevamo l’ora di vederti nel ruolo di fotomodella. Più eri nato uomo più era giusto che, se ti percepivi femmina, gareggiassi con le donne. Però i corpi stanno ancora lì, promemoria e ingombro.

Guardavo This Is Us, il più stucchevole e popolare tra gli sceneggiati americani, che alla stagione conclusiva tira i fili di tutte le morali, e ci dice quel che avevamo intuìto gli autori pensassero già da sei stagioni: che, se sei grassa, sei innanzitutto grassa.

Smettete di leggere se vi piacciono le sorprese. Non che This Is Us sia in grado di sorprendervi (o che miri a farlo), ma insomma se continuate a leggere poi non ditemi che vi ho rovinato la suspense: voi proprio non avevate sospettato dove andasse a parare, e comunque aspettavate che il rifacimento italiano arrivasse anch’esso alla sesta stagione per capire che ne sarebbe stato della sorella obesa.

Lo sapevamo già, che ne sarebbe stato, e non solo per il minimalismo della drammaturgia, ma anche perché alla fine della quinta stagione ci avevano fatto vedere uno scorcio di futuro. La sorella grassa si sposava con un tizio inglese con cui lavora. Quindi lei e il marito ex grasso si lasceranno. Ohibò.

Adesso è arrivata – nei televisori americani – la puntata che fa cominciare la crisi coniugale, ed è imbarazzante come ce la aspettavamo. La cicciona non ha mai perdonato al (presto ex) marito di non essere più ciccione: doveva farsi venire un secondo infarto, lasciare che il colesterolo gli asfaltasse le arterie, pur di non lasciarla essere l’unica chiatta in famiglia. Oltretutto lui adesso ha anche una carriera. Lei no, perché lei è buona: insegna musica ai bambini ciechi. Lei non è ambiziosa, lei si sacrifica, lei non sbuffa frustrazione, macché.

Lei, appoggiate il caffè che state bevendo perché rischiate di sputarlo sullo schermo, vede non la gente morta ma il marito grasso: sola nel suo girovita dilatato, s’intrattiene parlando col fantasma del marito grasso, col quale prende per il culo il marito dimagrito. Giuro: è la prima volta nella mia vita adulta che mi viene voglia di mettermi a dieta. Se essere grassa ti rende così meschina, voglio portare la taglia 40.

Mentre la sorella grassa di This Is Us esiste solo in quanto grassa (l’aspetto è un carattere? il peso è una personalità?), Lia Thomas esiste solo in quanto donna col pisello.

Lia Thomas è quella persona che nuota nei campionati universitari statunitensi e la cui recente vittoria ha fomentato il dibattito su gare sportive e persone trans. Se ti percepisci donna devi poter gareggiare con le donne? Il fatto che tu abbia la muscolatura d’un maschio come lo affrontiamo? Ci vogliono nuove regole per un nuovo mondo?

Secondo me e secondo altri, tra cui l’Economist, sì. Per quanti dibattiti filosofici possiamo fare sull’identità di genere, per quante sfumature possiamo considerare, per quanta retta possiamo dare al concetto di percezione e alle speculazioni intellettuali, ci sono contesti in cui conta solo il corpo, e non è un caso se quelli sono i contesti in cui si polemizza sempre circa cosa fare di quella moda che è la transessualità (sì, ho scritto che è una moda: andate a indignarvi più in là, ho un articolo da finire).

Se non contassero solo i corpi, non ci sarebbe ragione di avere spogliatoi separati: se esistono spogliatoi femminili, esistono perché le femmine non debbano vedersi sventolare davanti piselli, neanche piselli attaccati a corpi che si percepiscono femminili. Se esistono divisioni nelle gare sportive dovute al fatto che la biologia maschile è più forte e veloce di quella femminile, è per i corpi, non per le identità. Se le carceri sono divise per sessi, è per evitare che le femmine vengano stuprate, anche da stupratori che nel frattempo sono stati illuminati sulla via del postmoderno e ora si percepiscono signorine col pisello. Se cerchi di espatriare dall’Ucraina con un percepito femminile e un documento maschile, ti dicono che sei uomo e devi combattere per la patria: conta solo il corpo, la guerra è uno sport o viceversa. 

Reka Gyorgy è arrivata diciassettesima alle qualificazioni per la gara poi vinta da Lia Thomas. La gara viene disputata tra le prime sedici, quindi Reka ha scritto una lettera per segnalare il problema (che è una cosa che richiede un certo sprezzo del pericolo in un’epoca che – specialmente negli Stati Uniti – ha costruito attorno al dibattito pubblico sulle questioni di genere una tale prescrittività che avanzare un dubbio sulla gara tra un corpo maschile e quindici corpi femminili ti fa bollare di transfobia esattamente come avessi malmenato una persona transessuale).

La parte interessante della lettera è quella in cui Reka dice che Lia è proprio come lei: gente che si alza alle cinque di mattina per andare ad allenarsi. Però non è come lei, giacché contano solo i corpi, e Lia ha un pisello e Reka no, e le regole attuali hanno permesso a Lia di sottrarre a Reka il posto da finalista in una gara tra nate con l’utero.

Ieri spiegavo a un amico perché, per andare in tv nel 2022, sia sensato chiedere più soldi di quanti se ne chiedevano nel 2012. Non solo devi truccarti, farti la messa in piega, andare in uno studio televisivo con buffet di tramezzini cattivi a parlare di cose che non t’importano con interlocutori che non ritieni all’altezza, e senza neanche poterti levare le scarpe nel mezzo della conversazione. Ma, quando il programma va in onda, ti tocca pure leggere decine (centinaia?) di tweet che ti svelano una cosa che senza di loro mica sapevi: che sei grassa.

La tv è immagine, diceva Beniamino Placido trent’anni fa, ed è quindi ovvio che gli spettatori non si facciano accecare dalla tua dialettica e notino innanzitutto il tuo culone. Però l’indennità di sentirmi dare cento volte della culona in una sera dovete pagarmela. L’amico rideva tanto che pensavo si strozzasse. E io mi chiedevo se, su quel podio sul quale sembrava colossale e le donne arrivate dietro di lei degli scriccioli, Lia Thomas si chiedesse chi gliel’avesse fatto fare, di stare lì a illudersi che contasse come sapeva nuotare, mentre tutti la guardavamo e ci tenevamo a notificarle quel che già sa: ehi, guarda che però hai il pisello.

Con la guerra cresce il bisogno di informazione e approfondimento. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.  

A quasi un mese dall’inizio dell’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, la tv resta il mezzo più comune d’informazione grazie ai tg, agli speciali e ai talk. 

Assuefazione all’orrore o domanda di approfondimento? A quasi un mese dall’inizio dell’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, la Tv resta il mezzo più comune d’informazione grazie ai tg, agli speciali e ai talk. Ma, dopo più di tre settimane di guerra — tema pressoché totalizzante l’agenda — cresce soprattutto il desiderio di comprendere meglio, al di là del bollettino bellico, ragioni e prospettive, specie per una parte dell’audience. I telegiornali restano senz’altro gli appuntamenti informativi più seguiti: anche questa settimana, se si esclude l’«evento» Doc e I soliti ignoti, è il Tg1 della sera l’emissione più seguita, specie nel fine settimana (5.368.000 spettatori, 24% di share; nella settimana 4.944.000 spettatori, 23,5% di share). Segue di poco il Tg5 della sera (4.549.000 spettatori, 19,7% di share).

I soli due tg delle ammiraglie raccolgono una media di oltre dieci milioni di spettatori, e 15 milioni di contatti. Dall’inizio dell’anno, l’ascolto delle due principali edizioni dei telegiornali è rimasta stabile (Tg1) o è cresciuta (Tg5, +180mila spettatori) in valore assoluto dopo il 24 febbraio (inizio del conflitto). Dato questo ancora più notevole per una semplice ragione che non sfugge a chi maneggia gli ascolti: da gennaio fisiologicamente, la platea della tv tende a decrescere (fra gennaio e marzo del -7%, 740.000 spettatori in meno). È ancora più notevole, dunque, lo spazio che l’informazione conquista. Ma è soprattutto l’approfondimento quel che è ricercato, specie dal pubblico adulto e con livelli di istruzione medio-alti (con un allargamento sui più giovani): ne sono testimonianza i dati di 8 e mezzo (+0,5% di share), di Dritto e rovescio (+0,4% di share), di “Piazzapulita” (+1,2%), di Presa diretta (+1,7% per l’ultima puntata).

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 18 Marzo 2022.

Assuefazione. Persino alle notizie tragiche. Distrazione. Voglia di recuperare la normalità delle proprie abitudini, anche televisive. Il telespettatore incollato davanti allo schermo che rimandava notizie di guerra, con il passare delle settimane e l'acuirsi del dramma, ha dapprima rafforzato il suo interesse per poi, in quest' ultima settimana, evadere dalla tristezza riprendendo le abitudini televisive di sempre. Questa è la tendenza fotografata dai numeri. Se la pandemia aveva tenuto l'attenzione alta e costante come mai in passato, la guerra in Ucraina ha invece avuto l'impatto classico delle tragedie: forte attenzione nelle prime fasi e poi calo dell'interesse.

A spiegare come si muove la curva dell'audience è il professor Francesco Siliato, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi di Cultura dei Media al Politecnico di Milano. Massimo esperto del settore, ha preso in analisi i dati che vanno dallo scoppio del conflitto, il 24 febbraio a mercoledì 16 marzo. Salta agli occhi che tutti i telegiornali scendono in ascolti con percentuali a doppia cifra (Studio Aperto -13%, TgLa7 -12%, il Tg5 ha perso il 15% dal giorno dell'invasione dell'Ucraina). Unica eccezione il tg1, «solo» -8%. Chi vuole restare informato sulla guerra preferisce i canali all news (Sky Tg24 o Rainews24) che triplicano i loro ascolti. 

Professore, perché i notiziari generalisti vivono questa regressione?

«I tg scendono perché oramai sono composti esclusivamente da comunicazioni sulla popolazione Ucraina interviste alle famiglie, a chi fugge, a chi resiste, ma le notizie scarseggiano. Oltretutto sono stati eliminati quasi del tutto gli altri argomenti che invece interessano il telespettatore. Parliamo del Covid che sta risalendo e di cui si parla pochissimo. È più risale, più il Governo annuncia il liberi tutti: la gente resta sbalordita e non trova chiare e approfondite spiegazioni nei telegiornali». 

Dunque è anche un problema di insoddisfazione?

«Anche, così ci si comincia a distrarre e a cercare alternative, lo dimostra questo allontanamento graduale ma costante». 

Un allontanamento che premia sì i programmi d'intrattenimento, ma non tutti. Il Grande Fratello Vip ha visto aumentare gli spettatori per la finale, ma già prima era risalito. Il cantante mascherato invece è sceso. Nel palinsesto c'è chi non risente dell'aumento di notizie di guerra?

«Resta non scalfibile sotto qualsiasi cielo il calcio giocato con Milan e Inter che supera i 6 milioni di spettatori. Ma il calcio è sempre rimasto nei numeri superiore a quelli del conflitto». 

Serie e fiction hanno beneficiato di questa "distrazione di massa"?

«Molto meno ma non a causa della guerra e della distrazione, ma perché sono troppe e cambiano in continuazione, ogni giorno c'è una nuova serie, il pubblico perde il filo. O anche semplicemente perché non piacciono. Per esempio scende Vostro onore mentre Doc nelle tue mani ha registrato solo una piccola flessione e anche Noi è calato, ma qui entra anche il gusto personale. Si evince che l'ascolto ha premiato i programmi consolidati mentre l'offerta di prima serata di Rai1 e di Canale 5 perde rispettivamente il 10,5% e il 7,9%». 

E i canali a forte vocazione informativa, come La7 e Rete4?

«Per loro è una storia diversa. La7 nella settimana forte dei combattimenti in Ucraina, dal 24 febbraio al 2 marzo, ha guadagnato il 21%. Ancor di più nella settimana successiva. Poi il pubblico ha cominciato a distrarsi e la risalita ha preso a frenare scendendo al 20%. Stessa tendenza a diminuire di Rete4 che da un più 19% è scesa a un più 15%. Italia 1 era al meno 9% nella settimana cruciale e oggi vanta un più 5,6%, dovuto probabilmente alla partenza de La pupa e il secchione».

Disinformatia. L’infotainment di guerra è lo stesso wrestling di sempre di lasettisti e retequattristi. Marco Campione su Linkiesta il 22 Marzo 2022.

I talk show non possono fare informazione perché il loro scopo è quello di intrattenere. Lo confermano i dibattiti in televisione sulla invasione russa, costruiti per esaltare il gusto del contrapporsi e non per aiutare il pubblico a comprendere.

Tra i filoni collaterali del dibattito sulla guerra, ce n’è uno che riguarda le dinamiche sottostanti alla costruzione di trasmissioni del cosiddetto infotainment (il format televisivo che prevede l’ibridazione di informazione e intrattenimento). Ne ha parlato per esempio lunedì Nathalie Tocci sulla Stampa. 

Chi segue la TV generalista (in particolare La7 e Rete 4 che si sono specializzate in questo tipo di televisione) è continuamente sottoposto alle opinioni sulla geopolitica espresse da filosofi, sociologi, fisici, ex generali convertiti alle scie chimiche, storici dell’arte.

E guardate che succede con tutto. Per esempio (chi mi conosce sa che ci tengo) sulla scuola, dove la pretesa di essere tuttologi è amplificata dal fatto che tutti sono andati a scuola: un po’ come (mi si perdoni la metafora un po’ forte, ma rende l’idea) pretendere di essere esperti di funzionamento dell’apparato digerente perché tutti espletiamo una volta al giorno, con saltuarie eccezioni, le nostre funzioni fisiologiche. 

La natura dell’oggetto del contendere (una guerra) che, vista la sua enormità, ingigantisce tutto ci consente di vedere meglio cose che sono presenti da tanto: dibattiti costruiti per esaltare il gusto del contrapporsi, piuttosto che per aiutare il pubblico a comprendere. Come nel wrestling è tutto finzione, messa in scena è il fine ultimo è quello di dare spettacolo (non decidere chi è più forte), così in queste trasmissioni il fine ultimo è dare spettacolo (non informare). 

Attenzione! Questa riflessione non ha a che fare con tutto il discorso sulla propaganda russa che finanzia la disinformazione o più banalmente sostiene idee destabilizzanti. È un elemento che c’è stato, c’è e ci sarà, che ha pesato, pesa e peserà (pure parecchio purtroppo), ma qui sto parlando di un aspetto che si sovrappone solo in parte a esso: la senatrice Laura Granato quando dice che Putin ha le sue ragioni viene condivisa milioni di volte grazie ai bot russi, ma non viene invitata a La7 dai bot russi. 

Mi piacerebbe che non dimenticassimo ciò che la lente tragica della guerra ha ingrandito per farcelo vedere meglio: trasmissioni come Otto e Mezzo (ma non è l’unica purtroppo) non hanno nulla di informativo. Né possono averlo, per loro stessa natura purtroppo.

E già che ci siamo, ricordiamoci di chi voleva mettere un filo russo alla presidenza della Repubblica, ricordiamoci di chi ha fatto venire in Italia 70 militari russi con la scusa di far venire 20 dottori e 10 infermieri, ricordiamoci di chi ha provato a svendere i nostri porti ai cinesi, di chi non voleva le trivelle e il nucleare rendendoci dipendenti da Putin, di chi ha firmato accordi politici con il partito di Putin, di chi si è avvantaggiato della propaganda della disinformatia di Putin (no-euro, Brexit, Trump, referendum costituzionale in Italia…)

E per tornare al punto dal quale siamo partiti: ricordiamoci di come sono disegnate queste trasmissioni. Se ti piace vedere due che fanno una qualche forma di lotta per decidere chi è più forte, guarda il Judo, la Boxe, il Taekwondo e tanto altro, ma non il wrestling. Diceva Jessica Rabbit: «Io non sono cattiva, è che mi disegnano così». Per Otto e Mezzo e compagnia è lo stesso: li disegnano così, è un copione. E non abbiate paura di farlo notare alle persone alle quali volete bene: vi diranno che è censura, ma non è censura

Ce lo spiega bene proprio Nathalie Tocci, che chiude il suo articolo di lunedì con questa riflessione: «Il paradosso è quando nel nome della libertà di opinione, e quindi della democrazia, si dà spazio alla opinione slegata dalla competenza, aprendo – consciamente o inconsciamente – alla disinformazione e alla propaganda. E infliggendo un colpo letale alla democrazia stessa». 

C’è in ballo qualcosa di grosso, quindi. Per questo dovremmo ricordarcene anche dopo che in qualche modo questa guerra sarà finita. La guerra delle autarchie contro le liberal-democrazie non è iniziata con la guerra di Putin e non finirà con la fine di Putin.

Otto e mezzo, maxi-rissa tra De Angelis e Travaglio: “Sei ignobile e in malafede su Putin”, “Giudichi senza leggere”. Il Tempo il 22 marzo 2022.

Una lite senza precedenti. Protagonisti dello screzio nella puntata del 22 marzo di Otto e mezzo, talk show condotto da Lilli Gruber su La7, sono Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano, e Alessandro De Angelis, attualmente vicedirettore di HuffPost e autore tv di Mezz'ora in più. De Angelis è il primo a parlare e spara a zero contro l’altro giornalista: “Quando guardiamo le immagini di Mariupol, diventata il simbolo di questa tragedia, con donne e uomini che bevono dalle pozzanghere perché in città non c’è più acqua, stiamo assistendo alla fotografia di un abisso di civiltà, che ci riporta al cuore della questione. C’è un aggredito e c’è un aggressore, che ha violato la libertà e la sovranità di un paese sovrano e vorrei dire a Marco Travaglio che lui mette in discussione tutto ciò, quando tu dici che è ignobile che non si possa ragionare sulle cause, in un qualche modo dici che ci sono delle cause e delle responsabilità dell’Occidente che giustificano questo. A mio giudizio non c’è nessuna cosa che ha fatto l’Occidente, compresa qualche esercitazione Nato che rientra nei segnali, che possa giustificare la violazione della sovranità di un popolo sovrano. Il tuo ragionamento porta a confondere la pace con la resa. Porta a sostenere che gli ucraini dovrebbero uscire con le mani alzate, così come vuole Vladimir Putin. La resistenza ucraina è l’unica titolare del suo destino. Trovo ignobile quando dai nostri salotti consigli agli ucraini di arrendersi! Hanno una grandissima dignità, stanno combattendo per la loro libertà. Dici disarmiamoli, sei contrario all’invio di armi per aiutali a difendersi. Come si difendono quindi? Mettendo i fiori nei cannoni. Sei tu che ironizzi, sei in malafede! Non sai le cose”.

Le voci dei due si accavallano spesso e la Gruber non riesce in nessun modo a mantenere l’ordine, con Travaglio che risponde per le rime a De Angelis: “Io non metto in discussione niente, dimmi quando ho mai messo in discussione che Putin è aggressore e gli ucraini sono aggrediti. Le cose che dico non giustificano nessuno, ma spiegano questa guerra. Non ho mai detto questo! Lo ha detto Joe Biden quando ha detto a Volodymyr Zelensky. Mai detto che gli ucraini che si devono arrendere, racconti un sacco di balle. Giudichi senza leggere, un qualcosa che ti accade con una certa frequenza. Sarei stato a favore dell’invio di armi se fosse stata un’iniziativa europea, stanno arrivando ai mercenari”.

“Marco Travaglio e Alessandro De Angelis, vi richiamo all’ordine perché voglio sentire il professor Marrone” sbotta la Gruber, che toglie la parola ai due per darla all’altro ospite. Una rissa che resterà negli occhi dei telespettatori per molto tempo.

Otto e Mezzo, Lilli Gruber massacrata dalla giornalista ucraina: "Propaganda pro-Putin in diretta tv", choc a La7. Libero Quotidiano il 19 marzo 2022.

Nel mirino ci finisce Lilli Gruber, il tutto dopo l'ultima puntata di Otto e Mezzo. Ad aprire il fuoco contro la conduttrice de La7 è Alryna Matviyishyn, giornalista ucraina esperta di diritti umani che non ha gradito, affatto, quanto visto dalla Gruber nella puntata del 18 marzo.

Nel dettaglio, come riporta Il Tempo, la Matviyishyn critica su Twitter quanto detto dalla sardina Jasmine Cristallo: "Non riesco a credere a quello che ho dovuto spiegare in diretta su un programma televisivo italiano - ha premesso -. L'attivista politico ha detto è sbagliato fornire armi all’Ucraina, sappiamo dei nazisti lì, che dire del diritto all’autodeterminazione. Cosa diavolo dici? Non si tratta di libertà di parola, è soltanto la reiterazione della propaganda di Putin, e quindi guerrafondaia, non pacificatrice. L'argomento troviamo soluzioni, parliamo non è solo ingenuo, è fatale per l'Ucraina, motivo per cui tanti civili sono già stati uccisi", ha picchiato duro la Matviyishyn contro Jasmine Cristallo, che insomma, afferma che a suo giudizio anche fornire armi all'Ucraina sia un errore.

Ma l'affondo della giornalista ucraina non è finito. Infatti, a stretto giro, riprende: "Lei ha menzionato la Crimea e il Donbass come un esempio di autodeterminazione. Dobbiamo ancora ricordare che la Russia ha occupato questi territori? Se questo è un completo malinteso della situazione, perché qualcuno dovrebbe dare voce a un oratore del genere? La propaganda russa ha inebriato così tanto l’Europa… Se non riesci a identificare e comprendere il pericolo delle narrazioni pro-Cremlino, guarda ora all'Ucraina: morte e distruzione questo è il risultato finale di un linguaggio di ‘pacificazione’ in stile putiniano. Molti italiani sostengono l'Ucraina e ho ricevuto molti di questi messaggi dopo il dibattito in tv. Per quanto riguarda molti ucraini l'Italia è un paese caro, anche a me, ci ho studiato diritti umani e democrazia. Spero che le persone lì non diano alcuna credibilità alle bugie del Cremlino che portano terrore e morte", conclude la Matviyishyn, il tutto in una lunga serie di tweet. Jasmine Cristallo... asfaltata.

Da liberoquotidiano.it il 20 marzo 2022.

Altissima tensione a In Onda tra Concita De Gregorio, insieme a David Parenzo la padrona di casa del programma di La7, e Giulio Tremonti, l'ex ministro dell'Economia dei governi Berlusconi.

Tensione prima per una domanda di Concita su un patto firmato nel 2017 tra Lega e Russia, domanda a cui Tremonti non trova ragioni per rispondere: "Pensavo di essere qui a parlare di altro”.

Dunque, ancora scintille sulla Costituzione. Ad aprire le danze Concita: "Le volevo assicurare che nel 2001 ero già nata e quindi mi ricordo cos'è accaduto. Ribadisco che la Costituzione non la può cambiare una sola forza politica”.

Secca la risposta di Tremonti: "Signora, è stata cambiata con una maggioranza minima ma dal centrosinistra". Dunque, Concita chiude con una sorta di gesto di pace: "La ringrazio, se mi vorrà far avere la Costituzione la regalerò a qualcuno che ancora non ce l'ha", chiude il botta e risposta.

Ma su tutta questa vicenda, su Twitter, ha avuto qualcosa da eccepire Vittorio Feltri. Il direttore, infatti, ha aperto il fuoco: "Concita De Gregorio ignora che l’articolo 5 della Costituzione che ha modificato il ruolo delle regioni è opera della sinistra. E fa la maestrina in tv. Roba da matti", chiude Vittorio Feltri. Concita colpita e affondata.

In Onda, Giulio Tremonti disintegra Concita De Gregorio: "Non parlo di questo". La domanda su Putin e la lite. Il Tempo il 19 marzo 2022.

La guerra in Ucraina, la figura di Vladimir Putin e le sanzioni economiche agli oligarchi russi. Sono questi i temi al centro della puntata di "In Onda" sabato 19 marzo dove fra gli ospiti di Concita De Gregorio e David Parenzo c'è anche l'ex ministro dell'Economia e presidente di Aspen Institute Giulio Tremonti. Il clima è incandescente fin dal primo minuto e con il professore la discussione parte male e finisce malissimo diventando persino un caso social.

Tutto esplode con una domanda della giornalista che sa di provocazione, ovvero i famigerati contenuti del patto siglato nel 2017 dalla Lega con la Russia. "Signora ha sbagliato interlocutore. Credevo che avrei dovuto rispondere ad altre domande, non certo a queste" evidenzia seccato il professore. L'appellativo "signora" lo userà a più riprese per ribattere. "Sono domande che riproponiamo sempre per cercare di capire cosa ci sia dietro" spiega la conduttrice di LA7 che sottolinea come il professore fosse proprio a quei tempi molto vicino all'ex premier Berlusconi, tanto amico dello zar.

La conduttrice è incredula per la reazione di Tremonti e allora sarcastica lo provoca ancora: “Se vuole può recitare una poesia di Carducci”. Parenzo prova a rimettere ordine ma la tensione in studio è alle stelle. Il prof seccato, la giornalista inviperita.

Poco dopo quando si parla più di aspetti economici e meno politici interviene per un'altra domanda Tremonti ci tiene allora specificare di nuovo: "Pensavo di venire qui anche per parlare del decreto del governo per superare questo mese". E giù l'affondo al governo: "Quando hanno fatto il Recovery Plan e il Pnrr c'era un altro mondo. Non gestisci questa realtà drammatica ingannando le persone con soluzioni che non ci sono".

Quindi la polemica con la conduttrice riparte, si finisce persino a parlare di Costituzione. "La Costituzione l'hanno votata un po' tutti, non è la Costituzione della sinistra" denuncia la De Gregorio. "La modifica del titolo V della Costituzione è stata votata dal centrosinistra. Tutta la macchina politica che c'è stata raccontata non sta in piedi" ribatte Tremonti.

Piovono frecciate da una parte e dall'altra. La conduttrice polemizza ancora: "Lei può venire qui a dire tutto quello che vuole ma se poi vuole anche rispondere a quest'altra domanda..." E il professore la asfalta ancora: "Io studio Carducci, ma lei invece studi la Costituzione".

Dezinformatzija de Noantri. L’insopportabile equidistanza dei talk show di La7 sui bombardamenti russi. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.

Nessuno nello studio del programma televisivo postprandiale ha contestato l’assurda frase pronunciata dall’ospite Marco Revelli sull’invasione putiniana: «Le parti devono rinunciare alle loro pretese», ha detto. Ma quale sarebbe la pretesa dell’Ucraina? Di non essere rasa al suolo dai missili del Cremlino?

L’altro giorno, sempre a Telecinquestelle, importante rete monotematica del colosso Dezinformatzija de Noantri (si chiamava La7, ma la denominazione, troppo vaga, è stata resa aderente all’oggetto sociale), il comunista Marco Revelli, intervistato da una tipa che fa da filodiffusione durante la siesta degli italiani (poi arriva Enrico Mentana, così cambiano fianco nell’attesa di quella delle otto e mezzo che li risveglia con Marco Travaglio, quando Nicola Gratteri è occupato a far retate o a scrivere prefazioni a libri di propaganda neonazi), il comunista Marco Revelli, dicevo (da Wikipedia: politologo, storico, accademico, attivista politico, giornalista e saggista: che viene in mente l’onorevole Trombetta nel vagone del treno con Totò), Revelli, insomma, a proposito della guerra all’Ucraina (ma a FiveStars TV dicono semmai guerra “in” Ucraina, perché magari laggiù non saranno proprio tutti drogati e nazisti, ma insomma un po’ se la sono cercata), Revelli, ridicevo, se ne esce a spiegare che ci vuole una trattativa e che, attenzione alla sapientissima equanimità dell’osservazione, «le parti devono rinunciare alle loro pretese».

La conduttrice che serafica era investita da quello sproposito, giunto indisturbato nell’universo di eternità strapaesana conchiuso nel Raccordo, che dice? Nulla, questa volta. La scorsa, quando un altro campione, in collegamento, diceva che occhio, magari mica volevano davvero bombardare l’ospedale, quella s’era tirata su e s’era disposta immediatamente a complemento, spiegando che in effetti bisogna essere prudenti: che è giustissimo, accidenti stai a vedere che anziché le donne in gravidanza – verosimilmente simulata, tra l’altro –  volevano bombardare i nonni al supermercato.

Ci vuole rigore, nella cronaca. E invece questa volta, appunto, zitta davanti alle prospettazioni di soluzione transattiva del professor Trombetta: pardon, Revelli. Alle quali, per carità, non si pretendeva che la conducentessa di Tagadà opponesse la replica decurtisiana, cioè una pernacchia, ma almeno una sommessa domandina. Vale a dire: «Scusi, professore, ma quale sarebbe la pretesa dell’Ucraina, e alla quale l’Ucraina dovrebbe rinunciare? Di non essere bombardata?».

No, perché qui bisogna capirsi. D’accordo che gli invasori, come ben spiegato sempre dal giornalismo equivicino a Est ed equidistante a Ovest, stanno cercando «di non spaventare la gente» (gravide e puerpere a parte, che imperdonabilmente non se ne rendono conto), ma le pretese contrapposte sono quelle: di bombardare, da una parte, e di non essere bombardati, dall’altra parte. Con il corollario, da quest’ultima parte, costituito da una pretesa subordinata effettivamente intollerabile: e cioè la pretesa di difendersi dai bombardamenti. Figurarsi, poi (qui siamo all’oltraggio), quando per soprammercato chiedono pure di essere aiutati a difendersi.

Ma rischia di essere propaganda guerrafondaia, questa.

Otto e Mezzo, scintille tra Lilli Gruber e Paolo Mieli: "Ma chi? Io?", "Non si senta presa di mira". Libero Quotidiano il 18 marzo 2022.

Si discute di Ucraina a Otto e Mezzo. Ospite di Lilli Gruber nella puntata in onda venerdì 18 marzo Paolo Mieli. Il giornalista spiega fin da subito di sperare che la guerra finisca il prima possibile, salvo poi aprire un lungo dibattito. Oggetto? Armare o meno il paese di Volodymyr Zelensky. "Quando ti arrivano dei cannoni che ti sparano, non puoi metterci dei fiori. Ma come fate a pensarlo?", chiede su La7 l'editorialista del Corriere della Sera. 

Quella di Mieli è una domanda - come da lui spiegato - rivolta alla "collettività". Eppure la conduttrice salta subito dalla sedia: "Ma chi voi? Io?". "Non si senta presa di mira", replica a quel punto l'ospite in studio mentre la Gruber mette le mani avanti "No, non voglio prendere una parte o un'altra, soprattutto in questa guerra".  

Botta e risposta che si conclude solo con l'intervento di Lucio Caracciolo. Il giornalista e fondatore della rivista di geopolitica Limes è certo che "i cinesi non stanno mollando i russi, sono seccati con loro per questa guerra, ma non possono mollarli". Questo, conclude però, non significa che sono pronti a concedere loro gli strumenti necessari per combattere: "Da qui ad armarli è un altro discorso, anche perché finora è accaduto il contrario".

Giada Oricchio per iltempo.it l'11 marzo 2022.

Alessandro Orsini, professore di sociologia internazionale alla Luiss di Roma, è finito nell’occhio del ciclone e ha sfiorato la censura da parte dell’Università per aver sì condannato l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, ma specificando che la responsabilità politica, a suo dire, è dell’Unione Europea. 

Di nuovo ospite di “Piazza Pulita”, l’approfondimento politico condotto da Corrado Formigli su LA7, giovedì 10 marzo, Orsini ha toccato un altro tema caldo: le sanzioni contro la Russia. “Basandomi sui miei studi della guerra civile in Yemen, dico che noi stiamo usando male le sanzioni, dovremmo vincolarle a un dato preciso: i bambini morti.

Nel 2016 l’Arabia Saudita ha fatto morire tantissimi bambini sotto le bombe e l’Onu ha sanzionato il Paese inserendolo in una lista nera e dicendo che se ne avesse uccisi altri avrebbe inasprito le sanzioni. L’Arabia Saudita ha costituito un comitato e sottoposto a provvedimenti disciplinari i piloti che nei bombardamenti colpiscono i bambini. La conseguenza è stata che nel 2020 l’Onu ha tolto il Paese dalla lista nera perché il numero è drasticamente diminuito”.

Ed ecco l’errore che secondo il professore stanno commettendo i leader europei: “Stanno facendo morire più persone perché hanno legato le sanzioni al conflitto complessivo, più sanzioni non lo fermeranno, ma se cerchiamo di perseguire un solo obiettivo che è salvare i bambini, forse possiamo avere un’attenuazione di tutto il conflitto. Se Putin vorrà uccidere meno bambini inevitabilmente colpirà meno civili perché sono sempre in famiglia. Siccome questa è una guerra di lungo periodo, dobbiamo prendere in considerazione un uso strategico delle sanzioni”.

"È solo questione di tempo". La profezia (del 2018) sulla guerra in Ucraina. Giuseppe De Lorenzo l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'intervento del prof Alessandro Orsini al Senato nel lontano 2018 sulle tensioni tra Russia e Ucraina: "C'è una possibilità di sfondamento delle linee ad Est". 

Era possibile prevedere il conflitto in Ucraina? Avremmo potuto evitarlo? C’erano dei segnali che avremmo dovuto cogliere? Si tratta di interrogativi inutili, ormai, a cambiare gli eventi della storia. L'invasione russa a Kiev è in atto. E gli scenari sono cambiati. Eppure la risposta a quelle domande sembra essere affermativa: sì, qualcuno l'aveva previsto.

Era il 4 dicembre del 2018. Alla Commissione Affari Esteri del Senato viene invitato a parlare Alessandro Orsini, direttore di Sicurezza Internazionale e autorevole professore della Luiss, una “Cassandra” moderna oggi finita nell’occhio del ciclone perché considerato troppo schiacciato sulla teoria delle “responsabilità della Nato” nell’esplosione del conflitto ucraino. Erano altri tempi: alla Casa Bianca sedeva Donald Trump, a Palazzo Chigi Giuseppe Conte e il Cancelliere della Germania portava ancora il nome di Angela Merkel. Attori diversi, stessi problemi che il professor Orsini aveva riassunto così: “Nell’Est Europa stanno avvenendo dei fatti molto gravi, destinati ad aggravarsi, con la possibilità di uno sfondamento delle linee occidentali da parte dell’esercito russo”. Un'ipotesi che moltissimi analisti, anche il giorno precedente al via della cosiddetta "Operazione Speciale" di Mosca, ritenevano impossibile se non addirittura retaggio di un passato imperialista ormai svanito. Si sbagliavano. E Orsini l’aveva capito con tre anni di anticipo (guarda qui il video completo).

Il professore nel 2018 prevedeva infatti la possibilità di uno “sfondamento” vecchio stile sia a Kaliningrad, l’exclave russa tra Polonia e Lituania, sia in Ucraina, dove da quattro anni si stava già combattendo la guerra del Donbass, dove Mosca si era annessa la Crimea e aveva già “ammassato molte truppe”. Certo era difficile immaginare uno scenario simile a quello odierno, eppure per Orsini per evitare l’escalation occorreva tenere a mente alcuni fattori. Uno in particolare: “La strategia di Putin dipende dalle mosse dell’Occidente”. Tradotto: ciò che avrebbero fatto la Nato e l’Ue negli anni a venire avrebbe prodotto determinate reazioni da parte di Mosca. Le sanzioni post Maidan in fondo servivano a questo: a disincentivare la Russia dall'invasione. Ma Putin ha in Ucraina “interessi geopolitici enormi”, riteneva allora (e ancora ritiene) che l’Occidente gli abbia strappato di mano qualcosa che gli apparteneva. E quindi stava solo aspettando il momento giusto per riprendersela. “È una questione di tempo - vaticinava il professore nel 2018 - e soprattutto dipende dagli incentivi o dai disincentivi che l’Occidente fornirà" allo Zar. La situazione è rimasta stabile per otto anni, dal 2014 al 2022, poi l’equilibrio si è rotto. Cosa ha provocato il patatrac?

“Dopo l’annessione della Crimea - spiegava Orsini - La Svezia ha avviato esercitazioni molto importanti” in un’isola strategica. Poi va ricordata “l’enorme esercitazione della Nato in Norvegia”, una manovra da scenario 5, ovvero l’articolo dell’Alleanza che costringe gli Stati membri a intervenire in difesa di un Paese sotto attacco. E infine “Bucarest 9”, un’alleanza dei Paesi dell'Est in ottica anti-Russia. A questo vanno aggiunti gli avvenimenti più recenti, elencati sempre da Orsini ieri sera a Piazza Pulita. “Ci sono state tre esercitazioni in Ucraina: una nel giugno del 2021, dal nome ‘Brezza Marina’; la seconda nel luglio del 2021, chiamata ‘Tre Spade’; infine, la terza nel settembre del 2021, detta ‘Tridente rapido’”. Legittimo? Certo. Ma secondo Orsini anche pericoloso.

Il professore, come esempio di decisioni distensive nei rapporti con Mosca, ricorda infatti di quando Angela Merkel si disse infastidita dalla richiesta dell’ex presidente ucraino Porošenko di chiedere l’intervento della Nato contro Mosca. Tattica utilizzata anche in altri contesti rischiosi: si pensi al “pranzo” che Trump organizzò col "pazzo" Kim Jong-un al fine di evitare un’escalation. O ancora alle manovre internazionali in Venezuela dopo la crisi Guaidò-Maduro. La domanda è: stavolta la Nato ha tirato troppo la corda, fornendo a Putin quegli “incentivi all’invasione” evocati nel 2018 da Orsini? Difficile dirlo. Il professore però avverte: o comprendiamo queste dinamiche, "oppure non capiremo che sta per scoppiare un’altra guerra in Georgia”. Anche lì infatti è presente una porzione di territorio in mano a Mosca. E sempre lì, nel 2021, la Nato ha condotto un’altra esercitazione militare.

Piazzapulita, lo studio del prof Orsini (Luiss): "L'unica sanzione che ferma le bombe in Ucraina". Giada Oricchio su Il Tempo il 10 marzo 2022.

Alessandro Orsini, professore di sociologia internazionale alla Luiss di Roma, è finito nell’occhio del ciclone e ha sfiorato la censura da parte dell’Università per aver sì condannato l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, ma specificando che la responsabilità politica, a suo dire, è dell’Unione Europea.

Di nuovo ospite di “Piazza Pulita”, l’approfondimento politico condotto da Corrado Formigli su LA7, giovedì 10 marzo, Orsini ha toccato un altro tema caldo: le sanzioni contro la Russia. “Basandomi sui miei studi della guerra civile in Yemen, dico che noi stiamo usando male le sanzioni, dovremmo vincolarle a un dato preciso: i bambini morti. Nel 2016 l’Arabia Saudita ha fatto morire tantissimi bambini sotto le bombe e l’Onu ha sanzionato il Paese inserendolo in una lista nera e dicendo che se ne avesse uccisi altri avrebbe inasprito le sanzioni. L’Arabia Saudita ha costituito un comitato e sottoposto a provvedimenti disciplinari i piloti che nei bombardamenti colpiscono i bambini. La conseguenza è stata che nel 2020 l’Onu ha tolto il Paese dalla lista nera perché il numero è drasticamente diminuito”.

Ed ecco l’errore che secondo il professore stanno commettendo i leader europei: “Stanno facendo morire più persone perché hanno legato le sanzioni al conflitto complessivo, più sanzioni non lo fermeranno, ma se cerchiamo di perseguire un solo obiettivo che è salvare i bambini, forse possiamo avere un’attenuazione di tutto il conflitto. Se Putin vorrà uccidere meno bambini inevitabilmente colpirà meno civili perché sono sempre in famiglia. Siccome questa è una guerra di lungo periodo, dobbiamo prendere in considerazione un uso strategico delle sanzioni”.

Le tesi del Cremlino, in italiano. Quando il prof Orsini faceva l’agit-prop di quella gran sòla di vaccino russo. Carmelo Palma su Linkiesta il 22 Marzo 2022.

In teoria l’Osservatorio sulla sicurezza internazionale della Luiss dovrebbe occuparsi di politica internazionale e di studi strategici, ma il suo direttore e fondatore ha fatto pubblicare nella testata on line svariati articoli per tessere le lodi del vaccino Sputnik

Quando esattamente due anni fa, il 22 marzo 2020, accolti in pompa magna dal ministro Luigi Di Maio, sbarcarono a Pratica di Mare i componenti della missione “Dalla Russia con amore”, per soccorrere l’Italia travolta dal Covid, si ebbe una prima e plateale dimostrazione di quell’uso geopolitico del palcoscenico pandemico da parte del Cremlino, che sarebbe presto proseguita con la saga di Sputnik, il vaccino russo per salvare il mondo.

Gli oltre cento militari che, appena scesi dagli Ilyushin, iniziano liberamente a scorrazzare per l’Italia per poi puntare sul focolaio di Bergamo, protetti dalla speciale immunità di designati uomini della provvidenza, furono infatti solo una anticipazione della truffa che sarebbe proseguita su scala europea con Sputnik. 

Si trattava di un contingente composto per meno di un terzo da figure sanitarie e guidato dal generale Sergey Kikot, un esperto di guerra batteriologica, che, come ha raccontato Jacopo Iacoboni, aveva difeso Assad dall’accusa di avere utilizzato armi chimiche presso la Corte penale internazionale dell’Aja. Il contingente russo portò in regalo alla Protezione civile mezzo milione di mascherine, centomila tamponi e trenta ventilatori, peraltro difettosi. 

Cioè niente, anzi meno di niente, considerando che il soggiorno dei militari russi venne interamente spesato dal governo italiano, che pagò pure il carburante dei loro aerei. Un mese e mezzo dopo, cioè il 7 maggio 2020, i russi se ne andarono lasciando dietro di sé qualche domanda sul senso della loro presenza e suscitando il dubbio, rilanciato recentemente dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che quella oscena passerella potesse nascondere anche un’attività di intelligence, oltre che di propaganda. 

Propaganda che è proseguita circa un anno dopo con il vaccino Sputnik, con la partecipazione attiva, volontaria o involontaria, per complicità o stupidità, di molti rappresentanti del ceto politico italiano, da Vincenzo De Luca che ne invocava l’autorizzazione da parte dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) «contro ogni tipo di ricatto delle case farmaceutiche» a Luca Zaia, che diffidava l’Ema a uscire «dall’ideologia legata ai vaccini» 

Il massimo della compromissione fu quello della Regione Lazio, il cui assessore alla Sanità Alessio D’Amato a marzo dello scorso anno ammoniva l’Europa «a fare l’opzione sul vaccino Sputnik, ci sono 50 milioni di dosi disponibili. Se non lo farà l’Europa lo farà l’Italia e se non farà l’Italia lo farà il Lazio».

La Regione Lazio sottoscrisse anche un memorandum insieme all’Istituto Spallanzani di Roma e all’Istituto Gamaleya di Mosca per la cooperazione scientifica sul vaccino Sputnik, di cui venne ipotizzata la produzione in Italia. Cooperazione interrotta dopo l’invasione dell’Ucraina, ma che non aveva nel frattempo dato alcun esito apprezzabile, neppure sul piano della ricerca 

A distanza di un anno dallo stracciamento di vesti sul vaccino russo, questo non è ancora stato autorizzato dall’Ema, vista l’indisponibilità della Russia a sottoporsi agli standard e alle procedure di verifica previste dalle autorità di farmacovigilanza europee. Ma anche in questo caso la Russia anziché ammettere un’inadempienza ha lamentato un’odiosa discriminazione, secondo la modalità classica del regime putiniano, che col vittimismo copre o assolve le vergogne della menzogna, quando non della violenza.

Il vaccino miracoloso, che, al di là di ogni considerazione su efficacia e sicurezza, era chiaro fin dall’inizio i russi non avrebbero potuto produrre in quantità utili alle esigenze europee, ha avuto un battage pubblicitario chiaramente teleguidato da Mosca. E quindi non stupisce che vi abbia avuto un ruolo anche chi, fino a poche settimane fa, era un poco conosciuto docente di sociologia, e che oggi è diventato la voce ufficiale della campagna per la resa ucraina, cioè il professore Alessandro Orsini, direttore e fondatore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale della Luiss e della relativa testata on line. 

Questa testata, che in teoria dovrebbe occuparsi di politica internazionale e di studi strategici, oltre a ospitare veline ufficiali e neppure troppo camuffate delle posizioni del Cremlino sull’intero scibile umano, è diventata lo scorso anno un vero bollettino del soft power vaccinale russo. Solo tra il febbraio e l’aprile del 2021 si contano una quindicina di dispacci sul «primo vaccino contro il COVID-19 al mondo», sul suo successo in Venezuela (efficacia al 100%!), in Nicaragua o in Iran, sull’interesse dei paesi Ue, sui pregiudizi dell’Ema, e sulle campagne diffamatorie  da parte degli Stati Uniti. 

Nel complesso, come potrà verificare chiunque accedendo al motore di ricerca della testata, già un anno fa Alessandro Orsini faceva l’agit-prop delle tesi care al Cremlino. Prometteva bene e infatti la storia gli ha offerto l’occasione di mettere direttamente la faccia sulle verità alternative moscovite.

Cosa che può continuare liberamente a fare – è sempre il caso di ricordarlo – perché alle nostre latitudini politiche si è disposti come Voltaire, se non a morire, perlomeno a soffrire perché i liberi e disinibiti difensori delle ragioni di Putin conservino la cattedra, anziché perdere la vita, e finiscano tutti i giorni in TV, anziché finire all’ergastolo in un gulag. 

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” il 25 marzo 2022.

Caro Merlo, qual è il capzioso talento del prof Orsini? Fabrizio Bonfigli - Trieste

Risposta di Francesco Merlo

Solo in Italia, che non è il Paese di Dostoevskij ma di Totò, la tv, di Stato e privata, mima la guerra con l'Opera dei Pupi. Sicuramente Alessandro Orsini, ora che la Rai gli ha annullato il contratto, di più si accanirà a fare il Paladino di Putin come Orlando, tra i Pupi, fa il Paladino di Carlo Magno. E poco importa se il tipo tele-letterario del Cattedratico Putiniano sarà macchietta gratis o pagato, e magari più pagato a La7 o a Mediaset, e con la corona di spine del censurato, come il grande Biagi, come nell'editto bulgaro: figuriamoci!

Per gli italiani, che nulla sanno delle sue qualità di professore, Orsini è solo un animatore tv, vale a dire un acchiappa-audience, che è un mestiere stagionale, ben più difficile dell'esperto autentico, proprio come nei centri vacanza è più difficile fare l'intrattenitore che il barman o il bagnino. 

Come tutto in tv, anche l'acchiappa-audience fu inventato da Maurizio Costanzo che arrivava a mostrificare lo strambo, il travestito, la donna con tre sessi, il polemista manesco, il sociologo e la sua signora, l'artista maledetto, il critico d'arte furioso, l'allegro moribondo e il triste resuscitato quasi sempre, va detto, usandoli con sapienza.

Anche Santoro ne abusò trasformando in divi del trash gli antagonisti ruvidi, i ribelli scomposti, i disobbedienti politici sino ai vaffa-boys ingaggiati nel tendone da circo per sfide tra malinconici compari. Di quel modello oggi sono la spelacchiata degenerazione, quasi sempre contrattualizzata, il montanaro rasposo, il professore arrabbiato, il No Vax ignorante, il giornalista antisistema, sino appunto al cattedratico filorusso, al Paladino di Putin che più di tutti gli altri bimbumbam della tv, ne ha svelato la degradazione.

Ha infatti svilito, nel terribile tempo di guerra, la figura nobile dell'ospite, ha mortificato il dibattito tra competenti e ha caricaturizzato i saperi. E con questi animatori tv non bisogna mai ingaggiare polemiche perché se ne nutrono. Posano sempre a martiri della libertà e, basta che li nomini (quando ti ricordi il nome) e ti accusano di compilare liste di proscrizione, di imbavagliarli. Povera Rai come ti sei ridotta: gli Orsini " te li vai a cercà cor lanternino " si dice a Roma.

Il "problema Orsini" non è infatti il compenso da intrattenitore, ma il quarto d'ora di celebrità che gli sta facendo vivere una tv senza idee che, con il Paese coinvolto nella guerra, ancora e a tutti i costi va a caccia dell'audience confondendola con la qualità e con la libertà. Purtroppo, Putin ha ben altri crimini da scontare prima che gli si possa mettere sulla coscienza anche Orsini. 

Da liberoquotidiano.it il 25 marzo 2022.

Scontro selvaggio a PiazzaPulita tra Alessandro Orsini e Mario Calabresi. Ospite in studio da Corrado Formigli ecco il professore della Luiss "epurato" dalla Rai per aver espresso opinioni non filo-Putin, ma scomode su Vladimir Putin. E il confronto su La7 con l'ex direttore di Repubblica è serratissimo. Si parla delle posizioni di Orsini, va da sé, quelle posizioni per cui gli è stato cancellato il contratto con CartaBianca da 2mila euro a puntata, decisione che ha fatto insorgere Bianca Berlinguer contro i vertici Rai.

E Calabresi apre le danze picchiando duro: "Allora le va bene che Putin si prenda l'Ucraina", chiede provocatorio. Durissima anche la replica di Orsini, che ribatte sempre colpo su colpo senza mai perdere calma né aplomb: "Il fatto che mi faccia questa domanda dice tutto di lei, è una provocazione". Risposta, oggettivamente, perfette. 

Ma non è finita. Calabresi si lancia in un panegirico, in una riflessione sui motivi per i quali le persone sono insorte contro il professore. E afferma: "Le assicuro che tanta gente non l'ha capita, non ha capito il suo ragionamento". E Orsini, ancora una volta ad alzo zero: "A me viene da piangere, perché lei non ha capito niente di quello che ho detto". Ko tecnico per Calabresi: non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire... 

"Sono di sinistra. Consorterie contro di me". Ora Orsini grida al complotto. Marco Leardi il 25 Marzo 2022 su Il Giornale.

Dopo le polemiche e il contratto saltato con la Rai, il professore torna in tv. "Si stanno coalizzando per colpirmi", lamenta, menzionando il governo. Poi ammette: "Sono un uomo di sinistra, cresciuto in Cgil".

"Si stanno coalizzando per colpirmi". Dopo il contratto con la Rai cancellato e i conseguenti clamori mediatici, Alessandro Orsini è tornato in tv. Ma su La7. E davanti alle telecamere ha vuotato il sacco, ripercorrendo le sue ultime vicissitudini televisive con i toni della vittima, con la convinzione si essere stato silurato dal servizio pubblico per aver infastidito "consorterie" non meglio identificate. Sta di fatto che, al di là del pasticcio combinato dall'emittente di Viale Mazzini, il docente Luiss noto per sue controverse teorie sull'Ucraina non ha mai avuto ostacoli nell'avere un microfono acceso e una telecamera puntata su di sé. Lo ha ammesso lui stesso.

"Da quando sono venuto la prima volta a Piazzapulita, il 3 marzo, in 10 giorni ho rinunciato a 30 mila euro di compensi", ha spiegato Orsini su La7, rivelato di aver ricevuto diverse proposte di collaborazioni televisive retribuite. "Cartabianca mi ha manifestato stima e ho accettato l'offerta più bassa di tutte", ha aggiunto il professore. La storia, poi, è nota ai più: dopo le polemiche per un contratto da circa 2mila euro a puntata previsto per il sociologo campano, la Rai ha fatto dietrofront annunciando di non voler dar seguito all'accordo. Una bufera che ha indotto Orsini a stare ancor più sulla difensiva e a dichiararsi, in diretta su La7, vittima di una sorta di complotto.

Orsini: "Consorterie contro di me..."

Al conduttore Corrado Formigli, che gli chiedeva il perché delle ostilità nei suoi confronti, il professore ha infatti risposto: "Mi sembra molto chiaro... Le mie analisi sulla guerra in Ucraina hanno toccato consorterie molto potenti che si stanno coalizzando per colpirmi". Quali siano esattamente queste entità a lui avverse, il docente non lo ha specificato nei dettagli. Ma ha abbozzato: "Il governo...". E, al riguardo, ha argomentato: "Io ho sempre sostenuto le politiche di pace del governo in Libia: quando Tripoli ci ha chiesto aiuto, abbiamo risposto 'armi non ve ne diamo, preferiamo che moriate piuttosto che creare un'escalation militare'. Con l'Ucraina invece è stata fatta una scelta opposta".

Incalzato sulle sue posizioni controverse, il docente ha definito una "grandissima menzogna" l'accusa secondo la quale egli non avrebbe mai condannato l'azione militare contro Kiev. "Ho condannato sempre fermissimamente l'invasione di Putin", ha ribattuto Orsini, che la scorsa settimana - proprio a Piazzapulita - aveva però sostenuto: "Noi siamo come Putin. Se Putin è un mostro, lo siamo anche noi". Un accostamento che aveva innescato reazioni di dissenso in studio. Nella prima parte del suo intervento di ieri su La7, diversamente, il sociologo era stato intervistato singolarmente - da guest star - e solo in un secondo momento si era unito al dibattito.

Orsini: "Sono un uomo di sinistra"

Tra i passaggi più interessanti del suo faccia a faccia con il (compiaciutissimo) conduttore, quello in cui Orsini ha rivelato la propria collocazione politica. A sinistra. "Mi definirei un socialista liberale. Sono cresciuto in Cgil, dai 15 anni fino alla laurea sono stato nel movimento giovanile della Cgil, in particolare l'Uds. Poi ho chiuso con la politica e non ho mai avuto contatti con i partiti", ha ammesso il professore. E infine: "Sono cresciuto in ambienti di sinistra. Oggi? Mi sento un uomo di sinistra schifato, perché penso agli ideali in cui ho creduto e vedo dei parlamentari che sostengono di provenire dalla mia stessa storia ma non mi vogliono far parlare".

Il caso del professore. Alessandro Orsini licenziato, la Rai manda via l’opinionista perché ha opinioni sbagliate…Angela Azzaro su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

Cade un’altra testa nella guerra che l’intellighenzia e il giornalismo italiani stanno portando avanti contro chiunque non la pensi sulla guerra in Ucraina come l’establishment. La Rai ha bloccato il contratto che Alessandro Orsini aveva ottenuto con Cartabianca. Ma più che la sua di testa cade la faccia di chi in questi anni (e più che mai in questi giorni) ci aveva fatto credere di essere a favore della libertà e contro la censura. Non ci crediamo più.

Se non la pensi come loro, sei fuori: devi essere o deriso o umiliato o osteggiato. Dicono che il problema fossero le 2000 euro a puntata che avrebbe ricevuto da contratto ma il fastidio sono evidentemente le posizioni di Orsini, ormai tacciato senza distinguo di essere filo Putin. È l’accusa che viene mossa anche nei confronti di chiunque si dica pacifista, di chi sia contro l’uso delle armi, di chi segua le parole e il messaggio di papa Francesco.

Non si tratta qui di difendere le cose dette dal professore che soprattutto sui migranti ha posizioni che questo giornale ha sempre fortemente contrastato e sempre contrasterà. Vogliamo difendere un principio: quello del pluralismo, della libertà d’espressione contro questa militarizzazione del dibattito: o sei con noi o sei a favore del nostro nemico. In Rai ne succedono di tutti i colori. Da anni. Anche sul piano dei costi e dei soldi spesi. Ma guarda caso il contratto viene sciolto a chi sostiene tesi che danno fastidio. Comprensibile la rabbia di Berlinguer che considera minata la propria autonomia di autrice.

Orsini ha fatto sapere che è disponibile ad andare a titolo gratuito. Glielo permetteranno? Resta il pesante tentativo di intimidirlo, di zittirlo. Massimo Gramellini nella sua rubrica sul Corriere ha addirittura, parlando di lui, usato la parola “schifo”. Mi rivolgo allora alle tante persone che pur non condividendo le parole del professore si dicono amanti della libertà, a partire dagli amici e le amiche del Pd che hanno protestato vivamente per il suo contratto Rai.

Ma davvero pensate che questa sia la strada? Che zittire qualcuno possa contribuire a rendere migliore l’informazione e il dibattito? Se siete convinti delle vostre posizioni non dovete avere paura di uno che dissente. Avete tutti gli strumenti e lo spazio pubblico per contrastare quello che dice. Siete tanti, lui è solo. Un giorno, speriamo presto, finita la guerra, ci resterà da gestire anche questa limitazione pesante del pluralismo. La prossima volta non sarà la guerra in Ucraina o l’invio delle armi a Kiev. Sarà forse un’altra questione, ma chi dà fastidio verrà silenziato. E quel qualcuno potreste essere voi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Chi è Alessandro Orsini, il professore oscurato da Wikipedia e senza più contratto in Rai. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

Il docente esperto in Sociologia del terrorismo ha collaborato anche con il governo. Oggi attribuisce alla Nato le responsabilità dell’invasione russa. E la Rai gli ha cancellato il contratto da duemila euro a puntata per «Cartabianca». 

Sul sito della Luiss, prestigiosa università italiana legata a Confindustria, Alessandro Orsini (46 anni, nato a Napoli) viene presentato con un curriculum così lungo che sembra quello di un docente a fine carriera. Oggi è direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale, professore associato nel dipartimento di Scienze politiche della Luiss, dove insegna Sociologia generale e Sociologia del terrorismo. Poi ci sono una lunga serie di libri (su Isis, Brigate rosse, immigrazione), ma soprattutto specializzazioni al Mit di Boston e collaborazioni ufficiali come consulente del governo italiano.

Orsini, che nel tempo ha collaborato con più quotidiani come editorialista, negli ultimi giorni ha acquisito una fortissima popolarità (o impopolarità, a seconda dei punti di vista) per le sue posizioni rivendicate in numerose trasmissioni televisive (in primis Cartabianca e Piazza pulita) riguardo la sanguinosa invasione dell’Ucraina: «La Russia può sventrare l’Ucraina come e quando vuole» . Particolarmente critiche le sue teorie rispetto alla Nato, considerata dal docente responsabile dell’escalation militare culminata con i bombardamenti da parte della Russia. Orsini sostiene con forza che fosse (e sia) necessario riconoscere come russe aree come il Donbass e le regioni occupate in queste settimane. Sostiene inoltre la necessità di ridimensionare le sanzioni economiche occidentali e accettare che «Putin ha già vinto». Già le prime dichiarazioni sopra le righe erano valse a Orsini l’oscuramento della sua pagina personale da parte di Wikipedia . E pure la stessa Luiss ha invitato il docente ad attenersi «al rigore scientifico» e «non alle proprie idee personali».

Ospite a Cartabianca, su Rai Tre, rispondendo a Bianca Berlinguer Orsini era arrivato a dire che se Putin dovesse trovarsi «in un condizione disperata in cui rischia di perdere la guerra in Ucraina, e dovesse usare la bomba atomica, l’Europa sarebbe moralmente corresponsabile». Già queste esternazioni, anche perché trasmesse dal servizio pubblico, erano state sufficienti a innescare una bufera contro l’esperto di sociologia del terrorismo. Nel frattempo dai piani alti di Viale Mazzini è filtrata la notizia che il professor Orsini aveva firmato un contratto da duemila euro a puntata (per sei apparizioni). Ne è scaturita un’ulteriore bufera, arrivata fino in Parlamento: «La Rai non paghi i pifferai di Putin», è l’attacco del Pd. Così, in meno di 48 ore, i dirigenti della tv di Stato hanno dovuto cancellare il contratto .

«Chi mi attacca è uguale a Putin», aveva premesso il professore in una intervista a Libero. E poi, dopo la cancellazione del contratto Rai, non pago ha rilanciato: «Molte altre trasmissioni di informazione mi avevano offerto compensi ben superiori. Annuncio che sono pronto a partecipare alla trasmissione di Bianca Berlinguer gratuitamente». Il motivo di tutta questa bufera? «Mi attaccano perché le mie analisi hanno toccato consorterie potenti», replica il docente.

Il prof che ama i Supereroi. Chi è Alessandro Orsini e perché si è scontrato con David Parenzo: “Zelensky ci sta portando alla terza guerra mondiale”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Il direttore mi manda un messaggio: scriveresti di Orsini? Come no, rispondo: è ancora una storia mai raccontata per filo e per segno. Orsini era convinto che ammazzando Napoleone III, si sarebbe fatta l’Italia e andò a Londra per consigliarsi da Mazzini che lo spedi dal suo bombarolo di fiducia che costruiva solo bombe personalizzate per attentati, piccoli capolavori per anarchici. Orsini gli disse da quanti metri avrebbe lanciato la bomba e quando eseguì l’attentato sbagliò tutto, uccise una ventina di innocenti, mancò Napoleone e la Napoleonessa con un paio di complici. Furia dei parigini che non ne potevano più dei jihadisti italiani che tagliavano gole alle principesse romantiche come Sissi e facevano saltare in aria le carrozze. Sicché Orsini e un complice furono ghigliottinati, mentre un terzo fu mandato alla Guyana da cui evase per trovarsi poi nel Settimo cavalleria americano agli ordini del generale Custer alla battaglia di Little Bighorn, unico sopravvissuto. Felice Orsini prima di offrire il collo al boia pronunciò un’appassionata supplica politica a Napoleone III che, si dice, ebbe benefici effetti.

No, mi ha risposto il direttore, non quell’Orsini, l’altro. Quello che da Formigli etc etc. Dunque sono corso a vedere on line che cosa fosse successo nel programma di Formigli. Così, mi vado a vedere il match fra questo Orsini e Parenzo. E scopro che il professor Orsini è giovine, benché abbia scritto un numero strabiliante di libri ed articoli diffusi in tutte le università del pianeta Terra nella sua qualità di specialista in terrorismo internazionale. Fra le opere, un saggio sulle Brigate Rosse. E dunque che cosa avrà detto quest’uomo dall’aspetto vibratile e dalla lingua molto moderna, anzi attuale? Se ho capito bene, Orsini ha sviluppato il suo pensiero su due pilastri molto popolari in Italia. Ammette di essere, sì, un uomo occidentale felice di essere in Occidente (e Parenzo: “Lei sa che nel 1973 Enrico Berlinguer segretario del PCI dichiarò di sentirsi più pro. tetto sotto l’ombrello della Nato?”) ma fino a un certo punto perché non si può biasimare Putin e fare il tifo per Zelensky per due motivi.

Primo, anche gli americani attaccarono una democrazia come quella cilena di Salvador Allende oltre a invadere stati sovrani come l’Iraq. Secondo: Zelensky ha come strategia quella di portarci tutti alla terza guerra mondiale perché sa che i russi non potendo vincere e non potendo perdere la faccia, saranno costretti a usare armi di distruzione di massa. E poi ha confessato di avere i suoi Supereroi, come Superman o l’Uomo Ragno, affermando testualmente: “Per me Zelensky era una sorta di supereroe! Ma la mia percezione sta cambiando perché adesso lui diventa un ostacolo alla pace e per me deve essere abbandonato perché è chiarissimo quel che pensa e al posto suo penserei le stesse cose: lui preferisce la terza guerra mondiale piuttosto che rimanere da solo contro la Russia. E quindi lo vedo come un pericolo per la pace. Per me Zelensky va isolato così come Boris Johnson che disprezza profondamente l’Unione Europea ed è il più guerrafondaio dei leader europei, il primo a voler mandare le armi in Ucraina. E noi ci stiamo facendo guidare sia da Zelensky che da Boris Johnson”.

Questo il succo dell’Orsini-pensiero che si può sintetizzare così: Zelensky sarà pure un supereroe ma il rischio qui è che finisca in una guerra mondiale. I commenti sono già impliciti nella posizione assunta in precedenza da ciascuno di noi, ma con una precauzione d’uso: credo che – storia alla mano – non sia vero che i disarmati e coloro che rinunciano a resistere, siano i miti eroi che difendono la pace. È già accaduto: quando il primo ministro tornò a Londra dopo aver firmato l’accordo di Monaco con Hitler, scese dall’aereo sventolando il documento e annunciando che la pace era salva. Quella carogna di Winston Churchill (che lo avrebbe sostituito dopo le prime batoste) commentò: “Hanno venduto l’onore in cambio della pace ed avranno sia il disonore che la guerra”. Questo è il paradosso: come diceva il Presidente Teddy Roosevelt (zio del più famoso Franklin): “Se vuoi la pace, ricordati di parlare a bassa voce impugnando un nodoso bastone”.

È la solita storia del “Si vis pacem para bellum” e quanto all’attuale guerra il problema è che Putin era disinformato dai suoi militari e spie, altrimenti non avrebbe fatto la pazzia che ha fatto. I pacifisti obiettano: ma adesso ci sono le bombe atomiche e sarebbe meglio arrendersi subito. E perché non fare un nuovo Congresso di Vienna sulle macerie di Kiev e dichiaraci serenamente sottomessi? In fondo, perché no. E poi, serenamente, come scriveva il poeta romanesco Gioachino Belli, la questione è chiusa: “na Sarve reggina, na pisciatina, e se n’annamo a letto”. Ma l’altro Orsini delle bombe e della ghigliottina? Alla prossima puntata.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il 

Da liberoquotidiano il 18 marzo 2022.

"Se Putin è un mostro, sicuramente lo siamo anche noi". Alessandro Orsini, professore di sociologia del terrorismo internazionale, ha parlato della guerra russa in Ucraina nello studio di Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7.  "La mia preoccupazione è l'Europa, perché non sa fare la guerra e non sa fare nemmeno la pace - ha spiegato l'ospite del talk -. E questo consegna l'Ucraina alla tragedia". 

Poi ha elencato le condizioni necessarie per fare la pace: "In primis bisogna smettere di demonizzare l'avversario politico, cioè di rappresentarlo come un animale come ha fatto Luigi Di Maio; la seconda cosa è normalizzarlo e l'ultima mossa è l'umanizzazione del nemico politico: non è un porco, una bestia, un verme schifoso, ma un essere umano come noi".

Parlando delle colpe dell'Occidente, invece, Orsini ha detto: "Posso fornire prove documentate: quello che Putin ha fatto all'Ucraina noi lo abbiamo fatto nello stesso identico modo all'Iraq. Nel 2003 il Consiglio di sicurezza dell'Onu si componeva di 15 membri, di cui solo 4 erano favorevoli all'invasione dell'Iraq, cioè Spagna, Bulgaria, Usa e Inghilterra. Gli altri erano contrari e Chirac, che all'epoca guidava la Francia, minacciò di porre il veto. Quindi Bush scavalcò l'Onu e fece una guerra illegale in Iraq".

Ma non è tutto. Sempre riferendosi all'Iraq, il professore ha ricordato: "Il 19 novembre 2005 un gruppo di marines americani ha sfondato le case degli abitanti di Haditha in Iraq e ha massacrato 24 civili a sangue freddo, sparando in faccia a un bambino. C'è stato un processo, il governo americano ha cercato di insabbiare tutto, i marines sono stati assolti e quelli che sono stati condannati hanno avuto pene molto leggere. Se Putin è un cane schifoso, tra schifosi possiamo intenderci e fare la pace".

Facciamo schifo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.

Ogni giovedì sera mi sintonizzo con la piazza del bravissimo Formigli per assumere la mia dose settimanale di professor Orsini. Spiace per gli altri aspiranti al titolo, ma la vera star del Pacinarcisismo è lui, grazie alla faccia sofferta e a quel tono di voce tra l’assertivo e il piagnucoloso con cui ricostruisce le cause della guerra ucraina dai tempi di Gengis Khan. Stavolta il sociologo che ha smesso di collaborare con un giornale chiedendo scusa ai lettori che si erano abbonati solo per leggere lui (non gli fa certo difetto l’umiltà) ci ha spiegato che tra l’Occidente e Putin non c’è differenza. Schifoso lo zar, schifosi noi: e tra schifosi ci si intende. A condizione di sbarazzarsi di quel Zelensky che ostacola il lieto fine con la sua insopportabile ossessione per la libertà, resa impossibile dalla geografia. Orsini sembra posseduto da una sorta di timor panico nei confronti di Putin: lo nomina il meno possibile e quasi mai per parlare delle sue malefatte, che comunque non considera peggiori delle nostre. La sconfitta dell’invasore, che rallegra i poveri di spirito, è ciò che egli più teme, perché a quel punto, dice, Putin potrebbe arrabbiarsi sul serio. Quanto alla caduta del satrapo slavo, non fa parte delle opzioni di Orsini e forse neppure delle sue speranze. La mia rimane che un giorno a Mosca un omologo del professore possa dire in un talk show che i russi fanno schifo come gli occidentali. Significherebbe che anche lì è arrivata la libertà.

Fulvio Abbate per mowmag.com il 18 marzo 2022.

In pochi istanti, il professor Alessandro Orsini ha demolito l'aforisma più celebre di Groucho Marx: “Non vorrei far parte di un club che avesse tra gli iscritti uno come me”. In passato, interi eserciti di narcisisti patologici, o più semplicemente creature orgogliose di se stesse, avevano provato invano a obliterare, se non abbattere, questa citazione monolitica, senza tuttavia mai compiere l’impresa. 

Riuscita invece proprio Alessandro Orsini, con queste semplici, telegrafiche parole consegnate alla feritoia di Twitter: “Oggi ho lasciato il Messaggero. Mi scuso con tutti coloro che avevano sottoscritto un abbonamento soltanto per leggere i miei articoli”.

Al giornale non avranno apprezzato un addio che sembra confermare ciò che di quel quotidiano pensava il barone Basso: “Il giornale dei tassisti e dei bottegai, una cui copia è onnipresente sul banco dei gelati delle pizzerie al taglio di Roma”. 

Nel frattempo, il professor Orsini ha traslocato le proprie opinioni sulle colonne del “Fatto Quotidiano”; accolto da Travaglio come figurina bisvalida del pensiero originale al tempo della guerra d’aggressione di Putin all’Ucraina.

Forte di queste affermazioni pronunciate nel talk “PiazzaPulita” di Corrado Formigli su La7: “Se Putin è un mostro, sicuramente lo siamo anche noi. La mia preoccupazione è l'Europa, perché non sa fare la guerra e non sa fare nemmeno la pace. E questo consegna l'Ucraina alla tragedia”. 

E ancora, Orsini Alessandro, ordinario di Sociologia del Terrorismo Internazionale, ha ammonito coloro che ai suoi occhi appaiono sprovvisti di strumenti di comprensione del reale bellico e ancora più diplomatico: “In primis bisogna smettere di demonizzare l'avversario politico, cioè di rappresentarlo come un animale come ha fatto Luigi Di Maio; la seconda cosa è normalizzarlo e l'ultima mossa è l'umanizzazione del nemico politico: non è un porco, una bestia, un verme schifoso, ma un essere umano come noi".

Orsini in breve ha offerto al mondo la sua lezione, corso generale e corso monografico di consapevolezza politica e forse anche deontologica. Se si trattasse di una puntualizzazione sull’irricevibilità di attribuire al mondo animale ogni nefandezza, le sue parole dovrebbero essere ritenute esemplari, condivisibili; umane, troppo umane.

In realtà, il professore sembra stigmatizzare molto altro: le colpe dell’Occidente, approssimandosi così ai sostenitori del pensiero rosso-bruno: "Posso fornire prove documentate: quello che Putin ha fatto all'Ucraina noi lo abbiamo fatto nello stesso identico modo all'Iraq. Nel 2003 il Consiglio di sicurezza dell'Onu si componeva di 15 membri, di cui solo 4 erano favorevoli all'invasione dell'Iraq, cioè Spagna, Bulgaria, Usa e Inghilterra. Gli altri erano contrari e Chirac, che all'epoca guidava la Francia, minacciò di porre il veto. Quindi Bush scavalcò l'Onu e fece una guerra illegale in Iraq". 

Osservato in filigrana, quel “noi” appare simmetrico all’adagio popolare “e allora il Pd?” che mostra in chi lo pronuncia un inarrivabile talento post-dialettico, proprio della modalità di spostare sempre e comunque l’oggetto delle questioni per portare l’oro della ragione nel proprio campo; nel nostro caso i crimini che l’esercito russo di Putin sta compiendo sulle città e i civili ucraini vengono consegnati a una seconda, se non terza, fila etica.

Facciamole però risuonare ancora le parole di Orsini, per ulteriore comprensione della sua personalità, del suo amor proprio, del suo altruismo incomparabile: “Mi scuso con tutti coloro che avevano sottoscritto un abbonamento soltanto per leggere i miei articoli”. 

Orsini, lo si sarà compreso, diversamente da Marx, apprezza molto il club d’appartenenza che lo accoglie: la sua persona. E in questo non c’è narcisista più inattaccabile di lui. A prima vista un bene, poiché è bello amarsi, ancor di più ricambiati, sempre da se stessi. E così facendo, sempre Lui, Orsini, l’Unico, cancella il pensiero catto-comunista che ravvisa nel narcisismo un crimine inemendabile.

Orsini felice che "Il Fatto quotidiano assorbe la mia firma e la mia rubrica settimanale. Domani sarò in prima pagina”. Chi ha interesse alla psicologia del linguaggio, così come all’ideale romanzo editoriale delle gratificazioni, si soffermi su quel “Domani sarò in prima pagina”, in grado di surclassare perfino le parole pronunciate da Garibaldi all’indirizzo di Bixio per il compimento della sua impresa risorgimentale: “Nino, domani a Palermo”.

Orsini, forse non lo abbiamo detto finora, insegna alla Luiss. Un dato socio-antropologico non secondario. Torna in mente in proposito ciò che un giovane iscritto a quell'ateneo, figlio di un nostro amico, disse al padre per manifestare orgoglio di appartenenza e garanzia di futuri successi schiaccianti. Proprio come l’esercito del criminale Putin in Ucraina. Disse: “Così potrò realizzare la mia leadership”.

Anche il professor ha ottenuto la propria, che innalza al centro se stesso, ora su una piattaforma presidiata da Travaglio. 

Nel merito, volendo tradurre prosaicamente le posizioni di Orsini sull’aggressione russa all’Ucraina, come nei simposi volanti che si tengono davanti a un Punto-Snai, si giunge al più rodato teorema geopolitico qualunquista: fanno tutti schifo. Dunque, se facciamo tutti schifo, nessuno fa schifo. Dalle macerie riemergerà soltanto un solo uomo, Orsini.

Piazzapulita, Nathalie Tocci bacchetta Formigli sull'Ucraina: "Se parlano incompetenti..." Polemica in studio. Il Tempo il 18 marzo 2022.

“Difficile parlare della guerra in Ucraina con persone non competenti”. Nathalie Tocci punge Corrado Formigli a “Piazzapulita”. Durante il talk politico di LA7, giovedì 17 marzo, è andato in scena un botta e risposta in punta di lingua tra il conduttore Corrado Formigli e la direttrice dell’Istituto per gli Affari internazionali. Al termine dell’intervento del fisico Carlo Rovelli, contrario all’interventismo europeo e “portatore di dubbi e non certezze” (ipse dixit), Formigli è stato bacchettato da Tocci: “Sono assolutamente d’accordo con te sull’importanza di mettere in evidenza opinioni diverse ma a patto che siano basate sulla competenza, una cosa che purtroppo spesso manca in questo Paese. Se oggi parlassimo di fisica, benissimo ascoltare il professor Rovelli, ma stiamo parlando di politica internazionale”.

Preso in contropiede Formigli ha rintuzzato: “Sentire i grandi intellettuali non va bene? Mi permetto di contestare perché sul tema della guerra c’è sempre stata una larghissima partecipazione del mondo intellettuale, specie sulla pace. E dico per fortuna perché guerra e pace toccano tutti noi. Anche se non siamo esperti del trattato di Minsk sentiamo cosa è pericoloso e cosa no, altrimenti potete parlare solo voi addetti ai lavori”.

Nathalie Tocci ha controreplicato che ogni opinione è legittima, ma non si sta parlando di emozioni bensì di fatti: “Ci sono persone competenti che fanno della geopolitica il loro mestiere, loro possono spiegare. Quando la competenza è tanto diversa, il dibattito diventa molto difficile”. Per la studiosa, non tutti sono titolati a parlare della guerra, nel caso specifico del conflitto in Ucraina.

I demoni dei talk show. L’umiltà del male e la difficoltà del dialogo dinanzi a una minaccia esistenziale. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.

Un saggio del 2011 di Franco Cassano riletto alla luce dei (mediocri) Grandi Inquisitori che affollano le serate televisive di oggi, e della loro capacità di far presa sulle nostre umanissime paure, che si tratti del Covid o della guerra mondiale.

In tante discussioni sulla pandemia prima e sulla guerra poi, in modi diversi, si è riproposto ultimamente un dilemma antico: quello tra l’esigenza di prendere una posizione netta, esigenza anzitutto morale, e la necessità di non rinchiudersi in una posizione minoritaria, necessità anzitutto politica.

La sollevazione populista cominciata con la Brexit e Donald Trump nel 2016, e ancora prima in Italia, ha dato nuova centralità e nuovi significati alla questione dell’arroganza delle élite, in contrapposizione alla presunta umiltà dei demagoghi. Alla retorica sui limiti di un approccio illuminista, e sull’antipatia degli esperti, in contrapposizione all’empatia dei ciarlatani.

Proprio su questi temi, più di dieci anni fa, quindi anche con una certa dose di preveggenza, Franco Cassano scrisse un saggio molto bello che mi è tornato in mente in questi giorni: «L’umiltà del male» (Laterza). Dopo faticose ricerche l’ho recuperato da un anfratto della libreria, miracolosamente sopravvissuto a vari traslochi, e la primissima cosa che mi ha colpito è stata l’incredibile attualità della quarta di copertina, persino nel lessico (era l’inizio del 2011, al governo c’era ancora Silvio Berlusconi): «Senza un’élite competente e coraggiosa la politica muore. Ma questa spinta morale deve sapersi confrontare con la maggioranza degli uomini, misurarsi con la loro imperfezione, deve diventare politica».

Tra l’altro, ironia della storia, il saggio partiva proprio da Dostoevskij, in particolare da quel racconto incastonato dentro I fratelli Karamazov che è la leggenda del Grande Inquisitore.

«Chi ha gli occhi fissi solo sul bene – scriveva Cassano – spesso ha deciso di non guardare altrove: l’urgenza di giudicare, di misurare l’essere sul dover essere, lo porta a guardare con impazienza chi rimane indietro, e tale mancanza di curiosità lo porta alla sconfitta. Il male approfitta della distrazione o della boria del bene per mettere le tende e costruire alleanze».

Nel lessico della sinistra di una volta, la si sarebbe identificata forse con la questione dell’egemonia – pardon, con il «tema» dell’egemonia – che occorre sempre porsi, se non si vuole essere minoritari. Se non si vuole cadere cioè nell’infantilismo politico, vale a dire nell’estremismo fine a se stesso (con implicita e bolsa citazione di Lenin). Al di là di un linguaggio che con il tempo si è inevitabilmente usurato, nella cultura politica che con questi strumenti ha cercato a lungo di resistere alla deriva estremista e populista c’era molto di buono, sebbene evidentemente non abbastanza, visto come sono finiti tanti dei suoi più famosi eredi (spoiler: al seguito dei populisti). Anche per questo è tanto più interessante rileggere oggi Cassano.

L’Inquisitore della leggenda rimprovera a Cristo di avere avuto un’immagine troppo alta e nobile dell’uomo, tale da poter essere messa in pratica solo da «dodicimila santi per ogni generazione» («Consegnando la fede a un atto di libertà, Cristo ha proposto agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze»). L’Inquisitore trionfa perché ha deciso invece di volgersi verso tutti gli altri, quelli che non sono all’altezza dei migliori e delle loro virtù. E lavora non solo contro il messaggio di Cristo, ma contro tutti coloro che provino a spronarli verso mete elevate, e «ha bisogno di credere che esse portino in realtà soltanto verso un abisso».

Dopo aver visto certi dibattiti televisivi, e certi personaggi assurti a recente e immeritata fama, rileggere Cassano fa davvero una strana impressione. Giusto in nota all’ultima frase citata, tra l’altro, aggiunge: «Gli uomini non possono migliorare, dice l’Inquisitore ripercorrendo il giudizio dostoevskiano contenuto nei Demoni, e chi ci ha provato è finito nel nulla, condannandoli a una lotta fratricida e allo sterminio reciproco (“ribelli dal fiato corto, incapaci di sostenere il peso della loro stessa ribellione”). Dal buco della sua autonomia l’umanità è riuscita a cavare solo il ragno del nulla».

Non sembra anche a voi di risentire la voce stridula di quei professorini che invitano gli ucraini ad arrendersi, che giudicano la loro resistenza con sufficienza e disprezzo, proprio come «ribelli dal fiato corto», che rischiano solo di condannare tutti allo «sterminio reciproco»? Un rovesciamento della realtà che può indignare o persino far sorridere per la sua irrazionalità, ma che fa presa sulle nostre debolezze, la nostra umanissima e comprensibilissima paura di un conflitto mondiale, in modo in fondo non diverso da come tanti no vax facevano leva sulla nostra paura del virus, e sulla nostra ignoranza, per alimentare dubbi e teorie della cospirazione contro i vaccini e le misure di precauzione.

Qui però si pone un problema nuovo, di cui sarebbe bello poter discutere con Cassano, e che fa sentire tanto più la sua mancanza. Quando infatti la legittimazione e la diffusione di teorie antiscientifiche comporta la morte di centinaia di innocenti, quanto e fino a che punto è giusto scegliere la strada del dialogo? Quando la posizione altrui non è solo infarcita di autentiche falsità, ma è un pezzo della campagna con cui si tenta di rafforzare la presa dell’aggressore sull’aggredito, con cui si tenta di impedire di soccorrere e aiutare chi in quelle stesse ore viene ucciso, è possibile, è utile, è giusto – tanto dal punto di vista morale quanto dal punto di vista politico – addentrarsi «con umiltà» in quella «zona grigia», per combattere più efficacemente il potere seduttivo dei nuovi inquisitori, la loro capacità di sfruttare le nostre debolezze e accattivarsi la nostra simpatia, insomma la diabolica «umiltà» del male?

O arriva invece un momento in cui, volenti o nolenti, ci sono solo due parti disponibili in commedia, quella di Neville Chamberlain e quella di Winston Churchill, quella di chi si illuse che si potesse trattare con Hitler pur di tenerlo lontano da casa, e quella di chi aveva capito come sarebbe andata a finire, e soprattutto che bisognava gridarlo subito, il più forte possibile, senza nessuna umiltà?